1886 - 1906, dalla carrozza senza cavalli all'automobile

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1886 - 1906 Dalla carrozza senza cavalli all'automobile Lorenzo Morello Settembre 2020


Indice

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Presentazione Primi tentativi Dalla conferenza tenuta al Politecnico di Torino il 25.11.2015. Benz Dalla conferenza tenuta all’Università di Modena e Reggio Emilia, l’1.3.2016. Daimler Dalla conferenza tenuta all’Università di Modena e Reggio Emilia, l’1.3.2016. Panhard & Levassor Dalla conferenza tenuta all’Università di Firenze, il 16.5.2016. Peugeot Dalla conferenza tenuta all’Università di Palermo, il 15.4.2016. De Dion-Bouton Dalla conferenza tenuta all’Università di Firenze, il 7.4.2017. Renault Dalla conferenza tenuta all’Università di Firenze, il 7.4.2017. Duryea Dalla conferenza tenuta all’Università di Modena e Reggio Emilia, il 19.5.2017. Oldsmobile Dalla conferenza tenuta all’Università di Modena e Reggio Emilia, il 19.5.2017. Ford Dalla conferenza tenuta all’Università di Modena e Reggio Emilia, il 19.5.2017. Miari & Giusti Dalla conferenza tenuta all’Università di Padova, il 21.10.2016. FIAT Dalla conferenza tenuta all’Università di Palermo, il 13.12.2017. 2

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Presentazione Sono particolarmente grato all’ASI per avermi dato l’opportunità di condividere, con soci e simpatizzanti, la mia passione per le ancêtres, mediante una serie di conferenze svolte dal 2015 al 2017 presso alcune Facoltà Universitarie, poi trasformate in articoli pubblicati su La Manovella; in questa serie, sono stati presentati i più importanti fra i primi costruttori, le circostanze che permisero alle loro imprese di svilupparsi e le tecnologie adottate nelle loro automobili. Sperando che l’argomento susciti anche l’interesse dei soci, ho ritenuto utile presentarlo in un fascicolo pubblicato su cultura on-line, per lasciare una traccia scritta e permettere ai lettori di cogliere meglio il filo conduttore della storia. La storia si riferisce al ventennio 1886 – 1906, particolarmente rilevante perché, in quegli anni, l’automobile si trasformò da carro, in cui al cavallo fu sostituito un motore sommariamente costruito, a veicolo dalla tecnica consolidata, almeno negli aspetti più appariscenti; un po’ forzatamente, gli anni d’inizio e fine del periodo sono stati fatti coincidere rispettivamente col lancio della Patent Motorwagen della Benz, la prima automobile concepita per essere prodotta e venduta, e con la presentazione della Mercedes Simplex della Daimler, la prima automobile con motore anteriore a quattro cilindri, raffreddamento a radiatore, telaio a longheroni e traverse di acciaio stampato e cambio a ingranaggi scorrevoli con comando a preselezione e innesto; in fondo, tutti gli elementi di base del paradigma di automobile più diffuso fino agli anni ‘50. L’attrattiva delle ancêtres risiede nella loro unicità, motivata dal fatto che, quando furono progettate, non esisteva ancora una tecnica consolidata cui ispirarsi e si procedeva per tentativi che non necessariamente conducevano alla stessa soluzione; la loro diversità era anche causata dalla consuetudine di ricorrere a protezioni brevettuali, estese talvolta a dettagli che ora apparirebbero banali, e dalla convinzione che la diversità stessa costituisse un fondamentale elemento di marketing. Non potendo descrivere tutte le realizzazioni delle centinaia di marche già presenti in questi anni, saranno considerate solo quelle più diffuse, costruite nei paesi protagonisti della nascita dell’automobile: Germania, Francia, Stati Uniti e Italia. A queste si aggiungeranno quelle dei primi costruttori comparsi in questi paesi, anche se, riferendosi a Duryea e Miari & Giusti, essi non ebbero grande rilevanza numerica. Tratto comune dei pionieri di quest’industria sta nel fatto che, prima ancora che imprenditori lungimiranti, essi furono appassionati del nuovo mezzo e, talvolta, tecnici ispirati; molti trascorsero gli inizi della loro vita professionale in uffici di progettazione e garage, cercando di risolvere con la propria inventiva e con l’empirismo tutti i problemi che via via si presentavano. Dietro queste prime automobili e le industrie che da esse presero origine, c’era, dunque, in genere una sola persona, spesso un tecnico in pectore. L’automobile e il motore a scoppio nacquero indiscutibilmente in Germania, ma furono trasformati in prodotto industriale da alcuni imprenditori francesi, che adottarono inizialmente la tecnologia tedesca, anche con l’acquisto di licenze, per arrivare solo in seguito ad un prodotto totalmente nazionale. Sempre in questo periodo, le diverse esposizioni internazionali di Parigi e le corse automobilistiche, ancora invenzioni dei francesi, agirono come catalizzatori per la diffusione dell’automobile negli altri paesi. In Italia, il prodotto francese influenzò la realizzazione delle prime automobili. Si ricordi che il tunnel ferroviario del Frejus, inaugurato nel 1871, rendeva più efficaci le comunicazioni fra l’Italia settentrionale e Parigi che con il resto del territorio nazionale.

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L’Inghilterra non è rappresentata in questi anni perché, pur costituendo il paese europeo con maggior tasso d’industrializzazione, non assunse deliberatamente un ruolo rilevante, a causa di un insensato ripudio nei confronti dei primi mezzi semoventi stradali. Negli Stati Uniti, invece, l’automobile ebbe un percorso evolutivo autonomo che rese le auto americane per molti anni molto diverse da quelle europee, sia come soluzioni tecniche, sia come sistema di produzione. Per i motivi sopraelencati, i costruttori considerati sono, per la Germania, Benz (primo costruttore in assoluto) e Daimler, per la Francia, Panhard & Levassor (primo costruttore nazionale), Peugeot, De Dion-Bouton e Renault, per gli Stati Uniti, Duryea (primo costruttore nazionale), Oldsmobile e Ford e, per l’Italia, Miari & Giusti (primo costruttore nazionale) e Fiat. Non sono descritti a fondo costruttori ben più antichi (ad esempio, Isaac de Rivaz, 1807, Etienne Lenoir, 1863, Siegfried Marcus, 1888 e altri) per il motivo che si limitarono a prototipi di laboratorio, senza mai arrivare alla loro commercializzazione. Di questi, si riferisce qualche informazione nel primo capitolo.

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1 - Primi tentativi La vita dell’automobile, intesa come veicolo semovente prodotto con mezzi industriali, è fatta iniziare solitamente nel 1886, data del primo viaggio della Patent Motorwagen (carro a motore brevettato) di Benz e del quasi contemporaneo esordio della Motorkutsche (carrozza a motore) di Daimler; queste non rappresentarono, tuttavia, le prime automobili in assoluto, bensì le prime dotate di affidabilità sufficiente a farle considerare un prodotto industriale più che un esperimento di laboratorio. Questo capitolo sarà dedicato a illustrare i tentativi più importanti che precedettero il 1886 e i problemi principali che i primi tecnici dell’automobile dovettero affrontare. Il primo prototipo d’automobile di cui si ha memoria, fu il Fardier di Nicolas Cugnot (1725 – 1804, ritratto in fig. 1.1), un ingegnere militare francese.

Fig. 1.1 Nicolas Cugnot (1725 – 1804).

Il Fardier fu provato nel 1771, anticipando addirittura la prima locomotiva ferroviaria, costruita da Watt solo nel 1776. Questo veicolo, fotografato in fig. 1.2, aveva tre ruote, una struttura costruita da travi di legno rinforzate, secondo la tecnologia allora in uso per i carri pesanti; unici congegni metallici erano la caldaia a legna ed il motore a due cilindri, entrambi sostenuti a sbalzo dalla ruota anteriore motrice e sterzante.

Fig.1.2 Il Fardier di Cugnot.

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Il motore, in fig. 1.3, non sfruttava il classico meccanismo a biella e manovella, ma presentava le aste degli stantuffi collegate all’asse della ruota mediante arpionismi; l’opposizione di fase dei due stantuffi era garantita da un bilanciere con catene. La caldaia era un semplice recipiente a doppio fondo, contenente l’acqua nella sua parte superiore e il focolare in quella inferiore.

Fig. 1.3 Il motore del Fardier di Cugnot.

La destinazione di questo veicolo sarebbe stata la movimentazione di pezzi di artiglieria. Dopo un clamoroso incidente, causato probabilmente dalla mancanza di freni, il progetto fu abbandonato e mai più ripreso. In Inghilterra, Richard Trevithick (1771 – 1833, ritratto in fig. 1.4), già inventore di una locomotiva stradale, si cimentò nel 1803 in un’analoga impresa ma con miglior fortuna, anche grazie ad un progetto più affinato. Il suo veicolo, il London Steam Carriage, fu, infatti, effettivamente impiegato per il trasporto pubblico.

Fig. 1.4 Richard Trevithick (1771 – 1833).

La fig. 1.5 riporta la fotografia di una replica di questa diligenza a quattro ruote, con trazione posteriore e con un sistema di sterzatura simile a quella delle carrozze a cavalli. Il motore a un cilindro poneva in rotazione, con un sistema a biella e manovella, un asse trasversale, che comandava le ruote motrici mediante una riduzione a ingranaggi. 6


Fig. 1.5 Replica del London Steam Carriage di Trevithick.

Veicoli simili furono perfezionati da altri costruttori e circa venti anni dopo esistevano in Inghilterra linee servite da diligenze a vapore. Tuttavia, esse non furono mai molto popolari, a causa del maggior costo rispetto alle diligenze a cavalli e della difficoltà a competere in velocità con le linee ferroviarie. Inoltre, l’opinione pubblica deprecava il fumo, il rumore e il potenziale pericolo che esse costituivano per pedoni e cavalli. Il colpo di grazia allo sviluppo di veicoli stradali giunse dal Parlamento che, interpretando le critiche sollevate, promulgò nel 1865 il cosiddetto Red Flag Act (legge della bandiera rossa), che limitò la velocità dei veicoli stradali semoventi a 2 mph, nei centri urbani, ed a 4 mph, nelle rimanenti strade, con l’obbligo di far precedere il veicolo da un uomo a piedi, con bandiera rossa, per avvertire gli altri utenti della strada del pericolo incombente. Questa legge, abrogata solo nel 1896, privava l’automobile di ogni significato pratico, precludendole un ruolo incisivo nell’industria nazionale, nonostante che le tecnologie sviluppate nel Regno Unito fossero all’avanguardia rispetto al resto dell’Europa. In parallelo al motore a vapore, si studiava in Europa il motore a scoppio; molti tecnici si cimentarono con questa invenzione, allettati dalla prospettiva di integrare caldaia e motore in un unico sistema meccanico. Si usava come combustibile l’idrogeno, ricavato con molte difficoltà in laboratorio. Una delle prime realizzazioni fu legata a quella di un prototipo, provato nel 1807 dal suo progettista e costruttore, lo svizzero Isaac De Rivaz (1752 – 1828, ritratto in fig. 1.6). Il veicolo di De Rivaz è schematizzato dall’illustrazione del suo brevetto, riportata in fig. 1.7. Il motore, progenitore di numerose realizzazioni simili, era costituito da uno stantuffo, libero di muoversi in un cilindro verticale. Un’asta, incastrata sullo stantuffo, era collegata da catene avvolte nei due sensi, su una puleggia ad asse orizzontale. Questa puleggia era affiancata a un rullo e collegata a esso mediante un arpionismo; puleggia e rullo ruotavano insieme solamente quando lo stantuffo si muoveva verso il basso. 7


Fig. 1.6 Isaac De Rivaz (1752 – 1828).

Fig. 1.7 Schema del veicolo di De Rivaz.

Idrogeno e aria erano introdotti, mediante rubinetti a comando manuale, nella camera di combustione; la miscela era poi accesa con una scintilla elettrica. L’energia, liberata dalla combustione, lanciava il pistone verso l’alto. Il peso proprio del pistone e la pressione interna, che diminuiva sotto il valore atmosferico per effetto del raffreddamento dei gas residui, facevano ritornare lentamente il pistone nella posizione iniziale. Durante la sua discesa, il collegamento ad arpionismo della ruota poneva in rotazione l’asse motore del veicolo, mediante un collegamento a fune. Al termine della discesa, i gas combusti erano scaricati, aprendo manualmente un rubinetto, e sostituiti con una nuova carica. Questo tipo di motore a scoppio, così diverso dagli attuali, era chiamato atmosferico, per mettere in evidenza che il lavoro utile era prodotto dalla pressione atmosferica, superiore a quella stabilitasi internamente al cilindro nella corsa di lavoro. 8


Le relazioni di prova di De Rivaz riportano una velocità di circa 7 km/h. Il suo veicolo pesava circa 900 kg; lo stantuffo aveva un alesaggio di 365 mm e una corsa di 1.500 (157.000 cm3 di cilindrata). Ogni ciclo durava circa un minuto, durante il quale il pilota doveva destreggiarsi a comandare manualmente distribuzione e accensione.

Fig. 1.8 Niccolò Barsanti (1808 – 1864) e Felice Matteucci (1821 – 1887).

Lo schema del motore atmosferico fu notevolmente migliorato dagli inventori toscani Niccolò Barsanti (1808 – 1864) e Felice Matteucci (1821 – 1887, ritratti in fig. 1.8); il primo era un religioso, professore di meccanica e idraulica presso l’istituto Ximeniano di Firenze, il secondo un ingegnere idraulico; il punto fondamentale, che differenziava il loro motore atmosferico da quello di De Rivaz, risiedeva nell’ aver automatizzato tutte le fasi di funzionamento. Nel 1853, fu depositata all’Accademia dei Georgofili di Firenze una memoria sigillata, di cui si riporta un’illustrazione in fig. 1.9. Descrivendo i risultati che potevano ottenersi dall’invenzione, il documento stabiliva una priorità ufficiale con la data della sua pubblicazione avvenuta nel 1863.

Fig. 1.9 Schema del motore di Barsanti e Matteucci.

Barsanti morì prematuramente nel 1864, senza che l’impresa fondata per la produzione dei suoi motori, avesse potuto raggiungere il successo che meritava. Nessuno dei suoi motori 9


fu mai utilizzato per muovere veicoli ma solo per applicazioni industriali; la fotografia di una replica di uno di questi è riportata in fig. 1.10.

Fig. 1.10 Replica del motore di Barsanti e Matteucci.

Il successo economico arrise, invece, a Jean Lenoir (1822 – 1900, ritratto in fig. 1.11), il primo inventore, nel campo dei motori a combustione interna, che seppe sviluppare una produzione di tipo industriale, vendendo più di 600 motori per applicazioni stazionarie.

Fig. 1.11 Jean Lenoir (1822 – 1900).

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Il motore di Lenoir, di cui vediamo un esemplare originale in fig. 1.12, accanto al motore di Barsanti e Matteucci, non era di tipo atmosferico ma simile nel funzionamento a un motore a vapore, quindi a due tempi, doppio effetto, senza fase di compressione. In effetti, si trattava proprio di un motore a vapore convertito al funzionamento a combustione interna, come può intuirsi dallo schema di fig. 1.13. Lo stantuffo a doppio effetto agiva su un manovellismo con testa a croce; l’albero a gomito comandava, con due eccentrici, altrettanti cassetti di distribuzione, per lo scarico e l’ammissione; il combustibile usato, il cosiddetto gas povero1, proveniva da un gasometro in leggera pressione.

Fig. 1.12 Il motore Lenoir, accanto a quello di Barsanti e Matteucci.

Fig. 1.13 Schema del motore Lenoir.

Il disegno in fig. 1.14, attribuito a Lenoir, mostra la sezione di un veicolo dotato di questo motore; sembra, tuttavia, improbabile che la piccola bombola, riempita di gas povero, potesse assicurare una sufficiente autonomia, tanto che non risulta che il veicolo abbia funzionato, anche se alcuni testi riferiscono di tentativi svolti nel 1863.

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Il gas povero è una miscela di ossido di carbonio, idrogeno e anidride carbonica, ricavata dalla combustione del carbone in difetto d’aria. Chiamato anche gas di città, fu usato per scopi domestici e industriali anche in Italia fino agli anni '50, quando fu sostituito dal metano.

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Nikolaus Otto (1832 – 1891, ritratto in fig. 1.15) non poté fruire di un’educazione tecnica adeguata alle sue aspirazioni; tuttavia, la professione di rappresentante di commercio gli permise di conoscere i motori Lenoir e di tentare di correggerne i difetti. Voleva introdurre in essi la compressione della miscela ma gli insuccessi lo convinsero a preferire inizialmente i motori atmosferici.

Fig. 1.14 Disegno attribuito a Lenoir di un veicolo a motore.

Fig. 1.15 Nikolaus Otto (1832 – 1891).

Con Eugen Langen (1833 – 1895), uomo di personalità dinamica esperto nel lancio di nuove attività industriali, fondò nel 1864 la Otto & C. (in seguito diventata Deutz e, più tardi, Kloeckner-Humboldt-Deutz A.G.), per lo sfruttamento industriale del motore fotografato in fig. 1.16, prodotto in 2.650 esemplari dal 1864 al 1882. Esso era principalmente applicato nelle officine, in luogo delle macchine a vapore o delle ruote idrauliche, fino a quel momento unica fonte di energia meccanica. Il successo fu decretato all’esposizione internazionale di Parigi del 1867, dove gli fu assegnata la medaglia d’oro per il motore di minor consumo. Il motore era simile a quello di Barsanti; tuttavia numerosi perfezionamenti, fra i quali il comando dell’albero mediante una ruota libera a frizione, ideata da Langen, e il più semplice comando della distribuzione e dell’accensione, giustificavano la sua ottima reputazione di affidabilità; le accuse di contraffazione lanciate da Barsanti, dopo l’esposizione di Parigi, non furono considerate fondate. Incoraggiato dal successo del motore atmosferico, Otto tornò alla sua precedente idea di introdurre la compressione della miscela prima della combustione; se la teoria incoraggiava a percorrere questa strada, la pratica non aveva condotto ancora a buoni risultati, a causa delle

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obiettive difficoltà a dominare, con le tecnologie dell’epoca, l’auto-accensione e la detonazione, provocate dalla maggiore temperatura di combustione.

Fig. 1.16 Il motore atmosferico Otto-Langen.

Dopo numerosi tentativi, Otto perfezionò il progetto del motore a quattro tempi, brevettandolo. Questo motore, rappresentato in fig. 1.17, presentava un cassetto di distribuzione ed una valvola a fungo; il primo serviva per l’aspirazione e per l’accensione, la seconda per lo scarico. L’accensione non era elettrica ma avveniva per mezzo della fiamma di un bruciatore messa in comunicazione, al momento opportuno, con l’interno del motore. Furono costruiti, da Otto e dai suoi licenziatari, circa 40.000 motori del nuovo tipo, fra il 1876 e il 1889. Il brevetto rendeva il motore a quattro tempi un’esclusiva di Otto e fu protetto contro ogni contraffazione con grande efficacia, bloccando ogni tentativo di sviluppo di motori simili, in corso in Germania e altrove. Nel 1884, fu scoperto uno scritto del 1862 del francese Alphonse Beau de Rochas, che descriveva in dettaglio i vantaggi di un ciclo di lavoro a quattro tempi; questo documento fu impugnato da un concorrente di Otto e servì, dopo un lungo processo, a invalidarne i brevetti. Mai la buona fede di Otto fu messa in dubbio, né la produzione dei suoi motori subì contraccolpi negativi; tuttavia, l’esito della vicenda giudiziaria liberò l’accesso alla tecnologia dei motori a quattro tempi, facilitando indirettamente la nascita dell’automobile. 13


Si deve, a questo punto, porre in evidenza che un’automobile di uso pratico poté essere prodotta solo quando materiali e tecnologie di lavorazione progredirono al punto di rendere disponibili motori relativamente leggeri e poco ingombranti.

Fig. 1.17 Il motore a quattro tempi Deutz.

Inoltre, né l’idrogeno, né il gas povero poteva essere la giusta soluzione per la scorta energetica da caricarsi bordo. La prima automobile con motore funzionante a benzina, un combustibile con elevato contenuto energetico e facilmente trasportabile, fu costruita da Siegfried Marcus (1833 – 1898, ritratto in fig. 1.18) a Vienna, contemporaneamente agli sviluppi di Otto. Marcus fu un geniale inventore, attivo non solo in campo motoristico ma anche nelle applicazioni dell’elettricità; fra le sue invenzioni troviamo un carburatore e il detonatore a magnete per far esplodere le mine, da cui si pensa fu derivata l’accensione a magnete.

Fig. 1.18 Siegfried Marcus (1833 – 1898).

Il primo motore automobilistico di tipo atmosferico, da lui realizzato nel 1864, fu istallato su un veicolo simile a quello di De Rivaz. Seguirono studi su un motore a due tempi, pare applicato già nel 1875 all’automobile riprodotta in fig. 1.19. Infine, si dedicò a un motore a quattro tempi, che fu istallato sulla stessa vettura nel 1888; questa versione si trova esposta al Museo della Tecnica di Vienna. A differenza dei motori di Otto, da cui trasse ispirazione, quelli di Marcus erano alimentati da una miscela formata dal passaggio di una corrente d’aria su panni imbevuti di 14


benzina ed erano dotati di un dispositivo d’accensione a magnete. Si noti che a quei tempi, in Austria, la benzina era considerata un sottoprodotto di scarsa utilità, derivato dalla distillazione dell’olio polacco, da poco scoperto, impiegato per produrre petrolio da ardere e lubrificanti.

Fig. 1.19 L’automobile di Siegfried Marcus.

Anche il prototipo di Marcus non raggiunse mai il traguardo della produzione, probabilmente a causa della precaria salute dell’inventore nei suoi ultimi anni di vita. Fu quasi cancellato dalla storia per molti anni a causa del nazismo, che non volle ammettere che un’invenzione così importante potesse essere stata concepita fuori dalla Germania. Tuttavia, i problemi della costruzione di un’automobile non si limitavano al motore. Se si assume, come riferimento della tecnologia veicolistica allora esistente, la carrozza a cavalli, noteremo che, nonostante i punti comuni con le prime automobili, la sostituzione del cavallo col motore poneva numerosi problemi. Nella carrozza, l’assale anteriore imperniato su una ralla seguiva le scelte di traiettoria del cavallo; la perdita di stabilità in curva, dovuta al restringimento della sua carreggiata, era compensata dal tiro dell’animale che si opponeva al ribaltamento. Ciò non poteva avvenire in un veicolo semovente e, pertanto, un nuovo sistema di sterzo doveva essere definito. Doveva anche trovarsi una sistemazione razionale per il motopropulsore per non restringere troppo l’abitacolo. Il motore, solitamente fissato sulla carrozzeria, doveva trasmettere il movimento alle ruote, con un meccanismo che potesse accettare le loro variazioni di posizione per effetto delle sospensioni. Il motore a scoppio non poteva erogare potenza se non a velocità di rotazione superiori a una certa soglia; poiché il veicolo doveva, invece, potersi avviare da fermo, accelerare e regolare la velocità, erano necessari dispositivi (il cambio e la frizione), per variare le condizioni di collegamento del motore alle ruote. Le ruote di una carrozza erano sollecitate solo dal peso della carrozza; in un veicolo semovente, esse dovevano, invece, trasmettere al cerchio anche le forze di accelerazione e frenatura. Infine, la massa degli organi meccanici imponeva al telaio sollecitazioni ben più impegnative di quella che potevano sopportare le ossature delle carrozze. I problemi da risolvere erano quindi numerosi; in proposito c’è chi sostiene che l’invenzione dell’automobile non sia tanto debitrice di quella del motore a scoppio, quanto di quella dello pneumatico. 15


2 - Benz Karl Benz, di cui si riporta in fig. 2.1 il ritratto all’età di 56 anni, nacque a Karlsruhe, in Germania, nel 1844. Nonostante le difficoltà economiche, causate dalla perdita prematura del padre, poté crescere nella città natale ricevendo un’educazione scolastica completa, prima al liceo, poi all’Università Tecnica, la prima Facoltà d’Ingegneria fondata in Germania. Fu, quindi, in grado di sviluppare i suoi progetti, giovandosi di tutte le conoscenze scientifiche a quel tempo disponibili.

Fig. 2.1 Ritratto di Karl Benz (1844 – 1929).

Dopo una breve esperienza lavorativa, come apprendista alla Karlsruher Maschinenfabrik, fondò diverse attività in proprio che stentarono, tuttavia, a decollare per la scarsità di fondi a disposizione. Solo nel 1883 trovò i finanziamenti sufficienti per costituire, a Mannheim, un’azienda per la costruzione di motori, la Benz & C. Rheinische Gasmotorenfabrik; si occupava di motori a due tempi, nonostante Benz ritenesse le loro prestazioni inferiori in confronto a quelle dei motori a quattro tempi: la scelta fu un ripiego, imposto dai brevetti di Otto, a quel tempo ancora validi. Tuttavia, i motori Benz ottennero un discreto successo nelle applicazioni stazionarie, beneficiando di unici ed efficaci sistemi di accensione e alimentazione.

Fig. 2.2 Illustrazione del brevetto della Patent Motorwagen.

La sentenza della Corte Suprema Imperiale del 1886 revocò i brevetti di Otto, liberando Benz da ogni vincolo nei confronti del motore a quattro tempi. Evidentemente, aveva già da qualche tempo elaborato un progetto che attendeva il momento opportuno per la sua 16


realizzazione; nello stesso anno della sentenza, infatti, poté presentare il brevetto di un veicolo propulso da un motore a quattro tempi, di cui si riporta in fig. 2.2 un’illustrazione, tratta dal documento della sua estensione agli Stati Uniti. L’esame di questo documento è particolarmente interessante, perché permette di valutare indirettamente quanto lo stato delle conoscenze acquisite fosse già maturo per il concepimento di un’automobile. Infatti, esso non rivendicava né che il veicolo fosse propulso da un motore, né che questo fosse del tipo a gas (nome allora usato per il motore a scoppio a quattro tempi), né che il gas fosse prodotto a bordo con un combustibile liquido facilmente trasportabile; già Siegfried Marcus aveva ideato un carburatore e costruito qualcosa di simile. Fu, invece, rivendicato che il motore avesse l’asse di rotazione in posizione verticale e che fosse impiegata una leva di comando unica, il cui movimento nei due sensi innestava la frizione o la disinnestava, comandando il freno nello stesso tempo. Benz era, infatti, preoccupato da due problemi che oggi riterremmo marginali: la possibile influenza negativa del momento giroscopico del pesante volano, che avrebbe potuto ostacolare l’inserimento in curva del veicolo, e le difficoltà che avrebbe affrontato il guidatore, dovendosi destreggiare nell’uso combinato di freno e frizione, per arrestare il veicolo senza bloccare il motore o per avviarlo senza sussulti. Appare, quindi, come non sia corretto identificare la Patent Motorwagen (carro a motore brevettato), con l’invenzione dell’automobile ma, piuttosto, con la prima realizzazione pratica di un’automobile, costruita per essere venduta. Le tecnologie fondamentali erano, infatti, già disponibili, anche se in forma teorica o validate solo da prototipi di laboratorio, ma si doveva ancora, e non era certo poca cosa, trovare soluzione ai numerosi problemi di ordine pratico che si ponevano per una fabbricazione in piccola serie. Il 5 settembre 1886, la Patent Motorwagen apparve per le strade di Mannheim. Il fatto fu commentato dal Generalanzeiger, il quotidiano di Mannheim, con queste parole: un velocipede propulso da gas di ligroina, progettato dalla Benz & C. Rheinische Gasmotorenfabrik, è stato condotto questa mattina sulla circonvallazione per una prova. Noi pensiamo che questo veicolo possa avere un promettente futuro, perché può essere usato senza troppe difficoltà e perché, se la sua velocità potrà essere aumentata, diventerà il mezzo di trasporto più economico per viaggiatori di commercio e, magari, anche per turisti. Il combustibile scelto da Benz era la ligroina, o etere di petrolio, un distillato facilmente evaporabile, disponibile allora in farmacia, in seguito denominato commercialmente benzina2. Solo un derivato del petrolio poteva garantire una scorta di energia adeguata a una sufficiente autonomia. In fig. 2.3 è fotografata una replica della Patent Motorwagen, esposta al Museo Mercedes di Stoccarda; una originale, ancora in ottimo stato, si trova al Deutsches Museum di Monaco, a cui fu donata da Benz nel 1906. Gli elementi del telaio del veicolo furono realizzati, su disegno di Benz, dall’Adler, una nota fabbrica tedesca di biciclette, seguendo le tecnologie note a quel tempo: struttura in tubi d’acciaio, ruote con raggi metallici e coperture di gomma piena, mozzi con cuscinetti a sfere sciolte. Il peso totale del veicolo, a due posti, era di soli 260 kg. Il motore aveva un solo cilindro (alesaggio 90 mm, corsa 150, cilindrata 954 cm3), disposto orizzontalmente in senso longitudinale, come può vedersi dalla fig. 2.4. L’albero a gomito era caratterizzato, per quanto motivato dal brevetto, dall’asse di rotazione verticale. Un rinvio conico aveva il duplice scopo di comandare la puleggia di trasmissione e la distribuzione, ottenuta con una valvola a cassetto, per lo scarico, e una valvola a fungo, per l’aspirazione. 2

Il nome benzina ha origine tedesca, ma non deriva, come sembrerebbe, da Benz; si pensa sia una storpiatura di Bizerte (Biserta), dal cui porto provenivano in Germania, fin dal medioevo, le sostanze gregge usate per la preparazione di diversi derivati del petrolio.

