Babel#009

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O T T O B R E http://bab3l.splinder.com

C O N T E N T S 009 2 0 0 8

PROGETTO EDITORIALE federico res COPERTINA tommaso “gatsu” de benetti GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI giovanni “giocattolamer” donda SITO WEB http://bab3l.splinder.com BABEL È OSPITATO DA www.qb3project.net www.issuu.com

REDAZIONE alvise “kintor” salice cristiano “amano76” ghigi emanuele “emalord” bresciani ferruccio cinquemani federico res giovanni “giocattolamer” donda giancluca “sator” belvisi marco “il pupazzo gnawd” barbero michele “guren no kishi” zanetti michele “macca” iurlaro tommaso “gatsu” de benetti vincenzo “vitoiuvara” aversa HANNO COLLABORATO simone “karat45” tagliaferri COPYRIGHT 2007/2008 Babel Edizioni

S P O R E LOVE BUGS

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FRAME MGS4: niente compromessi 008 Io, Giappone 010 REVIEW Spore 016 Wipeout HD 012 Super Robot Taisen Z 017 Lock’s Quest 014 Rhapsody 018 UNDERRATED Lego Batman & Co. 019

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WIPEOUT HD THE NEW FIRESTARTER

Babel è un magazine gratuito. Può essere letto, stampato, prestato a cugini e parenti o inviato via fax in Alaska. E’ assolutamente proibita la distribuzione a pagamento, integrale o parziale. Se avete pagato per leggere queste righe, significa che qualcuno specula sulla passione nostra e vostra. Fateci sapere chi è. Troverà giusta punizione.

BABEL

IGNITION Affinità elettive? 003

DAL VANGELO SECONDO TOMMASO

AAA cercasi architetto... 004

ODIO DI GOMITO Io mi blocco, tu ti blocchi... 005 ESCO DI RADO Morto un Papa... 006

LA TV CHE VIDEOGIOCA Lisa sogna il Blues 024 GIOCHI DI MERDA Dog’s life 022

ARS LUDICA Fable 2 e l’mossessualità 023

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FABLE 2 FANTASY E OMOSSESSUALITA’

1492 Simulando relazioni 020 NEXT MONTH 025


cover story ritorno di fiamma

Feticcio tecnologico, icona pop, concentrato di design artistico e industriale. Nel 1995 Wipeout ha decretato il successo di PlayStation sulla concorrenza, dando vita ad un dominio di mercato protrattosi per dieci anni. Wipeout ha trasformato il videogioco in oggetto

di culto, giocattolo per adulti; Wipeout ha impresso il brand PlayStation sull’immaginario mondiale; Wipeout ha soprattutto entusiasmato milioni di videogiocatori sparsi ai quattro angoli del globo. Wipeout HD è un poderoso ritorno di fiamma. Il nuovo ruggito di un motore

vecchio ma inossidabile, liberatosi dai limiti dell’hardware PS2 e sfolgorante nella sua altissima risoluzione next-gen. Wipeout HD è soprattutto il ritorno di un vecchio amore, nuovamente pulsante nel cuore di milioni di videogiocatori ai quattro angoli del globo...

iGniTion

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CINEMA & VIDEOGIOCO: AFFINITA’ ELETTIVE?

el suo saggio Le affinità elettive – il linguaggio del cinema nei videogiochi1, il compianto Bruno Fraschini si avventurava in una appassionata e acuta analisi sui rapporti sempre più stretti tra cinema e videogioco, in particolare ricercando l’influsso del primo sul secondo. Attraverso l’esame approfondito di capolavori quali Resident Evil e Fatal Frame e numerosi riferimenti a titoli come Metal Gear Solid 2, Ico, Devil May Cry e Onimusha, Bruno Fraschini descrive con chiarezza le prime fasi di un processo all’epoca evidente, attraverso cui l’ibridazione tra videogioco e linguaggio cinematografico pareva destinata ad esiti decisamente entusiasmanti. Le peculiarità di entrambi i media sembravano incontrarsi in una forma in grado da un lato di assicurare l’unicità e le esigenze del videogioco, dall’altro le infinite capacità comunicative del cinema. È particolarmente interessante, a questo proposito, l’estesa disamina di uno specifico passaggio di Resident Evil 2, più o meno all’inizio dell’avventura di Leon S. Kennedy [“Il giocatore regista”, Cap.1.7, pp. 28-41]. Fraschini descrive con ricchezza di dettagli l’intera serie di movimenti che portano l’eroe biondo, dopo aver guadagnato l’atrio della stazione di polizia facendosi strada tra gli zombie, ad incontrare la prima minaccia concreta della sua tremenda avventura: il disgustoso licker. È totalmente rilevante la maniera in cui il regista del gioco (Hideki Kamiya) punti a costruire una tensione sempre crescente nei momenti immediatamente precedenti all’incontro con la creatura, tramite

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l’uso sapiente e originale della grammatica cinematografica horror, applicata attraverso il sistema di telecamere fisse del gioco. In una sequela di campi medi, lunghi, totali ed affilati controcampi, Kamiya conduce il giocatore metro dopo metro verso l’orrore: ora occultando la scena, ora schiacciando il protagonista dall’alto a sottolinearne la debolezza, ora sgonfiando la tensione con un controcampo per poi riaccenderla immediatamente dove al giocatore è imposto di avanzare in campo lungo verso una imperscrutabile svolta del corridoio. Dal primo passo all’interno della stazione fino all’incontro con il licker, il linguaggio del cinema sostiene e amplifica le potenzialità dell’interazione, al contempo offrendo totale soddisfazione all’istanza di leggibilità dell’ambiente propria del videogioco. In maniera analoga, ma avvalendosi di una “macchina da presa” mobile permessa da un motore poligonale, giochi come Fatal Frame, Dino Crisis e Silent Hill insistono sulla via intrapresa da Resident Evil esplorandone ulteriormente le possibilità. Carrelli, zumate e panoramiche divengono possibili, così come movimenti complessi e raffinati come quelli apprezzati nei vicoli dei primi momenti di Silent Hill. Devil May Cry, coniugando l’azione frenetica con un sistema di camere dai movimenti precalcolati, segna la definitiva ibridazione tra le meccaniche del videogioco e la forma – dunque la sostanza – del cinema. Cut scene e FMV punteggiavano già ognuno dei titoli qui citati, ma il fulcro del discorso di Fraschini, nonché di questo editoriale, sta ovviamente al-

trove: precisamente dove il cinema si fonde col videogioco, invece di restare se stesso e fare capolino in forma di intermezzo tra una fase giocata e l’altra. Oggi mi sembra che la via descritta da Bruno, e sperimentata da tutti noi videogiocatori nei primi anni del decennio, sia stata pressoché abbandonata. L’ibridazione – ma il termine è fuorviante – tra cinema e videogioco è rimasta un abbozzo, un rapporto eterogeneo di forme espressive differenti e stridenti. Se in Devil May Cry il gameplay si sposava (quasi) perfettamente al linguaggio del cinema, oggi l’unico punto di reale contatto tra i due media sono i Quick Time Event riportati in auge dal successo di Resident Evil 4. Oggi il videogioco si ripiega in se stesso e si affida agli occhi del giocatore (riprodotti dalla soggettiva degli FPS o dalla terza persona di Gears of War), abbandona l’espressività cinematografica e si adagia sulla piattezza di una “estetica” puramente funzionale. Il videogioco cinematografico, oggi, non esiste più. Il cinema è rimasto fuori dal videogioco. È rimasto un banale premio per chi gioca, un’appendice più o meno elaborata ma sempre ben scissa dall’esperienza videoludica sostanziale. È ancora il caso, chiedo, di parlare di “affinità elettive”? - Federico Res Le Affinità Elettive – il linguaggio del cinema nei videogiochi con un’analisi di Project Zero, di Bruno Fraschini, Ring 2004. Reperibile in allegato a Ring#12 su http://www.idv.splinder.com (colonna dei link a destra) 1

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Tommaso De Benetti

Uno che i VG preferisce discuterli

Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema

videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.

DAL VANGELO SECONDO TOMMASO AAA cercasi architetto per mulino a vento

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Voci non confermate mi dicono che l’Homo Sapiens Idaltu si sia estinto perchè le femmine della specie preferivano accoppiarsi con i più piacenti maschi del contemporaneo Homo Sapiens Sapiens. Non so se sia vero, ma il succo è: cari critici videoludici, diamoci una mossa o qualcuno si fregherà le nostre donne (virtuali).

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cinesi l’han sempre saputa lunga. C’è un detto che fa: “Quando il vento del cambiamento inizia a soffiare, alcuni costruiscono ripari, altri mulini a vento”. I videogiochi stanno mutando, e chi segue il mercato sa che non stiamo parlando dello stesso passatempo di dieci anni fa. Bilance, multiplayer online, marketplace e store, Imagine: Dream Weddings che vende milioni di copie, telecomandi, demo da scaricare, achievement e trofei, scena indie, freaking magic window da centrare se si vuol far parte della community (cfr. Il Vangelo su Babel 002), giochi console che escono incompleti tanto c’è la patch, touchscreen, campagne aggiuntive, tornei settimanali, titoli che dopo un’anno dall’uscita sono un gioco completamente diverso. Da una parte abbiamo soggetti di studio che cambiano velocemente, dall’altra degli strumenti di valutazione che ci mettono anni ad adeguarsi. Chi si occupa di discutere di videogiochi per lavoro o per passione, si trova attualmente nella stessa situazione di un falegname a cui viene chiesto un consiglio sull’efficienza strutturale di una centrale nucleare. Abbiamo già discusso in questo spazio della necessità di trovare un metro di valutazione più preciso del voto numerico. Ci sono state alcune proposte, alcune pessime, altre buone. Nessuna ha però incontrato il favore collettivo, lasciando a Babel l’unica opzione di rifugiarsi nei grandi classici e perpetrare lo status quo. Il salmo di oggi non vuole ritornare sulla questione voto,

