Tecniche immaginative

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collana Psicoterapia & Counseling diretta da Edoardo Giusti PSICOTERAPIA�

COUNSELING�

61 Centro Europeo di Ricerche per lo Studio delle Psicoterapie Integrate e Comparate



Edoardo Giusti

TECNICHE IMMAGINATIVE Il teatro interiore nelle relazioni d’aiuto

OVERA EDITORE


Š 2007 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Vincenzo Brunacci, 55/55A - 00146 ROMA www.soveraedizioni.com e-mail: info@soveraedizioni.it I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.


Sommario

Capitolo 1: L’immaginazione e la mente umana 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.4a.

Immagini e immaginazione Ricerca e teorie su immagine e immaginazione Fondamenti neurofisiologici Aspetti psicoimmunologici: il placebo Immagini, psiconeuroimmunologia e tumori

7 7 15 18 30 49

Capitolo 2: Interventi mediante tecniche immaginative 65 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 2.5a. 2.6.

Tecniche immaginative in terapia cognitiva Uso delle immagini in psicoterapia dinamica Imagoterapia Terapie immaginative autogene Ipnoterapia Ipnosi e neoplasie Tecniche immaginative e meditazione con bambini ed adolescenti 2.7. Counseling con intervento di procedura immaginativa

68 81 92 95 97 98 108 118

Capitolo 3: Metodologie immaginative e terapie integrate 121 3.1. Analisi transazionale ed immagini primarie 3.2. Gestalt therapy

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3.3. 3.4. 3.5. 3.5a. 3.6. 3.7.

Sand play Psicosintesi Art therapy Evocazione immaginativa delle fotografie e dei film Narrazione e metafore nei trattamenti Approccio strategico e immaginazione

132 134 136 139 149 154

Capitolo 4: Psicopatologia dell’immaginazione e immagini della cura

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4.1. Immaginazione e patologia 4.2. Immaginazione e progettualità creativa 4.3. Immaginazione, società e società dell’immagine

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Appendice 1: Visualizzazione guidata: indicazioni generali 173 Appendice 2: Visualizzazione guidata, esercizi

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Appendice 3: La visualizzazione guidata e la meditazione 207 per bambini ed adolescenti, esercizi Appendice 4: Counseling e psicoterapia con intervento della procedura immaginativa

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Bibliografia

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Capitolo 1

L’immaginazione e la mente umana

1.1. Immagini e immaginazione Immagini ed immaginazione: il giro d’orizzonte che questi termini abbracciano è vastissimo. La parola immagine e quelle con essa imparentate vengono infatti usate comunemente per indicare differenti concetti. L’interesse dell’uomo per le immagini è antichissimo, basti pensare alla produzione dei graffiti, all’interesse che le immagini hanno suscitato e all’importanza che hanno avuto nelle culture del passato come quella egizia o quella greca (l’interesse dell’epica per i sogni ad esempio, o i miti). In greco i termini eikasia e phantasia, “immaginazione” e “immagine” si riferiscono entrambi alla facoltà dell’immaginare, senza che ci sia una differenza netta fra l’attività immaginativa e quella fantastica. Nel tempo, il significato dei due termini, coincidenti per molti versi, si è differenziato in quanto all’immaginazione si è assegnato il ruolo di generare, ubbidendo ad interessi pratici, riproduzioni mentali di oggetti della realtà all’interno di sempre nuove associazioni o quello della creazione di immagini, mentre alla fantasia quello dell’elaborazione estetica delle rappresentazioni o immagini mentali. In termini kantiani, l’immaginazione è “pura o produttiva” quando elabora esteticamente, mentre è “riproduttiva” quando presuppone l’esperienza elaborata empirica7


mente. L’immaginazione o fantasia produce non solo immagini mentali visive, ma anche immagini tattili, acustiche, olfattive e motorie. Nell’atto creativo queste immagini mentali possono esprimersi in opere: dipinti, sculture, poesie, musiche, danze, ecc. Dalle opere di Aristotele (il ‘De memoria et reminiscentia’ e il ‘De anima’) possiamo desumere che già questo grande pensatore avesse osservato che non si può pensare senza immagini e che egli assegnasse grande importanza al rapporto corpo-mente, tutti e due implicati nell’immaginazione. Aristotele ha infatti evidenziato come dalla periferia del corpo tutto ciò che è recepito dai sensi giunge al centro del cervello, sulla ‘piccola ghiandola’, dove si imprime. Anche Platone si è interessato del tema dell’immaginazione (nella Repubblica, il Teeteto, il Timeo e Filebo) e nel Timeo anch’egli, come Aristotele, pone l’accento sul legame mentecorpo chiamando in causa il fegato proprio a riguardo dell’immaginazione. Il fegato rappresenterebbe l’organo di cui si serve ‘l’anima appetitiva’ per trasformare i pensieri in immagini. Quando su questo organo si riflettono i pensieri, se essi sono forti e disturbanti, il fegato riceve delle figure che si trasformano in immagini che lo rendono grinzoso e bilioso. Se, invece, i pensieri che su di esso si riflettono sono riposanti, le immagini che la superficie dell’organo registra sono serene e lo rendono roseo e disteso. Compiendo ora un salto in avanti di molti secoli, ed arrivando fino a Sartre, vediamo che questo altro grande pensatore, interessandosi all’immagine, ha sostenuto che l’immagine di un oggetto reale non può essere l’oggetto in sé, l’immagine è una cosa minore rispetto alla cosa reale, ha una esistenza propria pur essendo capace di stabilire rapporti con la cosa di cui è immagine. Per Sartre l’immagine è coscienza di qualche cosa. L’antropologo e storico Gilbert Durand, negli anni Sessanta, a qualche decennio di distanza da Sartre, ha di contro so8


stenuto che molti filosofi, come Sartre, in verità, non hanno saputo cogliere nell’immagine il suo essere portatrice di un senso che non va ricercato fuori della significazione immaginaria. L’immagine è simbolo ed è il suo senso figurato che va colto. Nel simbolismo costitutivo dell’immagine vi è omogeneità fra significante e significato. L’immaginazione genera immagini perché è potenza dinamica. Altri ancora, come ad esempio lo storico delle religioni Mircea Eliade (1952) si sono fatti sostenitori della saggezza popolare che riconosce all’immagine il potere di contribuire alla salute psichica in quanto garante di ricchezza interiore. L’immagine, secondo Eliade, imita “Modelli Esemplari” che sono continuamente riattualizzati e ripetuti perché entrati a far parte dell’Immaginario Collettivo. Molte immagini sono “simboli Iero-cosmici”, cioè sacri, come l’Albero, la Scala, la Ruota, il Mandala, il Labirinto. Anche da questi pochi cenni alla ‘filosofia dell’immagine’, possiamo dedurre l’importanza che l’immagine e l’immaginazione hanno rivestito nella storia dell’uomo; molte scoperte scientifiche sono il frutto di una vivacissima immaginazione e l’immagine mentale nei secoli, è sempre stata un mezzo di comunicazione che, quando si è trasformata in oggetto reale, come nell’opera d’arte, ha favorito l’incontro e il dialogo tra gli uomini. I miti, le leggende e le favole, sono combinazioni di immagini deputate a trasmettere ed a conservare messaggi; in tutte le discipline umane, dalla medicina alla fisica, dalla matematica alla filosofia, dalla psicologia all’arte, l’attività immaginativa ha rivestito e riveste tuttora un ruolo di vitale importanza; così è anche nella vita e nella storia personale di ogni individuo: il bambino è infatti capace di immaginare e fantasticare già in tenera età e si avvale dell’immaginazione nei suoi giochi trasformando il mondo reale per ridurlo ai suoi bisogni. Ecco quindi che l’immagine e l’immaginazione, continuano ad essere oggetto di studio, ricerca e curiosità, fino ai giorni no9


stri. Oggi più che mai, infatti, l’immagine è oggetto di studi anche dei media, dei pubblicitari e suscitano grande interesse anche le nuove immagini studiate dalla cibernetica, le immagini virtuali: “Queste nuove immagini vengono chiamate anche immagini virtuali, nella misura in cui presentano mondi simulati, immaginari, illusori. Questa espressione, immagine virtuale, non è nuova e in ottica indica un’immagine prodotta dal prolungarsi dei raggi luminosi: l’immagine nella sorgente o nello specchio, per esempio. Immagini già fondatrici di un immaginario ricco e produttivo. Ma solo Narciso, Alice o Orfeo, finora erano passati al di là dello specchio’ (Joly, 1999). Restando ancorati a una dimensione reale e non virtuale, cerchiamo di considerare ‘il percorso’ dell’immagine e dell’immaginazione all’interno della storia, con particolare attenzione alla storia della psicologia. Abbiamo già accennato a come i filosofi hanno discusso e dibattuto in tutti i secoli di tali argomentazioni; nell’insieme, possiamo dire che hanno identificato tre filoni principali: l’immaginativo, l’immaginario e l’immagine mentale. In qualche modo anche la psicologia si è incanalata in questi tre filoni: ha studiato i miti e le credenze dell’individuo e della collettività (l’immaginario), la creatività, i sogni e la comunicazione simbolica, le immagini patologiche (l’immaginativo), la capacità della mente di produrre ed elaborare immagini e le caratteristiche stesse di queste immagini (l’immagine). L’argomento, già di per sé ‘proteiforme’, vanta una certa problematicità in tutti i settori (filosofia, linguistica, matematica, neuroscienze ecc.) e in tutti i secoli. Nell’illuminismo, l’immaginazione è stata relegata nel campo artistico, è stata poi rivalutata dal pensiero romantico dell’Ottocento e poi nuovamente svalutata dalla corrente di pensiero positivista. Nel primo ventennio del Novecento, il dibattito sull’immaginazione ha ripreso vigore; è proprio in questi anni che nasce la psicologia come scienza sapere e cresce l’interesse verso l’immaginazione come metodo 10


terapeutico. Già nel 1883 Galton inizia a parlare di Mental Imagery e si dedica a studiare e descrivere come alcuni individui svolgano i calcoli mentali visualizzando i numeri, attribuendo loro forme e colori, anziché trattarli semplicemente alla stregua di entità simboliche. Anche William James, nei suoi Principi di psicologia (1890) s’interessa all’immaginazione, connettendola all’attenzione e alla coscienza; Janet, più o meno negli stessi anni, parla di sostituzioni di immagini: “un’idea, un ricordo, possono essere considerati come un sistema di immagini che si possono distruggere separandone gli elementi e sostituendo alle precedenti questa o quell’idea parziale”; Binet (metodo dell’introspezione provocata) studia sperimentalmente il rapporto tra ideazione ed immaginazione, individuando due modi di immaginare, quello spontaneo e quello volontario. Ad aprire un ulteriore varco all’uso delle immagini e all’interesse sull’immaginazione è, tra il 1931 ed il 1945, Robert Desoille, che con la pubblicazione in questi anni di vari saggi diffonde l’utilizzo della tecnica del sogno da svegli e presenta una forma di terapia orientata al metodo delle induzioni delle immagini; Happidich C. (in Di Nuovo,1999), suggerisce un metodo di meditazione ottenuto attraverso la distensione muscolare in cui si può creare una “zona di ristoro” che sta tra la parte conscia ed inconscia e, a tal fine, suggerisce ai pazienti di muoversi in uno spazio immaginario (un prato, una grotta, ecc.); Pierce Clark pubblica nel 1925 un lavoro sul metodo delle elaborazioni fantasmatiche. Negli anni successivi si verifica una sorta di stallo nella ricerca sull’immaginazione e, più che il versante scientifico, si sviluppa quello occultista. Secondo alcuni è stata proprio la paura di non poter condurre un discorso scientifico ad impedire a Freud di approfondire l’argomento dell’immaginazione; Freud ha infatti scritto numerosi saggi sull’arte e ha riconosciuto l’importanza delle fantasie legate all’infanzia rendendo l’attività immaginativa onirica lo strumento primario d’indagine della psicoanali11


si. Tuttavia pur ammettendo che la fantasia inconscia è alla base sia del simbolismo, che si esprime nel sintomo, sia in quello che esprime l’opera d’arte (come fa notare la Segal), al momento di approfondire il ruolo dell’immaginario nella tecnica psicoanalitica, sembrerebbe, secondo alcuni, essersi accontentato delle certezze della verità scientifica, piuttosto che dare spazio all’incertezza ed ai possibili errori in cui sarebbe potuto incorrere. Alcuni attribuiscono a ciò gli alterchi tra Freud e Jung. Quest’ultimo ha elaborato la tecnica dell’immaginazione attiva ed ha usato tale termine nel 1935 per descrivere un processo di sogno ad occhi aperti. Tale metodo prevede che all’inizio ci si concentri su uno specifico punto, umore, immagine o evento, per poi lasciarsi andare ad una concatenazione di fantasie associate che assumono gradualmente un carattere drammatico; le immagini acquistano poi vita propria e si sviluppano secondo la loro propria logica. L’immaginazione attiva si contrappone al fantasticare che è in qualche misura frutto della propria inventiva e rimane alla superficie dell’esperienza personale e quotidiana. L’immaginazione attiva è l’opposto dell’invenzione cosciente, si crea cioè una situazione in cui contenuti inconsci emergono allo stato di veglia. Jung sostiene che l’immagine prodotta dalla fantasia ha in sé tutto il necessario per il suo sviluppo successivo e la sua trasformazione in vita psichica; egli ritiene particolarmente utile tale tecnica negli ultimi stadi dell’analisi, quando l’oggettivazione delle immagini può sostituire i sogni. I sogni sono vissuti passivamente, il processo d’immaginazione richiede invece la partecipazione attiva e creativa dell’Io e, scrive a tal proposito Jung: “l’immagine è un’espressione concentrata della situazione psichica totale e non soltanto o prevalentemente di contenuti inconsci qualsiasi […] essa è sia espressione di contenuti inconsci, ma non di tutti i contenuti in genere, bensì solo di quelli che sono costellati in quel momento…”. L’interpretazione del significato dell’immagine non può quindi partire né 12


dalla sola coscienza né dal solo inconscio, ma unicamente dal loro mutuo rapporto (Piana, 1988). Sempre guardando alla storia della psicologia, si osserva che ad un certo punto si creano due fronti: il fronte degli psicologi sperimentali che considerano i contenuti della coscienza come i dati fondamentali della psicologia, sui quali lo psicologo doveva lavorare per costruire la teoria della mente, e il fronte dei seguaci prima di Watson e poi di Skinner i quali ritenevano inutile sondare e tentare di studiare la vita interiore e sostenevano la necessità di limitarsi alle leggi del comportamento. Per quanto queste controversie abbiano in qualche modo ostacolato il nascere di una vera e propria psicologia dell’immaginazione, non hanno impedito che questa divenisse strumento di terapia e continuasse ad essere oggetto di studio. Nel corso degli anni sono infatti stati elaborati test che fanno uso d’immagini (vedi il Roscharch o il CAT), si è cercato di studiare il collegamento tra creatività e patologia, si è approfondito lo studio delle allucinazioni, e l’uso d’immagini e dell’immaginazione è stato il fulcro di terapie di stampo cognitive-comportamentali così come di terapie sessuali. Ed ancora, è stata compiuta una interessante rassegna (Sheikh, Kunzendorf e Sheik, 1989, in Di Nuovo, 1999) sui diversi interventi terapeutici nella tradizione orientale e nella medicina occidentale; Plutchik (1984, ibid.) e Suler (1985, ibid.) hanno evidenziato che il fondamento teorico dell’utilizzo dell’immaginazione nella modificazione del disadattamento affettivo è il rapporto a due vie esistente tra immagine ed emozione: quest’ultima può infatti tradursi in immagine e l’immagine a sua volta può servire alla regolazione ed al controllo dell’emotività. Nucho (1995, ibid.) ha parlato dell’immaginazione creativa spontanea evidenziando che l’attivazione di un doppio canale d’intervento (immaginativo oltre che verbale) può favorire il procedere del trattamento terapeutico verso una creatività fon13


te di benessere. Gli sviluppi più recenti della ricerca portano soprattutto in direzione del versante neuropsicologico e tentano di approfondire le caratteristiche del pensiero divergente e creativo, anche a partire dagli interessanti studi compiuti su individui autistici. Anche se il campo delle immagini e dell’immaginazione resta vastissimo e le tematiche continuano ad essere ampie e dibattute, allo stato dei fatti non si può ignorare che le immagini portano con sé un senso di carico affettivo, facilitano i cambiamenti a livello fisiologico e possono aiutare ad orientare il soggetto verso il futuro, quindi verso la progettualità, e pertanto possono ricoprire un ruolo fondamentale nel trattamento terapeutico. Al termine di questa veloce rassegna storica sull’immaginazione, ci sembra degno di nota un dato, per così dire, evolutivo sull’immaginazione: gli studi sull’evoluzione della specie sembrano indicare che l’homo habilis aveva capacità immaginative molto limitate; con la comparsa dell’homo sapiens le capacità immaginative si sono evolute, ma ci sono voluti circa cinquantamila anni dalla sua comparsa perché tali capacità fossero sviluppate quanto le attuali; secondo alcuni (Foley, 1995 in Gregory, 2004) gli anni tra la comparsa dell’homo sapiens ed il completo sviluppo delle capacità d’immaginazione sarebbero quelli occorsi perché l’uomo iniziasse a ragionare in termini di “come se”. Le neuroscienze hanno ormai messo in evidenza l’importanza delle operazioni mentali e dei contenuti della mente, e tra questi l’immaginazione. Evolutivamente saremmo quindi predisposti allo sviluppo dell’immaginazione e al “come se”. Ecco allora che, soprattutto in una ottica di approccio pluralistico integrato, diviene importante studiare in che modo le varie forme di terapia utilizzano l’immaginazione e quali prospettive possono offrire le tecniche immaginative e l’immaginazione stessa.

