N ATA L E 2 0 0 8 http://www.bab3l.splinder.com
C O N T E N T S
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PROGETTO EDITORIALE federico res COPERTINA tommaso “gatsu” de benetti GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI giovanni “giocattolamer” donda SITO WEB http://bab3l.splinder.com BABEL È OSPITATO DA www.qb3project.net www.issuu.com
REDAZIONE alvise “kintor” salice cristiano “amano76” ghigi emanuele “emalord” bresciani ferruccio cinquemani federico res giovanni “giocattolamer” donda gianluca “sator” belvisi gianluca “unnamed” girelli marco “il pupazzo gnawd” barbero michele “guren no kishi” zanetti michele “macca” iurlaro simone “karat45” tagliaferri tommaso “gatsu” de benetti vincenzo “vitoiuvara” aversa COPYLEFT 2007/2008 Babel Edizioni
Babel è rilasciato sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0 Unported. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-ncnd/3.0/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.
BABEL 002
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G U E R R A E P A C E LA FORTUNA DI NINTENDO
IGNITION Dove si va da qui 003
FRAME Guerra e Pace - Una console war incruenta 008 Io, Giappone 2 - le tre leggi della nipponica 012 REVIEW Dead Space 014 Fallout 3 022 Far Cry 2 021 Tomb Raider Underworld 020 Crysis Warhead 018 Gears of War 2 016
020
TOMBRAIDER UNDERWORLD LARA NON C’È (ANCORA)
UNDERRATED Cold Winter 023
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
Il piede nella porta 004
ODIO DI GOMITO E continuarono a chiamarle religioni 005 ESCO DI RADO Show Business 006
ARS LUDICA E’ finito il tempo di divertirsi 007 LA TV CHE VIDEOGIOCA The Barbarian Sublimation 026
022
FALLOUT 3 EPPURE È OBLIVION
1492 Ispirazioni 013
TIME WAITS FOR NOBODY Disgaea 3 - Rondo of Swords Sonic Chronicles - Castlevania Order of Ecclesia 024
cover story land of the freaks
America, land of the freaks. Come titolava The Onion all’alba della vittoria di Obama: “La nazione è finalmente abbastanza merdosa per cambiare”. Babel si complimenta quindi con il primo Presidente Americano quasi-nero e a lui si rivolge con speranza: caro Obama, è noto quanto i videogiocatori siano in-
namorati dei loro mondi virtuali, ma se lei riuscisse ad evitare di precipitare il mondo nello scenario apocalittico dipinto da Fallout 3 le saremmo molto grati. Nel caso ritenesse però opportuno dichiarare guerra a qualcuno, ci auguriamo che lei scelga il Giappone, terra di un popolo ormai rincoglionito e ac-
cartocciato su se stesso. Che i vostri possenti strumenti di pace possano nuovamente ispirare il Sol Levante come ai bei tempi di Hiroshima, che, non dimentichi, ha avuto come conseguenza principale quella di donare al mondo manga ed anime pieni di gagliardissimi robot giganti
iGniTion
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DOVE SI VA DA QUI
Sapere sempre dove sei Ti può smarrire Hai già la pelle liquida In mezzo al sole Dove si va da qui – Afterhours
abel compie ufficialmente un anno, ma ha già festeggiato a sufficenza un paio di mesi fa. Ora preferisco lasciarla in pace, mentre procede lungo il cammino che da sola ha tracciato. Smetto di correre, mi fermo a contemplarla.
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Dove si va da qui?
quelle che vi ruotavano intorno. Attraverso Ring ho visto il videogioco crescere, maturare, ricercare la propria dignità di medium e poi tornare indietro, in apparenza sconfitto ma sempre forte e pulsante. Tornerà a scorrere, ne sono convinto, sotto forma di nuove e affascinanti onde.
Attraverso i siti e le riviste per cui ho scritto ho visto la mia pasFrancamente non lo so, e credo sione crescere, diminuire, frantuche a voi lettori interessino poco marsi, ricomporsi, riprendere a i fatti miei. Mi piace però riattra- battere a differenti frequenze. Ho versare con la mente, in breve, visto il mercato mutare e metgli anni di “militanza” presso le tere in discussione equilibri fino a fila di chi, per passione o per me- quel punto assodati; ho visto stiere, scrive di videogiochi. Aver Nintendo abbandonare la via del visto nascere e crescere (e movideogioco per tornare a corire) un magazine del tutto unico struire giocattoli, ritrovando forse come Ring, in qualità di membro la vocazione originale (e più coneffettivo, è stata forse un’espeveniente). Ho visto cose che rienza irripetibile. Per la genuihanno visto in tanti, dopotutto. nità e l’entusiasmo dei suoi fondatori, per la profondità e l’o- E tutto questo riverbera nel nestà intellettuale dei suoi conte- suono di un’unica parola, semnuti, per il valore generale della plice e nemmeno troppo musisua proposta. Ma soprattutto per cale, che per quanto mi riguarda il valore delle persone che ci sta- riassume ogni cosa senza aver vano dietro, e di (quasi) tutte bisogno di alcuna spiegazione.
Evasione: questa è la parola, questo è il senso, unico e semplice.
Ma ora smetto di correre, sorrido mentre da lontano guardo Babel e la sua cima che si innalza costantemente. Mi volto, mi allontano con le mani in tasca. Smetto di evadere, perlomeno cerco una nuova via di fuga. Continuerò a curare l’impaginazione e l’aspetto grafico, continuerò per quanto possibile a coordinare il progetto. Forse il mio nome comparirà in calce a qualche altro articolo, in uno dei futuri numeri di Babel. Ma la mia evasione, tra le fila di chi scrive di videogiochi, finisce qui.
Auguro un buon Natale a tutti voi e buona fortuna a chiunque, da gennaio in avanti, vorrà riempire questo piccolo spazio. Nella vita si può scrivere di tante cose: scrivere di videogiochi è stato stimolante. - Federico Res
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Tommaso De Benetti
Uno che i VG preferisce discuterli
Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO Il piede nella porta
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Per un motivo misterioso, circa l’80% degli studenti al mio dipartimento è composto da ragazze. Non che la cosa mi dispiaccia, in effetti
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’è un mio amico che continua a ripetere che c’ho più culo che anima. Sarà che quest’anno sulla mia vita si è srotolata con inquietante nonchalanche una bizzarra sequenza di cose buone, o forse che le natiche scolpite in palestra ingolosiscono anche gli etero più insospettabili. Recentemente - pur con un Master completato solo al 70% - ho avuto la fortuna di vedermi assegnata la conduzione di un corso presso la Facoltà di Comunicazione dell’Università di Helsinki, dopo un breve periodo di gavetta come Tutor sullo stesso argomento. Lo scopo del corso è, in due parole, quello di insegnare a un piccolo gruppo di studenti a collaborare insieme per la creazione di un webmagazine. Incredibili da un punto di vista abituato all’accademia italiana, i motivi per cui ho attirato le simpatie del mio supervisore sono sostanzialmente due: la mia esperienza diretta sul campo con pubblicazioni come Ring e Babel, e la capacità di comprendere ed utilizzare strumenti tecnici come ambienti didattici collaborativi - che insegnanti anziani ritengono troppo complessi e che quindi tendono ad utilizzare - se proprio devono - giusto il minimo indispensabile. Ora, voi certamente saprete che in sé, la parola webmagazine non significa un granché. Le pubblicazioni web sono migliaia: alcuni elementi sono comuni alla maggior parte di esse, ma esistono anche una varietà di dettagli e soluzioni tecniche che le differenziano l’una dall’altra. Tutto, non servirebbe nemmeno dirlo, per raggiungere l’obiettivo
comune: farsi leggere. Ho pensato quindi che un buon punto di partenza sarebbe stato proprio quello di parlare della mia esperienza, perchè il percorso necessario per gestire pubblicazioni come lo fu Ring e com’è oggi Babel, non è né semplice né lineare. Inoltre, cosa forse difficile da percepire per un esterno, pubblicazioni simili non godono di nessuno sconto da parte dei lettori per il solo fatto di essere gratuite e ‘underground’. Durante la prima lezione ho avvertito: “Litigherete”. Loro, ridendo, mi hanno risposto: “Perchè dovremmo?”. Quando è successo - perchè ovviamente è successo - nessuno aveva più bisogno di spiegazioni. Vivere in una redazione è difficile; stabilire regole è difficile; romperle, fare eccezioni e continuare a mantenere il controllo su quello che si sta facendo è ancora più complesso. Chiaramente essere amici e conoscersi a priori aiuta. Ma non riesce a tenere separati capibranco rissosi per troppo tempo. Sono cose che puoi imparare solo a tue spese: la ricompensa per chi non molla è spesso proporzionata allo sbattimento investito nel progetto. Con abile mossa torno in carreggiata: la cosa migliore del corso è che mi ha dato l’opportunità di togliermi alcuni sfizi su cui fantasticavo da tempo. Prima di tutto, sono indirettamente riuscito a parlare di videogiochi in un contesto accademico riconosciuto. Ho celebrato i giusti onori ai miei colleghi che ogni mese impiegano parte del loro tempo libero per produrre qualcosa che, crediamo, non possiate trovare altrove. Ho raccontato le loro sto-
rie, spiegando soprattutto che il mondo dei videogiochi non è fatto solo di nuove uscite, sackboy e bilance per obesi, ma è strettamente correlato, molto più di altri mercati, ai suoi fruitori: noi. Sono poi riuscito a far salire una vecchia gloria sul palco: Paolo Ruffino, che i lettori di Ring forse ricorderanno meglio come PJR. Paolo mi ha aiutato a definire il concetto di ‘stile’ disquisendo di Zzap!, CVG, EDGE ed altre riviste, fino ad arrivare all’androgina rivista francese Amusement - quella per videogiocatori particolarmente sensibili. Infine, parlando del destino di chi scriveva per Ring, sono riuscito a proiettare - in un tripudio di micette - l’ultimo trailer di Metal Gear Solid Philanthropy. Feature film che, se tutto va come previsto, guadagnerà molto presto a Giacomo “Gunny” Talamini e ai membri di Hive Division le giuste luci della ribalta. Vi starete chiedendo perché mi senta in dovere di raccontarvi tutto questo quando potrei parlare, chessò, della New Xbox Experience: ha cambiato qualcosa nei nostri destini individuali? La risposta, chiaramente, è no. Se però ripenso alla passione che ha dato vita a certi progetti, e a quanto lontano - fisicamente siamo riusciti a portarli, non posso fare a meno di pensare che tutto questo non sia uno sforzo inutile. È solo un piede nella porta - e in quante porte dobbiamo irrompere ancora - ma da qualche parte bisogna pur iniziare.
