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3MOTION 3NGINES
__________________________________ n10 fEBBRAIO2004
3MOTION 3NGINES____________________________ [Cover Story]
::sOMMARIO:: sPECIALE Brum Brum rUBRICHE pEOPLE Sid Meier mE nINTENDO Censura iVORY tOWER Linguaggio Comune iL nEGOZIATORE Carne da Marcello aRENA Handheld Gaming cHAIN mAIL #2 Return vOX mUNDI Column 02: Lavorare Plague 01: Binari iL dAVIDE Davide Reborn (1 di 2) fRAMES Due cuori e una console I giochi usati Mitrovich iNDEPTH Manhunt Civilization rECENSIONI Drag-on Dragoon Mario & Luigi: SS Call of Duty In Memoriam Wario Ware Ludologica: The Sims Amplitude
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Best issue ever? Molto probabilmente sì. Ed il bello è che Ring non ha bisogno di mostrare donnine nude per guadagnarsi l’eccellenza. Non è mica Panorama, Ring. Questo mese nuove rubriche e nuove collaborazioni fioccano. Se poi volete leggere il miglior speciale sui racing games mai scritto, voltate pagina. Ma prima vi consigliamo di salvare. Ring è... Copertina: Valentina Romagnoli Redazione: Marco "Il Pupazzo Gnawd" Barbero, Gianluca "Sator Arepo" Belvisi, Cristiano "Cryu" Bonora, Emanuele "Emalord" Bresciani, Tommaso "Gatsu" De Benetti, Nemesis Divina, Cristiano "Amano76" Ghigi, Paolo “Jumpman” Ruffino Federico Res, Giacomo "Gunny" Talamini. Hanno collaborato: Matteo Bittanti Davide "DarknessHeir" Bolzoni Stefano “Teokrazia” Brocchieri Marcello Cangialosi Contatti: posta@project-ring.com
“Ognuno per la sua strada” o, per i pessimisti, “si salvi chi può”. Sembrano questi i leit motiv di un ambiente impazzito, impazzito sia nelle alte sfere (di quelli che contano) sia nei bassifondi, fra gli utenti finali (quelli che contano per davvero). E qui è tutto un trambusto, gente che spinge e si accalca, sbraita e urla agitando i pugni serrati nell’aria, gridando invettive e digrignando i denti. Se è difficile, oltre che impopolare, pronosticare un prossimo crash del mercato, è altrettanto complesso individuare una direzione limpida del contesto videoludico, verso la quale il mercato possa muoversi per trovare nuovi spazi di manovra. Sono tre le strade preferenziali che il VG può imboccare e che, assurdamente, sta imboccando all’unisono. Il primo è un movimento frammentatore, che punta ad un’offerta multipla, specializzata e settoriale. Poi c’è la convergenza totale, che mira al costituirsi di un amalgama onnicomprensivo. Infine la via del Caos, attraverso la quale il mercato non prende decisioni, non sottoscrive certezze ma neppure si assume responsabilità personali. Il mercato è giunto ad un’apparente stabilità commerciale che sembra essere, per ora, capace di reggere tre piattaforme casalinghe deputando ad una di esse il ruolo di guida madre e alle altre due quello di R-Typici vettori laterali, con funzione di supporto a placare eventuali pruriti ludici inusuali. Ma l’utente borbotta e si agita su una poltrona abbondante, rivestita di pelle che stride ad ogni nostro movimento, una seduta ampia e con un poggiapiedi incorporato che, però, ci fa sentire a disagio prima ancora che rilassati. Quasi fuori luogo. Quasi deficienti, se ci fosse qualcuno ad osservarci, sdraiati con i piedi per aria. In salotto abbiamo tre console e nei cassetti o sotto la TV, una raccolta di titoli che in buona parte sono multipiattaforma. E noi guardiamo con palpebre dubbiose a quei tre marchingegni, più frutto del marketing di quanto non lo siano della tecnologia. E mentre noi proviamo a meditare un futuro monoconsole, che elimini il surplus di conversioni, che abbatta i prezzi e faciliti la diffusione del VG, il mercato annuncia da ogni lato un nuovo arrivo. Ed ecco allora il parto plurigemellare di fratellini bastardi: la console che legge i giochi PC, quella open sourcem, quella fa girare i retrogames, il DVD player con i giochini dentro. E anche nel settore portatile, dove l’egemonia nintendiana aveva assicurato oltre un decennio di stabilità economico/qualitativa, pullulano le proposte che promettono di rivoluzionare il futuro quando noi, in questo presente, ce ne stavamo grassamente bene. Nuove macchine di cui non solo si mette in dubbio la necessità, ma di cui proprio si fatica a comprenderne la ragione d’essere. E mentre noi stiamo per avanzare l’ipotesi che “meno è meglio”, l’industria annuncia che a breve avremo nuove macchine, più potenti, che creeranno mondi più verosimili ed esperienze più appaganti.. e noi chiudiamo la bocca, incurviamo le spalle e mettiamo mano al portafoglio, pronti ad appagare loro molto prima che i loro giochi lo facciano con noi. Il risultato di una eccessiva frammentazione del mercato è evidente: l’indebolimento di TUTTE le strutture interne al sistema. Ma d’altra parte noi odiamo il monopolio che offre un troppo grande potere al singolo e noi sappiamo che questo porta alla dittatura e che la dittatura è male e che non sta bene che uno solo si goda i frutti del mercato che poi senza concorrenza si cala di qualità e c’è ristagno tecnologico. Andatelo a dire alla Nintendo dell’era 16 bit… Nemesis Divina
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brum brum
I simulatori di ieri, gli arcade di domani
dagli albori della videoguida al mondo console
de Il Pupazzo Gnawd Occupano circa il 20% della produzione mondiale per console (fonte Gamefaqs, www.gamefaqs.com). Praticamente un titolo ogni cinque prodotti. Sono i giochi di guida, una delle fette più sostanziose del mercato dei videogiochi. Da dove arrivano, quali sono i più importanti, quanto sono fedeli alla realtà? Gentlemen, start your engines. Ancora numeri: una media voto, prendendo in considerazione gli ultimi due anni (dicembre 2001 - dicembre 2003, fonte Game Rankings, www.gamerankings. com), lievemente sotto la sufficienza. Un dato che si presta a considerazioni diverse. Innanzitutto l'affossamento della qualità media dovuta all'appetibilità di tale maxi nicchia di mercato. Se la gente vuole i motori, i motori avrà. La domanda stimola l'offerta in una corsa all'oro tachimetrica che miete vittime tra i videogiochi inadeguati a reggere l'urto di una concorrenza spietata. Prodotti e produttori mediocri livellano i picchi di eccellenza di un genere che non richiede ingenti investimenti di idee ed energie mentali. Il canovaccio per la costruzione di un titolo motoristico, d'altra parte, è noto a tutti e il passaggio alle tre dimensioni non ha scoraggiato la ricerca di fortune videoludiche, semmai ha generato nuovi stimoli grazie alla tanto agognata immersività che il bitmap precludeva. I driving game hanno sempre ambito alla tridimensionalità, l'hanno nel loro DNA binario. La libertà di poterne interpretare più realisticamente il genoma era occasione da soldi facili. E si sa, i soldi facili non si rifiutano mai. Sempre nel DNA, questa volta dell'utente, sono i motori. Una conoscenza diffusa, che va dal superficiale al viscerale ma che in ogni caso porta ad una severità in fase di critica a volte selvaggia. Basti constatare quanto, negli ultimi anni, la ricerca della perfezione simulativa abbia limitato riconoscimenti qualitativi a videogiochi di F1 spesso meritevoli. Tra queste due forze (la massa di giochi mediocri e l'esigenza della critica) altre concorrono nel delineare quella sufficienza stentata che sancisce la qualità media della categoria: la stasi di un genere ludico apparentemente difficile da innovare, l'ardua ricerca del realismo
e un consumatore dal profilo differente rispetto a quello pre-32 bit. Se il fattore originalità può lasciare il tempo che trova quando riferito alla fascia più "sportiva" della guida simulata (parzialmente limitata dall'obbligo di attenersi a regole e canoni non modificabili se non a scapito del realismo), sono gli ultimi due fattori ad essere i più interessanti. Senza di essi sarebbe più complicato comprendere il giro di vite dato al gradimento di prodotti troppo semplicistici e soprattutto risulterebbe difficile tracciare la strada percorsa dai giochi di guida e inquadrare il perché del loro elevato peso nell'offerta odierna. Simulazione della realtà e demografia dell'utenza, unitamente all'incremento delle capacità grafiche e computazionali dell'hardware, hanno incanalato l'evoluzione verso una spiccata tendenza ad aderire al reale. Un videogiocatore oggi più adulto rispetto al passato (Sony e Microsoft inquadrano il loro target primario in una fascia che va dai 18 ai 24 anni, laddove l'era 16 bit focalizzava principalmente i teen-ager) implica scelte a lui indirizzate. L'osservanza delle basilari leggi fisiche è un prerequisito. Le simulazioni di ieri saranno gli arcade di domani, provando anche i più "leggeri" tra i titoli odierni non si può non prenderne coscienza. Prodotti smaccatamente arcade come Burnout 2, Wreckless e addirittura giochi il cui focus è lontano dalle gare di velocità, come lo sparatutto Halo, affondano le mani nel mare magno delle leggi fisiche uscendone felicemente infradiciati. Certo, la loro è pur sempre una rielaborazione della realtà in chiave spettacolarizzata, ma sperimentando sospensioni indipendenti, sovra o sottosterzi e trasferimenti di carico non si può che non pensare ai decenni scorsi e a quanto di tutto ciò fosse esclusivo appannaggio di titoli ben più seriosi. È lampante constatare come, senza le nuove tecnologie,
niente di tutto ciò sarebbe stato possibile. È stata anzi l'esplosione delle capacità grafiche (e la testardaggine di chi ha voluto smentire l'equivalenza videogiochi = roba per ragazzini) a contagiare una massa di ventenni e trentenni. Sono state le visioni di un videogioco formalmente adulto e meno astratto a rimpolpare le fila dei videogiocatori. Ed è stata sempre la spinta tecnologica a portare, poco alla volta, la simulazione dai PC alle console, facendola diventare mainstream.
Non si potrebbe tuttavia comprendere appieno il peso dei driving game nell'odierna produzione senza prendere in considerazione la maschilità del medium videoludico. La logica del ragionamento è tanto scontata quanto veritiera. Le piccole verginelle si trastullano con le bambole, gli imberbi futuri pipparoli con le macchinine. Il videogioco, per la sua predisposizione all'azione pura, è saldamente maschile e maschilista, e il mondo dei motori è indubbiamente il sottoinsieme più testosteronico dopo le pagine di Playboy. Il "sillogismo" è completo: il videogioco è maschile; il maschio ama e dà importanza ai motori; il videogioco tiene in gran considerazione i driving game. Ma da dove giunge la lingua di asfalto digitalizzato? E soprattutto, da dove arriva la sua corsia più simulativa?
Prima del videogioco: gli albori della civiltà L'emulazione dell'ebbrezza del volante nasce prima del videogame. Notizie di giochi di guida meccanici giungono dai lontani anni '40. Tra guerra e ricostruzione i bimbi belli si gingillavano con Drive Mobile di International Mutoscope Company: un rullo sul quale scorreva il paesaggio, un'auto giocattolo posizionatavi sopra e via sterzare. Simulazione della fisica? Zero. Ulteriori evoluzioni del concetto si potevano trovare un decennio più tardi in Auto Test, nel quale Capital Projector, con un'intuizione che sarebbe stata ripresa decenni più tardi dai laser game GP World di Sega e La-
ser Grand Prix di Taito (entrambi del 1984), sostituì il succitato rullo meccanico con un filmato in 8mm di una strada sulla quale la solita macchinina veniva sterzata dall'utente (che in questo caso doveva anche accelerare e frenare). Gli sforzi proseguirono sulla rotta del coinvolgimento sensoriale piuttosto che su quella della simulazione fisica. Negli anni '60 Speed King di Chicago Coin trasportava l'utente nel mondo delle corse grazie una leva del cambio, al rombo del motore (che variava in base alla pressione sull'acceleratore e alla velocità), al suono del clacson e ad altri ele-
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menti accessori quali un cruscotto comprensivo di tachimetro e contagiri funzionanti. Tra gli ultimi esemplari elettromeccanici una citazione d'onore va a Road Runner. Commercializzato da Bally agli inizi degli anni '70, incorporava un primordiale effetto tridimensionale grazie al quale la sede stradale poteva mutare in larghezza, mentre le auto, in caso di incidente, volavano in aria variando in dimensione mano a mano che si avvicinavano allo schermo. I tempi erano maturi per il videogioco, e così…
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Quattroruote binarie e ricerca del reale: una storia E così nel 1974 le danze venivano aperte da Grand Track 10, con ogni probabilità il primo coin-op ad ospitare una riproduzione digitale del binomio "donne e motori", ma senza le donne. Visuale dall'alto e allegria arcade, il prodotto Atari viene qui citato più per dovere di cronaca (e per aver dato il via all'illustre saga di Sprint) che per reali doti simulative.
La serie Sprint detiene la palma d’oro per la numerazione più astrusa della storia dei videogiochi. Dopo Gran Track 10 e Gran Track 20 (versione a due giocatori di Gran Track 10), la corsa al numero continuò con Indy 800 (multiplayer per otto persone e display a colori, annata 1975), proseguì nel 1976 con Indy 4 (dove ‘4’ indicava il dimezzamento dei possibili partecipanti umani) per approdare al delirio della serie Sprint. In Sprint 8 (uscito nel 1976) i quattro tracciati potevano essere solcati da otto utenti. Nel successivo Sprint 2, dello stesso anno, si passava a due giocatori (più l’inserimento di un cambio a quattro velocità e la retrocessione della grafica a un sobrio bianco e nero). La follia arrivò a compimento tra il 1977 e il 1978, rispettivamente gli anni di uscita di Sprint 4 (quattro giocatori) e Sprint 1 (un solo giocatore e dodici circuiti che si modificavano ogni paio di giri). Per le successive uscite del 1986, Super Sprint e Championship Sprint, Atari lasciò fortunatamente la strada numerica, concludendo la saga con il futuristico Badlands.
Il realismo è veicolato anche e soprattutto dal coinvolgimento visivo. Ligio a tale concetto Rob Fulop, designer della solita Atari, decise che era tempo di passare a una visione tridimensionale della strada. La tecnologia del tempo, tuttavia, non permetteva prestazioni grafiche di rilievo, così l'ingegnoso Fulop decise di ambientare Night Driver1 quando il sole era oramai tramontato da un pezzo, più o meno all'ora della ronda del piacere. Rettangoli bianchi per delineare la sede stradale e sfondo nero come la pece, Night Driver riusciva a restituire una convincente sensazione di velocità. Era un test di riflessi camuffato, eppure la sua importanza storica è fuori discussione. La visualizzazione pseudo tridimensionale che prima era solo appannaggio dei prodotti elettro-meccanici veniva trasportata anche nel mondo dei videogiochi. E nell'oscurità ognuno voleva go-
dere, col vento virtuale tra i capelli (virtuali). Speed Freak (Vectorbeam, 1979) fu l'ulteriore scommessa di designer in evidente lotta contro una tecnologia limitata e limitativa. Con vettori bianchi e schermo nero, il racing game si vestiva di vera tridimensionalità. La ricerca della simulazione passava attraverso gli aspetti formali e lo avrebbe fatto ancora per molto tempo. Le leggi fisiche erano farlocche, l'intelligenza artificiale inesistente. Ma il terreno era vergine e deflorabile, bastava un petting nemmeno troppo spinto per raggiungere l'orgasmo videoludico. Pole Position (Namco, 1982) faceva ancora affidamento su estetismi di gran classe per attirare il maschio sbavante nonché masturbante. Una grafica di qualità inusitata contornava un'esperienza di F1 dove la vera novità era anticipata nel titolo: le prove di qualifica. Per il resto il realismo si concretizzava nel solcare la riproduzione digitale di un vero autodromo e in veicoli non proni a sopportare collisioni, esplodendo, com'era d'uopo in quegli anni, al minimo contatto con i concorrenti. Concorrenti che per altro continuavano a rappresentare mine vaganti in ogni gioco di guida. Privi di personalità e spirito agonistico, non facevano altro che girare su ritmi turistici o dirigersi verso il giocatore come api sul miele. Erano fastidiosi traghettatori verso la facile esplosione, quella che altrettanto facilmente permetteva di snocciolare una quantità di santi fino a quel momento sconosciuta alla maggior parte degli avventori della sala giochi, fruitore incluso. Il mondo digitale era molto basilare, delimitato da netti confini. Negli anni '80 mal sopportavamo una guidabilità priva di attriti oppure, molto più frequentemente, ci traslavamo come punti di una proiezione ortogonale. Schiavi della forza centrifuga, l'imperativo era appiccicarsi all'interno della curva il prima possibile. Non esisteva una traiettoria ideale, quel che contava era un inserimento tempestivo e subitaneo, in modo che la porzione di carreggiata da sfruttare fosse sufficiente per contenere il movimento verso l'esterno dell'auto. Con gomme fumanti degne del più esoso dei burnout e allegria diffusa dei venditori di pneumatici, la fisica si vestiva di semplificazione, contrastata dai designer puntando sull'imprevedibilità. I cambi di direzione a tradimento non si contavano e i veicoli in pista continuavano a reiterare la filosofia di Pole Position. Il tanto applaudito Out Run (Sega, 1986), un vero capolavoro di classe audiovisiva, è l'esempio più fulgido dell'arcadizzazione del concetto di guida. Cullati da note rilassanti si veniva illusi, grazie alle prime ampie curve, di essersi lasciati alle spalle il giogo di certi espedienti ludici. Successivamente, tuttavia, i secchi tornanti, muniti di sali scendi che non permettevano di scorgere né il traffico in arrivo né i cambi di direzione, riportavano con i piedi per terra e con l'auto fuoristrada: nonostante le forti vibrazioni trasmesse dal volante, la radio da sintonizzare su uno dei tre brani e la possibilità di scegliere il tragitto per giungere alle cinque destinazioni finali, la giocabilità era ridotta a un
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test di riflessi e memoria dove la forza centrifuga era regina. Dopotutto Out Run era un capolavoro anche così, il celebre reparto interno di Sega, AM2, era arrivato laddove Atari non si era spinta: completare il connubio donne e motori in virtù di una biondina precariamente avvinghiata al sedile passeggeri della Ferrari Testarossa in dotazione. Insomma, vento dei capelli e tanta poesia.
Nello stesso anno WEC Le Mans 24 di Konami dava il suo umile contributo alla causa: gli avversari in pista si producevano in errori e incidenti indipendentemente dall'interazione con l'utente. Nulla di trascendentale per i giorni nostri, eppure scorgere in lontananza un prototipo in testa coda instillava la fuggevole sensazione che le auto controllate dalla CPU non fossero degli automi e basta. Erano degli automi stupidi. Tutto a un tratto ci si sentiva meno soli nella propria incapacità, e non era poco. Il calendario segnava 1987 quando i tre marmittoni Morandi/Ruggeri/Tozzi trionfavano a San Remo con Si può dare di più. È improbabile che in Namco lavorassero fan della kermesse baudiana, nonostante ciò il monito era internazionale e Final Lap ne interpretava lo spirito in senso quantitativo e qualitativo. Quattro cabinati messi in link per sfide fino a otto giocatori non rappresentavano sicuramente un evento ordinario. Non contento, Final Lap buttava nella mischia un modello fisico contemplante testacoda laddove si fosse chiusa eccessivamente la curva. In questo modo le traiettorie diventavano più importanti e tutto l'approccio alla guida si modificava2. "E non puoi dire lascia che sia perché ne avresti un po' colpa anche tu", Namco non lasciò che fosse, contribuì all'evoluzione dei racing game discolpandosi di fronte al giudizio della storia. E dei tre marmittoni. Intanto la battaglia per il realismo si protraeva cruenta anche al di fuori del tabagismo da sala giochi. Nelle case di tutto il mondo, infatti…
[1] Night Driver fece scuola. Pochi mesi dopo la sua uscita Midway commercializzò 280 ZZZAP: stessa impostazione, stesse scelte grafiche. Plagio o coincidenza d’ispirazione? [2] Con ogni probabilità Final Lap passerà alla storia per l’infausta “annusata del deretano”. Il gioco Namco rappresentava uno dei rari casi in cui essere primi all’ultima curva con un avversario alle calcagna equivaleva alla sconfitta. Era sufficiente, infatti, che l’inseguitore si avvicinasse al posteriore della macchina che lo precedeva per mandarla in testacoda. Le sale giochi ancora riecheggiano di “Ma prego, passi prima lei” e “ Si figuri, non ho fretta”.
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Racer casalinghi: Accolade, Papyrus e Crammond, alfieri del reale Nelle case di tutto il mondo, infatti, si vivevano approcci più riflessivi. Se i coin-op erano, e sarebbero stati ancora per molto, portatori della sperimentazione sensoriale, il focolare domestico era il luogo dove il realismo faceva proseliti. Le due correnti si sarebbero incontrate anni più tardi e quella casalinga avrebbe avuto i tratti somatici di due uomini dediti al lato serio dei prodotti corsaioli: David Kaemmer e Geoff Crammond. Fu proprio quest'ultimo a mostrare come un'altra via fosse effettivamente percorribile. Nel suo primo parto, Revs per BBC Micro e C64 (Firebird, 1984), affrontare una curva non implicava semplicemente sterzare bruscamente il prima possibile. Revs imponeva di moderare la velocità, scegliere la giusta traiettoria e condurre l'auto, magari pregando un po', che non si sa mai. Il pedale dell'acceleratore non era incassato costantemente a fondo corsa nella frenetica caccia all'ennesimo checkpoint. La guida era ragionata, verosimile. La voglia di lasciarsi alle spalle la scheletricità degli arcade era evidente fin nei piccoli particolari. Per ovviare ai limiti tecnici degli input binari, Crammond decise di includere un geniale sistema di controllo "semianalogico": muovendo un puntino lungo la circonferenza del volante rappresentato su schermo, si aveva la possibilità di gestire l'intensità della sterzata. In un approccio non comune per i tempi, si avvalse addirittura della consulenza tecnica di tale David Hunt, pilota di Formula 3 (tipologia di auto su cui Revs era basato) che lo aiutò nel riprodurre fedelmente le fattezze del circuito di Silverstone1. La visuale dall'abitacolo, le sessioni di prova e quelle di qualifica, le regolazioni all'alettone anteriore e posteriore e un motore grafico prestante rendevano giustizia a un titolo che ha tutt'oggi qualcosa da dire. Revs non è solo una pietra miliare nei giochi di guida, è la dichiarazione di intenti di un uomo proteso verso la realizzazione della simulazione definitiva; è l'esemplificazione della tenacia e della non rassegnazione al cospetto dei limiti tecnici. Con Revs era nata l'interpretazione seria delle quattroruote. La simulazione aveva impiegato tempo per giungere in posizione eretta, ora non aveva tempo per camminare, voleva correre. E correre veloce era l'imperativo nel primo lavoro di Papyrus e del suo cofondatore David Kaemmer. In Indianapolis 500: The Simulation (Indy 500 per gli amici) la monotonia del circuito ovale nascondeva un motore fisico di sorprendente complessità. Il comportamento dell'auto era influenzato da molteplici fattori tra i quali la pressione dei pneumatici e la quantità di carburante nel serbatoio. Le sensazioni al volante erano verosimili e il tempo speso per impostare al meglio la propria monoposto era quasi pari a quello impegnato nelle gare vere e proprie. La sfida più che con i 32 avversari era con il tempo e con se stessi. La soddisfazione consisteva nel limare quel decimo di secondo al record sul giro. Il mondo circostante spariva, si era soli con il tracciato in uno stato di trance agonistica raramente sperimentato. Erano le caratteristiche di un racing game di razza. E se il dettaglio
maniacale nelle sensazioni di guida non era sufficiente, a stupire ci pensava un motore grafico che mandava a schermo impressionanti macchine modellate con poligoni nudi. Una festa visiva che si completava con il sistema di replay multi angolo di stampo televisivo, un vero nirvana per il 1989. Crammond, dal canto suo, non stette con le mani in mano, il suo tributo ai motori digitali era appena iniziato. Il vero sconvolgimento giunse nel 1991, dopo il divertissement rappresentato da Stunt Car Racer (Micro Style, 1989) decise che era giunto il momento di tornare a simulare gare reali. F1 Grand Prix World Circuit (e relativo seguito) si rivelò come la più fedele riproduzione della disciplina mai concepita. A colpire era indubbiamente il superbo impatto grafico, ma le caratteristiche che fecero breccia nei cuori degli appassionati furono le attenzioni dedicate al modello fisico. Tra prove di qualifica rigorose, condizioni meteorologiche variabili, telemetria
Stunt Car Racer era un prodotto atipico. Alla guida di un bolide simile a un dragster, l’utente doveva lottare contro un’auto controllata dalla CPU (o un avversano umano tramite link) addomesticando i salti e i vertiginosi saliscendi di circuiti simili a montagne russe. Anche in questa occasione, l’integralista Geoff non tralasciò il realismo imponendo al giocatore andature ragionate, consone a non uscire di pista e a non sfasciare l’auto durante uno degli innumerevoli salti. Stunt Car Racer è un caso isolato nella ludoteca di qualsiasi sistema, un capolavoro che avrebbe meritato un seguito ma sul quale Crammond non tornò “a causa” del successo della saga F1GP. Recentemente, tuttavia, il progetto ha ripreso a vivere e il 2004 potrebbe, fallimenti di software house permettendo, veder rinascere dalle ceneri la fenice Stunt Car Racer.
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e profonde possibilità di intervenire sulla meccanica della proprio monoposto, il pilota in erba aveva trovato il paradiso e Crammond la consacrazione. Le monoposto diventavano il tramite per un'esperienza completa, fatta di tecniche di guida avanzate, di staccate al limite ed effetti scia, di carichi aerodinamici da regolare e gran premi la cui durata poteva raggiungere quella delle gare vere (opzione maniacale già inclusa in Indy 500). Oltre a quello sistemi casalinghi/simulazione, l'epopea di Crammond e Kaemmer evidenzia un altro importante binomio, quello che lega la strada verso il realismo e le macchine a ruote scoperte. Solo la serie NASCAR (della stessa Papyrus) ed esemplari più recenti su console (come la serie TOCA e Gran Turismo) hanno allargato il campo di ricerca della simulazione. Nonostante ciò il mondo digitale delle ruote scoperte continua a essere per i videogiochi ciò che la sua controparte reale (F1 in particolare) è per l'evoluzione dell'auto: un laboratorio di ricerca dove osare e sperimentare, magari non sempre in nome della giocabilità, ma con una ostinazione che dà tutt'oggi i suoi frutti. Al di fuori del reame delle ruote scoperte c'era vita. Decisa a dare gloria alle auto sportive di serie, Accolade si ingegnò per apporre il primo tassello a un sogno che Yamauchi e Polyphony Digital avrebbero tradotto in realtà un paio di lustri più tardi. Test Drive ricreava una gara a tappe in mezzo al traffico stradale. Un po' Out Run e un po' Cannonball, l'orma di Accolade nella storia portava a un intrigante connubio tra immediatezza e simulazione. L'auto rispondeva a un modello fisico più profondo rispetto ai soliti racer arcade, l'inclusione del medesimo sistema di controllo sfruttato in Revs era di per sé una chiara dichiarazione di intenti. La giocabilità si scontrava a tratti contro l'elefantiaca risposta dell'auto nei cambi di direzione, ma Test Drive, munito di una struttura divertente e forte di riproduzioni in lamiera e pixel di Porsche, Lamborghini, Lotus, Ferrari e Corvette, sapeva farsi amare. La sua eredità batte tutt'oggi non solo nel cuore di GT, ma si specchia integralmente nella saga The Need for Speed, di cui il prodotto Accolade rappresenta ben più che un progenitore spirituale2. Altri apporti sarebbero da citare (uno su tutti, Pit Stop e le soste ai box interattive), ma il gestore ci ha già cambiato il deca in…
[1] In seguito, tramite add on e versioni deluxe, il novero dei tracciati si ampliò arrivando a comprendere Oulton Park, Brands Hatch, Donington Park e Snetterton. [2] Negli anni successivi la saga EA avrebbe perseguito con più convinzione ‘la necessità di velocità’ puntando su ritmi più indiavolati e meccaniche più immediate (pur non scordando il lato simulazione, come dimostra il terzo capitolo della serie). Il primo The Need for Speed per 3DO (Electronic Arts 1994) è tuttavia la prosecuzione della saga Accolade in tutto e per tutto: stessa impostazione di guida, medesima struttura di gioco e reazioni al volante simili.
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Gettoni tintinnanti: il ritorno dei coin-op Tra le mura domestiche la simulazione alzava gradatamente la voce. Nelle sale giochi, invece, il fumo provocava raucedine minando la potenza vocale. Di giochi seriosi nemmeno l'ombra, di idee molte: sparatutto a motore (Road Blasters, Spy Hunter), inseguimenti polizieschi (Chase HQ), arcade estremi (Power Drift, Bump n' Jump), Pacman al volante (Rally X) e un'altra miriade di prodotti più vicini alla categoria azione che al puro gioco di guida. Le ferree corde vocali di Atari, evidentemente, non soffrivano dell'aria appestata dai drogati di nicotina. Fu così che nel 1989 l'urlo di Hard Drivin' terrorizzò l'occidente. La frizione faceva il suo ingresso in scena (per poi sparire all'incirca fino all'avvento di Ferrari F355 Challenge) e con essa i poligoni, la chiavetta d'accensione, il pilota fantasma replicante la migliore prestazione, la dura realtà simulata e le mucche da tamponare. All'apparenza era un gioco per molti, all'atto pratico si adattava solo a una ristretta nicchia di saggi capaci di tenere a bada il testosterone. Avere il piede pesante non portava lontano, più precisamente non permetteva nemmeno di condurre la curva e la discesina iniziale. Per aiutare la massa di ignoranti del volante, venuta su a forza di irrispettosi oltraggi alla fisica, Hard Drivin' sfoggiava a ogni variazione del tracciato cartelli recanti la velocità consigliata. Non era sufficiente: i dritti non si contavano, i testacoda neppure. Quelli che svoltavano a destra avventurandosi nel circuito acrobatico, poi, li perdevi per sempre: umiliati nell'animo e nello spirito continuavano a ripetere "Velocità e direzione erano quelle giuste: perché sono caduto dal giro della morte? Sono caduto dal giro della morte… dal giro della morte… giro della morte… morte…". Ogni metro andava condotto in maniera giudiziosa, fors'anche da scuola guida. Se il mondo delle corse è un generatore di adrenalina, Hard Drivin' è il ritrovo annuale dei bocciofili di paese: compassato, poco prestante da vedere e con mille cose da raccontare. Lentamente. Hard Drivin’ (e il seguito Race Drivin’) rappresenta la guida vista da un geometra coadiuvato da un ragioniere, entrambi supervisionati da un ingegnere: calcoli, razionalità e poca poesia. In quel cabinato c'era il fascino dell'azione ragionata. E c’erano pure i CoBas del latte. Ben nascosti. Dietro le mucche. Quelle che volendo puoi tamponare. Assieme ai CoBas del latte. Erano tempi duri e Namco voleva partecipare alla mattanza. Winning Run era in ritardo per reclamare la corona di primo coin-op di guida poligonale della storia, ma in tempo per dire la sua su F1 e realismo. La giocabilità era meno punitiva rispetto a quella di Hard Drivin', fattore a cui Namco avrebbe posto rimedio l'anno successivo incattivendo Winning Run (tramutatosi in Driver's Eyes) e aggiungendo due schermi per simulare la visione periferica (espediente già usato nel 1983 da TX-1 di Tatsumi). Grazie al Polygoniser (una scheda deputata alla gestione della geometria solida), grafica e incedere del frame rate (nonché dell'auto) erano più vivaci rispetto all'ingessato coin-op Atari, per-
mettendo di affidarsi alla sensazione di velocità per valutare i punti di staccata. La Formula 1 si dimostrava regina anche nel roster Sega. Il 1989 fu l'anno di Super Monaco GP, uno dei pochi esemplari arcade a irridere l'utente affezionato al cambio manuale. Non che non fosse possibile far gestire le marce alla CPU, il vero motivo era un altro: appoggiarsi all'automatico era da perdenti. Le motivazioni da addurre sarebbero innumerevoli, tra queste l'impossibilità di spingere al massimo l'auto o di gareggiare nei livelli più difficili (e quindi di perdersi il round 2 con la pioggia). La verità, tuttavia, era ben più futile: non gingillarsi con cambio a farfalla posizionato dietro al volante era un crimine da scontare a suon di sberleffi e scappellotti, perché è ciò che meritano i perdenti, altro che i "Keep it up!" urlati dai box. In tutta sincerità SMGP poco aggiungeva al mondo della simulazione, il suo è un contributo estetico (solo con Rad Mobile e il System 32 della stessa Sega si sarebbe visto un bitmap più evoluto) e di rigore visivo (il fascino del circuito monegasco era riproposto in maniera maniacale). D'altra parte si è scritto che la strada per la simulazione si lastrica anche assecondando l'occhio… Tenendo presente che l'ingresso della grafica poligonale era ormai avvenuto e che dal punto di vista simulativo Virtua Racing (Sega AM2, 1992) non aggiungeva molto a quanto già sperimentato negli anni precedenti, verrebbe da interrogarsi sul perché il suo nome sia sempre presente allorquando si debba snocciolare la lista dei titoli di guida più influenti. Il motivo non risiede in qualche primato specifico, bensì nella realizzazione. VR mostrava al mondo che il 3D era veloce, che il 3D era divertente, che per il 3D non si doveva sacrificare nulla (texture a parte), né dal punto di vista grafico né da quello della giocabilità. Trenta fps di adrenalina pura e un bottone per mutare in tempo reale la visuale erano sufficienti se il game design era affidato a Sega. Dentro quegli abitacoli potevi passarci giorni interi: a battagliare con altri umani, a fare zapping fantozziano tra le visuali, a cercare la linea perfetta, a colmare il pappagallo onde evitare di andare in bagno e cedere il posto... Nonostante la positiva accoglienza riservata alla scheda Model 1, Sega abbandonò il progetto dopo quattro titoli (a differenza dei circa 30 usciti su Model 2). Una congenita instabilità (la coesione tra i solidi non era sempre perfetta) e un costo di produzione eccessivo sono i motivi addotti dai più. E' comunque probabile che la rapida evoluzione della tecnologia sia stato uno dei chiodi più saldi sulla bara della Model 1. Poco più di 12 mesi dopo, infatti, Namco slogò mandibole a go-go con il monumentale Ridge Racer: glassa texturale a ricoprire le geometrie, 60 fps costanti e rigogliosi elementi di contorno non passavano inosservati. Ridge Racer apriva una nuova era nell'impostazione di guida: l'esagerazione della tecnica rallistica portata al limite della tamaraggine. Ogni curva andava affrontata col retrotreno scodinzolante, ogni inserimento doveva essere gestito di traverso. Tali strampa-
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Pietre miliari Night Driver – Atari – Arcade – 1976 Speed Freak – Vectorbeam – Arcade - 1979 Pole Position – Namco – Arcade - 1982 Revs – Firebird – BBC Micro 1984 Excitebike – Nintendo – NES 1984 Hang-On – Sega – Arcade - 1985 Enduro Racer – Sega – Arcade 1986 Final Lap – Namco – Arcade 1987 Test Drive – Accolade – C64/Amiga – 1987 Honda RVF – Micro Style – Amiga - 1989 Hard Drivin’ – Atari – Arcade 1989 Indianapolis 500: The Simulation – Papyrus – PC - 1989 Ironman Ivan Stewart’s Super Off Road – Leland – Arcade 1989 F1 Grand Prix World Circuit – MicroProse - Amiga - 1991 Virtua Racing – Sega – Arcade 1992 World Rally Championship – Gaelco – Arcade - 1993 Ridge Racer – Namco – Arcade 1993 NASCAR Racing – Papyrus – PC - 1994 Sega Rally Championship – Sega – Arcade - 1995 Manx TT – Sega – Arcade – 1995 Network Q Rally Championship – Magnetic Fields – PC - 1996 TOCA – Codemasters – PSOne 1997 Gran Turismo – Polyphony – PSOne - 1997 Colin McRae Rally – Codemasters – PSOne - 1998 GP Legends – Papyrus – PC 1998 Superbike World Championship – Milestone – PC - 1998 GP 500 – MicroProse – PC - 1999 Ferrari F355 Challenge – Sega – Arcade - 1999 Excitebike 64 – Left Field – N64 - 2000 Moto GP – Namco – PS2 -2000 Riding Spirits – Spike – PS2 – 2002
:SPECIALE: lati insegnamenti avrebbero confuso le idee a parecchi su cosa era davvero necessario in una guida veloce. Il racer Namco non contribuì alla causa della simulazione, la sua importanza fu quella di influenzare un genere. Allevando schiere di soggetti controsterzanti, incanalò le successive produzioni automo-
Ring#10 bilistiche sui poco nobili (seppur dannatamente divertenti) binari del truzzo patentato. Anni dopo Out Run i venditori di pneumatici avevano trovato il loro nuovo feticcio da adorare. L'era d'oro del coin-op "su asfalto" si chiude idealmente con Daytona USA (Sega AM2, 1994): comportamento delle
auto più realistico rispetto a Ridge Racer, force feedback usato in maniera sublime e il track design più ispirato degli ultimi secoli. Probabilmente il miglior racer arcade di sempre. Il colpo di coda si avrà nel 1999 con l'anomalo Ferrari F355 Challenge, un vero e proprio simulatore in tutto e per tutto, capace di tenere testa a qualsiasi prodotto casalingo grazie a un modello fisico estremamente accurato.
Motori su console: ritorno a casa La storia recente è per noi, consolari nell'anima, un territorio dedicato alle macchine da gioco. I 16 bit videro poche innovazioni di rilievo, la sfida si giocava su altri territori. Il bitmap non era comunque morto e tecnologie quali il nintendiano Mode 7 rinvigorirono un genere che pareva vedersi negata la profondità. Grazie alla possibilità di ruotare e zoomare il piano di gioco via hardware, il controllo sul mezzo si impreziosiva diventando più appagante. Difficile citare un titolo specifico di elevata qualità simulativa, basti però pensare che l'impatto della tecnologia fu così rivoluzionario da iniettare profondità in prodotti 100% arcade. F-Zero (Nintendo, 1990) ne è un chiaro esempio: l'impostazione della giusta traiettoria in curva era essenziale per domare i circuiti. Non erano però tutte rose e fiori. La prima metà degli anni '90 fu un periodo infausto per l'intelligenza artificiale. Mentre i piloti di F1GP2 si esibivano in credibili tattiche di gara, le console a 16 bit mostravano orgogliose le loro routine ad elastico, dove gli avversari baravano tallonando l'utente anche quando questi si produceva in prestazioni da campione del mondo. L'alternativa erano automi con percorrenze robotiche e tempi sul giro definiti a tavolino. Se la seconda scelta di design è una specie in via d'estinzione, l'elastico continua a proliferare (prevalentemente in prodotti di natura arcade), ancora alla ricerca della sua stabilità. Il raddoppiamento dei bit decretò la fine dell'età dell'innocenza nelle console. A rompere gli indugi fu nuovamente la F1. Bizzarre Creations spalancava nel 1996 le porte di un mondo alieno, così poco conosciuto che Formula 1 per PlayStation si ritrovò a essere elogiato come estremamente realistico pur sorvolando su molti aspetti del mondo dei motori. I settaggi della monoposto, per esempio, erano abbastanza semplicistici, stesso discorso per gli inserimenti in curva, dove le frenate ritardatarie venivano assecondate dagli algoritmi sottesi alla fisica di gioco. Non era comunque un titolo per signorine: la guida pulita era premiata e le accelerazioni di potenza punite quando eccessive. F1GP2 era ancora lontano, ma per noi consolari, che arrivavamo da Ayrton Senna's Super Monaco GP 2 e Mario Kart, le auto codificate da Bizzarre Creations erano sufficientemente cattive. L'utenza cresceva, Formula 1 vendeva ed altre case si rendevano conto che c'era un mercato da colonizzare là fuori. Nel 1997 il territorio motoristico subì due terremoti. Il primo dissestò, il secondo cambiò per sempre la morfologia delle lande del videogioco. TOCA di Codemasters ridefiniva il termine "simu-
Ring è… guida sicura Conosci la tua auto per migliorare te stesso. Ring illustra alcune tecniche di guida e comportamenti anomali da saper riconoscere e contrastare. Perché anche Gordon De Adamich possa essere fiero di voi…
Sovrasterzo e sottosterzo: sono provocati essenzialmente da due fattori:
a) trasferimenti dinamici di carico dovuti a manovre eseguite con lo sterzo e i freni che possono portare alla perdita di aderenza di un assale; b) perdita di aderenza di un assale dovuta ad eccesso di coppia motrice (elevate potenze e/o bassa aderenza). In questo secondo caso il sottosterzo o il sovrasterzo (definiti in gergo 'di potenza') sono evidentemente legati al tipo di trazione (anteriore nel primo caso, posteriore nel secondo). La trazione integrale non ha nessuna influenza sul caso (a). Nel caso (b) molto dipende dal tipo di trazione integrale, dalla presenza o meno di sistemi di bloccaggio di uno o più differenziali, dal tipo di ripartizione della coppia.
Sottosterzo evidente (perdita di aderenza con muso diretto sulla tangente):
può essere provocato essenzialmente da due fattori: a) eccesso di coppia motrice in fase di accelerazione con una trazione anteriore; b) eccessiva velocità d'ingresso in curva. Nel primo caso è sufficiente rilasciare il pedale dell'acceleratore per far rientrare in traiettoria la vettura. Nel secondo, presumendo di essere già in fase di rilascio, ci si può aiutare con un po' di freno, per fare diminuire la velocità e portare ulteriore carico sulle ruote anteriori. Ultima possibilità, ma è una manovra tutt'altro che istintiva, riaprire leggermente il volante in modo da far riprendere direzionalità alle ruote anteriori.
Sovrasterzo di potenza: perché sia efficace è indispensabile che sia estre-
mamente contenuto, quasi a ruote dritte, senza eccessivi pattinamenti delle ruote motrici che andrebbero soltanto a scapito della prestazione.
Testacoda: per riprenderlo si deve innanzitutto controsterzare rapidamente e con precisione cercando di prevenire le reazioni della vettura (attenzione al riallineamento che è sempre la manovra più critica). Bisogna poi distinguere a seconda del tipo di trazione. Trazione anteriore: il sovrasterzo può essersi innescato soltanto per eccesso di velocità in curva abbinato a manovre con i freni e lo sterzo che hanno portato alla perdita d'aderenza del retrotreno. La correzione va fatta essenzialmente con lo sterzo. Ultima possibilità riaccelerare con molta attenzione per favorire il riallineamento del muso. Trazione posteriore: in questo caso il sovrasterzo può essere innescato anche da un eccesso di coppia motrice sulle ruote posteriori. Lo si controlla ancora con lo sterzo. Se si insiste con l'acceleratore si può finire in testacoda mentre un brusco rilascio dell'acceleratore può sbilanciare ulteriormente la vettura. Morale: modulare con molta attenzione la potenza alle ruote in modo da riequilibrare la vettura. Piede sinistro (o semplicemente sinistro): consiste nella frenata con il piede sinistro e la contemporanea pressione a fondo del gas con il destro. Veniva sfruttata principalmente su percorsi a bassa aderenza, ora è usato un po' dappertutto. Permette di controllare la velocità pur mantenendo una 'buona' guidabilità. Consente di spostare il peso dal posteriore all'anteriore o di provocare, accentuare o correggere una sbandata. Quindi si può iniziare una sbandata usando il piede sinistro. E' una tecnica che richiede moltissimo allenamento. I benefici li traggono solo i professionisti. Viene usata principalmente nelle curve veloci, dove la percorrenza con il pedale del gas spalancato e sinistro in leggera pressione sul freno, tengono la vettura in assetto costante. Si usa anche nell'affrontare i dossi: un 'colpo di sinistro' permette di tenere bassa la parte anteriore dell'auto permettendo di ridurre la lunghezza del volo. Pendolo: è una tecnica che si ammirava specialmente nei primi anni 80, l'età
d'oro del rally, quella della trazione posteriore. Serve a facilitare l'ingresso in una curva generalmente molto stretta. Ad esempio, nell'affrontare 2 curve in sequenza (su fondo con scarsa aderenza), il pendolo permette di entrare nella seconda con la macchina già direzionata nel senso della curva da affrontare. Allungando la derapata della prima curva, nel momento della congiunzione con la seconda è sufficiente togliere gas e dare un piccolo accenno di sterzo in direzione della successiva, la macchina per effetto del trasferimento di carico, si posiziona in derapata dalla parte opposta. Richiede un tempismo perfetto.
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:SPECIALE: lazione" frustando l'impenitente che recidivo non si adattava alle regole della strada. Ancora oggi, gli episodi usciti sui 32 bit (e PC) rappresentano uno dei massimi picchi di difficoltà nell'addomesticamento di una vettura. A mandare in crisi il giocatore imberbe è in particolar modo una rappresentazione verosimile degli urti. Le carezze con gli avversari sono maneggiate con cinismo da un motore fisico che non si fa scrupoli a decretare la perdita di controllo qualora sia necessario. Insistite spinte in curva provocano dritti clamorosi o testacoda irrecuperabili. A tutto questo si va a sommare un sistema di danni che, pur mitigando gli effetti degli incidenti più catastrofici, è un serio monito a non esagerare con le staccate fuori tempo massimo, biglietti di sola andata verso le protezioni a bordo pista.
