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Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio I bambini e la filosofia, un progetto pilota di Pro Juventute Svizzera italiana entra nelle scuole
Ambiente e Benessere Junker, ovvero l’applicazione pensata per incentivare e migliorare il riciclo di rifiuti già operativa in alcune realtà del nostro Cantone, come Locarno; ce ne parla il responsabile del Dicastero ambiente e territorio della città sul Verbano, Bruno Buzzini
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 7 ottobre 2019
Azione 41 Politica e Economia Il rischio per l’Italia di uscire dall’eurozona resta sempre alto
Cultura e Spettacoli Opere come racconti: Samuele Gabai al Salone Espositivo della Società Bancaria Ticinese
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Lei così amata, lei così odiata
Il comune di Bivio non esiste più L’italianità perde il suo avamposto
di Peter Schiesser
di Fabio Dozio
Keystone
Greta Thunberg. Il suo nome non lascia indifferenti. Scatena emozioni forti. Negli uni speranza e rabbia per l’immobilismo di taluni potenti, politici e lobby, negli altri astio verso questa ragazzina che da un anno domina il discorso sul clima. Oggi ha sedici anni (!), è un’icona mondiale (o almeno in tutto l’Occidente), è diventata una superficie di proiezione di aspettative quasi messianiche ma anche di odii viscerali. Come fa a reggere questo peso, alla sua età? Ne scrive Alfredo Venturi a pagina 33, ma l’interrogativo voglio porlo anche qui: che cosa ha fatto di male questa ragazzina per meritarsi l’astio dei negazionisti dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo? Sta mobilitando la sua generazione ad occuparsi del proprio futuro, quindi di politica, ad impegnarsi per il bene della società, e se questo nei suoi coetanei si trasforma in un atteggiamento diverso verso la natura, verso i dogmi di una crescita economica ad ogni prezzo, avremo in mano un biglietto per un futuro che non sarà peggiore di questo. Non si lamentava fino a ieri l’indifferenza dei giovani verso la politica, verso la società in genere, il loro individualismo sempre più spinto? Ma Greta Thunberg è anche uno specchio, in cui la generazione adulta vede riflessa la propria coscienza, offuscata dai fumi del benessere materiale sopra a tutto. Ed è forse per questo che una parte della popolazione la rifiuta, ossia quella più conservatrice, anche se paradossalmente questa intende conservare uno stile di vita, un tipo di economia che si regge su energie fossili, il cui effetto è ben poco conservativo (dell’ambiente). Certo, possiamo trovare ingenuità, anche incongruenze, richiami apocalittici, che possono spingere frange ambientaliste su vie radicali. Ma negare che arrivino maggiori catastrofi naturali significa non avere compreso che quel processo è già in atto. Per chi resta vittima, vivo o morto che ne esca, di uragani o altri eventi maggiori oggi più frequenti e intensi di un tempo, la catastrofe non è un’ipotesi: è già arrivata. E questo, in Occidente lo hanno capito anche molti politici e molti governi. Non è un caso quindi che Greta venga accolta dal Papa, da Angela Merkel e Barack Obama, che venga invitata a parlare al Forum economico di Davos, persino davanti all’Assemblea generale dell’ONU (dov’eravamo noi a 16 anni?). E gli appelli a mobilitarsi, a manifestare raccolgono milioni di persone nel mondo (in Svizzera non si erano mai viste 60mila persone sulla Piazza federale a Berna). Benché oggi su posizioni ancora separate dalla distanza che c’è fra la visione e l’azione, Greta Thunberg e un’importante parte del mondo politico, economico e della società condividono l’obiettivo di fondo: l’impegno contro i cambiamenti climatici. Secondo Greta e i suoi seguaci non si fa abbastanza, e in effetti finora si è fatto poco dal lato pratico, ma l’impressione è che ora si cominci a fare sul serio, pur nelle difficoltà di smuovere politica, economia e società a trasformarsi in senso più ecologico. Una Greta Thunberg che sprona, che non demorde, che mobilita, che trova in altre parti del mondo degli emuli, fa sì che la tensione non cali, che il discorso sul clima venga interiorizzato. Prendiamo la Germania: il governo Merkel ha confezionato un pacchetto di misure per 54 miliardi di euro. Se sarà efficace, se sarà abbastanza, lo si vedrà presto, ma un simile impegno apre le porte a successive misure. Oppure sarebbe meglio non provarci nemmeno? Ma che il cambiamento sia in atto possiamo vederlo anche in casa nostra: se lo scorso dicembre il Consiglio nazionale aveva affossato la legge sul CO2 in un’alleanza contro-natura fra destra e sinistra (per gli uni troppo audace, per gli altri troppo debole), il 25 settembre il Consiglio degli Stati ne ha adottata una che solo qualche anno fa sarebbe stata impensabile (37 sì, 1 no, 3 astenuti). Prevede di dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 del 50 per cento rispetto al 1990, di cui il 60 per cento con misure in Svizzera, tramite severe limitazioni tecniche agli impianti di riscaldamento, una tassa sui biglietti aerei (fra i 30 e i 120 franchi), un aumento del prezzo di benzina e diesel (fra i 10 e i 12 centesimi al litro), e gasolio (fra i 90 e i 210 franchi alla tonnellata), per alimentare un fondo per il clima. La legge passa al Nazionale, e questa volta a discuterla sarà una Camera del Popolo probabilmente più «verde» (trasversalmente) dopo le elezioni federali del 20 ottobre. Non solo perché probabilmente Verdi e Verdi liberali accresceranno il loro numero di seggi al Nazionale, mentre l’UDC (la formazione meno sensibile alla lotta contro i cambiamenti climatici) ne perderà qualcuno, secondo i sondaggi, ma perché la sensibilità ambientale è molto cresciuta anche negli altri partiti, come dimostra la svolta impressa al PLR dalla presidente Petra Gössi e confermata dalla base del partito. Che piaccia o meno, l’effetto Greta si sente anche da noi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Attualità Migros
«Percorsi d’Autore» in cucina
Corsi Alla Scuola Club di Migros Ticino si impara con «le firme» dell’eccellenza del sapere
e del saper fare
Con il nuovo anno prende avvio «Percorsi d’autore», una proposta inedita che vedrà la presenza nelle aule della Scuola di Migros Ticino di protagonisti dell’eccellenza in ambiti diversi del sapere e del saper fare. Barbara Sangiovanni, responsabile della Formazione e Quality Manager della Scuola Club di Migros Ticino, spiega come nasce questa idea. «Volevamo inserire nella nostra offerta percorsi non solo di grandissima qualità ma anche assolutamente originali. Abbiamo pensato di creare “corsi con la firma”, ricercati proprio perché portano il tocco esclusivo di un autore». Chi è un «autore»? L’etimologia latina della parola rimanda all’origine o all’artefice di qualcosa, un’opera d’arte o un libro, ad esempio. Il termine è spesso usato in contrapposizione ad «anonimo»: l’autore è colui che «lascia la firma», cioè mette la sua impronta in ciò che crea, così da renderla unica e riconoscibile. «Il percorso parte con una proposta d’eccezione: Joia per tutti. Abbiamo pensato di rendere la cucina stellata sempre più alla portata di tutti grazie a serate a tema che vedranno la presenza di grandi chef della Joia Academy di Milano» continua Sangiovanni. «Da due anni collaboriamo con grande successo con il grande chef stellato Pietro Lee-
Giovedì 19 dicembre 2019, dalle 18.00 alle 21.00, Fr. 165.– Sede di Lugano.
mann. Il suo ristorante Joia, a Milano, con i suoi 30 anni di attività, è divenuto un punto di riferimento internazionale per la cucina vegetariana. Leemann e la sua squadra hanno saputo creare qualcosa di nuovo. I loro piatti sono il frutto di una ricerca complessa che combina salute, gusto, estetica ed etica». Oggi l’Academy è sotto la direzione di Sauro Ricci, executive chef del Joia, che sarà uno degli «autori» presenti alla Scuola Club. Toscano, con la passione per la buona cucina nel DNA, Ricci si è formato partendo dalla scuola alberghiera e rivolgendosi subito alle cucine stellate. «Mi mancava però uno spessore culturale, così ho deciso di laurearmi in antropologia con una tesi sugli aspetti filosofici, nutrizionali e identitaria delle scelte alimentari», ci racconta. «Ho concluso i miei studi sull’energia del cibo in Portogallo. Quindi sono approdato alla corte di Pietro Leemann con il quale ho fondato la Joia Academy per diffondere i valori della cucina vegetariana e le tecniche che sintetizziamo al ristorante». Il «menù d’Autore» proposto alla Scuola Club avrà come scopo l’artigianalità. «Che è anche sinonimo di indipendenza!» puntualizza Ricci. «Partiremo dalle basi della cucina; arriveremo alla auto-produzione delle proteine, at-
traverseremo le cotture più accattivanti per cereali e verdure; capiremo come gestire la pasta madre per ottenere un pane profumato e fragrante; concluderemo con la pasticceria vegetale in chiave gourmet. Ogni incontro prevede la realizzazioni di piatti e il corso sarà sia teorico che pratico». L’accessibilità della proposta è un altro grande plus. «Verissimo» conferma Ricci. «Joia per tutti è una formula
Finger Food: tutto il buono di un boccone
Formazione professionalizzante di 1° livello con Joia Academy
Il mondo delle fermentazioni facili e gustose
Giovedì 16 gennaio 2020, dalle 18.00 alle 21.00, Fr. 165.– Sede di Lugano.
Giovedì 6 febbraio 2020, dalle 18.00 alle 21.00, Fr. 165.– Sede di Lugano. Pasticceria Veg Prêt-à-Manger
Giovedì 5 marzo 2020, dalle 18.00 alle 21.00, Fr. 165.– Sede di Lugano.
Sauro Ricci, Executive chef alla Joia Academy.
I lunedì, dal 11 novembre 2019 al 25 maggio 2020, dalle 10.00 alle 15.00, 11 incontri, Fr. 2970.–. Sede di Lugano 091 821 71 50 www.scuola-club.ch
Tornano gli Hippies, anzi non se ne sono mai andati Concorso Al LAC il 18 e 19 ottobre uno dei più celebri
musical di sempre
Sono passati cinquant’anni dal suo esordio sulle scene ma Hair – Tribal Love Rock Musical, è ancora uno spettacolo coinvolgente, trasgressivo e provocatorio. Richiama alla memoria un importante movimento culturale e sociale che ha attraversato un’epoca. Le sue canzoni leggendarie, tra cui Aquarius, Hair e I
Biglietti in palio «Azione» in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino offre ai suoi lettori la possibilità di aggiudicarsi alcune coppie di biglietti per lo spettacolo di sabato 19 ottobre alle 20.30. Per partecipare seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Got Life, che erano state scritte nel 1967 da James Rado, Gerome Ragni e Galt MacDermot, sono diventate dei classici assoluti della musica pop. Riascoltate a distanza di tempo possiedono ancora la loro carica di entusiasmo e vivacità. Sorta di celebrazione del mondo degli Hippies, vera colonna sonora del movimento «Flower-Power», Hair racconta del conflitto tra una generazione di giovani che chiedeva una trasformazione pacifista e creativa della società e la dura realtà politica americana, coinvolta in quegli anni nella guerra del Vietnam. Dopo aver raccolto un enorme successo sulle scene di Broadway, Hair raggiunse un pubblico ancora più ampio grazie alla versione cinematografica di Miloš Forman. Oggi il musical torna sulle scene italofone grazie alla regia di Simone Nardini, la produzione di MTS Entertainment e la collaborazione della Compagnia della Rancia. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Podismo Un
finesettimana intenso per gli appassionati il 12 e 13 ottobre
Joia per tutti Il Cous cous come in Maghreb
AsconaLocarno Run, atto quinto
smart, una maniera giocosa di cucinare che ci caratterizza. Ci piace offrire gli strumenti per avvicinarsi alla cucina in maniera facile e veloce, con uno sguardo attento alla propria salute ed a quella di tutti gli esseri viventi che abitano la madre terra». In questa straordinaria avventura tra i sapori lo chef Ricci non sarà solo. «Con me ci saranno i miei secondi di cucina, Raffaele Minghini, anche lui laureato in filosofia e tornato a Joia dopo un’importante esperienza londinese, e Nabil Bakouss, il campione del mondo di cous-cous, un concorso annuale a squadre nazionali. Nabil ha origine maghrebine ed ha arricchito la nostra cucina con i gusti della sua terra natale. Abbiamo profili con caratteristiche diverse e saremo al servizio dei partecipanti per offrire loro il meglio della nostra didattica». Insieme a «Joia per tutti» riparte alla Scuola Club anche il percorso professionalizzante dedicato a chi è già attivo nel mondo della ristorazione.
Dopo il grande successo dell’edizione 2018 che ha visto quasi 2000 iscritti alle varie gare, con atleti provenienti dalla Svizzera e da molti paesi d’Europa, gli organizzatori propongono per il 12 e 13 ottobre prossimo il quinto appuntamento di uno degli eventi podistici più importanti del Ticino e non solo. Come nell’edizione 2018 i momenti agonistici saranno quattro. Il sabato 12 alle ore 17.00 la Kids Run; alle 19.00 la City Run – 5 km, che si svolgerà attraverso le vie di Locarno in un suggestivo contesto cittadino. Al termine è previsto un concerto dal vivo in Piazza con possibilità di cenare. Domenica 13 ottobre, con partenza alle ore 9.30, si terrà la Mezza maratona; alle 12.15 è prevista invece la 10 km, una prova patrocinata dalla FTAL e valida per l’assegnazione del titolo di Campione Ticinese (corsa su strada). Il percorso (omologato da Swiss Athletics) attraverserà le vie di Locarno e Ascona, con arrivo e partenza in Piazza Grande a Locarno. Le iscrizioni sono possibili online fino a un’ora prima della partenza: per la Kids Run Fr. 10.–; per la City Run Fr. 25.–, per la 10 km Fr. 35.– e per la mezza maratona Fr. 50.–. Dopo il 7 ottobre è previsto un supplemento di Fr. 10.– (esclusa la Kids Run). Sabato 12 e domenica 13 ottobre sarà possibile iscriversi anche sul posto, fino a 30 minuti prima della partenza sempre con un supplemento di Fr. 10.–. Informazioni
www.ascona-locarno-run.ch
Ascona-Locarno-Run, sabato 12 e domenica 13 ottobre 2019, Locarno
I nuovi apprendisti di Migros Ticino Tirocinio Sono ben 18 i giovani che dal
1° settembre hanno cominciato la formazione professionale nei vari settori di attività della Cooperativa ticinese
Hair - Tribal Love Rock Musical
18 e 19 ottobre, ore 20.30 LAC, Lugano In collaborazione con
Da sinistra a destra: Alessandro Botta, Yara Barrios Lopes, Melissa Schneeberger, Milo Fusaro, Stefan Kostic, Gregorio Lombardo, Sandra Pezzullo, Abramo Toffelotto, Ao Li, Nyo Penel, Manuel Trocciola, Arian Sefaj, Salvatore Cirignotta, Dakba Yatotsang Gyaltsen, Melody Schmidt, Giorgia Sforza e Nicole Lettieri. Assente nella foto Annika Wey.
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Società e Territorio La ricerca del minimalismo Sempre più persone abbracciano uno stile di vita che tende a eliminare il superfluo in ogni ambito. Ne parliamo con la psicoterapeuta Sandra Pesciallo
Il declino dell’italiano a Bivio L’unico comune di lingua italiana d’Oltralpe non esiste più e la scuola è stata chiusa definitivamente lo scorso giugno
Un consulente per gli alberghi Emanuele Patelli tira un primo bilancio della sua esperienza come hospitality manager pagina 12
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Il percorso promosso nelle classi parte sempre da esperienze concrete della vita quotidiana degli allievi. (ProJuventute)
Allenarsi a pensare
Pro Juventute Il progetto pilota «Filo-so-fare con i bambini e i ragazzi» stimola la riflessione durante la crescita Stefania Hubmann La filosofia è per tutti, dai bambini della scuola dell’infanzia fino agli adulti e agli anziani. Sembra una forzatura? Non è il caso, poiché la disciplina nella sua accezione pratica favorisce lo sviluppo della capacità di pensare, la disponibilità al dialogo, la partecipazione alla vita della comunità nella quale si è inseriti. Non si tratta di studiare filosofia, bensì di fare filosofia. L’esercizio filosofico, il filosofare, può pertanto essere proposto anche in una classe di bambini piccoli. Nella vita quotidiana delle nuove generazioni, dominata da schermi ed interfacce che spalancano le porte del mondo virtuale, il fermarsi a riflettere sulle esperienze concrete è un’attività che favorisce la costruzione della personalità e quindi la crescita. È questo l’obiettivo del progetto pilota «Filo-so-fare con i bambini e i ragazzi» avviato all’inizio del 2019 dall’Ufficio della Svizzera italiana di Pro Juventute. Sperimentata per la prima volta la scorsa primavera nella scuola media di Stabio con le classi del quarto anno, l’iniziativa prosegue durante questo anno scolastico in due sedi di scuola elementare. A promuovere e realizzare il progetto sono Ilario Lodi, responsabile dell’Ufficio della Svizzera italiana di Pro Juventute, e Roberta Wullschle-
ger, collaboratrice dell’associazione regionale. Entrambi hanno conseguito una laurea in filosofia e una formazione pedagogica nel contesto dei CEMEA (Centri d’esercitazione ai metodi dell’educazione attiva). Attraverso animazioni nelle classi stimolano un’attitudine di solito implicita legata alla crescita. Così descrivono la prima esperienza: «Con gli studenti della scuola media abbiamo trascorso tre volte un intero pomeriggio. Gli allievi hanno riscoperto il piacere del dialogo, di porsi delle domande, di cercare delle risposte e di giustificarle. Una pratica che nella loro vita quotidiana tende purtroppo a mancare. Disponibilità e interesse sono stati dimostrati non solo dai ragazzi, ma anche da direzione, docenti e genitori. Nelle scuole elementari e dell’infanzia (ultimo anno) desideriamo operare secondo il medesimo principio, solo riducendo il tempo di lavoro in classe, perché i bambini hanno una capacità di concentrazione minore». Come si svolge il percorso? «Agli incontri preparatori con i docenti, seguono le animazioni in classe che partono, in genere attraverso una lettura, da storie di vita quotidiana i cui protagonisti sono dei pari degli allievi. Sono questi ultimi, seduti in cerchio con noi, a evidenziare ciò che li ha colpiti del racconto per poi andare a toccare concetti quali giusto e sbagliato, bene
e male, rispetto, amicizia. Riportiamo l’attenzione e la riflessione sul rapporto diretto con le cose e le persone della vita di ogni giorno. La discussione è al centro dell’incontro, ma nasce sempre da un’esperienza concreta che non è predefinita. L’esercizio del pensare viene applicato alla quotidianità prima di spingersi oltre nel tentativo di fornire una risposta ad un interrogativo più impegnativo: che cosa significa pensare? La classe diventa una comunità di ricerca che si prende il tempo per riflettere». I tempi dell’educazione e della crescita sono lenti – rilevano ancora i due filosofi – mentre oggi a dominare è la fretta. «Attraverso questo percorso i bambini e i loro adulti di riferimento sviluppano degli itinerari di esperienza all’interno dei quali riscoprire e riappropriarsi del piacere di pensare, agire e dialogare insieme». Il progetto prevede infatti, oltre al coinvolgimento dei docenti, anche quello dei genitori. I primi, grazie al materiale che viene loro consegnato, possono continuare a filosofare con gli allievi nell’intervallo fra un incontro e l’altro e una volta concluse le animazioni, mentre ai genitori si consiglia di sfruttare ogni occasione della quotidianità familiare per lasciare ai propri figli lo spazio e il tempo per esprimersi». L’obiettivo degli incontri non è
quello di trasmettere conoscenze filosofiche legate ai grandi pensatori, ma di suscitare interesse per la pratica, l’esercizio, il gioco filosofico. A questo scopo i due promotori desiderano coinvolgere attivamente anche i giovani studenti di filosofia. Un appello è stato lanciato e viene ora rinnovato affinché le interessate e gli interessati contattino la sede di Pro Juventute a Giubiasco. Il responsabile rivela inoltre l’intenzione di organizzare la prossima estate, nell’ambito del programma delle colonie, un campo il cui progetto pedagogico sia incentrato sul filosofare con i bambini. Riguardo al valore di tale approccio Ilario Lodi precisa: «La filosofia è uno dei fondamenti per lo sviluppo del pensiero critico, in grado di sfociare nella presa di decisioni. È quanto si chiede ai cittadini e i giovani non sono, come si tende a considerarli, i cittadini di domani; sono i cittadini di oggi». Significativa la riflessione di un allievo di quarta media al termine del percorso Filo-so-fare riportata da Roberta Wullschleger: «Ciò che penso io – si è chiesto lo studente – lo penso veramente o è indotto dalla realtà che mi circonda?». A livello svizzero l’impegno di Pro Juventute nel campo della filosofia per i bambini risale ad alcuni decenni fa con la pubblicazione dei primi volumi di Eva Zoller Morf. L’insegnante di scuola elementare zurighese negli anni Ottan-
ta ha seguito una seconda formazione comprendente filosofia e pedagogia, conclusa proprio con uno studio sul filosofare con i bambini. Da allora ha proseguito attività e ricerca in questo ambito, osservando alcuni bambini in diverse fasi fino all’adolescenza. Per il responsabile dell’Ufficio della Svizzera italiana si tratta di riattivare questa attenzione all’importanza dell’esercizio filosofico durante la crescita. L’auspicio è che in futuro le pratiche della filosofia possano essere introdotte in tutti gli ordini della scuola dell’obbligo, da quella dell’infanzia fino alle medie. La consapevolezza di se stessi, del proprio agire in relazione agli altri è parte integrante del benessere del singolo e della società. Oggi gli adulti sono invitati, soprattutto per motivi di salute, a contrastare lo stress ritrovando tempo per loro stessi, per rilassarsi, per pensare. Iniziare sin da piccoli a sperimentare cosa significa ragionare in autonomia, ascoltare l’altro, dialogare con lui, condividere le proprie riflessioni, permette di crescere sviluppando queste risorse. Risorse che si rivelano preziose per affrontare da cittadini consapevoli le sfide sempre più complesse della società contemporanea. Informazioni
www.projuventute.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
Fine salumeria nostrana Novità Il salumificio del Pin di Mendrisio produce per Migros Ticino
Vincenzo Cammarata
due tradizionali salumi utilizzando carne di maiali allevati sull’Alpe Manegorio, in Val Bedretto: il lardo e la mortadella di fegato
Impossibile resistere alla tentazione quando si parla di affettati nostrani della Salumi del Pin di Mendrisio. Specializzata in salumeria di alta qualità fin dal 1996, l’azienda produce in esclusiva per Migros Ticino differenti prodotti classici della tradizione ticinese, realizzati seguendo antiche ricette e con carne di provenienza locale. Nuovi nell’assortimento a libero servizio delle principali
filiali sono il lardo salato e la mortadella di fegato. Per queste specialità tipiche vengono utilizzate carni selezionate di suini allevati durante la scorsa estate sull’Alpe Manegorio, in Valle Bedretto, a oltre 1700 metri d’altezza. Gli animali sono tenuti in libertà e vengono foraggiati tra l’altro con siero di latte vaccino residuo della lavorazione del formaggio d’alpe. Il lardo salato è uno dei più semplici
prodotti della tradizione ticinese. La parte nobile del grasso dei maiali nostrani viene prima selezionata e squadrata. Il taglio subisce quindi una leggera salatura e speziatura, per poi essere posto a stagionare per almeno 60 giorni, operazione che conferisce al prodotto la sua caratteristica dolcezza. Il lardo è ottimo consumato così com’è, per arricchire una bella tagliata mista, oppure accostato
a crostini di pane caldo e miele per dare risalto al delicato sapore. Un prodotto classico nella cultura gastronomica ticinese, la mortadella di fegato di vitello stagionata è ottenuta miscelando carni miste suine e fegato di vitello, a cui si aggiungono spezie e buon vino rosso Merlot del nostro territorio. L’impasto così ottenuto viene insaccato in un budello naturale, lasciato asciugare delicatamente
in ambienti a temperatura e umidità controllate e, infine, fatto stagionare per almeno 4 settimane. Il prodotto si gusta come un classico salume da tavola, tagliandolo a fette non troppo spesse. Entrambi i prodotti sono venduti in comodi tagli da 300-500 grammi, ideali per il consumo domestico, ed hanno un periodo di conservazione consigliato di una trentina di giorni.
Tempo di zucca
Attualità La zucca bio di Floriano Locarnini
per ricette autunnali ricche di gusto
Azione 35% Zucca bio Ticino imballata, al kg Fr. 4.95 invece di 7.90 dall’8 al 14.10
Floriano Locarnini nel suo campo di zucche.
La zucca è l’ortaggio principe dell’autunno. È originaria del Sudamerica, dove veniva coltivata già 10’000 anni fa. Oggi a livello mondiale sono conosciute qualcosa come oltre ottocento tipi di zucca, di cui cinquecento commestibili: nessun altro ortaggio può contare su una tale ricchezza. Tra le diverse varietà disponibili attualmente nei supermercati Migros, chi predilige i prodotti biologici e locali può scegliere la zucca Moscata di Provenza, coltivata dall’orticoltore Floriano Locarnini di Sementina. «Grazie alla sua polpa dolce, saporita e compatta, questo ortaggio è molto utilizzato nella preparazione di zuppe, torte, gratin, risotti, ma è ottima anche cruda in insalata», spiega Locarnini. Di forma tonda e costoluta, con una polpa di color arancio intenso, la moscata diventa relativamente grossa rispetto ad altre varietà, visto che può raggiungere tranquillamente un peso di oltre 15 kg. Naturalmente, in conformità alle rigo-
rose direttive bio, Locarnini coltiva le sue zucche senza l’utilizzo di alcuna sostanza chimica. «Il ciclo di produzione inizia nel mese di aprile con la semina in vasetto. Dopo circa cinque settimane, le piantine così ottenute vengono trapiantate in piena terra. Infine la raccolta dei frutti inizia ai primi di settembre e si protrae fino a metà ottobre. Le zucche non hanno esigenze particolari e praticamente non necessitano di trattamenti specifici. È tuttavia importante avere un terreno ricco di humus, evitare l’umidità eccessiva e girarle di tanto in tanto», conclude Floriano Locarnini. Dal punto di vista salutistico, le zucche si caratterizzano tra l’altro per l’alto contenuto di beta-carotene, sostanza utile per preservare una pelle sana, capelli forti e una buona vista. Inoltre, con un contenuto di acqua di oltre il novanta percento, la Moscata di Provenza contiene pochissime calorie, pertanto è un’ottima alleata della linea.