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai men-
zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito E continuarono a chiamarle religioni
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hi abbia mai detto che non esiste la cattiva pubblicità non deve mai averci avuto a che fare. Con la cattiva pubblicità in primis, ma anche solo con la pubblicità stessa. Così, da quando settimane fa è scattato il Planetgate, o con qualsivoglia nome verrà ricordato l’incidente Little Big Planet (se e quando a qualcuno farà comodo rispolverarlo) si sentono ancora un sacco di starnazzi. La gente si chiede ancora se Sony possa averlo fatto apposta. E questo al giorno d’oggi, nonostante le ben pubbliche multe subite da un altrettanto pubblico publisher, per un certo contenuto che di pubblico, invece, non avrebbe dovuto avere nulla. La gente si chiede perché Sony si sia dovuta piegare a pi greco mezzi per soddisfare i capricci di una religione. Ma prima di congedare anche questa domanda, sarà il caso di prenderla un po’ larga. Passava qui in Scozia, qualche mese fa, una particolare campagna pubblicitaria della banca HSBC. Banca famosa per i più disparati motivi, immagino, ma al sottoscritto - che i soldi li tiene in ben altre volte - la HSBC lo è per un motivo ben preciso: sa fare delle grandi pubblicità. Fa giusto al caso nostro che detta campagna pubblicitaria fosse atta a inculcarci nelle nostre testoline il loro nuovo motto, ovvero di essere la ‘World’s Local Bank’. La banca sotto casa, ma sotto tutte le case del mondo. In un particolare spot, un easy rider sta attraversando il Sud America, entrando a contatto con le diverse culture e usanze delle varie nazioni, tutte accomunate però dal gesto di mano più innocuo del mondo. Tutte, eccetto il Brasile,
dove il nostro eroe si macchierà di un errore madornale. HSBC ci teneva a precisare che per loro le differenze culturali sono la cosa più importante che ci sia. Di questi tempi avranno probabilmente rivisto le loro priorità, ma fermatemi pure se avete comunque capito dove sto andando a parare. Oggi Sony naviga in cattive acque, quelle di chi deve rimontare. Per farlo, deve imbucare quante più feste possibile – se sei invitato non vale, chiaro - piazzare la PlayStation 3 nel salotto devastato e la PlayStation Portable tra le file di chi aspetta davanti alla porta del bagno. Deve, insomma, imporsi ancora una volta come il ‘World Local Entertainer’, partendo da Little Big Planet e passando per Home. Quando Media Molecule decide di inserire Tapha Niang nella colonna sonora del suo pargolo, a loro sembra solo un orecchiabile motivetto. Ai tester assoldati da Media Molecule prima e a quelli di Sony poi, pure. In realtà è la famigerata goccia nel vaso che tutti vedono mezzo pieno. Fortuna vuole – sì, fortuna – che le street dates siano fatte per essere ignorate e allora, ascoltando la canzone di cui sopra, qualcuno ci ha sentito più di un orecchiabile motivetto. Sony - che a volte sembrerà stupida, ma in matematica dev’essere un portento – con questa sua ‘incomprensibile’ mossa di ritirare le copie di LBP dagli scaffali, riesce a non inimicarsi una così ‘risibile’ fetta di mercato, quale la comunità islamica. Ma anche perché hanno paura dei suicide bomber, non dimentichiamocelo. Sfatiamo allora un altro luogo comune: tutto il mondo non è
paese. Lo ha imparato oggi Media Molecule, come prima di loro lo avevano imparato quelli di DreamFactory all’uscita di Kakuto Chojin. Paese che vai, problema che trovi. È bello vendere copie in tutto il mondo, no? Tanto basta ingrandire gli occhi della tua mascotte qui, cambiare il colore dei capelli del tuo eroe là, e ci scappa il jackpot. Ma il mercato si espande, e come per magia un giorno non dovrai più soddisfare una mandria di nerd americani, giapponesi o europei, ma casalinghe vegetariane, ragionieri neoluddisti e pensionati panteisti. Un giorno localizzare un titolo non sarà così facile – si fa per dire quanto schiaffare dentro al proprio database una tag FIGS e pregare che il tedesco impari a usare parole un po’ più corte. Sveglia, quel giorno era ieri, il jackpot l’ha già vinto qualcun altro. Voi continuate pure a chiamarle religioni, da queste parti le continueremo a chiamare demographics. Questa è un’industria, fateci il callo. Un’industria deve fare una cosa sola: espandersi. E per farlo non ha bisogno di voi, perché voi ci siete già. Per farlo ha bisogno di quella gente là fuori, quella che non si incavola perché nell’ultimo trailer non si è visto traccia di vero gameplay, ma perché in Africa i cattivi sono tutti neri. Se vi sentite spaesati, incolpate Nintendo. Se non volete stare alle sue regole, andatevene a giocare altrove. Ovunque finiate, però, che sia in un’isola deserta, in una galassia lontana lontana, o in un santuario su Marte, abbiate almeno il buon senso di portarvi dietro molte pile. Sarà un lungo esilio.
Trovo quasi sconcertante che la voce incredula di chi non riesce a capacitarsi di come una religione (o un ramo di essa) possa prevedere restrizioni su cosa fare e non fare, si alzi anche dai vostri colli. Se un qualche localizzatore italiano si lasciasse mai sfuggire un PD all’interno di un titolo multi-SCU del calibro di Little Big Planet, voi – mi raccomando – chiudete gli occhi e continuate a ripetervi che la cattiva pubblicità non esiste. Poi riapriteli e guardatevi lo spot della banca HSBC, va’: http://uk.youtube.com/watch? v=I4SwLKvQA_4
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Vincenzo Aversa Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.
esco di rADo (ma gioco pure troppo) Show Business
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on stato l’altro giorno alla presentazione romana di Little Big Planet. Il gioco più importante del Natale di Sony nella capitale d’Italia. Invitata la stampa specializzata e pure tutta la stampa generalista che passava di lì. Forse si arrivava, imbucati compresi, a cinquanta carocce. Non era facile distinguere gli ospiti. Quelli grassi e brutti come me - quelli specializzati - il gioco lo avevano già a casa il giorno della presentazione e tutto per loro sembrava un po’ superfluo. Gli altri, quelli belli e allegri, se ne fottevano moderatamente della presentazione. L’evento era stato organizzato in una sala adiacente ad una palestra, forse un invito sottinteso. Dopo un ritardo di circa mezz’ora, l’energumeno all’entrata si decide a farci entrare. Una decina di tizi vestiti in modo imbarazzante (tuta bianca e elmetto da lavoro giallo) ci accolgono con delle splendide sedie di cartone. Molto in linea con il gioco, molta paura di schiantarsi sotto il peso dei miei 100 amici. Altra mezz’oretta di aperitivi, di prosecco e di un tizio che gira per la sala ad appendere adesivi sui vestiti di tutti. Poi ne ha attaccato uno addosso a me, poi ha smesso di attaccarli, poi Pino Insegno ha dato il via alle danze. O meglio, lo avrebbe fatto volentieri se Sony non avesse preparato per l’occasione niente di meglio di un microfono wireless della chicco. Dei trenta minuti di chiacchiere ricordo poco considerando che una parola su due era instabile. Nell’ordine: Little Big Planet è bello, rulla e scopa un
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sacco; 60.000 livelli in 4 giorni e un altro personaggio - mi dicono famoso - che voleva associare il gioco a scopi politici di non so quale genere. Sembrano bugie, ma è quasi tutto vero. Per fortuna dura poco, nonostante l’ottimo Insegno che qualche battuta divertente ce la regala pure. È in quel momento, quando potremmo andarcene tutti soltanto delusi, che accada l’irreparabile. I tizi di prima, quelli col caschetto giallo, cominciano un balletto non sense per la sala. Uno di loro, una ragazza, con una luce verde finge di essere un puntatore di LBP, gli altri costruiscono oggetti per la stanza. Che poi appendono cartoncini per il muro, e tutto l’ambaradam sembra un po’ forzato ed evitabile, ma ci tocca guardarli per quindici minuti buoni. Tutto molto in linea con il gioco, tutto molto imbarazzante. Poi qualcuno ha pietà di loro, accende la luce e ci permette di fare il cazzo che ci pare, magari evitando di calpestarli mentre continuano a ballare. E noi lo facciamo, perché siamo gente per bene. Si apre il buffet e una platea poco italiota si mette in fila ordinata per ricevere riso crudo e porzioni per nani da giardino di gelato. Ah, vero, si potrebbe pure giocare a LBP nelle varie postazioni, ma rimangono desolatamente deserte. Almeno finché un paio dei soliti tizi non ci obbliga, con i gesti - non potevano parlare, solo mugugnare, anche questo è ahimè vero - a provare il loro cazzo di gioco super fantastico. Lo facciamo, perché siamo gente per bene e perché non c’è molto
di meglio da fare. Quando ci rompiamo le scatole, dieci minuti dopo, è già tempo di calare le tende. Vorrei andare da qualcuno a chiedere spiegazioni o a consolare uno qualsiasi dei poveretti in casco giallo, ma no, proprio non ce n’è bisogno. È l’assurdo mondo dei videogiochi: incassi da capogiro sulle spalle e un modo di fare spettacolo adatto ad uno studente delle elementari, pure scemo se vogliamo. Sony, e dico Sony, non riesce a fare di meglio, per il suo gioco di punta, di una presentazione (in ritardo) per quattro gatti e una coppia di ciccioni. Andiamo, si può o no fare di meglio? Non servono le bilance per allargare il mercato, serve un po’ di cervello, suvvia. Spendi due soldarelli in più, prendi un palco, due strappone, lascia libera l’entrata e raccogli qualcosa di meglio, ne sono più che sicuro. A Roma ci va un milione di persone a festeggiare uno scudetto, vuoi non raccattare mille persone per Pino Insegno? E un evento da mille persone è qualcosa che puoi raccontare in un giornale, di meno è roba per guardoni, per feticisti, per la stampa specializzata. È lo stesso motivo per il quale non sei mai riuscito a vendere l’E3, così convinto come sei che debbano essere conferenze per gli azionisti. Venditi videogioco, venditi a tutti e il Wii non sarà più una sorpresa per te. Perché se c’è qualcosa che Nintendo ha capito meglio degli altri, in questa generazione, è che vende più Panariello che un gioco fatto bene.
Simone Tagliaferri
Si perde troppo spesso per mondi virtuali
Simone Tagliaferri nacque e sta ancora cercando di recuperare da quella faticaccia immane. Nel frattempo ha scritto articoli per molte testate, tra le quali Gameoff, Xoff, PSW, PC Games World e altre di cui non ricorda molto (sapete... la senilità). Attualmente scrive articoli su multiplayer.it, cura la sezione videogiochi
del Mediaworld Magazine e scrive assiduamente su Ars Ludica, progetto nato nel lontano 2005 che si occupa di spammare un po' di cultura videoludica in giro per il web. Tra le sue altre attività, oltre allo spaccio internazionale di pannolini usati, traduzione di guide ufficiali e di videogiochi.
ARS LUDICA
www.arsludica.org
E’ finito il tempo di divertirsi
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iflettevo tempo fa sul concetto di divertimento e su come andrebbe sradicato da qualsiasi critica videoludica che si rispetti. Il bello è che sviscerandolo ci si accorge che è un concetto molto profondo, ma totalmente fine a sé stesso se si vuole fare un discorso critico più ragionato. La questione può sembrare assurda e mi si chiederà: com’è possibile slegare i videogiochi dal concetto di divertimento? Il problema è che il divertimento, inteso in senso generale, è un fattore totalmente soggettivo e nebuloso. Inoltre è profondamente ipocrita affermare che un videogioco è divertente o meno, fondando parte del giudizio su questa affermazione. Affermo di più: in un mondo utopico, il divertimento sarebbe completamente slegato dal giudizio. Ma è meglio fare qualche esempio per non complicarsi troppo la vita - il limite dei caratteri incombe. Prendiamo un bambino (figura generalmente senza gli strumenti critici adatti a combattere contro certe derive), riempiamolo con le pubblicità di un film chiamato Kung Fu Panda, facciamolo andare al cinema dopo averlo martellato per mesi con una campagna marketing invasiva e avergli fatto comprare tutto il corredo scolastico a tema e, infine, mettiamolo davanti a un monitor dove gira il videogioco ispirato al film. Credete che si divertirà? In verità, credo che il bambino di cui sopra si divertirà moltissimo davanti al videogioco di Kung Fu Panda e credo anche che il suo sarà un divertimento ‘vero’, pieno d’eccitazione e di gioia. Il fatto che sia indotto poco importa: si divertirà e su questo c’è poco da discutere. Se così non fosse, l’idea
stessa di consumismo crollerebbe. Il consumismo crea desideri, ma quei desideri non sono fasulli, sono veri e diventano/fanno parte della persona. La coercizione a desiderare avviene prima, ma nel momento in cui il desiderio è nato e, quindi, presente, è vero e assolutamente sincero. È parte del corpo. Non per niente per tenerlo a bada bisogna combatterlo, ma combatterlo costa fatica e, visto l’orientamento della società, quella ‘fatica’ è pesantissima, perché continuamente stigmatizzata e vista come male. Quindi, ricapitolando: il bambino si mette davanti al suo videogioco e, soddisfacendo un desiderio indotto, arriva a divertirsi sinceramente. Ora, il giocatore adulto, davanti allo stesso videogioco, lo troverà quasi sicuramente meno divertente - ovviamente ci sono casi e casi, ma prendiamo per buono questo per una questione di praticità. Vuoi per le tematiche, vuoi perché magari non ha seguito molto il battage creato intorno al film, vuoi perché odia i cartoni animati in generale, vuoi, insomma, per mille altri motivi, lo stesso videogioco lo divertirà sicuramente meno e, soprattutto, in modo differente - sempre ammesso che gli piacesse… ma qui il discorso si complicherebbe troppo. Ecco, la critica non può e non deve rispondere di quel ‘differente’ che è parte dell’individuo e, come tale, ineluttabilmente legato alla sua storia. Il divertimento non è uno stato riducibile a parole perché indefinitamente determinabile, e la critica non può permettersi di impelagarsi sulla piacevolezza o meno di saltare da una piattaforma a un’altra, piuttosto che dello spostare
centinaia di truppe contemporaneamente per fargli assaltare un castello. La critica è tale quando esprime un giudizio informato e quando crea discorsi intorno a qualcosa, non quando pretende di decidere cosa è divertente e cosa non lo è. In quest’ultimo caso non fa altro che esporsi a sterili polemiche e a mettere in bocca ai tuttologi dell’ultima ora l’ennesima ‘cagata pazzesca’ di fantozziana memoria: ovvero argomenti di facile presa sugli altri che squalificano tutta la categoria, essendo parzialmente veri, lì dove mirati anche involontariamente - contro la pretesa di dire alle persone con cosa dovrebbero divertirsi. Cerchiamo di capirci: non voglio ridurre il tutto a un fatto soggettivo, ammazzando ogni discussione; sto solo affermando che se ci sono persone che si divertono a farsi defecare addosso in una vasca da bagno… faranno anche schifo, ma non si gli si può negare che in quel frangente loro si divertano come dei bambini. Il punto è che se riduciamo il discorso critico a “è divertente” o “non è divertente”, non andiamo più in là di quello che fanno gli spettatori dell’Isola dei Famosi, ovvero ci poniamo in modo passivo davanti al medium e lasciamo che a dettarci l’agenda del pensiero sia soltanto una sensazione immediata, quasi un’impressione, di cui è difficile determinare la natura. Ecco, credo che il critico dovrebbe evitare di farsi ingannare dalle sensazioni, poiché dovrebbe essere cosciente della loro naturale tendenza a essere delle sincerissime bugiarde.
