La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia. Il convegno “La responsabilità disciplinare. Quale giudice, quale giustizia” ha visto una partecipazione molto ampia sia di colleghi sia di personalità esterne alla magistratura; è il segnale che l’argomento è di grande interesse e viene incontro a una diffusa sensibilità. Il tema della giustizia disciplinare, infatti, attraversa tutti gli aspetti della nostra professione: quello della deontologia ma anche quello dell’organizzazione degli uffici e del modo di manifestarsi del magistrato al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Sono aspetti sui quali si è concentrata la discussione, al nostro interno e non solo, e sui quali si sono manifestate preoccupazioni e perplessità. Molteplici gli argomenti affrontati: la questione dei ritardi, che coinvolge i profili dell’organizzazione del lavoro e della responsabilità dei nostri dirigenti; le dichiarazioni pubbliche del magistrato, che investono gli aspetti dell’informazione sulla nostra attività e della tutela del magistrato; i temi che riguardano direttamente le questioni dell’etica e della deontologia, come ad esempio le condotte di interferenza. Vi è infine un argomento più tecnico, se vogliamo, ma anch’esso molto avvertito, cioè quello del rapporto tra giudizio disciplinare e valutazioni di professionalità. Non si devono assumere posizioni che evochino difese di casta, ma proprio per evitare il rischio di cadere in atteggiamenti demagogici o corporativi, è necessaria un’informazione seria, una riflessione informata: questo era lo scopo dell’incontro. Il nostro obiettivo è realizzare una giustizia disciplinare che sostenga una giurisdizione efficiente e indipendente e rafforzi fra i magistrati la fiducia in questo particolare settore dell’autogoverno.
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La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia. Roma, 16 maggio 2013
La responsabilitĂ disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia. Roma, 16 maggio 2013
Interventi di
INTERVENTI DI Roberto Carrelli Palombi
Consigliere presso la Corte Suprema di Cassazione Claudio Castelli
Presidente aggiunto sez. GIP Tribunale di Milano Mario Fresa
Sostituto procuratore generale presso la Corte Suprema di Cassazione Giovanna Lebboroni
Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona Antonio Patrono
Sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia Bernardo Petralia
Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo Rodolfo Maria Sabelli
Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Giovanni Salvi
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania Armando Spataro
Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano
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Sommario
SOMMARIO
Indirizzi di saluto Rodolfo Maria Sabelli ........................................................................................................................................ 1
Relazioni Roberto Carrelli Palombi ............................................................................................................................... 3 Antonio Patrono ...................................................................................................................................................... 11 Bernardo Petralia .................................................................................................................................................... 23 Giovanni Salvi ........................................................................................................................................................... 31
Interventi Armando Spataro ................................................................................................................................................... 41 Claudio Castelli ....................................................................................................................................................... 52 Mario Fresa ................................................................................................................................................................... 57 Giovanna Lebboroni .......................................................................................................................................... 62
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Indirizzi di saluto - Rodolfo Maria Sabelli
INDIRIZZI DI SALUTO Rodolfo Maria Sabelli Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati La partecipazione di oggi così numerosa è il segnale che il tema è di grande interesse e viene incontro a una diffusa sensibilità. Ringrazio tutti gli intervenuti, il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, i Componenti e il Segretario generale del Consiglio superiore della magistratura, i rappresentanti della Procura generale presso la Corte di Cassazione, i magistrati del Ministero. Mi fa particolarmente piacere la presenza di coloro che sono specificamente coinvolti nell’esercizio della giustizia disciplinare. Vedo con piacere anche la presenza di rappresentanti della magistratura onoraria e dell’avvocatura (tra gli altri, il presidente dell’Unione nazionale delle Camere civili). La presenza di personalità esterne alla magistratura dimostra come il tema della giustizia disciplinare abbia delle ricadute che non coinvolgono soltanto noi magistrati, ma investono (così come esprime il titolo del nostro convegno) il modo di essere del giudice e il modo di essere della giurisdizione. Abbiamo voluto organizzare questo convegno in due parti. Nella prima abbiamo invitato alcuni colleghi che sono stati componenti del Consiglio superiore della magistratura e che hanno avuto concreta esperienza nel settore della giustizia disciplinare, per comprendere dalla loro voce come stiano veramente le cose su alcuni temi della giustizia disciplinare che toccano aspetti di particolare sensibilità. La seconda parte dell’incontro è invece dedicata agli interventi programmati e a questo scopo abbiamo invitato a prendere la parola tutti coloro che lo desideravano, perché possano oggi esprimere il loro punto di vista e le preoccupazioni diffuse. Il tema della giustizia disciplinare, come è chiaro, attraversa tutti gli aspetti della nostra professione: quello della deontologia ma anche quello dell’organizzazione degli uffici e del modo di manifestarsi del magistrato al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Sono aspetti sui quali si è concentrata la discussione, al nostro interno e non solo, e sui quali si sono manifestate preoccupazioni e perplessità. Senza volere, evidentemente, 1
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
esaurire gli argomenti, ne cito alcuni in particolare: la questione dei ritardi, che coinvolge i profili dell’organizzazione del lavoro e della responsabilità dei nostri dirigenti; le dichiarazioni pubbliche del magistrato, che investono gli aspetti dell’informazione sulla nostra attività e della tutela del magistrato; i temi che riguardano direttamente le questioni dell’etica e della deontologia, come ad esempio le condotte di interferenza. Vi è infine un argomento più tecnico, se vogliamo, ma anch’esso molto avvertito, cioè quello del rapporto tra giudizio disciplinare e valutazioni di professionalità. Ovviamente, non si devono assumere posizioni che evochino difese di casta, ma proprio per evitare il rischio di cadere in atteggiamenti demagogici o corporativi, è necessaria un’informazione seria, una riflessione informata: a questo scopo risponde questo incontro, che, peraltro, è soltanto un momento di un percorso più complesso che vedrà a breve anche una riunione del Comitato direttivo centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il nostro obiettivo è realizzare una giustizia disciplinare che sostenga una giurisdizione efficiente e indipendente e rafforzi fra i magistrati la fiducia in questo particolare settore dell’autogoverno.
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Relazioni - Roberto Carrelli Palombi
RELAZIONI Roberto Carrelli Palombi Consigliere presso la Corte Suprema di Cassazione
“Rapporti fra giudizio disciplinare e altri giudizi: incidenza sulla carriera del magistrato” A distanza di circa cinque anni dall’entrata in vigore del sistema disciplinare delineato nel d. lgs. 109/2006, così come modificato dalla l. 169/2007, è quanto mai opportuno questo momento di riflessione organizzato dall’ANM, finalizzato a verificare se la nuova normativa abbia realizzato, nel complesso, un sistema più incisivo e più efficiente. Si impone, però, una premessa di carattere generale: l’esercizio del potere disciplinare perseguo lo scopo di garantire una forma di controllo pubblico sulla deontologia dei magistrati; esso, infatti, ha ad oggetto non solo l’attività funzionale, ma anche quella posta in essere dal magistrato fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, quando si risolva in condotte incompatibili con lo status di magistrato o che comunque comportino una strumentalizzazione delle funzioni giudiziarie per fini ad esse estranei. Ciò in quanto costituisce un’esigenza fondamentale dello Stato assicurare che le funzioni giurisdizionali, o per meglio dire giudiziarie, dovendosi includere in essere tutte le funzioni svolte dagli appartenenti all’ordine giudiziario, che tanto possono incidere sui diritti dei cittadini, siano esercitate da soggetti che assicurino il rispetto dei doveri, fissati per la prima volta dal legislatore nel catalogo contenuto nell’art. 1 d. lgs. 109/1990. Difatti, al di là degli strumenti processuali previsti dai codici di rito, che mirano ad assicurare l’imparzialità del giudice, il sistema disciplinare dei magistrati è posto a presidio della correttezza, del prestigio, dell’autorevolezza della funzione giurisdizionale, bene oggi quanto mai fondamentale nell’organizzazione dello stato democratico anche in considerazione del ruolo crescente assunto dal giudice nelle moderne società, caratterizzate sempre più da un perenne processo di creazione di un ordinamento giuridico costituito da una pluralità di fonti normative, nell’ambito delle quali si rivela sempre più fondamentale l’attività d’interpretazione. In tal senso deve ritenersi che la materia disciplinare non appartiene esclusivamente al corpo professionale 3
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della magistratura, in quanto il prestigio dell’ordine giudiziario ed il corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie sono patrimonio della generalità dei cittadini, come avviene per l’indipendenza della magistratura. Il nuovo quadro normativo a cui ho fatto riferimento è caratterizzato da due importanti novità rispetto al sistema previgente: in primo luogo la tipizzazione delle fattispecie astratte costituenti illecito disciplinare e quindi l’introduzione dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare. Con riferimento al primo aspetto è opportuno ricordare che nel sistema previgente la norma fondamentale era quella contenuta nell’art. 18 r.d.l. 511/1946 in base alla quale era sottoponibile a sanzione disciplinare “il magistrato manchi ai suoi doveri o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”. In sostanza era la sezione disciplinare, sotto l’impulso della Procura Generale e del Ministro della Giustizia, ad individuare i fatti lesivi del bene giuridico protetto, costituito, appunto, dal prestigio dell’ordine giudiziario. Ed a questo processo di catalogazione dei doveri del magistrato attraverso la giurisprudenza della sezione disciplinare e delle sezioni unite della Cassazione si è rifatto il legislatore del 2006 nell’individuare le diverse figure tipizzate di illecito disciplinare nell’esercizio e fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie. Si è creato, quindi, un vero e proprio codice disciplinare attraverso la definizione da un lato dei valori tutelati tramite lo strumento della giustizia disciplinare; si tratta appunto del catalogo dei doveri contenuto nell’art. 1 d. lgs. 109/2006 e riguardanti sia i doveri che il magistrato dovrà rispettare nell’esercizio delle sue funzioni sia i valori ai quali dovrà uniformarsi anche al di fuori dell’esercizio delle funzioni; da un altro lato poi si è proceduto all’individuazione delle diverse fattispecie di illecito, suddivise in tre categorie a seconda che l’illecito sia commesso nell’esercizio delle funzioni, al di fuori di esse o sia connesso alla commissione di un reato. Il sistema creato dovrebbe prevenire quelli che comunemente venivano additati come i maggiori pericoli presenti nel sistema previgente caratterizzato, appunto, dall’assenza della tipizzazione: e cioè da un lato perseguire effettivamente e sottoporre a sanzione quei magistrati che abbiano commesso degli abusi e delle scorrettezze e dal lato opposto evitare che i magistrati possano essere perseguiti attraverso un uso distorto, intimidatorio o persecutorio del procedimento disciplinare. L’ardua riflessione che mi propongo sta nello 4
Relazioni - Roberto Carrelli Palombi
stabilire se l’attuale sistema stia risultando idoneo a perseguire questi scopi, che, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 109/2006, venivano indicati, anche all’interno dell’ANM, come gli obbiettivi di un’auspicata riforma della giustizia disciplinare ed inoltre se siano ancora pienamente compatibili attività amministrativa e funzione giurisdizionale. L’altro aspetto di grande novità introdotto dal legislatore del 2006 è costituito, come si diceva, dall’obbligatorietà dell’azione disciplinare; in realtà l’azione disciplinare è obbligatoria per il P.G. presso la Corte di Cassazione, mentre rimane facoltativa per il Ministro della Giustizia, nel senso che, quando gli uffici del Ministero vengono a conoscenza di fatti che possono configurare illeciti disciplinari, il Ministro può esercitare l’azione ai sensi dell’art. 14 comma 2 d. lgs. 109/2006 e lo fa chiedendo al P.G. di attivare le relative indagini. Tale differenziazione trova giustificazione nel fatto che, mentre il P.G., oltre ad essere politicamente irresponsabile, è vincolato ai canoni dell’uguaglianza e dell’imparzialità; viceversa il potere disciplinare attribuito al Ministro direttamente dalla Costituzione risponde a criteri di opportunità anche di carattere politico che presuppongono diversi regimi di responsabilità. Da quando detto scaturisce che il procedimento disciplinare deve considerarsi pendente, a tutti gli effetti che andremo a verificare, non soltanto quando il P.G. ha dato obbligatoriamente inizio all’azione in presenza di un fatto che appare configurabile come illecito disciplinare, ma anche quando il Ministro ha fatto richiesta al P.G. di intraprendere le indagini. In ciò deve registrarsi una asimmetria del procedimento disciplinare rispetto al processo penale, sul quale pure il primo dovrebbe essere modellato: il procedimento penale, infatti, è considerato pendente, quando un fatto, qualificato come reato, è attribuito ad una persona in un atto (richiesta di rinvio a giudizio, richiesta decreto penale …), con il quale il P.M. esercita l’azione penale; viceversa nel giudizio disciplinare basta anche un atto – la richiesta del Ministro – di un soggetto estraneo, non solo al circuito dell’autogoverno, ma anche alla giurisdizione, perché il procedimento disciplinare debba considerarsi pendente, con tutti gli effetti che ne derivano sul piano amministrativo. In sostanza, nel procedimento disciplinare l’esercizio dell’azione precede la fase delle indagini, che possono concludersi con la richiesta di fissazione dell’udienza dinanzi alla sezione disciplinare o con la richiesta di non luogo a procedere, sulla quale, pure provvede la sezione disciplinare in camera di consiglio. Difatti la fase del 5
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cosiddetto predisciplinare ed il cosiddetto potere di cestinazione riconosciuto al P.G., è sottratta a qualsiasi controllo di carattere giurisdizionale, essendo previsto solo l’invio degli atti al Ministro, il quale può esercitare l’azione disciplinare. Una sorta di temperamento del principio di obbligatorietà è stata introdotta attraverso la norma contenuta nell’art. 3 bis d. lgs. 109/2006 che prevede, sotto la rubrica “Condotta disciplinare irrilevante” che: “L’illecito disciplinare non è configurabile, quando il fatto è di scarsa rilevanza”. In sostanza si introdotto nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, alla luce del quale il giudice disciplinare viene chiamato a verificare se nella fattispecie concreta portata al suo esame sia ravvisabile in concreto una lesione o messa in pericolo del bene tutelato dalla norma; detto bene giuridico, sulla base della costante lettura che del sistema normativo disciplinare hanno dato le sezioni unite della Cassazione alla luce avvenuta tipizzazione delle infrazioni, va considerato unico ed identificato, per tutte le ipotesi di illecito disciplinare, nella compromissione dell’immagine del magistrato (Cass. sez. U. n. 25091 del 13/12/2010, Rv. 614495). Tale costante indirizzo giurisprudenziale sembra prendere in considerazione esclusivamente l’evento, a cui si ricollega il concetto di necessaria offensività; in realtà la “sufficiente rilevanza” a cui si riferisce il legislatore perché possa ritenersi integrata la figura di illecito tipizzata implica una maggiore estensione concettuale che va al di là del puro e semplice evento, includendo nella verifica altri elementi dell’illecito, come ad esempio la tenuità e l’occasionalità del comportamento. In sostanza, in adesione ad orientamenti già espressi in dottrina, l’interpretazione del concetto di sufficiente rilevanza potrebbe condurre i giudici disciplinari a ritenere insussistente l’illecito non solo quando difetti l’offesa al bene protetto dalle norme, così come sopra individuato, ma anche quando emerga l’insufficiente rilevanza della condotta o dell’elemento psicologico. Ed a questo punto si impone una rimeditazione del tema dell’elemento psicologico nell’illecito amministrativo, quale è appunto l’illecito disciplinare alla luce della constatazione che il legislatore non ha ritenuto di definire in alcun modo il coefficiente psicologico della responsabilità disciplinare del magistrato; ciò comporta che generalmente in termini pratici si ritiene che l’illecito possa essere integrato, da un punto di vista soggettivo, indifferentemente dal dolo o dalla colpa, ma mai a titolo di 6
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responsabilità oggettiva; in realtà il tenore letterale di alcune delle fattispecie disciplinari tipiche, facendo riferimento ora ad una condotta diretta a …, ora all’intenzionalità o alla consapevolezza della condotta, ora a grave ed inescusabile negligenza, fornisce chiare indicazioni sulla connotazione dell’elemento psicologico dell’illecito. In alcuni casi è richiesta la colpa grave, come nei casi di ignoranza o negligenza inescusabile, in altri casi occorre il dolo come nel caso della consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione. A questo riguardo non può omettersi di segnalare una tendenza che traspare dalla lettura delle sentenze delle sezioni unite civili, principalmente in materia di ritardi nel deposito dei provvedimenti giudiziari, volta ad una sostanziale oggettivizzazione dell’illecito con conseguente sottovalutazione, se non proprio in alcuni casi eliminazione, dell’elemento psicologico dello stesso. Ciò è ravvisabile in quelle affermazioni, purtroppo divenute costanti nella giurisprudenza delle sezioni unite, che, ai fini dell’integrazione dell’illecito, non rilevano le condizioni di lavoro, la gravosità del carico o la produttività del magistrato incolpato. Vediamo ora quali possono essere le concrete incidenze delle vicende disciplinari sulla vita professionale del magistrato. Con riferimento al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi è espressamente previsto nel cosiddetto testo unico sulla dirigenza negli uffici giudiziari, nel paragrafo relativo alla comparazione fra i candidati, al punto avente ad oggetto le fonti di conoscenza, che la V commissione del C.S.M. debba tener conto delle decisioni adottate dalla sezione disciplinare e non solo di quelle di condanna; vi è poi la previsione normativa che preclude la possibilità di conferire incarichi direttivi al magistrato che abbia riportato la sanzione della perdita di anzianità oppure nell’ipotesi di condanna alla censura per fatti commessi nell’ultimo decennio. Ma dove l’incidenza dell’azione disciplinare nella carriera del magistrato si rivela particolarmente significativa e penetrante è in relazione alle pratiche di competenza della IV commissione. In primo luogo la normativa secondaria stabilisce che nell’ambito delle valutazioni di professionalità debba tenersi conto delle informazioni esistenti presso la segreteria della sezione disciplinare. In caso di pendenza dell’azione disciplinare la prassi prevede che la pratica relativa al conseguimento della valutazione di professionalità venga sospesa fino alla definizione del procedimento anche con sentenza non irrevocabile. Quindi già il solo inizio dell’azione disciplinare, prescindendosi da qualsiasi 7
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valutazione in ordine alla fondatezza della stessa, determina un danno, non solo di carriera, ma anche economico, stante il ritardo nella progressione stipendiale legata al conseguimento della valutazione di professionalità. Venendo poi al tema caldissimo del rapporto fra sentenza disciplinare e valutazioni di professionalità del magistrato che abbia riportato una condanna per l’illecito previsto dall’art. 2 comma 2 lett. q) d. lgs. 109/2006 per ritardi nel deposito dei provvedimenti giudiziari, deve preliminarmente prendersi atto del maggior rigore nella valutazione del ritardo nell’ambito delle valutazioni di professionalità rispetto a quanto avviene nel procedimento disciplinare. Difatti se il ritardo per essere rilevante da un punto di vista disciplinare deve essere superiore al triplo dei termini fissati dalla legge per il deposito dei provvedimenti, viceversa la circolare sul conseguimento delle valutazioni di professionalità nell’ambito del parametro relativo alla laboriosità prevede che si debba tenere conto della generale osservanza dei termini previsti per la redazione ed il deposito dei provvedimenti giudiziari, unitamente ai carichi di lavoro e ad eventuali ragioni che abbiano reso oggettivamente giustificabile il ritardo. E qui l’ambito di valutazione a cui è tenuto il C.S.M. in via amministrativa deve necessariamente essere più ampio. Difatti se da un lato è evidente che l’irrogazione di una sanzione disciplinare per l’accertata infrazione consistente nel reiterato, grave ed ingiustificato ritardo nel compimento di atti relativi all’esercizio delle funzioni debba necessariamente incidere nella valutazione del parametro relativo alla laboriosità, laddove è previsto che debba tenersi conto del rispetto dei tempi di trattazione dei procedimenti accertato attraverso le informazioni acquisite presso la sezione disciplinare; ciononostante i due procedimenti, in ragione della loro diversa natura e funzione, devono rimanere distinti e separati, evitandosi qualsiasi automatismo fra condanna disciplinare ed valutazione di professionalità negativa o non positiva. Difatti il primo si connota per il suo carattere giurisdizionale, ponendosi a presidio della deontologia del magistrato, mentre il secondo di carattere amministrativo è volto ad assicurare a tutti i gradi della giurisdizione un adeguato e sufficiente livello di professionalità; è importante poi segnalare il ruolo fondamentale che la normativa primaria e secondaria riconosce nel procedimento per la valutazione di professionalità al Consiglio giudiziario, chiamato ad esprimere un parere motivato non vincolante sulla professionalità del magistrato in valutazione utilizzando gli stessi parametri 8
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di capacità, laboriosità, diligenza ed impegno, ai quali poi dovrà rifarsi il CSM nell’esprimere il giudizio finale. In conclusione sul punto mi sembra importante evidenziare che in ogni fase del procedimento di valutazione della professionalità ed a tutti i livelli del circuito dell’autogoverno (capi degli uffici, consigli giudiziari, CSM), debba tenersi conto di tutti gli indicatori previsti nella circolare, pervenendo ad un giudizio unico in relazione ad ogni singolo parametro; in tale articolata procedura di valutazione il rispetto dei termini per la redazione ed il deposito dei provvedimenti giudiziari, richiamato in più parti della circolare anche in relazione a diversi parametri (diligenza e laboriosità), rileva non in quanto tale, ma solo se adeguatamente rapportato a quanto previsto negli altri indicatori: ciò comporta che, in relazione al parametro della diligenza, il rispetto dei termini deve essere valutato unitamente a quella che risulta essere la situazione dell’ufficio in cui opera il magistrato in valutazione; per il parametro della laboriosità occorre poi tener conto, al di là dell’ingiustificatezza ritenuta dalla sezione disciplinare, dei carichi di lavoro e di eventuali ragioni che rendano oggettivamente giustificabili i ritardi. Alla luce delle considerazioni ora svolte mi sento di non condividere la parte motiva di recenti delibere del CSM “in linea con le affermazioni del giudice disciplinare e con la recente giurisprudenza delle sezioni unite in tema di astratta giustificabilità dei depositi tardivi” con le quali non è stato riconosciuto il conseguimento della valutazione di professionalità di magistrati che erano stati sanzionati per l’illecito di cui all’art. 2 comma 1 lett. q) d. lgs 106/2006; in particolare alla luce della riconosciuta separatezza dei due giudizi mi sembra che nei casi citati, al di là della scelta di merito, ci si è fondati esclusivamente sulla vicenda disciplinare, applicando quei criteri che la giurisprudenza ha enucleato per considerare ingiustificati i ritardi sul piano disciplinare, dando, peraltro, per scontato che ritardi fossero sintomo di carenze organizzative ascrivibili esclusivamente al magistrato in valutazione. Quanto poi alla materia degli incarichi extragiudiziari è previsto che non possono essere autorizzati incarichi a magistrati nei cui confronti sia pendente un procedimento disciplinare, previsione recentemente modificata nel senso che il diniego dell’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico è previsto solo nel caso in cui vi sia stata richiesta di fissazione dell’udienza e non semplice inizio dell’azione disciplinare; la prescrizione in questo caso non è assoluta, 9
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essendo prevista una possibilità di deroga nell’ipotesi in cui la pendenza del procedimento, per l’entità dei fatti ed in considerazione della natura dell’incarico, non sia tale da pregiudicare la credibilità ed il prestigio dell’ordine giudiziario. Da ultimo in un’ottica che non vuole essere corporativa, tenendo conto anche dei dati assolutamente tranquillizzanti provenienti dal CSM, non può però omettersi di segnalare la molteplicità dei fronti ai quali il magistrato può trovarsi esposto in conseguenza di comportamenti che, come l’esperienza insegna, non sempre sono riconducibili a neghittosità e superficialità nell’esercizio delle funzioni. Alla sanzione disciplinare che, in caso di contestazione dell’illecito di cui all’art. 2 lett. q) d. lgs. 209/2006, con previsione che suscita dubbi di costituzionalità in termini di ragionevolezza, non potrà essere inferiore alla censura si può aggiungere la valutazione di professionalità non positiva con rivalutazione dopo un anno e corrispondente perdita di anzianità anche in termini economici unita alle penalizzazioni nella comparazione con altri candidati per il conseguimento di funzioni superiori ed alle richiamate limitazioni in materia di autorizzazione allo svolgimento di incarichi giudiziari. Vi è poi la mancata introduzione nel sistema disciplinare dell’istituto della riabilitazione, previsto, invece, per la generalità dei dipendenti pubblici all’esito di una valutazione del servizio prestato per due anni o cinque anni, a seconda della gravità dell’infrazione, successivamente all’irrogazione della sanzione. Certo, come affermato dalla Corte Costituzionale (298/1992), la specificità costituzionale dello status del magistrato giustifica un trattamento differenziato anche in sede disciplinare, pur tuttavia il nuovo sistema caratterizzato dalla tipicità e dall’obbligatorietà dell’azione disciplinare imporrebbe, a mio avviso, l’introduzione di forme di riabilitazione anche del magistrato che ha riportato una sanzione disciplinare. Tutto ciò anche alla luce della considerazione che il sistema disciplinare può rivelarsi inidoneo ad incidere su situazioni disdicevoli che non rientrano nel catalogo tipico delle infrazioni e ciò nonostante rappresentano condotte palesemente lesive del prestigio dell’ordine giudiziario e della credibilità della funzione giurisdizionale.
