Fanzine Liberascienza | Febbraio 2014

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Periodico bimestrale n.1/2014


EDITORIALE

Periodico bimestrale n.1/2014

di Pierluigi Argoneto Sembra che la parola Fanzine e culturale? Le macchine, nella loro accezione più nasca dalla contrazione delle ampia, erano viste come un corpo estraneo, qualcosa parole inglesi fan (da fanatic, da guardare con curiosità e diffidenza. Non è un caso appassionato) e magazine. E che una delle più innovative e prestigiose riviste del così, dopo aver realizzato per tempo fosse per l’appunto La Civiltà delle Macchine, quattro anni un magazine di diretta da Leonardo Sinisgalli (a cui abbiamo dedicato a p p r o f o n d i m e n t o , la nostra copertina), famosa soprattutto per aver Liberascienza ha deciso di proposto articoli e lettere di rinomati autori con lo approdare a questo nuovo tipo di rivista bimestrale, più scopo di creare un sinergico confronto fra scrittori, snello e modulare. È una selezione di contributi apparsi poeti e pittori con il mondo dell'industria e della sulle più prestigiose riviste e quotidiani nazionali ed tecnologia, negli anni che portarono al miracolo internazionali, un tentativo di riportare alla nostra economico italiano. La nascita della rivista è attenzione quegli articoli di approfondimento che, tra le raccontata da Sinisgalli stesso in un’intervista del centinaia di messaggi, email, aggiornamenti social e 1965: «Quando misi a fuoco il progetto di Civiltà delle banali sms che riceviamo ogni giorno, rischiano di Macchine [...] la cultura dell’Occidente era rimasta sfuggirci. L’approccio è lo stesso che da sempre ci ha incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della contraddistinti: uno sguardo ad ampio spettro sul tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite mondo che viviamo, con l’obiettivo di sviluppare un alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di a p p ro c c i o c r i t i c o a l s a p e re , v e ro e l e m e n t o Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo discriminante tra la Cultura e il nozionismo fine a se sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle stesso. Già, la Cultura: ma ha davvero senso celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto continuare ad insistere su questo aspetto? Cultura, e istinto, tra ragione e passione, tra reale e infatti, è una di quelle parole che, assieme a poche immaginario. Che era urgente tentare una commistione, altre, fa scattare una serie di meccanismi pregiudiziali un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza». difficili da smontare. Pregiudizi spesso giustificati da un Quanto è cambiato il mondo da allora? Molto. Le certo modo di intenderla e di praticarla, fomentati da macchine non fanno più paura, ma i problemi di alcuni addetti ai lavori percepiti non a torto come arretratezza culturale in quella che paradossalmente è altezzosi questuanti o coltivatori di un sapere la società della conoscenza, sono rimasti purtroppo volutamente enigmatico e snobista. Essa invece, intesa invariati. È necessario dunque riannodare le fila di un come “accumulo di conoscenze e di innovazioni che discorso che ha radici lontane nel tempo, stimolare influenza e cambia continuamente la nostra vita”, quella “tensione dell’intelligenza” di cui si sente come l’ha definita il genetista Luigi Cavalli Sforza, è sempre più spesso la mancanza nella società, questione inestricabilmente legata alla nostra vita e alla n e l l ’ a c c a d e m i a , n e g l i comprensione della stessa società nella quale viviamo. uffici, nella politica, nei Società basata sull’economia della conoscenza, la cui dibattiti pubblici. Questo caratteristica è rispondere ai bisogni dello sviluppo Fanzine rappresenta economico con sempre più Cultura. Economia della dunque la volontà di conoscenza che noi italiani però, ad oggi, non abbiamo riprendere la strada ancora agganciato in nessuno dei suoi settori trainanti: i n d i c a t a oltre l’industria culturale, la formazione e la ricerca s e s s a n t ’ a n n i f a d a scientifica. Negli anni ’50 dello scorso secolo c’era un L e o n a rd o S i n i s g a l l i , problema analogo, come far accettare alla società del convinti che sia l’unica tempo l’irrompere della tecnologia che, un po’ alla che valga davvero la volta, stava andando a modificare le modalità di lavoro, pena di percorrere. la mentalità produttiva e quindi l’organizzazione sociale


Periodico bimestrale n.1/2014

SCIENZA

PERSONAGGI

CELLULARI, SATELLITI, GPS? TUTTA COLPA DI MARCONI.

SIDIS, VITA DEL GENIO CONDANNATO ALL'OBLIO

Piero Bianucci

Pier Francesco Borgia William Sidis aveva il Q. I. più alto di tutti i tempi. A sedici anni insegnava a Harvard. Poi lasciò tutto campando di lavoretti, perché si sentiva incompreso ed escluso, perfino dai genitori. Sempre più disadattato, morì solo. La sua storia narrata in numerosi libri. Vai al link!

Telefonini, Gps, Wi-fi, tv satellitare, immagini trasmesse da sonde su

LETTERATURA

Marte, microonde captate dal Big Bang. Cose di oggi e di domani, con

Q U A N D O L’ F B I P E D I N AVA

radici ottocentesche. E pensare che

SARTE E CAMUS.

tutto iniziò dal suo telegrafo senza fili,

Nella Parigi del dopoguerra, i due

che le Poste scartarono perché

celebri scrittori francesi erano nel

giudicato di “scarso interesse”.

mirino degli agenti Usa, che si lamentavano con la centrale: «Ma il

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materiale da leggere è tutto in

LA NOSTRA VITA? E’ UNA “TRECCIA” S PA Z I O TEMPORALE.

francese!».

passaggio de “Le confessioni” si

ARTE

chiede: “Che cosa è dunque il tempo?

IL CASO FREUD

Max Tegmark Agostino d’Ippona, in un suo celebre

Se nessuno me ne chiede, lo so bene:

Pierre Rosenberg

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NELL'INIZIO DEL ROMANZO C'È LA NASCITA DELL'UOMO Giuseppe Conte

ma se volessi darne spiegazione a chi

Per quali ragioni un pittore decide di

me ne chiede, non lo so”. L’idea del

copiare? Che cosa copia? Chi copia?

Un saggio analizza il "principio" (e la

continuo spazio temporale, da Einstein

Perché un pittore anziché un altro,

fine) dei grandi classici. Lì c'è già la

in poi, ci dà un’idea di un universo

una certa opera e non un’altra più

matematico (matematica che oltretutto

storia e il tono di tutto. E il mistero

celebre? Perché alcuni artisti copiano

sembra l’unica cosa reale).

della scrittura.

mentre altri si rifiutano di farlo? Il caso

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di Lucian Freud.

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PLAGIO O LIBERTÀ CREATIVA? ALLA RICERCA DELL’ORIGINE DEL TEMPO Zeeya Merali Una montagna di prove dimostra come, al livello più elementare della realtà, il tempo sia solo una nostra illusione. O peggio ancora: sembra non esista affatto. Vai al link!

