SETTEMBRE http://bab3l.splinder.com
C O N T E N T S 008 2 0 0 8
PROGETTO EDITORIALE federico res COPERTINA tommaso “gatsu” de benetti GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI giovanni “giocattolamer” donda SITO WEB http://bab3l.splinder.com BABEL È OSPITATO DA www.paolofranchini.com www.qb3project.net www.issuu.com
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NINJA GAIDEN 2 LAST NINJA, LAST GAIDEN
REDAZIONE alvise “kintor” salice cristiano “amano76” ghigi emanuele “emalord” bresciani federico res giovanni “giocattolamer” donda giancluca “sator” belvisi marco “il pupazzo gnawd” barbero michele “guren no kishi” zanetti michele “macca” iurlaro tommaso “gatsu” de benetti vincenzo “vitoiuvara” aversa HANNO COLLABORATO alberto “floyd” li vigni simone “karat45” tagliaferri COPYRIGHT 2007/2008 Babel Edizioni
Babel è un magazine gratuito. Può essere letto, stampato, prestato a cugini e parenti o inviato via fax in Alaska. E’ assolutamente proibita la distribuzione a pagamento, integrale o parziale. Se avete pagato per leggere queste righe, significa che qualcuno specula sulla passione nostra e vostra. Fateci sapere chi è. Troverà giusta punizione.
BABEL 002
IGNITION Alive and kicking 003
FRAME Guida bene chi guida ultimo 008 REVIEW Ninja Gaiden 2 010 Siren Blood Curse 012 Soul Calibur 4 014 Braid 020 Viva Pinata 2 019 From the Abyss 018 Summon Night Twin Age 016
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
S O U L
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C A L I B U R
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CROSS SWORDS, CROSS DRESSER
Nerd nell’Uncanny Valley 004 ODIO DI GOMITO Aeris pure ***** 005 ESCO DI RADO Vivere nel ghetto 006
LA TV CHE VIDEOGIOCA Drive me crazy 024 GIOCHI DI MERDA Odama 022 ARS LUDICA La crudeltà 023
1492 Arte esistenziale 021
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SIREN BLOOD CURSE TOYAMA FOR ALL
NEXT MONTH 025
cover story meat is murder
Ci possiamo girare intorno quanto vogliamo, incolpando le lottatrici di Soul Calibur di sembrare vagamente dei trans addobbati a festa, ma la verità è che non vedete l’ora di mettere Ivy in spaccata o creare, grazie all’editor del gioco, la spadaccina più maiala dell’uni-
verso. Namco lo sa e ha sfornato un gioco con un character design totalmente prono ai pruriti dei suoi probabili clienti. Ed è per questo, cari amici di Babel, che da oggi fate parte di un malvagio esperimento sociale collettivo. Dettagliate analisi di mercato ci rivelano
che la cover discinta del numero 005 ha fatto aumentare le visite in maniera direttamente proporzionale ai cm di pelle scoperta… e se il fenomeno si ripetesse, forse sarebbe ora di iniziare a parlarne.
iGniTion
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ALIVE & KICKING
abel giunge al suo numero 008. Forse dovremmo attendere dicembre, per celebrare il primo anno di vita, ma come per tutti i progetti nati e portati avanti per passione, anche Babel ha cominciato ad esistere ben prima che il suo numero 001 (dicembre 2007) fosse pubblicato. Dapprima semplice idea, poi prototipo largamente imperfetto, infine creta tra le mani di chi, secondo chi scrive, non poteva che renderla una solida realtà. A un anno di distanza, posso dire di non essermi sbagliato: l’intera redazione di Babel, compresi tutti i collaboratori che saltuariamente hanno voluto scrivere per lei, in questi dodici mesi hanno trasformato un’idea forse ardita in un’espressione tangibile di talento. Mi sembra d’obbligo, giunti a questo punto, tentare uno sguardo distaccato e sistematico su questo nostro progetto, analizzarne il passato e il presente e tracciarne le linee future. Badate, questa non vuole essere un’autocelebrazione: semmai, un necessario punto della situazione… Babel si è sempre fondata su una struttura particolare, basata sui punti di forza di Ring – lo status immanente da “rivista” e l’approccio fondato sull’approfondimento – e al contempo tesa a evitarne i difetti, come l’aperiodicità e la conseguente incapacità di soddisfare appieno i lettori e gli autori. Siamo partiti con l’intento di uscire tutti i mesi, di
B
pubblicare ogni singolo articolo in un comodo database, di offrire una ricca selezione di anteprime accanto ai numeri completi. Abbiano sfruttato vari strumenti, per far ciò. Ma quanto, effettivamente, ci siamo riusciti? Abbiamo avuto qualche ritardo sull’uscita mensile. Abbiamo avuto periodi avari di anteprime. Abbiamo tardato – qui mi assumo personalmente la responsabilità – nel mettere online gli articoli “sciolti” degli ultimi due numeri. Più in generale, abbiamo sperimentato una lunga serie di problemi, specie a livello organizzativo, che in qualche modo hanno inciso sulla qualità (più estetica che contenutistica) della nostra proposta. Non siamo esenti da critiche, come si vede. E se anche siamo convinti che comunque il progetto funzioni e abbia funzionato alla grande, vogliamo che in futuro le cose vadano sempre meglio. È per questo che abbiamo deciso di condurre Babel con una maggiore attenzione ai tanti fattori in gioco: quello organizzativo, quello produttivo, quello pubblicitario. In primo luogo, la gestione del nostro blog è passata definitivamente nelle mani di Tommaso “Gatsu” De Benetti, che eviterà le occasionali negligenze del sottoscritto, migliorando le forme della nostra offerta. In particolare, da questo mese troverete le nostre anteprime in forma integrale anche in formato HTML (oltre che su Issuu): soluzione agile e richiesta su vari fronti.
In secondo luogo, da questo numero sarà Giovanni “Giocattolamer” Donda (coadiuvato all’occorrenza da Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero) ad occuparsi della correzione dei testi, con le sue non comuni doti professionali di editing. Inoltre, è d’obbligo segnalare l’entrata in redazione di Ferruccio Cinquemani, noto giornalista del settore con anni di esperienza alle spalle (Super Console, Videogiochi); Emanuele “Emalord” Bresciani, inarrivabile creativo e membro fondatore di Ring; Gianluca “Sator” Belvisi, anch’egli ringhico DOC nonché acutissimo giornalista e umorista. Ognuno di loro contribuirà al benessere di Babel, anche se in maniera differente (non necessariamente sottoforma di contenuti editoriali). In terzo luogo, la lenta ma costante crescita del nostro pubblico ci ha convinti ad investire maggiormente nel settore pubblicitario: il nostro profilo su Facebook (http://www.facebook.com/pages/B abel/39657058848), che trovate linkato anche sul blog, è la più importante delle iniziative mosse in tal senso, visto il successo ottenuto di recente in Italia da questa comunità. In estrema sintesi: Babel sarà sempre più bella. Questa è il nostro piano per il futuro. Nel frattempo, muoio dalla voglia di ripetervelo: buona lettura. -Federico Res
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Tommaso De Benetti
Uno che i VG preferisce discuterli
Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO Siamo nerd nell’Uncanny Valley
I
Invece di andare da Intimissimi il nerd medio ripiega su thinkgeek.com per la fornitura di lingerie. Notare l’efficienza con cui cicli e mal di testa possono essere gestiti in remoto senza necessità di status report
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politici italiani non sono ‘diversamente onesti’, sono ladri. I ‘collaboratori scolastici’ sono bidelli. Gli ‘operatori ecologici’ sono spazzini. Allo stesso modo, noi non siamo ‘appassionati di videogiochi’. Siamo nerd. Facciamocene una ragione. Uno a cui piacciono solo i videogiochi non saprebbe che farsene del Lancer versione 1:1 in vendita con Gears of War 2. Della statua del Big Daddy. Di quella di Altaïr. Di 13.000 punti nella Gamertag. Dell’artbook di Crisis Core in allegato al gioco solo presso i migliori rivenditori online. Del link ‘Stats for nerds’ in Google Chrome. Noi siamo nerd, nel bene e nel male. Siamo quelli - gli unici - che capiscono le battute di Pure Pwnage o del Corso per Videogiocatori Professionisti. Se proviamo a spiegarle a una persona esterna all’ambiente dopo due minuti dobbiamo gettare la spugna. Non solo non ci riusciamo, ma, temendo le reazioni, nemmeno lo vogliamo fare per davvero. Ci stagliamo solitari persino quando si tratta di farsi due risate. Wikipedia - e chi meglio di lei - ci definisce così: “Nerd è un termine con connotazione negativa o stereotipata che si riferisce ad una persona che persegue con passione attività intellettuali, conoscenze esoteriche, o altri interessi oscuri piuttosto che farsi coinvolgere in attività più sociali o mainstream. Di conseguenza, il nerd è spesso escluso da qualsiasi tipo di attività fisica e considerato un solitario dai suoi cono-
scenti, oppure tenderà ad associarsi a persone che condividono le sue passioni”. C’è del marcio in questa definizione, ma non tanto come vogliamo far credere. Nell’Anno del Signore 2008 siamo ancora intrappolati in una sorta di Uncanny Valley nerdica per nostra stessa scelta. Troppo ossessivi per essere socialmente appetibili, troppo poco autorevoli per essere rispettati alla stregua di Steven Levy, quello dell’Etica Hacker. In definitiva, delle quasi-persone. O forse no. Chi di voi segue il podcast RingCast, sa che è partita da poco una nuova rubrica, chiamata - dopo svariati nomi provvisori uno peggio dell’altro - Nerd Co-op. Ora, il nome della rubrica è stato imposto dal sottoscritto per dare un’idea chiara e precisa del suo contenuto: un numero imprecisato di nerd discute in multiplayer di videogiochi. Mission accomplished. Eppure è successo che un ascoltatore, la cui opinione mi interessa particolarmente, mi ha bacchettato per l’uso improprio della parola ‘nerd’, considerata - a ragione? svilente per l’intera categoria. Cito testualmente: “Definirsi nerd la vedo sempre un po’ triste come cosa, e mi spiace che diate per scontato che vi possano seguire solo ed esclusivamente altri cosiddetti nerd [...] è autoghettizzante”. Il punto è questo: definirsi ‘nerd’ è autoghettizzante? Se sì, perché? Perché l’abbiamo deciso noi. Siamo noi a caricare il termine con valenza negativa.
Siamo noi che spesso siamo realmente sociopatici. Che abbiamo paura delle nostre passioni. Che siamo dei ciccioni. Che non spieghiamo le battute di Pure Pwnage a chi ce lo chiede. Che se non collezioniamo tutti gli achievements di un gioco veniamo considerati n00b. Che nascondiamo i numeri di EDGE quando - e se una ragazza ci viene a trovare. Che le donne le preferiamo virtuali e con il tasto Pausa. Che tutto sommato il Wii ci sta sul cazzo, ma neanche tanto, perché se ci gioca la nonna stai a vedere che anche quella che ci piace magari si appassiona. Siamo quelli che riescono a discutere di cose tipo “il collo di Ryu in Street Fighter IV”. Abbiamo seconde copie incellophanate dei nostri giochi preferiti. Conosciamo acronimi tipo HUD e parole come ‘displacement mapping’. E ammettiamolo, se le periferiche fossero sex toys, le nostre case sarebbero capitali del porno. Non ho paura né vergogna a definirmi nerd: è parte di quello che sono e lo accetto. C’è gente messa peggio, ma io posso vantare nella collezione robaccia tipo Unlimited Saga solo perché “la scatola era bella”. Rendiamoci conto, “la scatola era bella”. Ripetetelo ad alta voce e chiedetevi se non suona completamente, profondamente nerd. Rilassatevi. Chiudete gli occhi. Aprite il chackra del cuore e abbracciate la verità. Non potete sfuggire da voi stessi. Ma vendervi meglio, quello sì.
