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101101000 – Claudio Grilli

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pROJECTrING 101101000

aPRILE2003

101101000__________________________________ [Cover Story]

::sOMMARIO:: rUBRICHE (r)UMORISMO Shinobi mE nINTENDO RetroBottega tESORI sEPOLTI Brave Fencer Musashi kAKKA bANZAI Racconti Indecisi sEGA sAGA Smilebit iL dAVIDE Il Davide Cinque pEOPLE John Hare fRAMES JRPG e l’ottava… In Nomine Ludi Strati Cittadino del mondo GameWood Babylonia iNDEPTH The Sims [Versus] Soul Reaver rECENSIONI Jet Set Radio Future Contra S.S. Primal Panzer Dragoon Orta Burnout 2 Surveillance Denki Blocks!

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.03 .33 .34 .36 .39 .44 0 .42 .00 .05 .07 .07 .09 .15 .00 .17 .20 .00 .21 .22 .24 .27 .28 .29 .31

Questo mese Ring propone la recensione del tecnomontato Primal. Un grazie a Cristiano Bonora per l’impegno, e un grazie a chi lascerà sullo scaf-fale questo prodotto… Alle pagine 28 e 30, invece, è guerra aperta tra sostenitori e detrattori di The Sims: La vita in diretta. Paolo Ruffino e Fe rruccio Cinquemani dipingono concezioni simiotiche pericolosamente divergenti. E meravigliosamente complementari…

I modi di vedere non restano sempre uguali a se stessi ed è generalmente un bene che sia così. Il movimento è fertilità, laddove l’inamovenza è invece segno di un fare improduttivo, sterile e vuoto. Il VG, già lo si diceva, ribolle e si reinventa di continuo. L’altro ieri il personaggio principale dell’espressione videointe rattiva era nel One-Man-Game e nella forma del gioco sviluppato da un solo geniale autore, intento a dar vita a precedenti di storia videoludica e ad inserire, nascostamente, il proprio nome all’interno del gioco (chémmai gli editori vollero che si ringraziasse l’autore in luogo del munifico produttore). Anni dopo, il VG è saldamente ancorato fra mani capricciose e unte di marmellata, Mario prende a calci il topo di casa Disney e ingaggia un duello appassionante con un porcospino dal manto electric blue; un duopolio dalla prospettiva p otenzialmente 101101000 eterna, destinata a fissarsi nella Storia della Claudio Grilli 2003 videointerazione. Parallelamente, il VG indossa i panni del Personal Computer e comincia a dismettere le vestigia affumicate delle sale giochi. Sony si affaccia al mercato, con prepotenza. Una prepotenza dichiarata prima che dimostrata, messa in mostra dalla finzione della pubblicità, dall’ostentazione del nome e del logo, dall’imposizione di un’ipnotica simbologia geometrica. E’ un prestare ascolto ai moderni modi del commercio, una maniera fatta di lusinghe e promesse. Sony propone un’immagine cool del VG, un entertainment dall’aspetto massificato e ampliato, adatto a tutte le età e caste socio/culturali. Si apre la pista ad un nuovo modo di intendere e vivere il VG, un modo fatto sì di videogiochi ma anche di simboli, di intenzioni e di mercato. Nintendo è reduce dalla stoica e coraggiosa resistenza dell’N64 (prodotto che vince sul piano economico ma che tramonta su quello dell’immagine); con GameCube, Nintendo vede il rilancio di Sony e prende le carte distribuite da essa, accettando di giocare secondo le nuove regole. Regole che corrono a fianco dell’inevitabile compenetrazione dei media, non più comparti stagni inconciliabili. Via dunque allo scorrere di sangue e di un incremento dell’età dell’utenza giocante, via alle concessioni alle third party e via parte di quella grandeur che Nintendo ostentava, dopo un d ecennio di incontrastabili spadroneggiamenti. Le nuove regole sono ribadite anche dall’ingresso di un altro colosso elettronico esterno al fare VG (su console), Microsoft, che impone il suo peso politico/commerciale e sbatte una macchina grossa e impacciata che pure porta un buon numero di novità sia tecniche sia commerciali, con una campagna distributiva basata largamente sul rilancio ad oltranza. E Sega, piccola piccola e legata a schemi vecchi, cola a picco. Perché a questo nuovo gioco, il Gioco non conta più così tanto. Oggi, più di ieri, il mondo del VG si mostra su una serie di prospettive multiple, difficili da prendere in un solo scatto. Il VG di oggi si propone a più livelli: l’interazione viaggia su binari spesso divergenti, dal ludico a tutti i costi al Non-Gioco, noi si oscilla fra la condizione di giocatore e quella di spettatori (qualcuno parlerebbe di declassamento). Qualche volta diventiamo persino degli interpreti e come tali ci viene chiesto di districarci fra input contrastanti e criptici, lanciati dagli schermi ai nostri occhi. Il VG del terzo millennio non si attua solo davanti allo schermo, diventa centro gravitazionale di fiumane di discorsi telematici, muove studi sui new media, propone tematiche pregne e che persistono dopo il reset della console, il gioco non è più l’unica espressione dispensata dal VG, il quale veicola sovente messaggi più vicini ad altri medium. I VG si contorcono e talvolta neppure sembran più tali, ma non importa, non deve avere importanza perché il VG non è più solo Gioco, il VG non è più solo intrattenimento ma anche e soprattutto interazione con realtà in divenire e da noi (parzialmente) plasmate. Il VG è cambiato, pare invece che molti di noi non l’abbiano fatto e seguitino a fissare in una direzione s ola, anziché guardarsi d’intorno; essi continuano a parlare una lingua morta e sperano, ciò nonostante, d’esser capiti. D’essere ascoltati. Nemesis Divina


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(r)UMORISMO____________________________________ [Shinobi] di Strix, Amano 76 e Gatsu

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jRPG e l’oTTAVA pIAGA dIVINA_

___________________ [Accidia e viltà tra i fiori di ciliegio]

di Gatsu Ci eravamo lasciati tempo fa con L’Insostenibile Leggerezza Degli RPG [Ring#2], dove tentavo di spiegare perché il gioco di ruolo classico manteneva una netta superiorità ri spetto al suo parente videoludico pur vantando radici decisamente poco moderne. Stavolta voglio soffermarmi sul ramo che preferisco degli RPG per console, i Japan RPG, ed evidenziare una serie di mancanze riscontrabile nella maggior parte di essi. Badate bene, quando parlo di “mancanze”, non mi riferisco come l’altra volta a feature difficilmente implementabili in tempi brevi per evidenti problemi tecnici, ma a carenze spesso del tutto ingiustificate. Non sembra anche a voi che le SH jappe a bbiano formato una sorta di “cartello del minimo indispensabile” attorno al genere JRPG? E’ ora che Ring illumini le vostre menti e vi renda consapevoli di questi comportamenti da “squadra che vince non si cambia”… __Anatema 2: spostamenti nella mappa e PNG Uno degli aspetti sicuramente più evidenti della staticità del genere è dato dalla vergognosa riproposizione del medesimo schema per villaggi e città nel 99% dei JRPG. Il villaggio tipico è composto, in ordine, da: un negozio d’armi, un negozio di item, locanda, albergo, case sparse, castello o villa (a volte). Ora, alcuni titoli tentano di introdurre anche qualche nuova tipologia di negozio, come i negozi di alimenti o di materie prime di Star Ocean: Se -cond Story (funzionali al pregevole sistema di abilità inserito da Enix, forse uno dei pochi tentativi di av-vicinare i JRPG agli RPG classici) o i negozi dei curatori di Golden Sun (gradevole intuizione, in nessun RPG serio un personaggio può guarire completamente dopo una sola notte di sonno). La scarsa fantasia dei game designers è francamente sconvolgente se pensiamo che la medesima struttura ci viene riproposta fin dagli albori del genere: è possibile ridurre un villaggio a cinque edifici in croce? Inoltre, un altro punto totalmente irreale che mi ha sempre urtato è la possibilità presente nella maggior parte dei titoli di entrare bellamente nelle case della gente, fregarsi item nascosti nei forzieri e negli armadi e andarsene come niente fosse. E’ evidente che una soluzione di questo tipo sia stata adottata per aumenta-

re leggermente la scarsa interattività che spesso il genere ci propone (nella maggior parte dei casi ci si limita a parlare con la gente – premendo ripetutamente lo stesso tasto – e navigare fra menù di combattimento, ma questa caratteristica p otrebbe non essere un difetto se l’aspetto tattico del gioco fosse ben implementato), ma non sarebbe o ra di aggiornare questa faccenda a degli standard più moderni?

In nostro soccorso viene Shenmue di Sega: la struttura degli esterni, la varietà delle ambientazioni, la ricchezza di particolari – spesso inutili – dovrebbero servire come base sulla quale edificare delle città maggiormente interattive (nota: è chiaro che dietro a Shenmue /Shenmue 2 c’è un lavoro mostruoso da parte di un team enorme, e che non tutte le case saranno disposte a sobbarcarsi una fatica del genere solo per rendere un po’ più interattiva la loro proposta, ma non è insensato credere che in futuro sarà possibile includere molti di questi elementi con fatica sempre minore…gli sviluppi dell’informatica non smettono mai di stupire, basti vedere come è semplice oggi costruire un sito w eb perfettamente funzionante senza sapere una riga di html, o come è semplice realizzare modelli 3D…). Che poi in Shenmue il bussare ad una porta si rivelasse spesso senza speranza è un dato di fatto…ma d’altra parte non è giusto così? Perché diavolo ci dovrebbero aprire tutti? Inutile ripetere che anche nel caso venisse adottata una struttura simile a quella del titolo Sega, saremmo ben lontani da una accettabile rappresentazione di villaggio o città, in quanto spesso un videogioco tende ad indirizzare il giocatore verso compiti specifici e utili al proseguimento (potenziare l’equipaggiamento, comprare item indispensabili, ecc…)… La soluzione a questa (apparentemente) ineluttabile realtà sarebbe proprio quella di aumentare le possibilità di interazione fra giocatore e ambiente circostante e rendere in

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qualche modo utile questa sua interazione. ___Anatema 3: riproposizione dei ruoli Non posso ovviamente non citare brevemente il ricorrente stereotipo nella caratterizzazione di almeno due dei personaggi principali. In quanti giochi l’eroe principale è un guerriero dal pas-sato oscuro e la sua compagna una ragazzina dalle capacità curative? E in quanti di questi giochi poi alla fine i due finiscono per innamorarsi? Fortunatamente negli ultimi tempi si sta cercando di variare un po’ il classico cast o rmai stantio, concentrandosi pe-rò troppo spesso sugli altri personaggi e non sui due ruoli di “protagonista assoluto maschile” e “protagonista assoluta femminile”. E’ indubbio poi che personaggi ben caratterizzati aggiungano diverso valore ad un JRPG, ma è anche facilmente riscontrabile come spesso questa caratterizzazione sia spesso troppo specifica e univoca.

In Final Fantasy X, ad esempio, un personaggio come Wakka sarà sempre e comunque il t ontolone del gruppo, in qualsiasi punto del gioco lo si analizzi, quasi come se il viaggio per sconfiggere Sin non fosse mai stato compiuto. La c aratterizzazione dei personaggi è ancora troppo spesso superficiale, in un certo senso assoluta: o bianco o nero, senza nessuna gradazione (esistono le debite eccezioni, Vagrant Story ad esempio…). Qualcuno di voi si s arebbe aspettato forse, nel già c itato FFX, qualche cattiveria da parte di Yuna? Eppure un evento del genere non apparirebbe strano, nella realtà, da parte di qualcuno sottoposto a forti pressioni psicofisiche come lo è Yuna in FFX. La semplicità con cui sono


:FRAMES: costruite le personalità dei personaggi appare oggi più che mai inadatta e obsoleta… gli unici ad accorgersi di questo limite sembrano e ssere sta ti, per il momento, Hideo Kojima (che sia in MGS che in MGS2 costruisce personalità intriganti e totalmente imprevedibili) e Yu Suzuki (che nel mai troppo lodato Shenmue 2 ci mette di fronte a “personalità analogiche” e non “digitali”)1. Che poi i titoli citati centrino poco con i JRPG poco ci importa: fondamentale invece sarà in futuro prendere il meglio prodotto in ogni ambito e condensarlo in qualcosa di nuovo e meraviglioso. ___Anatema 4: combattimento e ambiente circostante Resta da trattare una tematica centrale nell’ambito dei JRPG: il combattimento. Solitamente questo aspetto è il punto forte dei titoli presi in esame, o perlomeno dovrebbe esserlo (visto che per la maggior parte del tempo il nostro party è costretto a combattere). Indubbiamente ci sono dei validi sistemi sulla piazza, da quello famosissimo di Final Fantasy (che pur variando leggermente ad ogni episodio mantiene sempre una certa profondità tattica, specialmente negli episodi VII e X, grazie rispettivamente ai Materia e alle “armi modificabili”) a quello bilanciato e potenzialmente ultra-strategico (merito anche della possibilità di ritardare gli attacchi nemici e di spostarsi sul campo, senza per questo tradire la filosofia a turni) della serie di Grandia (attualmente lo ritengo il migliore sulla piazza). Nonostante questo, ci sono delle palesi mancanze in tutti i sistemi presi in esame dal sottoscritto 2, va-gamente intuite, per esempio, in FFX: l’interattività con l’ambiente circostante durante un combattimen-to. Nel titolo Squaresoft, in qualche rarissimo caso (non credo siano più di 3-4 nell’intero gioco) ci veniva data la possibilità di interagire con qualcosa che non fosse il nemico: ricordo chiaramente un macchinario Albhed che necessitava di essere caricato a forza di Thunder o una batteria che d oveva essere colpita ripetutamente per liberare un passaggio ostruito con la sua esplosione. Tutto questo, ovviamente, mentre attorno a noi infuriava il combattimento. Ora, l’idea di per sé era pregevolissima, perché in qualsiasi RPG l’ambiente circostante è perfettamente funzionale allo svolgersi del combattimento, tanto che l’interazione con oggetti e strutture può essere vitale per l’esito dello scontro (pensate solo ad un combattimento in una locanda in legno dove un incantesimo del fuoco

Ring#05 può incendiare tutto, dove un colpo maldestro può abbattere la colonna portante del primo piano -non ridete, fateli voi 9999 danni ad un palo di legno, poi vediamo-, dove rovesciare i tavoli vuol dire potersi riparare dalle frecce o dagli incante simi più blandi…). Insomma, le possibilità di sviluppo in questo senso sono i nfinite e implementabili con un minimo di buona volontà. Invece continuiamo a sorbirci scontri casuali immersi in ambienti neutri e ripetitivi, e ciò ci basta. Non sarebbero più interessanti meno scontri ben pianificati, piuttosto che una moltitudine di combattimenti tutti uguali tra loro? Un altro particolare che non viene mai implementato nei giochi che sfruttano sistemi a turni (più facile vederlo negli action RPG) è la possibilità del colpo contemporaneo. Qualsiasi RPG prevede la possibilità che due colpi vengano portati nello stesso momento, e che il danno venga subito contemporaneamente da ambedue gli sfidanti. Attenzione, prima che pensiate ma in un sistema a turni non si può vi faccio notare che TUTTI gli RPG classici funzionano a turni (per ovvie necessità umane di risolvere prima un’azione poi l’altra) e che questa faccenda del “colpo contemporaneo” è più importante di quanto non sembri: se il vostro nemico ha la vostra stessa iniziativa però la CPU decide a priori che sempre e comunque saranno i nemici a sferrare il primo colpo, a voi non resterà altro che subire il danno (e magari soccombere). Se il danno invece fosse portato simultanea-mente, il sacrificio di uno dei membri del vostro party potrebbe significare vittoria dello scontro.

vari membri (influenzando magari anche leggermente lo svolgersi degli eventi), senza magari disdegnare la possibilità di simulare la costruzione di edifici, rifugi, ambienti, armi e manufatti ex novo. That’s all.

__Anatema 5: varie ed eventuali

[2] I più celebri sostanzialmente, vi invito a farmi presenti eventuali sistemi misconosciuti che meritano attenzione a gatsu@project-ring.com

Per concludere qualche altro appunto sparso. Ritengo che a volte un aumento della parte simulativa nei JRPG potrebbe solo far del bene. A ttenzione, non intendo sacrificare storia e personaggi in virtù di una fantomatica quanto spesso sterile completa personalizzazione del party, ma è indubbio che a volte a nche gli RPG di stampo occidentale qualche buona idea ce l’abbiano. Negli ultimi anni sembra essere di moda consentire, nei JRPG, la personalizzazione degli oggetti (armi, principalmente)… sarebbe auspicabile che questa tendenza (che vista in azione in diversi giochi sembra funzionare senza snaturare nulla) venisse estesa anche ad altri aspetti del gioco: partendo dall’equpaggiamento, fino ad arrivare ad una maggior possibilità decisionale nelle relazioni interpersonali fra i

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____________________Note [1] Con “personalità analogiche” intendo personalità in grado di assumere molti comportamenti diversi all’interno di due (o più – in questo caso si tratterebbe di ragionare in maniera N-dimensionale) estremi. Per esempio: possiamo definire per Lishao Tao (Shenmue 2 ) i tre estremi Fragilità – Severità – Saggezza. All’interno di questo spazio Lishao Tao assume dei comportamenti diversi ma che lasciano trasparire, ognuno in maniera diversa, ognuno di questi 3 aspetti. Per semplicità non prenderò in considerazione le inevitabili “ca-gate fuori dal vaso”, anche perché stiamo ancora ragionando su e ntità (videoludiche) piuttosto elementari. Di contro le “personalità digitali” (o binarie) tendono invece ad assumere un numero di atteggiamenti molto più basso (non due come il termine digitale o binario ci suggerisce, ma un valore che comunque non si distacca troppo da questa cifra). “Personalità digitali” si adatta bene a tutta una serie di personaggi di vecchia concezione, molto (troppo) basilari e prevedibili nei loro comportamenti (ad esempio: Ganon/Ganondorf nella serie di Zelda, il tipico “cattivo assoluto” delle favole).


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iN nOMINE lUDI__________________________________ [Terminologia Ludica] di Nemesis Divina Non che sia un accesissimo amante della terminologia, eppure è da tempo che questa parola mi è scomoda in bocca: videogioco. E capisco bene come sia la particella 'gioco' a rendermela indigesta. Poche volte, ormai, mi ritrovo nell'atto di agire entro i confini digitali di un videomondo e di pro-ferire, convinto e innocente: "questo gioco mi sta divertento parecchio". Anche perchè non sono solito parlare da solo, ne convengo. In un altr oquando parlavo di Videoesperienza come un sovrainsieme che includesse, nella propria definizione, sia il quid primigeno del mezzo di cui discutiamo (‘gioco’, appunto) sia l'eventualità sempre più pertinente e calzante delle nuove espressioni digitali ('esperienza'). Ma è un abbaglio, giacchè l'atto ludico è un ente autonomo, non subordinato a quell'insieme di eventi/emozioni/espressioni che denomino Videoesperienza. D igressione, indico con 'Videoesperienza' un prodotto videointerattivo che non si limiti alla proposta ludico/competitiva ma che cerchi di saturare la sessione d'uso di contenuti emotivi, comunicativi o scenici. Una 'partita' (altra terminologia orrendamente arcaica) a Silent Hill 2 NON è divertente e NON è un gioco, non così come lo si è soliti intenderlo nel senso c omune. A tal proposito mi aiuta Bruno Fraschini nel saggio Videogiochi & New Media (tratto da "Per una Cultura dei Videogames", Ed. Unicopli, 2002), citando Johan Huizinga: [il termine] 'Game' è definito dal dizionario [...] un divertimento o uno sport che prevede una forma di

competizione basata su regole. 'Game' è la matrice astratta che permette l'esecuzione di un'azione piacevole: 'to play', il verbo che in lingua inglese non significa semplicemente giocare, ma anche suonare e recitare. Una distinzione semantica non da poco. In italiano il termine 'giocare' è univoco e include unicamente il nesso di 'cimentarsi in un'attività ludica o sportiva' con ragioni essenzialmente competitive. D'altra parte il comune termine anglosassone di riferimento all'atto videoludico è 'videogaming' e non un più attinente 'videoplaying'. Nell'uso di videoplaying possiamo invece accludere, in perfetta sintesi semantica, sia l'occupazione ludica che quella immersiva di esperienza (vissuta ricalcando il proprio io su quello del protagonista delle vicende videointerattive, 'recitando' dunque il ruolo del propagonista). Ora, rendendomi conto che l'assunzione di nuove definizioni è quasi sempre un atto naturale e non coercibile, prendo comunque la forza di dare voce ad una proposta non già mia ma che comunque a ppoggio in pieno. E' Federico Res che, nell'Indepth "Chiare e fresche e dolci acque" (RING #2, 2002), propone una distinzione terminologica sufficientemente accurata e largamente accettabile1. Egli assume il termine 'Videogioco' come indicativo di attività videointerattiva a fine ludico, dunque senza r imandi espressivo-comunicativi di sorta (la filosofia dell'arcade). A questa contrappone la dizione 'Videoesperienza' per distinguere l'altra parte della medaglia, il fruire videointerattivo che non si propone c ome fine il

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divertimento o lo scopo primo del competere, quanto piuttosto includente l'accezione inte rpretativa del verbo 'to play'. Ambedue le forme collimano dando forma al medium di cui sono il manifestarsi, l'insieme di regolamenti audiovisivinterattivi che va sotto la sigla di VG 2. E' dunque importante riferirsi al medium come VG, s aranno poi le caratteristiche intrinseche del prodotto in esame a definirlo videogioco o alternativamente videoesperienza. Si badi poi d'avere l'accortezza di utilizzare l'acronimo maiuscolato (VG) anzichè la dizione estesa (Videogioco) poichè essa, giocoforza, sarà continua latrice di incomprensione e sposterà il peso del nesso verso l'emanazione ludica, verso la particella 'gioco' la cui eliminazione è appunto il motivo del nostro discorrere. _____________________Note [1] In quell’occasione, l’eroico sardo, ebbe a proferire: “il voler a tutti i costi dar dignità a quel termine [videogioco] credo abbia fatto solo male all'affermazione di una critica come Cristo comanda”. [2] Qualcuno, giustamente, osserva che la G della sigla VG si-gnifica pur sempre ‘gioco’, giusto? Sbagliato. La sigla VG è semplice-mente una convenzione, VP (videoplaying) sarebbe stato più corretto ma ben più difficile da radicare nell’uso c omune.

_____ [Visioni]

di DarknessHeir E’ sempre più tardi di quanto può sembrare. Avete mai visto un falco? Fino a circa un mese fa ne ho visti diversi, distribuiti in un’area decisamente estesa. Di solito, il falco non si riconosce direttamente: vedi una bestiaccia con le ali, e dopo una frazione di secondo ti accorgi che il tuo inconscio… “non l’ha in me-

moria”. Perché il falco non vola come i suoi colleghi. Levandosi in verticale, o risalendo una corrente a lui opposta, mostra talvolta dei movimenti insicuri (per non dire sgraziati). Ma quando fende l’aria in modo solenne, leggiadro, deciso… Il falco lo riconosci dalla postura, poi. Non è becera come quella del piccione, non ha la sciallata, apparente indif-

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ferenza del corvo, né la vivacità s olare della gazza ladra. Il falco è immoto, fiero; la “schiena” (se così si può chiamare) ritta, il capo reclinato a scrutare verso il basso, in cerca di una nuova preda. Solo. Il falco, solo, scruta verso il basso. Poiché non è aduso a muoversi in gruppo, né a calcare luoghi facilmente raggiungibili.


:FRAMES: Una sorta di urlio. Lieve. Un capannello di persone. Al centro un anziano signore, si stringe il petto con un’espressione che non promette nulla di buono. Fortunatamente la via su cui si affacciava il bar da cui era appena uscito, in compagnia della moglie, è discretamente affollata, ed i soccorsi vengono chiamati il prima possibile. Eppure il vecchio sta a terra, scosso dalle convulsioni, cianotico in volto. Io? Beh, io stavo lavorando, l’ambulanza era in arrivo... Non s ono un medico, e a differenza di tutti i curiosi attorno al malato, francamente non me la sentivo di rubare preziosi centimetri cubi d’aria a chi faceva sempre più fatica ad inalare. 5 gradi, a dir tanto. Il bar è piccolo ma arredato con gusto. Quattro persone: due ragazzi sui 25, una signora sui quaranta, una ragazza (davvero carina, complimenti) poco oltre i venti. Tutti, fanno parte della famiglia che gestisce il bar. Ci saranno cinque gradi, a dir tanto, eppure una ragazza è seduta ad un tavolino fuori al bar, e beve un tè. Niente di particolare in lei, se non per il fatto che pare presa decisamente male; sembra essere stata ferita, di fresco, da qualcosa. Entro. Il bar è piccolo, ma arredato con gusto, mi aggrada ed ho fame, quindi soprassiedo sull’impossibilità di fumare all’interno e chiedo una lista. La signora mi risponde, con aria abbastanza seccata. Prezzi/cosa mi è rimasto/guarda, la lista è solo per chi si siede fuori. Fuori? Ma ci saranno 5 gradi. In ogni caso, rispondo che è dalle 3 che sono in piedi (erano le 19.30) e che alla faccia dei prezzi volevo soltanto consumare qualcosa di commestibile possibilmente al caldo, magari accompagnato da una birra decente, prima che l’istinto di conservazione, cara signora, mi spinga ad azzannarle l’avambraccio. Detto fatto; tempo di lavarmi le mani ed una franca piadina fumigante mi giace dinnanzi, al suo fianco una weis ceca di cui non ricordo il nome, ma che comunque svolge bene il suo lavoro. Buon appetito/grazie da parte della figliola, adorabilmente timida, e che l’ecatombe abbia inizio. La signora è cambiata completamente. Gentile mi rivolge qualche parola di circostanza, ascolta e parla con una sincerità più che professionale, empatica. In questa zona, in questo periodo, non ci deve essere in giro gente molto raccomandabile, almeno questo è quello che intuisco; come me, per lavoro la signora si trova a contatto con molta gente ogni giorno, e questo tipo di selezione è quasi n e-

Ring#05 cessario per evitare futili litigi. Bella storia, vai di caffè shakerato crema whisky allora, che con questo freddo l’alcool mi aiuterà a scaldarmi, il caffè a rimanere lucido per le 5 ore che mi separano dal mio anelato giaciglio. Mi sento una sorta di eroe da romanzo d’avventura otto centesco nel fare questi ragionamenti. Ed è un bene, perché di solito non riesco a fare a meno di p aragonarmi ad un eroe dannunziano, ma senza titolo nobiliare e conseguente dispensa dall’obbligo di farsi il chiurlo per portare a casa la pagnotta. “Già che, come tu dici, la parola è un segno imperfetto.” Gabriele D’Annunzio, Trionfo della Morte

Allora lasciami entrare. A questo punto, lasciami entrare. “Io ci sto provando, ma non riesco proprio a godere di questa giovinezza schifosa!!” Hiroyuki Asada, Generation Basket (volume 2) Finito. Congratulazioni. Hai ottenuto una tuta mimetica ed una fotocamera digitale. Una fotocamera digitale… E’ un piacere bruto, lo ammetto. Puntare l’M9 in faccia ad una di quelle maledette guardie in Metal Gear Solid 2. Osservare il nemico terrorizzato. Pensi di cavartela con una sana carica di mazzate, previo esborso della Dog Tag, non è così? Illuso… E se per caso mi hai tirato matto, magari costringendomi a rifarti le basette con un colpo di M9 perché la mia SOCOM era scarica, e sapevi che i tuoi colleghi sarebbero arrivati di lì a poco, o ancora, b astardello, hai cercato di riprendere il fucile giudicandomi troppo lontano per tenerti sotto tiro… Una fotocamera digitale mi farebbe comodo. Dico, avete mai v isto un falco in picchiata, trascorrere l’aria velocissimo? Vale la pena, parola mia. Oppure… Mi ricordo una giornata, direi, benedetta da un cielo straordinariamente liquido, e luminoso, grigio. Irreale. Il sole di sé non dava altra tracce, all’infuori di una sorta di macchia lucente,

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abbacinante. La sagoma nera di un albero, altissimo, ed in cima un falco, solo, attorniato dalla macchia di luce. Immortalare quell’immagine… Per farlo, non so cosa darei. Ma ormai è tardi, il momento è passato. Il capannello di persone si apre. Un’ambulanza fende la folla che nel frattempo ha gremito (o ghermito) la via, ed io non riesco ad esimermi dall’aiutare a fare largo. Perché quando lavoro, mi viene naturale aprirmi un varco tra le persone a forza di “Permesso!”, “Grazie!”, di contatti e circostanziali, moderate spinte. Quando giro con gli amici è un’altra questione. Quando mi muovo da solo, invece, mi viene naturale scivolare nella calca evitando il più possibile non solo di essere toccato, ma anche di essere visto. E di vedere. Un gruppo di paramedici scende dall’ambulanza, e tra loro c’è una bella ragazza (complimenti), che da poco ha superato i 20. No, non è quella del bar, questa è adorabilmente vigorosa. P ochi minuti, ed il vecchio è seduto. Ha ripreso i sensi, il suo consueto colorito, e parla con i suoi… salv atori. A volte mi chiedo perché siamo così affascinati dalla genialità di cui gli artisti danno prova nel concepire mondi suggestivi come, che so, quello di Final Fantasy VII (avrei voluto dire anche Ocarina of Time, ma purtroppo non ho mai avuto modo di godermi il detto capolavoro, solo straziarmi nell’assistere e giocare alcune sessioni). Penso a quella scena del falco, e dannazione, chissà quante simili o forse ancora migliori sono visibili in tutto il mondo, magari anche in questo momento. Ma saprei coglierle? Saprei apprezzarle? Se non fossi stato iniziato alla (sobria ed equilibrata) degustazione degli alcolici da alcuni miei amici, avrei scelto quella weis od avrei optato per una birra comune e molto meno soddisfacente? Se avessi avuto una fotocamera digitale, se avessi scattato una foto della signora e della ragazza che, nonostante i 5 gradi di temperatura, aveva accettato di farsi sbattere in un tavolino all’aperto, riguardandole saprei valutare se la signora si è comportata ingiustamente verso la sua cliente, se vedendola affranta l’aveva giudicata male? So soltanto, bastardello, che se mi hai tirato matto prima di cedermi la tua Dog Tag, io non mi limito ad ammazzarti. Ti addormento, tranquillo. Poi una carica di C4 sulla schiena non te la leva nessuno. Uso lo spray refrigerante, e ti sveglio. Mi faccio vedere così puoi chiamare rinforzi, poi mi nascondo, e aspet-


