Storie di Colonia. Racconti d’estate dalla Bolognese 1932 — 1977

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Storie di Colonia

Racconti d’estate dalla Bolognese 1932 — 1977

A cura di Ilaria Ruggeri Paola Russo e Luca Villa



Storie di Colonia Racconti d’estate dalla Bolognese 1932 — 1977


© 2019 Maggioli Spa via del Carpino 8 - 47822 Santarcangelo di Romagna (RN) Tel 0541 628222 - Fax 0541 621903 www.maggioli.it

Il Palloncino Rosso è una associazione di promozione sociale di Rimini, nata nel 2015.

Finito di stampare nel mese di novembre 2019 ISBN: 978-88-99785-26-0 Il volume è a cura di Ilaria Ruggeri progettazione grafica e ricerca contenuti Paola Russo redazione testi, editing e ricerca contenuti Luca Villa fonti storiche, testi e ricerca contenuti Progetto grafico Ilaria Ruggeri - Studio Taller Stampa Maggioli Spa

Il volume rientra nelle attività di promozione culturale sostenute dalla Regione Emilia-Romagna con la legge L.R. 37/94 (Delibera n. 1058 del 24/6/2019)

Riutilizzasi Colonia Bolognese è il primo esempio, a Rimini, di rigenerazione urbana partecipata di un bene storico e in stato di abbandono, ad opera della società civile. Storie di Colonia è un progetto dell’associazione Il Palloncino Rosso. È vietata la vendita, riproduzione, distribuzione, pubblicazione, copia, trasmissione, adattamento senza l’autorizzazione scritta dei rispettivi e legittimi titolari. www.ilpalloncinorosso.it


Storie di Colonia Racconti d’estate dalla Bolognese 1932 — 1977


Storie di Colonia, prima di diventare un libro, è stato un progetto nato e sviluppatosi grazie a “Riutilizzasi Colonia Bolognese”, l’esperienza di rigenerazione urbana partecipata svoltasi nel biennio 2018-2019 presso l’ex Colonia marina Bolognese, a Miramare di Rimini. Durante i mesi primaverili, estivi ed in parte anche autunnali del biennio, migliaia di cittadini e turisti hanno avuto accesso alla Colonia, concessa dalla Curatela del Fallimento CMV, che attualmente la detiene, all’associazione di promozione sociale Il Palloncino Rosso di Rimini, la quale dal 2015 si occupa di innovazione sociale, rigenerazione urbana e riuso temporaneo di spazi dismessi. L’idea dell’associazione Il Palloncino Rosso è che la rigenerazione urbana non coincida con la sola riqualificazione strutturale e non possa quindi essere un’operazione di evoluto maquillage estetico di “pezzi di città”; d’altra parte, rigenerare non può nemmeno essere l’effetto di un’azione istituzionale che i cittadini (spesso solo tramite i social) criticano oppure esaltano con pari passività. La rigenerazione urbana è anche (e soprattutto) un processo partecipativo che punta alla simbolica riappropriazione dell’identità e della storia dei luoghi di una città. Fra questi luoghi, a Rimini, città di mare che ha vissuto e vive di turismo, non poteva mancare la meravigliosa Colonia Bolognese, che da troppo tempo versa in stato di degrado e che negli ultimi anni ha fatto pace con se stessa, diventando arena illuminata di rassegne cinematografiche, concerti, spettacoli teatrali, shooting fotografici, workshop, manifestazioni gastronomiche ed eventi sportivi.

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Ma soprattutto, grazie a Storie di Colonia, la Colonia Bolognese ha riscoperto la sua storia commovente, riaccogliendo i bambini che ospitava tanti anni fa, i quali hanno partecipato attivamente alla rinascita di un luogo rimasto troppo a lungo solo nella loro memoria, raccontando le loro storie di vita vissuta anche ai bambini di oggi. Storie di Colonia è un progetto bello e meritevole in sÊ, ma acquista ancora maggiore significato (per chi scrive, acquista il suo vero significato) nella relazione con il luogo dove si sviluppa: anche grazie a questo progetto, centinaia di cittadini hanno varcato una soglia che fino a poco tempo fa era identificata soltanto con il degrado e la marginalità sociale. In questo risiede il valore aggiunto del progetto: scovare e raccontare storie non solo per il gusto di farlo, ma anche per contribuire ad una prassi di cittadinanza attiva.

Luca Zamagni Presidente dell’associazione Il Palloncino Rosso

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Storie di Colonia. Racconti d’estate dalla Bolognese, 1932 — 1977 è un progetto che nasce all’interno di #Riutilizzasi Colonia Bolognese, un’iniziativa di rigenerazione urbana e innovazione sociale avviata nel 2018 con la concessione all’associazione culturale Il Palloncino Rosso di una porzione della Colonia Bolognese di Miramare, luogo abbandonato e in grave stato di degrado da ormai molto tempo. L’obiettivo del progetto è quello di raccogliere testimonianze scritte, orali, fotografie, filmati e documenti per mettere in circolo i ricordi, nel racconto delle storie legate alle estati in cui la Colonia fu in uso, fino a costituirne un archivio della memoria.In seguito all’interesse ottenuto durante la precedente edizione di #Riutilizzasi e tramite il passaparola attraverso i canali social dell’associazione, l’eco del progetto ha raggiunto anche la città di Bologna, richiamando l’attenzione soprattutto dei bambini che trascorsero le loro estati in Colonia e con i quali è stata avviata una vera e propria azione di raccolta e documentazione delle storie raccontate dagli stessi. Abbiamo incontrato chi a sette anni aveva progettato una fuga da Miramare, chi aveva visto scivolare la sua stecca di cioccolato nella turca (e, se ci ripensa, risente quella fitta di disperazione bambina), chi ogni mattina si svegliava ai primi chiarori per rubare i colori dell’alba sul mare, chi aveva vinto le medaglie alle olimpiadi in spiaggia e le conserva ancora, chi ricordava il nome della signorina che si occupava della sua squadra, chi il soprannome della suora che li rimetteva in riga con un fischietto, chi aveva trovato un amico, chi aveva perso qualcuno.

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Ci siamo imbattuti insperatamente in un ricordo che Enzo Biagi scrisse più volte, in cui racconta di aver visto il mare per la prima volta davanti alla Bolognese (che ai tempi in cui lui la frequentò si chiamava “Decima Legio”). Ogni giorno riceviamo nuove testimonianze e così la Bolognese, via via, si sta ripopolando di piccole voci, lontane nel tempo. Il 26 marzo abbiamo riportato in Colonia alcuni dei bambini di allora, che ci hanno lasciato entrare nei loro ricordi di infanzia. Durante quella giornata in Colonia, gli studenti del Laboratorio Video del Corso di Laurea magistrale in Design dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, condotto dal docente e regista Federico Bondi, hanno realizzato un video-documentario dal titolo Storie di Colonia. Lasciamo in questo volume una piccola traccia del nostro progetto, sicuri che questa storia, che sa di salsedine e conchiglie, di albe rubate dai finestroni e di passeggiate in riva al mare, di fughe progettate e di cartoline che partivano in valigia già affrancate dai genitori e che ai genitori tornavano bagnate di lacrime di nostalgia, questa storia che sa di Emilia e di Romagna, saprà parlare meglio di noi.

Ilaria Ruggeri, Paola Russo, Luca Villa

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Storie di Colonia. Racconti d’estate dalla Bolognese, 1932 — 1977

p. 15 →

p. 18 →

p. 22 →

1921 — 1931 La prima colonia marina fascista a Riccione

p. 47 →

I genitori

p. 57 →

Le piccole trasgressioni

1932 — 1941 La Colonia marina del Fascismo bolognese Decima Legio

p. 63 →

Fuga dalla Colonia Amedeo Manieri

p. 73 →

Lo svago

p. 83 →

Bella Colonia Ciao Angelica Trotta

p. 97 →

La felicità e la tristezza

p. 105 →

La mia Colonia Raffaella Amadori

p. 111 →

Le regole

p. 121 →

La prima volta che vidi il mare Francesco Resca

p. 129 →

La divisa

p. 139 →

Le Signorine

p. 149 →

Ogni anno mi sentivo sempre più un protagonista Sandro Vanelli

1941 — 1945 Il periodo bellico 1946 — 1959 Il Dopoguerra

p. 24 →

p. 29 →

1960 — 1977 La Colonia marina Bolognese del Cardinal Lercaro E questa è la storia... di Paola Russo

p. 35 →

La partenza

p. 43 →

Sono una bimba che sorride alla donna che sono oggi Angela Tamossi


p. 155 →

La tavola

p. 163 →

Dolci ricordi di Colonia e cotognata Claudia Tabaroni

p. 167 →

L’infermeria e l’isolamento

p. 175 →

La Colonia di Miramare di Rimini Remo Tossani

p. 187 →

La doccia

p. 195 →

Un posto magico tutto per noi Luciana Cavallari

p. 198 →

Le foto delle Storie di Colonia

p. 203 →

RIngraziamenti

crediti fotografici Le immagini della mostra “Storie di Colonia” e dell’incontro con Aldo Bullini sono state gentilmente concesse da Federico Galli © Le immagini dell’evento con Fabio Concato “Tu mi parlavi di una Colonia sopra il mare” sono di Fabio Gervasoni © Le immagini storiche a pagina 18, 31 e 166 sono state gentilmente concesse dalla Biblioteca civica Gambalunga di Rimini, Archivio fotografico.


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18.335 metri quadri di superficie del terreno su cui fu eretta la Colonia

metri di lunghezza dell’edificio

700

il numero medio di bambini accolti in ciascuno dei 3 turni previsti

REPARTO MASCHILE dormitori bagni locali uso guardaroba stireria e magazzino refettori soggiorno e ricreazione


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1.200

camerate, 2 saloni, 4 refettori, e altre 20 sale per i servizi

bambini, la capienza massima della Colonia

6 - 12

l’età dei fanciulli, in gran parte anemici, linfatici e adenoidei

CORPO CENTRALE cucine e servizi annessi uffici di direzione e amministrazione infermerie per malati comuni

REPARTO FEMMINILE dormitori bagni locali uso guardaroba stireria e magazzino refettori soggiorno e ricreazione


«Di tutte la più vasta, fu inaugurata con un sistema sbrigativo e nuovo: non le autorità con le consuete cerimonie, ma mille bimbi con una effettiva presa di possesso...» Il Comune di Bologna, agosto 1932

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1921 — 1931 La prima colonia marina fascista a Riccione La Colonia Bolognese si trova a Miramare, frazione del Comune di Rimini; tuttavia la prima sede fu a Riccione, dove nell’agosto 1921, per iniziativa delle donne del Fascio femminile di Bologna, cominciò «quell’opera di educazione e assistenza che più tardi il Partito riconobbe essere missione e compito preciso della donna fascista». Apprendiamo infatti dal giornale L’Assalto, periodico dei Fasci di combattimento di Bologna fondato nel 1920, che nel giugno 1921 il Fascio femminile bolognese prese l’iniziativa di aprire una «colonia marittima per i figli degli operai italiani» perché aveva a cuore il «benessere materiale delle classi meno abbienti e, prima di tutto di quelli che dell’indigenza hanno di più a soffrire, cioè dei fanciulli». Per fare ciò rivolse un appello a tutti i Fasci della Regione e quello di Modena fu il primo a rispondere. Molto presto venne organizzata una lotteria per reperire i fondi necessari e subito molti privati e commercianti offrirono i loro doni: la pesca di beneficenza si tenne nel cortile di Palazzo Bonora, in via Santo Stefano, e i premi andavano «dall’argenteria agli oggetti di vestiario, dalla cristalleria ai quadri di valore». Lo

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stesso giornale il 2 luglio annunciava che era già stata trovata la sede della futura colonia, precisamente a Riccione. Il 30 luglio si ebbe una seconda pesca nel loggiato di Palazzo Re Enzo. Il giorno seguente il primo gruppo di 35 bimbi era già pronto per partire verso la spiaggia di Riccione «dove la colonia bagnante sta preparando grandi feste per i piccoli ospiti». Le esigue risorse tuttavia non consentirono di organizzare altri turni, nonostante gli sforzi per raccogliere altri fondi presso il Fascio e la popolazione locale. La casa, assai modesta, si trovava ove ora sorge il Grand Hotel. Negli anni successivi comunque la colonia, che nel frattempo aveva cambiato sede spostandosi in una villetta con parco, potè ospitare sempre più bambini, tanto che vennero aumentati i turni e sul finire degli anni Venti la capienza arrivava a 1.200 ragazzi divisi in tre turni di un mese ciascuno (usualmente luglio, agosto e settembre). Provenienti da tutta la Provincia di Bologna e mandati dai Comuni, dai Fasci e dalle organizzazioni sindacali, i


fanciulli avevano dai 6 ai 12 anni, in gran parte anemici, linfatici e adenoidei. Secondo Pina Collina, fiduciaria del Fascio femminile di Bologna dal 1931 e direttrice della struttura, quella riccionese fu «la prima Colonia Marina Fascista [...] Subito dopo, altre ne sorsero, ma prima fra tutte le Colonie fasciste, fu proprio la nostra, la Bolognese». Nell’agosto 1930, durante una visita di Augusto Turati, il Segretario federale del Fascio di Bologna Mario Ghinelli disse: «Mi sono convinto che la nostra colonia apporta un enorme beneficio sia al corpo che allo spirito dei nostri ragazzi della generazione di domani. Niente di più logico, dunque, che la Federazione appoggi e sorregga con tutte le sue forze questa bellissima istituzione […] L’opera richiede moltissimi mezzi e presenta notevoli difficoltà, ma noi non retrocediamo dinanzi ad alcun sacrificio: intendiamo anzi dare alla Colonia un assetto assolutamente stabile e uno sviluppo quale è richiesto dalle necessità dei nostri bimbi bisognosi di cure». Aggiunse che l’Opera, pur godendo delle simpatie delle gerarchie e in particolare di Leandro Arpinati, presentava una importante deficienza: ovvero non possedeva una sede propria, dovendo sempre prendere in affitto dei locali. Così promise che si sarebbe

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provveduto in tal senso e annunciò per la prima volta l’intenzione di costruire al più presto «padiglioni stabili che possano permettere di ricoverare anche un maggior numero di bimbi». A questo scopo la Federazione “Decima Legio” aprì una sottoscrizione e giunsero numerose le donazioni di Enti e privati della Provincia di Bologna, che continuarono anche durante e dopo la costruzione della nuova colonia. Nel febbraio del 1931 sulle pagine de L’Assalto si dava la notizia che «nell’Anno IX della Rivoluzione il Fascismo bolognese inaugurerà sulla spiaggia di Rimini la Colonia Marina; i Padiglioni Permanenti dovranno ospitare oltre 1.000 bambini». Il 26 settembre il Segretario Ghinelli aveva chiesto e ottenuto dal Municipio di Rimini il permesso di costruire: la commissione edilizia esprimeva «all’unanimità parere pienamente favorevole sul progetto presentato, che rappresenta una delle opere più complete e grandiose del genere, ed una superba realizzazione dell’attività assistenziale del Regime».


La prima Colonia Bolognese a Riccione, 1921 collezione D. Alvisi, Bologna

La pagina de L’Assalto del 24 ottobre 1931 che annuncia l’imminente costruzione della Colonia, con i progetti di Tabarroni

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1932 — 1941 La Colonia marina del Fascismo bolognese Decima Legio Il 15 ottobre 1931 Ghinelli, assieme al Podestà di Rimini Pietro Palloni e al progettista ing. Ildebrando Tabarroni, si recò sul litorale di Miramare dove sarebbe sorta la nuova Colonia marina del Fascismo bolognese; subito dopo iniziarono alacremente i lavori, che impegnarono mediamente dai 250 ai 300 operai al giorno, in gran parte manodopera del luogo che così poteva trovare occupazione anche durante i mesi invernali. Ghinelli promise che l’edificio sarebbe stato ultimato in tempo utile per accogliere i primi ospiti la stagione successiva. E fu di parola: infatti il 1° agosto 1932 giunsero in colonia mille bambini e l’inaugurazione avvenne così, senza tante formalità.

