Persone speciali nel capolavoro Atlus a pag.014
CONTENTS
http://bab3l.splinder.com
BABEL
PN03
REDAZIONE alvise “kintor” salice cristiano “amano76” ghigi federico res giovanni “giocattolamer” donda marco “il pupazzo gnawd” barbero michele “guren no kishi” zanetti michele “macca” iurlaro tommaso “gatsu” de benetti vincenzo “vitoiuvara” aversa HANNO COLLABORATO giacomo “gunny” talamini simone “karat45” tagliaferri
012
METAL GEAR SOLID 4 E ADESSO VOGLIAMO ZOE3
BABEL 002
estate 2008
IGNITION Racism inside? 003 UNDERRATED Second Sight 024
020
M A N A K H E M I A GLI ALCHIMISTI DI GUST
FRAME Arte Definitiva 008
REVIEW Metal Gear Solid 4 012 Rock Band 018 Mana Khemia 020 Alone in the Dark 5 022 Wii Fit 016 Persona 3 FES 014 DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
COPYRIGHT 2007/2008 Babel Edizioni
Babel è un magazine gratuito. Può essere letto, stampato, prestato a cugini e parenti o inviato via fax in Alaska. E’ assolutamente proibita la distribuzione a pagamento, integrale o parziale. Se avete pagato per leggere queste righe, significa che qualcuno specula sulla passione nostra e vostra. Fateci sapere chi è. Troverà giusta punizione.
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BABEL
PROGETTO EDITORIALE federico res COPERTINA tommaso “gatsu” de benetti GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI f. res, g. donda, m. barbero SITO WEB http://bab3l.splinder.com BABEL È OSPITATO DA www.paolofranchini.com www.qb3project.net www.issuu.com
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Lasciatemi gridare 004 ODIO DI GOMITO
MGS4 non è un gioco per vecchi 005
ESCO DI RADO Scurdammuce ‘u passato 006
022
ALONE IN THE DARK 5 COME UN GAMBO DI SEDANO
LA TV CHE VIDEOGIOCA Speciale Cinema 1° puntata 030 GIOCHI DI MERDA PN03 028
1492 Alla scoperta delle ‘Indie’ 026
just in case we’ll never meet again
cover story
Caro Snake. Grazie per aver risposto a tutti i quesiti che ti avevo posto a seguito delle tue precedenti missive. Solo ora capisco quanto sia stato difficile, solo ora capisco il perché di certe tue azioni. Avrei altrettante domande, lo ammetto, ma ti sento stanco, preferisco allora lasciarti riposare, o alla tua sigaretta. Un giorno, quando gli anni si faranno sentire e il ricordo di te inizierà a vacillare, riprenderò in mano queste tue lettere. Le rileggerò e a una a una le rimetterò assieme, come un puzzle. Mi tornerà in mente il tuo viso, il tuo messaggio, le tue gesta. E non sarà più un ingombrante puzzle, ma un grande mosaico. Oh, e casomai non ci dovessimo più vedere, Snake… grazie, eh. Grazie di cuore. -Babel
Babel va in vacanza! Il numero che avete “tra le mani”, decisamente più consistente del solito in quanto a numero di pagine, dovrà bastarvi fino a settembre. Ma niente paura, il flusso di anteprime sul nostro blog continuerà come al solito: per cominciare, dalla prossima settimana vi offriremo la recensione di Ninja Gaiden 2 a cura di Cristiano “Cryu” Bonora! Tra le tante novità di questo mese, inoltre, vogliamo anticipare la rubrica “Ars Ludica” curata da Simone ”Karat45” Tagliaferri, che inaugura una collaborazione diretta e - speriamo duratura con l’apprezzata e-zine videoludica.
IGNITION RACISM INSIDE?
007 ll’ultimo E3, forse il più avaro di novità esaltanti da qualche anno a questa parte, Capcom si è decisa a mostrare in concreto il suo prossimo blockbuster, quel Resident Evil 5 che oramai tutti attendono con ansia (nonostante l’apparente immobilità concettuale, comunque prevista considerato il successo del predecessore). Tolta la modalità cooperativa online, quello che ci ha colpito maggiormente è l’inedito melting pot di etnie messo insieme da Capcom: accanto ai neri, una quantità di bianchi che potrebbero appartenere a svariate etnie, tutti insieme appassionatamente in un coacervo razziale francamente ridicolo. Nel cuore dell’Africa uno si aspetta che i bianchi siano in netta minoranza, non certo uno su due. E gli sviluppatori del gioco lo sanno bene, tanto che nei primi trailer mostrati l’unico bianco era il pompatissimo Chris Redfield, eroe di questo quinto capitolo della saga. Cosa è successo, dunque? È successo che, poco sorprendentemente, le polemiche sollevate in primis dal blog Blacklooks (http://www.blacklooks.org/2007/07 /resident_evil_5.html) hanno fatto fare un passo indietro a Capcom. I dirigenti nipponici (difficile pensare che sia stata un’idea degli sviluppatori), subodorando possibili problemi con l’opinione pubblica e dunque possibili ostacoli ai guadagni preventivati per il gioco, hanno deciso di pararsi il deretano mischiando bianco e nero, variegando la scia di uccisioni di cui
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si comporrà il gioco per darle un’impronta più “politicamente corretta”. Il blog di Sokari Ekine recita: “The new Resident Evil video game depicts a white man in what appears to be Africa killing Black people. The Black people are supposed to be zombies and the white man’s job is to destroy them and save humanity... This is problematic on so many levels, including the depiction of Black people as inhuman savages, the killing of Black people by a white man in military clothing, and the fact that this video game is marketed to children and young adults. Start them young… fearing, hating, and destroying Black people” Quale sia il grado di ridicolo presente in queste parole – davvero sembra di leggere un compito di terza elementare corretto dalla maestra – lo lascio giudicare ai lettori. Continuo a chiedermi cosa siano i “giovani adulti” e perché la gente continui a voler ignorare l’esistenza dell’ESRB e dei sistemi di classificazione analoghi, che di certo non bolleranno RE5 come “3+”. Ma è inutile indugiare su queste cose. Mi rammarico, invece, di quanto RE5 abbia perso cedendo a simili sterili accuse. Non solo in termini di estetica ma di valore documentaristico, acquisito non per volontà diretta ma per la ricerca incessante di realismo. Nei primi trailer RE5 era l’Africa, un ritratto potente e pulsante di una minoranza rappresentativa di condizioni di vita difficili, di cui in Occidente si è al corrente da secoli ma di cui in fondo non ci si interessa.
RE5 pareva un viscerale documentario dove non solo ci è data la possibilità di toccare con mano le condizioni di vita di un popolo, ma pure quella di sperimentare tramite la “metafora” del gameplay tutti gli atteggiamenti distruttivi che quotidianamente l’Occidente mette in pratica nei confronti dei popoli africani, anche solo attraverso la sua indifferenza. Che gli sviluppatori ne fossero coscienti o meno, quello cui stavano dando vita pareva chiaro. Un gioco dove si uccidono dei neri, infettati da occidentali che li usano, li sfruttano e come unica soluzione per il danno causato li fanno sterminare da un bianco armato fino ai denti che, incidentalmente, è il giocatore stesso… be’, io penso che un gioco simile, anche inconsciamente, possa entrare nelle viscere e recare il suo senso, andando ben oltre qualsiasi stupida propaganda pro o contro il razzismo. Trovo invece profondamente razzista, e – quel che è peggio – inconsapevolmente razzista, gridare allo scandalo per la presenza di violenza verso i neri in un videogioco, laddove la violenza contro i bianchi è routine. Perché è in questo modo che si costruisce e si rimarca una differenza. Una differenza enorme, totalmente ingiustificata e scientificamente ridicola, tra etnie appartenenti alla medesima specie zoologica. E mi pare che questo sia l’unico “argomento”, in fondo, che da sempre alimenta qualsiasi forma di razzismo. - Federico Res
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Tommaso De Benetti
Uno che i VG preferisce discuterli
Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.
Dal Vangelo secondo Tommaso Lasciatemi gridare
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Nella vita vera Filippo fa il fotografo. Le sue foto sono state scelte per l’esposizione Backlight 2008, Triennale Fotografica Internazionale che si terrà a Tampere. Io ho trovato un lavoro decente.
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apita a volte di avere un amico chiamato Filippo. Io ce l’ho. Filippo e io siamo fondamentalmente due pezzenti. Questa è la ragione per cui, a Maggio 2008, abbiamo accettato di lavorare dieci giorni filati in un posto vagamente angosciante. Abbiamo sgobbato dalla mattina alla sera, niente giorni di pausa, retribuzione netta fra i 1400 e i 1600 euro. Tutto sommato, non male. Vi chiederete di che lavoro si tratta, ma su questo manterrò il più stretto riserbo. Vi basti sapere che non è illegale e non ha a che fare con il porno. Durante il lavoro ognuno doveva seguire un cliente: europeo, russo, se sei sfigato cinese. Gente con i soldi, che sposta mezzo milione di euro senza battere ciglio (no, non si tratta di contrabbando d’armi). Il ritmo di lavoro lo decidevano loro: potevano passare il tempo a discutere di affari e allora facevi poco, se invece decidevano di controllare la merce ti dovevi sbattere ad aiutarli. Nel primo caso, quello per cui tutti si struggevano, le pause potevano essere lunghe anche alcune ore. Chissenefrega, direte voi, ed è per questo che concludo l’introduzione per venire finalmente alla storia vera e propria. Era circa l’ottavo o nono giorno in cui non vedevamo la luce del sole, sepolti in una sorta di bunker senza finestre che in quel periodo diventava uno dei punti nevralgici dell’economia del paese. Ci stavamo rompendo il cazzo in attesa che i clienti con cui lavoravamo fi-
nissero di partecipare all’asta attorno alla quale ruotano tutti gli affari. Salta fuori che c’è uno che aspetta insieme a noi in possesso di una PSP e di Vice City Story. Filippo piagnucola, si lamenta, si inginocchia, fa la barbone fino a quando il legittimo proprietario, esasperato, non gli passa la console. Ora, dovete sapere che Filippo è uno di Prato. Anarchico per storia familiare. Come tutti i toscani poi non può trattenersi dal dire cazzate a catena, spesso a beneficio dell’umore generale. Inoltre è un casual gamer coi fiocchi, uno che, per intenderci, non va più in là di Nature Park sul Nokia. Insomma, prende in mano la PSP e inizia a giocare. Noi, annoiati, ci assiepiamo alle sue spalle sperando di distrarci dal nulla che ci circonda. Vice City Stories, per qualche motivo, ha l’ambientazione di Vice City ma un protagonista nero come quello di San Andreas (due piccioni con una fava?). I comandi sono complessi, poco adatti ad una console portatile. Filippo ci mette dieci minuti solo per uscire dal capannone da dove ha iniziato dopo aver caricato il salvataggio. La prima cosa che fa è sparare con un bazooka ad una guardia. Poi insegue un pirla qualsiasi, lo mena, si diverte a vederlo scappare. Noi, dietro, iniziamo a ridere. Filippo allora ci prende gusto, esce dalla zona e inizia a rubare macchine. Mentre lo fa, per la gioia generale, si immedesima nel personaggio e inizia a ripetere ad alta voce roba tipo:
“Scendi bastardo! Cos’è, non mi dai la macchina perché sono nero, eh? Porco razzista!”. E lo mena. Si avvicina ad una persona per strada e inizia a chiedere con voce gentile: “...mi scusi, mi saprebbe indicare...”, poi cambia tono, estrae lo shotgun e grida “...sto cazzo. Muori stronzo!”. Poi ride. Noi ridiamo con lui, perchè la cosa sta diventando divertente. Arriva la polizia. “Bastardi fascisti!” e giù botte. Ferma uno con la macchina di lusso: “Capitalista del cazzo!” e giù botte. Prende l’elicottero e si schianta sui grattacieli al grido di “Tanto ve lo ripaga l’assicurazione, luridi petrolieri!”. Ruba una moto e stende un passante, poi scende e lo maltratta chiedendo: “Com’è? Non mi rispetti perché non c’ho i soldi?”. Davanti ai nostri occhi Filippo diventa un black block e trasforma GTA in un G8 di Genova digitale. Non sono certo di come interpretare un GTA giocato in questo modo, specie considerando lo stress che aleggiava sulle teste di tutti dopo giorni di lavoro sfiancante. Ma vedere qualcuno sfogarsi a voce alta con dei personaggi fittizi ha un che di rivelatorio... Per un attimo mi sono sentito Miyamoto che guarda i niubbi inclinarsi mentre sterzano in un gioco di guida. Ho creduto, insomma, di intravedere sia la direzione che l’interazione nei videogiochi deve prendere, sia come trasformare un titolo qualsiasi in una feroce critica politica. Se fossi uno sviluppatore, offrirei immediatamente a Filippo un lavoro migliore.