Fettuccine con zucca e salmone affumicato Ingredienti per 4 persone 600 g di fettuccine fresche sale 400 g di zucca (ad es. Moscata di Provenza o Hokkaido, pesata mondata) 2 scalogni 2 cucchiai d’olio d’oliva 1 cucchiaio di senape granulosa 2 cucchiai di crème fraîche ½ mazzetto d’aneto 150 g di salmone affumicato semi di zucca, a piacimento Preparazione Lessate le fettuccine in acqua salata bollente per 2-3 minuti, poi scolatele. Nel frattempo, tagliate la zucca prima in quattro, poi a pezzettini. Tritate gli scalogni. Fate appassire entrambi nell’olio in una padella ampia per ca. 5 minuti. Aggiungete la pasta e mescolate bene. Mischiate la senape con la crème fraîche. Tritate l’aneto. Spezzettate il salmone e incorporatelo alla pasta con l’aneto tritato. Servite con la salsa a parte. A piacere, tostate un po’ di semi di zucca senza grassi, salateli leggermente e spargeteli sulla pasta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
Sapori autunnali Attualità Le castagne sono utilizzate per preparare tante bontà, tra cui il pane e la crostata che trovate
attualmente nei supermercati Migros
Le castagne? Una vera delizia stagionale gustate da sole, come caldarroste, oppure per preparare un’infinità di appetitose ricette per tutti i gusti. Una squisita proposta, elaborata artigianalmente dagli specialisti delle panetterie della casa Migros, è per esempio il pane alle castagne. L’aroma dolce con delicate note di malto di questo pane semibianco con segale è dovuto all’aggiunta di deliziosi pezzetti di castagne all’impasto. La particolare forma rigonfia è dovuta al fatto che la cottura avviene in uno stampo rotondo. Sotto la sua crosta croccante si nasconde una mollica ariosa e soffice. Il pane alle castagne è ottimo gustato ad ogni pasto, con marmellate fatte in casa, zuppe alla zucca, pietanze a base di selvaggina oppure formaggi stagionati. Oltre al pane, sono disponibili anche i panini alle castagne, perfetti per preparare corroboranti sandwich da portare con sé durante le escursioni autunnali sulle nostre splendide montagne. Anna’s Best è sinonimo di gustose pietanze, dagli antipasti ai primi, passando per le insalate fino ai dessert, pronte da portare in tavola in men che non si dica, preparate con ingredienti accuratamente selezionati. L’assorti-
Pane alle castagne 400 g Fr. 4.– Solo nelle panetterie della casa di S. Antonino e Serfontana
Crostata alle castagne Anna’s Best 215 g Fr. 3.50 Nelle maggiori filiali Migros
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Minimalismo, il ritorno all’autenticità Psicologia Sempre più persone riflettono su uno stile di vita che tende a eliminare il superfluo in ogni ambito,
dagli oggetti al digitale, dai pensieri negativi all’organizzazione della propria agenda Alessandra Ostini Sutto «La perfezione si ottiene non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non vi è più nulla da togliere». Queste parole di Antoine de SaintExupéry bene si applicano ad un modo di vivere che sempre più persone abbracciano, il minimalismo. Riassumibile con il motto Less is more (meno è più), esso vuol dire eliminare il superfluo, in ogni ambito della propria vita, e riscoprire così ciò che conta davvero. Il minimalismo conosce diverse declinazioni, in vario modo influenzate dalla filosofia zen orientale. Quella che riguarda il design rappresenta il concetto in modo eloquente. Nell’arte questa rimozione dell’eccesso è espressa dalla corrente denominata minimal art. Il minimalismo si ritrova poi in letteratura, in linguistica e nella musica. «Fare spazio intorno e dentro di sé oggi è diventata quasi un’esigenza, nel senso che se per anni ci siamo riempiti di cose, di oggetti, di viaggi, ora cominciamo a renderci conto che ciò non ci nutre» afferma Sandra Pesciallo, psicologa e psicoterapeuta con studio a Paradiso. «Se da una parte c’è un edonismo legato all’acquisto e all’accumulo di cui ognuno di noi ha sicuramente esperienza, dall’altra, c’è chi sperimenta che “lasciar andare” provoca un piacere più profondo». Un «lasciar andare» che porta a stare con quello che c’è e nutrirsi di esso: «Spesso questo lo si esperisce nel contatto con la natura, che in realtà è tutt’altro che “minimale”; è però come se, essendoci per tanto tempo focalizzati sull’accumulo, avessimo perso di vista quanto essa ha da offrirci», continua la psicologa, che trova nel bosco, con i suoi elementi costituivi, il suo paesaggio naturale preferito: «amo il contatto con l’essenza che vi alberga. La semplicità della manifestazione vitale mi attrae. L’autenticità del sentimento mi tocca profondamente. Anche l’essere umano
Con i social network tendiamo ad accumulare relazioni invece di concentrarci sui legami che ci fanno del bene ha in sé tutti questi aspetti. Purtroppo però la complessità delle vite, talvolta sofferenti e faticose, tende a soffocare e celare la bellezza insita in ognuno di noi», afferma Sandra Pesciallo. Essere umano che, in fondo, è sempre alla ri-
«Ciò che conta è la serenità, la sensazione che proviamo se ci sediamo su un muretto davanti a un fiume». (Marka)
cerca della felicità, che, in base al periodo storico in cui ci si trova, viene tendenzialmente identificata in elementi diversi: «nel dopoguerra, complice la crescita economica, si instaurò l’epoca del consumo, nella quale il senso di appartenenza veniva nutrito dal possedere tutti le stesse cose», continua la psicoterapeuta, «durante gli anni del conflitto, il senso di appartenenza e altri bisogni primari – in particolare la condizione di sopravvivenza, personale e della specie, la fame di conoscenza e l’autorealizzazione – facevano fatica ad essere soddisfatti. Ora che non è più così, stiamo cominciando a capire che se riusciamo a dare spazio a questi quattro elementi nella nostra vita, essi ci sanno nutrire molto più che non l’accumulo di oggetti». Ovviamente, questo non vuol dire «ridurre all’osso» ciò che si possiede o non concedersi alcun acquisto, ma piuttosto imparare ad essere selettivi: non omologarsi ma saper scegliere quello che è giusto per noi. «Oggi l’appartenenza è data dall’esserci, e questo lo osservo anche da quanto mi dicono i giovani che ho in terapia. Significativo trovo l’esempio di un giovane paziente, che quest’estate ha incontrato una ragazza con cui è molto in sintonia. Alla mia domanda se quando
sta con lei gli batte forte il cuore, ha sorriso e ha detto “Ma no! Quando sono con lei sono calmo. Quando mi batte forte il cuore è perché sono agitato”. Una frase che racchiude tutto: anche se ci hanno abituati a ricercare le emozioni forti, in realtà quello che conta è la serenità e lo star bene; sensazioni che proviamo se ci sediamo su un muretto davanti a un fiume», commenta la psicoterapeuta. Minimalismo quindi come ritorno alla semplicità e all’autenticità. Condizione che ci consente, inoltre, di aprirci al nuovo. «È come se togliendo il superfluo togliessimo dei veli che avevamo davanti agli occhi e riuscissimo a vedere la realtà per quello che è», continua Sandra Pesciallo, che, dal suo punto di vista professionale, identifica un altro beneficio del modo di vivere di cui stiamo parlando: «ogni epoca ha le sue psicopatologie; in quella attuale dominano ansie, fobie e attacchi di panico, tipiche di quando si vive proiettati nel futuro. Anche se a mio avviso ci stiamo avvicinando al tramonto di questa fase, persiste ancora una perenne corsa per prendere qualcosa che si realizzerà dopo; per esempio, prendere una laurea per poi guadagnare bene». Il minimalista invece, stando con quello che c’è,
non ha bisogno di proiettarsi nel futuro con delle aspettative che comportano ansie e stress. Anzi, riprendendo l’esempio precedente, dal momento che vive in modo più consapevole, sarà in grado di optare per un percorso formativo che realmente lo interessa. A livello psicofisico i benefici di tale approccio sono evidenti e il successo di discipline quali lo yoga, che non è altro che lo stare nel «qui e ora», ne è la prova. «Nel mio lavoro applico proprio questo approccio. Di base ho una formazione in psicoterapia della Gestalt, per la quale il “qui e ora” è la chiave di tutto», aggiunge Sandra Pesciallo. Fare esperienza di questo concetto permette di concentrare le proprie forze e la propria mente sulle cose più umili ed accessibili all’uomo, che sono poi quelle che danno senso e valore alla vita. Evadere dagli eccessi del mondo in cui viviamo non è però evidente ed immediato per tutti. «Dipende dalla fase della vita in cui ci si trova. Per alcune persone, in determinati momenti, l’accumulare può andar bene, può far star bene», spiega la psicoterapeuta. A volte un trasloco può essere l’occasione giusta per intraprendere la via del minimalismo. Obbligati a passare in rassegna tutto quanto si possiede, si riesce
più facilmente ad eliminare beni materiali, provando in genere un senso di liberazione. «Tenere gli oggetti, magari anche dei propri antenati, può non far bene. Insieme a questi beni ci portiamo infatti dietro la loro storia, fatta, a volte, di cose non elaborate. Bisogna quindi avere la sensibilità di capire se qualcosa non ci giova» continua Sandra Pesciallo. «D’altra parte ci sono degli oggetti da cui proprio non riusciamo a separarci probabilmente perché in qualche modo ci servono ancora, perché dobbiamo ancora prendere qualcosa da essi. In questi casi bisogna porsi delle domande del tipo “che esperienza posso ancora fare se tengo questo oggetto?”, “cosa rappresenta di me?”, che sono utili perché ci aiutano a fare chiarezza dentro di noi». Eliminare gli oggetti che per noi non aggiungono più valore, oggi soprattutto, non vuol dire buttare. «Più che in passato, abbiamo l’opportunità di scegliere cosa fare di ciò che non vogliamo più. C’è inoltre molta più sensibilità per il riciclo e per il second hand. Disfandoci di qualcosa, sappiamo quindi che essa potrà servire a qualcun altro e questo ci fa star bene», aggiunge la psicologa. Per applicare il minimalismo come stile di vita, il passo più immediato è quindi fare ordine e liberarsi di ciò di cui possiamo fare a meno, cominciando dalla propria casa. Anche il digitale, diventato parte integrante della nostra vita, dovrebbe essere preso in considerazione, in particolare l’uso che facciamo dei vari dispositivi che possediamo. Un altro step riguarda l’agenda, che può essere rivista nell’ottica di ricentrare il tempo su quello che è davvero importante, come la cura di sé e i momenti dedicati ad amici, conoscenti e famigliari. Complici i social network, attualmente non tendiamo infatti ad accumulare solo oggetti, ma pure relazioni. Anche in questo ambito vale quindi la pena interrogarsi, per cercare di focalizzarsi sui legami che tuttora ci rispecchiano e ci fanno del bene. Da ultimo, pure l’eliminazione di pensieri inutili e dannosi può far parte del nostro percorso verso uno stile dedito all’essenziale. «La mente tende a tornare su alcuni pensieri non completamente risolti, come dei rancori o dei perdoni che non sono mai avvenuti, non per disturbarci ma perché c’è un’urgenza di vedere cosa manca, di integrare, per poter poi archiviare questo fatto nella memoria del cervello. Su tali situazioni può intervenire la psicoterapia, come pure altri approcci che mirano ad una migliore conoscenza di sé», conclude Sandra Pesciallo.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Davide Calì-Ronan Badel, Alla ricerca di Lola, Jaca Book. Da 9 anni È uscito un nuovo libro nella collana Ponte delle Arti, di Jaca Book, costituita da albi illustrati che raccontano storie ispirate, di volta in volta, ai quadri di un grande pittore. Questa recente proposta è però un po’ diversa dalle precedenti, sia per il formato, più piccolo di quello tradizionale da albo illustrato, sia per il target di riferimento, costituito da ragazzini più grandi, dai nove anni circa. In effetti il pittore che ispira la storia di questo libro è il maestro della solitudine nell’America urbana, il grande narratore di quella muta, assorta e forse sgomenta malinconia di uomini e donne seduti alle tavole calde, dentro gli hotel, al cinema, negli uffici, in tutti quegli ambienti della «vita moderna» degli anni Trenta e Quaranta: Edward Hopper (1882-1967). Ambienti ed emozioni,
quelli da lui evocati, in grado di parlare di più agli adolescenti, o preadolescenti, che ai bambini. E anche la storia che Davide Calì, ben coadiuvato dalle illustrazioni e dall’apporto grafico di Ronan Badel, imbastisce attorno a 12 quadri di Hopper ha una sua complessità, perché è una sorta di giallo esistenziale (l’accostamento di Hopper a Raymond Chandler è stato fatto da molti), in cui un giovane detective per
caso, coinvolto nell’indagine mentre sta sostituendo per qualche ora il vero detective, suo amico, si mette sulle tracce di una certa Lola Pearl, nome d’arte di una donna che faceva la cantante. Dov’è finita Lola Pearl? E qual è il suo vero nome? Quesiti che terranno vigile l’attenzione del lettore, oltre a condurlo ad ammirare gli splendidi quadri di Hopper, nonché ad offrirgli, si spera (anche grazie all’appendice esplicativa finale), l’occasione per approfondire la conoscenza del grande artista americano. Anna Lavatelli, Gaston e la ricetta perfetta, Giunti. Da 11 anni È stato ripubblicato nella collana Tascabili Ragazzi, sempre da Giunti, e colgo l’occasione per segnalarlo a chi se lo fosse perso. Era uscito nel 2012 ed è un romanzo molto bello, un romanzo «di formazione», sul coraggio di coltivare le proprie passioni (il proprio desiderio,
come direbbe Lacan), che tuttavia, dato il ritmo incalzante e l’abile costruzione narrativa, potremmo anche definire un romanzo d’avventura. Ambientato in Perù, paese che l’autrice conosce molto bene, ci porta in Amazzonia, sul grande fiume, i villaggi, le foreste. La passione che Gaston ha il coraggio e l’intraprendenza di coltivare è quella per la cucina, un’arte appresa dal frate dell’orfanotrofio in cui è cresciuto, ma
da cui fuggirà, per mettersi alla ricerca dei suoi genitori, nella speranza che siano ancora vivi. Per un equivoco, Gaston viene rapito da una masnada di pirati, e sarà costretto a cucinare per loro. Ma, si sa, il buon cibo riscalda i cuori e in certi casi può persino cambiare il corso del destino... Perù, pietanze, pirati: queste, come dice la stessa autrice, sono le parole cardine del romanzo, le cui pagine, come il cibo, riscaldano il cuore. Non si può non appassionarsi alla storia del giovane Gaston e di tutti i comprimari (gli stessi pirati, ma anche ad esempio il capitano della nave, un’intraprendente ragazza, un poliziotto, un frate), così ben caratterizzati, che animano la vicenda. Un’opera riuscitissima di una grande scrittrice per ragazzi. Un vero romanzo di crescita e di avventura, di cui nella letteratura per ragazzi contemporanea c’è davvero bisogno.
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Società e Territorio
C’era una volta Bivio
Italianità L’unico comune di lingua italiana d’Oltralpe non esiste più. Bivio è confluito nel nuovo comune grigionese
di Surses. Lo scorso 20 giugno è stata chiusa definitivamente la scuola, ultimo atto del declino dell’italiano
Fabio Dozio Bivio ore 7.15, metà settembre, cielo terso ma temperatura frizzante. Alissa, sette anni, Antonio e Joel, otto, salgono sull’autopostale, sul piazzale all’entrata del villaggio. Sono diretti a Savognin, 18 km più a nord e 550 metri più in basso. Comincia così la loro giornata di scuola, utilizzando il trasporto pubblico e imparando a spostarsi in autonomia. Dal 20 giugno di quest’anno la scuola di Bivio è definitivamente chiusa. Si è conclusa un’epoca e, simbolicamente, questa chiusura sancisce la morte della lingua italiana in questo piccolo villaggio dei Grigioni, ai piedi dei passi alpini del Giulia e del Settimo, che portano rispettivamente in Engadina e in Bregaglia. I tre bambini iniziano di primo mattino alle scuole elementari di Savognin le lezioni con la loro maestra di italiano, Maria Pia Signorell-Daguati, poschiavina d’origine, ma ormai radicata in valle, dove insegna da 42 anni. Una docente appassionata che a Bivio ha fatto scuola per 35 anni. «Quando ho iniziato» racconta «eravamo tre maestri, con 70 allievi. Adesso i ragazzi sono 13 in tutto. Gli abitanti allora erano 220, ora 180. Ormai si fanno meno figli, ai tempi c’erano due famiglie con una dozzina di figli ciascuna». Adesso, nell’aula spaziosa, gli allievi biviani delle elementari sono solo tre, che seguono quattro ore settimanali di italiano. Una scuola ideale: stanno preparando un racconto sulle «cose belle del mare», «il mare ha milioni di cose belle» e al suono della campanella, si dedicano ai giochi in un angolo dell’aula. Antonio parla regolarmente italiano con mamma e papà, Joel solo con il papà, Alissa con la mamma. C’era una volta Bivio… è il titolo di un libro del 1992 di Elda SimonettGiovanoli, faro della cultura italiana nei Grigioni. Traccia la storia di Bivio, che risale all’epoca romana, quando era un punto di ristoro prima o dopo aver affrontato i passi alpini. Oggi il comune di Bivio non esiste più. Dal 1. gennaio 2016 è stato aggregato agli altri paesi della valle, Marmorera, Mulegns, Sur, Tinizong-Rona, Salouf, Riom-Parsonz, Cunter e Savognin, dando vita al nuovo comune di Surses. Bivio era «l’estremo avamposto dell’italianità al nord delle Alpi», unico comune svizzero di lingua italiana al di fuori del Ticino e delle valli del Grigioni italiano. Fu fondato dai bregagliotti che, superato il passo del Settimo, sconfinavano a nord pascolando le loro bestie.
La storia dell’italianità di questo piccolo paese alpino è una storia di lenta e ineluttabile decadenza. Nel 1980 la maggioranza degli abitanti parlava ancora italiano, un centinaio su 238. Il censimento del duemila rivela il superamento dell’italiano da parte del tedesco: in 113 sono tedescofoni e solo 60 italofoni. La maestra Simonett-Giovanoli, scomparsa all’inizio del 2018 a 94 anni, si è prodigata una vita intera per difendere e promuovere l’italiano nel suo villaggio. Per la sua attività è stata pure insignita della medaglia di Cavaliere della Repubblica italiana. Nel 1998 polemizzava con il linguista Sandro Bianconi che aveva appena pubblicato Plurilinguismo in Val Bregaglia, in cui affermava che a Bivio era già avvenuta la sostituzione dell’italiano con il tedesco. «Eh no!» scriveva Elda Simonett. «Proprio così no. A Bivio “sul ponte non sventola bandiera bianca” e tutto non è ancora perduto. Durante le assemblee comunali si dibatte, è vero, in due o tre lingue, ma ciò accade a Bivio da secoli e corrisponde alla normalità. I protocolli delle radunanze comunali vengono redatti in lingua italiana, poiché questa è la nostra lingua ufficiale». Poi aggiungeva: «Ammetto ad ogni modo, seppur a malincuore, che se continuiamo verso l’italiano a comportarci da incoscienti, il tedesco prenderà sempre più sopravvento e la minaccia si farà sempre più forte». Gustavo Lardi è stato ispettore scolastico del Grigione italiano per 16 anni, fino al 2005: «Ho assistito al declino dell’italiano» sostiene «cercando di arginarne gli effetti negativi. Ci sono numerosi aspetti che congiurano contro l’italiano a Bivio, iniziando dal “valore” che l’italiano riveste per gli anziani, ruolo che contrasta nettamente con la visione delle nuove generazioni. Per i primi, ancora idealmente legati al sud, in primis alla Bregaglia, l’italiano era motivo di orgoglio, retaggio di un passato commerciale fiorente legato al traffico attraverso il Settimo e agli scambi in campo agricolo. Invece, per le nuove famiglie immigrate, fortunatamente non tutte, l’italiano a scuola era una specie di inutile “palla al piede”, un ostacolo per gli scolari nell’apprendimento del tedesco ritenuto la lingua del pane. Oggettivamente poi, dopo le elementari a Bivio, la frequenza della scuola secondaria o di avviamento pratico a Savognin creava delle frizioni in quanto l’insegnamento era impartito in tedesco. Non c’erano però alternative: la scuola secondaria di lingua italia-
Bivio fu fondato dai bregagliotti e ha sempre rappresentato l’estremo avamposto dell’italianità a nord delle Alpi. (Keystone)
na più vicina era a Stampa: impensabile un trasporto giornaliero degli allievi con i due passi, Giulia e Maloggia, da superare». L’italiano è andato perso man mano che la composizione della popolazione si è modificata: più tedescofoni, meno italofoni. Ciò che è rimasto, grazie sicuramente alle battaglie della Maestra Simonett, degli insegnanti e dell’autorità scolastica e dei discendenti delle famiglie bregagliotte, è l’insegnamento della lingua italiana a scuola. Giancarlo Torriani – vecchia gloria del bob elvetico – è il presidente del Consiglio della scuola del nuovo comune di Surses. A Bivio gestisce l’albergo di famiglia, il Solaria, assieme ai suoi figli. Mi accompagna nell’aula della maestra Maria Pia. Una delle allieve giunte da Bivio, Alissa, è sua nipotina: «Io le parlo italiano, ma lei mi risponde in tedesco. A Bivio ormai siamo una minoranza, ma finché io sarò presidente del Consiglio scolastico, cercherò di difendere l’italiano e di farlo valere. Nella Costituzione del nuovo comune è previsto il diritto per i biviani all’insegnamento della lingua italiana». I bambini di Bivio sono gli Svizzeri più plurilingue. Seguono corsi di italiano per tutta la scuola obbligatoria, e contemporaneamente frequentano lezioni in tedesco e anche in romancio. I romanci sono due, il Rumantsch grischun e il surses, quello della regione. Il colpo di grazia ufficiale per l’italiano è arrivato nel 2005. «Si è deciso di scrivere il verbale dell’assemblea comunale in
tedesco» spiega Torriani «per facilitare il verbalista. Tutti parlavano in tedesco e lui doveva tradurre in italiano, non era logico. Forse non c’è stato sufficiente impegno per mantenere l’italiano. Da quando è stata fondata la scuola fino a quest’anno ci sono stati 35 docenti a Bivio, molti venivano dalla Bregaglia, da Poschiavo o anche dalla Mesolcina». Si poteva difendere meglio la nostra lingua? «Certo si può sempre fare meglio e fare di più» precisa l’ex ispettore Lardi. «Dal punto di vista dell’insegnamento, già prima del mio periodo d’ispettorato è stato introdotto l’insegnamento bilingue italiano-tedesco. Nelle prime tre classi l’insegnamento era in italiano; nei tre anni successivi, l’insegnamento era in tedesco. Si è poi passati a un modello diverso, nel senso che nell’intero periodo delle elementari determinate lezioni, per esempio aritmetica e geometria, erano insegnate in lingua tedesca, mentre invece le “materie umanistiche” venivano impartite in italiano. Si trattava del modello ripreso più tardi nelle scuole bilingui di Coira e di Maloja. Spero di non imbrodarmi affermando che il sistema era valido e che, dopo una fase di rodaggio, non creava particolari problemi agli scolari. Diverso invece il discorso con alcuni genitori, soprattutto quelli di lingua tedesca, fortunatamente non tutti, ai quali il nuovo modello non garbava». Gustavo Lardi sottolinea che si è fatto molto per sostenere l’italiano: corsi per adulti, una ricca biblioteca; anche la Pro Grigioni italiano si è impegnata:
«Ma si sa» afferma sconsolato «si può difendere una lingua solamente parlandola». La scuola elementare di Savognin, sul fondovalle, a due passi dal fiume Giuglia, verrà completamente rinnovata. Si prevede un investimento di otto milioni di franchi, ma Giancarlo Torriani punta in alto e afferma che ce ne vorranno almeno dieci: sono soldi ben spesi per la scuola. «Certo che l’insegnamento dell’italiano va promosso!» tuona Gustavo Lardi. «Me lo auguro nonostante la fusione di Bivio con gli altri comuni del Surses. Proprio la fusione con comuni romanci, che in parte hanno gli stessi problemi di identità, dovrebbe creare le premesse per mantenere viva la fiammella dell’italianità per gli scolari di Bivio. Privarli di un pur limitato insegnamento dell’italiano contrasta con lo spirito della politica linguistica cantonale. Sarebbe come strappare le radici di una secolare e proficua collaborazione commerciale, linguistica e culturale fra genti a sud e a nord del Settimo». La maestra Maria Pia si appresta a concludere la sua pluridecennale carriera di insegnante. Docente entusiasta e promotrice infaticabile della lingua italiana in un villaggio e in una valle alpina tedescofona e romancia. Le dovrebbe succedere una giovane che però non è di lingua madre italiana. «Speriamo in bene» ci dice. «Per insegnare bisogna avere l’italiano nel cuore. Se ti mancano le radici è più difficile insegnare una lingua». Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Come ti salvo un hotel Intervista Emanuele Patelli parla dell’esperienza quale hospitality
manager, figura voluta nel 2016 dall’Agenzia turistica ticinese
Giorgia Reclari In tre anni ha visitato oltre 160 alberghi in Ticino, in media uno ogni tre giorni. È un turista da record innamorato del nostro cantone? No, in realtà è l’hospitality manager Emanuele Patelli, una figura introdotta nel 2016 dall’Agenzia turistica ticinese in collaborazione con l’Ufficio per lo sviluppo economico del Dipartimento delle finanze e dell’economia, con lo scopo di aiutare gli albergatori a stare al passo con i tempi. Ora il suo mandato volge al termine (a fine anno) e lo abbiamo incontrato per chiedergli un bilancio e qualche aneddoto sul suo lavoro, importante ma poco conosciuto dal pubblico. Emanuele, che oltre all’incarico di hospitality manager, gestisce una struttura alberghiera con la sua famiglia a Locarno, parla con grande entusiasmo del suo lavoro. Signor Patelli, come mai si è deciso di introdurre la figura dell’hospitality manager? Da uno studio condotto in Ticino tra il 2012 e il 2015, è emerso che il 15% degli hotel non ha più un potenziale economico (sono quelli che negli ultimi anni stanno chiudendo), il 30% sono strutture di successo che hanno necessità minime di intervento e poi c’è la maggioranza, pari al 55%, rappresentata da alberghi con potenzialità e necessità di intervento. Per aiutare questa categoria si è deciso di offrire la consulenza gratuita. Come opera in concreto?
È una figura innovativa, una prima
a livello svizzero. In pratica fornisco consulenza agli albergatori sulle strategie di vendita e di comunicazione, soprattutto digitale, ma anche sulle possibilità di accesso ai crediti bancari per fare investimenti. In tre anni ha visitato decine di strutture e con alcune ha avviato dei progetti. Quali ricorda con maggiore soddisfazione?
I più interessanti sono quelli che avviano una nuova attività da zero, perché li posso seguire fin dall’inizio, far fare una formazione ai promotori, creare il progetto sulla carta e realizzarlo. Molti invece mi hanno contattato per consigli strategici e sono riusciti a introdurre alcuni accorgimenti per riposizionarsi o per ottimizzare il servizio. Io li aiuto in primo luogo a riflettere su se stessi. Punto molto sul loro spirito imprenditoriale. Quando qualcuno viene da me perché vuole sviluppare la sua attività, la prima cosa che chiedo è: come volete posizionarvi, qual è il vostro target? Se non si definisce questo è inutile fare cambiamenti. A volte arrivano albergatori con progetti multimilionari ma senza una riflessione sui destinatari. Per fare un esempio: vogliono fare 100 camere doppie e quando si chiede a chi sono rivolte, elencano tipologie molto diverse di ospiti: famiglie, persone in bicicletta, clientela business. Senza pensare che le camere doppie non vanno bene per queste categorie. Quindi gli albergatori moderni non possono più permettersi di aprire e aspettare che arrivi il turista...
Esatto, oggi gli albergatori sono confrontati con parecchie sfide, in primis la necessità di continuare a riposizionarsi nel mercato. Bisogna costantemente porsi una serie di domande: chi voglio attrarre nella mia struttura? Quali prezzi posso fissare? Quali servizi offrire nelle diverse stagioni? Io cerco di far capire che l’albergatore oggi deve essere anche un imprenditore. Per aiutarli in questo non sempre facile cammino, ho elaborato una formazione specifica su vari livelli, approvata dalla Schweizerische Hotelfachschule Luzern. Si chiama Pop-up Academy Ticino e la prima edizione (che ha già fatto il tutto esaurito) è partita quest’anno. Un tasto dolente per gli albergatori è sempre stato anche l’accesso ai crediti bancari per gli investimenti destinati a rinnovi e ampliamenti.
È un tema in cui sono stati raggiunti degli ottimi risultati: grazie al dialogo tra hospitality manager e Ufficio per lo sviluppo economico da un lato e settore bancario dall’altro, l’anno scorso è stata approvata una modifica della Legge sul turismo, con un decisivo miglioramento nell’accesso ai finanziamenti. Io, che da albergatore conosco il problema, fornisco consulenza diretta e fungo da tramite fra alberghi e istituti bancari. C’è anche il credito quadro messo a disposizione dal Cantone, che è già quasi tutto esaurito: un bel segno di rinnovato spirito imprenditoriale. In generale come giudica l’offerta
Emanuele Patelli gestisce anche una struttura alberghiera a Locarno. alberghiera in Ticino a livello qualitativo e quantitativo?
Il rapporto fra domanda e offerta si sta regolarizzando. Chiudono le strutture che non riescono a rinnovarsi, ma storicamente oggi abbiamo il più alto tasso di occupazione mai registrato, anche rispetto agli anni d’oro del turismo. È chiaro che avendo meno strutture è aumentata anche l’occupazione. È un momento di assestamento. C’è differenza nella qualità delle strutture tra le varie regioni ticinesi?
Ascona e tutta la regione del Locarnese, per tradizione, hanno una maggiore vocazione leisure, ovvero vacanziera. Lugano è più votata al business e ai
congressi. Il Mendrisiotto sta compiendo molti sforzi per riposizionarsi: diversi progetti hanno visto la luce o la vedranno nei prossimi anni. Il Bellinzonese e le valli stanno invece puntando molto sull’offerta legata alle MTB e all’escursionismo. Fa piacere constatare che gli investimenti complessivi sono distribuiti su tutto il territorio. Guardando avanti, quali progetti ci sono ancora sul tavolo?
Il mio mandato termina alla fine di quest’anno, ora si discuterà se e in che termini proseguire. Di sicuro punteremo ancora molto sulla formazione – un fattore fondamentale per la crescita della competitività – e sugli investimenti. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi La crociata populista Il 21 ottobre 1096 vide la fine di uno degli eventi più disastrosi della storia del cosiddetto Occidente. La Crociata del Popolo – altresì nota come la Crociata dei Poveri o Crociata dei Contadini fu un evento meteorico per la sua dimensione temporale – durò infatti solo dall’aprile all’ottobre, poco più di sei mesi – e grottesco nella dimensione umana e culturale. Lo sfondo storico degli eventi era quello di un’Europa devastata dalla siccità e dalla carestia che generava fra le classi subalterne di tutto il continente disperazione mista a visionarie predizioni riguardo al futuro. Come se non bastasse, già nel 1095 si era assistito a fenomeni atmosferici straordinari: una tempesta di meteore, un’eclissi di luna ed una sorta di inusitata aurora boreale visibile a latitudini improbabili. A tutto si era poi aggiunta un’epidemia di ergotismo che al danno aveva aggiunto le beffe. Noto nella tradizione come «Fuoco di Sant’Antonio», l’ergotismo di manifesta nella forma di convulsioni allucinatorie dovute alla presenza dell’acido lisergico nelle spore
del fungo che attacca le spighe di segale nella forma di escrescenze nere (da cui il nome «segale cornuta») oppure nella forma di sviluppi cancrenosi che attaccano gli arti. Mortale in entrambe le forme, il Fuoco di Sant’Antonio veniva curato – si credeva – dai frati dell’ordine omonimo: quello che ancor oggi è conosciuto come Pane di Sant’Antonio altro non è che pane di grano (un tempo riservato alla nobiltà e al clero) che veniva somministrato dagli Antoniani agli afflitti in alternativa alla segale contaminata portando così sollievo e guarigione. Le condizioni erano pertanto ideali – si fa per dire – perché nascessero in tutta Europa movimenti spontanei millenaristi: siccità, carestia, malattie. La Trinità della Disperazione vedeva protagonisti i soggetti sociali più esposti: donne e bambini – spesso abbandonati a loro stessi e riuniti in gang – rimpinguavano le processioni che si tenevano spontaneamente su e giù per il continente incerte fra l’invocare il perdono divino dei peccati o il maledire la propria anagrafe. Sullo sfondo di questo fosco scenario si
delineò nei primi mesi del 1095 la figura di un predicatore francese in grado di focalizzare la visione allucinata delle masse e trasformarla in azione. Pietro l’Eremita di Amiens era tornato da un pellegrinaggio in Terra Santa nel 1093 convinto che Cristo gli avesse affidato la missione di liberare i luoghi sacri dal dominio musulmano. A partire dalla Francia del Nord e dalle Fiandre, il frate visionario accoglieva l’idea di Papa Urbano II per una crociata che raccogliesse il Gotha della nobiltà europea – e con questo certo non solo il suo potenziale militare ma anche il riconoscimento della leadership della Chiesa – e la consegnava al popolo eletto sovrano di contro ai tentennamenti interessati e incompetenti dei suoi leader. Vox populi, vox Dei. La Crociata dei Pezzenti – altro nome col quale l’episodio è conosciuto – riuscì nell’intento di far salire a bordo membri della nobiltà minore, cadetti diseredati, piccoli aristocratici impoveriti e qualche furibondo pezzo da novanta antesignano di Don Chisciotte: un nome per tutti sia sufficiente. Il Cavaliere crociato che aveva più
esperienza di combattimento era noto come Walter Sans-Avoir (italice: Valter lo Squattrinato). Così attrezzata, nell’aprile del 1095 un’armata brancaleone che presto avrebbe raggiunto i 100’000 – donne e bambini compresi – marciava attraverso l’Europa per confluire verso l’antica via Egnatia, rotta che li avrebbe portati a Costantinopoli e di lì a liberare la Terrasanta. Fu come se, non bastando le disgrazie che si lasciavano alle spalle, i Crociati aggiungessero per loro contributo personale un’ennesima piaga d’Egitto: come un esercito di cavallette si decise in primis – tanto per allenare gente inesperta alle armi allo scontro finale coi musulmani – di dare una ripassata agli ebrei: in una serie di pogrom scatenati nelle città lungo il Reno un numero calcolato fra i 2000 e i 12’000 ebrei furono uccisi. L’incedere della Crociata lungo i Balcani fu una progressione di saccheggi, assedi e violenze per alimentare una folla sempre più affamata per la quale nessuna logistica di vettovagliamento era prevista. 4000 ungheresi furono massacrati a Zemun, a Nis le forze locali
invece difesero le risorse della città e 10’000 crociati rimasero morti sul campo. A Sofia trovarono una scorta armata dell’esercito bizantino che li portò fino ai Dardanelli. Temendo per la sorte di Costantinopoli, l’Imperatore Alessio I Comneno organizzò il passaggio del Bosforo e vide con sollievo l’orda addentrarsi, ancora e nonostante, spavalda processione, verso l’interno dell’Anatolia (oggi Turchia) incontro al suo fato. Francesi contro Italiani e Tedeschi – il resto contro tutti. Presto rivalità esasperate dalla fame, dalla fatica e dunque dalla fine del Sogno, spaccarono il campo crociato. Pietro l’Eremita, esaurito il capitale del suo carisma, aveva perso il controllo della sua stessa creatura e pensò bene di tornare a Costantinopoli per organizzare i rinforzi. I turchi non aspettarono: sulla strada per Nicea attesero che i crociati entrassero in una stretta gola e poi colpirono. Pochi uscirono vivi dall’imboscata. I fortunati – donne e bambini – furono venduti schiavi. Succedeva oggi 923 anni orsono.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La salute, una questione di responsabilità collettiva Cara dottoressa, il problema che le prospetto non riguarda soltanto me, ma coinvolge molte donne della mia età (intorno ai sessanta), che si trovano a gestire contemporaneamente genitori e figli. Un doppio impegno che tante volte si somma, come nel mio caso, a quello del lavoro non ancora concluso. Non le chiedo una soluzione, so che è impossibile, ma una riflessione da condividere con i lettori di questa Stanza. Chissà se pensare insieme potrà aiutarci! Sposata, due figli grandi e un marito manager super-occupato, sto quasi per raggiungere il pensionamento dopo trent’anni di lavoro come oncologa ospedaliera. Una professione particolarmente impegnativa ma di cui vado fiera perché è stata una scelta appassionata e un’esperienza, benché faticosa, molto gratificante. Ora però mi sento stanca e avrei bisogno di riposo fisico e di tranquillità psicologica. Purtroppo non posso permettermelo
perché mia madre, ottantaseienne e affetta da deficit cognitivo, richiede continua assistenza. Mio fratello, come altri uomini, rifiuta di occuparsene e si limita a offrire un contributo finanziario fingendo di non capire che, in queste circostanze, i soldi non bastano. Le badanti si susseguono in continuazione perché nostra madre non le sopporta e, senza motivazione, le licenzia quando le pare. Di conseguenza devo sostituirle vagliando ogni volta numerose candidate prima di trovare quella che, in teoria, potrebbe andar bene. Inoltre, come medico, sono chiamata da mia madre per mille motivi: dalla somministrazione dei medicinali a improvvisi stati d’ansia, dall’irritazione delle accudenti ai vuoti di assistenza. Evidentemente le risorse economiche da sole non bastano per rispondere a necessità che l’invecchiamento della popolazione renderà sempre più urgenti e diffuse. Grazie dell’ascolto. / Mirella
Cara Mirella, la tua lettera getta un sasso nello stagno per cui il problema si allarga ad anelli concentrici. La vita umana si va sempre più allungando e di conseguenza cresce il numero delle persone anziane esposte al crollo fisico e mentale. Nel contempo è sempre più evidente che l’efficacia della cura è strettamente connessa alla capacità di prendersi cura. Un compito, quello di stabilire una relazione empatica, cioè di compassione e di condivisione con il paziente, che lungi dall’essere riservato ai sanitari, riguarda tutti, uomini e donne. Innanzitutto non è giusto – nonostante sia spesso così – che tu, come figlia femmina, debba far fronte a tutte le incombenze concrete mentre il figlio maschio se la cava pagando semplicemente una «tassa». Nel tuo caso poi, essendo figlia e medico, ti spetta il duplice incarico di curare e prenderti cura, davvero tanto per una donna che
lavora e deve occuparsi, oltre che della madre, del marito e dei figli. Una risorsa per alleviare il carico delle famiglie è costituito dall’esercito delle badanti, donne provenienti da Paesi lontani per aiutare noi, più abbienti, ad accudire i membri più fragili della società: bambini, vecchi e malati. Si è stabilita così una «comunità femminile» dove la prossimità è quasi sempre strumentale. Generazioni di donne collaborano da anni nella gestione dei nostri problemi familiari senza che intercorra una relazione di conoscenza, di simpatia e solidarietà. Non possiamo dimenticare inoltre che molti anziani sono affidati a Istituzioni private o pubbliche, le case di riposo, magari efficienti ma spesso poco affettive. Hai proprio ragione, cara amica, quando affermi che il problema non è solo privato ma anche pubblico. E,
aggiungo, neppure soltanto economico e organizzativo, sociale e politico. È anche questo ma prima di tutto è un problema morale, una questione di responsabilità collettiva. Come scrive Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura di Milano: « …La salute non è una questione riducibile ai pur decisivi progressi della scienza e della tecnica medica. Essa non è riducibile neppure all’efficacia degli interventi sul singolo paziente. La salute è il frutto dell’organizzazione complessiva di una società, del suo livello di coesione sociale, in una parola della sua civiltà». (www.casadellacultura.it).