anche se il 10 di EDGE a un titolo controverso e anomalo come Little Big Planet potrebbe essere un buono spunto per riaccendere la discussione. Quel 10, è per l’editor o per il gioco? Per quello che c’è nel disco o per quello che arriverà – forse - online? Per quello che possiamo toccare con mano o per il potenziale? Lascio l’onere della risposta al mio collega che deciderà di giudicare il gioco sul prossimo numero di Babel. In questa puntata mi preme fare il punto della situazione sulla critica e sollevare un paio di questioni che mi stanno dando qualche grattacapo. Come dovremmo approcciare titoli come Burnout Paradise, che non la smette di aggiornarsi e che non è più il gioco che a gennaio 2008 totalizzò una valutazione media di 88/100 su Gamerankings.com? E se adesso l’opera Criterion fosse un gioco migliore, o peggiore? Quali sono gli strumenti che abbiamo per comunicarlo efficacemente? Penso alla struttura delle recensioni, e mi sembra di essere il falegname di cui sopra, mentre osserva stordito la sua cassetta degli attrezzi di fronte a un esercito di barre di plutonio. Martello in una mano, chiodi nell’altra, di fronte a lui c’è un problema talmente complesso che non sa nemmeno bene da che parte iniziare. Little Big Planet e Fable 2, usciranno - e saranno recensiti senza alcune importanti feature abbondantemente sbandierate in passato, che arriveranno successivamente tramite PlayStation Network o LIVE. Ha senso dare un voto a un gioco che esce in-

completo? O meglio, ha senso dare un voto a un gioco che forse non smetterà mai di aggiornarsi, e il cui valore dipenderà molto dai contributi della community, in primo luogo, e dal supporto futuro dello sviluppatore in seconda istanza? Se mi avete seguito fino ad adesso, vi apparirà chiaro che il modello-rivista a cui siamo abituati è destinato a morire, il nostro assieme a tutti i filistei. Persino i siti web, che teoricamente potrebbero seguire un gioco durante tutto il suo ciclo vitale, faticano a stabilire una formula efficace con cui farlo. Articoli sporadici focalizzati sui cambiamenti? Recensione preliminare accompagnata da una serie di comunicazioni neutre sui nuovi add-on? Oppure gli aggiornamenti di un gioco meritano un voto a parte? Perchè non riproporre la recensione a cadenza periodica, aggiornandola a seconda degli sviluppi? Ci sono i forum, direte voi. Ma parliamoci chiaro, sui forum ci sto io e ci state voi, gli altri - e nemmeno tutti - vogliono solo sapere se un gioco vale i 60€ che costa. È un mondo difficile, come dicevano sia i cinesi che Tonino Carotone. Mi guardo, vi guardo. Sembriamo gli amministratori della RAI, che danno l’OK a trasmettere una serie televisiva due anni dopo che tutti se la sono già vista scaricandola dal web. Costruiamo rifugi mentre dovremmo costruire mulini a vento. C’è qualcuno là fuori con a portata di mano una nuova cassetta degli attrezzi e una vaga idea di come iniziare?


Giovanni Donda

Un uomo per due stagioni Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai men-

zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.

Odio di Gomito Io mi blocco, tu ti blocchi, lui si blocca... noi molliamo.

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e mia nonna avesse le ruote - così, all’improvviso – sarebbe un po’ uno scherzo del cavolo, prima ancora che una carriola. Al di là dell’improbabilità di una situazione simile, a indisporre non sarebbe tanto il constatare come il tutto non possa avere alcun senso, piuttosto che proprio non te l’aspetti una nonna con le ruote. E seppur simili, almeno a prima vista, la distinzione fra queste due reazioni è comunque importante. Non aspettarsi qualcosa è molto più doloroso. Fatto. Ne dovrebbe sapere qualcosa chiunque si sia mai bloccato nella vita, e qui – a scanso di equivoci - non mi riferisco al fastidioso spasmo muscolare intercoscia, ma al bloccarsi in un videogioco. Non perché capiti, alle volte, di essere più vecchi della nonna di cui sopra, ma perché quel blocco rimbalzante proprio non ve lo aspettavate. Ci sono giochi in cui ‘bloccarsi’ fa parte dell’esperienza ludica stessa, giochi che provi proprio perché sai a priori che ti bloccherai, ed è quello di cui il tuo cervello ha bisogno dopo l’ennesimo blip rosso che hai rispedito al codice creatore. Se avessi voglia di farmi dare dello stupido, allora, sono quegli stessi giochi che proverei anch’io. Nel frattempo, qui in ufficio Mist lo uso al massimo come screensaver, quando ci ricordiamo che le tette non sono poi molto professional. In un mondo perfetto – ovvero il mio mondo perfetto - bloccarsi dovrebbe essere esclusiva di un genere ben preciso, a cui attingi se ti senti in vena di farti del male. Quando finalmente ti decidi, in-

vece, a giocare a ICO e a Prince of Persia: The Sands of Time ti aspetti degli enigmi, certo, ma di finire a fare il verso ai protagonisti, no. Quello no. Quando, ormai sfinito e con l’autostima sotto i piedi, decidi di gettare la spugna e - ringraziato il cielo di non essere più nei preistorici anni ’90 – trovi infine l’agognata risposta online, lo shock è tale che non riesci neanche a gioire di un “Allora non sono io lo stupido qui…”. Sei davvero tanto incazzato. Perché hai perso tempo a ripercorrere l’intero livello all’indietro portandoti dietro una pallida zavorra, perché hai girato in tondo davanti a porte tutte uguali senza cavarci un ragno. Perché la soluzione scopri avere senso eccome, ma non te l’aspettavi, e per un motivo ben preciso. Dovevi semplicemente compiere un’azione che non avevi mai fatto prima. Quando? Uno potrebbe obiettare, e sarebbe la domanda più legittima del mondo, all’inizio dell’avventura, forse? No, alla fine. Perché qualcuno ha visto bene di dimenticarsi il galateo del buon designer e i gomiti sul tavolo. ICO ha un limitato numero di carte con cui giocare, ovvero un bastone, una bomba e un’amorevole – a tratti brusca - stretta di mano. Prince of Persia ne ha ancora meno, salti e slow motion, ma non per questo raggiungere la ‘stanza’ successiva è qui meno retributivo. Anzi, esistesse una formula matematica a tal proposito, il numero di azioni da tenere a mente sarebbe inversamente proporzionale al divertimento che queste procurano. Dovrebbe andare da sé, al-

lora, che il design delle stanze di cui sopra debba girare intorno ai capisaldi di cui il titolo si fregia. Non perché lo dica io - grazie tante - ma perché questi sono gli elementi che i designer hanno esposto entro la prima metà del gioco, entro la fine di un qualsivoglia tutorial. Introdurre un elemento nuovo dopo la metà non è un’ottima idea per spezzare la monotonia degli schemi, è una presa per il culo. In secondo luogo una cattiva scelta di design. Se lasciate il vostro bambino a giocare con le forme geometriche da inserire negli appositi spazi, e poi vi presentate con un tirannosaurus rex perché vi sembra la cosa più figa del mondo, capite bene che quel giocattolo dovrete essere disposti pure a comprarglielo. Nota a sé stesso: se arrivasse in ufficio un titolo con anche solo un stralcio di tutorial nell’ultimo livello, prendere ferie. Se, dicevamo, non sembra una decisione molto intelligente il fatto che a mia nonna, dopo che da anni si è abituata a spostarsi con le proprie gambe, cresca all’improvviso un paio di ruote, perché mai l’introduzione di un unico, isolato blocco rimbalzante in ICO - così, all’improvviso… e solo per la versione europea, per giunta - lo dovrebbe essere? Piuttosto, invece di imparare a progettare videogiochi – o a convertirli per un mercato diverso con corsi universitari DeAgostini, si impari da un maestro indiscusso. Se non altro, Dio dev’essere stato un gran game designer.

Gli amici vanno e vengono, alcuni mai abbastanza velocemente. Specie quelli che, dovendo studiare medicina, si sono bevuti un intero libro di anatomia umana e son convinti che esista un nervo nell’interno coscia che ti possa immobilizzare. Bloccarsi fa male. Fatto

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Vincenzo Aversa Professore Nerd

Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive

solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.

esco di rADo (ma gioco pure troppo) Morto un Papa...

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icordo un mondo senza Winning Eleven, International Superstar Soccer Pro o Pro Evolution Soccer, un mondo con tanto FIFA e una manciata di amici a sfidarsi a casa mia quattro contro quattro. Il gioco non era perfetto, qualche intellettuale gli preferiva il tamarrissimo Actua Soccer, ma funzionava a meraviglia nonostante le galoppate coast to coast e le scivolate a manetta. Poi dal Giappone arrivò un giochino e dopo cinque minuti mi ero già convinto. Lo stesso non poté dirsi dei miei amici, invece, troppo partigiani per affacciarsi a qualcosa di nuovo con tanta facilità. Persino Console Mania purgò la versione giapponese di Winning Eleven - la prima di buon livello ovviamente - con una disinteressata sufficienza. Federico, il rompicoglioni del gruppo, giurava sul realismo di FIFA e schifava l’intraprendenza del popolo giapponese. Marco, quello che non lo convincevi mai, ti rideva in faccia se solo provavi a cambiare disco. Attilio lo provò quel Winning Eleven, e in due fu più facile convincere tutti gli altri. Fu un passaggio epocale quello dei giochi di calcio digitale, un passaggio che ha richiesto del tempo, ma dal quale non si è più tornati indietro. E ora mi vedo FIFA 09, e prima di lui FIFA 08, e capisco che un’altra epoca è finita. E oggi come allora, la resistenza al cambiamento è forte e innaturale. Qualcuno piange sulle differenze di pad, qualcuno non riesce ad abituarsi alle nuove difese, qualcuno continua a sostenere la credibilità di PES, ma