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Relazioni - Antonio Patrono
Antonio Patrono Sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia
“La giurisprudenza disciplinare in materia di ritardi e di organizzazione degli uffici” a. Testo della norma e commento sui primi due elementi costitutivi: reiterazione (superata la questione dell’abitualità), gravità (circoscritta e predeterminata dalla legge, necessità di definitiva chiarezza sul criterio di computo mai affrontato dalla giurisprudenza). L’illecito disciplinare che sanziona il ritardo nel deposito delle sentenze e degli altri provvedimenti giudiziari è previsto dalla lettera q) del primo comma dell’art. 2 del d.lgv. n. 109/06, che conviene leggere testualmente prima di iniziare la nostra discussione: costituisce illecito disciplinare “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni; si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto”. Tre, quindi, sono le condizioni perché il ritardo sia illecito: deve essere reiterato, grave e non giustificato. Pochi cenni sulle prime due condizioni, che presentano meno problemi interpretativi dell’ultima. Per quanto riguarda la reiterazione, è intervenuta una pronuncia giurisdizionale delle Sezioni Unite che ne ha rimarcato la differenza con il diverso criterio dell’abitualità. Con sentenza n. 18696 del 13-9-2011 le S.U., infatti, hanno precisato che il requisito sussiste “quando il ritardo si sia verificato più di una volta”, e hanno conseguentemente cassato una sentenza di merito che, in un caso in cui i ritardi erano stati cinque, aveva escluso l’illecito “sul presupposto che il ritardo non fosse abituale”. Ben conosciuto dal diritto penale è il requisito della “abitualità”, che presuppone una assidua frequenza di un certo comportamento, laddove la reiterazione indica solo la ripetizione di esso. È ormai acclarato, pertanto, che quantomeno in via astratta anche due soli ritardi possono costituire illecito disciplinare sotto il profilo della reiterazione della condotta, anche se, in concreto, la loro frequenza non è irrilevante perché da 11
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essa può dipendere, in concorso con altre circostanze, la giustificabilità o meno della condotta. È la stessa legge che, come si è visto, fornisce l’interpretazione autentica del requisito della gravità del ritardo, che è tale, salvo che non sia diversamente dimostrato, quando abbia superato il triplo dei termini previsti. Prima del decorso di tale termine, pertanto, vige una presunzione semplice, astrattamente superabile da una prova opposta che dimostri che, benchè non sia stato superato il triplo del termine, il ritardo debba comunque ritenersi grave in virtù di altre ragioni. Sul punto della gravità, peraltro, non risulta essere stato chiaramente precisato dalla giurisprudenza né di legittimità né di merito il procedimento materiale di calcolo del termine c.d. di tolleranza, ovverosia del triplo del termine previsto per il deposito, e in particolare non è inequivocabilmente chiaro da quale momento si debba cominciare il calcolo per determinarlo. Per quanto a mia conoscenza solo l’ordinanza n. 45 del 2011 della Sezione Disciplinare è entrata nel merito della questione ma in maniera un pò confusa, perché nel medesimo contesto sembrerebbe indicare come corretto prima un calcolo che escluda dal computo solo il termine ordinario per il deposito del provvedimento, poi anche invece tutto il termine di tolleranza (quindi il triplo di esso). Più recentemente sul tema è tornata la sent. n. 93 del 2012, ma anch’essa non appare risolutiva del problema nella parte motiva. La questione non è forse di alto livello concettuale ma è di grande importanza pratica perché determina il contenuto concreto dell’incolpazione, quindi l’individuazione di ciò da cui ci si deve difendere, ed è necessario che non vi siano incertezze nei casi specifici, né oscillazioni nei diversi casi analoghi. È anche molto rilevante perché l’entità del ritardo può cambiare enormemente a seconda del modo in cui sia calcolato, e lo stesso periodo di tempo può dar luogo a un ritardo grave se calcolato in un modo ovvero a nessun ritardo se calcolato in un altro. Se non ho compreso male, in base alla mia esperienza di difensore in concreto normalmente prevale l’interpretazione per cui il calcolo del triplo debba cominciare subito dopo decorso il termine ordinario per il deposito. Qualora esso sia di 30 giorni, quindi, il ritardo si presumerebbe grave decorsi 120 giorni complessivamente (30 + 90), se fosse 60 diventerebbe grave dopo 240 giorni (60 + 180) e via discorrendo. La soluzione sembra ragionevole sul piano logico e risulta ormai entrata nella pratica più diffusa (ho letto, ad esempio, una circolare 12
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del presidente della corte d’appello di Genova che dettava proprio questo criterio agli uffici del distretto per la rilevazione dei ritardi), ma occorrerebbe però avere la certezza che essa sia adottata sempre e in ogni occasione, a partire da chi sia incaricato fin dall’inizio delle varie rilevazioni (cancellerie giudiziarie, ispettorato del ministero della giustizia) fino ad entrambi i titolari dell’azione disciplinare. In tal senso una precisa affermazione giurisprudenziale, che per quanto mi risulta ancora manca, sarebbe estremamente opportuna con la prima occasione utile. Affermazione giurisprudenziale che si è avuta, ad esempio, per altre questioni che sono emerse in merito, quale, ad esempio, la detrazione (e quindi l’irrilevanza ai fini del calcolo del ritardo) dei periodi di astensione obbligatoria o facoltativa per maternità (v. ord. n. 4 del 2011). b. Interpretazione della non giustificabilità: in precedenza valutazione complessiva, irrigidimento con giurisprudenza cambiata per la questione dell’anno a seguito sentenza sezioni unite, valutazione pur sempre discrezionale del giudice di merito circa la sussistenza dei presupposti per la giustificazione, problema quindi di applicazione e non di interpretazione, applicazione molto rigorosa della giurisprudenza disciplinare ad esempio per l’irrilevanza delle disfunzioni organizzative, oscillazioni e recenti ammorbidimenti. E veniamo adesso al punto cruciale dell’intera problematica sui ritardi, ovverosia la loro giustificabilità. A questo proposito si deve osservare innanzitutto che, con riguardo a tale requisito, la legge si limita a richiedere che il ritardo sia “ingiustificato”, senza alcuna altra specificazione. Il concetto, come è evidente, è estremamente ampio e alquanto generico, ed ecco quindi che si può fin d’ora affermare che il ruolo della giurisprudenza è stato ed è fondamentale, in questo caso, per riempirlo di contenuto concreto. Non è, pertanto, la norma di legge ad aver imposto i connotati concreti con cui oggi è interpretato e applicato il requisito della “non giustificabilità” dei ritardi, ma è stata la giurisprudenza che l’ha applicata. A tale proposito, indico subito l’anno 2011 come il vero e proprio spartiacque tra una giurisprudenza anteriore, meno rigorosa, e quella successiva, più rigorosa. Prima di allora, infatti, ci si era attestati su una valutazione globale e 13
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onnicomprensiva di tutte le circostanze, personali e professionali, che potevano aver concorso a determinare i ritardi per verificare se essi potevano essere ritenuti giustificati o meno, senza l’individuazione di alcun limite o criterio rigido predeterminato. Ogni circostanza era liberamente valutata in un’ottica globale, per determinare la giustificabilità o meno del ritardo. Così spesso ritardi anche numerosi ed ingenti erano ritenuti giustificabili sulla base di argomentazioni come quella che si legge nella massima che segue, scelta solo a titolo di esempio anche per tutte le altre simili: “non configura illecito disciplinare…la condotta del magistrato che depositi fuori termine un significativo numero di sentenze civili, quando risulti che il medesimo versi in una situazione personale, familiare e di ufficio estremamente severa, svolga contemporaneamente una pluralità di funzioni, assicuri una buona produttività, secondo una valutazione anche sotto il profilo comparativo, abbia una positiva storia professionale ed elimini completamente l’arretrato nelle more del procedimento, giacchè dette circostanze giustificano ampiamente i ritardi (nella specie 96 sentenze civili con ritardi in 22 casi superiori ai mille giorni)” – Sezione Disciplinare, ord. n. 13 del 2010. Solo per scrupolo di documentazione, e senza nemmeno considerare gli anni precedenti, cito ancora le decisioni del 2010 della Sezione Disciplinare nn. 25, 54, 68, 78, 138, che ribadiscono concetti analoghi con riferimento a ritardi ripetuti e così ingenti da superare in molti casi un anno di tempo. La situazione cambia decisamente con la sentenza delle S.U. n. 18696 del 19 aprile 2011, depositata il 13 settembre 2011, che ha affermato il seguente principio: “In tema di illeciti disciplinari riguardanti magistrati....la durata di un anno nel ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali rende ingiustificabile la condotta dell’incolpato, se non siano allegate da quest’ultimo e accertate dalla sezione disciplinare circostanze assolutamente eccezionali che giustifichino l’inottemperanza del precetto sui termini di deposito. Tale termine, infatti, è superiore alla soglia della ragionevolezza perché è ritenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sufficiente, in materia civile, a completare l’intero giudizio di legittimità e, quindi, la stesura di qualsiasi provvedimento ed il suo deposito non possono in genere richiedere tempi superiori a quelli del processo di cassazione che comprende, con gli adempimenti procedurali e lo studio del caso, anche l’ascolto della difesa”. Nasce così il famoso termine di un anno, che sarà poi sempre ribadito 14
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dalle S.U., e con il quale la Sezione disciplinare del CSM si è dovuta misurare, determinando un cambiamento della sua giurisprudenza, doveroso in termini di accoglimento del principio, ma che, a mio giudizio, non necessariamente doveva portare alle conseguenze cui si è pervenuti in molti casi concreti. Si noti, infatti, che la stessa Corte Suprema con la detta sentenza non ha affermato (né avrebbe potuto farlo, a pena di violare irrimediabilmente il principio di ragionevolezza) una presunzione assoluta di ingiustificabilità di una determinata condotta (che non esiste nemmeno nel diritto penale, che conosce infatti le cause di giustificazione applicabili anche, qualora ricorrano, ai più gravi delitti). La ricordata sentenza, in effetti, come ha ben chiarito la stessa Sezione Disciplinare (v. ad esempio sent. n. 94 del 2012) comporta “un mero sviluppo del criterio di proporzionalità tra la gravità dei ritardi e le esigenze di giustificazione”, che non esclude la possibilità che i ritardi stessi possano essere giustificati, sia pure in base a un processo di comparazione con le ragioni che li abbiano determinati più rigoroso. E infatti la stessa sentenza n. 18696 ammette la giustificabilità del ritardo superiore a un anno in presenza di “circostanze assolutamente eccezionali che giustifichino l’inottemperanza del precetto sui termini di deposito”, ribadendo il concetto con la sentenza S.U. n. 8409 del 2012 che parla di “fattori eccezionali e proporzionati alla particolare gravità attribuibile alla violazione”. Rimane, pertanto, una sfera di valutazione del caso concreto che, seppure a condizioni più rigorose che in precedenza, può portare anche adesso a ritenere giustificabile il ritardo anche qualora risulti superiore a un anno. E tale tipo di valutazione rientra nell’ambito di quelle di merito, in fatto, il cui risultato è demandato al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità qualora la motivazione risulti adeguata in base ai consueti criteri (testuale conferma di ciò, se pure occorresse, si ravvisa in S.U. n. 5761 del 2012: “In tema di illeciti disciplinari riguardanti magistrati, la fattispecie prevista dall’art. 2, comma primo, lett. q), dell’art. 2 del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 richiede, quale presupposto per la punibilità dei ritardi, la necessaria concorrenza della reiterazione, della gravità e della ingiustificatezza degli stessi, attesa la chiara formulazione letterale della disposizione. Ne consegue che tali elementi debbono essere contestualizzati alla luce del complessivo carico di lavoro, in riferimento a quello mediamente sostenibile dal magistrato a parità di condizioni, della laboriosità e dell’operosità, desumibili dall’attività svolta sotto il profilo quantitativo e qualitativo, e di tutte le altre 15
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circostanze utili che, per loro natura, implicano un tipico apprezzamento di fatto e che, quindi, sono essenzialmente devolute alla valutazione di merito della Sezione Disciplinare, non censurabile in sede di legittimità ove assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria.”). È la Sezione Disciplinare, in altri termini, e non la Corte di Cassazione che deve stabilire quando le circostanze che abbiano determinato i ritardi siano da considerare eccezionali, straordinarie oppure no, senza vincoli predeterminati dalla giurisprudenza di legittimità, ma sulla base della comparazione proporzionale tra il “peso” delle giustificazioni e il “peso” delle violazioni, con l’onere, ovviamente, di adeguata motivazione. Sotto tale aspetto appare quindi destituita di fondamento l’affermazione, che spesso si ripete in sede di commento dell’attuale giurisprudenza della sezione disciplinare in materia di ritardi, che essa sarebbe sostanzialmente “obbligata” in base alla giurisprudenza di legittimità. L’obbligo, infatti, è solo quello di attenersi al principio, ma l’interpretazione e l’applicazione concreta di esso compete al giudice di merito, che conserva un ampio margine di apprezzamento discrezionale, purchè ragionevole e correttamente motivato. È, in sostanza, la giurisprudenza di merito disciplinare che deve stabilire quali siano quelle circostanze eccezionali (che costituiscono, quindi, una eccezione rispetto a quanto accade di solito) o straordinarie (fuori, quindi, di ciò che accade ordinariamente) che, ricorrendo in concreto, possano tuttora rendere giustificabile qualsiasi ritardo. La “storia” della giurisprudenza di merito successiva alla ormai nota sentenza delle S.U. conferma l’esattezza di quanto ho appena affermato, perché in realtà, scorrendo le massime delle decisioni della Sezione Disciplinare, si nota una certa oscillazione di posizioni, sua pure caratterizzate generalmente da un considerevole rigore. Si è partiti, per la verità, da una quasi inesorabilità di risultato, che esclude in pratica qualsiasi giustificazione, specialmente quelle relative ai carichi di lavoro e alle difficoltà organizzative dell’ufficio di appartenenza (sterminata è la casistica degli anni 2011 e 2012, basta un esempio uguale a tanti altri: Sez. Disc. n. 140 del 2012 “configura l’illecito disciplinare...la condotta del giudice che depositi..numerose sentenze in materia civile con ritardi frequenti, gravi e superiori a un anno...atteso che..sono giustificabili esclusivamente per il verificarsi di situazioni eccezionali e transitorie, tra le quali non possono annoverarsi il particolare carico 16
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del ruolo, le carenze organizzative dell’ufficio, la necessità di sovrapporre attività di diversa natura, nè la consapevole adozione di un modello organizzativo, seppure condiviso dal foro”). Solo negli ultimi tempi si è registrata qualche decisione più “morbida” che ha riconosciuto un certo rilievo alle carenze organizzative, in presenza anche di altre ragioni giustificative, come ad esempio in Sez. Disc. n. 151 del 2012: “Non integra l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni…la condotta del giudice il quale ritardi il deposito di numerose ordinanze in materia di esecuzione penale concernenti provvedimenti di indulto, qualora debba ritenersi, tenuto conto delle notevolissime carenze di organico dell’ufficio, che il ritardo non sia dipeso dalla tardiva emissione del provvedimento da parte del magistrato quanto dall’assenza di qualsiasi concreto strumento di controllo a disposizione del giudice e dall’omissione da parte della cancelleria della trasmissione dei relativi fascicoli processuali”, oppure, recentissima e inedita, la n. 34 del 2013 che ha assolto una collega che aveva depositato circa 20 sentenze civili oltre l’anno ritenendo giustificati i ritardi, anche alla stregua dei principi delle S.U., perché causati dalla “iniziale conversione” in diverse funzioni nel passaggio da un tribunale all’altro, da una scopertura di organico nel nuovo ufficio fino al 40%, da carichi di lavoro “estremamente pesanti e confusi”, da “un significativo impegno in attività d’udienza.. per quattro giorni la settimana”, da numerose applicazioni presso altro tribunale, e infine perché, nel periodo in cui erano maturati i ritardi, la collega aveva “dovuto far fronte a una grave malattia della madre”, poi deceduta, aveva dovuto subire personalmente un intervento chirurgico e aveva pure avuto la broncopolmonite! Certo, non si può augurare a nessuno una simile quantità di guai e di disgrazie nemmeno per ottenere un’assoluzione! c. Applicazione articolo 3 bis (giurisprudenza S.U. favorevole, applicazioni oscillanti della giurisprudenza di merito). A mitigare il notevole rigore della disciplina può servire la previsione dell’art. 3 bis della legge disciplinare, in base al quale “l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”. Trattasi di una esimente (così qualificata dalle S.U. n. 7194 del 30-3-2011) che introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, secondo 17
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il quale “la sussistenza dell’illecito va.. riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto effettuato ex post; tale bene giuridico va considerato unico per tutte le ipotesi di illecito disciplinare ed è identificabile… con la compromissione dell’immagine del magistrato”... In sostanza, l’esimente dovrebbe ricorrere ogni qual volta gli estremi costitutivi della fattispecie disciplinare sussistano, ma l’immagine (prestigio, considerazione ecc..) del magistrato non ne sia stata compromessa. L’art. 3 bis si applica a tutti gli illeciti disciplinari, compreso quello in esame. Dubbi al riguardo erano stati posti, ma le S.U. li hanno chiaramente dissipati con la già ricordata sentenza n. 7194 del 30-3-2011: “l’esimente prevista dall’art. 3 bis.. è applicabile al caso in cui al magistrato venga contestato l’illecito disciplinare previsto dall’art. 2 comma 1 lett. q)” poi confermata dalla sentenza n. 6327 del 23-4-2012 secondo la quale “la previsione di cui all’art. 3 bis.. è applicabile, sia per il tenore letterale della disposizione e sia per la sua collocazione sistematica, a tutte le ipotesi previste negli articoli 2 e 3… anche quando la gravità del comportamento è elemento costitutivo del fatto tipico”, come è nel caso di specie. La giurisprudenza di merito disciplinare, per la verità, è piuttosto restia ad applicare questo principio, che solo recentemente ha trovato qualche applicazione come, ad esempio, nella sentenza Sez. Disc. n. 152 del 2012 che ha ritenuto non integrare l’illecito disciplinare “la condotta del giudice che ometta di depositare nei termini alcune sentenze in materia civile, con ritardi anche superiori a un anno, quando la non rilevante percentuale dei provvedimenti depositati in ritardo, le comprovate qualità organizzative e professionali del magistrato, la contingente, negativa situazione organizzativa dell’ufficio, consentano di ritenere non compromessa l’immagine del magistrato nell’ambiente giudiziario, e, quindi, di affermare la scarsa rilevanza del fatto ai sensi dell’art. 3 bis”. Nel contempo, l’esimente è stata negata, ad esempio, in un altro caso (sentenza n. 94 del 2012) ad un magistrato che aveva sopportato un doppio carico di lavoro, presso la sede centrale del tribunale e in una gravosa sezione distaccata, a testimonianza del cui impegno generoso ed apprezzato erano state prodotte attestazioni scritte del presidente del tribunale, del presidente della sua sezione presso la sede centrale, del consiglio dell’ordine degli avvocati, del consiglio comunale del comune della sede distaccata, e addirittura di alcuni 18