:FRAMES: to, e uno ad uno vi a mmazzo tutti, alla faccia del “Caution” che appare sotto il radar. Vi sento tediati, o sbaglio? Quando ritengo che il tempo sia giunto, infine, lascio che la squadra d’attacco se ne vada, e sotto i tuoi occhi sbuco alle sue spalle. Sono in fila, guarda, già pronti: 4, 5 proiettili e sono giù, tutti. E tu vorresti chiamare rinforzi? A parte il fatto che, ogni volta che minaccio una guardia (o dopo averle fatto perdere i sensi, dipende dalle situazioni) le metto fuori uso la radio, ti ricordo che hai una carica di esplosivo attaccata alla schiena… Troppo tardi. La deflagrazione è già avvenuta. Eccome. “There's the moon asking to stay, long enough for the clouds to fly me away…” Jeff Buckley, Grace, da Grace,

Ring#05 Alcuni la chiamano evasione. Dalla realtà. Gli psicologi/giornalisti/ taumaturghi, in diverse occasioni hanno avuto modo di banchettare alla grande, bacchettando appunto coloro che “evadono”. Anzitutto, che c’è di male ad “evadere” dalla “realtà”? Nessun uomo possiede una sapienza trascendente, divina. La conoscenza umana è avanzata, certo, ma ci sono centinaia di misteri che deve ancora chiarire: ne consegue che il mondo in cui viviamo è più eidetico che reale. Alla faccia dell’ evasione dalla realtà. Cos’è, poi la realtà? Esiste? “Where would Jesus be if no one had written Gospels?” Chuck Palahniuk, Fight Club E poi, io chi sono? Sono quello che

rimane affascinato dalla scena del falco, o dai fondali di FFVII? Sono quello che si prende male nel vedere il vecchio agonizzante, la ragazza a gelare fuori dal bar, quello che disperde la folla o, ancora, quello che infrange tutti i buoni sentimenti vessando le guardie di MGS2? Io sono ognuno di essi, alternativamente. Sono un cumulo di strati d’essere che mostro a seconda delle situazioni, degli stimoli. Bella scoperta. Dice il superno David B owie, nella sua Sunday (da Heathen, 2002): “For in truth, it’s the beginning of nothing, and nothing has changed, everything has changed” Da qui la domanda. Uno “strato” vale l’altro? Ce ne sono di più utili, illuminanti, oppure tutti hanno lo stesso valore? A voi la risposta.

cITTADINO dEL mONDO____________________________ [I pensieri di Hideo Kojima] di Gunny ____________ Introduzione Questo frame rappresenta la conclusione dell’excursus iniziato con il people su Hideo Kojima (Ring #3) e proseguito con il frame Tra i Lego di Hideo Kojima (Ring#4). Ancora, si invita alla lettura di quanto già pubblicato per un’esaustiva comprensione del lavoro svolto. Vedremo ora di analizzare cosa Hideo Kojima cerca di comunicare tramite i mezzi che finora abbiamo esaminato. Per quanto infatti sia implicito compito di ogni sceneggiatore definire ideali, pensieri e motivazioni di ogni personaggio, l’insistenza e l’evidente trasporto con cui Kojima approfondisce alcune tematiche evidenziano una serie di convincimenti che è ragionevole attribuire all’autore stesso anziché alle marionette che ci consente di muovere. ‘Impegno’ e ‘videogiochi’ sono due concetti storicamente piuttosto distanti e che buona parte dei videogiocatori preferirebbe rimanessero tali. Ma, come sappiamo, una caratteristica peculiare di Kojima, rispetto a tanti suoi colleghi creatori di evasione e di mondi illusori, è quella di veicolare tramite i suoi videogiochi

tematiche tutt’altro che prive di importanza, trasmettendo così quella che potremmo considerare una sua ‘eredità’. E’ davvero difficile elencare tutte le tematiche e le sotto-tematiche di carattere politico, sociale e strettamente umano menzionate nella saga di Metal Gear, ma è un’operazione che, per quanto meccanica e burocratica consente di apprezzare la poliedricità della riflessione kojimiana:

-Autoisolamento dalla società (Otacon, specchio degli otaku) -Futuro della democrazia (coerenza di essa, opportunità di essa) -Etica del videogioco L’elenco potrebbe continuare anco-ra a lungo. Tuttavia ci sentiamo di attribuire a Kojima solo le principali tra queste tematiche, essendo ragionevole ritenere che le altre possano essere circostanziali alla trama o solamente accessorie allo sviluppo di alcuni personaggi. ___________________Potenza

-Assetto geopolitico pre e postGuerra Fredda -Risorse energetiche (ed eventuale esaurimento) -Equilibrio da deterrenza nucleare -Sperimentazione genetica ed etica scientifica -Schizofrenia legata all’emorragia informativa e mnemonica tipica del nostro tempo -Costruzione e distruzione del reale -Eredità biologica ed emotiva -Rispetto della vita

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Cominciamo con le più semplici e ricorrenti prese di posizione che Kojima assume dal punto di vista politicostrategico. Lo scenario tipico del gioco bellico/d’azione prevede solitamente l’esistenza di una qualche crisi internazionale concernente WMD (armi di distruzione di massa) e la saga di Metal Gear non fa eccezione: le opinioni più significative in merito possono essere desunte dal dialogo tra Solid Snake e Kenneth Baker, presidente della Armstech (MGS), e dalle conversazioni via CODEC con Nastasha Romanenko. Il problema è scottante: con la fine della Guerra Fredda l’equilibrio


:FRAMES: nucleare esistente tra NATO e Patto di Varsavia si è dissolto; l’informatizzazione delle procedure e il disperdersi del know-how sovietico fanno sì che anche una piccola n azione possa condurre con successo un programma di ricerca per armi nucleari, basti pensare alle recenti conquiste in questo campo fatte da Pakistan, India e Corea del Nord (o alle Outer Heaven e Zanzibar della finzione Kojimiana). La risposta da dare a questo stato di cose non è certo scontata: vi è chi trova nel costante aggiornamento dell’arsenale termonucleare l’unica risposta possibile (Baker) è chi, invece, lo ritiene semplicemente una spirale priva di conclusione e destinata a crollare su se stessa, e propone il disarmo totale (Romanenko). La soluzione preferita da Kojima è ovviamente la seconda e lo si desume da mille altri elementi secondari: in primo luogo dall’importanza dell’incubo nucleare nella coscienza e nella vita privata di Otacon, che sembra farsi portavoce di quella ‘coscienza sporca’ tipica della comunità scientifica dopo il lancio su Hiroshima (per quanto possa essere un elemento insignificante, vale la pena di ricordare che Yoji Shinkawa è nativo proprio di Hiroshima). In secondo luogo vi sono diversi sotto-elementi che ad una prima analisi difficilmente emergono, ma che concorrono in modo piuttosto efficace a demolire il discorso del presidente Baker: egli sostiene infatti che gli USA necessitano di un’arma di deterrenza ancora più potente per inibire l’uso, da parte di nazioni potenzialmente ostili, della loro neo-acquisita capacità offensiva. Questo, a pensarci bene, è un discorso ben fragile, in quanto le capacità di ritorsione degli Stati Uniti sono già tali da non richiedere alcun perfezionamento (i sottomarini lanciamissili della classe Ohio sono in grado di effettuare un lancio di oltre 120 testate con un preavviso di mezz’ora); oltretutto, nessuna nazione sarebbe verosimilmente tanto folle da tentare un first-strike con vettori missilistici o aerei, in quanto sarebbe matematicamente annientata dal contrattacco. L’unico tipo di minaccia nucleare degna di concreta preoccupazione è quella portata da singoli atti terroristici tramite i quali uno stato ostile offenda senza possibilità di riconoscimento da parte dell’aggredito (nel qual caso il contrattacco diviene impraticabile, a nche con un Metal Gear). Il continuo aggiornamento dell’ arsenale conduce inoltre all’accumulo di straripanti quantità di materiale fissile inutilizzato, ogive

Ring#05 in disuso, e con esse tutto ciò che concerne i vettori atti al trasporto di armi atomiche. Se la finzione Kojimiana suggerisce con i nsistenza la dimensione del problema (Baker:”hai mai visto un deposito di armi smantellate? File e file di contenitori stoccati alla buona. Perché non c’è nessun modo di eliminare quella roba…”), la realtà può fornire un quadro ancora più agghiacciante della situazione. E’ sufficiente una visita al porto di Vladivostock per ammirare coste rnati file e file di giganteschi sottomarini atomici a corto di equipaggi e manutenzione, ognuno con il proprio nocciolo radioattivo pronto a contaminare l’ambiente marino. Sono a decine i siti ‘a rischio’ sul territoro russo, come la base navale di Polyarnji-Murmansk (base operativa tra l’altro del Kursk), i cantieri per sottomarini atomici a Novosibirsk o la Chernoton citata in Snatcher, dalla quale sarebbe fuoriuscito l’agente batteriologico ‘Epsilon Omega’ responsabile dell’annientamento della popolazione euro-asiatica. Il fatto che le oltre 65.000 testate cosparse sul territorio sovietico siano sovente oggetto di calorose attenzioni da parte di organizzazioni criminali è un altro fatto che induce alla riflessione (più di una volta la dirigenza militare russa ha candidamente ammesso la ‘scomparsa’ di ordigni subcritici o, in un paio di casi, di vere e proprie testate strategiche da oltre 200 Kilotons1 di potenza).

Diviene così ovvio come Kojima propenda per il totale disarmo nucleare, sottolineando come l’equilibrio vigente sia fragile e traballante, suscettibile di alterazione da parte di qualunque arma o tecnologia sufficientemente innovativa (il Metal Gear da lui inventato, ma anche lo Scudo Spaziale del presidente Reagan). E’ altrettanto ovvio che ci stiamo limitando a a parlare della politica di deterrenza AMERICANA, a tutela di interessi AMERICANI. E’ forse un fatto dovuto all’onnipresenza statunitense nelle questioni politiche del nostro pianeta, e al ruolo simbolico degli USA che li rende portabandiera di qualsiasi conquista attribuita al mondo ci-

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vilizzato. Cosa pensa Kojima a questo proposito? ________________Superpotenza Kojima è cresciuto nutrendosi di cinema americano, e quest’influenza è palese soprattutto nella saga di Metal Gear: Snake ha molte cose in comune, come tutti sanno, con Snake ‘Jena’ (nome attribuitogli i nspiegabilmente nella versione italiana) Pliskin, celebre personaggio dell’accoppiata Kurt Russel/John Carpenter; le citazioni cinematografiche nelle sue opere sono molteplici e candidamente dichiarate (‘2001: Odissea nello spazio’ per l’accoppiata Dave-Hal in MGS, ‘Titanic’ per l’affondamento del ta nker e il rapporto Jack/Rose in MGS2, ‘Armageddon’ per la scena nella computer room subito dopo la morte di Emma ancora in MGS2). L’omaggio più manifesto è comunque rappresentato dall’ambientazione di Snatcher, una New Kobe che non può non r icordare la Los Angeles di Blade Runner, con i suoi problemi di ordine pubblico a causa dei Replicanti (gli Snatchers) fronteggiati ogni giorno dai blade runners (i Junkers). Questo affetto per il cinema m ade in USA è di sicuro il lato più conosciuto del suo sfaccettato rapporto con il paese dello Zio S am, ed è spesso motivo di fraintendimento per alcuni sui detrattori che vedono in Snake il consueto, eroico agente segreto sempre intento a sculacciare il terroristuncolo di turno e a permettere che l’America regni pingue e sovrana. Inutile dire come basti anche una superficiale conoscenza di Metal Gear e di Kojima per evitare questo malinteso, e analizzare più correttemente il profondo e per certi versi contrastante sentimento di Kojima verso la superpotenza (che con il realizzarsi del piano dei Patriots diverrebbe di fatto un’onnipotenza). Il racconto di Black Color ( Metal Gear2: Solid Snake) sulla distruzione di Outer Heaven dopo la fuga di Snake e del conseguente massacro di vittime civili da parte dell’America, l’accusa di Sniper Wolf in Metal Gear Solid relativa alle responsabilità americane per la tragedia curda, le terribili rivelazioni sugli esperimenti genetici della Guerra del Golfo sono solo tasselli di un ritratto tutt’altro che benevolo della superpotenza da parte di K ojima, la cui summa sarà il velenoso anatema contro la civiltà occidentale ad opera del Colonnello in MGS2, che successivamente analizzerò più dettagliatamente. Tuttavia vi è dell’altro: l’evidente amore


:FRAMES: che Kojima nutre per la libertà e la democrazia di cui gli Stati Uniti sono il simbolo (è un fatto oggettivo il loro ruolo nella creazione della d emocrazia moderna e nella sua protezione durante i conflitti mondiali e la Guerra Fredda), chiaro nella s equenza finale di MGS2 avente come sfondo la Statua della Libertà. È innegabile, per quanto spietate siano certe accuse, che in fondo Kojima ami quello che l’America rappresenta, o dovrebbe rappresentare. È altrettanto innegabile, tuttavia, il dubbio relativo ad una situazione mai creatasi nella storia, un dominio tanto assoluto e incontrastato da far riflettere sulla neccessità di una pluralità di vedute, di una suddivisione delle responsabilità e sulla tutela, soprattutto, di molteplici e differenziati interessi. La vertigine dell’onnipotenza, per dirla in breve, può dare alla testa anche a chi, come l’America, è cresciuta in modo relativamente libero e democratico, e trascinare il resto delle umane genti nella sua caduta. Dalle numerosi riflessioni presenti all’interno dell’opera Kojimiana capiamo come l’America rappresenti, nel bene e nel male, pregi e difetti della nostra cultura, mai così vicina ad elevare l’essere umano all’ i mmortalità (tramite la genetica, altro tema cardine della saga di Metal Gear) e nel contempo mai così v icina all’autodistruzione (armi di d istruzione di massa, inquinamento…). La cosa più curiosa è che l’avanzamento procede altrettanto speditamente su entrambi i fronti. Un’interessante analisi compiuta da un noto giornalista ipotizzava che l’intera popolazione terrestre ‘vivesse all’americana’: ne derivava un modus vivendi all’insegna dei con sumi smodati, delle macchine di grossa cilindrata, della dieta ipercalorica. Le conseguenze di un tale stato di cose si prospettavano catastrofiche: il pianeta Terra sarebbe divenuto inospitale per la vita umana nel giro di 15 anni, crollando sotto i colpi dell’inquinamento come un organismo cede ad un terribile cancro. Proviamo ad accostare a queste preoccupanti prospettive uno degli aspetti più radicati del sentire contemporaneo: sono in molti a sostenere che i privilegi tipici della vita lussuosa appena descritta andrebbe estesi ai paesi del terzo mondo, nel tentativo di livellare l’enorme disparità tra i due emisferi del globo e di creare un mondo uguale per tutti. Pur essendo l’idea in sé perfettamente comprensibile e legittima, viene da chiedersi se il punto da raggiungere non sia una soluzione

Ring#05 intermedia tra il sovrabbondante benessere e la più nera miseria, piuttosto che un balzo generalizzato della qualità della vita agli standard occidentali. Uno ‘sviluppo sostenibile’, per dirla in breve. Ma chi si dovrebbe fare carico di una simile ciclopica iniziativa? Non certamente le popolazioni dei paesi poveri, spesso e volentieri oppresse da tiranni locali che le dirigenze occidentali non hanno la volontà o la capacità di affrontare (Sniper Wolf: ”fummo cacciati come cani, giorno dopo giorno; fummo strappati dai nostri miserabili rifugi…e il mondo chiuse gli occhi di fronte alla nostra miseria”), spesso addirittura contrastate nel loro timido agire dalla candida avversione della popolazione occidentale ad ogni azione violenta ma risolutiva (basti pensare alla vibrante opposizione levatasi durante l’intervento dell’ ONU in Kosovo), nella convinzione che sia possibile risollevare le sorti di un popolo stremato senza spezzare il gioco del dittatore che su tale debolezza fonda la propria autorità.

Posto comunque che tale redistribuzione delle ricchezze fosse possibile, sarebbe la stessa società o ccidentale a rifiutarla. Gli slogan s ono qualcosa di gradevole se ascoltati nel corso di un dibattito televisivo, ma sarebbe curioso verificare la reazione del cittadino m edio di fronte alla privazione di qualcosa che ritiene suo indiscu-tibile patrimonio e che un funzio-nario statale prelevasse per fini umanitari, o più semplicemente all’ emanazione da parte di un qualsiasi governo di una pesantissima tassa sui consumi da destinare alla causa di uno stato centroafricano di cui la stragrande maggioranza della popolazione non riuscisse nemmeno a pronunciare il nome. Questo fenomeno avverrrebbe comunque a livelli ben più alti e i nfluenti, paralizzando uno sviluppo lesivo di troppi interessi scottanti (un esempio perfetto è la lentezza della produzione di auto a idrogeno, o la scarsa collaborazione degli USA nella stipulazione di trattati per la limitazione delle emissioni inquinanti). Si tratterebbe di reazioni del singolo, spontanee e istintive (presenti tanto nell’operaio sottopagato quanto nel magnate del petrolio),

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tese all’autoconservazione, e che solo in seguito otterrebbero risonanza pubblica; pretendere di cambiare questo stato di cose sarebbe come pretendere di impedire al sole di sorgere. Solo un improbabile monarca illuminato, un ‘filosofo reggitore’ estratto dalle opere di Platone avrebbe la lungimiranza e l’auto rità per indirizzare unilateralmente l’umanità in questa direzione. La società democratica ha invece, affianco ai suoi pregi, il difetto di aderire talmente tanto alla natura umana da lasciarne manifestare anche l’avidità, la meschinità, l’incapacità di ‘guardare lontano’. Di sicuro gli USA sono la voce più significativa di questa cultura, che in buona parte è ormai anche la nostra, a causa delle circostanze del secondo dopoguerra, dell’odierno annullamento delle distanze, della capillarizzazione dell’economia, di tutto ciò che si sottointende con il termine ‘globalizzazione’. Ma è equivalente dire ‘voce più significativa’ e ‘unica voce’? Ha senso parlare di un’unica espres-sione in una società basata su principi democratici? Le ‘mille voci’ della società digitale del XXI secolo possono essere ricomprese in un campione affidabile, e convertite in indicazioni che una dirigenza politica sempre più ottusa ed economicamente interessata possa interpretare e tradurre in paratica? _____________Libertà/Società In un’enigmatica intervista precedente al lancio americano di MGS2, Kojima affermò che il gioco avrebbe messo in discussione le basi della moderna società digitale. Inizialmente poco comprensibile, quest’ affermazione suonò a molti come un proclama pubblicitario. Niente di più lontano dalla verità: chiunque abbia capito (non solo giocato) MGS2 probabilmente ricorda gli svariati dialoghi nei quali venivano discussi aspetti dell’odierna comunicazione digitale. Citiamoli in ordine di apparizione: Presidente Johnson: “L’Arsenal Gear è più di una semplice arma. E’ un mezzo per mantenere tale il mondo. Eserciterà una nuova forma di controllo. I Patriots lo useranno per conservare la loro posizione dominante. In questo momento si sentono sotto pressione e minacciati…” Raiden: “Da cosa?” J: “Temono una sovrabbondanza di informazioni


:FRAMES: digitali. Che il mondo venga sommerso da un flusso inarrestabile di informazioni, e con esso anche l oro” …. J:“Una volta operativo, GW diventerà una forma di controllo completa mente nuova nelle mani dei Patriots, permettendogli di plasmare la ‘verità’ secondo i loro desideri.” In MGS, ci eravamo abituati a considerare le armi nucleari come i veri status symbol del potere contemporaneo. Ci aspettavamo qualcosa del genere anche in MGS2, ma eccoci di fronte ad un’arma ben più potente e versatile: il controllo dell’informazione. La reverenza con cui Johnson subordina le funzioni militari dell’Arsenal a quelle informative (o meglio ‘disinformative’) del GW rendono un’idea di questa potenza e rilevanza. Il discorso viene approfondito poco più avanti da Emma: Emma: “GW è un’enorme sistema di elaborazione dati, capace di controllare le informazioni su scala globale […] Oggigiorno le informazioni provengono da tutte le direzioni e sono liberamente distribuite. Informazioni di tutti i tipi, raccolte da server provvisti delle reti di comunicazioni più veloci in assoluto e dell’ultimissima tecnologia P2P, vengono liberamente divulgate ai singoli. Il processo accelera sempre di più e i Patriots sembrano temere questi sviluppi. Credono, da dominatori, di diventare dominati.” Raiden: “Qualcuno li scoprirà.” Emma: “No. La capacità mnemonica, e naturalmente la vita, sono estremamente limitate. Al contrario, le informazioni digitali durano praticamente in eterno. L’alfabeto ha 21 lettere, giusto? Potrebbe averne 30… cosa accadrebbe se le altre 9 le controllasse un programma?” Raiden: “Impossibile…” Emma: “Per niente. Anzi, qualcosa del genere è già in atto. Sai quanti geni ha un essere umano?” Raiden: “30 o 40 mila?” Emma: “Giusto. Questo è quanto fu annunciato dalla comunità scientifica all’inizio del secolo. Ma ce ne

Ring#05 sono all’incirca 100 mila, nell’originaria teoria formulata dagli scienziati. Le informazioni relative ai 60 geni mancanti sono state occultate dai Patriots.” Raiden: “Impossibile!” Emma: “Come lo potresti sapere? Sai com’è fatto un gene? Li hai contati personalmente?” Purtroppo le frasi di Emma sono terribilmente veritiere: il più significativo effetto delle innovazioni politico-tecnologiche dell’ultimo secolo è la decostruzione della verità. Se c’è una cosa che i principi democratici ci insegnano è che ognuno può avere la sua opinione a qualsiasi proposito. Ma un’opinione non nasce da sola: cresce sul terreno dell’informazione, sterile o fertile a seconda della qualità di quest’ultima. E il problema dell’informazione odierna è che non è quasi mai personalmente verificabile. Una teoria, ad esempio, vorrebbe che gli USA non abbiano mai mandato degli uomini sulla Luna, inscenando lo sbarco in uno studio hollywoodiano. Fa ridere, è inutile n egarlo; è un’ipotesi grossolana, ridicola (oggetto anche del curioso film ‘Capricorn One’), smentita da qualsiasi fonte. Ma posso IO, cittadino italiano privo di conoscenze astronomiche e fruitore di organi di informazione ufficiali o quantomeno riconosciuti, dimostrare che ciò non sia accaduto, magari allo scopo di utilizzare, per inimmaginabili scopi, i colossali fondi stanziati per il progetto Apollo? Ho in mano prove convincenti ed esaustive? Cambiamo il punto di vista: posso io, addetto alle relazioni pubbliche della NASA, portare al pubblico delle prove assolutamente affidabili allo scopo di dimostrare la veridicità dei fatti, smentendo le ipotesi farneticanti del fastidioso dietrologo innescatore della controversia? Le foto possono essere contraffatte, i filmati alterati. Non so a chi dare ragione. Non so a chi dare torto. Forse il nostro problema è che l’uomo di un tempo si preoccupava delle immediate vicinanze e della comunità a cui apparteneva, mentre al giorno d’oggi l’annullamento delle distanze spinge ad una necessità informativa smisurata rispetto al passato, e ad un’offerta informativa spropositata rispetto alle nostre facoltà di assimilazione e alla nostra intelligenza. Il mondo di tecnologie che stiamo creando ha la caratteristica di evidenziare impietosamente i nostri vincoli biologici. Approfondiamo il

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discorso. La parola al Colonnello Roy Campbell, dell’Esercito degli Stati Uniti: Campbell&Rose “Ci sono cose che esulano dalle informazioni genetiche… i ricordi; le idee; la cultura; la storia. I geni non contengono alcuna informazione sulla storia umana, ma non si tratta forse di cose meritevoli di essere trasmesse? ….abbiamo sempre conservato dei ricordi sulle nostre vite, tramite simboli, immagini, parole, su tavole di pietra e libri stampati. Ma non tutte le informazioni venivano tramandate. Una piccola parte di esse veniva elaborata e quindi trasmessa. Ma nella attuale società digitale, informazioni trascurabili vengono accumulate ogni secondo, nella loro pura futilità. Informazioni su rumori, indiscrezioni, calunnie, crescono e si moltiplicano ad un ritmo allarmante. Non faranno che rallentare il progresso e ridurre il ritmo dell’evoluzione… La società digitale incoraggia i difetti dell’uomo e favorisce la formazione di comode mezze-verità. Ti è sufficiente osservare le curiose, opposte moralità che ti circondano: si spendono miliardi in nuove armi, capaci di sterminare in modo ‘umano’ altri essere umani; i diritti dei criminali sono più rispettati della privacy delle loro vittime; vi sono milioni di persone che crepano di fame, ma noi devolviamo enormi donazioni per proteggere specie in pericolo…. tutti crescono sentendo gli stessi moniti: ‘sii buono con le altre persona, ma fai a pezzi la concorrenza’. Tu eserciti il tuo diritto alla ‘libertà’, e questo è il risultato: tutta retorica, per evitare il confronto e proteggerci dal dolore. Verità che invece sono frutto di interessi contrastanti continuano a essere accumulate nel bidone della correttezza politica e del potere. Tutti si richiudono nella loro piccola tana, limitandosi a riversare nella cloaca della società quelle verità che possono essere loro utili. Le differenti verità cardinali non si armonizzano, né


:FRAMES: vengono a collidere. Tutti dicono la verità, ma nessuno ha ragione.” Siamo a poche fermate dal capolinea, nella visione del Colonnello. Siamo l’unica razza animale tanto intelligente da procedere alla distruzione del suo stesso pianeta, e messi di fronte alle conseguenze del nostro operato ce ne usciamo con un ‘tanto morirò prima di pagare il conto’. Nella nostra infinita superiorità siamo capaci di disprezzare la legge della giungla e le usanze dei p opoli meno ‘avanzati’, salvo poi riproporre in forma attenuata lo stesso modello travestendolo da capitalismo e chiamandolo mondo libero. Siamo tanto umani e compassionevoli da difendere a spada tratta il diritto alla vita di ogni essere umano, quando è palese che tra qualche decennio, sconfitte le malattie e forse anche la morte, saremo talmente tanti da doverci sbranare per sopravvivere. Siamo gli specialisti del grigio, della terza via, del compromesso, del ‘cambiamo canale’. Così la vede il Colonnello: siamo le feci del ventesimo secolo che ammorbano il ventunesimo e non abbiamo neanche la capacità di ammetterlo. “Addestriamo dei ragazzi a scaricare napalm sulla gente, ma i loro superiori non vogliono che essi scrivano ‘cazzo’ sui loro aerei. Perché ‘cazzo’ è una parola oscena’ [Col. Kurtz, Apocalipse Now di Francis F. Coppola, 1979] Questo perché ipotizziamo mille cose, e non ne crediamo nessuna. Peraltro nessuno tra coloro che in teoria occupano una posizione che li dovrebbe investire del dovere di vivere e morire per diritti e ideali (la dirigenza politica) è disposto a dare il buon esempio, preferendo fare della propria posizione un semplice perfezionamento della normale nicchia che altrimenti gli spetterebbe nella società. E’ un fatto di cui ci si potrebbe rendere conto solo nel caso in cui, in un improbabile slancio di onestà, qualche politico confessasse la bassezza delle sue reali ‘motivazioni lavorative’, sbattendo in faccia al suo attonito elettorato volgarissimi vizi, sporche ambizioni personali dalle quali sarebbero in un primo momento schifati ma nelle quali non tarderebbero a riconoscersi in modo speculare.