Perché mettere l’immagine di un parco dei divertimenti virtuale in un articolo dedicato al divertimento? Sinceramente non lo so, ma visto che il postmodernismo consente di fare tutto e il contrario di tutto senza dover dare spiegazioni… mi adeguo…
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di Emanuele “Emalord” Bresciani
GUERRA E PACE
una console war incruenta
uriosa situazione quella della generazione attuale di console. Da che seguo il mondo dei videogame, e ormai sono parecchie stagioni, mai avevo visto un mercato così anarchico e imprevedibile come quello attuale, dove la guerra tra console, di fatto, non si sta combattendo perché ognuna di queste ha caratteristiche talmente uniche da poter essere considerata un medium a sé stante. L’attuale generazione compie tra poco 3 anni e sembra sempre più avvicinarsi all’evoluzione umana. Lentissima e caratterizzata da bagliori di luce ogni 50anni. E non sto pensando a Hiroshima. Nintendo Wii domina il mercato e scontenta i fan di vecchia data, facendo la gioia di nonnine, cuginetti e nintendari duri e puri, quelli che non ammetterebbero mai di essere delusi dalla propria console. Una console che regala gran giochi al ritmo di due l’anno e che cavalca il mercato perché produce tonnellate di giochi-spazzatura con due soldi e ne ricava miliardi. No, grazie, meglio la vera next-gen e – dannazione - non pensavo di rimpiangere il GameCube. Xbox360 due anni fa sembrava aver raggiunto una prima fase di maturità con Gears of War, ma da
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quel ‘Emergency Day’ sembra che ben poco sia cambiato. Call of Duty 4 e Bioshock sono capolavori nel loro genere, ma l’evoluzione grafica da GOW è minima. Il gameplay si evolve aggiungendo perks e stili narrativi ben integrati (gli audio-diari di Bioshock), ma di rivoluzioni nemmeno l’ombra. Quasi tutto il resto del parco giochi si distingue per l’ormai consolidata presenza di armi e di morti, di traffici illegali, pacificatori e sangue a ettolitri. Diamine, sembra che nessuno riesca a cogliere l’enorme potenzialità artistica dell’HD applicata alle due dimensioni, perennemente relegate al seppur eccellente XBLA. E ancora: voglio rivedere mascotte pelose, astronavi gommose e avventure meravigliose come Klonoa nel giro di un anno, altrimenti mi do fuoco fuori la sede del prossimo E3, sperando che non sia lassativo come quest’anno. PlayStation 3 ha dei seri problemi, ma io intravedo il sole dietro le nuvole del pianeta Hellgast. Fino ad ora i giochi multipiattaforma hanno quasi sempre decretato la vittoria di Xbox360, ma la verità è che il campo di battaglia di PS3 è altrove, forse oltre il 360 e gli attuali PC di fascia media. Con un anno di ritardo su 360, una cronica carenza di software a cinque stelle, un migliora-
bile browser web e un eccellente lettore divx, scommetto su una PS3 che esploderà tra il 2009 ed il 2010 con due banali evidenze: i giapponesi si sono definitivamente dileguati dalla scena e la longevità di questa generazione raggiungerà la maggiore età dei miei figli. Figli che non ho ancora concepito peraltro. E ora qualche considerazione a ruota libera. Il 2007 è stato quasi unanimemente considerato come uno dei migliori anni della storia dei videogiochi: ogni console ha avuto il suo capolavoro. Vero, ma il medium si evolve sempre e comunque troppo lentamente. La verità è che il 2007 è stato una grande annata per la ‘quantità’ di ottimi giochi arrivati sul mercato per tutte le piattaforme, ma si tratta di un semplice caso. Il 2008, finora, è stato uno degli anni più aridi che io ricordi. Gran Theft Auto IV dimostra che il pubblico di forum e i redattori di webzine sono sempre più affamati di grandi nomi e grandi giochi. Sembra quasi che se mancassero ci si accorgerebbe che il re è nudo alla faccia del fertile 2007. Il re non è nudo, sono il primo a dirlo, ma rischia severi raffreddori se continua a coprirsi con t-shirt lise anche di inverno. E non si aiuta di certo un Re vestito come il pistolero Trinità se lo si continua a lodare per
giochi più-belli-della-media, ma certo non capolavori. In altre parole, il web pullula di troppi ingiustificati 9 in pagella. C’è un cul-de-sac tecnologico-concettuale in questa generazione che sembra avere colpito duro soprattutto i programmatori nipponici. Ma se ne sono accorti anche i vari Ken Kutaragi, Phil Harrison e Peter Moore, personalità decadute che al di là del pettegolezzo ‘internettiano’ ci raccontano una cosa molto chiara: questa generazione logora e logorerà chiunque la voglia cavalcare. Pochi cazzi. La mia personalissima idea è che le attuali console siano troppo avanti il loro tempo, che i programmatori, orfani di middleware cazzuti, siano in perenne ritardo di preparazione e le Ferrari abbiano prestazioni da berlina. Da questo ne consegue che giochi partoriti sputando sangue non siano all’altezza delle aspettative e il tutto si risolve in delusione pubblica, mancate vendite delle softco, fallimenti di team affiatati, grandi programmatori come monarchi decaduti. I giapponesi, che pure appoggiano questa generazione in HD, fanno spallucce e continuano a regalarci giochi in bitmap, ma in bassa definizione, per non illuderci. Mai avrei
pensato di preferire Ubisoft, Insomniac, Naughty Dog e Valve a Konami, Square-Enix o SCEI, ma è tristemente vero che i giapponesi finora hanno perso un treno che passava troppo velocemente per poterlo prendere. Gli unici vagiti di qualità vengono da Capcom e PlatinumGames, la prima di queste è anche fautrice di ottimi remake da scaricare online. Questa fase dell’evoluzione tecnoludica si può combattere in due modi: Nintendo ha scelto quello più facile e persino ovvio alla luce dei fatti, producendo giochi dell’esatto livello - e costi - della generazione passata, da rifilare a un pubblico di novizi e giocatori della domenica, puntando sulla novità di controller innovativi e calibrati maluccio (o difficili da far funzionare a dovere). Una scelta che riempie i portafogli della casa madre, ma va contro centinaia di giocatori decennali, che vorrebbero essere costantemente sorpresi, coccolati, meravigliati con dettagli, colori e forme mai viste prima. Una scelta che mostra anche l’irrazionalità dei fan più sfegatati, ap-
parentemente contenti di supportare una Nintendo mai così bella e vincente, e mai così ingannevole e fetente nei confronti del videogaming che l’ha resa così unica. Una Nintendo che fino a ieri produceva decine di giochi esclusivamente per la sua base di utenti hardcore, e che ora li ha sostituiti con una fetta di mercato enormemente più ampia, quella dei casual gamer, che pensano che affettare cipolle e cuocere spaghetti virtuali sia cool. L’altro modo per combattere questa guerra è quello scelto da Microsoft e Sony, ovverosia evoluzione tecnoludicartistico-narrativa tendente verso il mai visto o narrato prima. Pollice alto e tanta stima, perché pare ormai chiaro che i dazi da pagare siano tanti e imprevisti. In ottemperanza alla mia osservazione d’apertura, non credo ci saranno veri vincitori in questa lunghissima e logorante schermaglia: PS3 recupererà tra il 2009 e 2010 il distacco qualitativo con i giochi di Xbox360, setterà standard ben superiori a quelli Microsoft e batterà il Wii non solo in qualità
(gioco facile), ma anche in vendite lorde (missione ben più ardua). Non in virtù del semplice marchio, ma perché si stanno programmando già da tempo giochi che usciranno fra due o tre anni con una conoscenza sempre più approfondita della tecnologia Cell, che a mio avviso è ancora l’incubo di qualche softco costretta a rivolgersi a middleware non sempre affidabili. Detto questo, Xbox360 ha rafforzato il nome e l’immagine di Microsoft nel mondo delle console, portando ai suoi utenti esclusive di rilievo, un Live Arcade con eccellenti giochi e una serie di tipologie di giochi che sul primo Xbox erano praticamente assenti, come i breeding game e i JRPG. Per non parlare del tentativo coraggioso di supportare HD-DVD, Divx e multimedialità come la sua controparte Sony, e delle piccole vittorie ottenute in Giappone in occasione dell’uscita di giochi esclusivi particolarmente amati dal pubblico ‘occhiomandorlato’. E Wii? Per quanto l’attuale situazione della graziosa scatoletta
Nintendo sia abbastanza irritante ai miei occhi di fan di vecchia data, mi sentirei di scommettere 5 euro su un Wii 1.2 (ma anche 2.0) completamente ridisegnato, che supporti giochi a 720p e qualche poligono in più entro il 2010. Niente che possa scalfire la potenza grafica dei rivali, ma una carta in più nelle mani di volenterosi programmatori che vogliano produrre giochi di valore anche sotto il punto di vista artistico. E chissà che io la smetta di rimpiangere il GameCube.
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di Cristiano “Amano76” Ghigi
Le Tre leggi della Nipponica
io, giappone - capitolo 2
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Ci sono due fondamentali fatti storici che vanno compresi per decodificare la mentalità giapponese:
1. Il paese non è mai stato invaso militarmente da nessuna fanteria o cavalleria di un qualsiasi esercito di un qualsiasi periodo storico.
2. Il paese è passato attraverso ottocento anni di dittatura militare, di cui quattrocento classificati come medioevo, in cui il capo dello stato era rappresentato dallo shogun (Generale) poi camuffato con l’ambiguo titolo di kampaku (Cancelliere). Per le nazioni occidentali e soprattutto quelle europee, il cui passato è costellato di invasioni, guerre, occupazioni e continue revisioni dei confini territoriali, riuscire a capire quanto possa essere forte il concetto di identità nazionale per un giapponese è molto difficile. Ogni colonizzazione culturale che i giapponesi hanno attraversato è stato un processo attivamente iniziato dalla loro parte e mai subito passivamente: in duemila anni di storia i nipponici hanno raffinato l’arte di entrare in contatto con una cultura straniera, distinguere gli elementi efficienti e assimilabili da quelli nocivi, e personalizzarli per renderli congruenti alla loro. E questo non perché esistono dei Patriots con gli occhi a mandorla che per secoli hanno deciso le sorti del paese, ma perché grazie alla continuità politica
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dello shogunato la loro aderenza ai principi confuciani non è mai venuta meno e i valori sociali non sono mai stati sostituiti con quelli religiosi (né buddisti, né cristiani) o politici di altre nazioni. I principi confuciani più determinanti sono i seguenti:
1. Meritocrazia: i burocrati di un governo devono essere selezionati per la loro abilità non per la loro discendenza, e un re deve scegliere i successori indipendentemente dalla loro anzianità o dal grado di parentela.
2. Rituali: esercitare quotidianamente le pratiche sociali (la cosiddetta etichetta) che esaltino il fine ultimo della filosofia confuciana, che non è la salvezza dell’anima o dell’individuo (quindi nulla di escatologico) ma l’armonia sociale.