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Fig.2.3 La Patent Motorwagen del 1886.

Fig. 2.4 Il motore della Patent Motorwagen.

Albero a gomito, volano e rinvio conico erano esposti alle intemperie e lubrificati mediante oliatori a caduta, posti nei punti nevralgici. Il carburatore era del tipo a superficie, visibile sulla sinistra della fotografia, in basso, dietro il serbatoio cilindrico orizzontale per la benzina; esso era costituito da un recipiente verticale a livello costante, in cui l’evaporazione della benzina era facilitata riscaldandola con i gas di scarico. L’aria, risucchiata dalla depressione creata dal motore, entrava attraverso un’apertura posta sul coperchio e lambiva la benzina contenuta nel recipiente, potendosi così arricchire di vapore; una piccola capacità, posta nel carburatore, evitava che gocce di carburante fossero trascinate nel motore con la miscela gassosa. I dettagli del carburatore e dell’accensione a vibratore sono simili a quelli che saranno illustrati più avanti, nelle fig. 2.14 e 2.15, per la Benz Velo.

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Il cilindro del motore era circondato da un’intercapedine, ricavata nella fusione, in cui ristagnava dell’acqua; il calore ceduto dal motore la trasformava in vapore, controllando la temperatura del metallo. Una parte del calore era dissipata attraverso le pareti del serbatoio dell’acqua; la parte rimanente, la maggiore, trasformava l’acqua in vapore, con rapido consumo della scorta. Il motore completo pesava 96 kg, erogava circa 0,7 CV a 300 giri/min sufficienti a spingere la vettura a 16 km/h. Il rinvio conico comandava una trasmissione a cinghia a un solo rapporto, che poneva in rotazione la scatola del differenziale; i suoi planetari comandavano, a loro volta, una trasmissione a catena per ognuna delle ruote posteriori. In questo modo, era possibile imprimere il movimento alle ruote, anche se mobili rispetto al telaio per la presenza delle sospensioni. La puleggia cilindrica condotta, posta sulla scatola del differenziale, era affiancata da un’identica folle. Con la leva di comando combinato freno-frizione, era possibile spostare la cinghia sull’una o sull’altra, ottenendo così l’arresto del veicolo, senza per questo fermare il motore, e un avviamento progressivo, reso possibile dal temporaneo slittamento della cinghia sulla puleggia. La trasmissione a cinghia in cuoio con doppia puleggia fu per molti anni un elemento caratteristico delle automobili Benz. Benz non trovò, per questa sua prima realizzazione, una soluzione soddisfacente per il comando dello sterzo; scelse uno schema a triciclo privo di sospensione anteriore. Risulta che la Patent Motorwagen riuscì a percorrere 940 km senza guasti in un’unica missione, consumando solo 140 l di benzina (14,9 l/100 km) ma ben 1.500 l d’acqua (160 l/100 km!). Furono costruite ventiquattro vetture simili al primo esemplare. Nel 1888, la moglie Berta compì con una di esse, si dice all’insaputa del marito, un viaggio di circa 190 km, per portare i figli a visitare la nonna, proponendosi, con questa impresa, di convincere gli increduli dell’affidabilità e della facilità di guida del nuovo mezzo. I successivi modelli possono essere rappresentati dalla Victoria e dalla Velo, una Victoria in scala ridotta; essi furono prodotti dal 1893 al 1900 in circa 2.200 unità, una quantità importante in rapporto all’epoca.

Fig. 2.5 La Victoria del 1893.

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Victoria deriva probabilmente dal tipo di carrozza a quattro posti, che essa imitava nella forma esterna. Una di esse è mostrata in fig. 2.5; si notino la disposizione dei posti del tipo vis a vis, la presenza di quattro ruote, tutte con sospensione, gli assali collegati ad un leggero e flessibile telaio tubolare; il motore ancora posteriore, era ora nascosto in un cofano apribile con due persiane e un coperchio ribaltabile.

Fig. 2.6 Le ruote di origine ciclistica della Patent Motorwagen.

Fig. 2.7 Una ruota d’artiglieria in versione motrice per trasmissione a catena.

Scomparvero le ruote a raggi per il maggiore peso del veicolo. Deve tenersi in conto che le ruote della Patent Motorwagen, come d’uso a quel tempo nelle biciclette, avevano i raggi passanti per l’asse del mozzo (si osservi il loro montaggio in fig. 2.6); con questo tipo di costruzione, la ruota era poco adatta a trasmettere la forza motrice con catene di trasmissione: solo più tardi, con l’invenzione dei raggi tangenti e delle trasmissioni cardaniche, le ruote a raggi furono apprezzate per la loro leggerezza e immagine sportiva. Furono preferite le ruote di legno tipo artiglieria; la fig. 2.7 mostra il dettaglio di una di queste, nella versione per asse motore, costruita a mano con razze in legno massello, imprigionate nel mozzo in due parti e nel cerchio d’acciaio forzato a caldo. I cuscinetti, sempre per motivi di robustezza, non avevano le sfere; il mozzo di bronzo strisciava sul perno dell’assale. La ruota a denti della trasmissione era collegata con bulloni alle razze. 20


Il meccanismo dello sterzo di tipo brevettato, adottato dalla Victoria, prevedeva che le ruote anteriori ruotassero su due fusi a snodo, come si può osservare nella fig. 2.8, permettendo di sterzare il veicolo senza riduzione della sua stabilità al ribaltamento.

Fig. 2.8 Nella Victoria, il volante di guida è centrale.

Un problema non secondario consisteva nel trasmettere la rotazione ai fusi, fissi all’assale, con un comando posto sulla carrozzeria sospesa e, quindi, in posizione mutevole rispetto all’assale. Benz risolse il problema in modo originale, trasmettendo il comando attraverso una coppia di balestre, come mostrato più avanti dalla fig. 2.17. Il motore era sistemato con albero orizzontale, essendosi dimostrato irrilevante il problema ipotizzato per il momento giroscopico. Conservava, tuttavia, le altre caratteristiche di progetto del motore precedente, come il carburatore a superficie e il raffreddamento a evaporazione, visibili in fig. 2.9. Come miglioramento rispetto alla Patent Motorwagen, fu applicato il serbatoio di ottone, posto sul lato sinistro del vano motore; munito di una serie di alettature, avrebbe dovuto contribuire alla condensazione del vapore formatosi dall’acqua di raffreddamento. Il suo consumo, pur ridotto a circa 16 l/100 Km, restò tuttavia ancora un elemento critico. Le prestazioni del motore, originariamente con cilindrata di 1.724 cm3 raggiungevano 3 CV; successivamente, mediante aumenti di cilindrata, furono elevate a 4 CV (1.990 cm3), nel 1894, a 5 CV (2.650 cm3), nel 1895, ed a 6 CV (2.915 cm3) dal 1898. I motori di questi modelli avevano valvole del tipo a fungo; quella di aspirazione era attuata automaticamente dalla depressione del motore. La carrozzeria, in legno con rinforzi metallici, era sospesa sui due assali con balestre ellittiche; erano applicati freni a ceppi sulle ruote posteriori e una barra anti arretramento, per lo spunto in salita, come può vedersi nella fig. 2.10. Questa barra, con l’estremità superiore incernierata sul fondo della vettura, terminava con una punta arcuata; era normalmente sollevata da terra da una catenella di bloccaggio. 21


Lasciata strisciare sul suolo affrontando una salita, poteva conficcarsi nel terreno, arrestando la vettura se il motore avesse dovuto fermarsi. La trasmissione a cinghia, con funzioni di folle e di frizione, già presente sulla Patent Motorwagen, fu raddoppiata, come appare ancora dalla fig. 2.9; erano così possibili due linee di trasmissione con rapporto diverso, che consentivano di cambiare anche la velocità, oltre che ad avviare il veicolo.

Fig. 2.9 Il cofano motore è caratterizzato dai serbatoi in rame per l’acqua e la benzina.

Fig. 2.10 Barra anti arretramento della Benz Victoria.

Si deve rilevare che le cinghie di trasmissione non erano munite di tenditori; per aumentarne l’efficacia, esse erano incrociate, formando un percorso a otto intorno alle due pulegge. Tuttavia, con l’uso, il cuoio si allungava, provocando lo slittamento delle cinghie; per riparare il guasto, si doveva aprire la cinghia, smontando la sua piastrina di giunzione, e rimontarla dopo averne tagliata una piccola porzione. Furono costruite vetture in versione aperta e chiusa; nonostante l’aspetto massiccio, la vettura aperta pesava solo 610 kg.

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Il prezzo di vendita era fissato in 4.000 Marchi, che equivalevano a circa 50.000 € di oggi; occorre, tuttavia, ricordare che, a quel tempo, un simile importo era ben superiore allo stipendio annuo di un dirigente d’industria di alto livello. La Victoria si guadagnò un’ottima reputazione di affidabilità. Una di esse, guidata da Émile Roger portò a termine la Paris-Rouen del 1894, classificandosi quattordicesima; quasi contemporaneamente, un’altra fu condotta dal Barone Theodor Von Liebig attraverso quattro nazioni europee, percorrendo oltre 2.500 Km, con velocità media di circa 13 Km/h e consumo di circa 17 l/100 Km. La Victoria fu affiancata, nel 1894, dalla Veloziped, famigliarmente, Velo, la versione economica venduta a 2.000 Marchi; questo modello di grande successo durò fino al 1902, con 1.200 esemplari prodotti. Le versioni più leggere pesavano solo 280 kg, grazie anche al ritorno alle ruote a raggi di tipo ciclistico per il minor peso dell’automobile. Il motopropulsore ricalcava quello della Victoria, con una cilindrata di circa un litro e potenza di 1,5 CV a 800 giri/min, poi aumentata a 3,5 CV negli ultimi modelli.

Fig. 2.11 La Benz Velo del 1893.

L’aspetto generale della Velo, in fig. 2.11, era simile a quello della Victoria: tuttavia, il sedile anteriore contromarcia mancava o era ridotto ad un piccolo strapuntino. Il telaio di collegamento degli assali era ancora caratterizzato da tubi sagomati d’acciaio. Il posto di guida prevedeva, come per la Victoria, un volante a manovella, al centro della vettura, con una freccia indicante la direzione di marcia. Il guidatore si sedeva a sinistra, impugnando con la destra la manovella, usando la sinistra per gli altri comandi. Due leve, poste sul piantone, erano dedicate alle marce; muovendo una delle due alla volta, si poteva inserire la marcia scelta. Una terza leva comandava l’acceleratore.

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Esistevano due freni: uno a pedale agente sui mozzi delle ruote posteriori e uno a leva, che premeva i ceppi sui loro battistrada. L’interruttore dell’accensione e la leva di regolazione della miscela erano posti sulla parte anteriore del sedile. Alcune illustrazioni dell’epoca ci aiutano a comprendere i dettagli degli organi meccanici della Velo, peraltro simili, come si è detto, a quelli della Victoria. La fig. 2.12 mostra il cofano posteriore completamente aperto, permette di osservare il carburatore, la testa di biella, le pulegge motrici del cambio, il serbatoio della benzina, quello dell’acqua con funzione di condensatore, e la cosiddetta bottiglia, parte dell’impianto di raffreddamento, la cui funzione sarà in seguito chiarita.

Fig. 2.12 Vano motore della Benz Velo.

Fig. 2.13 Sistema di raffreddamento della Benz Velo.

Si possono anche osservare gli oliatori a caduta, posti sui due cuscinetti di banco e sulla parete superiore del cilindro. Tali oliatori erano muniti di rubinetti che dovevano essere aperti prima dell’avviamento e richiusi dopo l’arresto del motore; il lubrificante impiegato cadeva sul terreno attraverso i giochi. 24


Il disegno, in fig. 2.13, permette di osservare alcuni elementi del motore: anzitutto il comando U dell’accensione e della valvola di scarico, mediante l’ingranaggio a rapporto 1:2. La canna del cilindro era circondata da una camicia d’acqua C che la raffreddava; il calore introdotto nell’acqua ne trasformava una parte in vapore; parte del vapore condensava nella bottiglia di espansione E. Una paratia interna M, separava il vapore dalla condensa, reintroducendola nel serbatoio dell’acqua R; un secondo condensatore ad aria G, catturava ancora una parte del vapore destinato a disperdersi. Il serbatoio dell’acqua e quello simile della benzina erano muniti di tubi in vetro N per visualizzare il livello del liquido rimasto.

Fig. 2.14 Carburatore a superficie Benz.

Il carburatore, in fig. 2.14, era costituito da un recipiente, che doveva essere periodicamente rifornito di benzina, mediante un rubinetto che lo metteva in comunicazione con il serbatoio; il galleggiante F, con l’asta graduata B, permetteva di verificare il corretto funzionamento. L’aspirazione prodotta dal motore, faceva entrare l’aria dalla presa A, attraversando una pezzuola per la parziale eliminazione della polvere; l’aria lambiva la benzina e, carburandosi, entrava nel motore attraverso la tubazione C; il labirinto D evitava che gli scossoni potessero fare entrare della benzina liquida direttamente nel motore. Si noti che l’evaporazione della benzina era facilitata dalla circolazione del gas di scarico nel doppio fondo. Prima di entrare nel motore, la miscela subiva una doppia regolazione; una prima valvola ne regolava la quantità; una seconda permetteva l’ingresso di aria pura, usata per smagrire la miscela, che si arricchiva con il riscaldamento del motore.

Fig. 2.15 Schema dell’accensione elettrica Benz.

Lo schema dell’accensione a vibratore, in fig. 2.15, era particolarmente semplice; la corrente continua proveniente dalla pila a secco, diventava intermittente dopo l’interruttore, 25


che vibrava in risonanza, per l’azione combinata della flessibilità del contatto a molla e della forza di attrazione dell’avvolgimento; all’apertura del contatto si aveva un picco di tensione, utilizzato per la scintilla solo quando l’interruttore rotante r chiudeva il circuito sulla candela. L’inconveniente di questo sistema era il grande consumo di elettricità, accresciuto dalla precarietà degli isolamenti, a quel tempo realizzati avvolgendo un filo di seta sul conduttore in rame; la pila doveva, quindi, essere sostituita molto spesso. La fig. 2.16 evidenzia il dettaglio del contatto rotante e la particolarità del comando della valvola di scarico; la camma di comando aveva un doppio profilo: quello in primo piano attuava le fasi nel modo normale; quello in secondo piano provocava un’apertura anticipata. Spostando il rullo di contatto assialmente (all’indietro, nella figura), si otteneva l’apertura parziale della valvola di scarico anche in compressione, riducendo lo sforzo necessario a far ruotare a mano il volano, per l’avviamento.

Fig. 2.16 Camma di comando della valvola e l’interruttore dell’accensione.

Fig. 2.17 Comando dello sterzo a balestra.

Si noti come camme, punterie e contatti fossero esposti agli agenti atmosferici. 26


La fig. 2.17 riproduce, infine, gli organi meccanici sotto il pavimento del posto di guida, come li si vedrebbe sdraiati a terra sotto l’assale anteriore. Si osservano, in primo piano, l’assale anteriore e i due tiranti F e G per il comando della sterzata delle ruote. La rotazione della loro piastra di collegamento era comandata dalla traslazione di due aste B e C, a loro volta comandate, tramite cremagliere, dal rocchetto A, solidale al volante. La compensazione dei moti di sospensione avveniva grazie alla balestra ellittica che fungeva da trasmissione fra le parti sospese (A, B, C, D) e quelle non sospese (F e G). Si notano, in secondo piano, le doppie pulegge condotte del cambio a cinghia.

Fig. 2.18 Benz Ideal del 1897.

La Benz Ideal del 1897, riportata in fig. 2.18, si distingueva dai modelli precedenti per avere il motore finalmente protetto da un carter e per il serbatoio dell’acqua spostato in un vano aerato anteriore. Fu anche introdotto un cambio a ingranaggi, simile a quello illustrato, per il modello successivo, in fig. 2.21; la frizione era, tuttavia, ancora costituita da una trasmissione a cinghia in cuoio. La stessa automobile, veduta dal 1898 con il nome di Comfortable, fu la prima a ricevere coperture pneumatiche in sostituzione delle gomme piene dei modelli precedenti. Nel 1902, fu presentato un nuovo motore, denominato Kontra, fotografato in fig. 2.19; era costituito da due cilindri opposti simili a quelli dei motori precedenti. Per la presenza della trasmissione a cinghia, il motore aveva l’albero in posizione trasversale. Si noti il raffreddamento a evaporazione, con le due bottiglie d’ottone, la struttura del carter ancora aperta, con oliatori sulle bielle e sui cuscinetti di banco, le valvole di scarico comandate da bilancieri e quelle di aspirazione automatiche. Furono costruite versioni da 100 a 125 mm di alesaggio, con corse da 110 a 120 mm; conseguentemente la cilindrata variava da 1.730 cm3 a 2.945 cm3, raggiungendo 16 CV a 1.000 giri/min nella versione più spinta, capace di superare 60 km/h. 27


In fig. 2.20 si riporta lo schema dell’autotelaio del modello Phaeton, di poco successivo. Si può osservare il motore boxer in posizione longitudinale, che comanda, attraverso la puleggia 17, le altre due, fissa (V) e folle (U), per il consueto sistema di avviamento; la puleggia fissa è, tuttavia, collegata a un cambio a treni scorrevoli a quattro rapporti, certamente più semplice ed affidabile di quanto avrebbe potuto esserlo un cambio a cinghie, tanto caro alla tecnologia Benz. Si osserva ancora, nella parte posteriore del veicolo un radiatore a serpentina, che sicuramente avrà contribuito a ridurre il consumo dell’acqua. Il telaio, più moderno, di tipo sospeso, era costruito in legno massello, rinforzato all’interno dei longheroni con bandelle di acciaio.

Fig. 2.19 Il motore Kontra, il primo boxer automobilistico.

Fig. 2.20 Autotelaio della Benz Phaeton.

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Nella fig. 2.21 si può osservare una Spider con questo tipo di telaio; tuttavia, esso differisce dal precedente per il montaggio del radiatore nella parte anteriore. Si nota in questi anni una crescente disaffezione per il marchio Benz. Nel 1900, anno di massimo successo, furono vendute 603 automobili Benz, contro 96 Daimler, il secondo costruttore tedesco in ordine di tempo; nel 1903 la situazione si capovolse con 173 Benz contro 232 Daimler. Le nuove automobili Daimler avevano prestazioni superiori, grazie ad una concezione tecnica più moderna e all’adozione di motori di maggiore cilindrata. Benz non riteneva giusto, invece, che un’automobile dovesse essere apprezzata per le prestazioni e i successi sportivi.

Fig. 2.21 Benz Spider del 1900.

A Benz sfuggì che, con quei prezzi, il mercato dell’automobile era nelle mani di ricchi benestanti, che la consideravano uno strumento di affermazione sociale e non un mezzo di trasporto, preferendo vetture potenti e lussuose. Si assistette in quegli anni a una vera e propria corsa all’aumento delle cilindrate, unico mezzo per accrescere la potenza dei motori; in conseguenza, si dovette aumentare il numero dei cilindri, con strutture più robuste e pesanti. Contro la volontà di Benz, i soci desideravano percorrere questa strada per meglio competere con Daimler. Come conseguenza della diversità di vedute, egli lasciò l’azienda nel 1901, per dedicarsi in proprio alla progettazione di motori. Per sviluppare una nuova gamma, progettata secondo le tendenze più moderne, la direzione assunse sei progettisti francesi, coordinati da Marius Barbarou, proveniente dalla Panhard & Levassor. Solo in prossimità della conclusione del progetto, Benz si lasciò convincere a ritornare in azienda. La nuova gamma di automobili, chiamata Parsifal, comprese otto diversi modelli, con motori modulari a 1, 2 e 4 cilindri, con cilindrate che spaziavano da 950 a 5.880 cm3 e potenze da 10 a 35 CV, erogate a 1.300 giri/min. Fu forse la prima gamma di automobili della storia a essere progettata con criteri di modularità e con l’utilizzazione di parti comuni. 29


Soprattutto i pesanti motori a quattro cilindri imposero alla Benz di adottare quella che diventò la tecnologia dell’automobile più diffusa nei primi quarant’anni del novecento: telai in lamiera d’acciaio stampata e chiodata, sospensioni ad assale rigido su balestre, cambio a ingranaggi con frizioni a disco, in luogo delle antiquate cinghie in cuoio. Fu anche scelto un raffreddamento con radiatori a nido d’ape, per ridurre il consumo d’acqua a termini accettabili. La fig. 2.22 illustra un motore a quattro cilindri, caratterizzato, come si è detto, da dettagli comuni alle versioni a uno e due cilindri. Le valvole erano laterali, con aspirazione e scarico sui due lati della camera di combustione e, conseguentemente, due erano gli assi a camme nel basamento. L’accensione era a magnete a bassa tensione con interruttori a martelletto interni alla camera. Il motore comprendeva due blocchi cilindro a testa non smontabile, uniti a un carter per il contenimento dell’albero a gomiti.

Fig. 2.22 Motore Benz Parsifal.

Fig. 2.23 Benz 18 HP Double Phaeton del 1905.

La 18 HP Double Phaeton del 1905, in fig. 2.23, il modello immediatamente successivo, molto simile alla Parsifal, può dare un’idea del nuovo corso: motore a 4 cilindri di 3.162 cm3, 30


potenza di 18 CV a 1400 giri/min, velocità massima di 60 km/h, prezzo di 13.500 marchi, il triplo della già irraggiungibile Victoria. Karl Benz abbandonò definitivamente l’azienda nel 1903. Morì nel 1929, dopo che la Benz si fuse con la Daimler, in conseguenza della crisi determinatasi dopo la prima guerra mondiale. Tutte le automobili riportate nelle illustrazioni possono essere ammirate al Museo Mercedes di Stoccarda. 3 - Daimler Gottlieb Daimler nacque nel 1834 a Schondorf, nel Württemberg. Attratto dalla meccanica fin da ragazzo, appena completati gli studi di base, iniziò a lavorare come apprendista armaiolo. Integrò l’esperienza pratica con studi superiori, alla scuola tecnica industriale di Stoccarda. Svolse la successiva attività lavorativa in Francia, Inghilterra e Germania, dove, nel 1872, fu assunto alla Deutz, la nota ditta costruttrice di motori a scoppio fondata da Otto e Langen. Daimler crebbe professionalmente all’interno di quest’azienda, fino a diventarne direttore di produzione, contribuendo personalmente allo sviluppo dei motori a quattro tempi. Tuttavia, ritenendo che i suoi meriti non fossero sufficientemente apprezzati e per soddisfare l’ambizione di operare in proprio, abbandonò la Deutz dieci anni dopo e fondò una società per la costruzione di motori, la Daimler Motoren Gesellschaft, mettendo a frutto l’esperienza e il capitale guadagnati. La fotografia in fig. 3.1 lo ritrae insieme alla moglie all’età di circa 60 anni.

Fig. 3.1 Gottlieb Daimler con la moglie.

Wilhelm Maybach (1846 - 1929) contribuì in modo rilevante alla concezione dei motori, seguendo Daimler dal 1869 alla sua morte; raggiunse la carica di direttore tecnico della Daimler che mantenne fino al 1906. Un ritratto di Maybach all’età di 56 anni è riportato in fig. 3.2. 31


Fig. 3.2 Wilhelm Maybach.

Il primo motore a scoppio concepito espressamente per la propulsione veicolare, fu ideato e costruito nel 1883. I numerosi veicoli e battelli, su cui Daimler li istallò a quel tempo, sono da considerarsi più dimostratori delle possibilità del motore che prodotti commerciali. Aspetto qualificante della politica industriale di quest’azienda fu il puntare a elevati volumi di produzione, con la fornitura di motori anche a costruttori di veicoli diversi o con la concessione di licenze di fabbricazione. Questa politica rese il marchio Daimler ovunque famoso e contribuì alla nascita dell’automobile anche in altri paesi, particolarmente in Francia, che divenne, in questi anni, il costruttore di automobili più importante d’Europa. Automobili con motori Daimler e filiali con questo marchio furono anche presenti in Austria, Inghilterra, Italia e Stati Uniti. Daimler e Maybach affrontarono con successo il problema della propulsione veicolare, avendo ben evidente che i motori per quest’impiego dovevano occupare poco spazio ed essere leggeri. Per contro, almeno nei primi veicoli, non sembrarono prendersi molta cura dello studio degli altri elementi, tanto che la loro prima automobile fu derivata da una carrozza frettolosamente modificata; non deve perciò stupire che, nonostante la competitività dei suoi motori, la Daimler non occupò mai, con il fondatore in vita, una posizione prominente nella produzione automobilistica mondiale. La soluzione proposta per contenere peso e volume del motore, comprendeva l’uso di un combustibile liquido, meno ingombrante da trasportarsi di quello gassoso allora generalmente in uso, e un progetto strutturale particolarmente evoluto, che consentiva il raggiungimento di velocità di rotazione elevate per quei tempi. Il carburatore, indispensabile per lo sfruttamento del combustibile liquido, fu progettato da Maybach secondo i risultati di studi da lui già iniziati alla Deutz, che, però, non diede seguito alla sua idea; interessata esclusivamente alla produzione di motori stazionari, la Deutz non prese in considerazione i combustibili liquidi, preferendo il gas povero, allora più economico e facilmente reperibile. I carburatori, a quel tempo conosciuti, erano del tipo a superficie; in essi la miscela era formata facendo passare l’aria direttamente nel serbatoio, dove poteva arricchirsi di vapori di benzina; il processo poteva essere reso più attivo riscaldando il serbatoio con i gas di scarico, come ad esempio nei motori Benz.

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Fig. 3.3 Carburatore a gorgogliamento.

Questo sistema presentava rischi d’incendio non trascurabili, poiché eventuali ritorni di fiamma dal motore potevano incendiare quantità elevate di combustibile. Il carburatore studiato da Maybach (fig. 3.3) era, invece, del tipo a gorgogliamento e, pur integrato in un serbatoio di forma cilindrica ad asse verticale, presentava un galleggiante, che separava completamente la superficie libera del carburante dalla zona di formazione della miscela. La depressione generata dal motore determinava il gorgogliamento dell’aria, aspirata attraverso la tubazione h, nell’imbuto c; eventuali gocce erano separate da un deflettore d a forma di disco. Un doppio filtro a reticella metallica i aveva la funzione di filtrare l’aria aspirata e di spegnere eventuali fiamme di ritorno. Mediante un rubinetto n era possibile regolare la quantità di miscela aspirata dal motore. Per sopportare le sollecitazioni dovute alla maggiore velocità di rotazione, le parti del motore in moto alterno erano particolarmente leggere; anche tutti gli elementi della struttura erano semplificati e alleggeriti, in confronto alle soluzioni messe a punto da altri costruttori. Due sezioni del motore di Daimler del 1883 sono riportate in fig. 3.4. La cilindrata era di 212 cm3 (alesaggio: 52 mm; corsa: 100 mm); la potenza massima ammontava a 0,5 CV a 600 giri/min. La potenza riferita alla cilindrata, 2,35 CV/l, era ben superiore al valore di 0,5 CV/l (a 180 giri/min) dei motori stazionari Otto e di 0,8 CV/l (a 300 giri/min) ottenuto dalla Patent Motorwagen; anche la potenza riferita al peso era circa quadrupla rispetto a quella raggiunta dai concorrenti. Questa e le successive versioni a due cilindri furono denominate Standuhr (pendola a colonna) per la particolare forma esterna che ricordava quella di questo tipo di orologio. Si possono identificare alcuni dettagli interessanti. Il cilindro era costituito da un tubo molto sottile raffreddato ad aria, la cui circolazione era attivata da una ventola a solidale al volano. La stratificazione della miscela nel cilindro era ritenuta importante, tanto da essere oggetto di brevetto nei motori Deutz; la stratificazione consisteva nell’ottenere una miscela particolarmente ricca di combustibile intorno al punto di accensione, per favorire l’innesco e la propagazione della fiamma. 33


Fig. 3.4 Sezioni del motore Standuhr.

Nel motore Daimler, questo risultato era ottenuto con una corsa particolarmente lunga in rapporto all’alesaggio e con l’impiego di una seconda valvola di aspirazione g, solidale allo stantuffo, che si apriva, per contatto con un fermo al punto morto inferiore, insufflando nella camera di combustione aria pura, compressa dalla faccia inferiore del pistone. In questo modo, la miscela entrata attraverso la valvola nella testa, era concentrata nella parte alta del cilindro, vicino al punto di accensione. La valvola d’aspirazione principale n era aperta dalla depressione in modo automatico; la valvola di scarico l era, invece, aperta e chiusa da un cinematismo particolare, che oggi definiremmo di tipo desmodromico, costituito dalla pista a doppia spirale, mostrata a tratteggio con f nella parte sinistra del disegno.

Fig. 3.5 Dettagli del comando desmodromico della valvola.

