L’INCLUSIONE EDUCATIVA- Marisa Pavone PRIMA PARTE Lo stato dell’arte della Pedagogia Speciale- Introduzione generale La pedagogia speciale, circa 50 anni fa, il suo ambito di studio privilegiato si è indirizzato all’educazione e alla scolarizzazione dei minori con disabilità, lasciando in secondo piano altre categorie di soggetti con difficoltà. In pochi anni, il suo focus pedagogico si è ampliato a comprendere la fascia di popolazione con “Bisogni educativi speciali”, cioè i soggetti a rischio di marginalità per disturbi evolutivi, problemi di apprendimento o per ragioni di ordine psicosociale e socioculturale. Fin dalle origini, la pedagogia speciale in Italia si è proposta come modello a vocazione interdisciplinare, disponibile per natura alla collaborazione con altri campi del sapere, come la medicina e la psicologia nelle diverse implicazioni sociologia, antropologia, diritto. Le radici remote della pedagogia Speciale vengono riconosciute in Francia, tra fine 700 e metà 800, con le esperienze educative rivolte a disabili ad opera di Itard e Seguin. In Italia, a cavallo tra 800 e 900 , con l’iniziativa di personaggi illustri come de Sanctis, Montessori, Montesano, che hanno indicato la strada maestra da perseguire: quella di accompagnare la cura educativa alle cure mediche nel trattamento dei minori insufficienti mentali. La dizione “pedagogia speciale” e le sue vie di sviluppo, si affermano in Italia nella seconda metà del 900 quando nel 1964 la materia viene introdotta dallo psicologo e pedagogista Zavalloni, sostituendolo al termine “pedagogia emendativa”, utilizzata da de Sanctis per parlare di educazione dell’infanzia minorata, irregolare, e al termine “pedagogia curativa” la quale intende interventi di riadattamento di “fanciulli” con disturbi del comportamento di origine fisica e mentale. A fine anni 70, l’UNESCO propone il rinnovamento dei programmi a lungo termine nel settore, proponendo di porre rimedio a certi tipi di deficienze, prevenendo il disadattamento e l’handicap di chi ne “soffre”. Zavalloni si rivolge a individui di età scolare, gli esperti dell’UNESCO riguardano tutti indistintamente. La dinamica in cui oggi si muove la pedagogia speciale è quella di offrire risposte specifiche (speciali) a problemi personali particolari in contesti di normalità e non in ambienti separati. Nonostante i propositi, anche in Italia, si tende però ad attribuire più priorità alla classificazione dei sintomi piuttosto che alle categorie dell’educazione. Uno dei compiti infatti della Ped Spe è quello di distinguere nel soggetto le componenti legate al disturbo clinico – di competenza diretta di altre discipline-ricercando tutte le condizioni utili ad annullare le barriere, cioè lo svantaggio e difficoltà conseguente alla relazione con il contesto di vita sociale e culturale. Credere nell’educabilità del soggetto significa: • sollecitare potenzialità presenti e incrementare risorse • accompagnare e sostenere la persona nella sua traiettoria esistenziale (alimentata da incapacità, competenze, stati d’animo, relazioni) • non creare situazioni di dipendenza o di assistenzialismo • credere che egli sia educabile L’approccio educativo della Pedagogia Speciale, quindi, è multidimensionale, in quanto pone l’accento sul carattere plurale dell’identità della persona e sulla conseguente molteplicità dei modi per rispondere ai suoi bisogni particolari di educazione. l’impegni è difficile in quanto ogni singolo “caso” è diverso rispetto agli altri, anche se appartenenti alla stessa categoria. Fino alle metà del secolo scorso, la cura nei confronti dei disabili ha privilegiato il modello medico e ancora oggi, in alcuni ambienti, si pensa che la minorazione sia un campo di idagine di competenza prevalentemente sanitaria.
Negli anni 70/80, in parallelo con l’aumento del numero di famiglie di allievi con disabilità che hanno scelto l’inserimento nelle scuole comuni, è nata e si è sviluppata l’idea che la cura nei loro confronti potesse trovare soluzione unilaterale sul piano pedagogico-didattico. Dall’antichità al 19^secolo L’antichità è caratterizzata dall’esclusione della categoria dei disabili, negandone l’identità umana con il conseguente allontanamento dalla vita sociale. La vita dei più deboli quindi, bambini-donne-infermi, non trova grande considerazione. In assenza di conoscenze scientifiche, la società fa ricorso a spiegazioni religiose e dunque non spetta loro occuparsene. La nascita del “monstrum”, ad esempio, può essere la conseguenza di colpe proprie o di chi lo ha generato o degli antenati (punizione divina), oppure l’annuncio di future catastrofi: il suo venire al mondo riguarda l’essere messaggero della divinità. Responsabile quindi dei figli minorati non è la famiglia, ma sono gli dei, lo Stato e i sapienti. Secondo la ricostruzione di uno storico ( Stilker), mentre nel mondo antico la sorte dei disabili era rimessa alla dvinità, che poteva farli perire o attribuire loro un destino particolare, nel Medioevo si ritiene che Dio rivolga loro una particolare sollecitudine. La disabilità e la malattia vengono mandate da Dio sia come 2prova” di fede, sia come occasione per esercitare la virtù suprema della carità o come “segno” della sua presenza. È finito il tempo in cui venivano visti come pericolosi per la società dal punto di vista biologico e metafisico, ora vengono inclusi all’interno della categoria della diversità a cui occorre trovare una specifica collocazione. Fino alla fine del 12 secolo, non vi è una differenziazione all’interno della categoria dei marginali: mendicanti, deformi, amputati, lebbrosi, malati di genere, disabili ecc appartengono indistintamente all’universo della povertà: indicatore di un mondo da tenere sotto tutela a cui rivolegere uno sguardo caritatevole. l’atteggiamento caritatevole si concretizza nell’elemosina, sia come forma individuale sia nell’allestimento degli istituti di ricovero. Nel cuore del medioevo, gli ospedali sono semplici luoghi di accoglienza adibiti all’ospitalità, al mantenimento e cura dei diseredati, i quali durante il giorno sono liberi di mendicare nelle vie del villaggio. In ogni caso, in questo periodo, l’attenzione nei loro confronti è sporadica e circoscritta a sordi e muti. I primi esperimenti di istruzione dei sordomuti risalgono al 1500 con il medico e matematico Girolamo Cardano, giungendo alla conclusione che sostituendo la scrittura alla parola, possono intendere leggendo e parlare scrivendo. Il primo che si cimenta nell’impresa educativa è Pedro Ponce, con il suo metodo che si fonda sulla sostituzione dello stimolo uditivo con quello visivo (scrittura presentata come disegno sei suoni alfabetici). Nel secolo dei Lumi, inizia a farsi strada una nuova sensibilità verso la difformità da parte di filosofi, filantropi e medici, e si tratta ancora di uno sguardo rivolto a particolari categorie di disabili (sordi e ciechi). Si può osservare questo dall’impresa pedagogica di personaggi capitali nella storia dell’educazione degli “idioti”, riconosciuti come precursori della pedagogia speciale: 1. Jean Itard: medico chirurgo, collabora con Sicard, si deduca alla rieducazione del ragazzo selvaggio, per molti padre della pedagogia speciale. In alcuni passi delle Memorie sull’educazione del “ragazzo selvaggio dell’Aveyron” sono presenti gli obiettivi formativi proposti a Victor tra cui suscitargli nuovi bisogni e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri circostanti, e i suoi numerosi progressi, sotto il profilo sensoriale, cognitivo ed affettivo, ottenuti nel breve periodo di 9 mesi, in un soggetto ritenuto incapace di attenzione. 2. Edouard Sicard: allievo di Itard, medico, si occupa dell’educazione degli idioti , applicando il suo metodo fisiologico, a supporto del quale inventa molti giochi educativi
ancora validi oggi. Supera così il modello di educazione individuale si Itard e apre a Parigi la prima vera scuola per soggetti idioti, in cui teorizza e applica la possibilità di interventi educativi globali. Da qui all’aspettativa che il diverso possa beneficiare di un trattamento rieducativo il passo è breve: • all’inizio dell’800, Itard viene incaricato dal ministero degli Interni di occuparsi dell’educazione di un ragazzo selvaggio trovato nei boschi a Parigi, per il quale ha elaborato un progetto di recupero dal punto di vista medico e educativo. • Seconda metà 700, si ha la progressiva affermazione del potere dei medici • In Italia, tra metà 700 e inizio 800 vengono costruiti in principali città come Roma, Firenze, Bologna grandi ospedali concepiti come “città dei malati” • 900, molti studiosi si dedicano a distinguere le diverse disabilità, a classificarle ed etichettarle pur mantenendole emarginate Il primo tentativo di riabilitazione e istruzione nei confronti dei ciechi, invece, risale al filantropo francese Valenti Hauy (1745-1822), che, cieco lui stesso, comincia a istruire un giovane privo della vista incontrato quasi per caso, utilizzando il principio della vicarianza tattile (i caratteri dell’alfabeto comune in rilievo). I successivi metodi, si concentrano più sul problema della scrittura e non della lettura: Luis Braille, anche lui cieco, realizzò un codice di scrittura e lettura attraverso un sistema a sei punti in rilievo chiamato appunto Alfabeto Braille. Quanto ai sordomuti, dopo gli interventi nel 1500, è importante l’esperienza condotta da de l’Epèe, che si focalizza sull’educazione di bambini e adolescenti privi di udito, attraverso la costruzione di un metodo di comunicazione gestuale, appreso osservando l’interazione spontanea tra i suoi allievi. Sviluppi nel 20^ secolo: centralità della scolarizzazione integrata A cavallo tra 800 e 900, si espande in tutta Europa l’interesse educativo per l’infanzia e in particolare per tutte le forme di disabilità. Contributo importante per il consolidarsi di una più moderna concezione dell’infanzia e il rinnovamento della scuola è quello del movimento delle Scuole Nuove e in seguito correnti che fanno capo alla Pedagogia dell’Attivismo, che si ispira al puerocentrismo. Nel complesso, il 20^ secolo, segna notevoli passi avanti per l’infanzia disabile: • versante legislativo, viene sancito il diritto alla loro educazione • versante pedagogico, si ha il passaggio graduale dalle scuole speciali verso l’integrazione • versante della ricerca, insegnamenti di npi e pedagogia speciale entrano negli ordinamenti didattici universitaria Sono tre grandi nomi che fanno da sfondo alla nascita della psichiatria infantile e della pedagogia speciale in Italia: • Sante de Sanctis Medico, apre a Roma nel 1899 il primo asilo-scuola per fanciulli minorati psichici di grado lieve e di povera condizione, fonda il primo reparto di npi in Italia. In lui prevale l’interesse per la ricerca scientifica, nel suo modello educativo “pedagogia emendativa”, dedica ampio spazio alla collaborazione tra diverse figure professionali, all’accoglienza e all’organizzazione degli spazi negli asilo-scuola. Attribuisce molta importanza all’educazione sul piano fisico e motorio, all’ortofonia e al canto e alla stimolazione sensoriale. • Maria Montessori Fra le prime donne italiane ad essere medico, la più importante studiosa in campo educativo, inizia ad occuparsi del recupero dei fanciulli “ritardati”, ricercando le cause dell’anormalità psichica e mettendo a punto sistemi e metodi per l’assistenza e il successivo recupero alla vita normale.