Ring#05 Basterebbe un simile scricchiolio, e il fragile castello di carte della ‘moralità’ come la intendiamo oggi vacillerebbe piacevolmente. Un tempo lo Stato, L’imperatore, lo Zar, il Kaiser, il Duce, il Presidente o chi per esso stabiliva una M orale, corretta o abbietta che fosse. A seconda dell’errore o del successo della nuova formula, si muoveva il passo nella direzione successiva. Il problema della democrazia flessibile di oggi è, secondo il Colonnello, la sua staticità, la sua incapacità di evolversi coerentemente, preda dell’assordante vociare dei suoi componenti, tutti parimenti influenti nella determinazione del percorso evolutivo da perseguire eppure tutti parimenti incapaci di valutare la reale influenza/opportunità delle loro scelte per manifesti limiti personali (‘io voto Berlusconi perché è il presidente del Milan’, ‘io voto PRC perché così legalizzano la marijuana’ ecc.’ ), rintronati come s ono dal loro stesso vociare e dal bombardamento informatico-televisivo che impedisce loro di r icordare alcunchè per più di qualche minuto (stupiti di fronte a come un anziano ricorda nei dettagli la sua gioventù? Ricorda meno cose e le custodisce m eglio, decidendo con più raziocinio). Conclusione: i Patriots vogliono proteggerci dalla decadenza, dall’autodistruzione. Il Colonnello ha detto la verità. Peccato che ‘verità’ in MGS non significhi niente.

sua fantasia, la vita gli ha insegnato a credere in quanto di buono possiamo incontrare lungo il nostro cammino, o a quanto di buono possiamo strappare alla vita lottando e sperando. Il progetto dei Patriots ha un p uro e semplice obbiettivo: Colonnello: “sarà così che avverrà la fine del mondo. Non con un’esplosione, ma con un sussurro. Noi stiamo cercando di fermare questo processo.” Sopravvivenza biologica, quindi; trasmissione della propria eredità genetica. I Patriots ragionano come un apicoltore desideroso di privilegiare la specie più produttiva, rendendola vincente e curandone l’equilibrio, come se la sopravvivenza rappresentasse l’ultimo obbiettivo, la soddisfazione di ogni sogno, di ogni aspirazione, come se la mera sopravvivenza subordinasse a sé m igliaia di anni di letteratura, scienza, filosofia, musica e poesia. Sopravvivenza: questo è quanto. Ma siamo sicuri che per un uomo sia tutto? Lo era per Liquid Snake: Snake: “vuoi dire che sono i tuoi geni ad ordinarti di prenderti cura dei tuoi parenti? Davvero toccante…” Liquid: “Io non ho intenzione di disobbedire ai miei geni” Mentre Solidus non ne era altrettanto convinto:

_____________Verità. Eredità. Se quanto abbiamo detto corrispondesse ad assoluta verità, ne potremmo dedurre che Kojima sia una sorta di nostalgico della monarchia assoluta, che proponga un rapido ed immediato disinnesco della società umana per come essa è oggi strutturata. La potenza concettuale e la spietatezza del monologo del Colonnello mi avevano quasi convinto di questo (e mi ero quasi convinto che avesse pure r agione). Ma Kojima, sposato e padre di un bambino, non è capace di racchiudere il suo pensiero in una visione tanto micidiale, per quanto scientifica e comprovata. Oltre ad usare la

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Solidus: “La torcia viene passata, di padre in figlio. E’ così che tutto funziona. Ma noi non abbiamo eredi, né eredità. Ci hanno clonati da nostro padre, ma rendendoci incapaci di riprodurci. Qual è il lascito di noi, che non possiamo passare la fiaccola della vita? Una prova, un segno della nostra esistenza. L’eredità trascende il DNA, comprende anche informazioni… tutto ciò che voglio è essere ricordato… da a ltre persone, dalla storia.” Il desiderio di lasciare una traccia, ossessione di Solidus, rappresenta l’impulso ad emergere, l’autoaffermazione, l’atto d’orgoglio di un Prometeo m oderno, il massimo terrore dei Patriots. Il concetto è caro anche allo stesso Snake, che nelle battute finali evidenzia a Raiden la necessità di comunicare le proprie convinzioni, ciò che per noi è ‘ab-


:FRAMES: bastanza importante da spingerci a combattere’. Il problema consiste, nell’ottica dei Patriots, nell’eccessiva risonanza che il pensiero individuale può ottenere grazie alla tecnologia odierna, con p aralizzanti conseguenze sulla società e sulla politica. Non è per loro concepibile che l’equilibrio di una specie possa essere messo in discussione dall’arrogante pretesa del singolo di vedere riconosciute le proprie idee: Rose: “l’individuo è per definizione debole. Ma tutt’ altro che privo di potere: una sola persona è potenzialmente in grado di rovinare il mondo”. Essendo la loro unica preoccupazione quella di mantenere in vita la razza umana, sono disposti a snaturarla, privando l’uomo a sua insaputa della possibilità di incidere sul suo habitat (il colonnello peraltro si dimostra dubbioso circa l’effettiva importanza di questa ‘natura umana’, basti pensare alle d isquisizioni riguardanti il termine self). Ma se è giusto che la vera forza risiede nelle idee, allora è sufficiente un’idea di Solid Snake per demolire questo unico obbiettivo, il risultato della perfetta ma asettica equazione del colonnello: Snake:“ Probabilmente un giorno la razza umana si estinguerà, e nuove specie popoleranno questo pianeta. La stessa terra potrebbe non durare in eterno, ma abbiamo comunque la responsabilità su quali tracce di vita lasciamo dietro di noi…” Snake, nel corso delle sue avventure, ha rischiato la vita più di una volta. Più di una volta è morto sotto i nostri occhi. Da quanto leggiamo è

Ring#05 chiaro che il pensiero che un giorno l’uomo possa estinguersi, il terrore del digicolonnello (e lo stesso motivo della sua esistenza: “noi stiamo cercando di fermare questo processo“), l’incubo dell’apicoltore che vede le sue api morire, non lo angustia in modo eccessivo. Non è la vita biologica ciò che interessa a Snake: l’uomo ha commesso molti terribili errori, nel corso della sua storia, e la sua scomparsa sarebbe solo l’ultimo dei tanti.

dono che abbiamo ricevuto? Perché, anche se il colonnello avesse ragione (come è probabile) e fossimo alle porte dell’ora più oscura della nostra storia, avremmo comunque il dovere di tentare e di sbagliare, e di pagare il massimo della pena, piuttosto che subordinare la nostra natura di uomini che ‘vivono’ alla necessità di sopravvivere. E’ questo, secondo me, quello di cui Kojima è convinto.

Naomi Hunter: “Non devi lasciare che siano i tuoi geni a dominarti. Gli uomini sono in grado di scegliere il tipo di vita che desiderano vivere. E allo-ra… vivi.”

Snake: “Dobbiamo ricordare, e ricordare a tutto il mondo di lottare per il cambiamento. Ed è questo che mi mantiene in vita”

Si ripropone un conflitto irrisolvibile (peraltro già citato nell’Indepth su MGS2-Ring#1), una dicotomia tra verità assoluta (basata sull’obbiettiva necessità di riorganizzare una società che sta impazzendo) e verità relativa (basata sul sentire individuale, più ‘umana’ ma pericolosa alla luce di quanto detto). Il Colonnello individua la soluzione privilegiando l’utilità, mentre Snake la sceglie su basi etiche. Non ho certo la pretesa di indicare in questa sede l’una o l’altra soluzione, anche perché francamente mi è difficile scegliere. Ma è un problema che indubbiamente Kojima si è posto, o che quantomeno ha voluto suggerire al videogiocatore. Non è peraltro difficile individuare l’opinione di Kojima in merito: come al solito è Snake a farsi tramite delle sue idee. I Patriots provvedono affinché l’uomo sopravviva. Snake lotta a ffinché l’uomo viva. Perché, in quanto uomini, ci è concesso peccare di presunzione e arrogarci il diritto di pensare e sognare, di godere del

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Ed è quello che lo mantiene in vita dentro di noi, anche quando spegniamo la console e ci dedichiamo ad attività secondo gli altri più serie di quanto non siano i videogiochi. Ma ciò non ci deve illudere: gli spettri evocati dai Patriots (inquinamento, ipocrisia, autodistruzione) sono qualcosa di terribilmente reale, qualcosa a cui TUTTI diamo il nostro contributo ogni giorno, inconsciamente o meno. Il conto alla rovescia per la fine del mondo è iniziato da tempo, e non avremo bisogno né di invasioni aliene né di asteroidi per arrivarci. Il finale di MGS2 privilegia la soluzione di Snake, ma con MGS3 Kojima potrebbe compiere una u lteriore riflessione, e rimettere tutto nuovamente in discussione. Nel frattempo avremo tutto il tempo di rifletterci per conto nostro, e di considerare scelte che nessuna lezione scolastica, nessun libro, nessuna pellicola ha mai avuto modo di proporci. Snake:”It’s for you to decide. It’s up to you”


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gAMEWOOD bABYLONIA____________________________ [Game’s History] di Amano 76 I protagonisti. Le stelle. Gli idoli. Ring traccia la storia dei miti più popolari del mondo videoludico, in una biografia non ufficiale senza peli (pubici) sulla lingua. Parappa. Il bastardo di L.A. "L'uomo da sempre sfrutta il cane bianco, e gli fa fare film idioti. Non dobbiamo accettare film razzisti come la Carica dei 101, o Antartica, o Balto." Parappa agli Mtv music awards 1999 Parappa nasce il 1994, a Los Angeles, ma viene venduto a ncora in fasce ad un canile di p eriferia; un fatto che lo segnerà indelebilmente, tanto che più volte il cantante si difenderà ai microfoni dei giornali dichiarando che "non sono stronzo, è che mi è mancata la figura paterna". Cresciuto orfano nei sobborghi di L.A, Parappa è un semplice cane bianco in un quartiere di mastini neri, e non passa molto tempo prima che un giorno un gruppo di randagi lo assalga, pestandolo selva ggiamente. Dopo diverse settimane dal veterinario, Parappa compra due 45, guarda tutti i film di John Woo per farsi coraggio, e poi esce di casa per andare a fare "giustizia". Il resto è storia. L'ascesa di Para ppa mette in soggezione tutta la criminalità organizzata americana, e la sua crudeltà è tale che Tarantino lo vuole per la parte di Jules in Pulp Fiction (assegnata all'incapace Samuel Jackson dopo il rifiuto del gangsta -rapper). Nel gennaio 1996 lancia il suo primo singolo "dog the way I am", che per sette mesi domina le classifiche di Mtv, e che lo lo lancia nello stardom del rap. Due mesi d opo pubblica il suo primo album "ain't nothing but Pal", in cui il rapper di colore si scaglia co ntro il cibo per cani, gli amici ipocriti, e le conversioni europee. Nel 1997 n i contra, in uno strip club di sua proprietà, il programmatore Masaya Matsuura e i due decidono di ideare un videogioco che ritragga il piccolo bastardo bianco nella veste che più gli si addice,

quella di innocuo fanciullo spensierato; "perchè in realtà anche io ho dei sentimenti", d ice. Il gioco, prodotto con il ricavato del concerto Drop the Debt (che Para ppa ruba dal camerino di Bono Vox) si rivela una killer application e il rapper di L.A. diventa un icona pop a tutti gli effetti. Nel 1999, sospettato dell'omicidio di J.J. Cool L., viene incarcerato per breve tempo. E' l'indiziato numero uno, ma i cani hanno il divieto di ingresso in tribunale e il processo non può quindi avere luogo. Para ppa resta impunito, la fedina p enale intatta, ma il rapporto con Sony si incrina. Alla notizia di Un-jammer Lammy, Parappa perde la testa: con l'amico di sempre Pluto (diventato alcolizzato dopo una breve ca rriera su Topolino), entra in casa di Kakato Maiscocciato, produttore di Un-jammer Lammy, e crivella di colpi l'uomo, la moglie, i due figli, e il 49 pollici al plasma appena co mprato dalla vittima. Sony corre ai ripari e tenta il tutto per tutto con Parappa 2: la lavorazione è difficile. L'alce Mooselini, dopo il successo o ttenuto come protagonista nel video dei Queens of the Stoneage, si rifiuta di fare da spalla a Parappa e scoppia la rissa: M asaya Matsuura seda gli animi, ma ormai è ufficiale, nessuno vuole più il gioco del canerapper. Incapace di stare lontano dalle luci della ribalta, di recente "il bastardo di L.A.", è riapparso a fianco di Snoopy Doggy Dog nel brano "you lil' skum-fagg", in cui i due controversi artisti denunciano la

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corruzione all'interno dei cinodromi. Il prossimo progetto di Parappa è al momento ancora sconosciuto, ma siamo sicuri che nel frattempo si divertirà a crivellare di colpi qualcun altro. __Snake. Significati nascosti "La mia guerra è finita, colonnello" La frase di cui Rambo e Snake si contestano a vicenda i diritti di sfruttamento da più di vent' anni. Appassionato di nascondino e sigarette sin dall'età di 6 anni, Solid Snake, nome d'arte che il bambino prende in prestito da un suo mito d'infanzia (un attore porno con due cazzi, protagonista di innumerevoli cult) si arruola a 18 anni nell'esercito degli Stati Uniti. Dopo un paio di missioni in cui Solid sopravvive a tutti i membri del plotone (mimetizzandosi nella vegetazione mentre i comp agni crepano uno dopo l'altro), viene reclutato per missioni della massima importanza. È un successo: Snake trafuga bombe atomiche, uccide centinaia di mercenari innocenti alle spalle, e colleziona innumerevoli poster di giapponesine in costume. Nel 1986 scrive un autobiografia che vende milioni di copie, una delle quali fin isce sulla scrivania di Hideo Kojima, giovane designer di videogiochi con la predilezione a guardarsi allo specchio, attività che lo stesso definisce "esercizio alla metarefere nzialità". I due si incontrano, ed un


:FRAMES: anno d opo viene prodotto Metal Gear Solid: Snake diventa il pers onaggio di videogiochi più popolare del mondo. Ma il successo è breve. Durante la lavorazione del secondo capitolo, sparisce misteriosamente: nella fretta di portare a termine il sequel, Kojima lo sostituisce con un ex-Backstreet Guys, Sugar Raiden. Snake si è in realtà nascosto a scopo dimostrativo sotto la scrivania di Kojima, ma la sua abilità è tale che nessuno riesce a individuarlo e la lavorazione va avanti. Tra il furore popolare, Mgs2 esce sul mercato, ma le critiche sono tante. Solid Snake e il noto game designer hanno un violento diverbio, in seguito al quale l'eroico/codardo soldato dà le dimissioni da Konami, e si dedica a consumare gli ultimi giorni di popolarità che gli sono rimasti. Dopo una breve relazione con Ayame, eroina di Tenchu, che recentemente in un intervista rilasciata per Times confessa di non averlo mai dimenticato, Snake è stato implicato in una grave rissa nel locale Dessert Storm, abituale ritrovo di militari in pensione. A quanto pare qualcuno gli ha urlato alle spalle "meglio Winback!", e l'exdipendente di Konami ha perso il controllo e ha cominciato a pestare tutti quelli che gli capitavano a tiro. Si sono di nuovo perse le sue tracce finchè non è riapparso alla ribalta un anno fa, quando è stato arrestato per molestie sui minori. "Stavamo solo giocando a nascondino", ha detto alle telecamere, ma il processo è ancora in corso e non si sa cosa il futuro riserverà all' ormai invecchiato Solid. _______Mario, Luigi, Wario. Figli di miyamoto "Lo sai dove ge lo infilo il tub-

Ring#05 bo?" Il campionamento vocale, in seguito censurato, che Mario declamava nella versione giapponese di Donkey Kong. L'associazione mafiosa conosciuta come Mario Bros, composta dai fratelli Mario, Luigi, e Wario, nasce a Kyoto durante il Dopoguerra. Di origini palermitane, i tre cominciano le loro attività con una pizzeria che in breve fallisce, e li costringe a reinventarsi idraulici (mestiere di cui ben poco si intendevano) come da tradizione di famiglia. E' il 1983 quando un tale di nome Shigeru Miyamoto chiede soccorso ai tre fratelli per un water otturato (da cui il gergale modo di dire dei playstationari: "una gran stronzata di Miyamoto"), e i Mario Bros, notata la bonarietà dell'uomo, gli estorcono 20'000 degli attuali euro con la ripromessa che "jorn eranno prescio". Tuttavia con il secondo prelievo i fratelli aggiungono un ricatto ulteriore: vogliono diventare famosi e Miya moto d eve aiutarli. Il pover' uomo, disperato, esaudisce le loro richieste nell'unico modo che gli è possibile: li mette in un videogioco. I tre, non avendo altre possibilità di sbocco (in Giappone non esistono i sindacati), attendono con fiducia: ma ecco che Yamauchi, che non si piega e non si spezza, viene a conoscenza del folle progetto, prende una delle sue centinaia di mazze da golf e la frantuma sulla testa di Miyamoto, gridando che il progetto verrà immediatamente interrotto. Alla notizia, i Mario Bros non esitano a "cercare di convincere" il nonno-samurai: la mattina successiva, Yamauchi si ritrova nel futon 4 teste di cava llo, 2 teste d'asino, 8 teste di panda, e 5 teste a caso tra amici e parenti. Il resto è storia. Donkey Kong vede la luce, e i

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Mario Bros danno il via al loro regno di terrore. Stabilitisi a Kyoto, i tre inaugurano vari progetti solisti (Luigi, il più fesso dei tre, dovrà aspettare ben vent'anni per un gioco tutto suo) ma la loro unione resta salda nel tempo, e anche Miyamoto con gli anni diventa sempre più "uno di famijja". Eppure "tutto inizia per finire" diceva il poeta, e non ci vuole molto perchè nascano i primi contrasti. All'origine, ovviamente, una donna: conosciuta col solo nome di Peach, nome d'arte scelto per lei dal suo pappone James Woods, viene raccolta dalla strada da Mario, che nel frattempo s'era anche comprato un paio di la uree ad Harvard ed era diventato dottore, cosa che lo aveva reso un pò spocchioso nei co nfronti dei due p arenti. In breve tempo Peach viene però sedotta da Wario, che tradisce i suoi fratelli e si porta via la donna. Coinvolto da faide intestine, il clan Mario si scompone, e Miyamoto lascia il mondo dei videogiochi per dedicarsi al salvataggio dei delfini. Di lì a poco, Luigi finisce in prigione per tre accuse di plagio (una per ciascun ghostbuster) e muore in un orgia s odomita tra carcerati, per cause a tutt'oggi ancora sospette. Wario, reinventatosi spacciatore, viene ucciso in un agguato dagli Snow Bros, clan emergente di mafiosi esquimesi residenti a Kyoto, che si era fatto strada attraverso lo smercio della "polvere bianca". Mario, incapace di dimenticare i fratelli, pur con tutto quello che c'è stato tra loro, si è risposato con Peach e si è comprato un isola ai Caraibi, dove pare tiri ava nti gestendo uno spaccio di cocomeri e cocktail, in attesa che Martin Scorcione finisca di girare il film tratto dalla sua autobiografia.


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iL fASCINO dISCRETO dELLA bORGHESIA [Fitter Happier More Productive] [VERSUS: The Sims] Round One, di Ferruccio Cinquemani “Nel mezzo del cammin di nostra vita…” Dante Alighieri Mentre su PS2 esce The Sims il videogiocatore consolaro non può non sentire la necessità di comprendere perché. Perché The Sims è il videogioco per PC più venduto al mondo? Perché? Cosa c’è di così attraente in una “simulazione di vita”? I videogiochi per PC sono sempre stati un mistero per i possessori di console: l’opinione media del giocatore consolistico medio è che i giochi per computer siano senza centro, che ruotino attorno a concetti oscuri e presuntuosi. Che siano, in qualche modo, dilatati, senza un vero scopo. Stereotipi, è vero. Pregiudizi. A rgomentazioni vecchie e poco obiettive. Ma se c’è un videogioco capace di rafforzare questi stereotipi, questi non può che essere The Sims. Quello che vi raccontiamo è il viaggio di un giocatore di console nei lidi lontani del gioco per PC, fra estetica, sociologia, etica e politica. Tenendo sempre presente la domanda ultima: perché The Sims ha avuto un successo senza precedenti? ____________Estetica dei sims Musica lounge. Easy listening molto fuori moda. Colori pastello e musica da-ba-da-ba-dà e shalla-la-là. Immagini e suoni che introducono il giocatore in un mondo cannabinoide… L’aspetto grafico-sonoro di The Sims lascia spaesati: tutto è ovattato, semplice e caldo. I menu sono essenziali, tinti di blu, pieni di tanti bei bottoni da premere. Le musiche sembrano canticchiate da una tranquilla casalinga mentre allegramente (!) svolge il proprio lavoro. In The Sims non si trova l’allegria caciarona di un qualsiasi Super M ario. Sì, i colori pastellosi ci sono. Sì, le musichette facili facili anche. Ma se Mario è anfetamina, The Sims è hashish. La grafica del mondo dei Sims non è allegra, è serena, tenue, rassicurante. Sarebbe allegra, se solo l’umanità non fosse così cronicamente insoddisfatta. Sarebbe realistica, se solo la vita fosse come una puntata di Happy Days.

La verità è che c’è qualcosa di profondamente inquietante nell’aspetto grafico di The Sims. La casa, luogo di esistenza della little computer people, è tutta imperniata attorno al sacro concetto di ordine. La casa, in The Sims, è come le astronavi nei film di fantascienza degli anni ’60: rigida, fredda, simmetrica, paurosamente ordinata. L’arredamento, per fare un esempio, può essere collocato soltanto in posizioni perpendicolari/parallele rispetto alle pareti. E ancora. Gli oggetti non si usurano. Tutto si perpetua, niente si rompe, niente cambia. C’è qualcosa di profondamente sbagliato nelle case dei sims. E il giocatore consolaro capisce presto cos’è quel qualcosa: queste case non sembrano case. Tutto è efficacia, razionalità, niente può stupire, diceva Manuel Agnelli; ed è questo il punto. Le vere case, per definizione, sono un centro di entropia centrifuga: sono calde, asimmetriche, spesso brutte da vedere. Le vere case sono luoghi in cui si riflettono le imperfezioni della gente, le loro incoerenze. Le case in The Sims, invece, sembrano delle macabre parodie delle vere case. Delle parodie naziste, imbevute di assurdi ideali di perfezione, di normalità. Anche il massimo del kitsch, in The Sims, non riesce a stupire. Anche i mobili più assurdi sembrano un semplice divertisse-ment che in fondo non aggiunge nulla al grigio della casa simsiana. Quella dei sims è un’estetica da casa di bambole, da set di telenovela: è un abisso di banalità straniante. Il giocatore consolaro, alla visione dell’omino anonimo vestito in maniera anonima che si aggira fra il tavolo minimalista verde chiaro e la poltrona blu scuro di fronte al megatelevisore del cazzo… il giocatore consolaro, dicevamo, sente un sottile brivido lungo la schiena. “Tutto questo è orribile”, pensa per un attimo. Poi sviene. E cade, come corpo morto cade. __________Sociologia dei sims Le relazioni sociali sono reticolari. Ogni essere umano inserito in una società ha una serie di rapporti e conoscenze che creano delle vere e proprie reti di relazioni. Amicizie,

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rapporti di lavoro, amori, conoscenze superficiali… tutti questi legami potrebbero venire rappresentati come linee che si intersecano formando ragnatele. E non solo: queste “ragnatele” spesso si incrociano fra di loro, formando delle matasse difficilmente districabili. Quando un tuo ex compagno delle elementari conosce la tua ex ragazza del liceo durante la tua festa di compleanno si crea un imprevedibile collegamento fra due reti relazionali lontane. E allora? Cosa c’entra tutto questo con The Sims? Nulla, ed è questo il punto. Le relazioni, in The Sims, non vanno oltre la tripartizione amore/odio/amicizia: niente complessità, niente profondità. I personaggi si salutano, si baciano, si fanno r egali, ballano assieme, a volta si schiaffeggiano, ma… ma nulla. Tutto rimane in superficie. Come l’iniziale ritratto della perfetta famiglia (americana) di American Beauty, l’affresco dei rapporti so-ciali di The Sims è desolante nella sua iperreale normalità. Il massimo che possa succedere è che un tuo vicino di casa ti venga a trovare. Lo accogli in casa e parlate del più e del meno. Poi lui saluta e se ne va. Il giocatore, a questo punto, mormora fra sé e sé: “allora è questa l’amicizia?”. Horror vacui. Come si può ridurre l’amicizia a delle conversazioni sporadiche sul più e sul meno? Perché il mio stronzissimo sim ha fatto amicizia col suo stronzissimo vicino di casa? Cos’hanno in comune? Cosa? Che fa nella vita il vicino di casa? Come ha vissuto f inora il mio sim? Chi era dieci anni fa? Tutto questo è troppo per il giocatore consolaro. Il poveretto si guarda attorno, osserva le foto dei propri amici, della propria ragazza, fruga nei ricordi. E si chiede, il p overo consolaro, come ci si possa affezionare a dei personaggi senza storia, come si possa essere affascinati da reti relazionali ordinate, simmetriche, cartesianamente schematiche e, soprattutto, spaventosamente inutili. Più che reti, o ragnatele, le relazioni simsiane s ono linee parallele e perpendicolari. Griglie, insomma.


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Il fatto è che più si tenta di simulare la vita reale, più ci si scontra con il caos. L’entropia che avvolge la vita umana è ciò che, in ultima analisi, permette alla vita stessa di essere imprevedibile. Il fascino della realtà sta in questo. Ma il videogioco non può ricreare il caos, se vuole essere divertente. Il videogioco, infatti, ricostruisce dei limitati ambiti di realtà, in cui le regole sono infinitamente meno complicate rispetto alla vita reale. Tutto ciò permette una maggiore densità delle esperienze ludiche, proprio perché molto più controllabili rispetto a quelle reali. Il videogioco, cioè, non imita la realtà tout court. Il videogioco elimina dalla realtà tutto ciò che non è divertente; quindi la interpreta. C’è una bella differenza fra emulazione e interpretazione. Ma ciò sembra sfuggire ai creatori di The Sims. The Sims annoia per la sua volontà di replicare la vita, senza distinguere fra ciò che ha senso portare su schermo e ciò che, invece, su schermo non funziona. E il videogiocatore consolaro i ntuisce che fare amicizia è diverte n-

Ring#05 te, ma far fare amicizia al proprio sim con un vicino di casa non è , in nessun caso, piacevole. Non si a vvicina nemmeno al concetto di divertimento. E allora il consolaro si incazza. Perché questo non è videogioco. Questo è reality gaming. È TV. È Grande Fratello. Il consolaro si incazza. Ma il suo viaggio di conoscenza non finisce qui. E quindi il consolaro, ebbro di rabbia, cade, come corpo morto cade. _______Etica e politica dei sims Il bravo sim compra. Il bravo sim non è depresso. Il bravo sim lavora. Fitter, happier, more productive, direbbero i Radiohead. Qual è lo scopo della vita? O meglio: qual è lo scopo della vita di un sim? Comprare. Avere un divano nuovo fa star meglio. La carta da parati è una scelta importante. Un televisore al plasma migliora l’equilibrio psicofisico di un individuo. Perché i giocatori si The Sims gioiscono quando comprano arredi per la casa dei propri personaggi? Cosa c’è di così fantastico in tutto ciò? Se un sim litiga con la propria moglie, l’unico modo per tirarlo su è fargli guardare la sua fantastica tv al plasma: difficilmente si era vista una simile parodia involontaria del consumismo. Se il videogioco è medium, cosa è The Sims? Sicuramente una visione distorta e

accelerata della società americana/occidentale. Ma anche un tipico caso di boria da game designer. Il tentativo di simulare la Vita, con la v maiuscola, si traduce in una deprimente sequela di azioni da compiere. Inutili considerate singolarmente (che senso ha la necessità di decidere quando il mio personaggio deve andare al cesso?), inutili considerate tout court (che senso ha scegliere lo stile di vita del mio personaggio se poi viene premiato soltanto uno stile di vita, quello più conformista?). The Sims è immorale per colpa del suo ultra-moralismo, della sua correttezza politica. Alla fine del suo viaggio di conoscenza, il videogiocatore consolaro guarda con più affetto le proprie console. Come per magia gli è to rnata la voglia di uccidere zombie, di scatenarsi in un’orgia di ultraviolenza digitale. Quindi ripone il CD di The Sims nella custodia con aria di sufficienza. Ma ciò non toglie che, nel profondo del suo animo, anche se la vergogna lo frena dall’ammetterlo apertamente, un po’ si è divertito a scegliere che divano a cquistare per il soggiorno digitale. Perché, nonostante tutto, il videogiocatore è incoerente, sempre e comunque. “E quindi uscimmo a riveder le stelle” Dante Alighieri

sO sIMS________________________________________ [VERSUS: The Sims] Round Two, di Paolo Jumpman Ruffino “The Sims è un gioco estremamente noioso e frustrante. Come lo è, del resto, la mia esistenza.” Matteo Bittanti, [(Dis)simulando The Sims] “Ho visto certa gente discutere abilmente della psicanalisi come fosse l’uncinetto.” Bluvertigo “Conosco le abitudini so i prezzi e non voglio comperare né essere comprato. Attratto fortemente attratto, civilizzato sì civilizzato. Comodo ma come dire poca soddisfazione” C.S.I

Dare un giudizio definitivo su The Sims è chiaramente impossibile, perché è impossibile stabilire in modo oggettivo se un videogioco, come qualunque altra produzione umana, sia bello o brutto, noioso o

divertente, simpatico antipatico. Quello che si può fare è affidarsi all’opinione della maggioranza, consapevoli che esiste un margine di possibilità non indifferente che il

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singolo individuo si trovi poi in disaccordo. Quello che ci dice la maggioranza dei videogiocatori su The Sims è che è un gioco brutto, perché assolutamente privo di spunti diver-


:INDEPTH: tenti. Ma questa opinione sembra contrastare con quella della maggioranza degli osservatori del videogioco tout court, che invece ritiene che The Sims sia un gioco molto interessante per molti aspetti diversi. Stando dunque all’opinione dei più, sembrerebbe che The Sims, un po’ come un bel acquario, sia tanto noioso quanto interessante. Una situazione forse paradossale, e che, sempre forse, merita un approfondimento. Ma a questo punto, dimostrata l’impossibilità di essere oggettivi nel giudicare questo o qualunque altro gioco, chi scrive si rassegnerà a descrivere quella che è la propria opinione personale perché sarebbe contraddittorio mettersi adesso a parlare per massime inconfutabili e incrollabili sillogismi. Quella che è dunque la mia personalissima opinione su The Sims partirà dal gioco in sé per andare poi a perdersi tra quelli che potrebbero essere degli spunti interessanti per una riflessione sul vivere moderno. The Sims ha un difetto principale: è poco longevo. E’ un gioco che d eve appoggiarsi ad un continuo scaricamento di patch e update per non perdere il suo appeal. Dopo aver visto e provato tutti i mobili disponibili ed aver commesso le peggiori nefandezze contro i propri omini resta ben poco con cui divertirsi. Ed ecco che spuntano fuori nuovi costumi, o diventa possibile organizzare party e comprare animali domestici. La fruizione di The Sims può essere maniacale, ci si può attaccare al gioco e non riuscire più a lasciarlo, oppure può essere saltuaria, con visite non troppo frequenti alla propria Sim-famiglia giusto per vedere come stanno. Il giocatore tipo di The Sims è del tipo maniacale, è a questo giocatore che sono indirizzati gli infiniti file di aggiornamento scaricabili via i nternet. Tutti gli altri che non vengono colpiti al cuore da The Sims si annoiano presto e lasciano il gioco senza che questo modifichi la loro esistenza.