3. L’identità tra un reggente e il suo popolo: l’immagine di un governante rispecchia quella del popolo che lo elegge, quindi a un re corrotto corrisponderà un popolo corrotto e a un re eccellente corrisponderà un popolo eccellente. Le qualità semidivine che vengono attribuite alla figura imperiale e la frequenza con cui si dimettono i ministri dei governi giapponesi al primo segno di adulterio, mazzetta o incompetenza si rifanno a questo principio. Il motivo per cui l’esercito scelse di perorare questa filosofia di vita (tra le tante che la Cina offriva) è da ritrovarsi
nella disputa di potere tra i militari e le sette buddiste: la prospettiva di trovare l’armonia nella realtà quotidiana faceva passare in secondo piano la preoccupazione per la salvezza dell’anima nella vita dopo la morte, quindi pagare le tasse ai militari era molto più importante che offrire donazioni ai monaci. Questo non significa che nel medioevo il giapponese medio non dovesse tenere d’occhio il suo punteggio di karma achievements, ma la sua preoccupazione principale era anzitutto aderire alle regole imposte dalla classe dei samurai, per non finire con la testa tagliata. Per ragioni non dissimili, la secolare continuità della cultura militare contribuì anche a un’interpretazione anti-elitaria dell’arte: la visione del mondo concreta e pragmatica dei samurai era molto vicina a quella dei contadini, che per quanto cadessero frequentemente vittima dei loro abusi di potere non potevano certo trovare punti di contatto con la cultura dei nobili e con il loro monumentale stile di vita. Per la casta dei samurai era quindi necessario diffondere i propri valori al maggior numero di persone possibili, per creare un ulteriore divario tra contadini, monaci e aristocratici: con l’avvento della stampa la produzione letteraria e la pittura vennero così trasformate in linguaggi massificati. Questo è il motivo per cui oggi la distinzione tra arte ed entertainment in Giappone è molto labile: la continuità tra la pittura dell’800 e i manga, l’affinità tra le ombre cinesi e i primi anime,
la proliferazione di pink eiga (film di genere che hanno scene di sesso particolarmente esplicite) sono tutti fenomeni che si ricollegano alla massificazione delle espressioni artistiche. A volerla sparare grossa - massì, dai - potremmo dire che i giapponesi hanno inventato la pop-art cinquecento anni prima di Andy Warhol. L’idea di trovare prima la felicità terrena e poi quella ultraterrena funzionò anche perché la religione shintoista, il rito più popolare prima dell’avvento del buddismo, era sostanzialmente il culto della natura e delle sue manifestazioni (vedi Ookami): la visione concreta dei samurai ha assicurato non solo la sopravvivenza dello shintoismo sino ad oggi, ma ha anche determinato il fanatismo da Greenpeace che i giapponesi hanno nei confronti dell’ambiente sempre che non si tratti di mangiare delfini e balene, slurp! - ed è uno dei motivi per cui i lavori di Miyazaki risuonino in modo talmente forte nella società nipponica. Com’è allora che una cultura tanto naturalista e con i piedi per terra convive con la bulimia tecnologica (videogiochi compresi) tipica del mondo moderno? Appuntamento al prossimo numero.
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a cura di Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero
alla scoperta delle ‘indie’
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econdo g i r o presso casa Humble. L’ultimo per un po’. L’ultimo fino alla sua prossima creazione. Ancora una volta è l’artista sotto i riflettori: la sua condizione, i suoi processi mentali e il suo punto di vista sul mondo. Un luogo, Half Moon Bay, che diventa simbolo, contenitore di simboli e significato universale. Con la promessa, per il prossimo mese, di un po’ di frivolezza in più. N
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uello tra Humble è Roher è un dialogo a distanza, un botta e risposta in differita. Progetti paralleli che lambiscono gli stessi temi, con intenzioni e approcci diversi, entrambi nel solco di una radicata consapevolezza della forza artistica e comunicativa del videogioco. Il focus sul processo creativo serve ad Humble per indicare alla scena e all’industria meccanismi mentali sopiti, serve per stimolare a riscoprire una via primordiale alla creazione artistica. Azzerare i processi mentali per resettare l’approccio creativo, nella speranza di indirizzarlo verso nuove soluzioni. Il cielo sopra Half Moon Bay è poetico, stellato, graficamente spartano. Fedele alla sua filosofia di non inquinare le meccaniche di gioco con stimoli non direttamente videoludici, Humble presenta il suo progetto con forme e colori appartenenti a una trentina di anni fa. Una rilassante colonna sonora è la sola concessione fatta all’impianto audio, il resto è grafica altamente stilizzata. Mentre l’oscurità sale, le stelle che piano piano affiorano sullo sfondo possono essere riposizionate in modo da fissare la materia prima per modellare successivamente una costellazione. I tempi sono limitati, compattati, una situazione che riflette la condizione artista, costretta a convivere con regole sociali, convenzioni, necessità che raramente concedono il lusso del tempo. Che si tratti di livello micro o macro, le differenze spesso sono irrilevanti. E così l’opera deve essere tracciata nelle sue linee generali prima di poter essere plasmata. Deve essere pianificata in anticipo e poi modificata sulla base di un set di possibilità virtualmente illimitato, ma dettato da regole ben precise. E così in uno stato quasi febbrile avviene il posizionamento delle stelle.
Tra il turbinio di idee che affiorano a ogni spostamento e immagini che si vorrebbero replicare, rimodellare. È emblematico che questa fase di brain storming non collimi quasi mai perfettamente con quanto si costruisce nella propria mente. Ma ciò, anziché andare a detrimento del risultato finale, ne amplifica la portata destinandolo verso soluzioni impreviste. Ed è questo l’intendimento di Humble, ciò che vuole evidenziare. Con Stars Over Half Moon Bay lo scopo è infatti sottolineare l’essenzialità della creazione, l’azione di connettere idee apparentemente slegate per generare qualcosa di personale, significativo. L’angolazione è primordiale, come il guardare alle stelle e rintracciarne forme, disegnarne di proprie; come osservare le nuvole e scovare mentalmente figure, costruire storie personali. È la liberazione della fantasia nel suo modo più semplice e diretto, come ad indicare che il modo di dar vita ad opere d’arte non è variato nel tempo e che è ad esso che bisogna volgere lo sguardo nella ricerca di ispirazione. Ritornare ad una stato primitivo della creazione per poter riscoprire una capacità creativa incatenata da schemi dati per inamovibili e fissi, ma che non sono altro che figli di un processo creativo comune che può generare dell’altro. Come dichiara lo stesso Humble in un’intervista ad Arthouse Games “Con il mio lavoro a casa sono ritornato coscientemente ai primordi del videogame per vedere se avevamo perso qualcosa per strada”. Insomma, ripartendo dalle radici, ricollocandosi al punto zero, su un terreno florido di idee è ancora possibile percorrere altre strade, imboccare differenti vie dell’evoluzione artistica. È dal basso che si può guardare in su e collegare i punti, le ispirazioni, le idee.
STARS OVER HALF MOON BAY
Scaricate Stars Over Half Moon Bay al seguente indirizzo: http://rodvik.com/rodgames/SOHMB.html
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360 ps3 pc
DEAD SPACE
It’s a rescue mission, you’ll love it console 360 ps3 pc sviluppatore electronic arts produttore ea versione pal provenienza usa
a cura di Tommaso “Gatsu” De Benetti
ello spazio, se urli abbastanza forte, qualcuno potrebbe pure sentirti. È questa una delle poche licenze poetiche che Dead Space si prende nel ricalcare pedissequamente qualsiasi stereotipo fantascientifico che vi possa venire in mente. Prendete Aliens Scontro Finale, aggiungeteci le idee di prequel e sequel, mischiatelo con elementi presi da Sunshine, Mission to Mars, 28 giorni dopo, 2001: Odissea nello Spazio, shackerate e condite con un mood che ricorda vagamente Bioshock, senza dimenticare come tocco finale un generico tema religioso scritto in dieci minuti. Assicuratevi però che perculi Scientology. A questo punto il vostro Dead Space è pronto, mettetelo nello spazio siderale e servitelo mortalmente freddo. Strana apertura per un gioco che ha collezionato voti eccellenti un po’ dappertutto. Ed è giusto dire che Dead Space è, in assoluto, un prodotto pregevole che merita di essere almeno provato. Inserito però nel contesto di Natale 2008 - con una valanga di titoli di primo livello a saturare ogni possibile spazio vitale di un mercato che, complici tempi economicamente foschi, conterà alla fine della battaglia un numero di feriti ben più alto del previsto Dead Space non è quel trionfo ludico che sembrerebbe a sentire le recensioni di bocca buona. Quando la scelta è troppo ampia, la soluzione è guardare il pelo nell’uovo, e in questo senso Dead Space è un uovo villoso. Prima di tutto il survival horror di Electronic Arts fallisce clamorosamente sotto il profilo emotivo: per tutto il tempo l’anonimo protagonista Isaac interagisce con una manciata di tristi personaggi di supporto, che hanno l’unica funzione di rappresentare dei distributori umani di obiettivi. L’affiatato binomio giocatore-spalla composto, per esempio, da Gordon Freeman-Alyx in Half Life 2 è lontano anni luce dalle corde di Dead Space. Un’improbabile se-
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quenza di sfighe si trasforma in questo contesto in una grandine di ordini che continuano a far spostare il giocatore avanti e indietro per l’enorme astronave infestata, spesso con il risultato di disintegrare la sospensione di incredulità del giocatore: dopo il quinto tubo che perde da riparare, l’unica cosa che Isaac vorrebbe rispondere al suo superiore è: “Mavaccagare, aggiustatelo da solo!”. È ammirabile l’impegno che il gioco ripone nel farci disinteressare totalmente della sorte del capitano Hammond e di quella della sua sottoposta, che, è indicativo, non mi ricordo nemmeno come si chiama. Picco assoluto della pochezza narrativa di Dead Space è la storia d’amore fra Isaac e la moglie, sfortunata pendolare a bordo della Ishimura. La suddetta, che vorrebbe imporsi come nuova Maria di Silenthilliana memoria, si fa vedere talmente poco, e dice cose talmente fuori contesto o da ‘film de paura’, che alla fine viene quasi da grattarsi la testa e chiedere ad alta voce: “Chi era quella?”. Non mancano delle belle se-
quenze: il vuoto è un’ambientazione innovativa per la quasi assenza di rumori, che confonde più di quanto sarebbe lecito aspettarsi, e in generale ci sono delle sezioni che includono elementi strutturali od organici che non esiterei a definire tecnicamente colossali. L’Ishimura è progettata con senno, e anche se la palette di colori metallici annoia presto, gli amanti di architetture e interni fantascientifici non possono non versare una lacrimuccia ripetendo sottovoce “Escono dalle fottute pareti“. Un grosso dito medio va però innalzato alle difettose stanze a gravità zero: oltre a modificare il gameplay molto poco, è irritante scoprire che ci si può proiettare sulla stessa superficie solo quando il gioco lo prevede. Non è raro trovarsi in situazioni dove è necessario scandagliare con accuratezza ogni possibile spot remoto per capire in quale punto Isaac abbia intenzione di volare, visto il suo immotivato rifiuto a raggiungere agganci perfettamente legittimi. Se il gameplay di Dead Space sostanzialmente compila una
Le situazioni più interessanti di Dead Space sono rappresentate dai momenti in cui diversi tipi di nemici soverchiano da ogni dove lo sfortunato Isaac. Utilizzare l’arma giusta al momento giusto senza sprecare proiettili è assolutamente vitale per avere una qualche chance di sopravvivere
Il menu è in pratica un ologramma proiettato dall’armatura che Isaac indossa; è quindi possibile consultarlo mentre il nostro eroe si muove per gli ambienti come se niente fosse. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla sostanziale impossibilità di accedere all’inventario nei (numerosi) momenti concitati: forse realistico, ma scomodo
check list per assicurarsi di avere tutto quello che un gioco moderno deve avere (surrogato di gravity gun, rallentamento del tempo, visuale alla Resident Evil 4, gore talmente esagerato da dare quasi fastidio), altrettanto non si può dire del clamoroso lavoro svolto nell’interfaccia utente: tutti gli indicatori sono direttamente integrati nel gioco con soluzioni spesso innovative. Menzione d’onore va in particolare alla linea d’orientamento attivabile con la pressione di R3, che sostanzialmente impedisce anche al giocatore più ottenebrato di perdersi nei comunque non troppo labirintici cunicoli della nave. La linearità del gioco è, volendo, uno dei suoi difetti più marcati, poiché rende di fatto
poco attraente un secondo giro: semplicemente, non ci sarà niente da vedere che non abbiate già visto alla prima passata, con l’aggravante di conoscere in anticipo i punti in cui i nemici cercheranno di farvi saltare sulla sedia. Sebbene il sistema di combattimento ‘a smembramenti progressivi’ sia macabramente interessante, e il sistema di upgrade dell’equipaggiamento possa intrattenervi per qualche ora extra, si possono avanzare ragionevoli dubbi sul numero di quelli che si sottoporranno volontariamente ad ulteriori 12-15 ore di ambientazioni opprimenti. Anche in virtù del fatto che già il livello di difficoltà Normale rappresenta una sfida tutt’altro che rilassata. Se Dead Space sarà una trilo-
gia, come il prequel fumetto/anime rilasciato da EA vuole farci intuire e come chiaramente gli sviluppi della trama minacciano, si può dire senza esitazione che questo primo capitolo abbia gettato per l’IP delle basi promettenti. Ma quello che servirà a Dead Space in futuro sono meno derivatività, più spazi aperti (ottimi i pochissimi presenti nel gioco), la stessa cura del comparto audio presente in questo capitolo e qualcuno che possa dettagliare dei personaggi che, anche minimamente, ci importi di salvare. 7
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GEARS OF WAR 2 “ ...abbiamo una sola scelta. Attaccare.” console 360 sviluppatore epic games produttore microsoft games studios versione pal provenienza usa
a cura di Alvise “Kintor” Salice
unta di diamante della line-up Xbox 360, affiancata a quella storica di Halo, la saga di Gears of War riesce, in termini di immagine, lì dove invece l’epopea Bugie - corifeo inattaccabile del primo Xbox - ha incespicato con il passaggio alla generazione corrente. Due sono le cartine di tornasole che raccontano la consegna del testimone. Anzitutto, la capacità di tirare a lucido e incorniciare negli schermi di mezzo mondo i possenti bicipiti della macchina Microsoft: se nell’Emergence Day 2006 Epic aveva fragorosamente spedito all’ospizio i parametri tecnici in precedenza conosciuti, adesso sposta l’asticella ancor più in alto, riconfermando il sistema a stelle e strisce quale mister universo delle console odierne. Il balzo squisitamente qualitativo non è certo epocale: textures un po’ più definite, qualche effetto meglio raffinato e poco altro. È sul piano quantitativo che Gears of War 2 fa il vuoto. Sequenze apocalittiche inondano la scena con cinematografiche esplosioni, formidabili veicoli, mostri gargantueschi, fiumane di creature del sottosuolo. Lo sposalizio fra l’incommensurabile potenza realtime dell’Unreal Engine 3 e quegli eventi appositamente scriptati per ostentarla, permette a questi ultimi d’incastrarsi magistralmente nella dinamica del gioco, regalando picchi di spettacolarità e di abbondanza audiovisiva pressoché irrintracciabili altrove. È uno tsunami di poligoni in movimento, il do di petto della possanza next-gen. L’altro pregio di un confezionamento in virtù del quale Marcus Fenix guadagna le sacre insegne che deteneva Master Chief, risiede nella cura narrativa legittimamente pretendibile in un kolossal di siffatta statura: l’ultima sortita del Capo era raccontata globalmente meglio delle altre due, per l’amor del cielo, ma l’upgrade registico che il mondo agognava era senz’altro ben più
Dopo le car chettata… ...ci sta tutta. un eccellente game design, sul più stupid Dopo aver int opera di un fi sempre prege di far tesoro d di Bungie e de prequel, e ci s uno striminzit è affatto degn aspetti del su ria brava a te nato sci-fi inc a far emozion cone con la so cata a Domin Maria, a sbigo poco impressi doveva far di più, prima de Quel che fa d benissimo...