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1.2. Ricerca e teorie su immagine e immaginazione Esistono varie posizioni teoriche sulle immagini. Alcuni sostengono che esse operano nella vita mentale in modo tale da costruire veri e propri oggetti della mente; in particolare, le immagini spaziali sono caratterizzate dalle stesse proprietà che si ritiene esse rappresentino nella mente: esse darebbero luogo ad una sorta di fotografia della realtà, tradotta attraverso appropriati codici neurobiologici. Per altri la mente agirebbe come un computer che analizza l’informazione sulla base di annotazioni, regole e procedure formali, tipiche della logica, ricorrendo a rappresentazioni simbolico-proposizionali. Una terza posizione, né meccanicistica, né logico-formale, sostiene che l’immaginazione appartiene ad un sistema simbolico privato, fortemente individuale, utilizzato come strumento utile per scopi diversi, dall’orientarsi nello spazio alla rievocazione di ricordi, alla soluzione dei problemi. Ogni persona adotterebbe una strategia individuale e ricorrerebbe all’immaginazione come ad una delle diverse attività utili alla vita mentale, servendosi anche d’altre forme di simbolizzazione. Più in generale possiamo quindi identificare due posizioni, che identificano anche gli estremi di una accesa diatriba sul ruolo dell’immaginazione: la posizione strutturalista e quella funzionalista. I sostenitori delle teorie strutturaliste indagano le somiglianze e le differenze tra le rappresentazioni mentali derivanti dall’esperienza percettiva e quelle legate all’attività immaginativa. Le teorie funzionali prendono in esame il ruolo svolto dalla formazione e dalla manipolazione di immagini in compiti in cui è richiesto di riconoscere oggetti a partire da descrizioni verbali; si chiede di valutare l’identità di oggetti presentati da punti di vista differenti. Un esempio, in tal senso, sono le ricerche di Shepard e collaboratori sulle rotazioni mentali (She15


pard e Metzler, 1971; Cooper e Shepard, 1973a e b; Cooper e Podgorny, 1976; Shepard e Cooper, 1982, in Vecchio, 1992). Essi hanno dimostrato che il tempo necessario per valutare l’equivalenza di due configurazioni visive presentate in orientamenti diversi è proporzionale alla differenza angolare tra le due orientazioni. È come se i soggetti ruotassero mentalmente e gradualmente una figura fino a farla combaciare con l’altra per poi esprimere il loro giudizio. L’insieme di questi studi porta a considerare livelli d’equivalenza tra percezione ed immaginazione (Finke, 1980). Posizione non concorde a quest’ultimo punto di vista è quella di Piaget che considera invece l’immagine mentale come derivata dall’imitazione differita, la prima forma in cui si presenta la funzione simbolica. L’imitazione differita è definibile come imitazione interiorizzata ed entra in gioco solo a partire dal secondo anno di vita. Per Piaget l’immagine non è un costituente del pensiero, un suo elemento, ma un suo supporto simbolico, uno strumento utile, pur non essendo indispensabile, per l’esecuzione di certe operazioni. Pylyshyn (1973) contesta aspramente il riferimento alle immagini nella spiegazione dei processi cognitivi; innanzitutto critica la definizione basata sul concetto di metafora fotografica, in quanto ritiene che l’immagine sia un epifenomeno, il risultato di attività e processi; l’immagine è cioè un punto d’arrivo dell’attività cognitiva e non il punto di partenza, ed è perciò priva di valore funzionale. Sempre Pylyshyn nota che in molti casi di esperimenti i risultati ottenuti possono essere stati condizionati dalle richieste e aspettative dei ricercatori e dei soggetti partecipanti e dalla conoscenza tacita di questi ultimi che tendono a comportarsi come se utilizzassero le immagini mentali ma, in realtà, agiscono guidati dalle conoscenze che hanno sulle proprietà degli oggetti reali. Anche altri autori sostengono tesi proposizionaliste, come quelle di Pylyshyn, e la discussione teorica si sta orientando verso un raffinamento del 16


concetto d’immagine mentale. L’idea dell’immagine mentale come ‘figura della mente’ viene abbandonata e considerata invece come un modo particolare d’utilizzazione dell’informazione disponibile al sistema, dotato di proprie specifiche caratteristiche. La teoria di Kosslyn è, attualmente, sempre più condivisa e sta crescendo l’interesse per i legami con la memoria e le differenze individuali e l’attenzione. Si sta approfondendo l’idea di immagine come processo. Un approccio recente, sostenuto anche da Kosslyn, invita a considerare le abilità immaginative come il risultato della cooperazione di diversi processi. In generale, quindi, la ricerca si sta orientando verso una indagine più analitica, in cui le differenze individuali sono dovute alla diversa efficacia con cui vengono utilizzati i processi di base (Kosslyn et al., 1984). All’interno di tale approccio si collocano anche le ricerche che mirano ad identificare le condizioni per il ricorso spontaneo all’immaginazione nei compiti cognitivi. Interessante il modello di Katz (1983, 1987), secondo il quale le diverse capacità degli individui sono da ricondurre all’interazione di tre fonti di conoscenza, cui si riferisce con le espressioni ‘how to knowledge’, ‘when to knowledge’ e ‘self knowledge’. Il primo tipo di fonte di conoscenza riguarda le abilità immaginative di base a disposizione dei soggetti e le capacità con cui sanno applicarle ai problemi in cui è rilevante il ricorso alle immagini mentali; il secondo tipo si riferisce alle credenze possedute dai soggetti relative alle occasioni in cui è utile ricorrere a strategie immaginative; il terzo tipo fa riferimento ad altri fattori responsabili delle abilità immaginative nonché alle caratteristiche di personalità dei soggetti stessi. L’aspetto centrale di tale modello è l’importanza attribuita al controllo cosciente dell’immaginazione da parte del soggetto; l’imagery è considerata una strategia di rielaborazione dell’informazione la cui attivazione dipende esclusivamente dalle caratteristiche dello stimolo (data driver) ma anche dalle concezioni del soggetto (concept dri17


ver). “In questo contesto trovano giustificazione le ricerche sulla meta-immaginazione (Denis e Carfantan, 1985; De Beni e Giusberti, 1990; Cornoldi et al., 1991), il cui scopo è quello di illustrare le concezioni ingenue che i soggetti hanno sui processi immaginativi, sulla loro utilità, sulle situazioni in cui è utile fare ad essi ricorso. Lo sviluppo di tali studi si riallaccia, d’altro canto, ad un’esigenza diffusa nella psicologia contemporanea: quella di indagare i processi cognitivi in situazioni di vita reale, secondo quello che è stato definito l’approccio ecologico dello studio della cognizione (cfr. Yuille, 1986, per il campo specifico degli studi dell’immagine mentale)” (in Vecchio, 1992).

1.3. Fondamenti neurofisiologici Le prime ricerche in questo campo miravano ad individuare correlati fisiologici che potessero essere considerati sintomi del ricorso all’immagine da parte del soggetto, ad esempio la dilatazione pupillare, i movimenti oculari e la loro direzione (Vecchio, 1992). Un altro settore di studi è invece rappresentato dalle ricerche sulle strutture cerebrali coinvolte nei processi di immaginazione (Atkinson, 1991). L’inizio delle ricerche si può far risalire agli anni ’70, anni in cui lo studioso canadese Allan Paivio ha pubblicato “Imagery and Verbal Processes” (1971). Paivio ha studiato l’immaginazione a partire da memoria e apprendimento verbale ed è giunto ad elaborare una teoria nota come “ipotesi del doppio codice” nella quale sostiene che le immagini e le strutture verbali costituiscono due modalità di codifica, due formati in cui può essere rappresentata l’informazione, ciascuno con caratteristiche e processi di elaborazione propri. Nel 1986 Paivio giunge perciò a parlare di “imagens” e “logogens” riferendosi alle unità di rappresentazione di base rispettivamente per l’informa18


zione verbale e non verbale. Il sistema verbale è strutturato, a livello funzionale, in reti di associazione; i suoi processi di elaborazione sono di tipo sequenziale analitico. Viceversa, l’elaborazione nel sistema non verbale è essenzialmente parallela, operando su strutture che mantengono analogia con quanto è rappresentato. Queste considerazioni hanno costituito la base teorica per molte altre ricerche e si è giunti in generale a distinguere che esiste innanzitutto tra memoria e ‘immaginazione eidetica’, particolarmente evidente nei bambini. Per prendere in considerazione meglio le potenzialità terapeutiche dell’immaginazione è utile dare sinteticamente riferimento ad alcuni parametri fisiologici correlati alle immagini mentali, sia sotto l’aspetto neurovegetativo che neurofisiologico. Gli studi sullo split brain hanno cercato di scoprire se esiste una specializzazione degli emisferi (Liotti, Grossi, 1988), se esista cioè una sede di processi immaginativi. Sergeant considera il coinvolgimento di entrambi gli emisferi (1990). Farah (1984, inVecchio,1992) sostiene la distribuzione dei processi immaginativi in varie aree del cervello; la contraddittorietà dei risultati della ricerca in questo caso non sempre permette di concludere che esiste una predominanza dell’emisfero destro. Le modificazioni della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della risposta psicogalvanica e della frequenza respiratoria sono state studiate da Jordan e Lenington (1979, in Di Nuovo,1999), che hanno messo a confronto le risposte neurovegetative di prove che inducevano ansia e prove immaginative di figure parentali a valenza positiva e negativa; sia l’ansia che le immagini mentali producevano modificazioni qualitative e quantitative del sistema vegetativo; le modificazioni fisiologiche dei suddetti parametri erano tra l’altro proporzionali alla vividezza dell’immagine. Jones e Johnson (1980, ibid.) hanno preso in considerazione solo l’attività cardiaca, valutandone la modificazione in rapporto alla produzione d’immagini ad attività motoria bassa (sono su una amaca) o alta (salto 19


per la felicità); si è constata una accelerazione cardiaca in corrispondenza delle immagini di elevata attività motoria. Lang (1984, ibid.) ha sostenuto che le istruzioni che contengono gli elementi della risposta immaginativa favoriscono la comparsa di risposte fisiologiche più intense durante la costruzione dell’immagine mentale stessa. Interessanti sono i correlati strettamente neurofisiologici tra immagini mentali ed attività elettroencefalografica: in particolare, l’ampiezza del ritmo alfa è stata da sempre considerata parametro di riferimento dipendente dall’attività mentale. Davidson e Schwartz (1977, ibid.) hanno osservato una attenuazione dell’attività alfa-occipitale nel corso della produzione di immagini mentali visive e di attenuazione dello stesso ritmo nelle regioni motorie durante la produzione di immagini mentali cenestesiche, dati questi confermati dagli studi di Chapman et al. (1984, ibid.,) e Kaufman et al. (1991, ibid.) condotti con la magnetoelettroencefalografia. Garcia de Leon e Peraita (1988, ibid.) hanno evidenziato che la produzione di immagini mentali di una parola produceva il blocco delle attività alfa nella regione temporale dell’emisfero sinistro; la produzione dell’immagine visiva dell’oggetto corrispondente alla stessa parola produceva il blocco alfa nell’emisfero destro; la produzione di immagini mentali visive dello stesso oggetto in movimento produceva il blocco alfa nelle aree temporo occipitali dell’emisfero sinistro. Gli studi condotti con i potenziali evocati e la flussimetria Doppler non hanno permesso di chiarire con certezza l’impegno interemisferico; hanno piuttosto messo in evidenza il ruolo di strutture cerebrali più profonde ed il coinvolgimento della memoria nella genesi delle immagini mentali. I correlati anatomico-funzionali tra immagini mentali e strutture cerebrali preposte al loro recupero sono stati identificati da alcuni autori in una serie di modificazioni che avvengono nell’attività dielettrica dei neuroni e delle sinapsi, dette LTP (long term potentation), che si mantengono in ma20


niera stabile e permettono la formazione e la conservazione dei ricordi; il potenziamento a lungo termine è un evento biochimico che esprime la risposta ad una stimolazione con una determinata frequenza elettrica di una sinapsi neuronale, la quale comporta la comparsa di una risposta che tende ad aumentare e a restare a lungo accresciuta (Teyler e Discenna, 1984, e Mathies, 1989, ibid.). Le esperienze vengono raccolte dalle varie reti di neuroni, ed in determinate zone del cervello si formano dei ‘segnalibri biochimici’ (LTP), che successivamente il cervello utilizza per creare, ricreare e ricordare l’esperienza originale. I ricordi possono essere quindi riportati alla mente riunendo dati provenienti da diverse parti del cervello, grazie a stimoli esterni capaci di favorire la rievocazione. La memoria coinvolta in questo processo è quella episodica casuale, in cui la ricerca mnemonica può essere riconducibile alla prassi metodologica delle libere associazioni, termine freudiano con cui viene indicata la possibilità di esaminare il pensiero eludendo la sequenza temporale degli eventi e la censura. In quest’ottica, la memoria è quindi influenzabile da fattori esterni di distrazione, da stati d’ansia, da stati emotivi in genere; ne consegue che alcune memorie sono evocabili in determinati stati mentali o emotivi e non in altri, così un individuo potrà ricordare meglio un evento quanto più si troverà nelle condizioni di umore in cui si trovava al momento in cui ha sperimentato e memorizzato quella determinata esperienza (Oliverio, 1996). Ricerche condotte con la PET (tomografia ad emissioni di positroni) hanno dimostrato che le regioni encefaliche d’attivazione della memoria episodica casuale sono prevalentemente associative, sono quindi connesse tra loro, ricevono stimoli dalle regioni sensomotorie primarie, dai gangli della base e dal talamo; comprendono le regioni frontali, quelle parietali, il precuneo, il cingolo retrospleniale, il giro angolare sopramarginale destro; complessivamente l’attivazione è maggiore nel21


l’emisfero destro (Andreasen et al., 1995, ibid.). L’importanza della memoria episodica in generale, e di quella episodica casuale in particolare, va ricercata nel fatto che le aree coinvolte nella loro attivazione, e le strutture di queste stesse aree, fanno parte di un unico circuito che provvede ad integrare l’identità personale e le esperienze personali passate, realizzando così una interazione ridondante che modula la consapevolezza di sé, permettendoci di passare dalla coscienza al preconscio e inconscio (Arena, 1997). Ne è stata data conferma dagli studi di Fuster (1989) e Goldman (1987, 1988), che hanno osservato che le lesioni delle regioni frontali provocano la comparsa di comportamenti non censurati ed antisociali, derivandone perciò un ruolo nella coscienza e nel sistema di valori, istanze etico-morali o superegoiche che verrebbero quindi meno quando queste aree non controllano più le sottostanti (ipotalamo, amigdala ed ippocampo) che medierebbero, di contro, le istanze più profonde, più istintuali, ed il pensiero primario (meno accessibile alla coscienza). Tutti gli studi e le ricerche sin qui citati, ci permettono di evidenziare che l’attività immaginativa è fisiologicamente naturale per l’uomo e che sia il produrre che il recepirle può influenzare i parametri psico-corporei. Quest’insieme di dati deve far riflettere su come possa essere fondamentale l’utilizzo delle immagini e dell’immaginazione in un contesto terapeutico, soprattutto rispetto a specifici disturbi (vedi, ad esempio, disturbi psicosomatici). Inoltre, bisogna considerare che in qualche modo l’attività immaginativa svolge una funzione regolatrice: se tra le molte ore della giornata l’individuo non dedica una parte di esse alle attività fantastiche ottenute in stato di rilassamento (sonno), corre il rischio di un sovraccarico mentale. L’individuo equilibrato trova il suo ritmo compensatorio intervallando le fasi attive con quelle di disponibilità a fantasticare, a immaginare.