Il fascino di The Sims che colpisce alcuni gamers è lo stesso che si può trovare in un qualunque catalogo IKEA. Ho notato personalmente

Ring#05 che tutti coloro che amano l’IKEA amano anche il gioco di Will Wright, una coincidenza che si spiega facilmente perché The Sims è il gioco che permette ad ognuno di noi di arredare la casa che vorremmo nel modo che vorremmo e c’è sempre grande soddisfazione nel vedere la propria abitazione crescere in bellezza e splendore con la fatica del duro lavoro. E’ il piacere del f eticismo più sfrenato quello che muove i giocatori di The Sims. Un’altra ragione di divertimento è data dalle condizioni in cui si possono ridurre i propri Sims, soprattutto quando devono vivere in tanti in piccoli spazi. La situazione tende drammaticamente verso il caos e tenerla sotto controllo è un compito duro. Alla fine, il sottile piacere di giocare a The Sims è lo stesso che si trova in tutti i giochi della serie inaugurata da Sim City: è il godimento morboso per l’ordine, la pulizia. Il vedere la Simcasa pulita equivale a vedere la Sim-città senza traffico o criminalità, o il Sim-ospedale senza topi che corrono per i corridoi. In un mondo incontrollabile, dove gli i mprevisti possono essere di tutti i tipi, avere sempre la possibilità di rimediare e controllare la situazione è il piacere più grande che si possa immaginare. Da questo ne deriva che The Sims è forse il gioco che meglio incarna il nostro mondo (moderno occidentale). La paura dell’uomo moderno è quella di non controllare la propria vita, la caduta dell’autorevolezza di alcun mezzi di comunicazione ha creato una sorta di sfiducia e diffidenza verso qualunque tipo di informazione. In un mondo dove ormai ognuno può dire la propria l’unica certezza è che qualunque informazione può essere smentita da qualcuno ma non ne può essere dimostrata la falsità. Mai come oggi sappiamo di non s apere, Socrate aveva precorso i tempi. Si affacciano nuove f obie, e dunque nuove (ma non troppo) necessità di sicurezza. Il nostro piccolo mondo interiore deve essere protetto dagli attacchi esterni, ma guardare solo il proprio isolato è una visione limitata. La famiglia Sims non è chiusa a “coltivare il proprio orto”, lavora fuori da casa e frequenta il vicinato, eppure noi vediamo solo la nostra abitazione perché è l’unica cosa che ci interessa. La cosa importante è che la c asetta sia in ordine, capire cosa succede fuori sarebbe troppo complesso. The Sims è l’incarnazione videoludica del bisogno di limitare i propri orizzonti. Un bisogno quanto mai sentito da chi avverte, seppure inconsciamente, la

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sempre maggiore impossibilità di capire il mondo. L’isolato si isola, non vuole neppure sentir parlare di quartieri o arcipelaghi. Non sappiamo se considerare questa come un’interpretazione del pensiero di Wright, perché forse questa idea non ha neppure sfiorato la mente del programma-tore. Ma di certo si spiegherebbe il piacere che molti trovano a giocare a The Sims, e cioè l’effetto catartico del poter ordinare qualcosa di così disordinato. Eppure, molti segnali ci indicano che, tra le righe, c’è una certa critica a questo modo di vivere. La rappresentazione della comunicazione è decisamente significativa in questo senso. I Sims comunicano tra loro attraverso delle icone, ogni icona rappresenta un argomento di discussione. Il tempo atmosferico, la guerra, la pace, i soldi. Questo e niente più sono capaci di dire i Sims. Se intendiamo la comunicazione come una razionalizzazione di un complesso processo interiore, una semplificazione dei propri sentimenti per renderli comprensibili a chi ci ascolta, ecco che la stessa sfera interiore dei Sims è (anche questa) ordinata. I Sims parlano ma soprattutto ragionano per luoghi comuni, non sono capaci di riflettere, non hanno sentimenti complessi. Odio, amore, indifferenza o amicizia. E’ un numero da zero a cento a dirci quanto due Sims legano tra loro. E ancora la lettura di libri è funzionale ad aumentare di un punto le proprie abilità in cucina, o in altre attività domestiche. Comprare oggetti artistici aumenta di un punto la felicità. E’ sempre così, felicità o tristezza sono numericamente calcolabili e sono l’effetto di una causa precisa. Ma la cosa più sconcertante di The Sims è che è il primo videogioco in cui non c’è niente di diverso dalla realtà. Non c’è nulla che non potremmo fare anche nella n ostra vita, non ci sono supereroi o eventi innaturali, non ci sono mondi da salvare, non c’è una conclusione. The Sims non promette di farci vestire i panni di chi vorremmo essere, anzi ci propina la vita di tutti i giorni. Eppure ha divertito 20 milioni di utenti PC. Ecco il punto più difficile da accettare. I Sims siamo noi. Contenti e realizzati dall’acquisto di un div ano, così stupidi, noiosi, ignoranti, superficiali. Diverte guardare i Sims come probabilmente sarebbe divertente guardare le nostre vite dall’esterno. Così ridicoli, eppure così SIMili a noi.


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l’eREDITA’ dI cAINO_______________________________ [Il nichilismo nel tempo e nello spazio di Soul Reaver] di Cristiano Bonora L'antieroe Raziel ha fatto la sua comparsa nel mondo degli horror adventure 3D senza portarci in casa lo splatter un po' pacchiano di Resident Evil, senza forzarci nello studio di uno psicanalista come ha fatto Silent Hill, e senza quel brivido tutto inglese e vittoriano dei quattro Alone in the Dark. L'esperienza offerta dalle peregrinazioni di Raziel attraverso l'angoscioso Reame di Nosgoth è fondata su di un' inquietudine tutta particolare, generata attraverso una singolare rappresentazione delle categorie di tempo e spazio.

Ma prima di tutto, chi è Raziel? Non si tratta di un eroe bello ccio in lotta per il bene dell'umanità, quanto di un individuo distrutto, nella storia e nella presenza ("Quale abbietta forma è questa che sono venuto ad abitare?!?" Si domanda risentito al principio del gioco). Il suo unico obiettivo è costituito dal proverbiale piatto freddo della vendetta. Raziel è l'icona consumata di un trascorso incancellabile.

Soul Reaver non ha quindi una trama positiva, rivolta al futuro. Raziel è una figura gualcita, senza speranze. Egli stesso non considera neppure l'eventualità di un'esistenza redenta, ma si limita a sguinzagliare contro Kain l'accidia che ha invecchiato nel Lago dei Morti. Eppure Soul Reaver ha una storia, peraltro molto co mplessa, ma tutta rivolta al passato: di Raziel, di Kain di Nosgoth. Ogni passo per le desolate lande di questo reame imprime un'orma appesantita da un futuro impossib ile, da un passato deflagrante e da un presente devastato. Nosgoth è finita. L'impero di Kain è finito. Il suo malgoverno ha ridotto il reame a un'infertile terra di nessuno. La nobile ra zza dei vampiri è precipitata a consumare pasti pietosi assumendo il profilo di animali randagi ("dai loro versi si direbbero cani rabbiosi ma la loro carne odora di vampiro"). Ma questa perdizione porta il segno incancellato di un passato grande e ambizioso. La ca ttedrale silenziosa, l'abbazia sommersa e i Pilastri di Nosgoth (una volta alti fino al cielo, ora dei miseri ruderi da museo) producono un effetto destabilizzante all’occhio dell’osserva tore. Lo spazio di queste costruzioni è vertiginosamente verticale. Le volte e gli archi che sorreggono queste imp onenti architetture di ispirazione gotica e moresca sono talmente svettanti che a malapena se ne riesce ad adocchiare la sommità. Tremano le gambe di fronte a certe montagne di mattoni. S o-

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no templi che chiamano in causa un tempo che ha costruito, ma oramai degenerato nell'a bbandono. Il cielo di Soul Reaver è impietoso, una lastra di piombo, senza giorno né notte.

Il suono di Soul Reaver è agghiacciante: urla disperate, ringhi sboccati e un vento incostante che tenta di convincerci pateticamente che a Nosgoth qualcosa si muove ancora. Alla luce, o all'oscurità, se preferite, di queste considerazioni, risulta quasi plausibile il finale inconclusivo del gioco, che vede Raziel frustrato dal mancato o ttenimento della sua personalissima giustizia. Soul Reaver non va da nessuna parte, è semplicemen-te il riecheggiare di un'apoca -lisse consumata in un abisso senza uscita. Appositamente ho scelto di non richiamare nessun frangente di gioco. Perché Soul Reaver non ha picchi nè momenti di ristagno: è un ossessivo e turbante Bolero che si trascina con gli stessi strumenti scordati dall'inizio a una fine che non c'è.


:RECENSIONI:

Ring#05

tHE cONCEPT oF tHE gAME_________________________ [Jet Set Radio Future] di Emalord

.:scHEda:. gENERE Stylish Action eTICHETTA SEGA sVILUPPATORE SmileBit sISTEMA XBOX aNNO 2002 gIOCATORI 1-3 vERSIONE USA

Jet Set Radio Future è un gioco stylish, pieno di tocchi di classe, un prodotto con tutte le curve a posto e di riflesso una calamita per gli sguardi. JSRF è un gioco per Softcore Gamers, per giocatori occasionali che guardano soprattutto al divertimento a breve termine, a controlli immediati e ad una suadente combinazione di suoni ed immagini. JSRF è lo specchio della filosofia Smilebit degli ultimi due anni: un quadro dalla splendida cornice e dai colori invitanti, che però non sempre equivale ad un'opera d'arte. Ma cominciamo dall'inizio, come si conviene alle cose che hanno un inizio. Definire JSRF come un gioco stylish non è cosa che necessiti gran dispendio di energie. I suoi mille piccoli tocchi di classe, affogati nella piattezza di gameplay, risaltano come il sorriso di una bella donna affiancato al sorriso di una palla da bowling con parruc-cone biondo, per simulare un con-fronto che sia il più serio possibile. Il gioco trasuda classe, ricerca del dettaglio, avversione per la b analità. A cominciare dall'uso del celshading, oggigiorno di moda ma primo esponente del genere quando l'originale Jet Set Radio calcò le scene Dreamcast nell'anno 2000. Il cel-shading non era, ai tempi, una delle possibili tecniche da usare. Il cel-shading era, ai tempi, qualcosa che doveva ancora essere inventato. Smilebit lo fece, e i fumetti presero vita. Classe, in soldoni, è anche creare mode, stili, generi. Si perché JSR, tre anni fa, era anche uno dei primi esponenti di una nuova generazione di videogiochi. Innovativo nella tecnica ma anche esponente di una contaminazione di generi che per pigrizia o intraprendenza pura potesse movimentare un mercato ormai saturo di simulazioni tutte uguali fra loro, gravido di cloni che imitavano cloni. JSR univa due concept sicuramente poco sfruttati: usare degli sk8ter boy come protagonisti e riempire una città di graffiti come finalità, variegando l'azione con forze dell'ordine sempre più agguerrite, corazzate e armate di d etergenti. Il tutto condito da una

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musica mai noiosa, a metà tra l'hip-hop, l'acid e la techno. Perché comunque la contaminazione è stylish. JSRF è un gioco perfetto per i Softcore Gamers e se mi chiedete perché io vi dico che la risposta è li, tra i vostri capelli e la punta dei piedi. Perché ciò che distingue Hardcore Gamers da Softcore G amers è, come parrebbe ovvio dal rimando a luci rosse, l'uso delle mani. Il Softcore Gamer di fronte a JSRF gode. Gode perché vede uno splendido uso dei colori, una colonna sonora cool, personaggi dotati di personalità in primo piano veicolati da una tecnologia a ll'avanguardia e per questo affascinante. Il Softcore Gamer è un guardone, si accontenta di osservare, sentire, giocare facile. L'Hardcore Gamer, invece, non si fa abbagliare da un paio di belle cosce ma guarda anche la sosta nza, quello che riesce a toccare con mano, e ahimè quello che tocca con mano è un joypad che usa pochissimi pulsanti proprio perché il gioco, di fatto, ha un'azione limitata e alla lunga noiosa. Sfuggire alla polizia, saltare e grindare ovunque, trovare gli item nascosti nello scenario e riempire la città di graffiti è un'operazione affascinante e divertente, ma per un periodo di tempo limitato. Se X -BOX non muovesse tonnellate di poligoni e non regalasse una gamma cromatica così stabile e calda, se le animazioni non fossero fluide e variegate, se gli scenari non fossero così ben differenziati e caratterizzati non rimarrebbe davvero niente di positivo da met-tere sul nostro bancone di recensori da strada. Perché è ora che anche il Gameplay rientri nella lista delle cose da rendere stylish. JSRF è lo specchio della filosofia di Smilebit degli ultimi due anni. Che in realtà è poi la filosofia della maggior parte delle softco Sega, che piaccia o no. Smilebit è assolutamente inattaccabile nel "creare" giochi stilosi. I suoi prodotti colpiscono dritto al cuore, settano nuovi standard visivi e sollazzano senza ritegno staffa, incudine e martello.


:RECENSIONI:

Ring#05

La softco Sega ci dimostra che dietro ai videogiochi ci può essere a rte, fantasia e creatività, ma ci m ostra anche, se ce ne fosse bisogno, che potenza, tecnologica, classe e stile non bastano a rendere un videogioco un'esperienza pienamente soddisfacente. Per godere al massimo di un videogame bisogna usare anche le mani, nel modo più

variegato e fantasioso possibile. E la cosa che più rammarica è che il predecessore su Dreamcast era sicuramente più completo e profondo sotto quest'aspetto. La simpatica idea di realizzare i graffiti con combo e mezzelune della versione DC, operazione che rendeva molto più ansiogeno il proprio compito mentre si era circondati da i n-

cazzatissime forze dell'ordine, è stata rimpiazzata dalla semplice pressione di un grilletto nella versione per Gatesmobile, e non venitemi a dire che questa è evoluzione. Perché fare cose stylish è bello, ma renderle appaganti è meglio.

sOLDATI fRANTUMATI_____________________________ [Contra Shattered Soldiers] di Gatsu _______Dalle nebbie del tempo

.:scHEda:._______ gENERE eTICHETTA sVILUPPATORE sISTEMA aNNO gIOCATORI vERSIONE

Sparatutto Konami Konami PS2 2002 1-2 PAL

Molta acqua è passata sotto i ponti dall’ultima decente apparizione di Contra su una console casalinga (le versioni uscite per PSX sono qualcosa da non consegnare ai p osteri). Era il lontano 1992 quando Contra Spirits approdava sugli SNES di mezzo mondo spargendo il suo credo a base di di-struzione e riflessi scattanti. Il seme piantato in quel periodo da Konami non era solo: molte altre case in quei giorni gloriosi dedicavano gran parte delle loro attenzioni agli sparatutto, equamente divisi fra quelli più piattaformici e quelli di ispirazione “astronavica”. Ma si sa, le nebbie del tempo inghiottono un po’ alla volta tutto quanto, e miglior sorte non è toccata ad un genere che n egli anni successivi conobbe un declino terribile e ingiusto, tanto da giungere alla (quasi) completa estinzione. Lovecraft diceva “non è morto ciò che in eterno può attendere”, e dopo tutto questo tempo dedicato a giochi dalle meccaniche profonde e dalle trame i ntricate la voglia di blastare e distruggere tutto è riaffiorata prepotente nell’animo dei videogiocatori di vecchia data… Il palpabile successo commerciale di Ikaruga (Treasure, 2002) è stato il primo passo. Forte di questa ritrovata nicchia commerciale, Konami ha pensato bene di rispolverare uno dei suoi franchise più amati, da troppo tempo in attesa di una nuova degna incarnazione. Bando alle ciance, un tasto per sparare, uno per saltare ed uno per i colpi speciali è tutto ciò di cui abbiamo bisogno… _________________CONTRAsti Contra: Shattered Soldier è, nel bene e nel male, una versione e nhanced di Contra Spirits. Punto. Se questo era tutto quello che v o-

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levate comprate Shattered Soldier ad occhi chiusi e non ve ne pentirete. Se invece pensate che in un decennio potevano anche venirsene fuori con qualche trovata originale, beh… fateci un pensierino lo stesso, perché nonostante non sia un titolo esente da difetti Contra mostra un level design che spesso è tanto sopraffino quanto ostico, in grado di regalare una sfida non indifferente per chi non si arrende alle prime difficoltà. Partiamo dalla superficie per scendere poi attraverso i vari strati che compongono il revival Konami. Graficamente Shattered Soldier sarebbe un titolo più che discreto. Scrivo “sarebbe” perché se pensiamo che è licenziato dalla casa più esperta nel sottomettere il m alefico hardware PS2 (gli eccel-lenti motori grafici di MGS2 e di ZOE2 stanno lì come implacabile testimoni di questa affermazione) viene quasi da piangere. Certo, non tutti i team sono come quello capitanato da Mr. Kojima, ma fra Contra e i titoli sopracitati c’è un abisso che, senza scherzi, può essere definito generazionale. Nonostante la fluidità in game sia sempre costante (presente anche il selettore per i 60Hz) e alcuni effetti e/o passaggi siano di buona fattura, per la maggior parte degli stage pare quasi di assistere ad una versione hi-res di un gioco per N64: texture scialbe, colori smorti, scelte cromatiche d iscutibili (in alcuni rari, fortunatamente, punti risulta persino difficile percepire correttamente cosa stia succedendo) e complessità poligonale molto scarsa. In sostanza: v isivamente Shattered Soldier appare terribilmente nella media dei titoli PS2, incapace com’è di attingere all’indubbia potenza bruta del monolite. Chiarito questo punto (non il più importante, credetemi), vanno segnalate delle passabili musiche metalleggianti (con doppia cassa sparata a mille) Ed effetti so-


:RECENSIONI: nori nella norma. Due p arole vanno spese per la modalità a due giocatori: fortunatamente il team responsabile è stato così saggio da non raddoppiare, come spesso a ccade giocando in due, la presenza nemica su schermo, controbilanciando il tutto con una maggior resistenza dei già fin troppo coriacei avversari. Inoltre, la possibilità di usufruire delle vite dell’amico “ancora vivo” apre la strada ad una partita più tattica e accorta del solito, che vi porterà a elaborare str ategie di attacco niente affatto elementari per massimizzare la vostra potenza di fuoco. Ben fatto. Sorvolabile invece la trama inserita fra un capitolo e l’altro (Dio mio, perlomeno un doppiaggio in inglese, il colonnello nemico appare aggressivo come il compagno di banco di Link…), così come la caratterizzazione dei personaggi (Bill, ex prigioniero di guerra e la sua “dolce” controparte femminile). Da segnalare inoltre qualche inspiegabile mancanza nei menù: impossibile infatti abilitare il salvataggio automatico dei dati (nel senso che se completate due stage con punteggi strabilianti e poi spegnete la console senza ricordarvi di passare per il menù Opzioni > Memory Card, perderete tutti i dati), o l’impossibilità di uscire dal gioco (!) prima di aver perso tutte le vite a disposizione… Insomma, lo avete capito, non è certo sotto l’aspetto tecnico che Contra: Shattered Soldier brilla. Vediamo dunque cosa invece funziona come sarebbe lecito aspettarsi da un titolo di questa caratura. _______________Odore antico Contra: Shattered Soldier è, lasciatemelo dire, come una cipolla con la sorpresa. Una volta spogliato dei suoi strati superficiali, il titolo Konami si rivela per quello che è: un signor gioco. Innanzitutto è indispensabile qualche seduta per far pratica con il sistema di controllo (non eccessivamente intuitivo, ma ben studiato. Mi domando solo se non ci sarebbero stati maggiori vantaggi nel delegare lo stick analogico di destra alla rotazione dell’arma e i vari L e R al salto e allo sparo, rispettivamente). Imparare a gestire la possibilità di fermare il nostro eroe e muovere l’arma, o di fissare l’arma e muovere l’eroe è una condizione irrinunciabile al vostro peregrinare fra i 6 stage (non molti a dire la verità, ma ci metterete diverso tempo ad affrontarli con tranquillità). Oltre a questo, è richiesto uno sforzo

Ring#05 mnemonico che forse non facevate (volontariamente) da tempo: Contra deve gran parte del suo appeal all’ottimo level design, che costringe ad una memorizzazione s istematica dei pattern più adatti, a riflessi sopraffini e a tempistiche perfette. Difficile superare uno stage per pura fortuna: Shattered Soldier stimola quei meccanismi arrugginiti che una volta servivano per infrangere i record in sala giochi e ci trascinavano nell’irrinunciabile “un’altra partita e poi smetto”.

L’indovinata idea di concen-trare l’attenzione sui titanici scontri con boss e miniboss (massicci e bastardi in particolar modo il lombricone d’acciaio del terzo stage e il mecha appassionato di sci nautico del quarto) a scapito dei normali nemici, qui poco più che fastidiose comparse, favorisce quindi il nostro a pproccio tattico e strategico, e stimola quella maledetta voglia repressa di provare nuovamente a noi stessi che no, quella fottuta sventagliata di plasma non è certo impossibile da evitare. Contra emerge dunque fiero da un mucchio fatto di tanti contenitori e pochi contenuti… certo è forse un monumento punteggiato dalle cacche dei piccioni e rovinato dall’usura del tempo, ma ciò non gli impedisce di ricordarci come eravamo noi e il videogioco appena una manciata di anni fa, e lo fa con uno stile che potrebbe perfino accalappiare q ualche nuova leva in cerca di un po’ di sfida. Ad di là di tutte le considerazioni affettive che si possano fare su un titolo che porta un nome tanto glorioso, sorvolando pure sugli evidenti omaggi ai vecchi episodi della saga (il boss del primo stage, ad esempio, è una vecchia conoscenza), Contra: Shattered Soldier è un gioco che merita atte nzione nonostante sia tecnicamente e concettualmente inferiore alle aspettative, perché sotto la sua scorza poco attraente batte il cuore puro delle sfide vecchio stampo.

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Notizia Flash: BAGHDAD: I Legali del dittatore iracheno Hussein Saddam, hanno intentato causa a Sony Computer Enterteinment. Il procedimento prende luogo a seguito dell' acquisizione, da parte del regime iracheno, di un lotto di PS2 da impiegare per la guida dei missili terra-aria. Una disfunzione di PS2 ha causato l'errato impatto di un missile iracheno che, giorni fa, ha raso al suolo un mercato della capitale. Oltre alla richiesta di risarcimento (per danni materiali e d'immagine), i legali di Hussein annunciano che il Raìs è tutt' ora indeciso se continuare l'uso di PS2. Hussein si è anche detto insoddisfatto per l'altalenante qualità dei giochi.

Errata Corrige Sul numero precedente Ring ha recensito la versione americana di Metroid Prime, premiato dal recensore con un sonoro A. Ebbene, dopo attenti esami si è deciso di abbassare il voto da A a C, a causa di un problema che inficia pesantemente il titolo dei Retro Studios, e di cui il recensore non ha fatto menzione alcuna (si sta indagando su eventuali mazzette pagate da Nintendo): in MP il Game Over non è accompagnato dal consueto spogliarello di Samus Aran. Nell’attesa che quest’assurda mancanza trovi una giustificazione, Ring si scusa con i lettori per l’imperdonabile svista.


:RECENSIONI:

Ring#05

pRIMAL dOVERE, pOI iL pIACERE

__ [Primal]

di Cristiano Bonora

.:scHEda:.______ gENERE eTICHETTA sVILUPPATORE sISTEMA aNNO gIOCATORI vERSIONE

Adventure SCEE Studio Cam. PS2 2003 1 PAL

A seconda delle situazioni il soundtrack alterna sapiente mente gli energici temi rock realizzati dalla band inglese 16 Volt a brani orchestrali di grande i ntensità.

Titoli di testa. Notte, carrellata su un trafficato ponte sospeso. Nella mente sussulta il ricordo di Metal Gear Solid 2, ma la telecamera dirotta dal ponte verso un locale notturno della Londra underground. Una figura granitica e inquietante si fa spazio tra i frequentatori del club, mentre una band hardcore ne calca il palcoscenico. A fine concerto Lewis, il cantante del gruppo, abbandona il locale a piedi accompagnato dalla fidanzata Jen. I due non sanno di essere seguiti, e dopo pochi metri subiscono la brutale aggressione del losco individuo di cui sopra. Li ritroviamo ricoverati in ospedale, sprofondati in coma. Nella camera di Jen compare una creatura bizzarra, il gargoyle Scree, che trasferendo parte delle sue energie vitali nella ragazza riesce a destarne lo spirito e a condurlo in una dimensione che trascende la nostra realtà. Jen varca la soglia di Oblivion. E nulla per lei sarà più come prima. A parte il suo spensierato senso dell’umorismo… La strana coppia accede al Ne xus, punto di convergenza dei quattro mondi di Oblivion: Solum, Aquis, Aetha e Volca. Scree fa il Cicerone e illustra a Jen l’equilibrio su cui si regge Oblivion: i quattro mondi sono abitati da creature demoniache allineate con le due forze primarie, Ordine e Caos, rispettivamente personificate in Arella, di cui Scree è servitore, e nel malvagio Abaddon. L’energia positiva emanata da Solum e Aquis ha sempre bilanciato la negatività sprigionata da Aetha e Volca. Ma ultimamente Abaddon si è insinuato anche nei mondi di Solum e Aquis, infettandoli con il germe del Caos, compromettendo l’equilibrio di tutta Oblivion e mettendone a repentaglio la sussistenza. Inoltre, per una reazione a catena di infingardaggine murphiana, con il collasso di Oblivion svanirebbe anche il mondo di Jen. Ciliegina sulla torta: anche lo spirito di Lewis pare sia stato imprigionato da qualche parte in Oblivion. Il distino di una manciata di mondi è quindi tutto racchiuso nelle mani di colei che si scoprirà “mezzo sangue” (mezza u mana e mezza demone), eletta da Arella per ripristinare l’equilibrio interdimensionale. L’eletta, manco a dirlo, è proprio Jen, una fanciulla poco più che ventenne dai modi sbarazzini, la battuta facile e l’insa-

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nabile tendenza a non prendere nulla sul serio. ____Lasciate ogne speranza voi ch’intrate Lasciate ogne speranza voi ch’intrate, e con essa ogni pregiudizio in merito alle presunte limitazioni dell’hardware Sony. Perché l’inferno popolato dai demoni di Primal trasfigura in paradiso agli occhi dell’utente PS2, frustrato da anni di aliasing, texture a bassa definizione, colori slavati e 50hz. Jen e Scree fanno un’entrata in scena da applauso. Sarà anche in coma, ma Jen è la ragazza più viva e vera della storia dei VG, roba che in confronto la Lara spazza-tombe sembra muoversi con una scopa infilata nel culo. Jen scuote la testa, solleva le spalle in segno di svogliata accettazione dei precetti di Scree, oscilla tra le anche rivelando uno scheletro sorprendentemente articolato. E soprattutto comunica attraverso una recitazione gestuale così espressiva da indirizzare l’attenzione del suo pubblico più sulle sue movenza che non sulle parole pronunciate accademicamente dalla doppiatrice. Infine si consegna ai comandi del giocatore, che ne ammira sbalordito la naturalezza della corsa, con le due code in cui Jen si è raccolta i capelli che spiovono cedevoli a destra e a sinistra, con il suo timido seno che a sseconda le sollecitazioni delle falcate senza scadere in eccessi di gommosità tecmiana. È la maestria con cui è stata ricreata la femminilità del personaggio a lasciare basiti. Ad osservare le animazioni di Jen si potrebbe giurare che il motion-capture sia stato effettuato su di un’attrice donna. E le parole vengono meno quando la telecamera si piega intorno alla fanciulla e il multipass rendering della pelle dei suoi vestiti simula routine di environment mapping (e questo è solo il preludio dei riflessi che ammantano le armature delle valchirie del mondo di Aetha). Per dare vita al personaggio di Scree, invece, Studio Cambridge non ha di certo potuto sottoporre a sessioni di motion-capture un autentico gargoyle, ma i risultati sono ancora una volta sorprendenti. Scree cammina in posizione eretta per poi sfruttare un’an-datura quadrupede durante la corsa. In entrambi i casi il coinvolgimento e la coordinazione


:RECENSIONI: mento e la coordinazione di tutte le giunture scheletriche dà esiti stratosferici in termini di flessibilità e credibilità del modello, a partire dagli scodinzolii e dal batter d’ali che ne accompagnano la deambulazione, fino ai movimenti rapidi e nervosi di quando Scree riabbraccia il proprio elemento naturale arrampicandosi sulle pareti di roccia. Dulcis in fundo: la semi-trasparenza delle texture deputate alla resa dell’impalpabilità delle alucce del gargoyle, che non va sacrificata neppure di seguito al morphing che gli restituisce aspetto e consistenza di statua. Proprio il morphing impiegato tanto per le pietrificazioni di Scree quanto per le trasformazioni in demone di Jen denota una cura estrema nell’avvicendare nel modo più fluido texture e modelli poligonali diversissimi, conferendo a queste sequenze l’aspetto di effettive mutazioni piuttosto che di semplici staffette fra differenti attori tridimensionali. Ma il bello arriva quando gli attori cedono la scena… alla scena. Oblivion è commovente. Panorami drammatici. Orizzonti sconfinati. In superficie mastodontici templi in legno e mattone magistralmente a rredati svettano fino a sfiorare il cielo, instillando un gelido tremolio nelle gambe del giocatore in preda alle vertigini. E intanto come reazione all’avanzata del Caos nelle regioni di Oblivion nel sottosuolo la terra continua a tremare, accartocciando i tunnel esplorati da Jen e Scree, visibilmente deformati dai cedimenti strutturali. La straordinaria irregolarità di ogni singola location denota un intervento diretto su ciascuna architettura a piegarne le travi dei soffitti, a sventrarne le fortificazioni, a creparne le superfici, ad abbatterne colonne e macchiarne di edera, fango e sangue le pareti. La sistematica demolizione a cui è stato sottoposto ciascuno dei quattro mondi di Oblivion svela una toccante sensibilità archeologica e un lucidissimo criterio di caratterizzazione degli ambienti, restituiti al giocatore impregnati di una poderosa carica evocativa, paradossalmente ridimensionata dal personaggio di Jen, che continuando a ironizzare sulla situazione i nibisce all’universo di Primal quel respiro sofferto e opprimente che permeava la Nosgoth scolpita nei due Soul Reaver. Questo il prezzo da pagare per un character design così vivace e una passione di Studio Cambridge per Buffy l’Ammazzavampiri al limite del deprecabile. Ma questi sono cavilli, pignolerie intavolate dai doveri analitici del critico. La qualità dell’immagine di Primal è senza pari, e ridursi a

Ring#05 questo punto a parlare di texture (superbe), anti-aliasing (splendido) e frame rate (inattaccabile) ci pare tanto superfluo quanto fuori luogo. Tale maestosità iconografica, benché soggetta a sensibili ridimensionamenti nei mondi di Aquis e Volca, è tale da acquisire trasparenza e concentrare il giocatore/spettatore, sprofondato nella sospensione dell’incredulità, sulla parte giocata piuttosto che sull’assoluta efficacia delle soluzioni grafiche implementate. Ed è proprio qui che cominciano i guai…

La qualità del doppiaggio italiano non si discosta molto da quello inglese, tuttavia il personaggio di Scree nell’interpretazione nostrana perde parte di quel carisma conferitogli dal suo ruolo di guida oltre-mondana, venendoci restituito un po’ meno Virgilio e un po’ più aniale domestico ______Lasciate ogne speranza (di divertirvi) voi ch’intrate Lasciate ogne speranza [di divertirvi] voi ch’intrate, il paradiso sensoriale sprigionato dall’inferno di Primal è solo l’abito mendace sotto cui si camuffa un doloroso purgatorio ludico, apparentemente motivato da una necessaria (?) espiazione della voluttuosa esperienza estetica inscenata dagli artisti grafici di Studio Cambridge. E in purgatorio si soffre, alienati dal volto bello del dio Videogioco e costretti a vagare in una dimensione sorda al più b asilare dettame di game design. Promesse e interrogativi circa un degno coronamento del progetto Primal dipendevano dalla buona riuscita di quelle componenti del gameplay sbandierate sin dal giorno della sua presentazione in quel di Londra: interazione tra i protagonisti, esplorazione, sistema di combattimento. Vediamoli uno per uno. La tanto decantata interazione fra Jen e Scree funziona solo a metà, ma risulterà a conti fatti l’aspetto più riuscito dell’intera parte giocata. La slanciata corporatura di Jen e le facoltà conferitele dalle mutazioni demoniache com-pletano

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la spiccata manualità di Scree e i vantaggi che gli riserva la sua natura di gargoyle, così da obbligare l’uno a ricavare un percorso all’altro a seconda delle situazioni. Se nei combattimenti ordinari Scree preferisce estraniarsi dalla situazione pietrificandosi, in caso di avversari particolarmente coriacei può possedere e animare statue raffiguranti enormi creature. Il giocatore può trasferirsi dall’uno all’altro protagonista in ogni momento (o quasi) premendo il tasto Select, delegando all’IA la guida del personaggio non controllato. Quest’ultimo seguirà a ruota il compagno, limitandosi, nel caso di Scree, ad assorbire l’energia dei nemici abbattuti, che il giocatore potrà poi trasferire in Jen in caso di necessità. La complementarietà del simpatico duo si concretizza nel più delle volte nella risoluzione di puzzle molto elementari, che fanno leva sulle personalissime abilità dei protagonisti affinché si spianino reciprocamente la strada. Ed è proprio la dubbia implementazione di queste abilità, nella fattispecie il super salto di Jen e le virtù arrampicatorie di Scree, a motivare i primi d isappunti. In realtà Scree non è a ssolutamente in grado di muoversi sulle pareti verticali, ma SOLO su quelle rare pareti su cui è previsto che cammini. E lo stesso vale per Jen, che in forma Ferai (la prima razza demoniaca di cui acquisisce aspetto e facoltà) nel mondo di S olum potrà spiccare balzi prodigiosi solo in due (!) occasioni, rimanendo altrimenti immobile e impotente davanti ad ostacoli di un metro e mezzo d’altezza. Per di più azioni quali il salto e l’arrampicata vengono effettuate automaticamente c ome in Zelda; di conseguenza non sapendo a priori quali dannate p areti i programmatori abbiano deciso di rendere scalabili o saltabili, ci si troverà a spingere i personaggi contro tutti i muri di tutto il gioco nella speranza che sia la volta buona. Surreale. Ma soprattutto, quando finalmente la bella mora riuscirà a balzare oltre un cancello chiuso, in fondo non avrà fatto altro che “aprirlo” saltandolo invece che sbloccandone la serratura. È una sgradevole sensazione di imbroglio quella che si sperimenta constatando la presenza scomoda di finte abilità che di fatto non possono mai essere utilizzate. Inoltre Oblivion si lascia percorrere secondo tragitti così lineari da frustrare qualsiasi velleità perlustrativa, affossata da tre ulteriori fattori. Primo: in Oblivion si può trovare ben poco al di fuori delle rocce di magnetite che abilitano le trasmigrazioni di Scree e degli item che ricaricano l’energia


:RECENSIONI: dei protagonisti; pertanto è solo la loro spettacolare morfologia a m otivare l’esplorazione vigile degli scenari. Secondo: se si esclude l’attivazione di congegni di varia natura, l’interazione con i fondali si riduce alla demolizione gratuita di botti di legno (quasi tutte vuote) e all’accensione di torce e falò per illuminare i sotterranei più bui. È un universo meraviglioso, quello di Primal, ma essenzialmente nudo e intoccabile. In altre parole: gli scenari vanno semplicemente attraversati assecondandone le fattezze con lo stick del pad per arrivare a godersi una delle innumerevoli cutscene che scandiscono la gradevole (seppur naïf) trama di gioco. Chi lamentava l’invadenza della materia cinematografica sulla parte giocata di MGS2 rimarrà incredulo di fronte all’esasperazione cui Primal trascina questo suo vizio congenito.