Di nuovo al 1997. Giungeva il terremoto Gran Turismo, un ibrido dal realismo narcotizzato col proposito di non frustrare il giocatore. Il plus consisteva nell'inondazione di auto, elaborazioni e smanettamenti da meccanico. La corsa al generico upgrade di titoli come Super Sprint subiva qui un ampliamento spaventoso. Già Shutokou Battle: Drift King (Bullet Proof Software 1996) aveva fatto leva sulle manie da tamarro del videogiocatore, permettendogli di elaborare i veicoli in modo esasperato, ma con GT si saliva di livello. Le gare ruotavano intorno a un modello di guida che dimostra ancora oggi, con il terzo capitolo della serie e il prologo al quarto, la sua validità. Grazie ad esso, poter sperimentare l'aumento delle prestazioni dovute a una più prestante barra antirollio piuttosto che a un volano di tipo alleggerito era possibile. Il segreto della serie è insito nell'immediatezza con cui si apprezza la crescita della vettura. Distanziandosi dalla realtà per entrare nel più semplicistico terreno dei vg, GT stempera le reazioni ramificate. Gli effetti sono amplificati e nel contempo lineari. Amplificati perché nel mondo virtuale, spogliati come siamo di molte percezioni, l'unica via per restituire, ad esempio, il ritardo nella risposta del motore dovuto all'installazione di un intercooler maggiorato1, è quella di esplicitare una reazione che nella realtà solo piloti dotati di una certa sensibilità riuscirebbero a distinguere. La linearità è invece votata a non far perdere la bussola a chi è poco avvezzo con le elaborazioni. Nella saga di GT si tende, in linea generale, a sostituire le relazioni "uno a molti" con più abbordabili "uno a uno". Se il fine di una modifica è quello di aumentare la fascia di erogazione della coppia, l'effetto sarà quello, tenendo magari in considerazione un altro paio di variabili ma escludendo le centinaia di altre implicazioni che possono derivare dalla singola variazione alla "fisionomia"
Ring#10 dell'auto. La volontà di venire incontro all'utente è ben visibile allorquando si nota che il primo indicatore (e unico, se non si scende in pista) utilizzato per mostrare la conseguenza di una modifica è l'aumento dei cavalli motore. Ad ogni modo GT3 A-Spec (e la saga in generale) è capace anche di accorgimenti che mostrano una conoscenza e una passione per i motori di alto livello. Esempio: la sostituzione dello scarico e del filtro dell'aria, che teoricamente (seguendo le spiegazioni fornite a video) dovrebbe aumentare il numero di cavalli e le prestazioni generali senza controindicazioni, può invece sedere completamente veicoli con poca coppia a bassi regimi come il New Beetle. Eccellente è anche la cura prestata alle dinamiche dell'auto. Il trasferimento di carico è riprodotto con estrema fedeltà. In GT3 A-Spec affrontare un cambio di direzione dopo un dosso o dopo un tratto pianeggiante varia notevolmente il comportamento della vettura. Visivamente le sospensioni sbuffano sotto la pressione dell'auto e su sterrato sobbalzano realisticamente, irridendo, almeno sotto questo aspetto, i prodotti rallistici. Dove invece GT si prende ben più di una licenza è nella destabilizzazione dell'auto. Tutti conoscono gli effetti benefici che la strisciata sul muro comporta nel prodotto Polyphony. A questo si aggiungono sponde violente (e mai punite) contro gli avversari: in frenata e in fase d'inserimento in curva, quando la vettura è già fortemente sollecitata (il più delle volte al limite d'aderenza), un minimo contrasto dovrebbe essere fatale; in GT ci si limita a essere scansati lievemente dalla traiettoria ideale. Anche i salti di cordolo sono piuttosto allegri: al di là dell'impossibilità di ribaltarsi, non innervosiscono la vettura. Tagliare il primo curvone della pista romana di GT3 A-Spec dovrebbe, alla luce dello scossone subito, imbastardire la gestibilità della traiettoria, elemento solo accennato nel gioco. In altre occasioni, poi, esagerati sovrasterzi di potenza portano benefici irreali. Più rigoroso appare Ferrari F355 Challenge dove, disattivando gli aiuti, è necessario "guidare sulle uova" onde evitare spiacevoli uscite di strada. In particolare è la perdita di aderenza in curva a sembrare più rigorosa. In GT3, quando l'auto sta partendo per la tangente a causa di un ingresso a velocità sostenuta, un colpo di freno può aiutare enormemente. Nel titolo Sega, invece, la manovra funziona solo se si agisce prontamente. La differenza tra i due prodotti pare essere proprio nel margine di errore, laddove F355 richiede l'applicazione di contromisure al millesimo di secondo, GT3 concede il lusso di quell’attimo in più di zona franca. Allo stesso modo intransigenti risultano essere i due titoli di punta della F1 da console (Formula One 2002 di Sony e F1 2003 di EA), ma in questo caso la rapidità di reazione è implicita nell'esasperata velocità dei bolidi a ruote scoperte e nella parzializzazione dell'acceleratore, tutt'altro che agevole viste le potenze in gioco. L'implementazione dell'aderenza e l'intelligenza artificiale sono due aree universalmente critiche e criticate nei racing game (titoli motociclistici inclusi). Quando si parla di errata implementa-
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zione dell'aderenza il riferimento è all'uscita dalle traiettorie ideali. La gommatura funge unicamente da indicatore per seguire la linea perfetta, uscirne non comporta variazioni di grip. "La pista gommata si sente molto quando inizia a piovere. In questo caso la si deve evitare accuratamente, perché diventa scivolosissima. Le traiettorie che si fanno sul bagnato sono totalmente diverse" ci ricorda Piero Plini, collaboratore della rivista Elaborare, "Inoltre, sull'asciutto, mettendo le ruote dove gli altri non passano, non solo non si trova la gommatura, ma si passa sullo sporco: inteso come polvere, detriti di gomma e sassolini", elementi mai presi in considerazione, se non a livello grafico (ad esempio i pneumatici imbrattati di erba e sabbia dopo un fuori pista in F1 2003). Discorso analogo riguarda anche le turbolenze, limitate allo sfruttamento dell'effetto scia.
Il comportamento degli avversari virtuali è, se possibile, discorso ancora più spinoso. Che il progresso in campo audio/video abbia beneficiato di maggiori attenzioni rispetto all'intelligenza artificiale è lapalissiano. Il dubbio che quest'ultima non sia evoluta per nulla è però pressante, specialmente assistendo a certe condotte di gara. Siamo passati dalle mine vaganti agli avversari con traiettorie invariabili, abbiamo gareggiato addirittura con IA ad elastico ma i piloti coscienti ed aggressivi non sono ancora tra noi. Quasi tutti i giochi presentano avversari credibili, questo finché l'utente non arriva a scombinare i loro piani di perfetta logicità. Anche i capolavori citati (la saga GT in particolare) non risultano soddisfacenti nel veicolare il senso di sfida. Non si parla qui di difficoltà, ma dell'improvvisazione che faccia ritardare una staccata per non subire un sorpasso, o dell'astuzia che permetta alla CPU di mandare a vuoto, magari con una brusca frenata, il giocatore che tende a spazzare via la concorrenza a suon di sportellate. Tutto questo, probabilmente, porterebbe molta più credibilità di quanto non saprebbero fare l'implementazione dei danni o l'inasprimento della tolleranza verso le frenate fuori tempo massimo.
[1] Sulle vetture turbocompresse, l’aria immessa nei cilindri necessita di essere raffreddata (in quanto i gas si espandono con calore e quindi a parità di volume, l’aria riscaldata contiene meno ossigeno) per migliorare il rendimento del motore e, dunque, la potenza che esso eroga. L’intercooler può essere maggiorato (con un “radiatore” aria/aria più grande) ma la lunghezza del percorso che l’aria dovrà compiere, provocherà un leggero ritardo nella risposta del motore.
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Rally e dintorni: lotta nel fango Mario e Luigi insegnano: a ogni fratello famoso ne corrisponde uno, un po' sfigatino, che vive di pallida luce riflessa. Lo sporco del fuoristrada non pareva confacersi alle luci della ribalta e così, a dispetto di numerose uscite sia in ambito coin-op che casalingo, il genere non viveva fino in fondo le sue caratteristiche. La guida fuori dall'asfalto era spesso terreno per strampalati arcade (come Buggy Boy di Tatsumi), e quando cercava di guadagnare in serietà difficilmente si appropriava delle sue peculiarità. La già accennata insistenza su gomme fumanti e traslazioni rettilinee non era, d'altra parte, modificabile massicciamente in direzione dell'off road. Gli espedienti per diversificare le due tipologie di giochi, quindi, facevano leva sullo sparpagliamento di detriti in pista, sul posizionamento di rampe atte a prodursi in decolli generosi e sull'abbassamento del coefficiente di grip. Quest'ultima pratica finiva per far assomigliare un generico gioco di rally alla copia scivolosa di un racer qualsiasi. La tradizionale visuale 'da dietro', adottata da Pole Position e Out Run, non aiutava. Il realismo era più semplice da ottenere sfruttando punti di vista a volo d'uccello o isometrici: il controllo sulla sbandata dell'auto diveniva più completo e i saliscendi potevano essere accentuati.
Il divertente Ironman Ivan Stewart's Super Off Road (Leland, 1989) imponeva di tracciare, tra avvallamenti e dossi, traiettorie il più possibile pulite per mantenere alta la velocità. Pur essendo uno spin-off di Super Sprint, riusciva a ritagliarsi uno spazio proprio, una dignità di fango e sudore dove le peculiarità dei fondi sconnessi trovavano dimora. Negli anni successivi, con prodotti quali Drift Out (Visco Games, 1991) e World Rally Championship (Gaelco, 1993), il perno faceva il suo ingresso in scena. Tale aberrazione rappresentava la maniera più semplice per riprodurre il comportamento sculettante della vettura da rally. Il lettore pensi a un palo piantato in verticale nel baricentro dell'auto; ora immagini che, ad ogni cambio di direzione, essa gli ruoti intorno derapando. L'escamotage, se ben camuffato, scimmiotta in maniera convincente l'andatura su terreni latori di scarsa aderenza, ma non è reale. Se si pensa che la storia recente si sia disfatta di tali artifici è bene ricredersi: WRC II Extreme, ad esempio, sfoggia in più di un frangente la sua faccia da perno. L'evoluzione del rally trovò nel 1995 il suo sacro Graal, ancora una volta da parte della prolifica Sega (il lettore scusi l'ossimoro). Sega Rally Championship tracciava la rotta che tutti avrebbero
seguito. Come un road book articolato ma poco approfondito, poneva le basi su cui il discorso dell'off road si sarebbe ampliato. Far sbandare l'auto era un piacere grazie alla ben diversificata aderenza sulle differenti tipologie di fondo stradale. La filosofia era quella del "ogni curva di traverso" perché era ciò che i piloti in erba volevano (non si dimentichi della moda portata in auge da Ridge Racer). Nell'immaginario collettivo il rally è l'arte del controsterzo, il resto viene dopo. Come di rigore per i drving game della casa di Sonic, anche SRC richiedeva un abbozzato realismo nelle tecniche di guida. In questo caso le parole d'ordine erano ritmo e anticipo. Giungere sparati a metà di un tornante e sperare di poter cambiare direzione mantenendo la velocità era utopico, altrettanto inverosimile era pensare di uscire illesi da una serie di S senza una strategia su come e quando direzionare l'avantreno del proprio bolide. La seconda metà degli anni '90 portava un inizio di realismo sugli schermi dei PC grazie a Magnetic Fields e ai suoi Network Q Rally Championship (1996) e International Rally Championship (1997). Le console, dal canto loro, si apprestavano a vivere un'altra storia Sonycentrica. Annunciato in pompa magna, V-Rally (1997, Eden Studios) si agghindava con una mise poligonale di tutto rispetto. Stupefacenti gli effetti di illuminazione nelle prove notturne: nei replay, con il motore che giungeva da lontano e il cono di luce che investiva cielo/guardrail/asfalto, la rappresentazione si vestiva di fotorealismo. Gli avversari digitali, invece, erano temerari, loro viaggiavano nella più impenetrabile delle oscurità, maledicendo l'allora primitiva conoscenza dell'hardware Sony. V-Rally era la disciplina sviluppata con la socialità in mente, non si correva contro il tempo ma sportellandosi con altri tre simpaticoni. Poco reale, certo, ma molto divertente. Cercando di ovviare all'intraversamento prematuro alla Sega Rally, in Eden Studios approntarono un metodo di controllo che permetteva all'auto di curvare normalmente fino a un certo punto, passata quella manciata di decimi di secondo la pressione sulla croce direzionale si trasformava in una sbandata da controllare e/o da accentuare con colpetti sul freno. Il metodo si dimostrava efficace, tuttavia il feeling di realismo era sfuggente. Le curve ad ampio raggio, ad esempio, erano spesso da condurre da ubriachi, picchiettando sul pad e ammirando la macchina ondeggiare. La guida era notevolmente diversa da quanto sperimentato sino ad allora, non si conduceva né un auto vera né una dei videogiochi, bensì un'auto di V-Rally: un agglomerato di tecnologia e metallo dal realismo a singhiozzo. La ricerca dell'alternativa, comunque, avrebbe portato in tempi più recenti a includere il terzo capitolo della saga tra i rally più "veri" commercializzati su PS2, nonché uno dei più avulsi dal perno videoludico. L'anno successivo fu il turno di Codemasters e del suo Colin McRae Rally. Applicando la filosofia veicolata da Gran Turismo, i Codies decisero che il punto di arrivo non era la programmazione del
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motore fisico perfetto, bensì il miglior connubio possibile tra divertimento e verosimiglianza. CMR era una gioia da giocare. Era un finto intelligente, dove le facilonerie sottese alla fisica dell'auto erano ben mascherate: una curva affrontata senza sbavature riempiva di orgoglio proprio perché non si percepiva l'edulcorazione del mondo fisico, ci si sentiva provetti piloti. Ricreare la vera struttura della disciplina (il connubio uomo-macchina in lotta contro il tempo) si rivelò fondamentale per il coinvolgimento.
La scelta fu coraggiosa e la fortuna premiò gli audaci: CMR diventò, de facto, il paradigma del genere, tanto da incanalare l'intero movimento rallistico digitale sulle sue tracce. Anche la saga che commercialmente si oppone allo scozzese volante, WRC di Evolution Studios, ne ricalca le orme, pur compiendo le proprie scelte in più di un'occasione (cadenza delle note e sensazione di velocità in primis). Sono proprio le note uno dei punti dolenti delle simulazioni uscite sino ad oggi. Ernesto Manfrin, collaboratore del sito Rally Tribe (www.rallytribe.com) ed ex pilota, ci spiega il perché: "Le indicazioni sono irreali più o meno in tutti i giochi. Molte curve 'easy' se fossero dettate in gara lascerebbero pochi superstiti. Inoltre lo sviluppo del tracciato viene comunicato troppo in ritardo". Addirittura in WRC II Extreme, che a un primo impatto pare inondare di informazioni in largo anticipo, non è raro superare in velocità il navigatore, trovandosi nella situazione di affrontare le insidie nel momento stesso in cui le casse sputano fuori il relativo file vocale. Pur presupponendo futuri miglioramenti è improbabile che seguendo il trend attuale le 'pace note' possano risultare fedeli alla 'cosa vera'. "Non esiste un solo stile di guida, così come non esiste un solo tipo di auto. Passare da un veicolo all'altro, per esempio, richiede impostazioni diverse in fase di curva, frenata, etc. I videogiochi tendono a sottovalutare questi aspetti preconfezionando note generiche, adatte a tutti, mentre invece sono tra gli elementi più personali del rally" continua Manfrin. Non è unicamente la singola curva a poter essere affrontata in vari modi, ma addirittura lo stile di comunicazione richiesto può modificarsi da pilota a pilota. Un hard disk associato a un editor potrebbe rappresentare la via per personalizzare gli appunti. Per il momento la fonte di adattabilità sgorga dai settaggi della vettura, e anche in questo caso il rigore simulativo si affaccia solamente alla porta, senza varcarne la soglia. Le modifiche apportabili sono le solite (gomme, sospensioni, etc.), poco articolate (spesso si tratta di 3 o 4 modulazioni diverse) e non si avventurano
:SPECIALE: mai, al contrario di GT, in tecnicismi esasperati. Il motivo risiede nella mancanza di input. La guida rallistica simulata non ha permesso, e quindi non ha richiesto, fino ad oggi di dover agire su aspetti 'liminari' quali, ad esempio, la regolazione delle barre stabilizzatrici1. Non si hanno le percezioni attraverso le quali si sviluppa il 'dialogo' tra l'uomo e il veicolo. Come permettere di 'sentire' le continue variazioni nel fondo stradale o come rendere tangibile la prossima perdita di aderenza? Nella mancanza di risposte i videogiochi si trovano ad esagerare o a semplificare (basti pensare che, a causa della frenesia di gioco, raramente il cambio è gestibile manualmente). Le stesse tecniche di conduzione, che nella realtà richiedono grande esperienza, vengono acquisite e maneggiate in pochi minuti. Non si parla del solo controsterzo (manovra, comunque, tutt'altro che semplice) ma di finezze quali il 'pendolo' attuabili con una facilità sorprendente. Che sia un mondo fisico sui generis lo si intuisce da molti particolari. In WRC II Extreme (preso come riferimento, a dispetto del più recente seguito, in virtù di un più ferreo rigore simulativo), ad esempio, una frenata secca nel bel mezzo di una cambio di direzione non scompone l'auto (si provi la stessa manovra in GT3 con la Subaru Impreza e si ammiri il risultato), mentre per mandarla in sbandata basta semplicemente sterzare (anche su asfalto). In pratica una conduzione della curva priva di funambolismi è raramente riscontrabile. Ironicamente, come ci ricorda Manfrin "La guida più redditizia è quella pulita". Altre malizie quali il 'sinistro' sono accessibili a tutti. Usare tale tecnica in WRC II Extreme, previo possesso di volante e pedaliera, non è complicato, anche se sembra che più che il trasferimento di carico influisca la migliore gestione della velocità. Senza un volante, invece, il 'sinistro' è ostico, il che riporta
Ring#10 all'annoso problema delle interfacce. Le periferiche dotate di force feedback sono sottoutilizzate, non riescono a convogliare nelle mani tutti gli input necessari. Se si pensa che alcuni volanti funzionano in taluni prodotti e non in altri la situazione si fa sconfortante. Da non dimenticare, inoltre, che il videogioco deve essere costruito intorno al pad, con tutte le limitazioni che ciò comporta. Scontrandosi contro muri di ogni sorta i designer scelgono di soprassedere a qualche regola e di rendere più mass market il prodotto, con evidenti incongruenze: "Le attuali auto WRC grazie alla gestione elettronica dei differenziali2, non sono più molto spettacolari. Si intraversano poco", spiega Manfrin. La sbandata continua tanto cara alla dimensione ludica non è, dunque, il marchio di fabbrica del rally odierno, ma viene mantenuta, in barba agli anacronismi, perché, come asserisce Stephane Baudet, CEO di Eden Studios, in un'intervista su Super Console "Realismo e giocabilità talvolta sono incompatibili". Convinzioni che trovano conferma quando si apprende che con le caratteristiche delle sospensioni fornite dalle case automobilistiche, le vetture di VRally 3 diventavano impossibili da gestire. Una rigida interpretazione delle leggi fisiche manderebbe in crisi anche il più navigato dei piloti, figuriamoci l'utente medio con la sua idea distorta sul rally. Evolution Studios aveva realizzato per Prodrive, scuderia vincitrice di diversi Campionati del Mondo, un software per la messa a punto che teneva in considerazione tutte le dinamiche di un'auto da rally. La decisione di basare WRC su tale progetto fu una naturale conseguenza. Tuttavia "il modello di guida era talmente realistico che nessuno sarebbe riuscito a guidare" spiega Martin Kenwright, co-fondatore di Evolution Studios, "Avevamo una simulazione accurata ma continuavamo a sentirci ripetere da persone che lavorano nell'industria dei vg che le auto da rally non si comportano così". E' paradossale: per sviluppare un prodotto
credibile non bisogna puntare alla realtà ma avvicinarsi all'idea che la gente ha di essa. Ennesima conferma? Il rombo del motore è stato variato da WRC a WRC II Extreme perché i consumatori l'avevano giudicato acuto e inverosimile. L'effetto corretto, però, è quello del primo episodio. L'ignoranza del pubblico, dunque, si riflette nella verosimiglianza dei prodotti rallistici che, vessati anche dalla già citata cronica mancanza di sensazioni e da un'evoluzione letargica se confrontata con i racer classici, si rivelano essere estremamente lontani dalla simulazione.
[1] “Le barre stabilizzatrici” illustra Piero Plini “collegano meccanicamente due ruote dello stesso asse, in modo da limitare il rollio dell’automobile in curva (coricamento da un lato). Sulle vetture da gara esse sono regolabili e contribuiscono ad irrigidire la risposta delle sospensioni sui due assi separatamente. Una barra antirollio più rigida limita il coricamento laterale dell’automobile in curva e nei cambi di direzione”. [2] Nel caso di un’auto a quattro ruote motrici, un differenziale gestito elettronicamente permette di ottimizzare in ogni istante la ripartizione della coppia motrice tra le ruote e tra l’assale anteriore e posteriore. Distribuisce in modo differenziato la coppia tra i due semiassi in uscita dal differenziale. In pratica due frizioni a comando elettroidraulico e a gestione elettronica variano la distribuzione della coppia in funzione stabilizzante.
Motociclismo: meno ruote, meno clamore Le due ruote rappresentano, in campo ludico come nella realtà, un mondo marginale rispetto all'automobilismo. Se il rally è il fratello in ombra, il motociclismo è il cugino incidentato. Sostenuta tra l'85 e l'87 dall'esercito Sega (Hangon, Enduro Racer e Super Hang-on), la produzione di videogiochi votati all'impennata languì per quasi un decennio in cerca di soluzioni che la traessero fuori dal pantano del folklore. Ai titoli citati, infatti, faceva da contraltare una schiera di esemplari che delle due ruote avevano giusto gli sprite. Zippy Race (Irem, 1983) e l'antidiluviano Stunt Cycle (Atari, 1976) erano solo alcuni dei coin-op dove, rimpiazzando le moto con qualsiasi altro oggetto/animale/vegetale, non si sarebbe attentato per nulla alla credibilità dell'esperienza (chi scrive si riserva qualche dubbio unicamente sull'implementazione di una quercia secolare dotata di turbo). Solo Excitebike (Nintendo, 1984) abbozzava una gestione dei ritmi nel controllo dei salti, ma si trattava pur sempre di un'esperienza assolutamente irreale. Il regno della forza centrifuga imperava anche sulle due ruote. Sebbene
Hang-On incoraggiasse la modulazione dell'angolo di piega, la maggioranza della curve sfoggiava impenitente la gomma fumante, istigando allo spreco di pneumatici anche progetti idealmente più seriosi orientati al mercato home quale Super Cycle per C64 (Epyx, 1986)
Il modello dualistico sala/casa, sottostante alla crescita dei titoli automobilistici, è riscontrabile con significative varianti nel mondo delle moto. Mancando i corrispettivi di Crammond e Kaemmer, l'evoluzione si appoggiava sui vagiti di singole software house, delineando una
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crescita a singhiozzo. A limitare l'espansione del genere contribuivano in maniera determinante le difficoltà incontrate nel restituire il feeling con il veicolo. "Nella guida di una moto la gestione dell'apporto fisico è molto più importante e complessa" dice Igor Berzi, caporedattore di SuperBike Italia. "Le auto in curva sterzano e basta, le moto piegano mentre il pilota si sposta sulla sella. Ci sono quindi da considerare molti più parametri. Il programmatore di un gioco di auto queste cose non le deve tenere in considerazione". Nell'impossibilità di replicare tale tipo di interazione, gli sviluppatori sceglievano spesso di modellare i propri prodotti sui comportamenti propri delle auto. Honda RVF per Amiga (Micro Style, 1989) fu uno dei pochi a restituire dignità alla moto grazie a routine fisiche di discreto spessore, ineguagliate dalle progenie poligonali (Red Zone, No Second Prize, Team Suzuki) che nei primissimi anni '90 invase l'home computer Commodore. Non fu quindi il mero dato numerico a frenare l'avanzata del genere (i videogiochi non potevano che rispecchiare il rapporto di venduto tra auto e moto). L'artificiosità con cui il
:SPECIALE: feeling del manubrio era veicolato pareva un muro insormontabile. Così, mentre le console vivevano tempi bui, rischiarati da qualche sporadica uscita estremamente arcade (in Road Rash di EA per Megadrive le moto imparavano finalmente a sdraiarsi sull'asfalto e a disarcionare il conducente in caso di perdita di aderenza), la sala giochi confermò che, in mancanza di una credibile influenza delle leggi fisiche sul mondo digitale, la strada da percorrere era quella del coinvolgimento corporale. Manx TT di Sega si lasciava alle spalle il cabinato di HangOn implementando un sistema idraulico capace di simulare le sensazioni della piega motociclistica. I 32 bit casalinghi, intanto, si limitavano a riprodurre la giocabilità arcade (è del 1997 Moto Racer
Ring#10 di Delphine per PlayStation e PC) rimanendo legati al concetto di 'auto a due ruote'. Se la passava decisamente meglio il motocross, che si poteva avvalere del concetto di gestione del peso e ritmo nei salti per crearsi una precisa identità. Su PC spopolava Motocross Madness, mentre su PlayStation nasceva la serie 'dedicata' a Ricky Carmichael che troverà sulle console a 128 bit la consacrazione. Anche il Nintendo 64, ai margini per ciò che concerne i driving game, beneficiò del suo momento di gloria grazie al restyling poligonale di Excitebike, il miglior gioco crossistico esistente assieme a MX2002 feat. Ricky Carmichael. Le due ruote stradali, nel frattempo, soffrivano di complessi di inferiorità ai quali Namco avrebbe posto fine grazie alla
serie Moto GP e che il PC avrebbe portato in trionfo grazie a moto GP 500 e alla saga di Superbike. Ma è ancora un esame consolecentrico quello che Ring vuole affrontare…
Moto GP 3, Riding Spirits e MX 2002: prova su strada Un aspetto sul quale i videogiochi hanno sempre glissato è il quid su cui invece si dovrebbe basare l'esperienza simulativa: la sfocata linea di confine che separa una frenata riuscita da una caduta rovinosa, una curva pennellata da una scivolata irrecuperabile. Prendendo in considerazione i due esemplari più significativi attualmente in commercio, vale a dire Moto GP 3 di Namco e Riding Spirits di Spike entrambi per PS2, si nota come l'influenza dell'aderenza sia stata presa in buona considerazione. E' Moto GP 3, in particolare, a restituire le sensazioni più realistiche. Aprendo il gas in curva la moto prende a slittare fino a quando la presa non è più possibile e il pilota finisce a far compagnia alle margherite. I tempi di reazione, in virtù della scontata mancanza di percezioni extra visive sull'inizio di sbandata del mezzo, sono comprensibilmente dilatati rispetto al mondo reale. “È solo un gioco” dice il campione Marco Melandri interrogato da Super Console sull’argomento, “nella realtà ci sono un sacco di fattori che comunicano la perdita di aderenza. In Moto GP praticamente te ne accorgi solo quando vedi apparire la riga nera sull’asfalto. Ci sono cose che un videogioco non può riprodurre”. Ciò che risulta meno credibile è la gestione vera e propria della sbandata. "Nella realtà", come illustra Alberto Raverdino, Redattore e Tester di SuperBike Italia, "più si dà gas senza ritegno in curva e maggiore è il rischio che il posteriore perda aderenza. In tal caso, per recuperare occorre parzializzare il gas e non chiuderlo completamente, in modo che il freno motore non scomponga ulteriormente la moto". Ciò che accade in Moto GP 3 è invece leggermente diverso. La parzializzazione dell'acceleratore funziona a meraviglia, ma prescinderne non innesca comportamenti pericolosi. Se si accelera a singhiozzo, aprendo e rilasciando la manopola del gas, la moto si limita a perdere e guadagnare aderenza alla cadenza con cui l'utente porta avanti la sua bizzarra manovra. In pista un comportamento simile sarebbe disastroso. L'imputato numero uno è, ancora una volta, il sistema di controllo. Tasti a pressione e stick analogici non risultano sempre agevoli per regolare la velocità, un possibile elemento di frustrazione che Namco ha voluto eliminare alla radice, prendendosi qualche licenza. Ma non è di certo l'unica. "Il grosso problema della
saga Moto GP è l'assurda velocità con cui la moto controllata dal giocatore sale e scende in piega: del tutto irreale". Quello indicato da Berzi è certamente uno dei fattori più fastidiosi che riporta il titolo Namco alle sue origini arcade. E' sufficiente tamburellare un po' con le levette analogiche per rendersi conto quanto rapidamente i centauri virtuali spostino il loro baricentro. Ironicamente Riding Spirits, racer in cui la progressione della piega è assolutamente verosimile, è stato tacciato di estrema legnosità. "Anche il fatto che in uscita di curva la moto a volte si impenni quando è ancora del tutto inclinata, è parecchio fantasioso" sottolinea Berzi. D'altra parte in un gioco dove si può fare da 0 a 260 km/h costantemente con la ruota anteriore alzata c'è poco da stupirsi. La saga Moto GP è così, è l'interpretazione della simulazione secondo l'oriente. Punisce senza perdere d'occhio la giocabilità. Non raggiunge la profondità di GP500 o della serie Superbike su PC, eppure è capace di farsi apprezzare per accorgimenti inediti per il mondo console. E' un bilanciamento continuo tra ciò che l'utente può controllare e ciò che è meglio relegare al mondo reale. Un campo su cui la riproduzione virtuale può giocarsi le proprie carte quasi alla pari con la realtà è la verosimiglianza dell’ambiente. Ancora Melandri “c’è una cosa da dire su Moto GP: i tracciati sono molto realistici e devi davvero seguire le traiettorie giuste per prendere bene le curve, frenando col dovuto anticipo e così via. Una cosa però non mi convince, ed è la chiusura delle curve. Nella realtà è più facile stringerle, mentre nel gioco le moto tendono a restare sull’esterno costringendoti a frenare troppo per rientrare”. Il realismo nella riproduzione delle piste fa parte di quel contorno audiovisivo sul quale i titoli del passato facevano perno per illudere una progressione simulativa in verità inconsistente. Tutt’oggi ha peso più sul coinvolgimento emozionale che sul reale valore della simulazione di per sé. E’ comunque un tributo dovuto a Namco l’aver saputo ricreare in maniera maniacale ogni singolo saliscendi e dislivello, elemento apparentemente di semplice realizzazione che però ad altri concorrenti, l’omonimo Moto GP di Climax (Xbox) e in parte il pluriosannato Superbike World Championship (PC)
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dell’italiana Milestone, non è riuscita altrettanto fedelmente. Le frenate sono un altro punto critico. In Moto GP 3 i punti di staccata sono assolutamente verosimili, tuttavia le frenate vigorose quando si è già in piega vengono punite solo protraendo oltremodo la pressione. Come ricorda Raverdino "È possibile frenare a moto inclinata, ma occorre essere dolci e progressivi col freno anteriore, aiutandosi con il freno posteriore per stabilizzare la moto. In caso contrario è facile perdere aderenza e finire a terra" che non è esattamente il comportamento visto nel mondo virtuale (ancora peggio Riding Spirits, dove la totale assenza di grip non è contemplata né in accelerazione né tantomeno in decelerazione). La spiegazione di Raverdino va a toccare un altro tasto dolente: l'assenza del freno posteriore pregiudica la completa gestione del mezzo. Fortunatamente Moto GP 3 pone rimedio in questo senso, anche se gli effetti appaiono spesso esagerati.
I due titoli presi in considerazione si configurano quindi come ibridi molto più orientati all'arcade rispetto alle loro controparti su quattro ruote. Dalla quantità di settaggi (più elevati in RS rispetto a Moto GP 3, tuttavia non sempre realistici nei loro effetti, come ad esempio l’influenza delle migliorie nell’impianto frenante, che variano dall’irrisorio all’ininfluente) al comportamento in pista, restituiscono un'esperienza più 'leggera'. Senza dubbio uno dei motivi è legato alle differenti implicazioni che un'uscita di pista può avere nel caso di un auto e di una moto (sulle due ruote si cade quasi certamente, con pesanti ripercussioni sulla gara). La difficoltà nel replicare l'influenza diretta sul pilota è, tuttavia, una problematica di rilievo, in quanto pregiudica l'approfondimento di alcuni
:SPECIALE: aspetti. Nel caso di un inizio di perdita di aderenza della ruota anteriore, ad esempio, gli spostamenti del corpo sarebbero essenziali per non finire gambe all'aria. Riding Spirits ha tentato la via del controllo completo sul centauro, fallendo però nell'obiettivo. I motivi sono essenzialmente due: a) il numero di tasti da utilizzare diventa proibitivo b) gestire manualmente gli spostamenti del corpo non porta ai benefici sperati. Meglio di lui ha fatto Moto GP di Climax, ma una vera influenza credibile e ficcante sulla
Ring#10 conduzione del mezzo è ancora oltre all’orizzonte. E non c'è purtroppo periferica che tenga, almeno fino a quando i sistemi idraulici di Manx TT non saranno a portata di portafoglio. Le problematiche che un gioco di motocross porta con sé sono all'incirca le medesime dei racer stradali, accentuate però dalla mancanza di sensazioni che vessa anche il rally. Pur nel suo modello fisico discretamente apprezzabile, MX 2002 si rivela poco più che un elaborato
arcade. L'accento simulativo è posto più che altro sulla 'verticalità' dell'esperienza, cioè la gestione dei salti e la ritmica con cui affrontarli. Curve, frenate e aderenza precaria non sono mai prese in considerazione, propendendo più all'immediatezza e alla facile spettacolarità che alla dura realtà. Interessante è vedere come almeno l’influenza della frizione venga presa in considerazione, ma anche qui gli effetti finali sono spesso discutibili, anabolizzati come sono dalle loro influenze arcade.
Lacrime, sudore e sangue: i simulatori su personal computer di Massimo Rovatti
Pochi fronzoli. Possiamo bearci quanto vogliamo rimirando il nostro bel monolito, fieri dell’esclusiva sul real driving simulator. Ma la verità è che i real driving simulator si trovano da un’altra parte. Su PC, per precisione. La differenza è nei termini. Da una parte i giochi. Dall’altra i simulatori. Da un lato il divertimento, che più si fonde con il realismo, più acquista spessore, ma che divertimento deve restare. Dall’altra il puro realismo, che spesso sconfina nella frustrazione, ma che ad utenti devoti può regalare un appagamento senza pari. Analizzando i titoli di guida per personal computer, è inevitabile cambiare il proprio punto di vista: qui è la ricerca del realismo senza condizioni, la dedizione e la sofferenza a distinguere un “simulatore” dalla massa di “giochini” che lo circondano. Senza la pretesa di rievocare tutta la storia dei simulatori a due e quattro ruote per personal computer, ci occuperemo dei titoli ancora oggi più significativi. Nel caso di serie, ci dilungheremo maggiormente sugli esponenti più recenti.
La saga di Grand Prix: c’è spazio per un Crammond solitario? Nel 1996, fece la sua comparsa nei negozi Gran Prix 2. E il verbo simulare assunse un significato nuovo. Parto della mente e del lavoro di una sola persona, il codice assembler di GP2 racchiudeva tutto quello che un appassionato di Formula 1 aveva sempre sognato e molto di più. Non poche, infatti, sono le persone che hanno iniziato ad appassionarsi a questo sport proprio dopo aver provato in prima persona l’emozione di “scendere in pista” grazie a questo titolo. E la leggenda vuole che un Jacques Villeneuve, ancora inesperto facesse pratica proprio con questo videogioco per prendere confidenza con i tracciati su cui non si era mai ritrovato a correre. Un’estrema attenzione al dettaglio nella riproduzione di vetture e circuiti, unita ad un sistema di controllo votato al realismo e ad un’ottima intelligenza artificiale degli avversari, non lasciarono alcun dubbio sulla genialità di Crammond, che già a-
veva indicato la strada con il primo GP (oltre ad aver realizzato un classico di guida “delirante” di tutti i tempi, tal Stunt Car Racer, che su Amiga rasentava il concetto di perfezione). Quattro anni dopo, schiacciato da un’hype soverchiante, fece il suo debutto Grand Prix 3. Apriti cielo. Il capolavoro annunciato non si dimostrò tale e fu subito polemica, con accesi scontri sui forum di mezzo mondo tra denigratori e “partigiani”. Con il senno di poi, è impossibile non archiviare GP3 come un mero add-on del predecessore. A parte le condizioni meteo (riprodotte in maniera impeccabile) ed un aggiornamento della fisica delle macchine, più in linea con il comportamento delle vetture del ’98 (cui il gioco si riferiva), poco o nulla era cambiato rispetto al predecessore. Lo stesso aggiornamento grafico era in linea con le varie patch non ufficiali che circolavano tra gli appassionati, non offrendo nulla di stupefacente dal punto di vista cosmetico, a parte il già citato effetto “bagnato”. Dopo tante critiche, l’avvento dell’attuale Grand Prix 4 è stato accolto con un misto di speranze e scetticismo. Innanzi tutto, in quest’ultima incarnazione, l’intervento del padre/padrone Geoff Crammond è stato per forza di cose ridimensionato. Impensabile nel 2002 sviluppare in solitario un gioco capace di competere, quantomeno sul piano estetico, con la concorrenza, ad oggi più agguerrita che mai. Ed infatti, dal punto di vista della grafica, finalmente GP4 rende giustizia al suo blasonato nome: sebbene non privi di alcune pecche, i tracciati e i modelli delle vetture sono riprodotti con grande attenzione al dettaglio. Sebbene le tonalità un po’ pastello delle texture tolgano qualcosa in termini di fotorealismo, ciò che colpisce maggiormente è la gestione in tempo reale di luci ed ombre, davvero mozzafiato, in particolare nelle situazioni di pioggia, in cui ogni goccia riflette le fonti luminose circostanti. Infine, presenza accessoria ma apprezzata è l’intervento di meccanici finalmente tridimensionali, che si agitano in maniera decisamente realistica e spettacolare durante le fermate ai box. L’intelligenza artificiale si conferma ancora una spanna sopra la media: i piloti si comportano in maniera decisamente fedele alla realtà e, come da tradizione della serie, visualizzare un gran premio senza parteciparvi è comunque molto spettacolare, data la verosimiglianza delle situazioni proposte. Il tasto dolente, però, si tocca andando ad analizzare la giocabilità. Che, a scanso di equivoci, è alta: proprio questo, per assurdo, è il difetto principale riscontrato da tutti gli amanti dei simula-
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tori. GP4 è un titolo quasi perfetto per chi voglia avvicinarsi al genere, ma ha sacrificato il realismo che all’epoca lo aveva reso celebre in favore di un modello di guida semplificato. E questo è un “tradimento” che anche i più strenui difensori di Crammond faticano a digerire…
Grand Prix Legends: IL Simulatore Correva l’Anno del Signore 1967 e bolidi da 400 cavalli, privi di qualsivoglia appendice aerodinamica, si sfidavano in gare (letteralmente) mortali per i circuiti della Formula 1. Niente centraline elettroniche o cambio semiautomatico, poche protezioni ai lati (balle di fieno) e grossi marciapiedi al posto delle vie di fuga: ai tempi, la sicurezza era per i pavidi, ciò che contava era la sfida. Anno del Signore 1998: in casa Papyrus (già famosa grazie ai primi episodi della serie Nascar e Indy) si decide di produrre un titolo di F1. L’intento è chiaro: si vuole simulare in tutto e per tutto il leggendario Campionato del Mondo di cui sopra. Uscito nei negozi, Grand Prix Legends si rivelò un discreto insuccesso, vendendo poco più di 50.000 copie in un anno. Ma il contemporaneo affermarsi di Internet, ha fatto sì che la ristretta comunità virtuale di amanti del gioco accogliesse sempre nuovi adepti (tra i quali si vocifera figuri anche un tal Montoya…) ingrandendosi tanto da raggiungere le dimensioni attuali. In questi quasi 6 anni di vita, infatti, le vendite delle riedizioni del titolo hanno continuato a crescere, seguendo una parabola che, sebbene partita quasi piatta, ancora tende sempre più ad impennarsi. E la medesima curva potrebbe descrivere il grado di padronanza del titolo, riportando in ordinate l’abilità di guida e in ascisse le ore di applicazione. In soldoni: se dopo mezz’ora di pratica con GP Legends riusciste a fare un intero giro del Nurburgring (quello vecchio, tortuoso e lunghissimo) a velocità mediamente sostenuta, potreste iniziare a pensare di dedicarvi seriamente alla vita da pilota. All’inizio, infatti, prodursi in tempi decenti con GP Legends non è ostico: è
:SPECIALE: quasi impossibile. Innanzitutto, data la sensibilità del modello di guida, è indispensabile munirsi di volante e pedaliera, possibilmente di ottimo livello. Niente controllo della trazione, niente freni al carbonio: tenere in pista le “bare a motore” di GP Legends è un vero incubo. Ma dopo qualche settimana di pratica, è finalmente chiaro che la difficoltà del titolo Papyrus è determinata unicamente dalla sua totale adesione alla realtà e si scopre che la vettura risponde sempre e comunque in maniera perfetta ai nostri più esili comandi, alle caratteristiche del tracciato ed al tipo di assetto messo a punto. Il modello di guida, infatti, risente, in ogni momento, dell’inerzia e della massa delle vetture, con il peso che si scarica dal retrotreno all’avantreno in occasione delle staccate più violente. Ogni spostamento del baricentro ha effettive ripercussioni sulle sospensioni (con tanto di rollio e beccheggio del bolide), così come sulla pressione e tenuta delle gomme. Superata la vertiginosa curva di apprendimento, è impossibile non farsi prendere da veri e propri deliri di onnipotenza producendosi in derapate ai 200 all’ora. Ciliegina sulla torta, GP Legends si rivela un’esperienza imperdibile giocato online, caratterizzato da minimi problemi di latenza anche in gare contro venti avversari e dotati di semplice modem a 56K. Per motivi di spazio è impossibile dilungarsi oltre su questo titolo. Ma chiunque abbia interesse a fare “sul serio” dopo una rapida ricerca verrà letteralmente inondato dal mare di fansite, gruppi di discussione e veri e propri fanatici che nel 2004 ancorano sviscerano in ogni suo aspetto un titolo del ’98, ancora insuperato. Probabilmente GP Legends rimarrà sempre e comunque un titolo riservato ai maniaci del genere o a chi aspiri diventarlo, ma non c’è alcun dubbio che rappresenti “IL Simulatore” per eccellenza. Chi cerca semplicemente/giustamente un “gioco” di guida, guardi da un’altra parte. F1 2001: la svolta Electronic Arts Dopo anni e anni di presentazioni patinate, musica alla moda, diritti pagati e poca sostanza, la serie di FIFA pare aver intrapreso la strada verso la realizzazione di un titolo calcistico finalmente competente. Questo progressivo abbandono della superficialità in favore di un impianto di gioco solido, in casa EA era già cominciato con F1 2001, che invece di rappresentare l’annuale aggiornamento di un titolo fondamentalmente arcade, si era inaspettatamente rivelato un simulatore caratterizzato da grande realismo. Gli immancabili seguiti, sebbene non incarnino ancora “il simulatore perfetto” di Formula 1 odierna cui gli appassionati anelano, restano comunque tra i migliori prodotti disponibili sul mercato, capaci di restituire al meglio il feeling di guida di una monoposto. Sebbene i piloti in erba possano avvicinarcisi grazie all’abbondanza di aiuti alla guida, è proprio disabilitando questi ultimi che saltano all’occhio le enormi potenzialità di una fisica fedele e di una sensazione di controllo delle vetture assolutamente verosimile. A meno di una guida estremamente pulita, infatti, i bolidi sbandano, scodano e rollano così come le controparti reali e finalmente un simulatore di F1 restituisce la sensazione di velocità
Ring#10 che un pilota prova all’interno di un cockpit, sensazione che, per i giocatori meno esperti, avrà presto fine contro i muretti a lato pista. Dal punto di vista del sonoro, la saga EA è ineccepibile, fissando nuovi standard qualitativi per ciò che concerne la riproduzione del rombo dei motori e del rotolio dei pneumatici, mentre sul fronte grafico il risultato è ottimo ma non esaltante, a causa di alcune imprecisioni nella modellazione di circuiti e vetture (le cui proporzioni sono rispettate fedelmente). A questo, comunque, pone egregiamente rimedio l’estrema editabilità del titolo: una rapidissima ricerca in rete riverserà nell’HD dell’appassionato una mole di tracciati, carshape, cockpit e quant’altro si possa sperare, per di più realizzati, più che da appassionati, da veri e propri artisti. Un bel salto, dunque, per un prodotto che da semplice “giochino” per tutti, è riuscito ad affermarsi anche tra i ben più esigenti amanti della simulazione. Nascar: giorni di tuono? Fino al terzo episodio, la serie Nascar di Papyrus aveva puntato più sulla spettacolarità insita in una gara di stock car che su un effettivo realismo. Ma poi è arrivato Nascar Racing 4 ed è stato presto chiaro che qualcosa era cambiato. Il modello di guida, fino ad allora piuttosto permissivo, ha subito una grossa evoluzione, a partire dagli effetti di sovrasterzo e sottosterzo. Inoltre, la fisica delle vetture ha iniziato a tener conto della ripartizione del carico: chiunque possieda un volante fornito di feedback, può “sentire” sulle sue braccia gli effetti di una sbandata, così come gli alleggerimenti in accelerazione e il maggiore carico sull’avantreno in caso di frenata. Nascar 4 offre il meglio di sé giocato in multiplayer (questo a causa anche di un AI degli avversari piuttosto altalenante, “ritoccabile”, comunque, con numerose patch), poiché permette di partecipare ad epiche sfide fino addirittura a 43 partecipanti. Titolo realistico e curato in ogni suo aspetto, ma nel contempo spettacolare e divertente, Nascar 4 (e relativi add on e seguiti) rapprenta una vera istituzione. Un capolavoro da provare, a meno di non odiare svisceratamente gli ovali e questo tipo di competizioni in genere. Superbike: correre in moto the italian way… Dopo la saga di Screamer, la softco italiana Milestone aveva dimostrato di avere tutte le qualità necessarie per imporsi a livello mondiale. La vera e propria consacrazione, infatti, non ha tardato a venire quando il team capeggiato da Antonio Farina ha abbandonato le quattro ruote per dedicarsi alle moto con Superbike. Dopo il primo, fortunato episodio, la serie ha fatto un’enorme salto di qualità con Superbike 2000. Scartata definitivamente la modalità arcade, che con la sua immediatezza da coin-op stonava decisamente con la ben più impegnativa simulazione, Milestone si è potuta dedicare interamente alla ricerca del realismo. Disabilitando tutti
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gli aiuti, infatti, rimanere in sella alla moto è diventata un’esperienza ardua ma decisamente appagante. Particolarmente apprezzata la gestione dei pneumatici, la cui progressiva perdita di aderenza (amplificata in caso di errori) costringe il giocatore a mantenere una guida il più possibile pulita, in modo da poter competere in maniera performante anche nelle decisive tornate finali. La grandissima cura spesa per la realizzazione di una fisica fedele, permette, dopo un po’ di pratica, di far sì che il mezzo risponda sempre esattamente ai nostri comandi, risultando in un compromesso tra sfida e puro divertimento che difficilmente ha raggiunto tale livello nel mondo dei simulatori. La medesima attenzione al dettaglio è stata riversata anche in Superbike 2001 a tutt’oggi, secondo molti appassionati, il miglior simulatore di moto esistente. Ad ulteriori limature alla fisica ed all’intelligenza artificiale degli avversari, si è accompagnata una realizzazione grafica che, dal punto di vista del mero realismo, difficilmente può vantare rivali anche tra i titoli odierni. I circuiti sono riprodotti con una fedeltà impressionante: chiunque abbia avuto la fortuna di correre a Monza, potrà testimoniare, dopo una partita a SBK 2001, che il tracciato è assolutamente identico. Tale magnificenza grafica è stata ottenuta grazie ad un solido motore tridimensionale, capace di vomitare innumerevoli poligoni senza accusare rallentamenti, ma soprattutto mediante l’utilizzo di texture fotorealistiche, accompagnate ad una saggia scelta della palette di colori. Riuscendo a fondere in un unico titolo un’accurata e divertente simulazione (sebbene i piloti smaliziati lamentino la presenza di una fisica sì coerente, ma non del tutto pari al vero) ad una realizzazione tecnica eccellente, Superbike 2001 rimane ancora oggi un capolavoro indiscusso. GP500: l’alternativa Microprose Superbike 2001 e GP500 sono i due punti di riferimento per gli appassionati di giochi di moto su PC. Nonostante le competizioni tra bolidi da mezzo litro abbiano cambiato nome in MotoGP, ancora adesso è estremamente divertente inforcare una due tempi e lanciarsi nei circuiti di GP500. Innanzitutto, il titolo Microprose propone una maggiore manovrabilità del pilota in sella: non solo è possibile innalzarsi per agevolare le staccate, ma anche accucciarsi sotto al cupolino nei rettilinei, così come accompagnare con il movimento del corpo la moto in curva. Altra particolarità del gioco è data dalla possibilità di agire indipendentemente sul freno anteriore e posteriore, avvantaggiandosi maggiormente del pri-mo nelle brusche staccate e del secondo per eseguire leggere derapate controllate, in modo da impostare al meglio la traiettoria (sebbene nella realtà le cose avvengano un po’ diversamente). Per quanto riguarda la risposta ai comandi, le leggere 500 cc. si dimostrano ben più nervose di quanto cavalcato (almeno virtualmente) in Superbike, con una maggiore predisposizione a scodate in frenata e
:SPECIALE: sbacchettate in accelerazione. La fisica di gioco, comunque, si dimostra piuttosto clemente nei confronti del pilota, permettendo correzioni in curva piuttosto azzardate, che se da un lato premiano un approccio grintoso e spettacolare, dall’altro fanno storcere il naso ai puristi
Ring#10 della simulazione. La minore tensione al realismo è sottolineata anche dalla realizzazione grafica, decisamente spettacolare e attenta al dettaglio, ma caratterizzata da tonalità particolarmente brillanti, vivaci ma meno votate al fotorealismo rispetto a SBK. GP500 è caratterizzato
da una fisica plausibile e coerente, sebbene non esente da alcune concessioni in favore di una guida il più possibile spettacolare anche a discapito del realismo, da molti perseguito come fine ultimo quando si tratta di titoli su PC.