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai men-
zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito Aeris ****** pure, ma tu sei proprio uno ******!
M
aggio è stato un gran mese. Almeno, è stato un gran mese per mia moglie. Vi avviso, però, siate sulla cattiva strada. Non mi sono ricordato di qualche inspiegabile anniversario e non l’ho neanche stupita con effetti speciali, quali, chessò, il lavaggio delle stoviglie o un semplice massaggio che non finisca sempre lì. No, a maggio sono solo stato con lei e la bimba, anziché davanti a un alienante tubo catodico o - in caso l’accoppiata di cui sopra avesse deciso di guardarsi l’ennesima, onnipresente replica di Friends - ai cristalli liquidi di un laptop. Ma non faceva parte di un mio malsano tentativo di disintossicazione – una risoluzione di una magnitudine simile non può che essere rimandata a un gennaio – stavo solo cercando di evitare, a tutti i costi, un qualsiasi spoiler sull’ultimo Metal Gear Solid. È una cosa triste, lo so. Rovinare la sorpresa altrui, intendo. Probabilmente il secondo mestiere più antico del mondo. Così maggio sarà stato un gran mese, ma non per me, rinchiuso com’ero nel mio piccolo bunker anti-mediatico. Per non parlare poi dei primi di giugno, con ancora due settimane da aspettare prima di potermi rinchiudere sì, ma di mia volontà. Giorni di clausura, vissuti nel timore delle persone a me più vicine a lavoro, e ben lontano dal sentirmi al sicuro a casa, nel timore che un qualche simpaticone di Repubblica.it volesse replicare lo scherzetto fatto ai tempi dell’ultimo Harry Potter. Ho vissuto settimane in preda alla pura paranoia, insomma, talmente alta da farmi rivedere alcuni aspetti della mia industria da me spesso ritenuti eccessivi, maleducati, quasi offensivi. Eppure l’ho fatto, ho desiderato un mondo in cui tutti si debba firmare un non-disclosure agreement.
Uno psicologo a questo punto mi interromperebbe. E io lo rassicurerei subito: mio padre non mi picchiava da bambino. Son sicuro, però, che quando quella sera gli dissi di come andava a finire Il Sesto Senso, qualche ceffone me lo avrebbe pure dato. Invece non mi rivolse più la parola, e io guardai il suo sguardo di disappunto e morii un po’ dentro. Anche se questo l’ho aggiunto giusto per far contento lo psicologo di prima. Da allora, però, son passato all’altra sponda, non quella a cui state pensando voi, ma quella dove si trovano quelli a cui gli spoiler non fanno ridere. Anzi, a quella di chi si incazza proprio. Perché se qualcuno mi avesse detto come finiva Ico prima dell’altra notte, o se è per questo qualsiasi altro videogioco si basi anche solo marginalmente su una componente narrativa di sostanza… boh, probabilmente avrei avuto bisogno di uno psicologo per davvero. È forse una colpa non aver mai visto King Kong? Giocato Final Fantasy VII? È forse una colpa, insomma, non avere il tempo, i soldi, francamente la voglia di usufruire di un prodotto nelle sue prime ore di vita? Ovvio che no. E infatti non è questo il fulcro della questione, né questo mio schierarmi così esplicitamente a uno dei due suoi estremi. Se c’è una domanda da porsi, questa c’è, ma è stata posta ben più di rado, forse perché spiace abbia la stessa, identica e legittima risposta. È giusto tracciare un solco, una linea che dir si voglia, di tot giorni, settimane, mesi o anni, dopo la quale è permesso poter parlare pubblicamente di una data opera? Ahimé, qui neanche i miei odiati NDA oserebbero tanto. Intendiamoci, non tutti gli spoiler vengono per nuocere. Ci tengo a precisarlo perché, se qualche buon’anima mi avesse detto prima
come andava a finire Fahrenheit, mi sarei risparmiato una delle esperienze ludiche meno gratificanti che la mia già vacillante memoria ricordi. Ma al di là delle solite promesse da David Cage - che insieme a Peter Molyneux fan marinaio di secondo nome - gli spoiler sono pur sempre comodi. Se vi capitasse mai di sfogliare l’autorevole e storica rivista inglese di cinema Sight & Sound, per ogni recensione ne trovereste addirittura un box stracolmo. Loro la chiamano ‘sinossi’, ma sempre di spoiler si tratta. Se io voglio sapere allora come va a finire Hancock, apro e leggo a scrocco. Per dire, un tempo i nemici sapevi da dove arrivavano. Come mio padre. Ma un tempo uno spoiler era al massimo un qualcosa che gli aeroplani contendevano alle domeniche della formula uno. Oggi, invece, abbiamo la nostra vita 2.0. Quella che, se volesse, è tanto in grado di agevolare la divulgazione di questi spoiler, quanto a introdurre strumenti per farceli evitare. Ma è una battaglia persa, perché se è vero che prevenire sia meglio che curare, disfare una cosa rimarrà sempre così dannatamente più facile che farla. Ho perso, dicevo, e perderò così tante altre battaglie che alla fine non ricorderò più neanche se c’era una guerra da vincere. Ho perso perché, di tutti gli strumenti a nostra disposizione – oggi e domani - ne mancherà sempre uno, e non si tratta del Lancillotto, né tanto meno dell’unicorno. Ma del buon senso, che io – bambino uggioso tanto quanto il primo moccioso che mi sciuperà il finale di Fallout 3 - non ne ho affatto. E allora lasciatemi rispondere con uno specchio riflesso, perché quella linea la traccerei eccome, ma dove e come mi pare a me.
La delusione nel finire MGS4 è stata talmente forte da farmi credere che a me, i veri giochi stealth, quasi piacciano. Così mi son comprato l’intero catalogo di Sam Fisher, ma devo ancora controllare che funzionino tutti tranne il primo, per paura che questi altri mi rivelino come finisca quest’ultimo. OK, qui ho esagerato… e non mi riferisco alla frase
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Vincenzo Aversa Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.
esco di rADo (ma gioco pure troppo) Vivere nel ghetto
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apita che ti alzi una mattina, con l’alito che sa di tic tac marcita e un montone nell’ombelico, e decidi di parlare, scrivere o canticchiare di videogiochi. Capita che ti metti a scrivere Babel (rivista di cui probabilmente non avete mai sentito parlare), pure se non ti aspetti di ricavarne una valanga di dobloni. Capita che raccogli per strada il più squattrinato dei fumettisti nostrani e ti metti a pensare BUG (fumetto politico sui movimenti videoludici), pure se lo sai che il disegnatore è lento come un messicano malato. Capita che dici qualcosa di intelligente, dopo tante stupidaggini, su The First Place (forum di pervertiti e feticisti del pad), e che devi aspettare che la montagna vada da Maometto. E ancora capita che chiacchieri per ore su RingCast (podcast di amore e cavalli), e che le orecchie non puoi andartele a cercare. Capita, insomma, che ti dai tanto da fare, con impegno amore e pure presunzione, e non lo puoi raccontare in giro. Perché non si può, non si vuole e non si fa. Se non avete ancora capito di cosa si sta parlando è certamente colpa mia, ma soprattutto colpa vostra. Il problema, perché di questo si tratta, è che i forum videoludici d’Italia mal sopportano le iniziative amatoriali e no-profit. E dopo aver segnato su una lavagnetta le loro motivazioni, non sono troppo convinto che tutto ciò abbia un senso. Ordiniamo le carte. Siamo su Babel, partiamo da Babel. Ma cosa rischia realmente un sito di informazione videoludica, che offre recensioni e anteprime e news, accettando lo spam - sem-
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pre che ‘spam’ sia la definizione adatta - di una fanzine che, solo parzialmente, offre gli stessi servizi? Davvero si crede che il numero dei contatti o le vendite di riviste associate - qualora ce ne siano - possano accusare dei cali per una o due recensioni mensili diciamo articoli concorrenti - o per qualche approfondimento, ovvero una parte marginale e rara dell’offerta al grande pubblico? I grossi network sembrano non avere dubbi, non si passa. Ma se su Babel si può articolare una spiegazione credibile, la situazione si fa ancora più complicata quando si parla di progetti alternativi. Nextgame (vecchio corso) chiuse un topic che pubblicizzava BUG, un fumetto, non una recensione. La presenza di un vignettista ufficiale che ironizza anch’egli sul mondo dei videogiochi può giustificare tale chiusura? Mi chiedo ancora oggi quali siano i conflitti di interessi dei due progetti. E ancora, RingCast fatica a ritagliarsi uno spazio d’attenzione sui forum, sia che si sforzi di dare voce a italiani impegnati nel settore, sia che si limiti a chiacchierare per un paio d’ore a ruota libera. Per non parlare di link ad altri siti concorrenti, di cui TFP non farebbe nemmeno parte. La parola deve essere una e solo una, roba da far impallidire la censura cinese. E i link girano lo stesso, su MSN magari, ma girano alla faccia di certe restrizioni bulgare che sembrano escludere questa eventualità. Ma non tutto è letame quello che puzza di merda, anche se forse non era questo il proverbio. La difesa ha dalla sua una carta spesso convincente. Permettere a qualcuno di raccontare le proprie
gesta, autorizza l’universo dei blogger impacciati e scandalosamente privi di contenuti di questo emisfero, a fare altrettanto. E allora Gianni scrive una recensione, si apre un blog e apre un post. E allora Pinotto si guarda un video e scrive la sua anteprima perfetta su PES 2012 e apre un post. In un attimo non c’è più posto per fare console war come si dovrebbe. Tutto ciò ha un senso ahimè ce l’ha - ma è forse un vicolo cieco che non offre soluzioni? Se la selezione preventiva mi sembra una fatica improponibile, lasciar fare alla legge naturale dei forum - quanto può sopravvivere senza ‘up’ forzati un topic come quelli descritti prima? - è quantomeno una possibilità accettabile. Che poi qualcosa può attraversare il campo minato, anche questo va detto. Ringrazio Nextgame, Gamesradar, Multiplayer, Forumeye, Spaziogame e chi altro mi lascia indisturbato annunciare il mio Corso per Videogiocatori Professionisti, ma davvero non c’è spazio per nessuno che non sia un ciccione disposto a comportarsi da imbecille? Certo, un problema c’è se davvero non si possono condividere con lo stesso gruppo di appassionati progetti di questo tipo. Un problema che non ho la presunzione di ritenere facilmente risolvibile, ma che meriterebbe almeno un minimo di attenzione e riflessione. Giochiamo, scherziamo, chiacchieriamo. Perché siamo quello che ci piacerebbe leggere e ascoltare, ma siamo anche quello che perdiamo tra troppe pagine di date d’uscita, edizioni speciali e confronti PS3/360.