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avvocati che avevano avuto parte in un processo la cui sentenza era stata depositata in ritardo, tutti indignati alla notizia del procedimento disciplinare a suo carico. Tutto ciò non è stato ritenuto sufficiente, in questo caso, a far ritenere che i ritardi non avevano compromesso l’immagine del magistrato, a testimonianza di un difetto abbastanza frequente della giurisprudenza di merito disciplinare, ovverosia l’eccessiva oscillazione, che talvolta supera i limiti del fisiologico e sarebbe invece necessario limitare il più possibile da parte di un giudice sostanzialmente unico e avente giurisdizione su una platea estremamente limitata di soggetti, oltretutto particolarmente qualificati, ognuno a conoscenza di quanto deciso dalla stesso giudice in casi simili al suo. d. Valutazione finale: ragione dei dubbi e delle critiche alla giurisprudenza fondate sulla personalità professionale complessiva di molti condannati – dubbi sulla finalità e sulla funzione del rimprovero disciplinare – dubbi sulla capacità organizzativa come interesse tutelato - possibilità correttive attraverso l’interpretazione di merito del principio imposto dalle S.U.- applicazione più diffusa e rigorosa della giurisprudenza di legittimità sull’art. 3 bis – eventuali modifiche normative. Sulle ragioni delle frequenti critiche di eccessivo rigore che i magistrati rivolgono alla giurisprudenza disciplinare di cui si è finora parlato è necessario soffermarsi anche perchè, a prima vista e specialmente tra i non addetti ai lavori, esse non appaiono immediatamente intuibili. Non vi è dubbio, infatti, che un ritardo così lungo come un anno nel deposito di un provvedimento possa apparire un’eternità, difficilmente spiegabile, tanto più quando non costituisca un caso isolato ma si ripeta con una certa frequenza da parte dello stesso magistrato. Nel contempo accade però molto spesso in casi simili qualcosa di strano, che si comprende soltanto leggendo alcuni passaggi della motivazione di molte sentenze della sezione disciplinare. Mi è capitata la ventura di difendere parecchi colleghi per ritardo nel deposito dei provvedimenti, in alcuni casi con successo e in altri no, e mi limiterò quindi alla mia sola piccola casistica personale per le citazioni che seguono. Nella sentenza n. 141 del 2012 si legge, ad esempio, che “la laboriosità 19
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dell’incolpato è fuor di dubbio apparendo provata come le sue capacità professionali ed il suo impegno”; nella sentenza n. 10/2013 si legge che “la documentazione in atti consente di confermare l’indubbia laboriosità, il considerevole carico di lavoro e l’esistenza, nel periodo in esame, di gravi problemi fisici e personali...emerge come il magistrato incolpato, superato il periodo di difficoltà e tornato a operare nel settore penale (in cui ha maggiore esperienza) abbia dimostrata una elevata professionalità e non sia più incorso in ritardi”. La sentenza n. 161 del 2012 afferma che “la documentazione in atti consente di confermare l’indubbia laboriosità del magistrato e il considerevole carico di lavoro, soprattutto nella fase in cui il magistrato è stato assegnato alle due sezioni distaccate, e di affermare l’erroneità della scelta del presidente del tribunale...che ha comportato un evidente squilibrio dei carichi di lavoro dei magistrati dello stesso ufficio”; più avanti dalla stessa sentenza si apprende che il magistrato primeggia nel suo tribunale (un grande tribunale) come risulta “da una serie di indici significativi quali il numero delle sentenze emesse nel periodo (mediamente 188,6 l’anno in materie particolarmente complesse e delicate, come quella delle successioni, rispetto a una media di sezione di 135 sentenze l’anno) ed il raffronto con gli standard di rendimento nazionali, determinati dal gruppo di lavoro istituito dal CSM (che vede il dott....primeggiare a livello nazionale)”. Quelli che ho appena letto sono tutti passaggi di sentenze di condanna; prendiamo quindi atto che è stato condannato anche il magistrato che in Italia ha depositato più sentenze di tutti! È questa evidentemente una situazione limite, ma è comunque frequente che magistrati condannati per ritardi risultino avere avuto una produttività ottima, risulta che si siano trovati in situazioni organizzative difficili e talvolta sbagliate e irrazionali per colpa dei loro dirigenti, dichiarino e dimostrino di aver accettato di assumere più sentenze in decisione di quante potessero depositarne in tempi regolari perchè, oppressi dal carico di lavoro, non volevano adottare la diversa soluzione di rinvii a più lungo termine. Sono queste le ragioni per cui non si sentono colpevoli di niente, ritengono di essere ampiamente giustificati dal contesto generale delle condizioni precarie di lavoro, ed è anche la ragione per la quale tanti altri magistrati solidarizzano con loro, temendo di potersi trovare nella medesima situazione da un momento all’altro.
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Il problema è di giustizia sostanziale, e non è di agevole soluzione. La giurisprudenza attuale, infatti, su un piano formale è corretta poichè parte da un presupposto che la rende coerente con tutte le conseguenze che ne trae. Il presupposto è che il “rimprovero” che si muove ai magistrati colpevoli di ritardi non è di scarsa diligenza e nemmeno di scarsa laboriosità, ma di scarsa capacità organizzativa. Sono, in sostanza, considerati responsabili per non essere stati capaci di organizzare il proprio lavoro in modo tale da impedire il verificarsi dei ritardi. Si potrebbe obiettare che l’articolo 1 della legge disciplinare elenca tassativamente i doveri del magistrato, che sono poi violati in diversi modi dalle fattispecie tipicizzate descritte successivamente, e che fra essi non vi è la capacità organizzativa. Si potrebbe aggiungere che ovviamente non c’è perché, essendo appunto una capacità, intrinseca alla persona e indipendente dalla sua volontà, la sua carenza può avere rilievo in termine di attitudine maggiore o minore a svolgere determinate funzioni, ma non anche a fondare un rimprovero di carattere generale come è quello disciplinare. Ma, soprattutto, si deve osservare che mai, a fronte dell’obiezione che non era possibile fare diversamente, nei casi concreti la stessa giurisprudenza spiega quale avrebbe dovuto essere il modulo organizzativo alternativo. E quel che è certo è che oggi si trovano con una condanna definitiva, oltre ad alcuni che lo meritavano davvero, anche altri magistrati laboriosissimi, animati da grande spirito di dovere, e che avvertono con un senso di frustrazione e di scoraggiamento un rimprovero disciplinare che considerano come un’ingiustizia e la cui funzione, francamente, si ha difficoltà a comprendere. Forse anche in questi casi un’ingiustizia non è, come si è detto, sul piano strettamente giuridico. Sul piano strategico generale, però, è certamente una cosa sbagliata, perchè ai magistrati manda uno scoraggiante messaggio di solitudine, li avverte che il sistema nel suo complesso non li aiuta quando si trovano in difficoltà ma li punisce inesorabilmente, pretende da loro un “impegno assoluto” e “un’attenzione diuturna “ (espressioni che spesso ricorrono nella giurisprudenza disciplinare) senza però assisterli con un’organizzazione accettabile che li aiuti ad affrontare così gravosi doveri. E, in conclusione, li spinge a un’organizzazione “difensiva” del loro lavoro, principalmente volta a coprirsi le spalle da eventuali responsabilità. 21
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Come si potrebbe evitare tutto ciò? Secondo me basterebbe, almeno per il futuro, che la giurisprudenza disciplinare di merito, applicando il già ricordato “ criterio di proporzionalità tra la gravità dei ritardi e le esigenze di giustificazione”, all’esito di esso pervenisse a giudizi meno rigorosi di quelli oggi frequenti, riconoscendo, solo per fare qualche esempio tratto da casi realmente accaduti e documentati che hanno portato a una condanna, che non è normale, e quindi è eccezionale, che un magistrato di prima nomina sia assegnato a due sezioni distaccate oltre che alla sede centrale del suo tribunale, e che non è ordinario, e quindi è straordinario, che un civilista sia destinato a comporre il collegio per un maxi processo di criminalità organizzata e gli sia anche affidato all’ultimo momento il compito di scrivere la sentenza, facendogli così saltare tutti i suoi programmi di lavoro. Sarebbe anche opportuno che ancora il giudice di merito, al fine di stabilire o meno la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 3 bis, verificasse sempre accuratamente e senza pregiudizi quale sia la considerazione di cui il magistrato goda nell’ambiente di lavoro per stabilire se davvero la sua immagine sia compromessa, e se quindi il bene protetto dalla fattispecie disciplinare sia stato davvero violato. Ma infine, se tutto ciò non dovesse accadere, penso che non rimarrebbe che pensare di ricorrere alla soluzione più drastica, la via legislativa, proponendo in alternativa: - una rimodulazione della fattispecie disciplinare che specifichi in termini chiari e ragionevoli quando i ritardi siano giustificabili - ovvero chiarisca, come avviene in altri casi – ad esempio: art. 2, comma 1, lett. a) -, che il fatto sia punibile solo quando avvenuto in violazione di alcuni dei doveri imposti in via generale dall’art. 1, cosicchè sarebbe punibile solo quando fosse dimostrata una concreta carenza di diligenza e di laboriosità - in alternativa tipizzando, oltre che le fattispecie, anche le cause di giustificazione, valorizzando maggiormente in tale ottica soprattutto la laboriosità e l’impegno concretamente dimostrati.
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Bernardo Petralia Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo
“Le chances difensive dalla fase istruttoria all’udienza pubblica” 1. La difesa e i suoi soggetti La comunicazione d’inizio del procedimento disciplinare, da darsi all’incolpato entro trenta giorni con l’indicazione del fatto addebitato (art. 15, comma 4 d.lgs n. 109/06), segna l’avvio di un itinerario per così dire “privato” dell’incidente disciplinare: al comprensibile disorientamento segue - di regola con carattere di immediatezza - la ricerca del difensore, adempimento invero non necessario stante che la legge conferisce facoltà e non obbligo all’incolpato, restando consentita l’autodifesa. Adempimento, tuttavia, che finisce per diventare nella prassi un passo obbligato nel comprensibile obiettivo alimentato da una duplice pulsione - l’una, la “frenesia” delegante del carico emozionale; l’altra, l’esigenza di affidarsi a competenze certe e specifiche - di estraniarsi quanto più possibile dal caso. Nel ventaglio delle scelte dei soggetti difensori non sono rari i casi di magistrati in pensione - nella mia recente esperienza consiliare ne ho sentiti alcuni dotati di capacità di convincimento, autorevolezza della parola e modernità difensiva senz’altro sorprendenti - ma sporadici invece gli incarichi ad avvocati di libero foro, probabilmente per la preponderante necessità di affidarsi a soggetti (i colleghi) che per omologia lavorativa e conoscenza “interna” dei meccanismi processuali più si adattano - e rispondono - al colloquio incolpato-difensore e alle sue implicazioni giustificative. Nella ripartizione normativa degli illeciti disciplinari il ricorso ad avvocati in senso tecnico compare per lo più con riguardo agli illeciti extrafunzionali, laddove la ricorrenza di accadimenti esterni al servizio meglio si sposa con l’ortodossia difensiva propria dei tecnici professionisti. L’autodifesa, per quanto ammissibile ed istintivamente sorretta dal desiderio di (di)mostrare l’inutilità, come sinonimo d’innocenza, di un’assistenza esterna, è senz’altro sconsigliabile: per le implicazioni soggettive che emotivamente tendono a condizionare l’efficacia di una discolpa attenta e completa; per il rischio di una “foga giustificazionista” che appaia poco o meno credibile di una parola distaccata e autorevole di un difensore esterno. 23
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Tuttavia, un’autodifesa strisciante compare sempre nella parabola della vicenda disciplinare: emerge nell’interrogatorio sovente disposto dall’organo istruttore (la Procura generale della Cassazione); traspare dallo scritto in forma di memoria redatto di pugno dall’incolpato; ricompare da ultimo, alla stregua degli artt. 494 e 523 c.p.p. (ex comma 4 dell’art. 18 d.lgs cit.), nelle spontanee dichiarazioni da alcuni incolpati ritenute decisive, specie in chiusura di discussione. Un’autodifesa “ufficiale” che si accoppi ad una difesa esterna genera anche probabilità di collisioni strategiche e di conflitti d’impostazione. Un abbinamento siffatto sembrerebbe peraltro precluso dalla regola di legge comma 4, ultima parte, dell’art. 15 cit. - secondo cui la declinazione al singolare dell’assistenza defensionale (“L’incolpato può farsi assistere da altro magistrato…o da un avvocato…”) induce a ritenere la praticabilità di un’assistenza unica, in proprio o per tramite di soggetto terzo, ma una e sola difesa. In tal senso, dopo alcune iniziali incertezze interpretative coeve al debutto del d.lgs n. 109, risulta attestato l’orientamento consiliare e di legittimità (cfr., per tutte, Sez. Disc. n. 117/2009). Il principio per cui il difensore è il primo giudice del fatto e che per convincere egli debba soprattutto convincersi delle implicazioni comportamentali dell’incolpato costituisce poi un ulteriore fattore incrementativo dell’area del ricorso ad assistenti magistrati: nessuno più di un collega è in grado di riconoscere le irregolarità disciplinari ed ancora l’approccio al lavoro giudiziario tipico del magistrato, per quanto connesso e interfacciato a quello forense, altro non è che il medesimo dell’organo istruttore e della maggioranza dei componenti la Sezione, sicchè argomentare su contesti comuni e ben noti agevola senz’altro una comprensione più minuta e consapevole delle potenziali scusanti spendibili dall’incolpato. 2. L’applicabilità “compatibile” delle norme del c.p.p. Gli artt. 16, comma 2, e 18, comma 4, del d.lgs n. 109 richiamano le norme del codice di rito penale quanto alla fase delle indagini e della discussione nel procedimento disciplinare. Il rinvio, per quanto espresso, è connotato da un’osservanza temperata dalla “compatibilità” tra i due sistemi procedurali; frutto, quest’ultima, di una sbrigativa tecnica legislativa che nel lasciare all’interprete di turno il compito 24
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di comprimere o estendere il vaglio di coerenza applicativa delle norme di rito penale all’area disciplinare - soprattutto a distanza di (ancora) pochi anni dall’esordio delle nuove regole - finisce per diluire la giurisprudenza consiliare in una serie di microsistemi decisionali caratterizzati da interpretazioni improntate talvolta ad inedite assimilazioni tra i due ambiti, tal’altra a sorprendenti “distanze” anche laddove l’analogia dei contesti avrebbe forse potuto suggerire un maggiore sforzo ermeneutico in termini di garanzie (cfr., in tema di intercettazioni utilizzabili in sede disciplinare, Sez. Disc. n. 28/09, Pres. Mancino, est. Fresa; in tema di applicabilità dell’art. 415-bis c.p.p., Sez. Disc. n. 73/07, Pres. Mancino, est. Saponara; per una generale interpretazione restrittiva della “compatibilità” tra i due sistemi, cfr.. SS. UU. n. 1771/13). A ben vedere anche la dichiarata “compatibilità” è a sua volta temperata da precisazioni “ad excludendum” (in generale, le norme che comportano l’esercizio di poteri coercitivi, ferma restando la possibilità di accompagnamento coattivo nei casi di cui all’art. 133 c.p.p.) e da altre “in positivo” che, nell’introdurre su alcuni aspetti (ad es. la lettura delle prove acquisite nel corso delle indagini di cui al comma 3, lett. b), dell’art. 18) regolamentazioni diverse, implicitamente respingono sul punto qualsivoglia analisi di compatibilità. Il richiamo anzidetto, lungi dall’esaurire nel vaglio di “compatibilità” la parabola che corre dalle indagini alla deliberazione terminativa del giudizio consiliare, soffre un vulnus fondamentale ai fini difensivi, individuabile nell’assenza - per diversa disciplina positiva che non ne ammette l’introduzione in termini di interpretazione di compatibilità - del deposito degli atti della compiuta indagine e della loro discovery in favore dell’incolpato prima di decidere sul suo rinvio a giudizio innanzi la Sezione. In una parola, la mancanza di un contraddittorio sul “se” alla medesima stregua di quanto accade nel rito penale ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p. (cfr., in termini negativi, Sez. Disc. n. 73/07 cit.). La conoscibilità degli atti sopraggiunge allorquando essi sono già transitati in Sezione e il Procuratore generale, convintosi di procedere oltre nell’accusa, ha già formulato l’incolpazione e richiesto la fissazione dell’udienza di discussione. Al di là della rilevata carenza di garanzie analoghe al procedimento penale, il pregiudizio alle ragioni della difesa è poi ulteriormente aggravato da una duplice incoerenza comparativa (rispetto al rito penale), per nulla spiegata né attenuata da un’asserita minusvalenza del procedimento disciplinare rispetto a 25
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quello penale; una minusvalenza a ben vedere inesistente se si tiene conto del fatto che il magistrato tendenzialmente ha più timore del rilievo disciplinare che di quello penale, considerando il primo d’incidenza più diffusa ed insidiosa nella quotidianità del suo lavoro. In primo luogo, il passaggio dalle indagini preliminari al processo - per dirla con il linguaggio penalprocessualistico - è rimesso allo stesso organo d’indagine e peraltro dopo un pre-procedimento tutto interno e segreto alla medesima Procura generale, all’esito del quale rimangono escluse, per un verso, la “scarsa rilevanza” del fatto (artt. 3-bis e 16, comma 5-bis, d.lgs cit.) e l’ipotesi di una denunzia non “circostanziata” alla stregua dell’art. 15, comma 1, ultimo periodo; inoltre, per altro e più rilevante aspetto, viene confermata la riconducibilità del fatto ad una o più delle fattispecie disciplinari tipizzate dalla legge ed esclusa l’inesistenza del fatto o l’estraneità ad esso dell’incolpato. Si consideri che in quest’ultimo caso il vaglio rimesso al P.G. non ha carattere preventivo bensì è successivo al compimento delle indagini (“…oppure se dalle indagini il fatto risulta inesistente o non commesso”, così come recita il comma 5-bis cit.). In tutti gli anzidetti casi - esitati al pre-esame interno in senso favorevole all’azione e con un vaglio di “collegialità” inquirente di cui poco o nulla si conosce all’esterno - il Procuratore generale procede all’archiviazione interna ma è da pensare che se il giudizio può presumersi oggettivo per quanto riguarda le prime (due) ipotesi di anticipata archiviazione altrettanto rischia di non essere quanto agli ulteriori casi. È facile dubitare, infatti, che uno scrutinio esonerativo che affronti la riconducibilità del fatto alla tipologia disciplinare di riferimento o, ancor più, che, esauriti gli accertamenti d’indagine, si fondi sulla sua insussistenza o sull’estraneità dell’incolpato possieda le medesime caratteristiche di oggettività; esso, piuttosto che di ipotetici intenti deflattivi, risentirà delle implicazioni logiche connesse alla necessità che sia la Sezione disciplinare a pronunciarsi sul punto, sia attraverso la via della richiesta (cui il giudice consiliare non è affatto vincolato) di archiviazione esterna (art. 17, comma 6, d.lgs n. 109), sia con l’innesco della discussione pubblica. In entrambi i casi il dialogo a sole due voci, senza cioè alcuna preventiva interlocuzione difensiva, segna invero una inaccettabile siderale distanza dalle garanzie proprie del processo penale, ove nel caso di archiviazione non accolta (art. 409, comma 2, c.p.p.) ed in quello, fisiologico, della ricorrenza di prospettive di rinvio a giudizio (art. 415-bis c.p.p.: “…se non deve formulare richiesta di 26
Relazioni - Bernardo Petralia