Questa soluzione tecnica può essere meglio compresa osservando i dettagli in fig. 3.5, della successiva versione a due cilindri. Sulla faccia del volano N rivolta verso l’albero A, 34


mostrata sulla figura centrale, era ricavata una pista a spirale intrecciata, che muoveva le punterie P e Q delle valvole di scarico, sia in apertura, sia in chiusura; con questo sistema era possibile comandare le valvole con un elemento rotante alla velocità del motore. Considerazioni sul costo delle pile, sulla scomodità di doverle periodicamente sostituire e sulla scarsa affidabilità degli interruttori allora disponibili, condussero Daimler e Maybach a preferire un’accensione di tipo non elettrico, come già fatto alla Deutz; si usò, in questo caso, una candela a incandescenza, costituita da un perno cavo affacciato nella camera di combustione. Tale perno era riscaldato da una fiammella, contenuta in una cassetta di protezione; essa è visibile (parzialmente sezionata) nel motore a due cilindri, riportato in fig. 3.6. Dopo un certo tempo, il calore di combustione stesso manteneva caldo il perno, consentendo lo spegnimento della fiammella. La combustione della miscela iniziava quando, a causa dell’aumento di temperatura provocato dalla compressione, si raggiungevano le condizioni di auto-accensione; ovviamente, con questo sistema non era possibile alcuna regolazione dell’anticipo. Il motore fu applicato nel 1885 a una draisina, l’antenata della bicicletta; il veicolo, battezzato Reitwagen (veicolo da cavalcare), è mostrato in fig. 3.7. La struttura era di legno; le ruote erano cerchiate in ferro, prive di coperture. Due rotelle laterali di sostegno, montate su un sopporto elastico, rendevano il veicolo più stabile.

Fig. 3.6Dettaglio delle valvole e della candela a incandescenza.

Si può osservare, nel disegno di fig. 3.8, un dettaglio tipico della prima produzione Daimler, costituito dalla trasmissione a cinghia, qui ad un solo rapporto; in questa particolare trasmissione, il movimento del tenditore, ottenuto ruotando la manopola sulla destra del manubrio, aveva lo scopo di controllare lo slittamento della cinghia sulle pulegge, per rendere dolce l’avviamento del veicolo. Nel 1886 Daimler ordinò una carrozza aperta, di tipo americano (quattro posti, in due file fronte marcia) con l’intenzione di trasformarla in un veicolo a motore. 35


Fig. 3.7 Reitwagen del 1885.

Il motore, con lo stesso schema di quello della motocicletta, fu aumentato nelle dimensioni (alesaggio: 70 mm; corsa: 120 mm) portando la cilindrata a 460 cm3, con conseguente aumento della potenza a 1,1 CV a 650 giri/min. La Motorkutsche (carrozza a motore), ritratta in fig. 3.9, sottolineava la propria origine in molti dettagli, quali i sopporti delle stanghe per l’attacco dei cavalli, i passanti delle briglie, lo sterzo a ralla, comandato da un manubrio a quattro impugnature, e la criticabile sistemazione del motore.

Fig. 3.8 Trasmissione a cinghia con tenditore della Reitwagen.

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Fig. 3.9 Motorkutsche del 1887.

Si veda in fig. 3.10 il dettaglio del motore, con il serbatoio-carburatore in ottone, la cassetta di protezione della candela, il silenziatore di scarico, sotto il sedile posteriore, il curioso imbuto, dietro il sedile anteriore, per l’introduzione della benzina. Il risultato delle esperienze precedenti suggerĂŹ di modificare il motore, dotandolo di raffreddamento ad acqua, con un radiatore a tubi quadri di ottone posto dietro al sedile posteriore. La trasmissione, alquanto complessa, è visibile in parte in fig. 3.11; essa comprende un primo stadio, proteso verso la parte posteriore della vettura, con pulegge cilindriche e cinghia in cuoio, simile a quello della Reitwagen. Erano, in questo caso, presenti due diversi rapporti, che potevano essere scelti manovrando con delle manovelle i tenditori delle due cinghie, alternativamente in tensione. Un secondo stadio, comandato dalle pulegge, era costituito da due semialberi con differenziale, ciascuno collegato con una delle due ruote posteriori mediante ingranaggi a denti diritti (si veda anche la fig. 3.9).

Fig. 3.10 L’approssimativa sistemazione del motore nella Motorkutsche.

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Fig. 3.11 Trasmissione a cinghia e ingranaggi della Motorkutsche.

La Motorkutsche compì il viaggio inaugurale nell’aprile del 1887, pochi mesi più tardi dell’impresa di Benz. Daimler decise di partecipare all’esposizione internazionale di Parigi, annunciata per il 1889, per pubblicizzare efficacemente i propri prodotti. Nonostante la decisione iniziale di esporre la Motorkutsche, Maybach e, come si vedrà, Armand Peugeot, convinsero Daimler a realizzare una nuova vettura, costruita con tecnologie più moderne. La Stahlradwagen (vettura a ruote d’acciaio), in fig. 3.12, presentava notevoli progressi rispetto alla Motorkutsche ed alla Patent-Motorwagen di Benz. Anzitutto il motore, fotografato in fig. 3.13, era costruito con due cilindri a V di 17°, con 60 mm di alesaggio e 100 mm di corsa, per una cilindrata totale di 565 cm3. Quest’architettura permetteva di raddoppiare la cilindrata senza aumentare sensibilmente lo spazio occupato. Erano trasferiti dal progetto precedente la valvola sul pistone, la valvola di aspirazione automatica, la valvola di scarico a comando desmodromico, l’accensione a punto caldo, visibili nell’esemplare sezionato in fig. 3.6. La potenza ottenuta crebbe a 1,65 CV a 920 giri/min.

Fig. 3.12 Stahlradwagen del 1889.

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Fig. 3.13 Motore bicilindrico Daimler.

La struttura del veicolo fu realizzata in tubi d’acciaio piegati e saldo-brasati, come nelle biciclette; i tubi del telaio, percorsi internamente dall’acqua di raffreddamento, fungevano anche da radiatore. É interessante ricordare che il telaio della Stahlradwagen fu costruito, su disegno di Maybach, da una fabbrica di biciclette di Neckarsulm, in seguito diventata costruttrice di automobili con il marchio NSU. Il telaio non possedeva sospensioni, ma poteva adattare la posizione delle ruote al suolo, se questo non fosse stato perfettamente piano, grazie al fatto che l’asse anteriore era incernierato al centro, come su una bilancia (si veda la fig. 3.12).

Fig. 3.14 Cambio a ingranaggi della Stahlradwagen.

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Le ruote a raggi metallici recavano coperture di gomma piena. Solo il sedile dei due passeggeri aveva una sospensione elastica, ottenuta con molle a elica (si veda la fig. 3.14). Lo sterzo era ottenuto montando le ruote su due forcelle da bicicletta, incernierate sull’assale anteriore (fig. 3.12); erano collegate da una barra di accoppiamento, a sua volta comandata direttamente da un timone, utilizzato per la guida. Fu la prima delle automobili Daimler a essere dotata di un cambio a ingranaggi a quattro marce. I meccanismi del cambio erano esposti alle intemperie (si veda ancora la fig. 3.14). La vettura non suscitò molto interesse nel pubblico; tuttavia, la concezione avanzata del motore catturò l’attenzione di due industriali francesi che desideravano iniziare a produrre automobili: Panhard e Peugeot. Furono, in seguito, avviate trattative per la fornitura di motori e per la successiva cessione di licenze di produzione. Proprio quando il successo internazionale sembrava assicurato, i soci di Daimler ne criticavano le strategie industriali; egli era accusato di non essere sufficientemente determinato nello sfruttamento commerciale della Stahlradwagen. A causa del disaccordo, Daimler lasciò la direzione nel 1893 e fondò un centro di ricerca indipendente dedicato ai motori, portando con sé Maybach e alcuni dei suoi migliori collaboratori. La Daimler Motoren Gesellschaft, rimasta senza guida tecnica, vegetò per alcuni anni, nel tentativo vano di sfruttare i progetti esistenti, e presentò un bilancio in rosso già nel 1894. Il centro di ricerca, invece, sviluppò per i suoi licenziatari alcuni progetti di successo, fra cui il motore Phoenix, di cui si riporta il disegno in fig. 3.15. Nel nuovo motore, i cilindri erano disposti in linea e le valvole di scarico erano comandate da un asse a camme. Furono anche eliminate le valvole per ottenere la stratificazione della miscela, ritenuta inutile; uno dei tanti esempi in cui una buona idea (diffusasi nei motori moderni dagli anni 1970) fu abbandonata a causa di lacune nelle tecnologie adottate per la sua realizzazione. L’innovazione più importante era costituita dal carburatore, per la prima volta, del tipo a getto. Oggetto di brevetto in favore di Maybach, anticipò nei suoi elementi essenziali i carburatori moderni. Nella fig. 3.16, si vede un getto G alimentato a livello costante dal galleggiante C; la depressione prodotta dal motore provvedeva ad aspirare la benzina in quantità proporzionale alla portata dell’aria. La regolazione era ottenuta dalla valvola a disco, comandata dalla leva L; la benzina era nebulizzata dall’impatto contro il corpo H, prospiciente il getto. Nel 1895, i licenziatari imposero il ritorno di Daimler, come condizione indispensabile per proseguire nelle relazioni d’affari. Nel periodo della sua assenza furono prodotte solamente quindici vetture; una ben misera quantità rispetto alle centinaia di esemplari prodotti all’estero sotto licenza. La Daimler introdusse un nuovo modello nel 1896, la Riemenwagen (automobile a cinghie); essa fu replicata in circa 150 esemplari. Una di esse è mostrata in fig. 3.17, rivelando una costruzione telaistica ancora primitiva; la struttura e la sterzatura a ralla denunciano la derivazione dalle carrozze. La fig. 3.18, ritraendo il motopropulsore della Riemenwagen di fig. 3.17 giustifica il nome commerciale del modello; il cambio è, infatti, costituito da quattro trasmissioni a cinghia, affiancate al motore. Manovrando i galoppini delle cinghie, era possibile ottenere i diversi rapporti e la funzione della frizione.

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Fig. 3.15 Motore Phoenix della Riemenwagen.

Fig. 3.16 Sezione del carburatore del motore Phoenix.

Questo tipo di cambio può apparire un’involuzione rispetto a quello della Stahlradwagen, per il maggior peso e ingombro. Secondo il costruttore, consentiva, invece, una notevole semplificazione d’uso, tanto che fu protetto gelosamente con brevetti, finché non fu trovata, dallo stesso Maybach, una soluzione per facilitare la manovra di un cambio a ingranaggi. I motori della Riemenwagen erano offerti in diverse versioni; il più grande di essi, con una cilindrata di 2.190 cm3, raggiungeva 8 CV a 740 giri/min; la velocità massima era di 40 km/h. Le guerre intestine fra Daimler e i soci non cessarono dopo il suo ritorno; probabilmente per i dispiaceri, causati da questa situazione, Daimler morì di un attacco cardiaco a Stoccarda, nel 1900, lasciando a Maybach la guida tecnica della società. Da qualche tempo, Emil Jellinek, un diplomatico austro-ungarico rappresentante della Daimler in Francia, richiedeva alla casa madre di realizzare vetture più potenti, in grado di ben figurare nelle già numerose competizioni sportive; egli riteneva, infatti, che il successo 41


nelle gare garantisse una maggior appetibilità del prodotto al tipo di clientela privilegiata, che in quel momento era interessata all’automobile.

Fig. 3.17 Riemenwagen del 1896.

Fig. 3.18 Motopropulsore della Riemenwagen.

Come risposta, Maybach sviluppò nel 1901 un’automobile molto innovativa, la Daimler 35 HP, che conseguì successi sia in campo agonistico, sia commerciale. La vettura fu battezzata, su richiesta di Jellinek, Mercedes, dal nome della figlia, allora undicenne e Mercedes divenne, da questo momento, il nuovo marchio delle automobili Daimler. Dalla Daimler 35 HP, derivò la Mercedes Simplex, mostrata in fig. 3.19; la Simplex fu prodotta dal 1903 al 1905 in quasi 1.800 esemplari, un numero considerevole per quegli anni. La Simplex può essere considerata la capostipite di una nuova generazione di automobili, ben diverse dalle prime rudimentali realizzazioni, e il riferimento tecnico per la maggior parte dei concorrenti. La gamma dei motori spaziava da 5.315 a 9.235 cm3 di cilindrata, con potenze da 28 a 65 CV. 42


Fig. 3.19 Mercedes Simplex del 1903.

Cilindrate così grandi erano l’unico mezzo disponibile per raggiungere le prestazioni richieste; la velocità di rotazione era, infatti, ancora modesta e il rapporto di compressione applicabile, con le benzine di quel tempo, poteva superare di poco il valore di 4. Per ottenere cilindrate di quei valori, fu necessario realizzare motori almeno a quattro cilindri, in luogo di quelli a uno o due, prima adottati. L’architettura del motore fu radicalmente rivista, applicando e migliorando la tecnologia disponibile; i cilindri furono raggruppati in coppie. Erano caratterizzati dall’avere la testa unita permanentemente alla canna, evitando così i possibili problemi di tenuta posti dalle guarnizioni. I gruppi testa-canna, i blocchi, realizzati in ghisa legata, erano flangiati a una struttura monolitica, il basamento, ottenuta con due gusci di alluminio, contenenti l’albero a gomiti. Si veda la fig. 3.20. Le valvole erano disposte sui due lati del blocco, con il fungo rivolto verso l’alto; poiché le teste non erano smontabili, le sedi valvola erano lavorate attraverso fori, in seguito chiusi con tappi di ottone; su quelli delle valvole di scarico erano ricavate le sedi delle candele. I motori avevano due assi a camme con azione diretta sullo stelo della valvola, uno per lato del motore, comandati da altrettante ruote dentate. Le candele erano di tipo elettrico, collegate a un magnete ad alta tensione, allora recente invenzione di Robert Bosch; esso comprendeva un avvolgimento rotante in un campo magnetico, ottenuto con calamite, un trasformatore per l’alta tensione, un distributore a fase variabile e permetteva di ottenere, finalmente senza l’uso di pile, un’accensione efficace e affidabile. Il motore era raffreddato ad acqua; l’applicazione di un radiatore a nido d’ape, un’altra invenzione di Maybach, permise di dimezzare il consumo d’acqua. Il radiatore era raffreddato da una circolazione d’aria, attivata da un ventilatore integrato nel volano (si veda la fig. 3.22). La fig. 3.21 mostra la struttura elementare di questi radiatori. Essi erano costituiti da tubi con sezione a stella, per aumentare la superficie di scambio aria-acqua; ogni tubo era deformato alle estremità, fino a ottenere una sezione quadrata, lungo il cui contorno era saldato ai tubi contigui. L’aria circolava all’interno, mentre il contorno esterno era bagnato dall’acqua. 43


Fig. 3.20 Motore di una Mercedes Simplex.

Fig. 3.21 Radiatore Daimler a nido d’ape.

La parte bassa della figura mostra come una cella soggetta a perdite potesse essere facilmente riparata, forzando in essa un secondo tubo, senza dover smontare il radiatore. Il brevetto del radiatore a nido d’ape fu conservato per lungo tempo dalla Daimler e concesso in licenza ad altri costruttori. L’enorme coppia motrice erogata dal motore e il suo ragguardevole peso richiese un telaio più robusto di quelli allora adottati, costruiti con strutture di legno rinforzato o con tubi ciclistici; fu brevettato, per questo scopo, un telaio costruito con profilati metallici in lamiera d’acciaio piegati e rivettati (fig. 3.22). Questa nuova tecnologia giocò un ruolo rilevante nello sfoltire il numero di costruttori di automobili allora esistenti: solo chi aveva il capitale per acquistare le nuove costose presse per costruire i profilati d’acciaio poteva tenersi al passo con i tempi. Il motore, per la notevole lunghezza, dovette essere sistemato nella parte anteriore del veicolo, in posizione longitudinale, con il radiatore ben investito dal flusso d’aria; dietro il motore era posta la frizione, a superfici coniche, il cambio, il differenziale e la trasmissione finale alle ruote. La fig. 3.23 mostra l’interno del cambio a quattro rapporti, ottenuti facendo scorrere in diverse posizioni l’albero inferiore collegato al motore; l’albero superiore comandava il differenziale, visibile in sezione alla destra della stessa figura. 44


Fig. 3.22 Volano con funzione di ventilatore della Mercedes Simplex.

La manovra del cambio fu semplificata, comandando lo scorrimento degli ingranaggi nella scatola, con un meccanismo a combinazione (selezione e innesto) messo in movimento dal movimento trasversale e longitudinale di una sola leva, che possiamo ancora ritrovare nelle automobili di oggi.

Fig. 3.23 Sezione del cambio della Mercedes Simplex.

Completava l’elenco delle novità , l’applicazione di coperture pneumatiche su cerchi smontabili, che rendeva possibile la loro sostituzione, in caso di foratura, in modo relativamente facile. Tutte le automobili riportate possono essere ammirate al Museo Mercedes di Stoccarda.

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4 - Panhard & Levassor Panhard & Levassor (PL) fu il primo costruttore europeo in grado di stabilire una produzione di carattere industriale già nel 1892, superando la soglia di mille automobili vendute in un anno nel 1902. Tuttavia, due statunitensi, Columbia e Locomobile, avevano già superato questo traguardo un anno prima, costruendo rispettivamente automobili elettriche e a vapore. Fu ancora merito della PL, se la tecnologia dei motori Daimler fu trapiantata in Francia, dando avvio a sviluppi in campo tecnico e industriale che contribuirono alla diffusione dell’automobile, in misura certamente maggiore di quanto avrebbero potuto fare da soli i pionieri tedeschi. Nonostante questi importanti primati, la PL rischia di essere sconosciuta a chi non è un appassionato conoscitore di automobili d’epoca; rimane un ricordo delle molte innovazioni introdotte dal marchio solo nel nome della barra, impiegata ancora oggi, per migliorare l’ancoraggio trasversale delle sospensioni ad assale rigido. La PL si sviluppò da un’officina per la lavorazione del legno, fondata a Parigi nel 1846 da Jean-Louis Périn; dopo aver raggiunto dimensioni industriali, grazie all’utilizzazione di attrezzature avanzate per quel tempo, i prodotti di Périn si concentrarono sulle macchine per falegnameria. Quest’evoluzione importante avvenne grazie all’assunzione di un giovane ingegnere, René Panhard (1841 – 1908, fig. 4.1, a sinistra), che presto mostrò le sue capacità, ottenendo buoni risultati in campo commerciale; come riconoscimento fu associato da Périn nel 1867. All’azienda, sempre più fiorente, si aggiunse nel 1872 un nuovo socio, anch’egli ingegnere, Émile Levassor (1843 – 1897, fig. 4.1, a destra), particolarmente versato per la progettazione e l’innovazione. Alla morte di Périn nel 1886, la società fu acquisita dai soci superstiti, assumendo da allora il nuovo nome.

Fig. 4.1René Panhard e Émile Levassor.

L’idea di avviare l’attività motoristica nacque dall’amicizia di Levassor per Edouard Sarrazin, rappresentante per la Francia della Deutz e della Daimler; l’incarico di Sarrazin comprendeva la vendita di motori e di licenze per la loro fabbricazione. Tramite Sarrazin, Levassor intuì le potenzialità del motore a scoppio per il comando delle loro macchine da segheria; questi avrebbero sostituito i ben più costosi motori a vapore, o i poco pratici mulini ad acqua, vincolati a zone limitate del territorio e ai capricci delle stagioni; vennero così stabiliti contatti istituzionali fra PL e Daimler. L’esposizione di Parigi del 1889, nel centenario della rivoluzione francese, permise a Levassor di ammirare personalmente la vettura di Benz, facendogli maturare però l’opinione che richiedesse molti miglioramenti e che il motore Daimler fosse più adatto a quest’applicazione per la sua superiore leggerezza. 46


Con queste idee e dopo aver convinto il socio, Levassor iniziò a concepire un’automobile diversa, servendosi del motore Daimler. Il primo motore fabbricato su licenza lasciò l’officina PL all’inizio del 1890 e, poco dopo, fu costruita la prima automobile prototipale. Era una dog-cart, con stile simile a quello delle omonime carrozze leggere, in cui quattro passeggeri sedevano rivolgendosi la schiena; questa disposizione fu preferita perché lasciava al centro del veicolo lo spazio necessario per l’istallazione del motore a due cilindri a V. Il motore, con una cilindrata di 921 cm3 e una potenza di 2 CV, era contrassegnato con la sigla P2; nel lessico PL, la lettera designava il tipo di motore, la cifra il numero di cilindri, altre lettere erano aggiunte per denotare la versione; per qualche tempo, la sigla del motore identificò anche le vetture. Motori simili furono anche forniti, come si vedrà, alla Peugeot.

Fig. 4.2 La prima P2 del 1890; René Panhard è alla guida, Émile Levassor sul sedile posteriore.

La fig. 4.2 ritrae questo prototipo con Émile Levassor alla guida e René Panhard sul sedile posteriore. L’automobile nella versione definitiva aveva, tuttavia, il motore in posizione anteriore, noto come Type P2D. Una dog-cart P2D del 1892 è riportata in fig. 4.3.

Fig. 4.3 P2D dog-cart del 1892.

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Essa fu posta in vendita dal 1891 e prodotta in 6 esemplari nel corso di quell’anno; nell’anno successivo la produzione crebbe a 16 unità ed alla dog-cart venne affiancata la wagonnette, che siamo in grado di meglio descrivere essendo sopravvissuti numerosi esemplari e sufficiente documentazione.

Fig. 4.4 P2D wagonnette del 1894.

Il diverso stile della carrozzeria di questa P2D del 1894, con cilindrata aumentata a 1.184 cm3 e potenza di 3,5 CV, mostrata in fig. 4.4, dimostra una concezione del progetto radicalmente diversa dal paradigma proposto da Benz e adottato da Daimler e Peugeot, che prevedeva il motore in posizione posteriore, dietro il sedile di guida. Questa sistemazione era imposta dall’impiego, previsto dai tedeschi, di un’ingombrante trasmissione a cinghia. Secondo Levassor, il motore doveva trovarsi, invece, davanti al guidatore, nella zona anteriore del veicolo; le ruote motrici, che non potevano che essere collocate posteriormente, in considerazione dell’assale anteriore sterzante, si trovavano, in questo modo, in una posizione più idonea all’istallazione di un cambio a ingranaggi e di una trasmissione a catena fra il motore e le ruote. La notevole altezza della vettura era condizionata da quella del motore verticale, che costringeva, inoltre, a realizzare l’assale anteriore con una trave ad arco capovolto. Tuttavia, con questa nuova disposizione, il motore era facilmente accessibile per le operazioni di manutenzione (fig. 4.5); la tipica apertura del cofano a due battenti, mostrava in primo piano i due bruciatori a benzina, per il preriscaldamento delle candele di accensione a incandescenza, da eseguirsi prima di ogni avviamento; sono visibili, in primo piano nella figura, i vassoi per contenere il combustibile necessario all’operazione, alimentati per caduta dal serbatoio del combustibile. S’intravedono, dietro i bruciatori, i due cilindri pitturati in rosso, realizzati mediante un’unica fusione, dotata d’intercapedine, che permetteva di raffreddare il motore mediante acqua; un serbatoio nella parte posteriore della vettura, sotto la panchetta dei passeggeri, conteneva l’acqua necessaria per il raffreddamento. Occorre notare che l’acqua raffreddava il motore evaporando, non essendo previsto alcun radiatore; da dati noti dell’automobile di Benz, dotata di un simile sistema, si conoscono consumi dell’ordine di 150 litri d’acqua ogni 100 chilometri. Notiamo, infatti, come il

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serbatoio dell’acqua fosse (Fig. 4.8) ben più ingombrante di quello della benzina, posto sul cruscotto (Fig. 4.7).

Fig. 4.5 Particolare delle lampade per il preriscaldamento delle candele a incandescenza.

Fig. 4.6 Frizione, cambio e trasmissione a catena.

La trasmissione in fig. 4.6 comprendeva una frizione a cono, che poneva in rotazione un cambio ad ingranaggi in cascata che, a sua volta, azionava un rinvio ad ingranaggi conici e, mediante un’unica catena, il differenziale sospeso con l’assale posteriore. La catena, come nelle precedenti applicazioni, consentiva i movimenti di sospensione fra carrozzeria e assale posteriore, pur assicurando la trasmissione fra i due elementi. Il cambio di velocità a ingranaggi, realizzato con ruote dentate fuse in bronzo, comprendeva quattro marce; il motore comandava l’albero inferiore, sul quale poteva scorrere un grappolo di ruote dentate poste in rotazione da una linguetta. Potevano, in questo modo, essere ottenuti i diversi rapporti; l’albero superiore comandava il rinvio conico, sempre in bronzo, che, a sua volta, portava il movimento alla catena. Il movimento dell’albero scorrevole era comandato mediante una leva e richiedeva nell’uso molta cautela. Il cambio a cinghia dei tedeschi era d’impiego più semplice, ma era scarsamente affidabile, per le frequenti rotture. Il cambio PL era certamente più durevole, ma 49


presentava come incognita la non scontata accettazione da parte dei guidatori, posti per la prima volta di fronte all’uso combinato di frizione, cambio e acceleratore. La miglior sintesi delle sue qualità fu fatta da Panhard, dopo la prima prova del veicolo: “C’est brutale, mais ça marche!”

Fig. 4.7 Particolare del posto di guida e del serbatoio della benzina.

Fig. 4.8 Nella parte posteriore sono evidenti il serbatoio dell’acqua, i freni a ceppi e la barra anti arretramento.

Il posto di guida, in fig. 4.7, dominato dalla presenza del serbatoio della benzina, era caratterizzato dallo sterzo a timone che comandava il movimento delle ruote anteriori direttamente; i pedali, simili a quelli di un pianoforte, azionavano acceleratore e frizione, mentre due leve il cambio ed i freni. L’impianto di frenatura prevedeva due dispositivi: freni a ceppi, sulle ruote posteriori (fig. 4.8) e una barra, che, sganciata dal suo sostegno e lasciata strisciare sul suolo, facilitava le partenze in salita, impedendo l’arretramento in caso di arresto del motore. La stessa figura 50


mostra parte del serbatoio dell’acqua, la catena di trasmissione e la predella per l’accesso ai posti posteriori. Due assali rigidi erano sospesi su balestre a ellisse completa per l’assale anteriore e semiellittiche per quello posteriore: le ruote erano in legno, con cerchiatura di ferro; si potevano montare cerchi con guarnizioni in caucciù, con un supplemento del 10% sul prezzo.

Fig. 4.9 Schema dell’autotelaio della P2D.

Fig. 4.10 Particolare della frizione a disco conico.

In fig. 4.9 è mostrato un disegno schematico dell’autotelaio completo. Il telaio principale era realizzato con travi di legno, ricoperte con lamiera d’acciaio, con rinforzi locali di ferro e ghisa per le parti più sollecitate. Un secondo telaio metallico, posto nella sola parte anteriore (visibile anche in fig. 4.6), forniva il sostegno al motore M, al volano con frizione V e ai sopporti degli alberi A ed S, garantendone il corretto allineamento. Si noti, ancora, il montaggio del ponte posteriore, libero di muoversi in senso longitudinale per la presenza di biscottini alle due estremità delle balestre; il movimento longitudinale era impedito da puntoni, di lunghezza regolabile con dadi e controdadi, per applicare alla catena la corretta tensione anche con il progredire della loro usura. 51


Lo schema di funzionamento della frizione è illustrato, nella sua semplicità, nella fig. 4.10 (il disegno si riferisce al motore Phoenix del modello successivo); essa era realizzata con una superficie conica cava, tornita nel volano, ed una superficie complementare, rivestita in cuoio, posta all’estremità dell’albero primario. Quest’ultimo era a sezione quadrata, allo scopo di trasmettere il movimento al grappolo di ruote dentate lasciandolo libero di scorrere; esso stesso era, a sua volta, libero di scorrere sul sopporto posto all’estremità opposta al motore, per inserire e disinserire la frizione per mezzo del pedale. Lo spostamento del grappolo d’ingranaggi avveniva mediante un comando sequenziale a leva, richiedendo molta perizia, sia per individuare la posizione delle varie marce, sia per cambiare senza grattate. Le ruote dentate erano completamente esposte alle intemperie. La vettura, a quattro posti a fronte marcia, prevedeva la rotazione della parte destra della panchetta posteriore per l’accesso; questo dettaglio funzionale fu ripreso anche da altri costruttori. I prezzi di vendita variavano, secondo le versioni, da 3.500 a 5.000 Franchi, circa lo stipendio annuo di un dirigente d’industria. Nel 1893, per dimostrare il valore del prodotto, il figlio di Panhard, Hippolyte, compì un’impresa memorabile, raggiungendo Nizza da Parigi, attraverso Marsiglia, in poco più di cinque giorni, senza inconvenienti meccanici di rilievo. In questo stesso anno Levassor decise l’acquisto della licenza del nuovo motore Phoenix, che, per la sua architettura in linea, poteva facilmente raggiungere maggiori cilindrate (4.245 cm3, con due cilindri di alesaggio 130 mm e corsa 160 mm; la potenza era di 10 CV). Era possibile derivare anche motori a quattro cilindri. La PL avviò la produzione di serie del motore bicilindrico Phoenix, con la sigla M2. Il Petit Journal organizzò, nel 1894, una corsa sul percorso Parigi – Rouen, alla quale parteciparono dodici vetture, di cui quattro PL; il primo premio fu attribuito ex equo alla PL e alla Peugeot, dotate dello stesso tipo di motore. Per la precisione, le due vetture della squadra Peugeot arrivarono seconda e terza, quella guidata da Panhard arrivò quarta, quella di Levassor quinta, battute da un trattore a vapore De Dion-Bouton. Tuttavia, il trattore a vapore fu squalificato, perché compì la gara con un secondo conduttore a bordo, il fuochista, non permesso dal regolamento che richiedeva la sola presenza del guidatore.