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Tabella a Immaginazione Definita genericamente, l’immaginazione è la facoltà di formare immagini mentali, di trasformarle, di svilupparle ed anche di deformarle. Nel linguaggio psicologico, la parola immaginazione indica una particolare forma di pensiero che non segue regole fisse né legami logici, ma si presenta come riproduzione ed elaborazione libera del contenuto di un dato sensoriale presente o passato, legato ad un determinato stato affettivo e, spesso, orientata attorno ad un tema. Dal punto di vista della scienza cognitiva, le immagini mentali mostrano come la memoria non solo codifichi i dati frutto della percezione, ma li organizzi in categorie, generalizzandoli ed interpretandoli. L’immaginazione può dar luogo ad un’attività di tipo sognante (il cosiddetto daydreaming) oppure a creazioni armoniose o anche, con un meccanismo che si riallaccia all’intuizione, portare a conclusioni ricche di contenuto pratico (Oliviero, in Treccani, 1999). Caratteristiche dell’immaginazione Mental imagery: la capacità di vedere con ‘l’occhio’ della mente e sentire con ‘l’orecchio’ della mente Rappresentazione simbolica: l’uso di concetti ed immagini per evocare o rappresentare entità del mondo reale, o l’uso di cose reali per evocarne altre (ad es.la penna al posto del microfono) Counterfactual thinking: la capacità di immaginare qualcosa di non necessariamente inerente ad una circostanza o realtà di fatto; con ciò si indica anche la capacità di immaginare il corso degli eventi, di un‘azione, di fantasie e desideri e la capacità di ‘leggere la mente’ dell’altro, comprendere cioè le sue intenzioni, credenze, desideri ecc. (tradotto da Gregory, 1999):

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Tabella a.2 (da Borgo, della Giusta, Sibilia, 2001) Immagine mentale e brain imaging Alcune tecniche radiologiche hanno di recente permesso di localizzare la formazione di immagini a livello cerebrale nell’area visiva secondaria (occipitale) con la partecipazione di altre zone (temporali e frontali). In psicoterapia cognitivo-comportamentale è stato fatto fin dall’inizio un largo uso di tecniche immaginative, anche in assenza di un’adeguata teorizzazione. Sulla base della teoria di Paivio, che postula l’esistenza di un sistema iconico unitario, potremmo ritenere che vi sia una continuità tra le varie forme immaginative (immagini mentali, fantasie, sogni) e che quindi si possa andare dall’una all’altra, come di fatto accade in alcune tecniche. Tecniche di ‘brain imaging’ o ‘neuroimaging’, sempre più sofisticate, hanno permesso di conoscere meglio la fisiologia cerebrale e del sistema nervoso e le anomalie cerebrali causa di vari disturbi mentali. In molti casi si è potuto ipotizzare o evidenziare i correlati anatomici e funzionali dell’attività mentale con questi metodi di visualizzazione computerizzata del cervello, dando così basi scientificamente fondate alle teorie psicologiche e neuropsicologiche. Le principali tecniche di ‘brain imaging’ sono: – EEG, elettroencefalogramma computerizzato; – TAC, tomografia assiale computerizzata; – RMN, risonanza magnetica nucleare, – SPECT, PET, ecc. Diverse tecniche di neuroimaging sono utilizzate per conoscere la base neurobiologica dei disturbi dello spettro psicotico e affettivo, in maniera particolare la valutazione con MRI dei disturbi bipolari e della schizofrenia. Il maggiore interesse è rivolto a comprendere gli elementi neurobiologici comuni sottostanti ai disturbi bipolari e alla schizofrenia, integrandoli con la psicopatologia. In particolare, l’obiettivo principale di molti studi e ricerche è quello di aumentare le conoscenze sui possibili circuiti del sistema nervoso centrale condivisi da queste due condizioni che potrebbero essere responsabili dell’insorgenza delle manifestazioni psicotiche.

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Tabella a.3 (modificato da Di Nuovo, Appunti, 2005) La localizzazione funzionale a livello cerebrale delle immagini le ricerche con la SPECT (tecnica che valuta il flusso ematico cerebrale) condotte da Goldenberg, Podreka e Steiner (1990), hanno evidenziato il coinvolgimento della regione occipitale inferiore sinistra nell’immaginazione mentale visiva. Esistono notevoli differenze individuali fra i soggetti e relative al tipo di compito; “viene differenzialmente attivato l’emisfero sinistro o l’emisfero destro in funzione dalla natura delle prove e degli stimoli utilizzati” (De Pascalis, 1995, p. 249). I lobi temporale e parietale sono a loro volta funzionalmente connessi con il frontale (posteriore-inferiore); il coinvolgimento del lobo frontale avrebbe funzione inibitoria testimoniata dalla relazione negativa tra la sua attivazione e l’immaginazione (Goldenberg et al., 1990, p. 326). Pur riconoscendo la prevalenza dell’occipitale inferiore, specie a sinistra, gli autori concludono: “sembra che l’immaginazione visiva attivi un sistema funzionale complessivo, i cui esatti confini cambiano da prova a prova. Infatti, nessuna singola regione è attivata in modo consistente in tutte le condizioni di immaginazione” (Goldenberg et al., 1990, p. 328). Questa conclusione è spiegabile se si ricorda che la formazione e la gestione di un’immagine mentale coinvolge una serie di componenti molto diverse tra loro: comprensione delle istruzioni; accesso alle informazioni nella memoria a lungo termine; attivazione di ricordi appropriati circa l’oggetto da immaginare; corrispondenza tra l’informazione semantica e l’apparenza dell’oggetto; generazione dell’immagine; resoconto verbale del risultato dell’ispezione dell’immagine. Al tempo stesso, si deve tener conto della difficoltà d’isolare troppo nettamente le diverse fasi e componenti, e di relazionarle punto a punto con le aree di funzionamento cerebrale: il cervello infatti non è organizzato come un computer seriale, ma attiva congiuntamente e in parallelo aree ed emisferi implicati nelle diverse componenti del processo. Isolare aree ed emisferi responsabili in esclusiva di segmenti del processo può essere in certi casi impossibile (Sergent, 1990). Infine, nei processi immaginativi interagiscono processi di attenzione, memoria, categorizzazione, inibizione di risposte contrastanti (tutti coinvolgenti aree ed emisferi differenti): tutto il cervello è coinvolto, insomma, nell’attività di immaginazione.

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Tabella a.4 (ibidem) Prevalenza emisferica A partire dal saggio del 1984, la Farah ha sostenuto addirittura la prevalenza dell’emisfero sinistro, legata però al tipo di compito: questo emisfero è interessato se i compiti sono cognitivi e in qualche misura verbalizzabili; il destro invece se si tratta di compiti sensoriali, implicanti abilità spaziali (ad esempio, immagini da ruotare). Secondo Kosslyn (1987) l’emisfero sinistro genera le immagini che comportano relazioni categoriali, mentre l’emisfero destro è specializzato a generare immagini prevalentemente basate su coordinate spaziali (vedi anche Grossi, Modafferi, Pelosi eTrojano, 1989). Va rilevato però (Sergent, 1990) che non sempre è facile distinguere attraverso le prove a disposizione se il soggetto ha generato una immagine dettagliata, ben categorizzata oppure schematica e basata solo su aspetti spaziali. Partendo da basi evoluzionistiche, Corballis (1991) sostiene che la generazione d’immagini funziona in modo analogo alla generazione del linguaggio: in entrambi i casi un piccolo set di elementi (per esempio relativi alla forma) può essere combinato secondo certe regole in modo da formare una infinita combinazione di ‘prodotti’. Questa componente ‘generativa’ (denominata da Corballis Generative Assembling Device, GAD) è essenzialmente localizzabile nell’emisfero sinistro. In realtà l’immaginazione è una funzione complessa che non può essere localizzata in un solo emisfero (Richardson, 1990); il transfer interemisferico è certamente rilevante: ciò conferma la insufficienza delle teorie ‘pittorialiste’ e ‘proposizionali’ se considerate sterilmente contrapposte.

Tabella a.5 (ibidem) L’immaginazione: aspetti evolutivi “La struttura e il contenuto delle immagini sono determinati dalla storia evolutiva peculiare dell’individuo. Ogni immagine 26


rappresenta l’“essenza” di un insieme di esperienze passate…” (Marks, 1984, p. 97). Bruner (1964) sottolinea l’emergere sequenziale di tre modi di rappresentazione: motoria (‘enactive’), iconica e simbolica (verbale). Dallo schema dell’azione si passa allo schema spaziale e all’immagine, che si ferma però alla “superficie delle cose”, cioè agli aspetti sensoriali degli oggetti, e poi agli aspetti invarianti, astratti, simbolici della realtà. Anche Piaget e Inhelder (1966) condividono in parte questa distinzione tra rappresentazioni immaginative e rappresentazioni verbali in termini di concreto/astratto, ma sottolineano come l’immagine sia essenziale per rappresentare la realtà in termini simbolici: essa forma infatti la base degli schemi mentali su cui si fonda l’intero processo di costruzione della conoscenza, dalle forme più semplici a quelle più complesse di simbolizzazione. Le immagini codificate dagli stimoli esterni vengono ‘assimilate’ e integrate negli schemi esistenti, ma al tempo stesso le discrepanze tra i nuovi stimoli e gli schemi pregressi vengono risolte creando nuove immagini e nuovi schemi ‘accomodati’ basandosi su di esse. Dal punto di vista evolutivo, l’immaginazione appare in una prima fase all’età di 18-24 mesi, mentre il secondo decisivo momento è lo stabilirsi delle immagini anticipatorie (6-7 anni) che consentono la ricostruzione di processi dinamici e la previsione delle conseguenze delle azioni. Il “non qui e non ora” – presupposto per il pensiero astratto – si basa anche sulla capacità di visualizzare realtà non presenti (visualizzazione anticipatoria nei termini di Piaget e Inhelder). L’immaginazione ha una valenza simbolica – non direttamente legata alla percezione – che può riprodurre o anticipare percezioni della realtà esterna, in rapporto allo sviluppo delle attività operatorie. Sia Bruner che Piaget condividono, seppur con diverse accentuazioni, l’idea che le immagini siano specializzate per le rappresentazioni di oggetti e di eventi concreti, mentre il linguaggio interno è adatto a trattare problemi astratti. Come Paivio (1971) ha fatto rilevare, l’idea di una transizione tra fase iconica e fase simbolica sottovaluta l’interazione continua tra le due modalità. Contrapporre immagine (concreto) e 27


verbale (astratto) semplifica la complessità dinamica del rapporto fra queste dimensioni. Kosslyn (1989) ribadisce come il bambino privilegi la visualizzazione e la usi nei giochi che richiedono rappresentazioni mentali su base simbolica o visuo-spaziale (dal ‘compagno immaginario’ e dal vecchio gioco del ‘quindici’ ai videogames). La cultura in cui il bambino è inserito tende a farlo passare ad una prevalenza della verbalizzazione, sostituendo le immagini mentali con il richiamo di concetti codificati verbalmente. Un problema, inizialmente, viene risolto su base visiva richiamando l’immagine pertinente: alla domanda “i cani hanno quattro zampe?” il bambino piccolo risponde associando l’immagine visiva del cane; più tardi apprende a registrare l’informazione in forma proposizionale. Si può così fare a meno di tornare al richiamo dell’immagine, a meno che istruzioni specifiche o stimoli particolari non lo rendano necessario. Lo stesso avviene per altri tipi di problem solving, in cui i bambini vengono addestrati a ‘pensare’ in termini proposizionali piuttosto che di immagini.

Tabella a.6 (ibidem) I pre-requisiti per lo sviluppo dell’immaginazione: (secondo Tower, 1983): – la maturazione neurologica; – l’organizzazione cognitiva; – l’organizzazione affettivo-emozionale; – le condizioni interpersonali (sicurezza nell’attaccamento, modelli adeguati); – le condizioni ambientali: spazio e tempo sufficienti per l’eleborazione di giochi basati sull’immaginazione, assenza di condizioni di deprivazione, struttura non rigida ed adultocentrica delle relazioni educative favoriscono lo sviluppo delle capacità immaginative. La costruzione della realtà interiore, mediata dalle immagini, si sviluppa quando la mente – grazie alla maturazione neuronale 28


e all’apprendimento – è in condizione di cogliere i significati simbolici della realtà esterna: sono le immagini che consentono di anticipare i comportamenti prima di metterli in atto, e di creare un mondo interiore in cui desideri ed emozioni possono essere tematizzati. Man mano che l’apparato neurologico cresce in complessità, il bambino è in grado “non solo di creare immagini, ma di ricreare scene e avvenimenti complessi che ha osservato e combinarli in modi nuovi. Cominciano a formarsi ricordi fatti non solo di immagini di sequenze di azioni, ma anche di emozioni, intenzioni e desideri” (Greenspan, 1997, tr. it., p. 78).