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La superficie del terreno ove fu eretta la Bolognese, lungo la Litoranea al confine tra Rimini e Riccione, era di 18.335 mq, di forma rettangolare con una fronte di 301,50 m. Come disposizione planimetrica venne adottato il tipo a padiglioni, per i numerosi vantaggi igienici che comportava, a partire dal corpo centrale a tre piani: al piano sotterraneo trovavano posto le cucine e servizi annessi, al piano terra o rialzato gli uffici di direzione e amministrazione, al piano primo le infermerie per i malati comuni. Questo fabbricato divideva i due reparti per maschi e femmine: il primo rivolto ad ovest (ovvero lato Rimini), il secondo ad est (lato Riccione). Ciascun reparto a sua volta comprendeva due grandi padiglioni, sempre a tre piani: dal basso verso l’alto erano collocati rispettivamente i bagni, i locali ad uso guardaroba, stireria e magazzino, nonché i refettori sul lato mare; poi i locali di soggiorno e ricreazione e una parte dei dormitori; quindi i rimanenti dormitori. Fra i due padiglioni, in entrambi i reparti, vi era un piccolo fabbricato adibito a latrine, lavabi, locali di servizio e del personale, opportunamente isolato


ma comunicante attraverso una galleria coperta. Infine, a conveniente distanza dal gruppo di fabbricati principale, altri due padiglioni: il primo ad uso lavanderia e disinfezione; il secondo, più esterno e a due piani, di isolamento per i malati infettivi. Complessivamente, in questo edificio di 169,10 metri di lunghezza, con una profondità massima di 40 metri in corrispondenza dei padiglioni maggiori, vi erano 14 camerate, 2 saloni, 4 refettori e altre 20 sale per servizi vari; la capienza massima era di 1.200 bambini. I materiali usati furono il calcestruzzo di ghiaia e la calce per le fondamenta, i mattoni e la malta per le murature. Il 15 agosto 1932 la colonia venne ufficialmente inaugurata con una adunata fascista: erano presenti l’On. Leandro Arpinati, Mario Ghinelli, sessantuno podestà dei Comuni della Provincia bolognese, nonché i segretari dei Fasci e dei Direttori, più svariate altre personalità della città emiliana. Nutrita anche la rappresentanza delle autorità locali: su tutti il Podestà Pietro Palloni e il Segretario del Fascio Giuseppe Massani. Arpinati, nel consegnare una medaglia all’ing. Tabarroni, pronunciò queste parole: «Camerati, sono lieto di porgervi il mio saluto in questa ardente città giustamente chiamata la “perla dell’Adriatico”,

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alla quale il Fascismo bolognese è legato da tanti ricordi di battaglie e di vittorie. Sono lieto di unirmi a voi nel plauso al camerata Ghinelli che, interprete fedele, intelligente, dinamico, volitivo, delle direttive del Duce continua con fervore di opere la tradizione costruttiva del Fascismo bolognese». Il 18 agosto il Duce, giunto per fare visita ai seicento giovani fascisti bolognesi del secondo campeggio provinciale, incontrò anche i piccoli ospiti della colonia; due giorni dopo lo stesso fece l’On. Achille Starace. La Colonia Bolognese, come del resto tutte le colonie costruite dal Fascismo, imponeva ai suoi giovani ospiti una vita molto dura, si può dire di stampo militare: orari rigidi, attività ben scandite, il tutto sotto gli occhi attenti delle addette all’assistenza, che erano diplomate e tesserate e dovevano seguire un corso apposito per “vigilatrici di colonia”. Le colonie marine, infatti, erano nate all’inizio del secolo come evoluzione degli ospizi marini, più orientate alla profilassi che alla cura delle malattie infantili tipiche dell’epoca: soprattutto tubercolosi, scrofola, rachitismo e linfatismo. Il Regime fascista sfruttò queste strutture per plasmare la “nuova gioventù del Littorio”: dietro alle finalità educative, di disciplina e rispetto della Patria (la cosiddetta


«bonifica umana») si celava il vero obiettivo: la formazione di futuri soldati. Non a caso tra le attività che scandivano una giornata tipo in colonia vi erano marce, inni e alzabandiera. In questo periodo la colonia accolse dai 700 ai 1.000 bimbi in ciascuno dei tre turni previsti, ma sul finire degli anni Trenta, all’apice del consenso, si arrivò anche a 1.200.

Il saluto dei piccoli ospiti all’On. Arpinati e al Segretario Federale Ghinelli. Il Comune di Bologna, agosto 1932

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Prima dell’entrata in guerra dell’Italia, la Bolognese – come tante altre colonie adriatiche – ospitò anche bambini stranieri: nel 1939 quelli provenienti dall’Albania, nel 1940 i profughi dell’Africa orientale (Libia in particolare) richiamati forzatamente in Patria per essere messi al sicuro (ma così non fu).


La Colonia Bolognese in una cartolina degli anni Trenta

Un dormitorio. Dalla rivista Il Comune di Bologna, agosto 1932

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1941 — 1945 Il periodo bellico

1946 — 1959 Il Dopoguerra

La Colonia cessò la sua funzione nella primavera del 1941, quando venne presa in affitto dall’Esercito per essere adibita ad ospedale militare: alla “Decima Legio” vennero ricoverati soprattutto i reduci dalla Russia. Pochi mesi dopo la struttura venne trasferita alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio). L’Esercito lasciò l’edificio solamente nel dicembre 1943, ovvero diverse settimane dopo l’Armistizio; nello stesso periodo frattanto la Colonia era passata all’Opera Nazionale Balilla di Bologna (la GIL era stata sciolta dopo la caduta del Fascismo). Quindi arrivarono i Tedeschi, che la usarono più che altro come deposito materiali. Dopo la Liberazione, gli Alleati (Inglesi e Americani) vi imprigionarono i soldati tedeschi.

Nell’estate del 1946 la Colonia era ancora occupata dai prigionieri tedeschi, pertanto fu organizzata una tendopoli di fortuna nella vicina Riccione, con l’aiuto dell’ANPI, del Genio civile, del Comando inglese e soprattutto di un nuovo sodalizio, l’UDI (Unione Donne Italiane).

L’Ospedale militare territoriale “X Legio”, ca. 1941-1943. Da A. Pedrazzi, 2011

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La Bolognese fu restituita dagli Alleati al nostro Esercito solamente nel giugno del 1947, quindi tornò in mano al Commissariato per la Gioventù Italiana, che nel frattempo aveva ereditato i possedimenti della disciolta Gioventù Italiana del Littorio. In questo modo fu resa accessibile una porzione della struttura e la Colonia, ormai priva di insegne fasciste, riprese a funzionare. Così raccontava il Giornale dell’Emilia il 2 luglio 1947: «Da parte sua, il Municipio informa che nella prima decade di luglio, nell’edificio dell’ex X Legio, a Miramare di Rimini, sarà inaugurata ufficialmente la colonia estiva del Comune di Bologna. La colonia, che per quest’anno potrà ospitare solamente 1.200 bambini circa, divisi in tre turni, è stata derequisita solo da pochi giorni da parte delle autorità alleate, grazie all’interessamento del Comune». Nel 1948 dunque riprese


l’attività a pieno regime, ospitando turni di 800 bambini. Le cronache riportano in particolare una visita delle autorità bolognesi, guidate dal Sindaco Dozza e dall’Assessore Beltrame, per controllare lo stato dei lavori di ripristino degli edifici. Il complesso, infatti, subì molti danni durante la guerra e il Comune di Bologna si fece carico della maggior parte delle riparazioni; danni causati, a quanto sembra, più da occupazioni e usi impropri che dai bombardamenti. Il Comune felsineo gestì quindi la colonia per circa un decennio, affittandola dal Commissariato G.I., arrivando anche ad assistere fino a 1.000 bambini, poiché vi era estremo bisogno di accogliere tanti fanciulli usciti stremati dal periodo bellico. La colonia, non più fascista,

mantenne tuttavia un’impostazione abbastanza rigida, anche perché il direttore di allora, il prof. Carlo Nanni, era un ex ufficiale dell’Esercito. Il viaggio verso il mare non avveniva più solo con treni speciali, ma anche tramite “torpedoni”, che partivano solitamente da uno dei cortili di Palazzo d’Accursio; in seguito il punto di ritrovo divennero le Scuole De Amicis.

Ginnastica di “reazione” dopo il bagno. Bologna: rivista mensile del Comune, giugno 1957 Un gruppo di vigilatrici. Bologna: rivista mensile del Comune, giugno 1957

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I giochi sulla spiaggia. Bologna: rivista mensile del Comune, maggio 1956


1960 — 1977 La Colonia marina Bolognese del Cardinal Lercaro Nell’ottobre del 1957 il dott. Valente, amministratore dei beni della ex GIL, notificò al Comune di Bologna l’intenzione di riappropriarsi della colonia, con conseguente disdetta del contratto d’affitto. Seguì un fitto carteggio tra i due enti, con il Comune che tentava in tutti i modi di rimandare questa eventualità. Senonché, in gran segreto (stando alla versione dei Comunisti che allora governavano la città) il 18 gennaio 1958 lo stesso Valente cedette la colonia all’Arcivescovo di Bologna, Cardinal Lercaro: l’accordo prevedeva il pagamento immediato di 50 milioni, più altri 150 da versare ratealmente in dieci anni. Questa vicenda divenne motivo di contrasto politico tra il PCI e la DC ed ebbe una certa risonanza anche sulla stampa, poiché quell’anno ci furono le elezioni. La ragione va ricercata non solo nel modo in cui fu gestita tutta la faccenda, ma anche nel fatto che i 200 milioni pattuiti erano esattamente la metà di quelli che il Comune era pronto a versare, perché ad un certo punto aveva avanzato formale richiesta di

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acquisto. Secondo i Comunisti, Valente, sapendo che i potenziali acquirenti erano due, avrebbe dovuto aprire un’asta pubblica. La DC, da parte sua, sosteneva che la colpa era invece proprio del Comune, che aveva troppo tergiversato (l’interessamento della Diocesi, infatti, era giunto prima); inoltre pare che una perizia avesse valutato il complesso immobiliare intorno ai 130 milioni, pertanto la transazione poteva ritenersi tutto sommato vantaggiosa per lo Stato. Infine giustificò il passaggio all’ente religioso concludendo che in questo modo i bolognesi non solo non avrebbero perso la vecchia colonia, ma ne avrebbero avuto anche due, dato che il Comune poteva aprirne un’altra. Il Comune di Bologna tentò l’ultima carta, quella del ricorso al Consiglio di Stato, per sospendere la vendita: ma fu tutto inutile e la colonia – da qui in avanti “Colonia Bolognese del Cardinal Lercaro” – venne gestita dalla POA (Pontificia Opera di Assistenza, poi Opera Diocesana) dal 1960.


Negli anni ’60 e ’70 molte cose cambiarono nella conduzione della Bolognese, ma non solo: infatti la ripresa economica aveva modificato le esigenze delle famiglie italiane, molte malattie dell’infanzia erano quasi debellate ed erano nate così molte colonie gestite da privati, in particolare quelle create dai grandi gruppi industriali per i figli dei propri dipendenti. Le colonie così assomigliavano sempre più a dei centri estivi, le regole erano meno rigide, gli svaghi aumentavano. Da un censimento dell’IBC risulta che sull’intera costa emilianoromagnola si era arrivati al numero considerevole di circa 250 colonie. Poi ad un certo punto le colonie hanno perso la loro ragion d’essere: nel 1977, non potendo più sostenere i costi di messa a norma dovuti alle nuove disposizioni comunali, la “Cardinal Lercaro” è stata ceduta ad una società immobiliare. Cessata la sua funzione originaria, è rimasta inutilizzata e priva di manutenzione per molto tempo. Acquistata dai Ceschina e affidata ad un custode che ne ha fatto un uso improprio adattandola a ricovero per animali, nel 2002 la Bolognese è passata all’imprenditore bellariese Foschi, che la voleva riconvertire in struttura ricettiva; ma dopo alcuni lavori di ristrutturazione, il progetto non è stato portato a termine e il

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complesso è stato rilevato dalla Cooperativa Muratori di Verucchio. Nulla però è cambiato nell’ultimo decennio, prima a causa della crisi del mercato turistico e immobiliare, poi per via del fallimento dell’impresa. A ridare nuova vita alla colonia ci ha pensato così la società civile: in attesa che si faccia avanti qualche altro compratore, il 17 maggio 2018 l’Associazione “Il Palloncino Rosso” ha firmato una convenzione biennale con la curatela fallimentare per il riuso temporaneo del complesso tramite iniziative culturali, nell’ottica della rigenerazione urbana partecipata per contrastarne l’ormai noto degrado.


La Colonia marina Bolognese del Cardinal Lercaro in una cartolina degli anni Sessanta

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Bibliografia essenziale > Archivio della Gioventù Italiana – Ufficio provinciale di Bologna, presso Istituto storico Parri Emilia-Romagna (Bologna). > Argento vivo: campeggio dei Fasci giovanili bolognesi di combattimento: Rimini, 10-20 agosto, anno X, Ed. de l’Assalto, 1932. > L’Assalto: settimanale della Federazione provinciale fascista, Bologna, 1921-1939. > Bologna: rivista mensile del Comune, 1935-1938; 1948-1957. > La colonia del Cardinale, di Mario Cagli (Il mondo, 15 aprile 1958). > Il Comune di Bologna: rassegna mensile di cronaca amministrativa e di statistica, 1932-1934. > Colonia marina bolognese a Miramare di Rimini, in “Miscellanea Genio Civile”, Archivio di Stato di Rimini. > Colonia marina del Fascio di Bologna, in “Licenze edilizie del Comune di Rimini”, 1931, Archivio di Stato di Rimini. > Giornale dell’Emilia, Bologna, 2 luglio 1947. > Il popolo di Romagna: settimanale fascista, Forlì, 20 agosto 1932. > La Rimini che c’è ancora: parte seconda, di Arnaldo Pedrazzi, Panozzo, 2011. > Rinascita: organo del Comitato regionale emiliano-romagnolo di liberazione nazionale, Bologna, 11 luglio 1946. > Il voto alle donne, a cura di Angela Verzelli, Bologna, 1989.

Ringraziamenti Biblioteca civica Gambalunga (Rimini) Biblioteca d’Arte e di Storia di San Giorgio in Poggiale (Bologna) Biblioteca dell’Archiginnasio (Bologna) Istituto per la Storia e le Memorie del ’900 “Parri” (Bologna) Archivio di Stato di Rimini

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“Aldo� Bullini racconta la sua storia in una visita alla Colonia Bolognese, 31 agosto 2019


E questa è la storia... di Paola Russo

Renato Bullini, detto Aldo, è nato a Rimini nel 1925. Abitava nel Ghetto Budrio, chiamato anche “Ghet ad Pandolfini”, al confine con Spontricciolo, a una cinquantina di metri dalla via Flaminia, lungo la strada che dal Ghetto conduce a Casalecchio. Insomma, abitava a Miramare, che ancora Miramare non si chiamava. Nel 1931, mentre si finiva di costruire quella immensa colonia di mattoni rossi, aveva 6 anni. Ma lui non lo sapeva. Il 31 agosto 2019, Aldo Bullini è tornato in colonia per raccontare la sua lunga storia alla Bolognese. Dall’inaugurazione a quell’ultima estate del 1949 in cui ci lavorò come tuttofare. «Appena costruita ero qui che giravo e nel venire dentro la colonia uno mi ha detto: “E tu dove vai?”. Poi mi hanno visto il direttore e la direttrice e hanno detto: “Quanti anni hai?”, ma io non lo sapevo e allora mi hanno domandato: “Vai a scuola?

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Che classe fai?”. Io ero in prima elementare e loro mi hanno detto che avevo 6 anni e allora ero giusto per provare come andavano gli arredamenti. Le panche del refettorio, i tavoli, i lettini... Non mi hanno dato niente dopo in cambio. Però da quel giorno io ho avuto la colonia. E questa è la storia». Aldo Bullini non è stato mai ospite insieme agli altri bambini, non ha fatto le vacanze a Rimini, non ha vissuto la nostalgia della famiglia lontana, perchè vi si ricongiungeva ogni sera. Ma ha partecipato. Da quel primo giorno, in cui è stato scelto come “cavia” per verificare se le sedute e i tavoli fossero a misura di bambino, ha lavorato in colonia fino al 1949 con la sua famiglia. Portava ai maiali le brodaglie avanzate dalla preparazione dei pasti, aiutava dove serviva. È stato il più giovane lavoratore di colonia e si ricorda tutto. Aldo oggi ha 94 anni ma macina ancora chilometri in bicicletta. Quando, 70 anni dopo l’ultima volta, ha rimesso piede in colonia, abbiamo tutti sentito il rumore che ci regalava quel lunghissimo tuffo nel passato. « Mia sorella, mia mamma han lavorato sempre qui. Prima quando c’erano i bambini, poi quando è stato ospedale militare, nel ’42, ’43... che arrivavano i soldati che tornavano dalla Russia con i piedi congelati, e gli tagliavano le gambe. Poi dopo sono

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La Colonia in costruzione Il Comune di Bologna, agosto 1932

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arrivati i soldati inglesi e americani. Andati via quelli, il Comune di Bologna l’ha rimessa a posto la colonia perché i soldati l’avevano un po’ sgangherata e avevano portato via tanta roba. I bambini sono tornati poi nel ’48... Io quell’anno mandavo la macchina da lavare i piatti che era una novità per quei tempi e pure nel ’49 mi avevano ripreso a lavorare qui, ma durante l’estate è venuto un vigile che si chiamava Bianchi, ha chiesto di me e mi ha detto: “Oggi alle 3 devi essere in servizio in piazza Mazzini”. Io avevo fatto la domanda tanto tempo prima e così è andata che ho fatto il vigile per 30 anni. Qui ne abbiamo viste di tutti i colori... nel ’48 ci sono stati 1.000 bambini e circa 200 persone di servizio. Noi abbiamo campato con queste colonie e col mare perché in tempo di guerra le cose da mangiare andavano a tessera, la tessera che dava l’ufficio annonario e ti faceva avere un etto di pane al giorno. E questa è la storia”. E questa è la storia... È il suo intercalare per tutto il racconto con cui ci ha portati, sospesi nel tempo, a visitare i singoli capitoli di una vita eccezionale. Come quando ci ha raccontato che durante la guerra era stato partigiano e aveva salvato “l’americano”. «Il 6 giugno del ’43 io ho trovato l’americano che si era buttato con il paracadute dall’aereo ed era atterrato nella zona di Mulazzano... L’ho caricato

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sulla schiena per portarlo via dalla zona, perché i carabinieri lo cercavano. Io e lui la prima notte abbiamo dormito in un fosso, il grano era alto. Poi l’ho portato a casa mia, i miei non c’erano perché erano sfollati a Coriano. Il rischio però era altissimo perché se fascisti o tedeschi l’avessero trovato avrebbero sterminato tutta la famiglia intera, non badavano ad ammazzare solo lui. E allora da casa mia lo abbiamo portato nei rifugi da un posto all’altro in mezzo ai campi, fino a che non è arrivato il settembre liberatorio e lui è potuto tornare a casa. Ora è sepolto in America. La sua tomba l’ha trovata uno studioso, Daniele Celli, che ha scritto tanto (*) di me e dei miei compagni. Ma quando è tornato a casa, l’americano, ha fatto la sua vita e si è fatto la sua famiglia. Poi ci siamo persi di vista perché non parlavamo la stessa lingua e non ci capivamo». E qui si è fermato Aldo Bullini. Perché era stanco e anche un po’ provato. E forse non si aspettava che in un pomeriggio di agosto del 2019, 70 anni dopo aver calpestato il pavimento della colonia per l’ultima volta, qualcuno gli avrebbe chiesto di ripercorrere tutta la storia della sua vita che si intrecciava con la Storia di un Paese intero. Che questa è. (*) Max E. Johnston 1944: Odissea di un americano tra Riccione e San Marino, ricerca storica a cura di Daniele Celli, Rimini: edito in proprio, 2011

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La partenza

Partenza di bimbi per la Colonia Bolognese fonte: Comune di Bologna, Assistenza scolastica 1946-1950

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Con me partirà anche mia sorella, quasi coetanea, che però potrò vedere, forse, solo durante le due passeggiate giornaliere. I nostri genitori ci accompagnano alle Scuole De Amicis, nei pressi della Stazione Ferroviaria di Bologna, e qui ci dobbiamo salutare. [...] Alle De Amicis, io e tutti gli altri bambini veniamo presi in consegna da persone sconosciute che ci portano a gruppi in varie aule, componendo così la futura squadra di appartenenza. Fin da subito siamo soli e assolutamente estranei l’un l’altro! Dopo aver composto le squadre, andiamo alla stazione, dove ci fanno salire su un treno privato e utilizzato solo per il nostro trasferimento. Alla partenza ci viene a salutare il sindaco, Giuseppe Dozza.