di Cristiano “Amano76” Ghigi
guida bene chi guida ultimo
er alcuni di noi, in possesso di una rara qualità chiamata “orgoglio”, affrontare un videogioco senza l’ausilio di niente e nessuno è un principio indissolubile. Se vi siete arresi al boss finale di Viewtiful Joe e ve lo siete fatti finire da un amico, non sto parlando di voi. Se avete giocato un Silent Hill e avete sbirciato una faq ogni volta che vi siete trovati in difficoltà con gli enigmi, non sto parlando di voi. Se avete giocato Assassin’s Creed con mappa e GPS, non sto parlando di voi. Ma. A tutto c’è un limite: misurare sè stessi contro giochi quasi proibitivi è encomiabile, ma sottoporsi volontariamente allo stress dei giochi di ruolo giapponesi senza una guida strategica? Quello è masochismo da manuale (perdonate il gioco di parole). Mettevi seduti perché vi sto per dare una rivelazione che sconvolgerà il tessuto della vostra realtà: c’è una differenza sostanziale tra i giochi di ruolo occidentali e quelli
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giapponesi. No, non sto parlando dell’abissale divario di qualità tra character design, monster design e sceneggiatura a favore dei prodotti nipponici, ma della tradizione che ha preceduto entrambi. Gli RPG americani derivano dalla cultura del gioco di ruolo da tavolo, appartengono ad un ambiente letterario che bazzica il genere fantasy da più di un secolo e fanno della libertà d’azione un requisito imprescindibile. Gli RPG giapponesi invece derivano da una contaminazione della letteratura fantasy americana, e come per tutto ciò che è “occidentale” e “fico” i giapponesi hanno sviluppato un concetto customizzato di fantasy e di gioco di ruolo. La prova più significativa per dimostrare il divario concettuale che esiste tra i due è guardare i dati di vendita dei più noti titoli offline. Qual’è quello occidentale? Elder Scrolls: quanto ha venduto in Giappone? Un cazzo. Qual’è quello nipponico? Dragon Quest VII (quattro milioni di copie ragazzi): quanto ha venduto quando è stato esportato? Un cazzo di un centimetro, cioè un cazzo di
niente. Cosa c’entra questo con le guide? Quando un occidentale pensa ad una guida strategica la associa ad una stampella, un evidente segno di handicap: chi la usa è un deficiente, chi la usa pulisce i piatti al posto della ragazza, chi la usa vota Berlusconi. Quando un giapponese vede una guida strategica la associa ad un libretto di istruzioni venduto separatamente: di fatto il mercato nipponico si è spinto in quella direzione e comprare una guida è praticamente obbligatorio. Ora. Diciamo che io di cognome faccio Square. Diciamo che io possiedo una ditta chiamata Digicube che distribuisce gadget legati ai miei videogiochi: pupazzetti, magliette, portachiavi, tamponi vaginali a forma di chocobo, eccetera. Siccome sono un genio, sviluppo un gioco dove le armi più potenti sono nascoste, i personaggi più fighi sono nascosti e i boss più coriacei, quelli che quando li sconfiggi ti senti un mito, sono nascosti pure quelli. Dato che sono a conoscenza del
fatto che l’etica del giocatore di ruolo medio si basa sulla compensazione sessuale (“donna! ammira la mia turgida ammazzadraghi”), sul pure pwnage di avversari con più Hp di Rita Levi Montalcini, e sull’identificazione con coatti dai capelli bianchi che hanno perso la memoria, farò in modo di nascondere questi elementi nella maniera più contorta e assurda che mi viene in mente. Poi faccio distribuire da Digicube una guida dove viene spiegato come scovarli e finalmente il giocatore è libero di gustarsi quello che ha pagato. La differenza è che mentre i miei vicini di casa Capcom, Konami e Tecmo quando vendono un videogioco intascano solo quei soldi, io guadagno sui giochi e in più sulle guide per risolverli, quindi la mia erba resta sempre la più verde. E’ evidente che entra anche in gioco una questione di pressione sociale. Seppure un utente occidentale fosse libero dal pregiudizio sull’uso delle guide, gli “amici” del suo forum preferito non glielo perdonerebbero mai e lo tratterebbero come un’involuzione dell’uomo sapiens. Non parliamo poi di cosa significa non
conformarsi alla massa in un posto come il Giappone: se tutti comprano le guide, chi non le prende viene frainteso per uno che vuole distinguersi e quindi meritevole di morte. Un altro fattore determinante è la tradizione delle guide strategiche in Giappone, ben diversa da quella americana/europea. Le guide che hanno fatto esplodere il mercato dell’editoria strategica in Giappone sono state quelle di Super Mario Bros e di Xevious negli anni ‘80. L’enorme popolarità riscossa da questi giochi, unita alla difficoltà di completamento piuttosto proibitiva, ha fatto sì che venisse a crearsi la necessità di metter per iscritto la cospicua mole di cheat-che-in-realtàsono-bug per essere alla portata di chi non aveva il tempo di applicarsi giorno e notte a tentare di risolverli autonomamente. L’editoria nipponica dell’epoca, nè più nè meno di quella occidentale, già conteneva soluzioni e strategie nelle riviste dedicate ai videogiochi, ma la mancanza di internet per gestire queste informazioni fece sì che per lungo tempo (e ancora oggi) l’utilizzo della rete costituisse una fonte d’aiuto troppo scomoda per essere preferita a quella su carta. Poi arrivò Dragon Quest III. Quest’opera trasformò il mercato
del videogioco definitivamente: per poter mettersi in attesa davanti ai negozi sin dal giorno prima dell’uscita e garantirsi la propria copia, i bambini fecero sega a scuola, gli impiegati si assentarono dal lavoro e le file di persone fuori dai negozi arrivarono a bloccare il traffico. La televisione giapponese affrontò questo fenomeno con toni scandalistici (o sarebbe meglio dire scandalizzati), col risultato che il gioco di Enix macinò ancora più copie. Si trattava però di un titolo con alcuni passaggi molto difficili, e Famitsu come tante altre riviste non mancò di assumersi la responsabilità di rispondere alle migliaia di richieste d’aiuto delle migliaia di lettori più piccoli. Non ci voleva un genio per fiutare l’affare: pubblicare rpg e vendere guide strategiche divennero le manie dell’industria dei videogiochi. Le etichette più lungimiranti, come Square, seppero approfittarne in modo formidabile. La situazione in Giappone è ormai cristallizzata: i beta tester si coalizzano per creare case editrici di guide strategiche e alcuni titoli non vendono un accidenti finché non ne viene pubblicata la guida ufficiale. La qualità della confezione è talmente alta che comunque vale la pena comprarle per poterle sfogliare una
volta finito il gioco e immergersi nei ricordi perché, andiamo, chi è che si è mai sognato di finire DUE volte un rpg? (silenzio! Xenogears e Final Fantasy VII non valgono). Perciò mettetevi l’anima in pace: quello che pensavate di sapere sulle guide strategiche è sbagliato. Nessuno vi stringerà la mano se completate un RPG giapponese senza guida, vi farete solo del male inutilmente. E sapete come si chiamano quelli che si fanno del male inutilmente? Esatto, si chiamano italiani.
In Occidente la vicenda è poco nota, ma quando uscì Final Fantasy X per Ps2, la Square fece la scelta più impopolare della sua storia e decise di distribuire la guida ufficiale del gioco esclusivamente via internet. C’era quindi da acquistare il modem, la guida, e possedere un hard-disk su cui registrarla. In un’epoca in cui bisognava vendere i propri organi per comprare Ps2, i fan della serie si trovarono di fronte all’ulteriore esborso di una somma da capogiro. La scelta di Square si rivelò una minchiata... e la gente ancora non gli aveva perdonato The Bouncer. Fu l’inizio della fine: di lì a pochi anni Hironobu Sakaguchi passerà al Lato Oscuro.
La serie Furai no Shiren, in arrivo anche su Wii, è uno dei più popolari franchising Nintendo. Il livello della difficoltà nella sua incarnazione per N64 fu tale che ne vennero pubblicate ben quattro guide ufficiali. Una generale, una per le magie, una per i mostri e una per le armi.
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xbox 360
NINJA GAIDEN 2 Last Ninja
console xbox 360 sviluppatore team ninja produttore tecmo versione pal provenienza giappone
a cura di Cristiano “Cryu” Bonora
inja Gaiden II è l’ultimo ninja. Come il samurai di Tom Cruise, il pupillo di Tecmo si lancia in un’ultima cavalcata sulle praterie dell’action game dimostrando tutto il proprio valore, prima di infrangersi contro i cannoneggiamenti di un E3 che vede il videogioco giapponese disperso, Nintendo sputtanarsi definitivamente e il nuovo corso del fangaming incarnato da un esercito di shooter steroidati. Si potrebbero compilare due o tre recensioni infierendo sui difetti di NGII. Non ha esitato la stampa di mezzo mondo, che si riscopre improvvisamente critica quando alle prese con un genere di non acclamazione popolare. Non avremmo remore a farlo noi, giacché disfunzioni tecniche e sviste di design sfregiano ingiustificatamente un monumento di gameplay in cui l’azione si riscatta dall’intrattenimento splatter per trasfigurare nella disciplina dello stylish. Ma urgenza di chi ben conosce NGII è piuttosto narrare un piacere del videogiocare che non si innesca demolendo un palazzo con una mounted-gun, né cazzeggiando per una città in cui si può fare tutto, ma in fondo nulla di eccezionale. NGII è innanzitutto il suo sistema di combattimento. La parola d’ordine è potenza, cui viene elevato ogni aspetto del primo Gaiden. Più velocità, più precisione nei controlli, più varietà di situazioni. Non più una sola arma praticabile corredata da un arsenale ad personam per il boss Tizio o il nemico Caio. Otto armi che valgono come otto personaggi: katana, doppia katana, artigli, falce, tonfa, nunchaku, bastone e kusari-gama si caratterizzano ciascuna per un parco mosse completo, originalissimo e straordinariamente animato, e per un baricentro esclusivo tra parametri quali allungo, reattività, propensione alla lotta aerea, copertura delle spalle, efficacia dei colpi caricati, capacità di ta-
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glio. Sì perché le mutilazioni, oltre a crogiolarsi nel gore, sono la pietra angolare del nuovo battle system. Il rifornimento automatico di salute tra una battaglia e l’altra è il viatico per ondate di nemici sempre numerosi (già quattro nel primissimo combattimento!), per sfoltire i quali è imperativo uccidere col minor numero di attacchi possibili, ricavandosi di volta in volta, grazie all’animazione dell’esecuzione, una finestra di invulnerabilità con cui spezzare gli assalti avversari. Laddove God of War e Devil May Cry soccombono al teorema che vede l’AI costretta a regredire all’aumentare dei nemici, NGII oppone agli avversari più agguerriti di sempre un protagonista più prossimo al semi-dio o al supereroe che non a un guerriero di ispirazione storica. La linguaccia di Itagaki non mentiva: scalando i quattro livelli di difficoltà i nemici perfezionano tattiche su due linee: fanteria corpo a corpo davanti al fuoco di copertura. Dal livello Mentore in su la loro disposizione realizza una visione di gioco che sfuma il confine tra
gameplay e level design. Appostamenti sopraelevati da raggiungere in Flying Swallow (la celebre picchiata fulminea di Ryu) dopo due, tre sponde di wall-run orizzontale. Stretti canaloni presidiati da arcieri propiziano wallrun verticale su una sponda del canale, salto mortale all’indietro e shuriken esplosivo alla cieca, perché no, la telecamera non aiuta, ma il senso della posizione e il salto “a ricerca” (A+X) sono skill che mettono radici lungo la via del ninja. Una via lastricata tanto di game over quanto di soddisfazioni. Perché NGII non è necessariamente l’action più complesso, più tecnico o più perfetto. Ma per chi scrive, è certamente il più gratificante. Che sia un balzo felino, un laccio volante o una truculenta decapitazione, l’energia espressa da ogni azione di Ryu si irradia dallo schermo shakerando adrenalina nel giocatore. All’insuperata dinamica dei pesi di NG1, le routine atte a simulare emorragie e mutilazioni sommano la percezione dello smembrarsi delle masse in gioco. Con il moltiplicarsi del parco mosse e anima-
UN GIOCO DEL CAZZO... …Per tanti niubbi Ninja Gaiden è solo questo. A giudicare da un dettaglio della splash screen dell’ultimo stage, con NGII potrebbero averci preso. Che qualche grafico Tecmo abbia voluto togliersi una soddisfazione prima di rassegnare le dimissioni?