Tabella a.7 (ibidem) Progettazione creativa ed uso educativo e terapeutico delle immagini L’integrazione – con la supervisione e il coordinamento dei lobi frontali del cervello, deputati alla programmazione – si realizza soprattutto nel progettare creativo: attività che comporta flessibilità e apertura alle novità, dimensioni della creatività che la ricerca ha dimostrato correlate con l’immaginazione (Denis, 1990; Roskos-Ewoldsen, Intons-Peterson e Anderson, 1993). La progettazione creativa comporta inoltre il richiamo dalla memoria, la manipolazione e la ricombinazione di elementi percettivi e semantici in modo nuovo e originale: è evidente quanto la componente di immaginazione mentale sia importante perché questa operazione si realizzi con successo. La progettazione, con le necessarie componenti immaginative, è essenziale in ciò che comunemente viene definito ‘creazione di una nuova opera’. A livello neuropsicologico questo comporta una riorganizzazione del sistema neuronale e l’attivazione di una plasticità dei sistemi coinvolti i cui meccanismi sono ancora poco noti, ma di cui il sistema della immaginazione visiva è certamente componente essenziale. ‘Progettare’ significa immaginare, evocare qualcosa e vedere come realizzarlo: al sistema cerebrale è richiesto di usare il 29


massimo dell’impegno e della concentrazione, di focalizzare l’attenzione sugli aspetti essenziali e trascurare le banalità, di usare l’emozione in modo produttivo, di mettere a frutto le componenti ‘inventive’ dell’intelligenza (Boeri, 1994). “Immaginare può significare molte cose belle e positive: giocare su realtà virtuali, sondare reazioni interiori quando la mente è immersa in scenari improbabili, dare alimento e forza alla creatività e all’invenzione poetica. Del resto, se non potessimo godere della libertà dell’immaginazione non potremmo neppure accedere a quella capacità tipicamente razionale che è il progettare” (Jervis, 1993, p. 353) Il passaggio verso la capacità di progettazione flessibile e creativa, nel senso descritto, è l’obiettivo comune dell’azione educativa e di quella clinico-terapeutica. Entrambe intervengono su soggetti in cui il progetto – come scoperta o riconoscimento del senso dell’essere nel mondo – è incompleto o alterato. Il bambino o l’adolescente ‘educando’, per immaturità delle sue strutture cognitive ed emotive, ha difficoltà a costruirsi autonomamente un progetto ed a perseguirlo; il paziente è portatore di un progetto inautentico e ‘alienato’ perché troppo rigido o troppo distante dalla realtà. Essenziale è che sia nella prassi terapeutica che in quella educativa l’uso prevalente della parola sia integrato con la visualizzazione e con l’immaginazione, al fine di meglio favorire la progettualità creativa.

1.4. Aspetti neuroimmunologici: il placebo Placebo o nocebo? Piacerò o farò del male? Questo il significato letterale dei suddetti termini che hanno ormai assunto nelle scienze mediche e psicologiche ben altro significato; abbiamo scelto di occuparcene in questo libro in quanto l’argomento ci appare strettamente collegato alla capacità di immaginare dell’essere umano. In quanto esseri umani siamo in30


fatti capaci anche di immaginare la cura, aiutandoci così a curarci: vediamo una pillola, una iniezione, ed iniziamo ad immaginare che ci sia di aiuto; usciamo dallo studio del medico e già ci sentiamo più in forma (o più malati, a seconda, spesso, di ciò che ci è stato detto e di come ci è stato detto), prendiamo dei farmaci e ci sentiamo meglio ancor prima che gli stessi abbiano effettivamente potuto iniziare il loro effetto. Parlare di placebo solo in questi termini sarebbe però limitativo; poiché l’argomento, proprio come l’immaginazione è vasto, polimorfo e dibattuto, scegliamo di presentarvelo creando dei brevi sottoparagrafi. Storia, etimologia e alcune ricerche. Nei primi secoli del secondo millennio dopo Cristo, le ‘prefiche’, cantavano il ‘placebo’ (le lodi) dei defunti, nel XV secolo col termine placebo si era soliti indicare un individuo ruffiano, un leccapiedi. In un dizionario del XIX secolo si può trovare la definizione di placebo come sostanza non medicinale utilizzata al fine di arrecare sollievo, di apportare un benessere (sia pure meramente soggettivo), insomma, di compiacere. Per questo motivo sembrerebbe essere stato scelto proprio il futuro del verbo latino placere (gradire, essere soddisfatti), per indicare la promessa di sollievo connessa ad un trattamento non specifico a base di sostanze farmacologicamente inerti, volto a incrementare lo stato di benessere fisico-mentale del paziente. Nel 1946 in Inghilterra viene effettuato il primo studio della storia con placebo ‘a doppio cieco’; sono gli anni in cui nel paese è diffusa la tubercolosi e si vuole testare la validità della streptomicina. Tale sostanza si rivela difatti superiore al placebo, ma una certa percentuale di pazienti mostra una buona risposta al placebo. A partire da questi ‘strani’ e non previsti risultati, si è avviata tutta una serie di ricerche e studi che hanno cercato di capire come sia possibile che il placebo agisca, quali siano le caratteristiche dell’effetto placebo e dei 31


soggetti in cui si può riscontrare. Inizialmente si è ipotizzata l’esistenza di cosiddetti ‘placebo reactors’, interpretando quindi in maniera negativa l’effetto placebo e discriminando in qualche modo gli individui in cui si presentava. In effetti tra le prime spiegazioni si è parlato di soggetti creduloni, di donne, di individui di colore o con scarsa educazione, di soggetti nevrotici e di persone psicologicamente labili. Queste prime interpretazioni dei dati collegavano l’effetto placebo a situazioni allora ritenute fortemente svantaggiate. Per fortuna, studi successivi hanno messo in evidenza che nel provocare l’effetto placebo contano sia le credenze dell’individuo (le aspettative) che l’atteggiamento del medico. La somma tra le aspettative positive del paziente ed un atteggiamento professionale ma accogliente e fiducioso, del medico, rende di fatto possibile il fenomeno placebo. Per chiarire gli aspetti più interessanti del ‘fenomeno’ placebo, vi descriviamo qualche ricerca. Un chirurgo dello Huston Veterans Affairs Medical Center, il dottor Mosley, svolgeva abitualmente interventi su pazienti affetti da problemi alle ginocchia, in caso di infiammazioni acute accompagnate da dolori; Mosley effettuava interventi chirurgici di tipo conservativo con pulizia delle articolazioni ottenendo buoni risultati a livello della diminuzione o scomparsa totale del dolore. Il risultato positivo derivante dall’operazione di pulizia delle articolazioni non era scientificamente chiaro, per cui il chirurgo decise di compiere un esperimento a doppio cieco, operando effettivamente alcuni pazienti e sottoponendo ad una operazione simulata altri. Due settimane dopo, solo il 14 % degli individui sottoposti ad operazione simulata dichiarò di essere convinto di far parte del gruppo placebo, ma lo credeva anche il 13 % realmente operato. I pazienti furono seguiti per due anni effettuando regolari controlli; dopo due anni nessun paziente sottoposto all’operazione simulata risultava in condizioni peggiori di quelli realmente operati. Chi non era stato operato riportava ugualmente assenza di do32


lori e presentava la stessa mobilità di pazienti in reale decorso postoperatorio. Un’altra ‘puntata’ della storia del placebo possiamo datarla 2001, quando le ricerche di due studiosi danesi Hrobjartsson e Gotiche sembrano smentire l’esistenza del placebo. Gli studiosi hanno costituito tre gruppi di pazienti: ad un gruppo hanno somministrato un farmaco, ad un altro il placebo e al terzo nulla; fra il gruppo a cui non era stato somministrato nulla ed il ‘gruppo placebo’ non sembrava esserci differenza. Se i dati hanno indotto a pensare allora che non esistesse un vero e proprio placebo (effetto legato all’assunzione di un presunto farmaco), Lemoine commentando questi dati ha fatto notare che, data la caratteristica del placebo, non è possibile dire che un gruppo non fosse stato esposto a nulla e non gli fosse stato somministrato nulla, perché comunque i soggetti ad esso appartenenti erano stati sottoposti ad esami ed avevano ricevuto attenzioni ed informazioni. I due ricercatori danesi, autori dello studio, sono successivamente intervenuti replicando di non aver infatti voluto negare il placebo, ma di aver dimostrato che esso non è legato solo all’assunzione di pillole e farmaci. Sempre a proposito di placebo, in uno studio pubblicato su “Lancet”e sponsorizzato da una potente causa farmaceutica, Granger et al. della Duke University indicano che in uno studio su pazienti cardiopatici, la cura sembrerebbe aver miglior decorso in quei soggetti che assumono scrupolosamente la terapia come da indicazioni. Fin qui, sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda, dirà qualcuno, ma il punto è che quanto detto sopra si verifica anche se il soggetto in questione assume scrupolosamente un placebo e non una terapia effettiva, e il decorso è migliore anche rispetto a chi prende in maniera, per così dire, disattenta il farmaco vero. Certo, c’è da considerare che soggetti che riescono ad essere più scrupolosi nell’assumere metodicamente una terapia saranno probabilmente molto precisi ed abitudinari ed avranno pertanto, probabilmente, 33


abitudini e ritmi di vita più indicati alla cura della propria patologia; crediamo comunque che i risultati degli studi riportati debbano davvero far riflettere. Ancora, alcuni studi indicano che gli effetti di un placebo e di un antidepressivo, rilevabili con immagini ottenute con tomografia ad emissione di positroni, sono simili anche se non identici. In entrambi i casi dopo sei settimane di somministrazione il metabolismo di alcune aree cerebrali subisce modificazioni chiaramente identificabili. Dal confronto appare evidente però che la fluoxetina stimola tre regioni in più rispetto al placebo: il palencefalo, l’ippocampo ed il nucleo caudato. Neurobiologia, placebo e dolore. Citiamo qui una ricerca condotta all’università del Michigan. È stato chiesto a 24 volontari di provare una nuova pomata analgesica. Ai soggetti è stato comunicato che avrebbero provato una pomata che possedeva realmente qualità analgesica ed una invece priva del principio attivo. Per saggiare gli effetti dell’ipotetico farmaco, veniva somministrata una leggera scossa; al termine delle prove, i partecipanti riferivano di aver avvertito una scossa meno intensa quando erano convinti di essere sottoposti al trattamento analgesico, ignari naturalmente di aver provato la stessa ed identica pomata due volte. Attraverso la tomografia assiale computerizzata si è visto che l’attività delle aree cerebrali implicate nell’elaborazione del dolore rispecchiava fedelmente quanto riportato dai partecipanti: l’insula ed il talamo erano maggiormente irrorati quando i soggetti riportavano un dolore più forte, in misura minore quando erano convinti che dovevano essere attutite dall’analgesico. Lemoine, in un discorso più ampio, usa dire che noi occidentali reagiamo al medico come i cani di Pavlov al campanello e impariamo sin da piccoli che una visita medica fa bene per alleviare i disturbi: questo ed altri esperimenti sembrerebbero confermarlo! 34


Tornando, comunque, alla ricerca di cui stavamo parlando c’è da dire che i soggetti alcuni secondi prima di ricevere la scarica elettrica ricevevano uno stimolo luminoso quale preavvertimento; in questo intervallo di tempo, il flusso della circolazione sanguigna nella corteccia prefrontale (osservata con tomografia assiale) appariva significativamente varia. In particolar modo, l’area cerebrale prefrontale appariva maggiormente attiva quando i soggetti si aspettavano di percepire una scarica meno intensa a causa dell’azione dell’analgesico. In base a queste osservazioni si è ipotizzato che la corteccia prefrontale intervenisse inibendo l’attività dei centri del dolore; a livello di neuromediatori, il ruolo più importante sembrerebbe essere quello della dopamina. Normalmente alcune cellule nervose producono tale neurotrasmettitore quando si prospetta la possibilità di una gratificazione a scadenza più o meno breve. In tal modo vi è un impulso ad agire sufficiente a sostenere un serie complessa e lunga di singole azioni. Una volta raggiunto l’obiettivo, la produzione di dopamina viene inibita: questo è il motivo per cui la gioia del pregustare una cosa è spesso più intensa dell’ottenerla. Un placebo agirebbe come una promessa di benessere psicofisico; per questo motivo anni fa fu proposta l’ipotesi che gli pseudofarmaci stimolino la produzione di dopamina, sempre che ci sia un atteggiamento fiducioso. Ciò spiegherebbe anche perché i placebo possono avere una certa efficacia in alcuni casi di depressione dove sarebbero presenti disturbi del sistema dopaminergico e di altri due trasmettitori, serotonina e noradrenalina. Recenti studi sembrano indicare che i placebo hanno un buon effetto anche nella terapia per gli individui affetti da Parkinson (in questo disturbo c’è una drastica diminuzione di dopamina da parte dei neuroni di alcune strutture cerebrali, in particolare della substantia nigra). In generale si ritiene probabile che i placebo stimolino la secrezione di dopamina agendo come agonisti del neurotrasmettitore. Da tempo, i neurologi sospettano che i placebo stimolino anche il potenziale endorfinico. 35


Placebo e nocebo. In un articolo (“Scienze”, “Panorama”, 2006) abbiamo trovato una definizione del nocebo quale gemello cattivo del placebo; in effetti è molto importante considerare non solo che il placebo ha anche controindicazioni ed effetti collaterali ma che, così come esistono meccanismi che permettono al placebo di funzionare, ne esistono altri, in qualche modo speculari, che possono avere effetti negativi e sono capaci di innescare l’effetto nocebo. Secondo alcune stime, ad esempio, dall’1,5% al 3% della popolazione soffre di una eccessiva sensibilità alle onde elletromagnetiche: i telefonini sembrerebbero perciò provocare a queste persone mal di testa, confusione, ronzii alle orecchie, spossatezza, anche se non esiste al momento prova scientifica di questa situazione. In un esperimento a doppio cieco (ibidem, 2006), in cui ad una parte dei soggetti è stato fatto usare prima un telefonino vero e poi uno falso, coloro che si dichiaravano sensibili alle onde elettromagnetiche lamentavano disturbi sia che usassero il telefonino vero che il falso. Al di là della possibilità effettiva che le onde elettromagnetiche possano creare fastidi e disturbi, la questione è che, almeno in questo caso, sembrerebbe sufficiente essere sensibili all’elettromagnetismo per poi soffrirne. Allo stesso modo, effetti nocivi sull’individuo sembrano poter derivare dal modo in cui sono comunicate le caratteristiche di un farmaco, la possibilità di cura e guarigione. Con ciò intendiamo dire che, ad esempio, comunicare che una sostanza è poco efficace (invece di ribadire che comunque ha un senso assumerla) può abbassarne l’effetto; allo stesso modo, mostrare poco interesse per il paziente, prescrivere farmaci frettolosamente e distrattamente, trattare con sufficienza il paziente, sono tutti comportamenti che possono deludere il paziente, portandolo a trasferire la delusione sul farmaco assumendolo, ad esempio, con disattenzione. Sempre riguardo al nocebo vogliamo citare un esperimento condotto in Giappone: a soggetti allergici all’albero della lac36


ca (bendati) è stato comunicato che sarebbero stati strofinati con una foglia di albero di lacca, ma sono stati realmente strofinati con una foglia di castagno. Ebbene, essi hanno comunque sviluppato una reazione allergica con pelle arrossata e bruciori. I risultati di quest’esperimento mettono in evidenza quanto siano importanti le aspettative (positive e negative) dell’individuo e allo stesso tempo, anche come e cosa si comunica. Il neurotrasmettitore coinvolto nell’effetto nocebo sembrerebbe essere la colocistochinina, che aumenta la percezione del dolore in caso di aspettative negative, ansia e paura. Potere dei farmaci e potere del placebo. Nel 2002 alcuni ricercatori dell’University of California Los Angeles, in uno studio pubblicato su “American Journal of Psychiatry”, sono riusciti a dimostrare che la corteccia cerebrale reagisce con modificazioni importanti anche di fronte alla sola convinzione di assumere un antidepressivo. Lo studio ha coinvolto 51 soggetti depressi: a una metà di essi è stato somministrato fluoxetina, all’altra metà pillole di glucosio con aspetto identico. Il 52% di coloro che avevano realmente preso il farmaco ha reagito bene, ma anche il 38 % che aveva assunto placebo. Con la QEEG (elettroencefalografia quantitativa) si è visto che il placebo modifica l’attività elettrica della corteccia prefrontale, dove si reputa avvenga la regolazione dell’umore. Tuttavia, questa avviene per farmaco e placebo in senso opposto: la fluoxetina sopprime l’attività cerebrale, il placebo la stimola. Nel suddetto esperimento, dopo otto settimane è stata svelata ai soggetti depressi la vera natura del farmaco: molti di quelli che avevano preso il placebo sono immediatamente peggiorati. Placebo e psicoterapia. L’effetto placebo può essere considerato una sorta di ‘personificazione’ di una miriade di ‘fatto37


ri aspecifici’ ma che influenzano tutte le relazioni, terapeutiche e non (Ross, Buckalew, 1985 in Blasi, Casonato, 2005); è per questo che anche noi ci facciamo sostenitori dell’ipotesi che lo studio sistematico dell’effetto placebo potrebbe costituire una opportunità unica per l’individuazione e la comprensione dei fattori aspecifici e comuni delle psicoterapie (Lo Iacono, Sanavio, 1984, ibidem). In tal senso Ekeland (ibidem, 1987) descrive la psicoterapia come un sottinsieme del placebo cioè una delle molteplici forme di guarigione psicologica che si sono succedute nei secoli. Volutamente, fin qui, non abbiamo affrontato gli aspetti riguardanti l’etica del placebo; che richiederebbero una trattazione troppo lunga. Ci limitiamo a sollevare solo alcuni interrogativi (quelli più dibattuti, del resto) e a fornire qualche indicazione e spunti di riflessione. Elenchiamo qui di seguito alcune domande che riteniamo eticamente corretto porsi. – Si può in qualche modo ingannare un paziente, facendogli assumere un placebo, se pure affiancato a farmaco tradizionale? – C’è sempre trasparenza ed onestà nei dati della ricerca sui farmaci? Oppure essi vengono viziati da giri di interessi, denaro e potere che finiscono col far preferire di mostrare solo ciò che è economicamente più conveniente? – Come stabilire se ad un paziente è corretto far assumere un placebo puro (senza assunzione in parallelo di farmaci effettivi) o, ancora, in base a cosa stabilire di non sottoporre ad una effettiva cura farmaceutica il paziente? – Si discute molto su quanto sia corretto scegliere nomi di farmaci che in qualche modo siano accattivanti, promettono già di per sé una guarigione: questo da un lato può creare aspettative positive nell’individuo che possono favorire l’efficacia del farmaco, ma ci chiedamo è etico creare queste aspettative, attirare cioè in tal modo gli individui verso un farmaco? 38