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai men-
zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito Metal Gear Solid 4 non è un gioco per vecchi “Mi sembra di scopare come un coniglio” Dott. Vincenzo Aversa
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er il suo concerto di addio, Hideo Kojima gioca di mestiere. Come un’abile rockstar, sa che se sei in tournee per promuovere il tuo ultimo, nuovo album, è probabile che nessuno sappia ancora le nuove canzoni. Così parte con uno spiazzante pezzo nuovo… perché sì, poi via con una lunga serie di pezzi storici, qualche assolo riprendi fiato, l’immancabile ballad sciogli cuori. Quando sul finire ti tocca per forza sorbirti il secondo pezzo nuovo della scaletta hai ancora il battito a mille, i capelli in bocca al vichingo di cui stai masticando i peli ascellari, e pogheresti anche sotto gli occhi della tua ignara moglie. Un addio di mestiere, appunto. Così vendi il peggior album della tua carriera. Così si vende Guns of the Patriots. È solo durante una delle sue varie installazioni, durante una delle sue varie pause sigaretta, che Metal Gear Solid 4 riesce infine a farmi ridere. Un avviso a schermo mi ricorda che sto giocando da più di un’ora, forse sarebbe il caso di farmi una pausa. Fa ridere perché è una menzogna. Non stavo giocando da più di un’ora, stavo guardando filmati da più di un’ora. Ma di ridere avevo comunque bisogno, per non parlare di una pausa, perché qui ci stiamo prendendo un po’ troppo sul serio. La guerra è cambiata, ammette un vecchio Snake in vena di contraddire esperienze videoludiche ben più ludiche. Sarà, ma nonostante una voce ancora più sforzata che in Snake Eater, qui non è cambiato proprio nulla. Neanche tutta questa depressione, che prima o poi ci ricordiamo non averci mai davvero abbandonato, è solo che
qui si ostinano a chiamarla psiche, anziché stamina. Vuole il detto, non si può insegnare nuovi trucchi a un vecchio cane. Dimenticandosi che di codename fa invece serpente, Old Snake lo riprendo in mano esattamente come lo avevo lasciato a mezz’ora dall’ultimo colpo sparato in Snake Eater. Eppure qualcosa è cambiato, solo non nel gioco. Le stesse movenze legnose e impacciate mi fanno chiedere se alla fine, più che vecchio, questo nostro eroe non fosse nato stanco. Le solite truppe nemiche dai precari riflessi mi disturbano, anche se già so verranno rimpiazzate da qualcosa di meglio. Solo per scoprire, invece, che questo ‘meglio’ è più preoccupato a emulare coreografie prese in prestito dai cugini Power Rangers, che a cercare di farmi davvero la pelle. Pazienza, mi dico un filo meno convinto, nessuno si aspetta che un Metal Gear Solid sia impossibile da finire. Piuttosto, mi cullo nella certezza che questo mio stare al gioco verrà poi riscattato da una sequela di boss fight che Kojima si era sicuramente risparmiato fino ad oggi. E qui l’incantesimo si spezza. Perché, nonostante l’età, ho tollerato che una trama di conflitti umani venisse interrotta da battute infantili su cacca e scoregge che neanche Pierino si sognerebbe. Da tette e culi che neanche la Fenech saprebbe far miglior omaggio al fan service. Ma loro no. Perché in questo suo addio Kojima aveva un The End da surclassare, o se lui si fosse rivelato impresa troppo ardua, almeno uno Psycho Mantis. Perché se non ce li doni tu simili momenti, Hideo, l’industria del videogioco non è mai stato un luogo tanto triste. L’incantesimo si spezza e mi ritrovo a pensare lineare, non laterale, con una pistola in mano
che potrebbe essere un cannone per quanto poco cambi davvero. Sparagli adesso, sparagli ancora, che poi gli vedi il… neanche usare i tranquillizzanti potrà mai lavarmi l’onta di dosso. Più che volgare, un’offesa. Non ci si rialza dopo un simile KO. Neanche quando un tuffo nel passato di Snake mi ruba le prime lacrime che sapevo già avrei dovuto risparmiare per i crediti. Ma nessuno finisce un concerto con una ballad. È così si entra nella parte finale abbandonando ogni speranza, soprattutto abbandonando il controller, e ne sono grato. Dopo aver gridato invano di volerla giocare io quella scena, grazie tante. Dopo aver fatto finta di non sapere che con tutte quelle razioni avrei potuto fare un Forrest Gump e correre fino alla fine del gioco. Dopo aver perdurato nonostante ci si ostinasse a settare l’azione all’aperto, laddove le meccaniche di gioco proprio non ne volevano sapere di seguirlo. Abbandono il controller e mi lascio investire da un mare di parole che ormai hanno perso qualsiasi valore, soffocate da altre scollature e tradite da una sceneggiatura che raggiunge livelli di tristezza che sanno far male. Abbandono il controller, preparo i fazzoletti e non so bene se è per gioia, disperazione o sollievo. Qualcosa è cambiato, dicevo. Sono cresciuto. Erano nove anni che stavo ballando la stessa musica, e oggi si è solo alzato la manopola del volume a undici. Ma fosse anche cento, Guns of the Patriots è solo l’encore di un Hideo Kojima che non riesce a zittire il pubblico ancora in pogo per i fasti passati. Ma io, ormai lontano dalla bolgia sotto palco, scopro che finalmente lo sento benissimo. E sono troppo vecchio, come Snake, per queste cazzate.
Fra i tanti omaggi resi da questo ultimo capitolo, il migliore è quello - con buone probabilità involontario - a Monkey Island. Neanche Guybrush Threepwood riuscirebbe a intascare un barile simile.
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Vincenzo Aversa Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.
esco di rADo (ma gioco pure troppo) Scurdammuce ‘u passato
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n po’ per cultura personale, un po’ per vincere a Scene It e un po’ per fare lo sborone, mi sto dedicando al recupero di film d’annata italiani. Roba forte: Pasolini, Fellini e spruzzatine di Pietro Germi senza pietà. Quello che cerco in film come Accattone o Il Ferroviere (tanto per citare i due che ho apprezzato maggiormente) non è né della buona regia, né dell’ottima recitazione. In queste vecchie pellicole mi piace ricercare la storia del nostro paese e della nostra cultura. Dettagli e frivolezze che non trovano quasi mai spazio nei documentari, ma che meglio di un dittatore o di una guerra, aiutano a dipingere il quadro del nostro passato. Parlo dell’ultimo oggetto d’arredamento, del rapporto conflittuale tra padre e figli o anche solo del prezzo di un caffè. Parlo, insomma, delle storie di vita che giornalmente scriviamo anche noi e che nessuno si prenderebbe mai la briga di mettere al centro di una sceneggiatura. Ed è mentre mi bullavo nel neorealismo cinematografico, che ho cominciato a chiedermi perché di tutto questo non c’è traccia nei videogiochi. Con lo sguardo furbo e l’occhio vispo, ho cominciato a ripercorrere nella mia mente i milioni di chilometri virtuali giocati negli ultimi dieci/quindici anni e non c’ho visto gli anni novanta, ma solo asettici mondi senza tempo che non raccontano altro se non le storie di qualche protagonista. Grand Theft Auto può forse vantarsi di parodiare meglio di chiunque altro la violenza della nostra società, ma i miei nipoti non capiranno qualcosa in più della mia vita tra le strade di Liberty City. Perché i videogiochi, e lo considero un grosso limite, non si sforzano di descrivere il mondo che rappresentano, ma si limitano a inventare da zero microuniversi credibili, sinceri ma inafferrabili. Siamo pieni fino all’orlo delle palle di fantasy, dark stories e guerre con morti sepolti, ma non c’è traccia di petrolio alle stelle, mutui farlocchi e pantaloni bracaloni (vera piaga del nuovo secolo). Cosa sapremmo degli egiziani
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se i programmatori di geroglifici si fossero limitati a disegnare folletti, hobbit e infermiere senza volto? E cosa studieremmo dell’antica Roma se non ci fosse arrivato di meglio della propaganda del De Bello Gallico? I videogiochi, a quanto pare, riescono al massimo a mettere in scena eventi che la storia stessa ha già ampiamente giudicato. Prima e soprattutto seconda guerra mondiale sono state ridisegnate in chiave ludica praticamente da ogni angolazione possibile. Abbiamo le divise dell’epoca, le armi dell’epoca, i mezzi militari ad hoc, questo è vero, ma quando mi infilo in un piccolo paesino in Call of Duty 3, non trovo case abbandonate, solo quattro mura e qualche mobile. Mentre mi nascondo dall’avanzata tedesca, non scopro nulla che non sia cultura militare. Forse si salva la carta da parati… Eppure, se continuo a pensare, qualche esempio di ottima fattura mi viene anche in mente. Due su tutti, i migliori, che pure non si occupano di presente in senso stretto, ma che curano sufficientemente i dettagli per poter descrivere l’epoca che rappresentano: Mafia e Shenmue. Il primo, tra malavita e pentimenti, riesce a tratteggiare gli anni 30 grazie allo splendido accompagnamento sonoro, al traffico automobilistico e ad alcune missioni perfettamente ispirate. Il secondo, mai troppo compianto, è l’esempio perfetto di videogioco che tramanda la sua epoca. Le reliquie religiose nella casa, la console sotto il televisore, gli oggetti in vendita nei negozi, tutto è reale, funzionale, non solo credibile. Se si può fare con gli anni ottanta, è plausibile che non sia un miracolo adattarsi ai giorni nostri. Ma cosa rende possibile la realizzazione dei miei sogni? Indubbiamente, il genere videoludico che meglio si presterebbe allo scopo è quello dei sandbox. Per la loro natura di ricreare società moderne e veritiere, infatti, sono quanto di meglio il mercato abbia da offrire in questo senso. Immaginate quindi un Niko Bellic qualsiasi che uccide, si innamora e
vendica familiari con in sottofondo le primarie tra Barack Obama e Hillary Clinton. Immaginatelo mentre compra la cucina del suo quarto appartamento in uno stabilimento Ikea, oppure mentre assiste in TV alle olimpiadi di Pechino. Piccoli segni degli anni che vuole raccontare. In fondo, da quadri, romanzi e film si possono trarre informazioni preziose, mentre, tra quarant’anni, il duemila dei videogiochi potrà essere ricordato come un’infinità distesa di demoni, zombie e marciapiedi da saltare con lo skate. Qualche risposta me la so dare, e non mi piacciono. I videogiochi non vogliono avere nulla a che fare con la realtà perché con la stessa, poi, devono pure confrontarsi. Uccidere vecchine a Mirabilandia è una cosa, farlo in una città vera è tutt’altro. Verrebbe a cadere la difesa prima di chi i videogiochi li fa e deve rispondere quotidianamente a genitori inferociti che passano il tempo a mordere le loro caviglie. Se Liberty City è solo un gioco e tutto (o quasi) è concesso, New York non lo è. Se fai un gioco ironizzando sull’immondizia di Napoli, stai certo che il sindaco e la giunta regionale avranno di che lamentarsi. Figuriamoci a parlare di camorra. Ma non va bene, non va bene per niente. La paura non ha mai fermato l’arte, men che meno ha posto dei paletti alle scelte degli artisti. Ci hanno sempre provato, intendiamoci, e qualche inquisizione ci è pure riuscita nel corso degli anni, ma in qualche modo si è andati avanti. Si è parlato, dipinto e ripreso di tutto. I videogiochi, nonostante il suo pubblico continui ad allargarsi (cifre alla mano), preferiscono non rischiare, si mordono la coda da soli per non allungare troppo il passo. Sarà per questo che invecchiando passa la voglia? Quanto resisteremo a suon di maschiacci ipermuscolosi e bambini dall’animo puro? E non va bene, non va bene per niente.
di Cristiano “Amano76” Ghigi
l’arte definitiva ING! ato WARN articolo è st luta-
te sso oigeran ista a o bell punto di v rtanto esp , t s e u e Q ia n p c u a à r a d od . Sa men scritt o. sonale rroganza, r m e is p il e h e di a ment masc accus mo e lo i vo sto ad izio, razzis o di legger o v e la d it pregiu avrete fin no sangue o n a d Quan hi pianger cc erà. stri o splod esta e t a r t s
l Wii è un'aberrazione talmente orrenda da essere degna della più spinta fantasia lovecraftiana. Posso capire che i nintendari lo adorino, ma c'è da tenere conto che i nintendari sono degli spudorati revisionisti storici: "le texture sfocate del Nintendo64 non facevano mica venire il mal di testa", "Ocarina of Time è il più bel gioco di tutti i tempi", "Resident Evil 4 e Viewtiful Joe si giocavano meglio col pad del Gamecube". Le loro allucinazioni sono ben note. Quello che non capisco invece è perché ci siano persone mentalmente e fisicamente sane, quindi non nintendare nel senso più stretto della parola, che nonostante tutto osano parlare del Wii come la "console che ha portato il VideoGioco tra i profani". Questi dementi, questi svergognati che si esaltano perché la nonna si fa una partita a golf con il nunchuck devono rendersi conto di una cosa: non c'è alcuna differenza tra un settantenne che gioca con il Wii e un adolescente che ascolta i dischi col grammofono. Non si tratta di due razionali esseri umani, ma di due scimmie a piede libero. Simili tragedie non dovrebbero accadere. L'uomo medio deve pensare alle
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macchine, ai cellulari e alle partite di calcio; la donna media deve pensare all'oroscopo, allo shopping e a prendere la pillola regolarmente. Gente simile è il Nemico. Coinvolgere il genere umano con i videogiochi sarà la morte di questo mezzo di comunicazione, così come il passaggio del target dei film hollywoodiani dai ventenni degli anni '70 ai tredicenni degli anni '90 ha siglato la morte, anzi la zombificazione, del cinema americano. Il mercato dei videogiochi dovrebbe seguire l'esempio di titoli come Silent Hill 2, Bioshock, Shadow of Colossus, Vagrant Story, non quello di Super Mario Galaxy, Guitar Hero, Katamari Damashii, The Sims o qualsiasi altra bollente cagata platform con trame che nemmeno gli sceneggiatori dei Teletubbies riuscirebbero a rendere psichedeliche. Questo perché a mio modo di vedere (cioè nel modo più giusto) nessuna forma di comunicazione o d'arte ha la potenza del videogioco. Prima che io vi illumini ulteriormente col mio infuocato verbo è opportuno citare l'esimio Umberto Eco: “La chimica non sbaglia mai. Siccome esiste anche una chimica delle emozioni, e uno dei composti che per
James Sunderland in Silent Hill 2
antica tradizione suscita emozioni è un intreccio ben congegnato, se un intreccio è ben congegnato suscita le emozioni che si è prefisso quale effetto [...]. La prima teoria dell'intreccio nasce con Aristotele [...]. La ricetta aristotelica è semplice: prendete un personaggio con cui il lettore possa identificarsi [...] e fategli accadere casi tali che lo facciano passare dalla felicità all'infelicità o viceversa, attraverso peripezie e riconosci-
menti. [...] E quando la tensione sarà giunta allo stremo fate intervenire un elemento che sciolga il nodo inestricabile dei fatti e delle passioni conseguenti” Riassumo. Servono tre cose ad una storia: un protagonista, un obiettivo, e degli ostacoli tra lui e l'obiettivo. Il tipo di ostacoli e il modo in cui saranno aggirati (o sfondati) costituisce il cuore dell'intreccio. Se prendiamo per assunto questa
concezione (come fa qualsiasi manuale di scrittura creativa) il videogioco è di fatto il metodo narrativo più efficace che esista: come protagonisti è nostro compito levarci di mezzo gli ostacoli che intralciano il nostro arrivo ad un obiettivo, e come protagonisti non abbiamo bisogno di trovare una chiave di lettura di quanto è accaduto, perché abbiamo vissuto gli eventi in prima persona. Il risultato è che una volta finito un gioco come Ico l'esperienza ci segna in modo enormemente più critico rispetto ad un libro, che ci può colpire per l'eloquenza e la sofisticazione delle sue metafore, o un film, che ci può colpire per aver mostrato spettacoli cui mai nella vita avremmo potuto assistere. Le immagini, i suoni e dialoghi con cui veniamo bombardati in un videogioco vengono infatti filtrati in modo diverso, perché l'interazione è diretta. Ecco perché tipica immondizia occidentale come Crackdown è divertente ma non ha nulla di memorabile: c'è un'enorme differenza nell'esaltarsi per una sparatoria con Will Smith e riuscire ad esaltarsi in una sparatoria dove si impersona Will Smith. Un libro o un film hanno un significato nel loro complesso e il loro linguaggio deve essere decodificato per essere compreso, un videgioco assume significato nell'esercizio dell'attività stessa ed è un'esperienza che viene vissuta da ogni utente in modo distinto.