Fig.4.12 M2F break del 1895.

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Nell’anno successivo, la corsa Parigi – Bordeaux, organizzata dal neonato Automobile Club de France, ottenne un’attenzione anche maggiore; fu vinta da una PL, guidata dallo stesso Levassor, che compì il percorso di 1.175 km alla velocità media di 24,6 km/h, arrivando sei ore prima del secondo ed undici prima del terzo. La corsa segnò anche la vittoria del motore a combustione interna nei confronti dei suoi antagonisti a vapore. Le corse contribuirono al successo della PL ma causarono la prematura scomparsa di Levassor. Durante la corsa Parigi – Marsiglia – Parigi del 1896, Levassor, alla testa del gruppo dei concorrenti, per evitare un cane, improvvisamente saltato in mezzo alla strada, dovette deviare bruscamente, causando il ribaltamento del veicolo. In seguito alle ferite riportate morì per embolia nell’anno successivo. Ritornando alla M2, una di queste carrozzata duc, prodotta nel 1895, è mostrata nelle fig. 4.12; rispetto ai modelli precedenti, si nota la comparsa nella carrozzeria di linee tondeggianti e le ruote rivestite di caucciù. La distribuzione dei volumi della carrozzeria era sostanzialmente immutata, come pure la posizione dei serbatoi e dei comandi; unica differenza, i sedili posteriori erano disposti sui lati, per consentire un più facile accesso dal centro della vettura. Le più importanti novità erano concentrate nel nuovo motore Phoenix già presentato nel capitolo dedicato alla Daimler. Anche la trasmissione fu radicalmente rivista; il nuovo gruppo cambio-differenziale era ora racchiuso in una scatola, al riparo da fango e polvere.

Fig. 4.13 Cambio di velocità con retromarcia sulla riduzione finale conica.

Il meccanismo del cambio (fig. 4.13) non era molto diverso da quello della prima soluzione. Fu introdotta, tuttavia, la retromarcia, realizzata in modo alquanto insolito, facendo scorrere, trasversalmente alla vettura e nei due sensi, l’albero solidale con la scatola del differenziale D, in modo da invertire il moto. Comparve, con questo nuovo cambio, anche un terzo pedale che agiva su un freno a nastro, posto sul tamburo P; al differenziale era così affidato anche il compito di ripartire la forza frenante sulle due ruote.

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L’autotelaio completo, riportato in fig. 4.14, non corrisponde in tutto alla vettura della fotografia; di poco successivo, presenta alcuni elementi migliorativi, come le coperture pneumatiche ed i freni posteriori a nastro; si nota anche l’introduzione del volante con scatola guida a vite e rullo in luogo dello sterzo diretto a timone. Le catene di trasmissione alle ruote erano ora una per lato. Nella parte posteriore del telaio, risalta ancora l’enorme serbatoio per l’acqua. La fig. 4.15 richiama l’attenzione sulla particolare organizzazione dei comandi. Il pedale O era l’acceleratore; il pedale N comandava il freno della trasmissione, mentre il pedale M, la frizione. Il giunto Z posto fra questi due pedali provocava il disinnesto della frizione con l’azionamento di freno, per evitare di arrestare involontariamente il motore con la vettura.

Fig. 4.14 Viste in pianta dell’autotelaio di una M2F.

Fig. 4.15 Tre pedali e tre leve costituivano i controlli principali del veicolo.

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Questa particolarità era presente in molte automobili di quegli anni e denotava la non completa assuefazione dei clienti all’uso della frizione. Le tre leve sulla destra erano il freno a mano M, sulle ruote posteriori, il comando sequenziale del cambio N e l’inversore O; quest’ultima leva era dotata di un’appendice mobile; se rivolta in avanti (come in figura), indicava che la vettura sarebbe proceduta in avanti; se in alto indicava il folle; se indietro, la retromarcia. La citata corsa Parigi – Marsiglia decretò anche il trionfo del motore Phoenix, che ottenne il primo posto con una vettura con il motore M4 (a quattro cilindri) da 2.402 cm3 e 8 CV, seguita da due altre con il motore M2 da 6 CV. Dopo la scomparsa di Levassor, la direzione tecnica dell’azienda fu assegnata ad Arthur Krebs. A lui si attribuiscono molti sviluppi tecnici, quali il primo carburatore automatico e i famosi motori SS (sans soupapes) senza valvole, con distribuzione a foderi, che PL adottò dal 1910, per circa trenta anni. Nel 1899, la decadenza dei brevetti Daimler e la decisione di Peugeot di produrre autonomamente i propri motori resero opportuno lo sviluppo interno di una nuova famiglia di motori; essa fu denominata commercialmente Centaure, con le sigle O4 ed O2, secondo il numero di cilindri. Gli elementi innovativi consistettero nell’adozione del nuovo carburatore automatico brevettato da Krebs; inoltre, un accordo commerciale con un produttore di componenti permise di introdurre una nuova accensione a magnete, in luogo di quella ad incandescenza. Il punto forte del nuovo carburatore risiedeva nel fatto che la depressione, utilizzata per aspirare il combustibile nel carburatore, era resa proporzionale alla portata d’aria, per cui la dosatura della benzina era controllata in modo automatico, senza necessità di un comando aggiunto all’acceleratore.

Fig. 4.16 Tonneau del 1902, con motore Centaure O4E a 4 cilindri da 10 CV.

Le cilindrate scelte furono inizialmente le stesse del motore Phoenix: 1.201 e 1.648 cm3, per la versione a due cilindri, 2.402, 3.296 cm3 per la versione a quattro cilindri. Più tardi si 55


aggiunsero altre versioni da 4.387, 5.313, 6.898 e 8.620 cm3, che permisero di toccare la potenza di 60 CV, importante per le applicazioni sportive. Con i nuovi motori, alquanto più pesanti dei precedenti, fu necessario rivedere completamente le trasmissioni e irrobustire i telai, impiegando strutture in profilati metallici saldati. Il tonneau del 1902, fotografato in fig. 4.16, è dotato di un motore a quattro cilindri di 2.402 cm3, che eroga la potenza di 10 CV. Si nota l’introduzione di coperture pneumatiche, del radiatore, di freni del tipo a nastro sulle ruote posteriori, del volante di guida e, soprattutto, di un robusto telaio in profilati metallici. Inoltre, tutti i sedili sono disposti nel senso di marcia. Il divano posteriore è diviso in tre parti; quella centrale può ruotare su dei cardini per permettere l’accesso alla parte posteriore. Il nuovo circuito di raffreddamento comportava anzitutto la presenza di una pompa di circolazione; essa spingeva l’acqua, dal serbatoio alla parte bassa del blocco; qui, dopo aver provvisto al raffreddamento, usciva, facilitata dalla diminuzione di densità, dalla sua parte alta. Attraversato il radiatore in senso opposto, per sfruttare l’aumento di densità che il raffreddamento comportava, rientrava nel serbatoio. La quantità di vapore dispersa all’esterno era considerevolmente ridotta; il consumo d’acqua poteva ridursi a circa un decimo dei valori precedenti.

Fig. 4.17 Radiatore a serpentina montato con un motore M4E.

La fig. 4.17 evidenzia la costituzione del radiatore e la presenza di un motore Phoenix a quattro cilindri, ancora prodotto in parallelo al Centaure. Il radiatore era costruito con un tubo avvolto a serpentina, sostenuto da un traliccio formato da elementi verticali e traversine di legno; la dispersione del calore era facilitata da una lamiera di rame ondulata di forma elicoidale, avvolta sul tubo.

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La pompa dell’acqua era posta in rotazione per attrito dal volano del motore, per mezzo di una ruota gommata. La tenuta dell’albero rotante era realizzata con un avvolgimento di canapa e un premistoppa a molla.

Fig. 4.18 Cambio PL a ingranaggi sempre in presa.

Il cambio di queste vetture presentava un nuovo montaggio delle ruote dentate, poste sull’albero di uscita, come mostrato in fig. 4.18; esse ingranavano sempre in presa con le ruote dell’albero d’ingresso M, mosso dalla frizione, ma erano libere di ruotare sul relativo albero P, raffigurato anche smontato nella parte bassa della figura. Il calettamento sull’albero della ruota prescelta avveniva facendo impegnare un chiavistello T con un risalto posto nel mozzo della ruota; esso era spinto esternamente da una camma j, spostata lungo l’albero dal comando ad asta R. In questo modo non evitavano ancora le grattate ma almeno i denti erano protetti dalle rotture. Chi desiderasse ammirare di persona le automobili Panhard & Levassor può visitare la Cité de l’Automobile a Mulhouse e il Museo Malartre a Lione, ambedue in Francia. 5 - Peugeot La famiglia Peugeot fondò nel 1725, a Doubs, un paese della Franca Contea, la sua prima impresa industriale: un mulino per macinare granaglie. Il buon esito degli affari permise di aumentare il numero di mulini ad acqua e di impiegarli anche nel settore metalmeccanico e metallurgico che, in comune con l’attività iniziale, aveva solo le officine galleggianti, ancorate sui corsi d’acqua, da cui traevano l’energia meccanica necessaria al funzionamento del macchinario in esse contenuto. Nel 1885 l’impresa aprì una fabbrica di biciclette, allora considerate un prodotto di alta tecnologia; le loro parti principali, i tubi stirati per i telai, le ruote a raggi, le catene di trasmissione e le sfere per cuscinetti, furono per molti anni essenziali anche alla produzione industriale delle automobili Peugeot. 57


Fig. 5.1 Armand Peugeot.

La decisione di aprire il nuovo settore fu presa da Armand Peugeot (1849 – 1915), ritratto in fig. 5.1, il membro più attivo ed innovativo nella terza generazione di questa dinastia di industriali. Fra gli amici di Peugeot vi era Amédée Bollée, proprietario dal 1872 di una fabbrica di veicoli stradali a vapore; da questi gli fu presentato Léon Serpollet, ideatore di un interessante brevetto per una caldaia ad avviamento rapido. Da quest’incontro, nacque l’idea di fondare una società per la costruzione di automobili a vapore. Già all’esposizione universale di Parigi del 1889, lo stand della Peugeot mostrava, insieme ai suoi prodotti tradizionali, un triciclo a vapore, la Peugeot-Serpollet Type 1. Una fotografia dell’epoca di questo veicolo è riprodotta in fig. 5.2; un esemplare originale è visibile al Conservatoire National des Arts et Métiers, a Parigi. La rapidità della caldaia Serpollet nel generare vapore, derivava dall’essere costituita da un’unica serpentina di volume ridotto, in grado di riscaldarsi in breve tempo; inoltre, il focolare era conformato in modo che gli scossoni che il veicolo subiva nel percorrere le strade rendevano automatica l’alimentazione del carbone, facendo diventare superflua la presenza del fuochista.

Fig. 5.2 Peugeot Type 1 del 1889.

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Nonostante le caratteristiche innovative, il nuovo prodotto non convinse pienamente Peugeot, che si ritirò poco dopo dalla società, che, con il solo marchio Serpollet, proseguì indipendentemente per molti anni, unica industria europea di rilievo in questo specifico settore. Un altro amico di Peugeot, il già noto René Panhard, gli offrì, invece, l’occasione per conoscere Gottlieb Daimler e per partecipare alle trattative in atto con la Panhard & Levassor, per la concessione di una licenza per fabbricare i motori a benzina. Il risultato di questo contatto fu duplice; da un lato, Daimler si lasciò convincere da Peugeot a costruire un veicolo migliorato, la Stahlradwagen, che utilizzava tecnologie ciclistiche per l’autotelaio; dall’altro, Peugeot fu persuaso a sviluppare una nuova vettura, anch’essa con telaio di derivazione ciclistica, dotata di un motore a scoppio Daimler, costruito su licenza dalla Panhard & Levassor. La nuova automobile ricevette il nome di Type 2, istituendo la consuetudine di numerare i modelli Peugeot in modo progressivo3.

Fig. 5.3 Disegno schematico della Type 3. 3

Solo nel 1930 con il modello 201, fu deciso di adottare il sistema di numerazione ancora in uso, nel quale le centinaia indicano la classe della vettura e le unità, il numero progressivo del progetto.

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La Type 2, uscita nel 1891, montava un motore bicilindrico a V da 565 cm3 e 2 CV, costruito dalla PL. Pur con molti punti in comune, la Type 2 si differenziava dalla Stahlradwagen per avere sospensioni elastiche sui due assali e di possedere un impianto di raffreddamento ad acqua di migliorata efficacia, costruito sempre sfruttando i tubi del telaio per la dispersione del calore. La Type 2 fu prodotta in quattro esemplari. Nello stesso anno fu avviato un secondo progetto, la Type 3, prima automobile di successo della casa, prodotta in 64 esemplari fino al 1894. Lo schema di questa vettura è riportato in fig. 5.3. La carrozzeria comprendeva quattro posti, disposti vis à vis, e poteva essere coperta con un mantice in tela cerata, come mostrato in fig. 5.4. L’automobile fotografata, la venticinquesima prodotta, è custodita nel Museo Nazionale dell’Automobile di Torino. Essa fu la prima automobile che circolò in Italia. Il motore era lo stesso della Type 2. Come per le Panhard & Levassor, il cambio era del tipo a treni scorrevoli, con ruote dentate realizzate in bronzo fuso. L’albero di uscita dal cambio ritornava verso la parte posteriore del veicolo, a lato del motore, e comandava un albero trasversale collegato alle ruote posteriori, attraverso trasmissioni a catena. Il punto più basso del telaio, come mostrato in fig. 5.5, offriva appoggio al motore; elemento caratteristico della prima produzione Peugeot, l’assale posteriore di forma arcuata, era predisposto per lasciare libero il passaggio al meccanismo della manovella d’avviamento.

Fig. 5.4 Peugeot Type 3 custodita dal Museo Nazionale dell’Automobile, prima automobile a circolare in Italia.

La stessa fotografia mostra il motore, lubrificato a caduta attraverso due appariscenti oliatori posti ai lati della vettura; una trasmissione, ancora a catena, permetteva di portare ad altezza di mano la manovella d’avviamento, collegata all’albero a gomiti. I freni, del tipo a ceppo, agivano sulle sole ruote posteriori; era presente anche la consueta barra anti arretramento (in posizione sollevata, sul lato destro della fotografia), per facilitare gli spunti in salita.

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Fig. 5.5 Cofano motore posteriore di una Type 3.

Le sospensioni erano ad assale rigido, quella posteriore con balestre longitudinali semiellittiche, quella anteriore con una sola balestra trasversale, infulcrata al centro; l’assale anteriore era vincolato da guide, che gli consentivano i soli movimenti verticali e di rollio. La sterzatura, con fusi a snodo, era comandata da un manubrio verticale, collegato mediante ruote dentate e catene. Il telaio era realizzato in tubi (fig. 5.6), con giunti che, in ragione del grado di sollecitazione, erano brasati o imbullonati in manicotti, simili a quelli degli odierni ponteggi metallici. Si nota la posizione posteriore del motore, l’ingombrante serbatoio per l’acqua di raffreddamento e la canalizzazione d’ingresso dell’acqua nel telaio, posta sul lato destro.

Fig. 5.6 Autotelaio completo di una Type 3.

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La figura mostra anche il particolare della ruota posteriore, con struttura a raggi di tipo ciclistico, copertura di gomma piena, e ruota dentata per la trasmissione finale a catena. Dalla Type 3 fu derivata anche la Type 4, non molto diversa nell’architettura, ma di dimensioni leggermente maggiori, con un più potente motore di 1.026 cm3 e 4 CV di potenza. Anche la Type 5 non presentò differenze sostanziali dalla Type 3, salvo le più ridotte dimensioni, così come le successive Type 6, 7 ed 8, caratterizzate però da carrozzerie victoria, con tutti i quattro posti rivolti a fronte marcia. Comparve sull’ultimo tipo anche il freno a nastro sulla trasmissione, in sostituzione del precedente rudimentale freno a ceppi sulle ruote. Nel 1895 la Peugeot offriva un’ampia gamma d’automobili; il modello d’attacco era la Type 5, un leggero quadriciclo a due posti, con motore da 565 cm3; seguivano la Tipo 7, un phaeton a quattro posti, la Type 8, un victoria a quattro posti, la Type 9, un vis à vis a quattro posti, tutte con motore da 1.282 cm3; completavano la gamma, la Type 11, un cabriolet a due posti, la Tipo 12, un omnibus a cinque posti e la Type 13, un furgone per il trasporto di merci, tutte con motore da 1.645 cm3. La produzione totale dell’anno superò settanta unità. La corsa Parigi-Bordeaux decretò un importante trionfo per il marchio, che ottenne i tre primi posti; altre Peugeot si classificarono, fra cui la decima arrivata, condotta dai fratelli Michelin per promuovere i loro pneumatici e dimostrarne l’affidabilità. Infatti, nonostante che gran parte delle biciclette fossero già fornite di confortevoli coperture pneumatiche, le automobili continuavano ad avere gomme piene, preferite per la loro superiore durata. Da alcuni anni un contenzioso stava deteriorando i rapporti fra Peugeot e Daimler; quest’ultimo sosteneva, secondo il contratto, che i motori costruiti da Panhard non potessero essere venduti direttamente in Germania. L’accordo stabilito prevedeva che le vetture destinate alle regioni tedesche, fossero inviate dapprima alla Daimler in Germania e da questa vendute al cliente finale. In seguito all’annessione dell’Alsazia e della Lorena alla Germania, avvenuta al termine della guerra del 1870, questa macchinosa procedura doveva essere estesa anche a queste regioni, a pochi chilometri dagli stabilimenti Peugeot, con ricarichi commerciali e aggravi nei costi di trasporto che parevano ingiustificati. Questa situazione inaccettabile convinse Peugeot a non rinnovare il contratto di fornitura con Panhard & Levassor e a sviluppare un proprio motore; ciò fu fatto con relativa facilità essendo, nel frattempo, scaduti i brevetti Daimler. L’ufficio tecnico concepì, nel 1896, un motore bicilindrico, che si proponeva anche di semplificare la complicata istallazione richiesta dal motore Daimler; la nuova architettura prevedeva due cilindri in linea disposti orizzontalmente, che meglio potevano adattarsi allo spazio disponibile sotto il pavimento del veicolo. Molte parti del motore precedente servirono d’ispirazione per quello nuovo, come bielle, stantuffi e accensione a punto caldo. Il disegno in fig. 5.7 mostra uno di questi motori con parte del basamento smontato, per evidenziarne l’interno. Si può costatare come il tipo di comando desmodromico della valvola di scarico fosse derivato concettualmente da quello del motore Daimler, e si caratterizzasse per la guida incisa sulla faccia esterna della maschetta mediana dell’albero a gomiti anziché sulla sua superficie frontale. La punteria era, in questo caso, sostituita da un albero oscillante, disposto parallelamente all’asse dei cilindri, che comandava un unico bilanciere, che agiva sugli steli delle due valvole T e T’, disposti con l’asse in verticale. Questa semplificazione era possibile poiché i gomiti erano appaiati con i perni di biella disposti sullo stesso asse.

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Fig. 5.7 Disegno del motore bicilindrico in linea, realizzato autonomamente da Peugeot per la Type 16.

Fra gli elementi innovativi, si nota, nella fig. 5.8, la testa smontabile e un complesso gruppo di lubrificazione a caduta, con sei punti di uscita, che irroravano gli accoppiamenti nevralgici del motore (cuscinetti di banco, canne e distribuzione). Esso era costituito da un serbatoio d’ottone, da cui derivavano rubinetti regolabili. I rubinetti dovevano essere aperti solo prima dell’avviamento, per evitare un inutile consumo d’olio; la posizione di apertura doveva essere regolata in modo da erogare la giusta quantità: erano richieste circa 6 - 7 gocce per minuto, a motore nuovo, da ridursi a 3 - 4 dopo il rodaggio. Tutto il lubrificante

Fig. 5.8 Motore della Type 16.

erogato era raccolto nel basamento, che doveva essere periodicamente svuotato. Il carburatore adottato era del tipo a getto. Non era, tuttavia, automatico e quindi, quantità di benzina, aria riscaldata e fredda dovevano essere regolate per tentativi, in modo da ottenere la prestazione ottimale. La velocità della vettura non era controllata dalla portata di miscela, ma a ‘tutto o niente’, per mezzo di un regolatore di velocità a masse centrifughe. Fu anche sviluppato un nuovo impianto di raffreddamento, schematizzato in fig. 5.9. La circolazione dell’acqua era attivata da una pompa centrifuga; l’impianto prevedeva un 63


serbatoio di riempimento A, in comunicazione, attraverso una traversa, con i longheroni del telaio Q. L’acqua defluiva attraverso il serbatoio di accumulo C, con tubi interni per diminuire ancora la sua temperatura, dopo essere stata già raffreddata nei longheroni, investiti dal vento di marcia, e dal radiatore a tubo alettato.

Fig. 5.9 Schema dell’impianto di raffreddamento della Type 16.

Il più efficace raffreddamento dell’acqua, eseguito nel telaio, nel serbatoio e nei due radiatori, riduceva il consumo a ‘soli’ 15 l/100 km; la scorta d’acqua di 40 l era sufficiente per circa 250 km. La gamma dei nuovi modelli era numerata dal Type 14 al 20, in sostituzione di quelli precedenti numerati da 7 a 13. Per la prima volta, le coperture di gomma piena potevano essere sostituite, a richiesta, da quelle pneumatiche Michelin. La Tipo 16 del 1899, in fig. 5.10, permette di visualizzare il progresso compiuto. Le ruote a razze di legno del tipo artiglieria, montate in questo esemplare, non devono apparire un’involuzione; esse furono un passaggio obbligato per tutti i costruttori che avevano iniziato la produzione con ruote di tipo ciclistico. Solo le ruote di legno, infatti, potevano garantire sufficiente robustezza e durata, soprattutto con la crescita costante delle prestazioni.

Fig. 5.10 Peugeot Type 16, la prima vettura concepita con il nuovo motore in linea.

La fig. 5.11 mostra il telaio di una di queste vetture. Esso prevedeva sospensioni con assali rigidi e balestre semiellittiche, freni sulla trasmissione (a pedale) e sulle ruote posteriori (a leva) per le discese e lo stazionamento, pneumatici, gruppo di lubrificazione accessibile dall’esterno, comando dello sterzo con catena. 64


La nuova posizione del motore comportava che anche il cambio e l’albero del differenziale fossero posti trasversalmente. Gli organi meccanici potevano così essere sistemati sotto il pavimento; era necessario, tuttavia, un ingranaggio conico di rinvio per la manovella di avviamento, da inserirsi all’estremità dell’albero d, sulla figura di sinistra.

Fig. 5.11 Telaio completo della Type 16.

La fig. 5.12 permette di identificare attraverso l’apertura del vano motore, il gruppo di preriscaldamento delle candele al centro, i rubinetti di spurgo delle teste ai lati, il terminale dell’albero di avviamento sulla sinistra, il carburatore sulla destra, ed il gruppo di lubrificazione in alto.

Fig. 5.12 Cofano motore posteriore della Type 16.

I rubinetti di spurgo delle teste servivano sia per lavare con benzina i cilindri, rimuovendone eventuali depositi carboniosi o lacche, che avrebbero potuto incollare i segmenti, sia per arricchire la miscela. La prima operazione era da eseguirsi dopo ogni sosta notturna, la seconda negli avviamenti a bassa temperatura. 65


Fig. 5.13 Meccanismo del cambio della Type 16.

Il cambio, disegnato in fig. 5.13, era del tipo ad ingranaggi in cascata, a treni scorrevoli, con quattro marce avanti e retromarcia; i diversi rapporti erano inseriti facendo scorrere, trasversalmente sui suoi sopporti, l’albero d’uscita, con un comando di tipo sequenziale. La leva di comando aveva sei tacche; quella più avanti era per la retromarcia, la seconda per il folle, le successive per le marce avanti, in ordine crescente.

Fig. 5.14 Berlina Peugeot Type 28.

Sempre nel 1899 nacque un’importante variante del motore bicilindrico orizzontale, con la cilindrata ridotta a 1.056 cm3 e potenza da 3 a 5 CV; il nuovo motore fu istallato in una vettura utilitaria, la Tipo 26, che fu prodotta in 400 esemplari. Su di essa si poteva osservare la prima applicazione del volante, in luogo del consueto manubrio a impugnature verticali.

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Gli anni successivi furono caratterizzati da scarse novità tecniche; la gamma fu, tuttavia, arricchita di nuove carrozzerie, come la Berlina Type 28 (fig. 5.14) e la Phaetonnette Type 33 (fig. 5.15). Fu in seguito introdotta una nuova famiglia di motori che, disponendo anche di cilindrate elevate, permise di conquistare nuove fasce di mercato. La gamma del 1902 comprendeva i seguenti motori: • Tipo L, monocilindrico da 94 mm di alesaggio e corsa (652 cm3), con una potenza di 5 HP; • Tipo K, monocilindrico da 102 mm di alesaggio e corsa (833 cm3), con una potenza di 6,5 HP; • Tipi J e JR, bicilindrici in due versioni: da 94 mm di alesaggio e corsa (1.304 cm3), con una potenza di 8 CV e da 105 mm di alesaggio e 94 mm di corsa (1.627 cm3); • Tipi C e D, a quattro cilindri in due versioni: a corsa lunga da 85 mm di alesaggio e 90 mm di corsa (2.042 cm3), con una potenza di circa 10 CV e quadro da 105 mm di alesaggio e corsa (3.635 cm3) con una potenza di 18 CV. Si noti la comparsa di motori a quattro cilindri, similmente a quanto accadde presso quasi tutti i costruttori. La prima automobile, cui furono applicati motori di questa generazione, fu la Type 36 del 1901 (fig. 5.16), uno spider, che si distingueva dalle vetture precedenti per la nuova forma del cofano, adottata anche da altre vetture francesi del tempo. Caratteristica comune dei nuovi motori (fig. 5.17) fu quella di avere i cilindri verticali e l’albero a gomiti longitudinale e di essere disposti nella parte anteriore del telaio, davanti all’abitacolo, con notevole vantaggio per la riduzione di altezza del veicolo. Testa e cilindro erano integrali; nei motori a quattro cilindri, esistevano due blocchi con canne gemellate, ridotti a uno nei motori bicilindrici.

Fig. 5.15 Phaetonnette Peugeot Type 33.

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Fig. 5.16 Spider Peugeot Type 36.

Le valvole erano entrambe comandate meccanicamente da un asse a camme posto nel basamento ed erano istallate in posizione laterale, con il fungo disposto verso l’alto; la camera di combustione si sviluppava pertanto a lato del cilindro. L’accensione a punto caldo fu abbandonata in favore di un sistema elettrico.

Fig. 5.17 Il motore K della Peugeot Type 36

Le vetture con il motore a quattro cilindri (la Type 39 seguita, l’anno successivo, dalla Type 42, in fig. 5.18) avevano invece il muso piatto, caratterizzato dall’applicazione di un radiatore a nido d’ape, più efficace di quello a serpentina. 68


Fig. 5.18 Phaeton Peugeot Type 42

La tabella sotto riportata fornisce un’immagine delle dimensioni industriali dei costruttori automobilistici tedeschi e francesi e rende evidente il peso di questi ultimi nel periodo esaminato. PL fu la prima in Europa a produrre piÚ di mille automobili all’anno dal 1902. Seguiva Peugeot con 773 automobili prodotte nel 1903, di cui 34% con motori monocilindrici, 18% con motori bicilindrici, 48% con motori a quattro cilindri, indicando, anche in questo caso, la maggior importanza nel mercato delle automobili di lusso.

Anno 1894 1895 1896 1897 1898 1899 1900 1901 1902 1903

Produzione automobilistica dei primi grandi costruttori Benz Daimler PL Peugeot 67 1 41 40 135 8 75 72 181 24 107 92 256 26 239 54 434 57 331 156 572 108 467 323 603 96 639 500 385 144 727 456 226 197 1078 637 173 232 1039 773

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Fig. 5.19 Bébé Peugeot Type 69.