sulla reale portata di questo trasferimento: l’aria mediterranea è merce esportabile? Non rischia di deteriorarsi a contatto con un ambiente tanto diverso, scadendo a scimmiottatura? In parole povere, Zurigo non è Ibiza. E, inevitabilmente, il trasloco sulle rive della Limmat di nuovi ritmi quotidiani e forme di divertimento non è stato indolore. Le aperture prolungate degli esercizi pubblici, dalle 21 alle 24, per i bar, e dalle 24 alle 2, per i club notturni, concesse dalle autorità, hanno provocato il disappunto di cittadini, infastiditi dai rumori e, soprattutto, dalla perdita di una prerogativa, considerata un vanto: la tranquillità e persino la noia tipicamente svizzere. Con ciò, la voglia di Mediterraneo ha radici storiche lontane. È il Drang nach Süden, che animò Goethe, in viaggio verso «il paese dove fioriscono i limoni» e spinse Heinrich Schliemann a scoprire i tesori dell’antica Grecia, e che con-
tinua a manifestarsi. Magari in forme a volte apparentemente assurde. Come il movimento, nato negli anni 80, intitolato Spreng die Alpen: abbatti le Alpi per godere la vista del Mediterraneo. Da intendere, ovviamente, un incentivo a favore dei trafori che abbreviano la via verso il sud, meta privilegiata nell’immaginario collettivo elvetico. Di cui il Ticino rappresenta un’anticipazione, grazie a un paesaggio prealpino, di valli e di laghi, dove fioriscono i castagni e anche le palme. Ma proprio queste ultime dovevano diventare un soggetto sfruttato dalla pubblicità turistica, dove il Mediterraneo rimane un punto di forza. Tanto che ci si è impegnati, anche da noi, per accentuarne la presenza e ringiovanire la propria identità. È all’insegna del giovanilismo che Lugano ha attribuito l’aggettivo «marittima» a un tratto di riva di lago: operazione, in fondo, illusoria. Ma di illusioni si continua ad avere bisogno.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Aria mediterranea nelle città svizzere Sia detto sottovoce per non urtare la diffusa suscettibilità ambientalista, ma l’estate calda e prolungata ha anche i suoi vantaggi. Se ne sono resi conto i nostri concittadini d’oltre Gottardo che, per via del persistente
Lugano Marittima.
bel tempo, hanno cambiato abitudini adeguandosi a un modello mediterraneo, sia pure riveduto e corretto. Nelle maggiori città, a cominciare da Zurigo, dove il fenomeno è più evidente, si tende a star fuori, a far tardi la sera, e persino la notte. Quindi, bar e ristoranti si sono attrezzati: invadono marciapiedi e piazze, con tavolini, sedie, gazebo e ombrelloni, destinati a clienti dalle esigenze, sino a una decina d’anni fa imprevedibili, del tipo una pizza alle 22. Proprio la pizza è diventata il simbolo più rappresentativo, appunto, della «mediterraneizzazione»: parola quasi impronunciabile, con cui in gergo sociologico si definisce un cambiamento, che non è soltanto questione di sapori. Certo, negli ultimi decenni, gli svizzero-tedeschi hanno imparato ad apprezzare espresso, spaghetti al dente, mozzarella e rucola, e via enumerando le proposte di una gastronomia,
del resto gestita prevalentemente da immigrati italiani e anche ticinesi. Ora, però, la conversione ha assunto connotati ben più impegnativi. Non concerne i palati, passati dal burro all’olio d’oliva, ma sta toccando comportamenti e sentimenti, ispirati a una diversa idea di quotidianità, addirittura una filosofia di vita. Da affrontare in modo libero, fantasioso, aperto, persino, all’improvvisazione. Come avviene nei paesi meridionali: dalla Spagna della movida al Sud Italia del dolce far niente, alla Grecia del sirtaki, per definizione luoghi di vacanza e, adesso, promossi a punti di riferimento per il trapianto alle nostre latitudini. È in atto, sul piano nazionale, una sorta di omologazione agli esempi mediterranei, considerati stimolanti iniezioni di spensieratezza e allegria. Il clima mite sembra consentirlo. Tuttavia, c’è un altro clima, d’ordine razionale e culturale, che induce a interrogarsi
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Ambiente e Benessere Parco dell’Alta Murgia Un paesaggio steppico, aspro e inospitale, che si trasforma col cambiamento delle stagioni
La viola quale pianta medicinale A volte i rimedi naturali sanno risolvere i problemi: nella cura delle dermatiti, ad esempio, la fitoterapia può aiutare pagina 19
La nuova gamma Discovery Land Rover punta su due motori mild-hybrid a 48 Volt in grado di ridurre molto consumi ed emissioni
Il 4 ottobre vale per tutti È, e rimane, la giornata mondiale dedicata a tutti gli animali, giraffa compresa
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Per scaricare l’app basta digitare: «Junker raccolta differenziata». (MaMa)
Ti cestino con lo smartphone
Intervista Bruno Buzzini spiega i vantaggi della nuova applicazione che aiuta i cittadini a riciclare i rifiuti Nicola Mazzi Scaricabile su un comune smartphone, l’applicazione pensata per incentivare e migliorare il riciclo di rifiuti, è già operativa in alcune realtà del nostro Cantone, come Locarno e Chiasso, e i risultati ottenuti sono piuttosto soddisfacenti. Per saperne di più abbiamo sentito il responsabile del Dicastero ambiente e territorio della città sul Verbano, Bruno Buzzini. Ci può spiegare in che cosa consiste la nuova applicazione che la città di Locarno ha scelto per riciclare i rifiuti?
La città di Locarno, con la società Junker (ndr. «Junker raccolta differenziata» è il nome dell’app), propone una nuova applicazione dinamica, interessante e utile, scaricabile sullo smartphone senza alcun costo, la quale aiuta il cittadino nella raccolta dei rifiuti in modo semplice, personalizzato e veloce. Devo dire che sta già conoscendo un buon successo. Infatti, nei giorni successivi la pubblicazione del comunicato, già 800 utenti l’avevano scaricata, soprattutto i giovani, ma non solo. La nuova applicazione permette diverse facilitazioni per chi desidera riciclare meglio.
Anzitutto il riconoscimento istantaneo del prodotto da riciclare. Un secondo aspetto inglobato è il calendario della raccolta rifiuti attraverso il quale si può sapere quando vengono ritirati i vari tipi di rifiuti come gli scarti vegetali, la carta, eccetera. Inoltre indica la geolocalizzazione dei vari punti di raccolta: quindi chi scarica l’app può essere informato anche sulla posizione dei vari ecopunti e dell’ecocentro e sui loro orari d’apertura. C’è pure la possibilità di essere avvisati il giorno precedente su una particolare raccolta e vengono anche segnalati eventuali cambiamenti nei passaggi della raccolta dei rifiuti.
In Ticino qualche Comune lo ha già adottato. Ad esempio, anche Chiasso ha già iniziato a usare questa applicazione con buoni risultati. Come detto, finora a Locarno, 800 persone hanno già scaricato questo strumento: un buon inizio. Inoltre, la nostra intenzione è anche quella di coinvolgere gli utenti. Infatti, in alcuni casi, è possibile che un prodotto non venga riconosciuto dall’app perché magari acquistato all’estero (ndr. l’app riconosce un milione di prodotti). In quei casi l’applicazione chiede all’utente di fornire alcuni dati per completare l’inventario e fornire le informazioni utili sul modo di smaltirlo.
È nata con l’introduzione, il 1. gennaio di quest’anno, del sacco dei rifiuti cantonale. Ma la proposta rientra nell’ambito delle misure di sensibilizzazione e informazione alla popolazione che vogliamo portare avanti nei prossimi mesi e anni. Diciamo che questo è il primo anno e sarà una sorta di rodaggio, dal quale partire per poi ottimizzare la raccolta dei rifiuti.
Una premessa è d’obbligo: ogni individuo ha una sua coscienza ambientale. Ma in modo generale questo strumento permette di agevolare il riciclaggio e aiuta i cittadini nella separazione dei materiali.
Da quale esigenza è nata l’idea e come è stata sviluppata?
È una prima ticinese o ce ne sono altre del genere, dove? I risultati sono buoni?
Dal punto di vista ambientale quali saranno i vantaggi?
Questo è un tassello che si inserisce nella nuova gestione dei rifiuti della città. Come sta reagendo la popolazione anche alla tassa sul sacco?
Come Municipio, negli scorsi mesi, avevamo risposto a un’interrogazione sul tema riguardante i primi cento gior-
ni. Bisogna dire che da subito la popolazione ha risposto in modo esemplare. C’è sempre il furbetto che non segue le regole, ma nel complesso il risultato è positivo. Il bilancio ci dice che tra maggio e giugno vi è stata una diminuzione prossima al 30% dei rifiuti solidi urbani (RSU) rispetto alla media dei due anni precedenti. D’altro verso è aumentato il riciclo. Sono infatti in aumento le raccolta della carta (+4%) e del vetro (+5%), mentre la raccolta degli ingombranti e del verde risulta stabile. Dati previsti e che non ci meravigliano. Questo ci spinge a migliorare la gestione degli ecopunti, aggiungendo contenitori per materiali come batterie, capsule del caffè, alluminio, ecc. È vero che con la tassa sul sacco avete però tolto i cassonetti della plastica? In che modo si potrà riciclare questo materiale altamente inquinante?
Non mi risulta che ci fossero in passato e non ci sono nemmeno ora i cassonetti per la plastica perché non tutte le plastiche si possono riciclare e alcuni imballaggi si possono riconsegnare ai grandi magazzini. Il riciclo della plastica è comunque uno dei temi che stiamo portando avanti, osservando un progetto pilota che sta facendo la città di
Bellinzona. Non escludiamo di seguire quel modello, ma il Cantone consiglia di attendere i risultati prima di iniziare. Inoltre, stiamo pensando a come raccogliere l’umido. Anche quello è un tipo di rifiuto non semplice da smaltire ma sul quale stiamo ragionando. Questi primi mesi con la nuova gestione dei rifiuti come stanno andando? Dove avete ancora margine di miglioramento?
L’umido e la plastica, come detto, sono i prodotti che vorremo aggiungere a quelli da riciclare e smaltire. Vogliamo migliorare nell’informazione alla popolazione con una campagna di sensibilizzazione e ricordando che ci sono anche delle sanzioni per chi aggira le regole. E per ora ci situiamo sulle 10-20 multe emesse al mese. Ma principalmente stiamo ottimizzando il giro della raccolta dei rifiuti. Abbiamo un nuovo sistema elettronico che comprende un rilevatore per ogni interrato e un ricevitore nell’automezzo con il quale si osserva la quantità di rifiuti presente in quel interrato. Quindi possediamo un numero di informazioni maggiore sulla quantità di rifiuti in una data zona e questo è molto importante per non fare giri a vuoto con il camion dei rifiuti.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Ambiente e Benessere
L’altra Puglia
Reportage Tra i boschi del Gargano
e le spiagge festaiole del Salento, il terrorio s’inerpica sulle colline della Murgia e cambia vestito
Marzio Pescia, testo e fotografie Lo intravediamo all’interno di una grotta semi nascosta sulla parete di un canyon. È un ragazzo sulla trentina, sta spuntando da solo da una caverna inferiore. Ci avviciniamo e siamo convinti di avere a che fare con un eccentrico highlander scozzese in vacanza. Possenti anfibi neri, pantaloni militari, canottiera degli Iron Maiden, capelli lunghi, barbaccia rossa. A tradirlo immediatamente è però il suo accento pugliese. «Tutta questa zona è la mia vera casa», dice Vincenzo. Per 6 o 7 ore al giorno insegna musica nella vicina Altamura, poi appena può prende la sua Fiat Punto e fugge dalla civiltà dirigendosi verso le colline sassose appena dietro la città. «Mi piace esplorare la Murgia in completa solitudine. Vengo quassù, cammino per chilometri senza incontrare nessuno e ascolto la natura: il vento, gli odori delle piante, i versi degli animali. Sono momenti preziosi per me». Seguiamo Vincenzo fuori dalla grotta. Quando avanza si appoggia a un pesante bastone che porta sempre con sé. Per camminare, dice, ma anche per proteggersi da lupi e cinghiali. «Su queste colline ce ne sono un sacco», spiega. «Intendiamoci, la mia Puglia è anche ben altro, il Salento ad esempio è fantastico: le spiagge, la movida, le discoteche moderne…», continua Vincenzo. «Ma io preferisco questa steppa:
è piena di sorprese. Sono migliaia le forme di vita vegetali o animali nascoste tra gli arbusti. E poi, tra le rocce, non è raro trovare le tracce di chi ha vissuto su questo altipiano migliaia di anni fa». Vincenzo è un’eccezione ed è consapevole di esserlo: in generale sia i suoi conterranei sia gli sciami di viaggiatori che calano ogni anno nelle destinazioni turistiche pugliesi ignorano le bellezze dell’Alta Murgia. In parte perché semplicemente non le conoscono oppure perché, secondo il costume locale, il suo territorio è stato a lungo considerato come una banale ed enorme pietraia. Ma questo parco nazionale di 68mila ettari situato nell’entroterra delle province di Bari e Barletta-Andria-Trani è davvero speciale. Al suo interno si celano castelli e necropoli antiche, praterie steppiche che durante la stagione calda si travestono da deserti e alcune aree boschive dense e impenetrabili. E poi i campi di grano, gli uliveti, i mandorleti… In effetti, questa è una delle due grandi particolarità del parco, buona parte del territorio viene coltivata da secoli, in condizioni spesso estreme. L’antropizzazione di queste terre risale alla storia antica, con uomo e ambiente che si sono reciprocamente adattati in una convivenza tutt’altro che facile. L’altra grande caratteristica è la pressoché totale assenza d’acqua sull’altipiano. Le rocce calcaree che lo formano sono incapaci di trattene-
Conoscitore del parco ed esploratore solitario: Vincenzo, all’interno della grotta.
Alcuni panorami ricordano scenari quasi lunari.
Perdersi percorrendo una strada sterrata in mezzo al niente: se non è la regola, poco ci manca.
re l’acqua piovana che filtra così nel sottosuolo scavando grotte e gallerie (almeno 1500 quelle recensite nel comprensorio) e depositandosi nella falda freatica. In superficie invece l’aridità è pressoché totale.
L’Alta Murgia: un po’ Asia centrale d’estate, un po’ Scozia o Irlanda in autunno e primavera: così il parco nazionale pugliese «L’Alta Murgia è come una grande spugna: non ci sono né laghi né fiumi perché il terreno è troppo permeabile e la poca acqua disponibile viene letteralmente divorata dalle rocce», ci dice Giuseppe, una delle guide del parco che incontriamo presso l’Officina del parco, una specie di centro informazioni per i visitatori.
In generale però, le strutture d’accoglienza sono poche e male organizzate. Ad esempio le numerose masserie abbandonate sparse nel parco sarebbero strutture perfette per creare una specie di albergo diffuso. Eppure restano in disuso, tanto che molte sono ormai diroccate. «Da Ruvo di Puglia, dove ci troviamo, partono diverse ciclopiste per il parco», aggiunge Giuseppe. «Io stesso ho accompagnato gruppi di turisti americani, britannici o francesi su queste piste, facili e percorribili. La più grande difficoltà si situa però a monte: qui a Ruvo non c’è nessuno che affitta biciclette. Culturalmente non siamo ancora pronti per sfruttare tutte le opportunità che il parco può generare». È anche vero che difficilmente queste colline saranno in grado di dirottare sulle Murge molti turisti, magari strappandoli alle lounge sulle spiagge salentine o alle magnifiche città bianche situate in riva al mare a pochi chilometri da qui.
Una pianura steppica contraltare delle affollate spiagge pugliesi poco distanti.
È un’area dura, difficile. Concede poco ai visitatori di passaggio, ancor meno a quelli distratti. Gli spazi sono enormi, in auto si percorrono chilometri e chilometri nel nulla. Tutto attorno, il paesaggio è brullo, a tratti lunare. Certo, le attrazioni ci sono ma vanno prima di tutto cercate e trovate. Forse, però, il bello della Murgia è proprio questo suo essere anacronistica, lontana anni luce dallo Zeitgeist attuale del «tutto e subito». Va studiata e affrontata piano piano, prendendosi tutto il tempo necessario per scoprire un muretto a secco chilometrico tra i campi di grano o esplorando questa o quella masseria abbandonata tra le colline. Questa almeno è la certezza di Vincenzo che su questo altipiano ha idealmente edificato la sua dimora nomade. A volte vi si addentra semplicemente per fare fotografie che ricordano l’Arizona o l’Asia centrale d’estate, la «sua» Scozia d’autunno o ancora la steppa siberiana d’inverno. Altre volte passeggia nelle aree più frequentate per raccogliere la (molta) spazzatura che parecchi incivili ancora si ostinano a buttare nel parco. «I momenti più emozionanti che ho vissuto nel parco sono stati due. Il primo è stato quando ho visto il mio primo lupo. Mi ha attraversato la strada e ha proseguito il suo cammino, fiero e tranquillo. Mi ha completamente ignorato ma il mio cuore batteva a mille», racconta il giovane esploratore. «Il secondo invece quando sono sceso nella grotta di Faraualla, la più profonda della Murgia: il pozzo d’entrata scende fino a 300 metri sotto la superficie. Ho sempre pensato che quel posto fosse l’ombelico del parco e io, che in questa terra cerco anche di ritrovare le mie radici, beh, non potevo farmelo mancare».
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Idee e acquisti per la settimana
Perché sorridere è così bello La «Candida White Optic InstaShine Pen» rende in un attimo i denti più bianchi. Questo prodotto innovativo è disponibile in un pratico formato, facile da mettere in borsa e da tenere in mano. Sotto forma di penna, per il suo 70esimo anniversario, Candida lancia anche la protezione intensiva di 6 ore in caso di denti e colletti delicati e sensibili al dolore. Gustarsi pienamente una buona torta senza dolorosi effetti collaterali non è mai stato così facile.
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Ambiente e Benessere
Il lungo tempo curativo Fitoterapia Nel caso delle dermatiti vi sono molte piante utili e alternative alla farmacologia, una di queste
è la viola che cura anche i raffreddamenti ed è antinfiammatoria Eliana Bernasconi La temperatura elevata, il calore e l’umidità, gli sbalzi termici, l’inquinamento da traffico, l’assedio continuo delle amabili zanzare hanno conseguenze evidenti sullo stato della pelle, causano spesso disturbi, obbligano a predisporre piani di difesa. Presenti da tempo immemorabile, unica cura prima della scoperta dei farmaci di sintesi, le piante medicinali possono essere una valida alternativa alla farmacologia; del resto gran parte dei farmaci in commercio ha componenti di origine vegetale. «Le piante medicinali indicate per i disturbi dermatologici sono numerose, fra le prime abbiamo la viola, la bardana, la fumaria, e altre ancora che se non sono specifiche per la pelle servono a migliorare lo stato che provoca il problema», spiega Stefano Guerra, erborista e proprietario di un negozio in centro Italia. Ricco di esperienze, Stefano Guerra, ne riporta alcune, come quella volta che, con fiducia e pazienza, le erbe riuscirono a risolvere dove diversi farmaci avevano fallito un serio problema dermatologico di un ragazzo che pareva non trovare soluzione: «l’utilizzo degli integratori naturali» continua Guerra «ha un impatto meno forte e meno devastante. Importante è trovare la radice del problema; gli integratori naturali vengono ricevuti in maniera naturale dall’organismo, mentre i prodotti chimici in taluni casi potrebbero agire in modo molto forte e i farmaci potrebbero avere diverse controindicazioni». Il farmaco di sintesi, abbiamo capito, agisce in base a un solo principio attivo, con un unico processo colpisce solo un organo, mentre la pianta, che racchiude intatte tutte le sue componenti, agisce su ampio raggio. Ma cogliamo un’altra differenza fondamentale, le nostre aspettative: il nostro atteggiamento di fronte al prodotto fitoterapico si differenzia nel non pretendere i rapidi risultati che siamo avvezzi ad aspettarci dal farmaco di sintesi. I tempi sono infatti un poco lunghi mentre spesso si vuole tutto e subito: saper aspettare è un’esperienza che andrebbe
rinnovata. L’approccio alla fitoterapia prevede per l’appunto una predisposizione alla non pretesa di vedere subito un risultato, occorre cioè accettare l’idea che saranno necessari tempi lunghi. Se riflettiamo sul ciclo di crescita e sviluppo di una pianta officinale, come per tutte le piante, ci rendiamo conto che anch’esso richiede tempi lunghi e non sopporta accelerazioni; come potrebbe dunque la sua azione curativa non rispettare queste medesime caratteristiche? Della viola o viola del pensiero, nome scientifico Viola Tricolor L, della famiglia delle Violaceae parlava già Virgilio; Shakespeare la includeva tra i fiori che Ofelia offre al fratello nell’Amleto. Nota ai greci, agli arabi, Viola tricolor cresce nei campi e nei pascoli fino a 2000 m; le radici si raccolgono a primavera, i fiori ad aprile, e si fanno asciugare con cura e a calore mite. Uno studio italiano del 1998 ha dimostrato l’efficacia dell’infuso di viola nel trattamento di affezioni cutanee allergiche (anche causate da allergie alimentari, resistenti ad altri trattamenti). Oltre a risolvere i problemi della pelle, la viola ha molte altre indicazioni: è antinfiammatoria, cura le malattie da raffreddamento e anticamente era usata per le malattie di petto. I medici della prima università del mondo, la scuola salernitana, la consideravano il rimedio principe per combattere le cefalee postprandiali dovute a disordini alimentari. E non finisce qui. Per un certo Joachim Camerarius, botanico e medico nato nel 1534, era efficace addirittura contro la sifilide, mentre Leonardo Fuchs, nato nel 1501, la raccomandava sempre per le malattie della pelle. Ai fiori sono state riconosciute proprietà emollienti, depurative del sangue e della cute. In medicina popolare la pianta intera fresca, schiacciata, mescolata col latte e ridotta in poltiglia veniva applicata localmente contro la crosta lattea dei bambini. Con il medesimo intento si mescolava la polvere delle foglie seccate nella pappa dei bimbi; mentre le foglie, cotte in acqua salata, erano applicate come impiastro sulle scottature, sulle ferite e sulle piaghe fresche.
Un’esemplare di bardana (Arctium iappa). (Christian Fischer)
Davvero si rimane ammirati da tanta sapienza, di fronte a queste conoscenze possedute un tempo e che noi abbiamo rischiato di perdere irrimediabilmente, e se non fosse per questi stralci di trascrizioni di ricordi orali non ne avremmo nemmeno più traccia. Preparazioni di viola sono usate ancora oggi in pediatria nel trattamento della crosta lattea, e molti sono i casi di dermatosi e acne giovanile felicemente risolti con preparati di viola. La tintura madre (preparata partendo dai fiori freschi raccolti a primavera estate e che ha un grado alcolico di circa 60°) è ricchissima di principi attivi e ha un lungo elenco di proprietà batteriostatiche, protettive, antiradicali liberi, eccetera. È impiegata nel trattamento di eczemi, psoriasi, acne, e come drenante cutaneo e renale. Non si conoscono controindicazioni o interazioni con altre piante o farmaci. Un’altra pianta indicata per i di-
sturbi dermatologici, e non solo, è la bardana (Arctium iappa). Della famiglia delle Asteracee, cresce nei luoghi incolti e tra ruderi, bordi delle strade e sentieri fino a 1100 m, fiorisce da luglio a settembre. Virgilio ci parla dei suoi frutti ispidi che si appigliavano al vello delle pecore e delle vesti. Le capsule di questi frutti, muniti di minuscoli uncini, si attaccavano al pelo degli animali e fungevano da trasportatori garantendo alla bardana la dispersione dei semi. Tale sistema di «aggancio» fu studiato dall’ingegnere svizzero George de Mestral che negli anni Cinquanta brevettò addirittura il velcro. Che cosa non dobbiamo alle piante! Le foglie di bardana, cavolfiore e verza erano cotte nel latte e questo decotto veniva applicato sul Fuoco di Sant’Antonio (Herpes Zoster). Durante, medico umbro del 500 così consigliava: «La radice bevuta al peso di una dramma con i pinocchi (?) giova a coloro che
sputano il sangue e la marcia, e il succo bevuto con vino vecchio sana mirabilmente i morsi dei serpenti. Il seme bevuto con ottimo vino per quaranta giorni al peso d’una dramma sana la sciatica». Come per la viola, la bardana in uso interno cura acne e foruncoli e in uso esterno acne, crosta lattea, eczema, seborrea facciale; il suo succo si può frizionare sul cuoio capelluto contro l’eccesso di sebo. Per alleviare dolore e prurito provocati dalla puntura di insetti si strofinava sulle parti interessate un pezzetto di foglia, stropicciato fra le dita. I getti primaverili erano colti e cucinati come asparagi, le foglie si cucinavano in minestre, si aggiungevano a frittate e salse. Bigliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Ancora avventurosa ma più pulita
Motori A distanza di trent’anni dalla prima generazione, la Land Rover Discovery, che passò alla storia
per la sua partecipazione al Camel Trophy, sta per tornare sulle nostre strade in una nuova veste Mario Alberto Cucchi Non appena si parla di Land Rover si pensa alla mitica Defender. Un fuoristrada vero, nato negli anni Quaranta. Inarrestabile. Basti ricordare che il primo modello era stato progettato per essere anche paracadutato dagli aerei militari. All’ultimo Salone dell’Auto di Francoforte, a distanza di settant’anni, è stata presentata la nuova Defender. Affascinante e moderna nelle linee, anche se ovviamente molto diversa dal modello da cui deriva, per vederla su strada bisognerà però aspettare ancora un po’. Nel frattempo, in questi settant’anni sono nati molti altri modelli in casa Land Rover: Range Rover, Discovery, Freelander, Range Rover Sport ed Evoque e Discovery Sport. Di quest’ultimo sta arrivando nelle concessionarie, a un prezzo che parte da 46’600 franchi, il nuovo nato. A fine settembre si sono svolti in Spagna i primi test su strada. Discovery è per Land Rover un nome importante. Sono passati trent’anni dal primo modello che ha portato questo nome. Le prime versioni sono state protagoniste persino di competizioni fuoristradistiche e raid importanti nei luoghi più impervi del mondo. Ad esempio il mitico Camel Trophy. E oggi? Innanzitutto quando si parla di Discovery Sport si pensa a un SUV e non a una fuoristrada. Uno Sport Utility Vehicle. Un’auto adatta all’utilizzo di tutti i giorni, con la famiglia. Si può avere anche in versione
La nuova Land Rover Discovery.
sette posti. Comoda nei viaggi in autostrada e con buona capacità di carico. Caratterizzata dallo stesso spirito di avventura ma pensata per i nostri giorni. Ecco allora che la gamma comprende due motori mild-hybrid a 48 volt in grado di ridurre di molto consumi ed emissioni. Come funzionano? Recuperano l’energia normalmente dissipata durante la decelerazione gra-
zie a un generatore-starter a cinghia posizionato sul motore, e la immagazzinano in una batteria sotto il pianale. A velocità inferiori ai 17 km/h, quando il guidatore frena, il motore si spegne. Alla ripartenza l’energia immagazzinata viene utilizzata per assistere il motore in accelerazione riducendo i consumi. Ne risulta una marcia silenziosa ed efficiente.
Discovery Sport adotta la piattaforma Premium Transverse Architecture di Land Rover che è stata ideata proprio pensando all’elettrificazione. A breve arriverà anche una versione PHEV, ovvero ibrida plug-in con le batterie ricaricabili attraverso la presa di casa. Anche dal punto di vista della sicurezza attiva e passiva, il «Disco» merita cinque stelle. Molte le tecnologie
presenti a bordo: dalla frenata automatica d’emergenza al cruise control adattativo. Una chicca è lo smart rear view monitor. Un sistema che al tocco di un interruttore trasforma lo specchio retrovisore in uno schermo video sul quale appare in alta definizione la zona retrostante il veicolo. Le riprese sono realizzate da una telecamera nascosta nella pinna sul tetto. Utile ad esempio quando si ha il baule completamente carico e con un normale specchietto centrale non si vedrebbe davvero nulla. E il fuoristrada per cui la prima Discovery era nata? Va detto che questa versione non ha neppure le marce ridotte. I puristi potrebbero storcere il naso ma in realtà sono sempre meno le persone che le usano. Ecco allora venire in soccorso un sistema di frenata automatica che mantiene la velocità impostata durante le discese più ripide e un nuovo sistema che può mantenere una velocità molto bassa anche in salita. In questo modo il guidatore non deve più toccare i pedali ma solo pensare a tenere il volante. Una specie di guida semi autonoma dedicata al fuoristrada. L’elettronica a bordo è davvero tanta. Terra, sabbia, neve? Ci pensa il terrain response ad adattare tutte le funzioni dell’auto per mantenere la massima motricità su ogni terreno. Certo se pensate di mettere le ruote fuori dall’asfalto o di viaggiare con la neve, la trazione integrale è fondamentale. Concludendo, il nuovo Discovery va bene anche in fuoristrada. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
Il caffè preferito
Oltre 30 000 estimatori di caffè hanno partecipato a un sondaggio Migros scegliendo la varietà preferita in Svizzera: un espresso forte, dalle note di cioccolato e noce. Da inizio 2020 il Café National in capsula sarà disponibile per i sistemi Delizio, Nespresso®* e Nescafé® Dolce Gusto®*. Bruno Feer, Acquirente caffè crudo, e Christoph Brunschwiler, Responsabile ricerca e sviluppo nel settore delle capsule di caffè presso Delica SA, danno un’idea di come si arriva alla produzione Testo: Claudia Schmidt Foto: Paolo Dutto
«Gli aromi si sviluppano durante la tostatura» I votanti svizzeri desiderano un caffè espresso dalla tostatura scura e dall’aroma con note di noce e cioccolato. Il risultato vi ha sorpresi?
