Ring#100

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100 SOMMARIO speciale speciale Review//04 soSMS virtual, so real//04 Turista per caso//08 rubriche tesori sepolti rubriche jojo’s puzzle park//64 Tesori Sepolti game making era 03 Urban dar vita Reign//42 ai pixel//65 Spoiler arena Shalom//36 Grand Theft Auto//20 Killzone 2//38 The ivory tower Two cultures//24 frames kakka banzai L’etica del record //15 avventure testuali//26 Super Robot Wars//17 frames i voti di edge//28 recensioni indepth zelda twilight prinPES-parte II//29 cess//20 recensioni viva pignatta//23 gta san andreas//34 defcon//30 fable//37 dead rising//40 wrc 4//40 farhenheit//28 the chronicles of god hand//31 riddick//41 okami//33 burnout 3//43 ibara//35 psi ops//46 under sight//49 defeat//37 second xenosaga II//51 doom3//53 gradius v//56 katamary damacy//58 panic maker//60 zelda Ring, la minish rivista piùcap//62 amata dai videogiocatori meno rincogliopes: non-recensione//63

niti, torna con questo Ring 100 a parlare di videogiochi. Abbiamo fatto chiudere Evolution Magazine. Abbiamo condotto alla disfatta Super Console. Non contenti, con la sola imposizione di Gunny abbiamo ucciso l’E3 e trasformato Metal Gear Solid 4 in una fetecchia. Il prossimo obiettivo è la Cina. Intanto, torniamo a parlare di videogiochi. Per l’ultima volta… (Oppure no?)

//febbraio2007

R I N G 1 0 0 Amici, nemici, detrattori, passanti, videoludologi e casual gamers, office-men e casalinghe. Tutti voi che ora state avidamente stringendo tra le mani le pagine di questo Ring, comodamente adagiati sul trono ceramico (pare che non siate in grado di concepire un uso diverso per una rivista cartacea), tutti voi, non illudetevi! Ring non è tornato. Ring 100 non segna la rinascita di Ring. Non è un numero celebrativo delle mille e una avventure della crew Ringhica (pertanto non contiene la da molti auspicata autointervista a Nemesis Divina né il book fotografico di Gatsu). E soprattutto no, non è il vero numero 100. Dunque piantatela di richiedere i link ai pdf che vi mancano e che comunque non leggereste… Ring 100 non nasce da un documento programmatico ma da un desiderio, da una voglia improvvisa. Proprio come quando lo stimolo vi coglie durante una sessione di Kingdom Hearts 2 e correte al bagno come se non ci fosse un domani (a finire di leggere i 99 vecchi numeri di Ring). Al di fuori degli asfissianti (?) ritmi lavorativi che hanno portato alla chiusura del progetto, la ciurma ringhica ha ritrovato l’entusiasmo. Una scintilla, breve e intensa. Della “buona robba” raccolta e messa insieme in breve (??) tempo. UN PDF "partorito" sulla scia di un trasporto genuino, pur se passeggero… E a far scoccare la scintilla sono stati anche, in certa misura, i vostri commenti sui forum. Le vostre "cagate" (in senso buono) partorite dopo intense sessioni di lettura sotto sforzo, in una sorta di catena della creatività che in passato pareva senza fine, ma che di fatto si è interrotta. Perchè l'anello si è spezzato, per motivi non ancora molto chiari a nessuno. E spezzato resta. Ring 100, in questo panorama di desolazione e disillusione, costituisce niente più che un regalo di Ring a Ring. Se questa eccezione può sembrarvi un motivo sufficiente per sperare (la speranza è la virtù dei deboli, del resto) che Ring 101 possa arrivare per il prossimo Natale, o che Ring possa tornare in altre forme, altri modi e altri tempi... Fate pure. Del resto Ring è mai uscito in maniera regolare? No davvero. L'anarchia spaziotemporale, tanto per citare un saggio vegliardo, ha sempre dominato le meccaniche di Ring, più delle persone che nel tempo (me compreso, ovviamente) hanno creduto di poter gestire o imbrigliare tale massa informe di arroganza creativa. Ma torniamo per un attimo alla realtà. Una realtà che ci parla del più bel PDF mai realizzato dai miei compagni di avventure. Un numero di Ring che vi parla di Okami e di Zelda insieme, di un bel speciale emalordico sulla generazione passata (passata?), di due