Chiaro di luna, torce, falò: le sorgenti di luce multiple fanno sì che gli attori a video proiettino un’ombra distinta per ciascuna di esse. Terzo: la telecamera virtuale inquadra le spalle del personaggio da una prospettiva leggermente bassa, costringendo il giocatore a passare continuamente alla visuale in “prima” persona per vedere che cosa effettivamente gli stia davanti. Peccato che quest’ultima sia stata implementata secondo modalità del tutto particolari: premendo il tasto R1 l’inquadratura zooma sul coppino di Jen o Scree, che insieme alla testa continua ad ingombrare buona parte dello schermo costringendo il giocatore a convulsi armeggi dello stick nel tentativo di

Ring#05 dribblare il testone della fanciulla e del suo amico roccioso. In una p arola: scomodissimo. A complicare ulteriormente il tutto si aggiunge il buio impenetrabile di certe ambientazioni, che per avere un’idea più chiara di dove mi trovassi mi ha perfino indotto ad aumentare la luminosità del televisore e ripiegare su continue consultazioni della mappa. La totale inappetibilità della componente esplorativa si consuma nel mondo di Aquis: una rivisitazione avvilita di Ecco the Do lphin: Defender of the Futu-re, del quale riesce a riproporre solo la monotonia e la lentezza dei livelli meno ispirati. Infine il sistema di combattimento è con buone probabilità il peggiore mai adottato in un action adventure. Non appena si viene avvistati da un nemico Jen può passare alla modalità di combattimento agganciando l’avversario più vicino, per poi lavorare di switch tra un nemico e l’altro con il tasto X. Gli attacchi vengono sferrati combinando non più di tre tecniche alla volta, eseguibili premendo i tasti L1 (attacco roteante), L2 (attacco sinistro) e R2 (attacco destro), mentre il pulsante R1 è deputato alla parata. La deprimente lentezza della r isposta ai comandi, l’inspiegabile l egnosità delle animazioni degli attacchi (autentico tallone d’Achille dell’intero comparto tecnico: roba che neppure un fascio di scope in culo potrebbe giustificare – nd Lara Croft), la scarsa varietà e il generale equivalersi delle combinazioni effettuabili denunciano i risultati amatoriali ottenuti con la sezione picchiaduro di Primal. Laddove il mediocre Blood Omen 2 aveva scopiazzato la formula dei due Soul Reaver sacrificandone profondità, raffinatezza e coinvolgimento, Primal sembra aver sottoposto tale modello di gioco ad un ulteriore, selvaggio impoverimento, illudendosi che confezionando il tutto con una tecnica da sogno la cosa potesse passare inosservata. Ripensando anche alle sorti della p enultima fatica di questo team, quel

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C-12 anch’esso rivelatosi un bello senz’anima, sarebbe il caso che un’aureola spuntasse intorno a l capo dei sacrificati membri dell’equipe grafica di Studio Cambridge, e che la testa di qualche inadeguato game designer cominciasse a rotolare. Non si può sprecare un mondo digitale così meraviglioso con un gameplay così insulso, monotono e anacronistico. Perle ai porci, verrebbe da dire. E l’implicita sufficienza sancita dalla C di Ring vuole più che altro esprimere il nostro riconoscimento dei traguardi tagliati dai grafici di Studio Cambridge nel campo delle visual arts, alla cui magnificenza non siamo sicuramente riusciti a rendere giustizia in queste pagine. dEMONI e gARGOYLE dEI pAESI tUOI… Ovvero: paese che vai, d emonio che trovi. Esplorando Soum, Aquis, Aetha e Volca, Jen acquisisce di volta in volta l’abilità di evolversi in ciascuna delle razze demoniache che popolano queste regioni: Ferai, Undine, Wraith e Djin. In forma Ferai, Jen corre molto velocemente, spicca lunghissimi balzi ed sfodera temibili artigli, in cui si materializza l’energia demoniaca concentrata nelle sue braccia dai “vanbracciali” (dei miracolosi paraavanbracci allineati col gusto dark del suo abbigliamento). Come Undine, Jen sguazzerà come un pesce nei fondali di Aquis, agitando dei lunghi tentacoli qualora si ritrovi a ingaggiare combattimenti subacquei. La forma Wraith, oltre a munirla di una lunga frusta da abbinare a una spada durante gli scontri, le elargisce il dono di controllare il tempo interrompendone il corso in qualsiasi istante (si fermano tutti tranne lei). Infine la forma Djin la equipaggia di due spade che Jen maneggia ricalcando la tecnica del Cervantes di Soul Calibur.


:RECENSIONI:

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bIOFLUGMASCHINEN aUS zUKUNFT___________________ [Panzer Dragoon Orta] di Emalord

---------.:scHEda:.--------gENERE eTICHETTA sVILUPPATORE sISTEMA aNNO gIOCATORI vERSIONE

Shoot’em up SEGA SmileBit XBOX 2003 1 NTSC

Panzer Dragoon Orta è un gioco dove si vola e si spara. Si spara e si vola. Si vola. Si spara. Si spara. Si vola. Si…

Ma cos'è davvero Panzer Dragoon Orta? È da questa domanda che dobbiamo partire se vogliamo giudicare nella maniera più obbiettiva possibile il sorprendente prodotto Smilebit. PDO è innanzitutto un videogame ed in quanto tale dobbiamo giudicarlo sia per la forma che per la sostanza. Il suo essere videogame è solo la punta di un iceberg che sotto il pelo dell'acqua nasconde tonnellate di potenzialità espressiva. Ma cosa succederebbe se osservassimo l'iceberg dal fondale sabbioso? In tal caso vedremmo tonnellate di potenzialità espressiva nascondere un videogioco limitato dalla sua stessa natura di shooter. Confusi? Sarà forse il senso di vertigine dovuto all'altezza cui vola il nostro drago. Allacciatevi le cinture, prendete una boccata d'ossigeno e seguiteci nella nostra analisi di un gioco che vuole essere profondo ed immediato nel medesimo ista nte. Panzer Dragoon [Storia di Squame, Saturn e Speranza] Otto anni fa Sega decise di contrastare lo strapotere della console a 32bit Sony immettendo sul mercato un prodotto innovativo, un franchise talmente originale e carismatico da pompare le vendite di un Sega Saturn annaspante, ristabilendo la supremazia della casa di Tokyo sul mercato internazionale. O almeno queste erano le lodevoli intenzioni. Panzer Dragoon era la tredificazione degli shooter bidimensionali, uno sparatutto che scorreva su b inari predefiniti verso il classico boss finale. Le caratteristiche che avrebbero dovuto sancirne il successo mondiale erano l'ambientazione assolutamente inusuale, un affascinante drago al posto della solita astronave e la possibilità di "voltare lo sguardo" tutt'intorno la propria biocorazzata poligonale, grazie alla pressione dei tasti posteriori del joypad. Mentre il dragone proseguiva imperterrito verso la sua meta, il giocatore, grazie ad un radar su schermo, doveva solo preoccuparsi di abbattere le formazioni avversarie che lo assalivano a 360°, godendosi nel contempo lo splendido paesaggio circostante seppur senza

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la possibilità di scattare foto ricordo. Il seguito, Panzer Dragoon Zwei, introdusse la possibilità di bivi nel percorso nonché un inizio "al suolo", con un drago in fasce che evolvendosi riusciva infine a volare. Infine, Panzer Dragoon Saga tramutò quello che era un classico shooter in un RPG, ma questa è un'altra storia che forse un giorno vi racconteremo. Forse. Il franchise non ebbe il successo sperato e il gameplay venne da più parti tacciato di pochezza ludica e limitatezza, critiche ricomparse anhe con l'uscita del nuovo episodio per XBOX. Sembrerebbe quindi che la sostanza non regga il confronto con la forma, critica imputabile a molti altri prodotti Sega. Ma se il tutto dipendesse da una cornice fin troppo sexy? Panzer Dragoon [Sudore, Studio e Suoni per una Splendida Saga] Panzer Dragoon è un prodotto estremamente curato fin dalle sue radici concettuali: tonnellate di splendidi artworks, una lingua creata appositamente per immergere il giocatore in un mondo a parte, una trama che narra di un futuro prossimo venturo dove l'uomo è vittima del suo stesso sviluppo industriale, di imperi militari che vogliono emergere e conquistare, di dragoni che emergono dalle nebbie di un passato dimenticato per fare da guida ad un salvatore che ristabilirà la pace. Tutto questo si traduce in poesia, paesaggi incantevoli, bizzarre fortezze volanti, creature a metà tra fiaba ed incubo. Questa è la ricetta di base del franchise squamato, a rricchita a sua volta da una meravigliosa colonna sonora ad accompagnare le avventure dei protagonisti. Una sequenza di musiche a tratti epiche, a tratti nostalgiche, sempre all'insegna di un'altissima qualità. Una cornice di tale forza porta ad immaginarsi un gameplay della medesima profondità. Aspettative che però ingannano, perché uno shooter, da sempre, segue poche ma precise regole. Panzer Dragoon [Shooter e Semplicità, Senza Sorprese] Il grande dispiegamento di mezzi messo in campo da Smilebit pone di fronte a grandi aspettative per quanto riguarda la voce "Game-


:RECENSIONI:

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play", aspettative che vengono d eluse non per reali mancanze di fondo, quanto dal confronto col maestoso impianto che vi sta intorno. Da una parte è indubbio che la cura e la profondità riposta nella creazione del background stilisticonarrativo-musicale potrebbe apparire soverchiante agli occhi di chiunque se confrontata con la pura giocabilità, eppure perdere di vista quella che è la vera natura del prodotto Smilebit sarebbe profondamente scorretto: PDO è uno shooter, punto. L'essenzialità fa parte del suo DNA. Per sua stessa conformazione, storia e caratteristiche uno shoot'em' up, passando da Einhänder a Thunderforce a Rez a R-Type, è comunque "limitato" al solo fare fuoco e gestire una sempre maggiore potenza offensiva. L'innovazione nel genere non sempre ha portato al successo di pubblico [ Ikaruga e Bangaioh sono solo un esempio di due ottimi prodotti dallo scarso successo] e quindi Smilebit ha semplicemente [saggiamente?] optato di non "abbandonare la strada vecchia per la nuova". Eppure, nonostante l'attaccamento alla tradizione, PDO non disdegna piccoli ma convinti passi verso l'evoluzione, introducendo rispetto

ai prequel due varianti di discreta profondità: la possibilità di mutare in tre draghi splendidi per rappresentazione grafica, upgradabili e dalla caratteristiche profondamente diverse e realmente|pesante mente incidenti sul gameplay, nonché la possibilità di accelerare/rallentare per sfondare formazioni nemiche o aggirare boss nemici per colpirli sul fianco scoperto [funzione "glide"]. E allora mi chiedo: qual è il modo più corretto per valutare il risultato finale dell'operato di Smilebit? Dopo quanto appena osservato, possiamo davvero dire che la "sostanza" del prodotto sia inferiore alla sua "forma"? Panzer Dragoon [Siamo ai Saluti] Condensando quanto detto sopra, PDO è un prodotto apparente mente sbilanciato tra una esuberante componente estetica ed una macilenta sostanza videogiochica. Ma si sa che l'apparenza spesso inganna. Se confrontato con altri capostipiti del genere, la componente ludica del prodotto Smilebit non è di certo inferiore, brillando per storyboard, qualità audio-video, design su tutti i livelli ed impegno

nell'approfondire le limitate meccaniche di gioco dei prequel. La valutazione globale è positiva, perché gli shooter necessitano solo di una trama, di un paesaggio e di un volume di fuoco prossimo all'infinito e PDO eccelle in tutti questi campi e non solo, risultando in un prodotto profondo per concezione, immediato per natura, emozionante e mai noioso. La versione XBOX non fa altro che valorizzare ancora di più l'impianto visionarrativo, con immaginifiche ambientazioni a metà tra l'onirico ed il fantastico, effetti particellari ed atmosferici, un azzeccato uso dei cromatismi, uno s crolling fluido come un olio anche in presenza di intere armate nemiche. Qualche imprecisione in certe inquadrature, qualche opinabile scelta registica che avrebbe potuto v alorizzare m eglio gli eccezionali boss di fine livello sono le due uniche pecche verso cui vale la pena di puntare il dito. Il fattore rigiocabilità dei 10 livelli è garantito dai numerosi bivi nei percorsi e dal Pandora's Box, con la sua ampia scelta di extra appetibilissimi tra cui la versione originale del primo PD discretamente emulata.

aLWAYS cRASHING_______________________________ [Burnout 2] di Paolo Jumpman Ruffino

______.:scHEda:.______ gENERE eTICHETTA sVILUPPATORE sISTEMA aNNO gIOCATORI vERSIONE

Crash Sim. Akklaim Criterion PS2 2002 1-2 PAL

Fanno quasi paura, quelle quattro macchine schierate in fila, con quelle fiamme che escono dalle marmitte a riscaldare un’atmosfera fredda. Sembrerebbe quasi l’alba, con quella luce gelata, le strade vuote. Quasi vuote. Acceleratore. Tre Due Uno. E inizia la gara, il rito della competizione uomo macchina, sulle macchine, a chi muore per primo. E’ un rituale, c’è del sacro in questo confronto che obbliga a stare in bilico tra questo mondo e quello simulato e quello dell’aldilà. Sì, inomma, Burnout 2 è un gioco in cui devi andare nell’aldilà e tornare suito il più veloce possibile, è un gioco a chi riesce a stare più a lungo sull’ rlo del suicidio e poi quando si cade a rialzarsi prima che sia troppo tardi. Ed è un gioco bellissimo. Siamo onesti, noi videogiocatori la amiamo la morte. La sfioriamo quotidianamente, ci doniamo la possibilità di resuscitare per il gusto di morire di nuovo. Il game over dura pochi istanti, è la pausa di relax tra una vita e l’altra. Vite tormentate e

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difficili, pericolose, faticose. Al volante di macchine inventate, ci inventiamo nuovi modi per sfracellarsi al suolo o per essere fulminati da un soldato nemico. In Burnout 2 il bello è far esplodere la macchina a velocità sempre diverse, contro ostacoli sempre nuovi. Ora con le ruote staccate dal suolo, ora contromano, ora contromano con le ruote staccate dal suolo. Burnout 2 è un gioco che vive di quell’ istante in cui capisci di essere morto ma ancora non lo sei, un gioco di fiato trattenuto e retina impressionata da un camion che sbuca all’improvviso e occupa tutto lo schermo. E’ un gioco che rivedi tutta la tua vita in un istante. Ed è un gioco bellissimo. Burnout 2 funziona che ci sono delle gare, parecchie, su un gran bel numero di circuiti diversi (che si possono fare a nche al contrario), e a seconda del piazzamento si hanno dei punti. C’è una classifica e se si vince si sbloccano nuove auto e nuove gare. Le corse sono particolari perché facendo azioni sperico-


:RECENSIONI: late si accumula la barra del boost e quando è piena con R1 si va ad una velocità esagerata per un certo periodo di tempo. Fate abbastanza pazzie in quei momenti di boost e ne avrete un altro gratuito, magari inanellando una serie devastante di boost consecutivi, a velocità sempre maggiori. E’ questo. Poi ci sono le gare speciali, quelle contro una sola macchina avversaria o quelle in cui in un inseguimento guidando una volante della polizia dovete colpire una macchina un certo numero di volte prima che giunga al traguardo. Poi ci sono le gare in più giocatori, e poi c’è la modalità Crash in cui bisogna scatenare un incidente e causare più danni possibili. Anche questa modalità è disponibile per il multiplayer, ed è decisamente indicata per chi da bambino si divertiva a distruggere i formicai. Tutte quelle auto ordinate, quel traffico regolare che affronta l’incrocio con l’aiuto dei semafori, come si può resistere alla tentazione di sfasciare tutto volando in mezzo all’ingorgo di camion con un siluro sparato a folle velocità, facendo capovolgere decine di veicoli e scatenando una disgrazia a cate na? Come?

Ring#05 Burnout 2 prende, conquista e fa divertire. Intensamente, ma per un periodo non troppo prolungato. Una volta raggiunti tutti gli obiettivi in modalità singleplayer, e non ci vuole molto, lo riprenderete solo per sfogarvi una mezz’oretta o per sghignazzare con un amico. Ma ne vale la pena, per quei momenti di delirio sul filo del rasoio, vale la p ena di provare a correre sull’orlo del precipizio. Per una mezz’ora e non di più, certo. Noi videogiocatori non apprezziamo il Cristianesimo, diciamolo. Non per niente, ma una resurrezione che prende tre giorni è davvero troppo. Tre secondi al massimo, questo riusciamo a concedere al mistero della morte, la pressione di un pulsante se è proprio indispensabile ma non di più. Perché siamo come il (video) giocatore di Dostoevsky, ci piace giocare per poter perdere sempre in modo diverso. E non abbiamo così tanto tempo da perdere perché le morti vogliamo provarle proprio tutte. La sconfitta, in Burnout 2, è spettacolare, è catastrofica, è in mondo visione, è una strage, è una ostentazione di onnipotenza. Ed è ripetuta costantemente, perché i crash sono frequentissimi nelle g a-

re, è raro che ci sia un momento in cui qualche concorrente non stia sgommando per evitare il taxi o il furgoncino che si sono fermati al semaforo (come potevi prevederlo che si sarebbero fermati al semaforo, e che diamine!). Un inno all’adrenalina, alla violenza, alla devianza da un mondo di codice stradale. Un’esaltazione dell’infrazione, intesa come desiderio proibito, quasi morboso. In Burnout 2 non ci sono uomini per le strade. Solo macchine. Le macchine sono un’estensione del pilota, le macchine da gioco un’estensione del giocatore. Burnout 2 è un gioco di giochi che si rompono, di morti toccate con un’estensione, di ideal crash ( dEUS) e always crashing in the same car (David Bowie). Burnout 2 è nichilismo, è voler farsi del male, che poi perché non ci si può fare del male se ci va? E’ giocare ad annullarsi, a sognare di morire per poi svegliarsi e scoprire che davvero si sta per m orire. Solo più lentamente. Ed è un gioco bellissimo. Buon divertimento .

dUE gRANDI oCCHI a mANDORLA____________________ [Surveillance] di Amano 76 _______.:scHEda:._______ gENERE Yaru Drama eTICHETTA Sony sVILUPPATORE Production IG sISTEMA PS2 aNNO 2002 gIOCATORI 1 vERSIONE Japponese

"E adesso vivi" Sharon Stone, dopo aver sparato all'impianto di telecamere nascoste con cui il suo amante, un vacuissimo Stephen Baldwin, sbircia dalla mattina alla sera gli appartamenti di tutto il condomio. Da Sliver, porno-ciofeca di Philipp Noyce. "...e così me c'è cascato er cellulare dentro. Che dovevo fà?! me so tirato su le maniche della giacca, e c'ho infilato er braccio..." Fedro, inimitabile protagonista del Grande Fratello, che racconta la sua leggendaria impresa di recupero del proprio cellulare, caduto nello scarico di un water pieno di merda. ____Sega, spirito d'avventura o mania suicida? Quando Sega non si vergognava di se stessa. Quando Sega comprava la licenza di Mazin Saga, nonostante Nagai avesse appena an-

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nunciato che avrebbe interrotto la serie a metà per colpa dello scarso successo. Sega è leggenda. Come Fantozzi. E' come quegli gnu che quando c'è da attraversare un fiume pieno di coccodrilli, si tuffano per primi. E il Mega-cd, da buon esempio di tipico prodotto Sega, è stato lo sfogo per molti titoli paradossali o a ll'avanguardia, tra cui merita di e ssere citato il particolare NightTrap, un caso unico di game design e di ambientazione (auto-)ironica. In questo concept senza precedenti il giocatore impersona un membro della squadra Scat (Sega Control Attack Team) incaricata di tenere sotto sorveglianza casa Martin, villa che ospita giovani yuppies in vacanza, alcuni dei quali scomparsi misteriosamente nelle settimane precedenti. Giunta sul posto, la truppa prende il controllo del sistema di telecamere a circuito chiuso della dimora, e sistema in ogni stanza trappole, da innescare a comando, per cogliere di sorpresa gli intrusi. Compito dell'utente è


:RECENSIONI: quello di sfruttare gli otto monitor a disposizione, alla ricerca delle infiltrazioni degli Ogre (i cattivi del gioco) in modo di poterli prevenire con tempestività, anticipandoli con i sistemi di difesa o segnalando la p osizione degli intrusi ai compagni. Questa struttura ovviamente i mplica uno svolgersi della vicenda in modo altrettanto peculiare: ogni camera permette di assistere a s equenze differenti, ma dato che l'azione si dipana in tempo reale, il giocatore è impossibilitato a seguirle perchè costretto a sorvegliare ininterrottamente ogni angolo della casa. L'idea, molto interessante, viene però in parte indebolita dall' utilizzo di attori in carne e ossa, che accentuano la pacchianità della vicenda. Il risultato di atmosfere ridicole e grottesche è volontario, d'accordo, ma il concetto di fondo avrebbe permesso un applicazione più incisiva, e Surveillance è un prodotto che lo dimostra. __Genesi di una favola genetica Night-trap è solo uno dei padri di Surveillance. Agli ispirati ideatori del concept design del gioco per Mega-cd vanno infatti aggiunti Eichi Teragawa, produttore di I.G incaricato di supervisionare lo sviluppo degli yaru-drama [cfr. Ring4 – Kakka Banzai] (che ha avuto la constatazione opportuna di realizzarne uno senza il tramite di Sugar and Rockets), Hiroyuki Nishimura, regista delle sequenze animate, e Yukaku Maejima, regista del gioco. E poi Alien, Matrix, Ghost in the shell. Il risultato è un titolo che batte ai punti qualsiasi yaru-drama pubblicato sinora, in qualità tecnica, spessore narrativo, e approccio. Surveillance è strutturato in m aniera molto simile a quella di Night-Trap. Tuttavia una differenza sostanziale, che va a beneficio dell' immediatezza, è da individuare nell'interfaccia di navigazione delle telecamere, che non sono semplicemente indicate da un menu di icone ma riportate in porzione ridotta sullo schermo, in modo tale che il giocatore possa seguire l'azione su ognuna di esse e capire a quale d are la precedenza. Ulteriore distinguo poi è il rilevamento sonoro, disponibile per ogni monitor, aggiunta che a volte si rivela fondamentale per accorgersi di movimenti "mimetizzati" dalle dimensioni e dalla colorazione (a tinta unita) nelle finestre a porzione ridotta. Il procedimento della missione è semplice: tutto quel che bisogna fare è cliccare su particolari o persone sospette, che vengono quindi

Ring#05 inseriti nel mastodontico archivio fotografico del sistema Surveillance e analizzati dall'intelligenza artificiale. Gli indizi che non hanno valore allo scopo di completare la missione vengono seplicemente inseriti nel database, quelli che invece sono vitali per proseguire senza incappare nelle varie bad ending (ce ne s ono dalle tre alle cinque per missione) segnalati da una spia rossa. Per portare a termine gli incarichi sarà quindi necessario rintracciare ogni indizio di quest'ultima categoria: trovarli in mezzo a tutta l'azione che prosegue contemporaneamente su ciascuna telecamera, costituisce la sfida e il piacere del giocatore. ____Mi raccomando: riguardati Che la struttura di Night-trap sia stata rivisitata con full-motion a cartoni e non dal vero, si è rivelata la scelta forse più felice di tutte. Perchè quello che in un racconto cinematografico è ridicolo, volontariamente o involontariamente, quando è interpretato da esseri umani incapaci raggiunge apici di goffaggine esponenziali. Così, con tutti i pregi che può vantare il mezzo animato, come l'abbattimento dei costi degli effetti speciali, o la recitazione "controllata" in toto dal regista e non rimessa alle "facoltà" degli attori, Surveillance guadagna in credibilità e impatto. A modo suo, è un pò come i recenti Scream, Pitch Black, o Blu Profondo: una trama apparentemente ortodossa, costruita su trovate che citano rispettosamente le convenzioni del cinema di genere, ma che allo stesso tempo ironizzano e a bbandonano i luoghi comuni della propria paternità. La premessa è quella di una squadra speciale destinata a vigilare su un importante missione di trasporto, a bordo di uno shuttle che accompagnerà diverse personalità di spicco dalla Terra a Marte (politici, proprietari di imprese farmaceutiche, giornalisti televisivi), futura casa di un umanità che ha mandato in rovina il suo pianeta d'origine. Addetti alla vigilanza Y usuke S asaki, protagonista/giocatore, e i suoi colleghi della squadra Shadow Sword, che per un incidente durante la loro prima missione finiscono coinvolti in un complotto di guerra biologica che li vedrà tra l'incudine e il martello. La narrazione e il gioco s corrono di pari passo: ogni missione i sei diversi schermi fanno spazio a s equenze d'azione, dialoghi, fan service, e piccoli indizi che al secondo passaggio, una volta completata l'avventura, contribuiranno a ren-