MODELLO N.5: HAYABUSA FIEND! Warlord, cyborg e demoniaca. Gradevoli e ben diversificate, sono le tre collezioni di costumi alternativi acquistabili dal Marketplace per poco più di due euro l’una. Purtroppo il loro caricamento rallenta l’avvio di ogni partita di una manciata di secondi. Picco del guardaroba Hayabusa è però il costume standard in variante leopardata, complemento ideale per il fisico bestiale di Ryu.
(a sinistra) Come in Devil May Cry 4, sono subito disponibili un livello di difficoltà per neofiti e uno per veterani. Al contrario di quanto avveniva nel titolo Capcom, essi ben rispondono alle esigenze delle due categorie.
zioni, questo si traduce in scioccanti coreografie che vedono in eleganza e tecnicismo il lasciapassare per la sopravvivenza. C’è del paradosso tutto giapponese in questo mondo kitsch fatto di corpi stralucidi, fiumi di sangue e immaginario machista, in cui Venezia ospita tanto il Colosseo quanto una cattedrale gotica. E per contro un protagonista che riesce a prendersi tremendamente sul serio, come se la sua vera missione fosse purificare con la sua danza di morte l’epopea del cattivo gusto allestita da grafici e sceneggiatori. Kate Moss che sfila tra la spazzatura di Napoli. Stylish gaming estremo. Nondimeno, occhieggiano vedute suggestive, come il maestoso Hayabusa Castle in stile Himeji o l’apocalittico scenario infernale. Strutturalmente, NGII si sbarazza delle ingenuità dell’originale, che inseriva enigmi e convoluta esplorazione più per senso del dovere che altro. Una maturata consapevolezza che si esprime nella linearità più totale. Ne deriva un’azione incessante, ritmata solo da istantanee acro-
bazie tra piattaforme e dal saliscendi di una difficoltà apparentemente mal calibrata, ma provvidenziale nell’inserire pause di respiro a margine degli scontri più duri. Questa capacità di sintesi non ha però sacrificato sezioni meno riuscite: scenografie solo abbozzate, incommentabili sparatorie subacquee, troppi nemici per l’arco, avversari in respawn dal nulla, compiaciute scorrettezze di certi boss e loro occorrenza consecutiva senza lo straccio di un save point. Con l’aggravante dei frequenti affanni di telecamera e motore grafico. Tutte defaillance che appannano un titolo comunque lunghissimo, che in nulla avrebbe risentito di qualche taglio. Difetti, è decisivo chiarirlo, che a tutta prima fanno gridare allo scandalo, ma che inficiano la rigiocabilità assai meno di intrusi di design quali il puzzle delle leve o lo stage acquatico del primo NG. Perfettamente polished, ma sempre noiosi. Mentre NGII, con tutti i suoi difetti, è divertimento non-stop per centinaia di ore. NGII è anche l’ultimo Ninja
Gaiden. Il terremoto che ha investito Tecmo con il licenziamento di gruppo e la class action inMISSIONI ALLA MODA tentata da Team Ninja non Il Mission Mode di NGII, da cui le immagini di segna solo la fine di un breve queste pagine, è scaricabile al costo di 800 MS ma già leggendario franchise. Points e reca con sé achievement per 250 punti. È anche metafora di un’induLe missioni Karma consistono in 16 battaglie stria giapponese che non stanziali: boss da affrontarsi altrove rispetto alla tiene il passo e di un genere a storia, boss con sgherri al seguito, due boss contemporaneamente, più boss in sequenza e ondate rischio estinzione come ogni fino a 100 avversari assortiti. Inoltre, 8 sfide Soattore del suo mercato, sempre più sensibile al botto dello pravvivenza (una per arma) con nemici infiniti per lo score attack. Per tutte le missioni sono previsti shotgun che alla sfida della quattro livelli di difficoltà e classifiche online. Il spada. Malcelando le cicatrici pacchetto costituisce un sostanzioso compledi uno sviluppo travagliato, mento alla versione da scaffale. Rispetto a Ninja Gaiden: Black, tuttavia, il ridotto numero di sfide NGII compie la sua missione, e la superiore rigiocabilità dell'avventura princiconficcando un’ultima katana pale non questionano la gerarchia tra le due nel cimitero ninja sul monte modalità. Afflitto da freeze cronico al conseguiFuji, epitaffio di una grande mento del primo achievement, nonché da un conscuola di videogaming. Con il flitto con il LIVE europeo al successivo avvio, il suo mentore, Tomonobu ItaMission Mode è stato ritirato a poche ore dalla messa online insieme a una disgraziata patch. gaki, proiettato a realizzare il Risolto il freeze ma non il bug LIVE, cinque giorni suo sogno di passare alla stodopo è ricomparso accompagnato dalla stessa ria come la pecora nera del patch che crea il blocco dello story mode in occagame design. sione di talune cut-scene. Con Tecmo allo sbando, 9 prima di procedere al download si raccomanda di accertare la risoluzione di questi problemi. Qualora abbiate già installato la patch, potete rimuoverla evidenziando l’hard disk nel menu Memoria della dashboard e premendo Y, X, X, LB, RB, X, X.
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SIREN BLOOD CURSE
Non c’è due senza dodici console ps3 sviluppatore scei produttore scei versione pal provenienza giappone
a cura di Alberto “Floyd” Li Vigni
l primo Siren era una perfetta sintesi tra un feroce, creativo gameplay, e una struttura narrativa curata e originale. Il secondo Siren, invece, manteneva la base del prequel, riuscendo anche a essere più accessibile, ma non aveva né l’impatto né l’irripetibile ispirazione del primo capitolo. Il terzo Siren, Blood Curse - inizialmente previsto come una serie di episodi settimanali su PlayStation Network, poi rilasciato anche come pacchetto completo - è un improbabile tentativo di riprodurre in chiave contemporanea l’onorevole capostipite. L’intero progetto, almeno sulla carta, aveva certamente dei punti validi: diventare una sorta di laboratorio mediatico del videogioco, in perfetta sintonia con la metareferenzialità della serie. Il risultato è indubbiamente interessante, ma l’ibrido che si viene a creare è con ogni probabilità più rimarchevole a livello teorico che pratico. Blood Curse è infatti un remake realizzato sotto forma di serial televisivo, comprendente quattro capitoli principali (Il richiamo della sirena, Senza uscita, Il nido dei demoni, La fine e l’inizio) divisi in dodici capitoli, ognuno dei quali con un certo quantitativo di missioni, filmati e un trailer che annuncia ipoteticamente le prossime ‘uscite’. La trama racconta le peripezie di una troupe televisiva americana, venuta a investigare i misteri del villaggio di Hanuda, improvvisamente scomparso nel 1976, e di alcuni personaggi direttamente legati alle oscure vicende del luogo. Perfettamente inutile aggiungere che i nostri eroi - ridotti dai quattordici del primo Siren, a soli otto - si troveranno ben presto ad affrontare il peggiore incubo della loro vita. Se da una parte era naturale attendersi un ridimensionamento della componente narrativa - per renderla fruibile anche a chi non volesse perdersi in un’infinita sequenza di segni da interpretare -
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nel farlo Blood Curse ha anche perso la quasi totalità dei riferimenti culturali e antropologici, a favore di una maggiore drammaticità e una nuova enfasi sulla presenza scenica. Nonostante questo, il titolo riesce comunque a mantenere una certa non-linearità, con più linee temporali che si evolvono parallelamente, e a far sì che il giocatore continui a partecipare alle possibili letture degli eventi tramite gli oggetti dell’archivio. I caratteri dei protagonisti - tutte new entries, a parte Miyako - sono ora più vicini al modello occidentale, con rapporti meglio tratteggiati dal punto di vista emotivo, il cui massimo esempio è qui costituito dal triangolo esistente tra Sam, Melissa e Bella, rispettivamente padre, madre e figlia. I dialoghi si sono fatti poi meno criptici, e le cutscene, risentendo dell’influenza degli horror contemporanei, danno ora ampio spazio a violenza e gore. Non è chiaro se questa estetica sia dovuta al nuovo medium, il
quale richiede comprensibilmente un approccio diverso rispetto a un prodotto rilasciato ‘normalmente’, o se in ogni caso avremmo comunque assistito alla dissoluzione delle caratteristiche portanti di Siren. A ogni modo, gli sviluppatori hanno deciso di mantenere la correlazione che sussisteva nell’originale tra narrazione e gameplay, semplificando anche quest’ultimo con la precisa elisione del link navigator e degli obiettivi secondari sbloccabili. Non restava che annullare le asperità delle missioni allora, e anche questo è stato prontamente risolto accompagnando per mano l’utente con una serie continua di informazioni a schermo e una mappa che indica la posizione di qualsiasi oggetto. Inoltre, a differenza di Forbidden Siren 2, non è neanche possibile selezionare il livello di difficoltà hard, né disattivare gli aiuti. Tutto ciò si rivela davvero eccessivo, anche per un gioco destinato al PSN, tanto da muovere il titolo di Toyama da un’estremo
Potrà sembrare strano che Sony abbia puntato per i suoi esperimenti di digital delivery su un titolo sconosciuto, le quali meccaniche hanno peraltro allontanato anche videogiocatori esperti
Che si sia trattato o meno, però, dell’ennesima decisione casuale presa dalla compagnia giapponese in questi ultimi anni, è innegabile che il genere continui ad avere un fascino particolare per il grande pubblico
all’altro dei survival horror. A questo punto si potrà facilmente immaginare che di Siren sia rimasto ben poco, e che piuttosto di un rifacimento si tratti di una nuova produzione che ne riprende vagamente alcune peculiarità. La realtà non è troppo distante. Sono sì presenti alcune delle vecchie locazioni dell’originale, ma sono state profondamente modificate e rese meno complesse a livello di interazione. I nuovi ambienti, poi, non fanno che seguire compiaciuti questa falsariga. Gli enigmi, soprattutto quelli che richiedono il sightjacking - la particolare abilità dei protagonisti di vedere tramite i nemici - sono pressoché inesistenti, in quanto la quasi totalità degli obiettivi dei capitoli consiste nel ritrovare l’oggetto x o recarsi al luogo y. Ovviamente entrambi presenti sulla mappa. Solo verso la fine le missioni si fanno più impegnative e le informazioni disponibili per il completamento meno chiare. Peccato che qui il gioco ci arrivi troppo tardi. Nonostante la mancanza di sfida faccia calare fortemente la
tensione, l’atmosfera resta probabilmente l’aspetto migliore di Blood Curse. Grazie anche a un motore grafico che riesce a nascondere bene i suoi limiti e, al tempo stesso, a impressionare il giocatore con un efficace sistema di illuminazione propenso a immergere Hanuda in una coltre fatta di misteriose ombre e tenue luci. Questo terzo Siren ricorda i precedenti titoli della saga solo esteriormente, senza averne la profondità che aveva tanto entusiasmato gli appassionati, se non in alcuni rari, ma preziosi momenti. Difficile pure consigliarlo a chi cerca solo un degno esponente del genere, perché decisamente troppo facile e guidato rispetto alla media dei survival horror. E peccato che per questo sia invece arrivato troppo presto. 5