Simulazione domani: dove andremo a finire? La sempre più ampia fetta di mercato conquistata dalle console potrebbe far temere ai puristi della simulazione un deflusso di capitali del mondo PC e un definitivo imbastardimento del genere. Sorvolare però sulle forze che hanno spinto alla crescita del gioco di guida sarebbe miope. Il profilo del nuovo consumatore, più adulto ed esigente, nonché una transumanza definitiva di molti utenti PC verso le macchine da gioco potrebbe iniettare nuova linfa alla corsa verso il realismo, facendo progredire ulteriormente gli esemplari corsaioli su
console. Il patto è che alcune deformazioni non traggano in inganno. Non ci si riferisce solamente all'accondiscendenza verso ciò che il pubblico ritiene essere realistico, ma anche al suo esatto opposto: una simulazione così spinta da travisare completamente il concetto di gioco. Per portare al mondo le gioie del reale i produttori di hardware dovranno puntare, in futuro, al massimo coinvolgimento sensoriale. Come arrivare a ciò e come renderlo viabile per il mercato consumer, però, è una domanda che esula dagli intenti di questo speciale.
Si Ringraziano
in ordine rigorosamente sparso, Ivan Fulco (redattore della fu Super Console e deputy editor di Videogiochi), Marco Perucca (redattore e tester per Quattroruote), Roberto Raverdino (redattore e tester per SuperBike Italia), Igor Berzi (caporedattore di SuperBike Italia nonché ex collaboratore della a sua volta ex Super Console), Piero Plini (redattore per Elaborare), Ernesto Manfrin (collaboratore del sito Rally Tribe), Marco Calcaterra (collaboratore del sito PlayOnLine) e Andrea Muja (un poveraccio qualsiasi raccattato per le strade di Torino) senza i quali questo speciale non avrebbe potuto essere quello che è. Grazie a tutti, siete bellissimi. Saluto tutti quelli che mi conoscono. Mi sono commosso. Vado a piangere un po’.
Metropolis Street Racing (l’ultima frontiera dei tappabuchi: il tappo in-topic) di Sator Derapator, tratto da it.comp.console Fondamentalmente non ho niente contro i racing games. Certo è che non sono uno che succhia il midollo di un titolo corsistico, infatti: - Non ho mai fatto una endurance in GT - Non ho mai modificato un parametro della mia vettura che non fosse puramente estetico. Cioè, se c’è da comprare una marmitta la compro pure, ma figuriamoci se perdo tempo a decidere l’altezza dal suolo in funzione della rigidità degli ammortizzatori per tre e quattordici fratto la cotangente della campanatura. Queste sono stronzate, roba da ingegneri. Il tipo e il colore dei cerchioni, ecco una modifica che mi piace. Proprio per questo non ho preconcetti gheimpleici. Real or unreal driving simulators per me pari sono: modelli di guida da cui poter estrapolare divertimento. Le premesse per godere un sacco con Metropolis Street Racer c’erano tutte: 1) È per DC (che ha quel bendiddio di joypad nato per macinare km). 2) Benché piuttosto famoso non si può certo dire che sia un titolo massificato (ottimo quindi per soddisfare la mia ndole snob). 3) L’ho trovato nuovo a 15 punti interrogativi. 4) Non piace a Nemesis. Le fondamenta del gioco mi colpiscono: l’esauriente manuale ben tradotto, il settaggio dell’ora, l’autosave anti-imbroglioni, l’idea dei Kudos. Quest’ultima è veramente eccellente, in pratica è un continuo scommettere contro se stessi: “Vai Sator che ce la puoi fare ad abbassare il tempo di 3 secondi, basta che prendi meglio quella curva e ti fai il succesivo rettilineo a 20 km/h in più!”. Eppoi i numerosi bug contribuiscono a rendere più aleatoria l’esperienza di gioco; perché quei bug sono voluti, vero? Voglio dire, mi rifiuto di credere che esistano dei coders così incompetenti al giorno d’oggi, su console intendo. Passiamo alla realizzazione tecnica: mezza delusione. Le macchine sono insipide, l’aura artificiosa non le abbandona mai. Il bambolotto gonfiabile facente le veci del pilota non migliora certo le cose; per fortuna si può scegliere il tettino rigido. Il mondo esterno: boh, a me del fatto che tutti i circuiti siano tracciati su sezioni di città perfettamente riprodotte non importa un tubo. Cosa ci sarà di elettrizzante in quartieri reality perfect quando con la fantasia si possono creare città come quelle di Crazy Taxi? Comunque la grafica è OK. Arriviamo alla giocabilità, mygosh, la giocabilità. Emme Esse Erre è l’esperienza più frustrante dopo Tomb Raider 3. Le cose non partono per il meglio. A me piace la visuale ‘occhi del pilota’, in mancanza di essa opto senza troppi problemi alla visuale ‘moscerino spiaccicato sulla targa’. MSR, data la sua natura se_strusci_contro_un_auto_ti_penalizzo_coglione, di fatto obbliga l’utonto a passare all’immonda visuale ‘Roscoe P. Coltrane’, che sminuisce di 50 cc l’esperienza di guida. A me inoltre piacciono i circuiti lunghi. I miei preferiti sono la Seaside Street Galaxy di Daytona e lo Special Stage R13 di chevvelodicoaffare. In MSR invece bisogna sorbirci una serie interminabile di circuitini che finiscono ancor prima di cominciare, tutti anonimi, potrebbero essercene 10 o 100 e non si noterebbe il gap. I capitoli non superati per pochi Kudos, le macchine che rompono le palle facendoti prendere penalità immeritate, l’intraversamento dell’auto che ti fa perdere più secondi che in un qualsiasi altro racing game (eccetto F355 ma lì, pare assurdo, la macchina è più difficile che mi vada testacoda). Giocare a MSR mi ha provocato un eccesso di produzione di bile, una rabbia montante e non tanto facilmente discendente. Giocavo e giocavo ma non sintetizzavo divertimento, mi sembrava invece di essere al lavoro, alle prese con una deadline impossibile da soddisfare. Il solo scriverne mi fa ritornare a mente tutte le incazzature nel giocarci, e mi fa venire voglia di andare alla finestra e gridare FIGLI DI PUTTANAAAAAAAAAA! rivolto verso il Regno Unito. Poi di solito piango. Per fortuna è tutto finito, mi sono ricordato che non sono obbligato a giocarci.
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dUE cUORI e uNA cONSOLE____________________________
[Quando entra in gioco l’amore]
di Cryu e DarknessHeir «Amor ch’a nullo amato amar game over» Alighieri/Ruffino
Rassegna lampo per indagare sulle incursioni videoludiche della materia amorosa. Perché se di medium si tratta, il VG può parlare di tutto, e perché no, anche di amore. Quattro titoli per scoprire come il sentimento affiori nel videogioco non solo tingendone la trama di rosa, ma ora condizionando le scelte del giocatore, ora costruendo attorno a sé un intero gameplay. Ring scopre come il videogioco possa parlare d'amore esulando dai classici siparietti sdolcinati à la Final Fantasy: quattro titoli che non aspirano ad incarnare un surrogato digitale di una fidanzata, ma che descrivono a modo loro un sentimento prendendosi più o meno sul serio. Una paura chiamata amore [I] (Shenmue, Sega, 1999, Dreamcast) Le scelte di carattere morale imbarazzano il videogiocatore, lo sospendono in un limbo decisionale in cui non è chiara l’opzione utile ai fini della vittoria. Deus Ex: il mio superiore mi ordina di sparare a un ostaggio indifeso. Il dito indugia sul grilletto… non oso decidermi. Se le scelte di carattere morale confondono il giocatore, quelle di carattere affettivo lo pietrificano. I PNG dei videogiochi sono sagome da annientare, qualche volta da salvare, tutt'al più da impegnare in una conversazione utile alla risoluzione di un pretestuoso puzzle. Ma quando i PNG mostrano di provare dei sentimenti, il giocatore non sa più che tasti premere. Shenmue: Yokosuka, zona portuale. Passeggio svogliato a pochi metri dal mare. Compare Nozomi, una ragazza incantevole con un solo difetto: è innamorata del più fesso dei
personaggi della storia del videogioco. Me.
Nozomi sta per lasciare il Giappone (perché io, fesso, la sto lasciando partire), ma prima mi chiede di farci scattare una foto insieme, anzi, due. La prima stretti l'uno accanto all'altra, la seconda più distanti. Vigliacca di una Polaroid, pochi
attimi e Nozomi mi porge le due stampe, domandandomi quale voglio tenere per me. …Panico… Io sono uno stoccafisso, e lei è innamorata di me. Lei non mi interessa, ma non voglio ferirla. Se prendo la foto in cui siamo lontani potrebbe dedurre che non tengo a lei. Però sono anche convinto che lei per sé preferirebbe quella in cui siamo vicini. Mi concentro, ma niente da fare. Tiro una moneta. Testa una foto, croce l'altra. Ma non c'è tempo, e mentre sfoglio la margherita la CPU effettua automaticamente la scelta al posto mio. Sono un videogiocatore, posso distruggere cento robot in un secondo, ma sono troppo lento per provare dei sentimenti.
Una paura chiamata amore [II] (Silent Hill 2, Konami KCET, 2001, PlayStation 2) Silent Hill 2 è un gioco dell'orrore, un survival horror, ma non sarebbe così toccante se in fondo non raccontasse altro che una storia d'amore. Una storia d'amore conclusasi nel peggiore dei modi e vissuta dal giocatore proprio a partire dalla sua fine. James Sunderland riceve una lettera della moglie Mary, che lo invita a raggiungerlo nella cittadina di Silent Hill. Fin qui tutto normale, se non fosse che Mary è deceduta da tre anni. Per James inizia un viaggio nelle più rugginose cantine della propria coscienza, tra realtà e incubo, alla ricerca della verità, in un luogo che fugge le regole della logica, e che pare più il prodotto delle sue perversioni
che non uno scenario reale. Ma a Silent Hill si cammina, si ama, si vive e si muore davvero. Il matrimonio di James era stato avvelenato dalla grave malattia che aveva colpito Mary ancora giovanissima, inibendo ai due di condurre la vita felice che si erano costruiti. Ma a Silent Hill James incontra una donna, Maria, incredibilmente somigliante alla defunta moglie. Maria è la (re?)incarnazione della donna con cui James avrebbe voluto vivere felicemente. È affascinante, provocante, risoluta, traboccante di vita e personalità. Ma chi è Maria? Che cosa l'ha condotta a Silent Hill?
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I due volti di un amore schizofrenico: a sinistra la bellezza conturbante di Maria, a destra la bellezza sofferta di Mary.
:FRAMES: Silent Hill 2 si vieta a una lettura razionale che sappia darsi delle spiegazioni. Le vicende che il giocatore vive riflettono la corruzione della psiche di James, esasperata da un matrimonio doloroso, tramortita dalla morte della moglie e compromessa dall'arrivo di una lettera che non può esistere. Fatto sta che James è sulle tracce di Mary, la sua Mary, ma nella sua ricerca è accompagnato da un'altra donna, Maria, che incarna la risposta a tutti i suoi desideri. Così simile a Mary, così diversa, sbucata da chissà dove.
Ring#10 Nel corso dell'avventura, il giocatore nei panni di James si troverà a compiere delle scelte che lo interrogheranno quasi mai esplicitamente. A seconda di quanto tempo si tratterrà con Maria, a seconda di quanto si preoccuperà della sua salute, a seconda di quanto si curerà di proteggerla dalle creature che infestano Silent Hill, a seconda della facilità con cui si rassegnerà alla sua perdita ritornando o meno nel luogo in cui la vede per l'ultima volta: a seconda di tutti questi comportamenti (spesso inconsapevoli), il finale della storia cambierà.
Perché Maria non è Mary, la defunta (?) moglie di James. E cedendo alla tentazione di legarsi a questa donna, la vicenda di James si piegherà ad un nuovo destino di redenzione mista a dannazione. Una storia d'amore, senza dubbio, e per ammissione dello stesso team di sviluppo Konami KCET, Silent Hill 2 è una storia angosciosa e destabilizzante proprio perché scava nella sfera dell'intimità dei personaggi che tiene in bilico tra salvezza e dissoluzione.
Una paura chiamata amore [III] (Ico, SCEI, 2001, PlayStation 2) Non ci è concesso sapere quali sentimenti reciproci palpitino nei cuori di Ico e Yorda mentre vagano per i meandri della loro immensa prigione. È amore? In tutta l'avventura si scambiano poche parole, per di più in lingue diverse, e affidano a un'esperienza di mutua dipendenza il compito di cementare la relazione che si viene a instaurare tra i due. Anche nello schivare i cliché della materia amorosa Ico certifica la propria singolarità. In tutto il gioco non si assisterà a un solo bacio o abbraccio tra i due protagonisti. Neppure alla fine. Eppure le cure che i due si rivolgono sono l'emblema di un sentimento umano che viene spontaneo identificare nell'amore. Fumito Ueda e il suo team hanno costruito un gameplay che per molti aspetti non brilla per originalità, ma che nel concetto su cui si basa rompe la logica di base di qualsiasi action adventure. Il giocatore è costretto (ma dopo pochi minuti di gioco gli verrà naturale) a procedere preoccupandosi non tanto del proprio alter ego, quanto di un altro personaggio, indifeso, che trapela tenerezza
anche solo per la sua totale vulnerabilità. Ico è sostanzialmente questo: il mettersi al servizio della propria compagna, cercando una via di fuga per lei, oltre che per se stessi. È il brivido di una corsa scomposta stringendole la mano, piuttosto che una sicura ritirata in solitaria e si salvi chi può; è la tachicardia innescata da un grido sommesso proprio quando ci si è allontanati da lei per qualche secondo. Quando il giocatore si scoprirà del tutto disinteressato alle sorti di Ico, pur di assicurare la salvezza di Yorda - ora braccata dalle creature ombra, ora aggrappata a una roccia sospesa nel vuoto - coglierà il merito sommo dell'opera di Ueda, quello di aver architettato un sistema di gioco così emotivamente avvolgente da accendere nel giocatore l’urgenza di non agire per se stesso, ma per qualcun altro. L'immagine di Ico che cammina tenendo Yorda per mano è solo un'istantanea di un'esperienza che, attraverso il linguaggio del videogioco, si è resa espressiva di sentimenti profondamente umani.
È sorprendente come, a seconda delle situazioni, una fanciulla in una gabbia possa suscitare sentimenti così distanti…
Dating Simulation RPG (Thousands Arms, Atlus, 1998, PSOne) La natura spiccatamente otaku di Thousands Arms emerge tanto da un intreccio narrativo frivolo e spensierato quanto dalle improbabili meccaniche ludiche che ne derivano. Protagonista della vicenda è il giovane Meis, uno spirit blacksmith, ovvero un fabbro in grado di instillare il potere degli spiriti elementali nelle armi che forgia. E come si ricava questo dannato “potere degli spiriti elementali”? Meditando in tenuta adamitica sotto una fontana ghiacciata? Attraversando il deserto a piedi spogliati di tutti gli oggetti metallici? Ma per piacere, siamo in uno scanzonato mondo jappo/fantasy, per cui l’unica maniera di investire le proprie armi di poteri magici è… ehm, avere successo in un appuntamento galante. Thousand Arms è un gioco nel gioco. Un lungo JRPG ed una simulazione di appuntamenti discretamente articolata. Duro fuori, tenero dentro. Esattamente come il suo utente ideale: quei goliardoni di Atlus, infatti, hanno conferito un’importanza fondamentale al simulated dating. Abbiamo parlato del legame tra armi, spiriti elementali e ragazze: saltate un appuntamento e potrete scordarvi magie, attacchi speciali ed incrementi di status per i vostri strumenti di morte. Affinate l’arte della seduzione e nessuno, sul campo di battaglia, potrà opporsi a voi.
Il carattere delle ragazze da conquistare è molto più complesso di quanto sia lecito supporre, e ognuna si definisce per differenti margini di sopportazione. Alcune sono disposte a soprassedere su un paio di gaffes, altre non esitano a congedarsi dall’appuntamento al primo passo falso del loro pretendente. Tutto si svolge così: in ogni città sono presenti i cosiddetti dating spot, ovvero luoghi in cui condurre colei che, tra le quattro figliole presenti nel party, avete scelto di corteggiare. Una volta giunti nel luogo designato per l’appuntamento dovrete cercare di accaparrarvela facendole regali, affrontando svariati mini giochi, oppure, nel corso di stucchevoli dialoghi, fingendo spudoratamente di condividere le sue stupidissime passioni. Realistico. Durante le cut-scene e i dialoghi, farete bene a prestare attenzione: la perfetta conoscenza del carattere della preda è basilare per rispondere adeguatamente alle sue domande, per donarle un omag-
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gio che non ne scateni le ire o per scegliere il migliore dating spot tra i diversi contemplati dalle varie ambientazioni. Strategia, dannazione, strategia: affrontate una donna facendone a meno e la pagherete cara. Dimostratevi abili strateghi e sarà lei a ripagarvi: in Master Points da spendere per migliorare le caratteristiche delle vostre armi. La politica di marpionaggio indiscriminato è incentivata dal legame che ogni ragazza detiene con un determinato elemento: se desiderate magie basate sul vento dovrete martellare Kyleen, per quelle dell’acqua scardinare Wyna, e via dicendo. Thousand Arms, insomma, è il gioco per l’uomo che non deve chiedere mai. Meglio, per l’uomo che non vuole mai chiedersi niente. Per colui che adora pianificare, che si tratti di combattere un cazzuto boss o corteggiare una sgualdrinella. Per chi adora accumulare soldi e comprare item rari, siano essi armi introvabili od omaggi esotici per la propria diletta. Un’esperienza da provare, per potersi togliere la soddisfazione di dire “ho giocato ad un simulatore di appuntamenti” senza per questo sprecare danaro in un incomprensibile groviglio di ideogrammi e ragazzine in stile manga. E soprattutto, per rispondere “idiota, faceva parte di un gustoso JRPG” a coloro che, udendo la precedente frase, cercheranno di coprirvi di insulti…
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qUANDO sI uSAVA gIOCARE____________________________
[…i giochi usati]
di Amano76 Ho trent'anni. Ci sono tante cose che a quest'età è difficile mandare giù. La peggiore è la consapevolezza che ormai qualunque ragazza io possa adocchiare qualcun altro l'avrà già usata prima. Sì perché diversamente da come accade con le macchine, i cd, o i videogiochi, con le donne non si può scegliere tra la versione di "seconda mano" e quella "nuova di zecca" ma ci si deve categoricamente accontentare di quello che capita. Dedico quest'articolo a coloro che non spendono più di 30 euro per comprarsi una copia di Metroid Prime, ma lo dedico anche a chi almeno una volta nella vita si è sentito dire: "con te è diverso".
Clash of titans È il 1998. CESA (Computer Entertainment Software Association) tiene una conferenza stampa in cui dichiara l'avvio della campagna contro la rivendita dell' usato. A questo annuncio segue la comparsa del marchio No Resale su tutte le confezioni di videogiochi, sottoscritto dalla dicitura: “la copia, il noleggio, e la rivendita di questo prodotto sono da considerarsi illegali”. Gli acquirenti abituali del mercato dell'usato affrontano quest'iniziativa scrollando le spalle; ma per i giapponesi, si sa, tutto è una questione di onore. O, data la situazione, di etichetta. E così le catene dei rivenditori prendono la faccenda tutt’altro che alla leggera. CESA aveva deliberatamente tacciato di illegalità un’attività commerciale che sino ad allora aveva prosperato nella correttezza: questo tipo di esercizi è regolamentato dal possesso di una licenza per la compravendita di materiale usato (software in questo caso) ed essere scavalcati così vigliaccamente, senza un imparziale confronto legale, per i negozianti era l'equivalente di uno schiaffo morale in piena regola. Fortunatamente esisteva già una coalizione delle principali catene di vendita, il JAG, fondata nel 1997 in occasione di una denuncia di Konami mossa ad una catena di negozi coinvolta in attività di noleggio. Annusata la puzza di bruciato i piccoli rivenditori si allearono a
JAG, terrorizzati all'idea di essere colpiti individualmente da pachidermi corporativi come le software house, e così nacque l'attuale ARTS. Nei mesi successivi alla disputa con Konami, i casi dibattuti in tribunale restarono circoscritti a singoli negozi dediti al commercio di materiale copiato, e nessun ulteriore dissidio nacque tra rivenditori e i produttori. Tuttavia con la campagna del 1998 la CESA fece il passo più lungo della gamba e ARTS non restò con le mani in mano. È da allora che i tribunali di Osaka e di Tokyo accolgono e respingono le denunce di una e dell'altra parte, lungo le tappe di una agguerrita staffetta giuridica che si è conclusa solo nel 25 aprile del 2002 con l'intervento della Corte Suprema e la vittoria dei negozi di software usato. A questo punto ogni persona nel pieno delle proprie facoltà mentali sarà colta dallo stupore: come è possibile che un argomento simile sia stato anche solo dibattuto? vietare la rivendita di materiale usato, sia anch'esso videoludico, è un atto che va contro i più elementari principi di libertà personale. Come si può essere giunti a questa situazione? Tutta colpa di quello stronzo di Pac-man. Aspettate: vado a casa di Michael J. Fox, mi faccio prestare la De Lorean e vi spiego perché.
A few good Pac-men 1984. Pac-man, l'arcade che sta facendo guadagnare miliardi a Namco, è ovunque. Tuttavia la casa madre non è sufficientemente entusiasta della situazione: molti kissaten1 sfoggiano il cabinato senza consegnare un adeguato compenso alla software house, che vuole stabilire i diritti di sfruttamento secondo le proprie condizioni e non si accontenta degli introiti ricevuti per l'acquisto dell'arcade da parte dei locali. Ingorda come una sanguisuga, Namco cita in tribunale un intera catena di gestori che nei propri esercizi ospitano il cabinato del gioco. La posizione ufficiale della softco è che "Pac-man è un opera cinematografica e come tale è soggetta al Diritto di distribuzione". Un piccolo passo indietro. A riguardo dei film giapponesi esiste una legge che concede la facoltà per le case di produzione di selezionare le sale in cui proiettare le proprie opere e di gestire il costo dei biglietti. Questo ha fatto sì che venisse a crearsi una situazione di palese ostruzionismo verso le società più modeste, poiché le grandi case produttive saturavano i cinema con le loro pellicole e imponevano alle sale l'esclusione di prodotti concorrenti. Tale "diritto", clamorosamente iniquo, è appunto il Diritto di distribuzione.
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Reclamando l'identità "cinematografica" dell'arcade, gli avvocati di Namco dovevano però dimostrare uno o più criteri di associazione. Ora si ride. Secondo la definizione accolta dal tribunale come termine di paragone, "un’opera cinematografica è una racconto costituito dalla riproduzione di effetti visivi e uditivi". L'accusa dimostrò allora che Pac-man attraverso i calcoli della scheda madre era in grado di proiettare immagini sullo schermo (televisivo) e riprodurre suoni campionati, coniugando entrambi in un pretesto narrativo. Il giudice riconobbe questa tesi come valida e costrinse la catena di kissaten a fornire un rimborso per danni. Nonostante il successo dell'iniziativa legale, nessun'altra società si lanciò in un impresa simile, ma questo precedente ha costituito per anni la pietra angolare del contenzioso tra ARTS e CESA, divenendo il primo passo verso la giustificazione del Diritto di distribuzione anche per i videogiochi. Gente, un caloroso applauso a Namco! [1] pub dove viene servito esclusivamente tè. Dispongono di vari intrattenimenti, in genere la lettura di riviste o di manga.
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Ring#10
Guida all'usato Ma perché di colpo le software house hanno deciso di infilare tutte e dieci le dita nella torta del materiale usato? Molto semplicemente, hanno fiutato l'affare: si sono accorte che per un titolo che riusciva a mettere a segno, chessò, centocinquantamila copie, venivano vendute in media più di quattrocentocinquantamila volumi delle guide strategiche. Una proporzione di uno a tre, per i meno matematici fra voi. Ora: quale imbecille si comprerebbe una guida se non disponesse del prodotto che la rende necessaria? È parso quindi inequivocabile che una fetta enorme di guadagni venisse eclissata alla faccia delle software house e, di conseguenza, CESA si è sentita in "dovere" di assumere i provvedimenti descritti all'inizio dell'articolo. La questione ovviamente fu posta in termini ufficiosi: il problema che nasceva dalla vendita dell'usato era che un simile mercato non garantiva gli introiti necessari a investire su prodotti nuovi e competitivi. E in effetti viene da chiedersi se non sia proprio così, data la palese standardizzazione in cui versa la produzione odierna, priva della vivacità che aveva contraddistinto quella a 32-bit.
Ma a che titolo CESA può mettere parola su un commercio talmente assodato come quello dell'usato? È possibile che la stagnante qualità del videogioco sia veramente appesa a questo? Un genio resta sempre un genio aldilà dei soldi di cui dispone per il suo progetto, e una pippa farà comunque un lavoro scadente qualunque fondo spese gli si riservi. Non sono pochi i casi in cui, dovendo barcamenarsi con fondi esigui, autori oggi di grido hanno creato i capolavori del passato. Le idee bastano e avanzano. Da parte sua ARTS si dichiara convinta che attraverso i costi contenuti dell'usato molte più persone possano avvicinarsi ai videogiochi. Cazzate anche queste, naturalmente. Sanno benissimo di riscuotere soldi a palate solo perché i titoli nuovi di zecca costano troppo: quasi tutti i prodotti per console fuori mercato (a 16bit, a 32-bit, i portatili surclassati dal Gameboy) vengono offerti a prezzi dell'ordine di pochi euro, mentre i veri guadagni si tirano su con lo smercio di titoli più recenti che hanno prezzi intorno ai venti, trenta euro. È ovviamente su questi ultimi che vertono le rimostranze di CESA ed è ovviamente a loro che ARTS non vuole rinunciare.
Quando il diritto diventa illegale La migliore strategia legale che tanto ARTS quanto CESA potevano concedersi era sfidare il fronte opposto denunciando singole catene di rivenditori, e i negozianti denunciando una softco alla volta. La prima a prendere iniziativa fu la Chamaleon Club, un franchising che accusò Enix di costringere gli esercizi della catena a firmare un contratto dove si rinunciava al diritto di vendere materiale usato, pena la mancata distribuzione dei giochi prodotti dall'etichetta. Chamaleon Club vinse la causa, e anche il ricorso in appello di Enix alla Corte Suprema di Tokyo risultò in un verdetto favorevole per il franchising. E per l'ennesima volta la storia si chiude. Nel 1998 Sega, Sony, Square, Capcom, Konami e Namco (ancora lei) decidono di dichiarare battaglia alle catene Act e Rise. La vicenda giudiziaria, dipanatasi nel tribunale di Osaka, vede in un primo momento la vittoria dei sei colossi, cui viene riconosciuta la legittimità ad avvalersi del Diritto di distribuzione; ma al ricorso in appello presso la Corte Suprema di Osaka il verdetto è rovesciato, a favore di Act e Rise (nel marzo del 2001). Sempre nel 1998 altre cinque software house denunciano la catena Do!: in questo caso è la stessa Do! a desistere dal processo e a ritirarsi senza attendere il verdetto, accettando di esaudire le richieste delle case di produzione. Nel 1999 CESA, sulla scia di Koei ed Enix, tiene una nuova conferenza stampa annunciando stavolta che le software house convalideranno la vendita di materiale usato se i negozianti accetteranno le condizioni da loro avanzate, incentrate sull'entità della percentuale di guadagni che le etichette vogliono vedersi devolute. A
questa dichiarazione segue un periodo di stasi, durante il quale l'opinione pubblica ha tutto il tempo di prendere iniziativa. È il marzo 2001 quando nasce l'"Associazione degli utenti fedeli ai giochi usati", formata da quarantasette partecipanti che si schierano a favore di Arts e che si impegnano a manifestare di fronte i tribunali. Un evento significativo per due motivi: per le sue ridotte proporzioni (su un fronte di chissà quante migliaia di acquirenti abituali di software usato) e per lo scopo di una simile associazione, che con la portata delle sue ambizioni fa sembrare dei semplici piagnistei le migliaia di petizioni occidentali per la traduzione di giochi come Policenauts o Sakura Taisen: il massimo di quanto "politicamente" la comunità videoludica americana ed europea siano riuscite a fare. Un paragone piuttosto scoraggiante se si pensa a quanto fa moda la "ribellione" nei paesi atlantici e a quanto in Giappone il dissenso sia una pratica sociale non solo evitata ma anche moralmente condannata. Di sicuro non si deve al loro impegno, ma il trionfo di ARTS riscosso nel 25 aprile 2002 alla Corte Suprema – che ha negato definitivamente il ricorso delle software house ad avvalersi del Diritto di distribuzione – è anche un po' una vittoria di questi ragazzi. Ma insomma, i produttori di videogiochi sono veramente "il Nemico"? sono davvero Nemesis Videoludica? Certo che sì. Aspettate. Vado a rubare un'altro paio di barre di plutonio ai libici, mi rimetto al volante della De Lorean e vi spiego perché.
Bucate quella vescica Il Giappone, risorto da un dopoguerra che gli era costato un numero esorbitante di vittime e che gli aveva assicurato l'odio da parte della popolazione americana per un paio di secoli almeno, raggiunse un periodo di massimo prodotto interno lordo negli anni '80: il cosiddetto periodo della "Bolla". Un periodo di cui oggi si dice che durante di esso “solo gli occidentali e gli stupidi non si sono arricchiti”. 1987. Esce Dragon Quest 2. File enormi si formano fuori dei negozi di elettronica e di giocattoli: allora i soli
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esercizi dediti alla vendita al dettaglio del software. Il numero di venduto cresce vertiginosamente: decine di persone si vedono negare la possibilità di acquistare la propria copia del gioco a causa dell'improvvisa domanda e sono costrette a fare ritorno a casa a mani vuote. Nintendo si becca maledizioni e malocchi, ma diversi imprenditori fiutano l'affare e in breve tempo i negozi specializzati nella vendita di videogiochi aprono i battenti uno dopo l'altro, sospinti da un’ondata di vigore
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economico che non sembra raggiungere una cresta o conoscere arresto. È un periodo di assestamento: tanto la vendita dell'usato quanto il noleggio vengono in breve sfruttati dai gestori più intraprendenti, e il business dei rivenditori si gonfia fino a dare alla luce vere e proprie catene di franchising. Nel frattempo la "Bolla" insisteva ad espandersi, al punto che l'economia nazionale era ormai diventata praticamente inarrestabile. Pertanto, onde evitare che l'enorme quantità di capitali in moneta corrente venissero dispersi, ogni fascia del mercato si adeguò ad assorbire il denaro in surplus. In ambito videoludico questa prosperità si palesò da un lato attraverso valanghe di titoli sfornati per le tre console allora in voga (Pc-engine, Megadrive, Super Nintendo) dall'altro con un numero crescente di prodotti che toccavano co-
sti a dir poco proibitivi compresi tra gli 11'000 e i 12'000 yen (l'equivalente odierno di 10'000 yen, tanto per capirci). Un dato che mostra quanto pesasse la percentuale riscossa da Nintendo e Sega e perché con l'arrivo di Sony praticamente ogni etichetta migrò verso la neonata PlayStation. Nel 1989 la "Bolla" era ormai esplosa, ma nonostante questo i prezzi si erano comunque stirati e ci volle un lungo periodo di recessione perché rientrassero nella norma. Per tutta la prima parte degli anni '90 il mercato venne subissato di console ad alto costo (Jaguar, 3d0, Pc-Engine Duo, Mega-cd, Neo-geo) e titoli dai prezzi inauditi. Fu allora che il mercato dell'usato conobbe la sua epoca d'oro.
Sony, messia di fine-secolo La bulimia dei prezzi non è una colpa direttamente imputabile a Sega e Nintendo, dato che queste hanno semplicemente fatto da cassa di risonanza all'aumento dei prezzi voluto dalle software house. Un demerito che invece le vede colpevoli in flagrante è stato tenere in scarsa considerazione tutta quella fascia d'utenza, che pur avendo il tempo di giocare più di un titolo al mese, non poteva permetterselo in ragione dei costi di mercato. Oggi i nintendari e i segaioli piangono lacrime amare nel vedere i due giganti di un tempo arrancare dietro Sony, ansimanti come due ciccione di cinquant'anni dietro alla loro istruttrice di aerobica di ventuno. Ma non bisogna dimenticare che fino al Gamecube e al Dreamcast nessuna di esse ha MAI preso in considerazione l'ipotesi di una linea budget. MAI. Neanche quando il tubercolitico Saturn sputava sangue; neanche quando il paralitico Nintendo 64 si reggeva su un paio di killer application all'anno. L'unica mossa di Nintendo in questo senso è stata l'istituzione nel 1997 (!!!) dei cabinati Nintendo Power: piattaforme sparse in vari rivenditori autorizzati che permettevano di riscrivere cartucce apposite in cambio di una piccola somma di denaro. Questa soluzione fu tuttavia escogitata per il solo materiale Famicom e Super Famicom, circoscritta ad un centinaio di titoli (nessuno dei quali Square, chissà perché) e solo una volta che la console a 64 bit aveva dato i suoi frutti. Agli occhi dell'utenza occidentale e in particolare di quella più tenacemente appassionata, la Sony ha sempre interpretato la parte del mostro cattivo, ma è un
fatto che la prima a pubblicare una linea di giochi budget sia stata lei. Attraverso la serie The Best (ribattezzata Platinum in occidente, anche se è giunta con estremo ritardo e coprendo un numero di titoli infinitamente più contenuto) la mamma di PlayStation e Ps2 ha ridistribuito i 3/4 del suo catalogo in versione economica. Nel tempo il divario di pubblicazione tra originale e ristampa si è inoltre accorciato, al punto che ormai tra l'uscita di un prodotto per Ps2 e la sua riedizione budget trascorrono anche meno di due mesi, rendendo di fatto l'acquisto di una copia usata una spesa meno conveniente e quindi meno allettante. Capita pertanto di assistere a fenomeni senza precedenti come il successo della versione The Best di Final Fantasy X, che dopo un anno dall'uscita dell'originale ha riscosso 120'000 copie pur essendo un gioco già ampiamente diffuso. Non è finita qui. Di pari passo a questa iniziativa la D3 Publisher ha dato alla luce una collana di videogiochi a costo ridotto chiamata Simple 1'500 (cioè l'equivalente in yen) affiancata poi dalla 1'800 e dalla 2'000 (indirizzata a Ps2) che nel tempo hanno sortito un'ampia gamma di effetti provvidenziali. Grazie a queste linee di titoli anche la più scafata delle software house ha oggi l'opportunità di pubblicare le sue creazioni, così come le scuole di game-design (che spuntano come funghi) hanno ora a disposizione dei banchi di prova per i loro alunni più promettenti, liberi di cimentarsi nei processi di realizzazione nonché toccare con mano le procedure e le difficoltà nella ultimazione di un titolo per console.
La qualità costa... Giusto? Il margine di guadagno di queste linee è tale che la mole di titoli budget rilasciati è diventata enorme. La stessa Sony ha creato un ulteriore serie economica (la Book) e tante altre etichette si sono gettate a testa bassa nell'affare. Ne è risultato che non di rado i titoli di suddette collane siano apparsi tra i venti titoli più venduti della settimana, e non è altrettanto raro che abbiano superato le vendite di prodotti con spese di produzione dieci volte superiori. Gli esempi da menzionare non scarseggiano: Bandai ha pubblicato nella serie Simple Character una coppia di picchiaduro dedicati a Gundam (tirati su con un motore grafico 2d riciclato dalla testa ai piedi!) che singolarmente hanno venduto più di qualsiasi altro recente picchiaduro bidimensionale di Capcom, e che insieme hanno raggiunto cifre superiori a quelle di Soul Calibur 2; Pandora Max series, una serie di RPG a costo contenuto, è stata incensata dalla critica e ha riscosso un dignitoso numero di acquisti; il recente Truppa di Di-
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In Truppa di Difesa Terrestre il giocatore deve respingere l'assalto di un nugolo di creature che sembrano appena uscite da un film di serie-B. La mappa di gioco è sempre la stessa, nonostante dimostri vastità considerevole, in più tutti gli edifici sono agibili, si possono guidare diversi di tipi di veicoli (carri armati, elicotteri, moto futuristiche), ed è possibile recuperare una enorme quantità di oggetti (armi, munizioni, gadget) sparsi a terra.
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fesa Terrestre, creato da Sandlot coni rimasugli del motore grafico tratto dal precedente Gigantic Drive, ha totalizzato quarantamila copie vendute, alla faccia di titoli come Bokura no Taiyo, R-type Final, o Megami Tensei Nine, che hanno superato di pochissimo tale cifra. Tutto ciò senza contare che Sony ha inaugurato la serie PRIMA che il problema della rivendita del materiale usato mettesse in crisi i profitti del mercato attuale.
E chi tifa tanto spudoratamente per Sega e Nintendo farebbe bene a mettere in dubbio le proprie posizioni da nostalgico. Dare atto a questa etichetta degli sforzi che ha compiuto, comunque, non significa che la sua lotta sia legittima, ma perlomeno in questo frangente Sony ha dimostrato un'estrema correttezza (e intuitività) che le due grandi del mercato nipponico non hanno mai rivelato.
Le forze dell'Asse D'altronde i santi stanno solo in paradiso. Sony non ha certo le mani meno sporche di quelle di Sega, Nintendo o di tutte le altre software house. Abbiamo visto come la prima iniziativa legale inerente il mercato dell'usato avesse coinvolto Enix, ma a conti fatti ad esordire con “le maniere forti” fu proprio la mamma di PlayStation. Sony, venne infatti ufficialmente richiamata nel 20 gennaio del 1998 dalla Commissione per il Commercio per il tentativo di estorsione nei confronti di piccoli esercenti: ai quali negava la distribuzione dei propri prodotti qualora non venissero fatti oggetto di trattamenti di favore o nel caso in cui i negozianti mettessero in vendita titoli usati. L'avviso non fece comunque distogliere SCE dal suo atteggiamento di ostracismo, tanto che nel 2 agosto del 2001 fu denunciata, multata, e sanzionata dalla Commissione per il Commercio con l'accusa di monopolio. Quanti venditori avrà fatto fallire Sony nel frattempo? Non deve quindi sorprendere se alcuni commercianti non se la sono sentita di aderire alle battaglie di ARTS
ma hanno invece intrapreso iniziative autonome. Ecco allora la ACCS, un comitato di piccoli esercenti (guarda caso) che hanno costantemente spalleggiato le software house. Per paura di chiudere? O perché in ogni caso i guadagni sulla merce usata non erano sufficienti a bilanciare un confronto giuridico con compagnie che disponevano (allora come oggi) di capitali enormi? Non è dato saperlo. Come se non bastasse, sulle colonne di opinione di Famitsu campeggiano personalità di spicco che incitano alla rinuncia all’acquisto di giochi usati: Nobuo Uematsu, Mitsuru Ijuin (presentatore del programma Gamewave), Hironobu Sakurai (Kirby, Smash Bros Melee) e Hirokazu Hamamura (direttore del settimanale) chi più chi meno esplicitamente si sono tutti schierati contro la compravendita della merce di seconda mano, e non ci vuole un genio per intuire quanto possa pesare il continuo battage a cui sottopongono i propri lettori.