Nonostante questa tendenza, nel 1905 fu presentata la Type 69 (fig. 5.19), soprannominata dal pubblico Bébé Peugeot per le sue ridotte dimensioni (lunghezza 2.700 mm): la prima vera utilitaria nella storia dell’automobile, disponibile con un'unica carrozzeria a due posti. La Tipo 69 adottò per la prima volta la scritta Peugeot sul radiatore, in modo distinguersi meglio dalla Lion Peugeot, una piccola azienda automobilistica concorrente, diretta dai nipoti di Armand Peugeot, Robert, Pierre e Jules Peugeot. La Type 69 montava un motore monocilindrico verticale, della cilindrata di 652 cm³, in grado di spingere la vetturetta a una velocità massima di 44 km/h. La Bébé ebbe un discreto successo, essendo stata prodotta nel solo 1905 in circa 400 esemplari; nello stesso anno, anche Peugeot superò per la prima volta le mille unità (1.261 vetture). Tutte le automobili presentate e altre ancora sono esposte in un ambiente d’epoca nel bellissimo Museé de l’Aventure Peugeot a Sochaux in Francia. 6 - De Dion-Bouton La de Dion-Bouton non esiste più da molto tempo, tuttavia è impossibile non apprezzare il contributo da essa apportato allo sviluppo dell’industria dell’automobile in Francia e altri paesi. Il conte Jules Philippe Albert de Dion (1856 – 1946), ritratto in fig. 6.1 a sinistra, fu uno dei più eminenti personaggi della vita mondana nella Parigi della Belle Époque; da qualche tempo desideroso di dedicarsi alla fabbricazione di veicoli, si decise a questo passo nel 1881, si dice, affascinato da un giocattolo a vapore. L’ammirazione per il minuscolo motore e per la sua precisione meccanica lo spinse a entrare in contatto con il suo progettista e costruttore, il 70


tecnico autodidatta Georges Bouton (fig. 6.1, a destra). Bouton (1847 – 1938) era l’opposto del futuro socio: di carattere riservato, portato all’analisi e alla risoluzione dei problemi, era particolarmente dotato per la meccanica. Il suo piccolo negozio di giocattoli per adulti era diretta dal cognato, Charles Armand Trépardoux.

Fig. 6.1 Jules Philippe Albert de Dion e Georges Bouton.

Dall’incontro fra i tre personaggi, nacque la decisione di fondare un’azienda per la costruzione di automobili. La ditta prese il nome di de Dion, Bouton & Trépardoux. Le azioni furono attribuite in parti uguali: un terzo a Bouton per le sue idee e competenze, un terzo ciascuno agli altri due soci per il capitale apportato. Esordì, come anni dopo Peugeot, con la produzione di veicoli a vapore, reputati, in quel momento, tecnicamente superiori.

Fig. 6.2 Quadriciclo De Dion-Bouton a vapore del 1883.

Nel 1883 furono realizzati un triciclo e il quadriciclo, rappresentato in fig. 6.2. Come pochi altri veicoli, essi avevano le ruote sterzanti sull’asse posteriore e quelle motrici su quello anteriore: infatti, il motore doveva essere vicino all’asse propulsore che, tuttavia, era difficile da sterzare e la caldaia doveva stare di fronte al guidatore perché questi potesse accudire al focolare con facilità. 71


Nonostante le limitazioni di manovrabilità, le prime competizioni agonistiche per veicoli stradali, tra il 1887 e il 1891, furono sempre vinte dalle automobili a vapore de Dion, Bouton & Trépardoux. Queste gare comportavano percorsi di poche decine di chilometri e vincere significava riuscire a giungere al traguardo con il mezzo ancora funzionante. La già citata Parigi Rouen del 1894 fu la prima corsa in cui fu inaugurata la consuetudine di assegnare premi solo ai primi arrivati. A questa gara parteciparono molte automobili, costruite con motori che utilizzavano le tre tecnologie allora disponibili: combustione interna, vapore ed elettricità.

Fig. 6.3 Veicolo a vapore De Dion-Bouton alla corsa Parigi Rouen del 1894.

La de Dion, Bouton & Trépardoux partecipò con un trattore a vapore (si veda la fig. 6.3), trainante un calesse, arrivando prima al traguardo; il trattore era condotto da un pilota ed un fuochista. Tuttavia, il regolamento, non considerato con sufficiente attenzione, prescriveva che una sola persona dovesse essere impegnata nella condotta del veicolo. Per questa inadempienza, il primo arrivato fu squalificato, lasciando la vittoria ex aequo a Panhard & Levassor e Peugeot, come anticipato. La sconfitta indusse De Dion a valutare attentamente l’inferiorità concettuale del motore a vapore: non poteva proporsi, come frutto del progresso, un mezzo di trasporto dalla condotta più complicata di una carrozza a cavalli. Decise di sciogliere la società nel 1894, dando origine alla de Dion-Bouton & Cie., che si propose di produrre solo automobili con motore a scoppio. Già nello stesso anno, fu realizzato il primo motore: un monocilindrico, raffreddato ad aria, che generava 0,75 CV a 1.500 giri/min. Il progetto fu eseguito anche in questo caso da Bouton. Parallelamente al motore, si procedette allo sviluppo del veicolo; l’obiettivo dei soci era il contenimento del prezzo, rendendolo il più possibile compatibile con le disponibilità dei potenziali clienti; per questo si pensò a un triciclo monoposto. Il triciclo, lanciato nel 1896, fu ben accolto e il successo di questo tipo di veicolo dilagò anche all’estero. I costruttori di tricicli di questo tipo si contavano numerosi. Nel nostro paese, ad esempio, esistevano Prinetti & Stucchi e Edoardo Bianchi; il secondo, già affermato costruttore di biciclette, costruì un triciclo simile, motorizzandolo con un’unità De DionBouton; questo prodotto segnò l’ingresso della Bianchi fra i costruttori di automobili e motociclette. 72


Fig. 6.4 Triciclo De Dion-Bouton del 1896.

Il triciclo de Dion-Bouton era affidabile grazie alla sua estrema semplicità. Il telaio, in tubi d’acciaio stirati e brasati, era derivato dalle biciclette: mancavano le sospensioni ma, per contro, le coperture pneumatiche Michelin, impiegabili grazie al peso contenuto in 102 kg, garantivano un certo assorbimento delle asperità stradali. In fig. 6.4 si può vedere uno di questi veicoli, nel quale notiamo la forcella rinforzata e il motore monocilindrico raffreddato ad aria che comandava, con un semplice ingranaggio, l’assale posteriore. Il recipiente triangolare davanti al motore era il serbatoio-carburatore, quello sotto la canna, conteneva l’impianto elettrico. Il pilota, come può vedersi dalla fig. 6.5, aveva a disposizione otto comandi: l’acceleratore a mano, la regolazione della dosatura, i freni sulla ruota anteriore e sulla trasmissione, l’interruttore per l’accensione, il rubinetto di compressione, il manubrio ed i pedali; non erano previsti né frizione né cambio. L’avviamento del motore, sempre collegato al veicolo, avveniva pedalando; lo sforzo era alleviato con l’apertura del rubinetto di compressione che agevolava la rotazione del motore. Ad avviamento avvenuto, questo era chiuso perché il motore potesse erogare tutta la sua potenza; a questo punto, ci si poteva riposare, grazie alla presenza di una ruota libera, salvo aiutare ancora il motore nelle salite più ripide. Per arrestare il veicolo, era necessario spegnere il motore, agendo contemporaneamente sui freni. Il motore era realizzato con grande semplicità, come può vedersi dalla fig. 6.6: una fusione in ghisa alettata costituiva il monoblocco con testa integrale, in cui una protuberanza laterale contenente la camera di combustione. La valvola di aspirazione era automatica, aperta dalla depressione creata dal motore, mentre quella di scarico era comandata da una camma, posta in rotazione mediante un ingranaggio. 73


Fig. 6.5 Schema dei comandi del triciclo De Dion-Bouton.

L’accensione era già elettrica a ruttore; il contatto era comandato da una seconda camma, sullo stesso albero usato per aprire la valvola di scarico. L’energia era fornita da una pila a secco, che doveva essere sostituita quando scarica; tutto l’impianto elettrico, salvo il ruttore, era contenuto nella cassettina mostrata nella figura precedente.

Fig. 6.6 Schema del motore, dell’accensione e del carburatore.

Il carburatore a superficie era integrato nel serbatoio della benzina. La miscela era formata facendo circolare i gas di scarico nel serbatoio, attraverso il condotto A, e mediante la paratia L, che costringeva l’aria a lambire la superficie del liquido. Si noti lo scarico silenziato dalla marmitta B, posta in derivazione, rispetto all’uscita attraverso il serbatoio. Erano disponibili due regolazioni, una sulla portata della miscela e una sulla depressione nel serbatoio-carburatore, per ridurre l’eccessivo arricchimento della miscela a motore caldo. L’avviamento a freddo prevedeva l’introduzione di qualche goccia di benzina direttamente nel cilindro, tramite il rubinetto di decompressione visibile nella figura precedente. 74


Il prezzo di vendita era inferiore alla metà di quello delle automobili più economiche; il successo fu tale che alcuni costruttori costruirono kit per la trasformazione a quattro ruote, come quello della Clement (fig. 6.7 in alto), con il quale si poteva aggiungere un sedile per il passeggero. Altre elaborazioni prevedevano rimorchi con sedile, da agganciarsi al triciclo (fig. 6.7 in basso).

Fig. 6.7 Alcune trasformazioni disponibili per i tricicli.

Il motore aveva, nella sua applicazione iniziale, una cilindrata di 185 cm3 e forniva una potenza di 1,25 CV. La potenza fu aumentata a 1,75 CV nel 1897 e raggiunse 2,75 CV nell’ultima versione. I modelli da corsa raggiungevano 8 CV. L’ultima generazione di tricicli era caratterizzata da veicoli più pesanti, dotati di parafanghi e cambio di velocità. La notevole potenza specifica dei motori de Dion-Bouton era dovuta all’elevata velocità di rotazione raggiunta, di circa 1.500 giri/min. La straordinaria affidabilità del mezzo fu documentata dall’esito della corsa Parigi Marsiglia Parigi, di circa 1.700 km, nella quale si allinearono alla partenza ben 32 concorrenti: 24 automobili con motore a scoppio, 5 tricicli De Dion-Bouton e tre automobili a vapore. Fra i 14 arrivati spiccavano 3 de Dion-Bouton, che compirono l’impresa in dieci giorni, alla velocità media di 23 km/h. Il contributo della de Dion-Bouton allo sviluppo della motorizzazione non si limitò alla creazione di un veicolo a motore alla portata di molti clienti (furono prodotte diverse migliaia di tricicli), ma fu particolarmente rilevante per l’aver fornito motori a molti concorrenti potenziali, permettendo così la nascita di nuove imprese. I modelli motorizzati De DionBouton furono più di 150; fra i marchi più familiari, si ricordano la già citata Bianchi, in Italia, e la Renault, in Francia, che cessò di utilizzarli solo nel 1904. Nel 1900, de Dion-Bouton si collocava fra i maggiori costruttori mondiali di automobili, con 400 unità annue. Tuttavia, il totale delle automobili concorrenti dotate di motore De DionBouton era alquanto superiore. 75


Fig. 6.8 La Type D, Petite Voiture, del 1900.

Nel 1899, la de Dion-Bouton pensò di realizzare una vetturetta del tipo vis à vis, illustrata in fig. 6.8. Essa ereditò l’indistruttibile motore del triciclo, impreziosito, tuttavia, da alcune ricercatezze, indirizzate a renderla confortevole e semplice da guidare. La Type D, familiarmente petite voiture, ricevette un telaio realizzato con tecnica ciclistica, illustrato in fig. 6.9. Le balestre erano a ¾ di ellisse; per l’assale posteriore le due mezze balestre superiori erano incastrate al telaio, in prolungamento ai longheroni; per l’assale anteriore, erano unite in un sol elemento incastrato alla seconda traversa. Con queste molle, si ottennero sospensioni molto più flessibili e confortevoli che con le consuete balestre semiellittiche.

Fig. 6.9 Il telaio della Type D.

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Il motore era sistemato sotto il sedile di guida; accanto erano disposti il cambio a due velocità e il differenziale. La sospensione posteriore brevettata prevedeva l’insieme di cambio e differenziale montato rigidamente sul telaio, collegato all’assale attraverso due semiassi. L’assale assumeva la caratteristica forma ricurva, per compatibilità con l’ingombro del motopropulsore. Questa sospensione posteriore fu applicata, a brevetti scaduti, da numerosi costruttori, ancora in tempi recenti. Furono introdotti il raffreddamento ad acqua e un carburatore a getto. Il cambio aveva la peculiarità di essere semiautomatico, evitando l’uso della frizione. Come si vede nello schema della fig. 6.10, in alto, il moto era raccolto da due ingranaggi diversi. Essi potevano essere resi solidali all’albero di uscita (pignone P) mediante innesti ad attrito, realizzati con ceppi A’, come mostrato nella sezione accanto. L’espansione dei ceppi era attuata con viti, a loro volta poste in rotazione dallo spostamento della cremagliera K. In fig. 6.11 possiamo notare un semiasse, che introduceva per la prima volta i giunti bipodi, simili a quelli ancora oggi applicati. La Type D, raggiunse un rapido successo, con una produzione di 1.500 esemplari fino al 1902. Con l’avveniristico cambio, era possibile comandare con una sola manopola sul piantone di guida, lo spunto e la selezione delle marce. Con una cilindrata di 402 cm3, il motore erogava 3,75 CV. Si può osservare, ancora nella fig. 6.9, come il volante fosse, in realtà, il comando del cambio e la sterzatura delle ruote avvenisse, invece, con il manubrio soprastante.

Fig. 6.10 Cambio della Type D.

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Fig. 6.11 Semiasse con giunti bipodi della Type D.

Vediamo, in fig. 6.12 una di queste vetturette costruita nel 1900 e completata con una ricercata carrozzeria chiusa, del tipo coupé docteur. Seguirono le Type E, G, I, J, K e V. La produzione totale della serie ammontò a quasi 3.000 esemplari. Si aggiunsero, nel 1903, altri modelli con motore a due cilindri (Type S con cilindrata di 1.728 cm3) e, nel 1904, con motore a quattro cilindri (Type AD con cilindrata di 2.545 cm3); ci si soffermerà, tuttavia, solo su quelli con motore monocilindrico, più consoni alla vocazione che portò questo marchio al successo. Particolarmente importante fra essi fu la Populaire. La Populaire era ancora dotata di telaio ciclistico, con ruote a raggi; il motore era raffreddato ad acqua, posto nella parte anteriore, e aveva il volante di guida, come può vedersi anche nelle fig. 6.13. Si può anche costatare la modernizzazione del motore, con accensione a magnete (fig. 6.14) e sistema di lubrificazione in pressione. La valvola di aspirazione, sempre automatica, mostrava alcuni punti deboli. Per evitare perdite di pompaggio troppo elevate, la molla di richiamo doveva essere flessibile; questo comportava un’imperfetta tenuta, con conseguenti incrostazioni del seggio, da rimuoversi periodicamente. L’operazione era però semplificata, avendo fissato valvola e seggio con un accoppiamento a baionetta, facilmente smontabile, come mostrato in fig. 6.15.

Fig. 6.12 De Dion-Bouton Type D Coupé Docteur del 1900.

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Fig. 6.13 De Dion-Bouton Populaire del 1900.

Fig. 6.14 De Dion-Bouton Populaire: particolare del motore monocilindrico.

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Fig. 6.15 Gruppo della valvola di aspirazione.

In questa vettura, della fine del 1903, e nelle successive, il cambio fu modificato: furono introdotti la retromarcia e un piĂš convenzionale comando del tipo a leva sul piantone. Il cambio formava un blocco unico con la riduzione finale ed era collegato rigidamente alla carrozzeria, come può osservarsi nella fig. 6.16. Sono visibili l’albero di ingresso del moto, collegato al motore mediante una trasmissione cardanica, e la barra di comando per cambiare marcia.

Fig. 6.16 De Dion-Bouton Populaire: particolare del gruppo cambio differenziale.

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Il cambio, mostrato aperto in fig. 6.17, funzionava in modo simile al precedente salvo l’aggiunta della retromarcia.

Fig. 6.17 Cambio a due marce della De Dion-Bouton Populaire.

Fig. 6.18 Motore del 1904, con valvole comandate da un’unica camma.

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In seguito il motore fu modificato, introducendo il comando a camma anche per la valvola d’aspirazione. L’anelito al risparmio portò ad adottare tuttavia una sola camma, come mostrato in fig. 6.18. Le automobili De Dion-Bouton degli anni successivi diventarono sempre più convenzionali, crescendo di dimensioni e abbandonando la formula economica, che aveva portato il marchio al successo. Probabilmente, questa scelta intempestiva rese la de DionBouton più vulnerabile alla crisi del 1929. La produzione automobilistica si interruppe nel 1933; a essa seguì ancora, per circa venti anni, quella di autobus urbani, veicoli per la pulizia delle strade e automotrici ferroviarie. Chi desiderasse ammirare di persona molte automobili de Dion-Bouton può visitare la Cité de l’Automobile a Mulhouse e il Museo Malartre a Lione, ambedue in Francia. 7 - Renault Louis Renault (1877 – 1944), ritratto in fig. 7.1 in tenuta da laboratorio all’età di vent’anni, nacque a Parigi, ultimo dei cinque figli di Alfred Renault, proprietario di una piccola azienda per la produzione di bottoni e tessuti, alla cui direzione erano associati i figli maggiori Fernand e Marcel. La famiglia, pur abitando a Parigi, possedeva una tenuta a Billancourt, in cui sorse, anni dopo, la prima sede delle officine Renault.

Fig. 7.1 Louis Renault.

Louis non mostrava grande interesse per gli studi scolastici ma era attratto dalla sperimentazione meccanica. Fra i numerosi aneddoti sulla sua persona, uno narra che, dopo aver marinato la scuola, si fece trasportare clandestinamente su una locomotiva con l’unico proposito di spiare dal tender il funzionamento del motore a vapore. La visita all’esposizione universale di Parigi del 1889, in cui furono esibite le prime automobili francesi e tedesche, presentò a Louis l’occasione per incontrare il già citato Léon Serpollet che gli fece provare una delle sue automobili a vapore, suscitando in lui un particolare interesse per questo settore della tecnica. Dopo la morte del padre nel 1892, Fernand e Marcel presero su di loro la responsabilità dell’educazione di Louis, dimostrandosi con lui particolarmente indulgenti, tanto da permettergli di abbandonare la scuola per trascorrere le sue giornate in un laboratorio, per lui allestito a Billancourt. In questa sede Louis sviluppò le sue doti innate di progettista meccanico, costruendo prototipi di caldaie a vapore a riscaldamento rapido, per cui ottenne apprezzamenti e brevetti. Questi primi successi lo fecero assumere come apprendista progettista, alla DelaunayBelleville, un’importante azienda costruttrice del settore ma, preferendo l’indipendenza, riprese le attività a Billancourt, dedicando, da quel momento, le sue attenzioni a un triciclo de 82


Dion-Bouton regalatogli dai compiacenti fratelli. Probabilmente, il triciclo trascorse più tempo smontato per analisi nel laboratorio, che funzionante su strada. Pur apprezzandone la facilità d’impiego, ne criticava la scomodità, per la mancanza di cambio e frizione, che costringeva il pilota a un frequente uso dei pedali, e la presenza della catena di trasmissione, oggetto di frequenti rotture e causa di pericoli per il guidatore. Con queste convinzioni di base, Louis Renault sviluppò il progetto della sua automobile in pochi mesi nel 1898. Si trattava una vetturetta a quattro ruote, con motore monocilindrico De Dion-Bouton, telaio rettangolare in tubi e ruote a raggi con coperture pneumatiche. Il motore era sistemato nella parte anteriore. Sotto il pavimento, era istallata la trasmissione, comprendente la frizione a cono, un cambio innovativo a tre rapporti e retromarcia e un albero di trasmissione a giunti cardanici, che evitava le tanto esecrate catene presenti nelle altre automobili. La fig. 7.2 mostra il telaio visto in pianta. Si può osservare la struttura realizzata con spezzoni tubolari d’acciaio, uniti, mediante saldo-brasatura, da gusci di ghisa. Le sospensioni erano realizzate mediante balestre ellittiche, per aumentarne la flessibilità. La guida era diretta, con una leva di collegamento fra il manubrio a manopole verticali e il fuso a snodo della ruota destra.

Fig. 7.2 Schema dell’autotelaio della Renault Type A.

Le caratteristiche del cambio Renault possono essere rilevate dallo schizzo autografo riprodotto in fig. 7.3; esso prevedeva un albero e due contralberi montati su sopporti eccentrici.

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Fig. 7.3 Schizzo di Louis Renault per un cambio con presa diretta.

Ruotando i supporti due contralberi, era possibile accostarli a turno all’albero centrale, ottenendo i rapporti di prima e seconda. Con i contralberi allontanati dall’albero centrale, era possibile unirne i due spezzoni con un innesto a denti, realizzando la terza marcia in presa diretta. Un rinvio a ruote coniche permetteva di ottenere la retromarcia. Accostando con un pedale l’albero del pignone ad asse verticale, era possibile separare l’innesto a denti che collegava le due estremità del contralbero superiore, ottenendo l’inversione. Questa disposizione, unica nel suo genere, offriva il vantaggio di non porre in rotazione più ruote di quelle strettamente necessarie alla trasmissione con conseguente riduzione delle perdite meccaniche. Albero di trasmissione cardanico, presa diretta e retromarcia rimasero, per alcuni anni, un’unicità delle automobili Renault, garantita da un’efficace protezione brevettale. Per un certo periodo, de Dion-Bouton e altri pagarono a Renault una royalty di un franco per vettura, per avere il permesso d’impiegare dispositivi simili. La presentazione ufficiale, se così può essere considerata, avvenne durante la festa di Natale del 1898, davanti ad amici e conoscenti occasionali. L’interesse destato portando a spasso i convenuti per la collina di Montmartre portò Louis al centro della festa; Louis decise di accettare dodici ordini, senza sapere ancora come produrre l’automobile e aver determinato il suo prezzo di vendita. Dopo aver convinto anche i fratelli con alcuni giri di prova, questi decisero di trasformare la cascina di Billancourt in fabbrica di automobili, la Renault Frères, fondata nel febbraio del 1899, con effetto retrodatato al 1898, per comprendere nel capitale sociale progetti, brevetti e prototipo. Louis fu assunto come direttore tecnico con un mensile di 300 Franchi e un contratto di dieci anni. Il suo compito comprendeva la progettazione, la produzione e l’assistenza alle automobili vendute. Solo nel 1922 la società mutò la ragione in Société Anonime des Usines Renault, sotto la direzione di Louis Renault.

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Fig. 7.4 La prima Renault: la Type A del 1899.

L’automobile definitiva in fig. 7.4, la Type A, che uscÏ nel giugno del 1899, era assimilabile, per la ricercatezza delle soluzioni tecniche, alla Petite Voiture di de Dion-Bouton e, nonostante le dimensioni minime, possedeva tutti i requisiti indispensabili per essere considerata una vera automobile.

Fig. 7.5 Vista posteriore della Renault Type A.

Denunciava 1.100 mm di passo, una carreggiata anteriore di 850 mm ed una posteriore di 930 mm; la lunghezza, fuori tutto, era di 1.900 mm. Le ruote anteriori, con copertura 85


pneumatica, avevano una dimensione di 650 X 65, quelle posteriori, di 750 X 65. Il peso a vuoto era contenuto in 250 kg. La leziosa carrozzeria di legno tipo Tilbury era caratterizzata dalle colonnine tornite che formavano lo schienale dell’unico sedile; sotto di esso, era disponibile un vano di trasporto, coperto da una tendina di pelle; i parafanghi erano ottenuti da una lamina di compensato curvata a vapore. Solo il coperchio del cofano anteriore era realizzato con una lamiera metallica semplicemente curvata. Sul cruscotto, erano applicate due lanterne a candela ed era istallato il bocchettone del serbatoio della benzina.

Fig. 7.6 Schema del cambio della Renault Type A.

La vista posteriore, in fig. 7.5, mostra due oliatori, posti sulla plancia, e la cassetta per il contenimento delle batterie e del rocchetto di accensione. Il motore monocilindrico della Type A era fornito dalla de Dion-Bouton, lo stesso del suo triciclo; in quel momento, aveva una cilindrata di 270 cm3 (66 mm di alesaggio e 70 mm di corsa) ed erogava 1,75 CV a 1.500 giri/min con raffreddamento ad aria, carburatore a superficie integrato nel serbatoio e accensione elettrica alimentata da pile a secco. Il cambio definitivo è rappresentato nel disegno di fig. 7.6; si osserva la perfetta aderenza allo schizzo iniziale, salvo la rappresentazione capovolta. La corona del differenziale aveva dimensioni ragguardevoli, per realizzare un rapporto di trasmissione adeguato alla velocità massima di soli 32 km/h. Si nota l’aggiunta di un freno a nastro sull’albero della trasmissione e la particolare leva di comando. 86


Fig. 7.7 Autotelaio della Renault Type A.

La fotografia del telaio in fig. 7.7 pone in evidenza l’insolito comando a rotazione del cambio e la manovella per l’avviamento manuale del motore, che poteva essere effettuato senza scendere dall’automobile. I comandi sul piantone sono l’acceleratore, la dosatura della miscela e l’anticipo. Tre pedali sul pavimento comandavano la frizione, il freno e la retromarcia.

Fig. 7.8 Renault Type C carrozzata da Labourdette del 1900.

Quasi contemporaneamente fu realizzata una versione chiusa, la Type B (simile alla Type C in fig. 7.8). Questa carrozzeria di Labourdette è ritenuta la prima realizzata al mondo con guida interna. 87


Fig. 7.9 Renault Type C del 1900.

Si deve notare che l’importo dello stipendio annuo di Louis Renault era appena sufficiente all’acquisto di una Type A, il cui prezzo fu fissato in 3.500 Franchi, circa il doppio di quello di un triciclo de Dion-Bouton. La Type B, in vendita a 4.500 Franchi, era ancor meno raggiungibile. Nel 1900 nacque la Type C, fotografata in fig. 7.9; era caratterizzata da un motore di 450 3 cm , con potenza di 2,75 CV raffreddato ad acqua; si distingueva dalle precedenti per i radiatori a tubi alettati posti ai fianchi del cofano. Maggiori dimensioni consentirono l’aggiunta di due posti di fortuna. Anche questa serie fu realizzata nella versione a guida interna, fotografata in fig. 7.8. In totale, furono prodotti 71 esemplari nel 1899 e 179 nel 1900. A quel tempo nell’officina di Billancourt di 4.600 m2, lavoravano 110 operai. Nel 1905, l’officina fu ampliata a 26.000 m2, con 800 operai; la produzione di quell’anno superò 1.100 unità. La Type D del 1901 aveva il passo allungato a 1.650 mm e il motore potenziato a 4 CV. Fu la prima Renault a montare il comando dello sterzo a volante. Il miglioramento delle prestazioni fu ottenuto con un nuovo carburatore a getto, riprodotto in fig. 7.10.

Fig. 7.10 Carburatore a getto brevettato Renault.

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É necessario ricordare che i carburatori a getto di quegli anni, pur apprezzati per la maggiore facilità di avviamento a freddo, il minore ingombro e il minor rischio d’incendi, presentavano un’intrinseca tendenza all’arricchimento della miscela a bassa potenza. Infatti, il getto lasciava passare tanto più combustibile, quanto maggiore era la depressione del collettore; a parte l’effetto negativo sul consumo, potevano verificarsi spegnimenti del motore per ingolfamento. Furono escogitati vari dispositivi manuali di correzione. Il dispositivo brevettato da Renault era invece automatico: l’aria aspirata all’esterno attraverso i fori E, agiva sul disco mobile V; l’azione della depressione, contrastata dalla molla R, faceva scendere tale disco, in misura tanto maggiore quanto più questa era elevata. La discesa del disco V scopriva gradualmente le luci E’, opportunamente profilate, che, introducendo altra aria nella camera C, contrastavano la tendenza all’arricchimento.

Fig. 7.11 Renault Type D del 1901.

Anche in quest’automobile (fig. 7.11) vi erano quattro posti a fronte marcia. L’aumento delle prestazioni comportò la rinuncia alle ruote a raggi, in favore di quelle in legno, del tipo artiglieria, notevolmente più robuste e introdusse un problema non presente sui modelli precedenti: le balestre ellittiche si dimostravano troppo flessibili per l’accresciuta forza motrice; per questo furono introdotti dei bracci longitudinali di ancoraggio al telaio per limitare le deformazioni longitudinali (fig. 7.12).

Fig. 7.12 Renault Type D; particolare della sospensione posteriore.

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Louis Renault promuoveva le vendite in prima persona, con la partecipazione diretta a ogni competizione sportiva; numerose furono le vittorie ottenute: già nell’agosto del 1899 vinse la Parigi Ostenda e, nello stesso anno, la Parigi Rambouillet Parigi, dando maggiore visibilità al marchio anche in campo internazionale. La Type E fu la più potente della famiglia delle vetture con motore monocilindrico, raggiungendo 9 CV; dotata di un telaio ribassato con balestre semiellittiche, fu condotta da Louis Renault (fig. 7.13) alla vittoria della Parigi Bordeaux del 1901.

Fig. 7.13 Louis Renault alla guida della Type E da corsa del 1901.