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qualcun altro, dopo quindici anni di religioso acquisto, è passato all’altra sponda. Xbox Magazine Ufficiale stringe i pugni e lascia il margine di un punto decimale al gioco Konami. Come a voler ribadire che sì, FIFA è un buon gioco, ma PES è sempre meglio. Perché con PES siamo cresciuti, perché con PES abbiamo perso amici, perché sembra impossibile dover voltare pagina. Ma se l’anno scorso eravamo in quattro a ballare l’hully gully, adesso siamo in tanti e non son poche le riviste che hanno fatto una scelta diversa. E le riviste, che vi piaccia o meno crederlo, guidano le masse come nemmeno l’unità guida i comunisti. E voglio dirlo senza troppi giri di parole: non è una questione di gusti, è un problema di estremismo religioso. L’anno scorso Seabass dichiarava che PES era riuscito male, quest’anno dichiara che sogna il motore grafico di FIFA. Seabass, non io, parla del suo gioco e del suo lavoro. E mentre lui spinge a comprare alto, gli affezionati difendono gli scatti, i soliti difetti, il ritmo eccessivo e i problemi di lag online così come in passato difendevano le maglie disegnate, i campionati farlocchi e le coppe dell’amicizia. Non c’è una ragione oggettiva per preferire l’ultimo PES all’ultimo FIFA, c’è solo l’ostinata ottusità di chi non sa guardare oltre la punta delle proprie scarpe. E capiamoci, non c’è nulla di male a non voler ripartire da zero. FIFA chiede al giocatore di PES di rifarsi pippa, di perdere partite, di umiliarsi ai bassi livelli di difficoltà. Non tutti possono accettarne le conseguenze. Ma

diamo alle cose il loro giusto nome: pigrizia, mancanza di tempo, abitudine, amici torcibudella. Tutto quello che volete, ma non è mai una questione ludica. La stessa ostinazione ha impedito ai videogiochi di evolversi con il giusto ritmo. La mancanza di novità di questo settore è figlio della volontà degli acquirenti più che della scarsa attitudine al nuovo dei programmatori. Il coraggio di un Resident Evil 4 ha pochi precedenti nell’industria videoludica. Non puoi toccare una saga dalle fondamenta senza scontentare qualcuno e rischi meno se confezioni seguiti in serie. Il giocatore medio vuole quello che ha già giocato, solo quello, ed è restio alle novità come un tartufo alle giornate di sole. È pigro, svogliato, ottuso e… innamorato. E se PES è la sua donna, lo è stata per anni, non la lascerà andare nemmeno con i chili di troppo e un amante sul cellulare. E invece la concorrenza fa bene, migliora, perfeziona, aumenta l’offerta. Sogno un PES tutto nuovo che si sforzi di contrastare il nuovo FIFA. Sogno un gioco di calcio che mi faccia gridare al miracolo ogni anno, sogno una serie che mi faccia tornare a litigare con i miei amici. Perché Federico, il rompicoglioni del gruppo, giura ora sul realismo di PES. Marco, quello che non lo convinci mai, mi ride in faccia se provo a cambiare disco. Ma Attilio si è comprato FIFA, e un giorno mi aiuterà a convincere tutti gli altri.



di ferruccio cinquemani

METAL GEAR SOLID 4

merda e cioccolato: niente compromessi

allire è facile. Ci riescono in molti. Ogni mezzasega è capace di fallire nell’imbarazzo generale. Ma fallire in maniera spettacolare è tutta un’altra cosa. E Kojima (Productions) è riuscito a partorire un gioco in parte deludente e, allo stesso tempo, sfregiare, martellare e far scoppiare come un brufolo una delle più rispettate serie di videogiochi della storia. Metal Gear Solid 4 parte col botto, si assesta, e finisce inciampando, tuffandosi a faccia in giù in una pozza di piscio. Partiamo dal meglio: se MGS4 non è una totale delusione è perché la parte giocata è semplicemente fantastica. In teoria, il concetto stesso di meccaniche di gioco basate sull’agire furtivamente, si presta a delle critiche. Lo scopo di ogni designer che progetti un gioco stealth è rendere il non fare più divertente del fare. Ovvero, bisogna convincere il giocatore che evitare gli ostacoli sia più divertente che distruggerli. Non proprio un obiettivo semplicissimo. Metal Gear Solid è sempre stata

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una serie sottovalutata, in questo aspetto. Mentre si lodano altre serie per la libertà concessa e per la possibilità di ritagliarsi un personale stile di gioco, si dimentica sempre che MGS ti dà arsenali da Rambo e riesce pure a convincerti che è meglio nascondersi in una scatola di cartone che fare saltare in aria soldati a colpi di lanciagranate. MGS4 ha una tale confidenza da prendere tutti gli elementi di gioco ed espanderli in ogni direzione. Oltre alla benedizione di un sistema di controllo finalmente intuitivo, è aumentato il numero di armi, è aumentato il numero di gadget per mimetizzarsi o ostacolare temporaneamente i nemici, ed è stata pure praticamente eliminata la possibilità di nascondersi. Lo slogan “no place to hide” va preso in parola. Non ci sono nascondigli sicuri in cui rifugiarsi: quando si viene scoperti ci si deve inventare qualcosa. Così un soldato finisce a terra con una mossa di krav maga, un altro con un colpo di fucile a pompa, mentre si impedisce che altri vedano Snake piazzando una mina di gas soporifero. E così via. I momenti mi-

gliori di MGS4 nascono dall’improvvisazione. Come accadeva già in MGS3, il colpo di genio di Kojima sta nel dare vera possibilità di scelta. Nonostante tutte le aree di gioco siano ancora, in fondo, grandi stanze con un’entrata e un’uscita, la libertà di azione è travolgente. Se si sceglie di ‘rambizzare’ il campo di battaglia, lo si può fare. Armi e munizioni non mancano: dalle pistole ai lanciarazzi, passando per praticamente qualsiasi tipo di arma da fuoco esistente. Se si vuole finire il gioco senza uccidere nessuno (o quasi), è ancora possibile, e non è meno divertente. È sempre possibile farsi delle gran corse verso l’obiettivo del livello e andare avanti così; ma perché giocare, a quel punto? Il gioco Metal Gear Solid 4 è semplicemente la migliore applicazione delle meccaniche stealth mai creata, e merita ripetute visite da diverse prospettive. Questo atteggiamento viene premiato da un sistema di ‘medaglie’ e bonus da sbloccare a seconda di come si gioca. In linea con lo spirito cocciutamente vecchio del titolo, però, mancano i trofei, o

anche solo una schermata accessibile in ogni momento che ci dica cosa fare per sbloccare i bonus. Ed è da questi particolari che si nota quello che MGS4, in fondo, è: una vecchia macchina modificata e ridipinta. O una vecchia battona con troppo trucco. In molti aspetti manca, insomma, quell’attenzione a chi giocherà che ormai è uno standard dei titoli migliori degli ultimi anni. In un certo senso, c’è una vaga e costante mancanza di rispetto nei confronti del giocatore, a favore di un autore-padrone incontinente. E se questo vale per le parti migliori di MGS4, è altrettanto vero per il peggio di MGS4. In breve, Metal Gear Solid 4 ha una concezione del rapporto fra cut-scenes e parte giocata da anni ‘90. Da una parte c’è il gioco e dall’altra le cut-scenes, e difficilmente i due elementi hanno un qualche tipo di contatto. La storia è totalmente slegata dal gioco, tanto che è difficile anche solo capire il motivo degli spostamenti del protagonista. Da una parte sembra che la trama imponga di visitare certi luoghi solo perché il level o game design lo richiedono.


D’altra parte la trama si svolge indipendentemente dal gioco: sono tantissime le occasioni in cui una cut-scene mostra qualcosa che sarebbe possibile fare nel gioco, ma avviene invece come filmato, comprese situazioni potenzialmente interessanti da giocare. Kojima vuole raccontarti la sua storia ma, invece di farti entrare in questa storia, ti lega alla sedia e ti dà una bella razione di cura Lodovico. Almeno ne valesse la pena. Ma purtroppo la trama di MGS4 è un disastro. Prendete un telefilm a basso o bassissimo budget (non so, Xena, o il telefilm di Mortal Kombat), imbottitelo delle caratteristiche più demenziali e idiote degli anime giapponesi, ed espandetelo all’infinito. Dopo aver visto, con giochi come Grand Theft Auto 4, cosa può fare il videogioco in materia di trama, è quasi doloroso assistere ai buchi di sceneggiatura, alla lunghezza e all’inutilità esasperante di

gran parte dello svolgimento. E Agli infantilismi, ai dialoghi scritti male e recitati peggio, a scenette comiche che ti fanno sperare che nessuno ti sorprenda a guardare una tale idiozia. Kojima vorrebbe fare il regista, forse. E come regista (nel senso di persona che cura la coordinazione, gli angoli di ripresa e la messa in scena) sarebbe davvero valido. Ma Kojima ha anche un disperato bisogno di uno sceneggiatore che butti nel cesso le sue innumerevoli idee strambe, e di un editor che riduca della metà la trama, sforbiciando le ripetizioni, i luoghi comuni e i combattimenti fra ninja transessuali e vampiri bisessuali. Della trama di MGS4 si salva molto poco. Non mancheranno analisi del sottotesto vagamente nicciano rintracciabile negli attacchi di diarrea di Akiba, o della critica alla politica estera russa rappresentata dalla scimmia col pannolino metallico. Ma la trama di MGS4 è - e resta - pes-

sima, anche solo da un punto di vista tecnico: motivazioni dei personaggi, ritmo dell’esposizione, rapporto fra testo e immagini. Eppure, alla fine qualcosa resta. Resta un autore che nonostante tutto continua a fare quello che pochissimi nel mondo dei videogiochi possono o vogliono: prendere delle decisioni, osare e sbagliare fino in fondo. Resta un gioco capace di deragliare e lanciare nel ridicolo una delle più grandi serie mai create. Eppure, Kojima potrà sempre dire: “quel gioco è mio, quelle sono le mie idee”. Nel bene e nel male.

Le mani sul serpente Il sistema di controllo di MGS, in passato, è stato un tipico caso di cocciutaggine del game design nipponico, ma i fan ci si erano abituati e la rigidità del sistema veniva sopportata. In MGS4 Konami è andata dritta al problema, rivoluzionando il sistema di controllo. Parzialmente. Anche se le basi sono le stesse, Snake è ora più reattivo. Ma, nonostante tutto, c'è ancora la necessità di qualche contorsione e di qualche strana sequenza di tasti. Il risultato, insomma, è un sistema di controllo più occidentale ma ancora in qualche modo legato alla legnosità del passato. Come il resto del gioco, anche i controlli vanno per la loro, originale, strada.