Amedeo Manieri

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estati 1954 — 1957


I ricordi della Colonia cominciano con i preparativi. In casa tutti erano coinvolti. Papà applicava la gomma sotto le suole degli zoccoli di legno appena comprati per fare meno rumore (o forse anche per non consumarli). Ci voleva la divisa. Gonna e pantaloncini blu e casacca a righe bianche e azzurre, confezionati in casa. Su tutti i capi di vestiario le mie sorelle cucivano un numero per facilitare il riconoscimento quando si consegnavano sporchi per la lavanderia. Mi pare di ricordare che venisse fornito un elenco preciso di tutto il corredo da portare. Momento cruciale era il taglio dei capelli: la mamma li lavava, spazzolava e mi facevano le foto prima che la parrucchiera tagliasse un caschetto all’altezza dell’orecchio.

Graziella Cupidi

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estati 1951 — 1953


Volantino promozionale e informativo sul soggiorno in Colonia, 1965. Ricordo conservato da Mauro Baruffa

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Al momento di partire per il mare mia sorella aveva gli orecchioni e dovetti partire sola. Ricordo i preparativi del corredo per la Colonia e le etichette con il nome da apporre sugli abiti. Ma ancor di piĂš ricordo il panico nel lasciare per la prima volta la famiglia per passare un periodo fra estranei. I bambini, come ricordo bene, si radunavano presso le Scuole De Amicis a Bologna, salutavano la famiglia e partivano, in treno, per Rimini.

Clara Tommasini

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estate 1962


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Angela Tamossi durante l’inaugurazione della mostra Storie di Colonia, 31 luglio 2019


Sono una bimba che sorride alla donna che sono oggi Angela Tamossi

Sono stata alla Colonia di Miramare la prima volta nel mese di luglio del 1958. Mi ricordo esattamente la preparazione della valigia: la mia mamma aveva applicato ad ogni indumento la fettuccina su cui aveva ricamato nome e cognome. Poi ci si salutava alla stazione, quando era il momento di andare, con le lacrime agli occhi per quel viaggio in treno che metteva tanti chilometri tra me e la mia famiglia. Ma dopotutto si rimaneva in colonia un mese solo e i genitori mi potevano venire a trovare (una domenica, parlandoci solo attraverso la rete di recinzione).

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Ricordo l’alzabandiera della mattina, la lezione di ginnastica, le passeggiate sul bagnasciuga con le signorine, le interminabili partite con i sassi o con i noccioli delle pesche, il riposino pomeridiano che non ho mai sopportato. Un pomeriggio la signorina ha trovato me e la mia vicina di letto che, invece di dormire, chiacchieravamo. Allora ci ha rincalzato il lenzuolo sopra la testa, e ci ha davvero ammutolite in un silenzio bianco. Pochi mesi fa, a distanza di sessant’anni, sono entrata di nuovo in colonia e ho visto le camerate. Non avrei mai pensato di ricordare dopo tutti questi anni la posizione del letto dove dormivo e mi sono emozionata fino alle lacrime. Dopo l’estate del 1958 sono andata in colonia altri due anni. Tante cose mi sono tornate alla mente ripensando a quel periodo, ma di una non mi sono mai dimenticata: il costume da bagno che a quei tempi era di lana, magari fatto a mano dalla mamma o dalla nonna. Appena indossato cominciava a pizzicare, ma soprattutto quando si usciva dall’acqua del mare la parte bassa cedeva al punto che facevamo fatica anche a camminare!!! Scavando tra i ricordi e i cassetti, ho ritrovato anche una foto del 1958 che mi ritrae al di là della rete. Sono una bimba che sorride alla donna che sono oggi che la guarda con affetto e tenerezza attraverso il tempo.

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I genitori

Partenza di bimbi per le Colonie della “X Legio”: l’ultimo bacio alla mamma fonte: L’Assalto, luglio 1938

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Ho visto il mare, la prima volta, dopo le elementari. Colonia della Decima Legio, Rimini. Ci ho pensato. Ho visto il mare, la prima volta, dopo le elementari. Colonia della Decima Legio, Rimini. Balilla. Grado: capo squadra. Se ci ripenso, sento un acuto odore di marmellata gelatinosa, in mastelli. La merenda tra quei capanni. Con tutta quella sabbia; almeno ci fossero i cammelli, pensavo. Non so nuotare, e anche adesso faccio finta di giocare coi bambini che si tirano il pallone verso la riva. Mio padre venne a trovarmi una domenica, con il treno popolare. Portava camicia, cravatta e giacca. Non si slacciò neppure il colletto. Ci sedemmo in un angolo, noi due soli. Aveva, infilata in tasca, una bottiglia di birra. «Hai sete?», mi domandò. Io mi vergognavo un poco, i miei compagni ci stavano osservando; era goffo, impacciato, così poco balneare, e dissi di no. «Sei contento?», mi chiedeva. «Vi divertite?». A me sarebbe piaciuto tornare a casa, andare a Bologna con lui, ma aveva pagato 120 lire, il medico aveva detto che era una buona cura per la gola, disse che l’acqua salata e lo iodio facevano bene, e gli raccontai che avevo vinto la gara di corsa. In valigia, gliela mostrai, c’era la medaglia, con il duce con l’elmetto. Tratto da “Bagni in colonia”, di Enzo Biagi, in Annali, L’Espresso (19/7/2001)

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Con mia sorella Cristina, cartoline dalla Colonia: “Cari genitori, qui tutto va bene... La Cristina qui si diverte molto ed ha voglia di vedervi tutti. Cara Carla, come stai? Spero bene come noi. Ieri ho fatto la gara di salto in alto ma ho perso. Abbiamo fatto già un bagno e ci siamo divertite molto. Ho fatto molte amiche. Domenica spero che mi venite a trovare. Attendendovi vi salutiamo. Claudia e Cristina”.

Claudia Tabaroni

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estati 1967 — 1971


Il mio babbo era un taxista e aveva una Mercedes nera, lunga e lucente: era il suo strumento di lavoro, pagato a fatica con interminabili ore alla guida, senza sabati, domeniche o ferie. Da mattina a notte. Però, quando ero in colonia si prendeva il lusso di una giornata di riposo e veniva a trovarmi con la mamma: sapevo che sarebbe arrivato e allora, dalle grandi vetrate sui corridoi, guardavo verso la strada, oltre il giardino, di là dai grandi alberi. E la sua auto era lì, lucente nel sole del mattino! Mi portava grosse pesche che mi sbucciava all’ombra delle tende bianche. Toglieva le scarpe e le calze e restava impeccabile nella sua camicia. Mi raccontava di ciò che succedeva a casa ed era contento quando mi vedeva abbronzata e con le guance un po’ più piene. Era contento perché al mare non tossivo. Salutava cortese le signorine e chiedeva loro se fossi brava. Poi passeggiavamo sul bagnasciuga, io tra lui e la mamma. L’ultimo anno era con me anche mia sorella che aveva appena sei anni e allora eravamo tutti e quattro felici sulla grande spiaggia davanti alla Colonia. Poi il babbo ci faceva le foto: lui era un bravo babbo ma come fotografo non era granché, però ci metteva tutto il suo impegno! Sono ricordi molto lontani e molto dolci: il mio babbo, la mia mamma, la Colonia, mia sorella piccola che li abbraccia in lacrime quando la sera ci salutano e tornano a casa. Ora il babbo e la mamma non ci sono più ma mi piace ricordarli felici, nella grande auto, con le pesche mature per le loro bambine.

Raffaella Amadori

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estati 1963 — 1968


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Apparvero dalla spiaggia tutti stanchi e sudati. Ho ancora bene impresso nella memoria quando i miei genitori vennero a trovarmi una domenica. Apparvero dalla spiaggia tutti stanchi e sudati. Anche per loro si trattava della prima gita impegnativa e in treno.

Gilberto Sabbatani

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estati 1962 — 1963


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Le piccole trasgressioni

Bimbi di colonia scrivono cartoline per i loro genitori fonte: L’Assalto, agosto 1938

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Camminare sulla sabbia con i sandalini in mano mi infastidiva e riuscii a fare una piccola corsa e a nasconderli in una buca per riprenderli al ritorno. Giovanna Mordini

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estati 1961 — 1964


La prima volta che andai alla Colonia di Miramare avevo circa 4 anni. C’era una suora che dirigeva la Colonia Bolognese, era una cosa nuova e ne parlavano molto. Io la conoscevo bene perché era la Superiora del collegio che mi ospitava da quando avevo 2 anni e per me era una seconda mamma. Suor Natalina mi portò con sé insieme ad altre bambine e con lei mi sentivo protetta. Dato che camminare sulla sabbia con i sandalini in mano mi infastidiva, ebbi la bella idea di nasconderli in una buca per riprenderli dopo. Al ritorno ovviamente non li trovai e la signorina oltre alla sgridata mi disse che le avrei prese dalla direttrice. Nonostante suor Natalina non mi avesse mai picchiata, lasciai passare del tempo prima di presentarmi: rimasi scalza sul quel pavimento freddo fino a che mi venne mal di pancia. Quando arrivò la direttrice aveva il suo solito sorriso per me, non mi sgridò e mi diede un altro paio di sandali.

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Il grande cancello era aperto e sono scappata. Ho chiesto un passaggio a una signora dicendole che dovevo andare in stazione perché arrivava la mia mamma. Una volta in stazione mi sono trovata il treno per Bologna proprio lì, davanti a me. Sono salita e mi sono nascosta nel gabinetto. A Bologna la strada la sapevo e così, cammina cammina, sono arrivata a casa. Lì ho trovato la sorpresa: i carabinieri erano arrivati prima di me. A casa mia avevano già fatto la denuncia per la mia sparizione. I miei genitori non mi sgridarono ma quello fu l’ultimo anno che mi mandarono in colonia. Wilma Faccini

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estate 1958


Amedeo Manieri alla Colonia Bolognese, 26 marzo 2019


Fuga dalla Colonia Amedeo Manieri

Mi chiamo Amedeo Manieri e ho 72 anni. Dal 1953 al 1958, i miei genitori, nonostante il mio parere contrario, continuarono a mandarmi in Colonia. A Miramare di Rimini. E, per sei estati consecutive, ogni volta la stessa storia… Finito l’anno scolastico, e passato un breve periodo di libertà e spensieratezza, inizio ad avvertire le avvisaglie di quello che mi capiterà a breve. Mia madre compra dei piccoli rotolini di tessuto che riportano tre numeri distinti di colore rosso, li ritaglia con cura e li cuce su tutti i miei indumenti. Dovrò imparare a memoria questo numero perché servirà per identificare sia me che le mie cose... Da lì a pochi giorni sentirò ripetere: «Il numero xxx, venga a ritirare la sua biancheria!». Man mano che si avvicina la data, i miei genitori iniziano molto vagamente a parlarmi del mare,

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di quanto sono fortunato a poterci andare e di quanto farà bene alla mia salute. Immediatamente prima della mia partenza invitano a pranzo un amico di famiglia che, caso strano, fa il barbiere e ha il compito di raparmi quasia zero. Così conciato non mi piaccio, ma naturalmente i miei mi dicono che sto benissimo! Così arriva da copione il fatidico giorno della partenza per Miramare di Rimini! Riesco a sopportare tutto questo solo perché con me partirà anche mia sorella, quasi coetanea, che però potrò vedere, forse, solo durante le due passeggiate giornaliere. I nostri genitori ci accompagnano alle Scuole De Amicis, nei pressi della Stazione Ferroviaria di Bologna, e qui ci dobbiamo salutare. So già che l’UNICO contatto diretto nell’arco di un mese, lo riavremo per una manciata di minuti e DIVISI dalla rete metallica, quando, la domenica che potranno, verranno a farci visita in Colonia. In quei pochi istanti faremo passare solo due dita tra le maglie della rete e stringeremo le due dita dei nostri genitori. Quando le nostre mani si incontravano, dal magone, non riuscivamo neppure a parlare. Alle De Amicis, io e tutti gli altri bambini veniamo presi in consegna da persone sconosciute che ci

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portano a gruppi in varie aule, componendo così la futura squadra di appartenenza. Fin da subito siamo soli e assolutamente estranei l’un l’altro! Dopo aver composto le squadre, andiamo alla Stazione dove ci fanno salire su un treno privato e utilizzato solo per il nostro trasferimento. Alla partenza ci viene a salutare il Sindaco, Giuseppe Dozza. Da molti di noi era considerato come un secondo papà! Nelle sue frequenti uscite in giro per Bologna, specie nei nuovi quartieri in costruzione dopo la guerra, si circondava sempre di tanti bambini, felici di stargli vicino. Io ero uno di quei bambini! Salgo sul treno con una piccola valigia, credo di cartone pressato, e un sacchettino di tela bianca a mo’ di contenitore di una piccola colazione veloce, un paio di sacchettini di cracker e forse una banana... Per me un lusso. Arrivati in Colonia inizia la nostra avventura. Indossiamo la divisa, che consiste in una specie di giacchettino tipo poncho con apertura collo a “V”, senza maniche e a righine verticali grigio chiaro e blu, e un cappellino bianco inamidato con visiera ampia e rigida (ma dopo il primo lavaggio ne uscirà ristretto e con la visiera dimezzata e floscia).