– Come riuscire a far sì che si possano investire più fondi anche nella ricerca su placebo e nocebo, al fine di studiarne caratteristiche, potenzialità, rischi e limiti? La questione della ricerca etica, sia sui farmaci sia sul placebo, solleva grande interesse ed accende molti dibattiti; è stato anche necessario creare da parte del Council of Medical Sciences in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le seguenti linee guide etiche (in Dobrilla, 2004) per le multinazionali che attuano sperimentazioni cliniche in paesi sottosviluppati: 1. gli obiettivi della ricerca devono rispondere alle necessità sanitarie e alla priorità del Paese in cui la ricerca viene effettuata; 2. ogni farmaco prodotto grazie allo studio condotto nelle aree economicamente depresse deve essere ragionevolmente disponibile anche per gli abitanti di queste aree; 3. non si devono più progettare studi di fase 1 (quelli condotti in via preliminare sui cosiddetti ‘volontari sani’) nei Paesi del Terzo Mondo solo perché costano meno e le sperimentazioni sono regolamentate in modo più aleatorio. A prescindere da queste linee guide etiche, il monito e l’invito ad una ricerca etica arriva da più parti, forse anche perché talvolta, da più parti, si porta avanti una ricerca finalizzata ad interessi che non coincidono strettamente con l’unico obiettivo valido: trovare risultati utili per la salute ed il benessere dell’individuo. Perché ad esempio molti enti continuano ad impegnarsi in costose sperimentazioni su farmaci le cui potenzialità e i cui effetti collaterali sono ormai ultranoti? E perché una ricerca consistente su placebo e nocebo stenta a partire? Per quanto ci compete, ci sentiamo di dire che la psicologia e la psicoterapia hanno certamente un debito a riguardo, in quanto soprattutto la psicoterapia sembrerebbe essere, per così dire, la scienza del placebo per eccellenza e pertanto è ne39


cessario un impegno maggiore a conoscere le caratteristiche del placebo, dei fattori aspecifi o comuni. Se il placebo si basa su aspettative, emozioni e suggestioni legate alle immagini della cura, la psicoterapia ha la possibilità di ‘allenare’ l’individuo ad usare tali suggestioni, emozioni e aspettative a proprio vantaggio e consapevolmente; la preparazione, la professionalità e l’umanità di ogni psicoterapeuta che svolga correttamente la propria professione devono portare anche ad un uso eticamente corretto dell’effetto placebo. A tale scopo sarebbe necessaria anche una regolamentazione e delle adeguate linee guida. Tornando all’argomento centrale del nostro libro, ci viene da dire che è per noi sorprendente e al contempo sconcertante quante meravigliose possibilità di immaginare la cura abbiamo già dentro di noi: siamo capaci di creare e distruggere immagini della nostra cura, riusciamo ad immaginare e tradurre in realtà meravigliose soluzioni ai nostri problemi e siamo allo stesso tempo capaci di crearci dei problemi immaginando che essi esistano. E, non sempre ma talvolta, rinunciando ad immaginare ricorriamo semplicisticamente al farmaco, finiamo col preferirlo a noi stessi cercando in esso una soluzione che abbiamo già dentro di noi, magari tra le nostre immagini. Senza nulla togliere all’importanza che in alcuni casi riveste l’uso del farmaco, sia in medicina che in psicoterapia, e senza voler sminuire l’importanza di una ricerca scientifica sui farmaci eticamente corretta, abbiamo voluto evidenziare in questo paragrafo come la nostra mente in qualche modo possa controllare la chimica del cervello e come tra le immagini che da soli creiamo esistano meravigliose possibilità di sana ‘illusione’; sono proprio le nostre illusioni che, nel bene e nel male, molto spesso sono in grado di condizionare positivamente il nostro benessere psicofisico. Non è un caso che siamo passati ad usare il termine illusione, che etimologica40


mente rimanda ad uno ‘stare nel gioco’: le nostre immagini, ci accompagnano infatti, sempre, nel nostro ‘stare nel gioco della vita’.

Tabella b Placebo • “Placebo è ogni procedura deliberatamente attuata per ottenere un effetto o che, anche senza che se ne abbia nozione, svolge un’azione sul paziente o sul sintomo o sulla malattia, ma che oggettivamente è priva di ogni attività specifica nei confronti della condizione oggetto di trattamento. Tale procedura può essere attuata con o senza consapevolezza che si tratti di un placebo; include pertanto tutte le direttive mediche, indipendentemente dal fatto che si tratti di farmaci orali o parenterali, di preparazioni per uso topico, di inalanti, di procedure meccaniche, chirurgiche o psicoterapiche. Il placebo è anche usato per costituire un controllo adeguato nella ricerca clinica” (Shapiro in Dobrilla, 2004). • Il placebo è una sostanza inerte-inattiva che genera un miglioramento potenziato anche dall’atteggiamento positivo di chi la somministra (effetto rinforzato dalla suggestione); può diventare ‘nocebo’ producendo anche effetti collaterali. • L’effetto placebo è parte integrante del trattamento e si determina mediante l’entusiasmo dell’operatore e le aspettative positive dell’utente.

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Tabella b2 Placebo, psicoterapia, psicoanalisi e fattori terapeutici comuni Pancheri e Brugnoli (1999) elencano alcune considerazioni: • l’azione del placebo a livello fisiologico è stata documentata sperimentalmente; • l’effetto placebo, i fattori terapeutici aspecifici in farmacologia ed i fattori comuni in psicoterapia sarebbero influenzati dalle medesime variabili; esisterebbero dei meccanismi soggiacenti comuni in tutti questi trattamenti tali da supporre una sovrapponibilità nella natura dell’effetto placebo, dei fattori aspecifici e dei fattori comuni in psicoterapia; • una risposta positiva al placebo farmacologico è un indice prognostico efficace rispetto alla somministrazione di un trattamento farmacologico e psicoterapeutico; • esisterebbero delle evidenze empiriche contrarie al modello della specificità terapeutica medica e psicologica, quali: guarigioni del passato avvenute con rimedi oggi giudicati inefficaci, guarigioni spontanee, guarigioni miracolose, la variabilità della risposta individuale nel tempo al medesimo trattamento, il fallimento dei tentativi di dimostrare la superiorità di un tipo di psicoterapia sulle altre (‘verdetto del dodo’), il fallimento dei tentativi di dimostrare l’efficacia dei fattori terapeutici specifici in psicoterapia, l’efficacia delle terapie psicologiche placebo; • il fattore chiave, sia nel placebo farmacologico che in psicoterapia, sembra essere la relazione terapeutica; in essa si giocano le possbilità di ottenere esperienze emotive correttive (Alexander, French, 1946) all’interno di una relazione interpersonale benevola (Strupp, Hadley, 1979), che rispetti le condizioni facilitanti rogersiane (Rogers, 1975); • l’effetto placebo può essere interpretato in chiave psicologica utilizzando il concetto psicoanalitico di transfert di oggetto Sé, la teoria dell’attacamento e il concetto di esperienza emotiva correttiva; 42


• l’azione dei fattori terapeutici comuni può essere descritta, analizzata e misurata e si dovrebbe tendere a creare una mappa dei pesi di fattori comuni-aspecifici nelle varie situazioni (farmacologiche, medico-chirurgiche, psicoterapeutiche); • i fattori terapeutici comuni attivano dei poteri curativi all’interno dell’individuo che ne influenzano la guarigione; • tali poteri curativi possono essere attivati non solo con mezzi biologici, ma anche con metodi psicologici; • occorre ottimizzare a fini terapeutici l’utilizzo dei fattori comuni, sia che venga somministrato un trattamento biologico che psicologico. (da Pancheri, Brugnoli, 1999, in Blasi, Casonato, 2005)

Tabella b.3 (da Blasi S., Casonato M., 2005) Spiegazioni dell’effetto placebo • Guarigione del morale: secondo Frank (1961), tutte le misure che infondono speranza possono avere dei poteri curativi, stimolando i processi di recupero già presenti nel paziente; quanto ai placebo usati in medicina, essi traggono la loro efficacia dal fatto di essere un simbolo del ruolo di guaritore medico. • Self –healing e ‘fede’ nella terapia: l’effetto placebo si verificherebbe ogni volta che il paziente ha fede nel successo di una terapia ed è complementare all’effetto di altri meccanismi efficaci. Il ruolo del terapeuta è quello di stimolare e mantenere la fede, e quello della terapia, nel caso di terapie inefficaci se non per l’effetto placebo, è quello di fornire un pretesto, un appiglio per la fede del paziente. • Modello della risposta condizionata: Wickramasekera (1985) sostiene che sia insita nella somministrazione di ogni intervento efficace l’opportunità per l’apprendimento di un’associazione fra questo e stimoli ambientali percepibili, cioè per il condizionamento pavloviano. Gli stimoli condi43


zionati (SC) per la cura possono essere prodotti in almeno due modi: 1) per associazione con la presentazione di un ingrediente attivo per la cura; 2) per associazione con la cessazione dei sintomi di una malattia o di un danno non familiare, spiacevole o dannoso. Questi ultimi stimoli sono detti ‘segnali di sicurezza’ e acquisiscono proprietà di rinforzo positivo riducendo l’ansia dei pazienti. Sempre secondo Wickramasekera, stimoli condizionati come siringhe, stetoscopi, camici bianchi e certe procedure comportamentali (pulire la pelle con l’alcol, esami fisici) sono solitamente associati con potenti stimoli incondizionati come l’insulina, la morfina e gli antibiotici. Inoltre, anche etichette verbali cultura-specifiche che si riferiscono a luoghi (ospedale, laboratorio, pronto-soccorso) procedure (mediche, scientifiche, tracciare grafici, misurare), persone (medico, professore, dottore) possono essere associate con potenti stimoli incondizionati (SI) o ingredienti attivi, e possono acquisire proprietà condizionate. • Legame di attaccamento terapeutico: Pancheri e Pancheri L. (1984) ritengono che l’effetto placebo può essere visto come la conseguenza di un’attivazione psicobiologica, probabilmente di tipo neuroendocrino, che segue direttamente l’instaurarsi di un potente, anche se transitorio, legame di attaccamento terapeutico”. • Credenze placebo: Lundh (1987), prendendo in considerazione l’aspetto cognitivo dell’esperienza di malattia, conferisce un ruolo importante nel processo di cura e nel ripristino delle condizioni di salute a credenze del tipo ‘questo trattamento mi farà bene’, dette appunto credenze placebo. Tipi diversi di terapie, somatiche e non, possono avere la capacità di mobilitare credenze placebo di diversa efficacia in persone diverse. • Aspettative della risposta: Kirsch (1986), basandosi su una serie di risultati di ricerche, sostiene che le risposte involontarie (come alcune reazioni emotive di paura, tristezza, gioia, l’eccitamento sessuale, i sintomi di conversione, il dolore, ecc.) possono essere elicitate e/o intensificate dall’a44


spettativa della loro occorrenza. Il placebo assumerebbe quindi la natura di un’aspettativa di guarigione. • Aspettative di autoefficacia: trattamenti psicologici o somatici, influenzano le aspettative di autoefficacia dei pazienti. Secondo Bandura tutti i mezzi psicoterapeutici ottengono buona parte dei loro effetti modificando appunto le aspettative di efficacia dei pazienti nell’affrontare la situazione temuta ed in tali meccanismi risiederebbe il funzionamento dl placebo.

Tabella b.4) (da Pancheri, Brugnoli, 1999, in Blasi, Casonato, 2005) Variabili relative al trattamento

Risultato

Credibilità del trattamento Tipi di somministrazione Colore delle capsule

È positivamente correlata con l’effetto placebo Le iniezioni sono più efficaci delle capsule Le preparazioni blu hanno maggiori effetti sedativi, mentre quelle rosse, rosa e gialle sono maggiormente associate ad effetti stimolanti

Variabili relative al paziente

Risultato

Tratti di personalità: acquie- Favorisce l’effetto placebo scenza Tratti psicologici: ansia, de- Favoriscono, in linea di massima, l’effetto placebo pressione Condizioni di stress Speranza di guarigione ed aspettative riguardanti il trattamento

Favoriscono la risposta al placebo L’effetto placebo è correlato all’atteggiamento favorevole verso i farmaci in genere ed al miglioramento atteso nel caso specifico. Inoltre, vi è una corrispondenza tra i presunti effetti del farmaco e l’effetto specifico del placebo

Motivazione

Il grado di motivazione alla cura e a guarire aumenta l’effetto placebo Il placebo è più efficace quando la sua somministrazione segue un trattamento psicologico efficace

Esperienza medica precedente Risposta al test di soppressione al desametazone

Una risposta normale favorisce l’effetto placebo

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Variabili legate al contesto terapeutico

Risultato

Tipo do popolazione

La responsività al placebo varia in base al tipo di popolazione. Ad es.: la percentuale dei soggetti che risponde al placebo è maggiore nel dolore cronico rispetto al dolore sperimentale. Inoltre la responsività al placebo è maggiore nei pazienti schizofrenici ambulatoriali rispetto ai cronici istuzionalizzati ed in genere nei pazienti acuti rispetto ai cronici. La percentuale dei responders aumenta introducendo valutazioni psicometriche.