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di cristiano “amano76” ghigi

IO, GIAPPONE

primo capitolo: fondazione

ualche mese fa è stato portato alla mia attenzione un articolo di Koji Aizawa su Edge, dove veniva segnalata la crescente penetrazione dei giochi occidentali nel mercato giapponese, un segno che con il tempo i gusti dei nippocosi stanno mutando. Non essendo abituato a leggere la rivista e in particolare la colonna di Aizawa, mi è impossibile stabilire se l’esimio abbia sparato questa fesseria in buona fede, ma vi assicuro che tutto ciò è assolutamente falso. Non solo: l’immondizia occidentale non penetrerà mai il mercato giapponese, e oggi vi spiegherò perché. Come già fatto qualche numero addietro ricorrerò nuovamente alle parole del profeta: Umberto Eco. Quanto riportato qui sotto segue di poche righe la teoria dell’intreccio stipulata da Aristotele, che è stata citata nel precedente Arte Definitiva (vedi Babel 007): “Aristotele sapeva bene che il parametro dell’accettabilità o inaccettabilità di un intreccio non risiede nell’intreccio stesso, ma nel sistema di opinioni che regolano la vita sociale. L’intreccio

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deve dunque essere, per risultare accettabile, verosimile, e il verosimile altro non è che l’aderenza ad un sistema di aspettative condiviso abitualmente dall’udienza“. L’impenetrabilità del mercato nipponico non è dovuta alla qualità dei prodotti americani ed europei, ma all’intrinseca stonatura della visione del mondo dell’Occidente con quella del Giappone. Capite bene che, se già un giovanotto occidentale si ritrova malvolentieri a giocare con protagonisti che somigliano a 50cent o The Undertaker - perché i produttori di videogiochi sono fermamente convinti che chiunque tra i 15 e i 20 anni voglia identificarsi con un rapper o un wrestler - un giapponese non deve sentirsi particolarmente entusiasta di vestire i panni di due cerebrolesi le cui attitudini vanno contro tutto ciò che nella società del Sol Levante è considerato sacro. Il che ci porta a un altro punto nodale della questione: cosa è ‘sacro’ in Giappone. Sicuramente tutti avrete sentito l’espressione “I giapponesi nascono shintoisti, si sposano cristiani, muoiono buddisti“. La diffusione di questa sar-

castica massima ha portato un mucchio di gente a pensare che l’identità sociale di un giapponese sia indissolubilmente legata a quella spirituale, come se i giapponesi fossero degli inguaribili superstiziosi che ci tengono a tenersi aperte tutte le porte di tutti i possibili paradisi. Ciò è clamorosamente falso: è una concezione erronea fondata su un

retroterra culturale di stampo occidentale, dove i valori morali della società sono considerati delle emanazioni di quelli religiosi e non sono due entità distinte. Ora, prima che questo articolo venga scambiato per un’apologia del comunismo - e qui mi gratto le palle - ci tengo a precisare che non ho nulla contro i


valori delle religioni più diffuse, ma sto semplicemente additando l’incapacità della classe politica europea e americana di tenere le redini dei rispettivi paesi, senza evitare di farsi dare una mano dalle più potenti istituzioni ecclesiastiche. È anche vero che ultimamente ho giocato troppo a Bioshock... In Cina, in Vietnam, in Corea e in Giappone, ciò non è successo perché questi paesi sono stati profondamente influenzati dalla dottrina confuciana, che ha fatto da matrice dei valori sociali per duemila anni. In questi paesi il potere ecclesiastico non è mai stato considerato un alleato in modo permanente. Quando la Cina non vuole riconoscere il Tibet come stato sovrano lo fa per un ottimo motivo, non tanto dal punto di vista umano, quanto da quello politico: il Dalai Lama non è solo il capo della chiesa buddista tibetana, ma è anche il re del Tibet. Nessun politico sano di mente accetterebbe l’idea di

uno stato nello stato, in grado di minare la sicurezza e la stabilità del paese in qualsiasi momento, a meno che non si tratti di un politico italiano e lo stato sia quello del Vaticano. Di conseguenza, nei paesi estremo orientali nessuno alza un dito se a un ricercatore coreano viene in mente di clonare una pecora o un essere umano: gli scienziati, gli organi statali, e persino i privati, non devono rendere conto delle loro intraprendenti iniziative a qualche tedesco vestito di bianco. Che questo sia un bene o un male è da dibattersi altrove, l’importante è che ormai sia chiaro quanto siano divaricate le concezioni del mondo di un americano o un europeo da quella di un orientale in fatto di valori sociali. Nel caso del Giappone, oltre alla matrice confuciana, c’è da considerare l’incidenza dei quattrocento anni di dittatura militare, che hanno comportato l’isolamento politico ed economico dell’arcipelago fino al 19°

secolo e che hanno consolidato i rituali, i valori morali e il gusto estetico della classe dei samurai, al punto di trasformarli in una vera e propria tradizione di usi e costumi abbracciata da tutte le altre classi. Pertanto più che chiedersi cosa sia sacro in Giappone, occorre chiedersi cosa sia profano. Questo, però, è un argomento che affronteremo la prossima volta.

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playstation3

WIPEOUT HD

Nose-bleeding speed

console ps3 sviluppatore studio liverpool produttore scee versione pal provenienza uk

a cura di Ferruccio Cinquemani

lla fine degli anni novanta ancora esisteva un futuro, ed era fatto di loghi, pioggia e navicelle a levitazione magnetica. Il cyberpunk restava fantascienza e non era ancora diventato il presente. L’impatto di WipEout sulle menti impressionabili di noi tutti al punto di passaggio fra 2D e poligono è difficile da concepire oggi, a più di dieci anni di distanza e con addosso tanta disillusione da nerd in più. WipEout, e il seguito WipEout 2097, erano fra quei titoli che definiscono una generazione (ludica e non). C’erano già stati giochi di corse poligonali e c’erano già stati giochi di corse futuristici, ma WipEout era un oggetto alieno, uno dei primi videogiochi adulti, nella migliore accezione possibile. Sopratutto, WipEout è stato uno dei primi giochi ad abbattere decisamente le distinzioni fra arcade e simulazione. Il modello di guida era tanto immediato quanto punitivo e profondo. E su queste basi si ergeva una delle più maestose opere di design grafico della storia dei videogiochi. Le speranze poste su WipEout HD non erano molte. Troppi seguiti diluiti, troppa poca innovazione. Eppure Studio Liverpool ha creato un gioco incredibilmente affascinante, divertente e, per quanto inaspettato, innovativo. Inutile girarci attorno: WipEout HD è WipEout in HD. E nonostante tutto, reinterpreta anche lo spirito più profondo della serie, adattandolo a dieci anni di progressi nel campo del game design. La prima cosa che colpisce è la grafica. Pulita, dettagliatissima, veloce, fluida, sobria e psichedelica. Pochissimi giochi possono rivaleggiare con un tale splendore. Le piste regalano scorci mozza-

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fiato, dettagli che probabilmente un centesimo dei giocatori noterà mai e una modalità 1080p che giustifica qualsiasi cifra folle spesa per comprare una TV HD. Ma qui non si tratta solo di pura competenza tecnica e tempo dedicato alla modellazione. C’è di più. C’è uno stile grafico quasi ai livelli del secondo episodio della serie. Ancora una volta si trova quella strana commistione di umano e non umano, di navicelle quasi aliene che gareggiano in piste piazzate in vecchi complessi industriali o bizzarre località esotiche. L’atmosfera straniante data da questo equilibrio fra realismo e fantascienza viene coraggiosamente distrutta nella modalità Zone, in cui piste e navicelle diventano oggetti astratti, pulsanti al ritmo della musica e immersi in colorazioni lisergiche. In pratica, se REZ fosse un racing game, sarebbe la modalità Zone di WipEout HD. Se grafica e design comples-

sivo appaiono come vere novità, le meccaniche di gioco e il modello di guida sembrano inizialmente avere più il sapore di remake che di innovazione. Navicelle e piste sono riedizioni di quelle viste nei passati episodi, e la progressione è quasi del tutto uguale a quella pedante degli episodi per PlayStation Portable. Rispetto a questi, anzi, manca addirittura una modalità (la poco riuscita Eliminator). Ed è proprio nella progressione che risiede l’unico vero problema di WipEout HD. Ci sono quasi troppe gare: in pratica esiste una gara per ogni combinazione fra pista, classe di velocità e modalità di gioco. Sarebbe stato preferibile vedere più coraggio e sintesi da parte di Studio Liverpool, al posto di questo approccio bulimico, soprattutto considerando la poco stimolante classe di velocità più bassa. Anche quando si mette mano ai comandi la situazione sembra invariata in una decade di

Miss Wipeout 2097 La modalità fotografica di WipEout HD è candidata ad essere lo strumento preferito di chi non c’ha un cazzo da fare tutto il giorno. Versione pompata di quella delle versioni PSP, questa funzionalità non permette soltanto di decidere angolo, distanza e momento della foto, ma fornisce completo controllo di parametri come messa a fuoco ed esposizione, nonché la regolazione di contrasto, luminosità e simili. Anche se non si ha il minimo talento artistico è possibile riuscire, con un po’ di ostinazione, a tirar fuori delle immagini decenti, proprio come nel mondo della fotografia reale. Naturalmente basta fare una ricerca sui soliti forum per vedere le proprie splendide creazioni umiliate dal confronto con le foto di gente che non ha un cazzo da fare tutto il giorno.


seguiti. Eppure basta poco per accorgersi che questo è il WipEout ideale, la migliore realizzazione di dieci anni di idee. La levitazione magnetica dà una sensazione quasi tattile, mai così realistica e così controllabile. E, come sempre, lo stile di guida imposto dal gioco è diverso da qualsiasi altro gioco di guida. Tagliare le curve senza rallentare è l’obbligo, e gli acceleratori sulla pista rendono i giri da record dei balletti fatti di calcoli al millimetro, continui compromessi fra la migliore linea percorribile sul tracciato e la maggiore quantità possibile di acceleratori da sfruttare. Raramente un sistema fisico e dei

controlli hanno avuto un tale impatto sulla qualità complessiva di un gioco. La voglia di tornare ancora e ancora sulle piste di WipEout HD dura a lungo. E per un attimo sembra che ci sia ancora un futuro, ed è ancora fatto di loghi, pioggia e navicelle a levitazione magnetica. 9

Tunz Tunz generescion Una funzione semplice semplice come la possibilità di avere colonne sonore personalizzate si può rivelare, a seconda del gioco, una delle caratteristiche più eccitanti, nonché uno strano modo di stimolare la creatività degli utenti. Caricare sull’HDD della PlayStation 3 la colonna sonora di WipEout 2097 è tanto consigliato quanto banale. Molto più interessante assistere alla gare di compilation amatoriali scatenate sui forum. Fra le decine di compilation personali schiaffate su Rapidshare (d’obbligo l’inclusione di almeno un brano dei Chemical Brothers), non mancano espressioni più particolari, come la colonna sonora creata con brani originali degli utenti di NeoGAF. A volte per vantarsi di dare vita a contenuti creati dagli utenti basta poco...