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http://idv.splinder.com spoiler che raccontano la guerra, in due modi diametralmente opposti: un redivivo Gunny Lawrence D'Arabia da una parte, un Killzone 2 putente e visionario dall’altra. E troverete anche una tonnellata di preziosissime SMS Review, in uno speciale preparato per venire incontro alle vostre limitate capacità mentali; infine, altro articolame vario, in parte proveniente dal mio blog (dove tristemente è stato ignorato) in parte del tutto nuovo. Non mancano neppure messaggi subliminali a tema sessuale, pagine nascoste, messaggi cifrati per dare il via all'invasione aliena e apologie al satanismo parafrasate in ogni articolo… Ma di alieni e belzebusi ci si potrà occupare in seguito. Ora godetevi l’attimo, la scoperta di quello che potrebbe essere – davvero – l’ultimo numero di Ring. O il primo di una nuova serie, chissà. Ring! L'unica rivista videoludica che pur con due piedi nella fossa riesce ad uccidere l’E3 e a pubblicare il numero 100! Il Davide Videoludico

//febbraio2007

100 RING copertina, copertina grafica online“gatsu” e tommaso de benetti grafica a cura graficaPDF a cura di di tommaso tommaso“gatsu” “gatsu”de benetti de benetti sezione online a cura de il davide videoludico sezione online a cura di PDF e editing dei testi tommaso “musta” federico res collini sito delPDF davide videoludico sezione a cura di http://idv.splinder.it federico res PDF ospitati da sito e forum ospitati da www.qb3project.net www.bitpower.it redazione PDFandrea ospitati da “mr. Yo” alessandro www.qub3.net gianluca “sator” belvisi redazione emanuele “emalord” bresciani gianluca “sator” belvisi tommaso “musta” collini cristiano bonora tommaso“cryu” “gatsu” de benetti emanuele “lord” bresciani nemesis divina cristiano “musta” “amano76” ghigi tommaso collini davide lunardelli tommaso “gatsu” de benetti valentina “bluvalentine” pagnemesis divina giarin cristiano “amano76” ghigi federico res paolo “jumpman” ruffino paolo “jumpman” ruffino federico res lucio “lux” sampietro giacomo “gunny” talamini giacomo “gunny” talamini hanno collaborato davide videoludico il pupazzo gnawd mr. yo hob per collaborare andrea23 posta@project-ring.com per collaborare posta@project-ring.com

Avvertenza per la stampa

R I N G 1 0 0

Il PDF di Ring è pensato come una vera e propria rivista e va stampato sfruttando entrambe le facciate dei fogli. Per far ciò seguite quattro semplici operazioni: 1) Inserite 22 fogli nella stampante. 2) Assicuratevi che le dimensioni di stampa siano impostate sul 100%. 3) Stampate SOLO le pagine dispari selezionando “pagine dispari” dalla casella in basso a sinistra della finestra di stampa di Acrobat Reader. 4) Girate i fogli e stampate anche le pagine pari. Et voilà!

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SMS Review <Spalare cacca in 160 caratteri> del Davide Videoludico

Zelda Twilight Princess A Splendido ma i poligoni li hanno contati a mano. ZELDA TWILIGHT PRINCESS

S

Niente bacchette o foglioline del cazzo. ZELDA TWILIGHT PRINCESS A "Pappa-pappappaaa-pappapapappapaa-parapappappaaaa-parararappapaaaparararappapaaa-PAM-PAM-PAPPARARA'!"

KILLER 7 C Sarebbe bello, ma ad un certo punto ti tocca giocare. PRINCE OF PERSIA: I DUE TRONI A Puoi diventare un negro fiammeggiante. METAL GEAR SOLID 3 B Due tornate per capire i controlli. Tre per divertirsi.

SHADOW OF THE COLOSSUS B Era da PS3, e no, fare un gioco di solo boss non è un'idea COSI' bella.

RESIDENT EVIL 4 (PS2) B Uguale alla versione GC. Se vi ammazzate di pippe. YAKUZA C Non è Shen Mue.

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dore 64, Spy vs Spy adoperava lo split-screen per

MUSHIHIMESAMA B Per gli amici dei grappoli.

permettere alle due spie protagoniste di vagare

GUNGRAVE D Si finisce da solo a livello hard. A console spenta a livello normal. CANIS CANEM EDIT C Bullismo, professori, pupe, studenti, fionda, taglio skin. E il classico legno-brand by Rockstar. SWORD OF MANA C Ogni tanto sembra bello. ANIMAL CROSSING B Zampette alacri e operose esplorano piccoli e bucolici mondi, raccolgono stelline, si intrattengono con improbabili animali e collezionano mobili. Zuccheroso. STELLA DEUS: GATES OF ETERNITY C Come nel 2001, solo senza Chocobo. FORBIDDEN SIREN 2 B Come il primo, cioè non riesco a superare nemmeno i primi 10 stage.

Urban Reign & God Hand A I re dei rullacartoni. Lato A e Lato B.