Setting terapeutico Variabili relative al medico

Risultato

Prestigio del medico, autorevolezza

Sono positivamente correlati con l’effetto placebo

Atteggiamento nei confronti L’effetto placebo è correlato positivamente aldel trattamento l’atteggiamento favorevole e all’entusiasmo per il trattamento Aspettative nei confronti dei risultati

L’effetto placebo è correlato ai risultati che il medico si aspetta

Variabili relative al rapporto medico paziente

Risultato

Interesse per il paziente Atteggiamento ‘caldo’

Favorisce il risultato Favorisce il risultato

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Tabella b.5. Percentuale media di miglioramento a breve termine* in pazienti trattati con placebo (Dobrilla, 2004) Malattia o sintomo Schizofrenia Ansia, depressione Artrite reumatoide, osteoartrite Colon irritabile, angina pectoris** Dispepsia non organica Ipertensione Cefalea e dolori vari Mal di mare, mal d’aria Ulcera peptica Angina pectoris Tosse Febbre da fieno Dolore post chirurgico

Percentuale di migliorati/guariti >80% 80% 60% (30%-80%) >60% (40%-70%) 50% (30%-70%) 50% 50% (4%-86%) 50% 40% (20%-88%) 40% 40% 30% 20%

* 4-8 settimane; ** chirurgia-placebo. Tra parentesi le oscillazioni piĂš marcate riportate in letteratura.

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Tabella b.6 118 pazienti con grave depressione ricorrente unipolare

psicoterapia o nortriptilina per quattro mesi

normalizzazione in 107 pazienti

assegnazione casuale a trattamento con:

psicoterapia e nortriptilina, psicoterapia e placebo, nortritptilina, placebo

20% 43% 64% 90%

Le percentuali indicano la recidiva di grave depressione nell’arco di tre anni in pazienti precedentemente normalizzati grazie ad un trattamento con un antidepressivo e/o con psicoterapia e successivamente avviati a quattro diversi tipi di trattamento includenti anche il solo placebo (sedute e visite di controllo ogni mese). (modificata da Reynolds et al., 1999, in Dobrilla, 2006)

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1.4a. Immagini, psiconeuroimmunologia e tumori È ormai stato accertato che lo stress provoca l’insorgere o l’aggravamento di patologie, ed è noto sia il modo con cui la mente può fungere da modulatore, esaltatore e depressore della risposta immunitaria, sia il processo attraverso cui lo stato mentale dominante nel paziente affetto da tumore crea il microambiente su cui questo attecchisce e si sviluppa. Fin dagli anni ’60, è stato dimostrato che immagini ed emozioni possono far aumentare o diminuire il numero di globuli bianchi, la qualità e la quantità di ormoni adrenergici, enzimi, elettroliti e neurotrasmettitori, tanto che si è coniato il termine di immunizzazione suggestiva. In materia di psicoimmunologia la svolta è comunque avvenuta negli anni ’70 quando la medicina, attraverso le importanti scoperte degli scienziati Candace Pert, David Spiegel, Lawrence Le Shan, Ronald Maticek, Hans Eysenck, Hans Selye, Dean Ornish, Elmer e Alice Green, Carl Simonton, J. Edwin Blalock (e molti altri), ha potuto comprendere in maniera approfondita i rapporti tra psiche, cervello e sistema immunitario. La psiconeuroimmunologia (PNEI) ha avuto infatti modo di dimostrare che situazioni intense di stress risvegliano intense emozioni quali la paura, la frustrazione, l’impotenza, la rabbia, ecc., che, trasmettendosi attraverso i neurotrasmettitori ormonali, indeboliscono la salute. Nel corpo umano esistono tre sistemi che veicolano le emozioni sul piano fisico: il sistema endocrino che trasmette tramite gli ormoni; il sistema nervoso direttamente collegato ai globuli bianchi; la famiglia dei neuropeptidi (neurotrasmettitori, fattori di crescita, citochine), che influenza l’attività cellulare e il funzionamento genetico. I globuli bianchi svolgono il ruolo di identificare ed eliminare i corpi estranei, batteri, cellule cancerose, ecc.; se proviamo gioia ed entusiasmo per la vita, queste sensazioni ed emozioni sono direttamente convogliate ai nostri globuli bianchi. Allo stesso modo, se ci sentia49


mo frustrati, arrabbiati o disperati, questi sentimenti agiscono sul nostro sistema immunitario. Le nostre emozioni influenzano quindi i nostri globuli bianchi; a vederla così, bisogna quindi considerare che noi abbiamo la possibilità di agire sul cancro influenzando le nostre emozioni e trasformando il nostro sistema di credenze e i nostri pensieri. Tutte le cellule impegnate nella difesa immunitaria (cellule killer, macrofagi, linfociti T e B) sono in comunicazione tra loro e col sistema nervoso centrale attraverso un complesso sistema circolare retroattivo (feedback). Per esempio le cellule killer attaccano e distruggono qualsiasi cellula infettata o degenerata, senza preventiva sensibilizzazione, senza la necessità di un riconoscimento antigenico e la formazione di anticorpi. Le cellule immunitarie interagiscono costantemente con il sistema nervoso e il sistema endocrino, al punto che non c’è modificazione del sistema nervoso che non sia associata a modificazioni del sistema endocrino e immunitario e viceversa. Le fibre del sistema nervoso autonomo innervano gli organi linfatici avvolgendoli e infiltrandoli così da creare delle strettissime connessioni con i linfociti (si parla infatti di ‘giunzioni neuroimmunitarie) così che ogni più piccola variazione nell’equilibrio del sistema simpatico-parasimpatico viene registrata dalle cellule immunitarie. I linfociti posseggono recettori per i neurotrasmettitori del sistema nervoso autonomo (noradrenalina, adrenalina, acetilcolina) così ogni più piccola modificazione del sistema simpatico-parasimpatico, e della concentrazione dei suoi neurotrasmettitori, a livello delle giunzioni neuroimmunitarie, produce i suoi effetti sulle cellule immunitarie stesse che vengono più o meno stimolate. È stato visto, in animali da esperimento, che denervando linfonodi e milza, organi nei quali le cellule immunitarie vengono immagazzinate e prodotte, la risposta immunitaria dopo inoculazione di un virus viene enormemente ridotta. Dunque, il sistema nervoso non solo è collegato a quello immunitario ma è essenziale per una funzione im50


munitaria appropriata; poiché il sistema nervoso autonomo, attraverso una eccitazione o inibizione del simpatico o del parasimpatico può far esprimere a tutto il corpo una emozione nata nel sistema nervoso centrale, appare evidente il forte nesso tra emozioni e sistema immunitario. Il sistema limbico riesce a stabilire fitte interconnessioni con tutto il resto del cervello e con i principali sistemi del nostro corpo, quali quello endocrino o immunitario, proprio attraverso i neuropeptidi di cui è particolarmente ricco. Sono infatti stati individuati oltre 50 neuropeptidi e alcuni autori (Pancheri, Biondi e altri) li hanno raggruppati sotto il nome di “sistemi peptidergici” e li hanno messi in relazione a determinati comportamenti finalizzati. Sono stati individuati e proposti quattro sistemi peptidergici: – il sistema dell’azione è rappresentato principalmente dai neuropeptidi CRF, ACTH, TRH, vasopressina. Essi attivano la sequenza ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, tipica della reazione da stress, con significato generale di tipo adattativo e di aumento delle possibilità di sopravvivenza dell’organismo; – il sistema del piacere-dolore è rappresentato fondamentalmente dai peptidi oppioidi, endorfine e encefaline. Tali peptidi modulano la soglia e la reattività emozionale al dolore, ma anche le reazioni emozionali dei processi di attaccamento e perdita, alcuni comportamenti appetitivi e alimentari, il comportamento sessuale, ecc.; – il sistema peptidergico della riproduzione è rappresentato dal GnRH ipotalamico, LH, FSH, ossitocina, prolattina e, a livello periferico, dagli ormoni gonadici. Queste sostanze, insieme alla loro azione endocrino-metabolica classica, modulano emozioni e comportamenti sessuali e il complesso delle emozioni che portano all’attaccamento materno, oltre a svolgere un ruolo sull’apprendimento e la memoria; 51


– il sistema di supporto metabolico delle funzioni vitali comprende una pluralità di neuropeptidi ognuno con funzioni sia centrali (ossia sul sistema nervoso) che periferiche. I più importanti sono: angiotensina, CCK, bombesina, Vip, neurotensina, gastrina, peptidi intestinali, ecc. Essi sono implicati in funzioni fisiologiche essenziali per la vita, tra cui alimentazione e assimilazione, metabolismo, bilancio idrico, sonno, bioritmi, mantenimento della identità genetica. I neuropeptidi sembrano rappresentare il punto di contatto tra corpo e mente, “l’anello mancante” capace di spiegare la connessione psicosomatica da tanto cercata. Se per anni si è creduto che il sistema nervoso e quello endocrino fossero distinti (e che le informazioni venissero veicolate nel primo caso attraverso l’impulso nervoso e i neurotrasmettitori chimici, che agivano solo localmente, e nel secondo attraverso sostanze chimiche prodotte dalle cellule delle ghiandole a secrezione interna, che venivano immesse nel sangue e andavano ad agire a distanza anche notevole dal sito di produzione), oggi sappiamo invece che i due sistemi sono strettamente connessi e la divisione è puramente artificiosa. La scoperta che le ‘sostanze informazionali’ (cioè capaci di trasferire informazioni, così come definite da Candace Pert, neurofisiologa, direttrice del centro di biochimica cerebrale del NIMH, National Institute for Mental Health) definite peptidi sono prodotte non solo da cellule appartenenti al sistema endocrino classico, ma anche da quelle nervose o del sistema immunitario o del tubo digerente, ha modificato la concezione del sistema endocrino. Si riconosce ormai che l’equilibrio del sistema endocrino è sensibile a situazioni e stimoli emozionali non solo stressanti (un intervento chirurgico o una competizione sportiva, l’attesa di un esame, la morte di una persona cara) ma a tutte le emozioni, comprese quelle che provocano un riso a crepapelle. Ogni 52


emozione è connessa a neurotrasmettitori che stimolano sia direttamente il sistema nervoso inducendo determinate attività mentali quali attenzione, memoria ecc., sia attivando altre emozioni quali dolore-paura-rabbia ecc., sia producendo modificazioni periferiche sul sistema ormonale propriamente detto così da indurre un metabolismo adeguato alle circostanze. Se, ad esempio, una emozione spinge l’individuo ad agire, in particolare a muoversi e reagire in senso attivo (ad esempio ad aiutare qualcuno), l’ipotalamo stimolato da uno specifico “codice” di vari neurotrasmettitori (noradrenalina NA, dopaminaDA, serotonina 5HT, acetilcolina Ach, acido gamma amino butirricoGABA) produce un neuropeptide chiamato CRF che induce l’ipofisi anteriore a produrre un ormone chiamato ACTH capace di agire sul corticosurrene, stimolando la produzione dell’ormone cortisolo. Tutte queste sostanze, sia il CRF, che l’ACTH, che il cortisolo, in vario modo, preparano l’organismo all’azione. Il CRF ha un importante ruolo nella regolazione del sistema nervoso vegetativo stimolando il sistema simpatico con l’aumentata produzione di adrenalina e noradrenalina nel sangue e inibendo il sistema parasimpatico con conseguente eccitazione del sistema cardiocircolatorio così da rendere pronto l’organismo a fronteggiare ogni sforzo fisico. Parallelamente il CRF va a deprimere la produzione di un altro importante neuropeptide, il GnRH gonadotropin realising factor, stimolante la produzione di ormoni sessuali, così da concentrare ogni attività solo sull’azione. L’ACTH oltre ad una azione endocrina di stimolo del cortisolo, possiede anche una azione “centrale” diretta sul cervello stesso rilevabile a livello di risposte comportamentali quali miglioramento della attenzione, delle capacità di prestazione e della reattività. Nel caso di uno stress fisico intenso vengono attivati anche altri ormoni quali gli oppioidi endogeni responsabili della analgesia da stress e la melatonina che regola il nostro sonno. Anche uno stress puramente emozionale determina una attivazione dei 53


principali sistemi endocrini e gli ormoni coinvolti variano a seconda del tipo di emozione, della durata della stessa e della maggiore o minore capacità di farvi fronte. Ecco perciò che, ad esempio, lo stress dovuto alla perdita di una persona cara normalmente non si associa ad una riduzione degli ormoni sessuali, anche se questo può avvenire, mentre uno stress acuto da subordinazione si associa sempre ad una riduzione di questi ormoni. Da quanto detto sin qui è facilmente deducibile l’importanza di affiancare i trattamenti medici delle malattie tumorali a interventi di sostegno o psicoterapeutici, così che attraverso una ristrutturazione di pensieri, credenze e atteggiamenti si possa in qualche modo intervenire di riflesso sul sistema immunitario, accedendo al mondo emotivo dell’individuo malato e influenzandone positivamente stato d’animo e sistema immunitario. La psicoterapia e gli interventi di sostegno psicologico, non possono rappresentare la panacea della guarigione, ma possono senz’altro contribuire ad aiutare il malato a mantenere una buona qualità di vita ed affrontare al meglio il proprio male e a vivere al meglio, per quanto possibile, il proprio stato di salute. È dell’inizio degli anni ’90 un articolo del “British Medical Journal” in cui si sostiene che “l’intervento psicoterapeutico si è mostrato essere una componente del trattamento medico standard piuttosto che un’aggiunta o un’alternativa”; sono ormai incontrovertibili gli studi che mostrano una netta riduzione del dolore (associato al cancro), della nausea e del vomito (associati alla chemioterapia) nei pazienti trattati con tecniche di attivazione e sostegno della mente. Le tecniche utilizzate nei centri di psicooncologia sono: tecniche di rilassamento, ipnosi e autoipnosi, immaginazione guidata, biofeedback. La lotta al cancro e, più in generale, la convivenza con malattie potenzialmente mortali e dolorose non è semplice per chi la vive e per chi assiste il malato, ma la ricerca sembra dimostrare che gli interventi terapeutici e di sostegno 54


affiancati a cure mediche possono essere un valido aiuto, talvolta anche per uscire dallo stato di malattia. David Spiegel (1982), della Stanford University, in una sua ricerca ha scoperto che i malati di cancro, che seguono terapie di gruppo o altri tipi di psicoterapie allungano la propria vita rispetto a coloro che si affidano unicamente a trattamento medico tradizionale. Dagli studi di Spiegel apprendiamo infatti che un gruppo di donne con tumore al seno, che aveva seguito una terapia di gruppo e lezioni di autoipnosi, è sopravvissuto di media quasi il doppio (36.6 mesi) rispetto a un gruppo che era stato curato solo con metodi medici tradizionali (18.9 mesi). La ricerca, durata 10 anni, ha seguito 86 donne di mezza età a cui era stato diagnosticato un cancro al seno. I soggetti erano stati divisi in due gruppi; il primo riceveva solo cure mediche e il secondo, in aggiunta al trattamento tradizionale, frequentava per un anno gruppi terapeutici settimanali. A queste pazienti veniva anche insegnata l’autoipnosi per il controllo del dolore. Alla fine del periodo di 10 anni, 83 delle 86 donne erano morte, ma le donne nel secondo gruppo avevano vissuto quasi 18 mesi in più. Anche se i tumori delle donne del primo gruppo erano di media ad uno stadio più avanzato quando furono diagnosticati, in ambedue i gruppi la malattia si era diffusa nel corpo in modo tipico e col medesimo ritmo; tale dato ha portato Spiegel alla conclusione che la differenza iniziale avesse potuto incidere sul risultato. Nonostante Spiegel, professore associato di psichiatria, avesse intrapreso la ricerca al fine di smentire l’idea corrente che lo stato d’animo giocasse un ruolo importante nel decorso di malattie definite potenzialmente distruttive, alla luce dei risultati ottenuti ha riconosciuto anch’egli che evidentemente devono esserci fattori inaspettati in questo processo e che probabilmente la terapia di gruppo poteva aver dato alle donne una speranza che le portava ad attenersi più strettamente alle cure mediche. 55


In Texas, i coniugi Simonton hanno creato un centro, il Simonton Cancer Center (e ne esistono ormai altri in tutto il mondo, anche in Italia), dove migliaia di pazienti sono stati addestrati professionalmente più di quattromila operatori. Il nucleo del loro lavoro è costituito da tecniche di rilassamento, terapia di gruppo, immaginazione mentale. Il loro metodo insegna ai malati a vivere la loro malattia e i trattamenti in modo più costruttivo, aumentandone l’efficacia grazie ad una migliore gestione dello stress e delle emozioni. Stabilizzare il dolore emozionale consente di stimolare le difese naturali dell’organismo, cioè del sistema immunitario. L’applicazione del metodo consente al malato di re-interpretare la propria realtà, scoprendo nuove possibilità di scelta, mettendolo in grado di riappropriarsi del potere di decidere consapevolmente della propria vita. L’individuo malato viene stimolato ad impegnarsi attivamente nella direzione della guarigione senza attaccamento ai risultati. La filosofia del metodo si basa sulla presa di coscienza che i pensieri, gli atteggiamenti mentali, lo stile di vita influenzano considerevolmente lo stato di salute. L’American Cancer Society raccomanda l’uso del metodo dei Simonton come terapia aggiuntiva. Nel nostro paese, dove la ricerca deve compiere sforzi sempre maggiori per andare avanti, all’Ospedale romano Forlanini uno studio su 20 donne con cancro alla mammella in cura chemioterapica ha mostrato che la frequenza di nausea e vomito nelle pazienti sottoposte a biofeedback è risultata la metà rispetto a quella riscontrata nelle donne senza sostegno. I risultati delle ricerche citate (e di molte altre) e le esperienze vissute da pazienti e da tutti coloro che li hanno assistiti sembrano insomma confermare l’importanza delle immagini che creiamo nella nostra mente e il ruolo che esse possono svolgere nella nostra vita: la nostra mente ha anche la possibilità di regolare (parzialmente) il nostro stato di salute.