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DS

LOCK’S QUEST

Costruisco e demolisco console ds sviluppatore 5th cell produttore thq versione usa provenienza usa

a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti

ock’s Quest è il titolo che non ti aspetti sul portatile Nintendo. Almeno, non alla fine di un’estate troppo vuota di uscite significative e alle porte di un autunno intasato all’inverosimile di JRPG. A una prima e veloce occhiata LQ può passare inosservato o anche essere scambiato per l’ennesimo strategico nipponico, sbagliando clamorosamente valutazione. È un gioco di produzione americana, sottolineato fino alla nausea dagli artwork a dir poco terribili. Tutto il resto, invece, è fatto di ben altra pasta. In un villaggio piccolo piccolo, Lock vive insieme alla sorellina e al nonno. Fratello e sorella sono figli di una famosa coppia di Archneer che servirono piuttosto bene il loro regno durante la grande guerra di molti anni prima. Presto Lock si troverà a soccorrere un Archneer, venendo così coinvolto nella guerra contro i Clockwork e il loro signore. All’inizio di ognuna delle cento missioni avremo a disposizione qualche minuto per costruire le nostre difese del caso, trascinando col pennino – tramite una semplice interfaccia - mura di varie fogge e disponendole sugli spazi consentiti. Ogni muro posato costa una certa cifra di Source (il ‘mana’ del gioco, ottenibile dai resti dei nemici) e può essere ruotato a piacere di novanta gradi in novanta gradi. La visuale isometrica e l’incapacità di ruotare l’inquadratura o di zoomare verso l’esterno, rendono alle volte la posa delle proprie difese non proprio semplice e immediata. Inoltre, più il muro è fatto di materiale resistente e più costa: un muro di legno sarà più debole ma piuttosto economico rispetto a uno più solido ricoperto di spuntoni. Oltre alle mura è possibile installare mezzi di offesa, come vari tipi di torrette: per colpire i nemici, per rallentarli, per aumentare gli effetti di eventuali trappole nelle vicinanze e così via. Le trappole sono uno dei

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mezzi più devastanti e strategici del gioco. Piazzando quelle corrosive nei giusti punti sarà possibile indebolire di parecchio le orde avversarie, massacrandole poi – una volta a tiro – con le vostre torrette, magari mentre si ritrovano bloccate per qualche secondo da trappole congelanti. Ultima categoria di strumenti a disposizione è quella degli aiutanti. Alcuni aumentano la forza dei colpi esplosi dalle torrette, altri la gittata, altri ancora fanno da contraerea per i pericolosi nemici volanti. Una menzione d’onore spetta all’utilissimo Revealer, capace di materializzare i nemici invisibili, permettendo così ai propri cannoni di colpirli. Ovviamente anche le torrette, gli aiutanti e le trappole costano Source, con le prime che alle volte raggiungono costi davvero elevati e le trappole che, invece, sono super economiche. Questo è dovuto al fatto che le trappole spariscono dopo ogni missione, mentre tutte le altre installazioni rimangono al loro posto, a patto

che i nemici non le abbiano rase al suolo. Ogni installazione ha la sua bella barra di energia e uno dei maggiori compiti di Lock è quello di fare manutenzione riparandole. Conclusa la fase di preparazione alla battaglia si passa allo scontro vero e proprio: di media viene richiesto di resistere per tre minuti agli assalti avversari proteggendo il proprio obiettivo, che può essere un pozzo di Source o un personaggio non giocante. Alle volte capita di fare da scorta, uccidere un particolare avversario, sterminare un boss, conquistare i pozzi nemici e altro ancora. Il vostro compito è quello di muovere Lock gestendolo sapientemente tra la manutenzione delle proprie installazioni e gli attacchi diretti contro i nemici. Durante il corso del gioco, però, le statistiche di Lock non progrediranno affatto. I danni causati dai suoi pugni restano sempre uguali, la sua difesa è sempre abbastanza scarsa e i punti ferita non aumentano. Forza e resi-

Gli autori di Drawn to Life tornano a dimostrarci che non servono team mastodontici per produrre giochi divertenti, accattivanti… ottimi, insomma. Lock’s Quest vi catturerà con la sua semplice presentazione e l’immediatezza dell’impianto di gioco


Ottimo per giocarci durante brevi pause vista la durata delle missioni e i salvataggi omni presenti - il gioco si mantiene fresco e non annoia fino alla sua conclusione, proponendo nuove sfide e nuovi elementi costantemente. Una piccola perla d’occidente in un mare di JRPG portatili

stenza degli avversari, invece, aumentano. Eccome. Il gioco propone di continuo nuovi avversari o potenziamenti di quelli vecchi. Oltre alle semplici truppe dalla difesa discreta, abbiamo i Brute, specificamente pensati per radere al suolo le vostre difese; i Sapper, dei fantasmi invisibili che viaggiano sottoterra per poi sbucare dietro alle vostre mura; dei nemici volanti in grado di sorvolare le difese e distruggere le trappole se lasciati fare; infine maghi e arcieri debolissimi, ma in grado di colpire dalla lunga distanza e causare danni mostruosi se in gruppi consistenti. La vostra priorità sarà quindi quella di eliminare i nemici in maniera ragionata, onde ritrovarvi un intero esercito alle porte e non sapere che pesci pigliare. Durante il gioco, Lock impara vari colpi speciali e varie abilità. Le abilità selezionate vengono tutte potenziate agendo col pennino sulle rispettive interfacce grafiche durante la loro esecuzione. L’abilità per applicare dell’acido corrosivo ai nemici è di un’utilità spaventosa contro i boss: se com-

binate con le trappole della medesima tipologia, avrete il doppio dell’effetto. Ancora meglio se il boss di turno viene rallentato, congelato e investito da raffiche di proietti da qualche torretta messa appositamente sul suo cammino per fare da esca sacrificale. Un ottimo modo per indebolire avversari decisamente fuori scala per il piccolo Lock, che si ritrova a dare qualche colpo per poi scappare in un cantuccio sicuro aspettando che i propri punti ferita si ricarichino. Piuttosto velocemente, per fortuna. Le strategie applicabili in battaglia sono molteplici e il gioco fa di tutto per mantenere viva e fresca l’esperienza aggiungendo poco alla volta - e fino alla fine - nuovi elementi da sperimentare e nuovi nemici a cui far fronte. A rincarare la dose vi è anche la storia: parte lentissima e senza grandi spunti o chissà cosa - per poi iniziare a svilupparsi velocemente, aumentando d’interesse e infittendo i misteri appena accennati all’inizio, proponendo poi colpi di scena a raffica - alcuni inaspettati - fin

dopo i crediti del gioco. Il tutto scorre via liscio e fluido, raramente infatti dovrete rifare qualche missione. Le uniche critiche possono essere rivolte all’IA, che a volte agisce in modo piuttosto inatteso riguardo a Lock: capita di selezionare una torretta o un muro da riparare e vedere Lock farsi mezzo chilometro per raggiungere la parte posteriore dell’installazione, invece di ‘fiondarvisi’ subito di fronte. Lock, inoltre, non riesce a farsi spazio tra i nemici. Se un guaritore si trova dietro due o tre arcieri, una volta selezionato questo continuerà a correre contro gli arcieri senza passargli in mezzo e raggiungere l’obiettivo. Non resta altro che far piazza pulita dell’arciere più vicino, piuttosto frustrante considerando l’eccessiva velocità con cui i guaritori usano le proprie magie di ricarica. Infine, ne avrete solo per venticinque ore. La modalità versus contro un vostro amico potrebbe aumentarne un po’ la longevità, ma non più di tanto. 8

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SPORE

Tool Creator con animaletti formato pc sviluppatore maxis produttore ea games versione pal provenienza usa

a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa

E il settimo giorno Dio giocò a Spore, perché non c’erano le partite che la nazionale aveva giocato il sabato, e pensò non fosse così tanto innovativo.” Se avessi avuto tre testicoli fumanti, al posto dei miei onorevoli due, Spore mi sarebbe probabilmente piaciuto. Perché uno di quelli buoni è esploso a metà della terza fase, con il gioco ancora lontano dal decollo e la noia a mordermi la voglia di vedere un domani. Eppure inizia bene Spore, con una fase cellula che inorgoglisce le schede video e ben tratteggia lo spirito combattivo di una nuova forma di vita. Che si sia scelta la via della carne o quella delle verdure, la sopravvivenza è un diritto che si guadagna con i denti. Velocità, fortuna e destrezza sono gli ingredienti necessari per progredire a essere con gambe. Velocità, fortuna e destrezza servono a ben poco, a dirla con franchezza, in una fase che prevede la morte con respawn. Si passeggia nella brodaglia primordiale, quindi, con due regole due nella testa e un pensiero fisso nelle cellule: “da grande voglio fare il pompiere o Flavia Vento?”. Poi le regole si fanno tre, poi quattro, poi cinque, lo Spore primordiale si trasforma in qualcosa di via via più complesso attraverso cinque fasi distinte che raggiungono l’iperspazio. Cinque fasi, appunto, che viaggiano mano nella mano con altrettanti tutorial sconclusionati e poco efficaci. Tutto quello che si impara in Spore lo si impara sul campo, provando, giocando e infine morendo. E funziona, perché spesso tutto quello che c’è da imparare nel titolo Maxis è poca roba. Due cosette, forse tre, da ripetere all’infinito fino al raggiungimento della fase successiva. Qualche volta, quando va bene, le operazioni sono divertenti. Altre volte, quasi sempre, quello che il gioco richiede è di torturarsi nella depressione di meccaniche rigide e poco appaganti.