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SOUL CALIBUR 4 Impiccheranno Voldo con una corda d’oro console 360 sviluppatore project soul produttore namco bandai versione pal provenienza giappone
a cura di Tommaso “Gatsu” De Benetti
i sono due cose che avrei voluto leggere nelle recensioni di Soul Calibur IV apparse online fino a questo momento, ma stranamente nessuno le ha menzionate. La prima: nel momento in cui Namco dà la possibilità ai giocatori di crearsi i propri personaggi tramite un editor potente come quello incluso nel titolo, l’intero cast di Soul Calibur perde completamente importanza e il cuore del gioco viene d’improvviso ridotto al suo sistema di combattimento. La seconda: SCIV è un gioco che indiscutibilmente si esprime al meglio online, ma questo fatto superficialmente positivo - getta anche ombre inquietanti. Ombre sia su alcune scelte che riguardano le meccaniche, sia sul valore che questo titolo potrà avere nel lungo periodo, quando l’eccitamento generale sarà scemato a favore di qualche altro picchiaduro. Mi rendo conto che il voto a fondo pagina potrebbe causare scompensi cardiaci ai fan di lunga data. Prima però di accasciarvi su voi stessi, lasciatemi esplicitare ciò che mi turba. In generale SCIV è un degno successore degli altri titoli della saga, e se tanto vi basta, allora il consiglio è di spegnere il computer e aprire il portafoglio. Tutto quello che potevate aspettarvi c’è: tanti personaggi? Check. Tette grosse? Check. Duelli con la spada laser? Check. Storia senza senso? Check. Achievement impegnativi? Check. Miliardi di mosse che vi costringeranno a settimane di pratica prima di poter dire di saper giocare per davvero? Check. Button mashing per niubbi? Check. L’assottigliarsi delle alternative offline non va visto necessariamente come un dramma. La modalità storia - questo è un fatto - si può tranquillamente completare premendo i bottoni a caso. Va però ricordato che della trama di Soul Calibur non frega niente a nessuno, tantomeno agli
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autori della serie che storicamente non hanno mai badato alla coerenza fra i testi proposti e quello che accade a schermo. Si tratta, in sostanza, solo di un ‘tutorial mascherato’, utile a familiarizzare con i personaggi, il sistema di abilità e le novità di questa quarta iterazione. La Torre delle Anime è invece di gran lunga una delle aggiunte più intriganti del nuovo episodio e si configura a tutti gli effetti come la vera polpa dell’esperienza single player. Divisa in due parti distinte, prevede stage con un numero variabile di nemici che vanno sconfitti a condizioni precise, per sbloccare item da utilizzare a posteriori nell’editor dei personaggi (ascesa) o un survival mode in tag (discesa) che diventa via via più improbabile. Il livello di sfida per soddisfare le condizioni è alto, malignamente calibrato e impossibile da sostenere senza consapevolezza delle abilità con cui si possono equipaggiare i personaggi. È qui che però si manifesta, per la prima volta, una delle ‘problematiche’ più serie che affliggono
il gioco: la totale de-personalizzazione degli avversari. O meglio, la disintegrazione del roster classico. Nella Torre gli avversari quasi mai appartengono alla lista dei personaggi selezionabili in modalità Storia o Arcade, ma sono piuttosto cesellati con mestiere tramite l’editor dei personaggi accessibile anche ai giocatori. Questo fatto, di per sé positivo per la varietà dell’esperienza, ha l’effetto straniante di allentare i legami che fino al terzo episodio della saga ci hanno legato a personalità come Voldo, Maxi e compagnia danzante. Mi domando allora: nel momento in cui un giocatore - con un minimo di sbattimento nell’editor - può dare vita a guerrieri decisamente più interessanti di quelli standard, la rosa di partenza non perde completamente di significato? È difficile non chiedersi se questo editor, dettagliato al punto da consentire la neanche tanto approssimativa riproduzione di personaggi provenienti da altri universi (Final Fantasy VII, Devil May Cry, Mortal Kombat, 300 e chissà cos’altro), non
Come accennato da qualche parte in questa recensione, l’eccellente editor ha dato sfogo ai peggio otaku del mondo. Osservate esterrefatti questi video e provate a smentirmi: http://it.youtube.co m/watch?v=touO1L9 GF8M (Final Fantasy VII) …
http://it.youtube.com/watch?v=0V2aEEWJzq4 (Batman & Joker) ; http://it.youtube.com/watch?v=p_falPmVos4 (No More Heroes) ; http://it.youtube.com/watch?v=YUQwfKnUepI (Street Fighter) ; http://it.youtube.com/watch?v=U-tqh50mGDc (Star Fox) ; http://it.youtube.com/watch?v=p3DoB0v4DUU (Devil May Cry) ; http://it.youtube.com/watch?v=BJiTeKSy41w (Zelda). sia un punto di svolta - o piuttosto di arrivo - per Soul Calibur. Al di là di questo aspetto, negativo solo nell'ottica di eredità del brand, non convincono pienamente le sbandierate Critical Finisher, sostanzialmente delle fatality in salsa Namco. Non per l'effetto che hanno (concludere lo scontro immediatamente), ma per il sistema che le regola, inutilmente complesso e talmente restrittivo che il gioco in singolo non apre mai concrete finestre di tempo in cui utilizzarle (con alcune eccezioni nella Torre delle Anime). Pur conservando un certo senso nell'ottica del gioco online, dove evitano comportamenti troppo difensivi, in generale danno l'impressione di tanto rumore per nulla. Infine, l'online. Come anticipato è la parte migliore del gioco, sia perchè in generale funziona senza lag, sia perchè permette di visionare le - spesso meravigliose - creazioni degli altri giocatori. In più, è praticamente l'unico momento del gioco in cui è possibile utilizzare l'arsenale di colpi dei lottatori in tutta la loro esten-
sione. È per questo che Soul Calibur IV, pur rappresentando forse il miglior esponente del genere su next gen, lascia l'amaro in bocca. Perché quando la gente inizierà ad abbandonarlo, tutto quello che ci rimarrà in mano sarà una modalità single player un po' vuota e con quei limiti intrinseci che, in mancanza di un secondo sfidante, ci terranno lontani dai segreti della Soul Edge. 7
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SUMMON NIGHT: TWIN AGE
Silence!
console DS sviluppatore flightplan produttore atlus versione usa provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
na piccola casetta su un’isola nei pressi del continente. Una ragazza umana, Reiha e una summon beast di nome Aldo che vivono insieme come fratello e sorella. Il padre di lei si è sacrificato sette anni prima per salvarli. Entrambi, a causa dei loro poteri, possono sentire la voce degli spiriti e - a quanto pare qualcosa di sinistro sta accadendo nel continente. Inizia così questa nuova incarnazione del franchise Summon Night per DS, di cui si può notare subito la cura posta nel cercare di coinvolgere il giocatore nella storia. I dialoghi avvengono secondo il punto di vista di chi avete deciso di prendere controllo. Cambiano anche parzialmente alcune scene, come tutte le conversazioni a fine capitolo con i vari comprimari. Per vedere molto di ciò che Summon Night: Twin Age ha da offrire a livello di trama, si rendono necessarie almeno due partite. Mentre, se puntate a vedere tutte le conversazioni e portare al massimo tutti i rank dei personaggi, state certi che ve ne serviranno molte di più. Il gioco è piuttosto breve, una ventina di ore compresi i dungeon bonus ed è possibile cominciare una nuova avventura tenendo i soldi, i rank, le skill imparate, nonché i rispettivi livelli. Peccato solo che le armi che avevate creato con tanta fatica vi vengano invece tolte. Nel gioco, durante le numerose fasi esplorative, potrete incappare in varie casse e vasi da distruggere. Spesso questi oggetti contengono materiali preziosi che vi potranno poi tornare utili per forgiare spade, armature e gustosi dolci… da impiegare come ricariche veloci se combinati con quanto i nemici si lasciano alle spalle, cadendo sotto i colpi della vostra furia. I soldi sono sempre molto limitati e spesso creare un equipaggiamento vi fa risparmiare tantissimo rispetto a comprare lo stesso oggetto dal mercante ladrone. È anche possi-
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bile imprimere varie caratteristiche elementali alle proprie armi. Da notare come, nel caso un mostro abbia una grande resistenza a un certo elemento, questo possa finire per assorbire le vostre magie. Non è sempre saggio ‘spammare’ incantesimi devastanti con Reiha. Tanto che è quasi meglio starsene in disparte e osservare la situazione, mentre Aldo si scatena in tecniche di spada, ascia o lancia, che ben poco scampo lasciano a dei nemici inermi. L’AI infatti è piuttosto scadente e di solito ricorre solo a un paio di tattiche: o cercherà di soverchiarvi gettandovi addosso mostri su mostri o, nel caso dei boss fight più impegnativi, utilizzerà skill su skill, a una velocità assurda, senza darvi la possibilità di attaccare. Ogni volta che una skill viene selezionata e usata passa un tempo di carica prima che entri in azione, durante il quale l’utilizzatore è invincibile. Vale anche per voi, quindi con un minimo di strategia, e finché avrete punti abilità a disposizione, non
avrete difficoltà a sopravvivere. Per converso, i vostri due comprimari potrebbero morire facilmente, visto che se l’AI dei mostri normali lascia a desiderare, quella dei supporter è ancora peggio. In battaglia si può controllare direttamente solo Aldo o Reiha. Se i due sono vicini si possono anche scambiare velocemente i ruoli. Mentre per Aldo l’AI fa un lavoro egregio, soprattutto una volta imparate le tecniche più avanzate, con Reiha e il supporter di turno è un disastro. Entrate in una nuova locazione e… dove sono gli altri due personaggi? Davanti a voi, che così facendo magari attirano uno stormo di mostri che non finisce più. State per morire e avete bisogno di una magia di ricarica? Oppure, siete stati colpiti da uno status negativo e vi serve una cura immediata? Potete solo sperare che l’intelligenza artificiale si accorga che siete in difficoltà e vi tiri fuori dai guai. O anche solo che si ricordi che Reiha e Ayn sono in grado di lanciare magie devastanti standosene a debita di-
Twin Age è l’ennesimo spin-off della serie Summon Night, presente da un bel po’ di tempo in nippolandia, ma mai arrivata sui lidi occidentali con gli episodi principali della saga. Una serie che ha perso l’autobus dell’occidente
stanza dal nemico. E, invece, dove li piazza la CPU? Direttamente addosso agli avversari. Contro certi boss significa morte certa. Quando tutti e tre i personaggi muoiono è game over. I personaggi possono ritornare in vita solo dopo un lungo periodo di tempo, oppure uscendo dalla locazione dove vi trovate. Fortunatamente i save point sono distribuiti molto bene, e nei pochi casi in cui vi capiterà di ripetere certi scontri potrete sempre velocizzare di parecchio cut scene e dialoghi, semplicemente tenendo premuti R+B. Ogni JRPG dovrebbe avere un’opzione del genere, se proprio non si vuole o non si può inserire una funzione di skip. Per non parlare della grande comodità di poter passare ai dialoghi seguenti premendo la croce direzionale. Considerando che tutto il sistema di gioco (accesso ai menu, uso delle skill, attacchi, distruzione di casse e vasi) avviene tramite uso del pennino su touch screen, far riposare un attimo la mano destra è proprio ciò che ci vuole. Tra i numerosi menu a disposizione durante le fasi esplorative, il più importante è quello dove possiamo assegnare oggetti e skill alle