SHADOW HEARTS COVENANT B Un demone si sbarazza di un nugulo di nazisti in una chiesa. RADIRGY B Senza VGA Box brucia gli occhi. UNDER DEFEAT B L'elicottero con la cloche incastrata. SHADOW OF THE COLOSSUS B Poesia, colossi, frame rate instabile. PHOENIX WRIGHT ACE ATTORNEY B April May se la doveva fare, comunque, due ore di scoglionamento prima di godere giusto un attimo. Un ottimo attimo però.

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DEAD RISING B Scattare foto a orde di zombie affamati non è cosa da poco. Tuttavia, aiutare sconosciuti a scampare a morti atroci è ancora peggio. Meglio cambiarsi d’abito nei camerini. FAHRENHEIT D Maya, alieni, intelligenze artificiali, la fine del mondo e un salto della quaglia mancato. Un coacervo di luoghi comuni per un nuovo significato della parola banalità. ENGLISH TRAINING C No dai, dire che aiuta a imparare l'inglese è davvero LOL! RESIDENT EVIL 4 A Ah, finalmente si respira. Un'altra chiave di fiori da infilare nella porta fiorita e mi scoppia la testa, giuro. Qua invece scoppiano altre teste, abbondanti e con il giusto ritmo. Pro Evolution Soccer 6 S Come si possa migliorare tutto di un gioco peggiorando la demenza senile dei portieri resta da capire. Il migliore by far.

KATAMARI DAMASHII 1 E 2 A Rollare non è mai stato così divertente. Ho detto rollare? OKAMI A Un lupo in acido che si crede una divinità. KINGDOM HEARTS C Meglio leggersi Topolino. TALES OF SYMPHONIA C I cattivoni vogliono farci male, ma io sono e sarò sempre felice trallallero trallallà eheheh. BLACK B C’è il renderware ed esplode tutto.

Mushihimesama S Con che cosa si droga quello che l'ha recensito per Videogiochi?

Outrun 2006 Coast to Coast A E' disgustoso come sia necessario stuprare i titoli e aggiungere porcherie a dei giochi clamorosi perchè su PS2 riescano a vendere 3 copie. Almeno c'è l'SP, quindi si sopporta. GTA: Liberty City Stories C Un cut and paste che neanche Capcom ai tempi d'oro, e riesce anche a vendere qualcosa.

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DRAGON QUEST VIII B Cento ore di regime conservatorio scivolano dolcemente.

DISGAEA 2 A More of the same, si, ma come va fatto.

FINAL FANTASY X C Un palloso film con Meg Ryan?

MAGIC PENGEL C Che bello disegnarsi i pokémon!

SHENMUE I E II S Il miglior albero digitale. Però ne manca un pezzo.

DOOM 3 D Avevo ragione io.

RAYMAN RAVING RABBIDS D Cita Wario, poi cita Wario, poi strizza l'occhio a Wario, ma sbaglia tempi e modi. Inutile. FORMULA ONE 06 C Giochino.

TONY HAWKS: PROJECT8 C Bello lo slow motion però... non c'è un cazzo d'altro. WII SPORTS B L'unica palla è dover inserire il dvd.

MAGNA CARTA D Un gioco dalle mille idee. Tutte sbagliate.

METAL GEAR SOLID 3 S MGS, sempre di più, fa stare bene anche quando non si muovono le mani. Il contrario di Phoenix Wright, in qualche modo. Anche se in quel caso le mani non si muovono mai... Comunque, troppo in alto per discuterne ancora. LEGO STAR WARS II C Con Obi-Wan, la principessa Leila e Luke costruisco tavolini, raccolgo monetine, sfodero la spada laser e decapito nemici. Finalmente anche io gioco coi Lego. ONIMUSHA DAWN OF DREAMS A L’introduzione è qualcosa di I-MM-E-N-S-O.

WORLD OF WARCRAFT A La mia vita sociale passa nettamente in secondo piano quando devo leveluppare e trovare abbastanza Golds per la mia Epic Mount. World of Warcraft is a feeling. FIFA 07 B Si bravo, bello, migliora, prende da PES. Tutto ok, sia chiaro, ma c'è già PES. Che peraltro si ostina ad uscire ogni anno, quindi... LET'S MAKE A SOCCER TEAM D Ok, un nome del genere già basterebbe come voto, non serve aggiungere altro.