Bruno Feer: Non mi sorprende. È il tipo di caffè che io stesso bevo più volentieri. Questo caffè si presta molto bene per preparare bibite da miscelare con il latte. Gli espressi con queste caratteristiche non sono esotici, ma al contrario sono equilibrati e poco acidi. E molti estimatori del caffè desiderano un espresso forte, poiché aggiungono panna o latte. Dopo l’esito della votazione, quali sono ora i passi successivi?
Disponibili da febbraio 2020
Christoph Brunschwiler: Valutiamo quali sono i paesi di provenienza più adatti. Per esperienza sappiamo già a grandi linee quali caffè crudi hanno le proprietà desiderate: in particolare i caffè provenienti da Brasile, Messico e India, eventualmente anche dal Guatemala. Un caffè etiope o keniota non entra in linea di conto, se nell’aroma si vogliono le note di cioccolato o noce. Con quali criteri si sceglie il caffè?
Christoph Brunschwiler: Non si tratta di un unico caffè. Affinché l’espresso risulti equilibrato, è necessaria una miscela di diversi caffè crudi. Il gusto dei caffè brasiliani ha aromi di noce, ma non di cioccolato. Gusto che è più probabile ottenere da alcuni caffè messicani. Ciò è simile alle diverse località situate in una regione vinicola: non tutti i caffè messicani hanno aromi che rimandano al cioccolato.
Le note sviluppate da un caffè durante la tostatura dipendono innanzitutto dalla zona di coltivazione e dalle modalità di lavorazione dopo il raccolto.
Come si fa in modo che l’espresso abbia aromi di cioccolato e noci?
Bruno Feer: Si tratta di un lavoro di squadra, nell’ottica del quale il Reparto ricerca e sviluppo ha la maggiore esperienza. Nella scelta dei caffè gioca un ruolo importante il periodo del raccolto e di conseguenza la disponibilità.
Christoph Brunschwiler: Dopo la selezione dei caffè crudi, si tratta di miscela, tostatura e macinatura. Ci chiediamo con quale miscela si ottengono gli aromi desiderati e quale deve essere il grado di tostatura. Gli aromi si sviluppano infatti durante la tostatura. Se i chicchi vengono tostati in modo leggero, emergono altri aromi e non quelli desiderati. Affinché si sviluppino le note di noce e cioccolato è necessaria una tostatura da media a forte.
Come si determinano miscela, grado di tostatura e di macinatura del nuovo espresso?
Prima ha menzionato il grado di macinatura. Il caffè non viene macinato nello stesso modo per ogni capsula?
Chi definisce il modo in cui tostare i caffè selezionati?
Christoph Brunschwiler: In laboratorio possiamo simulare l’intero processo produttivo su piccola scala. Misceliamo e tostiamo piccole quantità, che infine vengono macinate e messe in capsula per effettuare i test. E ciò sarà poi realizzato in scala uno a uno in un secondo tempo?
Bruno Feer: È il nostro obiettivo. È nel contempo un’emozione quando nel prodotto finale si ritrovano per davvero gli aromi ricercati durante i test di laboratorio. Dalle prove di laboratorio ci si avvicina gradualmente al prodotto finale. I grandi apparecchi per la tostatura offrono risultati più costanti rispetto a quelli che utilizziamo in laboratorio. È bello seguire le fasi di passaggio da un nuovo prodotto appena sviluppato alla normale produzione.
Christoph Brunschwiler: No, il grado di macinatura deve essere di volta in volta definito, a seconda del sistema di capsula e della tostatura. I sistemi si differenziano tra loro e hanno quindi esigenze diverse per fare in modo che alla fine il caffè abbia il gusto così come noi lo abbiamo sviluppato. Quanto tempo ci vuole per sviluppare una nuova varietà di caffè in capsula? «Le Café National» non sarà disponibile prima della fine di gennaio 2020.
Bruno Feer: Quando necessito di varietà speciali di caffè, di cui non abbiamo campioni, sono necessari fino a due mesi per procurarli. Vogliamo conoscere non solo il gusto del caffè, ma anche il luogo di provenienza e le modalità di coltivazione. Poi lo sviluppo del prodotto richiede più tempo.
* Questa marca appartiene a terzi che non sono in alcun modo legati a Delica SA o a Migros.
Così il chicco di caffè arriva nella capsula Un team di esperti sviluppa un caffè o una miscela sulla base dell’esperienza. Ciò che ne risulta viene poi tostato e degustato in piccole quantità, fino a che la miscela, la tostatura e il grado di macinatura non sono ottimali. In seguito vengono preparate delle capsule per i test, da preparare nella corrispondente macchina da caffè per la degustazione.
60% 50% 60%
…gli appassionati di caffè che desiderano un nuovo espresso in capsula.
…desidera un caffè tostato scuro. Nessuna sorpresa, dal momento che i caffè dalla tostatura scura sono particolarmente adatti per preparare bevande miscelate con il latte.
…ha votato per una varietà dagli aromi di noce e cioccolato. Gli altri hanno scelto un caffè dalle note fruttate e fresche o dalla tostatura speziata.
Christoph Brunschwiler dirige lo sviluppo delle nuove capsule di caffè.
Bruno Feer acquista il caffè crudo per Delica.
Solo quando tutto è definito il caffè può essere prodotto. Bisogna inoltre fare in modo di assicurare che il caffè desiderato dal cliente sia disponibile in quantità sufficiente. E per concludere va stabilito il colore della capsula, così come la confezione, che devono essere disponibili e pronte per il riempimento.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Il caffè preferito
Oltre 30 000 estimatori di caffè hanno partecipato a un sondaggio Migros scegliendo la varietà preferita in Svizzera: un espresso forte, dalle note di cioccolato e noce. Da inizio 2020 il Café National in capsula sarà disponibile per i sistemi Delizio, Nespresso®* e Nescafé® Dolce Gusto®*. Bruno Feer, Acquirente caffè crudo, e Christoph Brunschwiler, Responsabile ricerca e sviluppo nel settore delle capsule di caffè presso Delica SA, danno un’idea di come si arriva alla produzione Testo: Claudia Schmidt Foto: Paolo Dutto
«Gli aromi si sviluppano durante la tostatura» I votanti svizzeri desiderano un caffè espresso dalla tostatura scura e dall’aroma con note di noce e cioccolato. Il risultato vi ha sorpresi?
Bruno Feer: Non mi sorprende. È il tipo di caffè che io stesso bevo più volentieri. Questo caffè si presta molto bene per preparare bibite da miscelare con il latte. Gli espressi con queste caratteristiche non sono esotici, ma al contrario sono equilibrati e poco acidi. E molti estimatori del caffè desiderano un espresso forte, poiché aggiungono panna o latte. Dopo l’esito della votazione, quali sono ora i passi successivi?
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Christoph Brunschwiler: Valutiamo quali sono i paesi di provenienza più adatti. Per esperienza sappiamo già a grandi linee quali caffè crudi hanno le proprietà desiderate: in particolare i caffè provenienti da Brasile, Messico e India, eventualmente anche dal Guatemala. Un caffè etiope o keniota non entra in linea di conto, se nell’aroma si vogliono le note di cioccolato o noce. Con quali criteri si sceglie il caffè?
Christoph Brunschwiler: Non si tratta di un unico caffè. Affinché l’espresso risulti equilibrato, è necessaria una miscela di diversi caffè crudi. Il gusto dei caffè brasiliani ha aromi di noce, ma non di cioccolato. Gusto che è più probabile ottenere da alcuni caffè messicani. Ciò è simile alle diverse località situate in una regione vinicola: non tutti i caffè messicani hanno aromi che rimandano al cioccolato.
Le note sviluppate da un caffè durante la tostatura dipendono innanzitutto dalla zona di coltivazione e dalle modalità di lavorazione dopo il raccolto.
Come si fa in modo che l’espresso abbia aromi di cioccolato e noci?
Bruno Feer: Si tratta di un lavoro di squadra, nell’ottica del quale il Reparto ricerca e sviluppo ha la maggiore esperienza. Nella scelta dei caffè gioca un ruolo importante il periodo del raccolto e di conseguenza la disponibilità.
Christoph Brunschwiler: Dopo la selezione dei caffè crudi, si tratta di miscela, tostatura e macinatura. Ci chiediamo con quale miscela si ottengono gli aromi desiderati e quale deve essere il grado di tostatura. Gli aromi si sviluppano infatti durante la tostatura. Se i chicchi vengono tostati in modo leggero, emergono altri aromi e non quelli desiderati. Affinché si sviluppino le note di noce e cioccolato è necessaria una tostatura da media a forte.
Come si determinano miscela, grado di tostatura e di macinatura del nuovo espresso?
Prima ha menzionato il grado di macinatura. Il caffè non viene macinato nello stesso modo per ogni capsula?
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Christoph Brunschwiler: In laboratorio possiamo simulare l’intero processo produttivo su piccola scala. Misceliamo e tostiamo piccole quantità, che infine vengono macinate e messe in capsula per effettuare i test. E ciò sarà poi realizzato in scala uno a uno in un secondo tempo?
Bruno Feer: È il nostro obiettivo. È nel contempo un’emozione quando nel prodotto finale si ritrovano per davvero gli aromi ricercati durante i test di laboratorio. Dalle prove di laboratorio ci si avvicina gradualmente al prodotto finale. I grandi apparecchi per la tostatura offrono risultati più costanti rispetto a quelli che utilizziamo in laboratorio. È bello seguire le fasi di passaggio da un nuovo prodotto appena sviluppato alla normale produzione.
Christoph Brunschwiler: No, il grado di macinatura deve essere di volta in volta definito, a seconda del sistema di capsula e della tostatura. I sistemi si differenziano tra loro e hanno quindi esigenze diverse per fare in modo che alla fine il caffè abbia il gusto così come noi lo abbiamo sviluppato. Quanto tempo ci vuole per sviluppare una nuova varietà di caffè in capsula? «Le Café National» non sarà disponibile prima della fine di gennaio 2020.
Bruno Feer: Quando necessito di varietà speciali di caffè, di cui non abbiamo campioni, sono necessari fino a due mesi per procurarli. Vogliamo conoscere non solo il gusto del caffè, ma anche il luogo di provenienza e le modalità di coltivazione. Poi lo sviluppo del prodotto richiede più tempo.
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Ambiente e Benessere
A spasso tra i vigneti della Gironda
Scelto per voi
Bacco giramondo Non è solo un itinerario affascinante, la regione è anche ricca di storia e
di terroir che mostrano tra loro grandi diversità Davide Comoli Affascinante, elegante, seduttrice e qualche volta arrogante, ma pure alle volte campagnola, la Gironda, dipartimento francese della regione Nuova Aquitania, non finisce mai d’emozionarci. Questo territorio riesce a esprimere lo spirito della città di Bordeaux, nato dall’attrito tra aristocrazia, gente comune, mercanti olandesi, inglesi e da ultimo, ma non ultimo, dai vignaioli. Lasciata la città, si prende la Rocade (circonvallazione) – non importa verso quale direzione – per poi ritrovarsi immersi in infinite distese di vigne. Un amatore di vini, potrebbe passare l’intera vita a esplorarle tutte. Sulla Rive Gauche, Pessac-Léognan e Graves raccontano la nascita del vigneto bordolese che risale a più di duemila anni or sono. Tra questi vigneti a forte personalità, potete incominciare a conoscere la grande diversità dei terroir girondini, passando dai signori di Pessac-Léognan e arrivando ai piccoli vignerons di Langon. Al centro della regione delle Gra-
ves, Sauternes e Barsac mantengono inalterati gli «umori» liquorosi del Sémillon e del Sauvignon, dedicandosi al rito della «pourriture noble», che nasce dalla magia degli autunni brumosi e dalle tarde piogge estive. Più a nord si trova la Médoc, dove l’amatore di vini dovrà fare in modo di cogliere di sorpresa alcuni produttori per poter rubare qualche degustazione. In questa regione, tra la Gironda e la foresta delle Landes, produrre vino è religione, e il loro «idolo» è il Cabernet, vitigno molto indocile che esige il sole per maturare e tempo per risvegliarsi e dare il meglio di sé. Da Margaux a Saint-Estèphe, passando da Saint-Julien e Pauillac, la Médoc ci propone alcuni dei vini più prestigiosi al mondo. Qualche nome? Latour, Lafite-Rothschild, MoutonRothschild, Margaux, bastano per attirare in questi luoghi migliaia di estimatori della sacra bevanda. I grandi Crus (provandoli) illustrano la favolosa e straordinaria potenzialità del terroir della Médoc. Passando la Rive Droite e andando verso
nord, troviamo il Libournais, dove impera il vitigno Merlot con la sua opulenza. Nel Pomerol e Saint-Emilion, i vini prodotti con questo vitigno ci seducono con il loro profumo di bacche rosse e nere, con la loro rotondità e morbidezza. Da secoli Bordeaux elabora grandi vini: il poeta romano Ausonio (circa 310-393 d.C.) fu il primo a tesserne le lodi. Coltivate da molto tempo, le migliori viti delle Graves sono oggi le belle parcelle di un grande crus (il vigneto di Château Pape Clément), già famoso nel 1331. All’alba del XVIII secolo, qui si cominciarono a produrre grandi vini capaci d’invecchiare, dando così i natali al Château Haut-Brion. La Garonna, che nasce dai Pirenei e sfocia nell’estuario della Gironda, separa la Rive Gauche con Bordeaux per capitale, dalla Rive Droite, con il porto di Libourne come città principale. La differenza geografica delle due regioni, la ritroviamo nello stile dei vini rossi prodotti. Mentre la Rive Gauche è dominata dal Cabernet Sauvignon, la Rive Droite è il feudo del vitigno Merlot, ma molte altre differenze sono legate alla storia. Nella regione delle Graves, si producono pure dei superbi vini bianchi dai vitigni Sémillon e Sauvignon Blanc, anche se questa categoria di vini resta appannaggio della regione dell’Entredeux-Mers, situata nel mezzo dei corsi della Garonna e della Dordogna. A sud-est su entrambe le rive della Garonna, troviamo la vasta produzione dei vini liquorosi, con i famosi Crus tra cui spicca su tutti il mitico Château d’Yquem e i meno conosciuti vini di Loupiac e di Sainte-Croix-du-Mont. Ma di tutte queste zone citate, approfondiremo la conoscenza nei nostri prossimi incontri. Il vigneto di Bordeaux si estende per circa 120mila ettari e produce circa 6 milioni di ettolitri di vino. Il paesaggio bordolese, come già abbiamo ac-
Vigneti francesi nella regione vinicola di Bordeaux, nel comune di Cars vicino a Blaye. (Michael Clarke Stuff)
cennato, si compone di tre macrozone molto diverse, la cui linea di demarcazione è definita dall’estuario della Gironda, lungo circa 60 km, e dai due grandi fiumi che lo formano, la Garonna che nasce dai Pirenei e la Dordogna che nasce dal Massiccio Centrale. La parte a occidente s’incunea con una piana ondulata verso nord-ovest, tra il litorale atlantico e la Gironda, mentre quella orientale presenta morbidi pendii collinari che di rado superano i 100 metri sl/m. Situata ai bordi dell’oceano Atlantico, sul 45° parallelo nord, esattamente a metà strada tra il Polo e l’Equatore, il vigneto di Bordeaux, interamente inserito nel dipartimento della Gironda, fruisce di un clima estremamente favorevole, che possiamo definire marittimo-temperato. La Regione beneficia in parte della calda corrente del Golfo proveniente dai Caraibi che costeggia il litorale dell’Aquitania e che regola la temperatura. Anche la foresta delle Lande, la lunga e larga striscia di pini marittimi, fatti mettere a dimora da Napoleone III (1808-1873) per vincere la malaria che imperversava nella regione, formano uno scudo protettore ed efficace contro i venti dell’Atlantico. È dunque un clima molto favorevole, adatto alla giusta maturazione delle uve, sebbene non manchino i rischi dati dalle gelate primaverili durante la fioritura, e le piogge fredde durante la fecondazione che provocano la colatura, senza dimenticare la grandine che alle volte colpisce al momento della vendemmia. Bisogna però ricordare che i grandi vini sono il prodotto della combinazione di diversi fattori naturali ma anche di un sapere che deriva dalla tradizione. Oltre ai motivi citati non dobbiamo assolutamente dimenticare la composizione del suolo e Bordeaux, come vedremo, ha la fortuna di possedere un insieme di terroir particolari, favorevoli alla viticoltura.
Ripasso «Gran Lombardo»
La vendemmia è manuale e si svolge da metà ottobre, con selezione dei grappoli di Corvina, Veronese, Corvinone, Rondinella e altre uve locali, che vengono depositate in piccole casse per un leggero appassimento. La vinificazione avviene con diraspa, pigiatura soffice degli acini e conseguente macerazione delle uve per un paio di settimane, segue la fermentazione in piccoli recipienti d’acciaio, unendo le diverse varietà dell’uvaggio. La tecnica del Ripasso prevede una «riattivazione» sulle vinacce fermentate del Recioto o Amarone della Valpolicella. Dal colore rubino intenso con riflessi blu, il nostro vino svela al naso un frutto rosso molto maturo, amarena, ribes nero, susina, per poi virare verso spezie delicate, armonico, ben equilibrato e caldo al nostro palato, è ben viva ancora la frutta nel finale lungo e persistente. Da provare con una punta di vitello ripiena o con un piccione farcito con i suoi fegatini. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 16.90. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Ambiente e Benessere
Dai churros al rito delle tapas Gastronomia Un’iniziale e appetitosa panoramica sulla cucina spagnola – Prima parte Allan Bay Parliamo della cucina spagnola. La dominazione araba ha lasciato un’impronta inconfondibile sulla gastronomia ispanica, in generale ricca di carattere e relativamente uniforme, nonostante le varie differenze regionali. Mandorle, zafferano, paprika dolce e piccante, cumino, peperoni, uvetta (famosa quella di Malaga) e pinoli sono ingredienti presenti in molti piatti, soprattutto quelli di carne, insieme a olive e olio extravergine.
Ricca di sapori e colori, la varietà di cibi si accorda con ricette gustose ai vari momenti della giornata Vari pasti punteggiano la giornata spagnola: la prima colazione comprende soltanto caffè e un paio di biscotti, preferibilmente i churros (sorta di frittelle croccanti) venduti nelle churrerias; a metà mattina si consuma una colazione più sostanziosa, detta almuerzo, che può comprendere panini o tortillas, le famose frittate di cui esistono molte varianti (a base di patate, gamberetti, asparagi, prosciutto crudo…); il pranzo ha luogo verso le due del pomeriggio, e la cena intorno alle nove di sera. Quest’ultima è preceduta dal rito delle tapas, un incredibile e appetitoso assortimento di stuzzichini: olive, pesciolini, granchi, acciughe marinate o fritte, prosciutto crudo (o meglio jamón, il buon crudo stagionato), crocchette di patate o di pollo, tortillas, huevos a la flamenca (uova cotte al forno con verdure), funghi conservati, cipolline cotte nell’aceto di Jerez (derivato dal famoso vino noto anche come sherry), pollo servito in salsa di Jerez, polpette stufate in salsa di pomodoro, spiedini di lombo di maiale, insalata di carote lesse e marinate,
verdure crude (pomodori, peperoni, cetrioli). Alle tapas segue spesso un notevole assortimento di zuppe, calde e fredde. Fra quelle calde, si può ricordare la fabada asturiana, preparata con grossi fagioli bianchi detti fabas e jamón. Un’altra zuppa famosa è la sopa de ajo, diffusa in tutta la Spagna con varianti locali, ma preparata almeno con quattro ingredienti di base: acqua, pane secco, paprika e ovviamente una cospicua quantità di aglio giocoforza fresco, spesso una testa intera tritata e soffritta. Sono molte del resto le ricette completate con una testa d’aglio, di regola lasciata intera e cotta in forno dopo averne eliminato le pelli (il risultato è una crema dal gusto molto delicato). Sempre a base d’aglio è la raffinata ajoblanco, zuppa andalusa preparata anche con mandorle e uva bianca; si serve fredda come il celeberrimo gazpacho, un passato cremoso di pomodori arricchito da verdure aromatiche e ortaggi (cetrioli, peperoni) tagliati a dadini, completato da crostini di pane. Altre zuppe contengono ceci e spinaci, oppure mandorle, zafferano, aglio e cumino, o ancora lenticchie, aglio, peperoncino, pomodori, paprika, patate e chorizo (la tipica salsiccia spagnola, uno dei tanti insaccati proposti dalla gastronomia iberica). A base di pesce, è invece la zarzuela, ricca zuppa catalana con cozze, vongole, seppie, cappesante, scampi, pomodori, prosciutto crudo, zafferano, mandorle ed erbe aromatiche. Pesce e crostacei si mescolano anche al riso, come nella paella, di cui esistono numerose varianti. Le cappesante vengono gratinate con le erbe aromatiche; il baccalà è servito con un intingolo di aglio, olio e peperoncino (pil-pil); lo stoccafisso viene cucinato in umido con porri e patate; il merluzzo è accompagnato da una salsa di mandorle, capperi e aglio; il tonno è stufato con peperoni rossi e verdi. La carrellata prosegue fra quindici giorni.
CSF (come si fa)
Negli anni vi ho proposto le seguenti ricette di stracotto: al vino, alle mele, al sedano, ai peperoni e al curry. Vediamo come se ne preparano altri tipi. Stracotto alla fiorentina. Ingredienti per 4 persone. Steccate 1 kg di polpa di manzo con 2 spicchi di aglio, legatelo e rosolatelo in una casseruola con un filo di olio. Unite 500 g di spinaci ben mondati e 4 cucchiai di soffritto
di cipolla, carota e sedano, coprite e cuocete a fuoco molto basso per 4 ore, mescolando di tanto in tanto e unendo poco brodo di carne se asciugasse troppo. Regolate di sale e di pepe. Scolate, frullate il fondo di cottura e servite la carne nappata con il sugo. Accompagnate lo stracotto con fagioli bianchi lessi, con polenta oppure con patate lesse. Stracotto agli scalogni. Per 4 persone. Steccate 1 kg di polpa di manzo con 2 spicchi di aglio divisi a metà, legatelo e rosolatelo in una casseruola con una noce di burro. Legate la carne, mettetela in una casseruola, unite 500 g di scalogni mondati e spezzettati, 1 bicchiere di vino rosato sobbollito per 3’ e 1 mestolo di brodo di carne. Cuocete, coperto e a fuoco bassissimo, per 4 ore girando la carne di tanto in tanto
e unendo poco brodo se asciugasse troppo; quindi regolate di sale e di pepe e lasciate riposare la carne nella casseruola per 10’ prima di servirla accompagnata con puré di patate. Stracotto alla frutta. Per 4 persone. Ricoprite bene 1 kg di polpa di manzo con senape aromatica e fatelo riposare per 2 ore. In una casseruola scaldate poco olio, rosolate la carne. Coprite la carne con brodo di carne bollente. Unite 4 cucchiai di soffritto di cipolle, cuocete coperto e a fuoco bassissimo per 4 ore girando la carne di tanto in tanto e unendo poco brodo se asciugasse troppo; quindi regolate di sale e di pepe. Servite la carne tagliata a fette e nappata con il fondo di cottura emulsionato con 4 mestoli di frutta a piacere mondata, tagliata a dadini e rosolata con poco olio per 4 minuti.
Ballando coi gusti Oggi due preparazioni a base di riso: una paella di mare, piatto unico, e un minestrone di verdure e riso profumato con pesto.
Paella di frutti di mare
Minestrone con riso e pesto
Ingredienti per 4 persone: 360 g di riso · 16 code di gamberi · 24 cozze · 24 vongole ben spurgate · 8 pomodorini · 100 g di piselli surgelati grossi · 1 cipolla · 1 bustina di zafferano · brodo di pesce o di verdure · olio di oliva · sale e peperoncino.
Ingredienti per 4 persone: 240 g di riso · 4 cucchiaiate di pesto · 100 g di fagioli già cotti · 1 zucchina · 2 patate · 100 g di polpa di zucca · 100 g di cavolo a piacere · 10 fagiolini · 40 g di funghi secchi · olio di oliva · sale e pepe.
In una capace padella fate appassire a fuoco dolcissimo la cipolla mondata e affettata con un filo di olio. Unite il riso, i pomodorini tagliati a dadini, i piselli, le code di gambero, le cozze e le vongole. Bagnate con 2 bicchieri di brodo e portate il riso a cottura, mescolando molto delicatamente. 2 minuti prima che sia pronto profumate con lo zafferano stemperato in poco brodo e regolate di sale e di peperoncino.
Mettete in una pentola l litro di acqua e unite i fagioli, le patate tagliate a spicchi, la zucchina a rondelle, il cavolo a listarelle, i fagiolini a pezzetti, la zucca a dadi e i funghi secchi spezzettati. Portate al bollore, cuocete per pochi minuti e unite il riso. Portatelo a cottura, bagnando con acqua bollente se necessario e lasciando la minestra più o meno brodosa a piacer vostro. Regolate di sale e di pepe. Impiattate, aggiungete il pesto e un giro di olio e servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
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N A T A O 25 26 27 28 I G U A N A 29 30 31 32 33 C A N D I N 34 35 E R O S A L Mondoanimale Si moltiplicano le giornate mondiali dedicate a ciascuna specie faunistica (N. 38 - “... soldi dagli Emirati Arabi”) Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
Un animale al giorno Maria Grazia Buletti Il 17 febbraio è la giornata internazionale del gatto, segue l’orso polare che viene festeggiato il 27 dello stesso mese. A inizio marzo (il 3) è la volta della fauna selvatica, il 21 aprile la giornata mondiale si concentra sulla migrazione dei pesci, mentre il 25 è la volta dei pinguini e via dicendo; quasi ogni mese dell’anno ha qualche giornata dedicata a una specie animale distinta, dalle più comuni alle meno note. Non si sarebbe immaginato nulla di tutto questo quel gruppo di ecologisti che, a Firenze, nel 1931, decise di istituire una giornata mondiale dedicata agli animali. Da quasi un secolo a questa parte, il 4 ottobre appena passato si celebra infatti la giornata mondiale dedicata a (tutti) gli animali, nata con l’originario nobile intento di creare un canale di sensibilizzazione popolare sulle sole specie in via di estinzione. È pure vero che, con il trascorrere del tempo, questa ricorrenza assume una valenza di riflessione estesa a tutti gli animali in generale, pensando alla loro tutela e al loro benessere. Ogni 4 di ottobre, in tutto il mondo si può aderire a un ventaglio di iniziative organizzate da tutti coloro i quali si premurano di tutelare ogni sorta di animale, come pure dalle differenti associazioni ecologiste. Queste ultime pare si siano poi impegnate a ritagliarsi un giorno specifico per ciascuna specie ritenuta degna del proprio momento di luce. E allora, per non fare torto a nessuno, ma proprio a nessuno per davvero, si sappia che un giorno dedicato a lui ce l’ha anche il tapiro, ad esempio, e quel giorno è esattamente il 27 aprile. A maggio si spartiscono il mese gli uccelli migratori (9 maggio), le api il 20 e
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Una delle tartarughe dell’intervistata. (Cristina Casari)
(N. 39 - Federico Leonardo Lucia)
le tartarughe a seguire, il 23. E siamo appena a giugno, quando il 121 le giraffe 2 si confrontano a poca distanza con una giornata nazionale alquanto bizzarra: 7 quella del «cane in ufficio» del 26! Questo elenco, giunto finora solamente a 9 metà dell’anno, dovrebbe suscitare un sorriso in chi legge, amaro o meno non 11 è ancora dato di sapere. Ma per non lasciare questa curiosità13senza14risposta, interpellato 15 abbiamo 16 Cristina Casari che possiede alcune tartarughe e, dunque, dovrebbe averle 18 19 festeggiate il 23 maggio scorso. «Non lo sapevo», è la sua risposta completa 20un bel sorriso, mentre afferma 21 di che lei le sue tartarughe le accudisce e le 24 «Quando non 23 «festeggia» tutti i giorni: sono in letargo, naturalmente!». Senza negare la simpatica perplessità suscita27 28
ta da certe giornate dedicate ad alcune specie, riflette 4 la nostra interlocutrice 5 6 sul fatto che il calendario risulta davvero un po’ troppo affollato: «Come 8 quando si grida al lupo, al lupo: tutti questi giorni dedicati all’una o all’altra 10 rischiano di dissolvere specie animale il vero intento di un’unica giornata che 12 rimanere quello di riflettere dovrebbe sugli animali, soprattutto quelli in via 17d’estinzione, perché non dimentichiamo che la responsabilità è soprattutto di noi esseri umani». Cristina ci ricorda che ogni animale andrebbe rispettato lungo l’arco 22 dalla sua di tutto l’anno, a prescindere specie di appartenenza, e insiste sul fat25 l’attenzione 26 to che attirare sulle specie animali domestiche come cani, gatti, passerotti non abbia uguale valenza 3
P I A N I
davvero per quello che sono». Poi c’è il
PER O S S O L I rovescio di questaSUDOKU medaglia: «Certo, succede quando tendiamo a dimenticarci le vere peculiarità di ciascuna D E N I L N. 37 FACILE specie e tendiamo a umanizzarli. Ad esempio: nell’immaginario dei bambiE D A C E Schema ni spesso l’orso è il simpatico e tenero Bear, ma in realtà si tratta di un R E G 4E O Teddy grande predatore, affascinante 2 sì, ma non certo un peluche. E oggi dobbiamo O R L O I fare conti M con 9 quegli animali che 4Dpure iE ci contendono il territorio, con i quali U S T I G 9R dobbiamo A Timparare E 7ad avere nuova1 mente un equilibrio di sana conviven6 come I S I A 7R Mza, I lupo,3 Tstambecchi, cinghiali e altri ancora che addirittura pare non abbiano neppure timore di avvicinarsi C I A 5L I 8A all’essere N umano». T E3 9 Un giorno all’anno forse ci sta e basta, dunque, A M B 6A S I 8 V a4porre O 1l’accento su questi nostri coinquilini sulla Terra. Eppure il nostro elenco ancora non è completo e manca il cane (dopo la giornata del 3 «cane 8 in9 ufficio» 2 c’è questa specifica come concentrarsi su quelli che davve- «del cane» il 26 agosto, seguita dal 26 ro necessitano di essere8messi in luce settembre 7 3 dedicato 1 agli «amanti del perché in difficoltà. «Naturalmente tra cane»), il 22 settembre è la volta del rii miei animali preferiti ci sono il cane, noceronte e completa l’elenco il 10 dii criceti (simpatici e carini), le tarta- cembre, giornata internazionale dei 38 MEDIO rughe, e quelli un po’ N. meno popolari diritti degli animali (naturalmente income il panda, il koala, i pinguini. La sieme al 4 ottobre indiscusso capostipi4delle8commemorazioni). 9 3 giraffa? Mah, non so se7sia in via d’e- te stinzione, però è simpatica». «In fondo, basterebbe soltanto «Ciò non toglie che resto dell’avvi- avere rispetto degli animali ogni giorso che il 4 ottobre è e rimane la giornata no, approfondire le nostre conoscenze mondiale dedicata a tutti gli8anima- (come in qualsiasi 7 ambito)2 ed evitare li, giraffa compresa, e questo basta». di inflazionare l’argomento con milUn modo, secondo lei, per ricordarci le giornate dedicate». Come in tutte le 5 9più quel cose, 8 Cristina è concorde col fatto 3 che che oggi spesso non abbiamo contatto di un tempo con gli animali: ci vuole buonsenso: «Gli adulti, ma 6 nostre 1 soprattutto i bambini, dovrebbero ri«Anche quelli più comuni dalle parti, come mucche e cani, spesso non appropriarsi della conoscenza che persono familiari ai bambini che non han- metterebbe loro di 4 convivere 1 in buon no l’opportunità di vederli e conoscerli equilibrio con il regno animale».