L’impiego dei motori de Dion-Bouton continuò fino a questa data. Tuttavia, parallelamente, fu sviluppata una nuova gamma modulare costruita internamente; essa permetteva di realizzare diverse unità: un motore a un cilindro da 8 CV, a due da 12 e 16 CV ed a quattro da 40 CV. I motori a quattro cilindri aprirono alla Renault l’accesso al mercato delle automobili di lusso. Nel 1904, questi nuovi motori furono ammodernati con valvole comandate anche per l’aspirazione e radiatori a nido d’ape. Nello stesso anno, furono abbandonati i telai tubolari sostituendoli con altri in lamiera stampata, diventati ormai consueti. Le vetture con motore a due cilindri, soprannominate deux pattes, diventarono popolari; la Type AG (fig. 7.14) nella sua versione landaulet fu adottata nel 1905 dalla Société des Automobiles de Place, la principale compagnia di taxi di Parigi. Tra il 1905 e il 1908 furono consegnati 2.750 veicoli; anche Londra ne acquistò 1.100 nel 1907. Il modello seguente, il Type AG1 del 1908, fu il noto taxi della Marna; 1.300 di questi veicoli, requisiti dal Generale Gallieni nel 1914, trasferirono, in un sol giorno, 6.000 uomini da Parigi al campo di battaglia della Marna, per arrestare l’avanzata dell’esercito tedesco. Fu la prima volta che un’automobile fu impiegata per scopi militari. 90


Fig. 7.14 Renault Type AG Fiacre Automobile del 1905.

Fig. 7.15 Renault Type XA Phaeton del 1904.

Le versioni piĂš grandi della Type AG, la Type XA del 1904 (passo 2.720 mm), in fig. 7.15, e la Type XB (in due versioni con passo 2.900 e 3.060 mm), con motore a quattro cilindri, presentavano le stesse caratteristiche tecniche e stilistiche, che connoteranno le Renault degli anni seguenti, caratterizzate dalla forma a cuneo del cofano, con il radiatore posto fra cofano e parafiamma. 91


Fig. 7.16 Motore della Renault Type XA.

Il motore seguiva la tecnica del tempo: un basamento, con due blocchi gemellati a testa integrale (fig. 7.16); le valvole comandate erano allineate sullo stesso lato, mentre sulla parte anteriore era calettato il magnete dell’accensione.

Fig. 7.17 Schema dell’impianto di raffreddamento a circolazione naturale con volano – ventilatore.

Caratteristica peculiare di questo motore era il volano – ventilatore, che mostrava una palettatura molto elaborata. La sua funzione è chiarita dallo schema dell’impianto di raffreddamento, in fig. 7.17. Il radiatore era più alto del motore, in maniera da sfruttare una circolazione naturale dell’acqua. Il volano aspirava l’aria dal radiatore espellendola sotto il pavimento della vettura. L’aria era costretta ad attraversare due volte la massa radiante, una prima volta dall’esterno, attraverso le zone triangolari J, verso la parte posteriore del radiatore, una seconda, dalla parte posteriore, verso l’interno del cofano. Quest’accorgimento efficace poneva il ridotto consumo d’acqua fra le prerogative positive delle vetture Renault. Una seconda caratteristica brevettata era data dalla lubrificazione a tasche. Un problema dei motori a quattro cilindri in linea con lubrificazione a sbattimento, occorreva in 92


salite o discese impervie, perché uno dei sopporti dell’albero a gomiti veniva privato di lubrificante. Alcuni risolsero il problema iniettando il lubrificante con pompe, pratica che più tardi si generalizzò; Renault preferì farne a meno, per non complicare inutilmente il motore. La soluzione escogitata prevedeva che l’olio fosse proiettato dai gomiti dell’albero in un canale (si veda la sezione a sinistra di fig. 7.18), che riversava l’olio in tasche, che potevano rilasciarlo per qualche tempo anche se più elevate del livello nella coppa.

Fig. 7.18 Schema del sistema di lubrificazione Renault.

Fig. 7.19 Renault Type K da corsa del 1902.

Uno di questi motori a quattro cilindri, con una cilindrata di 3.770 cm3 e una potenza di 24 CV a 1.100 giri/min, fu allestito nel 1902 su una vettura da corsa, la Type K, in fig. 7.19, che, grazie al peso ridotto di soli 650 kg, poté ancora essere classificata nella categoria delle vetturette. Capace di una velocità massima di 125 km/h, risultò invincibile in molte competizioni, fra cui la Parigi Vienna dello stesso anno. Le automobili riportate nel capitolo possono essere ammirate nel Museo Renault a Parigi, visitabile solo su appuntamento. 93


8 - Duryea Le prime automobili americane apparvero con ritardo rispetto a quelle europee, a causa dell’iniziale disinteresse del mercato per il nuovo mezzo di trasporto. Infatti, ancora all’inizio del 1900, le vie di comunicazione con fondo preparato coprivano poco più di quattrocento miglia, per metà concentrate sulla strada postale New York - Boston, a quel tempo già vecchia di duecento anni. Considerando la smisurata estensione del continente e l’assenza di strade degne del nome, il cavallo e la carrozza erano gli unici mezzi di trasporto di uso pratico. Per questo, i principali fondatori dell’industria delle automobili con motore a scoppio, Oldsmobile e Ford, pur avendo svolto i loro esperimenti quasi contemporaneamente agli europei, trovarono un mercato ricettivo solo più tardi, quando ebbero sviluppato automobili particolarmente idonee alle attese del mercato; i pionieri furono seguiti da Buick, Cadillac, Chevrolet, Dodge e Chrysler, per limitare l’elenco ai marchi attivi ancor oggi. Un’altra particolarità degli Stati Uniti fu che nei primi vent’anni di vita delle automobili, quelle a vapore e quelle elettriche furono molto più apprezzate di quelle con motore a scoppio, le prime nelle campagne, le seconde nelle città; facendo riferimento ancora al 1900, le auto con motore a scoppio, raggiungevano solo il 25% del totale. In questo scenario, fece eccezione Duryea, il primo costruttore americano indipendente, di automobili con motore a scoppio, già attivo dal 1892, di cui, sfortunatamente, le informazioni disponibili sono alquanto limitate.

Fig. 8.1 Charles e John Duryea.

I fratelli Duryea (fig. 8.1), Charles (1861 – 1938) e John (1869 – 1967), detto Frank, nacquero a Peoria in Illinois. Il fratello maggiore iniziò la carriera nel 1888, come progettista presso la Owens, un costruttore di biciclette di Washington; poco più tardi, raggiunta una posizione di responsabilità, assunse alle sue dipendenze anche il fratello minore. La curiosità di Charles per la meccanica e le periodiche visite, per motivi di lavoro, all’ufficio brevetti e alle biblioteche di Washington, offrirono l’occasione per studiare i motori a scoppio e le automobili; un articolo di Scientific American sulla prima Benz, da poco presentata, lo colpì particolarmente convincendolo a tentare, insieme con il fratello, la costruzione di un’automobile propria. Nel 1892, i fratelli Duryea si spostarono a Springfield in Massachusetts, allora centro dell’industria meccanica di precisione americana; nella nuova sede, Charles rivestì il ruolo dell’imprenditore, Frank quello del progettista. Iniziarono applicando un motore a scoppio a una carrozza a cavalli, un buggy, il caratteristico calesse nero, dalle grandi ruote adatte alla marcia su terreni accidentati o 94


fangosi, ancora oggi usato dalle comunità amish. Compì il suo viaggio inaugurale, di poche centinaia di metri, il 10 settembre 1893, come documentato da un quotidiano locale. L’unico esemplare superstite è custodito alla Smithsonian Institution di Washington D.C.

Fig. 8.2 Il Buggy Duryea del 1893.

Il buggy era mosso, attraverso una trasmissione a catena, da un motore monocilindrico da 3,5 HP, disposto sotto il pavimento, con raffreddamento ad acqua e accensione elettrica a vibratore. La fig. 8.2 permette di costatare come l’applicazione del motore non avesse minimamente influito sull’architettura del veicolo, una carrozza sospesa su tre balestre ellittiche, con meccanismo di sterzo a ralla, comandato, in questo caso, da un timone. Il veicolo fu brevettato il 30 aprile 1894. Qualche anno prima, un uomo d’affari, H. H. Kohlsaat, durante un viaggio in Europa, aveva assistito alla corsa Parigi-Rouen del 1892. Pensò di organizzare un evento simile anche negli Stati Uniti; la corsa prevedeva un tracciato intorno a Chicago lungo circa 100 miglia. S’iscrissero circa cento concorrenti, ma solo sei si presentarono alla linea di partenza a causa di un’abbondante nevicata. Erano presenti la Duryea, due vetture elettriche e tre Benz. La Duryea arrivò prima, a una velocità media di circa 12 km/h. L’eco dell’impresa creò molto interesse nel nuovo prodotto, che si rese concreto nella vendita di tredici esemplari fra il 1896 e il 1898. Una seconda automobile, derivata dalla prima con alcuni perfezionamenti, fu costruita in seguito, utilizzando un motore bicilindrico orizzontale da 1,9 litri e un cambio a tre rapporti e retromarcia di tipo alquanto innovativo; esso rifletteva nella sua concezione le preoccupazioni già presenti nelle prime automobili di Benz e Daimler, riguardo alle difficoltà di manovra di un cambio a ingranaggi con frizione. È mostrata in fig. 8.3 con Charles Duryea alla guida. La fig. 8.4, tratta dal brevetto datato 1896, mostra in sezione l’automobile e il complicato meccanismo di trasmissione; il motore è coperto dalla puleggia del cambio di diametro maggiore. Il cambio era costituito da un cono di quattro pulegge a diametro digradante, cui si opponevano altrettante pulegge opportunamente dimensionate; quelle poste nella parte anteriore del veicolo erano solidali all’albero a gomiti del motore orizzontale, quelle poste nella parte posteriore comandavano l’ingranaggio che trasmetteva il movimento alle ruote. Le due pulegge di diametro minore, solidali al motore, erano impiegate per la prima e la retromarcia; altre due pulegge di diametro crescente erano dedicate alla seconda e alla terza marcia. Ovviamente, la cinghia della retromarcia era incrociata per invertire il moto. 95


Fig. 8.3 Il Buggy Duryea del 1896.

Fig. 8.4 Il brevetto dell’originale sistema di guida delle Duryea.

Un insieme di pulegge folli mobili poneva in tensione la cinghia della marcia desiderata, analogamente a quanto giĂ descritto per le automobili Daimler. 96


La parte del brevetto veramente originale, che rendeva la guida del veicolo particolarmente semplice, era l’esistenza di un’unica leva a timone, in grado di comandare contemporaneamente sterzo, cambio e acceleratore, attraverso un complicato sistema di funi. Ruotando il timone a destra e sinistra, si variava la direzione del veicolo; sollevandolo in alto o in basso, si cambiavano i rapporti; ruotando la sua impugnatura, si comandava l’acceleratore. La società fu sciolta nel 1899 a causa di divergenze sulla sua conduzione; i fratelli si separarono, pur continuando entrambi a operare nel settore; mentre Charles continuò a produrre con il marchio iniziale fino al 1917, a Reading in Pennsylvania, Frank entrò come socio nella Stevens-Duryea, un’altra fabbrica di automobili attiva fino al 1925.

Fig. 8.5 Duryea Phaeton del 1901.

Dopo la separazione, comparve la Duryea 1901, un modello ancor più perfezionato, mostrato in fig. 8.5, in cui il timone era posto fra i sedili, rendendo possibile la guida sia sul lato destro, sia sul sinistro. L’ultimo modello della casa fu la Buggyout, un triciclo molto economico che avrebbe dovuto avere grande diffusione, tuttavia mai raggiunta a causa dei prodotti più competitivi offerti da Oldsmobile e Ford. Dal 1892 al 1917, la Duryea produsse solo 650 automobili. La ridotta diffusione dei prodotti di questa marca fu causata dal non aver seguito il processo di modernizzazione del prodotto e dei sistemi di fabbricazione, messo in atto dai suoi concorrenti. 9 - Oldsmobile Il marchio Oldsmobile, confluito nel 1908 nella General Motors, ha cessato di operare nel 2004. Il suo fondatore, Ransom Eli Olds (1864 – 1950), ritratto in fig. 9.1, nacque a Cleveland in Ohio; imparò i rudimenti della meccanica dal padre, titolare di un’affermata fabbrica di motori a vapore, l’Olds & Sons, operante a Lansing in Michigan. In quest’azienda, Ransom svolse ricerche sull’applicazione ai veicoli dei motori a vapore e a scoppio, preferendo infine i secondi per la maggiore flessibilità operativa e il minore costo. 97


Fig. 9.1 Ransom Eli Olds.

Ransom realizzò la sua prima automobile a vapore nel 1890 (fig. 9.2). Il motore sviluppava 4 HP e faceva raggiungere una velocitĂ di 24 km/h. Questo primo prototipo era caratterizzato dalla carreggiata anteriore molto ridotta, per facilitare la sterzatura dell’assale, montato su una ralla.

Fig. 9.2 Oldsmobile a vapore del 1890.

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Pilota e passeggero erano seduti sopra l’asse anteriore; caldaia e motore erano sistemati sopra l’asse posteriore, integrale con l’albero a gomiti. Si notavano i freni controtendenza, sulle sole ruote anteriori. Ciò smentisce quanto solitamente riportato nei libri, che i freni anteriori siano stati inventati da Isotta Fraschini. A trent’anni Ransom subentrò nella direzione dell’azienda paterna, cui affiancò l’Olds Engine Works, con lo scopo di produrre anche motori a scoppio; la nuova impresa riuscì a espandersi, dotandosi anche di una fonderia e di un’officina meccanica completamente attrezzata per lavorazioni di precisione. Fu iniziata anche la costruzione di un’automobile, con l’obiettivo, non raggiunto, di partecipare alla già citata corsa di Chicago. L’automobile si annunciava tuttavia affidabile, tanto da suggerire a Olds di fondare nel 1897 una terza azienda, l’Olds Motor Vehicle Company, esclusivamente dedicata alla fabbricazione di automobili. Già nel primo anno ne furono vendute quattro; era, tuttavia, necessario altro capitale, per produrre quantitativi più elevati. L’Olds Motor Works, di cui Ransom era azionista e direttore generale, fu costituita a Detroit; le sue azioni furono acquistate con i proventi della vendita degli stabilimenti di Lansing. Pur continuando a fabbricare motori a scoppio per applicazioni stazionarie, proseguì l’affinamento dell’automobile, con l’obiettivo di ridurne il prezzo almeno a 600 $. Questo traguardo era molto ambizioso e il suo conseguimento spiega perché si raggiunsero in breve volumi produttivi molto elevati; 600 $ rappresentava, infatti, circa il triplo del prodotto interno lordo pro-capite negli Stati Uniti; per confronto, il prezzo della Fiat 3 ½ HP, quasi coetanea, era il decuplo dello stesso parametro riferito al nostro paese. Il marchio Oldsmobile fu creato per l’occasione. Nella fase conclusiva del progetto, nel 1901, un incendio distrusse la fabbrica, i macchinari e i disegni; fu messo in salvo uno solo dei diversi prototipi realizzati, simile alla Curved Dash poi prodotta in serie. Olds escogitò un nuovo sistema di lavoro per non ritardare l’inizio della produzione. Dopo aver smontato il prototipo superstite, alcuni collaboratori presero in consegna le diverse parti e iniziarono a cercare chi potesse replicarle in quantità soddisfacente. Diversi fornitori accettarono la proposta; alcuni di loro diventarono in seguito protagonisti di primo piano nel mondo dell’automobile americana, come Buick, Maxwell e Leland, nucleo iniziale della General Motors. Fu uno dei primi esempi di produzione completamente delocalizzata. L’assemblaggio avveniva nei locali della Fiera di Lansing, offerti in uso dalle autorità locali, ansiose di trarre vantaggio dal successo della nuova industria. Il processo presentava già le caratteristiche poi perfezionate da Henry Ford; le vetture, movimentate su assi a rotelle, ricevevano le parti in stazioni successive, con un procedimento simile al montaggio in catena. Furono prodotti 425 esemplari nel 1901 e 18.000 da quell’anno al 1907; un successo clamoroso, ancor più sorprendente se si considera che quest’automobile creò un mercato a quel momento inesistente. Si evidenziò anche la superiorità della strategia di marketing di Oldsmobile: una vettura economica, adatta a strade anche non preparate, robusta e affidabile. Il prezzo definitivo di 650 $, anche se alquanto inferiore a quello delle concorrenti, era tuttavia rimunerativo, poiché risulta che il costo di produzione, non comprensivo di ammortamenti, non eccedesse 300 $. Le dimensioni del veicolo e l’aspetto esterno, come può vedersi in fig. 9.3, erano del tutto simili a quelli dei buggy: 1.900 mm di passo, 1.420 mm di carreggiata, quasi altrettanto di altezza, con ruote da 28”. Le dimensioni la rendevano particolarmente adatta alla marcia sulle piste tracciate dai carri, senza cadere nelle rotaie. Numerose fotografie dell’epoca, come quella di fig. 9.4, evidenziano le sue doti. Un semplice telaio rettangolare, costruito con profilati di ferro, reggeva la carrozzeria di legno: in pratica una cassa per ricoprire il motore, in posizione centrale, recante una pedana

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per l’appoggio dei piedi; unico elemento decorativo era la parte anteriore ricurva (fig. 9.5), da cui prese origine il nome non ufficiale di Curved Dash.

Fig. 9.3 Oldsmobile Curved Dash del 1902.

Quello assegnatole dall’Oldsmobile era invece Runabout, vagabondo, divenuto in seguito di uso comune per designare questo tipo di automobile, popolare negli Stati Uniti.

Fig. 9.4 Un’Oldsmobile Curved Dash su una strada di campagna.

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Fig. 9.5 Vista anteriore dell’Oldsmobile Curved Dash.

Fig. 9.6 Vista Posteriore dell’Oldsmobile Curved Dash.

La sospensione era semplice e originale; la ridotta lunghezza della vettura permetteva l’applicazione di una sola balestra longitudinale per lato. Possiamo vederne le estremità nelle figg. 9.5 e 9.6: le balestre erano vincolate ai longheroni del telaio in corrispondenza del sedile di guida; le loro estremità, curvate verso il basso, erano incastrate agli assali. In questo modo, le balestre attutivano i movimenti verticali e il beccheggio. Sulla copertura del motore, era appoggiato il divanetto; dietro di esso, come appare in fig. 9.6, era posto un ripiano di trasporto che la rendeva un pick-up ante litteram. Erano comprese nel prezzo le due lampade a petrolio anteriori e quella posteriore a luce rossa. A

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richiesta, per 25 $, poteva essere montato un secondo sedile rivolto all’indietro; altri accessori a catalogo erano la capote, a 50 $, e i parafanghi, a 10 $. Una terza balestra ellittica trasversale anteriore (fig. 9.5), molto flessibile, non faceva parte della sospensione, ma costituiva il giunto elastico necessario a collegare la barra dello sterzo all’assale, soggetto a scuotimenti per effetto del fondo stradale. I due esili assali, decorati con filetti, erano rinforzati da tiranti distanziati opportunamente, per limitarne la flessione sotto l’effetto del carico.

Fig. 9.7 Motore monocilindrico con raffreddamento ad acqua.

Il motore, orizzontale sotto il pavimento, è mostrato in fig. 9.7; l’unico cilindro, rivolto all’indietro rispetto alla direzione di marcia, comandava un volano di grande diametro. Dall’albero a gomiti, derivava il comando delle valvole, con una sola camma su cui agivano due bilancieri. In prossimità della testa, sono visibili la candela e il rubinetto di decompressione per facilitare l’avviamento a manovella. Il raffreddamento era ad acqua, per mezzo del radiatore a tubi alettati, montato sotto la pedana e visibile in fig. 9.5. La lubrificazione era a sbattimento, per l’albero motore e i suoi cuscinetti, a gocciolamento, per la canna e il pistone. Il cilindro di dimensioni generose (114,3 mm di alesaggio e 152,4 di corsa) raggiungeva il volume di 1.565 cm3; la potenza dichiarata era di circa 4,5 HP a 800 giri/min, che permetteva al leggero veicolo (320 kg) di raggiungere circa 30 km/h. Dal 1904, la cilindrata fu elevata a 1931 cm3 e la potenza a 7 HP. L’alimentazione era fatta con un carburatore a getto e l’accensione era di tipo elettrico a vibratore, con batteria a secco, da sostituirsi quando esaurita. Due dettagli tecnici la distinguevano dalle concorrenti. Il primo era l’avviamento; pur di tipo manuale, come in tutte le altre automobili coeve, prevedeva la manovella, montata a fianco del sedile (fig. 9.8), collegata al motore mediante una trasmissione a catena: in questo modo la manovra poteva essere eseguita dal posto di guida con sforzo ridotto, almeno a motore caldo. A motore freddo, era necessario manovrare il rubinetto di decompressione prima di salire. Il secondo era il cambio, in fig. 9.9, posto a fianco del volano, sotto il sedile; si possono identificare, partendo dal basso della foto, corrispondente al lato destro dell’automobile, il volano, la catena di trasmissione, i freni di prima e retromarcia e la frizione a tamponi della presa diretta. 102


Fig. 9.8 Manovella per l’avviamento raggiungibile dal posto di guida.

Fig. 9.9 Freni a nastro del cambio, visibili sotto il pavimento.

Con questo cambio semiautomatico si variavano le marce senza uso della frizione, semplicemente agendo sulla leva visibile in fig. 9.3 a fianco del pilota; in posizione verticale si poneva il cambio in folle; in avanti, s’inserivano prima la marcia lenta, poi la presa diretta; all’indietro s’inseriva la retromarcia. Analogamente ad altri, ma con mezzi meccanici più affidabili, Olds si preoccupò di semplificare l’uso del cambio, eliminando rischi di grattate e rotture d’ingranaggi. Il mercato americano apprezzò particolarmente questa caratteristica, che fu imitata anche dai concorrenti; l’elevata diffusione in quegli anni di automobili elettriche e a vapore, intrinsecamente prive di cambio, conferma ulteriormente la sensibilità di questo mercato nei confronti della semplicità di guida. 103


Il disegno di fig. 9.10 permette si identificare i diversi organi meccanici: il motore M, con l’albero longitudinale di comando delle due valvole laterali, il carburatore V, il volano S, il rocchetto di comando della catena K, il gruppo cambio W e la manovella di avviamento con il comando a catena A. Si noti che tale disegno si riferisce a un modello successivo molto simile, già dotato di guida a volante.

Fig. 9.10 Schema del telaio di una Curved Dash del 1904.

Fig. 9.11 Schema del cambio a due marce avanti e retromarcia.

La fig. 9.11 mostra il cambio in sezione; esso era costituito da due rotismi epicicloidali, con i due solari C, di diametro diverso, calettati sull’albero motore; il tamburo G, potendo arrestare con un freno a nastro, la ruota dentata interna di sinistra, permetteva di far ruotare il rocchetto della trasmissione a catena K a velocità ridotta. Parimenti, il tamburo R, che arrestava, con un secondo freno a nastro, il portatreno di destra, permetteva di far ruotare lo stesso rocchetto K, a velocità ridotta e invertita. Infine, rendendo solidali i tamburi G e R, mediante la frizione a tamponi, si otteneva la presa diretta. Con un solo comando a leva,

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agente su questi tre dispositivi, era possibile cambiare e frizionare. Il cambio poteva quindi essere catalogato come semiautomatico. Al rocchetto della catena di trasmissione, era collegato il tamburo B sul quale agiva, ancora mediante un nastro, l’unico freno della vettura; in questo modo anche la forza frenante era ripartita dal differenziale.

Fig. 9.12 Posto di guida, con sterzo e pedali del freno e dell’acceleratore.

L’accesso al posto di guida richiedeva una certa agilità: come in un buggy, mancavano le predelle e occorreva usare il mozzo della ruota anteriore come scalino, afferrandosi contemporaneamente al bracciolo del sedile. Il comando dello sterzo era a timone, con azione diretta sui fusi a snodo (fig. 9.12). Sul pavimento, erano posti il pedale del freno e quello dell’acceleratore. Olds curò personalmente la comunicazione col pubblico; un libretto intitolato Il libro delle meraviglie dell’Oldsmobile, mostrava in copertina, da un lato, un cavallo imbizzarrito, che il padrone non riusciva ad attaccare al buggy, dall’altro, un tranquillo signore alla guida di una Curved Dash. La didascalia recitava: ‘La natura fece un errore, dando un cervello al cavallo; la scienza fece di meglio, con un’Oldsmobile meccanicamente perfetta, presupponendo la presenza del cervello nel suo proprietario’. Alcune imprese sportive contribuirono a diffonderne una buona reputazione. Si ricorda il Rally Detroit New York del 1901, di circa 800 miglia, compiuto in otto giorni, alla velocità media di 14 km/h. Nel 1903, due vetture svolsero in due mesi il Rally San Francisco Detroit di circa 2.500 miglia e, nel 1905, l’Oldsmobile vinse la prima corsa intercontinentale, da New York a Portland, che durò un mese e mezzo. La Curved Dash fu anche costruita in Canada e, su licenza, in Germania con la denominazione di Polymobil Gazelle. Nonostante il successo, la politica industriale di Ransom Olds fu oggetto di critica da parte di alcuni grandi azionisti, che ritenevano indispensabile entrare nel mercato delle automobili di lusso; non riuscendo a imporre le sue idee, Ransom si sentì costretto ad abbandonare l’azienda nel 1903. Stabilimento e marchio furono poi acquistati dalla General Motors nel 1908, per un prezzo sestuplo del loro valore iniziale; la produzione Oldsmobile perse in quest’occasione le sue unicità, diventando simile a quella degli altri marchi del gruppo. 105


Ransom Olds fondò già nel 1904 una nuova fabbrica: la REO (dalle sue iniziali) Motor Car Company, attiva fino al 1935. La fotografia di una REO del 1907 in fig. 9.13, denuncia la sua stretta parentela con la Curved Dash, salvo la presenza formale del cofano che seguiva la moda allora imperante senza possederne la funzione.

Fig. 9.13 Una REO 16 HP del 1904.

Fig. 9.14 Autotelaio della REO 16 HP del 1905.

Il telaio della stessa automobile, in fig. 9.14, mostra chiaramente la posizione del motore e del cambio sotto al pavimento, come nel modello precedente; tuttavia il motore fu alquanto modernizzato e trasformato in un bicilindrico boxer da 16 CV. La REO si concentrò in seguito sugli autocarri e fu, infine, acquisita dalla White, noto produttore americano di veicoli industriali. Le automobili di questo capitolo sono esposte al Museo dell’Automobile della Fondazione Gianadda a Martigny, in Svizzera. 106


10 - Ford Henry Ford (1863 – 1947), ritratto in fig. 10.1, nacque a Springwells nel Michigan da una famiglia di agricoltori, proprietari di una fattoria. Fin da ragazzo dimostrò particolari attitudini alla meccanica, riparando macchine agricole, di cui molte a vapore, diffuse nelle fattorie americane di grandi dimensioni. Nell’eseguire il lavoro, Ford studiava il funzionamento di ogni meccanismo con attente osservazioni, smontaggi e rimontaggi.

Fig. 10.1 Henry Ford, all’età di sessanta anni circa.

A sedici anni, contro la volontà del padre, lasciò la fattoria per andare a lavorare a Detroit come meccanico in varie aziende, fra cui la Edison, in cui Ford gestiva una macchina a vapore per la produzione dell’energia elettrica; agli inizi, integrava il magro salario di 2,50 $ la settimana riparando orologi nelle ore notturne. Tuttavia, nel tempo libero progettava e costruiva nel garage di casa congegni di sua invenzione, spendendo in queste attività buona parte dei suoi risparmi. Dopo aver ultimato un trattore a vapore, decise di affrontare la costruzione di un’automobile con motore a scoppio, da lui chiamata Quadricycle. Il nome rivelava il suo orientamento per una vettura economica quanto i tricicli a motore, che tuttavia doveva essere dotata di almeno due posti, quattro ruote, cambio di velocità e frizione. Gli elementi principali del motore furono costruiti con parti di ricupero: i cilindri da spezzoni di tubo, i pistoni da tappi di ghisa, il volano dal comando di una valvola a saracinesca. Il motore fu collaudato nel 1894, usando il lavandino di casa come banco prova. La Quadricycle compì il viaggio inaugurale nel giugno del 1896, recando Ford, la moglie e il figlio alla fattoria del padre. La fig. 10.2 mostra una replica esposta nell’Automobile Museum di Sacramento in California, una delle più complete collezioni di automobili Ford. L’aspetto era alquanto rudimentale: un traliccio di ferri saldati sormontato da una panchetta. Le misure principali erano 1,245 mm di passo e 980 mm di carreggiata; le ruote, di provenienza ciclistica, avevano un diametro di 26”. Una targa, dietro lo schienale, dichiarava: U.S. & FOREIGN PATENTS PENDING ON THE WORKING PART & DESIGN OF THIS MACHINE. Il motore a due cilindri è visibile in fig. 10.3; le dimensioni caratteristiche erano 63,5 mm di alesaggio e 152,4 mm di corsa, con una cilindrata di circa 965 cm3 e 4 HP di potenza; era disposto trasversalmente nella parte posteriore e permetteva di raggiungere 10 mph in prima e 20 mph in seconda. Le bielle erano infulcrate su perni allineati, posti a sbalzo ai lati del volano, in modo da ottenere uno scoppio per giro. Le valvole di aspirazione erano automatiche, quelle di scarico erano aperte da un unico bilanciere, la cui oscillazione era comandata da un meccanismo a 107


biella e manovella. Lo stesso serviva da comando per l’interruttore-distributore d’accensione, costituito da un contatto oscillante e due lamine, sostenute da un rudimentale isolatore di legno. Le pile elettriche non ricaricabili e il vibratore, per elevare la tensione, erano alloggiati nella cassetta, posta davanti ai piedi dei passeggeri. L’impianto elettrico alimentava anche l’avvisatore acustico costituito da un campanello.