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Spore è come l’arte impressionista: son quadri belli, se non li guardi uno dietro l’altro o troppo da vicino. Le piccole cose sembrano funzionare a perfezione finché non ci si ritrova impantanati in una routine priva di soddisfazioni. Ma intanto tutto si muove, tutto si supera, e una fase diventa quella successiva prima ancora di averne afferrato il regolamento. Ingarbugliato in spiegazioni che non chiariscono nulla, il giocatore supera le avversità con la forza della sperimentazione, ma raramente accarezza davvero il controllo della situazione. Perché quando ci si avvicina, dopo un tempo spesso troppo lungo, è già tempo di muovere le tende. Ma se Spore trascura la sua natura più strettamente ludica, lo stesso non può certo dirsi del suo cuore di pandoro. Le masse vedove di The Sims troveranno una sfilza esagerata di tool a riempire la loro voglia di videogioco. Tool per creare la propria mostruosità; tool per costruire casette, per pitturare macchinine, per edificare fabbriche e discoteche; tool per

tutti i gusti e tutte le necessità, non per me. Me che sono troppo uomo per innamorarmi di tanta futilità, me che ho ucciso troppo sgorbi per farmene amico qualcuno. La collezione primavera-estate di questi strumenti di tortura legalizzati può però intrattenere più - e meglio - del gioco vero e proprio. Perché son fatti bene, sono vari e permettono una libertà sconosciuta al resto dell’esperienza. Certo, vogliamoci pure tutti bene, ma il videogioco corre su un altro pianeta. E infine stupisce l’assenza di una vera e propria modalità online. Aggiunta che non avrebbe reso giustizia alle promesse di Will e al clamore pubblicitario, ma che avrebbe permesso una componente sociale di ampio respiro. Spore non innova un bel niente, dispiace ammetterlo con tanta sicurezza, e diverte solo se gustato a piccoli morsi. Spore è poco, troppo poco. 5

Spore viaggia in compagnia del discusso sistema di protezione anti-pirateria di EA. Il DRM non ha impedito al gioco di presentarsi crackato sugli scaffali dei pirati, ma ha tormentato l’installazione di parecchi compratori onesti


playstation2

SUPER ROBOT TAISEN Z Che il bullone sia con te

console ps2 sviluppatore banpresto produttore bandai versione jap provenienza giappone

l nuovo capitolo della serie Super Robot Taisen rompe con il passato e vira nella direzione di un cast più al passo coi tempi. Fuori Combattler, Vultus, Gundam, Reideen e dentro Eureka Seven, Big O, Aquarion e Gravion. Lo scambio di consegne non ha sortito gli effetti sperati: le vendite si sono assestate per l’ennesima volta intorno alle cinquecentomila copie, incapaci di replicare il successo di Super Robot Taisen Alpha su PSOne con le sue ottocentocinquantamila copie. Il numero è comunque consistente, considerato che il mercato di PlayStation 2 non ha conosciuto i picchi di vendita della scorsa generazione di console, e rende chiaro come la serie sia diventata ormai uno dei franchise più noti e inamovibili. In questo nuovo capitolo è stato introdotto un sistema di raggruppamento in squadre da tre unità, simile a quello degli episodi precedenti, ma con la differenza che ora la scelta del tipo di formazione influisce sulla potenza degli attacchi. C’è la formazione Wide, efficiente nei combattimenti con i boss, la formazione Center, che serve a concentrare il fuoco sugli avversari con HP più alti, e la formazione Tri-charge, che serve ad attaccare gli avversari equipaggiati con barriere che diminuiscono o annullano i danni inflitti. Ognuna di queste tre formazioni è avvantaggiata o svantaggiata rispetto a un altra in base a un sistema in stile sasso, carta, forbici. Grazie all’introduzione di questo sistema, finalmente anche Super Robot Taisen può vantare lo spessore strategico di prodotti più proibitivi, come quelli Nippon Ichi. Per fortuna gli autori non si sono spinti fino agli estremismi di titoli come Fire Emblem, dove le unità distrutte in combattimento restano definitivamente perse. Il livello di sfida resta comunque piuttosto alto, soprattutto se si considera l’eventualità di prendere i punti abilità: si tratta di

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punti che vengono distribuiti quando si portano a termine le missioni con rapidità o quando si abbattono avversari particolarmente tosti. In base alla quantità di punti che si riesce a ottenere la difficoltà cresce, aumentando il numero di unità nemiche e la potenza dei boss. Le animazioni sono assolutamente fenomenali. Oltre a una quantità maggiore di dynamic kill (animazioni speciali che si attivano quando un robot sconfigge un’unità nemica con il suo attacco più potente), la produzione ha lavorato ai movimenti dei personaggi fin nei minimi dettagli: una stessa arma sarà visualizzata con animazioni specifiche a seconda che l’attacco sia terra-terra o terra-aria, e i robot esplodono ognuno in modo diverso quando vengono abbattuti. C’è da aggiungere inoltre che le musiche di sottofondo possono essere tranquillamente cambiate e il giocatore può ‘customizzare’ la colonna sonora del gioco con le sigle e i temi musicali che preferisce. Il numero di missioni è enorme e la struttura a bivi ha permesso di ricreare situazioni tanto fedeli alle opere originali, quanto allo stile narrativo. Dei due protagonisti principali ognuno segue vicende ben diverse: la trama del personaggio femminile, la timorosa Setsuko, è molto cupa e angosciante; mentre quella del personaggio maschile, il nerboruto Rand, è leggera e ricca di umorismo. Purtroppo resta sempre lo scoglio della barriera linguistica, che non permetterà di apprezzare né la trama, né la quantità esorbitante di doppiaggio che è stato campionato appositamente per il gioco. Finché il giapponese non diventerà una materia obbligatoria nelle scuole occidentali, il resto del mondo sarà condannato a vivere nell’ignoranza di questa magnifica produzione. 8

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a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi

(in alto a sinistra) Rand in versione decisamente nagaiana. Questo personaggio è stato accolto in modo estremamente negativo dall’utenza giapponese, per via dei suoi comportamenti da bullo e da cafone

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RHAPSODY

A MUSICAL ADVENTURE

Puppet Princess

console ds sviluppatore nippon ichi produttore nis america versione usa provenienza giappone

a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti

n un villaggio piccinopicciò vive Cornet, una ragazzina come tante se non fosse che ha la particolare dote di poter comunicare con oggetti inanimati come burattini, bambole e pupazzi. Suonando il suo strumento musicale riuscirà a portare dalla propria parte i suddetti personaggi e ad aggiungerli al proprio nutritissimo party composto da sedici comprimari. Avrete l’imbarazzo della scelta su chi usare in battaglia. Cornet ha un’amica preziosa di nome Kururu, un burattino dalle forme di fatina capace di parlare come se fosse viva. Non poteva poi mancare tra le conoscenze della protagonista un’amica d’infanzia. Bellissima, ricchissima, spocchiosissima, antipaticissima e con tanto di guardie del corpo al seguito. Etoille Rosenqueen, un nome che dovrebbe dire qualcosa ai fedelissimi di Nippon Ichi. La trama sembrerebbe non avanzare se non fosse che un incontro fortuito porterà Cornet a incontrare il principe del regno, che di lì a poco cercherà moglie. Fast forward e il principe viene pietrificato da una maga pazza furiosa, nonché rapito. Starà a Cornet trovare cinque pietre magiche con cui rompere l’incantesimo etc. La storia rompe alcuni canoni classici e risulta molto divertente e ben scritta. Semplice, con pochi colpi di scena, ma buoni. La ripulitura da parte di NISA della vecchia traduzione di Atlus è stata fatta con cognizione di causa - impreziosendo ciò che già prima era un buon lavoro - anche se permangono una manciata di sviste. Stupisce, invece, la cura fin troppo profusa in certi dettagli che difficilmente noterete a una prima tornata nel gioco e che probabilmente non noterete neanche alla seconda, a meno di cercare il pelo nell’uovo. Ovvero rivisitando scenari dove non tornereste mai più, portando certi burattini a determinati livelli e così via. Anche il compendio dove esaminare ogni personaggio e mostro incontrato con tanto di descrizione simpatica di Kururu - o i diversi ritratti dei personaggi durante i dialoghi,

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emanano cura e pucciosità a profusione. Un gioco per ragazze? Ma anche no. Graficamente Rhapsody è molto curato, buone le animazioni e gli effetti speciali; in generale è un 2D che solletica gli occhi senza lasciarli scontenti. Musicalmente parlando Satō Tenpei compone una buona partitura che si affianca ai numerosi pezzi cantati che fanno da intermezzo a vari momenti della storia. In questa versione sono solo in Giapponese con sottotitoli. Le modifiche apportate alla versione DS sono troppe da elencare, ma alcune sono degne di menzione. È sparita la scelta del livello di difficoltà, rendendo l’avventura estremamente facile. Sono sparite anche le illustrazioni da collezionare e tutta la parte dei mostri da catturare. Quasi azzerati, invece, i tempi di caricamento, una vera manna dal cielo che rende Rhapsody veloce e agile da usufruire. Infine, sempre sul fatto della velocità, i combattimenti sono stati totalmente stravolti. Rhapsody passa da strategico con griglia su cui muovere gli sprite a JRPG normale. A sinistra

gli avversari, a destra voi con altri tre comprimari e via di attacchi fisici a go go. Le magie sarebbero anche una mezza tonnellata, ma ne userete pochissime perché la funzione ‘auto’ si rivelerà ben più che efficace nel togliere di mezzo i nemici. Vero e proprio stress reliever per quando l’elevato encounter rate si farà più sentire. Menzione di disonore, invece, per il riciclo indiscriminato di sfondi, sia durante l’esplorazione che durante i combattimenti, un mero cambio di palette grafica. Rhapsody è un remake migliore della sua vecchia controparte per PSone. Durante lo sviluppo molte sono le cose andate perse per strada e molte altre le aggiunte e gli stravolgimenti. Ben più giocabile e immediato di un tempo, sempre zuccheroso e carinissimo, breve e intenso come una volta, ma senza la possibilità di renderlo più difficile. Se lo trovate usato a un buon prezzo, fateci decisamente un pensierino. 7