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Da qui in avanti, tutti i giorni saranno pressoché uguali, tranne quelli piovosi, che diverranno molto più lunghi e pieni di nostalgici ricordi di casa, e le domeniche nelle quali, rivedendo i nostri genitori, proveremo sia felicità che disperazione. Tutte le mattine ci svegliano abbastanza presto, dopodiché tutti a lavarci. Scendiamo dallo scalone esterno lato nord e, squadra dopo squadra, entriamo nel refettorio, dove sono già in tavola caffellatte e pane da inzuppare. Dopo colazione, tutte le squadre, sia le maschili che le femminili, si recano nel piazzale centrale cementato, dove, sotto al balcone centrale con personaggi assolutamente a noi sconosciuti (sicuramente con ruoli altisonanti), con l’inno nazionale, si procede all’alzabandiera! All’alzabandiera della domenica, oltre al tricolore, c’era anche la bandiera del Comune di Bologna (bianca con la grande croce rossa). Presenziavano i soliti personaggi a noi del tutto ignoti, ma quella volta nel mese che ci faceva visita il Sindaco Dozza era una gran festa. Dopo l’alzabandiera quotidiano, finalmente andiamo in spiaggia... E inizia la passeggiata, che consiste nell’allontanarsi poco poco dalla Colonia, sia verso nord che verso sud, in fila per due e con il divieto di staccarsi dal compagno. Però quando intravediamo

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conchiglie “preziose”, che noi chiamiamo “pellegrini”, o, meglio ancora, un piccolo cavalluccio marino morto sulla battigia, diventa d’obbligo rompere il divieto. Facciamo di tutto per nascondere e tenere con noi quei piccoli tesori che ci restituisce il mare, ma in un modo o in un altro ci vengono sottratti e non li vediamo più. Se durante la passeggiata avrò la fortuna di incrociare la squadra femminile di mia sorella ci saluteremo per qualche secondo a diversi metri di distanza. I nostri giochi all’ombra di un’ampia tenda rettangolare, sotto cui ci accalchiamo tutti insieme per ripararci dal sole, sono… senza giochi e vengono accompagnati dalla continua litania della signorina: «Non fate le buche!». A questo punto arriva il momento più atteso e liberatorio. A un preciso segnale... TUTTI A MARE! Tutti di corsa in acqua ma senza andare oltre un certo perimetro. Purtroppo non abbiamo neppure il tempo di abituarci all’acqua, che... TUTTI FUORI! Ginnastica al sole per asciugarci e ritorno all’interno della Colonia. Sul piccolo spazio a lato dello scalone opposto al refettorio, ci sono due vasche circolari, con un diametro di circa un metro e venti, smaltate di bianco e con una rubinetteria centrale di sei/otto rubinetti. Prima di pranzo ci si lava le mani e, per

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asciugarle, cantiamo: «Uno, due, tre... fante, cavallo e re», mente le battiamo tre volte alternandole e facendole svolazzare in aria. Sarà il caldo, sarà lo svolazzare, sarà la canzone, ma le mani si asciugano! Siamo pronti per entrare nel refettorio e sappiamo già, dal (chiamiamolo) profumo, se mangeremo pasta asciutta o brodo. Ricordo ancora quel particolare “odore”, per me sgradevole! Il mangiare forse era anche buono ma in quelle condizioni non riuscivo ad apprezzarlo. Finito il pranzo, tutti nei vari corridoi dell’istituto e qui non ricordo se si faceva la dormitina. Ma da tante testimonianze che sono venute fuori in questo gruppo mi pare di capire che il riposino fosse addirittura obbligatorio. Prima di tornare in spiaggia, più che in giochi, ci intratteniamo in svaghi vari. In quei momenti scriviamo sulle cartoline postali che i nostri genitori ci mettevano in valigia già affrancate perché ci mantenessimo in contatto. Loro rispondevano con le lettere che ci venivano consegnate dopo essere state aperte e lette da qualche “vigilante”. Lo ricordo perfettamente in quanto all’epoca – metà anni ’50 – il mio idolo era un pugilatore che arrivò fino al campionato mondiale dei pesi massimi e si allenava allo Stadio di Bologna,

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a poche decine di metri da dove abitavo. Si chiamava Francesco Cavicchi (detto Checco). Mio padre, sapendo di questo mio interesse, inseriva nelle lettere i ritagli di giornale che parlavano di lui! E questo per me rimane un bel ricordo. Un altro passatempo consisteva nell’aspettare di vedere passare un treno merci e di contarne i vagoni, era quasi una sfida a chi trovava quello che ne trascinava di più! Fu allora forse che con alcuni amichetti progettammo la fuga dalla Colonia. Tutte quelle imposizioni, i divieti, il dover chiedere il permesso (senza la sicurezza che sarebbe stato accordato) per tutto, anche per andare in bagno, tutta questa aria di regime, a me e ad alcuni altri, aveva fatto crescere la voglia di scappare... di evadere! Avevamo studiato la recinzione e avevamo scoperto che nell’angolo nord-est alla base interna c’erano grossi sassi che avrebbero agevolato lo scavalcamento. Iniziamo a fare delle scorte, nascondendo alimenti, prevalentemente biscotti. Guardando fuori dai finestroni della sala dormitorio, ci rendiamo conto che uscendo sulla statale, nei pressi della Colonia Novarese, c’è un sentiero che ci potrebbe portare fino ai binari della ferrovia. Sappiamo che seguendo quei binari e dirigendoci verso destra, con pazienza, possiamo arrivare

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a Bologna, o meglio, dai nostri genitori. La progettazione del piano richiede diversi giorni e nel frattempo alcuni di noi abbandonano l’idea. Tra tentennamenti vari arrivano gli ultimi giorni di Colonia e allora decidiamo tutti di annullare la fuga. E così arriva il giorno di spensieratezza assoluta, quello del saggio finale. Non tutte le squadre partecipano all’esibizione. Perlopiù siamo spettatori, ma l’euforia di quell’ultimo pomeriggio è tale che, anche se l’attenzione alle singole esibizioni passa in second’ordine, ci sentiamo comunque protagonisti di quel momento pieno di emozione! Le regole saltano, con liberazione di tutti. E allora via con canzoni, balletti, mascherate e domani si torna a casa, a Bologna, dai nostri genitori!

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Lo svago

Castelli in spiaggia alla Colonia Bolognese fonte: Comune di Bologna, Assistenza scolastica 1946-1950

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La direttrice ci annunciò una sorpresa e presentò un bambino che cantò per noi “Musica proibita”. Ho sempre conservato questo ricordo come un momento magico. Un giorno, forse era domenica, eravamo in refettorio in attesa di mangiare, la direttrice ci annunciò una sorpresa e presentò un bambino che cantò per noi “Musica proibita”. Rimasi molto colpita dalla bella voce, dalla melodia e dalle parole che avrei voluto fossero dedicate a me. Ma la canzone faceva: «Vorrei baciare i tuoi capelli neri / Le labbra tue e gli occhi tuoi severi», e io purtroppo ero bionda!

Graziella Cupidi

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estati 1951 — 1953


E poi c’erano le canzoni a farci passare il tempo... Non penso che gli adulti fossero tutti nostalgici del fascismo. Tutt’altro. Io alla Bolognese ho imparato Bella Ciao e la cantavamo spesso e volentieri!

Angelica Trotta

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estati 1960 — 1966


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Era più proficuo cercarle al mattino, prima del passaggio sulla battigia dei villeggianti, nostri “raccoglitori concorrenti”. Un passatempo diffuso era la raccolta di conchiglie (specie dopo una mareggiata se ne trovavano di intatte) che divenivano oggetto di nutriti scambi per la collezione di ciascuno. Imparai poi che era più proficuo cercarle al mattino, prima del passaggio sulla battigia dei villeggianti, nostri “raccoglitori concorrenti”. Le conchiglie più pregiate erano i “pellegrini”, dalla nervatura a raggiera color arancio ruggine, i gusci di madreperla delle capesante, le lunghe e fragili canocchie: anche i neri gusci dei “peoci” erano rari per mancanza di scogli; le più diffuse erano le vongole grigie, le lumachine di mare e le bianche telline.

Remo Tossani

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estate 1948


Allo scalo di Giò. Allo scalo di Giò si giocava usando il proprio zoccolo. Ci si metteva in cerchio e, al ritmo di una canzone cretina, si passava il proprio zoccolo alla compagna di fianco: “Allo scalo di Giò si gioca al casinò, mirando il sol. Pagherò e pagheremo con lo Zigo Zigo Zà”. Il ritmo accelerava ogni volta di più e alla fine il più imbranato si ritrovava con una montagna di zoccoli davanti.

Tratto da: Janna Carioli, In colonia, Topipittori, 2018

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Che bei tempi quelli! Mi ricordo i lunghi corridoi in cui si poteva giocare quando pioveva. Soliti giochi ma molto belli: il gioco delle ciabatte (non ricordo il nome, ma tutti in circolo si passavano le ciabatte) o ruba-bandiera. Wilma Faccini

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estate 1958


Angelica Trotta alla Colonia Bolognese, 26 marzo 2019


Bella Colonia Ciao Angelica Trotta

Mi chiamo Angelica Trotta e sono stata alla Colonia Bolognese dal 1960 al 1966. Nel ’62 non ci sono andata. Nel ’64 e nel ’66 ci sono stata con mia sorella, di tre anni più piccola. Il treno che ci portava in Colonia non si fermava in stazione ma in aperta campagna in corrispondenza della Bolognese. Poi si attraversava un terreno incolto che arrivava alla strada. Era la parte più brutta del soggiorno, almeno per me. Capisco i bambini che già non ci andavano volentieri e cominciavano il turno in mezzo alle sterpaglie, con nessuno che desse una mano a portare la valigia, che, per quanto piccola, a delle mani altrettanto piccole risultava piuttosto pesante. Ho sempre pensato che chi aveva il potere di ordinare a un treno di fermarsi fuori stazione dovesse essere estremamente potente.

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Solo una volta arrivati in Colonia avremmo saputo di quale squadra avremmo fatto parte. Il numero da applicare al corredino, invece, ce lo comunicavano diversi giorni prima della partenza. Ricordo che mia madre comprava della fettuccia bianca su cui scriveva il nome con l’inchiostro indelebile e lo cuciva su ogni capo. Comprava anche le cifre singole con cui componeva il numero di matricola e lo cuciva accanto alla fettuccia col nome. Mio padre era l’unico della famiglia a lavorare. O meglio, a lavorare fuori casa. La mamma aveva tanto da fare con me e mia sorella e con una interminabile serie di parenti e paesani che dal Sud venivano a curarsi al Rizzoli. Abitavamo in una casa nuova, appena costruita e comprata con davvero tanti sacrifici. C’era il mutuo semestrale da pagare e risparmiare la cifra necessaria era sempre molto faticoso. Ricordo che un’estate, avevo 6 anni, mio padre venne a trovarmi durante la domenica dei genitori. Eravamo seduti sulla sabbia, un po’ discosti dagli altri e mi confessò che non sapeva come trovare i soldi che gli mancavano per completare la rata del mutuo che sarebbe scaduta di lì a pochi giorni. Mio padre era un uomo forte, su cui tutti facevano affidamento e che io ho sempre considerato invincibile. Solo la malattia ha avuto la meglio su di lui. Era tenace, portava sempre a termine gli obiettivi che si prefiggeva. Se confessava

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a me, una bambina inerme, un problema del genere, allora voleva davvero dire che la preoccupazione se lo stava mangiando vivo. Ricordo che la mia reazione fu piuttosto spaventata e lui cercò di rimangiarsi quello che aveva detto, concludendo col suo mantra: «Non preoccuparti, ci pensa il babbo!». E ci riuscì. Non so come fece, ma ci riuscì. Ancora oggi non posso pensare a quel momento sulla spiaggia senza vedere il suo sguardo smarrito e provare un enorme groppo in gola. Caro babbo. Nonostante siano passati tanti tanti anni, una delle cose che mi sono rimaste più impresse, del mio tempo in Colonia, è stata senza dubbio la cerimonia dell’alzabandiera. L’Inno nazionale lo cantavamo intanto che la bandiera andava su. Per entrare nel piazzale suonavano invece l’Inno della Marina, che era bello lungo e permetteva a tutte le squadre di posizionarsi intorno al palo. Avveniva, tutte le mattine prima di colazione, nel piazzale davanti al balcone della direzione, fronte spiaggia. Ogni squadra si metteva in fila, non ricordo bene se unica o per due, e alle prime note dell’Inno si cominciava a marciare da fermi per poi entrare nel piazzale, sempre marciando, secondo un ordine prestabilito noto all’inizio solo alle vigilatrici (da tutti

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chiamate “signorine”), poi, dopo qualche giorno, anche a noi bambini. L’inno era piuttosto lungo ma noi eravamo tanti e occorreva suonarlo per intero per far entrare tutte le squadre. Quando eravamo sistemati sull’attenti, cominciava la cerimonia dell’alzabandiera. La corda era azionata da un maschietto, selezionato non so con quali criteri, aiutato da un adulto. Intanto che il vessillo saliva noi cantavamo con molta foga “Fratelli d’Italia”. Forse dopo seguiva una preghiera, ma quello che ricordo con certezza è che la direttrice spesso si affacciava e ci dava delle informazioni sulle attività della giornata. Avevo già sentito alla radio il modo in cui parlava il duce e trovavo molte assonanze con la direttrice. Questo me la faceva apparire come una specie di despota che poteva disporre di noi come meglio voleva. Però era una suora e mi convincevo che proprio per questo non poteva essere cattiva come Mussolini. Eppure quando partiva con «Bambini! Questo è un altro giorno che il Signore ci manda...», e a seguire le informazioni per la giornata, con quella sua voce retorica e altisonante, era una precisa via di mezzo tra il duce e uno speaker di un documentario dell’Istituto Luce!

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Sicuramente l’impronta è rimasta anche dopo la guerra e quando andavo io, nella prima metà degli anni ’60, gli adulti che erano presenti lì, che fossero le vigilatrici o il personale di servizio, avevano ben presente il tipo di cultura con cui erano stati educati. Le signorine, anche se erano nate a cavallo della guerra, avevano respirato l’atmosfera del Ventennio e con noi erano spesso brusche perché pensavano che si dovesse fare così. L’inquadramento di noi bambini era sicuramente militaresco. Non penso però che gli adulti fossero tutti nostalgici del fascismo. Tutt’altro. Io alla Bolognese ho imparato Bella Ciao e la cantavamo spesso e volentieri! Al termine della cerimonia dell’alzabandiera ci si avviava in refettorio per la colazione, sempre con lo stesso ordine militaresco, anche se le file erano meno allineate e l’andatura mostrava un’infantile nonchalance. Qualche volta ci andavamo cantando e a me piaceva tanto. Mi sembrava che questo accrescesse attrattiva alla colazione, che peraltro era piuttosto monotona e con un latte che mi sembrava non sapesse di niente. Il caffellatte della Colonia non mi piaceva affatto. Era quasi insapore e vagamente marroncino. Il caffè non l’aveva visto neanche da lontano ma sicuramente neanche l’orzo, che a me piaceva tanto e il cui sapore non ritrovavo. Non sono mai stata una persona schifiltosa e ho

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sempre mangiato tutto ma non posso dire che in Colonia si mangiasse bene. Forse proprio per questo ricordo molto bene una tavoletta con su scritto “surrogato di cioccolato”, ma non ho nessun ricordo del sapore che avesse. E poi c’era la marmellata, tutti i giorni, quella doveva essere la merenda. Passando dal dolce al salato, c’era un salume, una via di mezzo tra quello che a Bologna si chiamava salame rosa (buonissimo e, ahimè, ormai introvabile) e una mortadella scadente. Io lo mangiavo perché non c’era altro, ma diciamo che proprio buono non era. Il refettorio lo ricordo bene. C’erano questi tavoloni lunghi lunghi e le panche. Per sedersi si doveva scavalcare. Il cibo non era granché. La pastasciutta non sapeva di niente e in genere era condita col sugo al pomodoro. Di ragù neanche l’ombra, o forse, se c’era, la carne gliel’avevano fatta vedere da lontano. Il giovedì c’erano pollo e patate. Qualche volta pioveva e si stava dentro: ci portavano due o tre squadre alla volta in una sala allestita con libri (mi sembra fossero delle Edizioni Paoline) e ricordini (tipo palle di vetro con la neve, scatole con le conchiglie ecc.) e chi aveva dei soldi si comprava qualcosa. Le signorine avevano ciascuna un quaderno dove erano annotati i nomi dei bambini,

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uno per pagina, con i soldi che avevano all’arrivo e le spese sostenute durante il soggiorno. Qualcuno era più in grana, ma la maggior parte di noi aveva pochino, se non addirittura niente. E poi c’erano le canzoni a farci passare il tempo... Do do do domani vado a casa, re re re respiro l’aria pura, mi mi mi mi sento più sicura, fa fa fa farò quel che mi piace, sol sol sol soltanto mi dispiace, la la la lasciar la signorina, si si si sì sì la lascerò. Do do do domani me ne andrò. Quando sarò a Bologna, vedo la mia mammetta, che alla stazion m’aspetta, m’aspetta alla stazion. Mamma non piangere che ora son da te. Lascia le lacrime e dai un bacio a me. E se gli amici, ti domandano, in che luogo siamo stati, noi siamo stati alla Colonia, per la nostra guarigion. Addio mare, addio compagnia, se vado via, se vado via. Addio mare addio compagnia, se vado via, non ritorno più. E se ritorno, ritorno a primavera, con la bandiera, con la bandiera, e se ritorno, ritorno a primavera, con la bandiera dei tre color. Se la bandiera è bianca rossa e verde, è un colore che non si perde. Se la bandiera è bianca rossa e blu, a Miramare non ci torno più!

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Al primo sole si desta / la cittadella marina / mentre nell’aria risuona / la dolce campana argentina / mentre sul mare d’argento / va il pescatore contento / passa e s’inchina alla sua Madonnina/ dicendole piano così: Madonnina del mare, /non ti devi scordare di me / vado lontano a vogare/ma il più dolce pensiero è per te / Canta il pescatore che va / Madonnina del mare/con te questo cuore/sicuro sarà. L’ultimo raggio di sole / muore sull’onda marina / mentre lontana risuona / la dolce campana argentina/ mentre sul mare d’argento/ va il pescatore col vento (contento) / passa e si inchina... Nel bosco c’è la legna zighin / nel bosco c’è la legna zighin / nel bosco c’è la legna/la bella baion/ zighin zigon / e ciumbalala / nel bosco c’è la legna. Vogliam veder la legna. Il fuoco l’ha bruciata. Vogliam vedere il fuoco. L’acqua l’ha spento. Vogliam vedere l’acqua. Il bue la bevuta. Vogliam vedere il bue. Però non mi ricordo se dopo cantavamo la morte lo ha ucciso. Ricordo però che alla fine faceva: vogliam veder la morte. La morte non si vede. E si concludeva con una bella nota lunga e bassa. Con questa canzone le passeggiate duravano chilometri!