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TURISTA PER CASO <venti giochi da portare nel futuro> Di Emalord

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ine 2006, una festa sta per finire ed una nuova avventura sta per iniziare. Tempo di bilanci e classifiche. Anche se la passata generazione non è ancora finita e potrebbe regalarci qualche colpo di coda sul finale (Okami, God of War 2 e Final Fantasy XII, in effetti, potrebbero) tenteremo di fare un’ analisi del meglio che ci hanno regalato i 128bit. E poi sia ben chiaro, con RING che esce nella più completa anarchia spaziotemporale la prossima volta potremmo esser qui a parlare di realtà virtuale e ologrammi e induzione cerebrale. Esattamente come 20 anni fa, tra l’altro. Fare classifiche è una cosa antipatica. E già la cosa ci piace. Stilare una lista dei 5 migliori giochi a 128bit (per piattaforma) significa selezionare 20 giochi su più di mille. Magari su più di un milione, onestamente non ne ho idea. Ho cercato di coprire svariati generi, pur amandone alcuni più di altri. Ho selezionato solo giochi da me testati, non avrebbe senso parlare di giochi che non conosco. Mi arrogo la capacità di scelta di un individuo illuminato e saggio come solo il Grande Puffo potrebbe essere. Per ultimo, ho evitato di citare lo stesso titolo uscito su più piattaforme. Resident Evil 4 è sicuramente un ottimo gioco anche su PS2, ma se per ipotesi fosse nella TOP5 della console Sony l’avrei comunque escluso per ovvi motivi di ridondanza e perché è nato su Gamecube, è stato concepito per sfruttare l’hardware Nintendo ed è quella la sua console di riferimento. Per quanto possa essere scontato che il tal titolo rientri in questa classifica perché “è ovvio”, vi invito comunque a non perdervi alcune delle motivazioni da me esposte, soprattutto perché completamente fasulle e inventate sul momento. Buona lettura…

Katamary Damacy Nato come gioco budget, creato a ¾ della vita di PS2 con una grafica che avrebbe fatto fare bella figura a Street Fighter EX, di Katamary Damacy avete letto probabilmente di tutto di più. Eppure questo giochino spartano è stata una delle maggiori sorprese di questa generazione proprio in virtù di quella giocabilità basica da “vecchi tempi” videoludici, quando bastava un semplice joystick monopulsante per portare a compimento un gioco. Katamary Damacy è completabile in 4 ore scarse, senza enormi opzioni di rigiocabilità, e lo scopo è quello di ‘rotolare’ una dapprima microbica ‘palla collosa’ attraverso piccole stanze, per fagocitare oggetti e farla ingradire fino al punto da poter ‘incollare’ cose sempre più grandi. E via così, fino ad incollare il mondo intero in un finale di gioco memorabile. Folle e demenziale, dalla grafica stilizzata ma stilosissima e con la più bella colonna sonora dall’Età del Rame e comunque del 2004, questo gioco piccolo piccolo sarà capace di crescere fino ad incollare il vostro cuore, e poi il vostro mondo. Missione videoludica compiuta.

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SHADOW OF THE COLOSSUS Ma andava bene anche ICO. Quello che conta era portare un gioco dell’ICO TEAM di Fumito Ueda nella prossima generazione. Sia chiaro: sia ICO che SOTC rientrano in questa classifica non in virtù di chissà quale prodigio di giocabilità, profondità di gameplay, flessibilità dei controlli o altro, ma per quello che a mio avviso è e deve rimanere il compito più alto dei videogiochi: ispirare emozioni, staccare dalla realtà, portare in mondi lontani. I giochi del team ICO, con i loro colori pastello a base di verde e moro, la natura protagonista principale, le architetture ardite e anelanti al cielo, o meglio ancora alle nuvole più leggere, sono e rimangono rari esempi di gioco costruito attorno ad un’idea. Quasi un pretesto per calcare scenari onirici e fortezze con soffitti alti fino al cielo. Giochi dove l’uomo è il protagonista principale, certo, ma anche l’elemento solitamente più piccolo presente, quasi a monito del fatto che noi saremo forse i re di questo mondo, ma ne siamo sempre e comunque la parte più piccola e fragile.

DEVIL MAY CRY Stylish Gaming anyone? Devil May Cry, come altri giochi da me inclusi in questo breve compendio, ha i suoi bravi difetti ma è difficile contestare il fatto che abbia dettato legge in materia di action game. Dove i giochi pre-DMC contemplavano scenari già visti, mosse già viste, gameplay ingessato, e dove raramente più di un elemento tra scenario/gameplay/trama si distingueva dalla massa, l’action di Mikami (prima) e Inaba (poi) eccelle in ogni comparto. Amplifica le azioni eseguibili concatenandole tra loro, inventa un modo cubo-di-rubik di gestire l’action gaming, dove l’utente prende un campionario multicolore di mosse e lo ricompone a modo suo nel modo più completo e ‘stylish’ per creare un inferno su schermo. Il protagonista Dante, egli stesso ispirazione per innumerabili giochi a seguire, è crudele non solo con i demoni infernali ma con i suoi utenti pure, ma premia chi ha la costanza di padroneggiare lo stile di gioco fino all’ardua vittoria finale con un reale senso di soddisfazione. Oh, quale divina commedia della vita reale…