‘Marl ookoku no ningyō hime: tenshi ga kanaderu ai no uta’ arriva di nuovo sulle sponde d’occidente col titolo più conosciuto - da una nicchia di appassionati - di ‘Rhapsody: A Musical Adventure’ e sotto le spoglie di remake. Meglio della versione PSone di dieci anni fa?


playstation2

LEGO BATMAN & CO The Lego therapy

console ps2-ds-pc-ps3-psp-wii-360 sviluppatore traveller’s talesproduttore warner bros versione pal provenienza usa anno 2005-2008

a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi

on credo di ricordare una singola confezione di Lego di cui non abbia perso almeno un pezzo. Un minuscolo, maledetto, microscopico pezzo che mandava tutto all’aria. Di conseguenza la cosa che più in assoluto preferisco dei videogiochi della serie Lego, è che questo non accade mai. Tutto quello che bisogna fare è distruggere ogni cosa e raccogliere ogni cosa: lo trovo mille volte più rigenerante di una sessione a un sanguinolento FPS. Quanti traumi infantili mi sono stati sanati! È vero che da un punto di vista grafico viene da chiedersi come sia possibile affibbiare un prezzo di sessanta euro a un motore del genere, quando c’è gente che tira fuori le città di Assassin’s Creed per la stessa cifra, ma il valore di questo gioco non è né ludico né tecnico. La serie è venuta alla ribalta con il primo titolo, Lego Star Wars (dedicato agli ultimi tre capitoli cinematografici), seguito da Lego Star Wars II: The Original Trilogy, Lego Indiana Jones: The Original Adventures, fino al recente Lego Batman. La formula è stata riciclata con buoni risultati, ma con qualche passo falso: i puzzle sono cresciuti in difficoltà, nonostante il target del gioco sia infantile, e il level design non sempre è aderente all’iconografia dell’immaginario originale. Lego Indiana Jones ricorda più Pitfall che le pellicole spielberghiane, e Lego Batman sfrutta ben poco la caratterizzazione architettonica dei film burtoniani a cui timidamente si ispira. Anche le meccaniche di gioco soffrono il peso di questa discendenza: nei due Star Wars sia spaccare oggetti che costruirli era compito del tasto della Forza, e non ci si stancava mai nel vedere i poteri Jedi all’opera con dei mattoncini Lego mentre formavano un X-Wing a mezz’aria. In Lego Indiana Jones si deve ricorrere costantemente a personaggi secondari che permettono di ef-

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UNDERRA TED

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fettuare azioni contestuali, mentre in Batman bisogna rintracciare le postazioni in cui indossare costumi mai visti nel fumetto (tute subacque, tute volanti, tute da ghostbuster) e quindi sbloccare relative abilità d’esplorazione. Quello che riscatta la serie nel suo complesso sono gli achievement presenti nelle versioni Xbox360, e assenti in quelle PlayStation 3 (niente trofei neanche in Batman, nonostante il titolo sia uscito a ottobre) PS2 e PSP. Per tanti altri titoli gli achievement non sono che un vezzo di autocompiacimento ludico: nessuno comprerebbe Bioshock al solo scopo di sbloccare achievement. Nel caso dei titoli Lego è esattamente il contrario: privi di sfida (fatta salva quella offerta dal talvolta insensato puzzle design), immediati da giocare con chiunque in co-op, e resi molto longevi da un consistente numero di livelli che vanno affrontati più volte per sbloccare tutti i segreti. Questa serie di titoli è il sogno erotico di chi compra titoli come Prey pur di guadagnare 200 achievement points in più. Proba-

bilmente si tratta dei punti più facili e più divertenti da collezionare dai tempi del King Kong di Ubisoft. Quindi questo gioco vale eccome sessanta euro, ma solo su 360 e solo per quei malati di mente che fanno dello sbloccare achievement una questione di autostima personale. Tutti gli altri diano un’occhiata agli screenshot e si facciano due risate nel vedere i personaggi e i luoghi delle pellicole originali ricostruite con blocchi di Lego. Dopodiché se ne tengano alla larga.

I giochi Lego sono corredati di spassosi siparietti animati che sfruttano la comicità leggera e infantile dei pupazzi gialli, con dialoghi ridotti a mugugni e risatine, dove l’umorismo è tutto basato sulla mimica e le situazioni. Notevole. E almeno in questi casi, l’aderenza alle fonti originali è assoluta

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a cura di Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero

alla scoperta delle ‘indie’

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uò la persona al timone del franchise più serializzato degli ultimi anni essere anche una delle bandiere del videogioco artistico indipendente? Ecco a voi Rod Humble, responsabile dell’etichetta The Sims di giorno e visionario vessillo del minimalismo applicato al videogioco di notte. Un Dottor Jekyll e Mr Hyde che ha trovato un trait d’union tra lavoro e verve artistica: riportare le relazioni all’interno dello spazio ludico. Spazio a The Marriage, dunque, e alle sue ambizioni pedagogiche sulla vita di coppia. do n a ul sim

Scaricate The Marriage al seguente indirizzo: http://www.rodvik.com/rodgames/marriage.html

È naturale che un progetto che si autodefinisce arte e con una cassa di risonanza quale The Marriage sia oggetto di parodie. The Divorce, dello stacanovista Petri Phuro, è la massima percolazione del progetto di Humble e non manca di tirare qualche stoccata a Jason Roher. Nella pagina di download, infatti, è presente una dichiarazione di intenti dai toni familiari. “Le regole significano come mi sentii quando i miei divorziarono. Le racchette sono naturalmente i miei genitori. I miei genitori sono alti e magri e questo è rappresentato dalla dimensione dei rettangoli. La palla è il frutto non voluto del loro matrimonio. Ero abbastanza piccolo quando i miei divorziarono, ciò è rappresentato dalla grandezza della pallina. Lo scopo del gioco è totalizzare 10 punti nel processo in modo da assicurarsi di non avere la custodia del figlio”. Il gioco? Pong. Geniale.

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THE MARRIAGE Se c’è un’area in cui i videogiochi hanno spesso fallito o dove addirittura hanno evitato il confronto diretto è quella delle relazioni umane. Più facile premere il grilletto. Colpito, non colpito. 1 o 0. Grattacapi balistici, fisica spicciola, niente che qualche calcolo non possa risolvere. Non stupisce che anche il mondo indie abbia trovato difficoltà nel convogliare in dati gli aspetti più comuni del vivere. L’interactive fiction è l’unica ad aver esplorato questo territorio vergine, ma il suo approccio, anche se sempre più efficace, rimane blindato. Façade è, a quattro anni dal suo debutto, uno degli unici, pregevoli esempi ad aver realizzato una visione in cui i risvolti delle relazioni umane prendono una forma e una sostanza verosimile. Humble compie un passo indietro, o meglio di lato, scegliendo un approccio meccanico, quasi arcade. Da lontano The Marriage pare uscito da un Vic 20. Una sorta di Omega Race senza proiettili. L’impatto è spiazzante, perché non latitano solamente missili ed esplosioni, manca all’appello il sonoro, mentre il design generale è sfuggevole, oscuro. Uno dei limiti dell’opera di Humble è proprio quello di non suscitare alcuna emozione se non contestualizzata. Senza conoscerne il titolo ci si perde tra forme geometriche prive di significato, disorientati. Ma se l’appellativo di un’opera è parte integrante della stessa ‘Il Matrimonio’ è sufficiente a mettere a fuoco alcuni dei concetti veicolati. Due quadrati, uno rosa e uno azzurro. Abbastanza autoesplicativo. Cerchi di diversi colori sono gli altri attori all’interno dell’area ‘di gioco’. Il contatto tra i quadrati o la collisione di questi ultimi coi cerchi ne muta la dimensione o la trasparenza. Relazioni, ostacoli. Ma per andare oltre si necessita dell’aiuto dell’autore, perché se le collisioni possono in qualche modo essere decifrate, l’intero sistema non si piega a facili deduzioni. Così come Roher prima di lui, Humble ha sentito il bisogno di diradare la nebbia intorno al suo progetto. Se nel caso di Passage le precisazioni pote-

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vano risultare accessorie, in The Marriage sono essenziali. È lo stesso Humble a riconoscere che questo sia un fallimento nella ricerca di trasmettere una visione artistica attraverso un videogioco puro: dove cioè siano le meccaniche sotto i riflettori e non forme espressive come la musica o la narrazione, proprie di altre arti. Con il ‘libretto di istruzioni’ in mano, l’obiettivo è più chiaro, anche se è solo quando The Marriage è spiegato nei dettagli che il tutto fa click. Ed è un momento rivelatorio perché, a discapito della sua iniziale impenetrabilità, l’opera di Humble scava nel vissuto di ognuno, inscenando la vita e le problematiche di coppia in maniera intima ed efficace. I sacrifici, la prevaricazione di un partner sull’altro si estrinsecano attraverso le semplici interazioni tra forme geometriche. Anche il metodo di controllo fa la sua parte sottendendo il mantenimento dei fragili equilibri attraverso delicati movimenti del mouse. Click e moti bruschi resettano l’esperienza o non hanno effetto. Le analogie con il lavori di Roher sono molte. In The Marriage non esiste un punteggio e ogni messaggio è veicolato attraverso la struttura di gioco. Se il videogioco deve forgiarsi in forma artistica, se deve validare il suo status come medium, non può utilizzare facili scappatoie. Esperimenti come The Graveyard di Tale of Tales colpiscono nel segno ma, come già discusso, sfruttano in minima parte le peculiarità del nuovo medium. Le scelte di Roher, e soprattutto di Humble, sono probabilmente eccessive nel senso opposto, perché fotografano il videogioco in un brodo primordiale, legandosi a forme estetiche e ludiche di decenni fa. Grazie a questo approccio, però, riescono nell’impresa di plasmare qualcosa di nuovo. Non intrattengono in maniera classica e, in particolare nel caso di The Marriage, sono ampiamente perfettibili nel loro impatto emotivo. La strada è tracciata. Da qui in poi il movimento può solo crescere e diversificarsi.