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Ho ricevuto un’educazione molto cattolica, anche se in età adulta ho smesso di frequentare la chiesa con la stessa assiduità. Però ricordo perfettamente le varie funzioni liturgiche. Una di queste ci veniva impartita anche in Colonia a Miramare: la benedizione col Santissimo. Ricordo che in quell’occasione, una volta sola nel turno, veniva il Cardinale Lercaro e noi bambini eravamo radunati nel piazzale. La cerimonia avveniva sempre verso sera. Ricordo che il sole non mordeva più, anzi, non lo vedevamo proprio (tramontava dalla parte della strada), il cielo si tingeva di strisce rosa e si alzava una piacevole brezza a cui era bello esporsi. Ci venivano date delle candele con attorno della carta oleata di vari colori. Non ce n’erano per tutti e si scatenava una lotta per chi riusciva ad accaparrarsene una. Poi le candele venivano accese, si creava un corteo con a capo Lercaro, vestito con i paramenti, che reggeva il Santissimo, tutte le suore della Colonia e forse altri preti che accompagnavano il cardinale, noi dietro e si partiva tutti in fila cantando il Tantum Ergo. Naturalmente a quell’età nessuno di noi bambini sapeva il latino e potete immaginare che strafalcioni venivano fuori. Però a me piaceva immensamente cantare quella salmodia che accompagnava i nostri passi mentre il giorno finiva e le candele brillavano di luci colorate. Poi ricordo perfettamente le litanie successive.

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Dio sia benedetto, benedetto il Suo santo nome, benedetto Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, benedetto il nome di Gesù, benedetto il suo sacratissimo cuore, benedetto il suo preziosissimo sangue, benedetto Gesù nel santissimo sacramento dell’altare, benedetto lo Spirito Santo Paraclito (io pensavo a una specie di aviatore), benedetta la gran Madre di Dio, Maria Santissima (mi sembrava un’imprecazione), benedetta la sua santa e Immacolata Concezione, benedetta la sua gloriosa assunzione (pensavo a che lavoro faceva), benedetto il Nome di Maria, vergine e madre, benedetto San Giuseppe, Suo castissimo sposo (e questo ho verificato si è impresso nella mente di tanti della mia generazione!), benedetto Dio nei suoi angeli e nei suoi santi. Quest’ultima invocazione era da noi pronunciata con grande forza e quasi gridando, a dichiarazione della fine della cerimonia. Poi Lercaro saliva sul balcone della direttrice e ci benediva col Santissimo. Quella sera era per noi un avvenimento mondano, visto che non è che ci venissero offerti molti altri diversivi. Non mi ricordo, invece, che il Sindaco Dozza venisse in Colonia, anche se quando andavo io era ancora in carica. Lercaro sì. Quanto al fatto che la Bolognese fosse considerata di destra, ho ricordi vivi che lo confermano. Abitavo in San Donato, quartiere del tutto scarlatto, e nel mio palazzo c’erano un paio

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di famiglie che facevano molta propaganda per il PCI e una signora commentò un’estate con mia madre: “Certo che se non potete fare altro, mandateli pure dai preti”. Prima di partire per la Colonia, dovevamo fare la visita medica, che comprendeva anche il controllo delle vaccinazioni. In particolare ricordo con terrore l’iniezione per la vaccinazione antitifo/antidifterica che si sommava alla schermografia. La vaccinazione si faceva all’Ufficio di Igiene che era nel cortile di Palazzo d’Accursio, quello col pozzo, mentre la schermografia si faceva al dispensario, in via Gino Rocchi. Oltre a noi bimbi della POA c’era un padiglione destinato ai bambini della Federconsorzi. Avevano divise più belle delle nostre e mangiavano cose diverse (almeno per quanto riguarda la merenda). A noi sembravano bimbi ricchi. Non si sono mai mescolati a noi. Probabilmente non era permesso. Venivano anche da altre regioni. In camerata si andava solo dopo pranzo e la sera per dormire. La sera il sole non c’era già più, quindi se avessimo aspettato non avremmo patito caldo. Il pomeriggio a me sembra che si andasse su subito dopo aver finito di mangiare. Non ho il ricordo preciso, ma a me non piaceva affatto il riposino pomeridiano e anche la minima perdita di tempo, sia pure sotto il sole, mi avrebbe fatto piacere.

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E avrei anche nuotato se me lo avessero fatto fare! E anche snadrazzare era faticosissimo, data la concentrazione di bambini per metro quadro! Entravano nell’acqua le signorine e le suore, si disponevano in un’area a semicerchio e noi dovevamo stare all’interno di quell’area. A me veniva un gran nervoso a fare il bagno così, a pensare che un anno che ero al mare con i miei stavo sempre in acqua. Senza dimenticare che quando si usciva ti facevano correre avanti e indietro per asciugarti, cosa che odiavo, letteralmente. E pensa poi che profondità doveva avere l’acqua: perché già sulla nostra Riviera si tocca per chilometri e poi le suore che stavano in acqua si tiravano su le gonne massimo fino alle ginocchia. Mica potevano far vedere le cosce! Insomma, si stava a riva. Quando andavo io in Colonia, il pagliaccetto era fornito direttamente da loro e noi ci mettevamo mutande, canottiere e magliette. A dire la verità la maggior parte dei bambini metteva solo la canottiera. Ci sono già parecchie foto dove si vedono i pagliaccetti. Ci portavamo da casa anche il costume. Oggigiorno abbiamo tutti diversi costumi da bagno. A quei tempi non ricordo di nessuna bambina che ne sfoggiasse più di uno. I bikini non li portava nessuno. Mi ricordo che in quegli anni girava la storia della Mano nera. Io però non ci credevo, anche se la prima volta che sono stata a Miramare avevo 6 anni.

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Mi facevano paura invece le bambine sonnambule di cui qualcuno mi aveva parlato, anche se non ne ho mai incontrata una. Certo che i locali, per la loro ampiezza e i lunghi corridoi, si prestavano ad ogni sorta di racconti dell’orrore. Quando ho cominciato a leggere Harry Potter, molto prima che facessero i film, mi immaginavo Hogwarts come la mia Colonia di Miramare.

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La felicitĂ e la tristezza

Giochi in acqua per i bambini della Colonia Bolognese fonte: rivista Il Comune di Bologna, maggio 1956

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Ero la consolatrice degli afflitti. Quando qualche bambina piangeva perchĂŠ voleva la mamma, io passavo sotto i letti a prendere i giornalini di Topolino (non ce li avevano tutti) e glieli portavo per distrarla. Per me la colonia era veramente una vacanza! La mamma stava tranquilla ed io ero contenta.

Luciana Cavallari

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estati 1952 — 1953


Non sono riuscita a guarire il dolore per la lontananza. Non sono riuscita, durante il soggiorno, a guarire il dolore per la lontananza da casa, ma direi che nessun adulto mi ha aiutata a superarlo e neppure il contesto si prestava. In sostanza non ricordo di essermi divertita, anzi ricordo di essere stata in castigo!

Clara Tommasini

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estate 1962


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Al mare stavo bene, respiravo, correvo, dormivo, addirittura mangiavo! Quella non era una solo una vacanza, era una terapia, per tentare di ammansire un’asma che mi toglieva il respiro, la forza, il sonno, l’appetito.

Raffaella Amadori

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estati 1963 — 1968


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«Hanno detto che quando l’acqua arriva al cancello ci mandano tutti a casa!» Era un pomeriggio che pioveva forte, uno di quei temporali che non finiscono mai, eravamo alla finestra della camerata al lato nord e guardavamo la pioggia che stava allagando il cortile, quella striscia dove c’è il cancello. C’era agitazione fra i bambini, e non so perché c’erano anche maschi insieme a noi; ho il ricordo di una frase urlata da un bambino: «Hanno detto che quando l’acqua arriva al cancello ci mandano tutti a casa!». C’è stata un’esplosione di gioia.

Giovanna Mordini

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estati 1961 — 1964


Raffaella e Tiziana Amadori alla Colonia Bolognese, 31 luglio 2019


La mia Colonia Raffaella Amadori

La sarta segnava l’orlo del grembiulino a quadretti bianchi e rossi. «L’abbottonatura la mettiamo davanti – aveva detto la mamma – così riesce ad allacciarlo da sola». Io ero in piedi sul tavolo della cucina, contenta di tutte quelle attenzioni; mia sorella, seduta nel seggiolone, osservava, rosicchiando un crostino di pane. Avrei indossato quel grembiulino pochi giorni dopo, partendo per la colonia: avevo appena compiuto sei anni e ad ottobre avrei iniziato la prima elementare. Sapevo scrivere il mio nome, leggere qualche parola, disegnare una casetta, cantare “Il pulcino Roccocò”, dire l’Ave Maria, ma non sapevo scrivere una lettera e soprattutto non immaginavo, neppure lontanamente, cosa fosse una colonia. Il mare, invece, quello lo conoscevo. Avevo un anno quando il babbo, con il suo taxi nuovo, ci aveva portati per la prima volta al mare: la mamma, il nonno ed io, in un casolare immerso nella campagna. Per raggiungere la spiaggia attraversavamo lunghi

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prati: il nonno, che era contadino, strappava ciuffi di erba medica e avvicinandola al mio viso diceva: «Senti come profuma!». Quella non era una solo una vacanza, era una terapia, per tentare di ammansire un’asma che mi toglieva il respiro, la forza, il sonno, l’appetito. Al mare stavo bene, respiravo, correvo, dormivo, addirittura mangiavo! Un medico del Dispensario Antitubercolare, dove andavo per le cure, suggerì ai miei genitori di mandarmi in una colonia marina, per tentare di migliorare il mio stato di salute: la proposta fu accettata. Dopo la visita e la schermografia di prassi, tornammo a casa con l’elenco degli indumenti da mettere in valigia e con una confezione di dolcissime pastiglie contro il tifo! Era fatta: di lì a poco sarei partita, con il mio grembiulino a quadretti, la valigia di cartone che la mia mamma aveva usato quando era andata a fare la mondariso, il cappellino di paglia e un sacchetto con qualche biscotto. In treno c’ero già stata, in terza classe, con il mio nonno, quando andava a trovare sua sorella a Bologna: ma quello era un treno differente. Stavolta sul treno sarei salita da sola, con la mia valigia e il mio sacchettino di biscotti. La stazione era immensa, un brulicare di genitori e di bambini, una voce dall’altoparlante gracchiava istruzioni. «Mi raccomando, fai la brava e mangia». Un abbraccio ed ero sul treno, accanto al finestrino

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e con la mano salutavo la mamma e il babbo. Mi sentivo grande, assieme a tutte quelle bambine: qualcuna, già pratica della situazione, dispensava suggerimenti e consigli, qualcun’altra spiegava come si sarebbe svolta la giornata, altre, ancora, ritrovandosi, ricordavano i momenti trascorsi insieme. La stazione era lontana dalla Colonia: quando scendemmo dal treno, ci trovammo ad attraversare un lungo frutteto ed io, tra quelle piante, mi sentii subito a casa. Poi, alla fine del lungo sentiero, oltre il nastro grigio della strada asfaltata, ecco, finalmente, la Colonia: enorme, di mattoni rossi, grandi alberi nel giardino, prati verdi sui quali abbagliavano lenzuola candide, stese ad asciugare al sole dell’estate. E dietro la Colonia, oltre il grande spiazzo sul quale svettava il pennone dell’alza bandiera, oltre la spiaggia immensa, il mare, azzurro, increspato di onde bianche! E poi l’odore buono di salsedine e lo sciabordio lieve che pareva incantare… E in tutta quella meravigliosa confusione, la bimba con il grembiulino a quadretti rossi si perse. La penombra avvolgeva i lunghi corridoi, costeggiati dalle grandi vetrate, e le luci azzurre della notte cominciavano ad accendersi. Poi una mano gentile prese la mia e una suora sorridente mi chiese: «Bimba, come ti chiami?».

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«Mi chiamo Raffaella, Madre». «E sai qual è la tua squadra?». «No Madre. E poi… Mi sa che mi sono persa». «Penso anch’io». Iniziò lì il vagabondare tra le camerate: «Di chi è questa bambina?». Finalmente trovammo la mia signorina, la mia squadra, la mia camerata. Mi sedetti sul lettino di smalto verde a mangiare un biscotto. Tutto a posto. Sono passati gli anni, i decenni, ma il ricordo della Colonia non mi abbandona e un giorno, tornando da un viaggio, passo davanti a lei: «Fermati». «Perché?». «Quella è la mia Colonia». E mio marito si ferma. Mi guardo intorno e non vedo che la desolazione più assoluta.

«Dove vai, torna indietro, c’è un cartello con il divieto d’ingresso». Divieto? Sposto una transenna ed entro. Nel silenzio della sera che avanza, sento una tristezza infinita calarmi sul cuore: «Colonia, cosa ti hanno fatto?». Entro nel refettorio, salgo ai dormitori, poi prendo il grande scalone che portava alla direzione, passo nei corridoi deserti. E d’improvviso eccoli: sento i passi di corsa dei bambini, e le voci che cantano, e i bisbigli nella notte, e la marcia della Marina, e l’odore del pane

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la mattina, e il fischietto che fa correre tra le onde. E vedo le tende bianche al sole, e i mosconi rossi dei bagnini, e i camici bianchi delle signorine, e le cuffiette nere delle suore, e lo sciroppo rosa per la tosse. E i cappelli da cinesina e i costumi stesi ad asciugare sulla recinzione. Poi di nuovo quel silenzio, quella distruzione, quel dolore. E allora piango, da sola, sull’ingresso della camerata, guardando il mare da quelle finestre, che sembrano tragiche orbite vuote. Povera la mia Colonia, appoggiata sulla riva del mare, come una balena morente, sola, nel silenzio della sera. Sono risalita in auto. Mio marito mi guarda stupefatto: «Perché piangi?». «Per la mia Colonia». Scuote la testa, non capisce: anche lui è andato in colonia e non gli è mai piaciuto… Ma lui non veniva nella mia Colonia! Poi, un giorno, sullo schermo dello smartphone, appare un’immagine: è lei, la mia Colonia! Se ne stanno occupando i meravigliosi ragazzi del Palloncino Rosso, un’associazione che ha avuto in gestione una piccola porzione della Colonia nel tentativo di ridarle vita. Lo raccontano su Facebook. Grazie a loro, ritrovo tanti che, come me, ricordano la Colonia. La speranza rinasce: vecchia Colonia, non ci siamo scordati di te, siamo di nuovo qui e ti vogliamo bene.

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Le regole

La cerimonia dell’alzabandiera alla Colonia Bolognese fonte: rivista Il Comune di Bologna, agosto 1932

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Chi aveva la pelle scottata dal sole rimaneva all’ombra e con rabbia guardava le compagne che si divertivano nel mare. Nel ’49 e ’50 sono stata a Miramare di Rimini. Ricordo che il Sindaco Dozza venne in visita e in quell’occasione si mangiò bene. Ricordo che la prima settimana di colonia non si andava in acqua. Dopo, prima di andare in acqua si passava al controllo delle signorine e chi aveva la pelle scottata dal sole rimaneva all’ombra e con rabbia guardava le compagne che si divertivano nel mare.

Lucia Fanti

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estati 1949 — 1950


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“Vedrai quanti bei bagni farai!�, ... mi diceva mia madre prima della partenza. Credo che il motivo per cui nuoto come un gatto di piombo sia colpa della colonia. Il bagno si faceva solo se: 1) c’era un caldo da schiattare; 2) non tirava un alito di vento; 3) il mare era praticamente una tavola di marmo; 4) non avevi il raffreddore; 5) a gruppi di cinquanta alla volta; 6) lo decideva il bagnino; 7) e, in ogni caso, solo per cinque minuti. [...] Io, come tutti gli altri bambini della colonia, avevo il costume di lana. Il mio era rosso, con la pettorina e le bretelle, lavorato ai ferri da mia nonna.

Testo e immagini tratte da Janna Carioli, In colonia, Topipittori, 2018

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La sveglia la mattina, l’Ave Maria di Schubert. Peccato arrivasse da quegli altoparlanti gracchianti. La mattina l’alza bandiera e la sera l’ammaina bandiera sulle note di “Fratelli d’Italia” e “Il Piave mormorava”. La mattina, le signorine che dormivano in camerata (e come spazio privato avevano una tenda bianca) ci davano i biscotti e le zollette di zucchero che i nostri genitori ci avevano lasciato in valigia.

Claudia Tabaroni e Anna Guglielmini

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estati 1967 — 1971


Quando sono andato soldato ho pensato che i giorni della colonia mi fossero serviti molto. Da ragazzo sono stato di servizio sul confine della ex Jugoslavia. Era il 1972/73, era la guerra fredda. Ho sempre pensato che i giorni della colonia mi fossero serviti molto quando sono andato soldato: adunate, alza-bandiera, ammaina bandiera, silenzio, file per mangiare, divisa, camerate. Mi hanno aiutato a vivere con normalitĂ i miei compiti.