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PRO EVOLUTION SOCCER Chi ha bisogno dei party game quando c’è PES? FIFA di Electronic Arts è stato un buon aperitivo ma era chiaro che il ‘doppio’ fra giocatori umani non fosse adeguatamente divertente. FIFA era un gioco one-player-only: si arrivava in porta sempre allo stesso modo, si realizzavano gol tutti uguali fra loro. I portieri si distinguevano per essere o fessi o imbattibili. Che divertimento poteva esserci a giocare in due, se non mazzuolare un amico imbranato che non conosceva quei 3 sistemi per arrivare in rete? PES ha portato il realismo tra di noi. I modi per arrivare in porta sono inquantificabili senza un computer a diodi sotto mano, il controllo è impeccabile, soprattutto a 60hz quando le animazioni scorrono fluide come Tarzan di liana in liana. I portieri imbranati ci sono ancora, ma raramente sono imbattibili. Quando si arriva davanti alla porta è sempre goal, e se sbagli, è solo perché sei la metà di un attrezzo da falegname. Mai come ora i meriti del giocatore superano massicciamente i demeriti o gli eventuali soprusi dell’intelligenza artificiale. PES è il vero calcio. Il vero calcio su schermo è lo scontro tra amici, è tifo, è competizione. PES è il vero party game, con sconforto di Mario e soci che, per l’appunto, si son dati recentemente al soccer.

METAL GEAR SOLID 2 Gioco osannato e odiato. Criticato, deriso, sopravvalutato e sottostimato. MGS2 merita di entrare in questa lista per svariati motivi, ma il principale è che è un gioco che stimola dibattiti e riflessioni utili alla comprensione di questo media. Sul rapporto tra giocatore e console, tra personaggi reali e personaggi inventati. La vita dentro il gioco e la vita fuori il gioco. Oltre a essere uno dei più palesi traguardi tecnologici di una PS2 ancora in fasce, e tale resterà fino alla fine, MGS2 è geniale perché conosce il proprio giocatore in ogni sua forma. Conosce i suoi pensieri, materializza i suoi desideri, e a volte ne crea di nuovi. È un classico actiongame con tanto di Boss esotici e cospirazioni planetarie, che cita se stesso e il videogioco nelle sue più impensate forme. Non è uno dei giochi più belli di PS2, ma merita di essere portato nella prossima generazione perché come tutti i giochi che segnano il tempo sarà rivalutato a posteriori.

RESIDENT EVIL REBIRTH Può sembrare ridicolo che un remake compaia nella lista dei migliori giochi di una console, posso confermare la sensazione. Eppure Resident Evil non compare in questa classifica in onore al necrofilo franchise cui appartiene, ma piuttosto perché il suo enorme potenziale evocativo, la sublime direzione artistica ed il genuino senso di ansia che lo pervadono lo rendono una delle esperienze da provare. Dal momento in cui varcherete la soglia della magione tutti i vostri sensi saranno rapiti dalle splendide stanze baroccotecnologiche, dalle nebbie sottili ed insinuanti negli esterni, dalla vegetazione nuda, umida e minacciosa. Chi ha giocato l’originale su Playstation troverà locazioni originali e nuovi enigmi, tutti gli altri troveranno ‘anche’ i migliori zombie calcanti un videogioco a oggi nonché un validissimo motivo per apprezzare la vecchia scuola Capcom a base di schermate fisse, inquadrature ardite, grafica prerenderizzata e miliardi di dettagli su schermo in conflitto tra kitsch e buongusto. Non privo di difetti (tra cui spiccano il legnosissimo modello di controllo ed una trama imbottita di clichè tanto quanto di cadaveri), segna però l’apice stilistico-creativo dei grafici Capcom, ineguagliato persino nell’attuale next-gen altodefinita.

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METROID PRIME Quando Nintendo non sbaglia e traduce perfettamente un franchise dal bitmap al 3D. Del precedente episodio comparso su SNES questo seguito riprende tutto: pianeti alieni da esplorare, locazioni multistrato da rivisitare a più riprese, l’eroina Samus con armatura potenziabile e sempre lucidissima, i pirati spaziali, gli alieni parassiti Metroid. Gioco di incredibile atmosfera fin dalla schermata del menù, probabilmente la migliore di sempre (su console) grazie all’ipnotica musica di Kenji Yamamoto, si rivela perfettamente bilanciato nella difficoltà che si apre come un fiore davanti al giocatore mentre l’armatura di Samus acquista nuove funzionalità. Criticabile a causa di un backtracking che però è sempre garante di nuove aree da visitare, riesce con una semplicità che ha del miracoloso a essere un gioco di piattaforme ed esplorazione con meccanica da FPS, in bilico tra claustrofobia e generosi spazi alieni perfettamente caratterizzati, il tutto con una perfetta gestione dei movimenti e dei salti, con leggeri problemi, talvolta, nel gestire il lock-on sui nemici. Giusto per i più nozionisti.