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Tabella c Psiconeuroimmunologia È “lo studio delle interrelazioni tra il sistema nervoso centrale ed il sistema immunitario” (Cohen & Herbert, 1996). Secondo questa scienza lo stress causerebbe l’indebolimento del sistema immunitario, rendendo così l’organismo più vulnerabile all’invasione di microrganismi come batteri, virus, funghi e parassiti. Pertanto individui sotto stress sono più suscettibili alle malattie (dal comune raffreddore a malattie più drammatiche come il cancro o le patologie autoimmuni). I primi studi effettuati in questa direzione hanno chiarito che esistono delle vie che connettono fisicamente il sistema nervoso centrale (S.N.C.) ed il sistema immunitario (S.I.); inoltre cambiamenti indotti chimicamente nel sistema nervoso centrale provocano cambiamenti del sistema immunitario. Ancora, alcune sostanze chimiche prodotte dal sistema immunitario possono attraversare la barriera emato-encefalica e alterare il funzionamento del S.N.C. Fibre nervose di tipo adrenergico e peptidergico, ad esempio, fuoriescono dal midollo spinale e tramite il sistema simpatico vanno ad innervare timo, midollo osseo, milza, linfonodi e tessuti linfoidi dell’intestino per poi diramarsi ed avere “giunzioni neuroimmunitarie” con linfociti (Bottaccioli, 1995). Altri studi hanno mostrato che le modificazioni del comportamento indotte per condizionamento classico possono alterare il funzionamento del sistema immunitario (Ader & Cohen, 1993). Il comportamento (e di riflesso la psicologia) può quindi influenzare direttamente il S.I. (la biologia) rendendo l’organismo più vulnerabile alle malattie. In alcune ricerche lo stress è stato indotto in laboratorio con svariati stratagemmi. In alcuni casi si è evidenziato un aumento del numero delle cellule natural killer (NK) e delle cellule T helper e, più generalmente, una minore efficacia della funzione cellulare nel sistema immunitario. Tali effetti si possono ottenere già cinque minuti dopo l’induzione dello stress (Herbert, Cohen & Marsland, 1994). Poi, una volta che lo stressor è scomparso, si ritorna alla normalità in un las57


so di tempo che va da un’ora (Kiecolt-Glaser et al., 1992) a quarantotto ore (Sieber et al., 1992). Questa variabilità ha portato l’interesse sullo studio delle variabili individuali, nell’ipotesi che alcuni soggetti possano essere maggiormente vulnerabili allo stress di altri (Cohen & Manuck, 1995). La relazione tra stress e sistema immunitario potrebbe essere mediata dal sistema nervoso simpatico, quella parte del sistema nervoso centrale da cui dipende la risposta di attacco e fuga e che è più direttamente coinvolto nelle emozioni. Risultati di questo genere sono stati ottenuti anche in alcune ricerche di tipo naturalistico, non sperimentale, sullo stress. Ad esempio, uno studio diaristico condotto da Stone ed il suo gruppo (1994) su un periodo di dodici settimane mostrava sistematiche alterazioni nella funzione immunitaria in seguito ad eventi di vita di tipo positivo e negativo. Numerosi studi sono stati condotti anche su studenti, prima di un esame, dimostrando soppressione della funzione immunitaria (ad esempio, Glaser et al., 1991).Una ulteriore prova dell’influenza psicologica sul sistema immunitario ed endocrino proviene dagli studi sulla relazione tra questi sistemi e i disturbi affettivi. Tali studi mostrano che la funzione immunitaria è soppressa negli individui clinicamente depressi ed anche in campioni non clinici di individui con umore depresso (Herbert & Cohen, 1993). Secondo alcuni studiosi, tutti i disturbi depressivi sono riconducibili a pressioni esterne, potrebbero quindi essere queste pressioni esterne a provocare sia la depressione che i suoi correlati fisiologici. L’idea, quindi, è che la soppressione immunitaria che si osserva in individui depressi potrebbe essere dovuta allo stress (Cassidy, 1999). Questo è confermato ulteriormente da studi che mostrano un’associazione tra la soppressione della funzione immunitaria e l’ansia (Locke et al., 1984), nonché da studi di tipo diaristico che mostrano come le fluttuazioni dell’umore siano associate regolarmente ad alterazioni della funzione immunitaria (Stone et al., 1994). Sono stati effettuati anche diversi studi basati su prove di stimolazione di risposta immunologia ai virus, nei quali i soggetti vengono esposti in modo controllato ad un virus, come quello del raffreddore (Cohen et al., 1995). Queste ricerche hanno ribadi58


to l’esistenza del nesso tra stress e sistema immunitario. È importante sottolineare che questa suscettibilità vale anche per coloro che non vivono situazioni di stress particolarmente grave da un punto di vista oggettivo, il solo considerare la propria vita stressante è sufficiente ad indebolire la funzione immunitaria (Cassidy, 1999). L’approccio biologico ha fatto grandi progressi nello spiegare come le richieste esterne possano tradursi in uno stato fisiologico interno all’organismo. Tuttavia, sia in laboratorio che nel mondo reale, le risposte sono soggette a grande variabilità individuale. Data una qualunque richiesta alcuni individui mostreranno segni di stress, ma molti altri resteranno calmi e impassibili. Per spiegare queste differenze individuali occorre guardare ai processi psicologici. Come sostengono Lazarus e Folkmann (1984), “Nessun evento ambientale può essere considerato un agente stressante indipendentemente dalla sua valutazione da parte della persona”. Se le caratteristiche obiettive della situazione bastassero a definire lo stress e le sue conseguenze, allora saremmo in grado di predire il manifestarsi dello stress con estrema precisione. Ovviamente è dimostrato che le cose non stanno così. Data una situazione in cui siano presenti una serie di potenziali fonti di stress, solo alcune delle persone che vi si trovano proveranno effettivamente stress. Possiamo dunque concludere che gli agenti stressanti sono definiti in base al loro significato e alla loro portata emozionale nel mondo fenomenico dell’individuo (Cassidy, 1999).

Tabella c 2 Vi sono ormai numerosi trials randomizzati in cui i pazienti oncologici vengono inseriti in bracci sperimentali in cui si offrono “pacchetti” integrati di intervento psicologico (terapia di gruppo, counseling supportivo, terapia di rilassamento, biofeedback, ipnosi). I risultati, benché non sempre univoci, tendono a dimostrare che l’intervento psicologico influisce positivamente sulla sopravvivenza dei pazienti, con follow-up molto 59


lunghi, anche di 10 anni dalla terapia. Fino ad oggi, l’interpretazione prevalente di questi studi puntava verso l’idea che il maggior benessere psicologico e una migliore qualità di vita aumentassero il senso di controllo del paziente sulla malattia e quindi la compliance terapeutica. Negli ultimi anni sta emergendo un’altra ipotesi di spiegazione. La sopravvivenza potrebbe essere dovuta alla mediazione dei meccanismi neuroimmunologici. Alcuni studi pubblicati hanno dimostrato che tecniche di rilassamento, guided imagery o la partecipazione anche per breve periodo (ad esempio, 6 settimane) a gruppi psicoeducativi o di counseling supportivo hanno effetti positivi su una serie di parametri immunologici (linfociti, cellule T, cellule NK). La linea di ricerca di psiconeuroimmunologia è fra le più interessanti nella psicosomatica contemporanea. La psicosomatica ha conosciuto una parabola storica particolare nel corso della sua breve vita (la psicosomatica in senso scientifico ha circa 50 anni); ha iniziato occupandosi di meccanismi etiopatigenetici di tipo psicologico nelle patologie somatiche, compreso il cancro. Questa linea di ricerca, fortemente influenzata dalla psicoanalisi, non ha condotto a grandi risultati, dal punto di vista sia conoscitivo che terapeutico. Si è quindi passati, soprattutto negli anni ’80 e ’90, a indagare gli effetti psicologici delle malattie organiche e neoplastiche (studi sulla Health-related Quality of Life) e il modo di affrontare la malattia da parte dei pazienti (studi sui meccanismi di coping e su costrutti come l’abnormal illness behavior o il locus of control). Oggi probabilmente la psicosomatica è abbastanza matura per poter ritornare alle sue origini ed indagare i meccanismi etiopatogenetici delle malattie a partire dallo studio dei meccanismi di mediazione fra mente e corpo, come i meccanismi immunologici o endocrinologici. (Prof. Lesley G. Walker Institute of Rehabilitation University of Hull 215 Anlaby Road Hull, HU3 2PG, UK, Journal of Psychosomatic Research-Vol. 47, N.6/1999 Surviving Cancer:Do Psychosocial Factors Count? Walker G.L., Heys S.D., Eremin O.). 60


Tabella c 3 David Spiegel, nel suo libro Living Beyond Limits (1994), sottolinea l’importanza, per l’andamento della patologia, di un reale confronto con il concetto di morte, con rielaborazione anche a livello filosofico, quale avviene dopo la diagnosi di malattie considerate incurabili, il che rimetterebbe in moto risorse dell’inconscio creativo. Similmente opererebbe l’ipnosi, inducendo stati modificati di coscienza volti ad un utilizzo creativo delle potenzialità dell’inconscio. Naturalmente, l’approccio ipnoterapeutico deve essere estremamente eclettico, in base alla storia personale del paziente. Similmente, nella terapia del dolore si insegna al paziente a gestire i sintomi, valendosi dell’autoipnosi. Si è scoperto di recente che le cosiddette remissioni spontanee sono strettamente correlate al vissuto emotivo, che produce specifici effetti su tessuti e disturbi patologici. A livello neurofisiologico, la correlazione si esplica nelle connessioni del sistema limbico con l’ipofisi, sicché gli stati emotivi alterano positivamente i livelli ormonali in tutto il corpo, e questa è una riprova del fatto che la mente può modulare le molecole a livello cellulare e genetico.

Tabella c 3 (da Siegel, 1986 in Battino R., 2002) CARTA DEI DIRITTI DEL PAZIENTE Bernie Siegel (1986) fornisce la seguente lettera come carta dei diritti del paziente; è scritta sotto forma di lettera aperta ai medici. Caro Dottore, per favore, non nascondere la diagnosi. Entrambi sappiamo che io sono qui per sapere se ho il cancro o qualche altra seria malattia. Se so cos’ho, posso combatterlo e ho meno paura. Se tu mi nascondi la diagnosi e non mi dici come stanno le cose, mi 61


togli la possibilità di aiutare me stesso. Mentre tu ti stai chiedendo se io la comunicherei, io già lo so. Puoi sentirti meglio se non me lo dici, ma il tuo inganno ferisce. Non dirmi quanto tempo ho da vivere! Io solo posso decidere quanto a lungo vivrò. Sono i miei desideri, i miei obiettivi, i miei valori, le mie energie, la mia voglia di vivere che fanno la differenza e prenderanno la decisione! Fai capire a me ed alla mia famiglia come e perché mi sta succedendo questo. Aiuta me e la mia famiglia a vivere ora. Dimmi cosa devo mangiare e di cosa ha bisogno il corpo. Dimmi come usare la conoscenza e come il mio corpo e la mia mente possono lavorare insieme. La guarigione viene da dentro, ma io voglio unire le mie forze alle tue. Se noi due diventiamo una squadra, io potrò vivere una vita un po’ più lunga e migliore. Dottore, non lasciare che le tue aspettative negative, i tuoi timori e i tuoi pregiudizi infettino il mio stato di salute. Non guardare solo alla mia possibilità di star bene, vai oltre le tue aspettative. Dammi la possibilità di essere l’eccezione alle tue statistiche! Insegnami ciò che sai, le tue credenze e le terapie, ed aiutami a portarle nella mia mente. E ricorda, sono le mie credenze e convinzioni ad essere le più importanti. Ciò in cui non credo non può essermi d’aiuto. Devi studiare e conoscere ciò che la malattia significa per me: morte, dolore, o paura dell’ignoto. Se il mio sistema di credenze accetta terapie alternative e non accetta la tua di terapia, non abbandonarmi. Per favore, prova a farmi cambiare idea e a cambiare il mio sistema di credenze, sii paziente con me, aspetta e credi nel mio cambiamento. Potrebbe arrivare un momento in cui io sia terribilmente ammalato e bisognoso della tua terapia e del tuo aiuto. Dottore, insegna a me e alla mia famiglia a convivere con la malattia, anche quando non ci sei tu con me. Concedici del tempo per farti delle domande e dacci un po’ di attenzione quando ne abbiamo bisogno. È importante che io mi senta libero di parlare con te e di farti domande. Vivrò un po’ di più e la mia vita avrà un po’ più senso se io e te sviluppiamo una relazione significativa. Io ho bisogno di te per raggiungere i miei nuovi obiettivi. 62


N.B.: Crediamo che per ogni professionista che si trovi a trattare con pazienti afflitti da gravi malattie, questa lettera possa essere una buona guida al fine di immaginarsi dalla parte del paziente e per considerare che, soprattutto nei casi di individui malati terminali, può essere fondamentale agire proprio sul loro sistema di credenze. Non si può infondere speranza nel paziente se non si prova ad avere per primi speranza, non si può aiutare il paziente a credere che esiste una possibilità se per primi non si accetta questa convinzione; e senza di questo non si può pertanto neanche aiutare il corpo, non solo la mente, del paziente a reagire. Di certo non si può neanche ‘miracolosamente’ guarire un paziente terminale, ma si può informare il paziente su ciò che accade, si può dedicare tempo alle sue domande e sopratutto, pur rimanendo all’interno di una cornice professionale, si può creare con lui una relazione significativa.