Si esprime in favore della necessità di coniugare le competenze del medico con quelle del maestro dell’educazione dei soggetti con ritardo mentale. Per lei, è di fondamentale importanza, la cura dell’ambiente educativo in tutti i suoi particolari: arredi, giochi, perché è qui che il bambino deve poter esprimere liberamente le sue inclinazioni e i suoi interessi, sollecitato da materiale appositamente strutturato. La Montessori parla di “mente assorbente”, in quanto sottolinea la tendenza del bambino, nei primi anni di vita, all’assorbimento inconscio dei dati del suo ambiente. Caratteristiche principali che deve avere il “materiale didattico per l’educazione sensoriale” sono: • Il controllo dell’errore: i materiali offerti al bambino contengano in sé il “controllo dell’errore” come per esempio gli incastri solidi; esso conduce il bambino ad accompagnare i suoi esercizi con il ragionamento, con la critica, con l’attenzione sempre più interessata all’esattezza • L’estetica: altro carattere degli oggetti è di essere attraenti, il colore, la lucentezza, l’armonia delle forme sono cose curate in tutto quanto circonda il bambino. • Prestarsi all’attività del bambino: per rendere interessante una cosa non basta che sia interessante in sé stessa, occorre che si presti all’attività motrice del bambino. • Limiti: il materiale deve essere limitato in quantità Montessori si sofferma poi sulle nuove mansioni che la maestra deve assumere in classe; non si tratta di dare al fanciullo delle cognizioni sulle qualità delle cose con gli oggetti e ne lo scopo è quello di indurre il bambino a saper usare, senza errore, il materiale che gli si presenta, eseguendo bene un esercizio. Gli oggetti e non l’insegnamento della maestra sono la cosa principale: essendo il bambino che li usa, è lui l’entità attiva e non la maestra, la quale deve solamente spiegare l’uso del materiale. Essa è principalmente il punto di collegamento tra il materiale (gli oggetti) e il bambino. • Giuseppe Montesano Medico e docente universitario, va attribuito il merito di aver affermato il principio fondamentale della formazione iniziale e continua degli insegnanti, che devono possedere conoscenze, metodi, strumenti speciali per garantire il buon funzionamento degli interventi per l’infanzia in difficoltà. Nel 1900, fonda a Roma la prima Scuola magistrale ortofrenica, che si occupa sia della rieducazione dei fanciulli frenastenici (insufficienza mentale) che della formazione del personale specializzato, offrendo ai futuri maestri l’opportunità di svolgere attività di “tirocinio diretto osservativo”. Montesano arriva ad occuparsi di quei bambini anormali per lieve ritardo dell’intelligenza , ossia dei cosidetti “tardivi”, che manifestano difficoltà di apprendimento e di comportamento per le quali vengono respinti dalla scuola. Su sua ispirazione, nascono a Roma le “classi differenziali”, a loro dedicate. Fino agli anni 20, le prime classi differenziali (per alunni tardivi) e classi speciali (con alterazioni più gravi), sorgono grazie all’iniziativa dei Comuni e dei privati. La riforma Gentile del 1923 segna l’intervento diretto e indiretto dello Stato nel settore dell’educazione speciale. Dalla parte dei disabili, la diffusione di classi differenziali e scuole speciali rappresenta per l’epoca una novità e un miglioramento della qualità della vita. Infatti, poiché gli istituti sono solo in alcune grandi città, l’inserimento implica l’allontanamento del minore dalla famiglia di origine e dall’ambiente quotidiano. Le classi differenziali e le scuole speciali, invece, nascono in molti territori comunali, vicine ai luoghi di vita della famiglia e non necessariamente richiamano il ricovero, in quanto possono essere frequentate giornalmente,ì. Questa pare di secolo, segna il passaggio dal periodo filantropico, dell’assistenza e beneficenza, a un “intervento mirato sui bisogni dei soggetti, siano essi medici o educativi”. In seguito all’incremento della domanda di scolarizzazione, nascono però dei problemi di alfabetizzazione, dispersione, abbandoni, problemi di comportamento e di apprendimento. Per questo, l’autorità scolastica fornisce istruzioni distinte per singole categorie di minorazione, che disciplinano il funzionamento delle sezioni, classi e scuole speciali e differenziali parallele ai percorsi normali.
La scuola, così però, viene vista come fonte di selezione sociale in quanto classifica e li confina in strutture separate: si sente il bisogno di ripensare e rinnovare i modelli organizzativi e i metodi didattici in tutto il sistema scolastico. Con la legge 30 marzo 1971, si ha il declino delle istituzioni speciali, è il primo pronunciamento giuridico a favore dell’assolvimento dell’obbligo scolastico per i disabili nella classi normali della scuola pubblica. (salvo i casi i soggetti siano affetti da gravi deficienze) Il primo periodo di frequenza delle classi comuni trova un sistema scolastico non adeguatamente preparato e attrezzato a riceverli, tanto da suscitare tensioni e critiche. “Circolare Falcucci”: • inserimento deve essere graduale • ci devono essere spazi adeguati • presenza di equipe per l’assistenza medico-psico-socio-pedagogica • massimo 20 alunni
Legge n 517/77: fra le azioni legislative più significative a favore dell’infanzia disabile, in quanto concretizza in norme la complessità del tema della loro scolarizzazione, garantendo continuità all’iter formativo. Essa prevede: • estensione del diritto alla frequenza delle scuole comuni anche per i sordi • introduzione della figura dell’insegnante specializzato nelle scuole comuni • riduzione numero di alunni nelle classi che ospitano alunni disabil • integrazione specialistica da parte del servizio sanitario • coordinazione degli interventi Fine anni 50, notevoli contributi da esponenti di npi come: • Giovanni Bollea Uno dei padri della moderna npi, si esprime a favore dell’educabilità dei minori con ritardo intellettivo, affermando che l’insufficienza mentale non è una malattia, ma una disabilità di apprendimento e di adattamento. Valorizza il ruolo di protagonista della famiglia, affermando che l’80% della azioni di una buona Pedagogia Speciale deve essere condotto dai genitori. Inoltre, afferma l’importanza di una collaborazione stretta tra i professionisti di diverse istituzioni. Tutto questo, per garantire il recupero dei minori con disagio psichico e quindi il superamento degli ambienti speciali. • Camparetti Pediatra, neuropsichiatra e fisiatra, uno dei protagonisti nella storia della riabilitazione della paralisi celebrale infantile. È il primo promotore dell’autonomia del piccolo con disabilità fin dal periodo prenatale, privilegiando la presa in cura a partire dalla vita quotidiana e dai bisogni primari del bambino. L’obiettivo nei confronti del piccolo in situazioni di handicap non è quello di effettuare un “trattamento” ma è soltanto quello dell’educazione in senso ampio. La scuola come volano al progetto di vita Nei primi anni 90, viene approvata la “Legge quadro sull’handicap- legge 140/92”, che riorganizza complessivamente la questione della disabilità. È un traguardo legislativo importante, perché non più centrato sui servizi e sugli operatori, ma sulla persona e sulle sue difficoltà. Per la prima volta si prende in considerazione l’individuo disabile lungo tutto l’arco dell’esistenza.
La legge: • sancisce nuovi e specifici diritti per i soggetti con disabilità • indirizza gli interventi delle regioni, degli enti locali, al fine di rendere operative le dichiarazioni presenti • sancisce che la frequenza nelle classi comuni di ogni ordine e grado ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona con disabilità ai fini dell’apprendimento, della comunicazione, delle relazioni e dell’autonomia • prevede un apparato di documentazioni a carattere diagnostico, osservativo e progettuale che accompagna la frequenza scolastica (Diagnosi funzionale/profilo dinamico funzionale/piano educativo individualizzato) • prevede procedure di valutazione individualizzata • prevede presidi necessari a garantire l’integrazione scolastica: insegnanti di sostegno, attrezzature, sussidi, altre figure di aiuto • qualificazione dell’offerta formativa • programmazione collegiale, interprofessionale e interistituzionale Segna il passaggio da una forma di “Stato assistenziale” allo “Stato sociale”. Nonostante la norma operi una distinzione tra la patologia e il suo impatto sull’arco di vita globale della persona inserita nel suo contesto, tuttavia permane un’eccessiva ingerenza della dimensione sanitaria, soprattutto alla luce delle novità introdotte agli inizi di questo secolo dall’OMS , attraverso il modello di classificazione delle condizioni di salute/disabilità delle persone: ICF (INTERNATIONAL CLASSIFICATION OF FUNCTIONING, DISABILITY AND HEALTH).
Fino agli anni 80, nei confronti del deficit si è adottato prevalentemente un approccio settoriale, concentrato sulla singola parte di esperienza,su un contesto o su una particolare fase esistenziale, in cui i professionisti dei vari servizi, conservano la tendenza ad occuparsi del proprio ambito, con scarsa apertura a coordinare i rispettivi interventi. Questo, provoca ostacoli alla costruzione del progetto di vita indipendente. Anni 90, PROGETTO DI VITA : è intanto pensare in prospettiva futura, è un pensare doppio, sia nel senso di immaginare, desiderare ecc, sia nel preparare le azioni necessarie, varie fasi, tempi, contesto ecc. Con le persone disabili, sopratutto in situazioni di gravità, è facile restare confinati in una logica di programma/programmazione delle cure, dell’intervento, del tempo libero ecc, stabiliti a priori. È giusto anche pensare però che l’idea di progettare la vita di qualcuno sia un azzardo, sopratutto se questa persona ha una disabilità, ma è importante sottolineare che nessuno può vivere senza avere progetti per il futuro. Un traguardo importante per questa imponente fascia di individui (più di 1 miliardo su 7) è stata la “CONVENZIONE per il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità”, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite (2006) con lo scopo di promuovere, proteggere e assicurare il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità. La convenzione è un trattato internazionale, che si compone di 50 articoli e di un protocollo aggiuntivo, diviso a grandi linee in due parti: 1. fino all’art.32, si ha l’elenco dei principi e diritti, la parte del “diritto sostanziale”. Alcuni principi: -promozione di autonomia, indipendenza e libertà individuali -piena partecipazione e inclusione all’interno della società 2. si ha il “diritto processuale”, ossia le procedure di approvazione e gli strumenti per farla rispettare “Niente su di noi, senza di noi” è lo slogan mondiale delle persone con disabilità ed è anche il titolo di un saggio di Charlton, disabile, in cui presenta una panoramica delle iniziative per la conquista dei diritti civili da parte di oltre mezzo miliardo di persone con problemi di minorazioni nei vati continenti.