RESIDENT EVIL 4 Su Gamecube è una vetta tecnologica irraggiungibile. Ma non solo, è uno dei pochi action/shooter (si, è anche un survival horror ma con delle riserve) che riesce ad incollare dall’inizio alla fine un trentenne stanco e facile alla noia. Tre enormi zone che richiedono una ventina di ore per essere attraversate, sangue e gore sempre presenti ma mai ammorbanti, un framerate incredibilmente solido ed ambienti che riescono sempre a rinnovarsi fanno da contorno ad una trama inutile, che richiama i precedenti RE solo per la presenza di un paio di personaggi. Divertente, a volte spaventoso, difficile ma mai troppo, generoso con chi lo gioca fino alla fine, RE4 è anche simbolo del coraggio di Capcom che prende un franchise, si rende conto che è ora di svecchiarlo, e lo rinnova in tutto e per tutto. Il modo giusto per sopravvivere nei tempi della flessibilità, degli altissimi costi e dell’insuccesso letale per le casse delle softco. Il punto di partenza della new-wave Capcom, eccellente su Xbox360 con alcuni nuovissimi franchise che stanno riscuotendo un meritato successo.

ZELDA: THE WIND WAKER Ho mollato questo gioco a tre quarti. Durante la ricerca della Triforza nell’infinito mare in cel-shading partorito dalle menti di Eiji Anouma e Nintendo. Ero stanco, trovavo quel mare noioso e percepivo che questo Zelda fosse un prodotto incompleto e non testato a sufficienza. Combattere un boss con 8 cuori di riserva energetica, subire un attacco bossfurioso e vedere che solo un quarto di uno degli otto cuori era stato intaccato, mi ha fatto pensare che questo Zelda fosse creato non per un videogiocatore, ma per un fan. Fanservice, nel senso più spregiativo del termine, dove non conta il succo del gioco ma il come lo si da in pasto alla propria utenza. Eppure, pur mantenendo forti riserve, non posso non includerlo in questa lista proprio perché non tiene conto solo di ciò che ho amato giocare, ma anche di ciò che vorrei arrivasse alle future generazioni.

E allora non posso non pensare a quanto fosse bello il mare di notte, a quanto fossero buffe le espressioni di gioia, dolore e sforzo di Link, a quanto fosse magico il mondo sommerso sospeso nel tempo, in un eroico bianco e nero. A quanto fossero stilose le scelte di design di Nintendo nel rappresentare i rivoli di fumo o le forme dei nemici o mille altri dettagli.

E allora spero che questo gioco arrivi ai miei figli, e anche a vostri, perché dove io mi sono fermato, nelle ragioni che io ho trovato per mollare tutto, loro vedano solo un’affascinante susseguirsi di eventi e portino a compimento un’avventura che potrebbe rivelarsi l’avventura della loro vita.

SUPER MARIO SUNSHINE

O Zelda Twilight Princess? No, l’ultimo gioco della mia lista è il secondo, criticatissimo gioco di Mario in 3D, anche perché il crepuscolo regna su Wii, e ne parleremo sicuramente tra 5 anni. Non era facile dare un successore a Mario64, proprio perché quest’ultimo rappresenta l’essenza pura del videogaming, nonché, plausibilmente, il miglior platform di tutti i tempi per il suo controllo perfetto e la completezza del suo design. Eppure SMS è lo stato dell’arte dei platform su Gamecube, è una scelta coraggiosa, ha tentato di innovare dove poteva, ha ottime musiche ed è pure divertente. Si, graficamente poteva essere più incisivo, poteva riuscire meglio o perlomeno osare di più, ma non tradisce il fantastico ed imbattibile senso del design Nintendo, e nel suo genere, seppur con qualche mugugno, continua a svettare indisturbato.

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PANZER DRAGOON E’ incredibile come Panzer Dragoon sia passato quasi inosservato nella comunità XBOX. A dire il vero sospetto che ci sia una congiura planetaria a danno di questo franchise Sega, uno dei pochi che ha retto l’impatto col tempo. Sia chiaro: questo shooter su binari, uno dei padri della sua specie dal quale sono ‘deragliate’ opere similari come lo psichedelicokandiskijano REZ, non è mai stato un capolavoro di gameplay. Nel tempo però è cresciuto e ha migliorato il suo kung-fu. Non solo si spara e si schiva come da regolamento, ma si accelera, si rallenta, si muta in draghi più potenti e più grossi, oppure più piccoli ma (va da se) più veloci. Ma è il background la vera forza di questo franchise: un mondo futuro post-apocalittico sottomesso a forze militari-mistico-religiose, dove i draghi rappresentano il nemico da abbattere ma anche la chiave per raggiungere la pace. Splendidi artorwks che hanno coinvolto anche il geniale transalpino Moebius, possente trama, un RPG per Saturn tra i più belli mai giocati dal sottoscritto, questo prodotto merita di essere preservato nel tempo a venire in quanto rappresenta un modo di concepire i giochi che non esiste più. Per validi motivi economici, certo (un gioco dallo scarso successo non merita seguiti), ma anche in quanto frutto dell’amore per i giochi belli e impossibili, nati non per andare incontro ad un facile successo commerciale, ma per soddisfare un’impellente ed erotica voglia di creare mondi fantastici, incuranti del reddito finale. Follia Sega allo stato puro. I love it.