Mauro Baruffa

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estate 1965


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Un giorno alla settimana, si potevano fare acquisti in un piccolo spaccio di souvenir all’interno della Colonia gestito da una vecchia signora. Ricordo che questa signora teneva la sua mercanzia (conchiglie, palle di vetro con la neve dentro, collanine di perline, cartoline) in un grande cesto di vimini, e alla domenica, quando c’erano le visite dei parenti, veniva in spiaggia, sotto i tendoni, a vendere. Aveva in testa un grande cappello di paglia e, particolare che non ho mai dimenticato, un collo stranissimo, pieno di rughe o scottature. Anna Benni

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estati 1962 — 1966


Francesco Resca in visita alla Colonia Bolognese, 8 settembre 2019


La prima volta che vidi il mare Francesco Resca

Avevo otto anni ed avevo appena terminato la seconda elementare e non sapevo che di lì a poco avrei visto il mare. Non sapevo di certo, né mi poteva interessare, che nel 1931 Sua Eccellenza Leandro Arpinati e il fascismo bolognese avessero dato vita alla prima colonia fascista d’Italia, in quel di Riccione, e in breve tempo, con la piena approvazione di Mussolini, all’imponente colonia di Rimini. E che questa colonia si snodasse su una superficie di 20mila metri quadrati, con tre padiglioni a tre piani. Il padiglione centrale ospitava la cucina e i servizi, gli uffici e le infermerie, mentre quelli laterali i reparti (rigidamente separati) maschili e femminili. Avevo otto anni nel 1941, ero figlio di operai e non sapevo cosa fosse il mare. Non sapevo di sicuro che avrei potuto beneficiare di una vita regolata da una materna disciplina, gaia e ordinata, dove il primo e l’ultimo pensiero della mia giornata

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sarebbe stato dedicato a Dio, il primo e l’ultimo saluto alla bandiera nazionale. Avevo otto anni e non avevo mai visto il mare e neppure immaginavo che il Duce avesse voluto che anche i figli degli operai potessero passare qualche settimana d’estate in riviera, per fortificare il fisico e naturalmente partecipare ai riti del regime. Avevo otto anni e una grande curiosità di vedere il mare. Non sapevo, invece, che la mia giornata sarebbe trascorsa in occupazioni svariate e divertenti, letture utili e ricreative, cure elioterapiche e bagni, ginnastica respiratoria e ottimo regime dietetico, giochi sani e competizioni sportive. Avevo otto anni e non avevo mai messo piede nell’acqua del mare, non avevo nozione di squadre di aquilotti, galletti, pulcini e grilli e nemmeno di rondini, farfalle, libellule e lucciole. Avevo otto anni e sapevo di voler vedere il mare, di voler giocare nel mare. Avevo otto anni quando papà Fedele, operaio alle Fonderie Calzoni di Bologna, mi annunciò che avrei avuto l’opportunità di andare per un turno al mare nella famosa “Colonia per i figli degli operai”, poi “Colonie del Fascio” e, via via nel corso del tempo e delle sue trasformazioni politiche, “Colonie degli Industriali Bolognesi”, “Colonie Bolognesi”, “Colonie del Cardinale”. Tutto ciò purché: avessi la divisa da Figlio della Lupa; un adeguato corredo personale a due capi, con applicate in rosso le iniziali del mio cognome e nome, Resca Francesco;

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fossi passato attraverso la visita sanitaria presso l’ambulatorio di via Zamboni; sulle mie magliette fosse applicata con una spilla da balia una tavoletta di canfora a scongiurare la “Spagnola”, l’epidemia d’influenza che aveva decimato il nostro paese nel 1919; nonché, per ultimo, avessi posato con la zia Dina per la foto di gruppo, presso il Dopolavoro Calzoni, a dimostrazione della liberalità degli industriali. Finalmente arrivò il giorno della partenza. Mi trovai di buon’ora, tra una certa confusione, alla stazione ferroviaria di Bologna. Sui marciapiedi dei viaggiatori c’era un via-vai di personaggi tutti in nero, i gerarchi fascisti. Con ordine e disciplina salii sul treno e... via, verso il mare! Improvviso mi assalì un mal di pancia. Senza perdere tempo mi diressi verso la ritirata. Ahimè, tanti avevano il mio stesso problema. La coda era lunga e quando finalmente entrai in quella benedetta ritirata il danno era fatto: i calzoncini della divisa fascista erano irrimediabilmente sporchi. Sono sempre stato un ragazzo timido, pudico, facile al rossore che invadeva il mio viso di fronte alle emozioni che vivevo intensamente. Credo di essere arrossito di vergogna e di aver mantenuto quella colorazione violacea fino a quando non si trasformò in un’esplosione di gioia per la vista del mare. Un boato annunciò l’apparizione del mare attraverso

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i finestrini del treno. Ancora oggi la mia mente conserva la cartolina di quella splendida distesa azzurra. Poi il treno si fermò in mezzo alla campagna. Di nuovo ci furono ordini, urla e grida di mal trattenuto entusiasmo. Fummo aiutati a scendere sulla massicciata. Incolonnati, ciascuno con il proprio bagaglio, fummo portati attraverso i campi a quell’enorme colonia, che ancora oggi esiste e che ai miei occhi di anziano appare ancora grande come a quelli del bambino di allora, senza subire quel naturale processo di ridimensionamento di quando da adulto rivedi ciò che avevi visto da piccolo. Da adulto molte volte sono sceso alla stazione di Rimini e, preso l’autobus, ho raggiunto Riccione per il piacere di camminare lentamente vicino a quei fabbricati e ripensare a quel capitolo della mia vita di bambino: disciplina militaresca, la mattina sveglia, igiene personale, colazione, alza-bandiera con inni del regime, ammaina-bandiera al tramonto. Otto anni e finalmente avevo visto il mare. Ora il mio unico desiderio era toccare l’acqua, fare il bagno. «Signorina, quando andiamo nell’acqua?». «Domani!». E di giorno in giorno si ripetevano la stessa domanda e la stessa risposta. Mentre si moltiplicavano le passeggiate, interminabili passeggiate, lungo una

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spiaggia pressoché deserta, ricca di seppie essiccate che furono la felicità di una certa mia vicina di casa, la signora Maria, e del suo canarino. Le giornate si susseguivano monotone, con due sole varianti. La prima avvenne in occasione della visita di un caporione fascista. Tutti fummo obbligati a indossare la divisa fascista, così dovetti riinfilare quei famosi calzoncini del viaggio d’andata: erano esattamente come li avevo lasciati. Tuttavia ricevetti in dono una palla rossa. Risparmio ai miei lettori la descrizione del mio volto paonazzo per la timidezza e l’imbarazzo: la descrizione delle tonalità del rossore richiederebbe un’intera pagina. Il secondo avvenimento fu la visita dei famigliari, quindi anche di papà Fedele. La visita consistette in un saluto reciproco e in uno sventolio di mani, a debita distanza, nonché nella consegna di due cartoline postali preventivamente pagate da inviare a casa, con i saluti d’obbligo. Ogni sera, dopo cena, venivamo accompagnati sulla spiaggia per una breve passeggiata. Alcune volte fummo sorvolati da aerei che atterravano all’aeroporto di Miramare, a breve distanza dalla Colonia. Per noi ragazzi vedere gli aeroplani pieni di luci sparire tra gli alberi era uno spettacolo emozionante. Una sera capitò addirittura che uno passasse in fiamme sulle nostre teste!

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Una mattina, dopo la colazione, in spiaggia scorgemmo un idrovolante appena ammarato. Ondeggiava lieve al ritmo delle onde. Era una visione magnifica che contemplai per tutta la mattinata. Terribile fu la delusione quando tornando in spiaggia, dopo il riposo pomeridiano, non lo ritrovammo più. Avevo otto anni e avevo visto per la prima volta il mare. Avevo otto anni, ma non so raccontare la delusione di averlo lì, a portata di mano, senza che mi fosse concesso per tutto quel turno di colonia nemmeno un bagno.

Francesco Resca (Santa Viola, Bologna) Tratto da “Frammenti di memoria 3”, Edizioni ANCeSCAO, Bologna 2005

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Una vista aerea della Colonia Bolognese, Biblioteca civica Gambalunga Rimini, Archivio Azienda Promozione Turistica

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La divisa

La tabella con il corredino fonte: Guido Nanni, Organizzazione delle colonie marine, in Atti ufficiali del Terzo Convegno Nazionale di Talassoterapia (Grado, 1929)

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Sono sulla battigia e il fotografo mi ha messo in mano il guinzaglio del cane. Ho ritrovato la mia foto di colonia a Miramare di Rimini: sono sulla battigia e il fotografo mi ha messo in mano il guinzaglio del cane. Io non avevo molta confidenza coi cani. Era l’estate del 1956, avevo 12 anni e un costume, fatto ai ferri con la lana, dalla mia mamma.

Cristina Andreoli

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estate 1956


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Mi elettrizzava il ticchettio secco e sonoro che provocavano nel salire le scale di marmo. Con l’assegnazione del posto letto nella camerata, ci distribuirono anche la divisa della colonia: calzoncini e berretto blu, canottiera e camicia bianca, zoccoli di legno. Questi mi piacquero tantissimo, erano una novità per me e mi elettrizzava il ticchettio secco e sonoro che provocavano nel salire le scale di marmo. Quando esageravamo nel battere i piedi, intervenivano le signorine e, se qualcuno continuava, si beccava una punizione.

Remo Tossani

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estate 1948


Eravamo nella stessa squadra, con la stessa signorina e... vicine di letto! Nella foto siamo Lucia, 11 anni (la più alta), mia sorella Margherita, 6 anni (al centro) e io Anna, 8 anni. Era il 1963, anno in cui noi tre sorelle siamo state contemporaneamente in colonia. Negli anni precedenti o successivi siamo comunque andate in colonia, ma in periodi diversi e non tutte e tre assieme! Ho un bel ricordo di quell’anno, eravamo nella stessa squadra, con la stessa signorina e... vicine di letto! La divisa della foto era quella dei giorni feriali, di un colore rosa/arancio (sbiadito) e cappellino color aragosta. La divisa della domenica era invece: pagliaccetto a quadrettoni rosa/azzurro, casacca rosa e il solito cappellino color aragosta. Ricordo che la “divisa della domenica” ci veniva consegnata al sabato, dopo la doccia settimanale. Dovevamo riporla ben piegata in fondo al letto e indossarla la domenica mattina. Io non ho ricordi brutti o tristi di quel periodo, in colonia ci sono stata benissimo!

Anna Benni

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estate 1963


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A casa di mia madre lo straccio per lucidare le scarpe è un mio asciugamano con ancora il numero 112. I numerini si compravano in stringa dal merciaio. Poi la mamma li componeva uno per uno nella matricola di tre cifre e li cuciva sui capi. A casa di mia madre lo straccio per lucidare le scarpe è un mio asciugamano con ancora il numero 112. Parlo della matricola personale. Non ricordo di numero della squadra cucito sui capi. Mi è però successo di ricevere dopo la doccia capi puliti che non erano miei perché erano stati letti male i numeri di matricola. Mio padre faceva l’elenco di quello che mi portavo in colonia e lo batteva a macchina su un foglio che incollava all’interno della valigia, così quando tornavo potevo controllare di avere tutto. In effetti non mi sembra di aver mai perso niente.

Angelica Trotta

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estati 1960 — 1966


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Le Signorine

Alcune “Signorine� della Colonia Bolognese fonte: rivista Il Comune di Bologna, giugno 1957

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Eravamo una squadra speciale perché io combinavo sempre qualcosa che dava fastidio alle suore. Mi piacerebbe rintracciare le mie bimbe, eravamo una squadra speciale perché io, non avendo mai fatto l’assistente prima di allora, combinavo sempre qualche cosa che dava fastidio alle suore e venivo sempre richiamata in direzione. Ma le mie bimbe erano favolose. Le più grandi mi aiutavano a fare le trecce alle più piccole e ci divertivamo molto, tanto che anche bimbe di altre squadre si univano a noi. Mi ricordo che avevamo una suora simpaticissima, la chiamavamo “Fernandel” (perché sembrava lui vestito da suora!).

Angela Lazzari

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estate 1968


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La signorina che ci aveva in consegna era terribile. Anche se non avevi sonno dovevi far finta di dormire e non disturbare. Se ti sorprendeva a parlare con la tua vicina di letto ti metteva in piedi o in ginocchio in mezzo al corridoio del camerone per diverso tempo che ora non riesco a quantificare.

Emma Contu

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estate 1969


«Bimba, come ti chiami?». «Mi chiamo Raffaella, Madre». «E sai qual è la tua squadra?». «No Madre… Mi sa che mi sono persa». «Penso anch’io». Iniziò lì il vagabondare tra le camerate: «Di chi è questa bambina?». Finalmente trovammo la mia signorina, la mia squadra, la mia camerata. Mi sedetti sul lettino di smalto verde a mangiare un biscotto. Tutto a posto.

Raffaella Amadori

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estati 1963 — 1968


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Grande Zelinda! A tavola mi ricordo piatti di pasta al pomodoro e minestrine in brodo. Ma ricordo che alla signorina davano un quarto di vino bianco, forse la domenica. Zelinda, la signorina, non lo beveva, e allora ce ne dava un goccio come premio, insieme all’acqua. Grande Zelinda!

Claudia Tabaroni

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estati 1967 — 1971


Sandro Vanelli, con la moglie Graziella Zini, in visita alla Colonia Bolognese, 28 settembre 2019


Ogni anno mi sentivo sempre più un protagonista Sandro Vanelli

Mi chiamo Sandro Vanelli, sono nato il 15 aprile del 1944 a Monte San Pietro, un Comune della Provincia di Bologna, e sono entrato in colonia nel giugno del 1950. Avevo compiuto 6 anni ma ero ancora analfabeta perché non ero mai andato a scuola. La scuola iniziava il 1° ottobre. La partenza era stata un po' problematica, però, strada facendo e arrivando alle scuole De Amicis con la cosiddetta corriera, l'autobus, facemmo alcune centinaia di metri per arrivare in stazione e da lì salii per la prima volta sul treno: destinazione Rimini. Per me era una cosa nuova ed emozionante anche se mi allontanavo dalla famiglia, però nel viaggio avevo alcuni amici del mio paese più grandi di me che mi faceva un po' da tutor: infatti se non ero il più piccolo ero tra i più piccoli di età e di altezza della colonia. Arrivati lì mi ritrovai in mezzo alla confusione di quasi 1.000 bambini e io invece ero abituato a frequentare il cortile del mio agglomerato dove ci si trovava in 7... 8... 10 bambini!

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Arrivati in colonia insieme a questa platea di bambini è stata una cosa prima un po' preoccupante, dal momento che eravamo davvero in tanti in tanti, poi però mi sono inserito molto bene e mi sono anche divertito. La cosa che mi piaceva di più era quando si andava a fare il bagno, ma la cosa più importante era che in quella colonia si mangiava tre volte al giorno e invece a casa mia, dove eravamo in sette fratelli in una famiglia un po' di basso livello, si mangiava una volta al giorno e quando andava bene una volta e mezzo. In colonia qualcuno si lamentava anche del cibo che per me era molto gradevole. Poi pian piano mi sono inserito e ho cominciato a conoscere delle figure nuove... Quella che mi metteva un po' in soggezione era la direttrice: quando la mattina c'era l'alzabandiera e veniva giù la direttrice per quella scalinata, sembrava di vedere un generale tedesco, pensandoci adesso. Però proprio lei, a un certo punto, mi ha fatto anche protagonista, affidandomi il compito dell'alzabandiera: mi sentivo molto importante, e cantavo l'Inno d'Italia a squarciagola. Poi si verificò un fatto, che due fratelli che erano in colonia con me e cercavano sempre di farmi arrabbiare, una mattina esagerarono davvero e allora anche io esagerai: avevo gli zoccoli in legno e, preso dalla rabbia, ne lanciai uno e feci una ferita nella testa a uno dei fratelli. Fu così che per penitenza mi tolsero dall'alzabandiera. 152


La cosa ancora triste era quando venivano a trovare i genitori. I miei genitori non sono mai venuti ma almeno così mi risparmiavo di vivere in prima persona la scena a cui assistevo: i miei amici che si attaccavano alla rete per comunicare come si fa probabilmente in un parlatorio del carcere. Un'altra cosa che era poco divertente era quando la sera si faceva la passeggiata sulla spiaggia e si vedevano delle conchiglie, che per noi era una cosa nuova, ma era vietato sganciarsi dal gruppo, in cui ci tenevamo a due mano per mano, per poter raccogliere queste cose. Un altro aneddoto che ricordo è legato a una delle prime sere nelle camerate: chiamai una signorina dicendo che qualcuno mi aveva rubato la valigia, la mia valigia di cartone. Invece non è che me l’avevano rubata, avevo sbagliato letto, c'era una fila di letti infinita, tutti uguali, e allora dopo qualcuno di noi aveva fatto un segno sul muro per ricordarsi dov'era, perché c'erano file di 30, 40 letti per volta... Gli anni successivi invece la cosa è stata più facile. Io alla Colonia Bolognese sono andato per tre anni e ogni anno mi sentivo sempre più un protagonista, come i militari mi sentivo l'anziano, conoscevo la colonia, conoscevo l'ambiente, e mi trovavo a mio agio nonostante mi capitasse di avere dei momenti di tristezza. Capitava dei giorni, per un motivo o un altro, poi però c'erano le sere che si faceva il cinema, 153


le sere che si faceva una specie di saggi, tante tante cose positive... La cosa che mi ricordo è che quando si era così in tanti, in compagnia, se non con uno, con un altro riuscivi a realizzare il modo di giocare: un giorno litigavi con uno ma con tanti bambini potevi giocare con un altro! Poi i giorni prima della partenza erano tutti euforici, allora venivano delle signore con delle ceste a vendere i ricordini del mare, tutti oggetti fatti con le conchiglie. Il fatto era che io non avevo i soldi e non potevo comprare. Allora mi ricordo una certa signora Australia, o un nome del genere, che mi regalò una cappa un po' più grande del solito, me la regalò perché piangevo. Poi mi ricordo della signorina Lucia, che era quella che capeggiava il nostro gruppo e questo ricordo è di una dolcezza infinita perché lei aveva tutte le attenzioni per noi bambini, uno piangeva o si faceva male e lei non era mai arrabbiata o ci sgridava. Io ho avuto una vita molto molto attiva anche in seguito, a scuola ero molto bravino, infatti a scuola ero l'animatore: avevo delle diapositive chiamate “Don Bosco” ed ero diventato l'attivo che proiettava questi filmini a scuola, e poi non solo nella mia classe! Stavo lì e a mezzogiorno la maestra mi portava un panino con la mortadella ed io al pomeriggio, perché

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c'erano due turni, andavo a fare queste filmini anche nelle altre classi. Oltre alla colonia io fino all'età di 13 anni sono stato un po' uno scugnizzo, ho fatto di tutto e di più, come ad esempio, quando avevo 5 anni, un giorno, scappati da scuola materna, abbiamo deciso di andare al fiume con il mio amico di una vita, Romano, e quando siamo tornati la sera tardi abbiamo preso un po' di scapaccioni, però intanto avevamo avuto la nostra mezza giornata di libertà e di orgoglio.