R O D E O
D O N N L E E C D U E
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Giochi perda “Azione” Ottobre 2019 Vinci una delle 3 carte regalo 50 -franchi con il cruciverba 6 Stefania Sargentini 7 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 37 - Vanessa Atalanta, Vulcano) 3 8 9 1
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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VERTICALI 1. Vi ricorrono molte coppie 2. Aspri diverbi 3. Nome maschile 4. Ha un proprio servizio 5. Rasati 6. Un sommo sacerdote ebreo 7. Le iniziali del conduttore Ossini 8. Fiume della Baviera 10. La stilista Chanel
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29. Si spiega in barca 30. Il noto della Vigna 31. Vi nacque Totò 32. Si alzano ballando il can can
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38 - “... soldi dagli Emirati Arabi”)
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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ORIZZONTALI 1. Lieve soffio 5. Lo è il Partenone 9. Lo sono la Loren e la Lollobrigida 10. La Licia presentatrice 11. Prefisso che vuol dire orecchio 12. Si leggono sul bugiardino 13. Sigla per piastrine nel sangue 15. L’ultima... e la nona 16. Ne sono ghiotti gli scoiattoli 17. É caro in Francia... 18. Pronome personale 19. Vive con le sorelle 20. Può essere verde anche se matura 22. Quartiere di Kyoto antica capitale del Giappone 23. Nucleo centrale della Terra 24. Signore per Pantalone 25. Le iniziali dell’attore Norris 26. Un anagramma di set 27. Città natia di Beethoven 28. Misura agraria di superficie
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Giochi Cruciverba Lo sapevi che in Toscana… termina la frase leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 5, 2, 7, 9, 11, 6)
B A T T A G L I A
29 V I L I e Benessere EAmbiente L U L I T B A N O
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12. I fiumi Riparia e Baltea (N. - Federico Leonardo Lucia) 13.39 Asciugacapelli 14. Tirare faticosamente un carico 1 2 3 4 5 6 16. Numero delle Muse 7 8 17. Riccardo I lo era di Leone 18. Un ragazzo9 in ascensore... 10 19. Altro nome di Gerusalemme 11 12 21. Elettorale o di collocamento 13 14 15 16 17 22. Nome femminile 1824. Infiniti nell’universo 19 25. Radice piccante 20 21 22 27. Lo è il gioco che dura poco 24 25 26 23 28. Fiume della Francia 2729. La... precedono 28 a tavola 30. Riceve una 12 verticale a Torino Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o6 del7 sudoku8 2 3 4 5 nell’apposito formulario pubblicato 9 10 sulla pagina del sito. postale: la lettera o 11Partecipazione 12 13 la cartolina postale che riporti la so15 16 17 1
L O N E E E Soluzione: I S S A A Scoprire i 3 A T O L L numeri corretti A inserire E nelle R I da caselle colorate. N A T A I G U A N A C A N D I E R O S A
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N. 39 DIFFICILE G
A L I T O T E M P I N D I V EO C5 O L4 O7 8 L T A L I A O T O O V DI LOI S I P4 L E L 6U I2 Z I N O C C H E9 N L I T L BR A PER NOOAZIONE - S SUDOKU OTTOBRE I L O U 2019 O R N. 37 FACILE O L Schema I V2 A G I8 O Soluzione N 6 B O S S O L I 4 91 5 3 7 9 46 4 AND EI N F I EL 2 S3 I O R C 7 2 6 4 1 8 9 4 9 T E D A C E 61 1 3 8 9 2A 6 5R7 9 7 TER S E T G E O B O N N 9 7 1 6 5 3 4 7 6 3 A O R L O I D E M 3 4 VG3 R9EA TL E A 5 4 P8 1 I2 7E3 5 8T G U S T I 6 8 4 1 1 M I 7T 6 6 3 28 9 8 4 21 L I S I A R N A P O L I G 2 9 O 7 5N 4 6N8 I C I A L I A N T E
O T R A3 I7 2 8 N 3 5 4A 1 8 2 9R 6 5 7 1E 3
N. 40 GENI
1 6 3 8 9 2 5 7 4 3 8 9 2 Soluzione A della M Bsettimana A S precedente I V O A 8 5 LEONARDO 4 7 3 1 LUCIA. 2 6 9 3 1 – Il nome di Fedez è: FEDERICO A8 RITMO DI7MUSICA
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N. 38 MEDIO
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Politica e Economia Nuovo accordo o no deal Boris Johnson illustra alla convention del partito a Manchester la sua proposta finale di compromesso pagina 32
La Svezia patria dell’ecologismo Non è un caso che la protesta contro il cambiamento climatico pilotata da Greta Thunberg sia partita proprio dalla Svezia che da decenni abbraccia la causa dell’ambiente
Le casse federali ridono Ancora una volta i conti della Confederazione chiudono meglio del previsto, e ci si chiede che cosa fare con le eccedenze
Pensione a tappe Chi vuole ritirarsi a poco a poco dal mondo lavorativo deve tener conto di molte variabili
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Il presidente del consiglio Giuseppe Conte. (AFP)
Il rischio Italia
Scenari Ovvero la possibilità che prima o poi Roma finisca fuori dall’euro. Per scelta propria o solo
per inconsapevolezza oppure perché qualcuno prima o poi stabilirà che non è poi così rilevante salvarla da sé stessa
Lucio Caracciolo L’Italia resta un paese a rischio per l’Eurozona e per la Nato. La prova di questo non invidiabile privilegio emerge da una lettura non troppo provinciale della crisi di governo estiva e della sua provvisoria conclusione. Gran parte della stampa italiana e internazionale vi ha intravisto le solite «incomprensibili» moine dei palazzi italiani. Con l’aggiunta del riuscito tentativo di suicidio politico (anch’esso probabilmente provvisorio) di Matteo Salvini, fino a ieri dominus quasi incontrastato della scena governativa e parlamentare del Belpaese, giocata peraltro più sulle piazze o sulle spiagge che nelle canoniche sedi del potere. E con l’improvviso ritorno dell’altro Matteo, Renzi, tessitore della nuova coalizione M5StellePd, restando pronto ad affondarla alla prima occasione utile (per sé). Sarebbe errore serio fermarsi a questi dati, tutti interni al Belpaese. Decisiva per la messa in mora di Salvini è stata la pressione internazionale. Soprattutto americana, ma in buona parte anche
francese e in minor misura tedesca. Perché i «poteri forti» euroatlantici hanno contribuito al cambio di governo, all’estromissione della Lega dalle «stanze dei bottoni»? Semplice, perché l’Italia stava deragliando. Come una locomotiva impazzita, pareva sul punto di finire in un burrone. Trascinando con sé i vagoni di eurosoci e alleati atlantici, o almeno parte di essi. Ciò che non le è consentito dalla fine della Seconda guerra mondiale quando, volente o nolente, è entrata nella famiglia euroatlantica. Ovvero nella sezione europea dell’impero americano. Nella Nato, poi nell’Ue e infine nell’Eurozona. Quello che di fatto era il governo Salvini – per gli almanacchi, il Conte 1 – non rispondeva più ai comandi. In politica estera, ammiccando ai russi, litigando sempre e comunque con i francesi, i tedeschi e la cosiddetta «Europa» (l’Unione Europea), bollata colpevole di ogni nefandezza, quasi fosse interessata solo a soffocare l’economia italiana. L’ultimo, decisivo errore: l’accordo con i cinesi per le «vie della seta». Problema non tanto economico-com-
merciale, invece fondamentalmente geopolitico. Per Washington, la firma del memorandum of understanding fra Pechino e Roma, pur vuoto di contenuti concreti, era preannuncio di una scelta di campo. Contro l’America, per la Cina. L’Italia, provincia dell’impero a stelle e strisce, si trovava così in un colpo solo a flirtare con i due nemici massimi degli Stati Uniti: la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa. Tradimento. Aggravato dalla mancata consultazione con Washington, cui Roma, come tutti gli alleati europei, è tenuta per pluridecennale consuetudine. Oltre al reato di alto tradimento, il dolo, la manovra nell’ombra. Allo stesso tempo, le peregrine manovre tattiche (azzardate o solo annunciate) di politica economica e fiscale, fra l’altro in palese contraddizione fra loro, avevano spinto i mercati a riprendere in considerazione il rischio Italia. Ovvero la possibilità che l’Italia prima o poi finisse fuori dall’euro. Per scelta propria o semplice inconsapevolezza, incoscienza.
In questi ultimi anni una domanda agitava i mercati e i governi, vicini e lontani: l’Italia è troppo grande per fallire o è troppo grande per essere salvata. L’impressione era che la seconda ipotesi cominciasse a prevalere. Anche per l’obiettivo declino economico e per l’affondo di varie aziende (molte di Stato) europee (specie francesi) o extraeuropee agli ultimi bocconi prelibati dell’industria e della tecnologia italiana. Inoltre, la Germania ha un forte interesse a che non si registri la seconda possibilità –il fallimento dell’Italia, con una crisi dagli inevitabili contraccolpi sociali, politici e geopolitici – essendo la catena del valore industriale tedesco penetrata in profondità nel tessuto del Nord italico. Al punto che una crisi finale dell’Italia colpirebbe pesantemente gli interessi tedeschi. Facendo perno sul Quirinale, americani ed europei hanno fatto di tutto, in modo nemmeno troppo coperto, per togliere di mezzo Salvini. Il quale ha dato un forte contributo ai loro sforzi, con la scelta di aprire una crisi di governo in agosto. Inedito italiano.
Tutto questo non sarebbe potuto accadere se l’Italia fosse davvero «troppo grande per essere salvata». Intendiamoci, nessuno morirà per il Belpaese. Ma le dimensioni economiche, strategiche e simboliche dell’Italia restano tali da garantirgli un ruolo sistemico. Se si fonde il nocciolo italiano e se Roma esce dall’euro ne restano seriamente colpiti tutti gli alleati. E il resto del mondo, data la portata del sistema euro su scala mondiale. Si conferma così che la potenza è di due tipi: quella effettiva, positiva somma di mezzi e virtù in campo economico, militare, culturale, tecnologico; oppure quella misurata dalla somma algebrica della propria debolezza, delle notevoli dimensioni complessive e della incapacità di gestirsi. Per cui affondando gli italiani trascinerebbero con sé gli altri, o almeno molto di loro. Il famoso Stellone italiano è questo, nient’altro. Ma non durerà in eterno. L’Italia si rimetterà in piedi, oppure presto o tardi qualcuno stabilirà che sì, non è più così rilevante da obbligare gli altri a salvarla da sé stessa.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Politica e Economia Boris Johnson rilancia il suo slogan «get Brexit done» accolto da un’ovazione dal congresso Tory a Manchester. (AFP)
Maduro chiama Mosca risponde Affari Putin fornisce cash al regime chavista
in cambio di un’area strategica Angela Nocioni
Giorni ovvero un’eternità
Brexit il 31 ottobre? N el frattempo Boris ha presentato alla Ue
una proposta di compromesso, soprattutto sulla questione irlandese Cristina Marconi L’unica, per sopravvivere, è la fuga in avanti: Boris Johnson ha incassato talmente tante sconfitte in soli due mesi che tocca darsi una spolverata e fingere che fossero tutte vittorie. Cercando di dare il più possibile la colpa dei suoi fallimenti agli altri, possibilmente stranieri, per portare la sua carriera in salvo verso una campagna elettorale che, complice l’opposizione rachitica di Jeremy Corbyn, lo vedrebbe possibile vincitore nonostante i disastri combinati. «Facciamo la Brexit», è lo slogan sbrigativo con il quale ha conquistato una platea dei conservatori decisamente amica a Manchester prima di presentare la sua idea di uscita dalla Ue in un documento di sette pagine, presentato come un «compromesso», «costruttivo e ragionevole», inviato al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. Una super-hard Brexit con un’idea in realtà irricevibile per risolvere la questione irlandese: tenere l’Irlanda del Nord fuori dall’unione doganale ma allineata con le regole del mercato interno per quattro anni, rinnovabili con il consenso dell’assemblea di Stormont, e spostare i controlli dalla frontiera al luogo d’origine delle merci per dare una parvenza di rispetto degli accordi del Venerdì Santo ed evitare il confine fisico. A Bruxelles il testo è stato accolto con una certa freddezza, mentre Leo Varadkar, il premier irlandese su cui ricade molta della responsabilità per il futuro dell’isola, è stato più deciso nel dire il testo «non è la base di un accordo». Ma d’altra parte Boris lo ha detto chiaramente che per lui l’alternativa resta il no deal, con cui il confine fisico tra le due parti dell’isola sarebbe inevitabile, e spera così di ottenere il più possibile, che sia un accordo accettabile per Westminster o la possibilità di scrollarsi di dosso ogni responsabilità. Il 31 ottobre il no deal, secondo la legge approvata dai deputati prima della famigerata «proroga» del Parlamento poi revocata dalla durissima sentenza letta con tono fermo e pacato dalla presidente della Corte Suprema Lady Brenda Hale, non potrà esserci perché il premier dovrà chiedere prima il terzo rinvio della Brexit alla Ue. Johnson, che ha soprannominato la legge «l’atto di resa» suscitando un vespaio di polemiche, sta facendo di tutto per trovare un modo per aggirare il testo, perché sa di essere ormai troppo legato alla promessa di uscire entro Halloween costi quel che costi: tra le ipotesi che circolano c’è quella secondo cui sarebbe il capo del civil service a chiedere la proroga, per
non costringere il premier a sporcarsi le mani, o la possibilità che Johnson invochi «poteri di emergenza» per aggirare la legge usando come pretesto i disordini dovuti alle manifestazioni di Extinction Rebellion o del People’s Vote. È improbabile che Johnson si dimetta per non dover presentare la richiesta e lo aiuterebbe solo in parte l’ipotesi che fosse Bruxelles a non concederla. La parola rinvio ormai circola da un po’ negli ambienti diplomatici europei, consapevoli che il tempo stringe e che l’uscita senza accordo potrebbe rafforzare uno di quegli uomini politici che hanno il dono di farsi perdonare tutto, o quasi. I Tories sono al 33% nei sondaggi, contro il 23% dei Labour e il 21% dei LibDem, nonostante le sentenze e gli scandali.
A Manchester Boris non ha fatto concessioni a chi nel suo partito Tory e in Parlamento ai Comuni sogna ancora la permanenza del Regno Unito nella Ue A più di tre anni dal referendum, l’opinione pubblica è esasperata e più polarizzata che mai, il Labour continua a vagheggiare un secondo referendum nel quale non prenderebbe posizione e la leader dei LibDem Jo Swinson, per il fatto di volere la revoca dell’articolo 50 e di rifiutare l’idea di un governo di scopo guidato da Jeremy Corbyn, è bersagliata da violentissimi attacchi online da destra e soprattutto da sinistra, dal sapore misogino e particolarmente inquietanti in un Paese in cui una deputata è stata uccisa poco tempo fa. Il Paese è davvero spaccato e tutti sperano di poter voltare pagina rispetto a un capitolo così indigesto della storia nazionale. Boris, con l’aiuto del suo spregiudicato consigliere Dominic Cummings e della fidanzata Carrie Symonds, che dietro i vestitini vittoriani esercita un’influenza forte com’è naturale per una che si occupa di comunicazione politica, sta riuscendo a tirare dritto sebbene ci sia una folta parte dell’establishment che lo vorrebbe vedere fuori da Downing Street. Non sono pochi, i nemici di Boris, ma sanno che occorre essere cauti, molto cauti, per non alimentare la sua retorica pre-elettorale di «popolo contro l’elite». Mentre il «Financial Times» ha chiesto le dimissioni di Johnson all’indomani della sentenza con cui la Corte
Suprema definiva «illegale» la sospensione del parlamento per cinque settimane e dopo la conferenza di Manchester suggeriva di rimuovere Johnson «costi quel che costi», è il «Sunday Times» ad aver scelto di attaccare il premier su uno dei suoi punti deboli, ossia il rapporto con le donne. Iniziando con uno scandalo risalente ai tempi in cui Boris era sindaco di Londra e, ancora sposato con l’avvocatessa Marina Wheeler, aveva una relazione con la ex ballerina e modella americana Jennifer Arcuri, imprenditrice del settore tecnologico a cui sono arrivate circa 150mila sterline di fondi pubblici. Non solo: la Arcuri ha partecipato a delle missioni di imprese londinesi all’estero sebbene il suo business non avesse le credenziali necessarie. Johnson, che frequentava regolarmente l’appartamento di Shoreditch dell’imprenditrice, non aveva mai segnalato il potenziale conflitto d’interessi, tanto che la vicenda è finita al centro di un’indagine della polizia. Accanto al caso più politico della Arcuri, nella sezione «Stile» del giornale della domenica è apparsa una testimonianza di una nota e rispettata giornalista, Charlotte Edwardes, che ha raccontato di essersi ritrovata una mano sulla coscia durante un pranzo con Johnson ai tempi in cui era direttore del magazine conservatore «Spectator». La Edwardes, attuale compagna del famoso giornalista politico Robert Peston, ha aggiunto che anche alla donna seduta dall’altra parte di Johnson era successa la stessa cosa, lasciando pensare che il premier avesse agito contemporaneamente. E sul «Times» quotidiano altre collaboratrici hanno scritto testimonianze per corroborare il racconto della Edwardes, di cui Johnson ha detto di non ricordare nulla. Se l’atmosfera alla convention di Manchester era decisamente calorosa, non bisogna dimenticare che ci sono 21 deputati Tories cacciati dal partito per aver votato per scongiurare il no deal e che il ricorso presentato alla Corte Suprema era sostenuto anche dall’ex premier John Major, un conservatore che, stando alle cronache, avrebbe mantenuto un rapporto eccellente con Buckingham Palace. Da cui sono arrivate folate gelide dopo la sentenza in cui i giudici accusavano il premier di aver mentito alla regina. Che ora, dopo una nuova breve proroga del parlamento necessaria per ragioni procedurali e per sistemare il trono, illustrerà le nuove priorità del governo in un discorso il 14 ottobre prossimo. Tra poco più di una settimana, ossia tra un’eternità politica in cui tutto può succedere.
È sempre a Mosca che il presidente venezuelano Nicolás Maduro ricorre quando è a corto di cash e di protezione politica. E a Mosca trova ancora un Vladimir Putin a braccia aperte che lo accoglie. Nel gennaio scorso, quando Washington ha imposto sanzioni efficaci alla vendita di petrolio raffinato venezuelano, l’impresa statale russa di petrolio Rosneft s’è mobilitata per moltiplicare le esportazioni di barili venezuelani nel mercato asiatico. Due mesi dopo, quando le voci su una possibile precipitazione armata dell’eterno conflitto venezuelano s’erano fatte più insistenti del solito, due aerei con a bordo tecnici militari russi sono spuntati sulla pista dell’aeroporto Simon Bolívar, l’aeroporto internazionale di Caracas. Il pronto soccorso russo è scattato anche il mese scorso. Messo alle strette da una crisi interna che non dà tregua, Maduro è volato a Mosca. A «rafforzare i legami con i nostri amici russi» ha detto. E così è stato. Sono stati confermati e rinnovati i numerosi «protocolli di collaborazione reciproca in materia di difesa ed energia», espressione assai vaga che sottintende in realtà iniezioni di cash russo in cambio della svendita del poco rimasto in Venezuela da vendere in cambio di dollari. Petrolio compreso. È più interessata che generosa la disponibilità all’appoggio politico e finanziario che Mosca continua a garantire al regime chavista. Ma resta pur sempre una preziosa sponda per il regime chavista che annaspa in una crisi senza fine, restando a galla almeno per adesso. Maduro ha ufficilizzato nel suo viaggio la decisione di trasferire la sede europea dell’impresa statale Petróleos de Venezuela (Pdvsa) da Lisbona a Mosca, nella speranza di aggirare così almeno in parte eventuali sanzioni europee contro il regime venezuelano. Pdvsa ha confermato che la sede di rappresentanza è aperta e una nuova società è stata già iscritta nei registri pubblici. Compare con data di nascita 6 agosto 2019 come compagnia che offre servizi di consulenza in commercio e gestione per il business di petrolio e gas. Nella nuova società c’è anche capitale cubano per il 2%. Putin a Caracas ha da curare interessi russi pubblici e privati (oltre sessanta miliardi di dollari già investiti solo nel petrolio). I capitali russi in Venezuela sono cresciuti molto discretamente dopo l’arrivo di Chávez al potere nel 1998. C’è denaro russo ovunque. Dal 2008 esiste un consorzio di imprese petrolifere russe (Rosneft, Lukoil, Gazprom Neft, Tkk-Bp e Surgutneftegaz) per fare affari in Venezuela. Dal 2010 il consorzio ha creato «Petromiranda», una joint venture dal capitale per il 40% russo e
Maduro e Putin a Mosca, insieme per rinsaldare i legami. (AFP)
per il 60% venezuelano, per utilizzare l’area petrolifera Junin 6. Il consorzio l’ha creato Igor Sechin, ex Kgb, direttore della russa Rosneft. Spedito da Putin ai funerali di Chàvez insieme a Serguéi Chémezóv, altro veterano del Kgb, direttore della corporazione russa Rostechnologia per l’esportazione della tecnologia militare russa. Interlocutore interessante per Putin, per cercare equilibri ed evitare conflitti inopportuni nell’esplosivo dossier venezuelano, è stato l’ex segretario di stato Rex Tillerson, finché è durato il suo incarico, conclusosi a fine marzo dell’anno scorso. Tillerson, prima della chiamata di Trump, era l’amministratore delegato della ExxonMobil. Prima di cambiare assetto, nel 1972, la Exxon era la Standard Oil del New Jersey. A Caracas operava attraverso una filiale locale, la Creole Petroleum Corporation, nazionalizzata nel 1976. Quando, vent’anni dopo, il Venezuela decise l’ingresso del capitale internazionale negli affari petroliferi e permise così il ritorno delle compagnie straniere, tornò anche la Standard Oil che nel frattempo era diventata ExxonMobil e puntava alla riserva di petrolio più grande del mondo, quella della fascia del fiume Orinoco. Nel 2007 l’allora presidente Hugo Chávez decise di permettere l’estrazione in Venezuela solo alle compagnie disposte ad accettare di formare imprese miste con lo Stato venezuelano, che mantiene sempre almeno il 51% del capitale (scuola cubana: così l’Avana fece, e fa tuttora, quando fu costretta ad aprirsi ai capitali stranieri per sopravvivere alla crisi causata dalla fine del flusso ininterrotto di mantenimento economico da parte di Mosca dopo il crollo dell’Urss). Accettarono il nuovo assetto tutte le società presenti, tranne la Conoco-Phillips e la ExxonMobile che ricorsero a giudici internazionali. Exxon chiese un indennizzo di dieci miliardi di dollari. Alla fine di una buffa trattativa ne ottenne uno da un miliardo di dollari. L’area dove maggiori speculazioni russe continuano ad avvenire, anche ora che il Venezuela è allo stremo, continua ad essere quella dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas. L’Orinoco è una sorta di pozzo senza fondo. Inimmaginabile la sua ricchezza, considerata dai dipartimenti esplorazione delle multinazionali del petrolio quasi infinita. Ciò nonostante Maduro ha ottime ragioni per preoccuparsi. In altre aree di investimento economico che non siano quelle strettamente legate al petrolio gli investimenti russi negli ultimi mesi hanno registrato una lieve frenata. Banche private, export agricolo ed anche fabbricanti di armi in arrivo da Mosca sembrano lievemente esitanti, spaventati che il collasso economico venezuelano possa essere tale da bruciare i loro profitti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Politica e Economia
Nel nome di Greta
Ambientalismo I n Svezia l’utopia verde nasce nel solco di una cultura ecologista affermatasi tra Otto e Novecento in
Occidente. Prefigura il modello di una nuova religione ambientale esportato nel mondo dalla giovanissima attivista Alfredo Venturi Non poteva che venire dalla Svezia, il colpo di frusta dei ragazzi di tutto il mondo agli adulti distratti di fronte alla morte annunciata del pianeta, ai politici in tutt’altre faccende affaccendati, a tutti coloro che negano l’urgenza di darsi da fare per limitare i danni, fermare il disastro climatico che incombe, salvare il salvabile. Non è casuale che proprio davanti al Riksdag, il parlamento di Stoccolma, una ragazzina di quindici anni abbia avviato una protesta destinata a uno sviluppo spettacolare. È un giorno d’agosto dello scorso anno quando Greta Thunberg decide di marinare la scuola e si installa vicino alla soglia di quell’austero palazzo. Porta un cartello su cui sta scritto Skolstreik för klimatet, sciopero scolastico per il clima. A chi l’avvicina enuncia una semplice verità: il mondo sta andando a rotoli e la politica parla d’altro. Poi, dopo avere protratto il suo personale sciopero fino alle elezioni parlamentari, si ripete ogni venerdì. È sola ma entro pochi mesi milioni di ragazzi la seguiranno. Nasce da quella protesta individuale il terremoto denominato Fridays for future, che rapidamente si irradia nei cinque continenti.
Conservare il pianeta è l’intento di Greta e dei suoi seguaci, mentre le politiche conservatrici alterano quelle condizioni nel nome del profitto e dello sviluppo La scintilla è venuta da Stoccolma perché proprio qui nacque nel Novecento una visione di armoniosa convivenza sotto il segno della giustizia denominata folkhemmet, casa della gente. Era la prospettiva di una società equa e pacifica, figlia della tradizione socialdemocratica svedese, che garantiva a tutti un generoso stato sociale e fu considerata una terza via fra socialismo e capitalismo. Quando negli anni Trenta fu primo ministro Per Albin Hansson, accanto alla causa del welfare cominciò a profilarsi quella ecologica, più tardi sarà proprio l’intreccio fra stato sociale e protezione ambientale il grande sogno di Olof Palme. Non è un caso che alcuni attribuiscano il suo assassinio a qualche interprete nel segno dell’estremismo violento delle esigenze del mondo industriale, preoccupato dalle aperture socializzanti di Palme e probabilmente dalla sua fissazione ecologica. La fiaccola sarà ripresa all’inizio del nostro millennio da un altro primo ministro socialdemocratico, Goran Persson, che introdurrà esplicitamente nel suo programma il concetto della priorità verde come elemento dello stato sociale. Alcune decine di anni dopo Palme, appare evidente che la questione non può essere circoscritta alla Svezia, né a nessun altro singolo paese. Impossibile ritagliarsi una idilliaca folkhemmet, una frazione di felicità sociale e ambientale, in un mondo globalmente impazzito. Le correnti rimescolano i mari, l’aria circola ignorando le frontiere, se le temperature schizzano verso l’alto per nessuno c’è scampo. Quanto va accadendo con i fridays appare una vicenda ai limiti della magia, come se la Svezia avesse reagito all’impossibilità di isolarsi nel suo modello ideale proiettando nel mondo la sua visione. Come se lo avesse fatto attraverso questa ragazzina minuta e
Greta, la giovane attivista svedese che ha acceso nel mondo la scintilla della protesta ambientalista. (AFP)
determinata, per nulla intimorita da una condizione fisica segnata dalla sindrome di Asperger, né dalla difficoltà dell’impresa. Probabilmente non ne era consapevole ma la piccola Greta aveva alle spalle la grande tradizione sociale del suo Paese quando volle passare all’azione, con il suo cartello di protesta, con la sua assenza ingiustificata da scuola, con il suo desiderio di «fare qualcosa». Un anno dopo la solitaria protesta di Stoccolma, dopo avere illustrato le sue ragioni in molte città d’Europa e al parlamento europeo, ecco Greta alle Nazioni Unite. È arrivata a New York spinta dal vento, la più classica fra le energie rinnovabili che la natura mette a nostra disposizione, e quando la sua barca a vela è approdata alla banchina c’era una folla a riceverla. Poi, nel palazzo di vetro, ecco la vasta platea dei rappresentanti dei governi mondiali. Lei li affronta senza timore, ma il viso rigato di lacrime manifesta il suo turbamento. Parla del clima che sta cambiando con un ritmo accelerato, del futuro rubato ai giovani, mentre i politici parlano solo di soldi e di crescita. Li interpella con durezza: «Come osate?» Offre alla scena internazionale una rappresentazione iconica del suo ruolo planetario: quando passa accanto a lei, diretto alla tribuna, il presidente ame-
ricano Donald Trump lei lo fissa con lo sguardo impietrito. Trump non è forse il più influente fra coloro che negano o sottostimano la crisi climatica? Il fermento svedese ha fatto lievitare la consapevolezza dei ragazzi nel mondo intero. A centinaia di migliaia riempiono le piazze con i loro cartelli che riecheggiano la denuncia di Greta e gridano gli slogan che le sono cari: le politiche irresponsabili che trasmettono ogni sorta di guai alle generazioni che verranno, il furto del futuro, la necessità di darsi una mossa, subito, per proteggere quello che si può ancora proteggere. I cortei confermano che c’è ben altro, nel mondo giovanile, che ragazzi alcolizzati o inebetiti dalle droghe. Questa incredibile pressione induce i politici di alcuni paesi a proporre l’abbassamento a sedici anni dell’età minima per partecipare alle elezioni. Sono attualmente pochi gli Stati che fanno votare i sedicenni: ma come si fa a escludere dal diritto elettorale chi manifesta con tanta determinazione, proponendo un tema che chiama direttamente in causa la politica e la controversa arte del governare? Certo non mancano le critiche, investono la ragazzina svedese e i milioni di giovani che la seguono. Che cosa vogliono questi mocciosi?, si chiedono i più misoneisti fra coloro che orbitano
attorno al verbo conservatore. In Italia hanno coniato per loro un nomignolo beffardo e crudele: gretini. Dicono che Greta e i suoi compagni non basano la loro azione su fondamenti scientifici, loro si difendono citando ricerche e studi eloquenti e attendibili. Li accusano di essere digiuni di conoscenze fisiche, geologiche, climatologiche e loro rispondono che non serve essere scienziati per assistere ai ghiacciai che si sciolgono a ritmo sempre più rapido, ai cicloni devastanti, alle acque marine che salgono e diventano sempre meno accoglienti per tante forme di vita. Arrivano ad attaccare Greta per la sua patologia che la renderebbe poco credibile, alcuni si spingono fino al sessismo più becero, come è ormai tradizione per gli haters, gli odiatori che spargono a piene mani i loro veleni in rete. Tutta gente incapace di riflettere sulla straordinaria dignità di questa mobilitazione, sul futuro che interroga. Conservatori, si chiamano, ma in realtà proprio Greta e i suoi ragazzi vogliono «conservare» il pianeta nelle sue condizioni originarie, mentre le politiche conservatrici alterano quelle condizioni nel nome dello sviluppo e del profitto. Lo fanno, denunciano i ragazzi dei fridays, rifiutando di limitare lo sfruttamento delle risorse e le emissioni di quei gas a effetto serra che con-
tribuiscono al riscaldamento globale e dunque alla crisi climatica. Anche se è vero, come molti fanno notare, che il cambiamento del clima non deriva solo da ragioni antropiche ma anche da cause naturali, non c’è dubbio che il contributo dell’industrializzazione a questo fenomeno è stato essenziale, e la sua riduzione porterebbe evidenti vantaggi. Per questo il modello svedese esportato da Greta Thunberg, nella sua lineare semplicità, seduce i giovani di tutto il mondo e del resto non soltanto i giovani. Lo spettacolo di quel ghiacciaio sotto il Monte Bianco che si sta sgretolando davanti al nostro sguardo impotente contiene implicita una sfida: sapremo bloccare quello e milioni di altri disastri simili? Le generazioni future potranno ancora ammirare quelle affascinanti distese di ghiaccio o saranno tutte finite in mare, trasformando il mare stesso in un mostro che inghiotte la terra? Chi non ama la piccola svedese l’accusa di essere manipolata e pilotata, attraverso un’operazione mediatica studiata a tavolino. Lei non dà certamente l’impressione di avvalorare una simile ipotesi, ma se anche così fosse non verrebbe meno la reale sostanza del problema, che Greta e tutti quei ragazzi ci propongono come letteralmente esistenziale.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
*Azione 20% su tutte le confetture Favorit dall’8 al 14.10
Le confetture della Migros addolciscono qualsiasi inizio di giornata. Sono disponibili in tante varianti e sono tutte incredibilmente fruttate. Con il 65% di contenuto di frutta e meno zuccheri si distinguono particolarmente le confetture Favorit 65% Fruits. Ma c’è ancora una caratteristica che condividono, per la maggior parte: il coperchio Easy-Open, facilissimo da aprire in un sol gesto.