PARTE SECONDA Conoscere l’individuo con disabilità Nel corso degli anni, vari termini per indicare le persone con handicap. • Nell’antica Roma, per rivolgersi a loro vengono utilizzati i termini hebes, stupidus, stultus, deminitus, con i significati di ottuso, sciocco, pazzo. • Nell’800, gli individui con problemi intellettivi o psichiatrici vengono chiamati imbecilli, alienati, cretini, idioti: quest’ultimo appellativo viene adottato nel caso in cui nel soggetto non si riscontri traccia di potenzialità educative. • Nella prima metà del secolo appena concluso, si ricorre normalmente alle espressioni: minorati, subnormali e anormali fisici e psichici. Per definire anomalie dello sviluppo intellettivo si fa ricorso ad un’impostazione medica: oligofrenia (affetti da gravi alterazioni del sistema nervoso di natura malformativa o da disturbi del metabolismo, che si manifesta con incapacità di controllare gli sfinteri e di alimentarsi da solo, di parlare, non sono quindi autosufficienti) In sintesi, fino a 40 anni fa, venivano quindi considerati come soggetti inferiori, meno abili, più deboli nei confronti della popolazione media; questa particolare forma di dis-adattamento è intesa come caratteristica individuale, come esito della sfortuna (per eredità, nascita, incidente). Il modello medico Utilizzato fino alla metà degli anni 70, tende a evidenziare nella persona la patologia di cui è portatrice: la disabilità è considerata una caratteristica strettamente individuale, per cause naturali o accidentali. Si tende quindi ad affidarsi ad uno specialista per trovare qualche rimedio e dare qualche consiglio, con una predominanza quindi sull’azione curativa rispetto a misure di intervento sull’ambiente orientate alla qualità della vita, che privilegiano l’istanza del ben-essere. I modelli di classificazione diagnostica più diffusi nel mondo occidentale sono due: ICDInternational Classification of Diseases, Injuries and causes of death, proposto dall’OMS, e DSM proposto invece dall’American Psichiatric Association. Il modello modico, però, viene criticato per dare una visione solo parziale e inadeguata del soggetto disabile: • tende a trascurare il ruolo del contesto ambientale nei processi di disabilitazione e abilitazione ( i dati e le informazioni prodotte sono infatti quasi sempre poco fruibili dalle famiglie e dai professionisti che operano nella scuola e nell’extrascuola, che invece hanno necessità di queste informazioni per poter elaborare un progetto di azione educativa e sociale) • mette in secondo piano l’identità plurale, la globalità, la storicità personali dell’individuo e del nucleo familiare, enfatizzando il ruolo”riparatore” del tecnico. Dal deficit all’handicap: verso il modello sociale Rispetto al modello medico , utilizzato fino alla metà degli anni 70 nei confronto dei soggetti con deficit, la nascita del concetto di handicap (“mano nel cappello”, azione durante le gare ippiche, di mettere alcuni tipi di carichi per compensare gli svantaggi che cavalli e cavalieri possono avere alla partenza, in modo da dare parti opportunità a tutti di vincere) allarga l’orizzonte arrivando ad un modello sociale che tiene conto non solo delle dimensioni personali (danno strutturale e funzionale) ma anche di quelle sociali. L’OMS nel 1980 distingue tre tipi di esperienza compromissoria: 1. Menomazione è un danno organico, una patologia che comporta una non esistenza, o cattivo funzionamento, di un arto o di una parte del corpo, una qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica.
2. Disabilità: è la perdita di funzioni, di una capacità operativa, ovvero qualsiasi limitazione o perdita della capacità di compiere una attività nel modo o nell'ampiezza considerati normali per un essere umano. 3. Handicap: condizione di svantaggio vissuta da una persona a causa di menomazione o disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base all’età, sesso, fattori culturali e sociali) Ciò che ha portato a questo progresso è stato sia la presa d’atto sempre più condivisa che le cause del deficit non sono solamente di origine naturale ma anche sociale (lavoro, tempo libero sport, eventi bellici, ambiente in generale) sia la maturazione della consapevolezza dei doveri di responsabilità da parte dei settori della società a intervenire per garantire pari diritti di accesso ai servizi sul piano esistenziale. Nonostante questo grande passo, anche questo modello dimostra delle inadeguatezze, in particolar modo sul concetto di “handiccapato” che continua ad alimentare l’immagine di un soggetto fragile, con potenzialità diminuite , l’etichettatura della persona, nei confronti della quale lo sguardo privilegiato si concentra sulla patologia e su ciò che in lei non funziona, anziche sulle caratteristiche personali del soggetto. Per questo, si passa al concetto di “persona con handicap” fino ad arrivare all’espressione “diversamente abile”, per intendere il soggetto dotato di capacità “altre”, mettendo il luce le potenzialità del soggetto anziché le incapacità. L’ICF Il traguardo più importante è il nuovo sistema di classificazione proposto dall’OMS nel 2001, chiamato ICF. È un accurato strumento diagnostico per comprendere l’individuo e la sua interazione dinamica con l’ambiente di vita: finalmente il deficit non viene considerato isolatamente, ma ricondotto all’interno della più ampia relazione tra fattori fisici, sociali e contestuali, Il suo scopo è quello di fornire un linguaggio unificato e standardizzao per descrivere la salute e gli stati a essa correlati di ogni persona, codificando una vasta gamma di osservazioni correlate. Non si trovano più i termini con connotazione negativa handicap sostituito da partecipazione sociale e disabilità viene preferito quello di attività. Si propone una visione dell’individuo con minorazione che rovescia la prospettiva tradizionale: anziche assumere in primo piano le disfunzioni, si privilegia l’attenzione a mettere in luce le abilità del soggetto in rapporto ai diversi ambienti in cui vive. È caratterizzato da un paradigma bio-psico-sociale in quanto afferma che occorre il concorso di diversi punti di vista (sanitario, famiglia, soggetto stesso, insegnanti, educatori,ecc) al fine di rendere conto degli aspetti di vita personali, mettendo in comune gli esiti delle osservazioni, nell’ottica di ricostruire un profilo di funzionamento globale e evolutivo dell’individuo. Ci si rende conto però, della difficile applicabilità nei più piccoli, e per questo l’OMS ha adattato il sistema di classificazione alla condizione evolutiva infantile e giovanile, sviluppando la versione per bambini e adolescenti (ICF-CY), nella quale viene dato uno spazio privilegiato all’attività del gioco, sia nella sua funzione educativa, sia come mezzo primario di apprendimento. Critiche, studiosi francesi: • tenderebbe a lasciare in ombra alcune dimensioni personali essenziali (il campo dell’interiorità) quali desideri, aspettative, progetti, ma anche fantasmi quali frustrazioni, invidia, rancore • strumento descrittivo carente di direzione di sensoriale
Le disabilità più diffuse e conosciute a scuola Minorazione visiva Condizione in cui non si è mai spettatori. l’assenza o la riduzione della capacità di vedere creano diverse difficoltà, sia nell’azioni della vita quotidiana, sia nell’apprendimento e sia in generale nell’adattamento all’ambiente. Due parametri: 1. capacità di percepire i dettagli fini di un oggetto (acutezza visiva o visus) 2. porzione di spazio che un occhio immobile percepisce di fronte a sé, in assenza di movimenti del capo (campo visivo) entrambe possono riguardare uno o entrambi gli occhi Cecità: comporta la privazione/riduzione del senso visivo, può essere totale quando visus assente o campo visivo inferiore del 3% Ipovisione: condizione di ridotta capacità visiva, può essere grave, medio-grave, lieve in relazione ai valori dei due parametri. Cause, la tiflologia (scienza che studia condizioni e problemi di persone con disabilità visiva) ne individua due principalmente: 1. congenita, presente dalla nascita o primi anni di vita 2. acquisita, quando sopraggiunge dopo i 6/7 anni La disabilità visiva provoca diverse conseguenze sul piano educativo: • ricorso all’uso degli altri organi di senso, sopratutto udito, tatto, olfatto • grossa risorsa diventa il linguaggio, essendo che il cieco e ipovedente grave non possono apprendere per imitazione, che svolge un ruolo fondamentale come canale di comunicazione e mezzo per acquisire conoscenza. • Nuove tecnologie informatiche per la comunicazione che offrono opportunità di conversione del codice Brailee in nero e viceversa, tali da garantire prestazioni esclusive. Minorazione uditiva Per sordità si intende la conseguenza di una carenza patologica nell’azione del sentire, quale espressione di una lesione di varia natura all’apparato uditivo, che raramente è totale; per questo la sordità viene distinta dall’ipoacusia o audiolesione. Diverse classificazione di sordità, secondo il parametro considerato: • periodo di insorgenza (prenatale, congenita, peri-post natale) • localizzazione dei disturbo (orecchio esterno, medio, interno, 1 o entrambi orecchio) • entità del danno (sordità profonda) • cause (ereditarie o acquisite) • periodo di insorgenza considerato in relazione con la fase di sviluppo del linguaggio (prepost verbale) Sul piano comunicativo, la sordità non costituisce di per sé un ostacolo, le informazioni possono essere trasmesse anche dalla molteplicità di codici extraverbali (gestualità, sguardo, volto) che fanno parte del comportamento relazionale. Si possono avere diversi tipi di disturbi: • fonetici (assenza o alterazione di fonemi) • fonologici (ritmo e intonazione alterati) • morfosintattici (frase ridotta) • semantici (lessico povero e rigido) • pragmatici (distorti rapporti parola-azione) I ricercatori e educatori sono indirizzati a ritenere che non ci sia un metodo ideale per principio, ma che il recupero al linguaggio vada individuato ad personam; l’importante è sollecitare e sostenere l’intenzione comunicativa il più precocemente possibile e migliorare progressivamente e in parallelo la motivazione al linguaggio e la competenza linguistico-espressiva.