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dere più comprensibile tutta la vicenda. Nel frattempo Maejima gioca astutamente con l'utente: lo tiene sul chi vive, lo "incuriosisce" con un hostess che si spoglia sulla camera E, mentre sulla D mostra un tipo sospetto che ha appena estratto dalla valigia una pistolona fantascientifica; mette in scena l'interrogatorio del prof. Ryan sulla camera A, ma riprende nella C e nella E due squadre di compagni alla ricerca del mostro che si aggira per i corridoi della base, mentre lo intrappolano in una manovra "a tenaglia" che l'utente vede compiere in te mpo reale. E' un feeling di gioco assolutamente unico, che va provato per essere apprezzato come merita, sottolineato con gusto da una colonna sonora orchestrale che collabora pertinentemente alla forza c inematografica della storia. _____________Tenere l'occhio Si potrebbe pensare che la frammentazione dell'intreccio in più sequenze contemporanee rovini tutta l'efficacia della videoesperienza. Ma non è così. Con squisita professionalità cinematografica, Maejima gestisce abilmente i tempi del racconto, e lascia spazio a ogni aspetto narrativo: le dinamiche scene d'azione, i dialoghi rivelatori, i momenti di tranquillità in cui la naturalezza dei protagonisti trova tutto il suo spazio, o le sequenze dell'ultima, memorabile missione, in cui i cattivi monitorano i buoni che monitorano i cattivi, secondo un gioco di specchi ormai consono nel cinema moderno e impiegato con gusto e personalità anche in Surveillance. Davvero esaltante la qualità te cnica delle animazioni, che non recede in nessun punto e che, a differenza dei vari yaru-drama, ha uno studio delle inquadrature, delle s equenze, e della colorazione, rivelatrici di uno stile coerente espressamente piegato alla narrazione, e non alla sterile messinscena di bocce, culi, o amori impossibili. Anche i colpi di scena, armi improprie nelle mani di registi incapaci, sono portati avanti con consapevolezza ed efficacia: proprio quando la squadra sembra intoccabile e il giocatore comincia ad avvertire una sorta di invicibilità dai parte dei protagonisti, due dei membri muoiono improvvisamente, gettando un senso di sconfitta e di pericolo incombente che si mantiene per tutto il resto dell'avventura. Unico problema di ordine narrativo è l'iniziale confusione dovuta alle uniformi, che c oprono quasi completamente i visi dei personaggi e quindi rendono


:RECENSIONI: difficile distinguerli, ma per il resto è tutta grande animazione giapponese, con una storia cupa ma dalla conclusione solare e toccante, d urante la quale persino i "buoni" si concedono qualche crudeltà e anche i "cattivi" hanno i loro momenti di redenzione. Come il battito d'ali d'un colibrì Tutto questo richiede un prezzo, quello di copertina, che non corrisponde a quanto ci si aspetterebbe a ragione da un titolo che costa, al cambio attuale, i suoi bei sessanta euro (e metteteci pure la percentuale dei negozi d'importazio-

Ring#05 ne). Surveillance dura, a essere più entusiasti possibile, sette ore al massimo, secondo la coefficenza di coglioneria dell'utente e la sua c onoscenza del giapponese: capire quale oggetto vada individuato sarà infatti abbastanza scocciante se non si possono cogliere gli indizi dei compagni o del proprio secondo. Gli ostacoli comunque iniziano e finiscono lì: basterà ripetere una missione due volte e si intuirà con facilità dove cliccare. Con una durata del genere sarebbe pertanto assurdo proporre di comprare un prodotto costoso come questo, ma considerata l'esperienza unica che è in grado di offrire, l'alta qualità cinematografica

degli intermezzi, e la trama impeccabile, non c'è prezzo che tenga. Chi può sopportare dialoghi i ncomprensibili in lingua straniera, e una durata che farà rimpiangere la spesa una volta concluso il titolo (ma solo una volta concluso) deve assolutamente provarlo.

iN mEMORIA dELL’eSSENZIALITA’____________________ [Denki Blocks!] di Marco Barbero _______.:scHEda:._______ gENERE Pr. Invenduto eTICHETTA Rage sVILUPPATORE Denki sISTEMA Gameboy Adv aNNO 2002 gIOCATORI 1-4 vERSIONE PAL

Hardcore gamer, non fare finta di niente, tu sei come me. Ti aggiri tra gli scaffali del negozio/supermercato/spaccio di ultima categoria e registri la moltitudine di input che lo scatolame esposto ti indirizza. Ognuna di quelle confezioni mostra supplichevole il suo bollino “scegli me!”. Novello/a Samus Aran passi al setaccio ogni anfratto del tuo pianeta Tallon IV: il tuo mondo di sogni digitali a buon mercato. Che tanto a buon mercato poi non sono… Ed è qui che il tuo hardcoregamerismo si incrina fino al punto di rottura. E’ qui che ammassi vittime su vittime in quella pacifica guerra commerciale di cui ti senti incolpevole, ma della quale sei un volontario in ferma prolungata. Il portafoglio ti esorta a scartare gli elementi non idonei, e a volte sei tu che ci perdi… _____________Il predestinato Quella di cui scrivo oggi, caro hardcore gamer, è la vittima registrata nel file DNKBLCK01, più comunemente conosciuta come Denki Blocks! Te la ricordi? Probabilmente no e questo rende la sua agonia ancora più straziante. Ne leggesti gli elogi tessuti da Edge, in quel guazzabuglio di incongruenza che è la sua sezione review. Ne sei stato attratto perché in fondo al tuo cuore sai che Edge, salvo colpi di testa, sa ancora riconoscere un buon gioco quando ne vede uno. Edge, da rivista snob, ama estrarre da terre sconosciute i borlotti più belli. Probabilmente trova autocompiaci-

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mento nello scovare i suoi personali tesori sepolti. Denki Blocks!, inoltre, fu votato miglior gioco dello show all’ECTS 2001. P oca roba, ne convengo, ma era un segnale da non ignorare. Come significativo era quel “uno dei migliori giochi che il GBA abbia da offrire” che chiudeva la mezza pagina che la rivista d’oltremanica aveva deciso di dedicare al titolo Denki. E allora perché lo hai lasciato sullo scaffale? Perché, nonostante Game Rankings abbia sentenziato con un 83% il generale gradimento della stampa (perlomeno di quella poca che ha avuto modo di provarlo), hai passato la mano? Eppure, in quella ste ssa mano, la scatola ci era finita. Quel sabato pomeriggio al Mediaworld l’hai rigirata per qualche secondo, hai scorto la grafica ultraminimale, hai immaginato (facendo centro) un sonoro allegro ma altrettanto essenziale ed infine il tuo o cchio ha incontrato l’adesivo recante il prezzo. “50 euro per un puzzle game dall’aspetto primordiale, dall’originalità apparente mente nulla e per giunta creato ad Aberdeen?!” Tutto questo (tralasciando forse le nozioni sul luogo preciso di concepimento, che avrai catalogato con un più generico “in occidente”) ha generato l’impulso per riporre la scatola sul suo bel scaffale bianco. E poi te ne sei uscito con Super Dodgeball Advance. Anche quello definito da alcuni come un prodotto merite vole, ma differentemente da Denki Blocks! graziato da origini nipponiche, da una grafica sontuosa e da un gameplay a tratti letargico. Non


:RECENSIONI: ti nascondere: spendere tale cifra per quella pochezza estetico/concettuale ti pareva avventato. Sei come me, ricordi? Lasciatelo dire, stimato hardcore gamer, hai fatto una cazzata. Quello che ti saresti trovato tra le mani certamente avrebbe risposto all’idea audiovisiva che ti eri prefigurato, ma quanta giocabilità in quel giochino nel quale “devi unire i soliti blocchi colorati”… ________Per l’uomo che pensa Non è il solito puzzle game frenetico, Denki Blocks! è il Tetris per l’uomo che pensa, è il Puyo Puyo del videogiocatore riflessivo. In Denki Blocks! il tempo è un corollario. Prendersi lunghi momenti per pianificare le mosse è essenziale. Le regole sono di una semplicità disarmante: premendo in una delle quattro direzioni principali i blocchi (chiamati gumblock) si muovono, tutti assieme. Incontrando una superficie fissa (chiamata blocker, di colore bianco) si fermano, dando così la possibilità di riconfigurarne la geografia. Quando due blocchi dello stesso colore collidono, si agganciano e non c’è più verso di scollarli. Su queste due regole (l’amplesso cromatico e il movimento compatto) si basa tutta l’esperienza, si basano tutti (o quasi) i 280 puzzle del gioco. Lo scopo? Ricongiungere le etnie dello stesso colore, magari creando la figura facoltativa (che può essere un semplice disegno oppure, laddove i cromatismi in campo siano tre, un

Ring#05 tris di forme geometriche identiche). Denki Blocks! non si carica di ulteriori di complicazioni. E’ questa la sua più grande vittoria: riuscire ad intrattenere per lungo tempo basandosi su un pugno di concetti. E’ l’anima del vero puzzle game quella che batte nel titolo Denki. È testamento della bontà della formula originale che le aggiunte sperimentabili nella trentina di stage extra (blocchi decoloranti, buche, passaggi a senso unico…) si vivano quasi come forzature in una ricetta che funziona benissimo con i suoi pochi ingredienti. Lontano dalle solite forme colorate in caduta a velocità warp, si ritrova quella dimensione meditativa troppo spesso relegata in un angolo dalla ricerca dell’adrenalina. La mossa che precede il completamento di un livello particolarmente ostico viene pregustata per lunghi momenti e celebrata per altrettanto tempo con danze tribali, diti medi alzati e benevoli vaffanculo indirizzati ai game designer. Schermate zeppe di blocchi apparentemente impossibili da coniugare vengono poco alla volta analizzate, destrutturate e riconfigurate come la soluzione richiede. Ad ogni conquista il cervello si sintonizza sempre di più sulla lunghezza d’onda di Denki Blocks! Poco alla volta il numero di movimenti pianificati in anticipo si amplifica a dismisura, arrivando a toccare vette scacchistiche. E se proprio si vuole una scarica di azione allora è sufficiente rivolgersi alle modalità gara (comporre il più v elocemente possibile un certo nume-

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ro di figure) o a quella scambio (dove si crea una forma, la si scambia con i concorrenti e si vede chi è il più rapido nel ricostruire il disegno dell’avversario) entrambe godibili fino in 4 sullo stesso GameBoy Advance (con l’aggiunta di una modalità a due dove, alternando le mosse con quelle del proprio avversario, si devono unire il maggior numero di gumblock dello stesso colore). _______Chiusura con paternale Essenziale come la legge del buon rompicapo vuole, Denki Blocks! è la perla rara che ognuno dovrebbe riscoprire, compreso tu, amico hardcore gamer. Se quel giorno avessi chiuso il cerchio economico portando la confezione a contatto col lettore ottico della cassa, avresti apposto un mattoncino nel muro del buon gioco, avresti contribuito a sostenere la creatività, avresti tenuto fede alla tua filosofia “la grafica non è tutto”. Invece sei passato qualche mese dopo in quello stesso luogo. Denki Blocks! era stato traslocato nel settore offerte. Per 15 miserabili euro te lo sei portato a casa e hai scoperto cosa ti eri perso, hai scoperto di aver contr ibuito a un mezzo fallimento commerciale. Perché per quanto tu possa odiare ammetterlo, hardcore gamer, sei come me. Sei duro e puro, ma a targhe alterne. E la p enultima copia l’avevo presa io, p ochi attimi prima di te.


:RUBRICHE:

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rETRObOTTEGA__________________________________ [Me Nintendo #5] di Gatsu “Bastardi! Siete tutti dei bastardi! Sto troppo male per uscire e a ndarlo a comprare, ma abbastanza bene per rosicare” Paolo Jumpman Ruffino, parlando di Metroid – FORUM di Ring “Rosica che ne hai motivo. Semplicemente uno dei Best Game Ever. Fottutamente splendido. E sono solo al 4 per cento...” Un’esclamazione estremamente professionale di Federico Res, in risposta a Paolo. I Retro Studios sono una delle rare eccezioni che confermano la regola: quanti di voi hanno mai dato fiducia a SH attorniate da un’aura fallimentare, tipo, che so, 3DO? Forse non è noto a tutti ma i Retro Studios vantano una storia intrisa di sfiga e influssi negativi, tanto che prima che Metroid Prime fosse mostrato in pubblico il team americano era già dato per spacciato dalla quasi totalità della comunità videoludica. Come Nintendo sia riuscita a raddrizzare in extr emis (prima dell’E3 2002) questa situazione sghemba lo possiamo solo intuire dalle poche informazioni trapelate, ma io mi sono sempre immaginato Yamauchi in vestito sadomaso intento nella fustigazione non-stop dei dipendenti Retro… Vediamo di riassumere in qualche riga la storia di un team che è passato, letteralmente, dalle stalle alle stelle. Fondati sul finire del secolo scorso da Jeff Spangemberg, i Retro Studios hanno sede ad Austin, in Texas. Quando nel 1999 fu annunciata una partnership con Nintendo, i dirigenti della grande N non esita rono a definirli la “Rare americana”, evidentemente già immaginando quali sarebbero state le sorti della società inglese. In quel periodo R etro contava già 25 dipendenti e un’iniezione di altri 100 era programmata per far fronte al nuovo impegno con Nintendo. Durante lo Spaceworld 2000 Nintendo presentò il suo nuovo hardware, nome in codice Dolphin, e vennero mostrate immagini di tutta una serie di giochi fra cui anche una di Samus Aran, segno che un nuovo Metroid era nell’aria. Venne presto rivelato che ad occuparsi del titolo sarebbero stati proprio i Retro Studios, che nel frattempo avevano iniziato a lavorare anche su altri progetti. Per un po’ di tempo scese il silenzio sullo stato di salute del nuovo Metroid, e durante il periodo fra agosto 2000 e maggio 2001 ben due progetti (un gioco di football e un gioco di car-combat) dei Retro Studios furono cancellati per cause mai specificate. Le nuvole attorno alla SH di Spangenberg a-

vevano appena iniziato ad addensarsi. Durante l’E3 2001 furono mostrati due corti trailer: uno riguardava un promettente RPG chiamato Raven Blade, l’altro l’attesissimo Metroid Prime.

Scoppiò un vespaio, la struttura FPS del nuovo Metroid aveva p reso alla sprovvista l’intera comunità videoludica che continuò a discutere di quei pochi secondi di video mostrati per interi mesi. La sensazione generale era che i Retro avessero violato un tabù nel modificare il concept portante di tutte le passate edizioni di Metroid. Nonostante tutto, le parole rassicuranti di Miyamoto (“Non resterete delusi”) placarono gli animi e lasciarono tutti in spasmodica attesa di maggiori dettagli. Poco dopo l’E3 fu annunciato che Raven Blade era stato cancellato e che tutti i membri rimanenti del team che se ne stava occupando (quelli che non vennero licenziati in tronco, chiaro) erano stati riallocati al progetto Metroid Prime. Fu il chiaro segno della presa di coscienza da parte di Nintendo dell’importanza commerciale di un brand come Metroid, forse sottovalutata in virtù degli anni passati dalla sua ultima incarnazione. In sostanza, Metroid Prime avrebbe dovuto essere PERFETTO, anche a costo di uccidere di lavoro quegli sfaticati dei Retro Studios, che fino a quel momento non avevano garantito grosse soddisfazioni a Yamauchi & Co. Ulteriori dubbi sollevò la dipartita pochi mesi dopo lo Space World del lead program-mer dal progetto Metroid Prime, e l’acquisto in blocco della società (2/03/02) da parte di Nintendo fece presagire nuove ristrutturazioni interne (per inciso, a Jeff Spangemberg fu pagato solo 1 m ilione di dollari per tutta la rimanen-

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te quota azionaria, una cifra poco più che simbolica per suggerirgli di levarsi dalle palle). Nonostante il passato burrascoso della società, forse per merito dell’acquisizione completa da parte di Nintendo (come vi dicevo prima, credo che il team sia stato sottoposto, nei mesi precedenti l’E3 2002, a ritmi di lavoro inumani) Metroid Prime venne presentato al pubblico e fu subito il delirio. Nessuno si aspettava un gioco di qualità simile dopo le difficoltà incontrate in fase di sviluppo, e i Retro riuscirono a riscattarsi agli occhi di tutti collezionando una serie spropositata di premi (fra cui il premio Game Of The Year e Excellence In Level Design al Game Developer Choice Award 2002), recensioni che definire entusiastiche è dir poco e un successo di vendite entusiasmante in qualsiasi continente. Sappiamo che per cavalcare l’onda del successo di Metroid Prime i Retro sono già al lavoro per pianificarne un seguito, ma ci è ancora difficile inquadrare esattamente il ruolo dell’azienda: diventerà una sorta di Poliphony ninte ndiana, dedita praticamente solo alla serie Metroid, o possiamo sperare di vedere altri progetti in tempi brevi? Abbiamo perso Rare, che ci metteva tre anni a pubblicare un gioco, e abbiamo guadagnato un’ altra azienda che ce ne mette due ma per completare un progetto ne cancella altri quattro… E’ ragionevole sperare che le cose si siano finalmente stabilizzate? Noi intanto aspettiamo i Retro al varco.

Perché Metroid Prime fosse perfetto, Retro Studios ha dovuto cancellare Raven Blade. E chi se ne frega…


:TESORI SEPOLTI:

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dUE cIELI, uNA sCUOLA____________________________ [Brave Fencer Musashi] di DarknessHeir _______.:scHEda:._______ gENERE eTICHETTA sVILUPPATORE sISTEMA aNNO gIOCATORI vERSIONE

RPG Squaresoft Interno PSX 1998 1 NTSC

Sesto: Riconosci il vero dal falso A quanto pare i giapponesi ce l’hanno proprio con i loro personaggi storici. E pensare che ne hanno d iversi, e pure decisamente cazzuti, alla faccia di noi occidentali e le nostre poche (fortunatamente note voli) eccezioni1. In ogni caso, guardiamo ai due Onimusha, ed alla maniera in cui Nobunaga Oda e J ubei Yagyu sono stati trattati. Da temibili guerrieri ad (eufemismo) irrilevanti macchiette (perché, dai, soprattutto in Onimusha 2 la trama è la quintessenza del trash). Ma se pensate che sia stata C apcom, nel 2001, ad inaugurare il trend della diffamazione ai danni di personaggi valorosi, vi sbagliate di grosso. I semi del male li ha piantati Squaresoft, nel lontano 1998, con questo Brave Fencer Musashi… _______Quinto: Distingui l’utile dall’inutile In molti pensano che sia sufficiente un mondo a “sblocco progressivo” di discrete dimensioni per rendere grande un gioco. Ritengono che basti scaricare in un unico titolo meccaniche di generi diversi, magari qualche personaggino particolare (bizzarro, eh, che non fa mai male), un paio di sub-quest, e… Balle. La questione verte attorno ad una semplice, inflazionata, ridondatissima parola: dosaggio. Creare un mondo inutilmente vasto equivale a generare smarrimento. Spezzare il ritmo di un gioco d’azione con qualche momento avventuroso o piattaformico significa stressare l’utente con fastidiose incombenze. Ed i vostri personaggi del c@##o… Teneteveli! Questo Musashi sarà anche un’irrispettosa parodia di uno dei più celebri spadaccini della storia2 (e non solo quella giapponese), ma il suo lavoro lo sa fare indubbiamente bene. Perché i programma-

tori Squaresoft ancora una volta si sono dimostrati padroni di un’arte decisamente rara: il saper dosare. Suor Germana è una dilettante, ecco tutto, Suor Germana sta lucidando le maniglie sul Titanic. L’amalgama che costituisce l’ossatura di Brave Fencer Musashi vanta tutt’ora, a distanza di cinque anni, un pregevole equilibrio, giocato nel continuo avvicendarsi di lineare e non lineare, incentivo a proseguire nella trama e “ma dai, che in giro c’è un sacco di roba da fare”. Un’ amalgama che, guarnita/cotta/ servita/assalita dal videogiocatore gourmet, rimane calda fino nell’ esofago di quest’ultimo. Il tutto si presenta come un perfetto equilibrio trai “due cieli”: la cosiddetta old school che declama il verbo della semplicità dei controlli ed una maniacale cura del game design, e la discussa new school con il suo free roaming, le sue configurazioni di tasti di complete ma complesse ed i suoi orpelli da “v erosimile mondo di gioco”. Che dire, una lettura del manuale potrebbe mandare in panico il gamer meno preparato. Le azioni sono tali e tante che gli otto tasti del pad PSX sembrerebbero insufficienti; analogo il discorso concernente gli elementi da tenere sotto controllo d urante le nostre peregrinazioni per il regno di Allucaneet. Eppure, skippata l’introduzione (per la cronaca: pari pari all’antefatto di Bastard!!) e presi i comandi del nostro samurai dalla chioma à la Sonic…

ciale” (in fuga da una testa megalitica in una sezione in stile Crash Bandicoot) e si brutalizza un boss. Venti minuti netti di gioco, tre3 stili di gioco diversi. Brilliant. Attenzione, però, il bello deve ancora venire: scesi al villaggio per prepararsi ad affrontare la prima avventura, si ha occasione di gustare la prima dimostrazione di oculatezza dei designer. Giorno e notte si susseguono verosimilmente: e questo fatto non serve solo a compiacere l’utente con suggestivi cambi di cromatismi in te mpo reale e variazioni nell’accompagnamento musicale e nei rumori di sottofondo. Giorno ed ora sono riportati a fianco degli indicatori di energia e status, e vanno tenuti in eguale considerazione. Poiché d eterminati avvenimenti si verificano solo in determinate ore e giorni. Poiché gli alimenti (che assieme alle pozioni ripristinano salute status alterati) hanno una data di scadenza, superata la quale sortiscono un effetto contrario. E poi, alle tre del mattino difficilmente troverete un negozio aperto… Nel caso si perda uno degli eventi sopra descritti, comunque, niente paura. Una semplice pressione del tasto select, e Musashi entrerà in modalità “sleep”. Ora , soltanto una semplice combinazione di tasti ci separa dal tuffo nelle braccia di Morfeo. Sottolineo: semplice. Oltre a ripristinare gli HP e diminuire gli MP (qui chiamati BP, Bincho Points), questa pratica accelera lo scorrere del tempo, premettendo di accorciare l’attesa di un evento sfuggito la prima volta. Da qui un’altra sfumatura del gameplay: la stanchezza di Musashi (quantificata da un apposito contatore), una volta o ltre il 70%, inizia ad incidere negativamente sulle sue performance. E come fare per ridurla? Indovinato, proprio dormendo. _____Quarto: Conosci anche gli altri mestieri

_Ottavo: non essere trascurato nemmeno nelle minuzie …Si supera un breve stage di introduzione ai controlli, poi un paio di schemi basati sulla risoluzione di semplici enigmi, un evento “spe-

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Prendi un personaggio, dagli tante armi/abilità e specifiche occasioni un cui usarle. Se sei un game designer mediocre, costringerai l’utente a corse tra decine di menù per adattarsi ad ogni cambio di s ituazione. Se invece sei un designer con la D maiuscola implementerai il tutto in maniera fluida, riducendo il numero di accessi all’in-


:TESORI SEPOLTI: ventario o deputando un tasto ad un efficiente cambio rapido. Ma se, ancora, vuoi lasciare il segno, punta su due armi solamente. Sì, le stesse due armi per tutto il gioco. Come, “ma sei scemo”, chiedi? E’ qui che il profeta si distingue dall’accolito… Due cieli. Fusion, una katana con cui sferrare una semplice combo e (vedi sotto) assorbire le abilità nemiche, e Lumina, un brando di retaggio Fantasy per i colpi lenti&ferali ed una gamma di special (ancora, vedi sotto). Più una manciata di altre combo il cui apprendimento è sotteso ad una delle subquest. Una scuola. Lanciate Fusion verso un a vversario, premete furiosamente il tasto corrispondente, poi gioite: avete appena imparato l’abilità distintiva di quel nemico. Ce ne sono di offensive, di “benefiche” (“Mint”, per esempio, ferma l’incremento della barra di sta nchezza), di “specifiche” (tirate una bella palla simil-Bowling contro una parete friabile per abbatterla, ma anche contro una schiera di nemici disposta in birillo-style per farvi due risate) e di “apparentemente inutili”. Perché, allora, arrabattarsi con i menù quando per ottenere l’abilità desiderata è sufficiente annichilire un dato nemico? Passiamo a Lumina. Recuperando i leggendari “Five Scrolls” a suon di boss abbattuti, si possono ottenere cinque abilità da sfruttare attivamente tanto nella risoluzione degli enigmi quanto in fasi appositamente studiate, ma anche durante gli scontri. _______Secondo: Esercitati con dedizione Nel contesto diegetico Lumina è la spada della luce, l’arma leggendaria che bla bla bla. In quello extradiegetico, il suo attributo illuminante rischiara l’albo d’oro dei g ame designer. Un (1) accesso al menù per scegliere se attivare uno scroll od usare le capacità di base della spada, e previo caricamento dell’apposita gauge (che praticamente si traduce nell’effettuare la parata, bella lì), si ottiene un effetto a scelta tra lo sparare acqua o fuoco, scatenare un tornado od un terremoto, volare o creare il vuoto (no, non il Ku dello Zen) attorno a sé con una spazzata a 360°. Inutile dire che l’accuratissima pianificazione delle aree di gioco limita al minimo le pause di (ri)configura-

Ring#05 zione dell’arma, lasciando il campo libero all’appagamento più cristallino. Pianificazione, si diceva… Ebbene, in verità è stato proprio Brave Fencer Musashi ad ispirare (tra l’altro a mio cognato), l’antico apoftegma “il buongiorno si vede dal mattino”. Ricordate i venti minuti iniziali? Perfetto: per tutta la durata del gioco avventura, piattaforme, cut scenes, incontri con boss da picchiare con precisione&strategia (non esattamente l’Hejo del Musashi storico, ma insomma siamo lì), e sotto giochi compongono un o rdito variopinto quanto gradevole, con buona pace di Missoni e dei suoi seguaci. Capito, Suor Germana? Stai attenta e lascia stare Gualtiero Marchesi, che invereconda un peccato capitale lo stai già fomentando, con le tue ricette. Si diceva? Ecco, vedi, a forza di disturbare mi hai fatto perdere il filo.

cadere. In Brave Fencer Musashi l’influenza old school, come già detto, è più che sensibile. Ed in un titolo che segue questa filosofia, trovare la non linearità e le molteplici sfumature di un titolo new school è davvero, davvero, davvero difficile. Questo piccolo gioiello, insomma, è la “Scuola” nata dal felice connubio dei “Due Cieli”; una sapiente miscela del meglio di entrambi, che ad oggi ha pochissimi rivali. Il fatto che in Giappone ed in America sia passato quasi inosservato (e non è nemmeno stato convertito per il mercato europeo, pensa te) non deve infastidirci più di tanto. Essere, come recitava questo antico detto orientale “Per molti, ma non per tutti” è il carattere distintivo primo di ogni opera di valore…

Settimo: percepisci anche quello che non vedi con gli occhi Ora ricordo: le sub-quest. 35 abitanti del castello da salvare per o ttenere benefici di ogni genere (da nuove tecniche di spada a nuovi oggetti in vendita nei negozi, ma anche nuovi strumenti nell’accompagnamento musicale di una data locazione, and so on), 13 animaletti teneri teneri da detrudere violentemente dallo schermo per aumentare il limite massimo degli HP, la madre (uahahaha…) di tutti costoro che una volta battuta esploderà in mille goodies, e le action figures raffiguranti i personaggi del titolo, con cui giocare (se mai qualcuno possa trovarlo divertente, si faccia vivo) nella c amera di Musashi. Solo questo aspetto del gioco segue i cliché senza innovare: troverete lo stret-to necessario in giro, agognerete a quello che vedrete ma non riuscirete a raggiungere senza un minimo di ingegno, diventerete matti per “completare la collezione”. Ma non dimentichiamo che… _____Terzo: Studia tutte le arti E’ troppo comodo, dall’era dei 32 bit in poi, giustificare un impianto di gioco spartano adducendo la scusa del “vecchio stile”. Così come è troppo comodo infarcire una struttura non lineare di collezioni di “soprammobili” e lezi vari per mascherare la piattezza e la dispersività in cui il gioco “moderno” può

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_____________________Note [1] Sto parlando di Alessandro M agno e del dinamico duo ArtùMerlino. Il fatto è che tutti e tre presentano forti legami con l’esoterismo, e nonostante l’abbondanza di documentazioni loro inerenti, discernere l’aspetto “storico” da quello “simbolico” delle vite di costoro è tutt’altro che semplice… [2] Musashi Miyamoto è nato nel 1584. Spadaccino di incredibile v alore, in vita sua ha partecipato a ben 60 duelli senza perderne nemmeno uno. Fondatore della Nitenichi Ryu (due cieli, una scuola), ha creato la tecnica che prevede l’uso simultaneo di due spade (la tachi, spada normale, e la wakizashi, spada corta) ed elaborato decine di precetti utilizzati tutt’ora nel Kendo sportivo. Prima di morire ha scritto Il libro dei cinque anelli, uno str aordinario testo in cui la strategia (Hejo), l’arte della spada e lo Zen si fondono in maniera sublime. Oltre al suo capolavoro, consiglio di dare un’occhiata al manga Vagabond di Takehiko “Slam Dunk” Inoue, eccelso per il tratto, la caratterizzazione dei personaggi ed ovviamente la trama.


:RUBRICHE:

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rACCONTI iNDECISI_______________________________ [KAKKA BANZAI: Le avventure testuali] di Amano 76 __________Spirito d’avventura Un vecchio arriva in paese battendo due piccoli blocchi di legno, uno sull'altro. Il caratteristico rumore sordo attira i bambini dei dintorni: sanno che tra poco ci saranno dolci per tutti e comincerà il kamishibai.