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La tavola

La sala del refettorio della Colonia Bolognese fonte: L’Assalto, ottobre 1937

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“La modernissima attrezzatura della Colonia di Miramare� Comune di Bologna, Assistenza scolastica, 1946-1950

Bollente e buonissima! A Miramare ci sono stata come inserviente da ragazzina, avevo 15 o 16 anni. Ho “lavorato� anche in cucina e ricordo la montagna di patate che venivano lavate e pelate in un macchinario, una specie di centrifuga. Poi venivano bollite in enormi pentoloni. Ricordo che la suora addetta alla cucina, a noi ragazze, dava di soppiatto una patata lessa appena cotta. Bollente e buonissima!

Angela Lazzari

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estate 1968


Il cibo era generalmente buono, le porzioni abbondanti e pensai che sicuramente le cuoche erano di Bologna.

Remo Tossani

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estate 1948


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Davo troppo da mangiare ai bambini. Era l’agosto del 1968 e in Colonia avevano bisogno di personale per i refettori e le camerate. Allora era gestita dalle suore. La mattina facevo i letti e all’ ora di pranzo e cena ero in refettorio. Mi ricordo che le suore mi rimproveravano perchÊ davo troppo da mangiare ai bambini. Pasti ottimi ma un po’ scarsi e io abbondavo. Bei ricordi di tanti anni fa.

Anna Guglielmini

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estate 1968


Non immaginate il dispiacere e la rabbia! Ricordo una cosa che mi successe alla fine del soggiorno: c’era una festa, forse il compleanno del direttore della colonia di quell’anno, e per quell’occasione distribuirono a tutti i ragazzi ospiti una cioccolata. Felicissima me la misi in tasca per gustarmela con calma. Ma, ahimè, ebbi la necessità di andare in bagno e la cioccolata finì nella turca; non immaginate il dispiacere e la rabbia!

Paola Sabbi

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estate 1954


Il mio ricordo è dolce e persistente. Come la cotognata. Le marmellatine della Colonia erano buone. Avevo 8 anni e a quei tempi non c’erano tante merendine sofisticate. Pensare a quelle marmellate a gelatina, mi riporta indietro... Ti si impiastricciava il viso se non stavi attento alla cartina. Il pane non era a fette, ma rosette. [...] Anche se so che non per tutti i bambini era così, il mio ricordo è dolce e persistente. Come la cotognata. Claudia Tabaroni

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estati 1967 — 1971


Claudia Tabaroni (costumino a fiori) in spiaggia alla Colonia Bolognese all’età di 10 anni, con Roberta, Miriam e Cristina nell’estate del 1969


Dolci ricordi di Colonia e cotognata Claudia Tabaroni Mi chiamo Claudia Tabaroni e, con mia sorella Cristina, ho frequentato la Colonia Bolognese nelle estati dal 1967 al 1971. Ricordo... le merende Le marmellatine della Colonia erano buone. Avevo 8 anni e a quei tempi non c’erano tante merendine sofisticate. Pensare a quelle marmellate a gelatina, mi riporta indietro... Ti si impiastricciava il viso se non stavi attento alla cartina. Il pane non era a fette, ma rosette... Li portavano dentro cestoni di plastica bianca. Si scendeva dallo scalone all’esterno, si passava in fila davanti a una finestra, se non sbaglio, e lì ci davano la rosetta, che era vuota dentro, e dentro quel vuoto ci finivano una marmellatina o un formaggino. Che buoni che erano... Io il formaggino lo mangiavo facendo un buchino in un angolo e lo schiacciavo in bocca a mo’ di dentifricio! Ricordo... l’alba (e una gioia immensa) Spesso alla mattina all’alba mi svegliavo e, curiosa, andavo in bagno. Era misteriosa la colonia in quei momenti. Alcuni rumori di sottofondo, rubinetti non chiusi, il suono del respiro di qualcuno che sognava... Ricordo il corridoio silenzioso e ampio, e lungo il corridoio si arrivava alle finestrone, ad arco, chiuse

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ma con le vetrate alla nostra altezza. Ricordo... quante volte lungo questi miei sopralluoghi mattutini alle 5,30 del mattino ho visto albe indimenticabili. Per me, bambina, era ogni volta uno spettacolo. E mentre da una parte si vedeva il mare, dall’altra si vedeva la strada. Fu lì che, una domenica mattina, vidi parcheggiata la Fiat 1100 dei miei genitori che, previdenti erano partiti presto per venirmi a trovare. Durante il mio soggiorno in colonia, venivano una o al massimo due volte... non di più, ma era bello (all’epoca, malgrado il poco traffico, usava così). Fu una gioia immensa, risentire aria di famiglia, e non vedevo l’ora di poter stare un po’ con loro oltre quella rete. Ricordo... che mi piaceva scrivere Nel 1967 tenevo un diario di Colonia...scrivevo: Diarietto. Mattina: “Alle 7.30 ci alziamo, facciamo colazione e poi la cerimonia dell’alzabandiera e in spiaggia”. — Pomeriggio e sera: “Siamo a letto suona la sveglia e ci alziamo alle 3 e mezza. Andiamo a far merenda e poi in spiaggia. L’ammaina bandiera e poi a mangiare. Fine”. Ricordo... i vestiti delle signorine Le signorine erano vestite tutte in bianco, pantaloncini e canottiere bianche, e spesso, sopra, il grembiule bianco, mi sembra di loro proprietà, non fornito 166


dalla colonia. Non credo facessero il “bagno” con noi, non le ricordo in costume.... Mentre tutti i nostri vestiti personali rimanevano dentro le valigie, solo gli indumenti intimi tenevamo... E in quegli anni, tra il 1967 e il 1970, eravamo sempre vestite con pantaloncini e casacca della colonia, tutte uguali. Ricordo... le olimpiadi Io ero molto atletica... e brava, gareggiavo in tutto. E ho anche conquistato delle medaglie, le conservo ancora... Le gare non erano in acqua, ma salto in alto, in lungo, corsa a piedi nudi sulla sabbia. “Snadrazzare”, dalle mie parti, significa sguazzare nell’acqua, come le anatre. Il nostro bagno al mare, in niente più di questo consisteva: al fischio della signorina, la libertà di 10 minuti in acqua, alcune squadre tutte insieme. Ricordo il bagnino col moscone poco distante. Poi si risaliva dall’acqua, a un nuovo fischio, e per asciugarci corsetta e ginnastica. Asciugamani? Nooo!!! Ricordo... che era bello Mi sono sempre sentita privilegiata ad andare in colonia, per me voleva dire gioco, sole, amici, mare. Io avevo una signorina molto simpatica, so che era delle nostre colline, ma ricordo solo il nome, molto particolare: Zelinda. Anche se so che non per tutti i bambini era così, il mio ricordo è dolce e persistente. Come la cotognata.

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L’infermeria e l’isolamento

Una visita medica in infermeria fonte: Biblioteca civica Gambalunga Rimini, Archivio fotografico,

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Iniziò così un’avventura nuova. In quel periodo mi sono ammalata di orecchioni. Ricordo che vennero a prendermi nella camerata e io mi nascosi sotto il letto. Piangevo e singhiozzavo perché mi volevano portare in infermeria. Ricordo la paura che avevo quando mi fecero attendere nel corridoio e ancora di più quando mi portarono in isolamento nell’ultima palazzina, lato Riccione. C’erano già altre bambine che erano arrivate prima di me che però non conoscevo. Iniziò così un’avventura nuova. Facevamo un’altra vita, giocavamo, dormivamo e ci davano le medicine del caso, tra cui l’olio di fegato di merluzzo che avevamo imparato a trattenere in bocca e sputare nel lavandino non appena l’assistente usciva dalla stanza.

Emma Contu

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estate 1969


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Erano ancora abbastanza diffuse le malattie tipiche. Retaggio della guerra: la scabbia, un acaro sottopelle che procurava un prurito fastidiosissimo, la pediculosi, i pidocchi tra i capelli, la tubercolosi. Ricordo che dei bambini furono subito trasferiti in una palazzina isolata dal complesso, perchĂŠ affetti da malattie che potevano propagarsi e contagiare la colonia.

Remo Tossani

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estate 1948


I pidocchi in Colonia! Ricordo che i bambini che li avevano venivano portati nella palazzina dell’isolamento. Rasati a zero e con la testa fasciata perchÊ sotto veniva messo il disinfettante. Io ricordo il disprezzo che provavano gli altri bambini per loro, come fosse una colpa. E, ovviamente, la vergogna che provavano loro!

Anna Bastelli

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estati 1952 — 1954


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Niente sole, niente mare. Una volta sono stata in infermeria, ma devo esserci stata poco, probabilmente una sola notte di febbre. Dopo in genere si tornava in camerata e si stava riguardate: niente sole, niente mare. Per sapere come stavi, spesso ti chiedevano se eri andata di corpo. Io dicevo di sÏ anche se non era vero, perchÊ lo sapevo che altrimenti ti davano un cucchiaio di non so cosa... forse... olio di ricino? Ma non ho mai provato. Per fortuna. In infermeria, lettino, si dormiva... Poi minestra in bianco e termometro. Non ricordo dottore o dottoressa, l’ambiente era tutto bianco, sapeva di ospedale, non mi piaceva.

Claudia Tabaroni

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estati 1967 — 1971


Remo Tossani in un’immagine del 2016


La Colonia di Miramare di Rimini Remo Tossani

Per tempo, verso la fine del mese di luglio 1948, la mamma m’informò della mia prossima partenza per un soggiorno al mare, questa volta in una colonia del Comune di Bologna. Fu rispolverato il solito sacchetto di tela chiara, con la scritta in rosso “Tossani Remo” e lo riempì con miei indumenti estivi. Quell’anno accettai di buon grado l’allontanamento temporaneo, ormai ero certo del ritorno e riuscivo meglio a quantificare l’accettabile periodo della lontananza. Perciò, per la prima volta, non piansi. Ebbi così l’occasione di sperimentare una seconda volta l’emozione di un viaggio in treno, con tutto il suo corollario: la frenesia dei viaggiatori nell’atrio della Stazione Centrale, le raccomandazioni e i saluti affettuosi della mamma, l’assalto a occupare i posti vicino al finestrino, la conoscenza dei nuovi compagni di avventura e l’ebbrezza della velocità, trasmessa e percepita dal paesaggio sfuggente che s’intravedeva dai finestrini della carrozza.

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Il treno “accelerato” si fermò alla piccola stazione di Miramare di Rimini, poco lontano dalla Colonia Bolognese. L’imponente complesso fronte mare era composto di un principale edificio centrale, ai due lati altrettanti grandi dormitori inframmezzati a loro volta da una palazzina di servizi. Tutti gli edifici erano collegati tra di loro da un unico corridoio, lungo quasi duecento metri. Distaccata a destra, c’era la palazzina che ospitava i bambini con malattie infettive. Dopo tutte le operazioni che elencherò in seguito, io fui assegnato al secondo piano della seconda costruzione, proprio di fianco all’edificio centrale, assieme agli scolari che avevano già frequentato la terza, quarta e quinta elementare. Ci fecero salire al secondo piano, mentre al primo piano rimasero i bambini di prima e seconda classe. Mi sembra di ricordare che i primi due padiglionidormitori furono riservati ai maschietti, mentre le femminucce andarono a occupare i padiglioni numerati tre e quattro. La Colonia poteva ospitare più di mille bambini d’ambo i sessi, provenienti dalla città di Bologna e provincia, per ogni turno di quattro settimane ciascuno, durante i tre mesi estivi, da metà giugno a metà settembre. Fui piacevolmente sorpreso, all’arrivo nella Colonia, dalla meticolosa pulizia personale cui fummo

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sottoposti. Ovviamente, tutti in fila, ci sottoponemmo a una bella sforbiciata dei capelli ed entrammo nei locali delle docce. Queste si trovavano al piano terra, leggermente seminterrato, ed erano immerse nella nebbia del vapore acqueo e le narici furono aggredite da un persistente odore di disinfettante. Ricevemmo ciascuno: un sapone, un dentifricio e lo spazzolino da utilizzare poi per tutto il periodo. Dopo ci sottoposero a una scrupolosa visita medica alla bocca, ai capelli, alla pelle, agli arti e la misurazione dell’altezza, del torace e del peso corporeo. Erano ancora abbastanza diffuse le malattie tipiche, retaggio della guerra: la scabbia, un acaro sottopelle che procurava un prurito fastidiosissimo, la pediculosi, i pidocchi tra i capelli, la tubercolosi, infezione ai polmoni. Ricordo che dei bambini furono subito trasferiti in una palazzina isolata dal complesso, perchÊ affetti da malattie che potevano propagarsi e contagiare la colonia. Con l’assegnazione del posto letto nella camerata, ci distribuirono anche la divisa della colonia: calzoncini e berretto blu, canottiera e camicia bianca, zoccoli di legno. Ecco, questi mi piacquero tantissimo, erano una novità per me, mi elettrizzava il loro ticchettio secco e sonoro, che essi provocavano a salire le scale di marmo e nelle camerate.

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Quando esageravamo nel battere i piedi, intervenivano le maestre e, se qualcuno continuava, si beccava una punizione. Nel pomeriggio finalmente fummo accompagnati alla spiaggia riservata della grande colonia, prospiciente il complesso degli edifici, proprio in riva al mare, una visione veramente balneare sull’azzurro dell’acqua, fino alla linea dell’orizzonte. Disbrigata la consegna a ogni squadra degli sdrai di legno e delle tende (allora non c’erano ancora gli ombrelloni), ci permisero di correre alla battigia e di bagnarci nell’acqua fino al ginocchio. Fu un grande sollievo per me immergere i piedi nell’acqua del mare sotto il sole di luglio e correre scalzo sulla sabbia fine, ancora calda, io che ero abituato d’estate a camminare scalzo sulla terra e sull’erba in campagna dagli zii: mi sentii rinascere! La spiaggia mi sembrava immensa rispetto a quella del Mar Tirreno, qui era la prima volta che potevamo ripararci dal sole sotto delle grandi tende quadrate, a righe verticali bianche e blu, che i bagnini orientavano durante il giorno, spostando i due picchetti sulla sabbia in base al moto del sole. Potevo riscontrare, con sommo piacere, i notevoli miglioramenti di questa struttura rispetto alle due precedenti esperienze nelle colonie marine.