archiviazione…”) il potenziale imputato vanta invece una gamma di chances difensive da indirizzare ad un giudice terzo. Vi è di più. Il rilievo secondo cui l’obliterazione del contraddittorio sarebbe poi compensata in via di prassi dalla consuetudine del P.G. istruttore di sottoporre ad interrogatorio l’incolpato, consentendogli così di “partecipare” all’itinerario investigativo anche attraverso memorie difensive, è del tutto relativo e non risolutivo: la contestazione “ufficiale”, quella cioè da cui discolparsi innanzi la Sezione, insorge al termine delle indagini sicchè l’effettività di quel rilievo resta condizionata - attestandosi su un piano di squisita ed invincibile eventualità - dalla sensibilità dell’inquirente di audire il collega incolpato allorquando gli accertamenti istruttori abbiano avuto termine. Accade invece che quando il P.G., dopo l’interrogatorio, prosegue oltre nelle indagini, l’incolpato non verrà a conoscenza degli ulteriori elementi d’accusa se non solo (e tardivamente) in fase di pre-discussione innanzi al giudice disciplinare. Anche in termini processuali, allora, nessuna nullità e/o inutilizzabilità degli elementi d’indagine sopraggiunti dopo la contestazione propedeutica all’interrogatorio; donde nessun contraddittorio può dirsi assicurato all’incolpato, mancando qualsivoglia certezza della cristallizzazione dell’accusa a lui contestata. Il richiamo all’osservanza delle norme del codice di procedura penale, poi, nell’udienza di discussione sembra avere un senso soltanto pleonastico. La garanzia di illibatezza cognitiva - e pertanto di vera e propria terzietà - che connota la posizione del giudice penale e che rappresenta la vera grande rivoluzione del nuovo codice in vigore è radicalmente obliterata nel giudizio pubblico disciplinare: il parametro di assunzione delle prove, queste ultime peraltro ammissibili “anche d’ufficio” (comma 3, lett. a) dell’art. 18), è rimesso al vaglio di “utilità”, i cui circuiti logico-delibativi implicano un intrinseco pregiudizio sulla vicenda. Diversamente, la locuzione che l’art. 190 c.p.p. utilizza quanto al diritto alla prova, articolata com’è noto “ad excludendum” e nella ricorrenza di condizioni che ne rendono manifesta la superfluità o l’irrilevanza, conferisce al giudice un potere di ammissione asettico e “freddo”, privo cioè di implicazioni decisorie foriere di apparenze di parzialità e temperato solo al termine dell’istruttoria ed ormai al cospetto di una conoscenza “globalizzata” delle prove assunte, dal criterio della “assoluta necessità” (art. 507 c.p.p.). 27
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“Disporre/consentire” la lettura ufficiosa, poi, di tutte le prove acquisite nel corso delle indagini (comma 3, lett. b) dell’art. 18) - meccanismo puntualmente realizzato in ogni dibattimento disciplinare sulla scorta di richieste sostanzialmente standardizzate dell’organo inquirente - costituisce nient’altro che un vacuo enunciato solo lessicalmente ispirato all’istituto della “lettura” quale equipollente dell’utilizzabilità probatoria ma in realtà orientato a realizzare, giustificandola, la confusione dei fascicoli del P.G. e della Sezione in un unicum indistinto destinato al giudizio. Non è ardito allora sostenere che laddove l’incolpato e il suo difensore abbiano proceduto ad investigazioni difensive - sul punto la giurisprudenza consiliare è andata orientandosi in senso affermativo (cfr. Sez. Disc. n. 30/11, Pres. Marini, est. Vigorito) - la “lettura…delle prove acquisite nel corso delle indagini” (lett. b) cit.) debba coinvolgere anche quelle di fonte difensiva, realizzando in tal guisa un contraddittorio scritto seppure a tempo differito e con esso (quanto meno) una “vibrazione” di giusto processo secondo il canone generale dell’art. 111 della Costituzione. 3. Le attenzioni e le strategie Le contaminazioni fascicolari tra organo d’accusa e giudice disciplinare e l’ancoraggio al criterio dell’utile quanto alle prove d’acquisizione dibattimentale, specie per i contesti più complessi e articolati e con marcato riguardo ai fatti extrafunzionali per i quali è ricorrente che le chances difensive si avvalgano di congruo testimoniale, sono aspetti che non possono non sollecitare l’attenzione della difesa all’area delle investigazioni ex art. 391-bis e ss. c.p.p.. Un oculato sviluppo investigativo a cura della difesa, tendenzialmente irrilevante in fase d’indagine allorquando non si conoscono - o si conoscono parzialmente e non al termine - gli elementi raccolti dalla Procura generale, acquista invero un diverso e più intenso significato in sede di discussione, laddove la valvola acquisitiva prima ricordata (“la lettura…delle prove acquisite nel corso delle indagini”) autorizza a misurarsi vittoriosamente con il criterio della utilità, a mente del quale assai difficile sarà per il giudice disciplinare rifiutare ingressi probatori informati all’unico e vero sfogo difensivo e per di più (ove il difensore sia un collega dell’incolpato) selettivamente formati da un magistrato. La scelta che può (e deve) porsi a tal punto la difesa sarà quella, piuttosto 28
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che dedurre testimoni a discolpa, di canalizzare le istanze testimoniali nell’alveo delle investigazioni difensive, confidando sul punto nel maggior grado di ammissibilità, nella più comoda e celere veicolazione documentale e nella sostanziale equipollenza dimostrativa rispetto alle prove d’accusa. Tra le innumerevoli attenzioni alle questioni di rito - prime fra tutte, nel sempre più diffuso contesto dei ritardi, quelle del bis in idem per coloro che siano stati già sanzionati disciplinarmente per fatti analoghi agli attuali, nonché quelle relative all’esatta collocazione temporale dei ritardi a fronte di contestazioni vaghe e che sovente replicano (troppo) pedissequamente le conclusioni ispettive - si pone per complessità di rilievo probatorio la questione del rispetto del termine annuale di decadenza dell’azione; termine che per il Ministro della giustizia così come per il Procuratore generale decorre “dalla notizia del fatto” (art. 14, comma 2, e art. 15, comma 1); un fatto che per il secondo soggetto però deve essere conosciuto “a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari o di denuncia circostanziata o di segnalazione del Ministro della giustizia”. Importa qui sottolineare che, mentre per il Ministro la conoscenza ha carattere impersonale, sicchè tale è la notizia acquisita da qualsivoglia articolazione ministeriale (cfr., per tutte, Sez. Disc. n. 44/12, Pres. Marini, est. Marini) con la conseguenza che lo scandaglio difensivo deve accortamente tendere a dirigersi verso i (a volte insondabili) circuiti interni al corpo ministeriale onde verificare decorrenze anticipate rispetto a quelle “ufficiali” ed infrannuali, per l’azione del P.G. la verifica del dies a quo della notizia risente delle specificazioni normative che ne fondano la sussistenza. Quanto appena detto merita una precisazione. E così, il mero esito di sommarie indagini preliminari così come la semplice segnalazione del Ministro della giustizia non appaiono a ben vedere evenienze ex se sufficienti a contrassegnare con certezza la decorrenza del termine annuale di decadenza; la certezza del dies si trae invece dalla terza specificazione normativa del comma 1 del citato art. 15 e più precisamente nell’esistenza di una notizia che - per indagini preliminari o per segnalazione ministeriale - sia circostanziata al pari della denuncia. Diversamente argomentando, si rischierebbe di pervenire a conclusioni perverse per le quali la notizia del fatto, al di là del suo connotato di completezza e specificazione, ricaverebbe valore di termine iniziale dall’autorità della fonte da cui promana (la Procura generale e il Ministro). 29
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Si concorda pertanto con un’interpretazione che pretenda di riconoscere come valida notizia del fatto quella che, a prescindere dal tramite di conoscenza, sia circostanziata, ossia, come il medesimo comma prosegue, “quando contiene tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare”; un enunciato, peraltro, di così assoluta pregnanza da far dire alla stessa disposizione che “In difetto di tali elementi la denuncia non costituisce notizia di rilievo disciplinare”. Dunque, il riscontro di parte difensiva non può nè deve sottrarsi ad un penetrante controllo, ai fini dell’ipotetica decadenza, della esaustività della notizia di rilievo disciplinare da parte dei titolari del potere d’azione; un controllo, poi, tanto più delicato se relativo a fattispecie enunciate normativamente con aggettivazioni di valore, quali i “comportamenti gravemente scorretti”, “l’ingiustificata interferenza”, “la grave violazione di legge” di cui rispettivamente alle lett. d), e) e g) dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 ed ancora i “vantaggi ingiusti”, il “concreto pregiudizio”, “l’eccezionale favore” di cui alle lett. a), d) e e) dell’art. 3, per i quali il requisito normativo di completezza della notizia risente di valutazioni non sempre univoche ed oggettive. E sempre con riguardo al termine di decadenza e al suo argine iniziale va qui segnalato come talvolta in calce ai capi d’incolpazione figuri, quanto all’acquisizione della notizia, un’indicazione temporale non determinata bensì dinamicamente strutturata, del tipo “notizia acquisita il…e progressivamente circostanziatasi fino al…”, a fronte della quale ben s’intuisce come l’opera di riscontro del difensore debba essere ancor più solerte ed accorta. In conclusione, affrontare rigorosamente, con lucida freddezza e con tutte le possibili obiezioni critiche la vicenda disciplinare, sia al suo interno che nelle immaginabili proiezioni procedimentali, rende il difensore più solido e sereno, nell’idea che è più facile recedere dalle proprie convinzioni quando non si riesce più a difenderle dai nostri stessi attacchi, piuttosto che da quelli altrui.
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Relazioni - Giovanni Salvi
Giovanni Salvi Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania
“Conoscere per riformare” 1. Giustizia domestica? Il titolo è nato prima di queste recenti polemiche, ma in qualche maniera vi si ricollega perché ha origine in un impegno che risale ormai agli anni Novanta, quando ho iniziato a lavorare in Anm e mi sono accorto che l’immagine che si aveva nell’opinione pubblica della giustizia disciplinare era molto diversa dalla realtà: l’immagine di una giustizia definita “domestica”, volendosi con ciò dire che è una giustizia addomesticata. In realtà la giustizia disciplinare è o dovrebbe essere una giustizia strettamente domestica nel senso che ora chiarirò; non dunque una giustizia di tipo parapenale ma una giustizia che si caratterizza per il rapporto stretto con la deontologia di un corpo e dal corpo è amministrata, anche se nel caso specifico della magistratura è amministrata con lo sguardo alle guarentigie e quindi al tempo stesso alla necessità, costituzionalmente sancita, che la magistratura si amministri non come corpo ma aprendosi nelle forme, nei limiti e nei modi che sono indicati dalla Costituzione. Ma non per questo cambia il ruolo della giustizia disciplinare che è e deve essere domestica. Quindi quando si afferma, con espressione ormai diventata abituale, che la nostra giustizia è domestica, si vuole dire che è lassista, buonista, inefficace e che non consente insomma una salda disciplina del corpo. Mi sembrò allora importante contrastare questa diffusa convinzione, che appariva in contrasto con i dati di una crescente severità della Sezione disciplinare, con il numero dei procedimenti e la gravità delle sanzioni. Questo impegno si dovette poi confrontare con una consiliatura difficile da questo punto di vista, quella degli anni 2002/2006. Tra i membri del CSM vi era anche Giuseppe De Federico, uno studioso che su questo settore aveva impegnato la sua carriera e naturalmente lo scontro era pressoché quotidiano. Cercai quindi di rappresentare anche nell’opinione pubblica, attraverso interventi sulla stampa (Il Sole 24, Italia Oggi) o nei dibattiti quale fosse la realtà della giustizia disciplinare rispetto alla vulgata che è ormai divenuta luogo comune. 31
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2. L’esigenza di essere informati. Oggi però dobbiamo parlarne in modo in parte diverso; ritorno sull’oggetto della mia relazione, anche perché siamo in sede di Anm e quindi dobbiamo utilizzare il dibattito di oggi per capire che cosa dobbiamo fare domani e comprendere le sfide attuali. Vi è un altro aspetto di questo “conoscere per riformare” o per valutare, che è quello che serpeggia nella magistratura. I colleghi sono sconcertati da tempo perché avvertono quello che qui oggi è stato ripreso da molti e cioè una giustizia che non sempre è riconoscibile in tutti i suoi elementi, una giurisprudenza forse un pò ballerina rispetto a quello che è normale che avvenga, soprattutto perché è un giudice tendenzialmente unitario nella sua composizione. Quindi quel tot capita tot sententiae, appena ciatato da qualcuno, alla fine viene interpretato come “tutto capita nelle sentenze”, si può leggere di tutto. Sono sconcertati e preoccupati, non riescono a capire, a individuare un filo logico delle decisioni della sezione disciplinare e prima ancora (che sarà l’argomento principale del mio intervento) nelle scelte della Procura generale. Quindi lo sconcerto si trasforma in una richiesta di informazioni, a volte con modalità che io non condivido per niente, anzi mi stupisco che i magistrati possano fare richieste di informazioni come quelle che leggo ogni tanto sulle mailing list e che mi posso aspettare provenire da profani. Si chiede ad esempio al giudice: “dovete chiarire perché avete preso questa decisione”. Ma lo chiedete al giudice? Occorre aspettare la motivazione! Il che non vuol dire che non si debbano fare le necessarie riflessioni, che non si possano leggere gli atti, il capo d’imputazione che è a disposizione di tutti, non si possano sentire su Radio radicale le discussioni del pubblico ministero disciplinare e del difensore. Per il noto caso Fiorillo, di cui si discute in questi giorni, la discussione del pm e del difensore sono anche meritoriamente pubblicate su Questione Giustizia on line. Ti fai la tua opinione e la esprimi. Ma non puoi chiedere al giudice disciplinare di dirti prima qual è la ragione della decisione. Non c’è niente da fare: per avere quello devi aspettare. Però questo non vuol dire che la richiesta non sia giusta, nel senso che i colleghi vogliono sapere che cosa sta succedendo, perché purtroppo non sempre sono riconoscibili i valori che sono alla base dell’impegno della Procura generale, prima, e delle decisioni della giustizia disciplinare, poi. Ma perché avviene questo? Avviene a mio parere anche perché abbiamo subìto in questi anni, non sempre rispondendo con la necessaria determinazione e chiarezza, una vera e propria campagna di mobbing sul disciplinare. 32
Relazioni - Giovanni Salvi
3. Il gigantismo della giustizia disciplinare. Quello che io affermo oggi e ho affermato in passato, anche in qualche mio articolo basato su dati, è che noi non abbiamo un problema di giustizia disciplinare eccessivamente morbida. Al contrario, noi abbiamo il problema del gigantismo della giustizia disciplinare, di una sua pretesa onnivora. Noi abbiamo il problema di una giustizia disciplinare che ormai si è parificata a un processo penale parallelo e non è questo il compito della giustizia disciplinare. Il fatto che il procedimento disciplinare dei magistrati ordinari sia giurisdizionalizzato non implica affatto che esso debba esser trasformato in un giudizio parapenale, con i medesimi criteri di individuazione del fatto da punire e i medesimi criteri di imputazione e di valutazione. Tutto quello che oggi si è detto, ad esempio a proposito dell’articolo 3 bis per la rilevanza del fatto, oppure di “giustificatezza” della condotta, in realtà è un problema di interpretazione dell’articolo 1 del decreto 109 del 2006. Proprio per la ragione, che citavo all’inizio, della intrinseca funzione della giustizia disciplinare, in realtà quello che deve essere valutato dal giudice disciplinare è il complesso della vita professionale del magistrato, e se questo illecito specifico sia stato idoneo a ledere quei valori di cui al primo comma dell’articolo 1. Questo è il faro che deve illuminare il Procuratore generale prima e il giudice disciplinare poi nell’interpretazione. La tipizzazione, che fu richiesta anche dall’Anm, non è la tipizzazione dell’illecito penale. Essa doveva avere una funzione di garanzia, nel senso che doveva valere a delimitare la possibilità di colpire le condotte che fossero effettivamente lesive di quei valori, non diventare lo strumento per una penalizzazione del processo disciplinare e della sanzione disciplinare, perdendo di vista quello che invece è il ruolo reale della giustizia disciplinare, la valutazione del comportamento complessivo del magistrato nella sua attività professionale e nella vita civile e la possibilità quindi che attraverso la violazione tipizzata, quindi alcune condotte tipiche, possa avere leso quei valori. È difficile fare comprendere che il nostro sistema disciplinare è molto ficcante, è molto severo, con alcune ricadute pesanti sulla funzionalità del sistema giudiziario, anche. Si parlava adesso dei ritardi, che è una delle questioni che maggiormente preoccupa i colleghi. Questa questione, così come è stata vista nell’interpretazione soprattutto delle Sezioni unite della Corte, ha degli effetti aberranti, non solo quelli che sono già stati citati qui da Roberto, e cioè quelli relativi a un approccio burocratico alla funzione, ma anche alcuni riflessi 33
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organizzativi paradossali. La mia esperienza di pubblico ministero è che a volte il giudice guarda di più a questi profili dei provvedimenti che hanno termini valutabili sul piano disciplinare, piuttosto che quelli che richiedono invece un intervento urgente perché cautelare. È il rovescio della medaglia o meglio un aspetto di quella burocratizzazione del lavoro del magistrato, conseguenza di una imprecisa individuazione dei valori da tutelare, che qui è stata messa in luce da coloro che mi hanno preceduto. 4. Le statistiche vanno lette e comprese. Non vi cito le statistiche perché le conoscete, ma esse vanno lette e interpretate. Nelle sentenze di condanna non vanno considerate soltanto quelle che come tali possono essere definite. A mio parere vanno considerati anche i molti casi in cui vi sono dimissioni dall’ordine giudiziario in pendenza di procedimento disciplinare, che molto spesso sono di fatto motivate dalla preoccupazione di una sanzione disciplinare grave. Se non si considera questo elemento, non si comprende neanche l’aspettativa di condanna da parte del magistrato o comunque di subire un procedimento disciplinare serio e severo. Se voi sommate questi aspetti vedete che vi è un numero di procedimenti estremamente significativo che si concludono con una condanna o col volontario allontanamento dall’ordine giudiziario. Un altro aspetto delle statistiche del disciplinare che viene mal compreso è quello relativo al rapporto tra le sentenze di non luogo a procedere e quelle di condanna. Una rozza parificazione al penale porta a dire che il giudice disciplinare è lassista. Ma non è così. Il meccanismo processuale è diverso, perché nelle sentenze di non farsi luogo al giudizio sono compresi tutti quei casi nei quali è lo stesso Procuratore generale a chiederlo al termine della fase nella quale è stata promossa l’azione disciplinare. Nel processo disciplinare non c’è il giudice per le indagini preliminari né una figura equivalente e l’azione penale si considera esercitata non quando viene chiesto il giudizio, come avviene per il penale, ma già nel momento in cui l’incolpato viene posto a conoscenza dell’esistenza di questa fase tutelata delle indagini disciplinari. Quindi è ovvio che tutte le azioni che finiscono senza richiesta di giudizio finiscono con una sentenza della sezione disciplinare che non può essere parificata a una sentenza di assoluzione dopo l’esercizio dell’azione penale. La lettura delle statistiche va quindi fatta con una chiara consapevolezza di quello 34