due ‘command palette’: una serie di slot verticali ai bordi dello schermo da cui poi selezionare ciò che si vuole usare. Solo nella mappa del mondo possiamo avere accesso ad alcuni particolari menu. Possiamo decidere chi portarci dietro come support character e controllare il livello del rank, che più alto è, maggiore sarà l’aiuto che il supporter offrirà in battaglia. Per modo di dire. Il rank sale parlando con quel determinato personaggio a fine capitolo o durante certi eventi, peccato che salga così lentamente da sembrare una presa per il culo. Sempre nella mappa del mondo, è anche possibile instaurare piccole conversazioni con il party per avere informazioni extra su dove andare e cosa fare. Abbastanza inutile visto che è impossibile perdersi. Magari impostandole di più sulla falsariga degli skit dei vari Tales of il risultato sarebbe stato migliore. Un altro menu permette di usare la funzione ‘conjure beast’: sarà sufficiente trovare un contenitore e un pezzo di un mostro per poterlo generare e portare con sé in battaglia. Ma la voce più importante è rappresentata dall’accesso all’al-
bero delle abilità, divise in ranghi. A ogni level up si ottengono punti da spendere per imparare nuove tecniche. Imparando skill elementari, inoltre, se ne sbloccano via via di più complesse. Ogni skill è potenziabile per sette livelli, ma prima di poter accedere a certi potenziamenti si deve raggiungere il livello di esperienza specifico richiesto. È un peccato che il cambio dei membri del party e l’accesso all’apprendimento delle skill sia possibile solo dalla mappa del mondo, anziché in qualsiasi momento. Infine, il gioco è molto semplice, anche a causa di un’abilità che vi permette di ricaricare migliaia di punti abilità a costo zero. Praticamente pensata per i livelli bonus, accessibili dopo il termine della storia principale. Abusarne è piuttosto semplice: ha un tempo di carica decisamente lungo, ma come detto più sopra, durante la carica siete invincibili. L’unico motivo di frustrazione che potrete avere deriverà proprio dall’abuso di questa invincibilità da parte di un paio di boss, ma perseverando ne uscirete vittoriosi. Basta imbroccare il giro giusto. 8
Il doppiaggio è abbastanza buono. Vi sono poche battute interamente doppiate, ma i numerosi dialoghi sono accompagnati da vari voice over per le espressioni di stupore o per parole singole che enfatizzano e sottolineano con molta efficacia il tono con cui andrebbero lette molte battute. Esperimento riuscito
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FROM THE ABYSS
Quello che passa il convento console ds sviluppatore sonic powered produttore aksys games versione usa provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
onic Powered deve aver pensato che per divertirsi non servono budget milionari. E neanche team faraonici impegnati sull’ultimo remake o seguito di questo o quel gioco. Basta un manipolo di uomini, come ai vecchi tempi. From the Abyss non sarà l’action jrpg più divertente o originale del mondo, ma una piccola manciata di ore d’intrattenimento per tutti riesce comunque a metterle in campo. Scelto il nostro avatar tra i pochi disponibili, saremo subito investiti dalla ‘stupefacente’ trama e dai grandi eventi che lo sceneggiatore ha pensato per noi: c’è un regno. Nei suoi confini vi è un portale magico sigillato in modo che i demoni non possano uscire. Parte del sigillo viene sciolto, le truppe del regno non riescono a contrastare la minaccia. In quanto avventuriero in cerca di fortuna, riuscite a ottenere un’udienza con la regina e a farvi spiegare la situazione. Da lì in poi starà a voi ripulire ogni abisso delle sue forze malvagie e dal boss di turno. Gli abissi non sono altro che i livelli del gioco, suddivisi in quattro stage a testa. Il level design non fa impazzire e gli scenari inquadrati a volo d’uccello sanno tutti di già visto. Pianure, cittadelle, vulcani, terre innevate... il solito, ma almeno rappresentato discretamente in 2D. Compito del giocatore è quello di trovare l’uscita di ogni livello generato casualmente, uccidere il boss di turno, sbloccare l’abisso successivo e così via fino al boss finale. Ogni livello e stage sbloccato è poi disponibile per la selezione tramite menu, in questo modo potrete anche riaffrontare più e più volte gli stessi boss per un po’ di sano grinding. Da notare, anche, che i nemici normali si rigenerano non appena si esce da una locazione per poi rimettervi piede. A ogni level up è poi possibile distribuire alcuni punti alle statistiche base. Il vostro sprite è in grado di usare varie armi che influenzano
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abbastanza il gameplay. Un conto è ‘spammare’ magie da lontano, un altro caricare a testa bassa armati di un ascia possente. Il negozio in città dispone di tutto ciò di cui potreste avere bisogno, mentre nella taverna sarà possibile lasciare in deposito oggetti e skill superflue. Durante le fasi esplorative si possono cambiare equipaggiamenti e skill semplicemente toccando col pennino le apposite opzioni nello schermo inferiore. Fin dall’inizio dell’avventura si è in possesso di una particolare tecnica che permette l’assorbimento delle abilità degli avversari al costo di un decimo dei propri skill point (che si rigenerano pian piano col tempo, tramite uso di pozioni o a ogni level up). Ogni stage mette in campo almeno un nuovo nemico dotato di una nuova abilità e, nel caso assorbiate un’abilità già in vostro possesso, ciò che otterrete sarà invece una ricarica dei punti ferita pari alla metà di quelli in possesso del mostro. Nelle prime fasi di gioco è un’ottima strategia per sopravvivere fino a quando non si
entra in possesso delle apposite magie. Le skill, inoltre, possono essere assegnate ai tasti X, Y e B, hanno spesso costi molto bassi e, visto che nessuno vi vieta di concatenarne varie di fila, le potrete alternare ai colpi normali falciando così tutto e tutti. Il livello di difficoltà del gioco è talmente infimo che difficilmente avrete problemi a far piazza pulita anche dei boss più imponenti. Al termine dell’avventura è possibile rigiocare ogni livello con avversari dieci volte più forti: ottimo motivo per farvi aiutare da un amico in multiplayer. In conclusione, FTA è un gioco pensato per chi non ha grandi pretese e vuole qualcosa di estremamente accessibile con cui trastullarsi in attesa di tempi migliori. Sufficiente sì, ma un po’ d’impegno extra nel gameplay e qualche limatura in più non avrebbero guastato. 6
Le skill nel gioco sono molte e tra queste ve ne sono troppe di decisamente sbilanciate a vostro favore. In compenso, è piuttosto difficile divincolarsi nel caso veniate colpiti in pieno da certe magie avversarie. Insomma, o così o pomì
xbox360
VIVA PINATA: False friends
GUAI IN PARADISO
console 360 sviluppatore rare ltd produttore microsoft versione pal provenienza uk/usa
uando ho cominciato a zappare la terra, nel lontano e remoto 2006, ero un allevatore inesperto, ingenuo e pasticcione. Ricordo un giorno che una papera litigò con il castoro e furono scintille e fuoco e fiamme. Ricordo il primo albero di mele cresciuto male e il dispiacere di una pianta rinsecchita in giardino. Ricordo tutti gli errori commessi allora, errori figli di un tutorial confuso e della fretta di toccare subito tutta la carta che mi saltellava in giardino. Ricordo di aver sbagliato e di aver rimediato, ricordo un giardino devastato dalla guerra civile e una volpe da monta recintata per costringerla a far figli. Ricordo sessantasette ore di gioco totali, un pappagallo morto dal valore inestimabile e un fottuto leone nel mio grazioso giardino. Viva Piñata 2, Anno del Signore 2008, è un seguito perfetto nel rispettare le meccaniche del suo predecessore, attento nel rifinire quanto poteva essere criticabile, furbo nell’addomesticare i vecchi tempi morti, una mezza merda se si è giocato il primo episodio. Datemi un Amen. Più remake che seguito, Viva Piñata 2 costringe il giocatore a rivivere il suo passato come se non lo avesse visto con i propri occhi. Come Funny Games, il nuovo è troppo indistinguibile dal vecchio per trarne qualche giovamento. Le stesse piñate di un tempo si lasciano catturare senza sorprese e quelle nuove, parecchie a dire il vero, restano varianti di un universo più grande ma costretto nelle stesse regole. Le piante ricominciano a crescere e a morire come se due anni non fossero passati e i biglietti da sessanta euro non fossero due. Tutto è già visto, tutto è già fatto, tutto è già stato superato e vinto prima ancora di impugnare pala e annaffiatoio. E se manca il piacere della scoperta, se viene meno quel beffardo sorrisino compiaciuto per la scelta del giusto fertilizzante, Viva Piñata è meno di niente.
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Eppure, di novità vere e proprie ce ne sarebbero pure, peccato che nessuna di queste valga davvero il prezzo di mezza candela. La modalità cooperativa aiuta a fraternizzare, regala nuove amicizie, aiuta nuovi amori, ma lascia il gioco a terra, senza l’ombra di un decollo. Le trappole e i due giardini inesplorati sono più un fastidio che non un allegro passatempo. Caricamenti, attese e ancora caricamenti, rendono la cattura di una piñata selvaggia una fatica non direttamente proporzionale al premio ricevuto. Novità gradevole e apprezzata, comunque, se paragonata alla ingombrante presenza di minigiochi sputati direttamente dal clamoroso insuccesso commerciale di Party Animals. La corsa di piñate è la sintesi perfetta tra un Mario Kart - senza i kart, i personaggi Nintendo, il divertimento, i bonus e i malus spassosi e le piste allegre e una sinuosa linea retta. Robaccia capace di accontentare i collezionisti di achievements, ma incapace di sollazzare l’entusiasmo di chiunque altro. Datemi una pernacchia. Qualcuno non si è giocato il primo Viva Piñata, lo so, me lo sento. Quel qualcuno dovrebbe correre in negozio e spendere tutti i suoi risparmi per questo ‘Guai in Paradiso’… se un mostro con tre teste e mille denti si fosse mangiato tutte le copie a pochi spicci del primo capitolo. Perché se non lo conosci, Viva Piñata -
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a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
che sia il primo o sia il secondo - non dovresti evitarlo. Un gestionale divertente e colorato che richiede buona pianificazione e nervi saldi e che non ha problemi di concorrenza. Un gestionale quadrato e faraonico che premia la fantasia e punisce la disattenzione. Quel qualcuno si divertirà un sacco, beato lui. 6
Obiettivo per la cattura di piñata tramite Live Vision inside. Uno dei peggiori modi di Microsoft di vendere telecamere.