Importante è stata la diffusione degli impianti cocleari, come strumento per il contenimento dei problemi uditivi profondi e più gravi. L’autismo Conoscenze in merito ancora in via di sviluppo, ci sono ancora diverse interpretazioni per quanto riguarda le cause, sintomi, diagnosi. Si è abbandonata infatti l’idea di considerarla un’unica sindrome, preferendo quindi il termine “disturbi dello spettro autistico”. In nosografia, l’autismo è un disturbo del comportamento causato da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con manifestazione nei primi 3 anni di vita. Le aree prevalentemente interessate riguardano: • interazione sociale reciproca • abilità di comunicare idee e sentimenti • capacità di stabilire relazioni con gli altri Gli esperti raccomandano programmi di intervento mediati dai genitori, poiché i familiari hanno maggiori probabilità di migliorare sia la comunicazione sociale sia i comportamenti disadattivi dei proprio figli. I luoghi deputati alla rieducazione/educazione sono la casa, la scuola e gli altri contesti in cui il bambino trascorre gran parte del tempo; l’età ottimale per iniziare le azioni di stimolazione è prima dei 5 anni, tra i 2 e 3. Fra gli interventi, il più accreditato dagli esperti è l’approccio ABA (Applied behaviour intervention), elaborato da Loovas (1979): modello precoce e intensivo, rivolto all’acquisizione e consolidamento delle capacità intellettive, del linguaggio e dei comportamenti adattivi. Altro metodo, quello TEACCH, ideato da Schopler, che si focalizza su due linee: potenziamento delle capacità individuali e modificazione dell’ambiente secondo i bisogni originali del bambino. Ritardo mentale Soggetti con lo stesso quoziente intellettivo e la stessa età possono avere capacità di adattamento, apprendimento e strutture della personalità molto diverse fra loro. Riguardano disturbi più o meno gravi del funzionamento intellettivo, non si ha un quadro univoco ma come denominatore si ha la presenza, nel soggetto, di processi intellettivi più o meno disfunzionali rispetto alle richieste dei contesti di vita. Diverse cause, pre- natali (es. Sindrome di Down) o post-natali (cause ambientali,carenze mediche, traumi ecc). La classificazione ICD-10 precisa che il ritardo mentale è una condizione caratterizzata soprattutto da compromissione delle abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo (prima dei 18) e che contribuiscono al livello globale dell’intelligenza (cioè quelle cognitive, linguistiche, motorie, sociali). Il minore con ritardo mentale può presentare difficoltà nello: • sviluppo psicomotorio • nel linguaggio • nelle capacità di tradurre le esperienze in codici simbolici • nella capacità di attenzione e memoria L’azione educativa, deve partire da una accurata conoscenza del profilo funzionale del soggetto, con particolare attenzione al funzionamento intellettivo e globale, e alla storia di vita. Paralisi celebrare infantile Tipo di disabilità che interviene precocemente e le conseguenze si protraggono per tutta l’esistenza. Definizione: turba persistente dello sviluppo della postura e del movimento, dovuto ad alterazione della funzione cerebrale, per cause pre-peri-post natali. Diverse le modalità di classificazione, in base a cosa si considera: • localizzazione del danno: compromissioni nell’uso di tutti e 4 gli arti, o solo inferiori, o solo in una parte del corpo
caratteristiche del disturbo: ipertensione muscolare, lentezza, mancanza di coordinamento dei movimenti, problemi quindi di equilibrio Riguardo al trattamento, richiede la collaborazione di più competenze , che devono operare assieme: l’intervento sanitario (medico e riabilitativo), deve dunque coniugarsi con quello educativo (del nucleo familiare in primis, della scuola) ed entrambi vanno inseriti in una progettazione ampia e globale del percorso di sviluppo personale. Aiuto oggi importante può venire dagli ausilii (deambulatori, carrozzine per rendere più autonomi gli spostamenti) e dal ricorso di tecnologie informatiche per facilitare le modalità di comunicazione e abilità scolastiche di base (lettura, calcolo). •
Dalla nascita all’età anziana: per la “VITA INDIPENDENTE” Il processo di ri-conoscimento della persona disabile prende le mosse dall’identificazione della situazione in cui il soggetto vive ed opera ma deve ampliarsi ad orizzonti educativi ed etici, per garantirsi di proseguire nelle prospettive dell’accoglienza, della progettualità e della reciprocità. Sociologo Honneth (2002), la formazione di una identità personale autonoma e compiuta dipende strettamente dalle relazioni di mutuo riconoscimento che gli esseri umani pervengono a stabilire tra loro. Distingue tre sfere di riconoscimento, alle quali corrispondono tre modi della considerazione di sé: 1. relazioni primarie, riguardano i rapporti familiari e di amicizia, che collegano la persona ad un gruppo ristretto e le conferiscono fiducia in sé 2. relazioni giuridiche, basate sul diritto, per cui il singolo diventa soggetto portatore di diritti, guadagnando rispetto di sé 3. comunità etica, riguarda il riconoscimento connesso all’esercizio delle proprie capacità, guadagnando autostima Nei confronti delle persone con disabilità, il significato del termine “riconoscimento” più difficile da perseguire sta nel considerare l’altro capace di dare oltre che ricevere e, di conseguenza, nell’essere disponibili a sostenerlo affinché riesca a mettere in luce sue abilità. Comporta un processo di maturazione, per il superamento di pregiudizi e stereotipi sedimentati nei secoli, e richiede contemporaneamente impegni di ricerca disciplinari e interdisciplinari per conoscere sempre meglio il complesso pianeta della disabilità. La “VITA INDIPENDENTE” è un movimento e una filosofia nata negli Stati Uniti, nei primi anni 70, grazie all’impegno di un gruppo di studenti con disabilità dell’Università della California. Il fine è quello di rivendicare e conquistare i diritti inalienabili delle persone con deficit: sostanzialmente, il diritto alla vita, i diritti sociali e civili e sullo sfondo il diritto all’autodeterminazione. “Vita indipendente, non significa che noi non abbiamo bisogno di nessuno, che vogliamo vivere isolati, significa che noi vogliamo esercitare lo stesso controllo e fare le stesse scelte di vita di tutti i giorni che le persone non disabili danno per scontato” Al centro del principio della “vita indipendente”, stanno i concetti di non discriminazione ed empowerment , termine molto diffuso, con cui si intende la presa in carico da parte del soggetto di tutto ciò che lo riguarda, affichè gli venga riconosciuto dagli altri ed egli possa riconoscere a sé stesso il potere di fare, entrando così nella dimensione dell’autonomia e dell’autoconsapevolezza. Per favorire la Vita indipendente: • l’autonomia richiama essenzialmente la libertà di pensiero, di scelta e di partecipazione sociale,si può essere autonomi pur se dipendenti. • l’autodeterminazione, ovvero la capacità di essere agente causale del proprio modo di esistere; un bisogno presente lungo l’intero sviluppo maturativo della persona, fin dalla prima infanzia, diventando molto più forte in adolescenza. Le competenze in autonomia e autodeterminazione non posso dirsi un traguardo acquisito con l’età adulta: anche in questa fase sono suscettibili di incremento e maturazione.
Per sviluppare ciò, due direzioni di lavoro principali: • il diritto della persona disabile e della sua famiglia alla predisposizione di un progetto individuale “a rete”, lungo l’arco della vita, che li veda protagonisti e in cui siano coordinati e integrati gli interventi e le prestazioni di cura e riabilitazione, quelli socioeducativo-esistenziali e le misure economiche di sostegno. • Contemporaneo intervento sulla comunità, al fine di modificare il contesto per renderlo più sensibile e inclusivo rispetto alle differenze che lo abitano, tra cui la disabilità Infanzia Il PROGETTO per una “vita indipendente” da grandi, si costruisce per gradi a partire dalla prima infanzia. Il focus pedagogico, posto al centro del progetto esistenziale negli anni della scuola, deve essere valorizzato fin dalla nascita,, soprattutto quando questa rivela rischi di disabilità o disabilità conclamate. La comunicazione della diagnosi è un appuntamento cruciale per la costruzione di un possibile futuro. Dopo la consapevolezza della minorazione, l’identità dei genitori tende a strutturarsi intorno al disturbo. La preoccupazione per la salute del piccolo rischia di oscurare la disponibilità a vedere al di là della minorazione, ponendo ostacoli alla scoperta della sua vera personalità. Oltre all’informazione sulla diagnosi, le modalità di trattamento da parte del personale medicoinfermieristico rappresentano esperienze delicate, cruciali: • la scelta del momento • forme della comunicazione • caratteristiche dell’ambiente ospedaliero • organizzazione delle cure Compiti degli specialisti • dedicare attenzione e cura alle percezioni che la coppia genitoriale ha del neonato, sia esplicite, sia a livello di emotività. • aiutare prima di tutto la madre, ma anche il padre, a rimettere i gioco energie e identificazioni positive con il neonato, a riconoscere i segnali propositivi che il piccolo invia • favorire tempi e spazi di “umanizzazione”, accanto agli interventi tecnico-abilitativi • valorizzare i passi in avanti del bimbo, anche se piccoli, per rassicurare i genitori sulla sua possibilità di sopravvivenza. Dopo l’esperienza ospedaliera, l’altro discrimine nella vita del bambino e della famiglia sono le settimane, mesi e primi anni a seguire. È importante la presenza di una figura professionale dotata di competenze educative, come aiuto alla familiarizzazione con il figlio (al rientro a casa), al fine di promuovere lo sviluppo globale del bambino, e quindi, una qualità della vita sufficientemente buona per il nucleo familiare. L’adolescenza è riconosciuta come “età della crisi” sia per il figlio, che per la famiglia; con la consapevolezza che la situazione di crisi va interpretata come periodo di cambiamento, transazione verso l’età adulta. Esperienza esistenziale nella vita degli adolescenti è il gruppo dei pari, in cui ogni ragazzo si identifica e cerca sostegno, e molto spesso la famiglia del ragazzo disabile tende ad ostacolare questo “rito di passaggio” con il timore che il proprio figlio venga deriso e svalutato. Va ricordato però che non è con la distanza che si aiuta il disabile ad integrarsi ma anzi, è necessario incoraggiare e ricercare attivamente le sue capacità reali. La famiglia, la scuola, i professionisti sanitari e sociali che seguono il giovane hanno la responsabilità educativa-sociale-riabilitativa di promuovere, sollecitare, sostenere, accompagnare lo sviluppo, ponendo le condizioni affinché egli incrementi qualitativamente e quantitativamente la sua esperienza di vita e acquisisca i prerequisiti per l’inserimento sociale e lavorativo.