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di cui si sta parlando. Con questa premessa (ma in realtà anche senza questa premessa) è a mio parere importante sottolineare che i dati dell’attività della Procura generale (e sto parlando dei casi in cui c’è l’esercizio dell’azione disciplinare) e poi della sezione disciplinare mostrano che la nostra giustizia domestica è incomparabilmente più severa rispetto a quella delle altre amministrazioni dello Stato o di altre professioni che possono essere in qualche modo a noi correlate. L’unico corpo che ha una giustizia disciplinare paragonabile alla nostra è il notariato. Forse c’è una ragione interessante per cui questo avviene: infatti anche il notariato, come noi, ha necessità della fiducia del pubblico che gli si rivolge, quindi ha necessità di tutelare con forza non il consenso ma la fiducia del pubblico. Per questa ragione, avendo una funzione diversa da quella dell’avvocato (ci si rivolge al notaio perché dia affidamento pubblico e certezza sull’esito della sua attività) il notariato tutela con molta forza la sua immagine pubblica, anche se poi in realtà gli illeciti perseguiti sono molto spesso illeciti che riguardano i rapporti interni. Comunque il dato di fatto è questo. Mi dispiace che il rappresentante dell’avvocatura, che ha affermato che i dati del primo grado del disciplinare forense sono molto seri, sia andato via. Non voglio fare polemiche, ma ho usato negli scritti precedenti e uso oggi i dati che mi provengono dall’avvocatura stessa. Dati diversi da quelli delle decisioni in appello, io non li ho. Benché li abbia chiesti molte volte non li ho perché non li ha nessuno. Nessuno ha i dati relativi alle condanne disciplinari che vengono erogate dai consigli dell’ordine. Ora è stata introdotta una significativa modifica e vedremo come andrà. Al momento, in sede di appello la percentuale è bassissima: rispetto a una platea di 200-230 mila avvocati, secondo gli anni abbiamo decisioni che vanno dalle 200 alle 400. Questi sono i rapporti. 5. Paradosso senza scampo. C’è un altro aspetto paradossale che l’Anm deve ben chiarire nel dialogare su questi temi, altrimenti si radicano dei modi di pensare che diventano degli apparati ideologici trasversali contro i quali non c’è niente da fare. Allora qual è l’altro meccanismo che discende dalla lettura malevola di questi dati? Dalla lettura malevola di questi dati si trae a volte la conseguenza che o si tratta di una giustizia buonista e lassista oppure alternativamente che i magistrati commettono moltissimi illeciti penali e disciplinari e che è una categoria 35
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inaffidabile per il numero di illeciti che commettono. Ci sono tutte e due queste considerazioni che procedono parallelamente negli stessi ambienti, sostenute a volte dalle stesse persone. La Anm deve capire che non si tratta di una campagna di retroguardia, ma è un punto centrale della nostra visibilità pubblica. Vi leggo ad esempio un titolo che commenta la relazione del Procuratore generale presso la Cassazione. Il Procuratore aveva detto due cose: nella selezione delle notizie di illecito si cercava di virare dalla sanzione sui ritardi, che era l’attività all’epoca principale dell’iniziativa del ministro, verso la protezione di valori di fondo riguardanti la correttezza nei rapporti con i magistrati e con le altre parti, l’indipendente e autonomo esercizio della funzione, la sua imparzialità e così via; di conseguenza erano aumentate proporzionalmente, rispetto ai ritardi, le azioni disciplinari che perseguivano queste condotte. Il titolo dell’articolo era: “I magistrati commettono sempre più reati e aumentano le violazioni delle norme processuali”. C’è chi cita l’opinione di un importante giudice inglese, secondo cui in Gran Bretagna non hanno bisogno di un organo disciplinare perché sono molto controllati all’interno del corpo e non esiste un solo caso in cui vi sia stata sanzione disciplinare. Questo però non è portato ad esempio del fatto che non funziona il loro sistema disciplinare, ma del fatto che noi facciamo un sacco di porcherie. Questo è un meccanismo da comprendere e da affrontare. Certo, al di là dell’ironia, la questione è molto seria e porta al tema delle valutazioni di professionalità, il cui sostanziale fallimento, fino agli anni 2000, è stato concausa dell’espansione incontrollata del disciplinare. Ma questo è un altro discorso. Un problema serio è costituito dal fatto che vi è una trasversalità di questo “apparato ideologico”. Qualche tempo fa fui invitato a un convegno di una fondazione dell’area di sinistra, la fondazione Morando, che aveva un bel titolo, “La riforma della giustizia come se Berlusconi non ci fosse”. Molto bene, mi dissi, potremo parlare delle garanzie non funzionali, dell’abuso del diritto, del sistema delle impugnazioni, del giudizio contumaciale di quello agli irreperibili..... Primo punto dell’ordine del giorno era la riforma della giustizia disciplinare. Intervenni per dire che il titolo era proprio quello giusto perché non c’è bisogno di Berlusconi: che ci sia o meno Berlusconi, parliamo sempre delle stesse cose. Quando poi io ho citato le statistiche della Sezione disciplinare mi è stato replicato menzionando quel caso.. quell’altro caso. Uno di questi casi è quello mitico che risale agli anni Ottanta del magistrato che fu sorpreso in un cinema con un ragazzino, ma si dimentica che da quel caso 36
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nacque la svolta della sezione disciplinare degli anni Ottanta, quella svolta che consentì al Csm dell’epoca di essere l’unico che perseguì i magistrati iscritti alla loggia Propaganda 2, mentre tutte le altre amministrazioni dello Stato non lo fecero. Non perché la magistratura fosse più corrotta e più infiltrata, ma perché la magistratura seppe reagire rispetto a quella infiltrazione. Quindi dobbiamo essere in grado di rispondere a queste sfide, a questi apparati ideologici, dobbiamo essere in grado di non perdere mai un colpo nel replicare, fornendo dati e riferimenti in maniera convincente. 6. Le proposte dei Saggi: un piccolo spiraglio di luce? Quando è apparso il decalogo dei Saggi in un primo momento avevo tirato un respiro di sollievo perché finalmente non si partiva dall’implicito presupposto che la giustizia disciplinare non funzionasse, anzi si partiva dal fatto che quella dei magistrati ordinari dovesse essere estesa alle altre magistrature. Ero contento di non sentire le solite cose, ma al contrario che le magistrature dovessero prendere esempio da noi. Mi sono però subito reso conto che in realtà anche il nuovo approccio prescindeva dai fatti. Per questo ho voluto intitolare la mia relazione alla conoscenza come presupposto delle riforme. Perché affermo che esso si basa sulla non conoscenza? Perché evidentemente coloro che hanno scritto in questa prospettiva non vogliono affrontare il nodo di fondo e cioè che non esiste un procedimento disciplinare come tale per i magistrati contabili e per i magistrati amministrativi. Esistono norme sparse che non consentono in realtà alcuna seria attività disciplinare, con la conseguenza che il problema non è quello di mettere i magistrati amministrativi e contabili in un organo nel quale annacqueremo completamente e definitivamente la giustizia di tutti, con una percentuale di magistrati ordinari praticamente inesistente, ma è quella di partire dalla consapevolezza dell’inesistenza di una compiuta e organica visione della disciplina delle magistrature contabile e amministrativa. Lo stesso vale per l’individuazione dell’organo che dovrebbe giudicare in secondo e definitivo grado. La prospettiva in varie proposte è quella di non ricorrere alle Sezioni Unite della cassazione. Ma perché? Le Sezioni unite della Cassazione hanno dato cattiva prova in questi anni? O forse, come abbiamo sentito qui oggi, semmai sono eccessivamente rigorose? E questo risulta anche dai dati perché quelli del 2011, per esempio, ci dicono che su 55 ricorsi in materia disciplinare, 13 sono stati del ministro; in complesso sono stati accolti 16 ricorsi e di questi 37
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ben 12 provenivano dal ministro. Questo sarebbe il lassismo per il quale le Sezioni unite non vanno bene come giudice di legittimità che chiuda il cerchio della giustizia disciplinare? 7. Il ruolo della Procura Generale: registrare secondo criteri riconoscibili le notizie di illecito. Insomma anche noi dobbiamo muoverci da una migliore conoscenza di fatto, a partire dalla Procura generale. La Procura generale non la conosce nessuno, questa è la verità, nemmeno noi magistrati sappiamo che cosa succede nella Procura generale. Dobbiamo porre rimedio a questa ignoranza, utilizzando anche la nuova sensibilità dell’organo dell’azione che da qualche anno mette finalmente a disposizione i dati statistici essenziali. Qual è il problema di fondo? Il meccanismo che già vi è stato illustrato, della archiviazione con cestinazione diretta - sempre che non vi sia l’esercizio dell’azione inteso nel senso ampio che ho prima ricordato - implica che la gran parte delle decisioni della Procura generale non vengono sottoposte al controllo giurisdizionale ma solo al controllo del ministro. Il ministro però ragiona in un’ottica diversa da quella del Procuratore generale, utilizzando il criterio dell’opportunità, opera cioè con parametri diversi da quelli di stretta legalità connessi con l’azione obbligatoria. La Procura generale opera valutazioni estremamente pregnanti, perché in realtà quello che si conosce poco è che il numero di illeciti disciplinari che vengono segnalati alla Procura generale è enormemente superiore a quelli che poi giungono all’esame del CSM anche solo con richiesta di non luogo a giudizio e che quindi vengono filtrati con un grande lavoro della Procura generale. Quindi il primo problema di fondo è capire quali sono i criteri e i parametri che la Procura generale utilizza. Per fare questo è necessario conoscere. E conoscere ci potrà indicare se e come funziona la tipizzazione dell’illecito. Non si può vedere come funziona realmente la tipizzazione dalla sola sezione disciplinare. Nella sezione disciplinare anzi la tipizzazione risulta paradossalmente come un qualcosa di oscuro: le scelte dell’azione appaiono a volte incomprensibili. Il vero problema della tipizzazione lo si ritrova solo nella valutazione del Procuratore generale. Ad esempio, molte condotte che ciascuno di voi considererebbe un illecito disciplinare non rientrano nella tipicità. Molte volte si è costretti a cestinare perché in realtà comportamenti che stridono, 38
Relazioni - Giovanni Salvi
che danno fastidio, che veramente incidono sul prestigio e sull’immagine del magistrato non sono considerati come illeciti disciplinari. Pensate ad esempio alle frequentazioni. La tipizzazione delle frequentazioni che costituiscono illecito disciplinare è così tarata sul procedimento trattato dal magistrato o sul pregiudizio penale già esistente nei confronti del frequentato che privano larga parte delle frequentazioni di rilevanza disciplinare. Se noi avessimo una conoscenza reale di questi meccanismi potremmo anche sollecitare una modifica normativa, che vada davvero verso una maggiore incisività della nostra azione, non sui ritardi e sulle altre questioni che noi ben conosciamo, ma su questi aspetti che più gravemente ledono l’immagine della magistratura. Conoscere queste cose è fondamentale perché se non le conosciamo si spargono ingiusti sospetti e incomprensioni delle difficoltà dell’organo dell’azione. Allora, come si può fare a conoscerle? A mio parere si deve ristrutturare il meccanismo di registrazione degli illeciti da parte della Procura generale, in maniera tale che già nel momento della registrazione sia possibile conoscere di che cosa si tratti, non solo con riferimento alla tipizzazione, ma anche con riferimento ad alcune tipologie di condotte che non sono tipizzate ma che possono essere frequenti e riconoscibili. 8. Massimare le archiviazioni. Un secondo punto molto importante è quello relativo alla massimazione di queste decisioni. Tutte le decisioni significative del Procuratore generale che finiscono con la diretta archiviazione a mio parere devono essere massimate; si deve garantire la riservatezza del magistrato interessato, ma esse devono essere assolutamente massimate in maniera che si conoscano le condotte e le ragioni per le quali non le si persegue. Ciò renderà trasparenti le scelte non sottoposte a controllo e dunque non pubbliche e al tempo stesso fornirà elementi chiari sulle ragioni di queste scelte. In questa maniera sarà anche possibile individuare le falle della tipizzazione e chiedere gli opportuni interventi integrativi. Molto può esser fatto anche a legislazione invariata per rendere riconoscibili le scelte di fondo della Procura generale e per inquadrare, conseguentemente, quelle in favore dell’azione in un catalogo di valori chiaro. A mio parere molto può essere già fatto anche nella direzione di rendere operanti i valori sottesi al sistema disciplinare, quanto meno in favore, perché non possiamo certo supplire con interpretazioni analogiche a queste carenze; 39
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
possiamo però riempire sin d’ora le fattispecie tipizzate di quei valori fondanti. Ci sono gli strumenti per farlo, a partire dall’articolo 3 bis che ovviamente può essere esteso attraverso il riferimento all’articolo 1 per comprendere tutti i parametri tipizzanti di un fatto, ivi comprese la condotta, le possibili giustificazioni e così via. In conclusione bisogna conoscere, bisogna rappresentare ciò che conosciamo in maniera chiara e incisiva non perdendo mai un colpo, impedendo che si consolidino nell’opinione pubblica interpretazioni che diventano poi irremovibili e in terzo luogo operare in maniera significativa per ridurre il gigantismo della giustizia disciplinare, riportandolo a quello che deve essere e cioè una valutazione interna al corpo della possibilità per il magistrato di esercitare con prestigio questa straordinaria e delicata funzione.
Note: per i riferimenti normativi e di ordinamento e per i dati statistici si rinvia al mio scritto
L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, in Questione Giustizia, 2010 fascicolo 5.
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Interventi - Armando Spataro
INTERVENTI Armando Spataro Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano
“Le difficoltà difensive nella fase delle indagini anteriori alla richiesta di fissazione della udienza di discussione orale” L’Associazione Nazionale Magistrati va ringraziata per aver voluto organizzare questo incontro su un tema così importante ed attuale per la vita professionale dei magistrati italiani. Vorrei anche aggiungere, in premessa, che, nel discutere di giustizia disciplinare, i magistrati devono evitare di assumere atteggiamenti corporativi e di incorrere in generalizzazioni gratuite: sarebbe un grave errore essendo ovvio che un sistema disciplinare funzionante costituisce anche una condizione di efficacia e credibilità dell’ordinamento giudiziario, di serietà delle valutazioni di professionalità dei magistrati e di effettività della nostra indipendenza. Serve anche ad evitare che vengano ulteriormente coltivati progetti di riforma del sistema di responsabilità civile dei giudici che, come quello predisposto nella precedente legislatura, si possono definire pericolosi per l’indipendenza della magistratura. Personalmente sono pubblico ministero da quando sono entrato in magistratura, ma almeno da trent’anni svolgo funzione di difensore di colleghi in procedimenti disciplinari. Ed ho anche esercitato, sia pur per poco, la professione di avvocato prima di entrare in magistratura. Queste brevi note personali hanno un senso preciso: credo di poter capire e conoscere, da un lato, i problemi che un pubblico ministero deve affrontare anche nel corso di un’indagine disciplinare e, dall’altro, i problemi e le necessità dei difensori, derivanti da prassi e principi che, nel campo disciplinare, sembrano garantire gli incolpati meno che gli indagati ed imputati in sede penale. È questa la ragione per cui, in questo mio breve intervento programmato (che non può, in quanto tale avere il respiro e la dimensione di una relazione), mi soffermerò soprattutto, nell’ottica del difensore, sulle modalità di azione della Procura Generale presso la Corte di Cassazione, a partire dai: Rapporti tra competenze ed atti della Procura generale e contenuti dei rapporti 41
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
ispettivi nel caso di azione disciplinare promossa dal Ministro della Giustizia. Sia ben chiaro, naturalmente, che i rilievi che seguono devono intendersi pienamente rispettosi delle competenze dei due titolari dell’azione disciplinare (il Ministro della Giustizia ed il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione): essi tendono, dunque, a suggerire percorsi di miglioramento della situazione attuale nell’interesse di tutti. Non parlerò, dunque, della giurisprudenza della sezione disciplinare, ma di ciò che avviene durante la fase delle indagini disciplinari, cioè prima dell’eventuale giudizio dinanzi alla competente Sezione del CSM. Aggiungo, peraltro, che alcuni dei miei rilievi, proprio perché relativi alle prassi, prescindono dai contenuti della nuova normativa disciplinare del 2006. Il modus operandi della Procura Generale, del resto, può ben essere oggetto di riflessione, anche allo scopo di suggerire affinamenti ed eventuali “correzioni”, né più né meno – insomma - di quanto avviene con analisi di norme ed orientamenti giurisprudenziali. Sappiamo tutti della crescita del numero delle procedure disciplinari e delle condanne, ma sono anche convinto che ciò non sia conseguenza esclusiva dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare e della tipizzazione degli illeciti. Talvolta, anche al di fuori della magistratura, si ha la sensazione che la crescita esponenziale dell’avvio delle procedure – in particolare di quelle ad opera del Ministro della Giustizia - sia anche il frutto di una risposta dovuta a fronte di accuse, spesso superficiali ma talvolta anche strumentali, attraverso le quali si chiede a gran voce, specie da parte del mondo politico, la punizione del magistrato che incorre in ritardi, che commette un errore, che determina una scarcerazione, che rende una dichiarazione pubblica a tutela della propria onorabilità e dell’indipendenza di tutti etc.. Sono richieste ed aspettative talvolta legittime o comprensibili ma che rischiano di influenzare l’avvio di talune procedure, anche solo per dimostrare la falsità dell’assunto secondo cui i magistrati non sarebbero sottoposti a controlli deontologici efficaci e la giustizia disciplinare sarebbe ispirata da logiche corporative. Allora partiamo dalle iniziative ministeriali. A mio avviso, pur sottolineando ancora una volta il rispetto per le valutazioni del Procuratore generale, vi è necessità di maggior rigore valutativo rispetto alle conclusioni delle ispezioni ministeriali. Sappiamo – certo - che il ministro è titolare dell’azione disciplinare e che spesso la promuove sulla base di ispezioni ministeriali che possono avere 42
Interventi - Armando Spataro
varie ragioni di avvio: l’ispezione può nascere, infatti, anche dall’esposto del cittadino privato o più spesso da una notizia pubblicata sui quotidiani. Altre volte, invece, si tratta delle previste ispezioni periodiche negli uffici giudiziari. Ma, come si dirà più avanti, le ispezioni ministeriali ed il conseguente avvio dell’azione disciplinare da parte del Ministro della Giustizia possono talvolta, formalmente e legittimamente, essere fondate anche su ragioni politiche. Vanno esaminate innanzitutto, a proposito delle ispezioni, le modalità con cui esse vengono svolte e le possibili ricadute sull’azione successiva della Procura generale. Intanto sono procedure amministrative prive di quei caratteri di garanzia per il magistrato sottoposto all’ispezione che, anche solo a causa di un giudizio finale negativo da parte dell’ispettorato, può finire con l’essere destinatario di addebito disciplinare L’esperienza dimostra che gli atti ispettivi hanno troppo peso nell’economia generale delle procedure disciplinari, al punto da costituire spesso la parte principale dei relativi fascicoli: addirittura, in modo a mio avviso criticabile, l’art. 18 co. 3, lett. “b” D. Lgs. n. 109/2006 prevede che la “sezione disciplinare può disporre o consentire la lettura dei rapporti dell’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia..”. Invece, le valutazioni finali dell’Ispettorato dovrebbero essere equiparabili ad una informativa iniziale, contenente la mera notizia dell’illecito disciplinare, spettando al P.G. il successivo ed autonomo approfondimento investigativo al fine di verificarne il fondamento. Non dovrebbero assumere, cioè, valore centrale nella procedura disciplinare, specie ove si consideri che i rapporti finali dell’Ispettorato, come mi è capitato di constatare anche in anni recenti, sono spesso assertivi e le conclusioni cui pervengono sono frutto di ragionamenti deduttivi non sempre condivisibili. Ma il vero problema sta nel fatto che tali conclusioni finiscono poi con l’essere riprodotte nei capi di incolpazione, condizionandone la prima formulazione. È bene precisare che non intendo affatto ipotizzare un impensabile rifiuto della Procura Generale di dar seguito all’azione promossa dal Ministro della Giustizia: sto soltanto auspicando che, nel rispetto delle reciproche competenze, l’ufficio del PM si muova con finalità di autonomo accertamento e corretta messa a punto della incolpazione. Un approccio che giudico corretto anche alla luce di quanto previsto dal co.2 art. 14 D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 1091 secondo cui “Il Ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere..l’azione disciplinare mediante richiesta di indagini al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione…”, inciso che sottolinea sia la titolarità dell’atto d’impulso del Ministro, sia il successivo 1