Frédéric Joignot

IL MIO KAFKA SEGRETO John Banville

Il riutilizzo da parte degli artisti di immagini della stampa e della

Quelle pulsioni omosessuali nascoste

pubblicità non è talvolta gradito ai

n e i r o m a n z i . A l c u n i b i o g r a fi

fotografi che portano il caso in

rintracciano nell'autore del "Processo"

tribunale. Come distinguere la

desideri repressi alla base di diverse

violazione del diritto d’autore dal

sue inquietudini. Le riflessioni dello

«prestito» ispiratore che dà vita a una

scrittore irlandese John Banville

nuova opera? Vai al link!

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Periodico bimestrale n.1/2014

INTERVISTA

BIOLOGIA

DUE CHIACCHIERE CON RICHARD DAWKINS

SVELATA LA SINFONIA DELLA VITA, LE PROTEINE VIBRANO COME LE CAMPANE

Rowan Hooper Professore emerito di Biologia Evolutiva all’Università di Oxford, Richard Dawkins concede

Ad affermarlo è uno studio pubblicato su Nature Communications e condotto da un gruppo di ricercatori coordinato da Andrea Markelz dell’università di Buffalo nello stato di New York. La ricerca apre le porte ad un nuovo modo di studiare i processi cellulari fondamentali che sono quelli che permettono la vita. Vai al link!

un’intervista in cui spazia dalla religione, all’irrazionalità umana al suo lascito scientifico. Dopo avere ispirato milioni di persone con i suoi libri di divulgazione scientifica, Dawkins è ancora in grado di

PERINTERO

stimolare riflessioni e di provocare con le sue acute argomentazioni. Vai al link!

RELIGIOSITA’ E ATEISMO

GALILEO «GIULLARE» UMANISTA

L’ARTE PUO’ SALVARCI DALL’ANGOSCIA

Paolo Mieli, pag. 1

Alain De Botton, pag. 6

Figura ancora oggi al centro di un acceso dibattito culturale, divenuto emblema della rivoluzione scientifica e dello scontro tra Chiesa e scienza,

Filosofo di fama internazionale, divenuto noto al grande pubblico per alcuni suoi libri intelligentemente provocatori, De

Galileo coltivava interessi e peculiarità tipiche di un umanista del suo tempo. In questo articolo, Paolo Mieli, partendo da un saggio di Heilbron, ne descrive una figura a tutto tondo.

Botton si interroga sulla funzione sociale e psicologica dell’arte e sulla sua capacità di salvarci dall’angoscia. Angoscia che, invece, è quasi sempre canalizzata da credenze di tipo religioso.

Leonardo Sciascia, pag. 8 In questo testo inedito, lo scrittore riflette sul senso profondo della religiosità, sull’ateismo e sulla fede fatta solo di apparenza. “Religiosità e ateismo” è il titolo di questo testo inedito uscito sulla rivista “Todo Modo”. Rivista internazionale di studi sciasciani, edita da Leo S. Olschki e fondata da Francesco Izzo che la dirige con Marco Fiaschi e Mark Chu.

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Periodico bimestrale n.1/2014 L’aspetto umanistico e sconosciuto del grande scienziato, pag.1

Galileo «giullare» umanista di Paolo Mieli È assai riduttivo dipingerlo come un eroe o l’eroe della rivoluzione scientifica. Galileo Galilei, scrive John L. Heilbron in Galileo. Scienziato e umanista, che Einaudi pubblica in un’edizione magnificamente curata da Stefano Gattei, non fu semplicemente un matematico. O meglio non lo fu «più (o meno!) di quanto non fosse un musicista (come suo padre e suo fratello, Michelangelo, ndr ), un artista, uno scrittore, un filosofo o una persona che si dilettava a costruire arnesi». Alla filosofia, volle precisare lui stesso, dedicò più anni dei mesi in cui si era impegnato con la matematica. Nel suo studio della Luna, del Sole e dei pianeti negli anni 1609-10, «quando era l’unico uomo sulla Terra a scrutare minuziosamente il volto della Luna e i satelliti di Giove», si giovò del poter fare ricorso «alle proprie capacità di osservatore e di disegnatore, alla propria abilità manuale di artigiano e alla propria conoscenza della prospettiva e dell’ombreggiatura, assai più che alle proprie capacità come matematico». I suoi libri devono tutto ad «anni passati a leggere i poeti e a sperimentare varie forme letterarie che gli permisero di scrivere in modo chiaro e plausibile delle cose più implausibili». Avrebbe potuto essere «un uomo di lettere, il segretario confidenziale di un duca o di un cardinale, e perfino di un granduca o di un Papa». Suo padre lo aveva avviato alla medicina, disciplina alla quale non si sentiva portato; scelse la matematica unicamente per sottrarsi ai progetti paterni. Spesso «metteva da parte le buone maniere», in particolare quando entrava in una disputa con qualcuno che non era d’accordo con lui. Questa «debolezza», insieme «ad un originale senso dell’umorismo e al piacere adolescenziale, che non perse mai, di battere le persone, gli procurò nemici potenti persino tra quanti rispettavano le sue doti». Questo per dire, sostiene Heilbron, che «Galileo non somigliava molto al tormentato inventore della scienza moderna descritto dalle storie abituali». I suoi conoscenti mai «si sarebbero aspettati che divenisse il nemico giurato di Aristotele, il paladino di Copernico, l’alfiere della matematica, la bestia nera dei gesuiti, o il più famoso di tutti i martiri della libertà accademica»: Galileo «non sarebbe diventato alcuna di queste cose se non avesse dovuto lavorare per vivere». I biografi di Galileo sono accusati da Heilbron di avere ceduto alla tentazione «di spingere troppo presto il loro gladiatore in un’arena immaginaria piena di filosofi testardi e di preti che sputano fuoco». È sì vero che egli «ha passato del tempo a discutere con persone del genere, soffrendone le conseguenze», ma «il Galileo gladiatore e martire della scienza iniziò come Galileo l’umanista patrizio». Ed è a descrivere questo secondo personaggio che si impegna Heilbron. A colui che, «armatosi del telescopio, disse apertamente tutto quello che conosceva e anche di più»; all’uomo che, sorprendendo i suoi colleghi e senza tener conto dei loro consigli, attaccò filosofi, teologi e matematici, derise i gesuiti e duellò con chiunque contestasse la sua supremazia o le sue opinioni. Divenendo «un cavaliere errante, donchisciottesco e senza paura», come uno dei paladini del suo poema preferito, l’Orlando furioso di Ariosto. Questo suo comportamento, «che gli conquistò una sempre più numerosa schiera di nemici, rese comprensibile e perfino inevitabile il suo disastroso scontro con un Papa (Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini) che per moltissimi anni era stato suo amico e ammiratore». Il nostro scienziato, ricostruisce Heilbron, nacque lo stesso giorno, quasi alla stessa ora, della morte di Michelangelo, il 9 febbraio 1564 (ma la madre ne ritardò la dichiarazione di nascita al 16 dello stesso mese); poi visse 78 anni, «molti dei quali nell’occhio di un ciclone». Gli ultimi, dal 1610 in poi, in preda a «una forma avanzata di malinconia». Da giovane il suo libro preferito fu, come s’è detto, l’Orlando furioso ; si fece beffe, invece, della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1581) che, data alle stampe dieci anni dopo la battaglia di Lepanto (1571), era divenuta uno dei componimenti preferiti dai gesuiti e il «poema ufficiale» della Controriforma. Per Galileo, Tasso era «gretto, povero e miserabile» tanto quanto Ariosto era «magnifico, ricco e mirabile». Ironizzava sul verso della Gerusalemme in cui, riferendosi al viso di Rinaldo, Tasso scriveva «fan biancheggiando i bei sudor più vivo»: «Non ho mai visto biancheggiare i sudori, se non intorno a i testicoli dei cavalli», fu la sferzante chiosa galileiana. Heilbron, grande estimatore per parte sua della Gerusalemme liberata , prende le distanze da questi giudizi di Galileo, imputandoli a «conservatorismo» e a «insensibilità alla profondità psicologica del Tasso». Maestro di Galileo a Pisa fu Girolamo Borro, autore di Del flusso e reflusso del mare , elogiato da Michel de Montaigne, un testo molto irriverente nei confronti del potere ecclesiastico. Quando la Chiesa gli ordinò di inserire un paradiso cristiano nel suo firmamento, Borro rispose: «Ho sostenuto e dimostrato che non esiste nulla al di là della sfera (le stelle); mi è stato detto di ritrattare; vi assicuro che se c’è qualcosa, può essere solo un piatto di tagliatelle per l’inquisitore». Dopodiché fu immediatamente mandato in prigione.