L’accesso al lavoro costituisce l’altro grande cardine dell’età adulta. Ricerche e buone prassi, hanno dimostrato come la distanza tra mondo del disabile e sistema produttivo in realtà si possa superare se è presente un progetto individuale coerente con il progetto di vita della persona disabile e adattabile alle caratteristiche e alle esigenze del contesto lavorativo. Questo progetto, per valorizzare le potenzialità con l’obiettivo di favorire autonomia, consapevolezza, responsabilità. Invecchiamento. Negli ultimi anni, l’aspettativa di vita media delle persone con disabilità è aumentata molto, grazie ai progressi in campo medico e sociale. (es. soggetti sindrome Down, anni 70 sui 20 anni, ora 60anni). Altro rischio, è che quando terminata la scuola e l’eventuale esperienze lavorativa, il soggetto non trovi alternative possibili, se non il rientro nell’alveo familiare e/o il ricovero in strutture residenziali, con il pericolo di regressione. l’avanzamento dell’età rende la situazione più complessa, in quanto l’invecchiamento si accompagna spesso a manifestazioni di deterioramento cognitivo, anticipate e più consistenti rispetto a quelle delle persone a invecchiamento tipico. Nel caso della vita domestica, per compensare il pericolo di scomparsa di stimoli, in seguito alla scarsità di contatti sociali, è importante che il soggetto: • sia sollecitato a trascorrere del tempo fuori casa • a incontrare altre persone • a impegnarsi in attività ricreative • aiutarlo nel distacco dalla famiglia • aiutarlo a pianificare il suo futuro dopo la perdita dei genitori La progettualità delle famiglie con handicap La famiglia è l’ambiente di vita primario che accompagna l’esistenza di ogni persona; costituisce la “base sicura” per ciascun individuo, per indirizzarne la crescita e prepararlo all’ingresso ai vari scenari di vita. Le esperienze vissute in famiglia lasciano in ogni persona un imprinting che segna per sempre. In presenza di un figlio disabile, è facile che non si verifichi la separazione del figlio dal nucleo per la conquista di una propria esistenza autonoma; piuttosto, tende a perpetuarsi il rapporto di dipendenza fino alla sopravvivenza dei genitori, poi verso i fratelli o verso i parenti prossimi. Alcuni esperti considerano i minori con una complessa disabilità come “figli per sempre”, bisognevoli di protezione affettiva e di aiuti per tutta l’esistenza. La letteratura scientifica spiega che sono prima di tutto i genitori quelli che autorizzano o meno il minore a diventare autonomo: la possibilità per il figlio disabile di elaborare gradualmente un progetto di vita più o meno indipendente è in gran parte legato alla maturità genitoriale e alla tenuta della capacità progettuale del nucleo. Nel periodo della scuola, si troveranno ad intervenire come partner al fianco degli insegnanti, “coproduttori di sviluppo”; nella fase dell’adolescenza, invece, dovranno sostenerlo nel passaggio da una identità prevalentemente familiare a una identità sociale adulta. Quando l’età diventerà avanzata, la famiglia dovrà essere messa nelle condizioni di poterlo serenamente “pensare come anziano”, pianificando un distacco, anche parziale. Ovviamente la famiglia non può essere lasciata sola a misurarsi con la situazione di handicap più o meno grave che la disabilità del figlio può generare. Molti studiosi si sono concentrati a osservare e comprendere il modo in cui la famiglia si confronta con l’evento disabilità, tra cui la “teoria dello stress familiare e del suo superamento”, sviluppata negli anni 80 nell’ambito della psicologia sociale, che studia i temi della crisi e delle abilità di coping, inteso come stile attivo e spontaneo di far fronte ai molteplici compiti.
In sintesi, è stato osservato come la “perturbazione” innescata nella famiglia dalla disabilità di un figlio si configura come un “processo di negoziazione” fra i componenti della famiglia, e fra questi e il contesto sociale con cui si intrattengono rapporti reciproci. La possibilità e la capacità di adattarsi positivamente alla situazione dipendono da un mix di fattori interni ed esterni al nucleo, tra cui: • significato che la famiglia attribuisce all’evento • il modo in cui il nucleo ha affrontato compiti evolutivi • la capacità dei genitori di riconoscere e organizzare le risorse proprie e del contesto sociale • le relazioni con l’ambiente esterno Le possibilità che un sistema familiare mantenga i propri modelli, funzioni, anche dopo essere stato sfidato e messo a confronto con fattori di rischio dipendono dalla capacità di resilienza che possiede la famiglia. Si possono distinguere due diversi approcci di studio al concetto di resilienza applicato alla famiglia: 1. si parla di resilienza familiare per indicare gli atteggiamenti e le modalità di protezione e di difesa che la famiglia attiva attorno al suo componente che vive situazione di difficoltà. In questo approccio, l’individuo trae dal proprio ambiente familiare sia le risorse che lo aiutano a superare i problemi, sia risorse a favore del suo sviluppo. La famiglia quindi, non è intesa come gruppo resiliente in sé, ma come fonte di fattori di resilienza. (qualità relazione con almeno uno dei due genitori, stabilità della coppia genitoriale) 2. Sguardo rivolto al gruppo nel suo insieme, che può essere considerato come un sistema che può avere un funzionamento di tipo resiliente a partire dalle sue risorse, dalle sue proprietà specifiche come stabilità e coesione familiare, flessibilità e adattabilità di fronte al cambiamento, resistenza allo stress. Esistenza di rituali. Il modo quindi in cui ogni famiglia affronta la situazione di crisi è unico e il processo di sviluppo della capacità di resilienza dipende molto dal contesto, dalla fase del ciclo di vita e dalle risorse presenti presso il nucleo nel momento in cui la situazione id difficoltà si presenta. Significativo, è il ruolo svolto dai fratelli, per la loro capacità di trasformare un avvenimento doloroso in un’esperienza di vita dagli effetti positivi sia per loro stessi sia per gli altri. Altra risorsa importante sono i nonni, che anche loro affrontano la delusione del nuovo nato che non risponde alle attese, sono la fonte migliore di sostegno, soprattutto perché la loro presenza ha un’influenza benefica su tutto il nucleo familiare e contribuisce a diminuire la situazione di attrito. Al centro dell’intervento della persona disabile, c’è comunque sempre la figura dell’operatore, il quale, mentre si occupa del figlio, riveste un ruolo importante nei confronti della famiglia. Uno dei progetti più diffusi è “l’educazione familiare”, settore disciplinare che si occupa di favorire l’instaurazione di buoni legami di attaccamento tra genitori e figli e di rinforzare la resistenza genitoriale nell’affrontare le difficoltà. Le iniziative di parent training, hanno lo scopo di stimolare cambiamenti nella funzione educativa della famiglia tramite strumenti quali “l’attività informativa”, che prevede una chiara ridefinizione el problema, dei bisogni, delle capacità e delle risorse dei genitori e figli, e “l’attività formativa”, che consiste in azioni volte a promuovere e migliorare le capacità genitoriali. Gli interventi di respite care, “sollievo temporaneo” invece, sono modalità di assistenza che hanno come scopo quello di rendere possibile per la famiglia periodi di tregua dal compito di cura, assistenza ed educazione del figlio con disabilità al fine di ridurre il bornout della famiglia co interventi rivolti all’utente in cura. Possono riguardare tipi di intervento residenziale, domiciliare o con appoggio in altra abitazione, in base a obiettivi, durata ecc. L’associazionismo L a nascita del movimento associazionistico, risalente ai primi 20 anni del ‘900, è caratterizzata dalla presa in carico, da parte delle persone con disabilità e dei loro familiari, della propria condizione (ENS: ente nazionale sordomuti, 1924).