Fiorito nel dopoguerra nipponico, il kamishibai (letteralmente: rappresentazione di carta) rispose per breve tempo alle necessità di comunicazione di un paese che, per secoli, non solo era stato isolato dal resto del mondo, ma anche da sè stesso e dalle regioni al suo interno, a causa di montagne invalicabili e della scarsa sicurezza al di fuori dei villaggi che per anni avevano arginato vicendevoli scambi culturali. Il risultato di una simile frammentazione fu che spesso coesistessero più versioni di una stessa leggenda, o anedotti che non avevano mai superato i confini di certe realtà locali. Gli adulti potevano colmare le loro lacune (o curiosità) con la semplice lettura, ma per i bambini il kamishibai era uno str umento di comunicazione decisamente più consono e immediato; così, finchè la televisione non raggiunse pieno regime con le sue enormi dosi di cartoni, telefilm, e varietà, questa particolare forma narrativa prosperò al punto di raggiungere una dignità che consentì di sopravvivere, se non al mestiere in sè, allo spirito che la ispirava e alla fama che si era guadagnata. Il narratore di kamishibai esercitava la sua arte sostenendosi economicamente con la vendita di dolci e merende, che distribuiva ai suoi piccoli clienti in attesa dell'inizio dello spettacolo, traghettando racconti popolari da un isola all'altra dell'arcipelago nipponico. I suoi strumenti di lavoro erano la semplice voce e un piccolo teatro ambulante, nella cui cornice inseriva dipinti che riproducevano i momenti salienti dell'azione. Il vuoto lasciato da quest'attività, decaduta intorno gli anni '60, ven-

ne in qualche modo occupato dai romanzi di genere. L'abitudine di accompagnare il testo dei libri con illustrazioni a tutta pagina, che catturassero i passaggi principali dei racconti dando allo stesso tem-po volto ai protagonisti della storia, era sempre persistita nella narrativa nipponica popolare, e si tramandò in modo del tutto spontaneo nei romanzi per ragazzi, spesso a tema horror o fantastico, che negli anni '80 videro fiorire le trasposizioni letterarie dei cartoni telesivi più popolari1. È in un retroterra simile che attecchì l'avventura testuale, genere di origini occidentali (Zork, 1977, Massachussets Institute of Technology; Mistery house, 1980, Sierra) che in Giappone venne, tipicamente, accolto e trasfigurato secondo i canoni nazionali. Ripercorrerne la storia come genere videoludico è improponibile: la portata dei titoli prodotti è persino superiore a quella americana ed e uropea, e chiaramente citarne ognuno non corrisponderebbe alla benchè minima utilità. Quello che invece importa è riconoscere le tappe fondamentali, le icone che hanno sinora contraddistinto la produzione, e come essa si inserisca nel mercato nipponico (vendite, popolarità). _______Giochi d i ruolo al sugo Le prime avventure testuali furono un’esclusiva dei personal computer. Prodotte da Hudson, Dizzney Land (1983) e La Principessa Pomodoro del regno di Insalata (1984), avevano uno spiccato accento umoristico e grottesco. In Principessa Po modoro il giocatore impersonava Cetriolo il coraggioso, l'eroe della storia, che doveva salvare la principessa, figlia di Re Aglio, rapita dal traditore ministro Zucca. L'interfaccia visuale era composta da menu a scelta multipla, sempre presenti su schermo, che incorniciavano immagini fisse secondo un layout molto simile a quel kamishibai descritto in precedenza. "L'azione" si svolgeva principalmente attraverso i dialoghi, punto focale del gameplay, con uno studio del linguaggio sicuramente più approfondito e ricercato rispetto ai vocabolari elementari utilizzati nei titoli per console. Questa distinzione, da non trascurare, rifletteva la scissione tra il mercato ludico per

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pc e quello per Famicom: uno appannaggio di ado-lescenti o adulti, che potevano permettersi la spesa per un assemblato e che non venivano scoraggiati dalla nonimmediatezza dei comandi, l'altro rivolto ad un pubblico meno "elitario" e meno smaliziato, principalmente composto da bambini. Non a caso, quando Principessa Pomodoro sarà adattato per la console a 8-bit di Nintendo, molti enigmi verranno semplificati e resi più accessibili.

Un tipico "fotogramma", ripreso dalla leggenda di Momotaro Pur distinguendosi per il retaggio testuale, la matrice delle avventure restava tuttavia molto simile a quella dei giochi di ruolo, genere che era stato battezzato su personal computer dal Wizardry di Robert Woodhead (1981, Sartech Software) un titolo molto amato dagli utenti giapponesi, di cui an-cora oggi vengono realizzati nuovi capitoli e che ha dato luce alla caratteristica inquadratura in soggettiva mantenuta in molti capisaldi del mercato orientale, come la saga di Dragon Quest o quella di Megami Tensei (conosciuta in occidente c ome Persona). Non è quindi la sola tradizione del kamishibai a venire omaggiata dai primi respiri del g enere, com'è evidente dalle connotazioni di Principessa Pomodoro, in cui l'unica differenza rispetto a sistemi di rpg ortodossi (per i canoni di allora) era la gestione dell'interattività attraverso menù predisposti e non attraverso un referente visivo in terza persona: ecco spiegato il perchè nel titolo di Hudson raggiungere un qualsiasi luogo implicasse aggirarsi per autentiche world map, ed il perchè quando si incontrava casualmente un avversario, come li fruttivendolo ad esempio, si avvicendasse una classica schermata di combattimento a turni, che veniva svolto attraverso improbabili tenzoni di morra cinese. Il passaggio a questa rigidità interattiva non deve essere frainteso come un elemento votato a corrompere la giocabilità: in realtà le


:RUBRICHE: "restrizioni" presenti in Principessa Pomodoro avevano come obiettivo quello di permettere un maggiore controllo sul testo narrativo da parte degli autori, in modo da concedere loro di comunicare un messaggio più organizzato e coerente possibile, non di trovare scorciatoie per diminuire il lavoro da compiere. E sarà proprio questo il dna principale dell'avventura "alla giapponese", che verrà tramandato da allora in poi: la focalizzazione sui contenuti, il registro linguistico, e l'appeal adulto. __Mondi che fluttuano immobili L'ispirazione di Wizardry non si estinse in breve. Il gioco di Woodhead aveva infatti colpito profondamente due grandi autori del patrimonio ludico nipponico, Yuji Horii (padre di Dragon Quest assieme Kohichi Nakamura) e Hironobu Sakaguchi (padre di Final Fantasy) che esordirono le loro carriere proprio con delle avventure testuali. Tuttavia mentre Deathtrap di Sakaguchi fu poco più che un buon titolo, il lavoro di esordio di Horii, Serial killer a Port No pia, diede una propulsione notevole al genere, fornendo l'avvio ad un impiego massiccio di convenzioni universali. Il successo di Port Nopia era motivato principalmente dallo sfruttamento del registro tematico e narrativo del romanzo poliziesco, apparsi per la prima vol-ta in un avventura testuale proprio nell'opera di Horii, nonchè dal sano umorismo fatto di giochi di parole e slapstick che il regista di Dragon Quest porterà avanti costantemente in tutti i suoi lavori successivi (come Karuizawa, guida al sequestro di persona, Chrono Trigger, e Hokkaido, omicidi a catena) ma che sarà invece abbandonato dagli altri autori delle avventure testuali, a favore di un maggiore accento su toni seri e c upi. Sia Principessa Pomodoro che Port Nopia vennero successivamente trasposti su Famicom, tuttavia il passaggio di consegna dai personal computer alle console venne tenuto a battesimo da un altro titolo, Dead Zone (1986, Sunsoft) pubblicato sull'allora avanguardistico Disk System.

Ring#05 Le peculiarità di questo nuovo supporto analogico furono efficacemente messe a frutto da Nintendo, che promuovendo le funzioni di r iscrittura, la capienza dei dischi, e la sperimentazione di nuovi generi, diede il via a diverse software house per la produzione di titoli più complessi rispetto agli shooter e platform che fino a quel momento avevano "infestato" il mercato su cartuccia. Così, nello stesso anno in cui il pioneristico Horii pubblica l'intramontabile Dragon Quest, Sunsoft lancia il suo celebre Dead Z one, passato alla "storia" per la presenza di alcuni brani doppiati in cui la spalla del protagonista del gioco, un robot di nome Carly, suggerisce indizi o commenta sarcasticamente gli errori dell'utente. L'effetto, abbastanza elementare, ottenuto attraverso la combinazione di sillabe, risultava comunque riuscito proprio perchè riproduceva esattamente il parlare scandito e metallico di un robot, e l'idea non mancò di venire lodata da più parti per la sua arguzia. La trama, decisamente angosciante e claustrofobica, vedeva il solito "paladino" alla ricerca della sua ragazza, sequestrata dai cattivi di turno. La particolarità non era ovviamente data dal pretesto narrativo, quanto più dall'insolita ambientazione fantascientifica: una colonia spaziale disabitata, completamente deserta, che il protagonista doveva ispezionare da cima a fondo (letteral-mente, dato che gli veniva "chiesto" di farsi strada a ttraverso otto livelli sotterranei), trovando soluzione ad enigmi, b asati su codici o combinazioni di o ggetti, per aprire porte e garantirsi accesso alle zone consecutive. A ricevere gli onori della cronaca ludica non fu tuttavia il solo doppiaggio, in quanto Dead Zone , a differenza delle lineari avventure grafiche apparse sino ad allora, era costellato di vicoli ciechi e folto di indizi svianti, che confondevano l'utente rendendo alcuni passaggi quasi invalicabili; una pecca che in pochi dimenticarono di segnalare vista la difficoltà media dei titoli per console, notevolmente al di sotto degli standard del titolo Sunsoft. Nel frattempo, comunque, l'eco del successo di Dead Zone (e delle polemiche circa la scarsa "user friendship") aveva raggiunto le orecchie di sviluppatori e produttori, e non ci volle molto prima che la stessa Nintendo scendesse in campo personalmente, realizzando la serie Club d'investigazione Famicom e l'esotico Le antiche leggende del Famicom - di nuovo sull'isola dei Demoni.

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Il club delle persone particolari L'isola dei demoni ebbe un buon successo di vendite. Il suo spirito scanzonato, la scarsa difficoltà, e il contesto di gioco, avevano entusiasmato gli utenti del Disk System, messi di fronte ad enigmi basati sulla loro conoscenza in materia di leggende del kamishibai, attraverso un mondo fittizio popolato da miti d'infanzia come Kintaro, Momotaro, la principessa Kaguya, la principessa Oyuki. Il titolo di Nintendo si poteva quindi apprezzare a più livelli, assumendo un sapore quasi didattico nel caso dei bambini, distratti inoltre da gag a raffica, o nostalgico nel caso degli adulti, intenti a "riscoprire" racconti dimenticati. Il clamore suscitato da L'isola dei demoni toccò anche Il tesoro magico di Cleopatra (Dog, 1987, Famicom Disk System), titolo a cui parteciparano diversi futuri membri del team Square e che riscosse un buon indice di gradimento grazie alla grafica notevolmente dettagliata. Quando due anni più tardi però vennero prodotti i Club d'investigazione Famicom, il Disk System aveva ormai raggiunto il proprio periodo di declino, con prestazioni sorpassate persino dal Famicom stesso, e con un Pc-engine che aveva già cominciato a rodere una fetta di mercato a Yamauchi e compagnia. Fu così che, per quanto Nintendo avesse riversato forze e spese nel portare a termine i due titoli, il grande pubblico era ormai diretto verso altri lidi, e alle due avventure testuali non restò che un manipolo di appassionati a fare "passa-parola", nonchè la stima r icevuta da gran parte della critica. Questo garantì una notorietà costante a Il discendente scomparso (il primo capitolo) e La ragazza in piedi dietro di te (il secondo), al punto che i due sono oggi considerati capisaldi del genere, con una fama ufficializzata senza mezzi termini dalla presenza del trofeo di Akane Tachibana (personaggio ricorrente della serie) in quel Super Smash Bros Melee recentemente uscito per Gamecube. Questo prestigio decennale fu dovuto a diversi aspetti, l'eccellente costruzione delle sequenze più concitate, la grafica dettagliata, e più di tutti l'intreccio narrativo, che nel secondo episodio in p articolare d imostra una sapiente costruzione della rete di indizi e un'accattivante scenario a metà tra il poliziesco e la storia di fantasmi, i due generi più ricorrenti in assoluto nei drammi televisivi, nei film, nei cartoni, e nei romanzi seriali giapponesi. Erano a tutti gli effetti dei racconti interatti-


:RUBRICHE: vi, perciò se da un lato mostravano il fianco alla linearità, dall'altro si avvantaggiavano senza riserve del loro spessore contenutistico, sfruttando le caratteristiche dell'avventura testu-ale come c ontraltare alla "piattezza" tematica degli shooter, dei picchiaduro a scorrimento, e dei platform, tipologie ludiche maggiormente in voga in quel periodo. La stessa disfatta colpisce anche Metal Slader Glory, avventura grafica di Hal studio che a causa della sua ritardatissima uscita (1991, quando Nintendo aveva a ppena annunciato la chiusura della produzione per Famicom) finirà col passare completamente inosservata, e con essa la sua preziosa edizione limited, oggi valutata nel mercato dell'usato nipponico per qualcosa come 250 euro. Il motivo di una prezzatura simile non è stato stabilito dalla sola rarità del titolo: costato somme ingenti e più di quattro anni di sviluppo, l'insuccesso di Metal Slader fu tale da mettere in ginocchio Hal studio2, ma il risultato fu un "mostro" di 8 mega su cartuccia con un'alta qualità di riproduzione delle immagini, un character design riuscito, e una trama cruda che sfruttava a suo vantaggio l'iniziale tono scanzonato della vicenda, mettendo in scena sequenze splatter e anche un pò "sozzone", come evidente in quella particolarmente nota (non dalle nostre parti, ovvio) dove un mostro tentacolare afferra la sorella minore del protagonista, ammicando alle situazioni tipiche dei manga e cartoni pornografici. _________Il fumo salva la vita Se Principessa Pomodoro è stato il primo, Dead Zone quello che ha lanciato il genere su console, e L’isola dei demoni uno dei maggiori successi, la vera e propria icona delle avventure testuali è Saburo Jinguji, apparso per la prima volta nel 1987, in Arriva Saburo Jinguji - Assassinio a Shinjuku (Data East, Famicom Disk System), in cui il cupo investigatore deve r isolvere un omicidio avvenuto nel parco di Chuoo, in pieno centro di Tokyo. La locazione, riprodotta con spirito realistico nei limiti di quanto concesso dalla tecnologia a 8 -bit, fu

Ring#05 una delle prime distinzioni con cui Data East proponeva la sua versione di avventura testuale. Un a ltra fu l'ambientazione hard-boiled, sino ad allora infrequente nelle produzioni videoludiche, e un altra ancora la caratterizzazione del protagonista, compassata e adulta, delineata da quel Katsuya Terada che attualmente è uno degli illustratori più accreditati di Atlus e del mercato nipponico più in generale. Legato quasi geneticamente al titolo e ai suoi sequel, Terada non ha mai mancato nessuno dei capitoli dedicati a Saburo Jinguji (sette fino ad oggi) contribuendo in modo d eterminante al successo della serie, che è cresciuto col tempo e non è mai effettivamente esploso.

Il motivo per cui i l gioco è così radicato nell'immaginario nipponico, è lo stesso per cui Dragon Quest, F inal Fantasy, Zelda, o Mario sono considerati prodotti da comprare a scatola chiusa: perchè l'utente sa esattamente cosa lo aspetta, perchè nel bene e nel male, tutto cambia ma resta sempre uguale. E nella serie dedicata a Saburo Jinguji ogni cosa è immediatamente riconoscibile: il protagonista, l'ambientazione realistica, i dialoghi ricchi di quotidianità e credibilità, e le sigarette. A proposito di sigarette: la difficoltà di queste avventure prodotte da Data East è la croce e la delizia del suo pubblico. Con un sistema di salvataggio dei dati che implica il trascorrere di una giornata, con la necessità di rientrare nelle scadenze richieste per risolvere i casi (quindici giorni nel primo capitolo, per dirne una) e con un cast di personaggi che dispensa indizi e informazioni a seconda del comportamento del giocatore, è facile immaginare come la risoluzione dei misteri implichi una "fatica" mentale non esigua. In Assasinio a Shinjuku, ad esempio, si può per-

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dere all'istante se si commet-tono passi falsi come sospettare del commissario di polizia, o insistere troppo nel porre domande a persone reticenti, magari incalzandole troppo bruscamente 3, rischiando che chiudano definitivamente la bocca e neghino l'accesso a indizi determinanti. In questi casi, selezionando il comando "fumati una sigaretta", Saburo si prende una pausa virtuale, assume nicotina, e si lascia folgorare da intuizioni liberatorie che in qualche modo aiutano a procedere senza eccessivi rischi. Il bilanciamento in questo senso è il fattore più riuscito assieme al character design di Terada: non si ha mai la sensazione di non poter s uperare un momento di empasse, nè quando si risolve un enigma o si acquisisce una prova importante ci si sente colpevoli ad aver sfruttato l'aiuto del tabacco; col risultato che la noia e la frustrazione non riescono mai a prevaricare la suspence e la curiosità del giocatore. Ovviamente chi esaurisce l'unico pacchetto di sigarette a disposizione per quei quindici giorni, resta senza indizi per il resto dell'avventura. Difficile stabilire cosa sia peggio, tra il cancro o il game-over. _____________________Note [1] O viceversa, come nel caso della serie Lodoss War. [2] L'anno successivo la ditta verrà letteralmente salvata a un passo dal fallimento da Nintendo stessa, evento che attesta la stima non s econdaria della compagnia di Yamauchi nei confronti della software house di Satoru Iwata: Hal studio è infatti responsabile di blockbuster come Baloon Fight, la serie di Kirby, e la serie di Mother. Di recente ha inoltre prodotto il primo million seller per Gamecube, Super Smash Bros Melee [Ring 3, Meet the feebles]. [3] Cosa che invece si può fare l iberamente con la propria assistente Yoko, che può essere sgridata a volontà, senza ripercurssioni di sorta, se non il deterioramento della sottile intimità tra i due protagonisti.


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sMILEBIT_______________________________________ [Sega Saga #4] di Emalord

Da SEGA SAGA #1 : “Nell’anno che da sempre identifica l’immaginario di un futuro splendente nascono: Wow Entertainment – Sega-AM2 – Amusement Vision – Hitmaker – Overworks – Smilebit – Sega Rosso – Sonic Team – United Game Artists – Wavemaster e Visual Concepts…” Nell'anno del Signore 2000 una pioggia di meteoriti si trovò a passare dalle parti del pianeta Sega. Tre di loro furono portatrici di disastro ad interim: Biliancium, Facturatio e Marketeeng. L'impatto fu devastante, il pianeta Sega si spezzò in undici ciottoli di dimensione variabile mentre da alcuni pianeti vicini lo spettacolo veniva degustato accompagnato da cola, pop-corn e parate di majorette. Una delle undici schegge cosmiche di Sega sembrava non disperarsi particolarmente per quanto avvenuto, anzi. A vederla da lontano sembrava persino sorridere. Il 20 Aprile del 2000 il pianeta Sega si era ufficialmente tramutato nella galassia Sega. La tempesta fiscale abbattutasi sulla softco nipponica aveva dato una potente scossa al sistema, ma la cosa non e ra necessariamente da vedersi come un Armageddon, anzi. A guardarlo da lontano il pianeta Smilebit sorrideva compiaciuto da dietro gli occhiali del suo presidente, un Shun Arai che dal giorno della sua nascita, il 15 giugno 1959, aveva scelto il sorriso come arma per conquistare il mondo. Il progetto Smilebit è cosa tutt'altro che ilare, a dire il vero. Gli uffici, situati tra il secondo ed il quinto piano del Sega Building di Tokyo, sono una realtà pulsante di progetti, iniziative e macchinette del caffè che lavorano a getto con-tinuo. Oggi, nel 2003, la softco è impegnata su molti fronti, tra cui la pro-

duzione di videogames per ogni s istema conosciuto, Gameboy e PC compresi, per sale giochi nonché per l'emergente telefonia mobile cellulare. Un'attività inizialmente concentrata sulla produzione di giochi per Dreamcast che si è in seguito allargata a tutte le macchine della concorrenza per forze di causa maggiore, vista la mesta dipartita della console a 128bit di Sega e al lutto che ne seguì. __________C'è Poco Da Ridere Entrare nel sito web ufficiale di Smilebit [http://www.smilebit.com] è come entrare in un ascensore, salvo poi accorgersi che si è entrati in una lavatrice. La disposizione di dati all'interno del sito, che di norma dovrebbe essere in r igoroso ordine cronologico A>Z oppure Z>A, dev'essere stata affidata ad un qualche asceta fresco di laurea Webmaster. Niente da ridire sui contenuti, peccato che la lista dei titoli prodotti per i diversi sistemi sia in rigoroso ordine casuale, un inno supremo al caos primordiale che regna da sempre nell'universo ma che genera in chi stila statistiche di qualche tipo una certa frustr azione da "questo lo sposto qui, quello va messo li", filosofia orientale ben poco mistica cui anche il sottoscritto ha dovuto adeguarsi. E c'è davvero poco da ridere. Cominciamo ad osservare la produzione Smilebit partendo dalla console cui dedicarono le prime, affettuose nonché materne attenzioni.

Prima di dedicarsi ad una serie infinita di simulazioni sportive, Smilebit ha realizzato la conversione di un arcade di enorme successo per la neonata centoventottobittica console di Sega. Il risultato finale fu soddisfacente anche se Dreamcast, invero, avrebbe potuto essere sfruttato meglio. Sega Rally 2 riuscì a coniugare grafica, fluidità e giocabilità in un cocktail dal gusto gradevole, anche se l'impressione g enerale era che il coin-op era comunque più bilanciato nei controlli e meccaniche di gioco. Let's make Japanese professional baseball team! [1999] Let's play with Japanese professional baseball team! [1999] Let's play with Japanese professional baseball Team on net! [2000] Let's make more Japanese professional baseball team! [2000] Let's Make Professional Baseball team and play ball! [2001] Per la serie Let's, una simulazione di baseball caratterizzata nella serie LET'S MAKE da puri elementi manageriali, con tanto di palestra, segretarie, ufficio acquisti e vendite, stadi personalizzabili. Per contro, nella serie LET'S PLAY venivano estirpate le caratteristiche più te-diose incentrando il tutto sulla nuda e cruda simulazione sportiva. La versione 2001, la più recente, riuniva le c aratteristiche di entram-be le saghe includendo anche le componenti on-line attivate nel 2000.

____________Sega Dreamcast La produzione Smilebit per Dreamcast è caratterizzata da una natura prettamente sportivo-simulativa. Moltissimi i titoli usciti, riassumibili però in saghe incentrate su calcio, baseball e prefisso LET'S, che indicava con LET'S MAKE saghe di tipo manageriale, e con LET'S PLAY saghe di tipo arcade/simu-lativo. Sega Rally 2 e Jet Set Radio sono gli unici due titoli ad avere conquistato un posto di rilievo fuori dai confini nipponici, risultato tutt' altro che biasimabile vista l'importanza rivestita dai due titoli nel panorama videoludico. SEGA RALLY 2 [1999]

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Saka-Tsuku - Let's make J.LEAGUE professional soccer club! [1999] Special Edition [2000] Special Edition2 [2001] Similmente alle classiche simulazioni manageriali europee, anche in questa produzione sollevantica lo scopo primario è vendere/ acqui-


:RUBRICHE: stare/customizzare squadre, giocatori, stadi. Discreto successo in patria, assolutamente oggetto sconosciuto all'estero, le versioni più recenti godevano della possibilità di connettersi tramite modem per confrontarsi con giocatori reali e scaricare logo e altre amenità. Mo lto particolare il fatto che, sem-pre on-line, fosse possibile linkarsi a nche con gli utenti di un altro prodotto in-house, J. League Spectacle Soccer, anche se il tutto si riduceva ad uno scambio di dati vista la natura differente dei due prodotti [manageriale uno, arcade l'altro] THE TYPING OF THE DEAD [2000] Prendete il più meraviglioso shooter con pistola ad infrarossi della sto ria, sostituite la pistola con una tastiera, cercate di comporre il più velocemente possibile le scritte a video per abbattere i nemici ed avrete un'idea di cosa sia questo gioco. Ve lo spiego in un altro m odo: prendete Sega Rally, gettate dalla finestra Volante e Joypad, collegate le maracas di Samba de Amigo al vostro Dreamcast e cercate di portare a termine la simulazione rallystica di Sega. Ecco, questo è The Typing of The De ad. Si scherzava. Si scherzava? Jet Set Radio a.k.a. Jet Grind Radio [2000] De La Jet Set Radio [2001] Un nome, un franchise, un modo nuovo di intendere i videogiochi. Negli anni della clonazione ludica, della carenza di concept, della piattezza creativa, Smilebit riunisce in un unico titolo innovazione, classe, giocabilità, musica da brivido. JSR introduce la tecnica del cel-shading per rivestire di pastellosa carto nosità i poligoni degli skaters ed il ludomondo non sarà più lo stesso. In altre parole, i personaggi sembrano cartoni animati viventi mentre la musica rap percorre le vie di una Tokyo da rivestire di graffiti. Il gioco è semplice, veloce, forse anche banale, ma di certo porta Sm ilebit sulla strada di un modo "stylish" si concepire i videogames che, potete scommetterci, sarà il suo marchio nel terzo millennio. La versione chiamata De la Jet Set Radio introduce nuove ambienta zioni, musiche e personaggi, tra i quali un simpatico botolo [canide, per i comuni morta li]. 90 MINUTES SEGA CHAMPIONSHIP FOOTBALL [2001] Simulazione calcistica uscita solo per il mercato europeo, ha dovuto fare i conti con le superstar del settore, FIFA 2001 e ISS PRO, u-

Ring#05 scendo dallo scontro con il GD-ROM tutto ammaccato e la rete gonfia di palloni avversari.

Derby tsuku 2 [2001] Let's make Derby Horse Classica, oseremmo dire immancabile, simulazione equino-manageriale. Compra un cavallo, allevalo, fallo vincere e rivendilo sotto forma di bresaola. Perché lo sanno tutti che i giapponesi vanno pazzi per la bresaola. Battute da salumeria di borgata a parte il gioco non sarebbe neanche male, peccato per l'idioma nippostretto che impedisce di scegliere fra le varie marche di biada impedendo il giusto feedback affettuoso tra l'uomo e la superstar del Vidal. Hundred Swords [2001] Incredibile, un titolo Smilebit senza il prefisso Let's. Solo per questo gran simpatico. Quello che lo rende ancora più simpatico è la completa estraneità con le tipologie di gioco finora esaminate. Hundred Swords è difatti un simulatore strategico in tempo reale, da giocarsi on-line per sfidare fino a 3 umani sul campo. Ogni esercito creato e cresciuto come fosse un figlio può contare fino a 100 unità carbonio [esseri umani], per enormi battle royale in rete, con eserciti fino a 400 unità, tutte a video. J.League Spectacle Soccer [2002] Altra simulazione calcistica, stavolta esclusiva per il mercato nipponico. Interessante la modalità "network play" per entusiasmanti sfide on-line nonché per scaricare dalla rete logo e aggiornamenti dei roster. Originale la possibilità di linkarsi con gli utenti di SakaTsuku Special Edition 2 , ma sia a livello tecnico che di giocabilità non arriva a sfidare la concorrenza di ISS PRO e VIRTUA STRIKER. _______________Playstation 2 A riconferma della scarsa simpatia che lega Sega e Sony, un solo pro-

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dotto compare nella line-up di Smilebit per il monolito nero. E non è di certo uno dei titoli di punta. Se pensate che sia un caso andate a vedere che trittico di titoli ha piazzato la casa del sorriso sulla console di Gates e poi ne riparliamo. Saka-Tsuku - Let's make J.LEAGUE professional soccer club! [2002] Il medesimo prodotto uscito su Se ga Dreamcast, sesta versione del franchise. Niente da notare, se non che ora si hanno fino a quattro splendide segretarie a darci una mano nel gestire gli affari. Quando si dice l'innovazione. Quando si dice l'emancipazione femminile. ____________________X-BOX Sega e X -BOX. L'amore viene riconfermato anche da Smilebit con tretitoli-tre di discutibile qualità, ma comunque un chiaro segnale della direzione dei flussi monetari di casa di Harai nel settore sviluppo e ricerca. Gun Valkyrie [2002] Smilebit cerca di far rivivere gli shooter frenetici dell'era 2D sulla gatesmobile ma il risultato è un parziale fallimento. Ci son validi elementi di concept ma il gioco è troppo lineare, financo noioso, ed il level design non è brillante. In attesa di un secondo, più profondo episodio. Jet Set Radio Future [2002] Panzer Dragoon Orta [2002] Ring vi invita a leggere le recensioni "large", sempre su questo numero ___________Gameboy Advance Niente di epocale sul fronte GBA a livello di prodotti, notevole invece la semplice presenza di questa piattaforma nei piani di Smilebit, prima casa Sega fra quelle da noi analizzate a prendere in considera-zione il portatile di casa Nintendo. Baseball Advance [2002] Let's make Japanese Professional baseball team! ADVANCE [2002] Greatest Nine (Japanese Pr ofecional Baseball Game) [2002] Let's make J.LEAGUE professional soccer club! ADVANCE(Tentative) [T.B.A.]


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___________________Sega PC

_____________Sorrisi e Saluti

Smilebit dimostra grande eclettismo convertendo alcuni suoi prodotti già descritti in precedenza anche per i PC.

Far scorrere il proprio sguardo lungo tutta la produzione Smilebit porta ad avere un'idea abbastanza chiara della situazione attuale della softco di Shun Arai: soprattutto negli ultimi anni, la casa Sega si è d istinta per qualità estetiche di primissimo livello unite ad uno stu-dio e progettazione del gameplay che per, per quanto lungi ancora dall'essere ottimale, denota comunque la dovuta cura ed attenzione. Una cosa normale, penserete. Ma non in casa Sega. Seguitemi in questa breve analisi. Abbiamo visto nei precedenti numeri di Sega Saga che da sempre, per Sega, primeggiare è imperativo. E per primeggiare, si sa, il primo passo è quello di attirare gli altrui sguardi. In soldoni tutte le softco Sega, da sempre, danno alla scenografia, alla grafica, all'esibizione tecnologica un'importanza estrema. Il retaggio prettamente arcade della casa madre, ereditato geneticamente dai suoi figli prediletti, ha invece giovato ben poco ad uno studio del gameplay che fosse il più approfondito possibile. Reduci da una tradizione salagiochistica dove contavano soprattutto 1] immediatezza dei controlli, 2] rapidità di fruizione e 3] ridondanza grafica, tutto le softco finora osservate hanno riversato nella produzione home buona parte di quella filosofia con tutto il bene, ma soprattutto il male, che ne possa conseguire. Perché è indubbio che una delle cause della perenne crisi finanziaria di Sega sia la sua profonda incapacità di rinnovarsi, che non significa profonda incapacità di concept innovativi, sia bene inteso. La sciando ad altre sedi articoli che trattino più approfonditamente del rapporto tra il gioco ed il luogo d ove se ne fruisce, con relativi differenti approcci soprattutto da parte degli "acquirenti", vediamo di esaminare Smilebit ed il suo rap-porto con la giocabilità, esame che vi preghiamo arricchire con i commenti nelle recensioni di Panzer Dragoon Orta e Jet Set Radio Future che trovate sempre su questo numero di Ring. Con un dito nel naso ed uno sulla tastiera mi accorgo che Smilebit, pur mostrando il fiatone, è forse la segasoftco che maggiormente si è

Sega Rally 2 [1999] The Typing of The Dead [2000] Hundrd Swords [2001] Let's make J.LEAGUE professional soccer club [2002]

____________________Mobile Potevano mancare i giochi per cellulari in casa Smilebit, dove nessun sistema viene sottovalutato? Ovviamente la risposta è negativa. Javakuryo[2001] Un vero e proprio RPG sul vostro cellulare. La morte sembra circondare la protagonista del gioco, e centinaia di fantasmi ne tormentano l'esistenza. Sconfiggerli tutti e scoprire le cause di quanto sta a vvenendo spetta a voi, armati del vostro cellulare e… di parecchio tempo libero. Typing Jet [2001] Jet Set radio su Cellulare? Perché no, anche se stavolta è un semplice platform seppur con tutti i crismi del franchise. ____________________Arcade Solo un titolo, The Typing of The Dead [2001], versione arcade dell'originale prodotto per Dream-cast al quale non aggiunge nulla di r ilevante.