Tabella c 4 (da Robertson I., 2003) All’University College Hospital di Londra sono stati studiati alcuni pazienti in attesa di operazione al colon. A metà di costoro sono state mostrate videocassette sull’uso dell’immaginazione per attenuare i più comuni sintomi postoperatori legati a questo tipo di interventi. In tali filmati, veniva suggerito loro di immaginare di sentirsi male, e poi di immaginare pensieri e sentimenti legati ad affrontare i sintomi, ad es. “persuadetevi che il dolore che avvertite è sotto controllo”. Altri sintomi come dolore, debolezza e secchezza della bocca sono stati ugualmente visualizzati chiedendo ai pazienti di immaginare di dover affrontare anche quei sintomi. Rispetto al gruppo di controllo il gruppo che ha fatto uso dell’immaginazione ha fatto ricorso ad una quantità di analgesici significativamente più bassa, ha provato meno dolori e malessere, e ha registrato un tasso minore di cortisolo nel sangue. I pazienti hanno visionato le videocassette per soli 49 minuti. Questo ed altri tipi di studi sembrano indicare che è possibile non solo visualizzare scene piacevoli per rilassarsi ed essere meno ansiosi, ma anche situazio63


ni complesse come le reazioni ad una situazione di dolore e malessere. Segue un’esercitazione a riguardo. Il tallone d’Achille Ognuno ha il proprio tallone d’Achille: una situazione che non vorrebbe dover affrontare, ma che non è possibile non affrontare. Per alcuni può essere una cura medica o chirurgica. Per altri l’idea di incontrare un particolare collega, un superiore o l’ex partner che trovano stressante. Qualunque sia il vostro tallone d’Achille, chiudete gli occhi e immaginatevi in quella situazione. Non limitatevi a raffigurarla, sentitevi in quella situazione, con vista, udito ed ogni altro senso. Tentate di richiamare alla mente timori e pensieri che la accompagnano. Ora visualizzate voi stessi fare quello che hanno fatto i pazienti chirurgici in attesa dell’intervento. Visualizzate la vostra reazione. Le vostre sensazioni negative, di tensione, che si dissolvono lasciando il posto a una calma neutralità, a una rilassata freddezza. Nel vostro occhio mentale, immaginate di comportarvi come una persona molto distaccata e rilassata, che affronta la situazione come se dietro questa non ci fosse un’intera storia di angoscia e di timore. Immaginatevi impassibili mentre vi addentrate nella situazione che in precedenza vi intimoriva. La prima volta l’esercizio potrebbe non funzionare, allenatevi. Allenarsi con l’occhio della mente non è diverso dall’allenarsi nella vita reale, bisogna fare pratica. Il vantaggio dell’occhio della mente è che vi permette di entrare in una dimensione in cui potete avere il pieno controllo. Qui, diversamente che nella realtà, si possono creare le condizioni più propizie all’effetto cui mirate; sta a voi visualizzarle nel modo più realistico e dettagliato. Può darsi che vi riesca difficile mantenere il controllo delle immagini, specialmente se la vostra situazione è particolarmente carica emotivamente. Situazioni difficili possono necessitare di un aiuto professionale, per la maggior parte di noi può essere sufficiente l’allenamento. Comunque può essere una buona idea cominciare da situazioni meno sgradevoli, passando gradualmente alle più detestate. 64


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Benson J., Gruppi. Organizzazione e conduzione per lo sviluppo personale e la psicoterapia, 20001, pp. 272 Beutler L.E. - Harwood T.M., Psicoterapia prescrittiva elettiva. La scelta del trattamento sistematico fondata sull’evidenza, 2002, pp. 224 Bozarth J.D., La terapia centrata sulla persona. Un paradigma rivoluzionario, 2001, pp. 240 Campanella V. - Fiori M. - Santoriello D., Disturbi mentali gravi. Modelli d’intervento pluralistico integrato dall’autismo alle psicosi, 2003, pp. 272 Chambon O. - Marie-Cardine M., Le basi della psicoterapia eclettica e integrata, 2002, pp. 288 Clarkson P., Gestalt - Counseling, 1999 II ediz., pp. 192 Clarkson P., La Relazione Psicoterapeutica integrata, 1996, pp. 392 Delisle G., I disturbi della personalità, 20001, pp. 224 Feltham C. - Dryden W. (a cura di E. Giusti), Dizionario di counseling, 1995, pp. 320 Fontana D., Stress Counseling. Come gestire gli stati personali di tensione, 1996, pp. 160 Frisch M.B., Psicoterapia integrata della qualità della vita, 2001, pp. 352 Giannella E., Palumbo M., Vigliar G., Mediazione familiare e affido condiviso. Come separarsi insieme, 2007, pp. 240 Giusti E. - Calzone T., Promozione e visibilità clinica. Motivare i pazienti ai trattamenti psicologici, 2006, pp. 288 Giusti E. - Carolei F., Terapie transpersonali. L’integrazione della spiritualità e della meditazione nei trattamenti pluralistici, 2005, pp. 336 Giusti E. - Chiacchio A., Ossessioni e compulsioni. Valutazione e trattamento della Psicoterapia Pluralistica Integrata, 2002, pp. 176 Giusti E. - Ciotta A., Metafore nella relazione d’aiuto e nei settori formativi, 2005, pp. 256 Giusti E. - Corte B., La terapia del per-dono, 2008, pp. 304 Giusti E. - Di Fazio T., Psicoterapia integrata dello stress. Il burn-out professionale, 2005, pp. 256 Giusti E. - Di Francesco G., L’autoerotismo. L’alba del piacere sessuale: dall’identità verso la relazione, 2006, pp. 208 Giusti E. - Di Nardo G., Silenzio e solitudine. L’integrazione della quiete nel trattamento terapeutico, 2006, pp. 240 Giusti E. - Frandina M., Terapia della gelosia e dell’invidia. Trattamenti psicologici integrati, 2007, pp. 224 Giusti E. - Fusco L., Uomini. Psicologia e psicoterapia della maschilità, 2002, pp. 464

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Nella stessa collana Giusti E. - Germano F., Etica del con-tatto fisico in psicoterapia e nel counseling, 2003, pp. 160 Giusti E. - Germano F., Terapia della rabbia. Capire e trattare emozioni violente d’ira, collera e furia, 2003, pp. 224 Giusti E. - Giordani B. Il formatore di successo, 2002, pp. 224 Giusti E. - Harman R. (a cura di), La psicoterapia della Gestalt, 1996, pp. 224 Giusti E. - La Fata S., Quando il mio terapeuta è un cane, 2004, pp. 448 Giusti E. - Lazzari A., Psicoterapia Interpersonale Integrata, 2003, pp. 160 Giusti E. - Lazzari A., Narrazione e autosvelamento nella clinica. La rivelazione del Sé reciproco nella relazione di sostegno, 2005, pp. 160 Giusti E. - Locatelli M., L’empatia integrata, 2007 (Nuova edizione), pp. 320 Giusti E. - Mancinelli L., Il counseling domiciliare, 2008, pp. 160 Giusti E. - Minonne G., L’interpretazione dei significati nelle varie fasi evolutive dei trattamenti psicologici, 2004, pp. 396 Giusti E. - Minonne G., Ricerca scientifica e tesi di specializzazione in psicoterapia, 2005, pp. 368 Giusti E. - Montanari C., Trattamenti psicologici in emergenza con EMDR per profughi, rifugiati e vittime di traumi, 2000, pp. 192 Giusti E. - Montanari C., La CoPsicoterapia. Due è meglio e più di uno in efficacia ed efficienza, 2005, pp. 320 Giusti E. - Nardini M.C., Gruppi pluralistici. Guida transteorica alle terapie collettive integrate, 2004, pp. 304 Giusti E. - Ornelli C., Role play. Teoria e pratica nella Clinica e nella Formazione, 1999, pp. 144 Giusti E. - Palomba M., L’attività psicoterapeutica. Etica ed estetica promozionale del libero professionista, 1993, pp. 128 Giusti E. - Perfetti E., Ricerche sulla felicità. Come accrescere il benEssere psicologico per una vita più soddisfacente, 2004, pp. 192 Giusti E. - Pitrone A., Essere insieme. Terapia integrata della coppia amorosa, 2004, pp. 240 Giusti E. - Pizzo M., La selezione professionale. Intervista e valutazione delle risorse umane con il modello pluralistico integrato, 2003, pp. 208 Giusti E. - Proietti M.C., La delega direzionale, 1996, pp. 112 Giusti E. - Proietti M.C., Qualità e formazione. Manuale per operatori sanitari e psicosociali, 1999, pp. 184 Giusti E. - Rapanà L., Narcisismo. Valutazione pluralistica e trattamento clinico integrato del Disturbo Narcisistico di Personalità, 2002, pp. 176 Giusti E. - Romero R., L’accoglienza. I primi momenti di una relazione psicoterapeutica, 2005, pp. 176 Giusti E. - Sica A., L’epilogo della cura terapeutica. I colloqui conclusivi dei trattamenti psicologici, 2005, pp. 160 Giusti E. - Surdo V., Affezione da Alzheimer. Il trattamento psicologico complementare per le demenze, 2004, pp. 144 Giusti E. - Taranto R., Super Coaching tra Counseling e Mentoring, 2004, pp. 352

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Nella stessa collana Giusti E. - Testi A., L’Autostima. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 224 Giusti E. - Testi A., L’Assertività. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 224 Giusti E. - Testi A., L’Autoefficacia. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 96 Giusti E., Essere in divenendo. Integrazione pluralistica dell’identità del Sé, 2001, pp. 144 Giusti E., Autostima, psicologia della sicurezza in Sé, 20055, pp. 200 Giusti E., Videoterapia. Un ausilio al Counseling e alle Arti-Terapie, 1999, pp. 176 Giusti E., Tecniche immaginative. Il teatro interiore nelle relazioni d’aiuto, 2007, pp. 272 Gold J.R., Concetti chiave in psicoterapia integrata, 2000, pp. 268 Goldfried M.R., Dalla terapia cognitivo-comportamentale all’integrazione delle psicoterapie, 2000, pp. 288 Greenberg L.S. (et al.), Manuale di psicoterapia esperienziale integrata, 2000, pp. 576 Greenberg L.S. - Paivio S.C., Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata, 2000, pp. 368 Manucci C. - Di Matteo L., Come gestire un caso clinico, 2004 Murgatroyd S., Il Counseling nella relazione d’aiuto, 20001, pp. 192 Perls F., Qui & ora. Psicoterapia autobiografica, 1991, pp. 256 Persons J.B. - Davidson J. - Tompkins M.A., Depressione. Terapia cognitivo-comportamentale. Componenti essenziali, 2002, pp. 288 Preston J., Psicoterapia breve integrata, 2001, pp. 256 Reddy M., Il Counseling aziendale. Il Manager come Counselor, 1994, pp. 176 Santostefano S., Psicoterapia integrata. Per bambini e adolescenti. Vol. I: “Metateoria pluralistica”, 2002, pp. 400 Santostefano S., Psicoterapia integrata. Per bambini e adolescenti. Vol. II: “Tecnologia applicativa”, 2003, pp. 384 Spalletta E. - Quaranta C., Counseling scolastico integrato, 2002, pp. 352

Videodidattica per le psicoterapie scientifiche dell’American Psychological Association • Video Psicoterapia Psicodinamica Breve D.K. Freedheim + Libro Psicoterapia breve integrata di J. Preston € 120,00 • Video Psicoterapia Cognitiva-Affettiva Comportamentale Prof. M.R. Goldfried + Libro Dalla Terapia cognitivo-comportamentale all’Integrazione delle Psicoterapie € 120,00 • Video Psicoterapia Processuale Esperienziale L.S. Greenberg + Libro Manuale di Psicoterapia Esperienziale Integrata € 132,00 • Video La Terapia Centrata sul Cliente N.J. Raskin + Libro La Terapia Centrata sulla Persona di J.D. Bozarth € 120,00

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Nella stessa collana • Video EMDR per Traumi: Movimento oculare Desensibilizzante e Rielaborazione F. Shapiro + Libro Trattamenti Psicologici in Emergenza di E. Giusti, C. Montanari € 118,00 • Video La Terapia Eclettica Prescrittiva J.C. Norcross + Libro Psicoterapia Prescrittiva Elettiva, fondata sull’evidenza di Beutler/Harwood € 120,00 • Video Psicoterapia Multimodale A.A. Lazarus + Libro Le basi della Psicoterapia Eclettica ed Integrata di Chambon - Cardine € 125,50 • Video Psicoterapia Infantile J. Annunziata + Libro Counseling Scolastico Integrato di E. Spalletta, C. Quaranta € 122,00 • Video Ipnoterapia Ericksoniana J.K. Zeig + Libro Ipnosi e Psicoanalisi, collisioni e collusioni di L. Chertok € 120,00 • 2 Video Il Counseling breve in azione J.M. Littrell + Libro Il Counseling breve in Azione di J.M. Littrell € 122,00 • Video Psicoterapia Esperienziale A. Mahrer + Libro Lavorare con le emozioni in Psicoterapia Integrata di Greenberg/Paivio € 127,50 • 5 Videocassette Terapia Cognitivo-Comportamentale per la Depressione per l’autoformazione didattica, libro di G.B. Persons, Costo complessivo: € 275,00 • Video Psicoterapia Comportamentale con paziente ossessivo-compulsivo S.M. Turner + Libro Ossessione e Compulsioni, Valutazione e Trattamento di Edoardo Giusti, Antonio Chiacchio € 127,50 • Video Psicoterapia Pratica con Adolescenti A.K. Rubenstein + Due Libri Psicoterapia Integrata per bambini e adolescenti di Sebastiano Santostefano € 155,00 • Video Psicoanalisi con paziente schizofrenico B. Karon + libro Disturbi mentali gravi di V. Campanella - M. Fiori - D. Santoriello € 120,00 • Video Come gestire il transfert erotico in psicoterapia AA.VV. + libro Etica del contatto fisico di E. Giusti - F. Germano € 115,00 • Video Psicoterapia Interpersonale Ricostruttiva Lorna Smith Benjamin + libro Psicoterapia Interpersonale Integrata di E. Giusti - A. Lazzari € 118,00 • Video Come gestire la rabbia dei pazienti in psicoterapia AA.VV. + libro Terapia della rabbia di E. Giusti - F. Germano € 118,00

Edizioni ASPIC • Video Terapia della Gestalt individuale in gruppo Ginger/Masquelier + libro Psicoterapia della Gestalt di E. Giusti - V. Rosa € 130,00

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Nella stessa collana

EDIZIONE SOVERA STRUMENTI Elliott R. - Watson J.C. - Goldman R.N. - Greenberg L.S., Apprendere la terapia focalizzata sulle emozioni. L’approccio esperienziale orientato al processo per il cambiamento, in corso di stampa, pp. 368 Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., Psicodiagnosi integrata. Valutazione transitiva e progressiva del processo qualitativo e degli esiti nella psicoterapia pluralistica fondata sull’evidenza obiettiva, 2006, pp. 580 Giusti E., Bonessi A., Garda V., Salute e malattia psicosomatica. Significato, diagnosi e cura, 2006, pp. 240 Giusti E., Germano F.., Psicoterapeuti generalisti. Competenze essenziali di base: dall’adeguatezza verso l’eccellenza, 2006, pp. 256 Giusti E., Pacifico M., Staffa T., L’intelligenza multidimensionale per le psicoterapie innovative, 2007, pp. 400 Giusti E. - Tridici D., Smoking. Basta davvero, 2009, pp. 224 Goodheart C.D. - Kazdin A.E. - Sternberg R.J., Psicoterapia a prova di evidenza. Dove la pratica e la ricerca si incontrano, in corso di stampa Norcross J.C., Beutler L.E., Levant R.F., Salute mentale: trattamenti basati sull’evidenza. Dibattiti e dialoghi sulle questioni fondamentali, 2006, pp. 464 Spalletta E., Germano F., MicroCounseling e MicroCoaching. Manuale operativo di strategie brevi per la motivazione al cambiamento, 2006, pp. 480 Wolfe B.E., Trattamenti integrati per disturbi d’ansia. La cura del Sé ferito, 2007, pp. 304

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