Periodico bimestrale n.1/2014 L’aspetto umanistico e sconosciuto del grande scienziato, pag. 2

Altro maestro pisano di Galileo fu il professore di filosofia Francesco Buonamici. Anche lui anticlericale, introdusse i «frati» nella classificazione aristotelica della vita senziente, come anello di congiunzione tra l’uomo e le bestie. In nessuno di questi esseri Buonamici ammetteva la presenza di un’anima immortale. Una volta gli chiesero se conosceva l’opera di san Tommaso e lui rispose che non leggeva «libri di frati». Era però protetto dal granduca di Firenze Cosimo I e questo valse ad evitargli guai seri. Nemico della Chiesa era anche Gianfrancesco Sagredo, il più caro amico di Galileo nel periodo successivo alla formazione, quello in cui soggiornò a Venezia. Quel Sagredo di cui è rimasta una lunga corrispondenza con un gesuita, nel corso della quale, a stuzzicare l’interlocutore, aveva finto di essere una vedova colta da dubbi teologici e con una gran quantità di denaro a disposizione. Galileo stesso era un buontempone: «Si sbellicava dalle risate davanti all’umorismo di bassa lega di Ruzzante nonché al rude ed espressivo dialetto dei suoi personaggi». Teneva allegri i propri amici fiorentini con le sue letture in «lingua padovana». Uno dei modi con cui Galileo si guadagnava da vivere (probabilmente il più redditizio) era quello di fare oroscopi. Li faceva anche Keplero, che previde la morte del comandante boemo Albrecht von Wallenstein (1634), al servizio dell’imperatore Ferdinando II nella guerra dei Trent’anni. Ma quest’«arte» per Galileo era anche (se non soprattutto) un diletto: «Il fatto che si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo», scrive l’autore, «suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore». Fu Cristina, granduchessa di Toscana, che invitò Galileo alla villa Medici sulle colline di Pratolino, dove, qualche tempo dopo, sarebbe divenuto maestro privato di Cosimo. E fu sotto la protezione di quella famiglia che, lasciata la Repubblica di Venezia, nel 1609 alzò il telescopio verso il cielo dove scoprì i segreti della Luna e intuì che la Via Lattea non era «il prodotto di una complessa esalazione terrestre» (come si riteneva fino ad allora), bensì un complesso di stelle fino al momento non identificate come tali. A Firenze Galileo intraprese la sua nuova carriera da «cortigiano». Da professore di basso livello «era arrivato a diventare un giullare di alta classe, da cui ci si aspettava che mitigasse la monotona e formale routine di corte sfornando di tanto in tanto qualche meraviglia». Ad esempio con alcune «gare» che andavano di gran moda. Cosimo spinse un professore di filosofia pisano, Flaminio Papazzoni, a rappresentare la posizione opposta a quella di Galileo in un dibattito che si sarebbe tenuto alla presenza della famiglia del granduca. Di norma questo tipo di spettacoli andava in scena dopo pranzo («un surrogato della televisione») e Galileo, quando gli veniva chiesto di farlo, era obbligato da contratto a parteciparvi. Fece dunque «la propria parte di giullare» (ma «molto potente»), rispondendo alle domande che gli venivano rivolte e difendendosi nel modo più arguto possibile. E anche se, in quanto momenti ricreativi, «le dispute postprandiali non richiedevano una dichiarazione di vittoria o un’ammissione di sconfitta», nel caso in questione, Galileo vinse con facilità. Non perché Papazzoni fosse incompetente, ma perché, dovendo la propria cattedra a una raccomandazione di Galileo stesso, non aveva alcun interesse a impegnarsi più di tanto. A volte Galileo doveva confrontarsi con più sapienti in una stessa serata. Il metodo di Galileo era quello di parlare e parlare, in continuazione e in modo brillante, affrontando contemporaneamente tutti coloro che si presentavano a lui, come un campione di scacchi che gioca simultaneamente contro una dozzina di avversari. La sua specialità era far proprie le posizioni dell’interlocutore, per poi umiliarlo all’improvviso. Giocava con «le sue vittime raffinando le loro argomentazioni fino a dare l’impressione di renderle invincibili, per poi annichilirle». Lo spettacolo era garantito da questo colpo di scena finale. La corte, in cambio di queste prestazioni, gli avrebbe coperto le spalle per ogni sua attività speculativa. Tant’è che a Firenze Galileo, forte di questa protezione, provò (e riuscì) ad avere un rapporto proficuo con matematici e filosofi della Compagnia di Gesù. E quando diede alle stampe il Sidereus Nuncius , i Medici sollecitarono poemi di encomio da premettere alla successiva edizione in italiano (che non vide mai la luce). Ne rimane ancora una raccolta: quaranta esametri, dieci odi saffiche, due epigrammi e quattro distici, tutti scritti da gesuiti. I quali, secondo Heilbron, «avrebbero dovuto fare a Galileo il medesimo servizio che fanno oggi i giornali nei confronti degli scienziati, cioè promuovere e celebrare le scoperte prima che gli esperti si pronuncino su di esse».