A partire dagli anni 50, si registra un notevole sviluppo di associazioni a tutela di forme di disabilità che non siano esito di guerra o di lavoro. (AIAS, associazione italiana assistenza spastici). Si configurano come gruppi di auto-mutuo aiuto, intenzionati a confrontarsi sui problemi educativi e scolastici dei figli e a rivendicare che gli stessi vengano inseriti nelle scuole comuni di quartiere. Ciascun componente dell’associazione è allo stesso tempo fruitore e dispensatore di aiuto in funzione dell’esperienza maturata. Tre obiettivi principali: 1. Prevenzione primaria: promozione di migliori condizioni di vita individuali e collettivi 2. prevenzione secondaria: potenziamento delle abilità di adattamento attivo di persone che si preparano ad affrontare condizioni o eventi potenzialmente stressanti 3. prevenzione terziaria: recupero di un livello soddisfacente di qualità di vita di coloro che vivono o hanno vissuto condizioni di crisi L’associazionismo familiare da il via, in forma sperimentale, all’inserimento dei bambini con disabilità nella scuola pubblica, fungendo da apripista e da modello destinato a incidere su disposizioni normative di portata storica quali la Legge 118/71 ma soprattutto la “Circolare Falcucci” e la legge 517/77. Si va affermando nel nostro paese e nel mondo occidentale il movimento denominato “pedagogia dei genitori”: l’idea di base è che la famiglia possiede una scienza (pedagogia dei genitori) ed una competenza che devono essere riconosciute dalle altre agenzie, in particolar modo dalla scuola. I genitori sono i migliori conoscitori dei loro bambini/ragazzi con disabilità e rappresentano una componente insostituibile del processo educativo. Pertanto, durante gli anni di frequenza del sistema scolastico, è necessario dare vita ad un “patto educativo” tra la famiglia e gli operatori dei diversi servizi (scuola, sanità, sociale), che accetti le figure genitoriali nel ruolo di “insegnanti” rispetto agli operatori. I sostegni alla persona con disabilità Che cosa significa aiutare la persona con disabilità? Quando il soggetto da aiutare presenta una disabilità, sopratutto se complessa, la rappresentazione sociale prevalente lo considera come un malato da curare, un “paziente” anziché un protagonista. Di conseguenza, la relazione di aiuto più significativa è di tipo assistenziale e compensatorio: gli interventi sono prevalentemente tecnici e specialistici; lo spazio in cui si muove il rapporto è “dedicato”, separato dai contesti di normalità. In contrasto a questo approccio, negli ultimi anni molti esperti hanno ritenuto che la relazione di aiuto sia una componente insostituibile del vivere umano e che l’aiuto e la solidarietà siano una condizione esistenziale e ontologica. Diversi ricercatori di Pedagogia Speciale nell’ultimo decennio propongono riflessioni sull’importanza strategica e sulle caratteristiche della relazione di aiuto nelle professioni educative. • Chi aiuta non può approfittare del bisogno di aiuto degli altri • chi aiuta è tenuto a sospendere il giudizio sull’altro • la relazione di aiuto chiede che nessuno sia sconfitto, ossia che ciascuno abbia la sua parte di ragione, anche la persona con disabilità • chi viene aiutato può e deve misurarsi anche nel ruolo di aiutante, perché così si evita il rischio di creare dipendenza La relazione di aiuto e cura autentica presuppone l’apertura al tempo futuro: è progettualità che sollecita il protagonismo di chi è aiutato. Lo psicopedagogista Vygotsky (approfondisce i suoi studi con osservazione e ricerca sui bambini con disabilità) e il movimento della “pedagogia istituazionale”, ci hanno insegnato che la relazione di aiuto e di cura si serve di mediatori (segni verbali e non, pensieri, metodologie specifiche, dispositivi materiali e organizzativi) che permettono agli operatori di sostituire la propria azione
diretta con un sistema di tecniche, attività, strumenti utili a favorire la crescita, la motivazione, scambi affettivi e verbali nelle situazioni terapeutiche e educative. Le tecnologie assistive Nella società di oggi, molto più che in passato, l’impiego di risorse tecnologiche costituisce per tutti un pilastro fondamentale per favorire la realizzazione di sé e la partecipazione alla vita sociale, per condurre una vita degna. Si tratta di strumentazioni e ambienti multimediali che amplificano di molto le possibilità di autonomia, non nel senso di “riuscire a fare tutto da soli”, ma rimanda al recupero di un nuovo equilibrio nelle relazioni con sé, con l’ambiente e con gli altri, a fronte di una limitazione. Un esempio di come le tecnologie possono favorire e sostenere la vita indipendente è la casa domotica: attraverso l’uso di dispositivi automatizzati elettronici ed informatici, può aiutare a superare le barriere allo svolgimento delle attività quotidiane e quindi, in generale, può favorire la gestione e il controllo dell’abitazione da parte delle persone con disabilità. (es. impianto cocleare, mobilità a chi non ha l’uso delle gambe. Ausilio: qualsiasi prodotto atto a prevenire, compensare, tenere sotto controllo, alleviare o eliminare menomazioni, limitazioni nelle attività o ostacoli alla partecipazione. Tra gli ausili, detti “tecnologie assistive”, ci sono diversi prodotti che intervengono a facilitare vari aspetti della vita della persona; le più diffuse le “tecnologie dell’informazione e della comunicazione, TIC), divenute parte integrante del processo educativo. Secondo due ricercatori (Andrich e Pilati), ci sono vari tipi di ausilii: • protesici, se compensano una funzione assente • ortesici, se compensano una funzione presente ma compromessa • adattivi, permettono di svolgere attività • ambientali,rimuovere barriere edilizie come ascensore • assistenziali, alleviare il carico della persona che assiste • terapeutici, prevenire insorgenza di complicanze secondarie L’ausilio migliore è senza dubbio quello che riesce a diventare parte dell’identità del soggetto, tanto da risultare invisibile quando viene utilizzato. Attraverso l’interazione stretta con il dispositivo, viene infatti ad instaurarsi un “incontro simbiotico” tra la persona e l’ausilio. Una volta individuata la tecnologia appropriata, è necessario accompagnare la persona nel processo di adattamento al dispositivo: ci vuole un’educazione all’uso, un aiuto er riuscire a vivere l’aiuto tecnico.
TERZA PARTE Integrazione o inclusione? Il dibattito nel contesto internazionale A partire dalla metà degli anni 90, l’obiettivo “inclusione” è stato considerato validamente, diventando un principio condiviso. DICHIARAZIONE DI SALAMANCA (1994): si è riconosciuta la necessità e urgenza di dare insegnamento a tutti i bambini, giovani o adulti con esigenze educative speciali, integrandoli dentro il sistema comune di educazione che costituisce il modo più efficace per combattere i comportamenti discriminatori e per raggiungere l’obiettivo di un’educazione per tutti. Il paradigma dell’accoglienza del “diverso” nella scuola di tutti, nella sua forma più avanzata, considera che è il sistema, non l’individuo, a mostrare lacune e disabilità di fronte alle richieste implicate dall’azione educativa in aula con il gruppo naturale degli allievi. Nel nostro Paese, la tradizione socio-culturale del processo che ha portato gli studenti con disabilità ad entrare nel sistema scolastico comune, ha reso più familiare l’impiego dell’espressione integrazione; il mondo anglosassone ha invece adottato il concetto di inclusione. •
Inserimento: riconosce il diritto delle persone con disabilità ad avere un posto nel sistema scolastico e nella società, garantendone l’inserimento giuridico e fisico appunto; l’approccio è di tipo assistenziale e normativo. Nel nostro Paese, questa scelta, ha prodotto uno smantellamento delle scuole e classi speciali e l’approdo nella classi comuni della scuola dell’obbligo (legge 118/71)
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Integrazione: da “integro”, rendere qualcosa completo; garantisce il rispetto dei bisogni educativi personali all’interno della scuola di tutti, attraverso la qualità e la flessibilità degli interventi programmatici, organizzativi e didattici. La legislazione, avendo sperimentato che il semplice inserimento non garantisce le migliori attenzioni educative, ha delineato una nuova visione della scuola e ne ha rivoluzionato alcuni strumenti, introducendo, con specifico riferimento alla disabilità: programmazione individualizzata, arricchimento dell’offerta formativa, ampliamento del tempo scolastico. Nel modello dell’integrazione, che permea la “legge quadro sull’handicap”, prevale però ancora l’idea che il soggetto sia “speciale” e vada pertanto sostenuto da interventi prevalentemente tecnici.
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Inclusione: da inclusion, essere parte di qualcosa; modello prevalente nei documenti internazionali più vicini nel tempo, in base al quale la persona portatrice di diversità entra nella comunità a pieno titolo, alla pari di tutti gli altri. I principi di funzionamento, le regole, e le routines del contesto devono essere riformulati avendo presenti tutti i componenti, ciascuno con la propria specificità. L’essere inclusi è un modo di vivere insieme, basato sulla convinzione che ogni individuo ha valore e appartiene alla comunità. all’interno della scuola, è il sistema che si deve adattare alla diversità degli allievi; per questo anche i servizi speciali vanno portati quanto più possibile dentro il singolo istituto e la classe.
In questi anni, si sta registrando sempre più un cambiamento nella direzione di un ampliamento della popolazione degli studenti soggetti di attenzione: accanto al deficit trovano sempre maggiore considerazione i bisogni educativi speciali. Si è raggiunta la consapevolezza che la classe è un insieme di diversità, fra le quali subentrano altre fragilità oltre a quelle dei cosiddetti “handicappati” (allievi con difficoltà di apprendimento, attenzione, linguaggio), che hanno bisogno di interventi educativi e didattici potenziati e differenziati per poter beneficiare del curriculo di studi con pari opportunità. Di recente, l’autorità scolastica del nostro Paese è intervenuta sulla questione, scegliendo di dare visibilità a una popolazione scolastica con difficoltà di apprendimento, per vari ragioni personali e/o
sociali, per lungo rimasta sommersa: si era già iniziato ad imboccare questa strada fornendo agli insegnanti indicazioni a tutela degli allievi con Disturbi Specifici di Apprendimento (DSAdiscalculia, dislessia, disgrafia e disortografia), con il proposito di centrare più obiettivi: • identificare un’unica macrocategoria di minori con problemi di studio e/o scolarizzazione • ricomprendere anche gli studenti con disabilità • individuare le microaree di specificità all’interno del grande gruppo eterogeneo (allievi con disabilità, DSA, deficit di attenzione) • prevedere il diritto a progetti didattici individualizzati e personalizzati • garantire pratiche più inclusive Nel contesto dell’UE, il pedagogista Goussot identifica tre diverse concezioni del processo, tre diverse forme/modi per rispondere al diritto di istruzione degli studenti con disabilità, secondo l’Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione per gli studenti disabili:: 1. proposta dell’opzione unica, approccio unidirezionale: frequenza della scuola comune, scuola unica, comprensiva e inclusiva (Italia, Svezia) 2. approccio multi-direzionale, con una gamma di servizi più o meno integrati all’insegnamento ordinario, attraverso il ricorso al concetto di bisogni educativi speciali, si tratta di un’educazione speciale integrata (Francia, Regno Unito, Spagna, Germania, Finlandia) 3. approccio bidirezionale, proposta di due opzioni parallele, ossia di due insegnamenti distinti e separati: ordinario e speciale, offrendo programmi di sviluppo individualizzati e una didattica differenziata, si tratta quindi di un’educazione speciale. (Belgio francofono, Paesi Bassi) Il processo di integrazione dei soggetti disabili nel sistema formativo dal nido all’università, si è arricchito di una molteplicità di significati, tra cui: • Valore pratico-valoriale: orientata a promuovere la persona a essere se stessa, a trovare un suo equilibrio in presenza del deficit, guardando quindi alla differenza e difficoltà in termini di risorsa e non di limite. • Carattere prassico: rimanda alle dimensioni giuridiche del processo di accoglienza nella scuola (dall’approvazione della legge 104/92, nel primo decennio di questo secolo circa 2/3 delle scuole italiane ospitano allievi con deficit, totale degli studenti disabili scolarati circa 200mila soggetti). Una volta resa normale la presenza di questi allievi, le politiche scolastiche si sono indirizzate a considerare l’integrazione una “variaile dipendente” del sistema; si sono sempre meno avute norme apposite per i disabili nella scuola e sempre più gli aspetti dell’integrazione sono affrontati nell’ambito delle disposizioni generali. Strumento di raccordo tra scuola e territorio è il POF- PIANO dell’OFFERTA FORMATIVA, documento istituzionale, didattico e organizzativo attraverso il quale la scuola dichiara la propria identità formativa e determina le modalità di rapporto con il territorio. Il documento dovrebbe esprimere pienamente la sensibilità della comunità verso l’accoglienza degli studenti con difficoltà, infatti, dal 2003 in ogni POF ci deve essere un apposito “Piano annuale per l’Inclusività”, che vuole rappresentare uno strumento strategico nelle mani degli insegnanti con un duplice scopo: da un lato far emergere l’insieme delle difficoltà e dei disturbi riscontrati, dando consapevolezza di quanto è vasto lo spettro delle diversità nella scuola, e dall’altro di sollecitare la creazione di uno sfondo su cui sviluppare una didattica attenta ai bisogni di ciascuno nel conseguire gli obiettivi comuni. Promuovere la scuola come comunità inclusiva Ma secondo quale modello funziona la scuola? Che cosa insegnano e come insegnano i docenti? Come vengono sollecitati gli allievi?