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Piacere fruttato a portata di mano
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Politica e Economia
Cosa fare con le eccedenze?
Finanze pubbliche Una proposta è di aumentare il debito con prestiti a interessi negativi a lunga scadenza
per avere ancora più soldi a disposizione Ignazio Bonoli Anche quest’anno la Confederazione chiuderà i conti con un utile di circa 2,8 miliardi di franchi, contro un preventivo di 1,2 miliardi. È da 14 anni consecutivi che i conti chiudono meglio del previsto. Il debito pubblico è quindi sceso al 25% del PIL e da anni ci si chiede come utilizzare meglio questi soldi. Finora non si è osato adottare provvedimenti drastici, come per esempio una riduzione delle imposte o la soppressione del freno alle spese. Ma oggi – di fronte alla prospettiva di un lungo periodo di tassi di interesse bassi o perfino negativi – la problematica cambia aspetto. Tra le molte idee avanzate ve n’è una che esce un po’ dal coro e propone perfino di aumentare l’indebitamento pubblico. L’evoluzione più recente dei rendimenti della Confederazione potrebbe offrire anche qualche spunto positivo. Infatti, il rendimento annuo dei prestiti a dieci anni è attualmente del –1%. Perfino quello del prestito a lunga scadenza in corso (30 anni) ha un rendimento negativo del –0,6%. Anche il prestito emesso nel 2014 e la cui durata è ancora di quasi 45 anni, alle quotazioni attuali, presenta un rendimento del –0,4%. Cifre che permettono di pensare – come fa un articolo del redattore economico della «Neue Zürcher Zeitung» – che la Confederazione potrebbe emettere oggi prestiti di lunga durata e ricavarne un profitto di circa il mezzo per cento all’anno. L’idea è attraente e
potrebbe raccogliere qualche consenso anche fra responsabili politici delle finanze federali. Così la Confederazione potrebbe andare oltre i suoi bisogni finanziari ed emettere, per esempio, un prestito supplementare di 10 miliardi di franchi, con scadenza a 30 o 40 anni e ricavarne praticamente un guadagno di 500 milioni all’anno, grazie all’interesse negativo. O anche di più se investisse a sua volta il mezzo miliardo ottenuto. Del resto, già lo scorso anno, un gruppo di esperti del ramo delle finanze e della previdenza aveva raccomandato di emettere un prestito di 300 milioni e di investirne il ricavato in azioni che promettono buoni dividendi a lunga scadenza. Globalmente, dal 1899, le azioni, tradotte in franchi, avrebbero reso il 7,7% all’anno. Anche un rendimento di soltanto la metà – conclude il gruppo di esperti – sarebbe un ottimo affare per la Confederazione. Troppo bello per essere vero – commenta la NZZ – aggiungendo che nella maggior parte dei casi il «troppo bello» è anche «non vero». In pratica, si presenterebbero subito problemi di diritto. La legge permette, infatti, alla Confederazione di chiedere soldi al mercato dei capitali «per garantire la solvibilità» del debitore. In ogni caso non è prevista la possibilità di investire in azioni. Probabilmente si potrebbe creare un fondo speciale per investire in azioni una parte del capitale. Sarebbe però necessaria una base legale. C’è però anche un altro problema
Ueli Maurer, un ministro delle finanze in una posizione invidiabile. (Keystone)
di fondo: l’investimento in azioni comporta un rischio. In realtà è prevedibile che se un «fondo azioni» della Confederazione dovesse vivere un periodo di borse deboli e quindi perdere parecchio del suo valore iniziale, si verificherebbero sicuramente reazioni nervose anche in campo politico. Non solo, ma se fosse evidente che, nei prossimi decenni, le azioni rendessero meglio dei prestiti federali, gli investitori di lungo periodo preferirebbero le prime ai secondi e il prestito federale incontrerebbe difficoltà di piazzamento. Di conseguenza, il mercato azionario subirebbe altre spinte al rialzo e i prestiti
federali al ribasso. Inoltre, il mercato chiederebbe un premio di rischio più alto spingendo al rialzo il rendimento dei prestiti federali. Quali altri investimenti rivolti al futuro si potrebbero realizzare? Qui torniamo alle risposte di tipo politico. Ad esempio, più investimenti nella formazione, nella ricerca, nel traffico, nell’AVS, nell’agricoltura, nella difesa militare e nell’aiuto allo sviluppo. Il freno alla spesa però non lo permetterebbe, per cui si dovrebbe cambiarlo, come alcuni politici già chiedono, tanto più che i previsti guadagni ridurrebbero l’impatto sul debito pubblico.
Ma questi guadagni sono proprio sicuri? Intanto, ogni investimento della Confederazione sarebbe sottoposto a un’analisi costi/benefici. Tanto i costi, quanto i benefici non sono sempre sicuri, come non lo sono i presunti redditi dell’eventuale fondo azionario. A livello macro-economico, se durante la durata del prestito la svizzera dovesse subire un periodo di deflazione, la Confederazione dovrebbe probabilmente rimborsare il prestito in termini reali a livello superiore a quello del momento dell’accensione. Problemi potrebbero nascere anche per l’emissione di nuovi prestiti o l’aumento di quelli in corso e rincarare l’emissione. In sostanza, né il capitale apparentemente a buon mercato, né gli interessi negativi bastano per indurre la Confederazione a cambiare atteggiamento nel finanziamento di nuove spese. Tanto più che la situazione attuale non è tale da impedire nuovi investimenti. Infine, bisogna anche tener conto che l’attuale periodo di «denaro facile» potrebbe terminare e non si sa né come né quando. Per il momento le prospettive di un periodo piuttosto lungo di tassi di interesse bassi o negativi sono buone, almeno per la Svizzera. Ma la tendenza è in atto a livello mondiale ed è partita dalla crisi finanziaria dal 2008 e dai molti interventi delle banche nazionali che l’hanno rinforzata, provocando anche la ricerca di luoghi sicuri, tra cui il franco svizzero e proprio i prestiti statali. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Politica e Economia
In pensione in tre mosse
Previdenza Molti lavoratori dipendenti vorrebbero uscire dolcemente dalla vita professionale,
riducendo gradualmente l’orario di lavoro. Ecco le risposte alle principali domande riguardanti la pensione parziale cinque anni prima del raggiungimento dell’età AVS. È possibile farlo anche prima ma solo a determinate condizioni, come ad esempio per il finanziamento o il rimborso dell’ipoteca oppure in caso di ristrutturazione della casa in cui si abita (abitazione primaria). Ci sono vantaggi fiscali ad usare questa possibilità e a scaglionare i pagamenti nel tempo. In caso di importi a partire da 100’000 franchi, con ritiri di capitale frazionati si possono risparmiare facilmente alcune migliaia di franchi.
Benita Vogel 1. Preparazione Il momento
A partire dai 50 anni bisognerebbe affrontare il tema del pensionamento. Bisogna chiarire quando cominciare ad uscire dalla vita lavorativa e di quanti soldi si ha bisogno in pensione. Nella maggior parte dei casi, la rendita AVS e la cassa pensione coprono assieme appena il 60% dell’ultimo reddito da lavoro. La somma mancante viene finanziata con il 3° pilastro o riducendo il tenore di vita. L’ideale è di mettere a punto i dettagli con un esperto di pianificazione finanziaria. Il test della pensione di Banca Migros: bancamigros.ch/test-della-pensione
Con il pensionamento parziale l’orario di lavoro va ridotto in due o tre tappe
3. E lavorare più a lungo?
Avete 64 o 65 anni, siete già in pensione parziale o la state pianificando e vorreste lavorare anche dopo l’età di pensionamento ordinaria? Si può fare. Molte casse pensioni prevedono la possibilità di rimandare la riscossione delle prestazioni (restanti) fino al compimento dei 70 anni, sia per le donne che per gli uomini. Si può posticipare anche l’AVS, fino a 69 anni per le donne e a 70 per gli uomini. Ciò fa aumentare ogni anno la rendita AVS del 5,2%, perché pagate più a lungo riducendo contemporaneamente il periodo in cui percepirete la rendita. Con un rinvio massimo di cinque anni si tratta del 31,5% in più.
Il processo
Secondo il regolamento delle casse pensioni (CP), un pensionamento graduale è possibile di solito a partire dai 58 anni. L’orario di lavoro viene ridotto in due o tre tappe. Ad esempio, se a 58 anni riducete l’orario di lavoro al 70%, a 60 anni lo portate al 40% e infine andrete in ordinaria pensione a 64 o 65 anni, a seconda che siate una donna o un uomo. 2. La pratica Versamenti della cassa pensione
Se l’orario di lavoro e il salario vengono ridotti in un sol colpo del 30% tramite un pensionamento parziale, contemporaneamente viene versato anche il 30% dell’avere di cassa pensione. Quest’ultimo può essere versato sotto forma di rendita o di ritiro di capitale. Di solito, per ragioni fiscali viene scelta la forma del capitale (cfr. «A cosa fare attenzione»). Le prestazioni della cassa pensione non compensano integralmente la riduzione di salario. A seconda del regolamento e della situazione personale, esiste la possibilità di acquistare – entro l’inizio del pensionamento parziale – quote aggiuntive della cassa pensione e quindi di migliorare le prestazioni. Informatevi presso la vostra cassa pensione. Nota bene: nonostante la riduzione di reddito, continuerete a pagare i contributi di cassa pensione e gli altri contributi sociali. Versamenti dell’AVS
Si può percepire l’AVS già uno o due anni prima dell’età pensionabile ordinaria. In caso di pensionamento parziale è però meglio rinunciarvi. Infatti, una donna che riscuote l’AVS già a 62 o 63 anni, o un uomo di 63 o 64 anni,
Il 3° pilastro continua, ma non l’AD
Se continuate ad avere un’attività lavorativa, potete anche continuare a effettuare versamenti nel 3° pilastro: fino a 69 anni per le donne e a 70 per gli uomini. Invece, non si applicano più i contributi dell’assicurazione disoccupazione (AD), mentre si continuano a pagare quelli per AVS, AI e IPG, ma solo per la parte di salario che supera i 16’800 franchi annui. deve mettere in conto una rendita ridotta a vita. Tale riduzione ammonta all’8% per ogni anno anticipato. Si tratta spesso di una decurtazione di entità sproporzionata. Altri svantaggi della riscossione anticipata dell’AVS: continuerete a pagare regolarmente i contributi AVS fino all’età di pensionamento ordinaria, senza però che la rendita aumenti. A ciò si aggiungono le maggiori imposte sui redditi, dato che le prestazioni pensionistiche si accumulano al reddito da lavoro benché ridotto. Versamenti del 3° pilastro
Durante il pensionamento parziale, potete continuare a effettuare versamenti nel 3° pilastro. Viceversa, potete ritirare questi risparmi al più presto
A cosa fare attenzione ▪ Imposte: se vi fate versare l’avere di cassa pensione in due o tre rate, potete interrompere la progressione fiscale: il tasso d’imposizione è minore rispetto a un versamento unico. Inoltre, siccome continuate ad avere un reddito da lavoro, potete continuare a pagare il 3° pilastro e quindi a dedurre soldi dalle imposte. Attenzione però: alcuni cantoni pongono un limite a questa ottimizzazione fiscale. A seconda delle direttive cantonali, il grado di occupazione e il salario vanno ridotti di almeno il 20 o il 30% ad ogni tappa del pensionamento, e in
modo permanente. Le autorità fiscali non accordano un successivo aumento dell’orario di lavoro. Inoltre, le prestazioni della cassa pensione devono corrispondere alla stessa percentuale della riduzione dell’orario di lavoro. A seconda del cantone, sono consentiti solo due o tre ritiri di capitale, a distanza di periodi dai sei ai dodici mesi uno dall’altro. Spesso si è costretti a riscuotere l’ultima rata dell’avere di cassa pensione sotto forma di rendita. ▪ Malattia, infortuni e invalidità: in caso di pensionamento parziale a tappe, rimanete assicurati con il vostro
datore di lavoro fino alla cessazione completa della vostra attività lavorativa. ▪ Ipoteca: molti temono che la banca disdica l’ipoteca se si riduce l’orario di lavoro e di conseguenza il guadagno prima del pensionamento completo. Chiarite tempestivamente con la vostra banca quanto l’ipoteca sia sopportabile in età AVS. Con una pianificazione finanziaria, la banca può definire un budget appropriato. Informazioni di Banca Migros su bancamigros.ch/pianificazione-finanziaria Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Finora la digitalizzazione favorisce l’occupazione La diffusione della digitalizzazione, nel campo dell’informatica e dell’elettronica come pure nel campo delle telecomunicazioni ha trasformato molte attività lavorative e ha fatto perdere molti posti di lavoro specialmente nei servizi faccia a faccia come lo sportello bancario, la cassa del supermercato, l’accoglienza in albergo, e così via. Nei prossimi dieci anni questa tendenza si estenderà anche ad altri servizi con l’introduzione in particolare di robot programmati per assistere pazienti, consumatori e lavoratori. Di conseguenza c’è chi si interroga sull’effetto complessivo della trasformazione digitale del mondo del lavoro. Recentemente il Kof, istituto di ricerche economiche del Politecnico di Zurigo, ha reso noto i risultati di un suo studio sull’impatto della digitalizzazione sin qui che contiene risultati interessanti.
Dallo stesso si apprende infatti che gli effetti sull’occupazione dipendono dal tipo di tecnologia digitale. In altre parole ci sono applicazioni della digitalizzazione che fanno aumentare l’occupazione e applicazioni, invece, che non hanno nessuna influenza sull’evoluzione della stessa. L’approccio adottato dai ricercatori del Kof per verificare l’effetto occupazionale della digitalizzazione non potrebbe essere più semplice. Hanno chiesto alle aziende partecipanti all’inchiesta quanto avessero investito nel digitale e come fosse evoluta l’occupazione nel corso degli ultimi anni. Hanno così potuto stabilire che centomila franchi investiti nel digitale avevano creato 5,8 nuovi posti di lavoro per lavoratori altamente qualificati ed eliminato 2,3 posti di lavoro per lavoratori poco qualificati. Il bilancio dell’effetto della digitaliz-
zazione sull’occupazione è dunque in complesso positivo sia dal profilo quantitativo, sia da quello qualitativo. Ma, come si è già ricordato, esso varia secondo il tipo di tecnologia digitale nella quale si sono effettuati gli investimenti. Per essere più espliciti investimenti in tecnologie come i robot, le fotocopiatrici in tre dimensioni o l’internet delle cose (che permette di mettere in rete oggetti fisici, per esempio un complesso di macchine e farli collaborare) influiscono in modo maggiormente positivo sull’occupazione che tecnologie come le reti sociali, l’e-commerce o i processi CRM (processi di gestione delle relazioni con i clienti). Questo risultato dello studio del Kof ci lascia un po’ perplessi. Esso infatti indicherebbe che l’effetto positivo sull’occupazione dell’adozione di processi digitalizzati sarebbe particolarmente
positivo nei casi in cui le tecnologie digitali rafforzano la possibilità delle macchine di accedere a dati, di calcolare o di informarsi, ossia, secondo noi, nei casi in cui l’effetto di sostituzione di manodopera è, in via di principio, maggiore. Se gli effetti della digitalizzazione sull’occupazione sono questi, sembrerebbe che la digitalizzazione debba di fatto ottenere un aumento della domanda di lavoro attraverso una crescita significativa del fatturato. Purtroppo possiamo formulare questa conclusione solo in forma ipotetica perché nello studio del Kof non si è approfondita l’analisi del processo di trasmissione degli effetti della digitalizzazione sulla domanda di lavoro. Quello che invece comincia a trasparire in modo chiaro da studi di questo tipo è che la digitalizzazione dei processi produttivi genererà vincitori e perdenti
sul mercato del lavoro. A guadagnarci dovrebbero essere i lavoratori e lavoratrici altamente qualificati. I perdenti saranno invece i lavoratori e le lavoratrici mediamente o poco qualificati. Alcuni dei problemi di cui soffre il mercato del lavoro svizzero come la carenza di manodopera altamente qualificata, la necessità di dover ricorre all’immigrazione di manodopera altamente qualificata, il continuo allargarsi della forbice tra i salari dei manager e quelli della manodopera meno qualificata, rischiano così di aggravarsi in futuro. È possibile che la digitalizzazione dei processi produttivi non crei disoccupazione supplementare. Ma è altrettanto possibile che, per effetto di questa trasformazione, diverse delle tensioni esistenti oggi sul nostro mercato del lavoro continuino a prodursi e, addirittura, ad aggravarsi.
lo slogan della «frattura sociale» contro cui combattere, che gli fece vincere le presidenziali del 1995. Ebbe un figlio dal campione olimpico di judo Thierry Rey e gli diede il suo cognome: Martin Chirac. Incontrò l’astro nascente della destra francese, Nicolas Sarkozy, e ne fu colpita. Una frase di sua madre – «Sarkozy ha violato la nostra intimità» – fu letta come la rivelazione di una storia d’amore. Claude smentì. Sarkozy l’ha definita «la mia sorellina» ed è stato suo testimone di nozze (con il politologo Philippe Habert). Tra Claude e Nicolas qualcosa però dev’essere successo, se al ballottaggio per le presidenziali 2012 sia Jacques Chirac sia la figlia si schierarono per il socialista Hollande, mentre Bernadette Chirac appoggiava Sarkozy. La primogenita si chiamava Laurence. La meningite l’ha segnata per sempre. La sua vita è stata una via crucis di ospedali e cure psichiatriche. Chirac l’ha amata teneramente, come de Gaulle aveva amato la figlia Anne, nata con la sindrome di Down. Laurence si è spenta tre anni fa. Ora il padre riposa al suo fianco.
L’opinione pubblica europea è rimasta colpita dal gran rifiuto della famiglia Chirac, che non ha voluto al funerale Marine Le Pen. In effetti, i funerali sono il momento culminante nella vita di una persona e, nel caso di un capo di Stato, di una nazione. Ricordo quelli di Mitterrand: entrai a Notre-Dame all’alba, mi nascosi in fondo alla navata destra, dove c’è la lapide che ricorda il milione di soldati dell’impero britannico caduti sul suolo francese durante la Grande Guerra, e vidi sfilare i potenti della Terra venuti a rendere omaggio a un uomo che nel frattempo era sepolto altrove, in provincia, davanti alle sue due famiglie, con lo splendido abbraccio tra la moglie Danielle e la figlia naturale Mazarine. Non c’è stato né poteva esserci un abbraccio tra Bernadette Chirac, la vedova, e Marine Le Pen. Bernadette ha sempre incarnato l’anima conservatrice della famiglia, mentre la figlia Claude dava voce all’anima liberal. Ma proprio per questo la moglie di Chirac ha sempre detestato la famiglia Le Pen, e non solo a causa dei decenni di attacchi personali, talora ai
limiti della calunnia. Troppo diverso il sistema di valori. La destra repubblicana francese ha perso per quattro volte l’Eliseo, pur di non fare patti con la destra populista e xenofoba. Una fermezza di cui la destra italiana non sarebbe e infatti non è stata capace. (Va detto però che in Francia la destra di governo fa la destra: senso dello Stato, delinquenti in galera, lotta seria all’evasione fiscale; chi tocca un poliziotto non fa una bella fine, Gilet gialli compresi; quanto alla «castrazione chimica» dei pedofili, non la si chiama così, e la si pratica da decenni). Chirac non è stato un grande presidente; ma è stato un buon presidente. Subì a lungo Giscard e Mitterrand. Volle riprendere i test nucleari, proprio nel 1995 – cinquantesimo anniversario di Hiroshima –, suscitando proteste planetarie. Vide lontano battendosi contro la guerra in Iraq. Visitò Algeri, acclamato dalla folla. Era un uomo allegro e simpatico, piatto preferito: la testina di vitello. Ed è stato l’ultimo capo di Stato francese a essere rieletto (il prossimo sarà probabilmente Emmanuel Macron).
nuova veste grafica. Forse è per questo che delle pagine dell’esordio del nuovo «Corriere» la più emblematica mi è sembrata l’ultima, quella con lo slogan «Carta e digitale» in cui si vedevano Fabio Pontiggia, direttore responsabile, e Matteo Pelli, direttore operativo, con al loro fianco Alessandro Colombi, direttore generale del Gruppo CdT, cioè l’editore. Quella pagina, oltre a promuovere il prodotto giornalistico, trasmetteva anche un messaggio legato agli sforzi che proprietari e amministratori del Gruppo portano avanti da anni per continuare ad avere professionisti a loro agio con le nuove grammatiche dell’informazione nell’era dell’open web. Da anni editoria e giornalismo stanno combattendo anche in Ticino contro una crisi che avrebbe sempre più bisogno anche di un dibattito pubblico aperto, senza censure e senza paure, soprattutto vedendo che non risparmia radio e televisioni e riguarda anche i social media. Invece ognuno procede isolato, a tastoni: rilanci, tagli, acquisi-
zioni, cessioni... Peter Brock, direttore della Scuola di giornalismo della City University di Londra, nel suo libro Out of Print ricorda l’età dell’oro dei quotidiani nella seconda metà del XX secolo e racconta la storia del lungo declino commerciale che continua tuttora. In questa analisi Brock sostiene che la televisione ha ucciso più giornali di Internet e i social media hanno solo peggiorato le cose, affossando il modello basato sulla pubblicità. Una sola componente non è crollata: la domanda di informazione giornalistica. Anzi: paradossalmente oggi nella società civile si avverte sempre più che l’alternativa, cioè l’irrilevanza e il collasso della credibilità e dell’autorevolezza del giornalismo, finirebbe per accrescere il disorientamento e accrescerebbe i pericoli insiti nel nuovo sistema operativo sociale basato sul network. Questo significa che il giornalismo per ora ha davanti un’unica via di sopravvivenza: convincere editori e marketing a mantenere al centro i lettori e a privilegiare sempre la qualità.
In&outlet di Aldo Cazzullo Chirac, un buon presidente L’Europa è un po’ più povera. Con Jacques Chirac esce di scena l’ultimo leader ad aver governato con il Generale de Gaulle: era ministro del Lavoro quando nell’incandescente primavera del 1968 si negoziavano gli accordi di Grenelle con gli operai in rivolta, e il giovane Jacques girava per Parigi con il revolver sotto l’impermeabile. De Gaulle, che lo stimava, lo chiamava «il mio Bulldozer». Da ragazzo però era comunista. Diffondeva «L’Humanité» la domenica mattina. Fondamentale
l’incontro con Bernadette, rampolla di una ricca famiglia di destra: moglie pluritradita, ma al suo fianco sino all’ultimo. In questi giorni si è parlato molto della storica relazione di Chirac con Claudia Cardinale. Ma le vere donne della sua vita sono state le figlie. La seconda, Claude, fu la sua più stretta collaboratrice. Un po’ come Maria Romana De Gasperi, che faceva da assistente al padre Alcide. Claude Chirac era una bella donna, intelligente, esuberante come il padre. Fu lei a suggerirgli
Jacques Chirac è stato presidente dal ’95 al 2007. (Keystone)
Zig-Zag di Ovidio Biffi «Carta canta» vale anche per il giornalismo? Il «Corriere del Ticino» ha una nuova veste, presentata ai lettori lo scorso 19 settembre. Lo stesso giorno, terminata la lettura delle 76 pagine rivisitate graficamente, ho scritto due messaggi. Uno l’ho inviato via e-mail al proto (scusate: al responsabile della tipografia) con cui al «Corriere del Ticino» una ventina di anni fa ho condiviso analoghi processi di restyling del nostro settimanale, tuttora stampato in quella tipografia. Il secondo invece non l’ho spedito. Era una lettera ai colleghi del «Corriere», ma prima ancora di concluderla ho avuto un ripensamento: sarei stato solo di disturbo. Il messaggio mirava a un tono scherzoso, con un sotterfugio giornalistico che avrebbe richiesto scuse immediate a Bruno Costantini perché ricopiavo l’incipit del suo editoriale in prima pagina. Solo che mentre lui si riferiva alla città di Lugano, il mio soggetto era il nuovo «Corriere»: ... Non c’è dubbio: il giornale è bello, ha i segni di una nuova identità ancora in costruzione e riesce a minimizzare il
dubbio che il cambiamento sia dettato da una crisi che inesorabilmente sta recando colpi mortali all’editoria. Uno vede la nuova veste e non ha dubbi: il «Corriere» è un gran bel giornale. Cosa volere di più? Ritrovare, in questi anni di trasformazioni, un’anima vera che l’editoria sta perdendo non solo a causa della crisi dei commerci e del ridimensionamento della pubblicità. La qualità del giornalismo, di fronte anche ad altri cambiamenti in arrivo, resta il tema centrale... A questo punto, pensando al disturbo, ho desistito. E il messaggio è rimasto nel pc. In fondo il cambiamento l’hanno voluto, sicuramente ci credono e ne saranno fieri, e sanno anche che ora dovranno sostenerlo, spingerlo e magari cercare di migliorarlo se si faranno sentire voci troppo critiche. Non credo che abbia senso riproporre quanto spiegato da Enzo Iaccheo, art director responsabile del progetto editoriale, cioè che il «Corriere» viene stampato con un nuovo stile tipografico, «cucinato» in
una nuova gabbia grafica seguendo un design in verticale (come i vini nobili) per il giornale e in orizzontale per il sito web. Più che sul nuovo arco che i colleghi di Muzzano ora hanno in dotazione, preferisco soffermarmi su chi lo usa, anche perché il «Corriere del Ticino» non è più quello che conosciamo da oltre 125 anni, ha numerosi satelliti (una televisione, una radio, alcuni siti web, il settimanale «Extra», il domenicale «Il Caffè» ora con «l’Illustrazione ticinese»...) gravitanti attorno alla testata giornalistica. Questa specie di faretra reca la sigla Gruppo CdT e dispone di una miriade di frecce per difendere il suo prodotto principale (l’informazione), ma anche per curare il flusso pubblicitario e le varie sinergie che possono scaturire all’interno di questa piccola galassia mediatica ticinese. Basta tener presente che tutta l’informazione e quanto gravita attorno a questo complesso scenario deriva dal giornale cartaceo e la rivisitazione acquista un significato che va oltre la
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Cultura e Spettacoli Cantare il dolore Nel loro nuovo concept album III The Lumineers cantano la tragedia famigliare
Chopin e Beethoven con l’OSI «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’OSI del 17 ottobre in cui si esibirà anche il talentuoso pianista britannico Benjamin Grosvenor
A teatro per capire il mondo Il Festival internazionale di Teatro è sempre più un’occasione di scoperta
Entrare nel territorio Inizia oggi la quinta edizione del workshop di progettazione urbana, un appuntamento plurisdisciplinare di riflessione
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Nelle forme sospese del colore
Mostre A Bellinzona le opere più recenti
dell’artista ticinese Samuele Gabai
Alessia Brughera Quella di Samuele Gabai è una pittura non facile da definire. Se difatti può essere ricondotta al linguaggio dell’informale per la scelta di affidare la rappresentazione del mondo alla materia e al colore, vero è che fin da subito si coglie in essa l’esigenza di andare oltre alla loro mera esplorazione. Con la lucidità di chi ha ben presente la propria traiettoria d’intenti, è lo stesso Gabai a sottolineare come le sue opere abbiano sempre racchiuso «una sorta di racconto», una componente narrativa capace di piegare il gesto e la massa pittorica all’esigenza di parlare della vita e dell’uomo. Ecco perché l’artista ticinese, classe 1949, dipana sulla tela figure che, sebbene labili e indefinite, non cedono mai alla dissoluzione totale, rimanendo sempre riconoscibili. A Gabai non interessa la babele di segni e pigmenti tipica dell’informale, anzi, nei suoi lavori, pur nella libertà della pennellata, elude il confuso depositarsi di elementi per contrastare la dispersione di senso e conferire alle forme un significato pieno. In questo tentativo di dare ordine al caos per declamare qualcosa che sia oggettivo, i dipinti di Gabai diventano territorio di tensioni e di energie discordanti che costruiscono e destrutturano l’immagine rendendola sfuggente e precaria ma allo stesso tempo estremamente reale. È ciò che accade, più di tutto, con la figura umana, presenza costante nella produzione dell’artista, resa come corpo pervaso da turbamento emotivo, come sagoma tanto stravolta e dissipata quanto nobile e imponente. Al pittore di Campora la cui arte rimane sospesa tra figurativo e astratto, Bellinzona dedica una rassegna allestita negli spazi del Salone Espositivo della Società Bancaria Ticinese, da anni promotrice di iniziative culturali legate al territorio. La mostra presenta una selezione di opere realizzate da Gabai nell’ultimo decennio e radunate sot-
to l’emblematico titolo Pittura segreta mente silenziosa amica, a esprimere un concetto cardine della poetica dell’artista, il considerare la pittura come compagna intima e riservata, come taciturna confidente con cui condividere il valore della riflessione. Per Gabai la pittura «muove significati», «sente la storia», genera racconti di vita conversando con l’uomo dell’uomo. L’artista ci narra la sua visione del mondo attraverso pennellate vigorose che dettano il ritmo della composizione e pigmenti che divengono talora materia stratificata, rappresa e impastata, talaltra colore fluido e grondante. I suoi dipinti accolgono grumi, striature, macchie, incrostazioni, sgocciolature, addensamenti, facendosi campi concitati di forze da cui emergono accenni di presenze. Con i suoi neri fulgidi, i grigi argentati, i bianchi radiosi e ancora i rosa garbati o gli azzurri tersi, Gabai, come testimoniano bene le tele esposte nella mostra di Bellinzona, ci svela un’immagine mai conclusa, ci pone davanti a tracce, a impronte che paiono essere fugaci rivelazioni della realtà. I lavori degli ultimi anni sono espressione di una ricerca personale che il pittore sviluppa con costanza sin dagli inizi del suo percorso artistico. Dalla metà degli anni Settanta, di ritorno in Ticino dopo una lunga esperienza di studi e di frequentazioni nel fervido clima culturale milanese, Gabai incomincia a dar vita ai suoi quadri di natura, opere in cui si coglie un profondo legame con il paesaggio della terra natìa, in particolare con quello della Valle di Muggio, dove ancora oggi l’artista ha il suo atelier. Da quei lavori, che suggeriscono una totale immersione nel creato inteso come forza primordiale, l’artista procede elaborando nuovi temi che interpretano ora l’incontro e la dialettica tra uomo e ambiente ora l’individuo estrapolato da qualsivoglia contesto e riconsegnato nella sua concretezza solitaria
Samuele Gabai, Apparsa, 2019, olio su tela.