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La vicenda galileiana ebbe una svolta il 24 febbraio del 1616, quando undici teologi, selezionati dal Sant’Uffizio per valutare la teoria di Copernico sul «Sole centro del mondo e del tutto privo di moto locale», la giudicarono «formalmente eretica», perché in contrasto con le Sacre Scritture. Cosa che creò grande imbarazzo dal momento che il De revolutionibus di Copernico era stato pubblicato settant’anni prima, non era mai stato censurato e molti scienziati si erano rifatti a quel testo per dare basi alle loro teorie. Compreso Galileo. Il Papa ordinò al cardinal Bellarmino di ammonire Galileo ad abbandonare le opinioni «copernicane». E Galileo, che all’epoca aveva già pubblicato il Sidereus Nuncius , Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua , obbedì come se si trattasse di una formalità. I guai più seri per lui sarebbero venuti da due nuovi libri: Il Saggiatore e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo . Il nuovo Papa, Urbano VIII, salito al soglio nel 1623, amava dissipare ricchezze ma soprattutto comporre versi. E in questo campo non voleva rivali. Fece addirittura mettere all’Indice l’Adone di Giambattista Marino, per disfarsi di un poeta che avrebbe potuto dargli ombra. Di Galileo apprezzava poco che fosse stato amico dell’autore della Istoria del Concilio Tridentino , di forte impronta antiromana, Paolo Sarpi (scomparso nel gennaio di quello stesso 1623). Ma apprezzò le frecciate ai gesuiti contenute nel Saggiatore , che si era affrettato a leggere. Il Papa trattò Galileo alla stregua di un pari grado. Gli concesse sei udienze private, due medaglie, la promessa di una pensione per il figlio e l’imprimatur per il Dialogo , a patto che presentasse le teorie copernicane come ipotesi. E perché tutti capissero che aria tirava sulla «questione Copernico», alla fine del 1624 il Papa fece dare alle fiamme, in Campo de’ Fiori, l’arcivescovo Antonio De Dominis (o meglio il suo corpo: era morto da tre mesi, dopo essere stato imprigionato a Castel Sant’Angelo) assieme ai suoi libri. E venne l’epoca dei supposti complotti. Urbano VIII vedeva nemici ovunque e si era fatto di giorno in giorno più sospettoso. Per dare un’idea del clima dell’epoca, Giovanni Ciampoli, che era stato suo segretario, quando nel 1632 fu costretto a lasciare l’incarico, diede questi «consigli» al suo successore: «Cerca la protezione tra funzionari e ciambellani perché sono loro e non i cardinali ad avere il potere; ma non mirare troppo in alto». «Non fidarti di nessuno, non credere a nessuno; non incontrarti con altri uomini della corte nelle tue stanze, se non vuoi che qualcuno sparga la notizia di un complotto». «Evita l’ostentazione; non parlare del principe o di uno scandalo a corte; non parlare in modo saggio; cerca anzi di non parlare affatto». «Non criticare mai i preti e i monaci in pubblico; non mostrare alcuna preferenza per un qualsiasi particolare ordine; dai l’impressione di essere religioso, devoto e zelante, perché gli ipocriti hanno sempre successo». «Vieni spiato? Onora la spia; la simulazione è l’anima della corte». «Vuoi distruggere un rivale? Rendi pubblico il suo amore per le donne e per il denaro». «Evita di sembrare intelligente, e ricorda che la pazienza, per un uomo di corte, è ciò che la castità, la povertà e l’obbedienza sono per un monaco». «Se fai tutto questo potresti avere successo… prima di cadere». Suggerimenti che ben descrivono il contesto in cui Galileo si trovò a giocare la sua ultima partita. Contesto che, però, poteva anche offrire delle opportunità. Il pontefice nel 1626 fece liberare Tommaso Campanella (imprigionato per eresia nel 1599) dopo che questi aveva lodato i suoi versi. E lo promosse consigliere astrologico nel momento in cui Campanella smentì la profezia secondo cui Papa Barberini sarebbe morto nel 1628 o nel 1630. Nel contempo Urbano VIII fece arrestare un grande amico di Galileo, Orazio Morandi, direttore del convento vallombrosano di Santa Prassede, perché si era prestato a calcolare quale probabilità, secondo gli astri, aveva questo o quel cardinale di succedergli. Morandi morì in prigione. Nel 1631 il capo della Chiesa promulgò una bolla, Inscrutabilis , contro la divinazione, in particolare contro la previsione della morte dei papi o dei membri delle loro famiglie. E Urbano VIII che non solo non era morto nelle date previste dagli astrologi, ma aveva visto, nel 1632, cadere sul campo di battaglia il campione dei protestanti Gustavo Adolfo (era in corso la guerra dei Trent’anni) ed era stato ringraziato pubblicamente dalla sua cittadinanza per aver tenuto la peste lontano da Roma (1633), colse quel momento di forza per disfarsi di persone che avevano alzato troppo la testa. Fino ad infastidirlo. Il primo, come si è detto, fu Ciampoli. Il secondo, Galileo.