D’ora in avanti citato come D. Lgs. n. 109/2006
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La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
approfondimento investigativo di competenza della Procura generale. È noto che i capi di incolpazione, al momento della chiusura delle indagini disciplinari della Procura generale, e dunque alla vigilia della richiesta di fissazione dell’udienza di discussione orale (ex art. 17 co. 2 D. Lgs. n. 109/2006), possono assumere diversa formulazione rispetto a quella originaria. Questo avviene spesso proprio perché il Procuratore generale rileva che gli originari capi di incolpazione, modellati sulle conclusioni delle ispezioni e da queste influenzati, non sono sempre tecnicamente puntuali. L’indicazione originaria degli addebiti, come si è detto, è infatti troppo spesso frutto di procedure non garantite e di acquisizioni che, in un diverso sistema, più attento alle esigenze di difesa del potenziale incolpato, non sarebbero utilizzabili. Faccio un esempio che mi riguarda: molti anni fa, mi è capitato di ricevere personalmente una missiva del magistrato Dirigente pro tempore dell’Ispettorato che mi chiedeva di spiegare le ragioni di una certa mia condotta. Orbene, a prescindere dallo specifico fatto oggetto dell’interesse ispettivo, appariva evidente che se avessi risposto in una certa maniera ne sarebbe potuta scaturire un’azione disciplinare. Allora scrissi rispettosamente all’ispettore chiedendo che mi venissero spiegate le ragioni e l’esito possibile di quell’accertamento, precisando che – ove si fosse trattato di un accertamento finalizzato ad individuare condotte disciplinarmente rilevanti – avrei avuto diritto ad esserne informato; in tal caso, non avrei risposto nelle forme della relazione richiesta. La ragione della mia richiesta era del tutto evidente: se quella domanda mi fosse stata posta in sede di procedimento disciplinare dal Procuratore generale, avrei ben potuto avvalermi della facoltà di non rispondere o richiedere che mi fosse resa nota la fonte dell’addebito. Non ricevetti alcun chiarimento, non inviai all’Ispettorato la relazione richiesta, la procedura fu archiviata de plano. È un esempio – questo – di come un magistrato, rispondendo alle richieste ministeriali in un apprezzabile spirito di leale collaborazione, possa proprio per quella ragione vedersi addebitato un illecito disciplinare. Ecco perché mi permetto di dire che sarebbe auspicabile l’assunzione da parte della Procura generale di un ruolo di filtro più efficace rispetto alle conclusioni dell’ispettorato del Ministero della Giustizia, un filtro di natura giurisdizionale vero e proprio, fino al punto di formulare in proprio – ab initio – i capi di incolpazione e di non utilizzare atti provenienti da quella fonte se acquisiti al di fuori delle garanzie previste per l’incolpato. Vanno evitati, insomma, “appiattimenti” nell’esercizio dell’azione disciplinare che siano il frutto 44
Interventi - Armando Spataro
di mera cortesia istituzionale: il rapporto tra istituzioni, cioè, deve essere ispirato non solo a lealtà reciproca, ma anche alla considerazione dei diritti dei terzi, in questo caso dei magistrati potenzialmente incolpabili disciplinarmente. Tra l’altro, questa diversificazione di competenze e di possibili scelte non costituisce affatto ostacolo all’esercizio dell’azione disciplinare da parte del Ministro della Giustizia: questi, infatti, dopo avere promosso l’azione disciplinare, è titolare del diritto ad essere informato dal Procuratore generale delle sue determinazioni (art. 17 co. 2 D. Lgs. n. 109/2006), di chiedere l’integrazione e la modificazione della contestazione (art. 17 co. 3 stesso D. Lgs.); ha pure diritto ad essere informato della eventuale richiesta di non luogo a procedere da parte del Procuratore generale che ritenga l’insussistenza dell’addebito ed a “richiedere al Presidente della Sezione disciplinare la fissazione della discussione orale, formulando l’incolpazione” (art. 17, rispettivamente co. 6 e 7 stesso D. Lgs.). Ed in tal caso, però, sarà sempre il Procuratore generale a rappresentare l’accusa nella discussione orale. La particolare attenzione che la Procura Generale, rivendicando la propria indipendenza valutativa, deve riservare alle modalità ed ai contenuti dell’azione disciplinare promossa dal Ministro della Giustizia deriva anche dal fatto che talvolta le ragioni poste a base dell’azione ispettiva e quindi del promovimento dell’azione disciplinare da parte del ministro, possono essere di natura squisitamente politica. Non si tratta di ipotesi suggestiva o di un’affermazione gratuita: infatti, nella relazione di accompagnamento all’originario schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri il 28 ottobre 2005, in attuazione della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario del 27 luglio 2005 n. 150, si giustifica la facoltatività dell’azione disciplinare da parte del Ministro della Giustizia affermando testualmente che “l’esercizio può riposare anche su ragioni politiche”. Di qui, dunque, la necessità di un’azione di ulteriore filtro da parte della Procura generale della Cassazione nel valutare conclusioni ed elementi di prova posti a base dell’azione disciplinare promossa dal Ministro. La necessità di maggiori approfondimenti investigativi da parte della Procura Generale. Un altro rilievo che mi permetto di esporre è quello relativo alla necessità di maggiori approfondimenti investigativi da parte della Procura generale. Spesso, infatti, ci si trova di fronte a carenze che si ripercuotono inevitabilmente sul successivo iter dell’azione disciplinare e che sarebbero a mio avviso evitabili 45
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
attraverso accertamenti che la Procura generale può facilmente effettuare sia d’ufficio, sia a seguito di istanze difensive. Spesso tali istanze difensive rimangono prive di attenzione e non vengono accolte, neppure in parte, senza che ne siano spiegate le ragioni. Si ha la sensazione, cioè, che tali istanze, a differenza di quanto avviene nel processo penale ordinario (dove per mia esperienza trovano maggiore considerazione), siano considerate istanze “rituali”, formulate quasi per dovere e non per reale utilità processuale degli accertamenti richiesti. Ciò, naturalmente, determina, a cascata, la necessità di indagini difensive. Si potrebbe osservare che tali indagini sono ben possibili alla luce del nostro ordinamento processuale e che, dunque, tale strumento è utile e sufficiente a tutelare gli interessi dell’indagato. Ma, a prescindere dal fatto che le indagini difensive sono spesso meno efficaci di quelle disposte dal Procuratore generale, si dimentica che il magistrato difensore non ha risorse, né tempi disponibili paragonabili a quelli propri di un avvocato professionista nel processo penale ordinario. E soprattutto che egli prenderà visione degli atti, apprezzando quali accertamenti potrebbero essere eventualmente utili, solo dopo la chiusura della indagine del P.G. e la richiesta da lui formulata di fissazione della udienza di discussione orale. Tra l’altro, proprio per questo, la mancanza di approfonditi accertamenti può determinare una necessità di indagini dibattimentali – evidentemente di competenza della sezione disciplinare del CSM - con conseguente allungamento dei tempi del giudizio. La necessità, in sede disciplinare, di dare attuazione all’art. 415 bis cpp. E qui va affrontato un altro tema importante, quello della non applicazione, nel procedimento disciplinare, della procedura prevista dall’articolo 415 bis c.p.p. per i processi penali ordinari: si tratta di una lacuna grave che produce effetti devastanti. Si deve riflettere con freddezza su questo tema, considerando anche solo alcune delle conseguenze negative per l’incolpato derivanti dall’inesistenza della fase di deposito degli atti del procedimento disciplinare all’atto della chiusura della fase istruttoria: impossibilità di proporre istanze difensive o di effettuare indagini e tempestive attività integrative, di chiedere l’interrogatorio dell’incolpato e depositare memorie difensive prima che il PM assuma le sue determinazioni. È ovviamente nota la giurisprudenza in senso negativo della Sezione Disciplinare (Sent. n. 73/2007), più volte confermata dalle SS. UU. Civili della 46
Interventi - Armando Spataro
Corte di Cassazione, così come è noto l’orientamento di qualche interprete e studioso secondo cui la norma di cui all’art. 415 bis cpp (con quel che ne segue) non sarebbe applicabile al procedimento disciplinare, nonostante la previsione di cui all’art. 16 co. 2 D. Lgs. 129/2006 (“Per l’attività di indagine si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale…”), mancandovi un filtro predibattimentale, quale è, nel processo penale, quello del giudice dell’udienza preliminare. Non mi soffermerò oltre sulle ragioni di tale orientamento poiché nessuno dei possibili argomenti a sostegno appaiono tali da vietare o impedire l’adozione di una prassi diversa, cioè quella dell’utile e virtuosa applicazione della norma in questione da parte della Procura generale della Cassazione. Se, infatti, alla procedura disciplinare si applicano le norme del codice di procedura penale “in quanto compatibili”, non vedo cosa possa rendere incompatibile, rispetto all’indagine disciplinare, la procedura di cui all’art. 415 bis cpp. Certamente, il deposito degli atti ex articolo 415 bis cpp (avviso di chiusura delle indagini preliminari) non si può considerare vietato nel campo disciplinare, in quanto finalizzato a permettere alle parti interessate la conoscenza del contenuto degli atti e così consentire all’indagato di articolare richieste di nuovi accertamenti e di interrogatorio, rendendo possibili anche indagini di iniziativa e deposito di memorie. Non si riesce proprio a scorgere alcun ostacolo all’applicazione di una norma che mira a garantire la tendenziale parità delle parti e l’esercizio del diritto di difesa nel processo in condizioni di uguaglianza rispetto all’accusa. Non sono forse, tali obiettivi, virtuosi e condivisibili anche con riferimento al processo disciplinare ? Insomma, vi è da auspicare che la grave carenza costituita dalla disapplicazione dell’art. 415 bis cpp possa essere colmata, se non per legge (forse superflua), per effetto di una scelta garantista da parte della Procura Generale. Sull’assetto interno della Procura Generale. Ancora una volta ribadendo assoluto rispetto per l’operato e le scelte del Procuratore Generale e dei componenti l’ufficio da lui diretto, credo potrebbe anche essere utile conoscere le prassi adottate in quell’ufficio nell’ipotesi di divergenza che, anche in una procedura disciplinare, può manifestarsi tra le conclusioni cui perviene il Sostituto delegato alla trattazione del singolo procedimento e quelle del Procuratore generale. Si potrebbe, probabilmente, applicare alla procedura disciplinare la normativa “para-tabellare” vigente nelle Procure della Repubblica in ordine 47
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ai processi penali. Intendo riferirmi al fatto che, nell’attività quotidiana delle Procure territoriali, un sostituto può dissentire dal procuratore o dall’aggiunto responsabile del coordinamento di un determinato dipartimento e può anche scegliere di non volere proseguire lungo la strada processuale che il dirigente dell’ufficio ritiene giusta: ad es., egli può essere orientato verso una richiesta di archiviazione del procedimento mentre il Procuratore può esserlo verso la richiesta di rinvio a giudizio. O viceversa. Ebbene, in tali casi ne deriva un provvedimento motivato di revoca dell’originaria assegnazione e di conseguente riassegnazione del fascicolo ad altro magistrato dell’ufficio (o di autoassegnazione al Procuratore della Repubblica). Tale procedura potrebbe essere adottata anche all’interno della Procura generale della Cassazione ove l’indirizzo valutativo prevalente non può che essere quello del dirigente l’ufficio, uno dei due titolari dell’azione disciplinare. Sarebbe anche molto importante che, in sede di trattazione orale dinanzi alla Sezione disciplinare del CSM, l’accusa fosse rappresentata dallo stesso P.M. che ha condotto la precedente fase di indagine. Ciò non sempre avviene, ma le ragioni dell’auspicio qui formulato, in termini di maggior conoscenza dei fatti e di risparmio di tempo ed energie anche per l’ufficio del PM, sono del tutto evidenti. La necessità dei preliminari accertamenti sulle condizioni di lavoro dei magistrati in caso di addebito per mancanze formali o ritardi. Si è già discusso, nel corso della giornata, degli addebiti disciplinari relativi alle mancanze formali e ai ritardi nel compimento di atti processuali in cui possono incorrere i magistrati. Non mi diffonderò, pertanto, sui criticabili automatismi talvolta adottati per valutare in astratto la rilevanza disciplinare del ritardo sulla base del mero decorso di un certo intervallo di tempo dalla scadenza dei termini previsti per legge, pur se l’art. 2, c.1, lett. “q” D. Lgs. 109/2006l punisce il ritardo solo se grave, reiterato e ingiustificabile. Vorrei invece sottolineare che è sempre ed assolutamente necessario, anzi indispensabile, l’accertamento in ordine alle condizioni di lavoro del magistrato incorso in mancanze formali e/o ritardi, un’indagine che verta, cioè, sui carichi di lavoro gravanti sul suo ufficio, sui vuoti degli organici dei magistrati e del personale amministrativo che vi operano, sul suo eventuale e prolungato impegno in inchieste complesse, sulla sua ordinaria produttività e sul suo abituale (o meno) rispetto dei termini previsti per legge. Si tratta di accertamenti che dovrebbero essere obbligatori, 48
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addirittura preliminari rispetto a una formulazione di addebiti di questo tipo. Anche in questo caso, invece, si rileva spesso che contro-argomentazioni fondate sui predetti argomenti vengano considerate di routine ed irrilevanti, quasi costituissero l’“ovvio” che l’incolpato contrappone all’accusa: sono invece – lo ripeto ancora una volta - accertamenti indispensabili di cui la Procura Generale dovrebbe sempre farsi carico, magari – come in tempi più recenti sta avvenendo attraverso la predisposizione di un protocollo investigativo da inviare ai dirigenti degli Uffici presso cui operano i magistrati incolpati, invitandoli a fornire le informazioni necessarie. Deve essere chiaro che non si tratta di convincimenti fondati su una concezione corporativa della difesa dei magistrati rispetto a questo tipo di addebiti: essi si riferiscono, invece, ad accertamenti utili anche ai fini del riconoscimento della “negligenza scusabile” o della “scarsa rilevanza del fatto” che rendono non punibile la condotta in sé costituente illecito disciplinare. Tra l’altro, l’indagine sulla laboriosità ed il prestigio del magistrato o sulle condizioni in cui egli opera appare ancor più doverosa alla luce della recente decisione delle Sezioni Unite Civili della Cassazione, n. 5943 dell’11 marzo 2013, secondo cui l’infrazione disciplinare commessa dal magistrato è rilevante qualora comprometta la sua immagine: si comprende, dunque, come gli accertamenti predetti possano ben portare alla conclusione che una singola mancanza formale o un mero occasionale ritardo non si riverberano sull’immagine del magistrato. A cascata la situazione sin qui descritta produce molte preoccupanti conseguenze. È stato già detto delle preoccupazioni tra i magistrati, diffusissime ormai anche tra quelli anziani o con apprezzata esperienza. Si moltiplicano discussioni sui carichi di lavoro e sui criteri di individuazione di quelli sopportabili, resistenze rispetto alla possibilità di accettarne volontariamente in misura superiore a quella media, burocratizzazione crescente, calo di qualità dei provvedimenti ed altro ancora: chi può negare – ad esempio - che, a fronte della preoccupazione di essere disciplinarmente incolpato per un ritardo, il magistrato possa finire con il dedicarsi più alla “quantità” che alla “qualità” ed all’approfondimento della motivazione dei suoi provvedimenti ? È lo stesso modo di agire e pensare del magistrato italiano che, insomma, rischia una pericolosa deriva. Tra l’altro, se si moltiplicano ingiustificatamente le procedure disciplinari, diventa inevitabile la crescita del numero dei “rinvii a giudizio” e, in proporzione, delle assoluzioni da parte della Sezione disciplinare. Ma se aumentano le 49
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assoluzioni, crescono pure polemiche, accuse di “giurisdizione domestica” ed inaccettabili progetti di riforma del sistema disciplinare, tra cui la ricorrente proposta di separazione della Sezione disciplinare dal C.S.M.. Insomma, occorrono a mio avviso, da un lato interventi legislativi (come quello che cancelli la diretta utilizzabilità dinanzi alla Sezione Disciplinare dei rapporti dell’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia o che affermi esplicitamente l’applicazione alle procedure disciplinari dell’art. 415 bis cpp) e, dall’altro, prassi diverse da parte della Procura Generale presso la Corte di Cassazione: maggiore capacità di valutazione critica delle iniziative ministeriali (sin dalla prima formulazione dei capi di incolpazione), prassi innovative come quelle relative al deposito degli atti per i difensori degli incolpati o finalizzate a mirati accertamenti necessari nella fase delle “indagini preliminari” ed altro ancora di cui s’è detto. Il tutto permetterebbe alla Procura generale di richiedere il rinvio a giudizio degli incolpati in un quadro di completezza istruttoria ed in presenza della ragionevole previsione di una condanna. Si tratterebbe, in fondo, di trasferire nel campo della giustizia disciplinare la regola prevista nel processo penale per il pubblico ministero: “il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio” (art. 125 del D. L.vo 28 luglio 1989 n. 271, Norme di attuazione.. al CPP). Voglio comunque concludere manifestando fiducia non solo in chi è titolare dell’azione penale, ma anche nella capacità della sezione disciplinare di valutare le condizioni generali di lavoro dei magistrati. Credo profondamente, però, anche nella dignità dei magistrati i quali non possono rifugiarsi in atteggiamenti burocratici per far fronte alle difficoltà descritte: occorre mantener fermi consapevolezza e dovere di rivendicazione della specificità della propria funzione e del valore costituzionale della propria indipendenza. Mi sia consentito di chiudere questo intervento ricordando l’accusa mossa nei confronti di Guido Galli che, assieme ad altri colleghi, fu oggetto di una procedura disciplinare nel dicembre del 1974 per avere, attraverso l’ordine del giorno redatto al termine di un’affollatissima assemblea tenutasi a Milano, reso dichiarazioni critiche in merito al trasferimento a Catanzaro, per legittimo sospetto, del processo per la strage di Piazza Fontana. Guido Galli 50
Interventi - Armando Spataro
aveva denunciato, secondo l’incolpazione disciplinare, “la discriminazione della magistratura milanese mediante la sistematica sottrazione dei più delicati processi penali, in oggettiva consonanza con le sollecitazioni di una determinata parte politica”, con il rischio conseguente di dar corpo ad “un ammonimento ai giudici ai quali toccherà di pronunciarsi...”. Queste ed altre frasi, che non solo Guido Galli aveva firmato e sottoscritto, risalgono al 18 ottobre 1972. Mi auguro che, dopo 40 anni, nessuno abbia dubbi sul fatto che frasi come quelle debbano essere ripetute ogni volta ciò risulti necessario. Il 3 dicembre 1974, infatti, Guido Galli e gli altri colleghi furono assolti: il fatto loro attribuito non fu ritenuto illecito disciplinarmente perché gli incolpati si erano venuti “certamente a trovare nella situazione di esprimere giudizi e valutazioni sul procedimento di rimessione e di agire quindi nella sfera del lecito avendo per scopo la difesa del prestigio della magistratura milanese”. Oggi, possiamo aggiungere, che è la difesa dell’indipendenza dell’intera magistratura italiana che, seppur con equilibrio e nel rispetto dei codici disciplinari e deontologici, deve essere praticata senza che timori di qualsiasi natura possano indurre i magistrati a passi felpati.