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integrale e massiccio. Cliffy B non ha lesinato in manuali del provetto sceneggiatore, invece, provvedendo inoltre a fornire i suoi cameramen da scrivania di alcuni doverosi insegnamenti. Sotto l’aspetto dei tempi narrativi, delle pause cinematografiche, delle inquadrature, il nuovo Gears denuncia ancora la sua estraneità al Sol Levante, sì, ma sa raccontare la propria storia, e coinvolgere all’interno di essa, come pochi altri titoli americani. Vi sono momenti che stampano un assai pago sorriso, da quanto profumano di blockbuster hollywoodiano; momenti che, ahimé, solo un rabdomantico affezionato potrebbe scovare in Halo 3. Il nuovo paradigma degli shooter in terza persona è anche un bignami sulla realizzazione dei sequel. Cassare i difetti del predecessore, riproporne con barocca generosità i pregi, incrementare esponenzialmente le situazioni attraverso cui farli fruttare, innestare elementi nuovi con chirurgica maestria affinché l’esperienza risulti diversificata al
punto giusto, così da elevare la bontà di gioco in modo fluido ed omogeneo, senza rapsodici corpi estranei: Epic ha sapientemente sbloccato tutti gli achievements. Andrebbe poi considerato come le fatiche di Blezinski e soci non siano sicuramente state esacerbate dal favorevole retroterra prodotto col primo Gears, tanto abile a presentare un universo ludico ricco di potenzialità quanto restio a sfruttarle con vigore; sarà il terzo ed ultimo - seee…. capitolo della saga a rappresentare l’autentica prova del nove, ma nel frattempo è bene non indugiare troppo su scervellamenti simili. Qui c’è un bendiddio che merita soltanto avide abbuffate. Il meccanismo alla base di Gears of War 2 è il semplicissimo ‘take cover and shoot’ che due anni fa era stato implementato con notevole ingegno, ma non senza tediosi risvolti collaterali. Oggi invece la monotonia è storia antica, grazie anzitutto a un disegno delle scenografie di gioco che non propone mai e poi mai coperture eccessivamente ridondanti, ma piuttosto si sbizzarrisce invi-
Facciamo una bella orda Terminata l’esperienza in singolo in tutti i livelli di difficoltà possibili e immaginabili - ma anche no - verrà il tempo di cimentarsi in multiplayer. Naturalmente mantenute la splendida co-op e le varie modalità versus, c’è oggi una grande novità: l’Orda. In compagnia di quattro compagni d’avventura - ma perché no, anche da soli è un’esperienza… - all’interno di una mappa multigiocatore, si affrontano dieci ondate di Locuste progressivamente più forti e nutrite. Terminata la prima decina si ricomincia daccapo, però a fronte di un upgrade delle doti avversarie (vuoi resistenza ai colpi, vuoi precisione, vuoi danno procurato). E così via fino alla fatidica, cinquantesima ondata. Spesso risultano meno di quanti uno se ne immagini i turni necessari per mutare il sorrisino beffardo delle prime ondate in imprecazione forsennata
rezze, una bac-
. Perché edificare monumento di , e inciampare do degli ostacoli? tessuto la sua ilo narrativo evole, Epic cessa delle leggerezze elle carenze del sbatte in faccia to finale che non no di tutti gli altri uo titolo. Una stoenere l’appassiocollato alla sedia, nare il romantiottotrama dedinique e alla sua ottire anche i ionabili, poteva e più, molto di ei titoli di coda. dopo, invece, va
tando a uno spettro di situazioni tattiche incredibilmente vario. Coniugando un tale pregio alla notevolissima eterogeneità degli avversari, e soprattutto dei modelli di sfruttamento del territorio per mezzo dei quali essi vengono introdotti sulla scena, Epic riesce a bandire le più minuscole tracce di ripetitività dalla sua struttura ludica. Poche, ma azzeccate integrazioni del gameplay sono sufficienti a moltiplicare gli approcci possibili in fase di incursione e di combattimento. Applicare una granata ad un muro strategico, così da impiegarla come mina di prossimità, è una variante inedita che, se fruita con l’intelligenza e la malizia di un soldato scelto, arricchisce in misura significativa l’opportunità di quello che prima era solo un mero ripiegamento difensivo. Il corpo di un Verme dissanguato, in procinto di tornare al Paradiso delle Locuste, è riciclabile come vasto scudo di protezione, consentendo un diversivo talvolta determinante per negoziare una posizione di vantaggio. E allorché le gambe iniziano a far giacomo giacomo, sotto il peso della corposa ferraglia vomitapiombo che ogni Gear si porta appresso, ecco subito goliardiche sezioni a bordo
dei più disparati mezzi di trasporto: dall’edizione anabolizzata di un warthog, con cui danzare su laghi ghiacciati pestando a morte oscenità volatili, ad altri veicoli sia di terra che di cielo - sia meccanici che non - le cui connotazioni sarebbe delittuoso spoilerare ora. Fenix, uomo di poche parole, ma poche parole che contano, approverebbe. Quel che egli dovrà cavalcare, pure… A proposito di warthog: Bungie, depredata spettacolarmente del suo vecchio scettro, ha il diritto di consumare una piccola rivalsa, e di togliersi il suo bravo sassolino. C’è qualcosa di profondamente haloistico nella scienza fruita da Epic per fabbricare la sua Orda di Locuste. Eccezion fatta per i cattivi più grossi, purissima farina del suo sacco, il design estetico e la caratterizzazione comportamentale dei Vermi umanoidi attingono a piene mani dalla scuola che ha inventato i Covenant. Per esempio, l’aura ierofantica della Guardia Theron, che la contraddistingue rispetto a quel Kantus capace di tramortire con la sola violenza ugolare, è armoniosamente sottolineata non solo da un attrezzo elegante quale l’Arco Torque, ma anche da una corporatura asciutta e slanciata che ben si confà
alle vestigia parasacerdotali. E giustamente, d’altro canto, le Locuste più rozze, quelle che impugnano fulminatori goffi ed erratici, si presentano invece con toraci da osteria ed indumenti cafoni. Nulla è lasciato al caso. Le ambientazioni di spaventosa intensità emozionale conferiscono un grado d’immersione fanta-horror ulteriormente elevato dall’ispirazione artistica di alcune apprezzabili chicche cine-ludiche. Ne scaturisce un’atmosfera fenomenale, capace di attanagliare ma pure assecondare l’elevato ritmo di gioco, per una convergenza di tensione ed adrenalina che è l’autentico marchio di fabbrica di questa saga stupefacente. Gears of War 2 è uno shooter, ma anche un action. È la summa sincretistica di Halo e Resident Evil. È un trionfo di potenza tecnica e sapienza ludica. È il punto esclamativo di una softco che ha definitivamente spiccato il volo nel cielo dei grandi game designer. Godiamoci quest’importante, scintillante pagina dell’odierna generazione. Una generazione multiforme, controversa, ma meravigliosa. La generazione del Casual Gaming. E di Gears of War. 9
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CRYSIS WARHEAD C’è grossa crisi
formato pc sviluppatore crytek produttore ea versione pal provenienza germania/ungheria
a cura di Gianluca “Unnamed” Girelli
a scelta di sviluppare Crysis Warhead presso la sezione ungherese di Crytek non è stata delle migliori, sebbene fosse decisamente sensata dal punto di vista economico. Poche le novità introdotte in questo spin-off: i poteri della nanotuta rimangono invariati, mentre – poche - nuove armi, veicoli e nemici si aggiungono a quelli precedenti. Duole purtroppo constatare l’eliminazione della struttura basata su ampie aree a favore di mappe più o meno lineari. A detta di Crytek, si è voluto “concentrare e massimizzare le fasi d’azione“, parole che nascondono piuttosto una scarsa voglia di impegnarsi in un design un po’ più complesso della solita struttura ‘avanza e spara’ tipica di molti FPS. In Warhead sembra mancare una precisa direzione tecnico/artistica, difatti se in Crysis potevamo ammirare sezioni da infarto in grado di tracciare un solco netto tra quanto proposto ingame e un qualunque mod amatoriale, Warhead si limita a pescare dal repertorio originale e a riproporre il tutto in maniera non troppo ispirata. Scellerata la decisione di alterare i parametri di gestione di illuminazione globale saturando l’immagine e facendola virare verso l’arancione, spezzando così le gambe a quello che era uno dei punti forti di Crysis. La tanto paventata ottimizzazione si risolve in una gestione di texture di minor fattura, problemi di LOD e una vegetazione meno ‘compatta’. Il trucco è semplice: una modifica ai parametri di configurazione della grafica… ed ecco alleggerito l’engine! La sensazione è che in Crytek abbiano giocherellato con il Sandbox (programma per la gestione/creazione delle mappe, IA, ecc) limitandosi a modificare parametri come un qualunque modder avrebbe potuto fare. L ‘IA risulta solo relativamente migliorata, i soldati sembrano un po’ più reattivi, ma spariscono gli assalti a 360° tipici del primo Cry-
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sis, sostituiti da ondate - spesso frontali - di gruppi di 3-4 elementi eliminabili senza troppa fatica. È inoltre molto più semplice aver la meglio di alcune tipologie di nemici, come i nano-coreani o il mecha-ragno. In generale, ogni livello di difficoltà sembra essere stato livellato verso il basso. Passi indietro anche sul fronte ludico: fare da scorta a una jeep ignorata dai soldati nemici, aiutare compagni praticamente invincibili o abbattere un mostrone ben poco reattivo sono pecche di game design piuttosto banali. Warhead tenta la strada della varietà, ma le soluzioni apportate si risolvono in sequenze di gioco poco incisive o ‘rippate’ da altri titoli. L’idea della storia parallela era interessante, ma giochi come Half-Life: Oppising Force o F.E.A.R. Perseus Mandate hanno sfruttato decisamente meglio la cosa. Nonostante tutto, Warhead è e rimane - Crysis a tutti gli effetti. La nanosuit continua a fare la differenza, l’invisibilità - a patto di giocare a un livello di difficoltà decente - non è la panacea
di tutti i mali: è ancora possibile approcciarsi al gioco in maniera stealth, ragionata o totalmente sborona. Sebbene affrontabile come un qualunque First Person Shooter, è necessario apprendere bene le proprietà della nanotuta per godere appieno del sistema di gioco. È proprio l’implementazione di questa il vero valore aggiunto: laddove nei ‘normali’ FPS lo scontro è su base fuoco/copertura, in Crysis/Warhead questo concetto si evolve, permettendo approcci decisamente più vari e interessanti. A tal proposito la gestione della fisica è di fondamentale importanza: tutto – o quasi - è regolato da leggi fisiche, al giocatore resta il compito di sperimentare l’ampio range di possibilità offerte. Il comparto tecnico, seppur leggermente al di sotto del precedente titolo, rimane comunque al top, permettendosi di guardare dall’alto verso il basso l’odierna produzione PC e console. Peccato solo che il tutto venga appannato dai difetti riportati poco sopra. Dal fronte online le novità più corpose. Crysis Wars (compo-
BACK TO THE PAST No, non stanno convertendo Crysis per DS! Rilasciato nel 1998, Jurassic Park: Trespasser può considerarsi il vero antenato di Crysis. Sviluppato da ex dipendenti Looking Glass, Trespasser doveva essere il gioco più ambizioso di sempre. A tal proposito fu sviluppato un engine rivoluzionario con numerose feature all’avanguardia, ma soprattutto con una gestione della fisica in-game mai vista prima. Praticamente Crysis con 9 anni di anticipo. Problemi nella gestione del team, uniti alle difficoltà tecniche causate da hardware ancora troppo primitivi, generarono ritardi sui tempi di sviluppo. Paradossalmente, il vero problema di Trespasser fu quello di aver cercato di mantenere tutte le promesse, ma in maniera così approssimativa che il tutto risultava poco giocabile e divertente. Come Crysis, anche Trespasser richiedeva computer quantici per gestire la grande mole di calcoli. Gabe Newell (Valve) e Cevat Yerli (Crytek) si sono ispirati a Trespasser durante lo sviluppo dei loro prodotti.