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Anche il personale, in gran parte miei concittadini bolognesi dell’ambiente scolastico, era molto gentile e comprensivo nei nostri confronti. In particolare le “Signorine Maestre” ci seguivano con attenzione, ci aiutavano a compilare le cartoline postali con i saluti per le nostre famiglie. Sapevano all’occorrenza, quando a qualche bambino affiorava la nostalgia della casa, tirar fuori l’innato spirito materno proprio di tutte le donne. I giochi balneari Potevo apprezzare la quasi perfetta organizzazione della giornata, in cui si alternavano momenti di riposo a molteplici attività sportive o di gioco. S’iniziava al mattino, con un quarto d’ora di ginnastica delle braccia e delle gambe, fermi sul posto, seguivano diversi esercizi del corpo scanditi dai bagnini, poi eravamo lasciati liberi di giocare con la sabbia a scavare buche, costruire castelli, tracciare piste per le biglie. Alle undici, tutti pronti a entrare mezz’ora in acqua, qui si consumavano gran parte delle nostre energie giornaliere con tuffi, lotte, tentativi di nuotare, gare di apnea, sotto l’occhio vigile dei bagnini appostati sui “mosconi”, bene attenti a tenerci dentro i limiti di sicurezza. Per fortuna, in quel tratto di spiaggia, la profondità dell’acqua degradava dolcemente e, nei giorni di mare calmo, ci si poteva allontanare

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anche venti o trenta metri da riva con l’acqua che arrivava al massimo alla cintola. Anche le “Signorine”, responsabili delle squadre, spesso partecipavano al bagno e allora noi bambini ci mettevamo d’accordo per spruzzarle a più non posso con schiaffi e manciate di acqua di mare. Finito il bagno, ci si sdraiava al sole ad asciugarci il costume e i capelli, finché un fischio di sirena intermittente ci annunciava che era pronto il pranzo. Si mangiava in un grande refettorio situato nel seminterrato del nostro padiglione dormitorio; le stoviglie erano ancora di alluminio. Il dopo pranzo trascorreva prima con un momento d’igiene personale, poi con il tempo libero fino alle quattordici. Una volta la settimana, approfittavo della pausa per scrivere una cartolina postale alla mamma, le scrivevo rassicuranti notizie sulla salute e sulle attività del soggiorno. Seguiva un’oretta e mezzo di riposo in camerata, dove facevamo di tutto all’infuori che dormire. Nel pomeriggio si ritornava in spiaggia, accolti dai bagnini, che, oltre ad occuparsi della nostra sicurezza in acqua, svolgevano allora le mansioni di fatica: tenevano pulito l’arenile, sorvegliavano l’uso corretto delle poche docce in spiaggia e delle cabine di legno, aprivano e chiudevano le tende

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e le sdraio, specie quando si avvicinava all’improvviso un temporale estivo. Allora si sovrapponevano decine di comandi, spesso contraddittori, poi, se cadeva qualche goccia, c’era un parapiglia generale, un caotico fuggi-fuggi, allegro, quasi che l’elettricità dell’aria contagiasse un po’ tutto il personale e i piccoli ospiti. Tuttavia i bagnini ci aspettavano soprattutto per formare le squadre di calcio e palla rilanciata, due tornei che dovevano finire nella quarta settimana di soggiorno. Già allora scelsi di fare l’attaccante, preferibilmente ala sinistra, poiché ero ambidestro e mi piaceva fare gol. Era un passatempo di routine per tutti noi, quindi non ricordo di aver entusiasmato, né se fui sostituito durante le partite e neppure il risultato ottenuto alla fine del torneo. Mi sono rimasti impressi nella memoria altri due giochi che facevamo sovente in spiaggia, perché ci confrontavamo sul piano fisico con altre squadre e le Signorine e i bagnini erano bravi a infonderci lo spirito di appartenenza al gruppo. Chi non giocava faceva un tifo assordante per sostenere la prova dei propri compagni: erano gli arcinoti giochi “ruba bandiera” e il “tiro alla fune”. In entrambi potevi cadere o essere trascinato per metri senza farti male, perché l’arena era la soffice e dorata sabbia della spiaggia di Miramare.

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Una delizia pere noi campagnoli o cittadini tanto lontani dal mare! Finita la partitella, il mio passatempo preferito era la caccia ai granchi, allora numerosissimi. Riuscivo a individuarli dagli occhietti che spuntavano dalla sabbia bagnata, li raccoglievo dentro ad una buca e aspettavo di vedere come ne uscivano o se s’insabbiavano. C’erano anche tanti pesciolini argentei che guizzavano nell’acqua bassa, ma non potevamo bagnarci per prenderli, allora aspettavamo l’arrivo di pesci più grossi in caccia che ne provocavano la fuga e spesso lo spiaggiamento, e noi eravamo lì, pronti a prenderli e metterli nella buca con i granchi, sperando in una lotta fra loro, che però non avvenne mai. Già dalla prima esperienza della Colonia di Marina di Massa, avevo preso l’abitudine di raccogliere e collezionare le conchiglie di mare, con lo scopo di barattarle a casa con i miei compagni di gioco meno fortunati, che non avevano potuto usufruire di una vacanza tanto benefica per la salute e la crescita. Un’altra collezione, che facevano un po’ tutti i bambini, era la raccolta dei vetri colorati, che, levigati e arrotondati dal rotolamento sulla sabbia del mare, ci sembravano tante pietre preziose, da barattare e scambiare. Seguivano trattative

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estenuanti sul loro ipotetico valore, fintanto che ci si accordava su un prezzo medio, che soddisfaceva entrambi gli scambisti. La recita di commiato Una mezz’ora di tempo il giorno doveva poi essere dedicato alle prove con le maestre per la recita di fine periodo, per la quale io fui abbastanza impegnato. Fu così che l’ultima settimana i bagnini allestirono un grande palco sulla sabbia, per le nostre recite, fra l’edificio centrale e l’arenile. Nel pomeriggio dell’ultimo venerdì, anziché salire nelle camerate per il solito riposo, cominciammo lo spettacolo, pazientemente preparato dalle “Signorine” durante il soggiorno. Si cominciò con delle recite cantate e accompagnate dalla musica di un pianoforte verticale, si proseguì con la recita di poesie e brani di commedia, si terminò con canti e balli folclorici, con sottofondo musicale. Fu una specie di “saggio di fine scuola”, che fu addirittura registrato dalla RAI (Radio Audizione Italiana) e trasmesso il giorno dopo, sabato, nel primo pomeriggio nella trasmissione di Radio Rai Regionale. Io ebbi una parte cantata e recitata in due “quadretti” intitolati: “La Batucada”, una canzone a ritmo di samba in auge nel dopoguerra, e “Fortunello” di Ettore Petrolini, brano ritmato nella prima parte e a tempo di valzer nella seconda sezione.

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Nel primo quadro, assieme ad altri tre bambini, con una gonnellina di foglie di palma attorno alla cintura e una ghirlanda di alloro in testa, reggevamo, ai quattro angoli, un’ampia rete da pesca, nella quale erano impigliati dei finti pesci colorati, delle grandi conchiglie, dei rossi cavallucci e delle stelle marine azzurre di cartone. Tutto intorno a noi c’era un coro, bambine e bambini alternati, con gonnelline di paglia e ghirlande di fiori in testa, tipo costume hawaiano, che mimavano passi di danza e cantavano dolcemente. Terminata la nostra recita, si faceva la passerella per gli applausi e si passava davanti all’operatore della RAI, che ci faceva avvicinare al microfono a scandire il proprio nome e cognome. La trasmissione radiofonica fu sentita dalla Signora Masetti del “palazzone” e dalle sorelle Lenzi, che, facendo di mestiere le sarte, ascoltavano sempre la radio, per rendere meno noioso il loro lavoro. Entrambe meravigliate del mio exploit canoro e radiofonico, si recarono subito da mia madre a riferire di avermi sentito cantare, recitare e scandire il mio nome e cognome, trovandola incredula, ma anche piacevolmente sorpresa e orgogliosa. La mamma mi raccontò di essere andata subito a riferire della mia esibizione alla radio dalle nostre parenti e vicine di casa Ida Albertazzi e Amalia Serra, pure loro molto contente di vedere la mamma

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compiaciuta della mia partecipazione alla trasmissione radiofonica. Fu il primo anno che, allontanandomi da casa, non piansi né alla partenza, né durante il soggiorno. Era un chiaro segno che stavo crescendo e una riprova che in quella colonia mi ero trovato perfettamente a mio agio. Si mangiava bene, “alla bolognese”, le maestre erano preparate ad accogliere i bambini e a intrattenerli durante tutta la giornata, i bagnini, simpatici e collaborativi, ci coinvolgevano nelle attività ginniche e sportive. Se a distanza di tanti anni ho questi indelebili ricordi di quell’estate al mare, vuol dire che nella Colonia Bolognese di Miramare di Rimini ho trascorso un mese meraviglioso, allegro, contento e senza il rimpianto di casa.

Tratto da Storie di bocca, Remo Tossani, 2017

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La doccia

Collage di immagini della Colonia Bolognese in cui si riconoscono anche i bagni fonte: rivista Il Comune di Bologna, giugno 1937

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Non sapevo lavarmi, non ricordo cosa ho combinato là dentro. Le docce. Mi torna in mente l’angoscia di quel momento: avevo 4 anni e vedo un corridoio lungo con tante porte. Ci sono i maschi in fondo che hanno finito, vanno via e mi dicono: «Vai dentro e lavati». «Perché? Non c’è la suora che mi lava?». «No!». Non sapevo lavarmi, non ricordo cosa ho combinato là dentro.

Giovanna Mordini

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estati 1961 — 1964


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Erano immerse nella nebbia del vapore acqueo. Fui piacevolmente sorpreso, all’arrivo nella Colonia, dalla meticolosa pulizia personale cui fummo sottoposti. Ovviamente tutti in fila, ci sottoponemmo a una bella sforbiciata dei capelli ed entrammo nei locali delle docce. Queste si trovavano al piano terra, leggermente seminterrato ed erano immerse nella nebbia del vapore acqueo e le narici furono aggredite da un persistente odore di disinfettante. Ricevemmo ciascuno: un sapone, un dentifricio e lo spazzolino da utilizzare poi per tutto il periodo.

Remo Tossani

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estate 1948


Energiche donnone che ci strofinavano ben bene. Il sabato pomeriggio si faceva la doccia. Si andava nel locale apposito, che mi sembra di ricordare fosse sul lato vicino a Riccione, a piano terra. Si entrava nello spogliatoio squadra per squadra e ci si trovavano altre bambine schiamazzanti. Ci si toglieva tutto e la roba sporca veniva raccolta in grandi sacchi di tela bianca, uno per ogni squadra. La signorina ci dava i capi puliti da metterci, che probabilmente erano conservati da qualche parte visto che quando arrivavamo dovevamo consegnarli. [...] Eravamo tutte nude col sapone in mano e non ci lavavamo completamente da sole ma ricordo energiche donnone che ci strofinavano ben bene. Io mi vergognavo da matti. Non ero abituata a tutta quella nudità e la trovavo offensiva. Probabilmente è il tratto della Colonia che mi è sempre piaciuto di meno.

Angelica Trotta

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estati 1960 — 1966


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Luciana Cavallari alla Colonia Bolognese, 26 marzo 2019


Un posto magico tutto per noi Luciana Cavallari

Era il 18 ottobre del 1944 e una bomba lasciò i miei, sposati da poco, senza casa. In un antico palazzo in Piazza San Francesco, il Comune sistemò 5 famiglie in un appartamento di 5 stanze, con bagno in comune. Il 17 dicembre arrivai anch’io. Erano anni di passaggio verso la fine del conflitto mondiale e per noi piccoli la vita in comune non era niente male. Il tempo passava e, a causa di ristrettezze, abitavamo sempre lì in quella stanza. A 6 anni e mezzo, finita la prima elementare, arrivò la comunicazione del Comune di Bologna: partenza per la colonia per i bambini con carenze economiche. Per la salute, soprattutto, vacanze al mare alla Colonia. Un bel mattino ci trovammo in tanti alle Scuole De Amicis che si trovano vicino alla Stazione ferroviaria: il controllo sanitario fu una cosa sommaria, ma più che altro cercavano i pidocchi e poi VIA, tutti sul treno! Per me era già un’avventura. Eravamo divisi in maschi e femmine, non so perché; alcuni piangevano, mentre io ero curiosa di sapere cosa ci aspettava. Era comunque qualcosa di nuovo e non fu un lungo viaggio. Quando il treno si fermò non eravamo alla stazione, ma nella campagna! Ci fecero scendere e in fila indiana con il nostro sacchetto personale, un cambio e niente più.

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Ci incamminammo lungo il fiume per un sentiero. Dopo aver attraversato la strada asfaltata, ecco, poco lontano, il mare. Era la prima volta che vedevo il mare. Che bello questo posto dove arrivavano tanti bambini! Un posto magico tutto per noi. Ogni gruppo aveva una signorina che ci controllava e giocava con noi. Soprattutto doveva stare attenta che non combinassimo guai. Non avevamo giocattoli: la fantasia ci aiutava a creare il modo di passare il tempo. Facevamo piste per giocare con le biglie; i castelli di sabbia (attenzione, però, a non scavare buche, che potevano essere pericolose); facevamo girare lo zoccolo al canto di una filastrocca; poi c’era il lancio dei 5 sassi: e lancia e prendi uno e lancia e prendi due; così arrivava l’ora del bagno, che però durava pochi minuti, perché “troppo può far male”, e tutto avveniva sempre sotto controllo. Prima del bagno c’era la passeggiata. Si arrivava fino alla foce del Marano. Spesso si incrociavano bambini di altre colonie, per questo ognuno aveva la divisa di appartenenza. C’erano i bambini dei dipendenti SIP, anche quelli della Novarese venivano in passeggiata fino al fiume, tutti per mano in fila per due. Il pranzo è sempre stato buono; in particolare ricordo il venerdì pasta e fagioli poi Emmenthal col purè di patate. La domenica maccheroni con un sugo molto saporito e pollo con patate al forno. Ricordo anche la merenda dopo il riposino (obbligatorio): scendevamo dal primo piano dove stavano le camerate con

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comodini e letti di ferro; fuori, lungo il marciapiede, ci veniva data una grossa fetta di pane e marmellata di ciliegie: eravamo tutti in fila davanti ad una finestra da cui avveniva questa distribuzione. Era talmente profumata che me la ricordo ancora. La domenica si partecipava tutti alla santa messa nel terreno, lato Rimini, e con lo sguardo si andava cercando, fuori dalla rete, l’arrivo dei genitori che venivano a trovarci. Incontri che erano più che altro incroci: pochi minuti, un saluto e via. Io però non avevo l’ansia, come tanti altri. I miei erano tranquilli e io ero contenta e in salute. Stavo bene lì vicino al mare. Quando gli altri ancora dormivano, io andavo alla finestra e guardavo le barche a vela, lontano. Mi faceva pensare alla libertà di quel grande spazio. Non capivo le compagne disperate per la lontananza dai genitori e cercavo sempre di consolarle. In fondo era solo per un mese. E intanto il tempo passava ed era già ora di tornare. Anche nel ’52, quando abitavamo in una nuova casa, ritornai con tanto piacere alla Colonia Bolognese. Oggi, che abito a Rimini, quando passo davanti alla Colonia mi fa tristezza vederla vuota, abbandonata, deturpata, vorrei vederla ancora VIVA! Con tutti i pianti e le gioie che l’hanno attraversata, mi pare impossibile che nessuno riesca a trovare un giusto utilizzo di una struttura così bella. Chissà chi sarà in grado di salvarla...

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← Amedeo Manieri 1 — 36 2 — p. 54 3 — p. 71 4 — p. 132 5 — p. 172

Le foto delle Storie di Colonia

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La sorella maggiore, la madre e le due cugine di Amedeo. Il fotografo è il padre e aspettano di potersi avvicinare alla rete.

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Le due sorelle, la madre e la zia di Amedeo in partenza per la Colonia.

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↑ Luciana Cavallari p. 137 2

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↑ Morena Gherardi 1 — p. 60 2 — p. 76 3 — p. 102


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1

↑ Claudia Tabaroni 1 — p. 50 2 — p. 50 3 — p. 118 4 — p. 162 2

1 ↑ Giovanna Anderton p. 146

3 ↑ Anna Benni 1 — p. 113 2 — p. 113 3 — p. 135 2

↑ Angela Tamossi p. 45

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← Gabriella Manieri 1 — p. 79 2 — p. 130 3 — p. 59

3 2 1 ← Anna Guglielmini p. 158

La giovane Anna Guglielmini in spiaggia. Anna lavorò alla Colonia Bolognese nell’estate del 1968.

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Angelica Trotta e una Signorina immortalate dal fotografo in spiaggia alla Colonia Bolognese.

↑ Angelica Trotta 1 — p. 95 2 — p. 142 3 — p. 145

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← Sergio Govoni 1 — p. 81 2 — p. 193

1 2 — I gemelli Sergio e Sandro Govoni in spiaggia alla Colonia Bolognese.

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Raffaella e Tiziana con il papà nella spiaggia della Colonia Bolognese.

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↑ Raffaella e Tiziana Amadori 1 — p. 41 2 — p. 53 3 — p. 80 4 — p. 100 5 — p. 141 6 — p. 169 7 — p. 189 8 — p. 190



Il progetto di rigenerazione urbana partecipata “Riutilizzasi Colonia Bolognese”, promosso a Rimini dall’associazione Il Palloncino Rosso, mira alla riappropriazione, da parte dei cittadini, di spazi della città ora dismessi, ma che ne hanno determinato l’identità e la storia. Attraverso il recupero e la riqualificazione dei luoghi con attività culturali e artistiche si raccolgono le energie propositive dei cittadini, sempre più protagonisti del loro territorio. Un esempio di associazionismo che tiene vivi spazi abbandonati ma ricchi di potenzialità, consentendo di impostare la governance delle politiche pubbliche verso obiettivi concreti e rispondenti ai bisogni dei cittadini.

Emma Petitti Assessore al bilancio, riordino istituzionale, risorse umane e pari opportunità della Regione Emilia Romagna


«Il problema è avere gli occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio». Pier Paolo Pasolini

Grazie a tutti coloro che hanno volato attaccati ad un palloncino rosso con occhi che vedono la bellezza e cuore per costruirla. Il Palloncino Rosso Associazione di promozione sociale e culturale



Storie che sanno di salsedine e conchiglie, di albe rubate dai finestroni e di passeggiate in riva al mare, di fughe progettate e di cartoline che partivano in valigia già affrancate dai genitori e che ai genitori tornavano bagnate di lacrime di nostalgia... Storie di Colonia è un progetto nato all’interno di #Riutilizzasi Colonia Bolognese, un’iniziativa di rigenerazine urbana e innovazione sociale avviata dell’associazione culturale Il Palloncino Rosso. Raccoglie testimonianze scritte, orali, fotografie, filmati e documenti per mettere in circolo i ricordi, nel racconto delle storie legate alle estati in cui la Colonia Bolognese fu in uso, fino a costituirne un archivio della memoria.


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