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La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
Claudio Castelli Presidente aggiunto sez. GIP Tribunale di Milano Report Il nostro sistema disciplinare funziona male e rischia di avere effetti iniqui che spingono verso una crescente burocratizzazione. Dobbiamo liberare i magistrati dalla paura, da un lato ricostruendo la realtà dei fatti (meno allarmante di come viene presentata) e dall’altro mettendo in campo interventi (possibili) che rientrano nel nostro campo di azione per correggere le deviazioni ed evitare una possibile deriva. Una Premessa Un sistema disciplinare è necessario ed è fondamentale per la stessa tenuta e credibilità della magistratura. È l’inevitabile contrappeso dell’indipendenza e del potere. A fronte della pericolosità ed impraticabilità di qualsiasi estensione della responsabilità civile è inevitabile che la responsabilità disciplinare sia lo strumento fondamentale di controllo di comportamenti patologici. È vero che in altri paesi Europei la responsabilità disciplinare esiste solo sulla carta o viene esercitata in pochissimi casi, ma è altrettanto vero che fortunatamente godiamo di un’indipendenza che i magistrati di altri paesi sognano. I Dati I dati della Procura generale della Cassazione e del Consiglio Superiore della Magistratura sui procedimenti disciplinari evidenziano come stiamo attraversando una fase di assestamento dopo le oscillazioni avutesi a seguito dell’introduzione del nuovo ordinamento giudiziario. Le notizie di illecito sopravvenute hanno avuto un picco nel 2011 per poi rapidamente diminuire ed anche i procedimenti pendenti hanno avuto un aumento nel 2011 per poi decrescere. Anno 2008 2009 2010 2011 2012 Notizie sopravvenute 1423 1413 1382 1780 1316 Definite 799 487 522 861 769 La percentuale di notizie che danno luogo ad un’azione disciplinare è costantemente bassa, dimostrando il ruolo di filtro che, al di là di tutto, la 52
Interventi - Claudio Castelli
Procura Generale riesce a svolgere: Anno 2008 2009 2010 2011 2012 Inizio azione disciplinare 7, 24 % 5,91 % 7,50 % 7,00 % 8,5 % Archiviazione 92,76 % 94,09 % 92,50 % 93 % 91, 5 % Il numero di azioni disciplinari promosse si sta assestando sulle 150 annue con una netta maggioranza di azioni promosse dalla Procura generale, con qualche picco sotto il Ministero Alfano. Va anche tenuto conto che incidono in modo significativo le azioni disciplinari pendenti e sospese per pregiudizialità penale (alla fine del 2012 ben 54 su 196). Anno 2008 2009 2010 2011 2012 Azioni sopravvenute 150 185 157 142 151 Azioni del Ministro 24 % 44,9 % 34,4 % 29,6 % 21,2 % Di queste azioni una quota significativa è relativa al ritardo nel deposito dei provvedimenti, anche se si tratta di una percentuale in discesa. Illecito disciplinare 2010 2011 2012 Ritardi nel deposito dei provvedimenti 62 45 42 Ingiuria, diffamazione o altri reati 39 23 20 Provvedimenti abnormi o contenenti 4 9 16 errori inescusabili Ritardi e negligenze nell’attività dell’ufficio 7 16 15 Tardiva o mancata scarcerazione N.D. 6 12 Violazione di norme processuali civili e penali 26 26 10 Abuso della qualità o della funzione 3 9 8 Rapporti dei magistrati con altri magistrati dello 13 8 10 stesso ufficio o di altri uffici Astensione o omissione di atti dovuti 7 2 6 Altro 25 25 23 TOTALE 186 169 191 Le azioni disciplinari per ritardi calano in percentuale dal 33 % del 2010 al 26,6 % del 2011 al 22 % del 2012. A queste azioni conseguono da parte della Procura Generale richieste di discussione orale (il c.d. rinvio a giudizio) o di non luogo a procedere. I dati sono molto meno severi di quanto si possa immaginare sia quanto alle determinazioni della Procura Generale, sia quanto alle sentenze emesse dal 53
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
C.S.M. Procedimenti trasmessi dalla Procura Generale della Cassazione (dall’1.9.2010 al 31.12.2012) Con richiesta di discussione orale Con richiesta di non luogo a procedere 200 130 Statistica della sezione disciplinare (dall’1.9.2010 al 31.12.2012) Condanne Assoluzioni Sentenze Ordinanze Procedimenti non doversi non doversi definiti procedere procedere 116 92 19 115 342 Di queste decisioni in relazione all’illecito disciplinare del ritardo nel deposito delle sentenze si sono avute 28 ordinanze di non luogo a procedere, 47 condanne e 40 assoluzioni. In sostanza tenendo conto che si tratta di un periodo di 27 mesi circa 20 sentenze di condanna in un anno. I dati ridimensionano un problema che comunque esiste e va affrontato. Il Sistema Disciplinare A fronte delle 20 sentenze disciplinari di condanna l’anno la questione in apparenza pare ridimensionarsi. È così, ma solo in parte, da un lato perché questo dato è il frutto finale di un’attività ben più ampia che spande insicurezza e timori e che spinge verso la burocratizzazione: - ispezioni capaci solo di riscontrare matematicamente ritardi nelle sentenze e nelle scarcerazioni, - capi degli uffici capaci solo di segnalare burocraticamente i ritardi senza far nulla per aiutare i propri magistrati, - magistrati costretti a ricostruire vicende personali e professionali di anni prima per verificare la sussistenza di giustificazioni. Nessuno intende legittimare ritardi che costituiscono un danno per gli utenti e per la collettività, oltre che nel penale un consistente costo economico, ma riscontrare come l’attuale sistema non colpisca necessariamente i peggiori, ma i meno accorti e spesso i più generosi. Personalmente ho visto alcuni dei migliori magistrati da me conosciuti condannati disciplinarmente o assolti dopo peripezie che lasciano il segno, perché, più ancora che per un cittadino, per un magistrato la prima pena è il processo. La giurisprudenza formatasi da parte delle Sezioni unite della Cassazione, 54
Interventi - Claudio Castelli
che inevitabilmente condiziona la sezione disciplinare del Consiglio e la Procura Generale della Cassazione, sostiene che un ritardo nel deposito di un provvedimento per più di un anno non può essere giustificato. E d’altro lato analoga automaticità nell’escludere possibili giustificazioni si ravvisa in alcune pronunce relative per i ritardi di scarcerazione. Giurisprudenza che personalmente trovo sbagliata perché va oltre il dato di legge (che parla di ritardo grave, reiterato e non giustificato, e di negligenza inescusabile), mette nel nulla i diversi contesti in cui i ritardi sono maturati (sia lavorativi, come carichi di lavoro, tipologia dei processi trattati, sia extra lavorativi, quali malattie e lutti familiari), non affronta in alcun modo i rapporti tra il magistrato ed il suo ufficio (quale era il contesto generale, cosa ha fatto il dirigente per affrontare i ritardi). In tal modo il magistrato viene ad essere solo e vulnerabile colpito da una sorta di responsabilità oggettiva. Non solo, ma estendendo l’osservazione oltre i ritardi, si verifica come alcune norme del codice disciplinare siano incongrue, strutturate in modo da non poter essere rispettate, dando in tal modo la possibilità di vere e proprie iniquità ed arbitri. Mi riferisco in particolare all’art 2 lett. l (provvedimenti privi di motivazione o con motivazione apparente) e all’art. 5 comma 3 del D. leg. 20 febbraio 2006 n.106 (divieto di rendere dichiarazioni non autorizzate su atti del proprio ufficio da parte del sostituto procuratore). È vero che sinora abbiamo avuto pochi casi, ma sufficienti per verificarne strumentalità e casualità, quando non arbitrarietà. Davvero allarma la schizofrenia di un sistema disciplinare tanto severo in relazione alle mancanze formali, quanto inefficace nei confronti di comportamenti assai più gravi, che richiederebbero indagini e volontà di approfondire la realtà. Quanto si legge in molte sentenze è la migliore dimostrazione di quanto l’organo decidente sia spesso lontano dagli uffici giudiziari e dalla loro realtà. Le Possibili Proposte Un quadro allarmante, nei cui confronti la risposta non può essere diffondere e sfruttare la paura per stimolare logiche di protezione, ma fare proposte concrete per impedire che la deriva burocratica vinca. Non credo a proposte che incidano sulla struttura della sezione disciplinare. Anzi una struttura autonoma dal CSM rischia di essere ancora più lontana dai magistrati, quando una delle caratteristiche del giudice disciplinare deve 55
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
essere proprio quella di essere al passo con lo stato dell’arte dei vari mestieri di magistrato e di capire contesti e situazioni. Non solo, ma pensare ad una struttura che si occupi solo di disciplinare è un inevitabile invito suicida a moltiplicare i procedimenti. Credo invece si possano fare e chiedere alcune cose subito: Un archivio giurisprudenziale trasparente e ragionato disponibile per tutti, perfezionando quello già reperibile sul sito della cassazione. Aprire un confronto giurisprudenziale. Le decisioni della sezione disciplinare e delle sezioni unite sono giurisdizione pura, e come tali vanno rispettate, ma possono e debbono essere discusse e criticate. Fornire da parte del C.S.M. in modo trasparente i dati sulle sentenze disciplinari, sulla tipologia di contestazioni, sul loro esito. Rivedere alla luce della prima applicazione il codice disciplinare eliminando o meglio articolando alcune disposizioni. Prevedere per i casi di ritardi a livello di circolari del Consiglio Superiore della Magistratura e di protocolli di indagine disciplinare per l’Ispettorato del Ministero della giustizia l’obbligo di accertare il complessivo carico di lavoro, le difficoltà segnalate dal magistrato, la produttività comparata, gli interventi del capo dell’ufficio per aiutare il magistrato. Perché i ritardi, che hanno costi per il cittadino, ma anche per il servizio, sono innanzitutto una sconfitta per l’ufficio di appartenenza e per il suo dirigente il cui primo ruolo è quello di aiutare i propri magistrati. Non solo, ma particolare attenzione dovrebbe essere riservata ai più giovani, onde verificare che, come spesso tuttora avviene, non siano rimasti vittima di fenomeni di nonnismo giudiziario. Chiedere che il Ministero dia in dotazione a tutti gli uffici la Banca dati misure cautelari personali, banca dati già sperimentata anni fa e che eliminerebbe in radice il problema dei ritardi nelle scarcerazioni. Liberiamo i magistrati dalla paura con iniziative concrete: il sistema disciplinare deve riguardare le patologie del sistema e non diventare uno strumento di governo della magistratura. La sua deriva ed il suo divenire un nemico dei magistrati è pericolosa per tutti.
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Interventi - Mario Fresa
Mario Fresa Sostituto procuratore generale presso la Corte Suprema di Cassazione Sono addetto da circa un anno al pool della Procura generale della Corte di cassazione che si occupa delle indagini disciplinari. Sette sostituti sono addetti alle sommarie indagini preliminari e dieci all’istruttoria disciplinare ed all’eventuale giudizio dinanzi alla Sezione disciplinare del CSM. Vorrei anzitutto parlare del filtro della Procura generale alle numerosissime notizie di illecito che pervengono annualmente a seguito di rapporti del CSM, dei Consigli giudiziari, dei dirigenti degli uffici, di esposti di privati, o, direttamente, dai Procuratori della Repubblica che hanno proceduto ad iscrizioni di magistrati nel registro degli indagati. Nel corso del 2012 sono pervenute 1316 notizie di illecito, con un calo rispetto all’anno precedente, dovuto essenzialmente ad un più efficiente coordinamento con il CSM, che ha ridotto la duplicazione delle medesime notizie. Si tratta ancora di un numero elevatissimo, soprattutto dovuto ad esposti dei privati – o, peggio, denunce penali - i quali, anche a seguito delle continue delegittimazioni e denigrazioni della magistratura da parte di noti esponenti politici, costituiscono il sintomo di una sempre più diffusa sfiducia nella magistratura. Il numero delle notizie richiede un forte impegno da parte dei magistrati che si occupano, come il sottoscritto, della fase c.d. predisciplinare – che è fase amministrativa e non giurisdizionale – al fine di stabilire se sussistano o meno le condizioni per esercitare l’azione disciplinare. Il filtro operato in questa sede si è rivelato efficacissimo. Nel corso dell’anno le richieste di archiviazione - che come noto non vengono comunicate se non al Ministro della giustizia – hanno riguardato ben il 91,5% delle notizie di illecito. Solo per il restante 8,5% è stata quindi esercitata l’azione disciplinare. Negli anni precedenti, il filtro predisciplinare è stato ugualmente efficace. Nel 2011 le archiviazioni hanno riguardato il 93% delle notizie di illecito. Nel 2010 il 92,5% delle notizie stesse e nel 2009 ben il 94% di esse. Si assiste a decreti di archiviazione che sono, sovente, provvedimenti assai articolati, in fatto e in diritto. Non vorrei esagerare, ma a volte sono articolati come e quanto una sentenza della sezione disciplinare, e ciò è fatto non solo 57
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
al fine di evitare ingolfamenti processuali e procedimenti lunghi e direi inutili, nella prospettiva assolutoria, ma anche allo scopo di evitare, quando è possibile, al magistrato oggetto di esposti o denunce, anche l’onta della semplice pendenza del procedimento disciplinare che, come noto, è già di per sé stesso pregiudizievole per la carriera magistratuale, se non altro per i ritardi nella valutazione di professionalità, per eventuali conferimenti di uffici direttivi o semidirettivi, per le limitazioni in tema di incarichi extragiudiziari, ecc. Nelle archiviazioni si ricorre anche a motivazioni finalizzate ad evidenziare l’irrilevanza del fatto ex art. 3 bis, pur in presenza di fattispecie disciplinare integrata per gli aspetti oggettivi e soggettivi. Ed a volte esse vengono trasmessi al CSM affinché l’organo se ne occupi ai diversi fini delle valutazioni di professionalità. Mi risulta che le iniziative ministeriali a seguito di archiviazioni così articolate siano sempre più rare. Rispetto alla fase delle indagini successive all’esercizio dell’azione disciplinare, che richiedono un’attività non meno complessa, il numero dei procedimenti sopravvenuti è stato pari a 151, di cui il 79% su iniziativa del PG ed il 21% su iniziativa del Ministro. Anche qui, si è rivelata efficace l’opera di filtro, spesso agevolata in questa fase dalle memorie difensive. Invero, sempre nel 2012, a fronte di 112 procedimenti definiti, vi sono state 66 richieste di rinvio a giudizio, 40 richieste di non luogo a procedere e 6 provvedimenti di riunione ad altro procedimento (soprattutto in materia di ritardi). Non mi paiono pertanto meritevoli di accoglimento le critiche svolte in relazione all’attività della Procura generale, che non è organo persecutore dei magistrati, bensì organo che vaglia attentamente il merito delle accuse ad essi svolte e conclude, come si è detto, nella maggior parte dei casi con archiviazioni motivate. Piuttosto, l’opera di filtro si presenta particolarmente pregnante in relazione alla violazione dei doveri di diligenza: sui ritardi, ad esempio, si è recentemente varato un protocollo che interpreta le modalità di calcolo del triplo del termine di adempimento in bonam partem, scomputando cioè il periodo relativo al termine di legge previsto per il deposito dei provvedimenti, e ciò dovrebbe riverberarsi in un minor numero di procedimenti per ritardi da rinviare al vaglio del giudizio dibattimentale. Per contro, si è più intransigenti in relazione alla violazione dei doveri di correttezza che spesso denotano cadute di rigore morale o scarsa considerazione 58
Interventi - Mario Fresa
nei confronti delle parti, dei difensori, dei collaboratori e degli stessi colleghi. Si tratta il più delle volte di scorrettezze molto gravi, commesse nell’esercizio delle funzioni (da intendersi in senso lato come comunque connesse allo status di magistrato, anche nella posizione di fuori ruolo, come nei casi di interferenze giudiziarie commesse dall’alto di prestigiosi incarichi ministeriali). Si tratta, a volte, di vera e propria commercializzazione delle funzioni magistratuali, si sono trattati casi di ristrutturazioni gratuite di appartamenti operate da CTU ai quali il magistrato affidava incarichi, procedure concorsuali fittizie, con assegnazioni ingiustificate di congrue somme ai curatori fallimentari; altre volte, si è trattato di casi di assunzione di sostanze stupefacenti all’interno del Palazzo di Giustizia, altre volte di stalking in ufficio, e così via. Questi sono i casi da trattare con il massimo rigore, senza indulgenze di sorta, perché ne vale il prestigio e la credibilità della funzione giurisdizionale e dell’intera magistratura. Come noto, poi, sono in aumento le violazioni del dovere di riserbo che, però, riguardano principalmente gli illeciti connessi alle funzioni piuttosto che gli illeciti extrafunzionali, ove come noto dette violazioni rilevano soltanto quando esse si riverberino nella commissione di reati e, principalmente, in diffamazioni. Ma non è questa la sede per svolgere critiche specifiche a provvedimenti specifici, perché non dobbiamo commettere l’errore che più volte abbiamo addebitato ai politici, e cioè quello di spostare il dibattito dalla sede propria, che è all’interno del processo ad una sede impropria fuori del processo. A fronte di ciò, si sono più volte rilevate statistiche rigorose in punto di condanna in sede disciplinare, per cui non colgono nel segno le critiche ad una giustizia che ormai non merita più di essere definita domestica o corporativa. Ciò non significa che il sistema non possa e non debba essere migliorato. Dei progetti di riforma costituzionale avrebbe dovuto parlare il collega Fimiani, impossibilitato a presenziare per gravi ragioni personali. Accenno solo al fatto che è in stato di avanzato grado la proposta di costituzione di un’Alta Corte di Giustizia, comune a tutte le magistrature, che sottrarrebbe al circuito del governo autonomo della magistratura il procedimento disciplinare, con sottrazione tra l’altro della titolarità dell’azione disciplinare al Procuratore generale della Corte di cassazione. Personalmente, ritengo opportuno proporre, anche a nome dell’ufficio 59
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
che rappresento, riforme alternative volte al miglioramento della Giustizia disciplinare nell’ambito dell’autogoverno della magistratura. Una soluzione ragionevole sarebbe quella di destinare alla Sezione disciplinare, eventualmente riducendo il numero dei componenti del collegio, soltanto i componenti del Consiglio che non facciano parte anche delle commissioni referenti nelle quali lo stesso si articola. Se ciò fosse ritenuto pregiudizievole per l’efficienza dell’attività amministrativa del CSM, potrebbe esserne aumentato il numero dei componenti, onde consentire una separazione, di fatto e permanente, tra funzioni giurisdizionali e amministrative all’interno dell’organo del governo autonomo. Una riforma di tal fatta non richiederebbe l’intervento del legislatore costituzionale. Sarebbe sufficiente una legge ordinaria di modifica della legge sul funzionamento del CSM, al quale non verrebbe sottratta alcuna prerogativa costituzionale. Ma è sul terreno della c.d. tipizzazione imperfetta che si potrebbe efficacemente operare in sede di riforma per migliorare la risposta della giustizia disciplinare, sia per il profilo delle garanzie per i magistrati incolpati, sia per i profili di tutela della collettività. Sul piano dei ritardi, ad esempio, è auspicabile che il legislatore chiarisca se la mancata giustificazione del ritardo sia elemento intrinseco o estrinseco alla fattispecie, onde superare un contrasto tra Sezione disciplinare del CSM e Sezioni unite della Corte di cassazione, non più tollerabile in un sistema di garanzie che deve tendere alla certezza del diritto ed al pari trattamento dei magistrati incolpati. La soluzione adottata dalla Sezione disciplinare, pur prestandosi al fianco delle puntuali critiche espresse in sede di legittimità, sembra essere più garantista e più conforme allo spirito del giusto processo ex art. 111 Cost. Sembra in ogni caso auspicabile intervenire nel senso di abrogare la lett. g) dell’art. 12, primo comma, del d.lgs. 109 del 2006, che stabilisce che per tale illecito si applica una sanzione non inferiore alla censura. Invero, questa norma vieta quel che in taluni casi potrebbe considerarsi opportuno, e cioè l’irrogazione della sanzione minima dell’ammonimento, in considerazione - ad esempio - del completo esaurimento dell’arretrato, della stima che ancora il magistrato può vantare nel suo ambiente giudiziario, del corretto comportamento processuale e della funzione anche rieducativa propria del processo disciplinare. 60
Interventi - Mario Fresa
Per altro verso, in relazione alla norme che prevede quale illecito disciplinare la “ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato”, sembra opportuno aggiungere un secondo comma, che preveda l’illecito consistente nella “ingiustificata interferenza nell’attività del Consiglio superiore della magistratura e degli altri organi preposti al sistema del governo autonomo della magistratura”. Comportamento emendabile, per i forti riflessi negativi che determina in relazione al prestigio dell’autogoverno e della magistratura tutta. Ma vi sono tante altre ipotesi di riforma del sistema della tipizzazione che io e il collega Fimiani siamo pronti a mettere a disposizione ed al vaglio dell’ANM e delle Commissioni parlamentari interessate.
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La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
Giovanna Lebboroni Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona
“Rapporto tra giudizio disciplinare per la violazione dell’art. 2 c. 1 lett. q) e valutazione di professionalità del magistrato” La riforma dell’ordinamento Giudiziario, in punto di illeciti disciplinari dei magistrati, è intervenuta con il D.Lgs. 23febbraio 2006, n. 109 (“Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f ), della legge 25 luglio 2005, n. 150”), che ha radicalmente mutato la materia e pone interessanti questioni dal punto di visto teorico, con importanti ricadute sulla vita professionale dei magistrati. Tra queste con la presente riflessione affronto il delicato tema del rapporto tra la valutazione in sede disciplinare – per illeciti disciplinari commessi nell’esercizio delle funzioni, con particolare riguardo all’art. 2 D.Lvo 109/06, e la valutazione inerente la progressione in carriera del magistrato laddove, nel quadriennio in valutazione – ricada una delle condotte sussumibili nell’ipotesi di illecito sopra indicato: il ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni. L’impostazione della risposta disciplinare contenuta nel R.D. 31 maggio 1946, n.511 (Legge sulle guarentigie della magistratura) vedeva una risposta di tipo disciplinare per il magistrato che, con il suo comportamento, compromettesse il prestigio dell’ordine giudiziario. Infatti, l’art. 18 del R.D. sopra citato definiva, quale fonte di responsabilità disciplinare dei magistrati, le condotte del “magistrato che manchi ai suoi doveri o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”, con competenza disciplinare in capo ad un tribunale disciplinare distrettuale in primo grado ed alla corte disciplinare in sede di impugnazione, mentre la competenza disciplinare, nella vigenza sul punto dell’ordinamento Giudiziario R.D. 12 del 1941, era della Corte disciplinare costituita presso la Corte di Cassazione e presieduta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione. Con l’art. 105 la Costituzione affida la competenza disciplinare al Consiglio 62
Interventi - Giovanna Lebboroni
Superiore della Magistratura, e l’art. 107 Cost. attribuisce al Ministro della Giustizia la facoltà di “promuovere l’azione disciplinare”. La legge delega del 25 luglio 2005, n. 150 è stata attuata, in punto di disciplinare, con il D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, come detto recante “disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità”. Il primo capo (artt. 1-13) è dedicato alla disciplina di diritto sostanziale, ed il secondo (artt. 14-25) alla disciplina di diritto processuale: si esordisce con l’enunciazione dei doveri fondamentali del magistrato, si prosegue con la specificazione di una serie di ipotesi tipiche di violazione; e si termina con l’aspetto punitivo della previsione delle sanzioni. A fronte dell’estrema genericità dell’art. 18 R.D. 511 del 1946, -il legislatore del 2006 ha avvertito la necessità di estendere, alla materia disciplinare,- il principio penalistico di tassatività degli illeciti disciplinari. L’art. 18 esponeva i magistrati ad un sostanziale rischio per la loro indipendenza, non essendo per gli stessi possibile conoscere quali comportamenti fossero ad essi consentiti e quali vietati, e la genericità del riferimento normativo non forniva sufficienti garanzie di parità di trattamento nella materia disciplinare, lasciando così aperta la possibilità di un uso distorto della sanzione disciplinare, orientabile con facilità, in ipotesi, verso “magistrati scomodi”. L’art. 18 inoltre non forniva adeguata garanzia alla collettività circa la creazione di un modello di magistrato rispettoso di un insieme di doveri la cui inosservanza venga sanzionata. Di contro, il D.Lgs. 109/2006 ha introdotto una tipizzazione, sia pur attenuata, degli illeciti disciplinari, avendo cura, con l’art. 2 – che segue l’elencazione dei doveri del magistrato contenuta all’art. 1 – di elencare 24 fattispecie relative a comportamenti tenuti nell’esercizio delle funzioni sanzionabili disciplinarmente, e all’art. 3, di elencare 8 fattispecie di comportamenti tenuti fuori dall’esercizio delle funzioni oggetto di previsione di rilevanza disciplinare. È una tipizzazione che chiamerei attenuata, con attenuazioni previste, nelle due opposte direzioni: - di una clausola che possa far aggiungere ai fatti tipici altri atipici (art. 2 lett. a), - di altra clausola che invece possa escludere la rilevanza di fatti tipici (art. 3 bis 63
La responsabilità disciplinare. Quale Giudice, quale Giustizia.