nente online) diventa un titolo completamente separato. Ritornano le modalità Power Struggle e Instant Action corredate di nuove mappe, mentre novità per la serie è il Team Instant Action ovvero il deathmatch a squadre modalità stranamente assente nel precedente titolo e che tra tutte meglio si adatta alle caratteristiche del gioco. La componente online mette maggiormente in risalto le super-capacità delle nanotute rispetto al single-player: padroneggiare le abilità di forza/velocità/cloak diventa indispensabile se si vuole fare bella figura online. 7
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TOMB RAIDER UNDERWORLD Ancora no!
console pc 360 ps3 sviluppatore crystal dinamics produttore eidos versione pal provenienza usa
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
uando la vidi la prima volta, Lara era un’esploratrice di meravigliosi livelli. Dopo un po’ sparirono i magnifici livelli, poi l’esplorazione. Tomb Raider Legend, checché se ne dica, è stato il punto più basso di una parabola discendente che ha mortificato il cuore degli appassionati. Anniversary, a sorpresa, lasciava intravedere spiragli di luce in un mercato che sembrava inadatto per lui. Underworld si infila tra la leggenda e l’anniversario con carisma e personalità. Con un paio di palle, sarebbe stato un successo. Come una fruit joy, l’ultimo Tomb Raider si ingoia prima di assaporarne la qualità. Dapprima stordisce il giocatore con scenari da applausi e ingranaggi che sembrano infiniti, poi gli fa saltare la corda e lo trascina all’obiettivo successivo. Quello che vedi, in Underworld, non è reale. È bello, tanto bello da pareggiare la vecchia sfinge e il tempio di Shion, ma è carta da parati perlopiù. La complessità strutturale dei livelli è un contentino per gli occhi, ma è niente all’atto pratico. Ogni passaggio va superato in linea retta, senza svolte, solo che il tragitto è così ben camuffato da rivelarsi solo a missione compiuta. Ed è un peccato, perché il dj c’era e la musica pure, solo si è scelto di guardare la tv. La stessa moto, semplice come un castello dei Playmobyl, si limita a scorrazzare la donzella per tragitti troppo lunghi da affrontarsi a piedi. Come un autobus, come la metro, la moto non è parte del gioco, è un mezzo di locomozione. Le novità, a dirla tutta, non mancano. Il sistema di combattimento, per esempio, è ora figlio dei giorni nostri. Peccato sia figlio di nessuno. Gli animali hanno comprato una vocale ed un cervello, infatti, si arrampicano ovunque e seguono la protagonista con grinta e determinazione. La loro tenacia scongiura i punti franchi del passato, quelli a dieci centimetri da terra, quelli dove si potevano uccidere tutti con le pis-
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tole. Gli umani restano gli schiocchi di sempre, invece, gentaccia da colpire a calci in faccia senza aspettarsi la minima reazione. Sono un tradizionalista, lo ammetto, ma cominciano a rompermi il cazzo. E infine il corpo mortale rallentato, quello che sblocchi riempiendo la barra dell’adrenalina, è ora manuale e non automatico. È impossibile sbagliarlo, ma è manuale. Sticazzi, si combatte poco. Sarebbe un disastro vero se Lara non si mettesse a saltare. E quello lo sa fare, lo sa fare meglio di prima. Scippato il salto parete al baffuto idraulico, la signorina Croft si diverte con i suoi nuovi movimenti. Roba da riscrivere la storia della saga, come il poter sparare mente si è aggrappati ad una sporgenza. C’è commozione nell’aria, quei fottuti pipistrelli hanno smesso di rovinarmi la vita. Apprezzabile la volontà di nascondere il percorso da seguire nello scenario. Una rapida occhiata non traccia più la miglior soluzione possibile. Quattro salti e un piccolo sguardo sì, lo fanno comunque, ma è lo stesso un grande passo per l’umanità. Due le brutalità che invogliano a spaccare il disco. La prima sparpaglia segreti e artefatti ovunque, sempre nascosti nei vasetti, in quantità industriale, quasi sempre in mezzo ai piedi. La seconda scavalca checkpoint senza averne meritato l’accesso. Capita, e capita troppo, di passare alla fase successiva dopo essere morti. Perché il gioco non ha memoria, è stupido, e se ti spacchi le ossa su un terreno, e da lì che ti farà ripartire. E no, non si può fare così, non è giusto. Guardo questo Tomb Raider Underworld e mi piangono le ginocchia, perché c’era finalmente un gusto estetico d’altri tempi, c’erano i livelli enormi e le ambientazioni azzeccate, C’era tutto per un grande Tomb Raider, si è scelto di scommettere due soldi solo sulla sua anima di platform. 7
Eidos ha annunciato contenuti aggiuntivi a pagamento esclusivi per Xbox 360. A giudicare dalla durata del gioco, 6/7 ore al massimo, vien da pensare che li abbiano scippati all’avventura principale
360 ps3 pc
FAR CRY 2 Africa ciao
console pc 360 ps3 sviluppatore ubisoft montreal produttore ubisoft versione pal provenienza canada
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
Africa è un paese povero, disperato, affamato, dissanguato da guerre civili senza futuro. La sua povera gente non ha medicine, fatica a trovare il cibo, ed è costretta a sopravvivere con i pochi frutti che l’arido terreno è in grado di offrire. Con quelli e con le jeep a torretta. Più di Torino, l’Africa di Ubisoft è la patria dell’automobile. Può mancare tutto in Far Cry 2, anche l’acqua, ma una quattro ruote armata non la si nega a nessuno. È solo il primo smacco alla credibilità generale che questo gioco mette in campo. Se provi a riempirti i polmoni del suo universo, non vedrai che trame raffazzonate, gang rivali vicine di casa e rigide regole alla Assassin’s Creed. Far Cry 2 ti vuole in città per andare avanti, ti vuole al bar per incontrare amici, ti vuole nei rifugi per dormire, ti vuole sotto un’antenna per farti uccidere qualcuno. Dopo un prezzo d’ingresso salato, con le morti continue a ricordare la calma, si controllano gli schemi e si acquisisce il giusto passo. E solo allora Far Cry 2 ha finalmente qualcosa da dire… Tre cose si fanno per tutta l’avventura: distruggere obiettivi, uccidere obiettivi, raggiungere gli obiettivi. Tranne in rare occasioni, tralaltro, le missioni si specchiano l’una nell’altra. Arrivi, uccidi tutti, te ne vai. Come in un FPS qualsiasi, come se una mappa tanto bella e grande fosse lì per fare presenza. Ma è nel viaggio tra i mille punti A e i mille punti B che si nasconde la polpa vera di questo titolo così particolare. È nella turistica scoperta di nuove zone e nuovi rifugi che nasce un piacere mai intenso ma regolare. E pure qui si devono chiudere tre occhi per accettare i compromessi ludici di un insieme che sembra non avere senso. Perché tutti vi sparano solo a vedervi, da lontano pure. Perché alleati e nemici attaccano con la stessa tigna arrabbiata, senza preoccuparsi mai di quello che state facendo e per chi lo state facendo. Perché giri la testa, muovi tre passi e ti
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ritrovi una famiglia di neri respawnata nella casetta appena pulita. Perché i cervelli artificiali mostrano le spalle, si calano le braghe e poi ti cecchinano da venti chilometri nell’oscurità. Far Cry 2 è una storia che non funziona, quasi mai, ma è lo stesso un gioco incredibilmente divertente. Quando ti stufi di dare una logica alle mille relazioni politiche e sociali dei suoi distretti, infatti, puoi cominciare a sperimentare con un ambiente ricco di appaganti possibilità. Lo stesso obiettivo può essere raggiunto a piedi, con una macchina di lato, con una barca alle spalle e pure dall’alto con un deltaplano. Combinando gli ingredienti, si ottiene una formula varia e soddisfacente, capace di sopperire al game design spesso solo accennato. Ma Far Cry 2 è un’esperienza meno rilassante su console. Il PC, oltre a caldi effetti di luce su un altro pianeta, offre save point a basso costo, gratuiti anzi. Laddove i giocatori boxari e sonari dovranno cercare rifugi o altri punti d’interesse, il maschio cazzuto con 2 GB di ram si limiterà a rallentare la velocità d’andatura della proprio auto. Si perde il gusto per la caccia al rifugio, sostanzialmente inutili su PC, ma si evita pure di arricchire le casse dell’Alpitour. Perché quando si muore in Far Cry 2, si muore all’improvviso. Perché ci si scorda di doparsi con una delle tante siringhe a disposizione, perché uno stronzo ti falcia con un mortaio di precisione, perché la jeep ha preso fuoco e dalla sua torretta vedi solo l’orizzonte. Un giorno i videogiochi racconteranno l’Africa Addio di Jacopetti e Prosperi, quella che uccide la sua gente e la lascia per strada a riempirsi di fango, con meno sufficienza e più attenzione. Forse un giorno non dovrò farmi bastare un ottimo gioco, e potrò avere anche una grande storia. Per ora no, continuiamo a giocare. 8
La prima patch (solo per PC) di Far Cry 2 doveva includere nel gioco tigri e leoni. Io non li ho mai incontrati, ma una zebra mi è finita sotto le ruote della jeep. Non è stata colpa mia, però, lo giuro
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FALLOUT 3
Il circo è morto
formato 360 pc ps3 sviluppatore bethesda softworks produttore bethesda softworks versione pal provenienza usa
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
e un giorno il mondo verrà distrutto dalle bombe atomiche o dai reality in prima serata, sarà un mondo a specchio di quello costruito per Fallout 3. La gente per bene vive nei Vault, bunker a prezzi modici. La gente per bene muore nei Vault, bunker senza via d’uscita. La gente per bene, insomma, si chiude a guscio in un’esistenza rarefatta, pagliaccia, meschina. È così per il protagonista, prima che la realtà lo spedisca a calci in culo nel mondo reale, quello che ne resta quantomeno. Dopo un ispirato tutorial che regala spettacolo e non insegna nulla, il giocatore è costretto a muovere i primi passi in un territorio più che desolato: morto. Il palcoscenico di Fallout 3 è fatto di interminabili silenzi, acqua inquinata e deserto, tanto deserto. A differenza di Oblivion, le subquest non ti saltano addosso come cavallette impazzite, ma se ne restano al loro posto, tranquille. Per trovarle occorre la pazienza. Nel vuoto desolante tra un paesello e un supermercato abbandonato, infatti, si nascondono più scherzetti che dolcetti. Le prime cinque ore sono un manuale interminabile di schiaffi in faccia. I nemici sono troppo forti, troppo resistenti e stuccano il protagonista con l’abilità millenaria di un muratore valdostano. Una lezione di vita che non si dimentica, nemmeno dopo trenta ore di gioco e con la difficoltà che si fa più mansueta. Se togli l’auto equilibrio di Oblivion, infatti, ti ritrovi con Wario al primo livello e una tartaruga a due passi del finale. Più realistico, non c’è dubbio, ma il bilanciamento ha reso grande il videogioco, la sua assenza non deve essere per forza motivo di festa. Fatta la pace con la pessima interfaccia e un Pip-Boy 3000 più grande del necessario, Fallout 3 comincia a funzionare veramente. Assimilati i meccanismi, il passo si fa svelto e la morte diventa solo una giusta punizione per gli errori. Ma è quando tutto viaggia a
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regime, che il gioco si piega a novanta davanti alle critiche. È come giocare a Dungeon e Dragons: a volte non basta vestirsi da gnomi per entrare nella magia. Qualcuno riuscirà ad incastrarsi nella trama, è innegabile, ma qualcuno ama anche gli ornamenti in lattice. Bravi a loro, per carità, ma non possono far testo. I 300 personaggi della ricostruzione post-atomica, recitano con la verve di marionette impalate. Se la voce in italiano fa spesso il suo dovere, è l’animazione standard a mortificare l’esperienza. Se non riesci a chiudere gli occhi su tutto quello che gira al rovescio, ti ritrovi fuori dalla fiera rinascimentale. E dall’esterno tutto è follia, errore, quasi bug. A partire dai dialoghi soporiferi, dai comportamenti instabili di alcuni comprimari fino alla freddezza con la quale si superano momenti di feroce drammaticità. Se non hai gli occhi di bambino e non sei un nano, insomma, nel mondo fantasy di Fallout ci sguazzi fuori dall’acqua. E pure il sistema di combattimento, fratello gore di quello visto nel predecessore fantasy, è un concentrato di compromessi e banalità. L’FPS che è in lui non funziona, è rotto, guasto, inutile. Pure dopo aver appreso l’abilità del ‘più meglio killer del quartiere’, sparare è un’azione da evitare. Meglio il giochetto rallentato, più funzionale ed efficiente. Peggio il corpo a corpo, tra il comico e l’avvilente. Nel complesso, dopo dieci ore sulle spalle, non si comporta nemmeno troppo male, ma sull’altare del godimento si saranno già sacrificati parecchi santi. Fallout 3 prende un’atmosfera incredibile, la infila in una mappa enorme e altrettanto esaltante e la riempie con un gioco che puzza di Oblivion a chilometri di distanza. E Oblivion è vecchio, andato, superato. Il circo moderno è tanto bello, ma se non infili la testa nella bocca del leone ti devi arrangiare con troppe ore di pagliacci e trapezisti. 7
Il gioco è selvaggiamente violento. Pur se ben contestualizzati, però, ho trovato eccessivi ed evitabili i corpi smembrati in mille pezzi che accompagnano l’esperienza. Davvero non se ne poteva fare a meno?