Fig. 10.2 Una replica del Quadricycle del 1896.

Fig. 10.3 Motore bicilindrico del Quadricycle.

I due contenitori in rame, posti sotto il sedile, erano il serbatoio della benzina, con funzione di carburatore a superficie, e quello dell’acqua, con raffreddamento a evaporazione. Il cambio (fig. 10.4) era realizzato con due cinghie in cuoio affiancate (quella della prima marcia manca nell’esemplare della figura), con pulegge mobili, che potevano metterle alternativamente in tensione, svolgendo così anche il compito di frizione; da queste, una catena portava il movimento al differenziale. Sorprendendo lo stesso Ford, il prototipo fu venduto per 200 $ dopo insistenti richieste; il ricavato fu immediatamente investito per la fabbricazione di un secondo esemplare migliorato, completato alla fine del 1897. A metà del 1899, Ford lasciò la Edison, essendo finalmente riuscito a trovare un gruppo d’investitori con il capitale necessario a fondare una fabbrica di automobili, la Detroit 108


Automobile Company, attiva dal febbraio 1900. A Ford fu attribuito, in cambio delle sue idee, il corrispettivo in azioni di un ottavo del capitale sociale, fissato in 150.000$, e l’incarico di direttore tecnico.

Fig. 10.4 Il cambio a cinghia del Quadricycle era simile a quello delle prime Daimler.

Fig. 10.5 Furgoncino della Detroit Automobile Company.

A quel momento, tuttavia, l’unica automobile funzionante in mano alla Detroit Automobile Company era la seconda Quadricycle. Si decise di mettere in costruzione tre tipi di automobile, una a quattro posti, una a due, e un furgoncino, fotografato in fig. 10.5; tuttavia, il ripensamento di alcuni soci costrinse a mettere la società in liquidazione già nel 1901. Due vetture a due posti, costruite prima dello scioglimento della società, furono preparate per correre; una di esse arrivò prima sul circuito di Grosse Point, un evento che ottenne grande attenzione dalla stampa locale. Il successo riconquistò la fiducia di alcuni dei vecchi azionisti e ne convinse altri ad aggiungersi; fu raccolto il capitale sufficiente a fondare 109


nel novembre del 1901 una nuova società; la prima assemblea deliberò di chiamarla Henry Ford Company. Le traversie non erano tuttavia terminate: Ford fu criticato per il suo eccessivo interesse nelle corse e per la scarsa attenzione prestata alle automobili commerciali; quanto immotivata fosse questa critica fu poi mostrato dagli eventi successivi. Anche la Henry Ford Company fu sciolta nel marzo 1902. Si pone in evidenza che alcuni dei soci, che ritirarono i loro capitali, non persero la loro fiducia nell’automobile, partecipando sotto la guida di Henry Leland alla fondazione di un altro importante marchio americano, la Cadillac Motor Company, poi confluita nella General Motors. Dopo alterne vicende, due nuovi azionisti, Alexander Malcomson, commerciante di carbone, e John Gray, produttore di caramelle, apportarono una parte rilevante del capitale necessario a fondare, nel giugno del 1903, la terza società, la Ford Motor Company, in cui a Henry Ford fu riconosciuto un quarto delle azioni. Finalmente, poteva essere avviata una produzione di carattere industriale. Tuttavia, i tempi stringevano e il macchinario per costruire le parti più delicate, come cambio e trasmissione, non era ancora disponibile; per questo, Ford negoziò con i fratelli Dodge la fornitura di 650 motopropulsori completi, in cambio di 10.000 $, pagati in azioni. Dalla vendita di queste azioni, avvenuta anni dopo, fu ricavato il capitale iniziale per fondare la fabbrica e il marchio ancora oggi operativi. Nel luglio del 1903, poté così uscire dallo stabilimento la prima Ford, la Model A, da non confondersi con l’omonima uscita nel 1927 dopo la Model T.

Fig. 10.6 Ford Model A Runabout del 1903 con sedile posteriore.

Questa vetturetta, ritratta in fig. 10.6, era caratterizzata da una carrozzeria che presentava un piano inclinato dietro il sedile anteriore, sul quale poteva essere montato, in opzione, un secondo sedile ad accesso posteriore, stile tonneau. Prodotta fino al 1905 in 1.750 esemplari, la Model A raggiunse finalmente un adeguato successo. Era studiata per la marcia su strade non preparate, cosa molto gradita al mercato americano, e presentava, rispetto all’Oldsmobile Curved Dash, la naturale concorrente, numerosi miglioramenti, fra cui spiccavano un robusto telaio di acciaio (fig. 10.7), lo sterzo a volante e quattro balestre ellittiche molto flessibili. Inoltre, il motore aveva due cilindri 110


contrapposti raffreddati ad acqua, con alesaggio e corsa di 4� (1.647 cm3 di cilindrata) e una potenza dichiarata di 8 HP.

Fig. 10.7 Telaio della Model A.

Fig. 10.8 Ford Model C del 1904.

Come sulla Curved Dash, il motore era disposto sotto il sedile, con albero a gomiti trasversale e manovella di avviamento sul fianco destro. Il cambio era del tipo epicicloidale a due rapporti con retromarcia, con una catena di trasmissione al differenziale. Anche nella Model A, il controllo di frizione e cambio, ritenuto allora uno degli aspetti piĂš ostici della guida, capace di scoraggiare potenziali acquirenti, avveniva in modo semiautomatico, agendo, in questo caso, su pedali o leve, ognuna delle quali inseriva un determinato rapporto, gestendo contemporaneamente la frizione. 111


La versione di base a due posti era in vendita a 750 $ (la rivale costava 650 $); si poteva aggiungere il tonneau per 100 $, il mantice di copertura con tendine laterali per 50 $, se in cuoio, o 30 $, se in tela gommata. Fu sostituita a fine 1904 dalla Model AC, caratterizzata da un motore più grande (1.975 cm3) da 10 HP, cui fu affiancata la più ambiziosa Model C, fotografata in fig. 10.8. Leggermente più grande aveva un prezzo di 850 $, per la versione a due posti, e 950 $, per la versione a quattro.

Fig. 10.9 Telaio della Ford Model C.

Il telaio della Model C, in fig. 10.9, aveva elementi comuni con la Model A; spiccavano, tuttavia, due differenze importanti: la prima era un gruppo di lubrificazione unico, posto sopra il motore, la seconda, un serbatoio per l’acqua di maggiori dimensioni, racchiuso in un cofano che imitava nelle forme quello delle automobili con motore a quattro cilindri. La Model C fu prodotta in 2.600 esemplari, fino al 1905. Le vendite di queste prime automobili, anche se incoraggianti, non furono giudicate sufficienti. Per questo Ford decise di affiancare a questi modelli economici uno più impegnativo e potente, dando risposta in questo al mercato orientato verso automobili più ricche; ritenne opportuno, in preparazione dell’introduzione del nuovo modello, di dimostrare il livello tecnologico raggiunto dalla casa, presentando un’automobile da corsa, in grado di battere il record di velocità assoluta di 136 km/h, allora detenuto dalla Gobron Brillé. Questo tipo di competizione era allora molto popolare non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti. Nulla poteva aver migliore effetto per pubblicizzare l’immagine della tecnologia Ford che strappare il record al monopolio francese, confermando la superiorità tecnica del motore a scoppio, allora ancora poco diffuso negli Stati Uniti. Quest’ambizioso obiettivo fu assegnato alla Ford Arrow, la prima automobile americana impegnata in un record di velocità terrestre, guidata dallo stesso Henry Ford. L'impresa fu pianificata per il gennaio del 1904, per sostenere il lancio della nuova Model B al salone di New York. La finalità dell’evento suggerì di svolgere il tentativo negli Stati Uniti, dove, però, la rigida stagione invernale impose di utilizzare come pista un lago ghiacciato, il Lake St. Clair vicino a Detroit, unica possibilità concessa per predisporre una pista liscia di sufficiente lunghezza. Il percorso, tracciato sul ghiaccio lisciato, fu cosparso di ceneri calde, con particolare abbondanza nella zona di partenza, per migliorare l'aderenza delle ruote. Fu il primo record ottenuto dagli Stati Uniti e l’unico in cui si utilizzò questo tipo di pista naturale. L'Arrow, così chiamata per richiamare il concetto di velocità, non ha lasciato molte tracce di sé; era, tuttavia, derivata dalla 999, un’automobile da corsa ancora custodita 112


all'Henry Ford Museum and Greenfield Village di Dearborn. Si ricorrerà a questa per fornire informazioni sulla tecnica dell’automobile da record. Il nome della Ford 999 richiamava il numero del famoso treno Empire Express di New York, che si era fregiato del record americano di velocità su strada ferrata (110 mph), conseguito nel 1893.

Fig. 10.10 La Ford 999 del 1904.

Fig. 10.11 Il motore della Ford 999.

Nella 999, riportata nella fotografia di fig. 10.10, fu eliminato tutto quanto era inutile al raggiungimento di un’elevata velocità in rettilineo. Il telaio era in legno di frassino, con rinforzi metallici. Le ruote anteriori erano montate su un leggerissimo assale rigido rinforzato da un tirante sostenuto da balestre di dimensioni ridotte, mentre l'assale posteriore, privo di sospensioni, era imbullonato al telaio. Si controllava la traiettoria con un manubrio collegato direttamente alle ruote. 113


Il motore (fig. 10.11) era montato rigidamente sul telaio, collegato alle ruote senza cambio né differenziale; non esisteva il cambio e il veicolo doveva essere avviato a spinta, facendo uso di una rudimentale frizione a ceppi di legno. L’enorme motore aveva quattro cilindri di 7 ¼ pollici (184 mm) di alesaggio e 7 pollici (178 mm) di corsa, per un totale di 18.930 cm³; la potenza doveva ammontare a 80 CV. La sua costruzione faceva largo impiego di lamiere saldate e imbullonate, denotando la decisione di non costruire attrezzature di fonderia per abbreviare i tempi di fabbricazione; aveva valvole di scarico comandate e di aspirazione automatiche. La lubrificazione era eseguita con oliatori a caduta; l'accensione elettrica era alimentata da pile non ricaricabili. Non era prevista carrozzeria, se si trascura un riparo posto dietro il motore, per proteggere il pilota dalla proiezione di sassi. La 999, prevista per strade normali, era dotata di un enorme radiatore a serpentina alettata; nell’Arrow, che doveva correre in un clima molto rigido, esso fu eliminato come si può vedere nella fig. 10.12, che ritrae l’automobile dopo la conquista del record, con Henry Ford attorniato da soci e collaboratori; il record di 147,047 km/h, registrato il 12 gennaio 1904, restò insuperato per circa due anni. Come pianificato, la nuova Model B (fig. 10.13) fu presentata al salone di New York e prodotta dalla fine del 1904 a metà 1906. Pur presentandosi come modello di alta gamma, in vendita a 2.000 $, pose le basi per una nuova architettura, adottata anche nei modelli seguenti, venduti a prezzi molto contenuti, grazie a tecniche evolute e nuovi concetti industriali.

Fig. 10.12 Foto della Ford Arrow dopo la conquista del record di 147,047 km/h.

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Fig. 10.13 La Ford Model B del 1904.

La nuova architettura era caratterizzata da un motore anteriore longitudinale a quattro cilindri, un cambio epicicloidale, una trasmissione ad albero con giunto cardanico, un telaio stampato completamente in acciaio; la carrozzeria aveva quattro posti tutti rivolti nel senso di marcia e tutti con accesso laterale. Il telaio, illustrato in fig. 10.14, differiva dai precedenti, oltre che per le dimensioni e per il motore anteriore, per la presenza di due aste di ancoraggio del ponte. Questo dettaglio eliminava uno dei difetti delle Ford; infatti, le balestre ellittiche, pur apprezzate per la maggiore flessibilità, avevano il difetto di un’eccessiva cedevolezza longitudinale, particolarmente fastidiosa per l’asse posteriore, soggetto a forze motrici e frenanti. Le balestre anteriori erano semiellittiche; altre novità erano rappresentate da un gruppo di lubrificazione a gocciolamento regolabile, posto sul cruscotto in posizione comoda per il controllo, e un radiatore a nido d’ape, più efficace.

Fig. 10.14 Autotelaio della Ford Model B.

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Fig. 10.15 Posto di guida della Ford Model B.

Il motore aveva quattro blocchi separati (testa e canna integrali), come può vedersi nell’illustrazione. Ognuno dei blocchi era identico a quelli della Model C; la cilindrata raggiunta era di 4.649 cm3, la potenza 24 HP. Quest’architettura poco razionale, dettata dalla volontà di utilizzare le stesse attrezzature produttive dei motori a due cilindri, influiva negativamente sul costo e sull’eccessiva lunghezza del cofano.

Fig. 10.16 La Ford Model K del 1906.

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Il posto di guida, in fig. 10.15, presentava due pedali, una lunga leva a fianco della vettura e due leve sul volante, il comando dell’anticipo e quello dell’acceleratore. La lunga leva era un comando combinato: in avanti, la frizione era innestata, con il cambio in presa diretta; all’indietro, si disinseriva la marcia, attuando contemporaneamente il freno. I due pedali, azionati separatamente ponendo la leva in folle, inserivano la marcia lenta e la retromarcia, dovendo essere tenuti in posizione per tutto il tempo necessario. Sul lato sinistro del cruscotto si trovava la cassetta dell’impianto elettrico, che includeva l’interruttore e la pila. Sul lato destro della vettura s’intravede il gasogeno ad acetilene per l’illuminazione dei fanali anteriori; le luci di posizione erano, invece, a petrolio. La Model B fu prodotta in 500 esemplari. Il suo compito di automobile di pregio fu ripreso da un nuovo modello, prodotto dal 1906 al 1908, la Model K, in fig. 10.16, in vendita a circa 3.000 $. La Model K ricalcava l’architettura della Model B, tuttavia, con un motore a sei blocchi da 6.645 cm3 di cilindrata, capace di 40 HP. Solo 900 esemplari furono venduti nel corso della sua vita; a causa del modesto successo di quest’automobile ambiziosa, si riporta che Henry Ford sviluppasse una profonda avversione per i motori a sei cilindri.

Fig. 10.17 Ford Model N Runabout del 1906.

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Fig. 10.18 Cambio epicicloidale della Ford Model N.

I modelli successivi, la Model N, Model R e Model S, tornarono, infatti, a quattro cilindri, che Ford conservò per molti anni. La nascita della Model N fu cruciale per lo sviluppo dell’azienda sia perché fu aperto il secondo stabilimento di Detroit, in Piquette Avenue, sia perché Henry Ford fu in grado di acquisire il pacchetto di controllo, diventando, da quel momento, Presidente della Ford Motor Company. Il nuovo stabilimento, le semplificazioni meccaniche, l’organizzazione e il risparmio di materie prime, ottenuto con l’impiego dei primi acciai legati al vanadio, permisero di vendere la Model N ad un prezzo assolutamente interessante: 500 $ per la versione Runabout, fotografata in fig. 10.17; meno della Oldsmobile, nonostante contenuti tecnici propri di automobili allora considerate di lusso. Affiancavano la Model N, le Model R e S, caratterizzate da dimensioni lievemente maggiori e allestimenti più ricchi, che tuttavia presentavano prezzi intorno a 750 $. La trasmissione prevedeva un solo giunto cardanico, all’uscita del cambio, realizzato, anche in questo caso, come mostrato in fig. 10.18, con un rotismo epicicloidale ormai classico per Ford. Anche i comandi conservavano le loro funzioni insolite, come sulla Model B. Le caratteristiche tecniche di questa famiglia erano unificate per tutti i suoi modelli: telaio integralmente in acciaio; come può vedersi dalla fotografia in fig. 10.19, la sospensione anteriore era realizzata con una sola balestra trasversale, dotata di aste di reazione, come per il ponte posteriore, con balestre ellittiche longitudinali.

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Fig. 10.19 L’Autotelaio della Ford Model N.

Fig. 10.20 Il motore della Ford Model N.

Il motore di 2.565 cm3 erogava 15 HP. Fu uno dei primi con basamento bi-blocco e

lubrificazione a sbattimento (fig. 10.20). Un dettaglio insolito era la posizione del volano all’estremità anteriore; le razze del volano a forma di palette attivavano, infatti, la circolazione dell’aria nel radiatore. Questa famiglia di vetture fu prodotta da metà 1906 al 1908 in 13.000 esemplari, un vero successo per quei tempi. Molti suoi concetti tecnici furono trasferiti e ulteriormente affinati nella Model T, il maggior successo in assoluto della Ford, con più di quindici milioni di esemplari; giunse a rappresentare da sola la metà di tutte le automobili circolanti nel mondo. Il risultato fu motivato non solo dall’affidabilità superiore ma anche dal prezzo ulteriormente ridotto grazie alla produzione in grande serie e al montaggio in catena. Le automobili di questo capitolo sono raccolte nell’Automobile Museum di Sacramento in California e nell'Henry Ford Museum and Greenfield Village di Dearborn in Michigan. 119


11 - Miari & Giusti Anche se la diffusione delle automobili di questo marchio non fu estesa quanto quella delle precedenti, si è deciso di dedicare un capitolo alla Miari & Giusti, in riconoscimento del valore del fondatore, Enrico Bernardi, non adeguatamente conosciuto e apprezzato. Egli fu, infatti, il primo costruttore e il primo tecnico operante nel nostro paese, nel settore dell’automobile. Sotto il nome di Miari & Giusti, si comprenderanno, in realtà, tre imprese diverse, nate in rapida successione, una dalle ceneri della precedente: la Società Motori Bernardi, la Miari e Giusti & C. e la Società Italiana Bernardi.

Fig. 11.1 Enrico Bernardi.

Enrico Bernardi (1841 – 1919), ritratto in fig. 11.1, fu uno studioso eclettico, dotato di ambizioni e capacità imprenditoriali; affrontò tutti i problemi tecnici connessi allo sviluppo dell’automobile, risolvendoli con soluzioni originali. Probabilmente a causa di un mercato locale non ancora pronto a ricevere l’automobile, non fu ripagato dal successo che altri poterono cogliere in nazioni più ricche ed evolute. Nato a Verona, già durante l’adolescenza dimostrò interesse per la progettazione dei veicoli, costruendo un carrello per lo studio della traiettoria ottimale delle ruote di un veicolo in curva. Nel 1856, presentò all’Esposizione Veronese d’Agricoltura, Industria e Belle Arti, un modello di locomotiva e uno di motore, entrambi a vapore, che presentavano novità interessanti nei meccanismi della distribuzione e dell’inversione del moto, ottenute, in questo caso, con l’applicazione di un solo eccentrico; questo risultato fu premiato con una menzione d’onore. Si laureò in matematica, a Padova, nel 1863. Nel 1870, ricevette l’incarico di professore di Fisica e Meccanica presso l’Istituto Tecnico di Vicenza; in questi anni iniziò i suoi studi sui motori a combustione interna, che generarono un trattato e uno studio su un nuovo motore a gas povero, funzionante secondo il sistema di Barsanti e Matteucci. Nel 1876, lasciò l’insegnamento per occuparsi della direzione delle officine Mori, operanti a Vicenza nel campo del macchinario, con reparti di lavorazione meccanica e fonderia. Uno dei suoi primi motori a scoppio fu del tipo atmosferico a biella e manovella (fig. 11.2) che contribuì a fargli vincere la cattedra di Macchine all’Università di Padova. Nella nuova posizione, ebbe modo di sviluppare i suoi studi motoristici. Un primo piccolo motore, di tipo monocilindrico ad asse orizzontale, raggiunse la potenza di 2 kgm/s (circa 0,03 CV) a 140 giri/min. Un secondo motore monocilindrico fu brevettato nel 1882, caratterizzato da una velocità di rotazione ancora più elevata (200 giri/min). Il tema 120


dominante della ricerca di Bernardi di quegli anni fu lo sviluppo di un motore leggero, veloce ed economico, nei costi di produzione e gestione, utile a rendere più produttive le attività lavorative delle piccole industrie.

Fig. 11.2 Motore Bernardi di tipo atmosferico.

Nonostante il proposito iniziale, nel 1884, l’inventore impiegò tale motore per la propulsione di un triciclo di legno, costruito per il divertimento del figlio. A quel primo motorino per applicazioni industriali (un’immagine pubblicitaria del tempo, lo mostra applicato a una macchina per il taglio e la profilatura di assi di legno), Bernardi impose il nome della figlia Pia.

Fig. 11.3 Motore Bernardi Pia.

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Un esemplare ancora funzionante è fotografato in fig. 11.3; fu presentato alla XVII Esposizione Nazionale di Torino, del 1884, suscitando interesse ed ottenendo la premiazione con una medaglia d’argento. Gli studi e le ricerche successivi si concentrarono su un motore a benzina, questa volta espressamente pensato per la locomozione, brevettato nel 1889 per varie caratteristiche originali.

Fig. 11.4 Motore Bernardi per la propulsione di una bicicletta.

L’idea di Bernardi era di applicare il motore per la propulsione di una bicicletta, il veicolo allora più diffuso. Già nel 1893, si poteva veder circolare a Padova un veicolo piuttosto strano, costituito da una bicicletta, sospinta da un rimorchio motorizzato, come documenta la fotografia di fig. 11.4, in cui compaiono il prof. Bernardi, la moglie e il figlio Lauro, al quale fu intitolato il motore. La prima vettura, vera e propria, iniziò a muoversi nel 1894, anno in cui la Società Motori Bernardi fu sciolta, per formare il capitale della Società Miari e Giusti di Padova, per la fabbricazione di automobili; tale società fu trasformata in seguito in accomandita Miari e Giusti e, quindi, in Società Italiana Bernardi. Neppure l’ultima di queste imprese industriali poté generare l’utile atteso e finì pertanto per essere posta in liquidazione nel giugno del 1901. Tuttavia, è accertato che un centinaio d’esemplari a tre e a quattro ruote furono costruiti e venduti in Italia; di essi, tre sono sopravvissuti e si trovano ancora in grado di funzionare. Bernardi terminò la sua carriera a Torino dove, per due anni, svolse attività di consulenza tecnica per la FIAT. Nell’Università di Padova, presso l’Istituto di Macchine da lui fondato, è stato costituito il Museo Enrico Bernardi, che custodisce cimeli, fotografie, scritti pubblicati e inediti, insieme a molti esemplari di motori Bernardi e una vettura; tutti sono caratterizzati dall’essere ancora in grado di funzionare. Bernardi analizzò e discusse, nei suoi scritti, i vantaggi peculiari delle varie architetture di veicolo a tre e quattro ruote, prendendo in considerazione sia la stabilità in curva, sia i fenomeni di perdita di aderenza. Ne nacque, come soluzione ideale per una vetturetta, lo schema a triciclo inverso, con l’assale anteriore a due ruote sterzanti e il posteriore a una sola ruota motrice; questo schema permetteva da un lato di evitare il differenziale, dall’altro di ottenere una buona stabilità al ribaltamento e un’abitabilità sufficiente per due posti affiancati. 122


Fig. 11.5 Miari & Giusti Petit Duc del 1894.

Fig. 11.6 Miari e Giusti Petit Duc del 1894.

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Il triciclo, nella fig. 11.5, appartiene alla collezione del Museo dell’Automobile di Torino4; un secondo triciclo, privo di capote, posseduto da Enrico Bernardi, è custodito nel citato Museo di Macchine dell’Università di Padova ed è presentato in fig. 11.6. In quest’automobile sono assenti le sospensioni, poiché la soluzione a triciclo non presenta problemi di adattamento a terreni accidentati. Il comfort del guidatore e dell’unico passeggero sono assicurati dalle ruote gommate e dalla sospensione su balestre della sola carrozzeria. Il telaio in tubi d’acciaio è di tipo ciclistico, come pure le ruote a raggi, montate su cuscinetti a sfera.

Fig. 11.7 Particolare di cambio, freno e frizione.

Due freni diversi agiscono sulla sola ruota posteriore; essi sono visibili in fig. 11.7. Il primo, a corda (si spiegherà il suo funzionamento, chiarendo quello della frizione), agisce sull’albero di uscita del cambio ed è dedicato al rallentamento della vettura; il secondo, a ceppo, agisce sulla copertura della ruota motrice ed è riservato alle frenate più energiche o per tenere arrestato il veicolo. I pedali, visibili in fig. 11.6, sulla pedana, comandano il solo freno a ceppo; uno serve all’azionamento, l’altro al bloccaggio del primo, per mantenere il veicolo frenato. Il freno a corda è, invece, azionato dal comando combinato a leva, come si vedrà più avanti. Il cinematismo dello sterzo merita un’attenzione particolare; i progettisti delle prime automobili, dovettero affrontare il cosiddetto problema della sterzatura corretta, tale da garantire che le due ruote sterzanti di uno stesso assale fossero perpendicolari, nel loro piano medio, alla congiungente del punto di contatto della ruota al suolo, con il centro di curvatura della traiettoria. Questa condizione, definita solo in teoria da Ackerman nel 1818, era ben nota al prof. Bernardi, come pure il meccanismo, brevettato da Jeantaud nel 1878, con cui detta condizione poteva essere ottenuta solo in modo approssimato. Il meccanismo di Jeantaud era già allora adottato da molti veicoli. Il cinematismo di Bernardi, si proponeva invece di raggiungere una correzione esatta. Il meccanismo non fu mai adottato da altri per il suo elevato costo e perché, più tardi, si comprese che la sua esattezza non era così indispensabile in considerazione della 4

La targa 42-2 designa la seconda vettura immatricolata nella provincia di Padova; si noti che tali targhe, con indicazione numerica della provincia, furono introdotte solo nel 1905; questa vettura era, dunque, ancora in uso dopo undici anni di servizio.

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deriva degli pneumatici. La fig. 11.8 mostra l’aspetto di questo complicato ed inedito dispositivo di sterzo, in cui il volante comanda con un dito un rombo articolato.

Fig. 11.8 Meccanismo per la sterzatura corretta delle ruote.

Il motore, di tipo monocilindrico a quattro tempi, già con valvole in testa, era accreditato di circa 2,5 CV a 785 giri/min. La fig. 11.9 permette di riconoscere la testata del motore, le valvole, comandate da una sola punteria, tramite un bilanciere ed il carburatore con l’accenditore (sulla destra delle valvole); accenditore era il nome assegnato dall’inventore al suo originale sistema di accensione.

Fig. 11.9 Motore della Miari & Giusti.

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Si è avuta l’occasione di rilevare come i primi progettisti di motori dovettero affrontare lo sviluppo di un sistema di accensione affidabile e facilmente trasportabile; l’uso della scintilla elettrica fu adottato da alcuni, tuttavia, molti preferirono l’impiego di altri mezzi di accensione, come il punto caldo, nei motori Daimler, Panhard & Levassor e Peugeot. Anche Bernardi preferì un sistema non elettrico, sviluppandone però uno che permettesse di iniziare la combustione in modo più controllato ed efficace di quanto fosse possibile con un semplice punto caldo affacciato alla camera di combustione. Le figure seguenti, rielaborate da alcune illustrazioni dei brevetti di Bernardi, permettono di comprendere il funzionamento dell’accenditore e del carburatore principale. L’accenditore è mostrato, in sezione, nella parte superiore della fig. 11.10. Esso è costituito da una piccola cavità, fissata sulla testa del cilindro, chiusa da un tappo filettato, isolata dalla camera di combustione mediante una semplice valvola automatica a sportello; tale valvola unidirezionale dovrebbe impedire che la cavità dell’accenditore possa essere inquinata dai prodotti della combustione. La stessa cavità è alimentata da una miscela ricca; in essa è posta una rete di fili di platino, che ha la proprietà di diventare incandescente in modo spontaneo in presenza di vapori di benzina. Durante la fase d’aspirazione, la depressione all’interno del cilindro attiva il passaggio della miscela ricca, che eleva la temperatura della reticella; in conseguenza, una certa quantità di miscela si accende ed entra nella camera attraverso una corona di forellini e un ugello più grande, posti sul suo tappo di chiusura, mostrato dal dettaglio in alto a destra.

Fig. 11.10 Accenditore (in alto) e carburatore principale a getto della Miari & Giusti.