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xbox360
BRAID
L’ometto simpatico
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a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
l nuovo che avanza, nel mondo dei videogiochi, avanza sempre da un’altra parte. Ecco allora che Braid, giochino privo di branchi di scimmie da hype sulle spalle, sfugge ai generi, alle definizioni e ai ricordi da giocatore smaliziato. Un’avventura che inizia dove il resto dei videogiochi finisce, un’esperienza che stupisce prima ancora di divertire. A guardarlo in fotografia, Braid somiglia a un platform andato a male. Stile da vendere, per carità, ma gli ambienti quasi sterili e la fauna piatta e immutabile non sono articoli di cui andare fieri. Eppure tutto ha un senso e nuova vita quando scopri di non averci mai giocato prima a Braid. Stordito dall’assenza di un tutorial chiarificatore, sei costretto a sprecare l’aiuto da casa già alla prima domanda. Perché ti guardi intorno e non capisci cosa fare, perché non trovi le monete da raccogliere, perché i nemici che uccidi prima o poi tornano in vita. E allora capisci che non è un platform Braid, e nemmeno gli somiglia. A giocarlo faccia a faccia, Braid è una lotta contro il tempo. Ma niente corse forsennate, niente fugaci occhiate al cronometro, il tempo è l’avversario e va sconfitto con la furia di un cervello preparato. Ogni singolo pezzo di puzzle è una sfida all’umana intelligenza. La soluzione è sempre talmente vicina da restarsene invisibile per ore. È lì, in quella schermata e a pochi passi da te, ma non la vedi. Perché è nascosta bene, perché è geniale, perché non sai pensare in una lingua tanto diversa e perché è una stronza. Sì, perché è una stronza che ti scappa dalle mani almeno cento volte prima di farsi catturare. E poi, quando la incontri, ti fai un applauso, ti canti una canzone e procedi di un pezzo. Dopo un mondo di livelli pensi di aver appreso tutto, ma neanche quello è vero. Un passo avanti c’è un altro mondo, tutto nuovo, con regole tutte sue che
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nessuno si prende la briga di spiegare. Ma è tutto nella scoperta il segreto di questo Braid, spogliato dei suoi segreti resta ben poco altro da raccontare ai nipoti. Un’avventura, un falso platform, un puzzle game atipico, qualunque cosa sia, Braid è buono finché caldo. Buono buono, però, tanto da valerne comunque la pena. Le poche ore di gioco potrebbero storcere il naso di chi ha pagato il salato biglietto, ma se il brodo non lo allunghi, ti mangi solo le verdure. Quello che c’è è reale, palpabile, niente aria fritta per accontentare le folle. A leggerlo parola per parola, Braid è una meravigliosa storia d’amore che non si lascia capire. Potrebbe essere una buffonata da quattro soldi, non posso escluderlo, ma i messaggi sono lontani, imprecisi, inafferrabili. Così provi a ricomporre i frammenti di una narrazione confusa e non ti spieghi se è follia o solo perfezione. Colpa della scelta maniacale dei testi, dell’atmosfera surreale e di una tristezza di sottofondo che non si dichiara ma si rivela attimo dopo attimo. Narra
la leggenda di velati riferimenti a mondi distrutti da pacifiche bombe atomiche. Se è vero, non son stato abbastanza bravo da leggere tra le righe. Per me Braid resta la commovente storia d’amore di un ometto simpatico, in un gioco esemplare, in un mondo tristemente e sfarzosamente colorato. Dopo quindici anni di stereotipate missioni di salvataggio, con Braid ho riscoperto i videogiochi. Ho ritrovato quella sensazione di innaturale smarrimento e ho brindato alla rabbia da impotenza. Sono stato un uomo perso in un mondo che non conoscevo affatto. Voglio esserlo ancora. 9
55.000 copie nella prima settimana. Forse rischiare non è sempre sinonimo di insuccesso in questa industria
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a cura di Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero
alla scoperta delle ‘indie’
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’è una filone nel sottobosco indipendente che snobba le convenzioni. Non vuole intrattenere, vuole emozionare passando dal cuore al cervello e ritorno. Jason Roher, Tale of Tales e Rod Humble (sul quale ci si soffermerà il mese prossimo) sono alcuni degli esponenti più in vista, fautori di un videogioco - se così si può chiamare - che stimola a pensare, che racchiude al suo interno significati e che tronfiamente li mette in piazza, delineandone così la sua diversità. È un videogioco fortemente autoriale, che pretende di essere sviscerato, pretende un minimo di dedizione cerebrale. È un videogioco che si regge su strutture ludiche scarne e che senza approfondimento risulta monco, ma è anche un coraggioso inizio. Se 1492 è un viaggio, non può esimersi dall’iniziare.
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GRAVI TATION
Scaricate Gravitation al seguente indirizzo http://hcsoftware.sourceforge.net/gravitation
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ason Roher, ancora lui. Dopo quella botta di adrenalina che va sotto il nome di Passage, l’artista statunitense si cimenta nuovamente nella definizione in forma ludica degli stati emozionali umani. Lo fa attraverso la pixel art e la malinconia, quello che sta diventando a tutti gli effetti un marchio di fabbrica. Il risultato, questa volta, non è di immediata assimilazione. Non è solo l’assenza di una - a tratti pedante - spiegazione dei più piccoli significati dell’opera a rendere Gravitation meno accessibile di Passage. Gravitation, per la sua natura maggiormente personale, è effettivamente più ostico da interpretare. Incastonata in una struttura di arcaico platform game è racchiusa una visione, come scrive lo stesso Roher, sulla “mania, malinconia e il processo creativo”. C’è invero qualcosa di ancora più universale: gli equilibri e i legami familiari, un tema già lambito nel precedente lavoro con l’introduzione della compagna di viaggio (vedi Babel 006). Spogliate della loro poesia, le meccaniche di gioco prevedono una fase di caricamento, rappresentata dal giocare con il proprio figlio - che, nonostante le apparenze, ha i cromosomi xx - dopo la quale è possibile compiere poderosi balzi verso l’alto, esplorando così le piattaforme soprastanti per recuperare le stelle da convertire in punti, spingendole all’interno del camino. Quello che Roher tenta di trasmettere è l’alternarsi di stati sottesi alla genesi della scintilla creativa e delle sue conseguenze: l’euforia (la testa in fiamme con vaghe reminescenze di The Great Giana Sisters), l’isolamento artistico che tende ad allontanare dagli affetti, e la centralità di questi ultimi nell’alimentare l’inventiva. Il rapporto di limitazione/ricompensa nel relazionarsi con i propri familiari si esplica in maniera simile in quanto visto in Passage. L’affetto amplia le proprie possibilità, ma ne preclude altre. Una visione che è valsa a Roher critiche francamente fuori bersaglio. L’approccio non è pessimistico, è intriso di realismo. Quello che un figlio - o una compagna - può dare, analizzato in modo meccanico, è un percorso. Un ventaglio di possibilità che, giocoforza - a meno di dinamiche ‘non standard’ - ne preclude altre. Gravitation, così come Passage, è il trionfo del controllo autoriale sul videogioco. Se uno dei problemi storici nel trasmettere un messaggio è quello di non sapere se il fruitore sarà in grado di superare le sfide proposte, la risposta di Roher è un controllo totale sull’arco temporale della sua ‘storia’. Gravitation, così come Passage, ha un preciso tempo di gioco che esula dalle capacità dell’u-
tente. Il successo di tale approccio sta nel trasformare il giocatore in spettatore senza limitarne la possibilità di scelta e senza corrompere l’impatto artistico. Otto minuti per inscenare la propria pagina ludica e scardinare le metafore proposte. Metafore, come si scriveva in apertura, non chiare al primo impatto. La barriera è prevalentemente linguistica. I simbolismi adottati sono molto personali, destinati a rimanere parzialmente oscuri senza un’imbeccata da parte dell’autore. Ma personale è la parola chiave dell’intera opera. Non più incanalate da una dichiarazione d’intenti arduamente mal interpretabile, le sensazioni sono libere di plasmare l’esperienza in modo del tutto soggettivo. Esiste una ‘vera’ interpretazione di Gravitation, ma se uno dei punti di forza del videogame è generare storie personali all’interno di determinati confini, allora l’opera di Roher è un vero e proprio manifesto del videogame. La sua forza è sapere innanzitutto emozionare. Anche senza elaborate pippe mentali per decostruirne i simboli, il mondo delineato parla al cuore. Con ogni probabilità il primo viaggio all’interno di Gravitation si concluderà con una ricerca forsennata di stelle che inevitabilmente incastreranno il figlio al di là di una barriera inamovibile. L’avidità e l’egoismo hanno portato a un allontanamento definitivo, a un’incomunicabilità nei confronti dei propri affetti, che si allontaneranno lasciando come unica compagnia la solitudine, e un incancrenimento su sé stessi. Roher comunica tutto ciò attraverso il gameplay e misurati indizi visivi. Che un quadratino rosso di pochi pixel riesca a esprimere con tale forza la tristezza dell’abbandono è un risultato di per sé. Alla stessa stregua, il modificarsi del proprio spazio visivo e il crescendo musicale sono magistrali nel sottolineare gli stati d’animo del protagonista, i propri stati d’animo. Perché Gravitation si vive sulla propria pelle, lo si incarna nel profondo ricavandone una lezione, una storia personale da raccontare. Visioni alternative che spaziano dalla perdita del fanciullino (dove giocatore e bambino sono due proiezioni della stessa figura) alla mitizzazione dei fratelli maggiori. E se tutto ciò vi sembrasse fin troppo pretenzioso, si può sempre optare per la dissacrante interpretazione data da roBurky nel forum di Rock Paper Shotgun: “Non lasciare mai casa tua per esplorare il mondo: i tuoi figli potrebbero essere rapiti”.
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odama C
ULI, TETTE, SESSO GRATIS! Il lettore scuserà la sfacciataggine. Quanto scritto potrebbe essere interpretato come un modo truffaldino di attirare qualche ‘spippettatore’ accanito, sperando poi che il soggetto in questione trovi interesse in quanto segue - il gruppo demografico, d’altra parte, dovrebbe essere più o meno il medesimo - ma c’è un motivo più ficcante: l’opera di Yoot Saito, già autore del delirante Seaman, ha più aderenze con quell’incipit di quanto non si possa supporre. Innanzitutto è anch’essa uno specchietto per le allodole… Vestito di ostentata originalità e microfonia varia, Odama è, nel suo midollo, nient’altro che un elaborato flipper al quale Vivarium ha aggiunto una blanda ma efficace struttura RTS, da gestire tramite comandi vocali e pad. Lo scopo di ogni livello è quello di aiutare il proprio drappello militare a trasportare una campana verso l’uscita del piano di gioco. La biglia, qui chiamata Odama, è il principale strumento offensivo, capace di travolgere qualsiasi cosa sul suo cammino (propri soldati compresi). L’ulteriore controllo del campo di battaglia deriva dalla possibilità di impartire alle
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nintendo vivarium gamecube 2006 yoot saito
milizie (giapponesi) comandi (in italiano) indispensabili per mettere in atto la propria strategia. La buona notizia è che i nippo hanno studiato la lingua di Dante, comprendendola perfettamente. La cattiva è che, come l’incipit di cui sopra, Odama è hardcore fino al midollo, fatto strano per un titolo Nintendo di prima fila o giù di lì. Colpire i respingenti giusti in un flipper è cosa ardua già di per sé, nel momento in cui si saturano i tasti del pad di funzioni, si aggiungono comandi vocali e si richiede di compiere determinate azioni in sequenza, il tutto evitando accuratamente di non falcidiare le proprie milizie… beh, diciamo che è la cosa più vicina alla sodomia senza sputo che si possa provare: fa male la prima volta e difficilmente ci si abitua in quelle successive. Odama manca di lubrificante, non fluidifica l’approccio ma impenna la curva di apprendimento manco fosse Ricky Carmichael. Le dita si aggrovigliano sui tasti (tutti utilizzati, anche lo Z e la croce direzionale) in un’orgia dolorosa, frustrante, punitiva. È sadomaso senza ‘sado’. Si impiegano settimane solo per conquistare la prima manciata di livelli, per poi
di marco barbero
GIOCHI DI MERDA!
essere massacrati senza pietà dallo stronzissimo boss del Tempio Aracneo. E ci si chiede perché. Perché si riesca a superare uno stage in maniera casuale, perché l’Odama sia così lenta da lasciare sguarniti nei momenti peggiori e perché, al contrario, a volte paia schizzare vivendo di vita propria, appropriandosi di quella dei sottoposti. Ma spesso - troppo spesso - ci si chiede perché accanirsi visto che la difficoltà valica con troppa frequenza il limite dell’accettabile, trasformando quello che dovrebbe essere un divertimento in un passatempo che spesso divertente non è. Il motivo è che Odama è pieno di passione e attenzione ai dettagli, e lo si vorrebbe apprezzare fino in fondo. Un gioco così originale, fuori dagli schemi e anti commerciale lo si vorrebbe amare, ma non in maniera così hardcore. Queste sono cose che richiedono passione vera. Odama, invece, è sesso mercenario, lui la passione la svilisce, la accoglie a braccia aperte per buttarla noncurante nel cesso. Il sudore per arrivare all’orgasmo ludico è eccessivo e la ricompensa che sa offrire non è all’altezza della dedizione che chiede in cambio.