(«il corpo è la consapevolezza del nostro passaggio nel mondo», dice Gabai). Tipica del pittore è la frequentazione di pochi soggetti che, oltre a popolare i suoi dipinti, vengono trasposti e rivisitati anche nell’incisione, tecnica a cui l’artista si dedica sin dagli esordi della sua attività e che nel corso degli anni gli ha permesso di realizzare importanti pubblicazioni in collaborazione con scrittori, poeti e filosofi. Ed ecco allora, con minimi scarti, comparire negli esiti pittorici più recenti molte delle iconografie care a Ga-
bai: con una tavolozza che si è fatta più luminosa e leggera affiorano dalle tele montagne, cieli e terre; angeli e martiri; grembi, madri e bambini; apparizioni e cognizioni. È ancora attraverso questi temi che l’artista riflette sulla vita e sulla morte, sul principio e sulla fine, sul male e sulla virtù, sulla conoscenza e sulla coscienza. Nella laboriosa gestazione della figura, la pittura di Gabai riesce a fissare l’immagine racchiudendola nel pigmento e restituendola come visione aperta, quasi in divenire, e al contempo
come presenza solida, piena, tangibile. Come forma ancestrale da riscoprire per poter giungere all’origine dell’arte e della vicenda umana. Dove e quando
Samuele Gabai. Pittura segreta mente silenziosa amica. Società Bancaria Ticinese, Salone Espositivo e Culturale, Piazza Collegiata 1, Bellinzona. Fino al 26 ottobre 2019. Ma-ve 16.00/19.00; sa 10.00/17.00; do 14.00/18.00. www.bancaria.ch
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Cultura e Spettacoli
Le scelte educative
Pubblicazioni Ne La culla degli obbedienti la giornalista Francesca Mandelli
si china sui vantaggi e le insidie dell’educazione
Jazz ReteDue
A Lugano, l’anima del Sud America il 17 ottobre
Giuseppe Curonici All’inizio dell’educazione stanno alcune scelte importanti. Educare a essere liberi e responsabili, oppure a sottostare all’obbedienza in sé qualunque sia il suo contenuto. Trasmettere l’immagine del mondo attuale senza l’idea di miglioramenti e progresso, oppure proporre la crescita civile. Il libro di Francesca Mandelli è istruttivo, chiaro e utile. Il cuore del problema è rendersi conto di quali sono i modelli di pensiero e di vita che vengono trasmessi nella famiglia, nella scuola, nella politica. Quale educazione vogliamo: coltivare persone capaci di pensare con la propria testa, o semplicemente obbedienti a un potere preesistente qualsiasi? Si chiede più educazione. Sì, ma quale? L’educazione è una forza benefica costruttiva, ma può contenere anche abuso di potere, prepotenza esplicita o peggio ancora nascosta, velata, insinuante. Il potere vuole soprattutto mantenere se stesso, piega l’educazione a fabbricare obbedienza, non ama lo spirito critico. Nella scuola preferisce un’istruzione strumentale tecnica, l’addestramento ad alcune abilità professionali, non vuole la libertà di pensiero approfondito. Il libro di Francesca Mandelli sviluppa questi temi mediante sei interviste ad altrettanti studiosi, con introduzione e conclusione dell’autrice. Francesca Rigotti discute tra l’altro del concetto di cultura illuminista. Educazione e politica sono collegate. L’illuminismo propone riforme che non sono totali ma comunque hanno donato al mondo un progresso enorme, grandioso. Affermazioni perfettamente lodevoli! Ad esempio, per i colpevoli di reati si elimina la tortura e si ricorre al carcere o alle multe, si pensa alla rieducazione e alle riforme politiche e sociali. (Qui apriamo una parentesi riguardante la religione. Secondo il cristianesimo l’uomo è peccatore e ha bisogno di essere guidato dal male al bene. Ma nello stesso tempo l’uomo è anche immagine e somiglianza di Dio,
La giornalista Francesca Mandelli. (© RSI M. Aroldi)
non si deve mancargli di rispetto: voi padri non esasperate i figli, affinché non si scoraggino. Inoltre bisogna distinguere tra obbedire al bene oppure obbedire al male, a Dio oppure al denaro). Paolo Perticari svolge l’argomento tremendo della Pedagogia Nera. Il bambino maltrattato e umiliato riversa la propria rabbia altrove, all’esterno, gli hanno tolto il coraggio di guardare la realtà, e si sforza di idealizzare i suoi genitori. Attraverso la manipolazione pedagogica il bambino intimidito e suggestionato subisce una coercizione psicologica deformante che lungo le generazioni annoda la catena invisibile del male (pp. 35, 49). Maria Rita Mancaniello sotto il titolo Ridefinire gli orizzonti ci mostra che i cambiamenti storici dell’età contemporanea non sono soltanto un succedersi di avvenimenti puntuali e circoscritti, ma trasformazioni profonde dell’impianto della civiltà: industrializzazione, consumismo, globalizzazione, pluralismo filosofico e religioso, nuovi usi e costumi. A p. 68 segnala «già negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso… il
concetto di svolta epocale». Forse sarà consentito dire che il concetto di svolta epocale risale almeno al tempo delle avanguardie culturali tra Ottocento e Novecento. L’espressionismo tedesco parte nel 1905, Picasso nel Cubismo 1906 accoglie l’arte e la cultura africana, il più esplicito è Marinetti che di fronte alle macchine e alla velocità lancia il Futurismo il 20 febbraio 1909, ecc. Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta, con Figli, istruzioni per l’uso guarda all’interno della famiglia. Per i giovani è essenziale costituire la propria identità, per i genitori può essere arduo gestire il distacco dei figli, devono metterci riflessione e consapevolezza, sostenere disagio e sofferenza. Il progetto educativo è contrastato dal mercato che vuole consumi e denaro. Olivier Maurel si occupa di Violenza educativa. Le punizioni corporali non educano, semplicemente impongono. La violenza punitiva induce il bambino a subire botte schiaffi ecc. perché il bambino è sollecitato ad accettarli a causa della sua dipendenza dai genitori e dallo stesso suo affetto; poi la violenza
si riverserà sulla prossima generazione, a catena. L’ampio intervento di Francesco Codello A scuola di… considera i problemi della scuola unificandoli attorno alla persona del ragazzo da educare. La disciplina, l’acquisizione del sapere, la preparazione alla vita professionale, non sono prioritariamente l’esecuzione di uno schema esterno imposto dalle usanze ma devono scaturire dall’interiorità propria del ragazzo. Francesca Mandelli nella considerazione conclusiva ricorda che il condizionamento ha successo se chi lo subisce non se ne accorge; perciò occorre smascherare i meccanismi manipolatori nei quali siamo immersi e nei quali immergiamo inconsapevolmente i nostri figli. Noi aggiungiamo: anche qui, ancora una volta, la verità migliora il mondo. Francesca Mandelli, La culla degli obbedienti – Un’inchiesta sui rapporti tra educazione e potere, Casagrande, Bellinzona, 2018.
Linguistica Brevi ma non certo banali e semplici lezioni sul linguaggio nell’ultimo libro
del linguista Federico Faloppa Stefano Vassere
per difetto nei confronti della facoltà di linguaggio dell’uomo, o quanta strada debbano ancora fare generazioni di elefanti, pappagalli e scimmie per arrivare a lambire anche solo un minimo della competenza linguistica del più tamberlo degli umani. Di problemi di questo tipo, generando grande profitto e spasso nel lettore, si occupa l’ultimo libro di Federico Faloppa, Brevi lezioni sul linguaggio. Faloppa insegna nell’Università di Re-
ading. Chi si interessi un po’ della materia lo conosce soprattutto per ben determinate specializzazioni nell’ambito della sociolinguistica. Dice giustamente Faloppa che «da alcuni anni la mia ricerca si concentra soprattutto su linguaggio e alterità, linguaggio e razzismo, migrazioni e linguaggi»; e infatti in quei campi i più attenti ricordano opere certamente di prim’ordine. A fronte di quei temi, però (temi che peraltro, in Italia, risultano perfettamente in linea con la tradizione, perché chi si occupi di linguistica in Italia in questi anni si occupa prevalentemente di sociolinguistica), le Lezioni di quest’ultimo libro sono indicative di una tendenza che sembra stagliarsi sempre più nitidamente nell’ambito degli studi linguistici. I quali, pare di poter dire, si stanno allontanando un po’ dalle indagini sulle lingue per abbracciare sempre più volentieri lo studio della lingua, del linguaggio, inteso appunto come competenza e capacità generale del genere umano. Da qui, la comunicazione degli animali; le tematiche del rapporto tra fisiologia del cervello e produzione linguistica (con tutta la questione delle patologie del linguaggio); l’origine del linguaggio; gli incroci di grande fascino con paleontologia, etologia, anatomia e antro-
Tra le varie collaborazioni che la rassegna «Tra Jazz e nuove musiche» propone nel suo cartellone di questa seconda parte del 2019, va senz’altro segnalata una primizia. Per la prima volta infatti la serie di concerti, promossa da Rete Due Rsi e coordinata da Paolo Keller, intreccia la sua programmazione con il festival «Chitarre dal mondo», un evento dedicato, come chiarisce la sua stessa denominazione, al popolare strumento a sei corde. Organizzato da vari anni dall’associazione luganese «Amici della chitarra», «Chitarre dal mondo» ha effettivamente portato nella città sul Ceresio alcuni dei migliori interpreti a livello mondiale sulla 6 corde, esponenti di prestigio in vari generi musicali. Per l’edizione 2019 invitato d’onore è lo strabiliante solista brasiliano Yamandu Costa, uno dei più riconosciuti e apprezzati solisti dell’America del Sud. Nato nel 1980 a Passo Fundo, città nello Stato del Rio Grande do Sul, la carriera concertistica di Yamandu è quella di un virtuoso assoluto. Specializzato nell’uso della chitarra a sette corde, il giovane solista è in grado di spaziare in un repertorio che va dall’ambito classico al tradizionale e al moderno, con un caratteristico tocco espressivo e con un intensità di interpretazione assolutamente unica nella sua stupefacente leggerezza.
Bibliografia
Brevi ma non troppo
«Koshik era un elefante capace di riprodurre – a detta di alcuni testimoni – non solo alcune parole in coreano inserendo la proboscide in bocca e modulando vari suoni nel tratto vocale, ma anche di imitare il timbro e la frequenza della voce del suo allenatore, come documentato da Angela Stoeger-Horwath dell’Università di Vienna». Per un linguista, studiare il linguaggio degli animali ha fondamentalmente due scopi: il primo è divertirsi, perché le storie dell’elefante che parla coreano o del pappagallo Alex che poteva dire una dozzina di parole inglesi e poteva riconoscere oggetti e colori sono decisamente storie divertenti, oltre che interessanti; come è interessante la nota propensione di certi uccelli che crescono lontano dai genitori a emettere canti diversi da quelli di famiglia, generalmente coincidenti con quelli dei loro fratelli di adozione, tanto da identificare in questi sistemi dei veri e propri dialetti aviari. Ma indagare le forme di comunicazione di diverse specie animali ha anche un altro senso, ben più ambizioso sul piano scientifico: serve a dire quanto questi sistemi si posizionino
Yamandu e Renato, due gauchos
pologia. Tutta materia molto à la page, della quale il libro di Faloppa abbonda decisamente. Il rinvio è ad alcune parti vistose nella serie dei capitoli: tra i molti esempi che si potrebbero fare, certamente le quattro ipotesi sul perché a un certo punto il genere umano abbia cominciato, enorme tempo fa, a parlare; le afasie dei poliglotti, che possono essere parallele e riguardare tutte le lingue conosciute dal parlante prima, selettive e interessarne solo alcune, differenziali e incidere sui sistemi pregressi a livelli variabili, in antagonismo alternato cioè a seconda dei periodi; lo sciagurato linguaggio dei bambini che, nella storia, sono stati fatti crescere in isolamento; la capacità dei neonati di distinguere precocemente le consonanti, anche quelle che non appartengono alla lingua che impareranno. Sorprende poi, per prospettive e visione, l’ultimissima lezione, «All’inizio era il gesto?». Vale nel modo più assoluto il «prezzo del biglietto». Il passo della lettura, infine, è fuori discussione. Bibliografia
Federico Faloppa, Brevi lezioni sul linguaggio, Milano, Bollati Boringhieri, 2019.
Yamandu arriverà a Lugano con un suo partner abituale, Renato Borghetti, anch’egli musicista e compositore brasiliano. Originario anche lui del Rio Grande do Sul, ma nato a Porto Alegre, il suo ambito musicale privilegiato è il folk della sua regione. Suona infatti la «gaita ponto», una particolare fisarmonica a bottoni con la quale esegue musica appartenente alla tradizione dei gauchos che vivono nella zona sul confine meridionale del Brasile. /AZ Yamandu Costa & Renato Borghetti
Auditorio Rsi, Lugano-Besso Giovedì 17 ottobre, ore 21.00 In collaborazione con
Concorso «Azione» in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino, propone ai propri lettori la possibilità di aggiudicarsi alcuni biglietti per il concerto di Yamandu Costa e Renato Borghetti di giovedì 17 ottobre all’Auditorium Rsi. Per partecipare basta seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Cultura e Spettacoli
The Lumineers, una lotta impari
Musica L a dimenticata arte del concept album rivive nel nuovo lavoro della band americana dei The Lumineers,
impietosa fotografia della straziante autodistruzione di un’intera famiglia Benedicta Froelich Non ci vogliono grandi sforzi d’immaginazione per rendersi conto di come, nel caso di una band dichiaratamente «demodé» quale i The Lumineers, la fatidica boa del terzo disco potesse apparire come una prova particolarmente difficile, dal momento che la particolare cifra stilistica del terzetto americano – un’irresistibile quanto efficace mistura di folk rock anni 60 e suggestioni pop – avrebbe potuto rendere difficoltoso soddisfare l’obbligo implicito di produrre qualcosa di diverso e scavalcare la trappola della ripetitività senza, tuttavia, tradire la propria collaudata personalità artistica (pena la perdita di un’ampia fetta di estimatori). Tuttavia, la formazione di Denver, assurta agli onori delle cronache fin dai tempi dell’eponimo debutto (2013), sembra oggi aver superato brillantemente il test: a dispetto del titolo prosaico, questo nuovo III si presenta infatti come un vero e proprio concept album, incentrato sulle drammatiche vicende di una famiglia americana tipicamente «middle class» che, nell’arco di tre generazioni, viene lentamente consumata dallo spettro dell’alcolismo – le cui conseguenze, propagandosi come un’impietosa malattia genetica, finiscono per affliggere in modi differenti le vite di tutti i suoi membri, di madre in figlio. E poiché, fin dagli esordi, i The Lumineers si sono dimostrati particolarmente desiderosi di esplorare
ogni sfumatura dell’arte dello storytelling, ecco che il nuovo disco approfondisce ulteriormente l’esperimento già tentato con il precedente Cleopatra (2016), all’epoca accompagnato dal cortometraggio The Ballad of Cleopatra: l’album III si dipana così lungo una serie di curatissimi e struggenti videoclip (uno per ogni brano), che, se visionati uno dopo l’altro, divengono un vero e proprio film, il quale segue passo a passo la vicenda tratteggiata dal disco. L’esperienza di ascolto viene così arricchita e ampliata dalla suggestione cinematografica; e sebbene ciò privi in parte l’ascoltatore della propria personale e soggettiva libertà d’interpretazione delle suggestioni musicali, il tutto è realizzato con tale classe e abilità da aver ottenuto il plauso dei fan. Il disco stesso risulta invece simbolicamente diviso in quattro capitoli, di cui i primi tre rappresentano i diversi periodi temporali succedutisi nella storia della disastrata famiglia Sparks, mentre l’ultimo è costituito, nell’abituale stile della band, da cover e brani disgiunti dal resto dell’album. E lo spirito fortemente narrativo del lavoro risalta fin dall’apertura, la straziante ballata Donna, alla quale spetta il compito di introdurre i personaggi femminili della vicenda: Donna, appunto, e sua figlia Gloria, futura madre dell’infelice Jimmy – bambino trascurato che, una volta adulto, finirà per portare il proprio stesso figlio a conoscere l’atroce solitudine e le mille vessazioni di una
Una rassegna che avvicina la musica
MusicArte Tre proposte musicali di qualità
Il terzo lavoro dei Lumineers è un vero e proprio concept album.
vita senza amore, alimentata da sordide frequentazioni e da una lenta discesa nel delirio. Perfino la travolgente Gloria, trascinante brano da ballo nello stile che ha reso i The Lumineers celebri ai tempi di Ho Hey, nasconde il drammatico risvolto della vicenda per come vissuta dal punto di vista di chi è infine destinato a soccombere: «che il cielo
mi aiuti ora, mi mostri la via, mi aiuti a rimettermi in piedi / rimanevo sveglia la notte, pregando che tu non rimanessi sveglio per me». Proseguendo lungo la tracklist, Life in the City (contenente una gradevole autocitazione di Sleep On the Floor, da Cleopatra), si presenta in linea con il senso di palpabile malinconia e tratte-
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per tre serate ad Ascona Il festival MusicArte di Ascona raccoglie la sfida per una proposta concertistica di qualità ma che allo stesso tempo sia alla portata di un uditorio ampio e sappia incuriosire ed attrarre il pubblico. Dopo il lusinghiero successo ottenuto nelle precedenti cinque edizioni, per questa ulteriore avventura, che propone tre serate musicali il 19, 20 e 27 ottobre, la responsabile artistica del festival, Silvia Longauerová terrà di nuovo fede al suo intento, che è quello di riuscire a trasmettere «la bellezza dell’arte aperta a tutti». Il programma dei concerti prevede sabato 19 ottobre alle 20.30 nella Chiesa del Collegio Papio di Ascona un’esibizione per chitarra, di cui saranno protagonisti la solista Miriam Rodriguez Brüllová e l’Orchestra da camera di Lugano diretta da Stefano Bazzi. In cartellone il celebre Concierto de Aranjuez per chitarra e orchestra e El amor brujo, composizione di Manuel De Falla. Domenica 20 ottobre alle 17.00, all’Hotel Ascona, sarà la volta di un
concerto jazz con il Blue Valentine Jazz Trio. Sotto il titolo di «Fascinating Rhythm» Valentina Londino alla voce, Paolo Paolantonio al contrabbasso e Matteo Sarti al pianoforte proporranno una selezione delle più belle canzoni di Irving Berlin, Cole Porter e George Gershwin. Infine, domenica 27 ottobre, alle ore 17.00, al Museo Epper di Ascona, il trio Quodlibet, composto da MarieChristine Lopez al violino, Virginia Luca alla viola e Fabio Fausone al violoncello proporranno il Trio per archi in mi bemolle maggiore op. 3 di Ludwig Van Beethoven e le Variazioni sul tema di Mosé di Gioachino Rossini, in un arrangiamento per trio d’archi di Andrea Damiano Cotti. Informazioni
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Miriam Rodriguez Brüllová sarà la solista per il Concierto de Aranjuez.
«Azione» in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietto omaggio per il concerto che si terrà sabato 19 ottobre alle 20.30 al Collegio Papio. Per partecipare seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
nuta disperazione che pervade l’intero album; come accade con It Wasn’t Easy to be Happy for You e in Leader of The Landslide, gradevoli brani ritmati che assumono presto i contorni di dolenti ballate intimiste, fotografie dell’atroce disillusione provata da Junior, tormentato e solitario figlio dell’instabile Jimmy. Questo senso di sotterranea, sottile disperazione si rivela in tutta la sua annichilente forza in pezzi dalla forza narrativa assoluta quali Left for Denver, Jimmy Sparks e, soprattutto, My Cell – perfetta espressione delle conseguenze a cui la devastazione interiore dei due personaggi infine conduce: brani misurati e taglienti in cui la caduta del ragazzo di un tempo, e di suo figlio dopo di lui, vengono narrate nel migliore stile crudo e conciso tipico della grande tradizione cantautorale americana. Così, nell’implacabile sciarada illustrata da III, ecco che il brano finale del disco, Salt and the Sea, non offre all’ascoltatore nessuna facile consolazione o lieto fine, anzi: il senso di ineluttabilità e tragicità quasi shakespeariane (quello che gli anglosassoni amano chiamare «impending doom») con cui l’album si conclude ci ricorda che, proprio come accade nella vita reale, non ci sarà mai nessuno disposto a salvare nessuno, e che l’unica possibilità di sopravvivenza risiederà quindi nella volontà personale – in una lotta spesso impari e senza speranza, ma che ognuno di noi è, sempre e comunque, condannato a combattere.
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Idee e acquisti per la settimana
Mattino a tutto bio
La colazione con cereali e yogurt è spesso dolce. Vi proponiamo un’alternativa fruttata e la ricetta per una nutriente e corroborante bowl. I cereali e yogurt bio questa settimana sono in azione, mentre sui latticini Migros-Bio ci sono stampini digitali e punti Cumulus supplementari Testo: Claudia Schmidt Foto & Styling: Claudia Linsi Ricette: Margaretha Junker Fiocchi d’avena integrali bio 500 g Fr. –.95 invece di 1.20
Flakes & Pops bio* 250 g Fr. 2.80 invece di 3.50
Semi di canapa decorticati bio* 200 g Fr. 4.45 invece di 5.60
Semi di lino macinati bio 400 g Fr. 2.35 invece di 2.95
Yogurt nature bio 180 g Fr. –.50 invece di –.65
Yogurt fragola bio 180 g Fr. –.60 invece di –.80
Yogurt alla greca ai lamponi bio* 150 g Fr. –.75 invece di –.95
Yogurt alla greca mandorle/miele bio* 150 g Fr. –.75 invece di –.95 *Nelle maggiori filiali
Azione 20% sugli yogurt bio (senza latte di pecora) e cereali per la colazione Migros-Bio fino al 14 ottobre
Bowl alle bacche con flakes & pops Ingredienti per 4 persone 4 cucchiai di fiocchi d’avena integrali 100 g di ribes rossi surgelati 1.5 banane mature 300 g di fragole surgelate 360 g di yogurt, ad es. alla fragola 60 g di Flakes & Pops (fiocchi e cereali soffiati) 2 cucchiai di semi di canapa Preparazione 1. Tostate i fiocchi d’avena in padella senza grassi finché si dorano poi metteteli da parte.
2. Per lo smoothie, mettete qualche ribes surgelato e qualche fetta di banana da parte per decorare. Mettete le bacche e la banana restanti in un recipiente alto, unite lo yogurt e frullate con un mixer. Versate lo smoothie nelle scodelle e guarnitelo con i ribes e le fette di banana messi da parte. Cospargete con i fiocchi d’avena tostati, i cereali soffiati con i fiocchi, i semi di canapa e servite subito.
Bowl di patata dolce e yogurt Ingredienti per 4 persone 3 cucchiai di semi di lino 400 g di patate dolci ½ cucchiaino di curry rosso in pasta 180 g di yogurt al naturale 1 barbabietola cotta piccola 1 avocado 50 g di chicchi di mais sale Preparazione 1. Scaldate il forno a 150 °C. Coprite i semi di lino a filo d’acqua e lasciateli in ammollo per ca. 10 minuti, fino
ad assorbimento del liquido. Distribuite i semi di lino su una teglia ricoperta con carta da forno, formate uno strato finissimo e fatelo essiccare al centro del forno per ca. 30 minuti. Sfornate i cracker e metteteli da parte. Lessate in poca acqua le patate con la buccia incoperchiate per ca. 20 minuti. Pelatele, schiacciatele con una forchetta o uno schiacciapatate. Mescolate il curry in pasta con lo yogurt. Incorporatene un po’ alla purea di patate dolci e regolate di sale. 2. Pelate la barbabietola e tagliatela a dadini. Dimezzate l’avocado, snocciolatelo
ed estraete la polpa dalla buccia con un cucchiaio. Scolate i chicchi di mais. Distribuite la purea di patate nelle scodelle e guarnite con le verdure e il resto dello yogurt. Sbriciolate un po’ di cracker di lino sulle patate e servite il resto a parte. I contadini bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, suolo e acqua.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
Mattino a tutto bio
La colazione con cereali e yogurt è spesso dolce. Vi proponiamo un’alternativa fruttata e la ricetta per una nutriente e corroborante bowl. I cereali e yogurt bio questa settimana sono in azione, mentre sui latticini Migros-Bio ci sono stampini digitali e punti Cumulus supplementari Testo: Claudia Schmidt Foto & Styling: Claudia Linsi Ricette: Margaretha Junker Fiocchi d’avena integrali bio 500 g Fr. –.95 invece di 1.20
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Bowl alle bacche con flakes & pops Ingredienti per 4 persone 4 cucchiai di fiocchi d’avena integrali 100 g di ribes rossi surgelati 1.5 banane mature 300 g di fragole surgelate 360 g di yogurt, ad es. alla fragola 60 g di Flakes & Pops (fiocchi e cereali soffiati) 2 cucchiai di semi di canapa Preparazione 1. Tostate i fiocchi d’avena in padella senza grassi finché si dorano poi metteteli da parte.
2. Per lo smoothie, mettete qualche ribes surgelato e qualche fetta di banana da parte per decorare. Mettete le bacche e la banana restanti in un recipiente alto, unite lo yogurt e frullate con un mixer. Versate lo smoothie nelle scodelle e guarnitelo con i ribes e le fette di banana messi da parte. Cospargete con i fiocchi d’avena tostati, i cereali soffiati con i fiocchi, i semi di canapa e servite subito.
Bowl di patata dolce e yogurt Ingredienti per 4 persone 3 cucchiai di semi di lino 400 g di patate dolci ½ cucchiaino di curry rosso in pasta 180 g di yogurt al naturale 1 barbabietola cotta piccola 1 avocado 50 g di chicchi di mais sale Preparazione 1. Scaldate il forno a 150 °C. Coprite i semi di lino a filo d’acqua e lasciateli in ammollo per ca. 10 minuti, fino
ad assorbimento del liquido. Distribuite i semi di lino su una teglia ricoperta con carta da forno, formate uno strato finissimo e fatelo essiccare al centro del forno per ca. 30 minuti. Sfornate i cracker e metteteli da parte. Lessate in poca acqua le patate con la buccia incoperchiate per ca. 20 minuti. Pelatele, schiacciatele con una forchetta o uno schiacciapatate. Mescolate il curry in pasta con lo yogurt. Incorporatene un po’ alla purea di patate dolci e regolate di sale. 2. Pelate la barbabietola e tagliatela a dadini. Dimezzate l’avocado, snocciolatelo
ed estraete la polpa dalla buccia con un cucchiaio. Scolate i chicchi di mais. Distribuite la purea di patate nelle scodelle e guarnite con le verdure e il resto dello yogurt. Sbriciolate un po’ di cracker di lino sulle patate e servite il resto a parte. I contadini bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, suolo e acqua.
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Cultura e Spettacoli
Destino, libertà e dignità
Musica B eethoven e Chopin protagonisti del concerto che andrà in scena al LAC il prossimo 17 ottobre
sotto la direzione del Maestro Poschner e con l’esecuzione del giovane pianista Benjamin Grosvenor Enrico Parola Il mondo musicale si prepara a celebrare nel 2020 i duecentocinquant’anni dalla nascita di Beethoven. Accanto ovviamente alle sinfonie e ai concerti, la ricorrenza regala occasioni per ascoltare pagine meno note o percorsi tematici desueti. È la scelta di Markus Poschner, che proprio con una memorabile Quinta quando ancora si suonava al Palazzo dei Congressi aveva stupito il pubblico luganese e creato quella sintonia con l’Orchestra della Svizzera Italiana che l’ha portato a diventarne direttore musicale; evidentemente il destino, quella volta, stava bussando alla porta della formazione ticinese e del maestro bavarese… Il destino, la libertà e la dignità umana sono i grandi ideali messi a tema da Beethoven nell’unica sua opera li-
Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti omaggio per l’Orchestra della Svizzera italiana diretta dal Maestro Markus Poschner e con l’esibizione di Benjamin Grosvenor che si terrà al LAC di Lugano il 17 ottobre 2019. Per partecipare basta seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
rica, il Fidelio, la cui ouverture apre il concerto che Poschner dirigerà il 17 al LAC; la seconda parte sarà tutta dedicata alle tre versioni precedentemente approntate per l’opera e poi successivamente scartate in favore di quella definitiva. Brani diversi fin dal titolo, dedicato all’eroina del dramma, Leonore. Se la prima versione della Leonore venne sostituita da una seconda prima ancora che l’opera venisse rappresentata nel 1805, Beethoven volle metterci ancor mano dilatandola e arricchendola ulteriormente; l’esito, catalogato come Leonore n. 3, fu un autentico capolavoro, ma allo stesso tempo un brano fin troppo ampio per essere un’ouverture teatrale. Fu così che nel 1814 il compositore approntò un nuovo brano, più conciso e dal carattere più brillante; ma la Leonore n. 3 è di una tale bellezza che già Bulow e Mahler scelsero di reinserirla all’interno dell’opera, tra il primo e il secondo quadro dell’atto secondo. La scelta di Poschner offre a musicologi ed eruditi un’occasione rara di confronto e quindi di riflessione sul percorso compositivo beethoveniano, ma guarda anche a un pubblico più ampio perché i ripensamenti raccontano di un aspetto cardinale dello spirito del compositore. Un grande interprete come Daniel Barenboim sostiene che Beethoven non è mai facile perché non è mai superficiale: usa ogni sua nota per comunicare un messaggio che ha l’ambizione di avere un grande valore per tutta l’umanità. Ricordando una Nona sinfonia portata
Il pianista britannico Benjamin Grosvenor.
col coro e l’orchestra della Scala in una città africana dove non c’era mai stato un concerto di musica classica, confessa di quanto l’avesse colpito il commento di uno spettatore: «Non capisco bene questa musica, ma si capisce che l’autore sta dicendo qualcosa di tremendamente serio e importante». Come gli oltre cinquanta abbozzi che scarabocchiò e poi cancellò per trovare le prime quattro note della quinta sinfonia («le quattro note più famose della storia musicale» le definiva Leonard Bernstein), queste tre ouverture sono dunque una testimonianza sorprendente dell’inesausto anelito di Be-
ethoven verso l’assoluto e la sua traduzione musicale. Nel mezzo non passa certo inosservato il Primo Concerto di Chopin, che porta al LAC il fresco talento di Benjamin Grosvenor, pianista britannico che ha trascorso sedici dei suoi ventisette anni di vita sui palchi più prestigiosi. A 11 anni vinceva il concorso BBC, è stato il più giovane debuttante ai mitici Proms di Londra, ma lui non si è mai considerato un enfant prodige: «Non è falsa modestia, davvero non sono stato uno di quei geni che a sei anni suonano già Beethoven o Chopin: mia madre mi mise al pianoforte quando avevo cin-
que anni, ma mi interessava davvero poco» ricorda. «Fu a scuola che decisi di applicarmi: alcuni miei compagni suonavano, volevo dimostrare di poter essere migliore di loro». L’intuizione avvenne proprio con Chopin: «A 8 anni stavo suonando il Notturno in re bemolle maggiore; mia madre, fino a quel momento la mia unica insegnante, percepì una maturità insolita e decise di affidarmi ad altri maestri». Da allora ha bruciato le tappe; «uno dei primi grandi momenti è stato proprio col Primo Concerto di Chopin, quando l’ho portato in tournée con Boreyko e l’orchestra Euskadi». E ora a Lugano. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Il teatro e la settima arte in una dimensione contemporanea In scena Grazie al Festival Internazionale del Teatro è stato possibile confrontarsi con modalità espressive
nuove e rivoluzionarie, che collocano quest’arte in un limbo permeabile alle nuove influenze Un buon organizzatore di rassegne si rimbocca le maniche al termine della manifestazione per costruire quella successiva, ben sapendo che la difficoltà sta nel saper cogliere, o addirittura anticipare, gli umori di ciò che potrà rendere originale l’occasione subodorando le novità. La riflessione accompagna la 28esima edizione del FIT, il Festival Internazionale del Teatro in scena a Lugano, a fronte di spettacoli che trasmettono conferme e informazioni sui cambiamenti in atto non solo nel linguaggio teatrale contemporaneo ma anche in una prospettiva della fruizione del pubblico. Sono segnali chiari, presenti in diversi spettacoli da cui non si può prescindere. Stiamo infatti assistendo a un rito di passaggio, a un cambiamento generazionale dove il teatro, quello che si manifesta nelle sale di fronte a un pubblico, sta modificando i suoi parametri lasciando sempre più il posto alla tecnologia, alle immagini, a storie che rimbalzano sul pubblico stimolando i neuroni a specchio. Da fenomeno sporadico, oggi si sta trasformando in un paradigma attraverso il quale riconoscere le nuove tendenze. Il FIT l’aveva già evidenziato nelle passate edizioni. In quest’ultima si è insistito di più con appuntamenti per i quali non c’è differenza fra lo star seduti davanti a
uno schermo o di fronte a un palco. Bisogna cominciare a fare i conti con nuove regole, nuovi spazi, fisici e mentali, nuove logiche comunicative, nuovi rapporti fra empatia teatrale ed emozioni visive messi in dialogo con la settima arte. Un cinema dunque che si fa occhio neutrale e strumento di un racconto dove la drammaturgia teatrale ha un ruolo essenziale. Prendiamo ad esempio la sequenza creata con tre appuntamenti in cui questo teorema si rende evidente: Granma del collettivo Rimini Protokoll, The Congo Tribunal di Milo Rau e Teatro de Guerra di Lola Arias. Una trilogia cinematografica dove il tema fondamentale è la rilettura della Storia, ora attraverso il racconto fra gli ottoni dei nipotini della rivoluzione castrista, ora nell’inscenare un dibattimento processuale sui misfatti di una guerra civile amministrata da interessi di multinazionali dello sfruttamento, infine nel confronto fra veterani di parti avverse nella guerra per la conquista delle Falkland intesa come una sensibile metafora generazionale. Tre aspetti di un processo articolato legato alla memoria in cui riaffiora la determinante importanza di microstorie che permettono allo spettatore di proiettarsi in dimensioni private avvolte da senso comune, che mescolano colpe e accadimenti, inevitabili destini e arroganza del potere, la logica della violenza collettiva e l’individuo
abbandonato alle sue sofferenze. Un aspetto apparentemente privato che diventa fortemente soggetto di confronto pubblico, fra pagine di storie vissute e ancora in cerca di giustizia e verità. Teorie in movimento fra parola e gesti
Tutto è teatro, ci ricorda il FIT, a dispetto delle convenzioni ma in una prospettiva in cui si situano momenti ancora fortemente legati al palcoscenico, in sintonia con la contemporaneità, quella che guarda avanti e si fa intendere con modalità espressive, per certi versi, ancora tradizionali. Come per il monologo R.L. di Roberta Bosetti proposto in prima internazionale dalla compagnia Cuocolo/Bosetti IRAA Theater e tratto da un racconto del Nobel canadese Alice Munro. Un’ora di incalzante fascino narrativo dove la parola è liberata in una trama di suoni e rilievi diffusi in audioguide e accompagnati dalla proiezione di cartoline, radicali liberi di una quotidianità casalinga disarmante. La Bosetti è bravissima, la sua voce calda, tenue e modulata diventa lo storyboard di una fragilità intima e indifesa. Restiamo in zona linguaggi per esplorare brevemente anche l’originale e densa performance di Yasmine Hugonnet, in scena sul palco del LAC con Audrey Gaisan Doncel et Ruth Childscon per il suo CHRO NO LO GI CAL. La sillabazione del titolo già la dice
Roberta Bosetti ha presentato il monologo R.L..
lunga su un percorso tematico in cui la gestualità è parte di una dimensione minimalista, quasi criptica. Il progetto della danzatrice e coreografa svizzera è un’ulteriore tappa della sua ricerca coreografica. In questo spettacolo lo fa con scomposizioni scultoree del movimento, nella lentezza di segni ricercati,
nati dai suoni di una lingua gutturale, a bocca socchiusa e senza labialità, accanto a una sinfonia corale di sillabe che diventano preludio coreografico allusivo elisabettiano, un viaggio interiore e spirituale nel tempo: posture ironiche, perfette, fino alla nuda espressività di corpi immobili allineati sul palcoscenico. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Benessere a prezzi bassi Sina Sommerhalder (a sinistra) trascorre una rilassante giornata di benessere in giardino, dove assieme a un’amica prova alcuni nuovi prodotti di bellezza. «Per me questo è rilassamento puro», racconta la Manager di marketing online del distretto di Affoltern, Zurigo. Nella cura quotidiana è per lei particolarmente importante l’uso di una lozione idratante per il corpo e per il viso. È contenta che siano stati ridotti i prezzi anche nell’assortimento beauty di Migros.