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Questi gas, a temperatura elevata, provocano la rapida combustione della miscela introdotta attraverso la valvola di aspirazione. A causa dell’estensione della fiamma uscente dall’accenditore, la combustione è da ritenersi quasi istantanea in confronto alla velocità di spostamento del pistone; non è quindi necessario l’adattamento dell’anticipo di accensione alle condizioni di funzionamento del motore. Il carburatore principale per l’alimentazione del cilindro, attraverso la valvola di aspirazione, è mostrato nella parte inferiore della fig. 11.10, in sezione. Esso è particolarmente evoluto, se confrontato ad altri dispositivi noti a quel tempo, del tipo a superficie o a gorgogliamento. Il carburatore presenta un ugello di Venturi, che crea la necessaria depressione, per aspirare automaticamente la benzina attraverso il getto, posto in prossimità della sua sezione ristretta. Tale ugello è regolato da uno spillo conico, che può essere spostato verticalmente, attraverso una vite graduata: è così possibile variare il rapporto di miscela per l’avviamento del motore o per compensare variazioni di temperatura o di quota. Il carburatore è completato da un serbatoio a livello costante, alimentato per caduta da quello principale (si veda la fig. 1.11). Il carburatore secondario rappresentato in fig. 11.11, questa volta a superficie, è posto sulla parte alta del serbatoio a livello costante ed è impiegato esclusivamente per la preparazione della miscela ricca che alimenta l’accenditore. Una pompa a pera di gomma, indicata schematicamente sulla figura, permette di alimentare manualmente l’accenditore, quando il motore è ancora fermo, prima dell’avviamento, affinché la reticella di platino possa essere resa incandescente per la prima accensione; una vescica elastica permette di rendere la pressione regolare durante questa manovra.

Fig. 11.11 Carburatore secondario a superficie della Miari & Giusti.

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Come può rilevarsi dalla fig. 11.10, nessuna valvola di regolazione è presente nel carburatore, ad eccezione della vite per la regolazione a freddo. Il motore funziona, pertanto, sempre al suo valore di coppia massima. Il regime di rotazione del motore è limitato da un regolatore di Watt, visibile nella parte centrale di fig. 11.12; tale regolatore comanda, al raggiungimento dello spostamento massimo delle sue masse centrifughe (una delle quali è visibile in figura, nella posizione di minimo), lo spostamento assiale della camma, in modo da impedire l’apertura della valvola di aspirazione. Questo sistema di regolazione, di tipo discontinuo, permette di eliminare le perdite di pompaggio, a costo di qualche implicazione negativa sul comfort di guida. Ancora la fig. 11.12 mostra alcune delle canalizzazioni dell’olio che provvedono alla lubrificazione degli accoppiamenti del motore: è possibile vedere, in alto, quelle per l’ingranaggio ed il sopporto del regolatore, in basso, quella per lo stantuffo ed il piede di biella. Queste e altre provengono da un unico serbatoio d’olio che travasa nei canali la quantità d’olio predeterminata in funzione della rotazione del motore.

Fig. 11.12 Regolatore e canali di lubrificazione della Miari & Giusti.

La trasmissione comprende un cambio di velocità, in cascata, a treni scorrevoli, dotato di tre marce e retromarcia, mostrato in fig. 11.13. L’albero secondario, posto in primo piano, reca le ruote condotte della prima, della seconda e della terza marcia, da sinistra verso destra; l’albero primario, sullo sfondo della fotografia, mostra le ruote motrici, che s’ingranano in successione, spostando assialmente l’albero stesso. Sulla parte sinistra della stessa figura è visibile anche una coppia di ruote oziose, che possono ingranare con la ruota dentata condotta della prima marcia, con un leggero spostamento assiale dell’albero primario e la contemporanea rotazione del sopporto oscillante di due ruote di rinvio: in tale modo è ottenuta la retromarcia. L’albero primario del cambio è comandato dalla frizione a corda, visibile in secondo piano, sul lato destro della stessa figura.

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Fig. 11.13 Cambio della Miari & Giusti.

Il motore pone in rotazione il tamburo di bronzo, sul quale si avvolge la corda della frizione; essa è realizzata con una fune di canapa, ricoperta di cuoio, che ne aumenta il coefficiente di attrito. Un’estremità della fune è ancorata all’albero primario del cambio, l’altra al comando della frizione, mediante un meccanismo che è in grado di controllare la tensione della fune, anche quando questa inizia a ruotare insieme all’albero del cambio. La coppia d’attrito, che permette il funzionamento della frizione, è esercitata dalla tensione della fune. La stessa forza d’attrito, applicata alla fune, ha l’effetto di incrementare la tensione della stessa: grazie a questo semplice sistema di asservimento, la trasmissione della coppia necessaria può essere ottenuta con un modesto carico d’azionamento. Molto semplice si presenta la manovra degli inconsueti comandi della vettura, visibili in fig. 11.6. Tutte le manovre necessarie possono essere compiute con soli quattro comandi: • il volante, • i pedali del freno, • la leva del cambio di velocità, posta sul piantone, • la leva combinata, posta sul fianco destro del sedile. Il volante, data la sua posizione, è controllato abitualmente con la mano sinistra del guidatore, seduto sul lato destro, mentre la sua mano destra può muovere la leva combinata e quella del cambio. I due pedali comandano il freno a ceppi; il pedale di comando si blocca automaticamente nella posizione raggiunta ed è sbloccato premendo il secondo pedale. La leva del cambio di velocità è usata in modo sequenziale, ruotandola su di un piano orizzontale; se, in posizione di folle, si sposta con la gamba destra la leva verticale, posta sul piantone dello sterzo, s’inserisce la retromarcia. La leva combinata deve essere spostata avanti e indietro; essa comanda contemporaneamente il regolatore di velocità del motore, la frizione e il freno a corda. Nella posizione di riposo la leva è circa verticale: la frizione è libera e il regolatore di velocità è posto al minimo. Spostando la leva all’indietro, partendo dalla posizione di riposo, si chiude inizialmente la frizione; continuando tale spostamento, essa completa la chiusura e, dopo la posizione di chiusura completa, aumenta la velocità di rotazione del motore. Se, viceversa, dalla posizione di riposo si spinge la leva in avanti, si comanda il freno a corda e si apre la frizione, potendo arrestare la vettura senza rischio di fermare il motore. In terza marcia era possibile ottenere una velocità di circa 35 km/h. 129


Fig. 11.14 Bernardi 3 ½ HP del 1899.

La Miari & Giusti Petit Duc del 1894, fin qui descritta, fu prodotta in circa sessanta esemplari. Al triciclo fu anche affiancata una più comoda automobile a quattro ruote, la 3 ½ HP. È interessante ricordare che il progetto di quest’automobile fu la prima opera dell’ing. Giustino Cattaneo, poi diventato direttore tecnico della Isotta Fraschini. Furono prodotte quaranta 3 ½ HP, di cui, purtroppo, non si ha notizia di esemplari superstiti; rimangono solo a testimoniarne l’esistenza alcune foto dell’epoca, fra cui quella presentata in fig. 11.14. La Bernardi 3 ½ HP fu realizzata in diverse versioni, su una base a due posti più due; il motopropulsore fu ripreso dal triciclo, come pure il comando combinato e il cinematismo di sterzo. Furono introdotti il differenziale e le sospensioni a balestre. Telaio e ruote erano di tipo ciclistico, come sul triciclo. 12 - FIAT Dopo la Miari & Giusti del 1894, sorsero nel nostro paese numerose altre industrie automobilistiche. Nel 1897, nacquero a Milano la Edoardo Bianchi & C. e la Prinetti & Stucchi, già affermate nella costruzione di biciclette. La prima abbandonò la produzione automobilistica nel 1943, quando il suo stabilimento principale fu distrutto dai bombardamenti aerei; la seconda, dal 1901, si concentrò sulla produzione di biciclette e motociclette. Nel 1898, fu fondata a Torino la Ceirano G. B. & C., convertita in Welleyes nel 1899, cui si collega la nascita della FIAT. Giovanni Battista Ceirano e i suoi due fratelli Giovanni e Matteo furono in seguito artefici della nascita di altre dieci marchi dalla vita alquanto breve. Ancora nello stesso anno, a Piacenza, fu fondata la Marchand, in attività fino al 1908 e, a Firenze, la G. Adami & C., in attività fino al 1906. 130


La vitalità del settore automobilistico in Italia replicava quanto si stava verificando all’estero. I margini commerciali erano elevati e gli investimenti necessari ancora contenuti: ogni imprenditore, dotato di un progetto originale e di macchinari universali per la lavorazione dei metalli e del legno, era in grado di produrre un’automobile traendone profitto. In questo panorama, l’11 luglio 1899, fu fondata la Fabbrica Italiana di Automobili di Torino da un gruppo di automobilisti, privi di esperienza tecnica ma non di passione e di competenza imprenditoriale. Molti di essi avevano anche costituito nell’anno precedente, il Club Automobilisti d’Italia, il primo nucleo operativo dell’odierno Automobile Club. L’automobile di fine dell’ottocento, come si è visto, si era evoluta considerevolmente per merito dell’industria francese, che diventò in breve il riferimento mondiale in campo tecnologico e commerciale. Torino era particolarmente sensibile alla cultura francese, per tradizione e posizione geografica; il collegamento ferroviario con Lione e Parigi, attraverso il traforo del Frejus, aveva facilitato i contatti commerciali, prevalentemente riguardanti la fornitura di seta alle tessiture di Lione. L’esposizione di Parigi del 1889 e i successivi saloni ebbero, quindi, un ruolo decisivo nel far conoscere l’automobile anche ai torinesi. Alla sua fondazione, il Club Automobilisti d’Italia contava una ventina d’iscritti, forse tutti gli automobilisti torinesi. Sorprende che un così esiguo manipolo riuscisse non solo a mantenere in vita l’associazione, ma anche a pubblicare con cadenza quindicinale L’automobile, la prima rivista italiana del settore. Tuttavia, il traguardo più ambito dai soci era sviluppare un’automobile di costruzione locale, in grado di competere con quelle di oltralpe. Dopo Michele Lanza, che costruì sette automobili dal 1895 al 1902, il già citato Giovanni Battista Ceirano tentò di inserirsi sul mercato; costruiva già biciclette col marchio Welleyes che, con l’unione dei vocaboli well e yes, doveva suggerire una discendenza dalla tecnologia inglese, particolarmente apprezzata dai ciclisti. I profitti della fabbrica, la passione per l’automobile e le idee di un geniale progettista, l’ing. Aristide Faccioli, anche direttore de L’automobile, avevano permesso a Ceirano di realizzare alcune vetturelle, poste sul mercato nell’aprile 1899 con il marchio Welleyes. Vetturelle era la denominazione delle automobili di peso ridotto (500 – 600 kg) e di prezzo inferiore a 5.000 lire. Si noti che questo importo, considerato a quel tempo il minimo per l’acquisto di un’automobile, corrispondeva alla retribuzione annua dei membri del primo consiglio di amministrazione della FIAT. La Welleyes 3 ½ HP è illustrata dalle fotografie delle figg. 12.1 e 12.2, che la mostrano con e senza carrozzeria. Essa veniva così descritta in un trafiletto de L’Automobile, che si riporta in parte dal testo originale.

Fig. 12.1 La Welleyes 3 ½ HP del 1898.

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Ceirano Giovanni, il fortunato costruttore dell’ottima marca di cicli Welleyes, ha voluto introdurre nella fabbricazione delle automobili leggere, dette ordinariamente vetturelle, l’eleganza, la leggerezza e la scorrevolezza dei cicli Welleyes. …I pregi di questa vetturella possono così riassumersi: eleganza di forma, leggerezza e scorrevolezza, assenza di rumore, semplicità massima e robustezza di meccanismo. Eccone la sommaria descrizione: Motore verticale, a due cilindri con raffreddamento ad alette e accensione elettrica. La sua velocità è ridottissima in modo da ottenere, oltre che il minimo di rumore, una lunga conservazione dei pezzi soggetti a sfregamento e una massima facilità di lubrificazione: le bielle si muovono in un carter di alluminio. Carburatore di una grande semplicità, a livello costante, permette di usare qualsiasi qualità di benzina del commercio, vantaggio questo di grande importanza per i touristi che difficilmente nei paesi di provincia possono trovare moto-nafta o gazolina. Velocità. La vetturella Welleyes può essere messa in moto senza scendere a terra ed ha due cambiamenti di velocità: l’una di 7 km. all’ora per le salite fino al 14%; l’altra massima di 32 km. all’ora. Le velocità intermedie e la diminuzione fino a passo d’uomo si ottengono col ritardo o coll’avanzamento dell’accensione elettrica. Trasmissione del movimento, fatta a mezzo di cinghie: toglie il rumore fastidioso degli ingranaggi, cosicché la vetturella cammina quasi silenziosa quanto una vettura elettrica. Telaio interamente costruito con tubi d’acciaio di grosso calibro collegati mediante saldatura a forte. Tutte le parti in movimento sono montate con cuscinetti a sfere, il che dà alla macchina una scorrevolezza massima. Peso in ordine di marcia, con una provvista di 10 litri di benzina sufficiente per 120 km, è di circa 200 kg.

Fig. 12.2 Autotelaio della Welleyes 3 ½ HP.

Le vetture consegnate ai primi clienti si guadagnarono una buona reputazione; si citano, fra le loro imprese sportive, la gara Torino Avigliana Pinerolo Torino e il rally da Torino a Civitavecchia, passando per il colle del Bracco. Erano, tuttavia, necessari affinamenti; inoltre, non era disponibile una sede attrezzata per la produzione in serie. Per colmare queste lacune erano inevitabili nuovi investimenti. 132


Fig. 12.3 L’atto di fondazione della FIAT; sono raffigurati da sinistra: Luigi Damevino, Roberto Biscaretti di Ruffia, Carlo Racca, Cesare Goria Gatti, Emanuele Cacherano di Bricherasio, Michele Ceriana Mayneri, Giovanni Agnelli, Ludovico Scarfiotti, Alfonso Ferrero di Ventimiglia.

La FIAT nacque con l’obiettivo di sfruttare il know-how sviluppato da Ceirano e Faccioli, in un’adeguata compagine industriale, capace di produrre almeno cento automobili l’anno. Essa fu dotata di un capitale di 800.000 lire, dei brevetti e delle maestranze di riferimento della Welleyes, acquisiti da Ceirano per 30.000 lire. I personaggi più importanti trasferitisi alla FIAT erano l’ing. Faccioli, cui fu assegnata la direzione tecnica, e Vincenzo Lancia, con la funzione di collaudatore. Il quadro di Lorenzo Delleani, riportato in fig. 12.3, ritrae il consiglio di amministrazione della FIAT nel giorno della sua fondazione. La nuova vettura, che si chiamò 3 ½ HP come la Welleyes, non avrebbe dovuto essere tanto diversa da questa. Tuttavia, nel periodo che intercorse fra la fondazione della società e l’inaugurazione dello stabilimento di Corso Dante a Torino, avvenuta il 19 marzo 1900, furono apportati cambiamenti molto radicali per motivi tecnici e brevettuali. In passi successivi, si sostituì, con altre soluzioni, il carburatore con la regolazione del motore, il sistema di raffreddamento, il cambio, le ruote e il telaio, dovendo fronteggiare le non trascurabili conseguenze delle nuove scelte sull’architettura generale del veicolo. Lo schema del nuovo motopropulsore adottato in luogo di quello della Welleyes, rappresentato in fig. 12.4, non è ancora quello definitivo per la presenza delle pulegge per il comando del cambio a cinghie. Tuttavia, gli altri dettagli tecnici sono già quelli del motore della FIAT 3 ½ HP; balza all’occhio l’eliminazione del raffreddamento ad aria, ritenuto poco affidabile, sostituito con quello ad acqua. Il nuovo motore è disposto orizzontalmente per facilitare l’eliminazione del vapore dal circuito di raffreddamento; l’accorgimento era necessario in considerazione della scarsa efficacia del radiatore scelto, che costringeva a raffreddare il motore per mezzo dell’evaporazione dell’acqua. Sulla parte alta del motore è visibile un nuovo dispositivo per la lubrificazione automatica, prima non previsto; esso era costituito da una serie di dischi rotanti nell’olio, che lo inviavano, per trascinamento, in canalizzazioni di collegamento con i punti soggetti a strisciamento. Il vantaggio di questo sistema, rispetto a quelli a caduta allora tradizionali, era l’interruzione dell’invio dell’olio all’arresto del motore. 133


Fig. 12.4 Motopropulsore FIAT 3 ½ HP per cambio a cinghie.

Si può ancora notare la camera di combustione cilindrica su cui si affacciano le valvole di aspirazione e di scarico. Le prime erano aperte automaticamente dalla depressione, le seconde erano comandate da camme, con un sistema di bilancieri e punterie. L’albero a gomiti poneva in rotazione un albero ortogonale, che recava sul lato sinistro le camme delle valvole di scarico e sul lato destro il distributore dell’accensione. A differenza della Welleyes, la regolazione non era più eseguita agendo sull’anticipo ma interrompendo l’accensione con un regolatore di Watt, alla velocità stabilita dal guidatore. 134


Si decise, forse un po’ tardivamente, di verificare la validità internazionale dei brevetti acquisiti dalla Ceirano. A conclusione degli esami condotti, si comprese che il cambio a cinghia, uno dei punti qualificanti della tecnologia Welleyes, ricadeva nei brevetti Daimler. Per evitare problemi legali e, probabilmente, giudicando sfavorevolmente la necessità di frequenti registrazioni e riparazioni delle cinghie che esso avrebbe comportato, si decise di introdurre un cambio di velocità a ingranaggi. Inoltre, si avanzarono dubbi sull’adeguatezza strutturale delle ruote a raggi e si stabilì di adottare ruote di legno, di tipo artiglieria, sicuramente più solide; furono invece mantenute, dopo lungo dibattito, le coperture pneumatiche, invece di quelle piene, più robuste ma meno confortevoli. In pochi mesi Aristide Faccioli rifece per due volte progetto e prototipi, tanto che l’automobile definitiva ricordava la Welleyes solo nella forma.

Fig. 12.5 Schema dell’autotelaio definitivo della FIAT 3 ½ HP.

La fig. 12.5 testimonia il radicale cambiamento, comprendente anche l’eliminazione del telaio in tubi, sostituito con un più semplice telaio in profilati metallici. Il punto debole del telaio in tubi risiedeva nelle giunzioni che potevano allentarsi a causa delle sollecitazioni. La decisione di introdurre il cambio a ingranaggi costrinse a sistemare il motore in posizione longitudinale. Il nuovo cambio permise anche l’aggiunta della terza velocità; l’architettura a ingranaggi sempre in presa, fu probabilmente scelta per semplificare il comando, che poteva essere, in questo caso, di tipo sequenziale. Il disegno del cambio di fig. 12.6, della successiva FIAT 8 HP del 1901, pur con l’aggiunta della quarta velocità, è sostanzialmente identico a quello della 3 ½ HP. L’inedito sistema d’innesto fu sviluppato per facilitarne la manovra. Esso era ottenuto mediante il meccanismo riprodotto in fig. 12.7. Il collegamento ad arpionismo trasmetteva la rotazione dal motore alle ruote ma non nel senso opposto; in questo modo, l’innesto avveniva senza difficoltà nel momento in cui l’albero d’ingresso era rallentato per l’apertura della frizione.

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Fig. 12.6 Cambio a ingranaggi sempre in presa della FIAT 8 HP.

Fig. 12.7 Cambio a ingranaggi sempre in presa della FIAT 8 HP.

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Fig. 12.8 Carburatore a superficie della FIAT 3 ½ HP.

Anche il carburatore a getto originale fu modificato, per motivi brevettuali, e sostituito con uno a superficie, illustrato in fig. 12.8. Esso era costituito da una vaschetta rettangolare, nella quale era stabilito un livello costante di benzina per mezzo di una valvola a galleggiante. L’aria era aspirata all’esterno attraverso una presa, controllata da un rubinetto, ed era carburata facendole lambire la superficie della benzina, per mezzo del condotto rettangolare di forma allungata. L’aspetto definitivo della FIAT 3 ½ HP è mostrato dalla fig. 12.9, una fotografia dell’esemplare conservato nel Centro Storico FIAT. La carrozzeria, del tipo duc, comportava quattro posti vis a vis, con il sedile del guidatore protetto da una capote a mantice. Il motore (fig. 12.10) era collocato in posizione coricata, con asse longitudinale, sotto il sedile posteriore. Si noti la cassetta di lubrificazione, già descritta in fig. 12.3, attivata per mezzo di una cinghia incrociata dall’albero trasversale, utilizzato per la distribuzione e il regolatore. Un grosso volano a razze conteneva la frizione conica con guarnizioni d’attrito in cuoio; essa muoveva il cambio attraverso un albero a doppio cardano. Da questo, come mostrato in fig. 12.5, un rinvio conico comandava il differenziale e due semiassi trasversali, da cui, mediante catene, traevano movimento le ruote posteriori. Una ruota a denti di lupo con arpione, presente sulla scatola del differenziale, serviva per evitare l’arretramento della vettura durante le partenze in salita con un sistema meno rudimentale della consueta barra fatta strisciare sul terreno. L’arpione poteva essere sollevato per spingere la vettura all’indietro: questo modello era, infatti, privo di retromarcia.

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Fig. 12.9 FIAT 3 ½ HP.

Fig. 12.10 Motore della FIAT 3 ½ HP.

L’acqua del motore era raffreddata da un radiatore a tubi, visibile in fig. 12.9, sotto il sedile anteriore; esemplari successivi furono migliorati, aggiungendo un radiatore a serpentina alettata, come mostrato in fig. 12.11. La direzione delle ruote anteriori era controllata da un manubrio; una barra longitudinale lo collegava ai fusi a snodo mediante un semplice meccanismo. Al lato destro del posto di guida, una leva permetteva di attuare i freni a nastro sul mozzo delle ruote posteriori; il pedale destro comandava, invece, un secondo freno sulla scatola del differenziale. 138


Fig. 12.11 FIAT 3 ½ HP, con radiatore aggiuntivo a serpentina.

La leva, articolata sul piantone di guida, permetteva di selezionare la marcia desiderata. Una più corta, vicino a essa, era utilizzata per impostare la velocità desiderata. Il motore bicilindrico, con alesaggio di 65 e corsa di 99 mm, raggiungeva la cilindrata di 679 cm3, erogando la potenza di 4,2 CV a 800 giri/min. Fu scelto un albero con gomiti opposti per una miglior equilibratura, accettando una successione degli scoppi non uniforme. La velocità massima era di 35 km/h; il peso a vuoto 420 kg. Il prezzo di vendita fu stabilito in 4.000 Lire. Si produssero 26 unità nel 1900; altre 20 furono costruite nell’anno successivo, nella variante da 6 HP. La principale differenza di questo modello rispetto al precedente consistette nell’aumento della cilindrata a 1.082 cm3 (alesaggio: 83 mm; corsa: 100 mm) con la possibilità di raggiungere 10 CV a 800 giri/min. Seguì la FIAT 8 HP, prodotta in 41 esemplari fra il 1901 ed il 1902; pur utilizzando molti componenti esistenti, usufruì di un’architettura completamente nuova, come si può costatare dalla fig. 12.12. Il motore era posto in posizione verticale nella parte anteriore: era lo stesso della 6 HP, modificato in alcuni dettagli, conseguenti alla nuova posizione di funzionamento e all’adozione di un carburatore a getto. La potenza massima era ora erogata a 1.100 giri/min. Con l’occasione fu sostituita l’accensione a pile non ricaricabili con una a magnete. Tuttavia, il magnete generava una tensione di valore limitato, intorno al centinaio di Volt. Questa era elevata al valore necessario mediante candele formate da interruttori a martelletto. Gli elettrodi delle candele erano normalmente collegati alla massa del motore dagli interruttori a martelletto rappresentati in fig. 12.13. Al momento dell’accensione una camma apriva il contatto, generando una sovratensione che faceva scoccare una scintilla di energia sufficiente. I martelletti erano comandati da una particolare camma frontale che faceva lavorare la punteria in trazione. Frizione, cambio e differenziale comandavano le ruote dell’asse posteriore ancora attraverso catene. Il radiatore a serpentina era posto davanti al cofano nel modello del 1901, mentre nel 1902, fu introdotto un radiatore a nido d’ape, modificando la forma del cofano. La velocità massima dichiarata raggiunse 45 km/h, con un peso a vuoto di 800 kg; il prezzo fu aumentato a 8.500 Lire. 139


Fig. 12.12 FIAT 8 HP con radiatore a serpentina.

Fig. 12.13 Dettaglio del meccanismo dell’accensione a martelletti.

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La carrozzeria assunse una forma diversa, con due file di sedili a fronte marcia; la guida era fatta attraverso un volante, con la leva del cambio spostata sul pavimento, alla destra del pilota.

Fig. 12.14 Motore della FIAT 8 HP.

Nella fig. 12.14 si riconoscono le forme del motore precedente; la diversa posizione comportava una nuova sistemazione della cassetta di lubrificazione, comandata con una più razionale trasmissione a catene. In questo motore gli organi meccanici erano completamente racchiusi in scatole di protezione. A chiarimento dei diversi valori di potenza e unità di misura, si rileva che nelle primissime automobili, era diffuso l’uso di denominare commercialmente un modello dalla sua potenza, espressa in HP, all’inglese. Il valore considerato era inizialmente quello della potenza sfruttabile in modo continuato, senza usurare precocemente il motore. A questo valore si sostituì talvolta quello della potenza fiscale, come nel caso della 3 ½ HP, della 6 HP e della 8 HP; essa coincideva con quella continuativa quando la tassa fu definita, ricavandola dalla cilindrata, ma, già nei primi anni del ‘900, la potenza continuativa superò quella fiscale. In vetture di questo periodo, conseguentemente, la denominazione del modello poteva riportare i due valori. Con questi chiarimenti, si può interpretare la denominazione del modello successivo 12/16 HP del 1902, in fig. 12.15; la potenza di 16 CV a 1.200 giri/min permetteva di raggiungere la velocità massima di 70 km/h. La carrozzeria tonneau era costruita in legno compensato curvato; altre fogge di carrozzeria furono adottate per le 106 automobili di questo tipo prodotte in totale. Con questo modello i motori a due cilindri furono abbandonati. Quello impiegava due delle vecchie unità bicilindriche, portate a 100 di alesaggio e 120 di corsa, potendo così raggiungere 3.768 cm3. Il prezzo fu ancora aumentato a 12.000 Lire. Il modello successivo del 1903, la 16/20 HP, adottò un motore completamente nuovo, come mostrato in fig. 12.16; l’incastellatura era suddivisa in due blocchi di ghisa, comprendenti canne e teste non separabili (110 mm di alesaggio e corsa, 4.181 cm3 di 141


cilindrata), ed un basamento in alluminio, in due metà , recante i supporti dell’albero a gomiti e degli assi a camme.

Fig. 12.15 Fiat 12/16 HP.

Fig. 12.16 Motore FIAT adottato dalla 16/20 HP, alla 24/40 HP.

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Furono abbandonate le valvole di aspirazione automatiche; erano previsti un albero a camme per lato, a destra per l’aspirazione, a sinistra per lo scarico. Le sedi delle valvole erano realizzate in modo da essere accessibili dall’alto per la lavorazione, il montaggio e le frequenti operazioni periodiche di pulizia e smerigliatura; i fori di accesso erano chiusi da tappi chiusi da cavallotti imbullonati. A questo motore seguirono altre versioni di cilindrata maggiore, fino a raggiungere 150 mm di alesaggio e corsa. La cilindrata massima raggiunse 11.044 cm3 nella 50/60 HP, con sei cilindri e tre blocchi. É opportuno osservare che tutti i motori della famiglia, pur avendo dimensioni e parti specifiche, condividevano la stessa impostazione di progetto e la stessa tecnologia costruttiva. Furono costruiti, in tutto, circa 3.600 esemplari, fino al 1908, anno di lancio di nuovi motori monoblocco a quattro cilindri, applicati ai modelli denominati da Tipo 0 a Tipo 6, costruiti successivamente al periodo storico preso in esame.

Fig. 12.17 Cambio a treni scorrevoli.

Con i motori biblocco e triblocco, fu abbandonato il cambio a ingranaggi sempre in presa, a favore di quello a treni scorrevoli, sicuramente più robusto, anche se più difficile da manovrarsi. Esso è rappresentato in sezione nel disegno di fig. 12.17; aveva quattro rapporti e retromarcia. Il differenziale integrale era predisposto per l’applicazione di trasmissioni finali a catena. Si può notare l’applicazione diffusa di cuscinetti a sfera e il comando a leva, non più di tipo sequenziale, ma a selezione e innesto. Come esempio dei numerosi modelli che adottarono queste meccaniche, si è scelto la 16/20 HP, costruita dal 1903 al 1906 in circa 700 esemplari, con tre diversi passi, di 2.120, 2.585 e 2.830 mm. In fig. 12.18 si presenta la versione sportiva a due posti, a passo corto; la potenza massima era di 22 CV a 1.100 giri/min. Il prezzo di listino della versione normale si aggirava sulle 15.000 Lit. La velocità massima era di circa 70 km/h. 143


Fig. 12.18 FIAT 16/20 HP corsa.

Fig. 12.19 FIAT 16/20 HP corsa: posto di guida.

Il posto di guida, in fig. 12.19, mette in rilievo i pedali del freno e della frizione, combinati per disinnestare la frizione in frenata, per evitare di arrestare accidentalmente il motore; l’acceleratore è al centro, nella fotografia, nascosto dalla leva del freno a mano, agente sulla trasmissione. A fianco della leva del freno, vi è quella del cambio, con la tipica greca per la guida nelle manovre d’innesto e selezione. Sul cruscotto di legno appaiono, al centro, la cassetta di lubrificazione e il tachimetro, mentre, sul lato del guidatore, si nota la pompa ad azionamento manuale, per pressurizzare il serbatoio della benzina. 144


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