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LA CRU DEL TA’
a cura di Simone “Karat45” Tagliaferri
duto, che nel suo contenuto vero e proprio. Contenuto, del resto, tranquillamente manipolabile in più sensi: un paio di frasi e lo si poteva capovolgere. Magari i puritani lo avrebbero additato lo stesso - altrimenti che puritani sarebbero? - ma va ricordato che, nonostante i pixel grossi come brufoli, anche le vecchie console e i computer a 8 bit avevano una discreta scelta di titoli proibiti. I quali, a parte qualche battuta, non suscitarono reazioni degne di passare alla storia. Nello stesso, citavo come esempio anche Shellshock dei Guerrilla (gli stessi di Killzone) in cui è necessario torturare dei prigionieri per andare avanti. Ovviamente i torturati fanno parte E ti capita di scrivere un articolo [http://arsludica.org/2008/08/07 dell’esercito rivale, ma poco im/shepard-il-generale-custer-e-la- porta. In questo caso lo scandalo è stato sicuramente minore, crudelta/] in cui affermi che l’inanche se non sono mancate pacoscienza anarchica e amorale che ha portato qualcuno a svilup- role di sdegno da parte soprattutto della stampa specializzata, pare un gioco come Custer’s Reche pare non abbia apprezzato venge per Atari 2600, aveva molto. Eppure la tortura calza a mostrato come sfruttare il mepennello in un gioco dedicato alla dium videoludico per mettere il guerra del Vietnam. Molti film crigiocatore di fronte a una scelta tici verso l’operato degli Stati paradossale dettata dal conteUniti durante il conflitto ne hanno nuto: giocare o non giocare? in più occasioni mostrato i lati E ti capita poi di pensare che, oscuri. Penso ad Apocalypse Now in fondo, quel gioco in cui si stuprava un’indiana legata a un palo o a Platoon, tanto per fare due era terribile più per il modo in cui esempi celebri. I videogiochi, inveniva presentato, che per il con- vece, hanno sempre tergiversato tenuto in sé. Se lo stesso identico e si sono limitati a proporne il gioco si fosse chiamato Custer’s lato eroico. Il lato buono per la Love e se ci fosse stato scritto sul propaganda, insomma, come del manuale utente che Custer, inna- resto hanno sempre fatto per morato di un’indiana, doveva rag- tutte le guerre (ad esempio la giungerla per coronare il loro Seconda Guerra Mondiale). I due sogno d’amore facendo sesso stessi film citati, ridotti in pixel, sfrenato, lo scandalo si sarebbe sono stati stravolti nel contenuto. evitato. Anzi, probabilmente si I Guerrilla, con un atto provosarebbe ricordato il gioco come catoriamente consapevole, hanno un mediocre tentativo di realizvolutamente scelto di rompere la zare un porno interattivo su una retorica dell’eroe, trasformando il console dalle potenzialità grafiche giocatore in un torturatore e metdecisamente limitate, e magari tendolo davanti a una scelta: gioqualcuno lo avrebbe innalzato a care o non giocare? Partecipare al esempio di tolleranza e amore tra gioco torturando, oppure rifiui popoli. Invece, gli autori hanno tarlo abbandonandolo? La scelta tenuto a sottolineare che di stunon è scontata perché ci sono pro si trattava, venendo giustamolti fattori da considerare, e mente additati come razzisti, credo che, nella stragrande magsessisti e anche un po’ stronzi, gioranza dei casi, chi ha acquidiciamocelo. stato il gioco abbia deciso di E quindi ti capita di riconsideproseguire... almeno per non varare l’oggetto dello scandalo e di nificare i soldi spesi. individuarlo più nel modo con cui Proseguire sì, ma all’interno di il gioco è stato presentato e ven- un contesto alterato in cui l’eroi-
smo è macchiato e appannato da un gesto collegato, nell’immaginario comune, ai ‘cattivi’. Sono i cattivi che torturano provocando dolore. Lo fanno per estorcere informazioni, per far confessare qualcosa oppure, semplicemente, per causare sofferenza in onore al loro ruolo. Le torture inflitte dai cattivi possono essere mostruose ma, nell’immaginario collettivo, sono accettabili e, anzi, rendono più giusta la vendetta. Anche quando questa sa essere crudele, non a caso il lettore trova tanta più soddisfazione nel seguire le gesta del Conte di Montecristo, più apprende delle sofferenze che ha patito. Il deuteragonista è destinato a morire, oppure semplicemente a perdere. Ma come si può giocare con qualcosa che ci rende torturatori? Anche solo per un attimo si è costretti a straniarsi dal gioco e a compiere una scelta esterna a esso, fosse pure presa in un solo secondo - a meno che uno non sia un sadico pazzo che si diverte a torturare le persone - per poter continuare a giocare. In questo senso il contenuto videoludico diventa destabilizzante, perché rompe la trama dell’ovvio e, senza offrire alternative accetta-
In Shellshock il delirio di onnipotenza del giocatore, solitamente incanalato su binari morali atti a giustificarlo, viene smascherato e brutalizzato. Come in Custer’s Revenge, l’atto viene mostrato senza mediazioni, ma con una volontà autoriale più forte e meditata, meno legata allo sghignazzo volgare e più cosciente delle sue possibilità
bili in gioco, costringe a rinegoziare i propri valori fuori da esso. A quel punto non c’è trama che tenga e il risultato appare scontato: per andare avanti ho torturato. Volente o no, sono stato partecipe di quel gesto. Anzi, io stesso l’ho compiuto deliberatamente. Non ne sono colpevole, ovviamente - neanche tanto - e non ho causato alcun dolore reale. Anzi, posso anche vederlo come un modo per rappresentare la guerra con più realismo rispetto a un Vietcong o a un Call of Duty qualsiasi. Ma è il mio agire che ha prodotto quella rappresentazione di cui sono diventato attore consapevole. Una rappresentazione che, davanti a un mio diniego, sarebbe rimasta latente e sospesa tra le righe del codice.
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fla su ostra tiere. m e ch a mes tizio il suo am on il te, c a di chi fa uole, il b però, n e t r v , ic ve e o il ip t in c b a f a za m icord ficien nde, il ba to troppo omento a si r ardia m t n e u il v n T o i e . ra Lu ch rsi , la d ssa in gu el to an comp sume u volta bino sia arriva tria di as ché scon stata me tiere. “Q a, a r r s o o e u r c t e d P d a a s forico . re An di qu sta in e fos avvis bilità so meta r- c n r que responsa a La i com lce suora ” l’aveva colto. Pe isodio e e d p s m p e i, in o s o n o t quar i Grounalche e suore - e i coglio stata alla d maledett va dato a tti per u , d y q z , a d ) r è ve do ai nch i. me ione Italia Me C gioco non le a sono pro ò Big Jim mam eranno a lli non è m dieci ann rive erza stag nerty in pure eogiochi arra t e pu oncini to i in omp ei cava p n t r F a e m o ll e I s o e ( h c c d t , e vid ra d lcuno sava a? I mat essuno, or lif i tre) ché i signo z a qua i pen ded f empio (d re venga litan A mbin lla violen i ucciso Station2? venduta o o s a t e S a b . c o e a ROG y a m gio ea oll rim LA D tigar n hanno arlo la Pla più di un è il p e il video to dalle f involgere O is C f a m ra no co D EC tipiebbe ui incapp bagliato di co nside si lascia Lego 5–E dovr s c ologie so co , erché uesto in un modo dere maspes requieto uisire pat he noi p c ir q di ni en eq rio e to da ac o. Quella ’ultima e Error re. Colpa mo - di v i di 18 an t n e un tal p un droga ome da u ò apparir - genito se voglia ai minor o i r o u to che d iamo sind sterno p i dal vide il o furb non adat polino. ’e , rs o chiam etto, dall di stacca na droga eriale gine di T t a u m i, à ulle p poi s incapacit te come li e nipot s ig en IO come Esattam erito di f nti e di NSO à e . I PE ef C – gioco empo pr iare le m possibilit 3 si rv at pass ce di fuo e qualsia o una e a c d è cap e ineffica Ed essen liato. 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Ma n e iv a a u t d p q com iglia più n a i e ig c e d t iv io m n e D g a f e f iv s . a to della , a chi v vete pre ui video detto ostretta a tutta la , e ques o s A c d to , i n i a s u r d o p sorris la pure. ere tutto tto e non u d t o il n p u ga to è issim . onde lo re nsa di sa e gioca t are al nasc rte, ques ppia ben ella vita n ch e ? ord sa r iv o o e pe i ic le d ll r h it le il r e i c r alk s e u e e l t Q p m , le n ia a a r io o t i? t in s s se pisod si gioch mai temp eriorità sominono sere un ’ufficio po dell’e up te gli e e a on es tano dall ressa di famigli i- perd o la sua s ente io e otto - ch n e t in n la n lo he ci mamma nno comb mond probabilm . Il giova altra per Non rte c a e io , La pa uando la e cosa st lioli daeno. ecch à qualch dirittura Ecco r m a p q d uesto ieno r r ig o a erva giovani f rso q e inizia perso p gliam per regale conosce a oss trove n lato è , i du e utti i aider? a n t e i o n c h R ltro o c u siede i suoi du in mano gno di c in isodio y. Se da uni, dall’a d eogio giocare o Tomb R o lla ba p a id e d e P n v d n . u i n a V z à t r u u n t t a T m e e s in r e r it o p È a c d p C c o t ll , i d a a a e m a t e h M se ogh iastan pensiera o normale vanti un ch nudi. Chi Drive alità e lu tura non la di gen i s o dev tt a, par i let ban stann e qualche ense. Tu si inalber - naggi i), d i d i t … i S d a v r E . a N u nit es chia rep , aiole È BE sang cia statu la signora e possa infila te e forc eglio imp eparata) a TTO in pr – TU , ma iede com el gioco lem onta nti (o m prov im o b c 4 n s o o e r li h m c qu al p sse meg più o volge, si ua casa itabil tori a cieca (o teressata ermets n Inev tti p a droga si sco ito nella pagato. i ripari e itica tria disin e r c if d a fin un us he, el sa ha to corre sere uire te di ind hobby c nte come , meno d i stes un oseg TV i, e a che le a quel p me di pr mmagina di un avvince a ll e m e I a e dica Più d eo, è ment ce al figli rdizione. Grand tend propria. non si giu ne, in qu e is n gie. e n izio ra e s proib ia della p ronte a u di, imma . la io e r o iz v a p ip f v pos n na to ffè. S endere u presa di sulla amma di ochi seco o contes a c u p pr na una m uto per liato del s aiden 2. il non si, è già u A G g a c Theft cioè spo ate Ninja o t s lo O nate , immagin MAN o è UNA a À s Megli u D a TI o la c occe IESA uand b A CH inti q a grandi v r 2–L na un e arsi p a. Mamm rla - radu , e la d i a a t e M s amm chiam a giu quell mi piace liero di m e di per- ì r s a ig e t r r n m e o o u c fr i. Lui er af ato g o gioch comit uorina, p di video to sui pr s a ie dolce venditor aver vigil amente d il t n sona ole di no o è discre v g colpe . Il dialo li pri fig
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