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Questi fu convocato a Roma dall’Inquisizione. Recalcitrò. Ma poi fu costretto al viaggio dell’umiliazione. A Roma fu ospite dell’ambasciatore di Firenze, Francesco Niccolini. A questo punto il libro di Heilbron dedica alcune pagine molto interessanti a smontare l’accusa tradizionale secondo cui le disgrazie di Galileo sono da ricondurre all’ordine dei gesuiti. Galileo accettò la ritrattazione chiesta da Bellarmino: «Ho ceduto a quella natural compiacenza», disse, «che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gli huomini in trovare, anco per le propositioni false, ingegnosi et apparenti discorsi di probabilità». In ginocchio davanti all’Inquisizione, Galileo giurò di non dire o scrivere nulla sulla Terra in movimento o sul Sole fisso, a pena di essere nuovamente sospettato di eresia. Anche se non pronunciò mai, riferendosi alla Terra, la frase che, per riscattarlo, gli è stata attribuita per secoli: «Eppur si muove!». Da quel momento Galileo invecchiò rapidamente tra amarezze e malanni. Il poeta inglese John Milton, che gli fece visita nel 1638, lo trovò piegato dalle sofferenze. L’inquisitore Giovanni Muzzarelli, che doveva accertare se davvero fosse malato, scoprì che dal 1637, a causa di un glaucoma, era diventato totalmente cieco. In seguito furono un lancinante dolore artritico, una strana febbre, il delirio. Morì l’8 gennaio del 1642. Urbano VIII scoraggiò il granduca Ferdinando dal proposito di erigergli un monumento, anzi gli negò il diritto di sepoltura a Firenze, così come aveva fatto per Paolo Sarpi a Venezia. Poi fu il silenzio. O quasi. La vicenda di Galileo Galilei ebbe un svolta duecento anni (circa) dopo la sua condanna. All’inizio dell’Ottocento, in epoca postnapoleonica, un professore di matematica dell’Università di Roma, Giuseppe Settele, scrisse un libro di astronomia eliocentrico e lo inviò alla censura pontificia perché ne autorizzasse la pubblicazione. Il maestro del Sacro Palazzo, Filippo Anfossi, lo definì eretico e rifiutò di autorizzarne la divulgazione. Settele fece appello al Papa, Pio VII (Luigi Barnaba Chiaramonti), che girò il caso alla Congregazione dell’Indice e al Sant’Uffizio i quali, a sorpresa, decretarono che gli inquisitori di due secoli prima, quando avevano definito la teoria copernicana «contraria alle Scritture», non intendevano «contraria alla fede», bensì «opposta alla lettura tradizionale delle Scritture». Fu così che i testi copernicani, compresi quelli di Galileo, uscirono alla chetichella dall’Indice dei libri proibiti. A ridosso del 1815, in un’epoca — e la circostanza colpisce — di piena Restaurazione. A dire il vero, qualcosa aveva cominciato a muoversi già nel Seicento. Heilbron suddivide in quattro fasi l’evoluzione che portò dalla condanna di Galileo al riscatto di Settele. La prima ha il suo «punto di non ritorno» nel 1651, allorché il gesuita Giovambattista Riccioli pubblicò l’Almagestum novum, in cui erano esposte 126 argomentazioni filosofiche, matematiche e teologiche pro e contro il copernicanesimo (49 a favore, 77 contrarie). Riccioli riprodusse i termini della discussione a vantaggio quantitativo dei nemici di Copernico, ma consentendo al lettore di farsi un’idea appropriata ed esauriente dei termini della disputa. Scrisse poi che lui respingeva le teorie copernicane «per obbedienza verso Roma» e non «perché la fede cattolica lo obbligasse a farlo». In altre parole, fu autorizzato a dire «che il Sant’Uffizio da solo non aveva l’autorità di dichiarare alcunché un’eresia o un articolo di fede». Solo il Papa (o il Concilio, con l’approvazione del Papa stesso) poteva «vincolare in questo modo la Chiesa». «Non è una questione di fede che il Sole si muova e che la Terra rimanga ferma in forza del decreto della congregazione», scriveva; «al massimo, lo è in forza delle Sacre Scritture, per coloro per i quali è moralmente evidente che questo è quanto Dio ha rivelato». Dopodiché definiva Galileo «un matematico di immense capacità e incredibilmente abile in astronomia», che «sarebbe stato ancor più grande se avesse avanzato l’opinione di Copernico come una semplice ipotesi». Quel che gli aveva chiesto Urbano VIII. Nella seconda fase, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, racconta Heilbron, gli astronomi cattolici «si guadagnarono il diritto di insegnare e perfino di sviluppare la teoria copernicana, se vi si riferivano esplicitamente e ripetutamente come ad un’ipotesi». Nel 1685 il Sant’Uffizio accolse la richiesta di scrivere «ipotesi erronea» sul frontespizio di un libro sul sistema copernicano. Al testo andava poi aggiunta la frase: «Dato che la Chiesa ha dichiarato che le Sacre Scritture insegnano espressamente il contrario, questo sistema non può essere difeso in alcun modo». Ma la novità era che di fatto si autorizzavano — pur con le cautele di cui si è detto — la pubblicazione e la diffusione del libro. Nello stesso modo in cui, osserva Heilbron, «le società moderne consentono la vendita di sigarette con l’indicazione che sono dannose».


Periodico bimestrale n.1/2014 L’aspetto umanistico e sconosciuto del grande scienziato, pag. 5

Fu così che gli inquisitori di Clemente XI chiusero un occhio, nel 1710, in occasione della pubblicazione «clandestina» del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , ad opera di uno stampatore napoletano di libri proibiti. La terza fase della riabilitazione sottotraccia di Copernico e Galileo andò dal 1710 al 1760. Un caso anticipatore di quello di Settele si ebbe già nel 1744, quando Giuseppe Toaldo pubblicò un’edizione, opportunamente emendata, delle Opere di Galileo. Anche qui fu un pontefice, Benedetto XIV, a vincere le resistenze all’interno della Chiesa. Benedetto XIV, però, non autorizzò l’uscita del Dialogo dall’Indice. Successivamente la Chiesa attribuì ai seguaci della Compagnia di Gesù — fu soprattutto il padre barnabita Paolo Frisi — l’intera colpa dell’accaduto a danno di Galileo. Il che fu reso più agevole dalla circostanza che, nel 1773, Papa Clemente XIV aveva soppresso l’ordine dei gesuiti stesso. La quarta fase fu quella che precedette (e rese possibile) la vicenda Settele. Dopo la vittoria di Settele, però, si dovettero attendere alcuni decenni prima del passo successivo. Che fu ad opera di Leone XIII, il quale, con l’enciclica Providentissimus Deus (1893), pur senza nominare Galileo, stabilì, in un contesto di difesa delle Sacre Scritture, che Dio non aveva inteso insegnare la fisica per tramite di Mosè. Ne discendeva che Galileo non si era macchiato di nessuna colpa. Poi, nel 1942, fu la volta di Pio XII, che il nome di Galileo lo pronunciò. E addirittura affidò a monsignor Pio Paschini il compito di scriverne una biografia di sostanziale riabilitazione. Ma i gesuiti (ricostituiti in ordine dal 1814) si opposero alla pubblicazione e il manoscritto, in due volumi, sparì. Per ricomparire dopo il Concilio Vaticano II, per intercessione di Paolo VI, in linea con un suggerimento che era stato già di Giovanni XXIII. Nel corso del Concilio il nome dello scienziato era riapparso, il 30 aprile 1964, nella consulta di preparazione allo schema 13 su La chiesa e il mondo d’oggi , la volta che il cardinale belga Leo Josef Suenens prese posizione sul problema della regolazione delle nascite dicendo: «Seguiamo il progresso della scienza! Vi scongiuro, fratelli miei, evitiamo un nuovo “processo Galilei”. Ne basta uno solo per la Chiesa!». Giovanni Paolo II nel 1979 fece il resto, con la celebre allocuzione in cui esaltò la figura di Galileo e riconobbe apertamente che lo scienziato aveva dovuto «soffrire moltissimo nelle mani degli uomini e degli organismi della Chiesa». Dopodiché il Papa polacco istituì una commissione che riesaminasse il caso e nel maggio del 1983 rese omaggio al grande scienziato, organizzando un congresso internazionale in Vaticano. Ma i lavori della commissione andarono poi a rilento («tra letargo e apatia», scrive Heilbron), finché il pontefice fu costretto ad intervenire sul presidente del Pontificio consiglio per la cultura, il cardinale Paul Poupard, il quale finalmente (nel 1992) rese noti i risultati. Risultati assai ambigui. Essi tenevano conto delle osservazioni del gesuita Walter Brandmüller: Galileo, secondo la Commissione, «aveva proceduto correttamente lungo la difficile strada dell’esegesi delle Scritture; i cardinali avevano negoziato con pari abilità l’altrettanto difficile strada dell’epistemologia». Una formulazione che tendeva a dar ragione sia a Galileo sia a coloro che lo avevano condannato e che Heilbron definisce, in alcuni passaggi, «perfino comica». Ma il recupero di Galileo era ormai in prossimità del traguardo fissato da Giovanni Paolo II: quello della definitiva riammissione dello scienziato nel recinto della comunità cristiana. In seguito è perfino accaduto che «reliquie» di Galileo siano state esposte in chiese, a suo tempo da lui frequentate, di Venezia, Padova, Firenze e Roma. Si potrebbe pensare che sia iniziato un processo di beatificazione. Qualcuno potrebbe obiettare che Galileo non fece miracoli. Ma — ribatte Heilbron — neanche Tommaso d’Aquino ne aveva fatti. In sostanza, scrive Heilbron, «Galileo fece un miracolo stupendo: distrusse l’antica distinzione tra regni terrestre e celeste, sollevò la Terra in cielo, rese i pianeti tante Terre e rivelò che la nostra Luna non è unica nell’universo… Secondo la meccanica di Galileo, la più piccola forza può muovere il più grande peso, in un tempo sufficiente; la direzione del moto è chiara: chi può dubitare che entro i prossimi quattrocento anni la Chiesa riconoscerà i doni divini di Galileo, riparerà alle sue sofferenze, ignorerà la sua arroganza e lo farà santo?». Conclusione paradossale. Ma fino a un certo punto. CORRIERE DELLA SERA | 10 Dicembre 2013