HALO Raramente compare un franchise così perfetto. E’ curioso come l’Xbox, macchina che ha avuto una modesta qualità media nel proprio parco giochi, presenti tra le sue file alcuni dei giochi più emozionanti e seminali della scorsa generazione. Halo è un FPS perfetto perché, come ben sentenziato dai suoi stessi programmatori, non fa nulla di troppo. E in un mondo dove il bumpmapping conta più di un framerate roccioso ciò è Bene (in senso biblico). 30fps costanti, un mondo intero che si fionda con violenza nelle vostre pupille, una saga guerriera epica e grandiosa che avvince, esalta ed emoziona. Un mondo coerente, governato da leggi fisiche impeccabili e da nemici possenti, intelligenti, azzeccati nel loro design aggressivo e negli atteggiamenti di branco. Una comunità online affezionata, un multiplayer esaltante come mai prima, armi perfettamente bilanciate che si adattano ad ogni utente, un seguito che non ha deluso le attese. Tutto questo è il segreto di HALO: non deludere. Mai.

NINJA GAIDEN Ad avviso di chi scrive, il migliore action-game della scorsa generazione. Non innovativo come Devil May Cry, meno ‘giocattolone’ di God of War, è però uno dei giochi dove la capacità dei designers giapponesi si è esaltata maggiormente. Controllare un personaggio dalle decine di animazioni impeccabili, che risponde perfettamente ad ogni singolo input, il peso del quale si riflette perfettamente nelle vibrazioni del controller, è una fortuna che capita un paio di volte per generazione. Ninja Gaiden non è per tutti: a volte si lascia giocare per qualche minuto facendovi sentire hardcore gamer compiuti, altre vi fa lanciare il joypad dalla finestra scorati come non mai. Eppure Team Ninja non vi lascia mai soli: in ogni schermo c’è la soluzione ai vostri problemi, l’arma più adatta per affrontare quel certo avversario, basta non chiudere i propri chakra ai suggerimenti subliminali dei coder di Tecmo. Più il gioco si accanisce contro di voi, più userete combinazioni di armi e di salto, quasi foste diventati veri guerrieri della notte. E la grafica, a oggi, è quanto meglio Xbox possa darvi (per quanto le dosi di kitsch abbondino al punto da rendere questa sentenza tra le più opinabili della storia).

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OTOGI 2 Ancora una volta in questa classifica rientra un gioco imperfetto e non per tutti. Eppure, ancora una volta, qualcosa di questo gioco dovrebbe essere tramandato ai posteri. Otogi 2 è un gioco che trasuda giapponesità da tutte le texture. E su Xbox è quasi una novità. Il sonoro fantastico, lo stile unico e la pura potenza computazionale, rendono questo ibrido tra action e RPG un must-have. O perlomeno un must-try. Cinque personaggi upgradabili in potenza e resistenza secondo le più basilari regole RPG, un ensemble di nemici epici, una serie di livelli ispirati e completamente riducibili ad un cumulo di macerie, effetti visivi troppo belli e unici per non vedere le proprie pupille vacillare, OTOGI 2 provoca erezioni per la sola bellezza e poesia, a volte insostenibile. Può essere che questo gioco non lo finirete neppure, e tra un paio d’anni esisteranno giochi più belli ed evocativi, eppure il prodotto di From Software farà scuola e ne riparleremo in futuro per le sue ripercussioni stilistiche.

BURNOUT 3 Giochi di auto? Li odio con tutto il cuore. Non so cos’è la convergenza, gli scarichi, la testata. Non ho mai imparato ad entrare in curva né tantomeno ad uscirne. Sono perennemente in un circuito ovale del comprendonio a 8 cilindri. Eppure Criterion ha prodotto un gioco perfetto, adatto a tutti, casual gamer del battistrada come il sottoscritto inclusi. A volte la strategia migliore è investire gli avversari, a volte sorpassarli. Il codice della strada in Burnout ha poche regole ma ben definite, e la regola numero uno è tenere i giri del motore sempre al massimo. Burnout è la sintesi perfetta di un arcade automobilistico: tecnicamente muscolosissimo, velocità ai limiti del controllabile, rarissimi cali nel framerate, splendidi paesaggi tra cui spargere enormi quantità di benzene. La perfezione fatta arcade, una cosa che ci saremmo aspettati solo da Sega o da una casa con altrettanta esperienza. Sia lode a Criterion, potente proprietaria di un motore proprietario.