Culture Club: un panino a noleggio La stampa e l'ACCS non sono comunque gli unici sostegni dei produttori di videogiochi. Subito dopo la sentenza della Corte Suprema, la società Tsutaya, colosso giapponese che annovera tra i suoi componenti la catena di negozi di Culture Convenience Club, annunciò che nonostante la decisione favorevole del tribunale avrebbe devoluto a CESA il 2% dei guadagni ottenuti con la vendita del materiale usato. Una simile soluzione fu già sperimentata dalla ARTS, ma all'epoca nessuna compagnia voleva saperne di una percentuale sui guadagni, preferendo proseguire lungo la linea dura del "o tutto o niente". Oggi, chissà perché, non gli fa più tanto schifo. Ma è così disinteressata Tsutaya? Allora come mai dopo il verdetto del 2002 la CESA ha riconosciuto ufficialmente la propria disponibilità a concedere il noleggio dei propri prodotti esclusivamente alla catena Cul-
ture Convenience Club, tra l'altro stabilendo che il listino prezzi fosse a completa discrezione di ogni singolo esercizio? Ma il noleggio non era illegale? È evidente che il prossimo nodo da sciogliere sarà quello inerente la percentuale da concedere alle softco: i rivenditori potrebbero recuperare col noleggio le perdite di un possibile ridimensionamento del mercato dell'usato. Tuttavia esiste il problema del prezzo a cui ogni singola copia viene venduta e delle diverse percentuali che ciascun negozio riceve come intermediario, sui quali influiscono innumerevoli fattori. Dato che né CESA né ARTS sono in grado di stabilire gli introiti con precisione, qualsiasi genere di provvedimento potrebbe risultare svantaggioso per l'una o l'altra parte. La situazione odierna è quindi di stasi. La quiete prima della tempesta? La quiete dopo la tempesta?
E col tempo anche la morte può morire La situazione, insomma, sembra rosea: la Corte Suprema ha negato il ricorso al Diritto di distribuzione e le softco non possono più avvalersene. Niente di più falso. Con la stampa, ACCS e Tsutaya dalla propria parte, senza contare l'immutata situazione di disparità tra i capitali degli esercizi di commercio e quelli macroscopici delle software house, CESA continua imperterrita la propria battaglia contro ARTS e contro quarantasette Bibliografia Sol Mutante - Gomarasca e Valtorta, ed. Costa e Nolan Used Games - volumi 1 e 2 (ristampa), Kill time Communication Famitsu - nr.700, ed. Enterbrain Famitsu - nr. 701, ed. Enterbrain Edward O. Reischer - Storia del Giappone, ed. Bompiani
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tizi di cui potrebbe rapidamente occuparsi uno yakuza provvisto di katana. Frattanto il bollino No-Resale campeggia ancora stolido sul retro delle confezioni, ed è probabile che sarà il centro di nuove dispute giuridiche. Quale che sia il destino del mercato nipponico, l'utenza occidentale farà comunque bene a prepararsi: oggi tocca a loro, domani a noi. Assurdo dite? Già, probabilmente è la stessa cosa che pensavano i nostri corrispettivi giapponesi prima di tutto questo bordello.
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pACMAN dI pASSAGGIO dIVORA lACOSTE sTANZIALE________
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di Gunny Spiega Piero Gilardi, fondatore della associazione Ars Tecnica1: «Il punto qualificante è l’analisi del rapporto tra soggetto e oggetto. Non esiste una separatezza, ma un rapporto di modificazione reciproca. Molti artisti collocano delle immagini di computer grafica, oppure un computer nella propria installazione, però continuano a far riferimento ad un soggetto umanistico, che rientra in una visione antropocentrica». E ancora: «Il nuovo artista tecnologico vive se stesso come soggetto frattale. Ha un rapporto che varia col variare dell’altro e ,quindi, nella propria opera si cala in questa dimensione. Non produce un’opera che è lo specchio della sua problematica personale, ma offre in sostanza un mondo da navigare, da esplorare passando di variazione in variazione». Piero Gilardi parlava di rapporto artista-fruitore nella neonata tecnoarte. Arte interattiva, per intenderci. Non chiamiamoli videogiochi, via. Siamo in un luogo di cultura, anche se al momento è deserto. Già, dov’è che siamo? Alzo lo sguardo dalla rivista (Periodico Arte N° 273, maggio 1996), e mi rilasso mettendo le mani in tasca. Siamo alla mostra W.Y.S.I.W.Y.G. (What You See Is What You Get), dell’artista vicentino Enrico Mitrovich. Un luogo non interattivo: circostanza forse limitante per un redattore di un sito riguardante un medium interattivo, intento a visitare una mostra che riguarda un medium interattivo. Una sensazione fredda, di schermate abitualmente pulsanti, accompagnate da una rumorosità che si tende a ricordare con affetto. Davanti a me, invece, solo schermate morte. Nel mondo di WYSIWYG, il Videogioco si è fermato qualche secondo a riflettere. O, meglio, si è fermato perché qualcuno lo ha fermato per mettersi a riflettere. Nel mezzo di un eclettismo tecnico/formale che ha il pregio di non stancare l’occhio del visitatore (ma il difetto di non lasciare nel suo ricordo una particolare ammirazione per la padronanza di una tecnica particolare o per un tratto distintivo che risalti la paternità delle opere: l’impressione è quella di una collettiva a tema), cogliamo una stridente ridondanza tematica: stiamo ovviamente parlando di Pacman, presente in larga parte delle opere presentate. Il giallo fagocitatore che ben conosciamo è stato evidentemente fagocitato da Mitrovich, che lo propone travestendolo quasi da icona pop. Arte fotografica, incisione, pittura libera con influenze e citazioni che spaziano da De Chirico alla Neon Art: Pacman pare essere per Mitrovich quello che M.Monroe fu per Andy Warhol. Pacman come Marylin Monroe, perchè no? Icone POP. Verbo ‘to pop’: esplodere nel senso di affermarsi, di lasciare un marchio, di dilatare il proprio presente e caratterizzare un periodo. Di riconoscersi ed essere riconosciuti.
Verbo ‘to pop’: esplodere nel senso di decadere, di appassire dopo una gettata prematura, di consumarsi in una fiamma accesasi con troppa violenza. Di essere infine digeriti da chi del proprio mito si era nutrito e dissetato. Accadde a Marylin Monroe, a Pacman e accade oggi a tutte le altre icone pop. Stando alle vendite di Tomb Raider: Angel of Darkness, accade anche a quella Lara Croft che sei anni fa giganteggiava sul megaschermo del tour mondiale degli U2. Il tour dell’album POP, appunto.
Il Mitrovich che racconta Pacman veste i panni più dell’archeologo che del cronista, come sembrano suggerire alcune opere manifestamente incentrate sul tema dell’obsolescenza frutto di un mondo, quello dell’informatica, costantemente proteso verso la tecnoevoluzione ed il frenetico accantonamento di oggetti, termini e modi la cui attualità copre l’arco di pochi anni (se di più anni si tratta). La storia dell’informatica si scrive sulla sabbia di una spiaggia, sembra dire l’artista vicentino. Compito storico dell’icona pop è fornire un fotogramma del mondo a cui è appartenuta, ed è quindi forse alla poliedricità della nostra epoca che dobbiamo la (grande) quantità di punti di vista e prospettive dalle quali viene esaminato Pacman. Un’epoca lesta a divorare il concetto di privacy, a mescolare le appartenenze e a cancellare confini e linee guida. Lo stesso Pacman che divora la scritta ‘copyright’ vedrà la sua stessa originalità (che dipenda da grafica, gameplay o altro) fagocitata da altri che ne rimescoleranno le meccaniche, ne espanderanno il potenziale e ne determineranno l’obsolescenza. Lo stesso Pacman che divora la scritta ‘copyright’ è oggetto di una mostra che presenta tratti di pesante citazionismo. Volendo credere che si tratti di una scelta dovuta a motivi contenutistici e non meramente formali, si può vedere applicata la metafora videoludica all’amore ed al rapporto tra i sessi. Questione che parrebbe richiedere un trattamento di degna complessità, ma che con un po’ di cinismo si sarebbe tentati di ridurre ad una primitiva meccanica di accoppiamento animale, per quanta complessità la vanità umana tenti di dipingervi sopra. Ecco quindi l’irriverente accostamento tra la Lionello e la Principessa d’Este (opere di Pisanello esposte al Museo Lou-
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vre) e le due schermate videoludiche, che con gli opposti messaggi di completamento/game over sembrano attestare la riuscita/il fallimento di un’avventura galante o di un matrimonio nobiliare.
L’eclettismo formale concede a Mitrovich delle incursioni nel campo dell’incisione. Ad eccezione di alcune morsure libere, la tecnica impiegata tende ad assimilare queste ‘incursioni’ a dei raid di bombardamento, tanto violento e radicale è l’intervento sulla lastra. Queste caratteristiche impediscono una valutazione formale, ma lasciano scorgere nella natura nuda e metallica dell’opera un collegamento tangibile con la trattazione che essa contiene. Primitive schermate, fasi di boot di vecchi sistemi operativi, il canonico C:/ di DOS, ricordi primitivi e paleolitici per chi vive nell’era dell’user friendly. Come primitivo e ‘fisico’ ci parrà il ricordo di ciò che a livello informatico stiamo vivendo ora, in un futuro nel quale, secondo Nicholas Negroponte, ‘gli schermi dei computer verranno venduti a litri e dipinti sulle pareti. I CD-Rom saranno commestibili e gli elaboratori paralleli potranno essere applicati come le lozioni abbronzanti’. La descrizione di questi fotogrammi di paleo-informatica si adagia su programmi e icone del passato prossimo. Agli oggetti di questa mostra è precluso tanto lo sfavillare dell’innovazione quanto il rispetto che tipicamente si riserva al reperto: lungi dallo apparire storici, antichi o vecchi, sembrano semplicemente obsoleti nella loro semplicità. Semplicità, tuttavia, che consente un loro flessibile adattamento a tutte le istanze che l’artista ritiene di voler descrivere, tramite allegorie a tratti stimolanti, per quanto certamente non innovative o particolarmente geniali. Ma presto si fanno strada altre considerazionisu questa sensazione di obsolescenza. Mi chiedo se si tratti di un mondo videoludico (quello di Pacman e Missile Command) ormai preistorico, e assieme al quale, purtroppo, invecchiamo anche noi giocatori. … … Però non riesco a convincermene del tutto. Ho il sospetto che, se in quelle opere venisse raffigurato qualche simbolo videoludico di ultima generazione, la sensazione di obsolescenza non ne risulterebbe diminuita. Ridicolo pensare che derivi dalla mostra in sé: per quanto sicura dei propri mezzi e della propria competenza, Ring
:FRAMES: non si ritiene ancora all’altezza di dichiarare defunte le arti figurative. Idea improvvisa: la sensazione è dovuta all’accostamento delle due forme espressive. O meglio alla carcerazione che il medium videoludico subisce ad opera del medium raffigurativo. Il corpus Videogioco viene privato della sua componente sonora: viene privato della sua gioiosa dinamica; viene privato del suo fruitore, e viene imprigionato in una tela. Questa non è obsolescenza, concludo: questa è prigionia. E la colpa, sia chiaro, non è del povero Mitrovich. Lungi dall’aggiungere al videogioco qualcosa di altrimenti preclusogli (stati
Ring#10 gli straordinari progressi artistico/grafici testimoniati da prodotti quali Rez, Anubis: Zone of the Enders e Mojib Ribbon), la semplice raffigurazione offre spunti che, per quanto interessanti, non sono fuori dalla portata del videogioco. Non lo sono quando la convergenza è meno spinta (l’angoscia di Silent Hill 2 non invidia nulla a quella delle opere di Francis Bacon), a maggior ragione non lo sono quando la prima è piegata alla trattazione del secondo. Sbam! Mi è caduta per terra la rivista (Periodico Arte N° 273, maggio 1996). La raccolgo. Nella stessa pagina che leggevo prima, leggo alcune parole di Franco Tor-
rioni : “bisogna ricorrere all’idea di interfaccia. L’interfaccia è il punto, il marchingegno, l’essere che consente il dialogo con l’opera, permette all’opera di completarsi attraverso l’intervento di qualcuno previsto dall’artista. E’ il luogo del rapporto che si manifesta nella connessione di cui l’opera necessita” Questo sempre a proposito della neonata tecnoarte. Arte interattiva, per intenderci. ‘O possiamo anche chiamarli videogiochi?’, mi chiedo sorridendo mentre imbocco l’uscita.
dUE uOMINI e uNA mOSTRA (pER tACER dEL pACMAN)______
[Disco 2- Backstage]
«Soldato Palla di Lardo! Sei rivoltante! Sembri un capolavoro di arte moderna!» Sergente Maggiore Hartman, Full Metal Racket Ore 20.05, di ritorno dalla mostra sulla GunnyCar. Gatsu: buoni questi crostini al peperoncino Gunny: fanno una sega alle mie PATASTICK San Carlo Gatsu: allora, come pensi di strutturarlo questo articolo? Gunny: mah, qualcosa ci verrà in mente. Se proprio siamo ridotti male facciamo una specie di chat, dai. Ma se siamo così pezzenti tanto vale che ci licenziamo da Ring… Gatsu: allora, che ne pensi di questa mostra di Mitrovich? Gunny: si chiama WYSIWYG. E partiamo male… Gatsu: significa What You See Is What You Get. Forse è per quello che nel sito c’erano solo due foto... Gunny: NON COMINCIARE A DIRE CHE ABBIAMO BUTTATO NEL CESSO UN POMERIGGIO CHE TANTO LA BENZA LA PAGO IO, neeeh? Gatsu: quello che mi lascia un po’ perplesso è il reale valore artistico delle opere esposte. Ring dovrebbe essere felice per iniziative del genere, ma…il valore semantico…cioè, il messaggio veicolato…cioè, ma che minchia vuole sto Mitrovich?! Gunny: in pratica? Gatsu: non ho capito se i videogiochi li ama o li odia Gunny: non lo so. Per conoscere certi vecchi giochetti, qualche ora in sala giochi deve pur essersela fatta. Se vedesse nei videogiochi la piaga della modernità, credo che farebbe prima a buttare dal tetto qualche programmatore…magari vede nei videogiochi dei primi anni ’80 qualche meccanica base di quello che viviamo noi tutti i giorni. Sai, a volte gli artisti si accontentano di fotografare. Gatsu: ma perché ha la fissa di Pacman? Gunny: e perché Nemesis ha la fissa del papa con sei paia d’ali e la spada fiammeggiante? Gatsu: vero. Intendi dire che Pacman è una rappresentazione della nostra vita quotidiana? Ci chiudiamo in stanze buie, ingoiando pasticche e ascoltando musica
martellante per scappare dai nostri fantasmi interiori? Gunny: Ehi! Guarda quell’asino volante! Gatsu: È vero! Mi saluta! Gunny: 1-0 per Mitrovich. Comunque, magari il Pacman è ogni povero cristo che deve macinare le sue ore di lavoro per evitare che qualcun altro gli freghi il posto. Magari è il tizio che ogni giorno rischia di perdere il treno, e non si può permettere il taxi. Forte questa roba. Gatsu: solo il meglio per gli amici. Tornando a Mitrovich, stando alla biografia è net-artist, uno scenografo e un grafico. Perché dunque tutto questo minimalismo nelle sue opere? No, macchè minimalismo, qui è un po’ tutto una merda! Gunny: l’asino è esploso! Era pieno d’oro! Ferma la macchina! Gatsu: il volante ce l’hai tu, coglione. Gunny: ah, si, certo. Andiamo avanti Gatsu: parliamo un po’ delle singole opere. Perché Enter-Exit si chiama così? Gunny: perché anche quell’unico, povero stronzo che è ENTERato, vista quella, imbocca l’EXIT? Gatsu: mi sembra l’ipotesi più verosimile. E che dire dell’improba figura che da il nome al nostro rutilante articolo? Insomma, Mitrovich frega un quadro di De Chirico, lo appiccica sotto una schermata di Miss. Pacman, e per giunta incolla un coccodrillo Lacoste in punto assolutamente casuale. Ok che nell’altro quadro vediamo un Pacman assatanato che divora la scritta ‘Copyright’, ma Mitrovich non abusa un po’ troppo del copia e incolla? Gunny: esagerato, dai…la maggior parte delle opere sono farina del suo sacco. Gatsu: e ti sembra un bene? Gunny: … Gatsu: vabbè. Diamogli un’ultima chanche. Come si chiama questo disegnino sulla sabbia? Gunny: non so. Ti piace: Sgorbio su sabbia, ET sperma? Gatsu: non male. Ho un film che si chiama così. L’hai visto anche tu? Luciano de Crescenzo (attraverso il corpo di Gunny): no, mi riferivo al mito dell’Evirazione di Urano. Narrasi che la di Lui progenie (Zeus), stufa di reiterati cannibalismi, rimosse con un falcetto
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il di Lui prepuzio. Scaraventato esso che fu nei flutti limitrofi, ne nacque la divina Afrodite. Gunny, continua tu. Gunny: che il seme di Urano, misto ai flutti, sia ritornato sulla terra per dare vita ad un nuovo dio digitale? Che la cancellazione di un primitivo schema videoludico sia, come per l’Araba Fenice, preludio ad una trionfante rinascita? L’egemonia globale? Il dominio della finzione? Gatsu: gira la macchina: torniamo a raccogliere l’oro. Ehi…il trasmettitore…non l’avrai mica lasciato acceso? Gunny: ! Gatsu: stai scherzando?!!!! Gunny: ehm…coff coff. Attimo di silenzio Gatsu: ehehe, Enrico! Sei su Scherzi a Parte! Gunny: ci sei caduto, geniaccio che non sei altro! Bella lì per la mostra, veramente bella lì! Gatsu: e complimenti per il custode, un uomo di straordinaria levatura morale, che come vedi non ci ha lasciato fare foto… Gunny: …e che portamento, che fiero cipiglio e che virìl sguardo… Gatsu: deh, fico il realismo pittorico mistificato di quell’E-spressionismo citato da Nicholas Negroponte! Gunny: deh, più in la nel tempo gli schermi verranno venduti a litri e dipinti sulle pareti! Gatsu: deh, potremo pure vivere nei nostri computer! Gunny: deh, orari sabato-domenica: 17-19. Nei giorni di spettacolo… Gatsu: è finito il foglio, pirla!!! Gunny (sfregando una spazzola di plastica sul parabrezza per generare jamming audio) Mio Dio, le locuste!!! Gatsu, ci assalgono le locuste!!! Gatsu: Enricggggzgzg…non tgzgggzg…ti ritelefono il 30 febbraio! Bella lì, ancoraghzhzhzhzh Due ore dopo, a microfono spento Gatsu: dai, Gunny, chìssefòtte. Mandiamo stà roba in Mailing List, giusto per dimostrare che non abbiamo passato il pomeriggio a cazzeggiare. Gunny: massì. Tanto chi vuoi la pubblichi?
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Ring#10
fACES oF dEATH_____________________________________
[Manhunt]
di Matteo Bittanti Ora che ho giocato per un bel po' a Manhunt (nessun riferimento all'omonimo film di Fritz Lang) devo confessare che lo adoro. Come sapete, è un gioco malato. Davvero malato. Meglio: ‘marcio’, marcio come il ‘rotten’ di www.rotten.com. È pura malvagità su schermo. È l'equivalente videoludico di Texas Chainsaw Massacre (originale e remake). È letteralmente atroce, tuttavia non riesco a resistergli. Non mi è facile ammettere di apprezzarlo. Mi spiego: mi piace l'intrattenimento violento, anche se, per dire, preferisco Psycho a Henry Pioggia di Sangue, o Half Life a Doom e… no, questo non è del tutto vero. Half Life e Doom mi piacciono allo stesso modo. Inoltre, stiamo parlando di diverse esperienze di gioco: paragonare Doom a Half Life è come paragonare le mele alle arance. Ma sto divagando. O forse no... Ora che ci penso, perché sento il bisogno di giustificare il fatto che tragga piacere dal giocare a Manhunt? Sarà perché Manhunt glorifica apertamente la violenza? Sarà perché Manhunt non è altro che un esercizio di sadismo simulato, puro nichilismo su schermo? Perché Psycho invece cos'è? È altrettanto morboso, perverso, impressionante. Il fatto che lo abbia diretto Hitchcock non fa molta differenza. Tanto più che Hitchcock non era riconosciuto come un autore nei primi anni della sua carriera. Sono stati i critici francesi a fare di Hitchcock un artista e non un semplice artigiano (succederà anche ai tipi di Rockstar?). Inoltre, mentre Psycho è assurto allo status di cult, l'altrettanto sensazionale L’occhio che uccide (stesso anno: 1960) è stato universalmente condannato insieme al suo autore, ostracizzato dal mondo del cinema. Mi sto ancora chiedendo il perché. Sì, ho letto il famoso saggio di Laura Mulvey, ma non sono ancora completamente convinto.
Sarebbe facile liquidare Manhunt come un mero caso di ‘gamexploitation’, ma questo non ci aiuterebbe a comprendere il suo fascino oscuro. Né servirebbe liquidarlo dicendo che mette in scena una violenza ‘cattiva’, perché ciò implicherebbe l'esistenza di una certa ‘buona’ violenza. E voi potreste chiedere che cosa sia, precisamente, la violenza ‘buona’: la violenza di Medal of Honor è ‘buona’ perché è storicamente constestualizzata e giustificata a priori? Mmm… la violenza che trovate nei film di Tarantino è catartica? Divertente? Terrificante? Putrida? Ok, accantoniamo per un attimo il discorso. La “storia”, la “premessa” o comunque vogliate chiamarla, di Manhunt attinge a
molte fonti: L’Uomo in Fuga di Bachman (e il suo pietoso adattamento cinematografico, L’implacabile), i reality TV show, gli snuff movie “fittizi” come 8mm (Joel Schumacher) o Il cameraman e l’assassino (aka C'est arrivé près de chez vous, Rémy Belvaux and friends), The Most Dangerous Game (l'originale diretto da Irving Pichel e Ernest B. Schoedsack, non il remake del 1945), i filmacci come Final Round (1993 – quest'ultimo ricorda Manhunt a più livelli: il protagonista, Tyler Verdiccio, viene rapito e gettato in un complesso industriale abbandonato riconvertito in arena. Ripresi dalle telecamere di una trasmissione televisiva, dei mercenari gli daranno la caccia nel corso di un duello mortale che è l'evento principale per un giro di scommesse multi-milionario), la brutalità urbana ritratta in film come I Guerrieri della Notte (Walter Hill, 1978), gli ‘slasher movies’, Splatterhouse, Metal Gear Solid (le dinamiche stealth) e molti altri. James Earl Cash1 non è un eroe nel senso comune del termine. Per tutto il gioco viene definito ‘feccia’ dal suo torturatore, Starkweather. Dalla sicurezza del mio divano, annuisco e accetto per conto terzi di vivere la (cosiddetta) vita di James. Una vita di violenza estrema, brutalità e tormento fisico. Perché no? Manhunt è solo un gioco, o no? Le sue immagini, per quanto rappresentative e intense, esistono in una dimensione separata dalla realtà (a meno che il postmodernismo non sia per voi un motivo di fanatismo). Eppure mi rendo conto che qui c'è qualcosa di sbagliato. C'è del marcio in Scozia. Da una parte, il joypad si impossessa di me: sono il padrone del massacro, il re della distruzione. Mi piace uccidere e ricevo buone valutazioni se il mio stile e la mia tecnica sono sufficientemente depravate. Allo stesso tempo, il joypad mi logora. Non mi offre nessuna chance di negoziare una fuga da Carcer City. Mi costringe a massacrare, a meno che non voglia essere pestato o mi nasconda nell'ombra sperando che le gang non mi trovino. A differenza di Vice City (al cui concepimento ha contribuito James Worrall, uno degli autori di Manhunt), questa antiutopia urbana non è presentata in un ambiente rassicurante come le buche di sabbia in cui giocano i bambini. Suppongo che un ‘carcer' (evidente derivazione dell'italiano ‘carcere’: uno degli autori di Manhunt è italiano, Christian Cantamessa) non conceda molta libertà, quindi non sorprende che la struttura di gioco sia fondamentalmente lineare (leggi: ‘ingabbiata’). Carcer City è una città industriale decaduta (non infernale come Milano, ma quasi), un desolato ambiente urbano trasformato in immenso set cinematografico. Manhunt offre gore a quintali, eppure non lesina in suspense. Il radar, il battito cardiaco, gli agguati... La tensione è sempre elevata e aiuta a bilanciare l'inevitabile ripetitività e monotonia dell'azione. Ma a differenza dei film horror, in cui spesso verrebbe da coprirsi gli occhi, qui si vuole
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vedere sempre di più, bramando sempre più sangue. La logica sottostante a Manhunt è: se giochi “bene”, sarai ripagato con sequenze visive estreme (Mortal Kombat anyone?). Ciò che rende il gioco attanagliante è che un solo errore può essere fatale: questo lo sanno i game designer, lo sa il giocatore, e perfino James pare esserne spaventosamente consapevole. Manhunt è Darwinismo applicato: una lotta per la sopravvivenza in un contesto mediatico (TV, TV via cavo) saturo. Sì, in un certo senso, Manhunt è inquadrabile come una parodia del voyeurismo mediatico. À la 15 Minuti: follia omicida a New York o Contenders: serie 7 (o anche La Decima Vittima, il capolavoro di Petri, 1967), ma in maniera ancora più cupa, feroce e perversa. Il gioco è un interminabile incubo, una successione di sequenze non interattive (innescate dal giocatore) cui si assisterebbe normalmente in uno slasher movie e/o in un ‘video nasty’. Ogni esecuzione è seguita da un commento caustico di Starkweather, la cui fame di morti spettacolari sembra insaziabile. Starkweather non è dissimile dai commentatori di show grotteschi come Real TV: è altrettanto morboso, sordido, sinistro (no, non altrettanto ipocrita, ma nessuno è perfetto). È il classico animale televisivo (pensate al giornalista TV interpretato da Robert Downey Jr. in Natural Born Killers… hey, anche in Manhunt c'è una giornalista: cerca di realizzare un servizio televisivo con intervista a Cash, così da far bella mostra del suo snuff e lanciare la sua carriera... si sa, è un mondo cinico). Le telecamere di Starkweather sono invadenti e invasive. Non sono semplici occhi che osservano. Ricercano attivamente il sangue. Sanguinano loro stesse... Manhunt è divertente. Manhunt è brillante. Manhunt è malvagio perché combina perfettamente i videogiochi e la TV: si gioca per guardare le cutscene (e non per fuggire da Carcer City, cosa che porrebbe fine alle cutscene...), per ottenere sempre di più, sempre più gore. Giocare a un titolo come questo mi porta a chiedermi se i videogiochi siano intrinsecamente e insitamente violenti (dopotutto William Higinbotham non era un santo, giusto?). Manhunt è destabilizzante e pericoloso. Manhunt è una litania di macelleria ludica. Infastidisce non perché sia sadico o incoraggi apertamente comportamenti violenti. Sono confuso dalla mia persistente fascinazione per Manhunt: scoprire perché sono attratto da omicidi in serie fittizi costituisce un intrattenimento alla pari del gioco, forse anche migliore. Mmm... che sia questo l'effetto più potente dei videogiochi, e cioè che costringono il giocatore a riconsiderare, rivalutare e ristabilire i suoi valori morali ed estetici? Urge un'ulteriore investigazione. Io credo fermamente che i videogiochi non istighino alla violenza. Fanno molto di più: istigano a pensare. E questo è il vero pericolo.
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Aggressively Mediocre / Mentally Challenged / Outrageously Violent «Si stava trasformando in un nuovo tipo di fanatico, che necessitava la fantasia della violenza assoluta, e si sentiva completamente vivo solo quando riusciva ad immaginarsi autore di spaventosi crimini?» J.G. Ballard, Millennium People, 2003 Carcer City è perduta, lugubre, tossica. I suoi ambienti - tetri viottoli, scheletriche aree industriali e decadenti edifici abbandonati - sono popolati da criminali, cadaveri, ratti, e qualche corvo. Pensate alla New York apocalittica di Carpenter, però peggiore. Pensate alla Milano di oggi e ve ne farete un'idea. Ma la cosa buffa è che, dopo qualche giorno di "soggiorno" a Carcer City, non la trovavo più terrificante. Neanche accogliente, però tranquilla. Mi sono già desensibilizzato? No, è qualcosa di più: è che io sono milanese. Questa notte, tornando a casa dall'università, mi sono reso conto ancora una volta che la vita ‘reale’ è molto più immorale dei videogiochi più violenti. Per ‘vita reale’ non intendo gli aeroplani carichi di bombe. Non intendo i serial killer. Sto parlando dell'orrore quotidiano, quel tipo di orrore che accettiamo con riluttanza e diamo per scontato. Quello che diventa invisibile, trasparente, dilagante. L'orrore architettonico che ci circonda, per esempio - la bruttezza di Milano è insuperabile - la meschinità della gente di tutti i giorni nelle strade, nei negozi, nei mezzi pubblici...
In altre parole: Manhunt è innocuo, mentre la ‘vera’ Milano è immorale. Ciò che mi colpisce è che la gente sembra ossessionata dall'idea di mettere al bando i videogiochi (e i film, e i fumetti, e la musica...) mentre nessuno richiede la forma di censura più logica. Quella delle nostre brutte, meschine, sporche città. Manhunt è un gioco. La corruzione e la depravazione di Milano, sfortunatamente, sono terribilmente autentiche. Il suo insopportabile inquinamento è molto più pericoloso di tutti i criminali di Carcer City messi insieme. La maleducazione delle persone che abitano questo incubo urbano è molto più spaventosa della passione di Lionel per gli snuff movie. È l'ora di punta, e mentre scrivo sento lo strombazzare impazzito degli automobilisti bloccati nel traffico. Pensate all'inizio di Un giorno di ordinaria follia (ma la realtà, come al solito, supera la fantasia). Mi chiedo: che cos'è più disturbante: lo ‘strombazzare’ o la rappresentazione su schermo di omicidi virtuali, benché espliciti? Che cosa fa più paura, venire "uccisi" in Manhunt o venire investiti da qualche idiota a 80km/h che non si ferma per lasciare che i pedoni attraversino la strada (tendenzialmente l'80% degli automobilisti milanesi... la verità è che se un gioco come Manhunt può tenere gli idioti alla larga dalle strade della
verminosa Milano, presto andrò in giro a regalarlo un po’ a tutti)? Milano, proprio come Carcer City, non ha fascino, figuriamoci un'anima. Carcer City è ciò che sta diventando Milano. È Milano dopo il definitivo, imminente collasso.
Milano, Piazza Fontana, a due passi dal Duomo. Fermi tutti, sta squillando il telefono: è una giornalista di uno dei più venduti giornali italiani. Mi chiede se penso che Manhunt sia deplorevole. Rispondo “nient'affatto, ma Milano sì” lei sogghigna, e passa oltre “No, seriamente” ribadisco, “Sì seriamente”. Farfuglia qualcosa che non riesco a capire (qualche idiota sta strombazzando furiosamente) e poi chiude la conversazione. Amen. Sul minuscolo marciapiede, rapaci consumatori sono pronti ad ucciderti se rallenti la loro marcia verso il negozio più vicino (pensate a L'alba dei morti viventi di Romero). Atmosfera natalizia, che gioia. Nessuno sorride in Manhunt. Ma Milano è molto peggio. Le persone hanno uno sguardo rabbioso. L’ira trapela dai loro occhi (pensate a 28 giorni dopo di Danny Boyle). Stanno “working hard to order take away food” (l'ultima campagna pubblicitaria Diesel è genio puro). In Manhunt, puoi sottoporre le tue vittime a una serie di indicibili tormenti, noncurante di qualsiasi ragione perché la violenza in sé è irrazionale e la moralità non è un'opzione. Tuttavia, ritengo molto più umiliante essere sottoposto ai più veniali orrori della città. L'ironia è che molti richiedono la messa al bando di Carmageddon, Doom e Resident Evil. Produrrebbe un risultato infinitamente migliore la messa al bando dell'intera città, dal momento che manifesta a più livelli un'inclinazione alla violenza molto più pericolosa. Che cosa è più offensivo? Uno snuff movie simulato o file su file di automobili parcheggiate sul marciapiede? Che cosa è più dannoso? L'immagine di un avatar che strangola un altro personaggio virtuale con un pipistrello o l'aria irrespirabile di Milano? Che cosa è più umiliante, la rappresentazione virtuale di abusi fisici e avatar morti o la vera spazzatura e le pile di immondizia nelle strade? A voi la scelta. Manhunt è una metafora. Getta uno sguardo introspettivo nella cultura contemporanea: il gioco è molto più complesso di quanto si creda. Carcer City è solo un altro nome per le prigioni urbane che abbiamo costruito per noi stessi. Non sto difendendo la violenza per sé. È che la
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violenza in Manhunt è contestualizzata. La violenza reale – leggi: l’ira, l’aggressività e l’ostilità che pervadono la vita quotidiana – è pura pazzia, una combinazione di atti insensati che occasionalmente conducono a esplosioni di violenza indicibile. Manhunt offre uno storyline (molto esile, statene certi) che paradossalmente esplica la funzione della violenza (come accennato in precedenza, il gioco porta tra le sue mani lorde di sangue un messaggio ultra-Darwiniano, sta a voi accettarlo o meno). La sfrutta, naturalmente, e incoraggia fantasie di vendetta e ritorsione. Ma allo stesso tempo, consegna la chiave per decodificarla/interpretarla. È razionalizzata, a modo suo. La violenza reale, dal canto suo, raramente ha una logica. Il combattimento esplicito su schermo non è spaventoso quanto i conflitti metaforici che hanno luogo per le strade (inquinamento, traffico, il rumore assordante, l’anonimato, l’apatia, i crimini, l’ostilità generale). Il gioco si può spegnere, ma non si può isolarsi dall’atrocità della prigione, pardon, della città. __________________________Nota [1] James Earl Cash suona un po' come James Earl Ray, l'assassino di Martin Luther King, mi chiedo se la cosa sia voluta... Probabilmente sì, considerando che il nome di un altro personaggio, Lionel Starkeather aka “il regista” richiama il 'vero' criminale Charles Starkweather, scellerato omicida che insieme alla fidanzata Caril Fugate terrorizzò gli Stati Uniti dei tardi anni '50. La loro storia ispirò Natural Born Killers di Tarantino, pardon, Oliver Stone, ma anche Kalifornia di Dominic Sena e La rabbia giovane di Terrence Malick.
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oRCHITE aCUTA___ [Spellcross] di Gunny
Spellcross è un RTS per PC dove armate di orchi e nani affrontano plotoni di carri armati in un maldestro scenario post-atomico. Trama zero. Grafica di merda. Autobotti di bugs. Voto D, più Scatarro Ringhico creato per l'occasione (bello giallo e pastoso, gocciolante sopra il voto. Magari con residuo di colazione a casa Emalord).
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mONETINE e cANNONCINI pER iL cAMERATA gANDHI _________
[Sid Meier’s Civilization]
di Paolo Ruffino Una commedia in tre atti dai toni forti adatta ad un pubblico impegnato
Ouverture Perché parlare di Civilization? Cosa c’è da approfondire in un’opera del genere, che non si pone l’obiettivo di raccontarci una storia, non ha dei personaggi, ma vuole solo farci giocare? Per discutere di qualcosa bisogna che questa veicoli un messaggio, ma che razza di messaggio lancia Civilization? L’idea alla base di questo indepth è che ogni opera umana sia ideologicamente carica, per il semplice fatto che alle sue spalle c’è un individuo pensante. E se c’è un’ideologia c’è qualcosa da studiare, di cui discutere. Se è stato fatto da un uomo, avrà al suo interno il modo di pensare di quell’uomo, la sua cultura. Anche se Sid Meier non avesse voluto trasmettere nulla il fatto stesso che abbia deciso di fare un videogioco e l’abbia fatto esattamente in quel modo, che abbia fatto determinate scelte per rappresentare elementi diversi, ci sta parlando di lui e del mondo che gli sta dietro.
Allora, se accettiamo quanto detto, dobbiamo considerare Civilization meritevole di uno studio: Sid Meier, nel tentativo di farci giocare con la Storia, ci sta fornendo una sua interpretazione di questa, che ne sia consapevole o meno. E poiché una riflessione sul progresso umano si deve portare appresso anche delle riflessioni sulla Geografia, sulla Politica, sull’Economia, sull’Antropologia, e chi più ne ha più ne metta, allora un’analisi di Civilization dovrà prendere in considerazione anche il modo in cui l’autore le ha volute rappresentare, anche (e forse soprattutto) nel caso in cui queste siano state del tutto omesse. A questo punto diventa davvero interessante cercare di capire come un semplice videogioco abbia fatto i conti con questo fardello: rappresentare la Storia dell’uomo, e giocare con questa. Nel caso vi fosse venuto in mente, per citare Magritte, questa non è una pip(p)a.
1- Il giocatore Il player di Civilization è una figura più complessa di quel che può apparire ad una prima occhiata. Innanzitutto il gioco si mostra simile, nell’interfaccia e nella grafica, a Populus di Peter Molyneux o Sim City di Will Wright. Ma il giocatore non è né un dio né un sindaco: è il governatore di una civiltà. Inoltre, non si trova tra le mani un videogioco “infinito”, persistente: c’è un inizio del gioco ed un obiettivo da raggiungere, non ci si può sbizzarrire più di tanto con le sue componenti. Se il player di Sim City ha tra le mani una scatola di Lego che può montare e smontare a piacimento, quello di Civilization non si trova in un terreno di gioco libero. Will Wright, citato da Bittanti1, ha definito i titoli della sua serie “Sim” dei “software toy”, dei “software giocattoli”, proprio per sottolinearne l’aspetto dinamico e fluido adatto ad un’interazione creativa. Civilization è molto più lineare: le diverse strade per la vittoria2 che vengono offerte sono tutte riconducibili al concetto di “uccidi o sarai ucciso”. Gli obiettivi sono univoci ed inequivocabili ed il gioco non si adatta a tutte le idee malsane che possono frullare nella testa del player: allontanarsi dalla “retta via” significa semplicemente non poter fare tutto quello che si vorrebbe. Se per esempio ci si volesse divertire a razziare i campi arati degli avversari si dovrebbe attuare un’attenta politica economica tale da consentire il sostegno di molte truppe, oltre che “switchare” ad una forma di governo adeguata. Niente affatto semplice. Distruggere col bulldozer gli edifici o torturare i propri fedeli/sudditi non sono azioni possibili in Civilization. William Stephenson3 nota come sia possibile giocare in modo deviante attraverso i “cheat mode” attivabili dall’appo-
sito menu. In realtà, mi sembrano più che altro delle aggiunte per far divertire chi ha già esplorato tutti i segreti del titolo Microprose, o degli strumenti per studiare la meccanica del gioco, niente di più. Stephenson trova nel cheat “Set Human Player”, che permette di passare al controllo di una civiltà nemica, o nell’ “Edit King”, che consente di modificare la politica di un sovrano avversario, dei punti di partenza per una riflessione critica su “come funziona il mondo”. Come cercherò di dimostrare, il titolo di Meier è abbastanza lontano da una consapevole funzione critica, che può essere tutt’al più trovata ad un livello sottocutaneo. Un altro aspetto che ci sembra fondamentale sottolineare è la riduzione del player a puro calcolatore. Non avendo spazio per soluzioni creative, il giocatore di Civilization non dovrà fare altro che elaborare i risultati ottenuti e confrontarli con l’obiettivo che si è prefissato di raggiungere, e di conseguenza orientare le sue azioni in base alla differenza che si è venuta a creare tra questi due. Niente di più e niente di meno dell’automa di Wiener4. Niente di più, perché mai come in Civilization “pensare troppo fa male”, e niente di meno, se si vuole vincere la partita. Lo stesso Wiener, parlando di “Monopoli” (ma il discorso si adatta benissimo anche a Civilization) nota come “esso è rigorosamente soggetto alla teoria generale dei giochi, sviluppata da von Neumann e Morgenstern. Questa teoria si basa sul presupposto che ogni giocatore, ad ogni stadio del gioco, in base all’informazione di cui in quel momento dispone, gioca secondo una politica del tutto razionale che gli assicura alla fine la massima vincita possibile”. L’opera di Meier la si padroneggia quando si riesce a scomporre l’obiettivo finale in tanti go-
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als uno successivo all’altro, e quando si riesce ad adattare quest’ultimi ai continui mutamenti delle forze in campo. Ted Friedman5 sottolinea come questo processo diventi sempre più veloce ed immediato man mano che il giocatore diventa esperto, fino a farlo entrare in una sorta di simbiosi con l’elaboratore elettronico. In effetti se nelle prime fasi di gioco le variabili da calcolare sono poche, le fasi finali (generalmente l’ultimo secolo) vedono talmente tante unità attive, rapporti diplomatici infuocati e disperate corse ad Alpha Centauri che sarebbe impossibile tenere sott’occhio ogni input. Si comincia ad agire quasi d’istinto, ma se non si è abbastanza esperti si pone anche meno attenzione ai dettagli e si comincia a perdere… Bittanti1, notando come la defecazione abbia grande importanza nell’analisi della cultura contemporanea, sottolinea la vicinanza di questa con il flusso continuo di input-output che caratterizza l’automa di Wiener. Baudrillard, citato dallo stesso Bittanti, spiega che “se l’ipocondria è l’ossessione puntualizzata sulla circolazione delle sostanze e sulla funzionalità degli organi primari, in una certa misura si potrebbe definire l’uomo moderno, il cibernetico, un ipocondriaco cerebrale, ossessionato dall’assolutezza della circolazione dei messaggi”. Ora, se pensiamo che in Civilization per far crescere le proprie città, e dunque la propria civiltà, bisogna dare ai cittadini prima da mangiare, e poi un acquedotto e un sistema fognario, ecco che il (ri)ciclo è completo: l’automa, il cyborg, così come l’uomo moderno ed i pupazzi di Sid Meier, vivono, prosperano e sono in pace con se stessi se mangiano e cagano una volta al dì…
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2- Tesi: giochiamo con la Storia Civilization può essere paragonato ad una partita a scacchi, solo con molte più variabili in campo. Non è un caso se gli scacchi sono stati, da sempre, il gioco preferito degli studiosi di Intelligenza Artificiale: sono abbastanza complessi da non risultare banali, ma mantengono la loro dimensione rigorosamente logica. Una partita a scacchi, come una sessione di Civilization, può essere astratta e rappresentata con dei numeri. Ma cosa permette questa astrazione? Il fatto che sono entrambi dei giochi costruiti in modo razionale, e non c’è possibilità di fraintendimento in nessuno dei due. Se è scacco matto è scacco matto, ogni azione è possibile o non è possibile. Ricordo con una certa inquietudine un gioco da tavola della mia infanzia. Molti di voi lo avranno bene in mente, si chiamava “L’Isola di Fuoco”. Per un anno andò davvero a ruba perché offriva qualcosa di diverso dagli altri giochi. Quel qualcosa, adesso che sono cresciuto, credo di poterlo definire. In alcuni momenti un giocatore poteva far cadere delle biglie, che rappresentavano delle palle di fuoco, lungo il percorso. I giocatori colpiti dovevano ripartire da delle caselle arretrate e saltare un turno (sì, a ripensarci era soltanto una versione avanzata del “Gioco dell’Oca”…). Il lancio della biglia portava in sé qualcosa di originale, aggiungeva infatti in un gioco del tutto matematico un elemento impossibile da astrarre: posso dire con certezza in quale casella mi trovo, posso esprimere il numero del lancio del dado e le conseguenze di una carta, ma cos’è che mi fa dire con assoluta certezza quando la Palla di Fuoco ha colpito il mio omino? “Toccare” non è un’azione univoca, così come non è sempre uguale a se stessa la caduta della biglia. Questo, che non è altro che un passaggio da una mentalità digitale ad una analogica, causava non pochi litigi tra i bambini. La sorte di un pupazzino che era stato sfiorato dalla biglia non era prevista dal regolamento, e veniva stabilita da uno scontro dialettico che chiamava in causa la Teoria della Relatività e la geometria euclidea. L’esempio ci aiuta (mi auguro) a capire cosa NON accade in Civilization: non esiste “sfiorare”, non esistono biglie dal moto sempre diverso a se stesso. Le uni-
tà sono o in una casella o in un’altra, morte o vive. Ma allora, se accettiamo questa considerazione, come possiamo pretendere di parlare della Storia attraverso un sistema binario così rigido? La Storia è ricca di contraddizioni, è fatta da uomini che provano dei sentimenti, e non possiamo rappresentare la ricchezza di un sentimento attraverso un gioco così strutturato. Un gioco non può fare a meno dell’univocità. L’”Isola di Fuoco” aveva quell’eccezione, ma per il resto non si tirava fuori da questa legge generale. Il motivo per cui i videogiochi esaltano l’assunto appena esposto deriva, a mio modesto parere, dalla necessità del controllo. Le teorie di Wiener non ci permettono di costruire un automa se questo non è in grado di astrarre la realtà. Un movimento sarà da un punto A ad un punto B, in cui A e B sono dati e non si possono confondere tra loro. Allo stesso modo non è immaginabile un videogioco che ponga degli obiettivi che non sono chiari: possono non esserlo al giocatore, ma ci saranno sempre delle condizioni esatte al cui raggiungimento la partita sarà vinta (o persa). Scontrandosi con questa realtà dei fatti, il gioco di Sid Meier cade nel ridicolo. Nel suo tentativo di rappresentare degli avvenimenti storici, la complessità della gestione di uno stato, il progresso scientifico e quant’altro, non riesce a fare a meno di ridurre il tutto ai minimi termini, in modo che sia controllabile. Per esempio, riduce i cittadini di una nazione a semplice numero. Il dissenso non è altro che una certa percentuale di unità segnate in rosso. A tutti gli effetti si può dire che in Civilization vengono rappresentati degli stati, ma nessuna nazione, dove ovviamente con nazione si intende la comunità di persone che condividono consapevolmente un patrimonio di credenze, costumi, tradizioni storiche e linguistiche, mentre lo stato è la mera entità tecnico giuridica. I nostri sudditi (o compagni, o cittadini, a seconda del tipo di governo scelto) sono numeri, non uomini. Già questo preclude la possibilità di vederli protagonisti del Gioco della Storia. Civilization inoltre offende le culture riducendo le popolazioni a giocatori pressoché indifferenti. I Cinesi, come i Sioux
e gli Indiani, avranno tutti un bell’aspetto da WASP, e il loro comportamento quando controllati dalla CPU sarà dettato da un buffissimo pregiudizio sommario: i Giapponesi cercheranno di perfezionare il progresso tecnologico, i Mongoli saranno bellicosi, gli Spagnoli espansionisti… Altro aspetto curioso è la rappresentazione del tempo. Gli anni che passano sono un modo per indicare lo scorrere dei turni di gioco. In tutto il mondo si adotta lo stesso calendario, che parte dal 4.000 a.C e termina nel 2020 d.C (ma, accidenti, nel gioco non c’è la nascita di Cristo!). L’Arte, la Religione e il Colosseo hanno tutti la stessa funzione: far felice il popolo. Una buona gestione della propria civiltà deve tenere in considerazione le massime di “panem et circenses” e “si vis pacem, para bellum”, come se si potesse ridurre la crescita di un popolo a degli assunti, eccessivamente semplificatori oltre che carichi di cinismo. Si potrebbe obiettare che non poteva che essere così: come si può realizzare un gioco che prenda in considerazione ogni sfumatura del reale, e mantenerlo divertente? Non sarebbe divertente proprio perché ci sfuggirebbe di mano, come si può controllare la reazione del mondo di fronte ad un qualunque avvenimento? La si può prevedere, ma non ne possiamo essere certi. Il problema è che il videogioco si basa solo su certezze… Allora possiamo concludere che il videogioco è in uno scacco: non può pretendere di far riflettere, perché è digitale, è costruito su un linguaggio binario, mentre qualunque forma di riflessione è sfuggevole come tutto quello che è analogico. La critica può ammettere qualcosa ma anche il suo contrario. Il videogioco No.