Gli esperti individuano due grandi modelli in grado di rispondere alle sfide del cambiamento, quello “funzionalista” e quello “antropocentrico”. • Modello “funzionalista” o della “scuola-azienda”. Compito della scuola è implementare negli studenti saperi e competenze utili alla domanda sociale e produttiva. La ricerca di serietà, è il principale indicatore di qualità; viene dedicata una forte attenzione alla misurazione del profitto degli allievi e alla produttività degli insegnanti, si tende a valorizzare e privilegiare gli studenti più capaci (lezione frontale e valutazione quantitativa). • Modello “antropologico” della “scuola-comunità”, pur accettando l’idea che il sistema scolastico debba abilitare i giovani ai saperi professionali, come richiesto dalla società, non vuole misurarsi esclusivamente con l’indicatore della produttività. • Vuole invece coniugare le conoscenze e le competenze funzionali con la formazione globale della persona di tutti gli studenti, ciascuno considerato nella sua originalità esistenziale. È ipotizzabile che una istituzione improntata sul primo modello rivolta agli studenti disabili o con necessità educative speciali dei riguardi differenziati e riservati, perché la loro presenza in classe comporta “perdita di tempo” per tutti, soprattutto se in mancanza di risorse. (aule-laboratorio particolarmente attrezzate, aule “di sostegno”, concentrazione di allievi disabili). Al contrario, nella logica del modello comunitario, l’istituzione si sforza di offrire risposte “specifiche” a problemi personali particolari in contesti di normalità e non in ambienti separati (adattamento della programmazione di classe, collaborazione tra insegnanti e allievi, eventuale riduzione del numero di allievi nelle classi frequentate da studenti disabili). Per una scuola ACCOGLIENTE verso la disabilità: • intreccio di azioni educative e di relazioni significative, non frammentarie, tra gli attori dei diversi contesti professionali e non, e con le famiglie. • Disponibilità a mettere a confronto e in comune (integrare) le rispettive conoscenze, competenze, differenti linguaggi (educativo-sanitario-sociale-culturale) e gli strumenti comunicativi • valorizzare al massimo la comunicazione reciproca, in coinvolgimento e il senso di responsabilizzazione al compito fra le persone e i gruppi che la animano • azione di ricerca continua per fornire servizi qualificati in risposta alle varie esigenze • da quindi la possibilità che tutti gli alunni, non solo quelli “fragili”, seguano programmi scolastici stimolanti e nello stesso tempo adeguati alle possibilità di ciascuno, all’interno della classe, assieme ai compagni. • Scuola e aula diventano quindi ambienti in cui ognuno si sente di appartenere, dove è accettato • interesse a sviluppare non solo un tipo di sostegno (insegnante specializzato) ma una “rete di sostegno” in supporto ai bisogni degli allievi prima di tutto, ma anche dei docenti (ogni alunno, anche disabile, dispone di energie e doti da usare per aiutare a sua volta altri componenti della comunità, rapporto di sostegno spontaneo tra compagni e colleghi) All’interno della scuola, due gruppi di lavoro: 1. Gruppo tecnico, che sovrintende al Piano Educativo Personalizzato (PEI) di ciascuno studente; composto da docenti di classe, dalla famiglia, dagli specialisti che seguono il caso e da eventuali figure assistenziali. Il compito è quello di elaborare, monitorare e valutare il progetto scolastico dell’allievo. 2. Gruppo di lavoro di istituto (GLHI), con il ruolo invece di sovrintendere alle iniziative educative e di integrazione di tutti gli studenti con disabilità frequentanti la scuola. Lo presiede il dirigente scolastico e poi tutti quelli del PEI. È la “mente pensante e organizzativa”, in materia di disabilità nella scuola. Il GLHI, è stato sotituito poi dal “Gruppo di lavoro per l’Inclusione”, che estende i compiti di coordinamento, studio, progettazione e organizzazione alle problematiche relative a tutti i BES.
Come valutare il livello di qualità dell’integrazione nelle scuole? • Indicatori strutturali: legati ad aspetti istituzionali-normativi (criteri formazione classe, assegnazione risorse) • Indicatori di processo: connessi alla programmazione e attuazione dell’integrazione • Indicatori di risultato: efficienza dei servizi realizzati, traguardi nella crescita dell’autonomia, degli apprendimenti Indicatori utilizzati in un’indagine condotta in numerose scuole dall’Osservatorio Nazionale dell’Associazione Italiana Persone Down sugli “indicatori di qualità” nelle scuole italiane (2010). Sostegni e azioni collaborative che si basano sulla multifattorialità delle esperienze (scolastiche, lavorative,assistenziali, sanitarie) trovano piena rispondenza nel paradigma “ecologico” di Bronferbrenner (1979). in base alla sua teoria, adattata ovviamente alla situazione dei minori con BES, la relazione scuolaallievo-famiglia rappresenta una struttura interconnessa con le altre situazioni ambientali in cui la persona vive: soggetto-famiglia-singoli servizi e, più in generale, soggetto-famiglia-territorio. Questo punto di vista porta a pensare ciascuno degli attori coinvolti come parte attiva della trama e non come semplici contenitori isolati di bisogni e/o di risposte e/o di problemi, pur esistenti. Dal progetto scolastico al progetto di vita adulta La scuola è luogo deputato all’educazione attraverso l’istruzione; è necessario che la scuola, in tutte le sue articolazioni, sappia accogliere l’allievo predisponendo per lui un progetto formativo capace di tradurre in atto le sue capacità, così da condurlo alla maturazione di quelle conoscenze e competenze che gli consentiranno un inserimento lavorativo e sociale adeguato e che gli offriranno i massimi gradi di autonomia e autodeterminazione possibili. La legislazione nazionale indica i traguardi generali del processo formativo per gli alunni con problemi legati al deficit nei termini di: • comunicazione • apprendimento • relazione • socializzazione • autonomia In particolar modo, le esperienze educative e didattiche scolastiche devono collegarsi alla biografia personale del minore, mirando a sostenere in lui lo sviluppo del “migliore Sè possibile”. Di fronte alla complessità del compito di conoscere in modo approfondito e di capire un individuo con deficit, e vista l’interdipendenza di molte variabili nell’unitarietà della persona, il processo di conoscenza deve osservare alcune cautele, come relazionarsi: • rispettare lo svelarsi reciproco tra adulto/allievo, è un conoscere che va incontro all’alto lasciandogli lo spazio e la libertà per progettarsi • non identificare l’allievo con il suo deficit ma essere attenti a cogliere la personalità nel suo complesso • non cercare di fermare il fluire di situazioni personali e relazionali Riguardo invece al cosa osservare, il profilo iniziale deve essere particolarmente attento a cogliere non solo l’impatto della minorazione sulla personalità, ma le attitudini individuali, le conoscenze già acquisite, le sicurezze raggiunte rispetto all’apprendimento Per il compagno con disabilità, è necessario creare una situazione ideale, composta da due modelli progettuali: 1. Individualizzazione didattica: l’adattamento degli obiettivi, dei contenuti, dei linguaggi, tempi e ritmi dell’insegnamento alle esigenze di apprendimento dello studente; 2. Personalizzazione educativa: teoria educativa complessa il cui fondamento è posto nel concetto di sviluppo della persona, intesa come soggetto unico, originale, libero
Il PEI, quindi, non è quindi solamente un prodotto da costruire in senso tecnico, ma un cammino frutto di scelte che si rinnovano nel tempo, anno dopo anno. Altro elemento fondamentale è la valutazione, che svolge un importante ruolo formativo in funzione dell’apprendimento/maturazione, offrendo un rispecchiamento sia al docente sia al soggetto stesso e ai suoi familiari, in modo che non venga persa di vista la meta e che il processo rimanga coerente ai propositi. La valutazione formativa deve curare sicuramente il profitto ma anche lo sviluppo cognitivo e metacognitivo e la motivazione all’apprendere continuo, affinché l’allievo acquisisca una sempre maggiore governance dei suoi progressi culturali e sociali. Il suo scopo è quello di fornire informazioni continue, utili ad accertare in modo analitico quali abilità e competenze ciascun allievo stia acquisendo e rispetto a quali incontri difficoltà. È prevista per gli studenti con disabilità una valutazione “individualizzata”. Nonostante le difficoltà di percorso, tuttavia, va maturando nei professionisti e nei genitori una sempre maggiore consapevolezza della necessità di aprirsi a elaborare un progetto scolastico che diventi sempre di più un progetto per la vita adulta, in grado di abbracciare dimensioni di ruolo, spaziali e temporali più ampie di quelle strettamente scolastiche. La DOCUMENTAZIONE che accompagna l’integrazione scolastica Importante la documentazione dell’iter, per il quale la legislazione prevede strumenti specifici : la “Diagnosi funzionale” e il “Piano Educativo Individualizzato”. • Diagnosi/profilo funzionale all’intervento educativo Per diagnosi funzionale si intende “la descrizione analitica della compromissione dello stato psicofisico dell’alunno, al momento in cui accede alla struttura sanitaria.” Questa prima definizione sottolinea un’ impostazione prevalentemente “clinico-medica”, e quindi non in grado di dare degli aiuti concreti agli insegnanti per la definizione della “progettazione educativa”. Si è quindi arrivati ad una revisione, definendola come un “atto di valutazione dinamica di ingresso e presa in carico, per la piena integrazione scolastica e sociale.” La sua formulazione rimane di competenza degli specialisti della Sanità, in collaborazione con la scuola e la famiglia. Il carattere di segnalazione implicito nella diagnosi, non si limita alla messa in parole di una condizione di disabilità più o meno grave, ma sollecita la reciprocità dello scambio di informazioni tra operatori e attori di diversi contesti, ossia tutti quelli che il minore frequenta di solito. Il progetto di benessere personale si costruisce e si alimenta con la sinergia di punti di vista differenti. La conoscenza della persona con disabilità si costruisce secondo un processo passibile di cambiamenti con il trascorrere degli anni: la diagnosi è “evolutiva” non rigida, anche se sempre esposta al rischio di essere considerata tale, che si modifica in relazione alla modificazione di una o più delle molteplici variabili umane e materiali coinvolte nella situazione: la condizione del minore stesso o le circostanze ambientali. Nel corso della storia personale, infatti, possono verificarsi eventi o momenti “critici”, che per la loro stessa natura producono mutamenti radicali dell’esperienza e favoriscono ulteriori acquisizioni. • Piano Educativo Individualizzato E’ il cuore vitale della progettazione scolastica in prospettiva integrativa. È il documento nel quale vengono descritti gli interventi equilibrati ed integrati tra loro, predisposti per l’alunno in situazioni di handicap, in un determinato periodo di tempo, ai fini della realizzazione del diritto all’educazione e all’istruzione. La realizzazione del PEI avviene grazie alla partecipazione degli insegnanti, educatore professionale, eventuale personale paramedico, interprete della lingua dei segni o linguaggio Braille.