rubricato “Condotta Disciplinare irrilevante”). Infatti le lettere da b) a gg) dell’art. 2 indicano ciascuna una fattispecie riconducibile alla violazione di uno dei doveri sopra indicati. È solo la lettera a) che consente di punire condotte atipiche: comportamenti che – violando i doveri di cui all’art. 1 – arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. L’art. 3 bis invece, al contrario, consente di non pronunciare condanna disciplinare per un fatto tipico “quando il fatto è di scarsa rilevanza”. Uno dei temi oggi di grande attualità, essendo di molto aumentate- negli ultimi anni – le condanne disciplinari a carico dei magistrati per la violazione prevista all’art. 2 lett. q).– è quello del rapporto tra le condanne disciplinari e le valutazioni di professionalità. A fronte di una forte resistenza della giurisprudenza del Consiglio Superiore in sede disciplinare (e delle Sezioni Unite della Cassazione in sede di impugnativa) sulla possibilità – in presenza di determinate condizioni che vedremo – di giustificare il ritardo, si registra una maggiore apertura dello stesso Consiglio Superiore e dei Consigli Giudiziari verso la giustificazione di tali ritardi, in considerazione soprattutto dei carichi di lavoro del singolo magistrato e della situazione complessiva dell’ufficio. Analisi normativa e giurisprudenziale della fattispecie di cui all’art. 2 lett q) D.lvo 109/06 L’art. 2 lettera q) D.Lgs. 109/2006, ha ad oggetto “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”, anche se “si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto”. Su tale illecito disciplinare vi è un’ampia casistica, ed i riferimenti che seguono non hanno evidentemente il carattere della completezza. È stata ritenuta idonea a configurare un illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, per reiterato, grave ed ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni, la condotta del magistrato che depositi fuori termine numerose sentenze, in alcuni casi per un’entità temporale significativa, qualora non risultino circostanze in rapporto di causalità specifica con il singolo ritardo, come ad esempio le udienze tenute nell’arco temporale considerato o l’impegno straordinario in processi di eccezionale importanza, perché il “ritardo ingiustificato” integra un’ipotesi di antigiuridicità speciale, 64
Interventi - Giovanna Lebboroni
interna alla fattispecie tipica, la quale attribuisce rilievo alle situazioni che incidono sul giudizio relativo al comportamento determinato e non a quelle, come la laboriosità, che attengono ad una valutazione complessiva del magistrato (sent. n. 173/2010; sent. n. 185/2010; sent. n. 2/2011; sent. n. 19/2011; ord. n. 161/2010; ord. n. 165/2010). Da ultimo, il tale direzione, la sentenza della prima sezione del CSM n. 50 del 2013, che ha affermato testualmente “Quella prevista dall’art. 2 c. 1 lett. q) d.lgs 23.02.2006 n. 109, è infatti un’ipotesi di antigiuridicità speciale, interna alla fattispecie tipica, come per gli illeciti penali avviene quando è la stessa norma incriminatrice a esigere che il fatto venga commesso “abusivamente” o “arbitrariamente” o “illegittimamente” E dunque risultano rilevanti tutte le situazioni idonee ad escludere che il ritardo sia dovuto a una effettiva violazione dei doveri del magistrato. Deve trattarsi perciò di circostanze che risutino in rapporto di causalità specifica con il ritardo, come ad esempio il numero delle udienze tenute nell’arco di tempo considerato o l’impegno straordinario in processi di particolare importanza”. A medesime conclusioni si perviene nei casi in cui, quale concausa dei ritardi, vi sia stato lo svolgimento da parte del magistrato dell’attività di componente della Commissione di esame per l’abilitazione alla professione forense (sent. n.186/2010). L’illecito disciplinare in esame viene configurato dalla giurisprudenza disciplinare anche in ipotesi in cui risultino comprovate situazioni quali la laboriosità del magistrato, lo smarrimento di alcuni fascicoli processuali e le precarie condizioni di salute dallo stesso sofferte, considerato che simili circostanze, a fronte dell’elevatissima durata dei ritardi, non sono idonee ad escludere una cattiva organizzazione del suo lavoro. Il fondamento della fattispecie è rinvenuto nella violazione del dovere di auto organizzazione razionale del magistrato, come qualità propria della categoria della diligenza (sent. n. 177/2010; sent. n. 180/2010). La stessa Sezione Disciplinare, invece, ha escluso ogni responsabilità del magistrato nelle ipotesi in cui costui: pur in presenza di numerosi provvedimenti depositati fuori termine, si sia dovuto riconvertire, nello stesso periodo, ad altre funzioni e, soprattutto, abbia dovuto fronteggiare eccezionali carichi di lavoro, in quanto tali circostanze danno luogo a cause giustificative eziologicamente collegate alla verificazione del ritardo (ord. n. 159/2010); abbia depositato in 65
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notevole ritardo un numero assai ridotto di sentenze, considerato che l’illecito richiede una reiterazione della condotta, e dunque una ripetizione degli accadimenti che possa essere valutata come significativa alla luce del rapporto tra l’arco di tempo considerato ed il numero di fatti posti in essere (sent. n. 160/2010). In conformità, la responsabilità disciplinare è stata esclusa in un caso in cui il magistrato aveva sofferto, nel periodo in considerazione, di grave infermità alla vista (ord.n. 28/2011) – anche se in altra circostanza, pur a fronte di una gravissima patologia sofferta dall’incolpato, la Sezione disciplinare ha pronunciato condanna in quanto lo specifico procedimento consiliare volto all’accertamento dell’eventuale inettitudine per malattia si era concluso con l’esclusione dei presupposti per deliberare la dispensa dal servizio (sent. n. 127/2010). La responsabilità disciplinare è stata esclusa anche in un caso in cui il magistrato aveva accumulato ritardi gravi nel deposito di provvedimenti giudiziari per aver dovuto affrontare, subito dopo essergli state conferite le funzioni giudiziarie, una grave situazione organizzativa dell’ufficio, con trattazione di materie diverse, compiti amministrativi, ed un eccessivo carico di lavoro, in un contesto di notevoli carenze del servizio di cancelleria (ord. n. 179/2010). La successiva condotta di smaltimento dell’arretrato accumulato – in taluni casi determinato dal rispetto di uno specifico piano di rientro concordato con i dirigenti dell’ufficio (sent. n. 30/2011) - è stata costantemente valutata in maniera positiva dal giudice disciplinare, sia quale generica espressione della insussistenza di un difetto di scarsa laboriosità, sia come sintomatica carenza di una violazione del dovere di autoorganizzazione del magistrato (sent. n. 25/2011), così escludendo che i ritardi siano dipesi da negligenza o neghittosità del soggetto incolpato (ord. n. 22/2010). Più analiticamente, la lettera q) del primo comma dell’art. 2 del D. Lgs. n. 109 del 2006 lega il perfezionamento della fattispecie disciplinare alla sussistenza di tre attributi del ritardo, che deve essere reiterato, grave e ingiustificato. Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità,«l’illecito disciplinare di cui al D. Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q), (…) è caratterizzato dalla concomitante presenza dei requisiti positivi della “reiterazione” - cioè della ripetizione nel tempo, in riferimento ad atti diversi - e della “gravità” 66
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- da qualificarsi in tal modo secondo i criteri stabiliti dal secondo periodo della disposizione in esame -, nonché dal requisito negativo della “non giustificazione”» (cosi Cass., Sez. Un, 14.04.2011, n. 8488). Stesso principio è stato ribadito in una delle più recenti sentenze della Prima Disciplinare del Consiglio, sent. n. 50 del 2013. Parte della dottrina si è espressa in senso contrario, negando che «i requisiti della reiterazione e della gravità debbano necessariamente concorrere per la configurazione dell’illecito», argomentandosi in tal senso sulla base del diverso tenore delle norma delegante (l’art. 2, comma 6, lett. c), n. 4, della legge n. 150 del 2005) e della norma comminante la sanzione per l’illecito in esame (l’art. 12, comma 1, lett. g) del d.lgs. n. 109 del 2006), entrambe caratterizzate dalla presenza della disgiuntiva “o” nella descrizione dei diversi connotati del ritardo. Sul punto, le Sezioni unite civili della Suprema Corte hanno osservato che la «imperfetta formulazione della disposizione che contempla la sanzione (...) non può essere letta - per evidenti ragioni di coerenza del sistema nel senso che, ai fini della irrogazione della sanzione, il ritardo sia reiterato “o” grave, in quanto sarebbe in tal caso paradossalmente consentito sanzionare un comportamento che non presenti tutti gli elementi che definiscono l’illecito» e che «all’uso improprio della disgiuntiva “o” (...) neppure può ricollegarsi la portata di una diversa accezione semantica, rispetto alla disposizione che definisce l’illecito, dell’uso del medesimo termine “grave”, con potenziale portata abrogativa della norma che impone la sanzione minima della censura», concludendo che «si tratta, più semplicemente, di un imperfetto coordinamento legislativo della seconda disposizione norma sanzionatoria con la prima (norma precettiva)» (Cass., Sez. un, 16.07.2009 n. 16557) Il ritardo rilevante deve anche essere “reiterato”. Tale requisito comporta una contrazione dell’ambito di applicazione della fattispecie disciplinare in esame rispetto a quella previgente, posto che «la pregressa giurisprudenza ha, talvolta, considerato rilevante il ritardo anche per un singolo episodio, nei casi particolarmente gravi». Nella giurisprudenza della Sezione disciplinare il riferimento alla reiterazione della condotta è stato interpretato come evocativo di un illecito abituale, ossia di un illecito che richiede, quale elemento costitutivo, la reiterazione abituale di fatti, formati da coppie di azioni e di eventi omogenei, ciascuno dei quali, isolatamente considerato, 67
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non costituisce illecito ovvero costituisce un illecito diverso da quello risultante dalla sua reiterazione. Per la giurisprudenza di legittimità, invece, “reiterato” significa “ripetuto”, sicchè non occorre, ai fini della configurabilità dell’illecito in esame, l’abitualità dei ritardi. Il ritardo rilevante deve anche essere “grave”. L’attributo della gravità definisce dal punto di vista oggettivo il connotato dimensionale del ritardo. Non sembra quindi condivisibile il diverso indirizzo seguito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui ai sensi del secondo periodo della lettera q) del primo comma dell’art. 2 del D. Lgs. n. 109 del 2006 si deve presumere la gravità del ritardo quando esso «ecceda il triplo dei termini di legge per il deposito dei provvedimenti, “salvo che non sia diversamente dimostrato”» (così Cass. Sez. un, 13.09.2011 n. 18696), in quanto la legge fissa soltanto una presunzione di non gravità, e pare non potersi desumere da ciò, in “malam partem”, una presunzione – sia pure relativa – di gravità Il ritardo rilevante deve anche essere “ingiustificato”. A proposito del dovere di auto-organizzazione, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito, in una pronuncia, l’orientamento affermatosi con riguardo al previgente art. 18 L.G., affermando che «il comportamento del magistrato che ritardi il deposito dei provvedimenti in misura tale che, per quantità di casi ed entità dei ritardi, sia tale da violare ogni soglia di ragionevolezza, è di per se espressione di una colpa,quanto meno in relazione alla cattiva organizzazione del proprio lavoro, pur nell’ambito del complesso delle condizioni soggettive e oggettive nelle quali il magistrato opera» (così Cass. Sez. un 24.03.2010 n. 6999). In ordine alla possibilità di giustificazione del ritardo, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura e le Sezioni unite della Corte di cassazione si sono espresse anche in termini non coincidenti. La Sezione disciplinare abbiamo già sopra ricordato che ritiene che quella prevista dall’art. 2, comma 1, lett. q) del D. Lgs. n. 109 del 2006 sia «un’ipotesi di antigiuridicità speciale, interna alla fattispecie tipica, come per gli illeciti penali avviene quando è la stessa norma incriminatrice a esigere che il fatto venga commesso “abusivamente” o “arbitrariamente” o “illegittimamente”» Alla categoria dell’“inesigibilità”, nel senso dell’esimente non codificata, fa invece riferimento la giurisprudenza di legittimità, richiamando le pronunce 68
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della Corte costituzionale (sentenze n. 5 del 2004 e n. 225 del 2008) che hanno analizzato il significato normativo di espressioni analoghe al termine “ingiustificato” - quali “senza giustificato motivo”, “senza giusta causa”, “senza giusto motivo” – «definite “clausole negative a carattere elastico”, che sono inserite frequentemente dal legislatore penale nel corpo di norme incriminatrici» (così cass. sez. un. 14.04.2011 n. 8488)58. Frequente è poi, nella giurisprudenza di legittimità, il riferimento alla lesione del diritto delle parti alla durata ragionevole del processo come limite alla giustificabilità del ritardo. Si dice: «la soglia di giustificazione deve ritenersi sempre superata in concreto, quando il tempo di ritardo leda il diritto delle parti alla durata ragionevole del processo, di cui alle norme costituzionali e sovranazionali vigenti, esponendo lo Stato italiano ad una possibile condanna per opera della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (Cass. Sez. Un 18.05.2010 n. 14697). La giurisprudenza di legittimità è giunta ad indicare, ricavandolo dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il termine di un anno come quello oltre il quale il ritardo deve ritenersi di regola, ossia salvo casi eccezionali o straordinari, ingiustificato: secondo le Sezioni Unite, infatti, si può presumere che «la condizione di inesigibilità della ottemperanza dei termini legali di deposito delle sentenze (…) non si configuri quando il tempo per il deposito superi un anno, in quanto in tal caso si viola il diritto al giusto processo di cui all’art. 111 Cost., con la conseguenza che solo in via eccezionale e/o straordinaria può ritenersi non punibile la condotta dell’incolpato»; il deposito della sentenza (nella specie, penale) che «si protragga per oltre un anno, lede il diritto al giusto processo della parte che attende di conoscere le ragioni della decisione, come la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sostanzialmente ritenuto, quando, nel caso Werz C. Suisse, con la sentenza 17 dicembre 2009 (ric. 22015/05), ha posto a raffronto il termine legale di due mesi per il deposito di una decisione della Corte suprema del Cantone di Berna, e quello di circa sedici mesi in effetti impiegato (cfr. punto 19 della sentenza citata). Ma conviene aggiungere che l’impiego di oltre un anno nella stesura della motivazione della sentenza anche per altro verso appare ledere il diritto al giusto processo della parte che attende di conoscerla, se si considera che, nel campo della giustizia civile, la CEDU ha affermato che la durata del processo di cassazione non dovrebbe in 69
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genere eccedere l’anno, termine questo entro il quale, dalla notifica del ricorso, si deve pervenire alla pubblicazione della sentenza, includendo in esso anche lo studio della controversia e l’audizione delle parti» (cass., sez. un. 13.09.2011 n. 18696, sentenza di recente richiamata da CSM, Prima disciplinare, sent. 46/2013). Probabilmente il sistema dell’Autogoverno centrale e decentrato si rende conto, almeno con riguardo ad alcune sue componenti, di un rigore talvolta eccessivo attualmente esistente nella materia disciplinare, e allora – quel comportamento sanzionato in sede disciplinare e rientrante, come commissione del fatto, nel quadriennio in valutazione-, viene ritenuto non rilevante tanto da non incidere sullo specifico indicatore del parametro di riferimento, così da non comportare una valutazione non positiva o, peggio ancora, negativa. Si crea così un doppio binario applicativo, che – credo- debba essere ricondotto ad unità, nel senso applicativo che oggi se ne fa in tema di valutazioni di professionalità più che in sede disciplinare. E allora, se è vero – in linea di principio e salve eccezioni - che gli stessi ritardi non possono essere ritenuti gravi, ripetuti ed ingiustificati in sede disciplinare e non determinare una grave carenza (con conseguente valutazione non positiva) del parametro della diligenza in tema di valutazione di professionalità, è anche vero che le giustificazioni che vengono normalmente ritenute tali nella sede della progressione in carriera, in linea di principio, e salve eccezioni, non possono non essere ritenute valide giustificazioni nella sede disciplinare, laddove ad esempio intervenga prima la valutazione di professionalità rispetto all’esercizio dell’azione disciplinare. Questa prospettiva trova giustificazione se si analizzano i paramentri normativi, e di normazione secondaria, sul rispetto dei termini, e in sede di progressione in carriera. Il riferimento normativo sui ritardi, che abbiamo in sede di valutazione di professionalità, è contenuto al c. 2 lett. c) dell’art. 11 d.lvo 160/06 in punto di parametro di diligenza, là dove si specifica che la diligenza è riferita – tra gli altri indicatori - al “rispetto dei termini per la redazione, il deposito dei provvedimenti o comunque per il compimento di attività giudiziarie”. La valutazione di ciascun parametro, e quindi anche di quello della diligenza, secondo la normativa secondaria del CSM, ed in particolare la Circolare “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità a seguito della L. 111/07”, circolare n. 20691 del 08.10.07, del. CSM 04.10.07 può essere 70
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positiva, carente o gravemente carente. È carente se difetta significativamente, senza mancare del tutto, uno degli indicatori; è gravemente carente se manca del tutto una delle condizioni o difettano significativamente almeno due indicatori. Al capo X della circolare in punto di valutazioni di professionalità si prevede poi che la valutazione è non positiva se vi è grave carenza di un parametro o carenza di uno o più di un parametro, è negativa (capo xi) se sono gravemente carenti due o più parametri. Allora potrò avere un difetto significativo del rispetto dei termini che mi comporterà una carenza del parametro, che a sua volta mi comporterà una valutazione non positiva, o una mancanza dell’indicatore rispetto dei termini che mi comporterà una grave carenza del parametro, che a sua volta mi comporterà una valutazione non positiva. Ma ritengo che l’unico parametro normativo che mi potrà orientare per valutare – a fronte di ritardi – se ci si trova di fronte ad un difetto significativo o ad una mancanza del rispetto dei termini, è il parametro che il legislatore detta nella sede disciplinare: la gravità, la reiterazione e la non giustificabilità del ritardo. Ecco quindi il legame, il raccordo tra le due discipline. È pur vero che ognuno ha il suo ambito applicativo, la sua sede propria, la sua finalità, ma è innegabile che la connessione è strettissima, e se non fosse così non avrebbero spiegazione due circostanze: - La previsione – della circolare del 2007 in punto di valutazione di professionalità sopra richiamata-, del dover valutare il rispetto dei termini alla luce della complessiva situazione degli uffici costituisce lo specchio del terzo requisito in punto di art. 2 lett. q) che deve possedere il ritardo perché sia ritenuto rilevante disciplinarmente: cioè che sia ingiustificato. E la definizione di norma a specchio deriva dal fatto che una delle miglior giustificazioni (art. 2 le q) d.vo 109/06) al ritardo può essere fornita dalla situazione complessiva dell’ufficio, dai suoi profili di carico e di organizzazione. - L’altra è fornita dalla connessione tra il giudizio disciplinare ed il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, che riguarda la previsione normativa che impedisce di conferire incarichi direttivi al magistrato che abbia riportato la sanzione della perdita di anzianità o nell’ipotesi di 71
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intervenuta condanna alla censura per i fatti commessi nell’ultimo decennio. La rilevanza della condanna disciplinare in sede di conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi fornisce infatti indiretta conferma della connessione anche con la valutazione di professionalità del magistrato. In conclusione, chi scrive è favorevole ad una giustizia disciplinare rigorosa, aperta però anche alla valutazione di cause di giustificazione che, in ogni caso, nessuna esclusa, possano portare alla considerazione che – nel caso concreto- vi era una sostanziale inesigibilità del rispetto dei termini. Un giusto rigore che non sposti in modo esclusivo l’attenzione del magistrato sul rispetto dei termini, a scapito di altri fronti che, pur doverosi, non sono disciplinarmente sanzionati, quali – mutuandone qualcuno dall’art. 11 d.lvo 160/06: - il grado di aggiornamento professionale; - la produttività, senza che in concreto possa corrersi il rischio che il magistrato privilegi rinvii lunghi per incorrere meno nella possibilità di non rispetto dei termini; - l’assiduità e puntualità nella presenza in ufficio; - la disponibilità per sostituzioni; - frequenza di corsi; - la collaborazione in ufficio per la soluzione di problemi di tipo organizzativo e giuridico. In tale ottica la tipizzazione degli illeciti potrà ritenersi effettiva garanzia per la collettività nel senso di orientare il magistrato verso scelte “giuste” nel senso più ampio del termine, un magistrato attento alla sua puntualità nel compimento delle attività giudiziarie, ma altrettanto attento al suo grado di aggiornamento, alla qualità del suo rapporto con i collaboratori ed ausiliari, alla sua laboriosità, alla sua disponibilità nei confronti dei colleghi e degli utenti del servizio giustizia.
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