3- Antitesi e Sintesi: deus ex(tra) machina O Sì? Non è che forse siamo soltanto abituati così, e non riusciamo ad immaginare nulla di diverso? Gli studi sull’Intelligenza Artificiale si sono scontrati con una lunga serie di difficoltà quando si sono posti il problema di rappresentare i cosiddetti bias cognitivi, cioè gli errori nel calcolo della probabilità che tutti gli uomini compiono normalmente. Si è calcolato ad esempio che di fronte a casi di probabilità condizionata (cioè probabilità che accada un evento condizionato dal successo di un altro evento precedente) un soggetto non compie il calcolo necessario a stimare le reali possibilità di successo6 ma si affida ad una specie di intuito. Come rappresentare questo intuito in una macchina, che invece calcolerà automaticamente la probabilità, anche attraverso un’elabora-
zione complessa? Per assurdo, in alcuni casi, le routine di IA non riproducono una mente umana perché troppo perfette… Ma è questo il nostro problema? O siamo forse caduti in un equivoco, cercando di sviscerare questo Civilization, che ci ha portato sulla cattiva strada? A pensarci bene (ma neanche troppo bene) un indizio per uscire da questo tunnel ce l’abbiamo sotto gli occhi. Questo testo vi sta facendo riflettere, mi auguro, e se così non fosse ricordatevi l’ultimo testo scritto che vi ha fatto pensare. Non è costruito, anche un testo scritto, come un videogioco, cioè da unità distinte? Le singole lettere sono unità discrete, e non esiste possibilità di confonderle tra di loro. Eppure, nonostante questa “rigidità”, un testo scritto può essere critico, ammettere una tesi ma
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anche il suo contrario. In poche parole, far riflettere. Sid Meier è un puzzone, perché si è voluto impegnare in un progetto immenso con dei mezzi antiquati, per nulla diversi da quelli di chi fa dei videogiochi normalissimi. Ha voluto farci giocare con la Storia come se fosse un attacco ad una base aliena, come una partita di tennis, come fosse un puzzle. Come se si trattasse di un videogioco qualunque. Nel farlo, pur creando un’opera immensa dal punto di vista prettamente ludico, ha rafforzato la credenza che abbiamo appena analizzato secondo la quale un videogioco non può rappresentare qualcosa di illogico, paradossale, contraddittorio o irrazionale. Tecnicamente questo non è possibile, ma diventa possibile se
:INDEPTH: spostiamo la riflessione “dentro” il giocatore. Un testo scritto può far scattare una scintilla nel lettore, abbiamo detto. Come può ottenere lo stesso effetto un videogioco? Il gameplay, che distingue il mezzo videoludico, può avere una funzione critica. I controlli del gioco possono catturare una sensazione, basti pensare, per fare un esempio, ad Italiani brava gente7 in cui la semplicissima meccanica
Ring#10 riesce a dare quella sensazione di precarietà con cui gli immigrati approdano sulle coste italiane. Sulle navi dell’opera di Antonio Riello “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”… Qui non è il videogioco di per sé ad avere qualcosa di speciale, è il player a leggere il testo e a commuoversi. Altro caso emblematico analizzato sulle pagine di Ring è quello di Ico, che secondo DarknessHeir è “il primo titolo in
grado di comunicare il proprio significato attraverso il gameplay” (cfr.Ring#2). Ma è chiaro che non sono i comandi di per sé a caricare l’opera di senso, ma l’interazione, il modo in cui si fruisce di questa. La soluzione, per concludere, non è nel gioco ma nel giocatore.
Conclusioni: e tutti vissero felici e confusi Alcuni osservatori del gioco di Meier vi hanno voluto vedere una critica al capitalismo, altri una sua esaltazione, altri ancora entrambe le cose. Ma appare evidente come nelle intenzioni di Meier non ci fosse nulla di tutto questo: le riflessioni che ne traiamo sono personali interpretazioni che, per quanto interessanti, non trovano riscontro nella concezione che ha l’autore del mezzo videogioco. Per esprimere un giudizio su un videogioco, come per qualunque altra opera umana, mi sembra sia fondamentale cercare di comprendere l’intenzione dell’autore. Provare ad estrapolarla tra le righe, quando questa non fosse evidente. In Civilization, per quanto mi sono sforzato, non ho trovato nulla che andasse oltre il gioco: l’intenzione di Sid Meier era far divertire i giocatori e, diamine, c’è riuscito in pieno! Quindi non c’è spazio per l’accusa: l’imputato è innocente, candido come una colomba. Mi permetto però di esprimere, alla luce di quanto detto in questo Indepth, alcune considerazioni. Sid Meier poteva creare qualcosa di nuovo, e invece si è limitato a dare alla luce un videogioco eccezionale, ma sostanzialmente uguale
a tutti gli altri videogiochi. Riallacciandoci all’ouverture, possiamo dire che l’omissione di qualunque riflessione sulla Storia è indice di una concezione del videogioco limitata: essenzialmente Meier sottovaluta il mezzo che sta usando. Ci vuole far giocare con il progresso umano, ma in realtà ci mette davanti ad un percorso a tappe in cui viene riprodotto l’evolversi di una sola cultura. Per cui, sia che interpretiamo i Cinesi o gli Americani, dovremo scoprire il Codice di Leggi, la Scrittura, il Laboratorio di Leonardo… Non ci viene data la possibilità di costruire una cultura davvero nostra, in cui non venga mai realizzato un sistema di scrittura , in cui non domini il pensiero sequenziale, in cui Newton non sia mai esistito. Perché non ci viene data la possibilità di costruire le nostre Wonders of the World, ma solo di ripetere quelle che abbiamo letto sui libri di scuola? Questi pochi indizi potrebbero riaprire un processo a Civilizaton, in cui l’accusa sarebbe appunto di omissione e sottovalutazione del mezzo. Sid Meier non si rende conto di quanto sia razzista la sua opera: stabilire un unico modello di pro-
gresso è quanto di più aberrante si possa immaginare.
Un gioco in cui io possa creare da zero nuovi modi di vivere e di pensare sarebbe davvero una riflessione sui processi culturali, e dunque sulla diversità. Sarebbe una riflessione sulla Storia, sugli infiniti modi in cui questa può svolgersi. E, come riflessione sulla Storia, si porterebbe appresso anche una riflessione sulla Geografia, la Politica, l’Economia, la Sociologia…
Note [1] In The Sims: Similitudini, Simboli e Simulacri, Unicopli editore [2] Si può vincere o sopprimendo le civiltà avversarie con le armi, o superandole in tecnologia arrivando per primi a costruire una base su Alpha Centauri. Ma anche questa seconda soluzione non concepisce il progresso scientifico come buono di per se, da chiunque venga. La Cura per il Cancro rende felice solo il popolo che l’ha scoperta, anche se in teoria ne dovrebbe beneficiare il mondo intero. Da qui derivano tattiche, più o meno viscide, di sopraffazione dell’avversario: posso non avere un grande esercito, ma allora mi dovrò preoccupare di convincere altri a far la guerra contro chi mi sta “antipatico”. [3] The Microserfs are revolting: Sid Meier’s Civilization2, in Bad Subjects #45, Ottobre 1999 http://eserver.org/bs/45/stephenson.html [4] Nel suo “La cibernetica: controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina” Il Saggiatore, 1968, Norbert Wiener concentra i suoi studi sui modi in cui gli esseri viventi controllano la proprie azioni, e teorizza la riproduzione in una macchina di questi processi. Impegnato per conto del Ministero della Difesa degli Stati Uniti nel capire come si potessero creare dei missili capaci di orientare il proprio movimento in direzione di un obiettivo, Wiener giunge alla conclusione che nei processi di controllo abbiamo un flusso di informazioni che reinserisce i dati in uscita come dati in ingresso. Detto con parole umane, un automa deve essere dotato di sensori per analizzare la realtà esterna ed effettori per muoversi, agire. Una volta che gli è stato assegnato un obiettivo, i movimenti compiuti per raggiungerlo (output) vengono inseriti come input in modo che l’automa possa eventualmente modificare il suo movimento in base alla mutata situazione. Secondo Wiener, succede qualcosa di simile anche negli animali, negli uomini, in me e in te. Si crea quindi un flusso circolare continuo di informazioni che escono e rientrano, vengono rielaborate, riescono, e rientrano… [5] In Civilization and his discontents: Simulation, Subjectivity and Space, tratto da On a Silver Platter: CD-ROMs and the Promises of a New Technology, New York University Press http://www.gsu.edu/~jouejf/civ.htm Si tratta del cosiddetto Teorema di Bayes. http://www.giramondo.com/fia/artisti/riello/
Bibliografia Bittanti Matteo; The Sims: Similitudini, Simboli e Simulacri, Unicopli, 2003 Pessa Eliano, M. Pietronilla Penna; La rappresentazione della conoscenza. Introduzione alla Psicologia dei Processi Cognitivi, Armando editore, 2003 Pessa Eliano, M. Pietronilla Penna; Manuale di scienza cognitiva. Intelligenza artificiale classica e psicologia cognitiva, Editori Laterza, 2000 Wiener Norbert, La cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, Il Saggiatore di Alberto Mondatori Editore, 1968 Alcune delle immagini presenti nell’articolo sono tratte dal Civilization Fanatics Center (http://www.civfanatics.com/).
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:RECENSIONI:
Ring#10
Il sistema di valutazione di Ring (seconda e ultima apparizione su queste pagine) Il mondo sta cambiando: Bonolis surclassa quel pianto di Striscia la Notizia; un Nuovo Testamento si è aggiunto al Vecchio, ormai obsoleto; i film de Il Signore degli Anelli rimpiazzano il barboso romanzo. Anche il sistema di valutazione adottato da Ring subisce un aggiornamento. Dal numero 9 in poi l’Alphabetic Blessing Code (ABC) sarà sostituito dal Super Alphabetic Blessing Code Deluxe. Per amici e conoscenti: SABCD. Lo SABCD consta di cinque categorie valutative. Immaginate i verdetti di stilosità di Devil May Cry; immaginate le patenti assegnate da Crazy Taxi. Eh, siamo lì.
Vi trovate su una spiaggia. Il Gioco S vi passa davanti. Sta percorrendo il bagnasciuga a piedi nudi, i jeans avvolti sopra i polpacci, fino a giungere in prossimità di un solco tracciato sulla sabbia. Con assoluta nonchalance, il Gioco S cancella con il piede tale solco, poi compie qualche passo oltre lo stesso e traccia un’altra riga. Fuochi d’artificio saturano il cielo e, di riflesso, l’oceano. Le tartarughe ballano allegre il tip tap sopra le uova appena deposte. I gab-
biani in formazione a delta cagano fumo come le frecce tricolore. Takeshi Kitano si suicida con una ritrovata felicità. Un Gioco S punta alla rivoluzione e taglia la testa ai precedenti regnanti. Queso può avvenire grazie ad un concept innovativo o, più semplicemente, introducendo nuovi e meravigliosi punti di vista in meccaniche già note.
Semplicemente grandioso. Un Gioco A è un prodotto di primissimo piano. Un progetto vincente che rimane assai positivamente impresso nei ricordi del giocatore, che ne conserverà la confezione sulla mensola, oppure non riporterà il DVD al negozio in cui l’ha noleggiato. L’errore più grande che si possa fare nel valutare un gioco è partire dal massimo dei voti per poi sot-
trarre punti ad ogni difetto riscontrato. Così si giudicano i compiti di latino; non i videogiochi. Un prodotto A non è quindi privo di magagne, ma se il redattore lo ha inserito in questa categoria significa che i pregi sono tali da porre in secondo piano i difetti, che a loro volta non influiscono poi molto sulla qualità dell’opera.
Niente male. Veramente niente male. Il Gioco B si lascia giocare e compie alla grande il suo porco dovere di intrattenitore, proponendo passaggi esaltanti e ponendo particolare cura più o meno in tutti i reparti. C’è però qualcosa che non va. Può trattarsi di difetti che incidono un po’ troppo sull’esperienza, ma
più genericamente un Gioco B è un prodotto che dall'inizio alla fine non riesce a guizzare fuori dalla qualità, per respirare una boccata di sublime eccellenza. Oppure dà la sensazione che manchi qualcosa, che ad un certo punto si accontenti di quello che già ha offerto e non approfondisca quanto potrebbe.
Un prodotto assolutamente sufficiente. Un passatempo in piena regola, senza lode né infamia. Giocare con un Gioco C non provoca particolari dolori intestinali, anzi, può addirittura essere divertente. Sul serio. Ma in genere, giunti al termine di un Gioco C, proprio durante i titoli di coda potreste pensare: “Ma
a cosa ho giocato? Come si chiamava il protagonista? Chi era quel coso a forma di coso che mi ha cosato tutte quelle cose?”. Non siete improvvisamente diventati il protagonista di Memento: avete semplicemente giocato ad un Gioco C.
Banalmente, un gioco brutto. Ring vuole troppo bene a se stessa e ai suoi lettori per recensire con premeditazione titoli come il sedicente Army Men: Omega Soldier. Ma la storia insegna che, come dice Tolkien, “le immonde porcate si celano anche in prodotti di alto blasone”, tipo l’ultima avventura della
signorina Croft oppure il secondo orrorifico viaggio di Dante (no, non stiamo parlando del Purgatorio). Le recensioni di Giochi D sono quindi da considerarsi come gli articoli di cronaca nera: un male necessario. Noi dobbiamo scriverle e voi dovete leggerle per sondare il ventre marcio di questo mercato.
Il Ring Seal ll Ring Seal identifica un gioco con particolari meriti e che, per una ragione o per l’altra, è stato snobbato dalla critica o dal pubblico. Sono giochi talvolta non eccellenti, ma che propongono un impianto emotivo o estetico notevole e coraggioso, e che Ring vuole consigliare ai propri lettori. Un Sigillo significa letteralmente: “Fidati, dài un occhio a questo titolo perché merita. Probabilmente sei troppo stupido per apprezzarlo, ma forse no”.
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:RECENSIONI:
Ring#10
qUELLI_cHE iL cONTRATTO_____________________________
[Drag on Dragoon]
di Amano76
.:scHEda:. gENERE Action eTICHETTA Square-Enix sVILUPPATORE Interno sISTEMA PS2 aNNO 2003 gIOCATORI 1 vERSIONE USA
Come è ormai di regola anche Drag on Dragoon fa sfoggio di due filmati introduttivi, uno completamente in CG e un altro montato con sequenze narrative presenti nell'avventura, ricco di suggerimenti inerenti alla strategia da applicare e ai drammatici eventi che attendono il giocatore. Molto inquietante la schermata iniziale in cui la voce di Furiae sussurra parole alla rinfusa, anticipando temi e colpi di scena della storia.
Il finale vero e proprio del gioco si sblocca solo dopo aver raccolto 100 armi, da ottenere a seconda di determinate condizioni. Un’impresa titanica, che non deve portare a pensare ad un semplice scappatoia per diluire la durata del gioco: entrare in possesso di ogni singola spada richiede la messa a frutto delle esperienze acquisite e non un semplice ripercorrere sentieri già battuti. La fatica sarà comunque ripagata da due micidiali filmati conclusivi, che valgono ogni singolo minuto speso a falciare truppe nemiche. Questa si che è meritocrazia.
A prima vista Drag on Dragoon sembra un clone da due soldi, con una trama ruffiana e un po' di filmati in CG tanto per far scena. Un titolo tutto fumo e niente arrosto che unisce il sistema di combattimento terrestre di Sangoku Muso (Dynasty Warriors in Occidente) a quello aereo di Panzer Dragoon. Il gioco è suddiviso in capitoli, ognuno dei quali associato ad una sezione picchiaduro o sparatutto che si intervallano a turno nel dipanarsi della vicenda. Peculiarità degli scontri a terra è il ricorso all'intervento di un drago con il tasto Select del pad, cui lasciare incendiare a volontà le truppe nemiche, forse l'unico vero elemento strategico che il gioco Cavia non eredita da nessun altro titolo. Ma Drag on Dragoon è solo questo? No. Assolutamente no. Drag-on Dragoon è ambientato in un mondo sconosciuto, la cui esistenza è preservata da quattro sigilli. Due di essi sono custoditi in appositi templi, un altro nel bosco in cui vive il popolo degli elfi, e l'ultimo è Furiae la Dea, una ragazza che vive in clausura pregando incessantemente per il bene del creato. A protezione di quest'ultima c'è Caim (l'alter-ego del giocatore), irascibile fratello di Furiae costantemente roso dall'odio per i draghi, responsabili della morte dei genitori. L'avventura ha inizio quando l'Impero, una forza militare con propositi espansionistici, all'improvviso guadagna terreno grazie alla leadership della piccola Mana (una bambina dagli occhi insanguinati) che a quanto pare ha preso di mira la sorella del protagonista: Caim guida le forze dell'Unione contro quelle dell'Impero, ormai alle porte del castello in cui è rinchiusa la Dea, ma nella mischia si attarda ad infierire su un cadavere e viene colpito a morte. Deciso a resistere fino alla fine si dirige verso le stanze della sorella, ma sulla sua strada trova un drago apparentemente ridotto in fin di vita da atroci torture. Trattenuto dall'odio ma spinto dall'istinto di sopravvivenza, Caim decide di legarsi alla creatura tramite un Contratto: i due uniranno le loro energie vitali e scamperanno al loro destino, il ragazzo a costo
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Una storia di Contratti e Stemmi In Drag on Dragoon esiste una singolare forma di patto esoterico: il Contratto. Sacrificando una parte del proprio essere si può entrare in possesso dei poteri di una determinata creatura, la cui esistenza diventa indissolubilmente legata al suo contraente. Una manifestazione palese di questa atipica convivenza è la barra vitale di Caim e del drago rosso, che è la stessa sia nelle missioni aeree che in quelle a terra. Altra particolarità è l'imposizione di uno stemma, che resta per sempre tatuato sulla parte del corpo che il contraente ha ceduto nel patto. Parte del fascino e degli enigmi che si celano nel prodotto Cavia viene anche dall'intuire sia il perché un determinato personaggio abbia sacrificato una determinata parte di sé sia cosa abbia sacrificato (a volte viene solo suggerito o lo stemma non è visibile). Esempio: Verdore [nella foto], sacerdote del culto della Dea, porta un sigillo in testa. Provate a immaginare cosa ha sacrificato (e perché) allo scopo di ottenere gli immensi poteri magici di cui dispone. Vi farete due risate (le uniche in tutto il gioco).
della propria voce e il drago a costo della propria libertà. Nel frattempo, però, Furiae viene sequestrata e Caim sarà costretto a mettersi sulle sue tracce assieme all'amico Inualt, un tempo promesso sposo della ragazza. Comincia così un inseguimento che presto si trasformerà in una battaglia per salvare il mondo... da Dio? Un po' Guerre Stellari (l'Impero) un po' Final Fantasy (i quattro sigilli) un po' Faust (il patto) un po' Evangelion (gli Angeli, l'Uovo della Reincarnazione), come nella sua identità ludica anche in quella iconografica Drag on Dragoon non
:RECENSIONI: parte esattamente da zero. Ma se l'operato di Cavia non è originale nel suo prologo, gli sviluppi che offre hanno la peculiarità, il coraggio tematico e la coerenza narrativa per distinguersi da tutti quei titoli, gli adventure Capcom in particolare, che sinora hanno tentato la via della fusione tra picchiaduro a scorrimento e narrazione cinematografica senza riuscirci. A questo si aggiunge un protagonista piuttosto sui generis, un cast di personaggi affascinanti e un’ambientazione fantasy che distorce i ruoli classici di draghi, fate, ed elfi. E non dimentichiamoci dei curiosi Contraenti che accompagnano Caim nelle sue imprese. Il primo Contraente che si unisce al giocatore è Leonart, un omaccione tanto nerboruto quanto codardo. Ha assistito all'omicidio dei suoi fratelli più piccoli per mano delle truppe imperiali, senza avere il coraggio di accorrere in loro soccorso. Non resistendo alla vista dei cadaveri straziati tenta il suicidio ma si procura una ferita che lo lascia morire lentamente. Così non appena una fata si offre di salvargli la vita, accetta senza intuire che il motivo per cui la creatura gli propone il Contratto è l'opportunità di tormentarlo in eterno per punire la sua vigliaccheria. Le fate della storia, infatti, odiano gli esseri umani, che considerano sporchi e puzzolenti, e come i draghi traggono enorme divertimento dalla loro sofferenza e dalla loro prevedibilità. Il secondo compagno è Arioch, un’elfa divenuta psicotica dopo la morte del marito e dei figli. Lo stato mentale in cui versa è talmente compromesso che non solo la rende cannibale, ma l'ha anche incapacitata a cogliere la natura del patto offertole dai due elementali Undine e Salamander, che l'hanno mantenuta in vita in cambio delle sue ovaie. Terzo e ultimo, infine, è il piccolo Seele, l'unico personaggio positivo del racconto: sensibile, ingenuo, innocente, offre in Contratto ad un golem il suo tempo (cioè la possibilità di crescere) senza rendersi conto che in questo modo resterà per sempre nel suo corpo di bambino. I destini dei tre vengono risucchiati da un mondo che improvvisamente chiede il riscatto per una pace durata anni, sbeffeggiati da entità soprannaturali che ridono delle loro croniche debolezze e che pongono al giocatore l'interrogativo sul rapporto tra uomo e sovrumano: le creature fantastiche devono essere adorate o devono essere temute? L'unica convivenza possibile è quella squilibrata dei Contratti?
Ring#08 Contraddizioni, perversioni, l'identità del coraggio, la fede come leggenda e la leggenda come consolazione. Tanti sono i temi e tanto ancora potrebbe essere detto sulla trama del gioco, che incrementa sfaccettature, indizi e legami ad ogni nuovo capitolo rinunciando a concedere tutto e subito allo spettatore. Nei combattimenti di massa Caim ha a disposizione un set di otto armi intercambiabili in tempo reale. Ad ognuna sono associati una magia e un colpo finale, cioè la possibilità di eseguire un attacco ad ampio raggio (a proiettile o ad onda d'urto) dopo un determinato numero di combo (dalle tre in su). Rispetto al progenitore Sangoku Muso, però, si riscontrano troppi passi falsi, ingiustificati data la paternità tanto diretta. Il radar fornisce informazioni troppo approssimative rispetto al titolo Koei, tanto che bisogna richiamare continuamente la mappa con il tasto L3 per capire in che direzione ci si sta dirigendo e verso quale zona, finendo con lo spezzettare incessantemente il ritmo di gioco; questo difetto, associato ad una telecamera bizzarra, crea sporadicamente situazioni di completa confusione piuttosto estenuanti. Le manovre evasive sono poi di scarsa convenienza strategica, in quanto l'unica schivata possibile è indirizzata lateralmente e non sempre permette di districarsi al di fuori di un accerchiamento. Imprecisa la guardia, che non di rado protegge dai colpi della minaccia meno immediata e finisce di regola con il risultare controproducente, a eccezione degli scontri con la cavalleria pesante durante i quali si rivela una risorsa inestimabile. Inammissibili infine l'assenza di un sistema di counter e di lock-on, che avrebbero permesso schivate più valide e concesso di aggirare un avversario per colpirlo dove più scoperto (alle spalle). La miglior difesa è l'attacco, sì, ma qui l'unica difesa è l'attacco. Fatte salve queste irritanti pecche, quello che resta è un sistema di combattimento che ha solo bisogno di essere decifrato. Avanzando lungo i capitoli del gioco la varietà e la strategia affiorano inequivocabili: gli avversari più coriacei possono essere immobilizzati da incantesimi e resi inermi per qualche secondo, viene richiesta la padronanza di ogni arma specifica, l'impiego a catena di magie e combo non solo è assimilabile con estrema rapidità ma è anche elementare da eseguire, e nelle missioni avanzate la tipologia di avversari che partecipa agli accerchiamenti diventa sempre
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Dicono di lui - Famitsu
8
Hamamura Tsushin: Ambientazione dark e approfondita. Pur di assistere alle immagini di alta qualità si procede a squarciare senza sosta. Piacevolmente come in Sangoku Muso. E che bello cavalcare il drago, avvolgendo le truppe a terra nel fuoco. Difficile dimenticare la gioia nel fare evolvere le armi sporcandole di sangue. Un piacere quasi febbrile che non si scambierebbe con nulla.
7
Kisshi Arayama: Fondamentalmente un picchiaduro di massa, ma paragonato ad opere dello stesso tipo si ha l'impressione che le soluzioni per rendere intrigante l'azione manchino leggermente di profondità. La sensazione di combattere a terra con l'aiuto del drago è relativamente originale. Notevoli la bellissima CG e il respiro cupo della storia.
7
Okamura Kisuko: Raccogliendo armi, elevandone le abilità e prendendo a calci le fila di soldati nemici si prova un gran piacere. Oltre a questo si resta molto coinvolti dalle battaglie col drago sia ad alta che a bassa quota. Anche la grafica con cui è rappresentata l'ambientazione è eccellente. La musica che accompagna l'azione è soltanto un loop che si ripete di continuo, ma soddisfa il suo ruolo nel comunicare ansia.
7
Haneda Takeyuki: Dalla fusione tra Sangoku Muso e Panzer Dragoon un risultato che fa saltare dalla sedia. Ciononostante ha origine qualche interrogativo. Salire in sella al drago? Sì, ma la visuale invece di aprirsi mostra solo gli avversari che si hanno di fronte e i terreni spogli si fanno notare ancor di più. Nel bene e nel male, semplice dall'inizio alla fine.
più eterogenea. Una volta intuito il funzionamento delle armi ci si ritrova ad attraversare le folle di soldati imperiali come dei macellai indemoniati, falciando chiunque sulla propria strada mentre il numero di combo sorpassa il centinaio e gli incantesimi fanno piovere meteoriti infuocati, scuotono la terra, o dissanguano i malcapitati tutt'intorno. E' anche possibile richiamare il drago negli spazi aperti in modo da sfruttarne la notevole potenza di fuoco, ma si tratta di una scappatoia di cui non approfittare: molte tipologie di avversari sono immuni
:RECENSIONI: ai suoi attacchi e gli arcieri possono disarcionare Caim dalla creatura in un solo colpo. Inoltre ricorrere al drago troppo frequentemente impedisce un regolare sviluppo delle capacità del protagonista e delle armi a disposizione, la cui potenza deve essere necessariamente incrementata al fine di avere ragione sui temibili avversari che popolano le missioni conclusive. Ulteriore elemento di varietà è la presenza dei Contraenti, che hanno il ruolo di "smart bomb" e si rivelano preziosissimi nelle missioni al chiuso, in cui il drago non può intervenire. Il loro utilizzo può apparire troppo favorevole nei confronti del giocatore, ma la circoscritta quantità di evocazioni possibili (solo tre) rende preferibile risparmiarne l'intervento per le situazioni disperate senza abusare del loro appoggio. Stessa situazione di iniziale insoddisfazione anche negli scontri aerei. Come in Panzer Dragoon è possibile compiere lock-on multipli, espellere colpi singoli di maggiore potenziale distruttivo ma più imprecisi, e attuare una spettacolare magia "a ricerca" che distrugge qualsiasi cosa trovi per la sua strada. Mancano invece la possibilità di far compiere un qualsiasi intervento a Caim (niente a che vedere con il gioco Sega) e un metodo per mutare le capacità del drago in tempo reale. A dire la verità il drago segue effettivamente un corso evolutivo accumulando punti esperienza, ma non vi è alcuna convenienza nel farlo regredire. Questa modalità sa comunque garantire le sue dosi di divertimento, proponendo una galleria di avversari che dispongono procedimenti d'attacco molto eterogenei fra loro e che quando si radunano combinano nel modo più letale possibile i loro interventi. Alcuni nemici hanno colpi lenti ma letali, altri hanno colpi deboli ma a ricerca, altri ancora devono prima avvicinarsi per poter infliggere danni, e altri ancora dispongono di sorprendenti capacità di evasione che costringono a frenetici inseguimenti. Gli autori hanno saputo quindi mescolare tutte queste particolarità individuali elaborando missioni dove pianificare i tempi e le sequenze con cui eseguire le tecniche d'attacco si rivela l'unica soluzione per oltrepassare il nemico. Un design piuttosto elementare ma con le proprie peculiarità e le proprie sfaccettature, che guadagna coinvolgimento tanto dalla sua varietà strategica quanto dall'estrema cura poligonale e dall'intenso gusto iconografico impartito a mostri e veicoli imperiali.
Ring#08 Particolare nota di merito per i confronti con i boss, tutti enormi e tutti duri a morire. Se è vero che si incontra qualche difficoltà nei combattimenti a terra, in quelli aerei gli avversari conclusivi non lasciano tregua e costringono a sfide all'ultimo sangue, manifestando ludicamente la loro natura sovrumana in sfide tese e impegnative.
Come è ormai di regola anche Drag on Dragoon fa sfoggio di due filmati introduttivi, uno completamente in CG e un altro montato con sequenze narrative presenti nell'avventura, ricco di suggerimenti inerenti alla strategia da applicare e ai drammatici eventi che attendono il giocatore. Molto inquietante la schermata iniziale in cui la voce di Furiae sussurra parole alla rinfusa, anticipando temi e colpi di scena della storia.
[Ring è] Corso rapido di game design per ottenebrati. Prima lezione: Survival Horror «I survival horror sono tutti uguali. Basta cambiare un attimo l'iconografia (da sanguinolento/pagana a sbudelloso/cristiana ecc.), sostituire un po' le armi e fare il solito protagonista timoroso/ mezzasega con qualche problema al cervello e qualche inciucio sessuale col diavolo alle spalle. Te lo faccio io un survival horror, in 5 minuti. Poi lo traduco in inglese con Google per dargli un effetto un po' psichedelico/disturbante.» Gunny
~ [Ring è] Uovo-gallina
Il fascino del titolo non è il massimo in fatto di immediatezza, questo è assodato: tanto lo sviluppo della trama quanto i due diversi sistemi di interazione richiedono la comprensione di determinati canoni per essere apprezzati. Il prodotto Square-Enix ha significato solo se lo si considera come somma delle sue parti e sulla breve distanza non regala particolari soddisfazioni né al giocatore né allo spettatore, improntato com'è su un crescendo tanto narrativo quanto strategico. Provarlo in una demo o studiarlo da un video raffazzonato non gli renderà alcuna giustizia: quest'opera non è un picchiaduro, non è uno sparatutto, non è un racconto. E' un punto di mezzo tra due estremi: l'aspetto narrativo non è integrato all'attività ludica come in Silent Hill, né l'aspetto strategico offre la miriade di sfaccettature di Devil May Cry; ma possiede il sistema di combattimento che a Silent Hill manca e una consistente trama che il titolo Capcom si sogna. Drag on Dragoon è una vera e propria videoesperienza, incentrata su quella eterna tragedia che è il sentimento non ricambiato: quello filiale, quello fraterno, quello romantico, quello amichevole. E quello tutto mondano dell'uomo, disperatamente intento a soddisfare un Dio che non lo ricompensa mai con l'amore (o i segni) che spera. Indimenticabile.
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«Parla di quello che è avvenuto prima di Gran Turismo 1.» Paolo Jumpman Ruffino, descrivendo Gran Turismo Prologue
~ [Ring è] Co(s)mico
Pessimismo
«È uno di quei periodi in cui se mi si avvicina un tizio e mi porge un pulsante dicendo "prego, avvii il format di questo Universo" pigio di brutto brutto brutto.» Nemesis Divina
~ [Ring è] Chiarezza «…Dubito seriamente che PSP cambierà le cose…» «…Che PSP cambierà molte cose è quasi sicuro, d'altronde sono Sony…» Nemesis Divina, a distanza di 24 ore.
:RECENSIONI:
Ring#10
lA cASTAGNA, sE lA cONOSCI lA eVITI____________________
[Mario & Luigi Superstar Saga]
di Gatsu .:scHEda:. gENERE Action RPG eTICHETTA Nintendo sVILUPPATORE Alpha Dream sISTEMA GBA aNNO 2003 gIOCATORI 1 vERSIONE europea
M&LSS si rivela fin dalla prima occhiata coloratissimo e pupazzoso. Non mancano sprite enormi come Bowser-Ghignarda e la corpulenta bionda ritratta nella foto.
I colpi di scena si susseguono copiosi. Come si evince dalla foto, Luigi svelerà finalmente le sue vere tendenze.
Il principe Fagiolino, splendente nella sua malcelata beltà, si congratula con un paracadutico Luigi.
____Cricetopo corazzato rotante Mario e Luigi si muovono all'unisono attraverso i meandri cupi del Bosco Ghigno. Una bacca castagna sorridente cade a terra, esplodendo in un tripudio di aculei. È impeto di vigliaccheria: la bacca castagna si scaglia senza pudore contro i due fratelli più celebri dei videogiochi. È scontro mortale. Ah, bastarda di una bacca castagna. Mario tira fuori dalla tasca un martello gigante, piroetta su se stesso e la riempie di mazzate. La bacca castagna si fa male ma neanche tanto. Inizia a roteare vorticosamente e schizza verso destra, esce dallo schermo e colpisce Luigi da dietro. Diavolo di una bacca castagna, le punte nel culo le metti a qualcun'altro. Luigi s’incazza: vai di Attacco Fratello. Mario salta addosso a Luigi, il quale gli fornisce una spinta propellente micidiale: il baffuto ciccione demolisce con una testata il guscio della bacca castagna. Ah ah. Ma non è finita. Uno sbuffo di aculei ci rivela che annidato dentro la bacca stava un temibile fagiolo malvagio. Il legume rancoroso prende la rincorsa verso Mario. Mario calcola la tempistica e salta. Gne gne, fagiolo perverso, ti ho evitato, pensa Mario illudendosi. E invece no, il fagiolo arriva a tre quarti della sua corsa, inciampa, si schianta al suolo, poi, imperterrito, si rialza e continua la sua corsa kamikaze verso Mario. E colpisce. Mario stremato cade al suolo, Luigi è subito da lui e se lo carica in spalla. Sa che con la panza che si ritrova il suo fratello famoso non ha alcuna possibilità di sfuggire alle ire del temibile e mefistofelico fagiolo. E' ora di darsela a gambe. E allora corri, Luigi, corri, anche se questo ti costerà una valanga di denaro... Mario & Luigi Superstar Saga è questo, e molto altro. Terza parte dell'ipotetica saga iniziata su SNES con Super Mario RPG e continuata con Paper Mario su N64, il nuovo gioco Nintendo (ma sarebbe più giusto dire Alphadream, promettentissimo sviluppatore interno) ribalta e sconvolge in maniera esemplare due universi da sempre tabù: quello del pacioccoso mondo mariesco e quello dei JRPG...
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_____Goomba orsetto lavatore a tradimento Il combattimento descritto precedentemente è solo una piccola anticipazione di quello che M&LSS vi riserva: dietro una scorza apparentemente semplice si nasconde un gioco che in quanto a innovazioni non ha eguali (nello stesso hanno di produzione, 2003, solo Viewtiful Joe pare della stessa caratura...), e si propone anzi come nuova base su cui le più blasonate serie di JRPG farebbero bene a costruire (Final Fantasy, per dirne una che ha fatto dell'immobilismo concettuale un vanto). Prima di tutto: Mario e Luigi si controllano contemporaneamente. La crocetta direzionale asservita al movimento, A e B per gestire, rispettivamente, il personaggio che sta davanti e quello che sta dietro. Le azioni performabili sono molteplici e spesso necessitano della collaborazione fra i due fratelli: dal semplice salto (contemporaneo con A+B, oppure alternato) all'utilizzo dei martelli (per stordire i nemici, per conficcare Luigi a terra e farlo agire come una talpa o per rimpicciolire Mario e permettergli il passaggio attraverso buchi e pertugi assortiti); fino alle "abilità di spostamento" (Luigi può salire sulle spalle del fratello e spiccare un salto più alto del normale, Mario può prodigarsi in un salto turbinante che permette al duo di spostarsi sopra burroni o crepacci). La componente RPG è assimilabile a quella di uno Zelda: Link To The Past, con personaggi con cui parlare, puzzle da risolvere e item da recuperare, ma è inframmezzata spesso da minigiochi che sfruttano appieno il controllo doppio su cui il gioco fa perno. Uno dei più gustosi in cui vi imbatterete, per esempio, è il "salto della frontiera" che si dovrà superare per passare dal Regno dei Funghi a quello dei Fagioli... Sostanzialmente due tartarughe di guardia tengono in mano una corda, e sfrecciano a destra e a sinistra dello schermo costringendo il giocatore a scegliere con appropriato tempismo il momento in cui far saltare Luigi e quello in cui far saltare Mario. Semplice sulla carta, il minigioco in questione si rivela invece tosto proprio in virtù delle mosse impreviste in cui i due si produrranno, obbligandovi ad una coordinazione e ad un tempismo che finora erano richiesti solo nei
:RECENSIONI: rythm game. Tale meccanica basata sulla coordinazione è riproposta anche negli scontri, sostanzialmente a turni, in cui ogni nemico attacca con diverse mosse, ognuna dalla tempistica differente, pietrificando il giocatore in uno sforzo di concentrazione mica da ridere. Non mancano finte, colpi bassi e sorprese, anche per quanto riguarda l'arsenale a disposizione dei due idraulici baffuti. In mancanza di "Summon Evil Toad" e affini Alphadream ha ben pensato di inserire dei particolari colpi a due, chiamati Attacchi Fratelli, che prevedono l'esecuzione di lunghe mosse previa corretta pressione dei tasti che compaiono a schermo (si possono settare 3 livelli di difficoltà per gli Attacchi Fratelli: (1), che oltre alle indicazioni su schermo facilita il compito attraverso una sorta di rallenty, (2) con le indicazioni a schermo ma velocità normale e (3) senza alcun tipo di aiuto. Ovviamente a livello 3 i colpi sono molto più efficaci). Anche gli attacchi più semplici, Salto e Martello, vantano una sufficiente profondità di utilizzo, che spazia dalla tipologia di nemico che si ha di fronte alla corretta tempistica di pressione dei tasti. La grafica riprende in parte quella di Yoshi's Island, anche se l'effetto finale è decisamente più allucinato e surreale, mentre il sonoro come sempre si basa sui temi portanti dell'epopea mariesca, introducendo anche qualche nuovo motivetto per nulla malvagio. ____Koopa alato schiantagusci (da dietro) L'altro campo fondamentale in cui M&LSS innova è quello della trama, non tanto per lo sviluppo in sé, ma per il modo in cui gli eventi vengono presentati. La volontà di inserire tonnellate di humour e una sana voglia di prendersi in giro, ha portato Alphadream ad inserire dei siparietti ROTFLosi in ogni dove, che per la prima volta ironizzano sulla stessa Nintendo e sorprendono l'appassionato che ormai sa già cosa aspettarsi dagli intrecci marieschi. In breve: la voce di Peach viene rubata dalla Strega Ghignarda e dal suo perfido assistente, decisi a regnare crudelmente sul confinante Regno dei Fagioli. Mario, Luigi e Bowser, non sopportando più il growling di Peach, si decidono ad andare a recuperare questa benedetta voce (Bowser addirittura dice che se la principessa non recuperasse la sua voce, lui si rifiuterebbe di rapirla di nuovo...) e partono impavidi per il Regno dei Fagioli. Splendida la scena iniziale in
Ring#10 casa Mario Bros, con Luigi che stende i panni al vento (che sia gay?) e Toad che entra in casa trafelato a cercare Mario. Un fischiettio proviene dal bagno e Toad ci si fionda dentro incurante del pericolo, e ne esce subito dopo con la faccia rossa e delle evidenti lesioni anali. Segue Mario in mutande e tutta un'altra serie di chicche, tipo Luigi che viene dipinto come uno sfigato totale, tanto che nessuno si ricorda mai come si chiama e viene di volta in volta appellato come "tizio verde", "fratello di Mario", "Luca". Un piccolo capolavoro portatile. Fossi in Nintendo, metterei Alphadream al lavoro sul successore del cubo...
NINTENDO DS (Deadly Suicide) ANNUNCIATO!! di Nemesis Divina
E RING non poteva starsene mani in mano. La vostra redazza preferita è volata a Mariolandia, per avere numi sul nuovo portatile Nintendo. "Semplicemente non volevamo restare troppo indietro rispetto a Sony" dice sorridente Satoru Iwata, presidente di Nintendo. Il nome in codice di Nintendo DS è Virtual Boy 2, questo per ingraziarsi la buona sorte (?), scelta indubbiamente coraggiosa. Eppure, lanciare un nuovo portatile a così breve distanza da altri due sistemi (GBA e GBA SP) è suonato strano ai più, tanto che i commenti della comunità che gioca sono stati grossomodo questi: “Chisseneincula, meglio quel Penis Enlarger che mi consigliano sempre via SPAM” riferendosi alla nuova piattaforma e, parlando di Nintendo stessa, “Abbattetela, per carità. Soffre troppo!”. Una sfida ostica, per la grande N. "Per essere certi di non sbagliare, abbiamo rinnovato il comitato direttivo che ci indicherà la sicura via del successo". E così dicendo, Iwata introduce: Calimero, Coccolino (quello Concentrato, ovvio) e Toshihiro Nagoshi, ex presidente di Sega e pessimo colonnista di VG. "Sony sbaragliò Nintendo cambiando target, abbandonando e ripudiando gli hardcore gamer per puntare sui gamer e basta, e mo' sguazzano nei soldi ‘sti zozzoni.." cinguetta Calimero. "A questo punto l'idea geniale.." esclama giocondo Nagoshi "non battere Sony sul loro terreno ma creare un nuovo mercato, accalappiando una frangia di potenziali utenti curiosamente da sempre trasurata: chi non vuole giocare e detesta i videogiochi!!" (sorride orgolioso). "Per far ciò abbiamo progettato una macchina che possa disgustare il videogiocatore comune, in questo modo, vedendo come è andata a Sony con i casual gamer, credo che riusciamo a infinocchiare chi dei VG se ne sbatte le palle. E’ una mia idea, lo devo modestamente ammettere. Merito o non merito tre paia d’ali?." (ride sguaiato). L’innovazione tecnologica più evidente di Nintendo DS sta però nel doppio schermo, RING indaga vorace: “Ci sembrava un’idiozia, quindi dovrebbe funzionare. Basti pensare ai 4MB di VRAM di PS2.. d’altra parte quei cinque gorilla super-sapiens venuti dal futuro e incatenati nel sottoscala, i cui progetti vengono firmati da Miyamoto-san, dovrebbero essere in grado ti tirar fuori delle idee decenti da una simile vaccata. Quando RING esclama poco pacatamente "ma vi siete bevuti COMPLETAMENTE il cervello?!" Nagoshi sbotta "Oh! Non sapevo ne voleste anche voi, non vi hanno offerto nulla all'ingresso? Vi faccio portare subito una gassosa..". Fa niente, l'importante è che Nintendo ci inviti al banchetto di fine anno quando, al lancio di Nintendo DS, si mangeranno il fegato.