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preoccupata di arricchire il gameplay dei suoi prodotti. Accortasi che la filosofia arcade spesso e volentieri mal si presta a venire accolta in casa, ha cercato di dotare i suoi prodotti di un certo spessore, carattere e personalità. Che ci sia riuscita è cosa tutta da verificare, che ci abbia provato è indubbio. Se Gun Valkyrie è un monumento all'azione veloce, spietata e poco ragionata, gli altr i due prodotti per la hardWAR sono invece dotati di carisma e qualità ludiche di discreta portata.

PDO è un prodotto bellissimo da vedere ed assolutamente poco noioso, con un continuo passaggio delle dita su diversi tasti del joypad X-Box ad indicare una tutt'altro che banale e scontata prosecuzione nei vari livelli di gioco. JSRF è sicuramente meno profondo, è forse un piccolo passo indietro rispetto al suo predecessore, eppure è perfettamente calibrato e dotato di uno spessore assolutamente non paragonabile a quello di un prodotto tipico da sala giochi, più limitato per sua stessa natura. Un primato fra le softco finora osservate, Smilebit sicuramente l'ha: è senza possibilità di fallo la softco più stylish di Sega, dove per stylish si intende quella paella ludica di qualità grafica, stile delle animazioni, studio e ricercatezza dei minimi particolari, tendenza a rendere unici prodotti appartenenti ad un genere di massa. Ed è un primato che difficilmente qualcun altro le toglierà a mio avviso. La softco del sorriso rappresenta infine l'ennesima conferma della politica pro-Gates di Sega. Anche in questo caso un suo clan schiera i pezzi migliori sulla Gatesmobile, lasciando briciole di bit alla concorrenza. Togliendomi il dito dal naso vi do l'appuntamento al prossimo mese.


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qUANDO sI pOTEVA eSSERE pERFETTI________________ [PEOPLE: John Hare] di Paolo Jumpman Ruffino

Riscoprire le opere a cui ha lavorato Jon Hare significa andare a riscoprire l’età dell’innocenza dei v ideogiochi. Un’età che spesso dimentichiamo ma che, per fortuna, fa parte di noi. Un’età dell’oro, in cui bastava saper d isegnare un pupazzetto al computer per sbalordire il mondo con un gioco di strategia, uno di calcio e uno di guerra. Tutti con lo stesso omino. Jon Hare è la capacità di creare giocabilità infinita usando un tasto, giochi terribilmente complessi ma perfetti sin dalla prima partita. Una virtù che sembra ormai persa del tutto, e in effetti ci si abbandona facilmente alla nostalgia.

_________I primi giochi e l’era Commodore Jon “Jops” Hare nasce il 20 Gennaio 1966. E’ fondamentale nella sua gioventù l’amicizia con Chrys Yates nata nel 1981 ai tempi del college. Con Yates fonda una piccolo gruppo rock dal nome Hamsterfish, che ha però uno scarsissimo successo. I due, per loro fortuna, condividono anche un’altra passione, e cioè quella per i videogames. E’ una passione tanto forte che i due nel 1985, appena finito il college, decidono di andare a lavorare alla LT Software. E’ la loro prima esperienza. Yates lavora c ome programmatore mentre Hare si occupa della parte grafica e del game design. La loro prima opera si chiama Twister, per Spectrum. Un lavoro che, una volta completato, fa decidere ai due di tentare più seriamente su quella strada. E’ così che decidono di mettersi in proprio e fondano a March, nel Cambridgeshire, la Sensible Software, la software house che produrrà i titoli più venduti e apprezzati di tutta l’era Amiga. Hare continuerà a suonare in futuro, tanto che di molti giochi ha curato personalmente le musiche, ma di certo

non suonerà mai con nostalgia. La scelta di darsi al mondo dei videogames infatti lo premierà subito: il primo gioco di Sensible Software, Parallax, viene subito comprato da Ocean per 1000£. Yates ed Hare festeggiano con champagne e sigari sul treno per casa. Parallax è uno gioco d’astronavi con visuale isometrica che permette al giocatore di muoversi non solo a destra e a sinistra e davanti e indietro ma a nche in profondità, abbassando o alzando l’astronave. Ma a ncora non siamo di fronte a nulla di straordinario. Quello che può essere definito il primo grande successo dei Sensible Software è WizBall. Uscito nel 1987 per Commodore64, il gioco fu premiato dall’autorevole Zzap!64 come “Miglior gioco del decennio”. Siamo sempre nel genere degli shoot’em up ma questa volta invece della solita astr onave controlliamo una palla verde (Wizball, appunto), e l’unico nostro potere è dato da degli oggetti che possiamo respingere nello spazio contro i nostri nemici. La storia ci vede impegnati contro un malv agio di nome Zark, aiutati da Wizard e Nifta la gatta. Un gioco tanto stupido quanto irresistibile, da amare per ore o da odiare sin dal primo istante. Un gioco che già dimostra la straordinaria capacità di Hare di lavorare con la fantasia per creare cose incredibili praticamente dal nulla. Ma l’originalità dal team capitanato da John Hare si deve ancora manifestare a pieno. Il prodotto più singolare dei Sensible Software è sempre del 1987 ed è il famigerato S.E.U.C.K., sigla che sta per Shoot’Em Up Construction Kit. La particolarità di questo gioco sta nel fatto che… non è un gioco! Il S.E.U.C.K. è un programma per costruirsi il proprio sparatutto, partendo da delle conoscenze praticamente nulle di programmazione. Il programma fa nascere una consistente comunità di appassionati, la semplicità d’utilizzo permette a tanti videogiocatori di soddisfare un loro piccolo sogno, quello di costruirsi le proprie astronavi e i propri universi e poterci sparare dentro. Il S.E.U.C.K. viene premiato con il titolo di “State of the Art for highly original software”, premio che contribuisce a diffondere il n ome dei Sensible Software in tutto il Regno Unito e oltre. Sempre il 1987 vede i Sensible impegnati in

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un gioco di calcio. Il lavoro gli viene commissionato da Microprose, che impone il nome Microprose Soccer al titolo. Per molti, questo gioco uscito per Commodore64 può essere considerato la prima versione di Sensible Soccer. In realtà i tempi ancora non erano maturi e doveva passare del tempo, ed un home computer, perchè il vero gioco di calcio potesse vedere la luce. Ma già apparivano i primi tocchi di classe, come il tempo v ariabile, i tiri a banana ed una semplicità dei comandi che, proprio come nel futuro gioco dei Sensible, non si sa come ma porta sempre ad una terribile complessità delle azioni. Le ultime fatiche di Jon Hare su Conmodore64 sono Internatioal 3d Tennis e Insect in Space, il primo un titolo poco più che piaceole e su cui si può tranquillamente sorvolare, il secondo è uno sparautto alquanto bizzarro, ma consierato cosa stavano per ideare i Sensible con l’arrivo dell’Amiga questi due titoli passano decisamente in secondo piano. ________________L’era Amiga Nel 1991 con l’Amiga i Sensible ideano due capolavori, Wizkid e Mega lo Mania. Il primo è il seguito di Wizball, e la storia è questa: Wizball e Wizard si sono sposati ed hanno avuto un bambino, che è appunto Wizkid. La gatta Nifta ha avuto 8 cuccioli, ed il malvagio Zark è tornato rapendo tutti quanti. Solo Wizkid riesce a nascondersi, e a lui spetta il compito di salvare prima i mici e poi i genitori sfidando personalmente Zark. Un gioco impossibile da definire, misto tra puzzle, azione, avventura, arcade e delirio in stile Sensible. La testa tonda di Wizkid viene usata per spingere oggetti contro i nemici, quadro dopo quadro. Anche i livelli sono gestiti in modo delirante. Completato il primo livello, non si accede al secondo come sarebbe normale, ma al quarto, e poi al settimo e poi al nono e ultimo. Così si arriva alla fine del gioco, ma si p otrebbe arrivare senza sufficienti “gattini”. Ed ecco allora che bisogna ingegnarsi per trovare i collegamenti nascosti ai livelli segreti. Semplicemente geniale. Nell’Ottobre dello stesso anno ecco che arriva Mega lo Mania, il


:RUBRICHE: primo capitolo di quella che potremmo definire un’involontaria trilogia. Premiato da Amiga Power come il sesto miglior gioco per Amiga di tutti i tempi, Mega lo Mania si colloca sulla scia dei giochi “in stile Popoulus”, anzi proprio dal gioco di Molyneux prende dichiaratamente ispirazione. Dopo aver scelto una tra quattro divinità bisogna portare la propria popolazione da uno stato tribale ad uno avanzato cercando di sgomitare tra le civiltà emergenti nell’area circosta nte, magari alleandosi con loro o s fidandole in guerra. Prima con le mazze, e poi con gli UFO e i missili aerei, il giocatore deve arriv are alla fine a prendere il controllo del globo, per la gioia del loro dio. Ma Mega lo Mania è forse importante più per un altro motivo. Perché è da questo che nasce per caso quello che è l’unico e vero m otivo per cui riteniamo che debba essere ricordato un personaggio come Jon Hare. La fase di completamento di Mega lo Mania si stava dimostrando particolarmente complessa (lo stesso Hare la ricorda come la fase di conclusione della produzione di un gioco più difficile che abbia dovuto affrontare in vita sua). I ragazzi della Sensible per rilassarsi passano delle ore davanti ad un giochino che in quei tempi stava facendo impazzire gli utenti Amiga, Kick Off2. Fu a quel punto che ad Hare viene in mente una brillante idea. Prende i cittadini di Mega lo Mania e li veste con delle magliette di squadre di calcio. La cosa non è difficile perché sono fatti con pochi pixel messi assieme. Ora ne prende undici con la maglietta di un colore e undici con la maglietta di un altro colore e li mette su uno spazio abbastanza verde, con quattro pixel crea un pallone e lo mette al centro. Lo fa vedere agli altri r agazzi, così per scherzo, ma il collegamento viene fulmineo a tutti: con i pupazzini di Mega lo Mania si poteva fare un gioco di calcio. In fondo avevano spulciato fino in fondo Kick Off2, ritenuta la migliore simulazione a quel tempo, e ci avevano trovato una lunga lista di difetti che avrebbero potuto correggere, e poi c ’era l’esperienza di Microprose Soccer. Ed è così che nasce Sensible Soccer. Un contatto con un giornalista sportivo, il cui compito era semplicemente tenere aggiornati degli archivi coi nomi dei calciatori, permette ai Sensible di conoscere nome e cognome di migliaia di calciatori. E così riproducono tutti i titolari e i panchinari di 64 squadre di club e una infinità di nazionali. Numero che aumenterà con le edizioni fino a raggiungere la c opertura totale di tutti i campionati

Ring#05 del mondo con l’edizione Sensibile World of Soccer. Ogni giocatore ha un valore espresso con delle stelle che possono essere grandi o piccole: quattro stelle grandi è il massimo. Inoltre di ognuno vengono indicate le tre abilità in cui era più forte. Le abilità in tutto sono sette, e precisamente controllo, tackle, velocità, colpo di testa, finalizzare, forza del tiro e passare. Con queste semplici indicazioni vengono caratterizzati tutti i giocatori. Inoltre Jon Hare vuole inserire altre squadre, come se non ce ne fossero abbastanza, completamente inventate da loro. E così i Sensible si mettono ad inventarsi la squadra dei formaggi, quella coi nomi dei giocatori presi dalla Bibbia, quella coi nomi dei loro amici… ancora una volta è delirio. Ma è d elirio anche tra il pubblico, un milione e mezzo di ragazzi inglesi comprano Sensible Soccer, per la gioia di Renegade che fece da p ublisher. Il gioco uscì prima per Amiga, ma poi anche per Megadrive, SNES e PC. A proposito della versione Megadrive c’è un aneddoto simpatico da r icordare. Nel realizzare la bandiera italiana, che doveva comparire quando giocava la nostra nazionale, Jon Hare aveva pensato bene di invertire i colori facendola rossa, bianca e verde. Solo per questo motivo Sega lo rifiutò, lo rispedì ai Sensible che avrebbero dovuto correggere l’errore. Il punto è che non c’era stato alcun errore! Fatta per dritto la bandiera italiana sembrava identica a quella francese, visto che non si vedeva la differenza tra il verde ed il blu. Così Hare l’aveva capovolta, ma fu costretto a rimetterla nell’ordine giusto, senza curarsi delle confusioni che potevano n ascere. Ora però nelle due settimane che si portò via questo contrattempo per Megadrive esce un certo Fifa Soccer, che vende come il pane. Uscire subito dopo Fifa è praticamente un suicidio e le vendite del gioco ne risentono terribilmente, e tutto per non correre il rischio che qualche patriottico italiano avesse motivo di lamentela… Il gioco si r ivela comunque talmente geniale da dare luogo a molti seguiti (vedi la ludografia a fine articolo) e ad un comunità di fan via internet. Ancora oggi è possibile trovare molti siti di gente che scrive update con le nuove formazioni, organizza tornei e cerca le migliori formazioni possibili. Ma dicevamo di una trilogia. Ed infatti la genialità di Hare continua ad essere frizzante, e a quei pupazzini così versatili pensa bene di far indossare un uniforme e mandarli in guerra. E’ il Dicembre del

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1993 quando esce Cannon Fodder, una specie di Commandos ante-litteram, farcito però di molto più umorismo demenziale. Già il filmato introduttivo, girato dagli stessi Sensible, introduce ad un clima di sarcasmo nei confronti della pratica più terribile che l’uomo abbia inventato. Il motivetto “war has never been so much fan”, cantato nella canzone di Hare rende bene l’idea dell’atmosfera del gioco. Il giocatore deve controllare un manipolo di quattro uomini e deve riuscire a farne arrivare almeno uno al completamento del livello. La riuscita richiede una certa str ategia e pianificazione, soprattutto ai livelli più avanzati, e non mancano scene degne di un film sul Vietnam con ritirate col compagno ferito e lanci di granate da ripari i mprovvisati. E poi veicoli, contro di voi ma anche a vostra disposizione. La gestione degli uomini a disposizione funziona in modo da far davvero soffrire per la morte di qualche soldato che aveva superato a nche solo un paio di missioni! Praticamente al completamento di ogni missione arrivano un certo numero di arruolati che sostituiscono i vostri soldati quando muoiono. All’inizio sembra di avere un numero esagerato di leve a d isposizione, ma poi andando avanti vi sembrerà quasi di mandarli al macello. I più valorosi aumentano di grado (e di precisione nel tiro) e alla loro morte vengono ricordati in modo particolare nel cimitero. Anche questo gioco piace a critica e pubblico, tanto da meritarsi un anno dopo un seguito, Cannon Fodder2.

A questo punto inizia un periodo abbastanza triste per i Sensible. Le condizioni economiche sono o ttime e il 1996 e 1997 saranno i loro migliori anni fiscali. Dopo Cannon Fodder però produrranno solo nuove versioni di Sensible Soccer. Solo un gioco nuovo nel 1998, Sensible Golf, che però può decisamente essere evitato. Il tentativo di fare un gioco semplice in contr asto alle complesse simulazioni di golf presenti sul mercato riesce solo in parte. Ma il problema più grande per i Sensible è che il mondo sta cambiando, per riuscire nel mercato dopo l’arrivo di Playstation e co. non si possono più fare giochi con


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team di sette persone. Purtroppo i Sensible non si erano mai confrontati con il 3D, ed il passaggio gli sarà fatale. Sensible Soccer ’98, uscito solo su PC, è un flop clamoroso e la causa è soprattutto nella grafica che propone un abbozzo di 3D. Il cambiamento str avolge la meccanica di gioco e gli appassionati non apprezzano neanche un po’. A questo si aggiungono dei problemi con i produttori per i nuovi giochi. Dopo il contratto con Virgin/Renegade, i Sensible passano sotto l’etichetta Warner.

Jon Hare e Chris Yates vendono nel Maggio del 1999 la Sensible Software a Codemasters. Adesso tutti i diritti dei precedenti giochi sono loro, e Jon Hare lavora ad alcuni progetti come esperto game designer. Uno dei primi giochi nati da questa acquisizione è stata la versione per Game Boy Colour di Cannon Fodder, uscita nel Dicembre 2000. In seguito, Hare ha lavorato a due giochi di boxe, Prince Naseem Boxing per PSOne e Mike Tyson Heavyweight Boxing per Playstation2 e X-Box. Due titoli interessanti, ma in cui non viene fuori nulla del genio inglese. Il nome di Jon Hare è legato a quello di Sensible Software, e per quanto continui a lavorare assiduamente la fine di questa casa ha significato anche la fine del suo successo.

Ed è con questa che devono produrre due nuovi giochi, Sex ‘n Drugs ‘n Rock ‘n Roll, e Have a Nice Day. Il primo prende molto tempo per la produzione, ma ad un certo punto succede il peggio. Warner viene comprata da GT Interactive, che pone attenzione alla moralità delle proprie produzioni. Il titolo dei Sensible viene subito v isto di cattivo occhio a causa dei contenuti espliciti. Gli attriti tra Sensible Software e GT Interactive si fanno forti, e alla fine d opo un lungo travaglio si decide di cancellare i due progetti, con Sex‘n Drugs ‘n Rock ‘n Roll praticamente completo all’80%.

________________Conclusioni La storia di Jon Hare è la storia di un periodo in cui ci si poteva divertire con quattro pupazzini colorati. Oggi non è più possibile, se per creare un gioco decente ci vogliono centinaia di persone ed anni di sviluppo. La grandezza di Hare era proprio nel riuscire ad avere illuminazioni di gameplay e saperle rendere su schermo in pochi istanti. I controlli di Mega lo Mania, Sensible Soccer e Cannon Fodder sono un manifesto di intuitività, ma i giochi sono anche incredibilmente complessi, tanto complessi che ci giocano ancora oggi grandi numeri

di appassionati. Jon Hare è stato ucciso da un mondo che è cambiato, e a cui non si poteva adattare. Non avrebbe mai potuto continuare ad esistere una Sensible Software, una software house fatta solo di passione e colpi di genio. Jon Hare è forse l’uomo più rappresentativo di una certa scuola di produzione di videogiochi, legata ad un periodo ben preciso, quello degli anni’80, nata con gli home computer. Una scuola di pensiero che ancora sembra parlarci, a noi che giochia-mo a contare i poligoni e ci ubria-chiamo di hype con campagne pubblicitarie miliardarie. Jon Hare è ancora lì, dietro le spalle di ogni giocatore, a suggerire di mondi incredibili, semplici, e d ivertenti. Immensi ed infiniti, ma dove si fa tutto con un bottone. Dove le fantastiche animazioni ce le inventiamo noi con l’immaginazione (a qualunque giocatore di Sensible Soccer è sembrato prima o poi che l’attacante facesse un colpo di ta cco per fermare la palla, seriamente). Dove la grafica è bella perché priva di effetti di luce e antialiasing. Qui non si tratta di dire che la tecnologia fa schifo, qui il problema è che nessuno riesce più a sentire Jon Hare che gli sussurra nell’orecchio, e cerca di ricordarci che il gameplay è una cosa semplicissima. Cerca di ricordarci che c’era un tempo in cui ci si poteva divertire. E si poteva essere perfetti.

fUMO, aDUCHEN e L’oBOLO rIGATO__________________ [Il Davide Videoludico #5] di Nemesis Divina “Dove preferisco fare sesso? In bagno, credo. Certamente è il posto dove lo faccio più di frequente. Però con la storia dell’AIDS ho dovuto prendere le mie precauzioni, so che anche una sola piccola ferita può trasmettere il contagio, quindi mi sono munito di un guanto. Uso quelli per lavare i piatti, le zigrinature hanno anche un effetto stimolante…” Il Davide Videoludico Una volta al Davide, che era bambino, gli chiedono di fare vedere ‘la bolla’ che stava giocando a Strit Faiter 2, nel bar/gelateria sotto casa. E lui, con fretta esibita, si cala i calzoni e mostra fiero la mutanda oltraggiata da marchio marrone d’infame natale. Il Davide non era molto ben visto dal barista. Il Davide, invece, era un po’ una specie di mito per i r agazzini più piccoli. Il Davide c’aveva questo superpotere che in pratica giocava bene ai v ideogiochi, anche se era la prima volta che li vedeva. Ci sapeva tutti i tru c-

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Ring#05 chi: i passaggi segreti del Mario, le mosse del Babol Babol prima che in iziavi la partita, i colpi di tutti i picchiaduro, tranne che di Art Offaitin ché fa schifo. Una volta aveva pure preso il mitragliatore del mitragliere, all’ultimo schermo di Dabol Dregon. Il Davide era voluto bene da tutti che infatti gli chiedevano di vedere le mosse e lui le faceva volentieri che si sentiva g asato. Tipo che faceva otto shoriuchen piccoli uno di fila all’altro e sfasciava sempre la ma cchina del primo bonus. Poi finiva i giochi con un gettone, che una volta erano duecento lire poi trecinquanta poi cinquece nto lire e adesso cinquecento euro, credo… Straider lo finiva senza perdere un cubetto e pure Dabol Dragon, che era il migliore. Strit Faiter 2 se lo f inivi senza crepare mai vedevi le facce dei programmatori, Gouls end Gost era da fare due volte, el Davide lo faceva, che se poi non arrivavi a Belzebub con ‘il gelato’ (arma mitica da recuperare negli schermi prima) non combattevi con Lucifero e dovevi rifare tutto ancora una volta daccapo. Che poi questa cosa di finire i giochi con un gettone non piaceva mica ta nto ai gestori dei locali che guadagnavano di meno. Così i gestori ricorrevano a subdoli trucchi tipo aumentare il livello di difficoltà dei giochi, mettere solo due bottoni a Strit Fighter (pugno e calcio deboli), settare meno vite o meno tempo, tipo che in Aut Ran dovevi arrivare al traguardo in 30 seco ndi che voleva dire che non dovevi fare incidenti e che invece di una Ferrari ti serviva lo Shattol. Il Davide era un videogiocatore gradevole, di quelli che era sempre d isposto a darti una mano in caso di bisogno che ti dicono ‘ti faccio il mostro?’’, ‘ti passo lo schermo?’, ‘sei capace a fare il salto?’,’vuoi vedere la super mo ssa?’, che alla fine di solito gli lasci fare quello che voleva pur di farlo star zitto. E lui figo, immancabilmente sbagliava e dicevati ‘dovevi darmi prima i comandi’ ed era game over e allora lui metteva il gettone e saltava la fila di centoquarantadue persone che aspettano, ormai barbute, di giocare. Ma il Davide aveva anche un altro potere, che aveva acquisito ai tempi delle elementari. In pratica lui se vole va giocare ti veniva vicino, appoggiava il braccio sul cassone e infilava la testa davanti allo schermo e iniziava un mantra nefasto del tipo ‘adesso muori/ti batte/non hai energia/perdi/ti ammazza/fanno gol’ perché lui era il Davide ma era anche il Gufo. Allontanare un gufo era impossibile, ma lo si poteva mettere in difficoltà disponendo di un amico e di uno zaino ingombrante: appropinquatisi al cassone, si posiziona l’amico nel posto accanto a noi, l’altro versante del cassone va reso inagibile ponendovi il nostro zaino. Normalmente i gufi svolazzavano verso prede solitarie e più vulnerabili ma accadeva che qualche volatile iettatore finisse con il calpestare lo zaino, pur di prender p osto. Alcuni gufi, particolarmente intraprendenti e corpulenti, si pre ndevano invece la libertà di calpestare l’amico… poi i gufi dominavano altre tecn iche, oltre la sfiga verbale, per infastidire i giocatori; essenzialmente si trattava di tecniche personali, elaborate in anni di esperienza, ma ce n’erano anche di comuni a tutti i gufi. Per esempio c’era la pressione del tasto di regolazione dell’immagine (solitamente posto sotto la plancia dei comandi), il gufo aveva cura di pigiarlo nel momento più critico e incasinato possibile provocando così un traballamento dello schermo. Ovviamente era una tecnica da usare contro i novellini, che non conoscevano l’esistenza del subdolo pulsante. La tecnica definitiva co mportava l’azione sulla levetta che spegneva il gioco, il difficile stava nel non essere scoperti e nel riaccendere immediatamente il gioco in modo che andassero perduti i dati della partita (con conseguente G ame Over) e che tuttavia lo schermo s’annerisse per una singola frazione di secondo. O vviamente il gufo doveva dimostrarsi subito incredibilmente affranto per cotal disgrazia di provenienza divina, alcuni si strappavano ciuffi di capelli e altri si gettavano a terra in preda a crisi epilettiche di pianto, forse eccedendo in zelo recitativo. Il Davide era di casa in sala giochi che ci andava spesso, specie negli orari d i lezione però solo quando riusciva a fregare abbastanza soldi al portafogli di papà che sennò stare in giro costava troppo ed era meglio sca ldare i banchi. Se aveva pochi soldi e c’era qualche esame particolarmente ostico (tipo di ginnastica o religione) allora Davide andava nel bar dietro la scuola che c’era Mario che con un gettone ci facevi 3 ore comodo comodo. Davide gli piaceva tanto andare in Sala Giochi che in pratica tutti lo co-

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Ring#05 noscevano e quando passava lo salutavano tipo toccandosi i testicoli co me segno d’augurio di fertilità; al Davide non interessava avere figli ma gradiva comunque. All’inzio la sala giochi era un bel posto con bella gente, tanti amici adiposi e quattrocchiuti con cui stare zitti tutti assieme, non pensando alle ragazze e tendendo l’orecchio ai ‘plin’ ai ‘blam’ ai ‘pirulì’ e agli ‘adesso muori/ti batte/non hai energia/perdi/ti a mmazza/fanno gol’. Poi tutto cambiò. Non fu una cosa rapida ma ciò nonostante percettibile. Il primo segnale di pericolo poteva essere ascritto alle fa ttezze del gestore delle sale giochi, normalmente brutto fuor di misura, possibilmente obeso, barba incolta, bava rappresa sull’angolo della bocca e sguardo da maniaco. Poi la sala giochi divenne ritrovo del vizio e della perdizione, non già videoludica (in tal caso doverosa e pretesa), quanto piuttosto imposta da quella marmaglia di nullafacenti, totalmente privi di cultura videoludica, il cui unico scopo era trovare riparo durante le ore di scuola, un riparo possibilmente is olato… scansato dal resto dell’umanità… buio… dove un gestore compiace nte poteva chiudere un occhio in cambio di moneta frusciante. Così vedevi ‘sti qua che arrivavano e cambiavano un deca e poi scendevano nell’interrato, dove c’erano i giochi meglio… e se poi andavi giù lì sembrava un raduno arabi fumaioli, ragazzini che marinavano scuola per gustarsi il fascinoso proibito di una sigaretta. D opo qualche anno arrivarono gli arabi veri. Perché la sala giochi dove andava il Davide era nel quartiere più orribilmente malfamato della sua città; per le stesse ragioni che attiravano i nullafacenti minorenni, la Sala Giochi era apprezzata da questi signori. Dopo qualche mese vedevi i ragazzi che scendevano nell’interrato e risalivano, dopo un’oretta, con gli occhi vitrei, inebetiti, barcollanti e pallidi. Quelli erano i videogiocatori consueti. Altri invece venivano su con lo sguardo spiritato, la mano tremula, il passo pesante e la salivazione triplicata. Quelli erano i videogiocatori con specializzazione Picchiaduristica. Talvolta vedevi salire gente che rovistava nervosamente nelle t asche dei pantaloni. Specializzazione Puzzle -Sporcellosi. Quelli che non risalivano per niente erano i clienti degli arabi che se poi scendevi trovavi tutti sdraiati sulle scale con gli occhi pallati e un obice di maria stretto fra le mani, impegnati a sbuffare bianche volute di fumo. I primi tempi dell’Invasione, Davide continuò ad imporre la propria stoica presenza dando continuo sfogo ai suoi due poteri. Davide scendeva di sotto e, incurante di sguardi torvi a lui rivolti, varcava l’aula e si presentava gonfio d’orgoglio dinnanzi al cassone con rapporto gettone/durata più va ntaggioso. Fu difatti un tristo giorno quello in cui il Davide s’accorse che il VG che offriva il divertimento più longevo era a conti fatti la macchinetta per cambiare i gettoni… Ormai l’industria proponeva solo megacassoni le cui partite costavano 8 gettoni l’una e che offrivano una longevità media di mezzo minuto… però solo se eri mostruosamente bravo. Il proliferare di macchinette mangiasoldi (al secolo videopoker) diede il colpo di grazia ad un Davide sempre meno a ffezionato al luogo di ritrovo per eccellenza. Fu proprio in questo periodo transitorio che il Davide si avvicinò anima e corpo all’ambito dell’intrattenimento casalingo, certo che l e console l’avrebbero potuto co nsolare. Il tapino non sapeva che nel nuovo mondo egli avrebbe perduto la posizione sociale che con fatica e coraggio, sprezzante di calci al basso ventre e gomitate al setto nasale, s’era conquistato in sala giochi. Se prima tutti provavano un timore reverenziale, ora non sarebbe stato più nessuno… eppure Davide fece il passo e abbandonò il gettone. Solo di recente un sorriso sardonico appare sul viso davidiano, egli finalmente sente il r ichiamo dell’antico lignaggio e cova la bestia della iattura binaria con amorevole cura, attendendo che lo spalancarsi dell’online gaming srotoli innanzi a lui i prati rigogliosi del trolling più totale e distruttivo. Connettetevi con timore e apprensione, miseri infami, perché accanto a voi, sempre e d ovunque, ci sarà un Davide pronto a infila rvi un coltello in schiena, a rubare il vostro oro, a sbattervi fuori di pista senza alcun vantaggio suo, a fare autogol, a mandare all’aria l’approccio stealth della vostra divisione antiterroristica o, più semplicemente, a sussurravi via microfono “adesso mu ori/ti batte/non hai energia/perdi/ti ammazza/fanno gol”. [continua]

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