Due anni fa, giorno più giorno meno, ero alle prese con Splinter Cell - Double Agent sul mio fido Xbox 360. Questo gioco oltre a dimostrarmi cosa volessero dire le espressioni "alta definizione" e "potenza di calcolo poligonale", vantava uno spettacolare scenario di guerriglia urbana a Kinshasa. La missione ha come obiettivo l'acquisizione di documenti custoditi in un campo militare, circondato da truppe ribelli che si stanno scontrando con l'esercito regolare. Il livello, di dimensioni estese, dipinge una situazione estremamente drammatica: ci sono ribelli che compiono esecuzioni sommarie di persone prese a caso, soldati mutilati che nei loro ultimi istanti di vita cercano un posto per crepare in tranquillità e interi plotoni che sparano a civili "sospetti" mentre scendono terrorizzati da un autobus. I proiettili piovono da tutte le parti, si è presi tra due fuochi: così, quando finalmente sono arrivato nei pressi del campo militare passando attraverso delle case abbandonate, nascosto agli occhi di tutti, ero ferocemente determinato a uccidere chiunque mi capitasse a tiro nel terrore di dover ricominciare da capo la missione. Non appena ho visto qualcosa muoversi dietro la casa cui mi ero mimetizzato, sono saltato fuori dalla finestra e con mia sorpresa ho tagliato la gola ad una donna che cercava di nascondersi anche lei. Mi sono immobilizzato, privo di parole.
Tutto ciò suona estremamente ridicolo su carta (lo è) ma sono sicuro che ogni persona intenta a leggere questo articolo sarebbe capace di trovare dentro di sé un episodio analogo da almeno dieci giochi diversi, in cui una situazione vissuta in un videogioco ha scatenato delle intuizioni fulminanti. Nel mio caso si è trattato di riconsiderare cosa vuol dire trovarsi in un ambiente dove chiunque può essere ostile. Mi sono tornate alla mente scene di film in cui i militari sparano inavvertitamente ai civili finiti sulla linea di fuoco, o a bambini sospettati di porre una minaccia imminente. Ciò non significa che in passato queste situazioni mi fossero state
Un limite cronico della narrazione videoludica sono le dinamiche romantiche e di approccio sessuale ("rimorchio" per i profani), ancora oggi esemplificate con tipici clichè hollywoodiani. Raramente sono stati creati giochi dove le relazioni sentimentali fossero credibili nei loro inizi e nei loro sviluppi, e ancora più raramente relazioni che abbiano dato luogo a vicende interessanti senza scadere nel gratuito. Alcune illustri eccezioni: il triangolo Snake-EvaBoss di MGS3, James e le due Mary di Silent Hill 2, e il rapporto incestuoso tra Furiae e Kaim di Drakengaard.
Altro limite cronico (esclusivamente occidentale) è la mancanza di ingegno da parte degli autori nel delineare culture aliene, scenari di fantapolitica avvincenti e ricostruzioni storiche attendibili ma non noiose. Giochi come Assassin's Creed, Knights of the Old Republic e Mass Effect sono degli ottimi primi passi in queste direzioni, resta da vedere se si tratta di orme che le altre softco saranno capaci di (o intenzionate a) percorrere.
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Tra le più evidenti conferme che un videogioco si può reggere solo e soltanto sulla trama, ed essere molto di più di un libro interattivo alla Lupo Solitario, esistono le avventure Lucasarts. Monkey Island in particolare, resta ancora oggi una pietra miliare per i suoi dialoghi brillanti, l’intreccio narrativo e l’interfaccia di esplorazione: vivere un film si rivelò mille volte più divertente che guardarlo passivamente. Un peccato che con gli anni Lucasarts non sia riuscita a superare sè stessa.
indifferenti (sono malvagio, ma non così malvagio), ora però interpreto quelle sequenze da un nuovo punto di vista. La questione di fondo non è se il videogioco debba far riflettere o meno per acquisire dignità artistica, perché si tratta di un requisito che deve essere soddisfatto dai saggi letterari e dai documentari. La questione è nelle potenzialità del videogioco come mezzo di comunicazione. La mia vita non è cambiata dall'aver ucciso un civile in Splinter Cell, ma se confronto l'intensa emozione di quel momento (sorpresa, tensione, rimorso) con una partita a Pac Man dove fagocito etcoplasmi multicolore per acquisire un punteggio, posso dichiarare in tutta sincerità che Pac Man è un titolo assolutamente inutile nella storia dell'umanità, mentre Splinter Cell è un titolo fondamentale della mia vita ludica. Questa è la differenza tra un gioco di merda ed un capolavoro: l'ambientazione, ovverosia gli ostacoli e il contesto in cui sono inseriti. O almeno è l'ambientazione a fare la differenza per chi, come nel mio caso, non considera videogioco imparare a memoria i pattern delle astronavi nemiche di Ikaruga, o passare due ore a misurare un salto per raggiungere l'ultimo agognato Sunshine. Io stesso, che sono rimasto senza pa-
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role per aver ucciso un civile in Splinter Cell, in Assassin's Creed ho fatto stragi indiscriminate per le strade di Gerusalemme solo per il gusto di prendere a coltellate gente indifesa, pestare a morte i ritardati, e picchiare mendicanti senza ritegno. E' il contesto a fare la differenza nel coinvolgimento emotivo (e morale) di un videogioco, ed è il metodo in cui il contesto viene ricostruito a rendere i videogiochi una forma d'arte. Nello stesso modo in cui un vaso Ming trascende la sua funzione di contenitore di fiori (a meno che non abbiate le incapacità cerebrali della mia ex e ce li mettiate), in virtù delle sue peculiari forme e decorazioni, così un videogioco come Silent Hill 2 utilizza l'interazione per raccontare una storia attraverso situazioni inquietanti che difficilmente risulterebbero tali se riassunte a parole. Creare un videogioco è quindi estremamente complesso, soprattutto per persone prive di talento come, chessò, Jade Raymond: non solo bisogna creare le condizioni per offrire intrattenimento ludico, ma anche elaborare location, dialoghi e personaggi che restituiscano indirettamente l'intreccio alla base di tutto. Troppo facile far progredire la storia a suon di comunicazioni radio, filmati e qualche testo epistolare come nei vari Resident Evil.
Il problema che affligge i videgiochi non è quindi la loro sudditanza a forme di comunicazione e d'arte più attempate, sono i limiti a volte autoimposti dagli autori nel raggio d'azione dei temi da affrontare e nella complessità del linguaggio da utilizzare per affrontarli. Limiti che paradossalmente vengono accettati da tutti quegli sfigati che hanno bisogno del riconoscimento altrui per giustificare le proprie passioni, accogliendo a braccia aperte nefandezze come il Wii, una console che è arretrata tanto dal punto di vista tecnologico quanto da quello concettuale. Prima di pensare a portare i videogiochi in casa di tutti c'è da riflettere sulle implicazioni e le conseguenze, in parte già manifeste, di una strategia di mercato volta a soddisfare le richieste del pubblico più ampio possibile. Conseguenze come: eccesso di disgustosa correttezza politica, rincoglionimento della curva di difficoltà, brevità e suddivisione in episodi per investire su costosi motori grafici da riciclare in sequel con graduali (leggi: inesistenti) modifiche al gameplay. Sarà pur vero che non poter condividere esperienze come Shadow of the Colossus con amici che si rifiutano categoricamente di prendere in mano un joypad è penoso, ma la risposta, maledizione, non è sputtanare il videogioco come lo conosciamo per andare incontro a gente che fino al giorno prima non ne considerava potenzialità e fascino. Il videogioco è il nostro territorio di caccia e pascolo: dobbiamo difenderlo dagli intrusi. Siamo audaci pellegrini emigrati dal cinema, dai fumetti, dai libri e giunti in queste terre incolte. Ora che la gente si è accorta della cuccagna dovremmo dividere le porzioni? Mai! MAI! Vi lascio con la teoria più sensata che abbia mai sentito, tratta dal film più stupido che abbia mai visto, Wolf: "Voi donne non potete capire gli uomini, perché non capite cosa significhi territorio"
PERLE AI PORCI Una peculiarità tutta videoludica è la possibilità di assistere a conflitti bellici dal punto di vista di fazioni avverse. Front Mission 3, Ace Combat 3 e Tactics Ogre Gaiden sono i principali rappresentanti di questa categoria. Aldilà delle loro (s)fortune commerciali, questi titoli offrono a chiunque abbia la pazienza di spulciarli degli intrecci di sicuro impatto. Ace Combat 3 e Tactics Ogre in particolare si distinguono da Front Mission per il fatto che la fazione non viene scelta dal giocatore all'inizio dell'avventura, ma selezionata attraverso una rete di bivi: ci si ritrova così a combattere contro compagni di squadra che defezionano perché ricattati moralmente dai fratelli maggiori, a "pompare" un personaggio ai massimi livelli per poi vederselo piombare addosso come inarrestabile unità nemica, o a scegliere se fare pulizia etnica in un villaggio di contadini per mettere le mani su una spada +99 con danni elementali che è custodita nella loro chiesa. Un fattore che inoltre accomuna queste perle della produzione giapponese è la presenza di una massiccia dose di informazioni sul background dell'ambientazione, disponibili in-game: nel caso di Ace Combat e Front Mission una enorme rete simulata, mentre nel caso di Tactics Ogre un corposo dossier che comprende leggende, biografie, testi di magia e di strategia militare (sarcasticamente titolato, nella versione originale giapponese, Warren Report). Queste caratteristiche rendono i tre giochi succitati delle avventure particolarmente immersive, anche e soprattutto per via dell'intensa connotazione politica delle vicende che raramente si può assaporare nei titoli di stampo occidentale. E' ironico che il tipo di pubblico che sarebbe più ricettivo a queste produzioni non ne abbia visto la pubblicazione, mentre quello giapponese ne ha punito intraprendenza e ambizione.
Una soluzione verso cui sembra spingersi il mercato ultimamente sono le avventure “su rotaia”, come i due più recenti Call of Duty. Se da un lato questo permette di assistere e di partecipare a battaglie mozzafiato, dall’altro la sensazione di “giocare” diventa estremamente ridotta. Per fortuna il successo e l’alta qualità di titoli freeroaming come GTA 4, restano sempre presenti a ricordare che nulla può battere l’immersività di un’enorme città interattiva, dove le sorti e il ritmo dell’avventura sono lasciati nelle mani del giocatore. “ LIBERTAAAAAAAAAAA’ “
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METAL GEAR SOLID 4 Guns of the Patriots
...dammi un funeral vichingo
console ps3 sviluppatore kojima production produttore konami versione pal provenienza giappone
a cura di Giacomo “Gunny” Talamini
a saga di Metal Gear è venuta a mancare lo scorso 12 giugno. I funerali si terranno in forma strettamente privata: sono invitati alcuni milioni di videogiocatori affezionati, testimoni della sua gioventù, della sua ruggente maturità e della sua retta vecchiaia. C’è, in effetti, di che celebrare, o di che annotare (per i meno entusiasti) nel taccuino delle stranezze evolutive: una serie videoludica che segue una continuity narrativa per 20 anni, che riabilita nemici mortali e dissacra eroi conclamati, che lascia le rughe posarsi sui suoi personaggi, sulla sua struttura, sul suo meme. Una rosa blu mai intrecciatasi con il mainstream (se non per fraintendimento altrui) e, a dirla tutta, nemmeno con l’evoluzione del medium. Non puoi combattere i tuoi geni. MGS non l’ha mai fatto. Dall’alba dei suoi giorni, un fumettoso agente segreto ha evitato (con l’aiuto di uno scatolone) l’attenzione di nemici dalle movenze eighties, sconfiggendo boss dalle qualità sovrumane per salvare il mondo dal Metal Gear. Tra punti esclamativi, interminabili dialoghi, fiammate di umorismo slapstick. L’identità di MGS è sempre stata molto, molto precisa. Una cornice a cui adattare gameplay e scelte realizzative. Un handicap, soprattutto di recente, certo. Una ferrea armatura di storicità che ti impedisce di inseguire il felino Altair sui tetti di Assassin’s Creed, anche se magari vorresti, anche se malinconico ne indossi la tunica. Vorresti ricominciare da zero. Vorresti non avere un passato che rischi di contraddire. “Vorrei non aver mai parlato di cloni”, ha rivelato di recente Kojima. “Non saremmo mai dovuti esistere” concorda Liquid. Ma non si può ingannare il passato. Non si può prendere ciò che di buono Metal Gear ha dato (ai suoni fan, a Konami e allo stesso Kojima) e mutarlo espropriandone il nome, allungandone innaturalmente la vita. O meglio: cazzo, certo che si può. Il mondo è una riserva inesauribile di credulità, e in tanti non hanno digerito l’invecchiamento di Solid Snake. Si può lanciare un nuovo episodio, con uno Snake giovane e forte, dalle meccaniche rivoluzionate e dalle vicende (an)estetizzate, che dia il la ad innumerevoli strombazzate di musica action epic, talebani
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saldamente inquadrati nelle mire dell’arma. Un Superman di The Dark Night Returns. Ma è, certamente, un modo di rifiutare la realtà delle cose. La realtà delle cose è che Metal Gear, la stupenda saga amata da milioni di persone, è vecchia, ed è giusto che la si lasci morire lucida, orgogliosa, serena. Ed essendo MGS4 il suo funerale, per organizzarlo non si è badato a spese o prudenza. I filmati iniziali, la realizzazione tecnico/musicale, la mole sconcertante di cut-scene e dialoghi sono una disinteressata magnificazione del suo Io, delle sue caratteristiche e peculiarità. Affianco a qualche distratta concessione a ineludibili istanze di modernità, come la visuale liberamente ruotabile (già sperimentata in MGS3: Subsistence), MGS4 riverisce le consuete ossessioni di Metal Gear: il design di personaggi, avversari e mezzi da guerra è il definitivo trionfo di Yoji Shinkawa che, liberatosi dei vincoli low-tech di MGS3, dà furibondo sfogo al proprio talento, con risultati che fanno sembrare amatoriale l’estetica di quasi ogni videogioco contemporaneo. Il contesto storico e scenografico è altrettanto sapiente per precisione e plausibilità: l’affresco di un mondo ubriacato dalla cen-
sura informatica e sanguinante per centinaia di battaglie senza nome è potente, inquietante. Poste le consuete, formidabili basi, Metal Gear conduce un ultimo, lungo dialogo con la sua appassionata utenza. Spesso diventa un monologo; ma quando una persona affronta le sue ultime ore, tipicamente è chi veglia al suo capezzale a non sapere cosa dire, e la lascia raccontare, raccogliendosi attorno a ciò che, con un minimo sforzo (X), può ricordare personalmente dei suoi racconti. Non mancano le ombre: l’ossessione forse eccessiva di non lasciare alcun enigma insoluto, e la saltuaria, frustrante tendenza a cestinare informazioni di grande importanza precedentemente esposte: [SPOILER] scoprire che i 12 Patrioti morti 100 anni prima, su cui molti appassionati avevano elucubrato per sei anni, erano null’altro che un’informazione fasulla genera un certo disappunto, ed una certa diffidenza nell’accogliere nuove nozioni, che si teme vengano sostituite nel giro di qualche ora [FINE SPOILER]. Dipende, probabilmente, da quanto MGS4 ha da raccontare. E MGS4 racconta molto: riannoda le fila di una vicenda ventennale. Man mano che la vicenda avanza, il
(sotto) La vastità dell’arsenale bellico di MGS4 è tale da ubriacare anche il più irriducibile guerrafondaio. Ironico, in un gioco dove la reale gerarchia esistente tra i militari e le armi che essi imbracciano è costantemente in discussione.