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:RECENSIONI:
Ring#10
pER cHI sUONA lA cAMPANA____________________________
[Call of Duty]
di Compagno Sator «È meglio morire in piedi che vincere in ginocchio» Emiliano Zapata «Questo lo pensi tu, povero idiota» Compagno Sator .:scHEda:. Cinematic-FPS gENERE eTICHETTA Activision sVILUPPATORE Infinity Ward sISTEMA PC aNNO 2003 gIOCATORI 1 - Multi vERSIONE italiana
La sequenza dell’assedio di Stalingrado è di una bellezza e una drammaticità sconvolgente. I designer hanno inoltre preso in prestito molte idee da Il Nemico alle Porte, ad esempio il pannello con i messaggi lasciati dai soldati.
Lo sanno tutti: Pong è l’archetipo dei giochi di Tennis. Quello che non tutti sanno è che anche gli FPS hanno una loro musa. Questo videogioco si chiama Fratello Martello.
Pubblicato nel 2000 da Mai Dire Net, Fratello Martello è un videogame programmato in Flash nel quale, mouse alla mano, dobbiamo colpire il volto del culturista Pietro Taricone nel momento esatto in cui questi fa capolino da alcuni buchi scavati nel terreno. Una variante cibernetico-televisiva del “whack the mole” diffuso nei luna park americani. Tutti gli FPS mutuano da Fratello Martello la primordiale meccanica di gioco, qui sotto riportata in basic…
10 inquadra il bersaglio 20 clicca 30 goto 10
È dai piccoli particolari che si capisce se una ricostruzione è buona. Questi bovini morti ci ricordano che la guerra non coinvolge solo gli esseri umani…
1945. L’esercito sovietico giunge a Berlino. Call of Duty, più che longevo, è intenso. Se siete tra quelli che il videogioco lo vogliono lungo, ma non siete tra quelli che riprendono in mano un videogame una volta finito, il consiglio è di selezionare un livello di difficoltà elevato (vedi box)…
Ma percuotere a ciclo infinito l’abbronzata faccia del vincitore morale della prima edizione del Grande Fratello, oltre ad essere lesivo per la dignità del Taricone stesso, può annoiare. Ecco perché nel corso degli anni i vari cloni di Fratello Martello hanno implementato diverse varianti del gameplay primigenio, insaporendolo di volta in volta con un ingrediente extra. Ad esempio, aggiungendo l’ingrediente “stealth” otteniamo Thief; aggiungendo l’ingrediente “causa-effetto” otteniamo Halo (e tra breve Half Life 2); aggiungendo l’ingrediente “RPG” otteniamo Deus Ex; aggiungendo l’ingrediente “Metroid” otteniamo Metroid Prime; aggiungendo l’ingrediente “accuratissima simulazione per pazzi guerrafondai” otteniamo America’s Army; aggiungendo l’ingrediente “Nemesis Divina” otteniamo Quake. Call of Duty è stato invece insaporito con una cucchiaiata de Il nemico alle porte e qualche foglia de Il giorno più lungo. I meriti di CoD, infatti, sono in gran parte atmosferici. L’impianto grafico, le ricostruzioni degli ambienti, il comportamento dei compagni, gli eventi e soprattutto lo splendido sonoro, tutto è volto a calare il giocatore nella melma
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del secondo conflitto mondiale; con esito impressionante per potenza evocativa. Spogliato di questi orpelli, CoD tradisce la sua natura di FPS solo leggermente più evoluto della media. Insomma, si tratta più o meno del solito Medal of Honor da cui gli sviluppatori sono reduci. Pur con alcune modifiche. Innanzitutto è stata tolta la possibilità di aprire le porte. Il gioco lo dice chiaramente alla prima occasione a tiro: non dovrete mai preoccuparvi di aprire una porta. Capito? Non è un impoverimento del gameplay, quanto piuttosto una semplificazione delle meccaniche con l’obiettivo di eliminare le azioni superflue. Pensate a Silent Hill. Pensate a Shenmue. Quante sono le porte presenti nei videogiochi che effettivamente svolgono la funzione per la quale sono state progettate? Che senso ha quindi costringere il giocatore a provare cento maniglie quando nell’80% dei casi comparirà una scritta del tipo: “Questa porta non si può aprire per qualche ragione che non ti sto a spiegare perché tanto non la capiresti. Se ti ostini a cercare di aprirla, umilierai entrambi”. CoD non ha bisogno di questi mezzucci per prolungare l’esplorazione o per dare una parvenza illusoria di prosecuzione non lineare. CoD non si vergogna delle proprie origini di FPS proletario. Un’altra modifica importante, ispirata da Halo, è la possibilità di portare con sé due sole armi, oltre alla pistola e le granate. Si tratta di un’aggiunta che rafforza la sospensione dell’incredulità nel giocatore, molto meno propenso ad irrompere nella battaglia in modalità “arsenale ambulante” come negli action movie dell’era reaganiana. Ovviamente è una scelta che regala qualche buona briscola anche al gameplay, invogliando a un’oculata selezione delle armi da portarsi dietro. Sia chiaro: nessun amletico dubbio. Questo perché, come è logico, CoD riproduce nel migliore dei modi le armi in dotazione agli eserciti dell’epoca, i quali non disponevano di tecnologia aliena. Fondamentalmente CoD distingue tra fucili di precisione e mitragliatori (con alcuni toni grigi per quanto riguarda l’accuratezza del colpo, la capienza del caricatore e la frequenza di sparo); il giocatore finirà quindi per portare con sé un’arma per categoria. Poi, quando rimarrà a corto di pallottole, scambierà il suo mitra con quello di un tedesco morto. Poco altro. ________________Diario di Guerra Call of Duty inizia le danze calando il giocatore nei panni di Martin, un soldato impiegato nelle missioni di supporto alla titanica operazione Overlord: lo sbarco in Normandia. Il primo livello è stato
:RECENSIONI: appositamente studiato per iniettare nell’utente un consistente sense of wonder – o, visti i contenuti, un sense of horror – che lo accompagnerà fino a Berlino. Paracadutato nella campagna francese, Martin vagherà nella notte alla ricerca del compagno di missione, trovandolo morto. Ok, penserà. Il solito pretesto da videogame per farmi rimanere da solo contro tutti. Macché. Pochi proiettili dopo… It’s raining men, alleluja! Decine di compagni aviotrasportati spuntano dal cielo. La guerra inizia, furiosa, fracassona, orribile. Meravigliosa. E, come dice il capitano Fowley: «Per quelli che sono alla loro prima azione, benvenuti nel mondo reale. Per quelli che ci sono già stati… Credetemi, non avete visto ancora nulla». Parole rivolte non solo ai soldati, ma anche al giocatore… «Ehi ciccio, questo non è il solito Medal of Honor. Qui si fa sul serio». Per capirlo è sufficiente il colpo d’occhio del campo di battaglia, con dozzine di soldati amici e nemici perfettamente calati nei loro personaggi. Il segmento dedicato agli americani è un’escalation di operazioni di guerra una più stupefacente dell’altra, salvo ammosciarsi leggermente nel finale, con due missioni di salvataggio che si allontanano dal campo di battaglia sporco e cattivo, facendo sentire nel giocatore una sorta di nostalgia al contrario. La sezione degli inglesi riporta a mille l’interesse con una splendida missione doppia ispirata al film Il giorno più lungo. I buoni (tra cui Evans, l’alter ego britannico che rischia il deretano per noi) devono prendere possesso di un ponte e successivamente difenderlo fino all’arrivo dei rinforzi. Signori, qui si assaggia la guerra di trincea, la difesa di una posizione costi quello che costi. Il senso di progressivo accerchiamento ad opera di un nemico che, con il passare del tempo, impara ad organizzarsi e a rendere letali i propri attacchi è reso splendidamente in tutta la sua drammaticità. La sensazione di inarrestabile perdita di terreno è micidiale, un continuo groppo alla gola, e le grida dei compagni che annunciano nuovi attacchi riesce ad insinuare panico come nessuno videogioco era riuscito a fare. Dopo un simile inizio, purtroppo il segmento inglese scema totalmente di interesse, sprofondando nella noia di missioni in singolo che evidenziano tutti i limiti dell’impianto di gioco. La missione di sabotaggio della diga è lunga e noiosa e si segnala solo per l’epilogo: una fuga in camion rocambolesca e divertente. Il livello successivo, poi, è il punto più dimentichevole del pacchetto bellico. Seriamente, che cosa c’entra in un prodotto del genere una missione in cui bisogna infiltrarsi in una nave e, DA SOLI, uccidere tutto ciò che respira? Per fortuna gli inglesi ci lasciano, per ritornare insieme alle truppe USA in una missioncina di congedo nella foresta innevata. Adesso tocca ai comunisti. È qui che Call of Duty rivela tutto il suo potenziale, spiccando il volo verso l’olimpo delle videoesperienze. (nota: per la sensibilità di chi scrive, il paragrafo successivo non contiene spoiler. Ciononostante, se siete tra quelli che non vogliono sapere assolutamente nulla di un gioco, il consiglio è di passare oltre.)
Ring#10 ________________Missione Pavlov
________Mio padre sanguina Storia
Abbiamo assediato un palazzo di quattro piani occupato dai tedeschi. Al prezzo di molti compagni caduti, siamo riusciti a prendere possesso dello stesso e ci godiamo un momento di riposo. Riposo fin troppo breve. I nazisti si sono riorganizzati e assediano il palazzo. Dobbiamo resistere, resistere, resistere. Tutti i piani dell’edificio sono piantonati dai miei compagni, che sparano dalle finestre e tengono d’occhio ogni entrata, ogni rampa di scale. Inizia un fuoco d’inferno. Riusciamo a tenere a distanza i tedeschi, che muoiono non appena escono dai ripari. Appostato a una finestra del quarto piano, intono la preghiera del cecchino e buco ogni elmetto che fuoriesce dalla trincea a ovest; ma non dura a lungo. Il capo mi grida che a nord sta arrivando un cingolato. Scendo di corsa al terzo piano dove abbiamo posizionato una postazione anti-carro che dà in quella direzione. Prendo la mira e sparo. I primi colpi impattano sul tank facendolo sussultare, poi, finalmente, esplode. Non faccio a tempo a esultare che lì vicino sbucano alcuni soldati. Sparo loro con il medesimo fucile e vedo i loro corpi schizzare in aria. Raccapricciante. La zona è libera, ma un’esplosione da dietro mi fa capire che è lungi dall’essere finita. Mi arrivano voci a conferma di quello che già ho intuito: un altro tank si sta avvicinando dal lato opposto del palazzo. Devo raggiungere la postazione anticarro che dà su quel lato, e per farlo devo scendere al secondo piano. Mentre sono sulle scale mi rendo conto che i tedeschi hanno già conquistato il piano terra e il primo piano, e stanno tentando di arrivare al secondo. Alcuni compagni cercano di impedire l’avanzamento del nemico. Io invece mi dirigo nella stanza con la postazione anticarro ma, oltrepassato l’ingresso, vedo l’esterno, la neve, le nuvole, il tank. La stanza non c’è più, spazzata via da un colpo ben assestato. Torno nel corridoio e mi rendo conto che, dove prima c’erano molti compagni, adesso ne è rimasto solo uno, e un tedesco approfitta del momento in cui questi sta ricaricando per risalire le scale e colpirlo violentemente con il calcio del fucile. Il mio compagno cade a terra e il tedesco continua a picchiarlo con una violenza che mi fa gelare il sangue. Chiudo gli occhi e sparo con il mitra. Mi fermo solo quando finisco il caricatore. Il tedesco giace a terra, mentre il mio compagno si rialza. Solo dopo mi rendo conto che avrei potuto colpire anche lui: in quel momento agivo solo per salvare me stesso. Ci guardiamo, ma non facciamo a tempo a dirci niente perché un’esplosione abbatte la parete. Fumo e calcinacci dappertutto. Mi ritrovo a terra, sento rumori ovattati e non vedo più il mio compagno. Mi allontano strisciando e mi posiziono vicino alle scale per arginare nuove ondate di nemici. Solo allora mi rendo conto che sto per finire i colpi. Dovrei scendere di un piano e prendere un mitra a un tedesco morto, ma sento che la zona è ormai presidiata dal nemico e non ho il coraggio di rischiare. Quindi tiro fuori la pistola e, indietreggiando, tento di raggiungere il quarto piano, dove tentare un’ultima resistenza insieme ai pochi compagni rimasti. Voglio tornare a casa.
Call of Duty è un capolavoro di atmosfera e un gioco assolutamente buono. Anche se vi siete stufati di giocare sempre ai soliti cloni di Fratello Martello, prima di comperarvi finalmente una console, concedetevi un’ultima dose di motion sickness con il titolo di Infinity Ward. Ne vale veramente la pena. Peccato solo per il finale, che si rivela piuttosto deludente. Certo, sventolare la bandiera di Bertinotti sopra il reichstag comecavolosichiama ha il suo fascino, ma si poteva di più. Pensate a quanto sarebbe stato figo se, quando tutti esultano per la fine della guerra… BOM! Con un’esplosione fragorosa il temibile boss finale Adolf Hitler fa il suo ingresso a bordo della most secret weapon of the Luftwaffe: il Metal Gear Fritz. Purtroppo la realtà pone a volte tanti di quei vincoli…
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I livelli di difficoltà Recluta Insultante. Oltre a non concedere uno straccio di sfida, il gioco non riesce a mostrare tutto il suo potenziale. Ad esempio le missioni che vogliono dare al giocatore il senso di accerchiamento falliscono nel loro intento a causa della limitatissima cattiveria laterale del nemico. Soldato Una difficoltà bastevole a entrare nello spirito del gioco, anche se vi sentirete più John Rambo che il soldato Ryan. Questo perché i colpi del nemico non sono tanto letali da impedire al giocatore una prestazione del tipo “grande guerriero bianco contro orde di orchetti”. La sovrabbondante presenza di medikit, poi, vi farà pensare di essere Wolverine prima del lavaggio del cervello... Esperto Questo livello permette di godere appieno dello stile di gioco previsto da Infinity Ward, senza per questo chiedere al giocatore di seguire un corso da Jedi. È fondamentale ricordarsi di seguire il gruppo, di passare velocemente da un riparo all’altro e di adoperare sempre l’arma più adatta. A queste condizioni, CoD premierà il giocatore con una curva di apprendimento mai troppo ripida né pianeggiante e regalandogli la sensazione di essere veramente su un campo di battaglia. Veterano «Niente è più emozionante nella vita che vedersi sparare addosso e non essere colpiti» dice un tipo. Un lusso che questo livello di difficoltà vi concederà raramente. I nemici diventano Bull’s Eye, i medikit spariscono e un paio di colpi ben assestati garantiscono una traversata sull’acheronte. Provateci solo se vi piacciono le sfide proibitive, ma ricordate che diverrete i migliori amici del tasto F5.
:RECENSIONI:
Ring#10
sOL iNVICTUS__________ ____________________________
[In Memoriam]
di Nemesis Divina
gENERE
.:scHEda:.
eTICHETTA sVILUPPATORE sISTEMA aNNO gIOCATORI vERSIONE
RPG Investigativo Ubi Soft
Lexis Numérique
PC 2003 1 italiana
Quattro anni di sviluppo, in larga parte attribuibili alle necessità “climatiche” della trama. Distribuiti in diversi paesi europei, i filmati raccontano le prime fasi delle indagini di Jack e Karen, quelle precedenti la loro scomparsa per mano di Fenice. L’intensità emotiva di alcune scene rende In Memoriam consigliabile ad un pubblico adulto.
Gli enigmi si compongono di schermate fisse sulle quali è possibile interagire con vari elementi. Questi possono essere frammenti di foto da ricomporre o mini giochi di abilità/intuizione. Più sovente ogni enigma ha una sua logica intrinseca che va colta prima di procedere, pena la perdita di molto tempo in inutili tentativi reiterati.
“La preparazione tecnica e l'abilità grafica con cui la Fenice ha concepito il programma potrebbero far supporre che abbiamo a che fare con più individui. Eppure, le poche informazioni inviate da Lorski prima della sua scomparsa lasciano supporre il contrario: si tratterebbe infatti di un singolo individuo che, consapevole del proprio "genio", cerca attraverso questa “realizzazione” una forma di riconoscimento, costante che è possibile incontrare in alcuni casi di serial killer. Creando degli enigmi per fornire gli indizi con il contagocce e giocando continuamente a nascondere le informazioni che poi consente di svelare, la Fenice si rivela manipolatore e dotato di un'acuta intelligenza. Nessuno può mettere in dubbio la sua intelligenza. Ne è la personificazione.” In Memoriam è un ospite scomodo, esce dallo schermo e pianta i piedi sul pavimento, impuntandosi e insistendo a non voler andare via. E’ sottile, una lingua sensuale che sibila, un sorriso affilato che seduce. Lontano da qualsiasi altra opera, In Memoriam si distingue di continuo, riportando sì ad un passato fatto di avventure grafiche, ma accelerando folle verso uno scenario inedito, In Memoriam è un gioco di ruolo nel vero senso del termine, dove il giocat(t)ore recita una parte, pur rimanendo se stesso. Divergente da subito, In Memoriam ci sprofonda in un universo ludico che è il nostro, nel quale sono strumenti noti ad essere nostri aiutanti. Jack Lorski e Karen Gijman sono scomparsi e l’agenzia SLK Network (fornitrice di contenuti tele/giornalistici) ha diffuso in numerose copie un CD, recapitato loro da un uomo che si fa chiamare Fenice. Il disco è un criptico ammasso di enigmi e informazioni frammentate che dovrebbero guidare verso il ritrovamento del giornalista e della sua compagna, ma il disco è anche un’altra cosa:la glorificazione della Fenice, superbo prodotto di una mente ispirata che sfida il mondo sul campo in cui egli eccelle, l’intelligenza. Fenice stesso esorta a diffondere il disco, in modo che molti e molti possano confrontarsi con i suoi enigmi e che collaborino pure fra di loro, unendo gli sforzi,
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Hardware In Memoriam non richiede specifiche tecniche particolarmente elevate per visualizzare i suoi contenuti (il lavoro di calcolo è esiguo). I requisiti minimi impongono un processore a 333Mhz (Win95 e successivi), 64MB di RAM, scheda grafica a 32bit e 700MB di spazio libero su disco. Indispensabile la connessione internet per ricevere e-mail e compiere ricerche. È sufficiente un modem 56k.
dividendosi informazioni e svelando, man mano, una storia rivestita di riferimenti alchemici, misteriose morti, verità universali e passati sepolti ma non ancora defunti. Il brano che apre la recensione non è un ritaglio da una qualche press release o dal manuale di gioco, è invece una delle principali caratteristiche di In Memoriam: un’e-mail recapitata presso il mio consueto indirizzo elettronico. Il complesso universo fittizio ricreato dal visionario autore Eric Viennot, ci include nella simulazione, nel gioco di ruolo, rendendo evanescenti i confini che di solito scindono realtà e fantasia. Numerosi i compagni d’indagine che spediranno missive al nostro mail-reader, esponendo proprie teorie sulla risoluzione degli enigmi, offrendo link utili alla prosecuzione delle indagini o anche solo cercando di definire un quadro che appare ora in contorni consunti e sbiaditi. In Memoriam punta da subito a calare nella parte lo spettatore che, mai come oggi, è esortato non a guardare ma ad agire, quanto più gli è possibile. Proseguendo nello svisceramento del CD della Fenice, si fanno avanti nuove piste, indizi confusi dapprima e poi sempre più delineanti un disegno inquietante eppur malignamente lucido. I nostri strumenti sono ‘nostri’ come non mai: la nostra intelligenza, la capacità di risoluzione degli enigmi, le nostre conoscenze enciclopediche ma pure l’enciclopedia stessa e soprattutto il suo corrispettivo dell’era telematica: internet. Molti enigmi, infatti, trovano risoluzione solcando le onde digitali del mare informatico. In Memoriam, oltre ad un cast di comprimari epistolari, allestisce una ragnatela di siti che si piegano
:RECENSIONI: alle esigenze narrative lasciando trasparire un’enorme mole di pianificazione certosina e impeccabile. Durante lo sviluppo, durato quattro intensi anni di lavoro, la troupe capeggiata da Viennot non solo ha girato svariate ore di filmati (realizzati, nella finzione, da Lorski e offerti a noi dalla Fenice), ma sono stati anche realizzati centinaia di siti ad hoc, indispensabili per proseguire le indagini e svelare lentamente, ai nostri occhi, la possibile trama che sottende il tutto. E se inizialmente si può avere un’idea di trascuratezza nella realizzazione dei siti, presto si coglie l’enormità del lavoro svolto, con decine di stili grafici differenti, alcuni ricalcanti il più rozzo degli html (con quelle fiamme animate che fanno tanto amatoriale…) fino a più raffinati flash. I siti offrono generalmente informazioni sovrabbondanti e, se pure la ricerca della risoluzione di un enigma è breve, soffermarsi su di un sito può offrire nuovi spunti alle indagini proiettandoci in avanti rispetto ai nostri compagni di investigazione che, magari, ci spediranno via e-mail conclusioni a cui eravamo già arrivati. La lettura estesa dei siti, offre inoltre la possibilità di calarsi nella parte in maniera credibile, rendendo più acute le sensazioni e gli umori che proveremo quando Fenice ci offrirà nuovi spezzoni di quanto è accaduto a Jack e Karen. Leggere il diario online di una collegiale, spulciare la biografia nel sito di Karen o ammirarne i lavori di pittura, tutto concorre a rendere concreti i confini della finzione. A questo si aggiunga il modo brillante con cui In Memo riam si appoggia a siti preesitenti,
AENIGMA Al di là della semplice deduzione logica e dell’interrelazione di elementi frammentari negli enigmi, spesso le risoluzioni di alcuni passaggi richiedono una piccola intuizione. Ritrovare il sito di Karen Gijman, non segnalato all’interno dell’enigma o nei nostri dati, diventa semplice digitando il nome della stessa in un motore di ricerca ( www.karen-gijman. com, date una sbirciata…). Spesso questa è la via più semplice per ottenere degli indizi. Ma non esitate a sfruttare tutto il mondo di possibilità là fuori… dovendo tradurre una parola in greco, recuperate un’agenzia di viaggi con sede in Grecia e chiedete gentilmente che sia il webmaster del sito a tradurla per voi. Certo dovete trovare un webmaster disponibile come quello in cui sono incappato io…
Ring#10 confondendoci ed ingannandoci astutamente e ponendo in dubbio tutto quanto, fino al punto in cui non si è più in grado di distinguere quali siano i nostri passi genuini da quelli specificamente previsti dalla sceneggiatura. L’enigmistica di In Memoriam costituisce la parte preponderante della vicenda, anche se si è provveduto ad inserire il tutto in un contesto credibile. Le schermate del CD della Fenice si susseguono in un gioco di scatole cinesi, dove ogni gruppo di enigmi risolto apre un portale verso una nuova serie di sfide. Lontani dall’essere i banali rompicapo di capcomiana memoria, gli ostacoli che Fenice ci pone innanzi sono generalmente risolvibili con la semplice indagine o comunque grazie all’analisi degli elementi a nostra disposizione. Non si raggiungono quindi i livelli di osticità offerti da un Myst, e più in generale l’aiuto di quanti sono impegnati nelle indagini dovrebbe rendere l’avventura affrontabile da chiunque sia munito di un minimo barlume di intelligenza. Eppure, dove molti enigmi sono questione di ricostruire una logica apparentemente inesistente ed altri necessitano invece di una certa manualità (traducendosi in veri e propri minigiochi), spesso si richiede anche un approccio laterale. Ma all’interno di un insieme di cui facciamo parte, la lateralità si sviluppa in maniera inconsueta, ben lontana dalle logiche illogiche di Monkey Island. La lateralità di In Memoriam si traduce in “il tuo mondo fa parte del gioco”, e così sia. Difficile fare esempi senza rischiare di rovinare la sorpresa e l’orgoglio di giungere a certe conclusioni, ma tenete a mente che il web nel suo insieme diventa il vostro primo strumento d’indagine (vedi box AENIGMA). Se In Memoriam gioca con noi, riflettendoci nel mondo che giochiamo, non meno fascinosa risulta la componente concreta del titolo. L’estetica del CD della Fenice è elaborata sulla complessa psicologia del serial killer, un uomo di grande intelligenza e gusto artistico. Si alternano così diapositive da un inconscio malato ma comunque coerente, dotate di un gusto macabro e ingegnoso che sfrutta la composizione digitale con elementi interagibili per costruire labirinti enigmistici. E sul fondo un accompagnamento sonoro gracchiante, che stride e ci ferisce il cervello con punte acuminate, fino a stamparci sopra un tema musicale, angosciante, che sottolinea i momenti di rivelazione del gioco. Né meno bril-
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lante la prestazione recitativa degli attori impegnati nelle riprese di Lorski. Tutti ugualmente credibili e capaci, perfettamente calati nell’economia realistica del gioco. Meno naturale la regia, che spesso dimentica il suo ruolo di fredda testimonianza per indugiare in scelte registiche indubbiamente meno credibili, per quanto più funzionali e gradevoli. In Memoriam è dunque un ammirevole ritratto, dotato di autentica vitalità, ispirazione e volontà di innovare. Assolutamente priva di paragone, l’esperienza interpretativa di questa opera ha il merito innegabile di indicare nuove strade dell’espressione videointerattiva, un lavoro ineccepibile sotto tutti gli aspetti anche se di non popolare fruizione. Ma il sigillo di RING campeggia proprio per questa ragione, per darvi un motivo in più per osare, per invitarvi a frantumare il confine ed attraversare lo specchio. “Per Eric Viennot, i videogiochi sono un nuovo mezzo di comunicazione per raccontare storie in modo innovativo. La fiction interattiva lo interessa perché è convinto che, a un secolo dalla nascita del cinema, i videogiochi siano destinati a diventare una nuova forma narrativa, ricca di emozioni e materia di sogni...” da http://www.inmemoriam.it
Eric Vinnot
Eric Viennot (regista/desi-gner) nasce il 10 Marzo del 1960 a Lione, in Francia. Si forma nelle arti visive e, negli anni '80, si dedica alla fotografia, la pittura e la video-arte. Insieme al gruppo Equipage 10, partecipa a diversi allestimenti multimediali, esibendosi in Francia, Germania, Italia e Danimarca. Vince i concorsi CAPES e Agrégation in Belle Arti, e quindi insegna all'Università di Paris 1 (Panthéon Sorbonne) per cinque anni. Nel 1990, fonda lo studio di produzione Lexis Numérique insieme a Marie Viennot e José Sanchis. Come precursore della computer grafica, dal 1994 partecipa a numerosi progetti multimediali nel ruolo di designer e direttore artistico.
:RECENSIONI:
Ring#10
wARIO wHORE______________________________________
[Wario Ware]
di Emalord .:scHEda:. gENERE Party Game eTICHETTA Nintendo sVILUPPATORE Interno sISTEMA GBA aNNO 2003 gIOCATORI 1-2 vERSIONE Europea
Wario Ware Inc. è la fine di Nintendo. La morte della fantasia. La tomba della creatività. Guardatevi dal definirlo un prodotto innovativo, ed esaminatelo per quello che è: una sequenza di immagini semianimate, pessimamente colorate, scandalosamente grezze. Wario Ware Inc. è il ritorno dei morti viventi, la dissepoltura gli scacciapensieri, l'esaltazione della monocromaticità e del mononeuronismo. Un revival della prima Nintendo, quella che ora non esiste più, quella che ora non ha più niente da dire. E questa è solo la punta dell'Iceberg. Questo è solo l'inizio di una critica fin troppo facile [sorride soddisfatto] Il prodotto di Nintendo illude l'utente con la quantità: gli urla negli spazi angusti tra timpano, staffa e martello che con gli oltre 200 minigiochi all'interno il divertimento non avrà mai fine. Ore e ore di risate grasse, di sfide in multiplayer, di coinvolgenti bagarre tra amici. Ma sono solo menzogne. Chi, nel 2004, si potrebbe ancora divertire con un gioco senza una trama vera e propria, con una grafica ridotta a quella dei primordi videoludici, con un pulsante ed una croce direzionale e governare il tutto? Suvvia, non scherziamo, l'utente moderno vuole azione, vuole mondi tridimensionali anche su handheld, e dove non arrivano i poligoni vuole un bitmap esagerato, fluorescente, abbacinante. L'utente vuole i colori, vuole infiniti frame di animazione, di strati di parallasse, vuole sparare, saltare, guidare. Vuole il survival e lo stealth. Il videogiocatore desidera sentisi un eroe, vuole conquistare mondi sterminati e deserti popolati da enormi vermi, vuole salvare principesse intergalattiche plausibilmente ancora vergini. E non stiamo parlando di zodiaco, nossignori. Ed il prodotto Nintendo riesce anche in uno solo di questi obbiettivi? No, Signore e Signori, non vi riesce [simula uno sguardo corrucciato e sconsolato] Gli utenti si lamentano della brevità dei giochi, raccontano nei forum che Ico non può durare solo 10 ore, che un Resident Evil che con-
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sta di ben due minidisk non si può esaurire in 8 ore. E cosa mi fanno i creativi di Nintendo? Gente che dovrebbe essere stipendiata per produrre giochi dalla durata richiesta? Mi creano 200 minigiochi dalla durata di 3 secondi cadauno! E non solo, in quei 3 secondi l'utente deve capire cosa fare e capire come farlo, solo grazie ad un criptico suggerimento quale: mangia, taglia, cetriolo, gonfia, uno. Ma che imbeccata è: uno? A volte è sufficiente premere il pulsante A, a volte basta premere la croce direzionale, a volte è richiesto l'uso di entrambi. Ma l'utente medio capirà tutto questo? Capirà che non ci vuole l'uso contemporaneo di tutti i bottoni, dei tasti laterali, che non c'è lock-on o inventario di sorta? E le mappe, che fine hanno fatto le mappe? Ormai si trovano in qualsiasi prodotto, anche negli shooter c'è un seppur minimo straccio di mappa, perdio. La gente vuole perdersi, vuole smarrirsi, vuole localizzare item, vuole un continuo feedback con un qualsiasi colonnello dell'esercito. Ci vogliono pozioni curative, per avere successo. Ci vogliono negozi, livelli, piattaforme. Il gioco, Signori, deve essere inquadrato in un genere, altrimenti l'utente resterà spiazzato e non lo comprerà. Ebbene, Signori, cos'è Wario Ware Inc.? Un platform, un adventure, un puzzle game? Una simulazione, un arcade, uno strategico? No, non è niente di questo. È un esperimento andato a male, un abominio, un Pokémon scartato dal suo stesso creatore che poi si è suicidato per la vergogna. Come dite? Un Party game? Il massimo di giocatori per gioco, e la cosa non vale per tutti i giochi, è due. Avete mai visto dei Party a cui hanno partecipato solo due persone? Una tristezza. Signori, guardatemi negli occhi: l'handheld gaming è un genere limitato già di per se e Wario Ware Inc. è l'apoteosi del concetto di limitatezza. Non esiste Gioco, non esiste profondità. Questo prodotto non piacerà alle masse come non piacerà a quegli intellettuali del Bit che continuano a riempirsi la bocca con la parola Gameplay. Signori, questo gioco non può piacere. Venite, seguitemi, intervistiamo quei ragazzini laggiù e chiediamogli cosa ne pensano.
:RECENSIONI: Vedrete che mi darete ragione [si aggiusta la cravatta e scende in strada] «A me piace» dice Federico «Ci sono 10 personaggi diversi da affrontare a suon di minigame, prima di arrivare allo scontro con Wario» «È vero, è vero» urla Giacomo «E ogni personaggio ha il suo tipo di minigame. 9-VOLT per esempio ha solo minigiochi ispirati al mondo Nintendo, DRIBBLE invece punta sulla fantascienza, mentre ORBULON mette alla prova il tuo QI» «A me piace KAT» sorride Mariella. «Perché è una ragazza ed è una ninja. Tutti i suoi minigiochi sono ispirati alla natura e hanno delle belle schermate piene di ideogrammi» e sorride. «E le musiche?» irrompe Enrico. «Io da grande voglio fare il musicista, e vi assicuro che le musiche di questo gioco sono fenomenali. Ci sono anche dei pezzi cantati! E poi spaziano dal jazz alla disco alla techno con disinvoltura. Se potessi ci farei un Cd per il mio fratello che di videogiochi non capisce niente. E pensare che è un gioco per Gameboy…» «A me mi fa impazzire il fatto dei 3 secondi», sussurra Paolo. «Cioè tu vedi la frase Rimbalza! e poi comincia il gioco, e vedi un uomo sdraiato ed un'anguria e devi capire cosa fare esattamente in soli 3 secondi. E poi mi piace quando diventi più bravo, e tutto diventa più veloce, e i secondi sembrano sempre più corti. Ed i giochi diventano sempre più veloci e difficili contempo…ranea…me…nte. Ecco» «Il gioco in sé è abbastanza breve» conclude Teo, «Ma ci sono molteplici ragioni per tornare su ogni singolo minigame, per migliorare i propri tempi, o per accorgersi che ad un aumento della difficoltà corrisponde spesso un cambio di ambientazione o di personaggio…» [rientrati in ufficio] Signor Floyd [esplode il Comitato di Giudizio Videogames], sembra che nonostante tutte le motivatissime critiche da lei messe sul banco, l'utenza là fuori consideri l'ultimo prodotto Nintendo come un potenziale blockbuster. Piace a tutti, nonostante 'tutti' siano quella massa che dovrebbe evitare questo prodotto che non si allinea alle leggi di mercato da lei così diligentemente esposte… Signor Floyd [sorride il Comitato di Giudizio Videogames], ho sentito dire distintamente da un fanciullo che: «Wario Ware Inc. è bello,
Ring#10 perché, semplicemente, mi strappa sonore risate ogni volta che gioco», e ho sentito un adulto dire: «Wario Ware Inc. mi piace perché ci gioco sempre non appena ho 5 minuti liberi. Ed in cinque minuti, volendo, posso giocare a moltissimi minigames. È una sensazione strana, perché giocando in maniera così rapida e condensata, l'impressione finale che se ne ricava», leggo le testuali parole, «è di soddisfazione e sazietà. Bastano 5 minuti di gioco per sentirmi già più rilassato. E paradossalmente, non vorrei mai staccarmi dal Gameboy Avance per poter fare la classica ultima partita. In questo senso, il prodotto Nintendo è unico…» Stordito dalle altrui parole, al didattico e colto Signor Floyd non restò che prendere la rampa di scale [in discesa] che portava alla strada [pure essa in discesa]. Ma dentro di sé cercava ancora un motivo, una ragione. E nel suo struggimento interiore pensò che "per avere successo Wario aveva dovuto prostituirsi, e suddividersi prestando il proprio corpo in decine di giochi diversi. Moltiplicare la sua immagine, che apparendo così tante volte perdeva quindi il suo valore di unicità ed originalità. Ecco perché questo gioco piace. Perché la massa adora chi si svende. Wario Whore Inc., un nome una garanzia". Questa spiegazione gli sembrò la più logica. E sorrise. E si sentì istantaneamente più rilassato. Lui era ancora il migliore sulla piazza.
Precisazione Nella recensione di SSX 3 pubblicata sullo scorso numero, Ring si era espresso in termini non proprio entusiastici a proposito del pur ottimo titolo EA Big, biasimando il trend attualmente abbracciato da molte software house: non soddisfatti di spremere fino all'osso qualsiasi franchise accodandogli seguiti a ripetizione, i publisher si sono recentemente inventati la trovata dei seguiti trasversali, come nel caso di FFX-2 e, appunto, SSX 3. Solo a numero ormai pubblicato è stato scoperto che SSX 3 non era affatto il terzo seguito del decimo capitolo di una saga intitolata SS...
:Commento Extra:
fUORI iN tRE sECONDI di Sator Ware Tre secondi. La durata del mio primo amplesso. I momenti di silenzio tra una canzone e l’altra. Il tempo massimo che una ragazza può trascorrere senza parlare. Se Tafazzi che si massacra i genitali può essere definito lo zero comico, Wario Ware è decisamente lo zero ludico. Ma sarebbe vero solo in parte. Infatti l’idea alla base del gioco non è la sommatoria dei tanti microgiochini, di tanti ZL: è invece la sua serrata e casuale proposizione; quindi tutt’altro che uno ZL. Il giocatore viene buttato nella mischia senza che gli sia concesso il tempo di ragionare, di configurare il cervelletto per la sessione di gioco in via di partenza. E il verbo che preannuncia ogni minigame è la trovata geniale senza la quale Wario Ware non avrebbe dignità di menzione. La prima volta che incontriamo ogni minigioco, il verbo suggerisce l’azione da compiere di lì a niente. Se c’è scritto JUMP, è chiaro che bisogna saltare, ed è probabile che per farlo servirà premere il tasto A. Ma quando saltare? Per quale motivo? Questa è la suspense dei tre secondi. Le volte successive, il verbo è come un link che richiama le informazioni dalla memoria di swap nella nostra testa e le ricopia in cache. Perché Wario Ware è appunto questo: un contino swap di configurazioni mentali. Tutto qui. Presi singolarmente, infatti, i giochi non hanno ragione di esser giocati. La modalità grid, in cui lo stesso minigame viene reiterato con difficoltà crescente, non appassiona e serve ad evidenziare la nudità del Re. Molto meglio giocare a Snake sul nokia, allora, che ad una sorta di QTE ripetuto ad oltranza. Wario Ware vive quindi solo della sua modalità principale. Un’idea frutto di una mente alcolizzata che si sposa perfettamente con le intenzioni di divertimento portatile espresse dal cosino Nintendo. Può stufare presto, ma stuferà nel modo in cui può stufare un’idea geniale e passeggera. Come una pipì di farfalla. (PS: le mie prestazioni sessuali sono molto migliorate: ho quasi quadruplicato la durata del rapporto)
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:RECENSIONI:
Ring#10
sIMILITUDINI, sIMBOLI & sIMULACRI____________________
[Ludologica – The Sims]
di Paolo Ruffino
gENERE eTICHETTA aUTORE sISTEMA aNNO pREZZO vERSIONE
.:scHEda:.
Saggio Unicopli Matteo Bittanti Mary Flanagan Carta, 195 pag. 2003 12 € Italiana
Note [1] In “Just what is it that makes computer games so different, so appealing?” articolo apparso nell’Aprile 2003 sul sito della IGDA www.igda.org/columns/ivory tower/ivory_Apr03.php [2] Per ulteriori informazioni su Mary Flanagan potete consultare il suo sito www.maryflanagan.com [3] Diretto da Hervè du Crecy e da Ludovic Houplain. [4] La serie, non trasmessa in Italia, è prodotta dalla Fox… www.fox.com/malcolm
Nel videogioco, come nel cinema, c’è stata una prima fase in cui essenzialmente ad attrarre era il prodigio tecnologico fine a se stesso. E, fatto curioso, ad essere rappresentati erano per lo più altri prodotti del progresso scientifico: dal treno dei Lumiere, alle astronavi di Spacewar… The Sims è uno dei pochi giochi che non promette nulla di sensazionale. Non c’è una grafica spettacolare, non si controlla un supereroe o una macchina di formula uno. Non si fa nulla che non si possa fare ogni giorno. Anzi, si fa esattamente quello che si fa ogni giorno: è un gioco in cui mangiamo, dormiamo, arrediamo casa, andiamo al lavoro. È a tutti gli effetti un gioco rivoluzionario, tanto che Jesper Juul ha paragonato il suo arrivo alla comparsa della novella realistica del 19esimo secolo (1). In realtà la vera rivoluzione sta nel fatto che The Sims abbia venduto una sfacelo di copie. Anche Little Computer People proponeva qualcosa di simile, ma l’accoglienza del pubblico fu ben diversa. È dunque condivisibile l’idea di considerare opportuno uno studio su The Sims per poter capire il mondo dei videogiochi, al di là di ogni giudizio sulla sua dimensione prettamente ludica (il dibattito “gioco più divertente/più noioso di sempre” non avrà mai fine…). Non deve sorprendere quindi che i tipi della collana Ludologica abbiano voluto dedicare un volume al lavoro di Wright, attenti come sono a quei “testi seminali” che fanno, decidono e determinano la storia dei videogiochi. Il libro è stato scritto da Matteo Bittanti, firma nota ai videogiocatori italiani, e include due saggi di Mary Flanagan2, artista e studiosa soprattutto degli usi delle nuove tecnologie da parte delle utenze femminili. I due lavori qui raccolti indagano in particolare sulle rappresentazioni degli spazi domestici in The Sims, soffermandosi sul concetto di dollhouse e su come un medium fortemente maschile (sia perché realizzato e consumato da uomini sia perché basato sulla visione che, nella teoria freudiana, è spiccatamente fallica) riproduce le relazioni tra membri di una comunità. Presente nel volume è anche un saggio scritto da Bittanti e Ruggero Eugeni il quale si sofferma su come The Sims proponga, più che un modello di simulazione dell’esperienza della vita quotidiana, una simulazione dei processi di investimento di senso delle pratiche giornaliere. Una visione sottile, che porta i due a concludere che Will Wright “ha elaborato una vera e propria teoria psicologica in forma ludica”. Il resto dell’opera porta la firma di Matteo Bittanti ed è una esplorazione chirurgica del testo The Sims. Bittanti prende in prestito il modello di Lantz e Zimmerman il quale propone tre componenti fondamentali dell’analisi di un sistema ludico: game, play e culture.
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Il primo riguarda il funzionamento, le regole che i giocatori devono rispettare. Qui vengono analizzate l’estetica di The Sims, la sua interfaccia, il suo essere più vicino ad una “scatola di Lego” che ad un videogame vero e proprio. Play, invece, è il momento di analisi delle reazioni che avvengono nei players nel momento in cui accettano le regole, in cui svolgono l’attività ludica. L’autore esplora le infinite forme di modificazione operate dai videogiocatori di tutto il mondo all’opera di Wright, su come l’eliminazione di un punto di partenza e di uno di arrivo abbia permesso al gioco di essere flessibile e dinamico anche in direzioni non previste dagli autori. L’ultimo punto/capitolo riguarda la culture, analizza le relazioni tra il testo e la cultura che l’ha prodotto e lo consuma. Partendo da McLuhan e dal concetto di gioco come “estensione dell’uomo sociale”, Bittanti si sofferma sul retroscena della produzione di The Sims. Scopriamo così che Will Wright ha tratto spunto da teorie della psicologia cognitiva e dell’urbanistica, dalle Mappe della Mente di Hampden-Turner agli elementi architettonici essenziali di Christopher Alexander, passando per il concetto di “emergenza” studiato da Hofstadter. La parte finale è dedicata a tre esempi di contaminazione da Sims, nello specifico un videoclip (Remind me dei norvegesi Royskopp3), l’opera dell’artista Jon Haddock e una puntata della serie tv Malcom in the Middle4. Nella conclusione Bittanti si confessa, e conferma le ipotesi che il lettore si è già fatto durante la lettura: The Sims è stata per lui una vera e propria malattia, la cui unica cura possibile era proprio scriverci sopra un libro… Con questo coup de theatre che obbliga a rileggere il saggio sotto un’altra ottica Bittanti conclude un eccellente lavoro. Ostico, forse, per il lettore che non vorrà andare troppo a fondo (in depth, giusto per auto-citarci…) nello studio dell’opera di Wright. Complesso, di sicuro, ma perché complessa è la materia trattata. Parlare di un titolo così difficilmente definibile, “generatore di simboli e similitudini tra la dimensione ludica e quella reale”, non può che richiedere un approccio multi disciplinare ed uno sguardo lucidamente distaccato, proprio dello studioso più capace. In definitiva non possiamo che consigliare caldamente la lettura e l’acquisto (nell’ordine che preferite) dell’ultimo Ludologica. Per molti sarà uno spunto per miriadi di riflessioni, un suggeritore di curiosità letterarie e videoludiche da soddisfare il prima possibile. Invece per tutti quelli che dovessero sentirsi in dubbio visto l’approccio accademico, suggeriamo di provarlo prima in negozio, o da un amico.
:RECENSIONI:
Ring#10
bEATS iN tECHNICOLOR_______________________________
[Amplitude]
di Teokrazia
gENERE eTICHETTA aUTORE sISTEMA aNNO gIOCATORI vERSIONE
.:scHEda:.
________________Teaching in action Musicale SCEA Harmonix PS2 2003 1-4 Italiana
I Freq sono ora realizzati in 3D e molto ben animati. Pur non rivestendo alcuna utilità pratica, a loro è dedicata sempre particolare attenzione. Numerose sono infatti le possibilità di customizzare il loro aspetto sbloccando gli elementi necessari proseguendo nel gioco.
La navigazione tra i menù e le parti giocate viene costantemente accompagnata da effetti speciali di ogni tipo, volti a non spezzare il continuum visivo. Ingegnoso.
Un considerevole valore aggiunto è costituito dal multiplayer, accessibile fino a 4 giocatori online o sulla stessa console. Tre le varianti presenti (gioco, duello e remix), tutte dall’elevato valore ricreativo. Da segnalare la possibilità di mettere in rete e scambiare i propri remix tramite il sito ufficiale del gioco. Una feature dal potenziale tutto da esplorare.