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COLD WINTER
E’ meglio di Killzone!
console ps2 sviluppatore swordfish studios produttore vivendi universal versione pal provenienza uk anno 2005
a strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. La strada per portare Halo su PlayStation 2 no, è un ingorgo autostradale sulla A1 a poche ore da Ferragosto, dove la migliore delle intenzioni è stata una partenza intelligente. Sono tutti venuti, hanno tutti visto e sono tutti finiti in coda. Qualcuno, però, si dev’essere fermato la sera prima, con la macchina ancora da riempire, e deve aver ragionato un attimo sulla situazione. Forse l’A1 non è poi una grande idea, si devono essere detti, forse Halo non è affatto il miglior first person shooter che ci sia. E allora, se copiare dobbiamo, che sia dal migliore, no? Questo qualcuno sono quelli di Swordfish Studios, che oggi si sono ridotti a sviluppare 50 centesimi di concime perché, nel 2005, nessuno aveva capito che la via non era Halo. Era Goldeneye. Ma Cold Winter non verrà ricordato, del resto è dal 2002 che al cinema nessuno chiede un Martini e manca ancora un anno a Casino Royale. Le spie non se le fila nessuno nel 2005 e per la maggior parte dei videogiocatori là fuori, Andrew Sterling può benissimo rimanere a marcire dentro una prigione cinese. Basterebbe fargli riaprire gli occhi una sola volta, invece, per capire quanto sia davvero inutile che il Martini sia agitato o mescolato. Qui fare la spia non vuol dire essere suave, immobilizzando le guardie nemiche dopo avere magari ascoltato delle storie di loro vita vissuta. In Cold Winter trascini prima e ribalti un tavolo poi, ti ci piazzi dietro e in una fontana di sangue – con reazioni muscolari degli sventurati corpi che per un attimo ti fanno controllare di non avere in mano un sixaxis - inizi a trivellare di colpi le guardie. Decapitandole, azzoppandole, facendole saltare in due o tre pezzi con un esplosivo da voi stesso assemblato. Oppure potete sempre tirargli lo stesso tavolo. Peccato che quando deciderete
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di lasciarvi dietro il lettino o qualsiasi sia l’ultimo riparo che vi siate portati appresso fino a lì, arrivi anche il primo schiaffo. Non da un nemico, però, ed è proprio questo lo schiaffo. Sparano tutti peggio di un idrante sotto crack. Tanto che viene il dubbio se, alla fine, a questo livello di difficoltà ‘normale’ non mancasse una ‘a’. È troppo tardi, però, quando a metà gioco un evento del tutto inaspettato ti apre definitivamente gli occhi. Sei morto e no, quello era il bottone per sganciare le granate. Non ti resta allora che annotarlo fra le cose negative – d’altronde la più scialba fra le direzioni artistiche iniziava a sentirsi un po’ sola - e guardare oltre. Dovrete farci presto l’abitudine, a guardare oltre, ed è proprio quello che farà anche il vostro avatar, a seguito del secondo di schiaffo: una fra le più perfide e inaspettate evoluzioni di trama che questa industria ricordi. Grazie, Warren Ellis. Ma è tutta la trama ad avere la marcia in più, a partire da un doppiaggio originale da pelle d’oca, con quel patrimonio nazionale britannico di Tom Baker alla narrazione e un Nathaniel Parker che re-inventa Bond con un anno di anticipo. Passando poi per uno sviluppo narrativo atipico, con la sempre benvenuta storia parallela apparentemente disconnessa dalla corsa contro il tempo del nostro Sterling. Quando infine tutti i tasselli del puzzle saranno al loro posto, le giuste note composte da Mark Willot accompagneranno un’ultima dissolvenza in nero che vi libererà dalla sedia e vi farà portare le mani alle guance. Quei due schiaffi fanno ancora male. Cold Winter è meglio di Killzone, strillavo con ricercato gergo ‘fanboyesco’ in apertura. Così è, d’altronde. Ma si consolino in quel di Guerrilla, Cold Winter è anche il miglior first person shooter che PlayStation 2 si sia mai voluta concedere. Punto. Su PlayStation 2. Appunto.
UNDERRA TED
a cura di Giovanni “Giocattolamer” Donda
Se crei una nuova Intellectual Property, di solito speri pure possa avere un seguito. Chiamare il primo episodio “Cold Winter” è un po’ un autogol. A meno che “Hot Summer” non ti sembri un titolo ancora più accattivante
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# a cura di michele “guren no kishi” zanetti
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isto che Babel lo stampate in ufficio e a star dietro a tutti i titoli da me giocati, in termini di numero di pagine, farebbe girare troppe teste, da questo mese nasce Time Waits for Nobody. Quattro episodi per smaltire la mole di uscite, garantendo così un mix di passato, presente e futuro… quello del vostro lavoro!
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DISGAEA 3
enza indugio iniziamo con Disgaea 3: Absence of Justice (PlayStation 3, ntsc/uc, region free, Nippon Ichi Software, NIS America). Finalmente il boilerbistecchiera riceve un po’ di amore nipponico sotto forma di strategico. D3 è un ritorno alle origini e un nuovo punto di partenza per futuri sviluppi. Lasciata da parte la storia abbastanza deludente di D2 si ritorna a una trama fuori di testa come non mai, con un cast più piccolo ma meglio trattato. Risate garantite. D3 è ambientato in una scuola demoniaca, dove i demoni che non frequentano sono gli studenti migliori e quelli che vanno a lezione sono considerati i peggior delinquenti del Netherworld. Siccome siamo a scuola, l’assemblea oscura cede il passo a l’assemblea di classe, da dove intraprendere le classiche azioni: creare personaggi, passare provvedimenti per migliorare le armi in vendita, rinforzare i nemici, sbloccare livelli extra e così via. È ovviamente possibile corrompere gli insegnanti prima che votino e nel caso la proposta non
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ra un sacco di tempo che Rondo of Swords (Nintendo DS, ntsc/uc, Success, Atlus Co.) mi osservava dalla mensola con la pila di giochi da scartare. Non ne avevo sentito parlare molto bene, e vista la peculiarità del titolo non me ne stupisco. RoS è uno strategico a turni che presenta molte scelte che faranno storcere il naso ai più. Se però riesce a prendervi vi ostinerete a portarlo a termine cercando di vedere tutti e quattro i finali - grazie tante per i soli due slot disponibili, eh. Graficamente discreto, RoS vi mette nei panni di un principe impostore in fuga e della sua progressiva riconquista dell’impero che si è dovuto lasciare alle spalle. I campi di battaglia sono perennemente divisi da una griglia su cui poter controllare il movimento possibile dei propri compagni. Appena si cerca di spostare il cursore partirà una frecciona bianca che seguirà i vostri movimenti. Confermato il punto di arrivo, il personaggio vi si sposterà attraversando i propri compagni, facendo incetta di bonus (più attacco, recupero HP, più difesa, etc.)
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passi si può sempre pestarli. Nelle scuole nipponiche esistono vari club, e questo D3 non è da meno. Gli effetti di appartenere a un club sono molteplici, come più esperienza guadagnata o la possibilità di rubare il Mana dei propri compagni che necessitano di essere seduti vicini al capo club. Le skill inoltre si potenziano per range ed effetti tramite Mana e non più tramite l’uso ripetuto. Uno dei club permette l’accesso a una novità nel sistema di gioco di D3. Mentre è ancora presente l’Item World (scegliete un oggetto e ci entrate dentro per potenziarlo, con tutte le varianti e le implicazioni del caso) anche i personaggi possono essere trattati come degli oggetti. È quindi possibile entrarci dentro, scegliere quale delle loro caratteristiche potenziare e farsi strada tra vari Stage a generazione casuale. Un bel modo per dare un boost in più ai personaggi e l’unico tramite cui far imparare a Mao (il protagonista) altre skill che non siano le sue; Mao non può reincarnarsi in classi diverse. L’obiettivo è sempre quello di creare il personaggio perfetto,
quello le cui statistiche siano una sfilza di 9 e che possa triturare l’impossibile, boss opzionali compresi. Le battaglie funzionano come nei vecchi episodi, con le solite caratteristiche come Geo Panel, Lift & Throw e così via. Il fatto di essere sviluppato su PlayStation 3 ha permesso la creazione di Stage più articolati, ma la grafica degli sprite ne risente tantissimo sembrando una PS2 un po’ sgranata. Anche D3 è colmo di segreti e assicura le solite dozzine di ore di gioco. Ammesso che accettiate la consueta ripetitività di base della formula Nippon Ichi.
RONDO OF SWORDS e nel caso vi siano nemici in mezzo li attaccherà. Esatto, i personaggi per attaccare non devono portarsi in range nemico e selezionare ‘attacco’, ma passargli attraverso. Cercatevi qualche video dimostrativo. È possibile colpire anche dieci nemici insieme, oppure colpire e ritornare sui propri passi etc. Le strategie sono molteplici e vi ci abituerete presto. Arcieri e ninja si comportano invece come in tutti gli altri giochi. I maghi necessitano prima di essere portati in range e al turno successivo possono usare le loro magie. Notevole il numero di comprimari (una ventina) così come è notevole la facilità con cui si possano perdere per strada. Molti vanno sbloccati parlandogli in certi momenti con i personaggi giusti; altri se ne stanno in stage segreti che da soli non capireste mai come sbloccare; altri ancora rischiano di essere ammazzati prima che possiate fare qualcosa. RoS non perdona: una tattica sbagliata porta al game over, i nemici sono sempre presenti in maniera soverchiante e il power levelling è quasi d’obbligo. La fun-
zione ‘quit’ in battaglia è una manna del cielo, vi permette di ricominciare lo scontro (o abbandonarlo) tornando alla schermata di formazione del party tenendovi tutta l’esperienza guadagnata. I punti spesi nelle numerose abilità di supporto non possono essere ridistribuiti. Sbagliate qualcosa e sarete costretti a portarvi dietro tecniche inutili fino alla fine. Molti dei personaggi possono cambiare di classe (alcuni anche due volte) a patto di essere al livello giusto e di avere gli oggetti giusti. Cambi di classe, side quests, shopping e allenamenti vari impongono che il personaggio sia occupato fino alla fine della battaglia successiva. Alcuni scontri sono male pianificati, altri vi impegnano per decine di minuti, sfiancandovi. RoS è un gioco per certi versi sadico e massacrante. I finali fanno pure schifo. Insomma, provatelo prima di decidere se comprarlo. Se vi piace sarà la vostra fine: dovrete essere voi ad avere la meglio.