(a destra) La pubblicizzatissima possibilità di schierarsi con una fazione a scelta durante il gioco si è ridotta, di fatto, ad una scelta tattica secondaria, rilevante solo in alcuni ben determinati passaggi del gioco.
giocatore viene avvolto da un caldo mantello di ricordi, rimandi, riferimenti da tutti i precedenti episodi della saga. Questo effetto è il risultato di uno sforzo certosino che coinvolge fondamentali aspetti di gameplay (addirittura un’intera sezione trapiantata da MGS1), ambientazioni [SPOILER] (il secondo atto e le scene del cimitero richiamano MGS3, il quarto atto ricrea quasi integralmente MGS1, il quinto rievoca le atmosfere high-tech di MGS2) [FINE SPOILER], aspetti sonori (addirittura le stesse OST dei vecchi episodi sull’iPod equipaggiabile), oltre a particolari sequenze che sono una vera e propria galleria dei ricordi (lo scontro con Liquid). Le memorie aggrediscono lo spettatore da ogni lato. È forse proprio questo il vero significato di ‘Sense’, la pluralità delle tipologie percettive attraverso cui MGS4 trasmette il suo babaglio di emozioni e suggestioni. Una volta compreso, accettato e sperimentato questo, diviene anche chiaro il più logico approccio alla sua valutazione, ovvero che valutarlo è del tutto inutile. Quali innovazioni apporta MGS4 al videogioco moderno? Nulla, fatti salvi alcuni standard artistici e produttivi che comunque nessuno tenterà di sopravanzare. Nell’era del nuovo dominio
Nintendo, basato su target research moderno, immediatezza, freschezza di controlli e meccaniche, il dinosauro MGS4, con i suoi 8 diversi filmati introduttivi, è consapevole che il futuro non gli appartiene. È un’esperienza che non pretende di aprire nuovi orizzonti, e che nutre un totale disinteresse verso un pubblico diverso da quello che ha sempre amato e seguito la serie. MGS4 è un’esperienza concepita, similmente a quanto narrato nelle battute finali ad un altro proposito, per ricondurre tutto allo ‘zero’ primigeno. Lo ‘zero’ di Metal Gear corrisponde a varie cose: alla massima possibile espansione del gameplay, che raggiunge i più estremi limiti concettuali concessi dalla fedeltà al DNA storico della saga; alla completa fine della dinastia dei Serpenti, e al tramonto dell’era che essa ha scritto a tratti insanguinati; all’estremo sforzo di un team creativo, il Kojima-Gumi, che dopo 20 anni di lavoro quasi ininterrotto sente il bisogno di lavorare su nuovi soggetti, con stimoli nuovi. Chi non ha seguito o non apprezza la serie passerà accanto a questo immenso necrologio, dirà ‘non lo conosco’, e proseguirà per la sua strada, com’è giusto. Chi invece ha sempre amato la saga, prova per essa un affetto su-
scitato solitamente da grandi epopee cinematografiche o letterarie. Per quelle persone, Metal Gear è un mondo di personaggi amati e di splendidi ricordi, un racconto di cui viene ora sfogliata l’ultima pagina. La pagina dello straniamento, della paralisi stupefatta, infine della malinconia, solenne e serena. Il cerchio è davvero chiuso: ora la costruzione di Kojima, completa, è visibile in tutta la sua grandezza. Arroccata, insuperbita su uno scoglio ben distante dalla rotta maestra del videogioco contemporaneo, costituisce nondimeno un monumento impressionante all’emergere delle ambizioni estetiche e narrative del medium. Una stele sulla strada del riconoscimento del game designer come figura artistica ed intellettuale. E la pietra tombale di un caro, vecchio amico. 0
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PERSONA 3 FES
FES(tival)
console ps2 sviluppatore atlus produttore atlus versione usa provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
on è raro che nel paese dei balocchi escano appendix disc che aggiungono contenuti extra a giochi di ruolo più o meno di successo, ma che arrivino anche sul suolo occidentale è una bella novità. E infatti, quella che abbiamo per le mani è la versione integra del gioco, comprensiva di tutti gli extra, al costo di una una trentina di dollari. Chi ha già Persona 3 valuti se valga la pena comprarselo un’altra volta per rigiocare la trama principale guarnita da tutti gli extra, o dedicarsi subito alla nuova sezione indipendente del gioco (della durata di una trentina d’ore piuttosto impegnative); secondo chi scrive è da avere, in particolare se non possedete la prima versione dell’anno scorso. Le aggiunte al capitolo “The Journey”, che rappresenta il gioco originale, sono piuttosto numerose: nuove cut scene, un Social Link nuovo di zecca, una ventina di Persona extra e la possibilità di fondere armi e Persona; inoltre circa cinquanta nuove side quest, nuovi eventi e via dicendo. The Journey è strutturato come un dungeon crawler perfettamente incastrato con la vita scolastica dei protagonisti. Le giornate che seguono fedelmente il calendario del 2009 si susseguono recandosi a scuola, ascoltando le lezioni, rispondendo alle domande, socializzando con i compagni di classe o con altre persone nei dintorni. Sono disponibili anche varie attività collaterali che possono far aumentare i propri parametri di carisma, coraggio e fascino. Affrontare certi livelli particolari è necessario per avviare alcuni Social Link o per ottenere buone valutazioni durante gli esami scolastici. I ventuno personaggi di cui è possibile approfondire la conoscenza, instaurando un Social Link, risultano tutti piuttosto interessanti. Ognuno ha i suoi problemi specifici, rispondendo esattamente alle sue domande si può aumentare il livello del SL (rendendo più forte il legame di amicizia). Le situazioni si evolvono man mano che il SL cresce, con il vostro rapporto che diventa sempre più intimo, conducendo a situazioni molto interessanti specie con le controparti femminili del caso. Aumentare il livello dei SL ha anche un altro uso molto importante, oltre a migliorare la vostra conoscenza del-
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l’inglese grazie a dozzine e dozzine di righe di testo, che accompagnano alcune belle scenette musicate da un Meguro abbastanza diverso dal solito. Tutti i personaggi tampinabili appartengono ad uno specifico Arcana dei tarocchi. Ogni Persona, manifestazione del potere dei protagonisti, appartiene ad un dato Arcana. Creando un Persona tramite fusione, questi godrà di un boost di punti esperienza tanto più ingente quanto più alto sarà il SL relativo. Utile soprattutto per imparare in fretta le skill innate nel Persona di turno, senza dover combattere tante volte. Il protagonista può portare fino a dodici Persona differenti, recuperati al termine delle battaglie o creati tramite fusione nell’apposita stanza. È possibile equipaggiarne uno solo per volta, ma in battaglia si può cambiare Persona ad ogni nuovo turno. I propri comprimari invece devono accontentarsi di un doppio Persona, perfettamente tarato su di loro e con decine di skill da imparare via level up. Spesso è bene avere di tutto un po’ nel vostro party, e cercare di coprire tutte le aree di attacco possibili e difendere in anticipo le proprie debolezze. E’ inutile avere tre personaggi ultra specializzati in tecniche di fuoco e neanche uno che
possa usare una magia di cura, laddove si renda necessario. I combattimenti avvengono tutti di notte durante l’esplorazione del Tartarus, una gigantesca struttura che si estende per oltre duecentocinquanta piani, divisi in vari blocchi e costellati di numerosi boss, prima dei quali sono sempre presenti degli utilissimi teletrasporti a due vie necessari per tornare all’hub posto all’entrata della torre. Tornare all’hub permette di ricaricare Hp e Skill Points in vista degli scontri con i boss, ma in caso abbiate personaggi stanchi o ammalati, questi se ne ritorneranno al dormitorio (lasciandovi con un party decimato e obbligandovi ad abbandonare l’esplorazione e tornare a casa pure voi, per poi iniziare una nuova giornata). Nel caos invece che i vostri PG siano ben in salute, basterà salvare la partita e andare ad affrontare il boss per conoscerlo meglio. P3 è quasi un continuo trial and error. Ogni blocco della Tartarus ha un suo tema grafico specifico e pullula di mostri che scorrazzano in giro facendosi i fatti loro, e che possono essere ingaggiati in battaglia con un colpo di spada. Colpirli alle spalle vi garantirà un turno extra in battaglia, mentre se sarete voi a venire sorpresi ne perderete uno.
In The Answer i teletrasporti a due vie sono posti DOPO i boss, non prima come in The Journey. In compenso prima dei boss si può usufruire di un save point e di un teletrasporto one way only che permette di tornare all’hub e vedersi ripristinati Hp e Sp. Per poi rifarsi 8-10 piani a crepacollo per arrivare al boss con gli Sp al massimo…
THERE’S NO EASY WAY OUT Iniziando una nuova partita in The Journey potrete caricare il vecchio salvataggio di P3 e ottenere tutti gli oggetti dei SL portati al massimo, il compendio con i Persona creati nell’avventura precedente (ma tutti con le skill azzerate) e i livelli di fascino, carisma e coraggio raggiunti. Non dover riportarli al massimo vi garantirà tanto tempo extra in più da dedicare ai SL che non eravate riusciti a completare. Il fatto di avere il Compendium a portata di mano, inoltre, può risultare in un azzeramento della difficoltà di The Journey, ma conduce anche a tante rivincite: niente meglio che spammare Armageddon ad ogni boss…
Chi ha giocato Nocturne (Lucifer’s Call) e i due Avatar Tuner (Digital Devil Saga) si troverà subito a casa col sistema di combattimento, semplice e letale. Per uscire vincitori dovrete fare buon uso sia di colpi normali che di skill e magie. Lo scopo è quello di colpire il punto debole del nemico e atterrarlo, guadagnando così un’azione extra. Atterrando tutti gli avversari si rende disponibile un total attack portato a segno da tutti e quattro i combattenti, foriero di un enorme potenziale distruttivo. Fine combattimento, sotto col prossimo. Questa è la situazione ideale, peccato che sia l’IA a controllare i comprimari. Potrete assegnare vari ordini generici (ad esempio attacca, cura, ecc) a ciascun membro prima di compiere la vostra azione, ma l’IA farà sostanzialmente di testa sua, non comportandosi benissimo. Compierà talvolta azioni egregie, lasciandovi a bocca aperta; in altre occasioni ve la fa spalancare con relative parolacce al seguito. In sostanza, l’IA di FES non è cambiata dalla precedente versione del gioco, e ciò suscita una punta di rammarico. Pare che in Persona 4 sarà possibile controllare i singoli personaggi direttamente, quindi non ci resta che attendere il
nuovo episodio per rifarci di decine di azioni indesiderate e qualche game over di troppo… Il gioco non impedisce di schivare tutti i combattimenti e arrivare al boss preposto a guardia della relativa manciata di piani affrontati, ma senza level upping e Persona efficienti superare gli scontri coi boss sarà un’impresa disperata. Spesso un game over in una boss fight è dovuto al vostro sottopotenziamento, o al non aver il Persona giusto al momento giusto. In “The Answer”, il capitolo conclusivo/esclusivo di FES, questo è ancora più vero. Qui ci troviamo ad affrontare l’Abyss of Time, uno spazio enorme dislocato sotto al dormitorio, accessibile da un hub munito di numerose porte. Ogni porta conduce ad una sezione diversa di un complesso formato da sette mini dungeon che saranno la vostra disperazione. Il livello di difficoltà è molto più alto rispetto a The Journey e i personaggi partono tutti dal livello 25 e con le skill da imparare di nuovo da zero. Niente Compendium da cui richiamare i Persona già creati, armi che costano un sacco e pochissimi soldi a disposizione; fusioni disponibili solo tramite metodo normale o triplo, niente quest secondarie, niente Social Link (e per que-
sto motivo ogni Persona richiede molti meno level up e exp per imparare tutte le skill), niente possibilità di fondere le armi. Solo un’avventura massacrante e claustrofobica, graziata da una presenza piuttosto cospicua di casse del tesoro rare e di nemici dorati (dai quali è possibile ottenere varie armi), di oggetti preziosi e vari gettoni da rivendere a peso d’oro. Inoltre, i personaggi non si stancano mai e potrete combattere fino allo sfinimento. I piani dei vari dungeon sono più grandi, popolati da molti più mostri rispetto al Tartarus, e si muovono tutti più velocemente. Il sistema di combattimento rimane lo stesso, ma i “miss” e i game over (soprattutto contro i fin troppo impegnativi boss) si sprecano e giungono come se piovesse. Gli SP non bastano mai. Trenta sadiche ore, tutto sommato più semplici se paragonate a Nocturne alla massima difficoltà. Ragionando a mente fredda però erano altri tempi e, soprattutto, sono altri tempi. Una sfida per chi non ha paura di joypad volanti, imprecazioni varie e decine di cut scene non skippabili, eccetto per le poche sequenze in stile anime. Un jrpg colossale composto da due anime: il miele e la pillola. 9
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WII FIT
Sydne Rome mi fa una pippa console wii sviluppatore nintendo produttore nintendo versione pal provenienza giappone
a cura di Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero
el silenzio notturno li puoi sentire. Giungono dagli armadi, da mensole troppo alte o dagli interstizi sotto i letti. Sono i singhiozzi d’abbandono di Wii Balance Board acquistate sull’onda del tecno entusiasmo nerd, di serie nel popolo videogiocante. Una spinta emozionale che fa il pari con il culo pesante, con la pigrizia endemica che porta a ritenere il muovere il deretano per accendere la tv uno sforzo immane. Il videogiocatore ha in odio le campagne energetiche anti stand-by, sono un male che si frappone tra lui e il suo divertimento, tra lui e la via verso la perfetta pancetta homerica. Con tali presupposti, l’autostrada dell’oblio è l’unica alternativa per la bilancia Nintendo, che può guaire finché vuole, ma quando il videogiocatore comprende che qui si fa sul serio, che il sudore è reale e il divertimento molto meno, non ci sono cazzi. D’altra parte vicino alla cyclette e ai DVD di Jill Cooper c’è un posto vacante… Te lo immagini bestemmiare contro la Nintendo che non è più Nintendo, tradito da un prodotto che sapevi non essere un videogioco “ma non si sa mai”. Eppure le avvisaglie erano lì: Brain Training, Eye Training, Toilet Training… Nintendo cerca di insegnare le cose più ovvie già da tempo. Quelle pubblicità con lo slalom e con i colpi di testa, però, un po’ avevano tratto in inganno l’hardcore gamer. Ma divertirsi con quelle cagate a lungo è roba da cerebrolesi.