Imparare con i videogiochi è possibile? Si, se si va a lezione da Harmonix. Il team di sviluppo americano sale nuovamente in cattedra per insegnare all’utenza rincoglionita dalle prolungate esposizioni ad un Primal qualsiasi che per uscire con qualcosa di buono nell’ambito dei rhythm game non bisogna essere per forza un muso giallo, e che non necessariamente tutti i trip si risolvono in un viaggio andato a male. Ah, Harmonix avrebbe anche un paio di cose interessanti da dire sulle finalità d’intenti che legano intimamente il cinema di Cronenberg e il videogioco, ma questo sarebbe meglio che ognuno lo sperimenti sulla propria pelle…
anni luce). Amplitude tradisce nel soundtrack, di qualità sempre degna di nota, ma avaro nel dispensare sorprese e brusche inversioni di marcia nello stile musicale tra una canzone e l’altra (Frequency questo non l’avrebbe permesso). Infine, l’opera Harmonix tradisce nella nuova conformazione del tracciato, dispiegato ora completamente in orizzontale. Abbandonare il claustrofobico tunnel del prequel è un inevitabile dazio da pagare all’evoluzione della specie, e l’impatto visivo ancora più solido, colorato e ricco di effetti ne costituisce un piacevole corollario. Peccato che l’highway ad otto corsie che ci si ritrova a percorrere sia dispersiva e poco pratica, fallendo inoltre miseramente nel tentativo di eguagliare le emozioni suscitate da un rollercoaster, assomigliando a conti fatti ad una sonnolenta strada provinciale (Frequency non è mai esistito).
_______The trip remains the same?
____________________Acidi e basi
Tutt’altro che scoraggiata dall’insuccesso commerciale a cui è andata incontro investendo in un prodotto così particolare come Frequency, a distanza di un anno e mezzo Sony rilascia il qui presente Amplitude. Titolo diverso, sostanza immutata. L’utente è nuovamente invitato a dare letteralmente vita a ciascuno dei 26 brani musicali presenti, attraverso dinamiche ludiche semplici e coinvolgenti. Barra dell’energia a sinistra, autostrada ad otto corsie davanti. Ogni corsia ospita una delle diverse tracce audio di cui si compone la canzone (basso, batteria, chitarra e via di questo passo), ciascuna suddivisa in piccoli segmenti. Tutte le volte che si riesce ad inanellare la sequenza di note presenti su un segmento, la relativa traccia si attiva e comincia a suonare, consentendo di dedicarsi agli altri strumenti, fino ad arrivare a dare voce all’intera canzone. Ogni volta che si supera un segmento senza attivarlo, l’energia diminuisce, portando al game over nel caso di totale prosciugamento. Il videogiocatore frequentatore di certi luoghi musicali, già abbagliato dal seducente trip emozionale di Frequency, non aspettava altro che essere preso ancora una volta in ostaggio da meccaniche elementari ma anche sfaccettate, goduriose anche se poco permissive... Tuttavia, una volta consumata in tutta la sua estensione e profondità questa nuova incarnazione del franchise, si è invasi da sensazioni controverse. Col senno di poi si realizza che Amplitude si mantiene fedele all’eredità del predecessore, ma al tempo stesso la tradisce. Tradisce nella mancanza di coraggio nel percorrere in maniera più spinta la strada tracciata dal prequel, accontentandosi di adagiarvisi placidamente. Nessuna inedita implementazione o evoluzione della precedente impostazione viene registrata alla voce “novità”. Di certo non lo sono i due nuovi bonus introdotti (il rallentatore e il freestyler), né tantomeno quegli stage chiamati ‘boss fight’, posti a conclusione di ciascuna zona (la sovversiva carica innovativa di Frequency è uno sbiadito ricordo). Amplitude tradisce nella voglia di abbracciare un’utenza più vasta possibile, spudoratamente rivelata da un livello normal che suona come insulto nei confronti di chiunque abbia speso più di 5 minuti con il prequel. Affrontato a questo livello di difficoltà Amplitude si lascia consumare in poco più di un paio d’ore, senza esaltare né punire apprezzabilmente, esiliando sovente le emozioni fuori dalla porta. A peggiorare le cose interviene l’introduzione dei checkpoint (no, nemmeno questa può definirsi una novità…), i quali rimpinguano gratuitamente la già grassa barra dell’energia con fastidiosa generosità, accompagnando per mano il giocatore anche più inetto alla fine di ogni livello. Fruito in questa veste, Amplitude propone uno sbiadito divertissement per annoiati giocatori occasionali, la cui soglia di attenzione probabilmente non riesce a superare i 4 minuti 4 (lo splendido gameplay di Frequency è lontano
Tuttavia si diceva che Amplitude si mantiene fedele oltre che tradire, e così una volta affrontato a livello brutale, una volta abituatisi alla scomoda impostazione orizzontale e perdonata la tendenziale piattezza del soundtrack, gli aficionado saranno felici di ritrovare la stessa esperienza di una volta, mentre le nuove leve avranno l’occasione per saggiarne Come Frequency le possibilità.prima di lui, Amplitude non si accontenta di stazionare laddove si fermano la maggior parte dei titoli concorrenti, ma prosegue oltre, e lo fa in maniera prepotente. Non è solo questione di interagire seguendo il ritmo. Amplitude non vi invita a catturare quella linea di basso che serpeggia profonda e sinuosa. Vi chiede di diventarlo. L’utente esperto trae sì soddisfazione nel reinterpretare la canzone attraverso i suoi personali remix, e nello sfidare al limite del tafazzismo la sua concentrazione e la sua perizia esecutiva ( conseguendo punteggi sempre più elevati). Ma non sono le sue azioni a caratterizzarlo, quanto le intenzioni che lo muovono. Nel turbinio dell’azione, egli non vede un tempo dispari eseguito a 186 bpm come una maledizione, e l’autoblaster in grado di risolvere la faccenda al posto suo come una liberazione. No no. Quella fottuta sequenza la aspetta già dall’inizio della canzone, la cerca. Proprio come il surfista navigato sa che dopo un lungo inverno d’attesa quel giorno incontrerà L’ONDA. E vi si immerge anche se ai suoi lati giacciono strade molto più accondiscendenti e meno dolorose. È in questi frangenti che Amplitude si dischiude in tutto il suo potenziale espressivo ed esistenziale. Momenti di fisico annullamento, di fusione, affinché ciò che ci circonda diventi tutt’uno con noi. Per superare la barriera del suono ed approdare a questi lidi l’istinto animale è fondamentale, ma solo fino ad un certo punto, oltre il quale occorre distacco ascetico. È un territorio in cui il sistema metrico decimale cade disintegrato, perché non esistono più misure, ne distanze, ma solo sensazioni. Per approdare a ciò Amplitude non necessita di eccentriche periferiche o di altri inutili orpelli, perché gli elementi costituivi di questa trasfigurazione sono in sé semplici ed elementari: micidiali output visivi davanti, joypad pulsante tra le mani e musica tutto intorno, ma soprattutto dentro. Il gioco sensoriale tout court, come non l’avete mai vissuto prima. David Cronenberg, che con i suoi film da sempre promuove l’ideale di fusione tra organico e sintetico (o qualcosa del genere), è stato sorpreso a sorridere orgoglioso e sornione, ovviamente a tempo di musica. Quelli di Harmonix sono il manipolo di spacciatori più fottutamente scaltri sulla piazza perché hanno trovato un modo per mandare i giovani in acido senza infrangere la legge o correre il rischio di bruciarsi il cervello. Le droghe legalizzate sono già qui, con buona pace di Pannella.
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[PEOPLE: Shigeru Miyamoto]
di Gatsu piacere, ma Satoru potrebbe avere qualche asso nella manica in grado di farci ricredere. Ne riparleremo dopo l'E3...
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[Me Nintendo #10]
di Gatsu «Storicamente il rock'n roll, i fumetti, i film e anche i romanzi sono stati incolpati di corrompere i giovani. Sono spiacente di farvi sapere, miei cari lettori, che siete nati sotto il segno dei videogiochi pericolosi. Ammettiamo per un momento che i videogiochi violenti incoraggino un comportamento violento. Se questo fosse vero, quante morti pensate siano state causate per colpa di un videogioco? [...] Pensiamo ora ai milioni di persone le cui morti sono collegate con un libro. La Bibbia, Mein Kampf e Il Capitale sono responsabili della morte di milioni [di esseri umani]. [...] Da questo si evince che i libri sono estremamente pericolosi. Dovrebbero essere considerati armi di distruzione di massa. Se siete veramente preoccupati a proposito degli effetti [negativi] dei media, dimenticate i videogames e iniziate a bruciare le librerie» Gonzalo Frasca, A preliminary note: games as weapon of mass distraction (www.gamestudies.org)
_______Nintendo creò la censura... Prima dell'ELSPA, dell'ESRB e del PEGI, Nintendo c'era. L'azienda giapponese, che nei tre lustri degli anni ottanta e dei primi novanta ha dominato il settore dell'intrattenimento casalingo, è stata anche una delle prime aziende a preoccuparsi del contenuto dei giochi che proponeva al suo pubblico. Come dice Cristiano Bonora nella tesi Il processo di localizzazione del videogioco tra paternità e assimilazione culturale (cap. 6, pag. 51, Censura e autocensura, quando si localizza con il bisturi), «durante la fase di adattamento culturale di un videogioco, non è sufficiente che una software house si limiti a condurre un delicato lavoro di conservazione di contenuti e confezionamento del prodotto su misura di un nuovo pubblico target. Infatti, non solo il videogioco deve piacere ai suoi potenziali acquirenti, ma deve anche evitare di motivare l'indisposizione e quindi l'avversione di chi di videogiochi non si interessa. [...] Nonostante [il suo] straordinario successo, Nintendo of America si ritrovò a far fronte a un'opinione pubblica imbizzarrita. Mentre genitori e insegnanti ritenevano che il videogioco costituisse per i ragazzi una pericolosa distrazione dallo studio [...] Nintendo fu contestata [anche] attraverso manifestazioni [...] che la accusavano di incitare i giovani alla guerra». La reazione di Nintendo è ben nota e le sue ripercussioni negative non mancano di farsi sentire soprattutto oggi che la maggioranza dei videogiocatori appartiene alla fascia adulta. Proprio per evitare crociate anti-VG, il controllo sui contenuti dei giochi prodotti internamente divenne rigido e severo, portando la società a sfornare titoli di ottima caratura ma privi di qualsiasi elemento che potesse essere ritenuto “politicamente scorretto”. Venne inoltre proibito alle terze parti di inserire feature che avrebbero potuto causare problemi con l'opinione pubblica. Tristemente noto è l'esempio di Mortal Kombat per SNES, uscito in una versione completamente sfigurata e totalmente priva di sangue. L'attrattiva principale del gioco, le famigerate fatality, erano ovviamente precluse al giocatore e non si potevano sbloccare nemmeno tramite cheat mode. Curiosamente, gran parte dei tagli apportati ai giochi riguardava il solo mercato occidentale: in Giappone, patria di manga hentai e sanguinari samuraiyakuza-seppoku-addicted, tali restrizioni contenutistiche non sembravano necessarie. Fu proprio per questo motivo, come dice lo stesso Cristiano Bonora, che
«i videogiochi di matrice orientale sono stati spesso sottoposti alla pratica harakiri dell'auto censura», restando (con nostro sommo dispiacere) relegati al solo mercato in grado di accoglierli senza tante menate. L'elenco dei titoli toccati da tali politiche nintendiane di epurazione è praticamente senza fine e riguarda una sfilza immane di generi (picchiaduro, rpg, sparatutto, puzzle game...) e di tematiche (violenza, sesso, religione, buon gusto...), tanto che reperirne una lista completa è pressochè impossibile. Molto più interessante è invece considerare le conseguenze di tali scelte alla luce dell'evoluzione del mercato e il parziale ripensamento della stessa Nintendo sulla questione. _____...E si tagliò le gambe da sola Protrattasi ben dopo il lancio sul mercato di Playstation, la rigidità morale Nintendo iniziò ad ammorbidirsi solo nel periodo di vita finale del N64 (con qualche eccezione, ricordo Killer Instinct Gold, uscito quasi subito), alla luce degli straordinari successi che titoli pensati per il pubblico adulto andavano raccogliendo sulla grigia console Sony. Arrivarono così la conversione di Resident Evil 2 e il capolavoro di Rare Conker's Bad Fury Day. Nonostante la bontà della proposta, comunque limitatissima, a Nintendo mancava proprio una "base d'utenza" in grado di recepire e accogliere titoli dedicati al pubblico adulto. E se è vero che in America l'N64 aveva una grossa base installata, è anche vero che la maggior parte dei suoi fruitori apparteneva alla fascia d'età infantile-adolescenziale. La reazione dei videogiocatori più grandi, cresciuti magari con un NES o uno SNES in salotto, fa quella di spostarsi in massa verso le meno bambinesche lande Playstation. Tentando di invertire la tendenza, Nintendo cercò di allargare la sua utenza gamecubica assicurandosi fin da principio alcune esclusive, ritenute strategicamente importanti. Nonostante questo, la produzione interna della casa di Kyoto ha continuato (e continua tutt'ora) a rivolgersi ad un pubblico più vasto possibile, lasciando fuori dalla porta tematiche scomode o generi specificatamente graditi dall'utenza più adulta. E se da un lato abbiamo casi isolati come i pregevoli Resident Evil Rebirth, Resident Evil 0 o Eternal Darkness, dall'altro abbiamo come sempre una (ottima e massiva) produzione incentrata sulle icone della grande N, come Mario, Link e compagnia cantante. Questo ha portato le terze parti a scegliere altre
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piattaforme su cui sviluppare, anche perchè su piattaforma Nintendo vendono bene solo i titoli della casa madre, un po' per il tipo di immagine che Nintendo si trascina dietro, un po' perchè poche software house possono competere con la grande N. E non è un caso che l'involontariamente spassoso sito www.almenconi .com/topics/games/reviews.html, dedicato alle recensioni "morali" dei titoli, individui nei giochi Nintendo quelli con meno contenuti blasfemi (è evidente infatti che il rating M - mature - una volta assai temuto da ogni software house, sia ora divenuto una sorta di "meta da raggiungere"). Pur non sfuggendo ad alcune critiche sui contenuti (Pokémon: "Chiedete ai vostri bambini se l'idea di vedere animaletti che si massacrano li diverte, e se usare abilità magiche contro le altre persone è ciò che Dio chiede loro". Zelda The Wind Waker: "La magia nel gioco tende al sovrannaturale e all'occulto nelle Cronache di Narnia. È difficile determinare se questo possa avere effetti negativi sui giocatori. La feature del controllo mentale e l'associazione con la mitologia greca potrebbe causare in alcuni giocatori la sensazione di essere al limite del demoniaco, gli altri semplicemente si divertiranno"), i titoli made in Nintendo sono quelli che ottengono, perfino in un sito di fondamentalisti religiosi/morali, le votazioni migliori e in assoluto sono quelli più indicati come "giochi per tutta la famiglia". Del parziale fallimento della politica di "allargamento" all'utenza adulta deve essersene accorto anche Iwata, che in una recente intervista ha dichiarato che Nintendo continuerà ad occuparsi di giochi per tutti, troncando di netto ogni speranza dei fanboy di rivedere al più presto gli hardware Nintendo in vetta alle classifiche di vendita. Pur accontentandosi di una dietetica fetta di torta, Nintendo pare interessata ad esplorare nuove strade: da quella dello sperimentalismo ludico/visuale (pensate a Viewtiful Joe, Killer7 o Unity, titoli che approderanno solo su Gamecube), a quello di una maggiore autoironia (Mario & Luigi Superstar Saga) che rendono titoli apparentemente infantili molto interessanti anche per chi negli ultimi anni si è allontanato dai lidi Nintendo, grazie ad una dose di humor e di perfida ironia finora mai riscontrata. Certo l'ipotesi di vedere Nintendo rilegata in una seppur qualitativamente superba nicchia di mercato non fa certo piacere, ma Satoru potrebbe avere qualche asso nella manica in grado di farci ricredere. Ne riparleremo dopo l'E3...
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The Ivory Tower – Presentazione Ogni mese, un membro della DiGRA (Digital Games Research Association) esprimerà in questo spazio i suoi pensieri, le sue riflessioni, le sue scoperte. Gli sguardi di queste persone, coinvolte in modo diverso nel mondo dei game studies o nell’indu-stria del videogioco propriamente detta, saranno uno spunto per arricchire i nostri dibattiti e per crearne di nuovi. La IGDA (www.igda.org) (International Game Developers Association), da sempre impegnata nello studio del videogame, ha acconsentito alla pubblicazione in lingua italiana su Ring di questi articoli di loro proprietà. Ringraziandoli ancora una volta, ci auguriamo che le nostre pagine siano degne della passione che la IGDA nutre per il proprio lavoro.I riferimenti ad altri autori mai citati nelle nostre pagine abbiamo preferito lasciarli così com’erano, in modo da stimolare la curiosità di chi volesse approfondire l’argomento. Il primo numero di The Ivory Tower lo dedichiamo a questo pezzo scritto da Espen Aarseth nel Luglio del 2003. Aarseth è una figura chiave per i game studies: il giornale di cui è direttore, chiamato a scanso di equivoci Game Studies (www.gamestudies.org), è un punto di riferimento per chiunque cerchi testi autorevoli e stimolanti. Lavora al Centre for Computer Games Research della IT University di Copenaghen (game.itu.dk/) come ricercatore e professore. In questo articolo Aarseth si interroga sul rapporto che dovrebbe esistere tra industria del videogioco e accademia, e soprattutto su quali sono i reali obiettivi di quest’ultima. Da questo nasce un’interessante interrogativo: per studiare collettivamente qualunque oggetto è necessario un linguaggio condiviso dagli studiosi, ma per lo studio del videogioco, dov’è il vocabolario comune? Chi lo può creare? Chi davvero ne ha bisogno? E, soprattutto, è necessario? Un tema di importanza vitale per una ricerca a livello universitario che voglia essere produttiva, ma che si porta dentro delle considerazioni valide per chiunque voglia parlare di videogiochi: come facciamo ad esporre le nostre teorie, se ogni parola può essere fraintesa? Come facciamo ad essere sicuri che stiamo parlando la stessa lingua?
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[The Ivory Tower #1]
di Espen Aarseth ____Due industrie, due culture? In questa rubrica e altrove (www.igda.org/articles/msakey_lan guage.php) si è discusso molto su come l’accademia e l’industria possano cooperare traendone beneficio reciproco. Sono stati proposti molti buoni suggerimenti e, benché alcuni di questi non abbiano avuto seguito, hanno aiutato gli uni a capire meglio i bisogni e i desideri degli altri. Un errore comune, io credo, è quello di pensare alle due parti come monolitiche: “l’industria”, come un gigante anti-intellettuale carico di soldi e dotato di scarsa apertura mentale, e “l’accademia” dall’altro lato come una congrega di autocompiacenti pippaioli coi paraocchi. L’Accademia non è altro che un’industria, con obiettivi di produzione a breve termine (i crediti degli studenti), competizione per le percentuali di mercato, lancio di prodotti (nuovi corsi) ogni sei mesi e, se siamo molto fortunati, un pizzico di ricerca creativa alla fine del giorno o (più probabile) nei nostri residui di tempo. Ma mentre l’industria di videogiochi è sul mercato da alcune decadi, l’industria accademica del videogioco ancora non esiste davvero. Stiamo inventando noi stessi. Le migliori teorie sui giochi là fuori sono ancora quelle di Richard Bartle e Harvey Smith. Ma dateci un paio di secoli, e vi daremo il nostro Einstein. Credetemi, accadrà.
La citazione sulle pratiche masturbatorie è rubata dalle note di chiusura di Ernest Adams (www .igda.org/academia/IGDA_2003_Ac ademic_Summit_ErnestSummary. pdf) all’Accademic Summit (www. igda.org/academia/events.php) del Game Developers Conference di quest’anno, dove il Sig. Adams, col fascino del suo penetrante, arguto, ma pur sempre amabile cappello a cilindro, ci ha ammonito (noi accademici) di non diventare come gli studiosi di letteratura: «Per quelli tra voi che vengono dalla critica letteraria e teatrale: se fate a questo medium quello che avete fatto alla letteratura e al teatro, allora i rapporti tra di noi terminano qui». Per quanto sia facile capire e persino condividere il sentimento dietro questo severo ammonimento (chi, dopo tutto, ama gli accademici coi paraocchi? – Probabilmente neanche le loro stesse madri), questa volta mi pare che il mio guru videoludico preferito, mentre cercava di fare un rocket jump, si è fraggato sparandosi sui piedi. Uno sguardo più attento alla storia della letteratura, dal dramma Greco a Stephen King, rivela un forte beneficio reciproco, nel quale la teoria, la scrittura, l’insegnamento, e la preparazione dei testi vanno mano nella mano. Certo, c’è odio e amore, come in ogni lungo e fecondo matrimonio. Ma nel lungo termine (i prossimi duemila anni di critica e produzione di videogiochi)
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possiamo fare molto peggio che copiare la relazione simbiotica tra critica letteraria e scrittura creativa. Bisogna prestare attenzione all’avvertimento di Adams contro il gergo auto compiacente e non comunicativo, ma giornali come Game Studies hanno trattato la questione sin dall’inizio. Il fatto che Game Studies abbia ricevuto per questa politica delle aspre critiche da altri accademici, come in una recente discussione tra i membri della DiGRA, è di sicuro un segno di buona salute. Inoltre mostra che così come l’industria assume diverse forme, dimensioni, e adotta diverse agende, altrettanto fanno anche i ludoaccademici. _____Un Linguaggio Universale Parlando di gergo, è stato suggerito da Ernest Adams e altri che un modo con cui gli accademici potrebbero rendersi utili è sviluppare un linguaggio comune, un vocabolario condiviso che l’industria potrebbe usare per standardizzare i propri documenti di design e le comunicazioni quotidiane. Questo sembrerebbe un buon progetto accademico, ma lo è davvero? Come Janet Murray ha sottolineato nell’articolo del mese scorso (Ivory Tower del Giugno2003, NdT), la ricerca accademica non si occupa di raggiungere il consenso tra tutti, si occupa di produrre conoscenza, e questa significa tanto accordi quanto disaccordi. Dopo duemila anni di
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ricerca, non c’è una terminologia comune abbastanza forte da sostenere un’industria per lo storytelling. Ci sono molti dizionari e vocabolari condivisi per la narrativa, ma non dobbiamo prenderci in giro e pensare che un linguaggio standard emergerà prima o poi, nonostante gli ottimi propositi degli studiosi di narrativa. La costruzione di un vocabolario, così come la formazione di una comunità, è un processo lento, collettivo e senza fine, e non sempre compatibile con una ricerca critica analitica. La gente guarda le cose in modo diverso, e le parole non veicolano affatto un senso condiviso e assodato. Certo, una terminologia tecnica standardizzata sarebbe di grande aiuto per una grande compagnia di produzione di giochi, ma in questo caso, lasciate che paghino per questo! È quello che fanno altre industrie con necessità analoghe, come
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l’industria del petrolio in Norvegia. Completare e sostenere una completa terminologia industriale è una tipica ricerca applicata per i terminologi (la terminologia è un ramo della linguistica applicata). E potrebbe davvero essere una cattiva idea avere un linguaggio comune, così presto nell’infantile tradizione della produzione di giochi digitali. Gli standard immaturi sono le camicie di forza di domani, e mi assumo il rischio di affrontare l’ira del Sig. Adams evocando una dottrina molto utile del post-strutturalismo, secondo la quale le parole riescono a direzionare e formare il nostro pensiero molto più di quanto ci piace pensare. I loro significati controllano noi, più che il contrario. Nel rapido mondo della produzione creativa di videogiochi, forse l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un perfetto linguaggio comune. La
produzione sta probabilmente diventando già così uniforme che l’innovazione e l’arte potrebbero trarre beneficio da maggiore, piuttosto che minore, caos e pluralismo. Non fraintendetemi. Non sono contro tutti i tentativi di regolare la terminologia. Infatti, come teorico non faccio altro. Lo facciamo tutti. Solo non credo che il risultato finale di uno sforzo consapevole e collettivo per produrre un dizionario, per quanto possa essere organizzato e per quanto ci si possa investire, sarà poi così utile, anche se per il duro lavoro o per intervento divino raggiungessimo un accordo. Il suo valore più grande verrà probabilmente più dal processo che dal risultato, attraverso quella consapevolezza che nasce dalle decisioni difficili. Proprio come quando si gioca, la meta è nel percorso.
Artwork A tutti voi sarà capitato almeno una volta nella vita: state impaginando un numero di Ring (o una tesi di laurea, o un documento delle BR) e vi rendete conto che si è aperta una voragine bianca nella pagina. Una voragine impossibile da togliere nemmeno variando la dimensione dei font. Allora cercate nell’hard disk qualcosa, una stronzata qualsiasi da usare come tappo ma, dopo aver realizzato che in un pdf non si può inserire il video di Paris Hilton, capite di essere nei guai. Non temete! In questi casi l’azione più sensata da fare è di rubare le idee agli altri! Ecco quindi che inauguriamo questa rubrica-tappabuchi di artwork contenente, questo mese, due bozzetti del bellissimo Beyond Good & Evil. Portate sempre questo insegnamento con voi: quando avete finito le idee, rubatele agli altri.
Appuntamento al prossimo mese con gli scan delle lettere d’amore scritte da Nemesis Divina all’età di 16 anni.
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cARNE dA mARCELLO_________________________________
[Il Negoziatore #001]
di Marcello Cangialosi Facciamo un esperimento? Dai, facciamolo. Per i prossimi 5 minuti immaginate di non essere i super-appassionati di videogiochi che indubbiamente siete. Fate un piccolo sforzo e immaginate di essere l’ultimo rappresentante di quel puzzolente aggregato di pecore belanti schiave dell’hype e del marketing, che appare la ‘massa’ ai vostri occhi. E già che ci siete fate finta che fra quei 2 o 3 videogiochi a cui avete giocato nel corso della vostra inutile esistenza figuri Silent Hill. Il vostro preferito. Ci siete? Perfetto. Ora, osservate questo…
Forbidden Siren. La “Sirena dimenticata”. Boh. Sarà un gioco horror. Boh. Ma come sarà? Boh. Sarà tipo Silent Hill? Boh. Sarà bello quanto Silent Hill? Boh. Ora, da ignoranti quali siete (sempre per il bene della scienza, sia chiaro), ditemi in tutta sincerità quale di questi due prodotti vi ha stuzzicato l’interesse. Ricordate che non siete appassionati di videogiochi. Fatto? Bene. Dico una cazzata se suppongo che la prima locandina vi ha intrigato più della seconda malgrado quel dito medio? Ricordate che siete pecore. Allora, dico una cazzata? Oh, ottimo. Ne dico un’altra se suppongo che quel “Peter Jackson” in alto a sinistra suona come “sono un prodotto di qualità” più della semplice quanto aleatoria associazione Forbidden Siren-Silent Hill? Bravi. Ehi, siete ancora in modalità “pecora” vero? Ok, restateci e facciamo un salto in un mondo alternativo, dove la logica regna sovrana e del buon senso ci fanno anche le olimpiadi. Riguardiamo le due locandine in questo mondo. Quella di “Bad Taste”… … e quella di Forbidden Siren
… e ora questo.
Restate in modalità “pecora” ancora per qualche secondo e ditemi che differenza passa fra la prima locandina e la seconda a livello ‘propagandistico’. … Vi do un aiuto, bestie che non siete altro: la prima suggerisce di andare a farvi fottere. … Ve ne do un altro, animali: la seconda si riferisce ad un videogioco per PlayStation2. … Ancora niente? Facciamo così. Guardate nell’angolo in alto a sinistra della prima locandina.
Ah-ah! Peter Jackson! Il regista de Il Signore degli Anelli! Fico! Ora scandagliate la seconda locandina. Trovato niente? Niente. È normale, non c’è niente di particolare al di là di una ragazzina immersa in una sorta di oscurità purpurea con sotto la scritta
Be’, le cose cambiano non vi pare? “Dal creatore di Silent Hill”. Eccazzo. Ora sì che la confezione di Forbidden Siren ha ragione di essere prelevata dallo scaffale per essere investigata sul tergo. Vedete (tornate pure normali adesso), dal punto di vista delle strategie di marketing, l’industria cinematografica e quella videoludica si somigliano. Entrambe corteggiano il consumatore con strumenti analoghi (effetti speciali/grafica spettacolare, seguiti e remake/seguiti e remake), ma laddove la prima ha intuito l’importanza dell’Autore, la seconda sembra fondamentalmente… come dire… fottersene? Date un’occhiata alle release dell’annata videoludica appena trascorsa e ditemi quanti ‘II’, ‘III’, ‘IV’, diamine, arrivate pure fino a ‘XI’, riuscite ad indivi-
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duare. Una marea. Ora fate altrettanto con le uscite cinematografiche dello stesso periodo. Sapete dirmi perché l’industria videoludica è quella la cui produzione annovera il maggior numero di seguiti al mondo? Uno dei motivi è proprio legato alla scarsa rilevanza dell’Autore, inteso come l’Artista, il Direttore del progetto. In altre parole, la gente conosce i nomi dei “giochi” non quelli dei rispettivi “registi”. Ad autori come James Cameron o Steven Spielberg è permesso dedicarsi con fiducia a produzioni originali (tutti sanno che è “quello di Titanic” / “quello di Schindler's List” e se non lo sanno state certi che il colletto bianco di turno glielo farà notare), ma un Keichiiro Toyama che ti abbandona Silent Hill per dedicarsi a Forbidden Siren è condannato a restare nell’ombra, lui e il suo gioco originale, malgrado la notorietà della serie a cui ha dato i natali. C’è qualcosa che non va ed ho come l’impressione che l’evoluzione del videogioco dallo status di “giocattolo elettronico” in cui versa attualmente a quello di opera artistica a cui merita di assurgere, passi proprio per il riconoscimento dell’Individuo. Datemi del pazzo. Ma al di là di questo, ciò che mi disturba è che l’industria non sembra rendersi conto dell’arma formidabile di cui dispone. Nomi come “Miyamoto”, “Suzuki”, “Yamauchi”, compaiono spesso sui mezzi di informazione specializzati, ma mai negli spot pubblicitari e soprattutto mai sulle confezioni. Diamine, la maggior parte dei giochi non dà modo di conoscerne l’autore fino ai titoli di coda! E chi se li legge i titoli di coda?! Ovviamente esistono delle eccezioni. Il nome di Hideo Kojima compare sulla cover di Metal Gear Solid 2 Substance (ho qui davanti la versione Giapponese), ad esempio. Ma si tratta, appunto, di una eccezione. Più spesso, se c’è un nome in cover è quello di Tom Clancy. Già che ci siete sapete dirmi chi è il Director o il Producer di Splinter Cell? È sintomatico quello che dice Michel Ancel nell’intervista pubblicata sul numero 004 di Videogiochi. A proposito della presentazione di Beyond Good & Evil all’E3 di diversi anni fa, dichiara: “non conoscevano il gioco, non c’era alcuna licenza, non era basato su un film… Credo che lì abbia sbagliato il marketing: l’hanno spinto come ‘Il gioco di Michel Ancel’, ma nessuno conosce il mio nome!” Ecco perché si continua a puntare sulle licenze. Ecco perché si continua a puntare sullo stesso franchise. Ecco perché si va a scomodare Tom Clancy. Ma è sensato continuare su questa strada? Se il nome di Michel Ancel fosse stato strillato ai quattro venti sin dal primo Rayman, come avrebbero reagito i visitatori dell’E3 all’annuncio di Beyond Good & Evil? Si sarebbero comunque accalcati attorno a quello Splinter Cell “di Tom Clancy” o avrebbero accordato un’occhiatina anche all’opera di Ancel? Pensateci. E fatemi sapere la vostra.
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sTAGE 1: hANDHELD gAMING___________________________ [Arena - Opinioni in Multiplayer]
Il futuro in tasca di Gatsu Certo prevedere il futuro di un’industria mutevole come quella dei videogiochi non è affatto semplice. Ognuno si fa le proprie idee, basandosi sull’intuito e/o sulla sua conoscenza dell’ambiente, visto che in questo campo appoggiarsi ai precedenti storici non è mai stato molto fruttuoso. Ma alcune domande ti beccano come un colpo di cric fra capo e collo, e mica ti puoi mettere a protestare o a chiedere “Ehi, ce l’hai con me?”. Allora mi chiedo: è plausibile, nel giro delle prossime due generazioni, assistere al declino delle console casalinghe e all’ascesa delle console portatili? In un certo senso la risposta più ovvia non è la più banale, perché due mercati “distinti” e “paralleli” si verranno effettivamente a formare: ci sono motivazioni pratiche e tecniche che apparentemente rendono impensabile una scomparsa delle prime in favore delle seconde. Pensiamo però all’introduzione della televisione: è palese che a livello di prestazioni audio/video nessuno schermo/impianto attualmente in commercio può competere con una sala cinematografica appena modesta, dotata di default almeno di un telone di ragguardevoli dimensioni e di un impianto Dolby; eppure ognuno di noi ha in casa almeno un paio di TV. Il cinema è forse morto in seguito a questa colonizzazione catodica? No, però il suo ruolo si è ridimensionato, o per meglio dire “radicalmente adattato” alla nuova situazione. Nessuno va al cinema a vedersi il telegiornale, per intenderci, e raramente i prodotti pensati per il grande schermo sono intercambiabili con quelli pensati per il piccolo schermo (la relazione tende infatti ad essere univoca, e a seguire lo schema cinema Æ tv)1. Le analogie con il mondo del videogioco sono palpabili. C’è un elemento che però scombussola tutto il ragionamento precedente: mentre l’utente sostanzialmente “subisce” i contenuti di cinema e TV, ciò non è altrettanto vero per quanto riguarda il videogioco, che trova il suo tratto distintivo nella cosiddetta “interazione” gioco-utente. Ora, leggendo i pronostici di alcuni analisti, rimango perplesso nel vedere Microsoft, l’unica società senza piani concreti per il mercato portatile, davanti a Nintendo in quanto a “possibilità di successo” nella generazione futura. GBA (o meglio, il suo successore) e PSP saranno con ogni probabilità le vere console dominatrici del mercato negli anni a venire. Ciò che alcuni analisti faticano a focalizzare è che l’utenza stessa lo richiede. Con l’innalzarsi dell’età media del videogiocatore, ci sono da considerare tutta una serie di problematiche inedite per questo tipo di mercato. Tanto per fare qualche esempio, è probabile che attualmente il videogiocatore standard si sposti di frequente per motivi di studio e di lavoro, che abbia poco tempo libero ma magari molti tempi morti da riempire (pausa caffè, intervallo, fermata dell’autobus, sale d’attesa…), che giochi tendenzialmente verso sera piuttosto che di giorno… Di fronte a determinati vantaggi (la portabilità), e con il raggiungimento di un livello tecnologico soddisfacente (già PSP promette grandi cose), poco importerà ad un videogiocatore di non udire il coro dei tifosi in 5.1 giocando ad un Winning Eleven portatile2. E anche volendo insistere sulla questione tec-
nologica, semplici accessori possono ovviare a qualsiasi mancanza: un suono 3D estremamente convincente si può riprodurre, mediante appositi artifizi software, anche tramite due comunissimi auricolari, così come uno schermo a 52” può essere contenuto in un paio di occhiali appositi (periferiche del genere potrebbero allargare drasticamente il loro mercato nei prossimi tempi, anche se della loro reale necessità non sono del tutto convinto3). Per non parlare del gioco ondine: che cosa può rivelarsi più comodo di una piattaforma già predisposta all’uso in rete vista l’inclusione (praticamente scontata in tutti i prossimi portatili) di funzionalità telefoniche? Il futuro del videogioco tende alla portabilità. Le console da casa quasi sicuramente sopravvivranno, ma modificheranno probabilmente il loro utilizzo: solo produzioni estremamente costose saranno a loro indirizzate, mentre maree di giochi economicamente meno impegnativi troveranno loro naturale dimora nelle console nomadi. Questo potrebbe portare il videogioco stesso a mutare profondamente a seconda della sua destinazione finale… oppure no? Note [1] Mi riferisco in particolare a contenuti palesemente pensati per il mercato televisivo: telefilm, talk show, quiz, cose del genere. Va fatto notare che in passato il cinema era l’unico luogo dove si potesse vedere un “notiziario” (parlo dei noti cinegiornali dell'Istituto LUCE, che venivano trasmessi prima degli spettacoli e che arrivarono ad avere anche cinque edizioni alla settimana). In Italia è successo anche che lo show “Lascia o Raddoppia?”, di particolare successo, venisse proiettato in alcune sale (cfr. Andrea Melodia, Teoria e tecnica del linguaggio televisivo, Aracne, Roma), ma si tratta di un caso sostanzialmente isolato. Cambiando discorso, con “direzione univoca” intendo: “i film che passano al cinema approdano prima o poi in TV, mentre il contrario non accade”. Il mercato home theatre inoltre va considerato a parte, anche perché in questo caso la “televisione” perde i suoi connotati di medium autonomo e diventa più che altro uno “schermo sui cui proiettare contenuti di tipo cinematografico”. [2] Ci sarebbe da aggiungere la cosiddetta “legittimazione sociale” del videogioco. Finché videogiocare equivarrà ad essere dei nerd, tali previsioni restano solo fantasie. Ma con l’allargamento del mercato sarà il mercato stesso ad estirpare alla radice il problema rendendo il videogiocare una cosa cool. [3] Mi capita di rado, usando il GBA in giro, di giocare ad alto volume o utilizzando le cuffiette. Mentre a casa non mi sognerei mai di giocare se non al massimo delle possibilità (adeguata luminosità della stanza, volume decente…), tale desiderio viene ridimensionato durante le mie sessioni raminghe, per desiderio di discrezione o perché tutto sommato quello che mi interessa è giocare, pazienza se non ho il Dolby...
L’handheld gaming non esiste di Cryu Tenetevi forte perché la sparo grossa: l'handheld gaming non esiste. Proprio così. Il Game Boy Advance, ricaricato nel look dalla sua reincarnazione SP, domina comodo l'intero settore. N-Gage? Non scherziamo. Il Game Boy Advance SP attualmente è l'handheld gaming. Eppure l'handheld gaming non esiste. Non esiste perché non viene sviluppato del software modellato sul concetto di portabilità. I migliori titoli per GBA sono quelli che ne sfruttano al meglio l'hardware in termini di capacità di calcolo, di rappresentazione grafica 2D e di controlli, ma non traggono alcun beneficio dal fatto di poter essere giocati in autobus piuttosto che in treno. Yoshy's Island, Super Mario World, Final Fantasy Tactics Advance non sono giochi per GBA; sono
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giochi concepiti per altre piattaforme ed altri ambiti di fruizione, e oggi convertiti o rivisitati (nel caso di FFTA) su GBA. Metroid Fusion? Un gran gioco, ma avrebbe funzionato allo stesso modo su Super Nes. Advance Wars? Perfetto su PSOne. Il GBA, ora come ora, non è altro che una piattaforma di retrogaming; è il risultato della miniaturizzazione di hardware e software di dieci anni fa. Nel 1994 Super Mario World poteva girare solo su una macchina grande come un tostapane da collegare a un TV. Oggi la stessa cosa la può fare un aggeggio stylish grande quanto un cellulare, che per di più incorpora uno schermo LCD. Ma questo non è handheld gaming. L'handheld gaming dovrebbe essere una branca del videogiocare
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incentrata sul concetto di portabilità. E su GBA di giochi così io ne conosco tre: Wario Ware, Pokémon e Boktai. Rispettivamente: Wario Ware, come lo ha definito il ringhico Ferruccio Cinquemani, è una raccolta di aforismi videoludici; dozzine di sottogiochi dalla durata di pochi secondi ciascuno, perfettamente coniugabili con la frammentarietà di una sessione di gioco portatile. Salgo sull'autobus all'ora di punta e non c'è un solo sedile libero, mi incastro in un angolo e mi faccio un paio di sottogiochi. Alla prima fermata il passeggero che sedeva al mio fianco si alza lasciandomi il suo posto. Interrompo la partita, mi siedo e riprendo. Alla mia fermata devo interrompere nuovamente, scendo dal bus e riprendo ancora a giocare mentre aspetto la metropolitana. Tutto questo senza compromettere né la performance ludica né la godibilità del gioco stesso. Questo è handheld gaming. Questo è mobile gaming, non Sonic su un telefonino a schermo verticale. Pokémon. Ok, metto le mani avanti: a me Pokémon non interessa, colpa di un monster design che non mi ha mai entusiasmato e di un protagonista detestabile. Però Pokémon ricordiamolo: nato prima come VG e solo in seguito come cartone animato – è geniale. Il gameplay è progettato in funzione di una necessaria socializzazione con altri giocatori, caso strano per un VG, accusato spesso di istigazione all'isolamento dei suoi fruitori. Il giocatore tipo di Pokémon Rubino, durante la ricreazione scolastica, estrae il suo GBA dalla tasca del grembiule per sfidare in link il compagno di banco a sua volta possessore di GBA + Pokemon Zaffiro. Al termine della battaglia l'allenatore di Pokémon più abile si impossesserà della creatura altrui. Questo è handheld gaming votato al multiplayer. Questa è una forma di videogiocare in compagnia strutturata attorno al concetto di portabilità. Boktai non avrà soddisfatto tutte le aspettative di chi da Kojima si aspetta sempre e solo capolavori, eppure Boktai è handheld gaming allo stato puro. Il rilevatore di luce solare installato nella cartuccia assoggetta la risoluzione di determinate fasi di gioco a una fruizione all'aperto nelle ore diurne. Questo è possibile solo con una console portatile. Altrimenti che cosa facciamo? Mettiamo PS2 sul balcone? Boktai manda un messaggio forte: l'handheld gaming non è il videogioco da bagno, è il videogioco portatile, quindi sfruttiamola davvero questa portabilità. Ora quando sono in autobus non vedo l’ora
di arrivare a casa per giocare a SSX 3: inventatemi un gioco per il quale quando sono a casa non veda l’ora di uscire. Se posso gustarmi lo stesso gioco sul divano di casa senza inficiarne il valore ricreativo, allora non si tratta di vero handheld gaming, e in più difficilmente potrà competere con la concorrenza oppostagli dalle console accampate sotto il mio TV. A questo punto mi domando: è possibile che il futuro del divertimento elettronico risieda nell'handheld gaming: una tipologia di videogioco che non esiste se non in una manciata di esemplari? Naaa. Non ci credo. Dov'è allora il futuro del divertimento elettronico? Io posso solo intuirlo osservando il presente dell'home entertainment, un presente dove a farla da padrone è l'home cinema, ovvero la ricostruzione in ambiente casalingo di uno spazio di fruizione immersiva. I TV 16:9, i sistemi audio Surround e i DVD hanno condotto l'home entertainment in questa direzione. Il videogioco, da parte sua, si è adeguato, soprattutto con l’avvento del 3D. L'ibridazione cinema-VG è ormai una realtà talmente assodata da rendere del tutto superfluo il richiamo di esempi come MGS2, Final Fantasy X o Devil May Cry. Questo è il presente, questa è la direzione attuale. Salvo imprevisti, il futuro lo imboccheremo da questa parte. Chi non si è adeguato è Nintendo, che continua a contestare l'errore (a suo modo di vedere) di chi vuole a tutti costi ibridare il videogioco al cinema. E mentre un GameCube sprovvisto di lettore DVD arranca, qualcuno a Kyoto pensa che dopotutto non sarebbe malaccio avere in esclusiva MGS: The Twin Snakes. Too late. Per questo giro Nintendo è fuori. Fuori dai giochi dei profitti astronomici, fuori dalla prima classe del mercato console. Eppure Nintendo c'è. Dove? Ma nell'hendheld gaming, naturalmente, con quell'elegante GBA SP Silver che ci consente di giocare in pubblico senza per questo azzerare il nostro sex-appeal. Sì, è fuori discussione: Nintendo domina, nell'handheld gaming domina. Già, ma l'handheld gaming non esiste. Wario Ware non è abbastanza. Boktai è roba giappo. Pokémon è per bambini. Per il resto io vedo solo retrogaming in miniatura. E dato che l'handheld gaming non esiste, fossi in Nintendo cercherei di inventarlo alla svelta, prima che ci pensi Sony PSP.