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Idee e acquisti per la settimana
Benessere a prezzi bassi Sina Sommerhalder (a sinistra) trascorre una rilassante giornata di benessere in giardino, dove assieme a un’amica prova alcuni nuovi prodotti di bellezza. «Per me questo è rilassamento puro», racconta la Manager di marketing online del distretto di Affoltern, Zurigo. Nella cura quotidiana è per lei particolarmente importante l’uso di una lozione idratante per il corpo e per il viso. È contenta che siano stati ridotti i prezzi anche nell’assortimento beauty di Migros.
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Cultura e Spettacoli
Uno sguardo sensibile
Cose strane alla terza stagione
discipline: partendo dall’architettura si arriva all’arte, al design e alla filosofia
Netflix Un perfetto
Incontri Licia Lamanuzzi propone una riflessione sul territorio che abbraccia numerose
Simona Sala Nella sua rubrica «Diario dell’architetto» («archi», ottobre 2017) il compianto architetto ticinese Paolo Fumagalli tesse le lodi di Licia Lamanuzzi, architetto di origini pugliesi residente da anni in Ticino, che mette il proprio know how al servizio della cittadinanza, offrendo un workshop annuale per gli studenti, cui si accompagnano conferenze pubbliche con esperti di estetica, territorio, e arte, oltre che ovviamente di architettura. Le iniziative di Lamanuzzi nascono dall’encomiabile desiderio di offrire a tutti gli interessati la possibilità di leggere il territorio con occhi più consapevoli, e in un secondo momento, di riflettere sui potenziali cambiamenti operabili sul paesaggio che appartiene alla nostra quotidianità. A pochi giorni dall’inizio della quinta edizione del workshop di progettazione urbana, l’abbiamo incontrata per capire quali sono gli intenti e le peculiarità dell’imminente appuntamento innestato nel territorio più di ogni altro. A chi si rivolge il workshop di progettazione urbana? Può offrire spunti anche a chi proviene da discipline lontane dall’architettura?
Sì, perché il nostro workshop si rivolge fondamentalmente alla cittadinanza, nel tentativo di stabilire un contatto e poi una relazione con essa. Ci focalizziamo sul territorio e sulla qualità degli spazi di vita, ma partendo dalla convinzione che tutti i piccoli interventi disseminati nelle nostre città per risanare determinate situazioni – soprattutto dal punto di vista della sicurezza e del traffico – possano essere delle occasioni per migliorare gli spazi, rendendoli più attrattivi e più facilmente abitabili. Vorremmo che l’opinione pubblica acquisisse maggiore coscienza e partecipazione circa la possibilità di restituire la città alla dimensione umana. Ma per fare ciò è importante recuperare il senso di convivialità e l’orgoglio di appartenere a un luogo, valori che paiono oggi assenti.
Quali sono stati i criteri di scelta degli ospiti delle conferenze?
Grazie al taglio trasversale degli interventi, abbiamo la possibilità di confrontarci con situazioni legate allo spazio pubblico, sia relativamente a una riflessione più teorica, che abbracci anche l’ambito sociologico, che a una più prettamente progettuale che riguardi la realizzazione. Se l’architetto Cavadini ci mostrerà alcuni suoi interventi capaci di trasformare e svelare la peculiarità dei luoghi in cui opera, Domenico Potenza ci parlerà del caso di Lubiana, dove tutti gli interventi sono stati affidati a un unico progettista che ha cambiato volto alla città, migliorandone la qualità. Benedetto Antonini invece, che è vice presidente della Stan, parlerà del rapporto tra la città contemporanea e la preesistenza, mentre gli architetti Moor e Buzzi permetteranno, con le critiche finali ai progetti degli studenti, di dare continuità all’esperienza, proiettandola verso il futuro. Sarà dato inoltre spazio a designer, paesaggisti, filosofi e artisti. Quest’anno le conferenze saranno alla Filanda, nuovo epicentro culturale del Mendrisiotto: una prova dell’apertura ad altre discipline?
Certo, il nostro obiettivo infatti non è quello di fare scuola, né tanto meno, con le proposte progettuali dei partecipanti all’atelier, dare risposte definitive, ma di sollecitare la sensibilità dei cittadini affinché comprendano che la maggior parte del destino delle città è anche nelle loro mani. La manifestazione infatti vuole focalizzarsi sull’ascolto della cittadinanza anche attraverso la rilettura dei luoghi, interpretando così le esigenze della città. A Mendrisio stiamo lavorando all’installazione site specific di un artista, il cui obiettivo è di portare delle piccole modifiche sul territorio per spingere la cittadinanza alla riflessione. Anche questa potrebbe essere un’ottima occasione per confrontarsi e capire che l’architettura deve tornare a parlare di noi, non può infatti continuare a parlare di cristalli nel deserto se vogliamo migliorarne la vivibilità. Faccio un esempio: le strade urbane non possono
Alessandro Panelli
Un modo di inquadrare il paesaggio, Rovio 2017. (Giada Bianchi)
più essere solo strade, ma luoghi che devono accogliere anche il pedone. Non si deve pensare solo in termini di sicurezza, ma affiancare all’ingegnere del traffico, che certamente dà le direttive, anche un architetto o un paesaggista che abbia una visione più complessiva dell’abitare un luogo. È dunque necessario affidare le idee e le visioni dei cittadini a professionisti con un background culturale e in possesso di una visione retroattiva.
Confrontarsi con quanto è stato scritto attraverso il sedimentato nella città è certamente il primo passo per continuare il cammino di trasformazione della città. Partire dalla storia, dalle tracce scritte nei luoghi non significa congelare, ma anzi farla rivivere ricollocandola all’interno della nuova dinamica urbana. E affinché lo spazio pubblico abbia qualità, è necessario assegnarne la tutela, la cura e la progettualità ad addetti ai lavori dotati di sensibilità e magari scelti attraverso formule di confronto.
In tempi recenti abbiamo assistito a diverse prese di posizione politiche riguardo al territorio, da chi lancia l’idea della spiaggia a Lugano a chi
si batte per salvare gli alberi a Bellinzona, senza dimenticare realtà come Cittadini per il territorio...
È cresciuta certamente la sensibilità, ne sono testimonianza le manifestazioni per la tutela del nostro pianeta. C’è una maggiore attenzione a riconsiderare il territorio un bene comune per il quale è necessario spendere il nostro impegno. In quest’ottica diventa importante recuperare il senso comune di appartenenza a un luogo, ma anche il valore civico del nostro mestiere di architetto. Mi rifaccio al carissimo collega Paolo Fumagalli: noi per primi siamo chiamati a fare qualcosa per migliorare le nostre città e questa iniziativa potrebbe essere una risposta alla volontà di mettersi in marcia per un cambiamento. Se permettiamo alla gente di porsi delle domande e di esprimere la propria opinione per modificare un luogo o per far sì che quel luogo lo senta proprio, avremo posto un altro mattone a beneficio della democrazia. Workshop di progettazione urbana, 7-12 ottobre 2019, Mendrisio, La Filanda. www.architettolamanuzzi. com/eventi/wpu-ottobre-2019
Mostre Il Festival dei diritti umani presenta un progetto fotografico di Davide Vignati
Senza casa. Senza terra. Senza un posto a cui tornare: se i protagonisti delle fotografie di Landless, mostra realizzata nell’ambito del Film Festival dei diritti umani, potessero parlare, il loro racconto sarebbe drammaticamente sempre lo stesso. A consegnarci questa testimonianza di disperazione, frutto di esperienze in Africa, Asia e Medio Oriente, è Davide Vignati, attivo da oltre quindici anni nel campo dei diritti umani e dell’aiuto umanitario, attualmente impiegato alla Direzione dello sviluppo e della cooperazione svizzera. Come spiega Vignati, Landless non è solo una mostra fotografica, ma un progetto di più ampio respiro, destinato a toccare numerose tappe (prossimamente si sposterà a Ginevra e poi a Varese) per le quali saranno selezionate di volta in volta delle fotografie diverse. Abbiamo chiesto a Vignati quali due foto sceglierebbe fra quelle esposte fino al 20 ottobre a Lugano. Il soldato che dorme
«Questa fotografia è stata scattata nel 2016 a Mambij, nel nord della Siria, vicino al confine con la Turchia. È
una delle poche che ho fatto in ambito non umanitario, avevo infatti preso un congedo per realizzare un documentario sulla Siria. I guerriglieri curdi siriani con cui mi trovavo stavano cercando di fare retrocedere l’Isis, in quel momento ancora forte. Avevano paura, e allora cercavano di farsi coraggio l’uno con l’altro e ballavano intorno al fuoco. Se si guarda bene il volto del combattente, si ha quasi l’impressione che stia sorridendo, oppure sognando, ed è una situazione paradossale, perché dall’altra parte del muretto ai cui piedi sta dormendo, c’è il fronte con gli sniper dell’Isis. Noi stavamo accovacciati, era pericoloso, ma il fatto che il combattente trovasse il sonno, e forse facesse anche dei sogni felici, mi
ha mostrato che la guerra non l’aveva disumanizzato. Era un essere umano come tutti». Una madre e due bambini
«L’immagine risale al 2006, ed è stata fatta nel sud est del Congo, dove mi trovavo con il Comitato internazionale della Croce Rossa. C’erano dei problemi a causa del gruppo armato dei Mai-Mai, che vive di commerci illegali e avanza rivendicazioni territoriali. Come succede spesso ai gruppi che vogliono l’indipendenza, alla fine si è trasformato in un gruppo criminale. La famiglia ritratta in fotografia è sopravvissuta a un raid dei Mai-Mai, ancora oggi un flagello per quest’area del Congo. La foto mi piace perché sembra un quadro del Mantegna. La donna sta spidocchiando un bambino mentre l’altro piange disperato, accanto a loro c’è un secchio vuoto: un’immagine di grande povertà e desolazione. Rispetto a quella precedente, questa foto non trasmette alcuna speranza, e purtroppo rispecchia ancora la situazione del Congo, dove in questi tredici anni non è cambiato nulla, anzi. Se pensiamo all’Isis invece, ne abbiamo visto la sconfitta. In virtù del mio lavoro mi ritrovo quasi sempre a ridosso dei
La serie pop per eccellenza, ambientata nei gloriosi anni 80 e piena di riferimenti a opere del passato, torna a far parlare di sé con la terza stagione. Ormai sappiamo tutti quanto la formula usata dai Duffer Brothers sia di successo, passando da momenti comici ed esilaranti, ad altri di paura e terrore, dall’azione al dramma. Stranger Things è intrattenimento assicurato, ma per quanto ancora questa versatilità continuerà a conquistare il cuore degli spettatori? Rispetto alla seconda stagione, questa presenta una storia più ispirata e personaggi meglio delineati, contestualizzati e profondi. D’altronde prima di guardare questa serie bisogna partire con i giusti «presupposti»: è necessario chiudere un occhio su molti aspetti riguardanti lo sviluppo degli eventi, talvolta poco reali, e sulle coincidenze, sempre dietro l’angolo. Non aspettatevi qualcosa di originale: Stranger Things ha successo perché è stata in grado di convogliare i migliori elementi da molti film e serie tv passate e non perché si tratta di qualcosa di nuovo. Molte scene sono stereotipate, come pure i personaggi e le battute, che non sempre colpiscono come dovrebbero. La struttura narrativa è spesso condita da cliché alla lunga fastidiosi. Nonostante queste premesse, i Duffer Brothers hanno creato un prodotto valido, a partire dalla scenografia, sempre iconica. Anche la fotografia è di valore, ricca com’è di cinematiche dinamiche e mozzafiato e di colori anche
Dove e quando
L’archivio della disperazione Ida Moresco
fenomeno pop che fa strage di cuori
conflitti, quindi queste fotografie sono state scattate durante dei momenti di pausa, prima o dopo una crisi bellica. Il mio desiderio è che attraverso le fotografie in mostra qualcuno si interessi a questo lavoro, poiché sempre meno gente desidera fare l’operatore umanitario». Dove e quando
Landless, fotografie di Davide Vignati, Lugano, Centro Past. S. Giuseppe (Via Cantonale 2a, suonare il campanello). Fino al 20 ottobre 2019. www. festivaldirittiumani.ch In collaborazione con
Qualche giorno fa è stata annunciata la quarta stagione della serie. (youtube)
molto saturati e azzeccati che riescono a delineare bene i personaggi e l’ambiente circostante. Il problema di Stranger Things è la struttura narrativa, praticamente invariata ormai da tre stagioni: c’è una minaccia e qualcuno se ne accorge ma non viene creduto, finché essa non si manifesta anche alla popolazione. A quel punto è compito dei protagonisti (i ragazzini, Undici, Joyce e Hopper) combatterla, al costo della vita di un personaggio che ci sta a cuore. Onestamente auspichiamo che Stranger Things si fermi alla quarta stagione così da concludere degnamente la storia, implementando un’altra impostazione narrativa che possa dare ossigeno e magari permettere di trovare un’identità più rilevante all’interno del mondo delle serie TV. Stranger Things 3 è oggettivamente una bella stagione, poiché è completa e sul finale offre anche qualche piacevole sorpresa. Inoltre la visione risulta fluida, dinamica e divertente e rispetto alle prime due stagioni ha acquisito più coraggio nel mostrare le scene crude. Ciò nonostante rimane all’ombra delle grandi opere televisive di questi anni. I Duffer Brothers riescono nuovamente a creare un fenomeno pop perfetto per lo spettatore medio che senza troppe ambizioni vuole godersi una piacevole e avvincente avventura.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Tu chiamale se vuoi... presentazioni Non c’è evento culturale in Italia che, giustamente, non programmi un evento in carcere, alla presenza di detenuti e di spettatori venuti da fuori. Festival di Mantova, ore 16 di giovedì 5 settembre: la Casa Circondariale ospita l’evento «L’umanità è come il vento, non si chiude in una scatola» per presentare il libro Vento in scatola di Glay Ghammouri e Marco Malvaldi, frutto dell’incontro fra i due autori durante un corso di scrittura creativa tenuto da Malvaldi in un carcere della Toscana. I cento biglietti sono andati venduti e quando si è trattato di accogliere i numerosi detenuti che desideravano assistere all’evento, i responsabili del carcere si sono mostrati molto preoccupati. Alla domanda sul perché lo fossero, la risposta è stata lapidaria: «Così non ci sono vie di fuga». Contro obiezione: «Non è vanto di un carcere non presentare vie di fuga?». Al festival, in prossimità di ogni evento, si formano due file di spettatori: la prima è formata da coloro
che sono già in possesso del biglietto di ingresso e la seconda da coloro che devono acquistarlo. Giovedì 5 settembre, poco prima delle 16, è arrivata la mamma di un carcerato per sfruttare il suo turno di visita. Lei, senza chiedere nulla a nessuno, si è accodata nella seconda fila e, quando è stato il suo turno, ha sborsato i sei euro del biglietto. Senza protestare. Però era indignata per il punto di esosità in cui si è arrivati in un paese dove, pur di fare soldi, si fa pagare un biglietto d’ingresso a coloro che sentono il dovere di andare a far visita ai detenuti. Gli spettatori venuti da fuori hanno dovuto sottostare alle rigide regole e, varcando la soglia del carcere, hanno depositato in appositi contenitori, sorvegliati a vista dalle guardie, chiavi, telefoni, strumenti elettronici, portafogli. Anche qui, come nelle altre sedi del festival, alla presentazione del libro è seguita la cerimonia della firma con dedica degli autori sulla pagina bianca che precede il frontespizio inter-
no. Previo acquisto del libro, ovviamente, presso il banchetto allestito dal libraio. «Ma come facciamo a pagarlo se abbiamo dovuto depositare il portafogli all’ingresso?». Non c’è nessun problema, è stata la risposta degli organizzatori, prendete pure il libro, fatevelo pure dedicare, lo pagate poi, all’uscita dal carcere. Al termine dell’evento, si tirano le somme e si scopre che manca all’appello una copia del libro. Chi l’ha presa? Si fa presto a scoprirlo, è stato un detenuto che ha preso in parola l’annuncio. Ha preso una copia del libro, se l’è fatta dedicare e ha dichiarato che la pagherà all’uscita, fra tre anni, quando avrà finito di scontare la pena e uscirà dal carcere. Possiamo dire che, grazie al diffondersi dei festival culturali, la cerimonia di presentazione di un libro ha assunto spessore e dignità di un nuovo genere di intrattenimento e sarebbe ora di iniziare a recensirlo come si fa con gli altri generi di spettacolo. Al fianco della classifica delle vendite andrebbe messa
la classifica del numero di presentazioni che per alcuni, me compreso, superano il numero di cento. Venerdì 13 settembre alle ore 20.45, al festival «Florinas in giallo» (siamo in provincia di Sassari), Maurizio De Giovanni ha presentato Dodici rose a settembre, edito da Sellerio, intervistato da Enrico Pandiani. Ne è derivata un’ora di spasso totale, a cui ha fatto seguito una lunga fila di acquirenti del libro. Per dare inizio alla seconda parte dell’evento, la cerimonia della dedica. Quasi sempre eternata da una fotografia scattata con il cellulare, o da un amico o parente dell’acquirente o sotto forma di selfie. Con un effetto promozionale di prim’ordine: quello scatto verrà ipso facto inviato a tutti i numeri in memoria del cellulare, per far sapere «guarda dove e con chi sono». I corrispondenti dell’acquirente verranno così a conoscenza del fatto che l’autore ripreso ha pubblicato un nuovo libro e già farlo sapere è un bel risultato. Per gli scrittori bravi ma timidi e restii
ad esibirsi in pubblico la vita diventa sempre più dura. A me piace fare la ruota su un palco ed eludere o aggirare le domande dell’intervistatore di turno, al punto che lo stimolo più forte a scrivere un libro mi deriva dalla speranza di essere invitato a presentarlo. Se poi l’evento è preceduto o seguito da una cena con prodotti locali è ancora meglio. Al vertice del mio gradimento si trovano i piccoli centri, dove chi vuole assistere non deve prendere l’auto e trovare un parcheggio a pagamento. Se poi tutto il processo è messo in moto da un locale gruppo di lettura nel quale i soci nelle settimane precedenti si sono impegnati a leggere il libro, si sfiora la perfezione. Le presentazioni nei circoli, tipo Rotary o Lyons, non sono male. Il presidente del circolo, per non fare brutta figura con l’autore, ha fatto pressione sui soci affinché acquistassero il libro, che porteranno a casa senza trovare il tempo di leggerlo. Lo farà la colf rumena e ne diffonderà la fama fra le colleghe.
politico, non ha nulla di religioso, a noi – faticosamente in cerca di separazioni senza interventi tra la religione e la vita militare e politica, a noi scandalizza. Eppure fu profonda la rivoluzione culturale messa in atto da un uomo vissuto 56 anni, sfuggito fin dalla nascita (nella piazza di Jesi, durante il viaggio della madre per raggiungere il padre, Enrico VI) a complotti omicidi, cresciuto orfano a Palermo, dove si racconta che fuggisse dal palazzo reale per mescolarsi ai ragazzini arabi, ebrei, normanni, greci, latini. Preso il potere, maggiorenne a sedici anni, la sua vita è tutta tesa a salvare entrambi i suoi regni, quello di Svevia, lassù, e quello di Sicilia (comprendente in realtà anche Puglia, Basilicata, Calabria e la parte sud della Campania). Mai fermi i suoi nemici, il Papato e i principi del nord, quella che spicca è la personalità di un uomo deciso nelle idee politiche, attento a ogni forma di bellezza e novità, che nacque pretendente di tante corone e tutte le ottenne. Con Federico nasce e
cresce la prima poesia italiana, l’architettura si lancia in imprese che ancora piacciono e stupiscono: ogni città o cittadina dovevano avere una chiesa – e tante ne rimangono nel sud Italia – e un castello, virtuale residenza di Federico, che avrebbe potuto in ogni momento decidere di fermarsi in un posto o un altro, quindi un maniero come icona dell’onnipresenza del signore. Castel del Monte, pur depredato e ormai quasi privo di orpelli, lascia senza fiato e suscita ancora oggi mille ipotesi sul significato dell’ottagono con torri ottagonali. Influenza della mistica islamica? Forse. Perché il più importante aspetto della cultura di una corte itinerante, come quella di Carlo Magno, quella del padrone che controlla senza preavviso l’agire dei suoi uomini, ecco, la cultura di quella corte parla molte lingue. Che non si sovrappongono, non si zittiscono a vicenda, ma conoscono una certa libertà di convivenza: i mosaici dei palazzi
sono creati da manovalanza araba, come anche molte architetture. Ed è inutile che noi schizzinosi ricordiamo e deploriamo l’isolamento abitativo di ebrei e islamici, il loro dovere di avere sull’abito un segno di riconoscimento (una fusciacca per l’Islam, prima un mantello celeste, poi un cerchio rosso per gli ebrei), la disparità nella tassazione, sempre meno pesante per i cristiani. Parliamo del XIII secolo, ancora tempo di crociate e di battaglie contro i saraceni a suon di rapimenti, che chiedevano – da entrambe le parti - un riscatto per i prigionieri ricchi, e vendevano come schiavi tutti gli altri. In questa bella atmosfera il sud Italia non cacciava nessuno, chiedeva a tutti una collaborazione nelle arti, nelle guerre, nella politica. Oggi esistono ancora i ghetti, non più per gli ebrei, ma solo da una cinquantina d’anni. Oggi guardiamo al colore della pelle, all’accento, al taglio degli occhi prima di dar retta a un altro umano. E sono passati quasi otto secoli.
che gli arbitri hanno la loro responsabilità: potrebbero interrompere le partite ma lo fanno molto raramente (2½). Sono temi che si ripropongono periodicamente e a cui non si trova soluzione: uno dei sette peccati capitali del giornalismo attuale, hanno scritto di recente Maximilian Probst e Daniel Pelletier sulla rivista letteraria austriaca «Wespennest», è il falso dibattito. Lo dicevano a proposito del clima, ma vale un po’ per tutto. Per esempio sul razzismo, sulla pelle normale, cioè di non colore, e su quella non normale, cioè di colore. Tutto va (falsamente) dibattuto. Altro dibattito ciclico (arriva sempre, puntuale, ad apertura di scuole), in Italia, è il seguente: è giusto rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche? «Deve rimanere», dice oggi, dirà domani, ha detto l’anno scorso, disse vent’anni fa qualcuno, perché «è la nostra identità», «è la nostra tradizione cristiana», «è il simbolo della nostra cultura». «Non deve rimanere», dice, dirà, ha detto, disse qualcun altro, perché «nega la
nostra laicità», «discrimina le altre religioni», «è contro la Costituzione», «è segno di chiusura»… Ci sono giornali che hanno aperto il sondaggio on line: crocifisso sì o crocifisso no? Pensare che duemila anni fa un sondaggio (di Pilato) condannò Gesù alla crocifissione e oggi un sondaggio (quanti pilati digitali!) vorrebbe decidere ancora la sua sorte, ha qualcosa di beffardo (1½ all’iniziativa). Comunque, vince il sì sui giornali cattolici e sui giornali di destra e il no sui giornali di sinistra. Il nì nei giornali non schierati né a destra né a sinistra. Dunque? «Il crocifisso può attendere», ha dichiarato il ministro dell’Istruzione dopo aver sollevato la questione proponendo imprudentemente di sostituire la croce con un mappamondo. I terrapiattisti, però, si oppongono fieramente e al mappamondo preferirebbero una cartina (rigorosamente piatta), ma la cartina (piatta) discrimina gli altri popoli, perché metterebbe al centro l’Europa, mentre il Vecchio continente è al centro sì, ma solo per noi, essendo
periferico per i giapponesi, per i cinesi e per i mongoli. Allora, come se ne esce? Non se ne esce. Mattia Feltri, che sulla «Stampa» tiene una rubrica quotidiana in prima pagina («Buongiorno», 5½ meritato), la scorsa settimana chiudeva un suo articolo sul tema scottante del crocifisso ricordando che la «meravigliosa» Natalia Ginzburg nello scorso millennio concludeva un articolo sullo stesso tema scottante dicendo che in tutto il fracasso di accese e scottanti discussioni sul crocifisso sì o no che cosa faceva il crocefisso? «Il crocefisso sta lì e tace», scriveva. E tace ancora oggi, povero Gesù Cristo. Ma il suo silenzio, nel fracasso generale, il silenzio di buonsenso diventa arma contundente rivoluzionaria. Quello stesso silenzio che Carola Rackete (vi ricordate la comandante di SeaWatch?) ha sbattuto in faccia a chi le chiedeva che cosa direbbe a Salvini se se lo trovasse davanti: «Niente», ha risposto, «non voglio rispondere alle parole di Salvini» (6).
Postille filosofiche di Maria Bettetini Il sud che era di tutti Sto seguendo una tesi magistrale sulla presenza dell’arte islamica a Palermo. In verità, ne stiamo constatando la quasi assenza. La Zisa con lo splendido giardino da poco ristrutturato, la Porta Felice, il segno di maestranze arabe nei mosaici delle Stanze di Palazzo dei Normanni. I Normanni: tutto è appunto arabo-normanno, segno del desiderio di inglobare una cultura nell’altra, e non sempre
pacificamente. Eppure fu proprio un «uomo del nord» a ottenere in Sicilia una relativamente serena convivenza tra cristiani, ebrei, islamici, bizantini. Federico viene ricordato solo come eresiarca, capo di un gruppo di eretici. Così come in vita fu scomunicato due volte, e a nulla valse la sua incruenta crociata che riscattò Gerusalemme. Il rapporto con il Papato è squisitamente
Il suggestivo Castel del Monte, in Puglia. (Wikipedia)
Voti d’aria di Paolo Di Stefano I pilati digitali Solo ai sedicenni? Bisognerebbe dare il voto ai tredicenni. Perché a giudicare da certi adulti i tredicenni sono ben più maturi. Più maturi dei loro padri e delle loro madri. Diamo il voto ai tredicenni e togliamo il voto ai loro genitori e ai loro nonni che, per dirne una (ma solo una delle tante), hanno rovinato il pianeta e l’hanno consegnato distrutto, malato, moribondo ai loro figli e ai loro nipoti. Togliamo la patente ai cinquantenni: l’altra mattina ne ho visto uno che stava seduto sul suo Suv acceso, fermo a un parcheggio, a guardare il cellulare. Avrei avuto voglia di dirgli di spegnere il motore ma mi è mancato il coraggio di bussare al finestrino, l’ho solo guardato un po’ storto passando. È vero che ci sono dodicenni che se ne fregano della luce accesa in corridoio, ma è anche vero che ci sono quarantenni che buttano la cicca dal finestrino dell’auto in corsa. E comunque tra i tredicenni che, magari ingenuamente, vanno a manifestare con Greta e i cinquantenni che stanno a casa a criticarli, preferi-
sco i primi (voto d’aria 5+). Diamo il voto (d’aria e non d’aria) ai dodicenni e riduciamo l’impatto elettorale dei loro genitori, visto che molti di questi, a quanto pare, sono analfabeti di ritorno: cioè, anche se hanno studiato, hanno disimparato a leggere e a scrivere, non aprono mai un libro, non sanno cosa sia un giornale. E spesso non si rendono conto di quel che dicono. Un esempio? Claudio Lotito, imprenditore e presidente della Lazio, ha commentato alcuni provvedimenti della Federazione calcio sui cori razzisti negli stadi dicendo che quando lui era giovane i «buuuuu» erano rivolti anche alle «persone di non colore, che avevano la pelle normale, bianca e non di colore» (1). Pelle normale? Di non colore? Anche Lotito è una persona di non colore, dunque: buuuuuu! Dovrebbe sapere che se i cori razzisti imperversano negli stadi italiani, la colpa è dei club che avrebbero la possibilità di individuare i tifosi-bestia di non colore e di bandirli dagli stadi (ma non lo fanno: 2!). E an-
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3.10 Fagiolini piattoni Marocco, busta, 500 g
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