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E così si torna alle bestemmie e ai santi dal calendario, esauriti come le Wii Balance Board dai negozi. Guardato con occhi disincantati, Wii Fit è un gran bel prodotto. La sua bilancia è certosina, precisa, pure simpatica. Il set up è veloce, la comprensione del funzionamento del tutto subitanea. Prelevi il tuo Mii, scegli tra l’istruttrice con poche zinne e quell’altro. Ti fai pesare, non con una certa ansia, e scopri che… TADAAA! hai un IMC, l’Indice di Massa Corporea, perfetto! E sei alto 1,92. E pesi 79 kg. E lo vedi dallo specchio che Schwarzenegger è abbastanza un’altra cosa, eppure a lei, alla bilancia, piaci così. Nasce l’amore ma continui a chiederti se il giorno in cui sentenzieranno che l’IMC è un po’ una puttanata non ti lascerà per un buzzurro dei Centocelle Ni-
ghtmare. Le lacune di Wii Fit come serio strumento di allenamento sono sufficientemente ovvie, accanirsi contro un coso pagato 90 € non è intelligente, anche perché l’oggetto stesso sa di essere un palliativo: ti sprona, per esempio, ad eseguire altre attività fisiche. Ha dalla sua però un plus non indifferente: offre lo stimolo. Laddove attrezzi Tecno Gym ultracostosi presentano possibilità inarrivabili per lo scendiletto wireless, Wii Fit offre una nintendiana aura giocosa che spinge a continuare, a migliorare quel record, ad accumulare tempo nel maialino salvadanaio, a sbloccare nuovi esercizi. E’ la filosofia del videogioco applicata all’esercizio fisico ad essere vincente. Si ha voglia di scoprire quale nuova prova aerobica ci sia dopo,
Wii Fit sa quando mettere da parte la Balance Board. Onde evitare rovinose cadute, il jogging è gestito unicamente attraverso il telecomando, da tenere in tasca o in mano. Funziona.
come sia implementata quella posizione yoga dal nome così altisonante. L’integrazione con le funzionalità della console, poi, è impagabile. Non il blando canale Wii Fit, è piuttosto l’inserimento dei propri Mii come contorno alle attività ad essere puro genio. Un conto è prodursi in un tedioso esercizio fisico, un altro è farlo nel mondo Nintendo. Se colpire un pallone scagliato da Hitler o farsi lanciare un hula hoop da Michael Jackson ha un che di inquietante, fare jogging con Gesù o vedere Chuck Norris che inciampa (anzi, si butta a terra per provocare dolore al pianeta) sono momenti che alleggeriscono la fatica fisica. Perché, è bene ribadirlo, con Wii Fit si suda sul serio, anzi è quasi un peccato che la succitata giocosità si perda proprio durante gli esercizi più impegnativi. Se l’area yoga e quella degli esercizi muscolari avessero integrato al loro interno
un minimo della leggerezza dei giochi di equilibrio (le cagate ludiche citate in apertura) e degli esercizi aerobici, il software ne avrebbe beneficiato. Altra area stranamente trascurata è quella del trainer. Non ci si riferisce alle deficienze mammarie dell’istruttrice, non solo almeno. In un prodotto che si premura di porre degli obbiettivi (tutti legati al discutibile IMC) e di abbinare potenziamento muscolare e stretching, l’assenza di programmi specifici per allenare determinate parti del corpo è una svista davvero ingenua. Non c’è la possibilità, per esempio, di avere un programma specifico per sviluppare i soli muscoli delle spalle, piuttosto che quelli delle gambe. L’utente è lasciato a se stesso nella gestione giorno per giorno e la cosa infastidisce, perché si rischia di prendere gli esercizi un po’ a
spizzichi e bocconi, di mangiare senza saziarsi di nulla, stancandosi e sudando, senza però i benefici che si vorrebbero ottenere, che poi è ciò che in genere si chiede alla palestra o a strumenti ad essa similari. Wii Fit fa comunque bene troppe cose per non meritarsi lodi. Il modo semplice con cui insegna i movimenti e il feedback che si ricava dal suo utilizzo sono più che sufficienti per un prodotto che si pone a metà tra il serio e il faceto. E se alcune misurazioni fanno un po’ sorridere (gli addominali per dirne una) o se non è possibile usare i propri MP3 come sottofondo musicale poco importa, ci sarà tempo per aggiustare il tiro con l’inevitabile seguito. Sempre che i sommessi singhiozzi notturni non si trasformino in sguaiati pianti a dirotto. 8
La struttura di Wii Fit è prelevata di peso da quella di Brain Training. Le sezioni di allenamento, i timbri da mettere sul calendario, i test per verificare l’età del corpo, tutto è identico. L’approccio ludico meno marcato viene controbilanciato da alcuni giochini, distrazioni da pochi minuti. Alcune non meritano un secondo giro, ma lo sci/snowboard e “quellodovedevifarcaderelebiglieneibuchi” hanno un certo appeal e dimostrano la perfetta sensibilità della bilancia agli spostamenti del peso.
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xbox360
ROCK BAND
Eravamo quattro amici e un pad console 360 sviluppatore harmonix produttore mtv games versione pal provenienza usa
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
l primo grande merito di Guitar Hero è di aver sdoganato per sempre le periferiche da imbecilli. Le chitarre cik ciak hanno invaso l’immaginario collettivo statunitense (e non solo), come mai erano riusciti a fare maracas, bonghetti e tamburelli. Il secondo grande merito di Guitar Hero è di essere un gioco adatto al principiante così come al campione di corde colorate. L’illusione di fare musica sul serio può prescindere dal livello di difficoltà selezionato. Tre, quattro o cinque corde, poco importa. Sono sul palco, suono le mie canzoni, mancano le mandrie di groupie assatanate ad aspettarmi sotto le docce, ma posso farne a meno, sono un videogiocatore cazzo. L’unico madornale difetto di Guitar Hero è la sua natura crudele, vigliacca e traditrice. Impossibile raggiungere il non plus ultra se non si è un filmato di youtube, troppe poche cinque dita per completare fino all’ultima goccia di ogni episodio. Rock Band ci mette una pezza. E allora suono, che sia basso o sia chitarra, come un rocker professionista, ma con meno coca nelle vene. Rock Band inventa poco, quasi niente, ma accompagna il giocatore con una curva di difficoltà più armoniosa, dolce, umana. Note e accordi scendono a velocità ridotta, lasciano la mano a respirare tra un assolo e l’altro. La soddisfazione resta immutata, l’orgoglio personale ne guadagna. Le sequenze pro star power sono più nume-
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rose, più facilmente realizzabili e più efficaci nel togliere le castagne dal fuoco. Il resto è fotocopia della serie ispiratrice, eccezion fatta per la nuova chitarra. Il nuovo set di cinque tasti libera dal giogo della pennata durante gli assoli. Bella idea se non fossero posizionati troppo vicino al buco del culo del mondo. Ed è in generale la nuova chitarra a lasciare perplessi. Più bella, più grande e meglio costruita, costringe a imparare di nuovo la nobile arte della musica videoludica. Probabilmente l’abitudine deve fare il suo corso, ma non tutti apprezzeranno le rinnovate difficoltà. Io canto, come Cocciante prima di Laura Pausini, e poco importa se con la forza lirica della mia voce posso uccidere specie animali. Rock Band si discosta dallo scorbu-
tico Singstar e permette a papere, tromboni, citofoni e persino a me di portare a casa un gratificante livello normal. Grazie a una elasticità gradita a noi poveri incapaci e ininfluente per chi sa cantare per davvero. E finalmente, tra chiasso disgustoso e qualche sottile complimento, anche io libero i miei istinti e sveglio i figli dei vicini. I tempi morti del singer di mestiere sono addolciti dal tamburello di Liam Gallagher. Roba di poco conto, ma che invoglia a impugnare un microfono quando tre scalmanati al proprio fianco stanno sfondando muri e timpani con percussioni e chitarrine.
Aspettando la versione italiana, gli interessati possono procurarsi la medesima versione su amazon.co.uk ad un prezzo, spese comprese, persino inferiore a quello che raggiungerà i nostri negozi.
Ma soprattutto io batto, come una puttana, ma con più batteria. Il Cristiano Ronaldo di Rock Band è un pedale, due bacchette e quattro modi diversi di fare baldoria. Forse ancora più della chitarra, la batteria tramuta i giocatori in esaltati musicisti del diavolo. Naturale, immediato, mica tanto facile, il nuovo strumento costringe a imparare ritmo e tempismo. Lo star power tamburellante non vive libero come i suoi fratelli, ma è forzatamente limitato ad apposite sezioni libero-casinare. Probabilmente non una scelta felice, soprattutto nelle avversità. Io gruppo, come i Rolling Stones, ma con meno rughe sulla faccia. Rock Band non sarebbe nessuno senza la caciara di amici e conoscenti nelle quattro mura di uno stanzino. Quattro normali videogiocatori dei nostri giorni
trasformati in piacenti animali da palco. Se la carriera in singolo copia senza imbarazzi i cliché del genere, quella in multi si sbizzarrisce con varietà e infinite possibilità. Il gruppo non è costretto a suonare quello che passa il convento, ma può anche scegliere la sua musica o lasciarsi sorprendere da scalette casuali. Nel pacchetto carriera sono comprese tutte le canzoni sbloccate, quelle extra e quelle scaricate a pagamento. Un buon modo per valorizzarne l’acquisto. Una carriera perfetta per alternare gusti e difficoltà. Ma il meglio sta nella possibilità di salvare un compagno caduto, un sacrificio che vale quel po’ di star power che chiede, perché permette insulti e umiliazioni esilaranti. Il primo grande merito di Rock Band, insomma, è di
non vergognarsi di essere un Guitar Hero all’ennesima potenza. Le poche novità non stravolgono un bel niente e traghettano il giocatore senza sofferenza tra una serie e l’altra. Il secondo grande merito di Rock Band è di farsi giocare dalla prima all’ultima briciola senza svilire o rendere banale lo spartito musicale. Non è cambiata la difficoltà di accordi, hammer-on o pull-off, non troppo almeno, è mutata la tolleranza agli errori del gioco. Bastarda ed esagerata prima, amichevole e conciliante ora. Il più grande difetto di Rock Band è un prezzo che schiaffeggia la povertà e abbandona ai sensi di colpa. Ma ‘sticazzi, si vive una volta sola e non è vita se non si è mai tenuto un concerto. 9
Assolutamente splendidi i pacchetti extra a pagamento scaricabili per questo titolo. Questi, inoltre, potranno essere riutilizzati con Rock Band 2.
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playstation3
MANA KHEMIA
Project A9
Alchemists of Al-Revis
console ps2 sviluppatore gust produttore nis america versione usa provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
on sarà presente “Atelier” nel titolo, ma quel “Alchemists” non lascia alcun dubbio: ecco l’ultima evoluzione del franchise Gust. Mana-Khemia si basa in parte sulla struttura di gioco del precedente Grand Phantasm, soprattutto ne riprende l’ottimo e adrenalinico sistema di combattimento, evolvendolo in qualcosa di talmente accattivante, immediato e frenetico - ma non per questo meno strategico - che non ha eguali in nessun altro jrpg. Al-Revis è una scuola di alchimia situata in una parte del continente completamente sospesa nel cielo e tagliata fuori da qualsiasi altro collegamento con la terra ferma. Una volta dentro, si esce solo per visitarne i dintorni, ma la possibilità di tornare sulla terra ferma viene data solo agli studenti diplomati. Alla scuola si iscrivono aspiranti alchimisti, mentre altri vengono reclutati su invito per talento. È il caso di Vayne, protagonista dal passato ignoto e del suo Mana, il gatto nero Sulpher. La vita scolastica è parte integrante della struttura di gioco di MK. All’inizio di ogni settimana è obbligatorio decidere di partecipare a un determinato corso e risolvere l’incarico assegnato. Esplorare un dungeon, uccidere un mostro, fondere un oggetto tramite l’alchimia previo recupero degli ingredienti appositi - e altro ancora. Per la prima volta in un Atelier, nel proprio calderone si possono fondere solo ingredienti e oggetti, mentre per armi, armature e accessori è obbligatorio spostarsi in un’altra sala. Decisamente scomodo e un passo indietro rispetto a GP dove il sistema di sintesi era estremamente intuitivo, e dove l’equipaggiamento si poteva comprare e non per forza creare. Almeno problemi di ingredienti non ne avrete quasi mai: ciò che si trova esplorando i vari dungeon è più che sufficiente per forgiare quasi tutto. Un’altra splendida novità è la possibilità di assegnare vari incarichi ai propri compagni: come sintetizzare oggetti, recuperare materiali o andarsene per i fatti loro a guadagnare Skill Point, che in MK rimpiazzano completamente gli EXP. L’esplorazione durante il gioco ri-
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mane old school. Nemici che scorrazzano allegramente aspettando di essere ingaggiati in battaglia o schivati alla meglio, piante da falciare, zone apposite dove pescare ecc. In MK però si è passati ad una rappresentazione quasi totalmente 3D degli ambienti con risultati molto buoni. Peccato per i rallentamenti spaventosi durante molte delle fasi esplorative. Forse per alleggerirne il carico, Vayne è stato privato di una qualsiasi ombra: è splendido saltare di piattaforma in piattaforma, senza avere un punto di riferimento per capire se si stia per atterrare nel posto giusto o per precipitare nel vuoto. In MK ogni secondo sprecato è davvero tempo perso. Il ciclo giorno/notte super accelerato influenza in particolar modo i mostri, che di notte si muovono al triplo della velocità e causano il doppio dei danni in battaglia. In pratica, ogni sessione esplorativa obbligatoria per l’evoluzione della trama è una sorta di corsa contro il tempo per non arrivare ad affrontare il boss di notte. Bizzarro che, per quante ore e giorni passino, le settimane rimangano sempre fisse. Scorrono solo completando gli incarichi.