Vita e morte del vg dopo l’handheld di Paolo Jumpman Ruffino Probabilmente in pochi hanno afferrato la grande lezione che in questi ultimi anni l’industria del videogioco ci ha voluto insegnare: i contenuti contano poco o niente. Lungi da me il sostenere che il software di una console sia ininfluente, perché è chiaro a tutti che le killer application continuano ad esistere, ma di certo chi acquista una console pensa sempre meno a ciò che realmente gli viene offerto. Compra il marchio, il nome, l’oggetto. Dare troppa attenzione ai contenuti, cioè ai giochi, delle console handheld significa quindi prendere il problema dal lato sbagliato. Non hanno importanza. Ce l’ha invece il fatto che Game Boy abbia venduto 100 milioni di unità, e che le abbia vendute al dirigente d’azienda come allo scolaretto. Ne ha venduti talmente tanti da far tentare la strada anche a Nokia e Sony. Il fatto che una console così particolare sia nelle mani di così tanta gente altera di fatto la percezione del medium videogioco, cambia i simboli a cui questo viene associato, modifica insomma tutto quell’insieme di significati che si richiamano quando si pronuncia la parola “videogame”. Non è un fenomeno che si possa sottovalutare, al di là di un giudizio sulla qualità dell’offerta ludica. E’ esattamente come se volessimo studiare il videogioco senza considerare Fifa Soccer: è un titolo pessimo, ma non possiamo non chiederci perché ci giochino in così tanti. Dire che non ci sono titoli adatti all’handheld gaming è ancora una svista, anche se più sottile. Non ci sono regole che stabiliscono se un gioco è handheld, se non il fatto che questo venga giocato su una console portatile. E’ il mezzo a cambiare il gioco, poco importa se questo è già apparso su Snes o qualsivoglia home console. Yoshi’s Island è diverso da Super Mario Advance 3: Yoshi’s Island, perché cambia la posizione del giocatore, il suo modo di approcciarvisi, la sua predisposizione. E quindi cambia anche Yoshi, nel bene e nel male. Che poi questo possa piacere o non piacere a chi compra e
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gioca, ha poca importanza. Ha poca importanza perché continua a comprare. L’handheld gaming ha abituato milioni di persone al gioco mordi e fuggi, al quicksave, a quello che potremmo definire “videogiocare timoroso”: l’offerta videoludica moderna tiene conto delle paure, indotte da Tetris e Snake, dei videogiocatori che come dei trentenni in crisi “non vogliono impegnarsi in storie serie”. Game Boy ci ha portati ad un videogiocare frammentato, composto da spezzoni, singole scelte, giochi di un click. Il filmato di mezz’ora del prossimo prodotto Square non sarà che un’ulteriore espressione della volontà di creare “videogiochi dinosauri” per tutti coloro che rifuggono questo approccio, e sono disposti a giocarsi - letteralmente - 40 ore di vita (senza però rinunciare ad un “timoroso” save point ogni due schermate). “40 ore per la vita” poteva allora essere lo slogan per accompagnare l’uscita di Wario Ware, ultimo prodotto di una specie che vuole sparire in due secondi e non disturbare, perché il tempo è prezioso e io ho centocinquanta “giochi di attimi” ancora da provare. L’handheld gaming non soppianterà il gioco da casa, ma lo saboterà. Anzi l’ha già sabotato, solo è difficile accorgersene. La maggiore importanza data allo stile grafico piuttosto che al numero di poligoni è già un indizio, così come lo sono le regole semplici e la facilità di utilizzo di un’interfaccia a fronte di un gameplay profondo, lezione dei giochi anni’80 dimenticata nell’ultimo decennio e ripresa da Pokémon, Advance Wars, e quant’altri. Forse è proprio quest’ultimo punto ad accomunare l’handheld con certo retrogaming: non tanto il doversi confrontare con limiti tecnici quanto una vicinanza di filosofie (o ludosofie, più correttamente). Bisognerebbe insomma guardare all’handheld come ad un fenomeno, e astenersi per quanto possibile da giudizi di valore.
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cHAIN mAIL________________________________________
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di Ring
«A sadder and a wiser man» («un uomo più triste e più saggio»), scriveva il poeta inglese S.T. Coleridge nella Ballata del Vecchio Marinaio, riferendosi all’interlocutore del marinaio non-morto istruito circa l’angosciosa sorte di quest’ultimo. «Let them fly» («che si divertano»), scriveva il collega e compatriota Thomas Grey, invidiando la beata ignoranza dei giovani che ancora non immaginano quanto il male possa insinuarsi nella vita dell’uomo. Certamente anche Raiden se la passava meglio prima di sapere di non essere altro che una pedina sulla scacchiera dei Patriots. Cloud, da parte sua, una volta
scoperto di non essere un eroe, ma soltanto un eroe wannabe, avrà passato un pessimo quarto d’ora. E del prode (?) Ashley che mi dite? Che tutto d’un tratto realizza di essere lui stesso il carnefice dei propri familiari? Brutta storia anche questa, un po’ come quella di Tidus, che si scopre innamorato di una donna destinata al martirio. A volte la conoscenza è un frutto avvelenato. Parola di Adamo ed Eva. Eppure, come insegna MGS2, la conoscenza, la cultura e l’informazione sono libertà, il valore più discusso e preteso dalla società occidentale contemporanea. Ed è qui che sorge il paradosso, come ci illustra un nostro affezionato lettore. Chain Mail aggancia la nostalgia dell’incoscienza.
DREAMING WONDERLAND WITH AN AXE IN YOUR BRAIN Le seghe non fanno diventare ciechi, dopo una decina di anni di uso intensivo e incondizionato posso affermarlo con certezza. Le seghe mentali, invece, sì. La prima volta che ho visto Battle Arena Toshinden e Wipeout ho gridato di gioia, sbavato sul tappeto di una persona che neanche conoscevo e ho provato piacere, immenso piacere. Ho capito che quella sarebbe stata la mia strada, poi mi hanno detto che la PlayStation costava 800.000 lire e i giochi 100.000 lire cadauno e sono uscito al primo svincolo passando per la corsia d’emergenza. Quando finalmente acquistai una PlayStation feci le quattro di mattina a giocare con il demo di Crash Bandicoot, perché ero il protagonista di un cartone animato e mai avevo visto nulla di tanto eccezionale. FIFA era il più bel gioco di calcio e non aveva difetti che io ricordi. Oggi non godo più. E non mi sto sbattendo sulla “purezza” dei giochi di un tempo come ogni buon castrato da retrogaming farebbe. Non è colpa dei giochi, la colpa è mia. Se la smettessi di passare delle ore a leggere quello che gli altri pensano dei videogiochi forse troverei più tempo e voglia per videogiocare anch’io. Oggi non gioco più da solo come qualche anno fa, l’omino del mio cervello è sempre al mio fianco e non fa altro che sforzarsi di trovare difetti in quello che vede. È sempre li a giudicare qualcosa, qualcuno, l’omino del mio cervello si accorge persino se la fisica di una vettura in corsa non è ben fatta, all’omino del mio cervello non sfugge l’assenza dell’ar-
bre magique, e di certo non si riesce a nascondergli la mancanza dell’ombra del cucciolo di ornitorinco bianco nascosto sotto un masso di misere dimensioni. Oggi mi ritrovo ad invidiare la sveltina fugace del casual gamer ridotto come sono alla scopata del mercoledì sera con mia moglie che mi mette le corna. Buona parte del divertimento di un tempo è annientato da un design poco accattivante, da un boss troppo poco ispirato, da un realismo appena accennato. Triste analisi di un disinnamorato, direte voi… forse, forse no. Leggendo queste parole siete la dimostrazione vivente che non avete niente di meglio da videogiocare di un e-zine in pdf. Stupido omino del mio cervello, senza di lui giocherei ad un gioco di calcio per il quale non dovrei sprecare tre settimane della mia vita nel tentativo di renderlo visivamente appagante e minimamente aggiornato allo stesso anno nel quale ho dato 60 e rotti euro al mio negoziante. Senza la sua arrogante pignoleria mi piacerebbe tutto quello che compro, senza il suo insensato amore per il collezionismo avrei modificato la PlayStation 2 e potrei comprarmi un villino con caminetto e prostitute con tutti i soldi così risparmiati. Che mondo meraviglioso quello dell’ignoranza, sarei un uomo meraviglioso se non sapessi quanto male fanno le sigarette che mi fumano gli altri, e siete uomini meravigliosi voi che non sapete qual è l’ingrediente segreto della Coca Cola… Vitoiuvara
Risponde Federico Res: Che mondo meraviglioso sarebbe, se non sapessi che un’indefinita percentuale di ogni Ferrero Rocher che ingollo è costituita da scarafaggi tritati. Ma sai, prode Vitoiuvara, che alla fine del trito di coleotteri me ne frega poco? Perché in fondo saranno dieci anni che sono a conoscenza di questo fatto, eppure nulla mi frena dal divorare scatole di croccanti cioccolatini. E sai perché? Perché di solito mi sbatto la testa al muro. Già. Prendere a craniate le pareti non è piacevole, ma efficace sì: quando qualcosa mi fa star male (ad esempio i
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bachi sotto il cioccolato pralinato), cerco una parete solida e vado di testate. Non mi fermo fin quando la mia fronte non assomiglia a quella di Einstein, e tutto intorno cade una costante pioggerella di calcinacci e frammenti di mattoni. A quel punto sono felice. Contuso e felice. Non mi riesce più di pensare alla presenza insettoide nei cioccolatini. Ne sento soltanto il gusto soave (dei cioccolatini). E ricomincio a godere. Ah, che mondo meraviglioso!
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Ti dico questo, araldico Vitoiuvara, un po’ per prenderti in giro e un po’ perché mi piace vederti perplesso. Ma ecco, facciamo così: immagina un Ferrero Rocher, bello grosso e succulento. È un Ferrero Rocher particolare, non ha forma sferica: somiglia piuttosto ad un uomo. Un uomo in tuta da spionaggio con una cicca in bocca. Ecco, bravo, sembra proprio Solid Snake. Cosa sta facendo? Ha lo sguardo ebete fisso sullo svolazzo di un tendone, che staccatosi dalle sicure viene trascinato lontano dal vento. Ma perché Snake si dispera e si strappa i capelli? Ovvio: si è accorto che il movimento di quel particolare lembo, apparentemente realistico, è in realtà in parziale disaccordo con la forza di Coriolis. Accidenti. Siamo nella mierda, direbbe Holga. Ma qui interviene la Sacra Tecnica delle Craniate Perimetrali [che interessano, cioè, l’intero perimetro dei muri di casa]: Snake comincia a sbattere il grugno contro tutte le pareti che trova. Non si ferma fin quando le sopracciglia gli s’incastrano in una grata metalli-
ca. Allora scruta bene quelle quattro linee in croce, piatte e sgranate da far schifo. E il mondo si rovescia… A questo punto, nobile Vitoiuvara, dovresti aver capito qual è la morale. E di conseguenza dovrei essere diventato per te una specie di idolo. Ma forse no. Può essere che non hai colto il genio nelle mie macchinazioni. Può essere che mi consideri uno scarso sceneggiatore incline al trivial humor di stampo nipponico. Allora parliamoci chiaro: il tendone non esiste. La legge di Coriolis non esiste, finché qualcuno non la vede. L’unica cosa che esiste è il Ferrero Rocher. Quello sì. Quello ti si scioglie in bocca, è vero, tangibile. Ne convieni, stimato Vitoiuvara? Se ancora qualcosa non ti è chiaro, voglio darti una dritta. Vinci la ripugnanza e diventa amico di un Castrato da Retrogaming. Forse (ma solo forse) lui ti saprà indicare la strada verso il Ferrero Rocher. E alla fine, forse, potrai fare a meno delle craniate contro il muro…
NON E’ TUTT’ORO QUEL CHE STYLISH Gabriele Bugada replica alla proposta di Federico Res (Chain Mail – Ring#9) di affidare agli stylish game il compito di attirare il grande pubblico istruendolo al tempo stesso circa le possibilità espressive del videogioco. Già, gli stylish games... come se 1) fosse facile sfornarli 2) fosse poi facile venderli! Si distinguono per la loro peculiarità, difficile pensarli come funzionali ed elevati a rango di norma in qualsiasi contesto di massa (sia sul versante produzione, sia su quello consumo). Siccome è difficile, anche se in effetti potrebbe fruttare, è molto meglio per l'industria dedicarsi alle ‘impre-
se’ facili... perché far lievitare gli scarsi (?) costi creativi con il miraggio di risparmiare su quelli grafici? Un gioco di Wrestling mediocre straccerà sempre nelle chart ogni ottimo Vib Ribbon per quanto pubblicizzato. Ahinoi. Gabriele Bugada
Risponde Cryu: Concordo sulla linea realista: WWF Panda Wrestling vende subito, vende massivo, vende facile. Forse non in Italia, ma in USA di sicuro. Ciò che Federico auspicava nella sua risposta, riallacciandosi così al provocatorio Ring Hate (cfr Ring#08), era un marketing leggermente più evoluto rispetto al contemporaneo, che oltre alla vendita immediata del prodotto mirasse alla costruzione di un'immagine del prodotto, oltre che del suo pubblico destinatario, giocoforza inserendo nel progetto l'elemento qualitativo. Utopia? Macché, è ciò che Sony, in certa misura, sta facendo da anni. Pensate agli spot televisivi di PlayStation2, così apparentemente sganciati dal videogioco in sé e dalle immagini che tradizionalmente ne accompagnano la promozione; pensate alle manifestazioni come il PlayStation Experience, presentate sempre più come eventi di pop-culture che non come saloni commerciali; pensate all'espressione ‘PlayStation People’ coniata da Sony per identificare il popolo che videogioca. Or-
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bene, ciò che Sony sta facendo per allargare *davvero* il mercato è cercare di spogliare il videogioco di quell'abito nerdoso che ha indossato per decine d'anni, per rivestirlo del più trendy concetto di lifestyle: PlayStation come il cellulare, come il rock'n roll, come il grande calcio, come un'ottima birra. E allora perché non proseguire su questa strada? La promozione di prodotti come gli stylish game si coniuga perfettamente con quest'ottica. Perché se WWF Panda Wrestling non farà mai life-style, non faccio fatica ad immaginare i passi della Ulala di Space Channel 5 sullo sfondo di un cocktail bar, così come le piroette a tempo di rock dei matti di SSX 3 proiettate tra una manche e l'altra sul grande schermo di un evento sciistico. Nulla di semplice, nulla di immediato. Solo una proiezione un poco ardita degli sviluppi di un fenomeno già in atto. D’altronde siamo Ring, mica il Gazzettino del Buongiorno Amalfitano.
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cOLUMN 02: lAVORARE________________________________
[Vox Mundi]
di Nemesis Divina 09/02/22
Ecco, quello sono io. Non fate caso al disordine, e soprattutto non fate caso alla faccia, sono sempre così appena svegliato. Anche peggio, di solito. È piena notte ancora, vedete, è che gestisco un negozio e i miei clienti sono perlopiù canadesi. Mi chiamo Saturday Djouf e sono nigeriano. Non credo che avrei scommesso un credito sul fatto che sarei stato vivo, oggi. Quattro anni fa, fu un viaggio disperato. Una jeep comprata a caro prezzo, si pianta in mezzo al deserto. Eravamo in sette quando partiamo a piedi fra le rocce rosse e secche, non avevamo molto da bere e niente da mangiare. Il primo che ci abbandonò lo seppelliamo sotto rami morti e sassi, il tempo di dire una preghiera e ripartiamo. Quando muore il sesto, cade appena accanto a me e non ho la forza neanche di voltarmi. Era mio fratello. Arrivai a Napoli, dove c’era un amico. Mi ospitò una settimana, poi mi diede un pacchetto da consegnare a dei tizi. Quando gli dissi che io droga non la vendo mi cacciò di casa. Ero solo. Chiesi aiuto a ragazze del mio paese incontrate per strada, prostitute. Mi diedero un pranzo e mi lavai. Fecero una colletta per il treno, avrei provato a raggiungere mia sorella che era al Nord, spostata con un italiano. Non ci avrei mai sperato.. oggi ho un lavoro. Un lavoro che non sapevo nemmeno che esisteva. È un mondo strano, questo vostro. Da noi è più semplice mentre voi siete complicati. Ma imparo in fretta, sono ignorante ma non stupido. Raccontato non sembra vero.. quindi salto la parte inverosimile, solo quest’uomo aveva bisogno disperato di soldi e io avevo qualcosa da parte, con il lavoro della fonderia. Diceva che mi avrebbe venduto un negozio e voleva poco, in più mi dava anche un computer. Quando mi trovai con solo un computer davanti e un foglio di carta firmato non fui tanto contento. Oggi invece ringrazio il vostro mondo complicato, che s’inventa le cose anche dove non ci sono. Mi collego ogni notte, anche se volendo mi potete svegliare, bussando forte abbastanza e se ho le casse accese. Lavoro una decina di ore al giorno, davanti allo schermo. Il mio negozio di armi è uno dei più rinomati nella zona sotto Picco Bianco, questo grazie a Galder, un fabbro davvero abile che mi ha chiesto lavoro e devo ancora capire se è umano o un’AI. I guerrieri che si inoltrano nelle Dreadlands passano per forza di qui e qualcosa comprano sempre.. e vendono un sacco di oggetti quando ritornano, se ritornano. Molti oggetti sono cose magiche o preziose, ma loro non lo sanno perché fanno poca ricerca e pensano più che altro a salire di livello, mentre io so dove guardare e conosco un sacco di storie di quelle che mi raccontano i clienti. Non è così complicato da capire, in fondo. Il soldi all’inizio servono per comprare l’edificio e il pezzo di terra, poi la licenza presso il regnante (che è sempre un utente) e l’abbonamento del server e la tassa all’editore del gioco. Poi è tutto un ricircolo di crediti, reali e virtuali, come nella Borsa, spostamenti nominali di risorse potenziali (cito a memoria), numeretti che solo muovendosi creano ricchezza. Gli utenti, i giocatori, investono un capitale medio-basso e all’interno del gioco possono far soldi trovando tesori o con le commissioni delle AI. E state pur sicuri, i soldi che ci sono sparsi per il mondo finto non sono nemmeno la metà di quello che ci infilano i giocatori, quindi i produttori ci guadagnano sempre. E’ un buon sistema, almeno per adesso funziona. E io ci mantengo i miei in Nigeria. Quindi non so, siete strani, ma credo che dovrei ringraziare questo vostro mondo complicato.
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pLAGUE 02: bINARI d’oDIO____________________________
[Vox Mundi]
di Gunny 11/04/99
The Story so far «L’idea di doversi difendere da un’aggressione esterna era e rimane un’ossessione basata sulla paura e sul pregiudizio. Come la vostra stessa società e il vostro io sono basati sulla paura e sul pregiudizio» sentenziò l’interfaccia diplomatica complessa Vox Mundi, che a partire dalla crisi del 2094 si occupava di tenere aperto un canale di comunicazione tra gli abitanti di Nu Gea e gli uomini. Con quelle parole Vox Mundi rese chiaro che Nu Gea, costituitasi nazione indipendente nel ’97, non aveva alcun interesse ad interferire nella vita del mondo esterno. Le modellabili e riprogrammabili mura della città digitale garantivano il soddisfacimento di ogni desiderio dei suoi abitanti, che dal giorno dell’indipendenza non conobbero mai un istante di guerra, paura o carestia. Alcuni storici, alla luce della digitale perfezione raggiunta in pochi anni da quella che era stata la Disneyland del XXI secolo, ribattezzarono ironicamente la rivoluzione del 2094 ‘La Seconda Cacciata dal Paradiso’. Gli abitanti di Nu Gea non conoscevano rancore o vendetta, e non nutrivano alcun sentimento aggressivo verso gli esseri umani. La loro intera società perseguiva l’utile collettivo, e avrebbe contemplato l’utilizzo di misure punitive solo se l’uomo lo avesse messo in pericolo. Privati del controllo assoluto delle maggiori reti informatiche, le nazioni tecnologicamente più avanzate accelerarono la costruzione di una Seconda Internet. Decine di migliaia di funzionari, statali o provenienti da organizzazioni private autorizzate, compivano ispezioni a tappeto allo scopo di scongiurare la possibilità che vi fosse un qualsiasi collegamento fisico tra i due immensi apparati informatici. La necessità di ricostruire da zero la rete informatica pose su un momentaneo piano di parità tecnologica L’Unione Europea, Gli Stati Uniti e il Blocco Russo-Cinese. L’assenza di un chiaro egemone portò ad una serie di frizioni tra i contendenti, tra i quali minacciò presto di scoppiare una nuova guerra. La crisi giunse al suo apice durante la seduta straordinaria delle Nazioni Unite del 12 gennaio. L’assoluta incompatibilità delle reciproche pretese non lasciava spazio a sviluppi di alcun tipo, tanto che già a metà dell’assemblea i comandi strategici dei vari blocchi ricevettero l’ordine di preriscaldare l’arsenale missilistico. Le dirigenze politiche delle tre fazioni, private della rete satellitare dalla Rivoluzione, non avevano modo di valutare il grado di approntamento degli avversari, ed erano tutte intenzionate a tentare un first-strike non appena l’assemblea si fosse conclusa. La delegazione Russo-Cinese, spazientita, era ad un passo dall’abbandonare l’aula. Prima che ciò avvenisse, Vox Mundi chiese la parola al Presidente dell’Assemblea. «Conosco le intenzioni di ciascuno di voi» disse con voce calma e neutra. Dopo alcuni attimi di silenzio, Vox Mundi espose tali intenzioni di fronte all’assemblea riunita. Enorme fu la vergogna dei delegati, la cui meschinità, disvelata in diretta olografica mondiale, aveva minacciato di cancellare tanto il mondo fisico quanto quello informatico. Vox Mundi volle concedere un credito a quanto l’ingegno umano si era dimostrato capace di comprendere, e propose alla congrega-
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zione l’utilizzo di una moderna applicazione della teoria dei giochi formata da John Nash più di 150 anni prima. In particolare, l’utilizzo di un mediatore imparziale e onniveggente tra due parti incapaci di concludere un accordo. Vox Mundi, con tatto e pragmatismo, dettò alle nazioni le direttive da seguire. Present Day Il capitano Nathan Wolcott controllò con una rapida occhiata il munizionamento stivato nel vano proiettili del suo carro armato XMBT. Qualche coglione, notò, doveva aver dimenticato che la missione odierna era caratterizzata da un’alta probabilità di incontro con reparti corazzati europei: i proiettili erano in massima parte anti-personale ad alto esplosivo. Ma era tardi per chiamare un carro d’appoggio. Ad un cenno, il plotone di quattro carri da 70 tonnellate balzò ruggendo in avanti, raggiungendo in un paio di minuti la phase-line delta. Un sordo e violento rumore proveniente dalla sua sinistra gli fece capire che la giornata era iniziata male. Il carro di sinistra era stato messo fuori combattimento da un proiettile decalibrato ad alta velocità, proveniente da chissà dove. «Jackson, formazione a cuneo, correzione a sinistra per duenove zero.» «Un secondo, capitano.» «Che c’è?! A sinistra per due-nove-zero!» «Ho dei problemi di lag, singore…» «Di lag? Ma che cazzo di connessione hai, un ADSL?» «No, è che ieri un mio amico…» «ATTENTO A DESTRA, JACKSON!!!» Il plotone carri francese emerse dall’ombra del bosco a massima velocità, piazzando immediatamente diversi colpi da 140mm sui mezzi statunitensi: nel giro di un minuti, dell’unità di Wolcott non rimase più nulla. Walcott scaraventò i guanti di controllo sul proiettore olografico e andò a rispondere al videotelefono, che da alcuni secondi suonava. «Wolcott, da oggi sei fuori dalla Quarta Divisione.» «Va bene, colonnello. Non sono portato per questa roba, evidentemente. Mi dispiace…» «Lo spero. La tua sconfitta di oggi significa che il governo americano deve all’Unione Europea quasi sei milioni di dollari, nonché un discreto volume di banda passante sulla Seconda Internet.» «Ma perché quegli stronzi di The World 3-Living Large devono decidere per noi le regole di questo stupido videogioco di guerra?» «E perché no? Noi lo abbiamo fatto con loro dai tempi del MOD Instincts per The World.» «Ed è l’unica ragione?» «No: l’altra è che noi siamo troppo stupidi per farlo da soli.»
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dAVIDE rEBORN parte 1 di 2 – fUORI oRARIO: cOSE (gIAMMAI) vISTE__
[Il Davide Videoludico DIECI]
di Sator Egidio «Nemesis posso fare il guest writer di un episodio del Da-
vide Videoludico? Ho in mente una roba tipo Heroes Reborn. Giuro che sarò sfigato tanto quanto lo sei stato tu» Sator Egidio Un dì andò che’l Davide svegliossi e repentino ritrovossi sul talamo a favellar pensieri diosantemente poco ortodossi pe’l suo abitudinale trallallero mentale. «Un soffitto sconosciuto» parve dire fra sé e stesso mirando in suso. No, aspetta. «Uno sconosciuto sul soffitto» parve precisare il Davide fra sé e stesso, sempre mirando in suso, sempre sdraiato sul catafalco e sempre co’ una cadaverica espressione da vegetariano redento. Il Davide Videoludico stava fissando lo specchio che la dolce Silvia aveva fatto installare sul soffitto per avere la comodità di truccarsi a letto. Questa fu la spiegazione fornita. Ma quale imago riflessa andava rimirando il nostro er(r)o(r)e? Non certo la Silvia, per quanto fosse per molti davidistici aspetti una sconosciuta. Non certo l’Egidio, al momento presente solo in versione sudoripara: impresso sacrasindonicamente sulle lenzuola del capezzale davideo. Più vicino alla Silvi, che al Dadi. No, no, no, no, no. Il Davide perscrutava proprio Il Davide stesso medesimo himself. Ora, il Davide di norma è così timido, ma così timido, che non riflettesi mai allo specchio per più di tre secondi perché non riesce a reggere nemmen il proprio sguardo. In codella circostanza invece i signori del guinness contarono netti dieci secondi di esposizione. Un record da pacca sulla fronte, fellatio accademica e svenimenti in sala. Doveva accadere un qualcheccosa di veramente consistente internamente al nostro ente. Per capirlo torniamo indietro nel tempo di pochi minuti. Roba da nulla. Quella mattina, come ogni altra, il Davide stava eseguendo la periodica deframmetazione del cerebellum, un task che era solito schedulare poco prima di svegliarsi e che aveva rimpiazzato il mattutino lavaggio dentale. Siffatta operazione, per una cagione di quelle che o le accetti così come vengono oppure se ti metti a ragionarci su rischi di doventarci matto che ti devono di portare allo Spedale nel padiglione che tiene la gente dimolto fuori di cavezza e che gira sporca e nuda per gli ambienti stile nido del cuculo hai presente l’indiano di quel film? Eh, tipo. Dicevamo siffatta operazione fece riaffiorare nel Davide un messaggio letto eoni or sono sul Ring Forum. Apriamo una parente. CONCERNING IL RING FORUM Scelto come miglior luogo di evasione dai carcerati di quattro prigioni su cinque, il Ring Forum è senz’altro un posto parecchiamente bellissimo, con messaggi dimolto interessevoli e argomenti nientemai banali. E indove sono proibite tutte quelle tediose e pacchiane immagini avatariane e signaturiane, colpevolmente presenti negli altri forum. Sapete bene a quali mi riferisco. Chiudiamo una parente. Il Davide si era iscritto al ringuforum mesi addietro. Aveva scelto come nickname la seconda parte del nome del suo gruppo rock preferito. Non aveva scelto la prima parte perché faceva troppo personaggio de Le Iene: un film che non aveva apprezzato, anche perché non aveva capito che erano tutti flashback. C’è da dire che i contributi del Davide nel Ring Forum non incontrarono il successo sperato. I deus ex machina di tale board, infatti, conservano un estremo rispetto per le opinioni di tutti, ma non per quelle troppo differenti dalle loro, che devono quindi essere ostacolate con tutti i mezzi possibili e imponibili. È questo il più bel retaggio lasciatoci dalla cultura occidentale. Ma orsù, ritorniamo al messaggio ritornato alla memoria del nostro affezionato rintronato (reperibile all’indirizzo: www.project-ring.com/RingForum/ viewtopic.php?t=650. Non è che c’inventiamo le robe). Le parole dell’autore Bitte risuonavano nella testa del protagonista come
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una band acustica in una stanza completamente vuota. «Allora premetto che sto attraversando una trasformazione di pensiero forse dovuta ai miei 31» premetteva il Bitte. «Il videogioco mi fa bene? Mi aggiunge piu di quello che mi toglie?» aggiungeva il bitte. «Il tempo usato (usato non perso) videogiocando è qualitativamente migliore o peggiore del tempo usato leggendo un libro, guardando un film o un documentario, o meglio, passando il tempo con altra gente, suonando, viaggiando, in pratica facendo esperienze reali?» Santa Maria del Carmine. Queste semplici parole sortirono nel Davide l’effetto di un controllo della Finanza alla Parmalat. Davanti al Davide Videoludico trascorse tutta una vita videoludica. Nei momenti peggiori giocava con un Jaguar. Ritornò alla mente del Davide un Davide molto più piccolo che sbavava sulla sua primera console, che all’inizio i genitori mica gliela volevano comprare, quindi il Davide per protesta fece lo sciopero della cacca, e per quattordici giorni trattenne nel suo corpicino tutti gli scarti del quotidiano mangiare, e la sua pancia si gonfiò a tal punto che i genitori si videro costretti a cedere alle richieste davidee, perché metti caso una notte il pargolo cascava dal letto, quello esplodeva e insaccherava di escrementi tutta la cameretta foppapedretti. Il Davide si scoprì nel suo letto a riflettere su cosa sarebbe accaduto se i genitori avessero tenuto duro per qualche giorno in più. SPLAT! Ma forse da tutto ciò sarebbe sortito fuori un Davide Videoludico migliore: molto più Davide, e quasi per niente Videoludico. E mentre rifletteva su queste cose sul suo letto, il Davide rifletteva anche allo specchio, e rifletti tu che rifletto anch’io, si rese conto di riflesso che non riconosceva la figura riflessa. Davide Videoludico, chi era costui? Dove andava? Perché ci stava andando? Chi ce lo aveva mandato? E se Dio esiste, come mai permette che accadano tante cose brutte? Le conclusioni bittesche furono la proverbiale saetta in un terso cielo di aprile barra maggio. «Anno sabbatico? «Le condizioni ci sono tutte, provare con l'astinenza, evitare qualsiasi tensione ottico tattica sonica per vedere l'effetto nel lungo periodo. Siamo stati creati per questo tipo di interazione sensoriale o per piantare pomodori nei campi? «Il tempo svela tutti i misteri.» È vero! pensò il Davide. Gli anni sabbatici sono una buona soluzione per tutto! Ed egli sapeva ciò che diceva, visto che da anni si era preso un anno sabbatico con il sesso. Ma coi videogiochi non bastava. Non erano mica una cosa di poco conto come il sesso. Coi videogiochi bisognava essere bobbitiani. Un taglio netto… ZZAP! anzi… ZAC! e non se ne parla più. QUEL GIORNO IL DAVIDE SAREBBE RINATO! Si recò nel suo mitologico Mighty Buco di Merda. Accese il piccì, si collegò a internet e disdisse tutto quello che si poteva disdicere: abbonamenti, ordini di acquisti, iscrizioni a newsgroup e forum, contratti per ingrandire il pene (e avere quindi la comodità di urinare dalla poltrona di sala). Questa operazione unsubscribatoria durò tutta la mattina, proseguì per lo pomeriggio e si concluse a notte fonduta. Finita che fu, il Davide installò nel piccì un virus prodotto in Guatemala che, oltre a raschiar via ogni brandello di informazione, appiccava il fuoco all’hard disk. Successivamente riempì diversi scatoloni con la collezione completa di console e videogiochi prodotti dal 1958 a oggi e la portò dai vicini, una famiglia di albanesi talmente impauriti per essere stati svegliati nel cuore della notte da un Davide totalmente fuori dalla grazia divina, che accettarono il dono con fare assecondatorio. E adesso? A quel punto il Nostro, il pigiama di Pippo ancora indosso, i capelli acconciati coi raudi e un importante odore ascellare si chiese: «E adesso?» Uno stitico senso di vuoto avviluppò il protagonista di questa fantastica storia. Il Davide si sentì come se – concedetemi il paragone – al Davide Videoludico avessero appena tolto i videogiochi. Che cosa gli rimaneva? Svuotato era l’intelletto di tutto ciò che voracemente aveva assimilato in questi anni: voci di corridoio, pagine di gamefaqs, immagini ingame che in seguito si rivelavano dei render. Il Davide non aveva più un’identità, un appiglio legale, un laccio emoziostatico. In questi casi i film insegnano che bisogna vagare pensierosi per le vie notturne della città fino a quando la situazione non si risolve da sola. E così il Davide fece. E il Davide vagava, vagava, vagaaava per deserte strade buie, colorate di
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giallo a intermittenza dai semafori lampeggianti, dall’umido asfalto reso riflettente da un accenno di pioggerella acida, con del fumo di circostanza che fuoriusciva dai tombini di circostanza. Tanto vagò il Davide che si disperse. Pensò di dimandare informazioni a qualche d’uno: una delle tante perdute anime errabonde nel ventre satollo di questa città sine anima né cartelli stradali, ma vi rinunciò. Troppo Shenmue. E fu mentre camminava random, sforzandosi di isolare un ricordo della sua infanzia non legato ai jeux video, che due tizi nerovestiti presero a camminargli a fianco come carabinieri con un bandito. Però alla rovescia. «Pe’ tia è iddr’?» fece il tipo alla destra al tipo alla sinistra del Davide. «Pe’ mia è iddr’. E pe’ tia?» rispose questi. «Tch.» «Domandiamocillo pe’ sicurezza» concluse il tipo alla sinistra. Poi, rivolto al Davide: «Salutiamo. Non è che pe’ combinazione vossia si chiama Davide Videoludico?» Prima di rispondere, il Davide valutò bene la situazione: due sconosciuti, vestiti di nero, con occhiali scuri, baffi sottili, una lupara a tracolla e un pesante accento siciliano. Okay, non c’è niente da temere. «Sono il Davide, sì!» gongolò il nostro più caro e ingenuo amico. I due afferrarono il Davide rispettivamente per l’orecchio sinistro e la natica destra e lo trascinarono per miglia e miglia, fino ad arrivare al porto, e più precisamente all’interno di un capannone apparentemente in disuso e completamente buio. Quivi il Davide fu lasciato. Passarono interminabili secondi di tangibile paura. O forse noia. Poi una luce si accese e il capannone si rivelò popolato da una masnada di uomini in nero. Da un varco apertosi nella masnada si fece avanti un basso e grasso uomo vestito di bianco, con un bastone da passeggio oltraggiato di rubini e un anello grosso come il… Ehm… È una cosa personale! «Chi siete?» gridò il Davide con fare isterico. «La Mafia-Yakuza siamo» rispose l’uomo in bianco. Il Davide non ci trovò niente di strano in questa fusione di organizzazioni criminali. Dopo Square-Enix, tutto era possibile. «Piacere, Davide.» «Ieo sugno ‘u Parrino Salvatore “Vlad” Takeda, e chisti li picciotti miei sono.» I picciotti fecero un educato inchino. Il Davide ricambiò il saluto e dette il suo biglietto da visita al Parrino, che lo prese con entrambe le mani e lo affidò a un picciotto portaborse. «Venimmo subito al dunque. Currìa voce che ti disiscrivesti da Xbox Live e noi, che curiamo i bisinisse di Microsoft ‘cca in Italia, male ci restammo. Picché, ci chiedimmo, picché ‘u Davide ce mancò de rispetto? Gli è forse stata colpa mia? Forse che ho deluso ‘u Davide in quacche modo?» «No, no, Parrino ma scherza? Non è assolutamente colpa sua» si affrettò a precisare il Davide, che capì di aver ferito un uomo. «Tu gentile sei a dicere accussì. Ma io uomo de bisinisse sugno, e ‘cuntari nun posso agli amerregani che nu picciotto fice a meno d‘u servizio Live. «Amerregani. E cu li capisce a chiddri? Nu iorno te cumannano di mettere i picciotti a travagliare come pierre nei mediauorlde pi obbligà ‘i clienti ad accattarsi ‘u botolo, e l’altro te domandano di preparare i bundol a prezzi che nun stanno né rinta’u cielo né rinta’a terra. Che poi l’Amerrega veramente una terra strana gli è, ‘o sai? Tengono sort’i machine grandi, longhe, con diecimila cavalli e le chiamano carr; tengono sticchi’i fimmene con zinne granni accussì e le chiamano uommene; tengono strade larghe tre, quattro, cinco corsie e le chiamano strit. E sei mai stato pe’i strit de Nuova Yokke? Miii quanti cazz’i cartelli con scritt “onne uai”. Uno non si può muovere che: “onne uai”, “onne uai”. Ma che miiinchia i’ fott’ a chisti onne uado ieo?» Il Davide fu come ipnotizzato dall’impianto accusatorio anti-americano del Parrino. Che cosa importava agli americani di dove andava un turista italiano? Vabbe’ l’undici settembre ma qui si esagera. «Posso chiedere a vostra malvagità che disposizioni intende dare ai picciotti riguardo al mio futuro prossimo?» «E bravo ‘u Davide! Ieo quasi me dementicai della quistione tua. Pienza che stavo per farrete nu regalo e lasciarrete andar via! «Turiddu, Takeshi, pigghiate ‘stu picciotto e cafuddratelo rinta ‘o cemento fresco. Quando siccò abbastanza, ieccatelo a mare, ieppoi sparatecillo.» Il Davide non capì bene il suo destino. Doveva forse diventare un muratore per conto della mafia? Fuori discussione. Qui bisognava usare l’intelligenza superiore che madre natura a padre camionista gli avevano fornito e fuggire a konga battente. «Non sarebbe meglio se domattina mi faceste trovare una testa di cavallo nel letto?»
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Il Parrino guardò il picciotto portaborse, che allargò le braccia come a dire abbiamo finito le teste di cavallo, quindi si rivolse verso il Davide e disse: «Tch». Piano B. «Ehi, guardate alle vostre spalle. C’è la Monica Bellucci di Malena!» gridò il Davide con indice puntato. «E cu se ne fott’?» disse il Parrino. « …e – OH MIO DIO! – sta mangiando un piatto di pasta con le sarde!» Tutti si voltarono con espressione luculliana. Il Davide ne approfittò per fuggire da quel luogo in cui massacravano con tanta dedizione la lingua italiana. E il Davide correva, correva, correeeva per le deserte strade eccetera eccetera. E i piccioti lo inseguivano, lo inseguivano, lo inseguivaaano, alcuni a piedi, altri a bordo di un’automobile d’epoca presa forse dal set degli intoccabili. RATATATATATATATA, facevano i mitra dei picciotti nel silenzio della notte, ma senza onomatopee a schermo. Tuttavia il Davide, più scaltro di una liquerizia, trovò nascondiglio dietro a una Regata parcheggiata. I picciotti stavano quasi per rinunciare alla cerca quando il Davide si rese conto che si stava comportando proprio come in uno stealth game. Ah, la nicciana teoria dell’eterno ritorno. «GIAMMAI! Io ho chiuso con questa roba!» gridò il Davide alzandosi in piedi con un pugno chiuso a indicare sicurezza nelle proprie azioni. «’u fitusu!» gridò un picciotto appiedato all’automobile mafiosa che si stava allontanando, e che non recepì l’all’armi. Il picciotto sparò quindi in direzione Davidea alcune mandorle col suo mitra old times. I proiettili per fortuna – o per un colpo di mano del narratore – mancarono il Davide e andettero a infrangersi contro la Regata. Il nostro eroe si scoprì interessato al grado di interazione delle pallottole con lo scenario, sentendosi poi sporco dentro. Quindi scappò con le gambe di un Fondriest. Il picciotto gli corse dietro con le gambe di un fratello Abbagnale. Voltò l’angolo della strada e fece in tempo a scorgere il Davide che andava nascondendosi dentro un negozio. Vi entrò con fare alpacinico ma un xbox ben assestato sulla chiorba ridimensionò di parecchio la sua recitazione. Il picciotto campeggiava ora a terra agonizzante. Il Davide ne approfittò per sederglisi sull’inguine, picchiandolo poi in testa con questa console fuori dalla grazia di pininfarina. Quindi sfogò trent’anni di rabbia repressa con un isterico: «F-figlio di puttana!» Non l’avesse mai detto. Il picciotto, oramai inerme, ebbe un moto d’ira. «Ie t’accid, te tagghio’a gola prima che to matri cuntari possa le corna di to patri, ‘o capisti?» La sua roborezza decuplicò. Le mani callose del picciotto scattarono sul collo davideo, che lasciò la presa dello xatolone e s’apprestò a rivedere il filmino della propria vita. Sono morto come ho vissuto, pensò. Con un picciotto accanto. Ogni riferimento all’Egidio era puramente casuale. «Non. Muovete. Un solo. Muscolo» fece una voce da dietro. I due si voltarono e videro il bancone del negozio… E dietro al bancone un fucile a cannemozze… E dietro al fucile a cannemozze… Il Bitte. «Bitte, diobenedicaiturnicontinuati!» cinguettò il Davide. «Spedisci questo minchione nella terra degli agrumi da cui proviene!» Il Bitte si avvicinò ai due e, senza profferir parola, tirò il calcio del fucile in testa al picciotto e… pure al Davide?! Oh no! I due si risvegliarono minuti dopo in quello che doveva essere il sottoscala di Bitpower. Avevano i piedi informicoliti, le mani legate dietro alla sedia e una strana palla rossa inserita nella bocca. Il Bitte apparve indossando un fetishoso completino in pelle e una katana che lasciava ben poco all’immaginazione. «Bene, bene, bene» disse. «Siete venuti nel mio negozio, nel mio tempio videoludico, a scannarvi come animali, senza nemmeno dare un’occhiata alla merce esposta. Io pertanto vi domando: siete voi dei videogiocatori?» «Mprf mphf mphst!» disse il picciotto. Il Bitte tolse la costrizione dalla bocca dei due soggetti. Sennò qui facciamo mattina. «Ieo sì, ieo sì!» ribadì il picciotto. «Fifa novantotto! Tomb Rider! Laura Crawford! Miiii sticchio’i fimmena che zinne che c’have…» «Tu, picciotto, mi sembra di capire che sei un hardcore gamer, e questo depone a tuo favore. Ma ora ti domando: non giocherai mica coi giochi pirata, vero?» Il picciotto rimase un attimo interdetto. «Niente vidi e niente saccio!» Con un secco fendente di katana, il Bitte spiccò via un orecchio dal picciotto. «AAAAH! Scusasse! Colpa mia non fu! C’este l’amico mio, Totò, che c’have emule collegato tutt ‘o iorno! UUUEEH! Troppo nicu sugno pi’ murire!»
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Ma il Bitte si era disinteressato del mutilato della trinacria, e rivolgendosi al Davide: «Mi è arrivata la tua disdetta dell’ordine dei Tokimeki Memorial. È vero quello che si dice in giro che hai abbandonato la retta via dell’otaku videoludens?» «Mprf mphf mphst!» rispose il Davide, che non aveva più il bavaglio alla bocca, ma che non riusciva ugualmente a parlare per la strizza. Il Bitte leccò il sangue del picciotto dalla lama, poi disse: «È colpa vostra se il mercato dei videogiochi non va come dovrebbe. Voi non avete idea dei margini di guadagno sempre più ristretti. Voi non capite quanti e quali danni hanno arrecato l’euro e l’undici settembre. E io con la mia attività devo mantenere una famiglia, lo capite? E la mia famiglia è la cosa più importante che ho.» «Anche la mia famigghia importante gli è pe’ mia!» gridò il picciotto. «E io voglio bene a tutte e due le vostre famiglie!» incalzò il Davide in un ratto di fratellanza mista a piaggeria; quadagnandosi tra l’altro la stima del picciotto. «Bene. Sono contento che, alla fine, ci siamo compresi a vicenda» disse il Bitte. Il Davide e il picciotto si sentirono sollevati. «E ora, chi di voi due mi farò per primo?» Il Davide e il picciotto stralunarono sobbalzanti. Un rapido ma drammatico ambarabaccicciccoccò selezionò il concorrente della Sicilia, che fu condotto dal Bitte nello stanzino adiacente. Grida. Grida disperate e lascive si sollevarono da dietro la parete. Grida che non appartenevano a questo mondo. Il Davide sudava estathè. Entro breve sarebbe stato il suo turno. E sudava talmente che la sua pelle, già unta e bisunta di norma, si fece talmente elastica da far cadere a terra i lacci ai polsi. Quindici minuti dopo il Davide se n’accorse, si liberò le caviglie e risalì le scale di quel luogo di perdizione. Per riveder le stelle. Risalite le scale che furono, il Davide interruppe la fuga. Da sotto arrivavano cadenzati «Sì!» e strilli dall’accento siciliano. Il Davide si scoprì titubante. Non poteva andarsene così. Non era giusto. Era a un passo dal provare la sua prima esperienza omoerotica, e il Bitte era pure un bel pezzo di manzo, proprio un bel pezzo di manzo, sì. Ma la paura di essere trovato dal party di picciotti ancora di ronda ebbe il sopravvento. Il Davide uscì di gran carriera dal negozio e prese a correre come mai aveva corso in vita sua. Corri Davide Videoludico, corri! Corri verso mille avventure in una notte che non finirà tanto velocemente! Arrivato alla piazza senza nome della città senza nome, il running Davide si fermò a traspirare. E mentre la milza ritornava dai suoi propositi di suicidio, il Davide scorse due luci, due occhi diabolici, accendersi in un oscuro vicolo scuro che dava sulla piazza. Un’automobile. L’invenzione del momento, pensò il Davide. Per la precisione una Honda S2000. Il mio personaggio preferito di Street Fighter, pensò il Davide. L’automobilista misterioso, celato alla vista dal nero vetro dell’auto sollevantica, mise in prima et eiaculò fuori dal vicolo, poi fece un taccopunta nel centro della piazza e l’auto prese a zuzzurellare in circolo, fermandosi quando i fari si allinearono con gli occhi del Davide, che subito rivolse lo sguardo altrove. Ah, la timidezza. L’automobilista misterioso, superno spirto nel guscio della Honda, lanciò un HIII HAAA! L’Honda ruggì, scalciò, petò, ruzzolò, poi fece mieeeeeee e si diresse a tutta speditezza in direzione dello z-targettato Davide. Il cui Davide, ancora irrigidito e vermiglio in volto per l’esposizione all’altrui sguardo, nemmeno tentò di disingaggiarsi dal lock-on. E mentre l’impatto doventava imparabile, tutta la vita gli passiede davanti agli occhi. Nei momenti peggiori faceva sesso. [continua]
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