Periodico bimestrale n.1/2014 La religiosità laica dell’arte, pag. 6

L’Arte puo’salvarci dall’angoscia. di Alain De Botton Il mondo moderno tiene l’arte in grande considerazione. Lo si vede dal fatto che si continuano ad aprire nuovi musei, si destinano notevoli risorse pubbliche alla produzione e all’esposizione di opere d’arte, si cerca di avvicinare ad essa un pubblico sempre più ampio (coinvolgendo anche bambini e gruppi minoritari), lo si nota dal prestigio goduto dagli studiosi e dalle alte valutazioni del mercato dell’arte. L’arte è ritenuta qualcosa di vicino al senso stesso della vita. Nonostante tutto questo, i nostri incontri con l’arte non sempre sono soddisfacenti come vorremmo. Spesso usciamo da un museo importante con un senso di delusione, di disorientamento o di inadeguatezza, chiedendoci perché la profonda esperienza che ci attendevamo non si è verificata. E di solito diamo la colpa a noi stessi, alla nostra ignoranza o mancanza di sensibilità. Secondo me, il problema non è nell’individuo, ma nel modo in cui l’arte viene insegnata, venduta e presentata dalle istituzioni artistiche. Dall’inizio del XX secolo il nostro rapporto con l’arte è stato condizionato dalla profonda riluttanza istituzionale ad affrontare la questione della funzione dell’arte. È una questione che, ingiustamente, viene considerata importuna, illegittima e un po’ impudente. L’espressione «l’arte per l’arte» respinge l’idea che l’arte debba avere uno scopo preciso, lasciandola così in un empireo misterioso — e quindi vulnerabile. L’importanza dell’arte è di solito data per scontata, piuttosto che venir spiegata. Che abbia un valore è considerata una cosa ovvia. Questo è però sbagliato, sia per chi la contempla che per chi la custodisce. Sono convinto che l’arte abbia uno scopo che può essere definito e discusso in termini chiari. Credo che l’arte sia uno strumento e che si debba cercare di capire con maggiore precisione quale sia la sua natura e cosa possa fare di buono per noi. Tanto per cominciare, abbiamo bisogno di uno strumento che corregga o compensi una serie di nostre fragilità psicologiche. Riassumiamo alcune di queste debolezze: 1. Dimentichiamo ciò che conta, non riusciamo a valorizzare esperienze importanti, ma poco comprensibili. 2. Tendiamo a scoraggiarci: siamo ipersensibili ai lati negativi dell’esistenza. Perdiamo legittime occasioni di successo perché non riusciamo a vedere la ragione per continuare a fare certe cose. 3. Siamo inclini a sentirci isolati e perseguitati, perché non vediamo in modo realistico i normali livelli di difficoltà. Cadiamo troppo facilmente in preda al panico, perché non diamo il giusto significato ai nostri problemi. Siamo soli — non perché non abbiamo qualcuno con cui parlare, ma perché chi ci sta intorno non è in grado di capire i nostri problemi con sufficiente profondità, onestà e pazienza. Questo anche perché la rappresentazione dei nostri dolori — relazioni sbagliate, invidie, ambizioni non realizzate — può essere spiacevole e offensiva. Soffriamo, e ci sembra che la nostra sofferenza sia poco dignitosa. 4. Siamo poco equilibrati e perdiamo di vista i nostri lati migliori. Noi non siamo un’unica persona. Siamo fatti di molteplici «io», e sappiamo che alcuni di questi sono migliori di altri. Tendiamo a manifestare i nostri «io» migliori un po’ a caso e quando è troppo tardi; perseguiamo le ambizioni più alte con poca determinazione. Pur sapendo come dovremmo comportarci, non riusciamo ad agire secondo le nostre migliori intuizioni, che non ci si offrono in una forma sufficientemente convincente. 5. Farci conoscere è difficile: costituendo già un mistero per noi stessi, non riusciamo a spiegare agli altri chi siamo, o non siamo in grado di farci apprezzare per i giusti motivi. 6. Respingiamo molte esperienze, popoli, luoghi, epoche che hanno cose importanti da offrirci, perché ci si presentano nella forma sbagliata e non ci danno modo di avvicinarle. Siamo inclini a giudizi superficiali e a preconcetti. Vediamo quel che è «straniero» con troppa diffidenza. 7. La consuetudine ci rende meno sensibili — e viviamo in un mondo dominato dal commercio e dalla moda. Siamo quindi spesso insoddisfatti di una vita che ci sembra troppo monotona e pensiamo che «la vera vita» sia altrove.