Per passare al mese successivo, nonché al gruppo di corsi seguente, è invece necessario guadagnare stelle a sufficienza, ovvero ottenendo alte valutazioni dai propri insegnanti. Più se ne ottengono e più in fretta si potrà ottenere del tempo libero da impiegare in varie attività. Non raggiungere il numero di stelle prefissato si concretizza in niente tempo libero e in una serie di varie punizioni o missioni molto più impegnative. Il tempo libero è inoltre essenziale per assaporare altre feature di MK. L’ufficio studenti offre una montagna di side quest accessibili dalla propria bacheca. Accettate una quest, parlate col cliente, uccidete un mostro/create gli oggetti richiesti, completate l’incarico e ricevete la ricompensa in denaro. Le side quest sono l’unico modo per ottenere ricette esclusive e per guadagnare parecchi soldi. Altre quest fattibili riguardano i singoli personaggi: tramite tali quest si potrà scavare nel loro background al fine di ottenere uno degli otto finali disponibili. Infine, si può sfruttare il tempo libero per combattere e guadagnare preziosi SP. Gli SP possono essere ottenuti solo combattendo e ammazzando
Nella mensa della scuola, uno studente, in cambio di denaro, è in grado di spargere in giro vari pettegolezzi. Questi giovano in un sacco di modi alle fasi esplorative. Potreste guadagnare più soldi, oggetti, ridurre i danni dei nemici di notte...
Ogni personaggio ha una schermata di evoluzione con vari slot liberi in cui gli oggetti sintetizzati si incastonano, sbloccando così varie skill usabili in battaglia e i bonus per le proprie statistiche. Una specie di mix tra la sferografia di Final Fantasy X, la scacchiera di FFXII e il sistema usato in Rogue Galaxy. Il tutto più semplice e meno frustrante. centinaia di avversari; un vero piacere in MK. In battaglia torna la barra dei turni dove poter vedere la posizione di personaggi e avversari. Determinate azioni faranno tardare più o meno il vostro prossimo turno, così come potreste ridurre quello dei vostri nemici o mandarli in uno stato di Break continuando a colpire con insistenza la vittima prescelta. Ad un mostro in Break potrete infliggere molti più danni per un solo turno. Ad ogni colpo andato a segno la barra del Burst si riempie pian piano. Nel caso di attacchi che colpiscano le debolezze dell’avversario il Burst si carica più in fretta, ma si svuota totalmente a fine battaglia. Fino a qui in pratica è GP. Le novità però non tardano ad arrivare. Il Burst si carica molto più lentamente - ma è perfettamente calibrato al nuovo, più arduo livello di difficoltà – e per rendere le cose ancora più pepate, negli scontri partecipano ben sei dei vostri otto pupazzetti: tre unità in prima fila e le altre tre nelle retrovie. Quando le icone di queste ultime sono totalmente colorate è possibile scambiarle con uno dei personaggi in prima fila, farle intervenire per un attacco a supporto o usarle come scudo umano. Ciò vi obbliga a un
minimo di pianificazione. Passano le ore e quando pensate che MK non abbia più nulla da offrire nel combat system, ecco che i personaggi sbloccano le loro tecniche speciali e vi obbligano a ripensare tutto dall’inizio. A ciò si aggiunge anche la Variable Strike di Vayne, una lunga e spettacolare combo ottenuta a patto di usare per un turno i tre personaggi in battaglia e facendo agire i tre di supporto di fila, con Vayne per ultimo. Tecnica molto utile e da abusare per aumentare la barra del Burst più velocemente. Una manna contro i boss. A sorpresa, dopo che ormai il combat system vi è entrato nel sangue e riuscirete a sfruttare tutto il party in un battere di ciglio, i game designer vi gettano nel calderone il Finish Burst. Dopo essere entrati in Burst Mode, con il solito rallentamento per la comparsa dell’avviso gigante e del cambio al volo dello sfondo in una sorta di dimensione alternativa, un nuovo pezzo di barra si aggiunge al Burst classico. Per riempire la parte del Finish Burst vi verrà chiesto, a random, di compiere determinate azioni. Portata al massimo anche quella barra, e sempre che siate ancora in BM, potrete sfruttare il colpo super-ultra-se-
greto-fine-di-mondo di uno solo dei personaggi, consumando così tutto il Burst e il FB. Oppure potete tenervelo in caldo per il prossimo boss, devastandolo prima di tecniche segrete potenziate in BM e poi scagliandogli contro un FB. Esaltante e assolutamente necessario per gli ultimi fra questi boss, che probabilmente non ne vorranno sapere di crepare a meno di ripetere tutta la procedura un’altra volta. Se in quanto a struttura di gioco e a sistema di combattimento ormai Gust ha raggiunto ottimi livelli, non si può dire lo stesso di altre componenti. Ad una buona colonna sonora si mescola un doppiaggio deludente, con Pamela (finalmente giocabile!) totalmente rovinata nell’interpretazione US. È comunque disponibile il doppiaggio giapponese. La storia, infine, non si distingue per bellezza o originalità, anche se l’impegno profuso è molto superiore che in GP così come la durata dell’avventura, qui più che soddisfacente. Un ottimo titolo per chi apprezza i lavori di Gust e per chi cerca un buon jrpg, insaporito ulteriormente da alcuni extra anche nella versione normale del gioco. 8
...aumentare le statistiche e tanto altro. I pettegolezzi si sbloccano compiendo certe azioni segrete durante le fasi esplorative, come saltare duecento volte o esplorare per un tot di ore continue. Esattamente come i Secret Factors di Grand Phantasm.
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ALONE IN THE DARK 5
Alone VS The Dark 5
console 360/ps3 sviluppatore eden studios produttore atari versione pal provenienza francia
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
ue giochi mi hanno supplicato di non vederne la fine. L’altro era Perfect Dark Zero. Alone in The Dark 5 è come un pagliaccio da circo: non importa se ogni tanto riesce a farti ridere, resta comunque un imbecille vestito da cretino. Sparpagliate a casaccio lungo un’avventura corta e lineare, le buone idee si mostrano, solo di tanto in tanto, timide e timorose agli occhi del giocatore. Tutto il resto, come direbbe Pappalardo, è una frustata sul buon cuore di chi non ha voluto credere ai tre e mezzo e alle bocciature di mezzo mondo. Troppo poco per profumare di arbre magique alla mela verde (indubbiamente il mio preferito), un fallimento che sfiora spesso il disastro. Se c’è del buono, e c’è se si ha voglia di vederlo, è troppo sotto pelle per essere apprezzato del tutto. Alone in the Dark 5 comincia male. I primi minuti sono un manifesto ai bug, alle imperfezioni e alle macabre scelte di game design dell’intero gioco. Il sistema di controllo, macchinoso e imperfetto, fa rimpiangere quel muletto con le gambe tanto criticato in Silent Hill. Peccato si abbia pure il coraggio di azzardare qualche fase platform. In prima persona invece la vita ti sorride, ma switchare continuamente tra le due visuali può castrare la pazienza umana. L’inventario a forma di giacca sarebbe una fucina interessante di buone possibilità, ma si è costretti a centellinare gli oggetti con la logica di un tartufo orientale. Sulla destra le
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bottiglie da alcolizzato, gli spray miracolosi e le luci; sulla sinistra gli oggetti piccoli e quelli necessari. I pochi slot a disposizione e l’impossibilità di appoggiare un coltello laddove è previsto un fustino del Dash, costringono a maratone continue di lascia e raccogli. Prendi il fazzoletto, lascia il nastro adesivo, riprendi il vino rosso, abbandona le bende, posa le batterie. A fine gioco, con qualche posto impegnato da oggetti non scartabili e qualche enigma a richiedere combinazioni complesse, è il suono soave delle bestemmie ad attivare i salvataggi automatici. A chiudere il cerchio, e siamo neanche alla terza missione, si mostrano le estenuanti sessioni in bat-mobile. New York che si sfascia strato su strato è scenograficamente interessante, ma realizzata in
modo pessimo e insopportabile dal punto di vista ludico. L’ingovernabile auto si bulla di collisioni ignobili e truffaldine e il simpatico giochetto dell’accensione viene presto e inevitabilmente a noia. Gironzolare per Central Park, tra dossi, buche e spaccature, è un’esperienza rognosa e maledetta soprattutto quando si è costretti a percorrere lunghe distanze. Il peggio del peggio, l’unico buon motivo per spaventarsi in Alone in the Dark 5, è il rischio di ritrovarsi di nuovo in auto a sfiorare palazzi, a sfuggire pipistrelli palestrati o, più semplicemente, a schiantarsi in un burrone. Passata l’orgia di eventi, pizza party ed esplosioni iniziali, il gioco stabilizza un ritmo meno frenetico ma pure meno vincolato alle decine di indicazioni su
Il gioco include un sistema per saltare senza vergogna qualsiasi sessione di gioco, in modo da raggiungere la successiva senza faticare. Esperimento che, più di bilance e telecomandi, potrebbe allargare il mercato dei videogiochi (veri) ai casual gamer.
(A sinistra) Gli spray medici possono davvero far miracoli in Alone in the dark 5. Oltre a curare le ferite, infatti, possono anche rimettere a nuovo i capi d’abbigliamento.
schermo. Pur mantenendo una linearità da stanze travestite, concede buona libertà d’azione e snocciola enigmi di discreta intelligenza. Libero da feroci obblighi di game design, il giocatore può inventare soluzioni sempre diverse e fantasiose. Si può bucare il serbatoio di un’auto, utilizzare la benzina per riempire una bottiglia, svuotarla a terra per preparare una trappola e poi darle fuoco per eliminare i propri nemici. Awesome, senza dubbio, ma sparare è sempre la soluzione più efficiente e pratica: tanto sbattimento è comunque inutile, quando non se ne ha reale necessità. Il resto è routine: trama sopportabile, grafica altalenante, qualche sparatoria divertente e un menu informazioni comodo quanto un Materazzi ancorato alle caviglie.
Se non mi vesto da Spider Man per raggiungere con un cazzotto volante questi maledetti francesi, è perché questo gioco nasconde finezze niente male, celate nel grosso letamaio che rappresenta. La stessa fisica dei taxi rimbalzanti, per esempio, regala soddisfazioni capaci di rivaleggiare con quelle di Half Life 2, mentre un alleluia si alza in aria davanti alle prime porte sfondabili dei survival horror. Le combinazioni di oggetti dell’inventario sono una (vecchia) novità che tritura con largo margine la banalità degli accoppiamenti visti in Resident Evil e Silent Hill. Ma l’incanto finisce, quando una texture piana e mal realizzata insegna a guarire le ferite dei giubbotti di jeans. Il cuore rallenta, il respiro si fa affannoso e una nausea da donna incinta ob-
bliga alle lacrime le mie fiere ginocchia. Tanta pacchiana sufficienza non si era mai vista nei cavalli di Barbie, figuriamoci tra i miliardi di un capolavoro annunciato. T’invidio lettore che arrivi, che puoi ancora scappare da cotanta inutilità. Perché questo Alone in the Dark può persino interessare qualcuno, ma davvero non aggiunge niente all’odierno mondo dei videogiochi. 5
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SECOND SIGHT
Quando piove, diluvia
console ps2/gc/xbox/pc sviluppatore free radical produttore codemasters versione pal provenienza uk anno 2004
a cura di Giovanni “Giocattolamer” Donda
er molti, quando si è in due, si è in compagnia. Per molti, appunto, ma non per l’industria del videogioco. Qui, quando si è in due, si è solo in troppi. Ma la storia insegna a chi vuol ascoltare, e nonostante i tratti sempre più in comune, quest’industria sa ancora fare le orecchie da mercante che ti aspetti da una capricciosa sorellina. Hollywood insegna che tra Volcano e Dante’s Peak c’era qualcos’altro in comune che non fosse la trama. Hanno fatto entrambi schifo, e non solo al botteghino. Hollywood insegna, dicevamo, ma Midway e Free Radical erano assenti ingiustificati quel giorno, o forse erano già in pieno crunch e ben oltre il punto di non ritorno. L’amara consolazione è che tra i rispettivi Psi-Ops: The Mindgate Conspiracy e Second Sight, ci passa la stessa differenza che passa tra The Cave e The Descent, più che tra Armageddon e Deep Impact. Il primo ha un budget americano, il secondo un budget inglese. Psi-Ops è tecnica prima di contenuti, Second Sight è storia prima di ogni altra cosa. Non che questa inizi nei migliore dei modi. John Vattic è pelato, parla fra sé in continuazione e non ricorda nulla del suo passato. Se avessi intascato un euro per ogni volta che ho sentito quest’ultima frase, probabilmente avrei di meglio da fare che stare qui a convincervi del contrario. Second Sight non solo ha una storia che non provoca intolleranza, ma nello scoprire cosa si celi die-
UNDERRA TED
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tro il primo incontro con questo suo protagonista – un incontro all’apparenza così pericolosamente clichè, ma con il senno di poi mai così efficace – sa anche sfilarti il tappeto da sotto i piedi. Non è tanto cosa narri la storia, è come questa venga narrata. Perché avremo anche evitato gli sbuffi di non essere in missione per conto di Dio, né per la solita megacorporazione contro la quale inevitabilmente ci ribelleremmo, ma non è che stiamo parlando di Silent Hill 2. Abbiamo pur sempre dei coreografici poteri psichici a far da contorno alla nostra comoda amnesia, e se ha ragione Zucchero nel dire che le note sono solo sette, non ci sono poi tutte queste storie da poter raccontare quando un videogioco ha una premessa tanto familiare. Così, la scelta di spezzare la narrazione fra
presente e passato, non è solo una necessità, è il primo gol del derby. Non avranno imparato la lezione più importante che la sorella aveva da insegnargli, ma a Free Radical ci sentono comunque meglio che a Midway. Quando Memento ha insegnato come tramutare una storia del tutto banale in qualcosa di memorabile, stavolta la sorellina è rimasta in silenzio e ha preso nota. La via più breve tra A e B è una linea retta, ma è anche la via più noiosa. Second Sight traccia una linea retta, la ripiega a mo’ di fisarmonica, ne ritaglia meticolosamente i settori e poi tutti giù per terra. Provate voi a trovare la ‘B’, adesso. Si potrebbe gridare al bieco espediente narrativo – lo è – ma per una volta che non sai dove stanno andando a parare, più
(sopra) Avete presente la caratterizzazione dei marine in Aliens? Ecco, non c’entra nulla qui, ma combattere a fianco della cricca di WinterIce è comunque un piacere
che un grido ti scappa un grazie al cielo. Strozzato, ben presto, da meccaniche stealth che prevedono la riapparizione dei nemici finché non si fanno le cose a modo – il loro modo - e che danno per scontato che il trial and error sia elencato nella dichiarazione universale dei diritti degli sviluppatori. Ma l’opportunistico contropiede di Midway viene neutralizzato sul nascere, quando la tattica di Free Radical si rivela per quello che è. Non è solo mero espediente narrativo, è anche mero espediente ludico. Con l’intento di spezzare la storia, Second Sight finisce per spezzare la monotonia, alternando fra loro le sezioni stealth con altrettante sezioni à la Rambo. Livelli che profumano di episodi televisivi: troppo brevi per puzzare, troppo lunghi per non pren-
derti quanto basta. Finiscono tutti sulla nota più alta, quella mozzafiato, quella che ti fa ricordare che il box-set non è poi stata una scelta tanto stupida. Sarà la tensione da season finale, ma non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che mi sia dispiaciuto finire una sezione stealth. Second Sight sa essere un Jolly di tutti i mestieri, ma senza la spiacevole implicazione di non essere bravo in nessuno di questi. Perché si gode a sparare, tanto quanto a impossessarsi silenziosamente del corpo altrui. Per poi “sparare” via quest’ultimo tramite la telecinesi. Sotto una pioggia torrenziale, sopra il tetto di un manicomio, è qui che Free Radical gonfia la rete per la seconda volta e non c’è più storia, la mamma può buttare la pasta. Ma si sa,
quando piove diluvia e il derby fra Psi-Ops e Second Sight verrà sospeso per maltempo. Ahimé, odio dovervi comunicare che non ha buon fine questa nostra storia: Midway vincerà a tavolino e tranquillizzerà tutti tornando a non sfornare nulla di significativo negli anni a seguire; a Free Radical, invece, andrà anche peggio: se ne usciranno con Haze. Ma a chi vuole ascoltare, la storia insegna che tutto può cambiare, e se voi avete ascoltato, Second Sight vi aspetta palla al centro, pronto per la sua rivincita. Dategli una seconda possibilità, dategli un secondo sguardo. 8
(in alto a sinistra) Soffocata dalle ben più vistose meccaniche di gioco introdotte dai poteri psichici, l’ingegnosa implementazione del mirino da cecchino passa inevitabilmente in secondo piano. Ciò è molto male
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a cura di Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero
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alla scoperta delle ‘indie’
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http://flashgamesite.com/ flashgame1290.html
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l dolore è sempre sotteso al videogiocare: la violenza ne è parte integrante, il male fisico, pur se virtuale, una sua appendice. Questo viaggio estivo si concentrerà sul dolore in quanto tale, niente metafore o parallelismi forzati ma solo il colpo che fiacca il respiro, la ghigliottina che trancia il capo. Sangue a fiumi e cose belle, insomma. Come la coda in autostrada. D’estate bisogna pur staccare la spina no? Anche quella dorsale.