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eni len Brother Sega). disastro calmen problem sign so pennino (di una scherm liari di dove ri battagl stress e lentam potevan siano c ‘velocit ibili sul scherm
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CASTLEVANIA ORDER OF ECCLESIA F
inalmente è disponibile Castlevania: Order of Ecclesia (Nintendo DS, ntsc/uc, Konami). Terzo splendido episodio per DS, con finalmente una protagonista femminile. Shanoa non solo è una bella manza: come lead character ci sguazza. La struttura dei livelli è come quanto visto nel precedente Portrait of Ruin. Vari scenari separati tra loro, alcuni brevi, altri più lunghi fino ad arrivare al solito castello di Dracula dalla grandezza più che rispettabile. Tra voi e il signore dei vampiri si frappongono qualche centinaio di piattaforme, salti, doppi salti e una nutrita fauna locale da sterminare. Oltre a un bel po’ di boss, alcuni di dimensioni notevoli. Ecclesia è più impegnativo dei predecessori, ma una volta trovata la giusta combo di attacchi nessuno vi si potrà opporre. Il sistema di gioco questa volta si basa sulla capacità di Shanoa di assorbire dei glifi sulle braccia e sulla schiena. Questi vanno fatti propri in varie situazioni: dopo la rottura di particolari statue, alla morte degli avversari, mentre ne fanno uso o dopo aver risolto particolari ‘enigmi’. Se ne possono portare ap-
presso tre contemporaneamente, uno per braccio e uno sulla schiena che elargisce varie abilità di supporto. I glifi sulle braccia possono essere usati alternativamente per dar vita a combo micidiali (ogni uso diminuisce gli MP, che si ricaricano poi a velocità enorme quando non fate nulla), oppure sotto forma di Union, se compatibili (possono essere glifi dello stesso tipo, dello stesso tipo ma di livello diverso, oppure affini). Ogni Union consuma vari quantitativi di cuori rimpinguabili nel solito vecchio modo. Ecclesia è pure bello longevo, anche grazie a parecchie Side Quest che gli abitanti del villaggio non si faranno remore a propinarvi. Tecnicamente spreme il DS come un limone, musicalmente Yamane Michiru e Ichihashi Yasuhiro se la cavano egregiamente, ultra giocabile, piuttosto longevo e con uno sproposito di oggetti e segreti da scoprire, Castlevania: Order of Ecclesia è un acquisto obbligato per chiunque apprezzi i Videogiochi con la V maiuscola. Ottimo anche l’adattamento, al contrario di qualche altra software house che sembra voler fare la furba.
ONIC CHRONICLES
iamo ora al porcospino blu per eccelnza con Sonic Chronicles: The Dark rhood (Nintendo DS, ntsc/uc, Bioware, Sega e Bioware, Sonic e RPG. Un mezzo o. Graficamente impressionante, musinte orrido come non mai, afflitto da mi di giocabilità nonostante il level deopraffino. Tutto il titolo è gestito tramite o. Tutto. Dall’avanzamento dei dialoghi a storia poco ispirata), alle azioni su mo che implicano l’uso delle abilità pecuciascun animaletto nei punti degli stage ichiesto, fino alla selezione delle voci in lia e al movimento sul campo. Uno enorme. Sul campo i pelosi si muovono mente per poi prendere velocità - ce lo no risparmiare - peccato che le Zone così piccole e compatte che ‘correre’ e tà’ sono parole grosse. I nemici sono visllo schermo e incrociandoli si passa alla mata di combattimento. La difficoltà del
gioco è totalmente a vostro sfavore. Più vi potenziate, più i nemici si ingrifano e meno esperienza ricevete. Subire un massacro quasi unilaterale per cinque minuti di fila per dieci miseri exp è una presa per il culo, considerando anche quanti dei vostri attacchi andranno a vuoto: uno sproposito. Gli equipaggiamenti comprati, con buona pace degli anelli raccolti, non servono praticamente a nulla. Molto più efficace equipaggiare il Chao giusto per ottenere poteri elementali o varie difese. In battaglia si possono usare varie tecniche speciali, peccato che costino troppo rispetto ai punti a vostra disposizione per usarle. Inoltre tutte devono essere portate a termine eseguendo specifici movimenti del pennino. Sbagliate di un paio di millimetri ed ecco fallire la tecnica del caso. Bestemmie volanti ovunque. Sperando che questo Sonic non abbia mai un seguito, passiamo oltre.
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RHAPSODY
uesto mese il ciclo si chiude tornando a parlare di Nippon Ichi Sofware e NIS America. Nel numero scorso di Babel vi siete beccati la recensione di Rhapsody: A Musical Adventure. Ora, non sapevo minimamente che alla fine del gioco ci sarebbero dovuti essere dei contenuti extra, tra l'altro sbandierati pure nel sito americano del gioco. Molte persone non gli hanno sbloccati pensando che fosse un glitch di qualche tipo, considerato che altri avevano sperimentato improvvisi blocchi delle cartucce. Interrogati sul fatto, NIS America ha risposto di non trattarsi affatto di un glitch, ma che i contenuti extra di Rhapsody non sono stati resi accessibili volutamente perché non localizzati. In compenso il sito web è stato tradotto paro
paro da quello nipponico e lì è rimasta la voce elencante gli extra. Nessuno se ne è accorto e nessuno l’ha rimossa. Considerato quanto NIS America sia una delle migliori compagnie di localizzazione d’oltre oceano stupisce una tale scelta, più in linea con i disastri cui è solita combinare Namco (per non dimenticare: il massacro subito da Ace Combat 3 nella sua versione occidentale, il doppiaggio a metà di Tales of Legendia, i tagli, cambiamenti e censure varie nei tre Xenosaga). Al momento sembra non esserci alcun modo per accedere agli extra. Il prossimo mese: Valhalla Knights 2, Ketsui Death Label, Thunder Force VI, Dokapon Kingdom e forse qualcos'altro.
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l’ho , non er artita proprio p p a ’ultim . Magari rete, opn u r pe ata o ense zare contr mezz ondo, p men- ancora in o giocan a via di cc io a r r p n n a o u n r e é c’è é sta ua, p iubba riesc re al a ch e è perch ne non recchie o asa s n io r a e in c La dolce gamer, m ro u is r p e p v a s r d le s e te mo i op n fo pro ndo. così, acco che la arei sess titute no a di più d gioca prezzo il ssata. E di oa t r F s is s o o . p is e r c e e r e d ea p n r e r e , s t t a a n id n s t le i o c in e io e c e e t i id da nger nque n’altra, d rdo e in- giorno s i dec uropa, blima tagione d guar e ma comu u n Su ld’s s su s E pare attuta e uesto as in pochi ì care McDona nche in . rbaria seconda a l’onda s p a o a c B a b e q oglio he della ry, cavalc chi. Vi ho tra una nche lei e che chiava. È adesso s domicilio quando v ir e r d t e a i o s io il e til e e g dio e r e r i u h e o t e s a r m n T e t n s v I a t o ro pa vid ag o. ic me ort sme Big B enza da erie, e d atica- p ntile gioc completa MORPG, no fi- p osso ma p o i M n bisog ipend i questa s parte pr me- fa uti ne è n d a ? a n u e o ll e zio er no de iù s od min Poss e fun enti com Vuoi ess arlat faccia io. Per i p ORE s sì ch . già p iochi ne L’AM isod i che non bel, co vello 2 e e il 3 oi farlo. r g p e e o g e i AH, n n u li z a g p l iu – vid n B o a g o e i 5 r g ri d e in li st di ra ome sei, ment i, e per g chi nume fretta. sico ic c t in glio d in e i mora letto i ve pitolare t m a e r u a o OOB ic la n ue di r han due IN’ N on, d iamo utto un FUCK – in cerch rd e Sheld a sopratt e 3 siem a Leon e cosa (m vivono in . Tutto h a ina , qualc idi nerd) Pasaden e di vag d di rta zion a r p o p splen amento p una nell’a rt ando a vivere ny vuole appa n ia qu e camb di andar l loro. Pe ameriera a c e decid di fianco ora come ndere un o e v t c la n c e a , e m ic sa non l’attr fare rattutto, p o s , e ne. ualo onli ato q sciut a me pc. segn iù possio in n E o a d c ih il p NLIN e ho o voluto o inrché, ita m tano n donn IPÌ O ridat e la v enere lon giochi. Pe mbrerà ante onne han l’hanno ma è 1–P u Ma s t o e Q i e s d vi vid i ,è te d no, i i me cosa iubbi dai mpo che rmentarv Quan sso e po più o me i spara a n te o s e olo s Nessuna, ficile se nei bile i lasso di ranno a t ande che s n m e o li dif e o. per u , cominc ande. Do n minim dietr ente più vece, ch e nei loca a u o he in ertam ti. Pare, chi più ch adescat infinit upide dom osta con mande c c p t r o is ne con s ebbero ris izione, d er esem error G si rimo enny vie lo scienil t p P P r ed altà e MOR Proprio r entre trove ienza e d i. Penny, svegliare M a y. i z po) m ro (in di pa iscono m persino d tare una , per ga sco figu del grup l suo y lo fin uis e de rone Penn non mett per conq un p da un imorchio tasy i per a mia r e fan di avere isogno d o t n ia la pio, s Sheldon penso all iù di 100 z e b ro tapisc sta le aver di p tretto a a. E pove calpe È lì che c apisce di online tra gino s spad . c i i o r cola grasso cu stato co rare il , d e c o o ic t h t o io p t c a g m lì un ripa ri sia i gioc ne o salo a, è timoris che è come ie cale per 60 amino el su ione onli blem o. Perché e con l’u goffi, fas n o t s a s 3 u i s a i aiut n le donn e. Sono tto pegkg, e e piani d quanto i acchi la è sed lunga se tasy dell d n o it t e t tr if co er fan misSheld per una apete non gli a a loro. fare tano cco di lat usto e, d ORPG re la he to 60. S lp e pron alche MM comincia occupa c n blo i cattivo g impatici. suo 3 rsi, ma s meno co u i u s e e m d I o con q . Prima d ldon si pr no prepa episo ION romp non è ne diosi, si credon ra e è un iove, CICC re, tion pina, malo però, Sh agni abbia “Va fatto TTI p io s a i U g c m R li n , b p LO B n Su uesto no a con il sione suoi com a adatta: mo la ve N SO q e e r rbaria i – NO e Ba tente, su non in lin eory non zzatu icontrollia tore onlin tutti h e 4 r T t t r r a h ia e l’ e , T t c g o r iv n o t g io o t d e g n c ia f ra ei cli a c i m dio d’un olo a oluta on Big B la forza d di r ogn à tutto Ecco, pe esto picc bbligo. N r a ass lla serie. it n c m o a c ”. ’o e qu de cap chi , scica rispetti, ere d pettare p di resto i videogio ta con le puntata i s e ess sta con tta e c che s dovrebb gio che a enticato in a u a r r t a Q o g im a. serit ma li ene. ment nte di pe che s’è d tafortun ché, onosce b essere in nza appa ie o ose be la di li c a por e r t b i a c’è n qualcun s a e id h f r iv v c ie t a is i aF ti tti e, po telev é sfiora che minu ttire la su tti costre sto in un invec si serie erch icienza e u alsia luogo. P f inghio siamo t killano pr f u u Life, q s re i d for uori essa Eppu quando c rire f con la st Grounde zioni già a a i s lcor gioch o visto in mi e situ tutti gli fficia d. is m i yèu roun abbia chi tecnic erenza d davvero Penn co. Il RINO . o A t C t o io iff a a p g f A d e l n R è a id e o derle B d , c n a co M e lo a n r t io E o a a r g S S a t i . 2– Ma il una drog questa s on voler viste ono brav n e o s ment si è fatt e sembra vero, c’è altri, ili. o è mond eogiochi, i. Perché ato un credib a id lt omb dei v berare m he ho sa T a la e li c r sene na volta per gioca e per ore u r s stata di scuola rimanda a in Gear o so st giorn 2, e pos una locu gente che r z e Raide er segar ta questa i e sociali p a tut pettinars cena m , 2 ar varsi, of W e di la mett re la s e li g co a rac e a farla etto costr ri di casa è n o uo Sheld Penny f ra pove
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