Periodico bimestrale n.1/2014 La religiosità laica dell’arte, pag. 7

L’arte trova il suo scopo e il suo valore in relazione a questi sette problemi cognitivi, per ciascuno dei quali ci offre benefici: 1. Corregge la cattiva memoria: l’arte rende i frutti dell’esperienza memorabili e rinnovabili. È un meccanismo che mantiene le cose preziose, le nostre migliori intuizioni, in buone condizioni e le rende accessibili a tutti. L’arte tesaurizza le nostre vittorie collettive. 2. Apporta speranza: l’arte ci mostra le cose piacevoli e confortanti. Sa che ci disperiamo con troppa facilità. 3. Rende dignitoso il dolore: l’arte ci ricorda qual è il giusto posto del dolore in una vita piena, permettendoci così di essere meno travolti dalle difficoltà, che possono essere viste come componenti legittime di un’esistenza nobile. 4. È un fattore di equilibrio: l’arte rappresenta con insolita chiarezza l’essenza delle nostre buone qualità e ce le mette davanti agli occhi utilizzando vari mezzi di comunicazione, per aiutarci a riequilibrare la nostra natura e indirizzarci verso le nostre migliori possibilità. 5. È una guida alla conoscenza di sé: l’arte ci aiuta a identificare quel che è importante per noi, ma che è difficile esprimere con le parole. Molto di quel che è umano non è reperibile nella sfera linguistica. Può capitare di prendere un oggetto artistico e di dire, confusamente ma significativamente, «questo sono io». 6. È una guida all’espansione dell’esperienza: l’arte è una summa , immensamente sofisticata, delle esperienze di altri, presentate in una forma ben costruita e organizzata. Ci fornisce alcuni degli esempi più eloquenti dell’espressione delle altre culture — quindi la fruizione di opere d’arte espande la nostra idea di noi e del nostro mondo. In un primo momento l’arte ci sembra in gran parte «altro», ma scopriamo che essa può contenere al suo interno idee e atteggiamenti che possiamo fare nostri arricchendoci. Non tutto quello che serve a migliorarci è già attorno a noi. 7. È uno strumento di risensibilizzazione: l’arte rimuove la nostra scorza e ci salva dall’abituale indifferenza verso quel che ci circonda. Ci permette di recuperare la sensibilità, di guardare il vecchio in modo nuovo. Ci evita di pensare che le novità e la moda siano le uniche soluzioni. Si sente spesso dire che «i musei sono le nostre nuove chiese»: in altre parole, in un mondo che si sta secolarizzando, l’arte ha sostituito la religione come veicolo di riverenza e devozione. È un’idea interessante, che fa parte della più ampia nozione per cui la cultura dovrebbe sostituire la Scrittura. In pratica, però, i musei presentano le collezioni loro affidate in forme che spesso li allontanano dalla possibilità di svolgere la funzione di chiese (luoghi di consolazione, meditazione, redenzione). Ci mostrano oggetti genuinamente importanti, ma sembra non siano in grado di organizzarli in modo da collegarli con forza ai nostri bisogni profondi. CORRIERE DELLA SERA | 09 NOVEMBRE 2013


Periodico bimestrale n.1/2014 Sciascia e Dio, pag. 8

Religiosita’ e ateismo di Leonardo Sciascia Io spero che nessuno si aspetti da me un dotto discorso oppure un’indagine esaustiva su religiosità e ateismo o su ateismo e religiosità. [...] Mi pare sia stato Bertrand Russell a dire che tutta la filosofia occidentale non è che un’annotazione in margine a Platone e così è anche per il problema dell’ateismo che si è invece portati a considerare abbia avuto dibattito e definizione prevalentemente nel secolo XVIII. Ed è certo che quantitativamente in quel secolo il problema è stato maggiormente agitato e si potrebbe anche dire propagandato, ma in definitiva pochissimo è stato aggiunto allora e fino ad ora, all’analisi di Platone. Si tratta, insomma, di annotazioni in margine, propriamente. Dicendola la prima e più bella analisi dell’ateismo che la storia della filosofia ricordi, così Abbagnano la riassume, dal Decimo Libro delle Leggi di Platone. Platone considera tre forme di ateismo: primo, la negazione della divinità; secondo, la credenza che la divinità esista, ma non si curi delle cose umane; terzo, la credenza che la divinità possa essere propiziata con doni e offerte. Di queste tre forme di ateismo, le prime due, corrispondenti approssimativamente al materialismo e allo scetticismo, si possono dire di ateismo filosofico, anche se Platone riconosceva come tale soltanto la prima, considerando di volgare pregiudizio le altre due. [...] Comunque, ad apparentare le prime due forme di ateismo poste da Platone e che qui ed ora non molto mi interessa, ricorderò le poco conosciute lettere di Lorenzo Magalotti sull’ateismo, piene, specialmente le prime, di sottili osservazioni a svolgimento di temi come questo: «Veri atei pochissimi. Gli uomini di buon senso che danno in ostentar l’impietà, siccome non diventano mai veri atei, così mai non s’assicurano nel loro preteso ateismo. Questi son più lontani dal diventare veri atei che dal professare qualche religione». E ancora: «Non potere gli atei negare Dio, ma al più dubitarne», e così via. Che è, questa di Magalotti, una meditazione sull’ateismo degli “uomini di buon senso”, come lui dice, e fatta da un uomo di buon senso. Che più di due secoli dopo questo modo di intendere l’ateismo e del più impetuoso scorrere dell’ateismo filosofico, André Gide riassume in questa nota nel Journal: «Sade e La Mettrie i due veri atei del XVIII secolo, diceva Jean Strohl. La penso quasi allo stesso modo, non potendo considerare atei Voltaire, d’Holbach, Grimm, Montesquieu e meno ancora Rousseau. Quanto a Diderot, il suo articolo su Spinoza mi mette in confusione. Oh, sì, qualcuno di loro non credeva ai miracoli, alla provvidenza, a un qualche dio che accidentalmente faceva trionfare nei particolari voleri, ma non è così facile essere atei. Io capisco Hume quando dice a d’Holbach che non aveva avuto la fortuna di incontrarne uno solo e quando il barone d’Holbach gli risponde: “Stasera avrete il piacere di cenare con diciassette di loro”, egli un po’ gioca sulla parola; mettendo poi i commensali con le spalle al muro, trovò in loro più un vago scetticismo che delle affermazioni negative ben precise e ben risolute ». [...] Ma riprendendo, io dico come Gide: ho sempre pensato che non è facile essere atei, totalmente e rigorosamente atei. È stato spiritosamente detto che in una sola giornata è possibile ad un uomo vivere tutte le filosofie che sono state pensate nei secoli, passare dall’una all’altra visione della vita e s’intende della morte, attraverso il succedersi delle condizioni e dei condizionamenti, delle percezioni e degli stati d’animo, della fatica, del riposo, dei desideri, degli appagamenti che una giornata contiene. Epicurei se immersi nel bagno, sofisti davanti allo specchio, stoici se sanguiniamo sbarbandoci, e così via. [...] Ma, come dicevo, non è l’ateismo proposto che qui ed ora m’interessa, ma quella terza forma di ateismo che Platone considera come la più pericolosa e malvagia che si potrebbe dire l’ateismo del credente in Dio, l’ateismo pratico, l’ateismo attivo; tenendo presente che sto parlando di credenza religiosa e di credenza atea nel mondo nominalmente cristiano, per capire che anche se le chiese cristiane hanno sempre indicato l’ateo filosofico come il vero e pericoloso nemico, effettualmente siamo di fronte a una mistificazione alquanto simile a quella cui ricorrono le tirannie quando impotenti al buon governo e mancando alle loro stesse promesse, per coloro che tengono in soggezione, creano ed indicano il nemico esterno.