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a
Cambiare le carte in tavola è quello che viene meglio a Karoshi 2.0. Svestendo i panni di platform-puzle duro e puro indossati dal predecessore, il secondo Karoshi ama prendersi gioco dell’utente. Si possono passare una decina di livelli sottoposti a regole chiare e precise e poi ritrovarsele sovvertite in quello successivo. In uno slancio di metarefenzialità il puntatore, inutile fino a quel momento, può diventare un appoggio su cui saltare. In altri casi lo stile grafico o quello di gioco mutano radicalmente. Dopo un livello cervellotico ci si può trovare in uno che si completa quasi da solo. In ogni istante le costanti sono comunque due: una qualità di inventiva fuori dal comune e la ricerca della morte del protagonista. Karoshi tiene fede al suo significato (può esere tradotto come morte da troppo lavoro) spingendo il colletto bianco ai comandi dell’utente a cercare un metodo con cui togliersi la vita. Karoshi ha successo non solo perché non indugia in maniera voyeristica sull’atto del morire, ma perché lo ingloba in un macchinario più complesso. La morte, il dolore sono il valore aggiunto di questo gioco, non la sua unica ragione d’essere, il che rende il progetto vincente. Jesse Venbrux aveva già svolto un buon lavoro con il primo Karoshi, ma questo seguito, grazie alla capacità di ribaltare le prospettive e di giocare con l’utente quanto lui stesso giochi con Karoshi, ne fa una gemma di rara bellezza nel panorama indipendente. D’altra parte, in quale altro gioco bisogna farsi ammazzare dal (anzi dai) boss finale(i)?
Stickicide è dolore becero. C’è ben poco di alto in questa terza visita alle “indie” ma Stickicide tocca il fondo senza grazia, spatasciandosi in una cartoonesca macchia di sangue. E non fa nemmeno ridere. Seth Wooten ha una naturale tendenza all’estremizzazione grafica della sofferenza. Mosso da un goliardico, e in una certa misura condivisibile, amore per il gore, Wooten non riesce a concretizzare altro dal trash adolescenziale. Manca autoironia, verve comica e comprensione dei rudimenti del game design. In Stickcide si comanda l’ubiquo ometto stilizzato, simbolo di tante produzioni Flash. L’obiettivo è quello di ucciderlo in svariate, warnerbrosiane modalità, accumulando il maggior punteggio possibile entro il tempo stabilito. Che è troppo. E’ troppo perché lo slapstick splatter di cui si fa portatrice questa serie (a oggi sono tre gli episodi) non diverte, l’incentivo a conseguire una performance degna di nota è inesistente perché inesistente è la struttura ludica. Manca il contesto, l’importanza dell’obiettivo, un qualsivoglia ostacolo. Uccidere il povero stickman è unicamente questione di traslarlo verso lo “strumento di tortura e di morte” e dare il La alla pregevole animazione. Non c’è possibilità di combinare le trappole (come nel vecchio Deception di Tecmo), non è richiesta, insomma, né abilità né input creativo da parte dell’utente. Quel che rimane è un bianco e nero condito di rosso pomodoro. La reazione dopo qualche decina di secondi è di noia concentrata poiché martoriare l’omino stilizzato non dona alcuna emozione.
Karoshi 2.0
Giocate a Karoshi 2.0 al seguente indirizzo http://www.yoyogames.com/games/show/32253
Scaricate Stickicide al seguente indirizzo http://www.crazyawesomeyeah.com
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Stickcid
de
The Pain Machine Game muove un passo oltre a Stickicide, ma è un piccolo passo per un uomo e un ancor più misero passo per il videogame. Trattasi di preparare un breve percorso dolorifico su cui immolare un goblin (ad esempio accendere un fornello con cui il poveraccio si scotterà, andando poi a finire impalato su un coltellaccio da cucina). Anche qui il sadismo è il movente principale, strutturato però in forma di puzzle game. L’idea non è nemmeno malvagia, il problema è che il tutto è ostentatamente amatoriale. Se non fosse per la maggiore risoluzione si sarebbe portati a pensare che The Pain Machine Game sia uscito
Truck Dismount
1492 1492 1492 1492 1492 1492 1492 1492 1492 1492 1492 dritto dritto da un Commodore 64 poco sfruttato. Per il primo paio di livelli ci si diverte anche, ma ciò che rimane da lì in poi è il classico Flash game che punta tutto sull’umorismo e poco sulle idee. E’ un articolo usa e getta quello qui proposto, dove la soluzione è unica e il processo per trovarla è il continuo provare e riprovare. Da un certo punto di vista è un peccato, perché con un po’ di mestiere in più e una verve comica più ispirata ci si sarebbe potuto trovare di fronte ad un atipico e mediamente sollazzante puzzle-adventure. Così com’è, invece, rappresenta solo il secondo gradino più basso di questa scala qualitativa del dolore.
Truck Dismount è dolore creativo. Confinata in una manciata di elementi di game design, la miniserie Dismount (che comprende Truck, i due Stairs, più svariati mod) ricrea la sadica sensazione di infliggere pene corporali ai Big Jin/PlayMobil/Lego dell’infanzia. Il manichino da crash test, tale sfigatissimo Mr. Dismount, si posiziona spavaldo sul camion, qualche rampa viene piazzata sul terreno e via di acceleratore. Contro un muro. Le fratture assortite sono il risultato, il punteggio più alto la scusa, un sadico godimento l’obbiettivo. Dismount è un FlatOut ante litteram (nasce nel 2002), è la tech demo che prende coraggio e tenta timidamente la strada ludica, da esso non ci si deve attendere nulla di più di qualche minuto di goliardica crudeltà. In un paesaggio indie spesso mancante di idee e coraggio è rassicurante vedere che c’è chi batte strade diverse, coniugando ricerca e soluzioni ludiche per dar vita a piccole scintille di creatività. Sarà onere di altri alimentarle in uno scoppiettante fuoco. Nel frattempo non si può che lodare il lavoro di Jetro Lauha e di Secret Exit, un vero laboratorio, la “grande evasione”, come sottotitolano loro, dalla standardizzazione videoludica. Scaricate Truck Dismount dal seguente indirizzo http://www.secretexit.com
Giocate a The Pain Machine Game al seguente indirizzo http://flashgamesite.com/flashgame1290.html
The Torture Chamber The Torture Chamber è rappresentativo di una sottocategoria del dolore fisico. Da The Torture Game ai vari Torture X (dove X sta per un personaggio a caso tra Harry Potter, Bin Laden, Bill Gates, un emo, le tette di Gwyneth Paltrow e altri ancora) esiste, nella geografia delle efferatezze videoludiche, un microcosmo di sadismo di cui il famoso marchese sarebbe orgoglione. Per lo più brevi digressioni sul tema delle pene corporali, la quantità di tali progetti la dice lunga sul lato oscuro della psiche del maschio medio. Non solo e non sempre goliardici, questi “atti casuali di violenza” stimolano un feticismo verso il gore, verso il controllo incondizionato su un altro essere umano (pur se virtuale) che potrebbe far accendere, in un gesto ipocrita, le pire dell’in-
quisizione al MOIGE. Perché siamo tutti lì a puntare facilmente il dito ma poi, come i creatori di Carmageddon evidenziano in un’intervista a Edge, nella solitudine, lontani da esposizioni mediatiche e liberi nella nostra primitività, siamo i primi a godere di tali estremizzazioni del videogioco. Nessuna giustificazione, per carità, solo la constatazione che tutto ciò fa parte dell’essere umano e non riconoscerlo è un po’ come credere che questi siano veri videogiochi, mentre il loro è un ruolo di antistress, di cazzara stimolazione dei propri istinti meno civili. Questi sfoghi digitali sono la reclusione in innocui recinti di pulsioni primordiali. L’importante è saper contestualizzare. E’ per questo che se The Torture Chamber, nella sua fumettosità, risulta
Giocate a The Torture Chamber II al seguente indirizzo http://www.newgrounds.com/portal/view/390370
ampiamente godibile, qualche dubbio lo solleva The Torture Game. L’esagerazione è ancora ben evidente, ma la forte sottolineatura grafica, che si stacca dalle atmosfere cartoon per collocarsi in un’area tendente in maniera maggiore alla verosimiglianza, desta qualche dubbio. Desta dubbi perché ci si chiederebbe quale fosse il confine e quanto lontano esso sarebbe se se l’acceleratore venisse premuto fino in fondo in quella direzione. Un conto è
farsi due risate in Seaman centellinando l’ossigeno, alzando la temperatura, spegnendo la luce e bersagliando di schiaffoni l’antropopesce; un’altro è porsi seriamente come obbiettivo l’allevamento di un disadattato da acquario. In egual misura il crogiolarsi nell’infliggere sofferenze fini a se stesse, senza che esse vengano stemperate dallo humor o collocate all’interno di un messaggio, non rappresenterebbe certo una vittoria per la comunità indie. 021
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PN03
C
i si torna indifesi, dopo anni, alle natiche ondeggianti di Vanessa Z. Schneider. Ci si torna indifesi e strabuzzanti per l’accecante – perché martoriato di scalette – universo bianco sporco di quest’opera minore del grande Shinji Mikami. Ci si torna con due consapevolezze parallele: il ricordo idealizzato ma non trasfigurato di un’esperienza minimalista ma roboante, da una parte; quello dell’oceano di bile vomitato da stampa e pubblico su questo action game per GameCube, dall’altra. Ci si torna con in testa i ricordi ben vivi delle opere magne del designer: il game of the year Resident Evil 4, il bgame of the year God Hand. E ci si torna consapevoli della matrice comune alle tre opere, della natura violentemente action – interpretata da armi da fuoco o calci e pugni – e dell’impostazione relativa al personaggio dei controlli. PN03 appare ora, col senno di poi, la chiarissima larva (il colore dominante sembra scelto apposta) di una concezione dell’action game destinata a segnare indelebilmente il tramonto della scorsa generazione di console. PN03 è un gioco d’azione fatto di esplosioni, raggi laser, stanze tutte uguali e nemici robotici invariabilmente statici. È un gioco d’azione che veicola un’esperienza saggiamente (e per mancanza di fondi) breve, brevissima, fugace, ma reiterabile e foriera di giorni e giorni di divertimento. È un titolo che chi scrive ha apprezzato e non poco, nonostante la sua po-
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capcom production studio 4 gamecube 2003 shinji mikami
chezza tecnica e concettuale. È un titolo che il resto del mondo ha aborrito malamente, proprio in forza del suo rozzo minimalismo tecno-ludico. Un titolo perfetto, in sintesi, per il cestone dei Giochi di Merda di questo numero. Oggi come allora, galvanizzati dallo stilosissimo filmato introduttivo, si prende in mano il joypad con la voglia di vedere Vanessa danzare. Bastano pochi istanti perché l’esaltazione si trasformi in disappunto. Il sistema di controllo, perno intransigente dell’opera, distrugge il sogno di una condotta acrobatica e leggiadra. L’impossibilità di sparare in movimento e l’assenza di una camera automatica che inquadri gli obiettivi di volta in volta auto-lockati, fa sembrare PN03 l’action game peggio concepito della storia. Ma il problema non è il gioco, sono gli spazi esterni. Perché PN03 è un titolo indoor, pochi mazzi… Sulla struttura geometricamente replicante degli spazi interni, lo schema dei comandi si posa e si incastra rimanendo ben saldo. Per chi gioca, è come un sintonizzarsi ferormonico sulle frequenze di un’esperienza, da lì in poi, ipnotica ed assuefante. È dentro i labirintici ed asettici edifici, all’interno di budelli e sale dipinti a suon di gourand shading di medio livello, che PN03 esplode la sua parca classe. I controlli reggono alla perfezione le richieste del game design: Vanessa corre, capriola a destra e a sinistra, si gira di scatto di 180 e 360 gradi. Spara colpi singoli e a ripeti-
zione, rilascia quantità industriali di luce colorata sotto forma di attacchi speciali, ognuno accompagnato da uno splendido passo di danza, ognuno attivabile tramite il minuscolo d-pad con una breve combinazione. Dall’altra parte della barricata, l’esercito dei mecha è più che altro una serie di ostacoli da abbattere uno per volta: nessuna IA intraprendente, nessun attacco irresistibile. I robot nemici esplodono come fuochi d’artificio, uno dopo l’altro, Vanessa ne attraversa le fila accompagnando laser e deflagrazioni con l’ondeggiare ammiccante del suo sedere. Pulsioni distruttive, pulsioni riproduttive, PN03 è in pratica un distillato di ormoni maschili… Non ha altro da offrire, questa opera minore, e non ne fa mistero. Zero trama, zero filmati d’intermezzo, riciclo sistematico dei particellari e un soundtrack povero di tracce. Ci sono le “extra mission”, sì, ma sono più che altro un allungo di brodo dal sapore diafano e alla lunga stucchevole. Molto meglio una fruizione ripetuta dell’avventura vera e propria, attraverso i tre livelli di difficoltà: si parte dal primo, ci si potenzia, si riparte conservando ogni upgrade. La sfida c’è ed è calibrata al meglio, come al solito quando c’è di mezzo Mikami. Dopo anni ci si torna indifesi, innanzi all’orgia di esplosioni e glutei danzanti. E il sorriso sulle labbra, dal primo all’ultimo spettacoloso boss, è ancora lo stesso.