Il PEI si propone come documento e come pratica che riassume le fasi fondamentali della conoscenza del minore e dell’intervento progettuale- programmatico, muovendo dalla comprensione delle capacità per prevedere, sulla base di esse: • individuazione degli obiettivi plausibili • orientamento rispetto alle attività, alla scelta delle risorse e materiali e metodi più adeguati • valutazione dei traguardi raggiunti dallo studente così come della qualità dei processi attivati Al di la delle dichiarazioni sulla carta, nel concreto dell’operatività, il PEI può venire declinato come veicolo che incrementa la partecipazione dell’allievo alla vita del gruppo classe di appartenenza, qualora vi sia sinergia tra i docenti a livello programmatico, organizzativo, metodologico, operativo, strumentale. Oppure al contrario, può divenire uno strumento di isolamento, qualora sia espressione di una costruzione solitaria e di un utilizzo disfunzionale da parte del solo docente specializzato. Rischi: • che la sua pratica con l’uso lo renda un esercizio tanto ovvio e scontato quanto povero di significati sostanziali • di stabilire un nesso di causalità lineare tra il momento clinico-diagnostico e quello prognostico, come se dall’analisi del profilo di funzionamento si abbia già una predizione certa su chi potrà diventare il soggetto, non tenendo in considerazione i possibili imprevisti e gli stimoli ambientali diversi che influenzano. • PEI che adottano un linguaggio e formule standardizzate e uguali nel corso degli anni, addirittura per allievi diversi, quasi che il PEI sia un resoconto burocratico. Un buon PEI deve permettere di pensare l’allievo non solo in quanto tale, ma vedendolo inserito in contesti più ampi, diversi dalla scuola e non per questo ristretti alla famiglia (esperienze extrascolastiche). Il PEI è un progetto di vita non solo nella prospettiva orizzontale, ma anche in quella verticale, immaginando di costruire nell’oggi la dimensione del futuro, a partire almeno dalla prima classe della scuola secondaria si primo grado, e per questo deve promuovere interventi qualificati e integrativi a livello educativo e didattico , che siano aperti e ben coordinati con le esperienze offerte dal territorio in cui il minore vive. Un “coro” di professionalità per l’integrazione scolastica Nella “via italiana” alla scolarizzazione degli allievi con disabilità l’insegnante specializzato per il sostegno è, fin dalle origini, una figura cardine del processo. Tuttavia, è necessario che comunque anche gli insegnanti curricolari si occupino del PEI. L’insegnante specializzato Storia: La prima scuola magistrale ortofonetica viene aperta a Roma agli inizi del 900, con la finalità di qualificare in modo specifico i maestri impegnati nelle istituzioni dedicati agli “anormali psichici”. È solo con il Regio Decreto del 1928 che la formazione specializzata trova una prima sistematizzazione, con l’istituzione di scuole diversificate per le differenti minorazioni: le scuole di metodo per insegnanti dei soggetti ciechi e sordomuti, i corsi sulla fisiopatologia dello sviluppo fisico e psichico per gli insegnanti elementari, corsi di durata annuale. Dagli anni ‘70, il progressivo inserimento dei minori con disabilità nelle scuole comuni rende acuto il problema di garantire un’adeguata qualificazione specialistica degli insegnanti. Con la legge 970/75, prevede che i dirigenti e docenti di tutti gli ordini di scuola interessati a operare con alunni disabili debbano essere forniti di un titolo di specializzazione “polivalente” (valida quindi per tutti i tipi di minorazione), da conseguire al termine di un percorso di durata biennale, di carattere teorico-pratico, presso scuole o istituti riconosciuti dal ministero. Dopo due anni, vengono approvati i programmi dei Corsi di Specializzazione da proporre a scuole e istituti.
Nell’86, vengono sostituiti da Corsi biennali di specializzazione per il personale operante in attività di sostegno agli alunni handicappati che frequentano la scuola ordinaria. Il piano informativo dei programmi, tende a costruire un progetto basato su 3 elementi: 1. area disciplinare (contenuti pedagogici, psicologici e clinici) 2. dimensione operativa (finalizzata alla prassi) 3. didattica curriculare, impegnata ad adattare la didattica generale alle specifiche esigenze delle minorazioni Il docente specializzato è colui che in classe e nella scuola rappresenta il riferimento al progetto di aiuto all’alunno handicappato. Pur operando una distinzione tra le situazioni particolari dei diversi diversi studenti con disabilità, il testo programmatico chiarisce che, in ogni caso, tutti possono trarre profitto dall’intervento educativo nella scuola comune. Un nuovo impulso arriva con la “legge quadro sull’handicap” che considera l’insegnante di sostegno “contitolare” di classe alla pari con i docenti curricolari e prevede che la formazione specialistica venga allocata in ambito universitario. Questa figura è ad un tempo “risorsa formale/specializzata” per la guida nella crescita e nell’apprendimento e “risorsa informale/di sostegno”, con compiti di carattere comunicativo, organizzativo e sistematico. Anni 90, laurea quadriennale in Scienze della Formazione Primaria,per futuri docenti con specifiche attività didattiche aggiuntive per almeno 400 ore, al fine di conseguire quei contenuti attinenti all’integrazione scolastica degli alunni disabili. Nel 2011, cambio di rotta, rivolto solo a soggetti già abilitati all’insegnamento, che prevede una prova di selezione all’accesso e un carico didattico di circa 1400 ore in unno di lezioni, laboratorio, tirocinio e prova finale. Insegnante specializzato: tende ad evidenziare le conoscenze e competenze tecniche (di ordine psico-socio.medico-pedagogico-didattico) che l’insegnante deve mettere a disposizione per favorire lo sviluppo delle potenzialità dell’alunno. Insegnante di sostegno: evidenzia la funzione di supporto all’inclusione, sostener elo sviluppo del minore e la sua piena accoglienza nel contesto scuola. Da insegnante di sostegno, si è arrivati al nome di “insegnante specializzato per il sostegno all’integrazione”, egli deve possedere e mettere in campo: • competenze tecniche di tipo pedagogico-didattico e organizzativo, che gli consentono di garantire interventi individualizzati di natura integrativa: deve cioè essere in grado di conoscere bene l’allievo e di interpretare i suoi bisogni speciali; deve saper concordare obiettivi educativi e didattici e individuare le risorse materiali e tecnologiche opportune insieme ai colleghi di classe • competenze di supporto/sostegno, per cui deve essere capace di evidenziare ai colleghi stessi i nodi metodologici e didattico-disciplianri in cui si inceppa l’azione di educazione e istruzione nei confronti degli allievi con disabilità. Inoltre, deve saper mediare fra gli operatori, tanto all’interno del sistema scolastico, quanto al di fuori di esso (famiglia, altre agenzie educative, azienda ASL, ecc) • conseguenti competenze nell’interazione (capacità di comunicazione e relazione) nei confronti degli altri operatori, colleghi e non, dovendo programmare, gestire, trovare spazi e stabilire relazioni, oltre ad attuare interventi molto specifici. È importante sottolineare che non si deve mai delegare al solo insegnante di sostegno l’attuazione degli interventi educativi e didattici previsti nel PEI, poiché in tal modo l’alunno verrebbe isolato e non integrato, ma anche agli insegnanti della classe e alla comunità scolastica nel suo insieme. A questo proposito, si parla di competenza diffusa o rete di sostegno, all’interno dell’istituzione scolastica. L’educatore
L’educatore professionale ha registrato una notevole evoluzione nella seconda metà del 900. Negli anni 50-60, è considerato un operatore a cui non servono specifici titoli di studio, in quanto essenzialmente impiegato all’interno di istituzioni a carattere assistenziale e rieducativo, nell’accudimento di minori in difficoltà e in un secondo momento al servizio di più estese categorie di emarginati. Solo negli anni 80, in concomitanza con il passaggio dal Welfare State al Welfare Society, la legislazione impone il possesso di un titolo di studio apposito, indispensabile per poter operare nei servizi socio-educativi assistenziali. Anni 90, laurea in Scienze dell’educazione, con indirizzo educatore professionale extrascolastico, con discipline utili a formare competenze pedagogiche, psicologiche e sociologiche in misura minore rispetto a saperi di impostazione sanitaria, che ha la supremazia, incarnandone la formazione con valore abilitante, presso la facoltà di Medicina e Chirurgia. Da qui, due percorsi, uno più codificato nelle professioni sanitarie e riabilitative, l’altro di impianto educativo. Al fianco degli insegnanti, l’educatore collabora alla realizzazione del PEI come progetto esistenziale, aiutando il minore con disabilità a “riposizionare” il suo percorso, nel senso di accompagnarlo nello sforzo di ricollocarsi, per trovare equilibri sempre nuovi e migliori. Non interviene né sugli aspetti didattici né sulla verifica degli apprendimenti, ma svolge un ruolo di facilitatore relazionale, operando sull’ambiente “ecologicamente” inteso, al fine di attivare le risorse individuali e dei contesti, per favorire l’empowerment da un lato e per promuovere la cultura dell’accoglienza dall’altro. Canevaro attribuisce all’educatore due compiti essenziali: 1. saper essere un “mediatore/interprete” capace, in grado di mantenere attivo il flusso di fiducia nelle potenzialità personali e situazionali 2. saper fare e promuovere progetti non riferendosi unicamente alla propria professionalità, ma a un disegno, a una strutturazione aperta e condivisa con altri professionisti. Egli è perciò prima di tutto un operatore educativo, un agente di promozione umana individuale e collettiva, in quanto deve saper cogliere con tempestività i dispositivi educativi di una situazione, per passare a reinterpretarli in un programma di azione che si traduce in interventi concreti, sempre consapevole che ogni evento legato alla crescita può riservare margini di imprevedibilità.