Periodico bimestrale n.1/2014 Sciascia e Dio, pag. 9

In realtà, in area cristiana, l’ateo filosofico si potrebbe definire come un cristiano che crede di non credere in Dio. «Se Dio non esiste», dice Dostoevskij, «nulla ci è permesso »: nulla è permesso all’ateo e nulla l’ateo si permette che la legge religiosa non permetta tra gli uomini. E qui voglio introdurre una personalissima nota, ricordando Giuseppe Rensi, filosofo scettico, autore di una apologia dell’ateismo in una collana di apologie pubblicata, intorno al ’27, dall’editore Formiggini, collana che portava questa dicitura: «Tutte le fedi esaltate da credenti » e che quindi dava come fede anche l’ateismo e Giuseppe Rensi come nell’ateismo credente. Ed era un uomo, Rensi, di limpida e cristianissima vita, di limpido, libero e coraggioso sentire e dire, anche negli anni del fascismo da cui ebbe persecuzioni. Era un’anima naturale per i cristiani e posso dire che per me che mi sento cristiano, checché ne dicano i preti, i libri di Rensi sono stati una confermazione del mio essere cristiano; e non a caso uso la parola confermazione: la uso appunto come sinonimo di cresima; il mio battesimo è stato Victor Hugo e la mia cresima Giuseppe Rensi. E devo dire che io ritengo che quel tanto di cristiano che c’è nel mondo occidentale, lo si deve più a Victor Hugo che al catechismo. Ecco, questo scettico Giuseppe Rensi, io non lo direi ateo, nonostante la sua apologia dell’ateismo, nonostante il suo testamento che però alle parole «atomi» e «vuoto» aggiunge: «è il divino in me». Questa nota personalissima e forse divagante, mi dà però modo di entrare nel vivo del problema, brevemente. Il problema per come io lo sento, e cioè cogliendo un riferimento che Rensi, nella sua autobiografia intellettuale, fa a Pirandello, quando dice: «Il teatro di Pirandello non è altro che la mia filosofia portata con grandissimo ingegno drammatico sulla scena. La cosa è così evidente e innegabile che verrebbe universalmente riconosciuta e proclamata se, a mio riguardo, circostanze che non hanno nulla a che fare con la valutazione del pensiero, non stessero ad impedirlo ». Rensi in effetti si illudeva: non erano le circostanze, e cioè il fascismo dominante, a impedire, parlando di Pirandello, un riferimento alla sua filosofia: era piuttosto l’ignoranza e la disattenzione. Il rapporto comunque c’è e al di là o al di qua di ogni etichettabile filosofia; il rapporto sta, intrinsecamente, nel loro essere naturalmente cristiani e nel loro drammatico scontrarsi in un mondo che s’appartiene a quella forma di ateismo che Platone considera la più volgare e pericolosa: l’ateismo di coloro che credono nella trascendente divinità e che con invocazioni ed offerte, osservandone i riti, credono di poter averla propizia e tutto permettersi. Ed è una forma di ateismo molto diffusa nel mondo cristiano e nel nostro paese diffusissima. È un rapporto di corruzione che si instaura con Dio, quasi che Dio fosse un’entità simile a un ministero. Di questa forma di ateismo che per lui era semplicemente impostura, ebbe sospetto che potesse insinuarsi nel mondo cristiano già Luciano di Samosata nel secondo secolo; e ne è certo Montaigne nel XVI, e possiamo noi del XX scrutarla in ogni sua manifestazione, implicazione e conseguenza, appunto nel prisma dell’opera pirandelliana. E si può cominciare dalla commedia Pensaci, Giacomino! in cui al cristianesimo del professor Toti si oppone l’ateismo pratico, l’ateismo attivo di padre Landolina, opposizione che esplode in queste battute finali: «TOTI (a Landolina parlandogli davanti) Vade retro, vade retro! Via, via Giacomino, non ti voltare! (E mentre Giacomino e Ninì passano la soglia, seguita imperterrito a gridare) Vade retro! Distruttore delle famiglie! Vade retro! LANDOLINA (accorrendo, gridando) Giacomino, io credo... TOTI (subito dandogli sulla voce) Che crede? Lei neanche a Cristo crede!» Da qui, scorrendo tutta l’opera di Pirandello, ci apparirà quest’opera come conclusa, come serrata dentro il drammatico impatto che necessariamente doveva trovare la sua celebrazione definitiva nel teatro, nell’impatto tra quella che Bontempelli chiama l’anima candida e che io vorrei chiamare l’anima religiosa, l’anima naturalmente cristiana di una realtà umana di fidelistiche apparenze, ma sostanzialmente atea che è la nostra. [...] Contro questo tipo di ateismo non mi pare si rivolga oggi quello che appare come un ritorno alla religione; ha tutta l’aria di un ritorno di reduci, di sconfitti, di sconfitti nella affannosa, dolorosa e vana ricerca della felicità, nelle ideologie che quella terrena felicità prometteva.


Periodico bimestrale n.1/2014 Sciascia e Dio, pag. 10

E l’effetto di questo ritorno, si intravede nel mondo cattolico; mi pare di trovare un riflesso in quello che Chesterton, altro grande scrittore cristiano, diceva cinquant’anni fa del cattolicesimo americano: che all’impressione di essere in America come in una terra avanti la venuta di Cristo, molte perplessità aggiungeva l’innegabile sviluppo del cattolicesimo, i tanti cattolici americani. «Ho conosciuto», diceva Chesterton, «una signora serissima, laureata nella migliore Università cattolica; era convinta d’essere stata Maria Maddalena in un’esistenza anteriore. Sono cose che fanno paura, un senso di religioni nere, di torvi misteri». E non per nulla oggi la Chiesa è costretta a prendere posizione contro l’astrologia. I torvi misteri: qualcosa di nero, di oscuro c’è, in questo ritorno al cattolicesimo. Ma per concludere, c’è un solo vero e fervido segno di religiosità, di religione che mi pare scenda oggi nel cuore degli uomini ed è il desiderio e la speranza della pace. A questa parola, a questo segno, nell’avvento che avrà tra i popoli, tra gli uomini e soprattutto in ogni uomo, forse potrà legarsi la fine di quell’ateismo dominante che già Platone vedeva e condannava come il più pericoloso e malvagio. LA REPUBBLICA | 18 GENNAIO 2014


Periodico bimestrale n.1/2014

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