di Federico Res
\\giochi di merda!
a cura di Simone “Karat45” Tagliaferri
www.arsludica.org
MUS LIM MAS SAC RE
Muslim Massacre è un’arena shooter freeware in cui, vestendo il ruolo del classico soldato americano ormonizzato, bisogna semplicemente massacrare dei terroristi islamici. Analizzandolo (http://arsludica.org/2008/06/27 /esaminando-muslim-massacre/, leggete anche i commenti) è emerso che l’aver utilizzato, per la rappresentazione del gioco, tutta una serie di luoghi comuni, potrebbe avere una valenza dissacratoria più che essere un becero tentativo di propaganda come appare da una lettura più superficiale. Il condizionale è d’obbligo perché si può giungere a una conclusione del genere soltanto se si è letto fino in fondo il topic di presentazione del gioco (che non inserisco perché improvvisamente il forum è diventato a pagamento e inaccessibile agli utenti non registrati). Niente, o quasi, nella rappresentazione ludica permette una lettura del genere. Ovvero, il sospetto viene, ma nasce più grazie alla cultura del giocatore che dalla fruizione dell’opera stessa. In realtà, il problema che possiamo porre partendo dall’esame di Muslim Massacre, non è banale come potrebbe sembrare. Riguarda i mezzi con cui i videogiochi comunicano quei significati che - piaccia o meno - sono presenti, siano essi espliciti o impli-
citi. La stessa volontà di adottare un certo tono, presuppone l’adozione di alcuni accorgimenti che permettano al giocatore di coglierlo senza dover andare a ricercare in giro per la rete commenti, interpretazioni posticce e affini. Muslim Massacre in questo senso è fallimentare. Ovvero, senza la presenza di paratesti esplicativi riesce a comunicare soltanto la sua superficie. Non solo, incanalando l’interpretazione, non chiarisce mai i suoi scopi, ma non cerca neanche la strada dell’ambiguità che permetta di intuirla. A un primo impatto (ma anche al secondo e al terzo) il titolo appare piuttosto ‘serio’ nei suoi intenti e, nonostante le esagerazioni, non traspare altro se non il suo farsi portavoce di una serie di luoghi comuni facilmente stigmatizzabili. Mi si dirà che proprio la loro presenza permette di coglierne l’ironia, ma continuo a credere che ci sia una grossa contraddizione in questo discorso. Sarebbe come dire che un Call of Duty o un Medal of Honor qualsiasi permettono una lettura ironica della guerra perché spiattellano sullo schermo tutti i luoghi comuni possibili e immaginabili derivanti dalla retorica militare. La verità è che, senza fornire una chiave di lettura specifica all’interno della fruizione, i luoghi comuni diventano proprio quello che sono. Ovvero, vengono affermati e diventano parte fondante del discorso, rendendo di fatto tutte le altre interpretazioni possibili delle sovra-interpretazioni. È ovvio che si possa fare ironia su qualsiasi opera ma, ribadisco, se non è l’opera stessa a ironizzare su sé stessa e sui suoi contenuti, si tratta di un lavoro esterno, di un paratesto completamente nuovo. Nato sì, intorno e grazie all’opera, ma che non è contenuto in essa, se non nei termini della necessità di creare riferimenti precisi e riconoscibili per far sì che l’ironia funzioni. Anzi, in questi casi sarebbe meglio parlare di caricatura, più che di ironia, perché spesso l’intento
è proprio questo. In realtà, quelle che sto affrontando sono questioni abbastanza assodate, che ci consentono di distinguere Moliere autore di commedie da Racine autore di tragedie. Il problema è che Muslim Massacre, nonostante le parole del suo autore (arrivate dopo la pubblicazione del gioco), sembra prendersi maledettamente sul serio, anche quando abbozza la caricatura di Bin Laden che lancia aerei contro il giocatore. È difficile non vederci della propaganda, perché non c’è altro che propaganda. L’immaturità del medium videoludico non è una scusante per l’autore (esistono molti esempi di videogiochi che sono riusciti a usare l’ironia con successo… ma ne riparliamo nel prossimo paragrafo), che ovviamente non va crocifisso (altrimenti finiamo per trovarci in mezzo ai piedi un’altra religione e magari qualcuno decide pure che la madre lo ha partorito da vergine) ma che, scegliendo un tema così delicato, doveva studiare meglio come renderlo sullo schermo per non creare fraintendimenti. Magari sistemerà la cosa nelle versioni successive (il gioco è ancora in beta). Non mancano, infatti, esempi di meta-videogiochi che, riflettendo sulla propria natura, hanno eletto l’ironia a cardine dell’esperienza ludica. Il mondo dei giochi freeware ha già mo-
strato di saper ironizzare su sé stesso (penso a uno Shit Game o a un Ikachan, per fare un paio di esempi), ma anche il mercato mainstream ha saputo regalare, negli anni, qualche ottimo esempio di ironia in-game. A partire dai magnifici mutandoni di Ghosts’n Goblins, passando per Monkey Island fino ad arrivare al più recente The Bard’s Tale, fondato totalmente sulla dissacrazione dei luoghi comuni del genere fantasy. Per non parlare di Team Fortress 2 che fa dell’improbabilità e della caratterizzazione caricaturale dei personaggi il suo punto di forza principale, andando a demistificare il genere degli sparatutto ondine, fin troppo legato a certe forme di esaltazione tipiche degli eccessivi sbalzi ormonali e dell’estrema frustrazione individuale. Quello che imputo a Muslim Massacre, quindi, non è tanto la bruttezza dei suoi contenuti (che magari possono piacere a un deviato mentale, o a un leghista) quanto la volontà di non manifestare in modo efficace parte del suo contenuto, rendendolo di fatto talmente implicito da consentire qualsiasi interpretazione. Ovvero permettendo al razzista becero di esaltarsi per i suoi contenuti, senza porsi alcuna domanda su di essi. L’effetto esattamente contrario a quello desiderato… sempre stando alle parole dell’autore.
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rsupe ma è appas, ) o a sorris chi di un mpo lche c te a qua olo agli o pio, nel p p a r m ic er st e p id s r e o e er fa ioc ficiale o. Alex, p n videog bene, lo t u o a it a n t p t io a n e s c u g o r e r t p ve ote 984, RI libero suo (sì, a to) per p non un nel 1 ELLA t E I ST er, uscito ideogiorsino onto e in salo lunario. H c C O v t I be pe h il e i ereb nista, ma a solo barcare d ione. ie 2 – G st Starfig x, un abil Centaur d n is e v r a a os he ago nel r. la tele i una ser The L come Ale ruolato d giorn per DS, c del prot film o Xu di so d iega inisca ar attivissim n videovive il primo to un gna di de co gno p i n is o io s s a s v g r i n il g o u f c i o ile e ma 0 anni s ico solo tore, ati al quind ere il glie tra le credib ox. Avet i3 Ecco ciali dedic po racco giochi ca sconfigg tti, non è scovare raf Xb zzo d ematog r a r. È p r o f e r a e a u e e p e t g r p in p s s p a g id , i r n in t v o o d c u h i d n l G e o u ig iim a . f i d t r s r m o d no e Il p un Sta unt oti no u quale un kolos ualch nutro si. ri pil rmo. , ma erica ? App e sche e non si che, in q ti, o qua gioco ie i miglio ercito am parare i girar ua cucina h is a ie c s s n r d s s m e o p i ala film i tie-in od e l’ er gli tag nella de m e i g aputo ch e ludici p ota che o pro come li vedon e racchiu raccontar ris twar osa n qualche f , c , h o i o io c s è d d p a mo ione opposti, er esem lizza ati ed hanno d li scaffali. selez on i sold e g Una e spesso games, p a le c s- suo i softwar persino za? m r , a i, e o vers iochi. W stess aggiunto omiglian vicin possono a d g r s o li he nno vide a sfiorar pellicola - a tate qualc r te ai a semb zioni dell ttualizza come Gio No a ì a i s r ente side i. Co ticipata a bellic facilm n sere ni giochi isposta a ziati dai r in r mode llari è la otti e fina no The W e o te d chi S iochi pro nsi. Segu ing virale g t e r e video i statunit il marke p r a simo un milita he anticip he è pes cerchio c il c del a e d r n r n e n a o d z o n o di n ni. A chiu reciento, rtifica c c o ieri, C e io altro o in T che c o e rag NTO , uscito l’ utti e molt tico came gari, ma variegat E I C a e a o RE nr ans O simp iuscito m giorment 5 – T he Spart arodie co i piaccian il MAG r g NDE et T quelle p ican rmopili, tutto blico ma to. r e A e M R m G a ub di LO agli a e Te un p o al pass una CCO è una ge che a aglia dell e soddisf tt L PI MES 89, è rispe coreg ella batt la qualch ockstar 3 – I IDEOGA o nel 19 sponsoriz s V cit nga .N iR DEI izard, us a voluta e zino trau tanto eonida re matori d TA: San A z t ualram l loro G to L q g The W marchet . Un raga ica alla i in o f d r o a e ai p er ne a ardo gross a Nintend ezza am d arrivar zione a citazio ure in rit any ci ha d m ia p un i pp m s e n o s e o zata ato gira necessar C , c h ), la a z i ciò c partes. Or Coca Cola in meno za. a e r matiz dei sold lmeno è d ( lo n ce o a s o t c o r n a ie e a e o c r n s ricer fornia (o film). Ci osso torn a che a qualche a imp e esa li r o na su inestron a pop s u s e e in Ca durante il do, un g pare (prim t r m s m u e lt n iv n u u r c il p e o a crede o, e vinc l quale a nitensi) scelt film son zioni alla A indica i e d il tu T ti d la cipan ogiochi n egozi sta Ma tutto Ques di percu arci un G in grado e n S v 3. o to di vid che nei ros. cità al NE gera sa e ritro il pubblic . B a io t a r r s e n anco uper Ma ua pubbli grande acco di ma sia ampio a citazion S ne 83, r e ES i, in lt GAM ito nel 19 an, giova capit ome buon una cont it che res e alla ver le co c R a t A e sere a ir è a 8 b er Glove rago” 1 – W mes, usc id Lightm si i voti all’es dimostr film ecep d r le i o n s v a D y o w n a lonta ma’s Bo i dall’esWarG nde di D i. Alzand el rudila co o), al Po “Doppio ’interno n ( e b d n i ll d d d e o n a r d a n ssero Siam tutto Gra ben lont tenzione. le vic agli eso la scena net), si im Ninte casalinga rima che incia t t e a er er sta a non si sto p ssi si com ione hack tici (mitic ento int iochi tra sopra mo anch e s iu e u g Q e e la g m . t i… ia s v ) r o s a s o n la h a e i g t d o e o g it e h A c id d r c c ll c “ v s a li o com escritti ati la ogiochi. ie di tenzione gioco, ( i videogio azi pubb ale c iv r t r e r n d s a e e e t ol e a p o m id Il de ser an Id sua a in un siam ere s ti i v ale”. uvend pure i avvicina d Americ re per il batte quista la are glob lo di sim p a E o le on ma co a o, ende cui c termonuc do non s erra nusono lì, di fian farci pr e scherm u ra mo rs, a l grand ndo tacco à, è in g di una g arla sul ia a o e S m p o fe alt . Su re il ey S caten i, è mess in re catastro Britn alla satira to a gira tta” con d e di s sila rima lo d stina e casse lare , ma anch ista, quin vera (pos e u c d r e in p m e on un fil utto a “fa mo velin pure clear Il protag ltà di una uo frivolo in a . ls ratt nno i. Sia serio te alla re enata da è quello e sop portant oi ci fara t n n re im rima o p mma. di fro uerra sca rla. E no ni? Ci ca if c r g la o a, p ogra bile) e di simu tutti i gio un uom serat rre un pr r e oi ro u d n piace cciamo n re davve adar com o c r a a che f consider alato sul n di pita rucco seg c quel o? emic un n NNA gh) di viI NO ar CO D datore ( lmente a C O 4 – C un collau e giorna Il film re iv lè . Alex chi che v d e hippy rietto de a r io deog to con ne patico sip (il t o conta ualche sim all’intern le righe d q ra gala tria vista capo sop s l’indu mmatore ra prog
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