Scaricate The Divorce al seguente indirizzo: http://www.kloonigames.com/blog/games/divorce


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n videogame in cui si maneggia la propria cacca non poteva mancare tra i Giochi di Merda. Ci si può sforzare di ricordare il frisbee allegato alla confezione, il buon doppiaggio o la discreta struttura zeldiana, ma non si scappa dal fatto che il titolo di Braben è da ricordare come “quello in cui puoi lanciare la pupù addosso alla gente”. Un gioco scatologico, pur non volgarmente tale. Naturalistico, forse, ma in maniera profondamente disneyana. Per quanto si sforzi di riprodurre una vita da cani sfruttandone furbescamente alcuni dettagli, la risultante manca di deviare l’attenzione da una semplicità di fondo sin troppo evidente. Si scorgono i fili, insomma, sullo sfondo di un meccanismo blando, ripetitivo, aderente più del dovuto agli stilemi dell’action adventure. Una struttura ‘bipede’, dove il quadrupede Jake (il protagonista) si innesta talvolta forzatamente. Eppure Dog’s Life merita di essere ripescato dal cestone delle offerte. Design derivativo non significa necessariamente noioso e il titolo Frontier lo dimostra in più di una occasione. Questo perché le problematiche da affrontare vengono restituite sotto prospettive inusuali, sfruttando, ad

esempio, la capacità canina di seguire odori e tracce per scovare un indumento perduto. La costante ricerca del cibo viene poi inscenata con ilare genuinità, e a tratti pedante costanza, costringendo Jake a soddisfare le richieste del proprio stomaco (pena la perdita progressiva delle forze), col giocatore che si ritrova così a far grufolare il quattro zampe tra i bidoni della spazzatura, a fargli rubare dalle ciotole di altri cani oppure a improvvisarlo buffone circense di fronte agli esseri umani. Sempre che si sia provveduto alla toelettatura, altrimenti Jake risulterà repellente. Dog’s Life scorre via liscio, tra una gara di demarcazione del territorio (a forza di fiotti di pipì), una di escavazione forsennata, altre di tiro alla fune (pestando sui tasti come in Track n’ Field) o di imitazioni funamboliche (ricreate con meccaniche parappiane); e ancora il recupero di oggetti, gare di corsa o di tiro al bersaglio… Una varietà invero omologata. Un misto agrodolce tra intrigo del nuovo e constatazione che questo ‘nuovo’ è spesso più formale che sostanziale, frenato da un’intrinseca ripetitività che si ripercuote su un design che non lascia pienamente soddisfatti.

scee frontier developments ps2 2003 david braben Dove Braben centra in pieno il bersaglio è nel veicolare un prodotto di qualità ad un target d’utenza preadolescenziale, senza tralasciare chi la barba se la fa già da un po’. Buoni valori di produzione (le animazioni dei cani sono qualitativamente elevate) e la capacità di creare un mondo carismatico, permettono al titolo Frontier di appropriarsi di parte di quella magia nintendiana e disneyana capace di ecumenizzare prodotti all’apparenza rivolti a classi di età blindate e ben definite. Il cambio di prospettiva, poi, dà il La a situazioni piacevolmente demenziali: ritraendo la realtà dagli occhi di un non umano, Dog’s Life colora con una patina di pungente ironia e gag à la Shrek l’intera avventura. Ciò in cui fallisce è edificare uno struttura multilivello, dove, a fronte di una via facile e filante al completamento dell’avventura, non si contrappongono sfide addizionali a latere, nelle quali testare ingegno e destrezza. Il tipico lettore di Babel, quindi, non mancherà di sbadigliare a un certo punto dell’avventura, flagellato dell’ennesimo minigioco fotocopia. Ma per lui, e altri come lui, c’è sempre la cacca con cui sollazzarsi.

di marco barbero

GIOCHI DI MERDA!

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w w w. a r s l u d i c a . o r g a cura di Simone “Karat45” Tagliaferri

FAB LE2 E L’O MOS SES SUA LITA’

zione sia moralmente accettabile o meno. Ovvero, nella maggior parte dei casi non c’è molto da discutere sulle scelte degli sviluppatori riguardanti l’assegnazione dei punti moralità e, per fare un esempio, diamo tutti per scontato che aiutare una donzella in pericolo sia un gesto degno di lode, così come salvare un villaggio di poveri contadini da qualche mostro pelato e bavoso. Posso affermare senza tema di smentita che, generalmente, ciò che è moralmente accettabile o meno viene deciso in base a una serie di valori condivisi dalla cultura di riferimento a cui andrà venduto il gioco. Non si tratta di valori assoluti e, anzi, ragionandoci sopra e partendo da un minimo di conoscenze culturali esterne ai videogiochi stessi, ci si accorge di quanto siano ‘moderni’ i valori del medioevo fantasy di ultima geneUna dei meriti di Richard Garriott, razione (ad esempio una certa oltre a quello di aver speso un emancipazione femminile) e di sacco di soldi per andare nello quanto, invece, siano relativaspazio - beato lui! - è di aver inmente ‘antichi’ quelli dei giochi di trodotto nei videogiochi il confantascienza (in cui le razze cetto di scelta morale. Uno dei aliene sembrano più delle alterademeriti dell’industria è che in zioni, in positivo o in negativo, di trent’anni non è riuscita ad anquella terrestre che dei popoli dare molto oltre il sistema introcresciuti in un ‘altrove’ completadotto dal buon Lord British in mente diverso dal nostro). OvUltima IV. vero di quanto siano simili Molti giochi di ruolo occidentali nonostante le differenze di gepermettono di compiere delle nere. scelte (solitamente di tipo azione Tutta questa manfrina serve buona, azione malvagia e azione per parlare di un gioco uscito di neutra) che influenzano la morarecente. Anzi, di una missione di lità del protagonista, cambiando un gioco uscito di recente - dovrò di conseguenza i feedback dei raccontarla nel dettaglio, siete Personaggi Non Giocanti inconavvisati. Il gioco è Fable II e la trabili per il mondo gioco. Sei un missione riguarda un contadino cattivo? Terrorizzerai tutti gli abiche vuole trovare una moglie al tanti di un piccolo villaggio monfiglio per farlo riprodurre, pardon, tano, ma non otterrai alcuno per fargli mettere su famiglia. La sconto dal commerciante locale. missione prenderà una piega Sei buono? I cattivi tenderanno a molto diversa parlando con il ratrattarti come carta igienica gazzo, che non è semplicemente usata, ma otterrai frasi amorevoli timido e di gusti difficili come dai PNG. Ovviamente il sistema è detto dal padre, ma è gay. A quespesso più complesso di così e le sto punto il giocatore sarà chiascelte morali determinano modifimato a compiere una scelta che ad altri elementi del gameprecisa tra il trovargli un fidanplay, come i personaggi inseribili zato, andando contro la volontà nel party (Baldur’s Gate 2) piutdel figlio (azione che viene consitosto che le missioni ottenibili e derata moralmente positiva) opcosì via. pure seguire le volontà del padre Comunque, il nodo di questo e farlo uscire con una donna articolo non è parlare dell’in(azione che viene considerata fluenza delle scelte morali sul gamoralmente negativa). Ovviameplay, quanto chiedersi in base mente nel primo caso si otterrà a cosa venga deciso che un’a-

un lieto fine, con il ragazzo felicemente accoppiato con un uomo, mentre nel secondo la conclusione sarà leggermente più amara, ma non è questo il punto. Non ricordo un gioco mainstream che abbia trattato il tema dell’omosessualità in modo così diretto, ponendolo addirittura all’interno di una scelta binaria con implicazioni morali precise. Ovvero non ricordo una presa di posizione così netta da parte di un videogioco. Svolgendo questa missione capisco che chi l’ha ‘scritta’ non è una fan della Binetti. Personalmente la trovo condivisibile e anche particolarmente gradevole - che bello non dover decidere soltanto se un drago è buono o cattivo - ma debbo fare uno sforzo e mettermi nei panni di un giocatore dai valori ‘differenti’, ovvero devo immaginare che, purtroppo, non per tutti certi valori (la libertà sessuale, in primo luogo e la possibilità che due omosessuali si sposino, in secondo luogo) proposti dal Fable II come moralmente positivi, siano tali. In questo senso il videogioco può svolgere una funzione pedagogica e aiutare a formare la tolleranza di quelli che ancora non sanno come orientarsi rispetto a certe problematiche, ma quelli che hanno

Per capire come cambino i valori nel tempo e nello spazio, mi fa piacere citare il Moriz von Craûn, un poemetto medievale tedesco in cui lo stupro finale di una dama sposata, reticente a darla all’eroe protagonista, che tanto si è impegnato per portarsela a letto, viene visto come un atto di giustizia di cui l’unica colpevole è la donna.

un’idea già formata? Accetteranno di essere considerati moralmente riprovevoli nel caso in cui non volessero favorire le tendenze sessuali del ragazzo? Accetteranno che il gioco li giudichi negativamente per un azione che, secondo loro, è moralmente ineccepibile? Ancora meglio: potranno questi giocatori rifiutare il sistema ‘etico’ proposto dal gioco? Non si tratta di questioni da poco, che oltretutto ci consentono di capire meglio come funzioni il videogioco a livello di linguaggio, come veicoli i suoi significati e, nonostante le prese di posizione possibili, come questo apra degli interessanti scenari di discussione, soprattutto sulla connotazione ‘autoriale’ dei prodotti videoludici.

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