IKARUGA Il bullet-dodging, questo sconosciuto. Perlomeno fino a quando ho visto Ikaruga ed il suo modo di reinterpretare questo estremismo degli shooter bidimensionali. Merito di Treasure e dell’enorme stile che sa infondere ai suoi giochi, quasi tutti perlomeno. Prendete un’astronave che può switchare in due colori, e che a seconda della livrea esibita assorbe proiettili del medesimo cromatismo ed esplode al contatto con gli altri. Posizionatela su fondali dall’eccellente definizione, conditi da una sapienza cromatica che era proprietà intellettuale di Sega fino al giorno prima. Versate con attenzione su tutto lo schermo tonnellate di astronavi bicromatiche e proiettili in quantità esorbitante, che si muovono ad ogni nuova partita sempre nello stessoidentico modo per permettervi di capirli, conoscerli, diventarci amico per realizzare combo manco a dirlo bicromatiche. Prendete un crescendo di quantità e velocità dei proiettili fino alla completa dissociazione immagine-retina salvo diventare l’Eletto e vedere tutto il geniale disegno che vi sta dietro, e arrivare al boss finale con un unico credito. Ikaruga vi porta in un mondo duro ed inaccessibile, dove solo in pochi potranno arrivare. Non amo alla follia giochi così hardcore, ma questo è il migliore della sua generazione, è un pezzo d’arte, un esempio di design assoluto. Chi l’ha giocato non lo dimenticherà mai più e gli altri si sono davvero persi qualcosa di grande. Bicromaticamente grande.

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SHEN MUE Shen Mue lo si ama o lo si ignora. Incredibile investimento di tempo e denaro di Sega, non stupisce che questa sia con l’acqua alla gola da qualche anno. Shen Mue è un gioco fallato e meraviglioso. Fallato perché la sua libertà di azione, il suo punto forte, è solo un caso di prestidigita(li)zione, una pia illusione. La trama è lineare e sovente avanza troppo lentamente (soprattutto nel primo episodio), i dialoghi sono perlopiù inutili (seppure calano in una sensazione di ‘quotidianità’), alcune azioni non possono essere compiute se prima non si fa ‘scattare’ qualcosa (tramite dialoghi o azioni specific-o-bbligatorie), la grafica è ormai datata e i combattimenti ispirati a Virtua Fighter legnosi (si finisce per usare pochissime, semplici mosse a fronte di un parco generoso di frantumodalità). Questo action-simulation-RPG molto ambizioso alla fine si è rivelato molto superficiale. Eppure… eppure la storia intrigava pur se piena di clichè, la lenta maturazione di Ryu Hazuki permetteva l’immedesimazione dell’utente con l’eroe (timido e asociale), il suo essere un gioco di investigazione e combattimenti era una novità come anche i Quick Time Event che spezzavano le fasi di gioco, a cui possiamo aggiungere anche una splendida colonna sonora ad opera dell’ex prodigio Yuzo Koshiro. Shen Mue è stato parecchie cose, soprattutto un antesignano dei giochi moderni con quel suo melange di generi che oggi è diventato la norma. Per chi l’ha giocato, Shen Mue resterà uno dei giochi della vita, alla pari di uno Zelda: Ocarina of Time o di uno Shinobi o di un R-TYPE. Per altri sarà solo un gioco che tenta molto e riesce poco. Su Dreamcast rimane comunque IL gioco da avere e giocare.

HOUSE OF THE DEAD II Uno shooter con pistola a infrarossi. Ancora ci mancava. Beh, questa è la crema del genere. Un miracolo Sega in sala giochi e uno dei miracoli più miracolosi di Sega su Dreamcast. Conversione arcadeperfect come solo Dreamcast poteva fare ai suoi tempi, questo gioco rimane, dopo anni, il migliore esponente di un intero genere. Nei primissimi livelli i designer Sega hanno dato il loro meglio con zombie bellissimi, boss ispirati, percorsi multipli uno più bello ed evocativo dell’altro. Colori splendidi, scrolling fluidissimo, opzioni extra golose appannaggio di questa conversione casalinga e tanto gore, rendono HOTDII una pietra miliare di Sega, ed un chiaro testamento dell’abilità dei suoi designer migliori. VIRTUA TENNIS Un altro gioco sportivo. Ma non il solito gioco sportivo. Sega mette sul campo le sue leggi di semplicità ed immediatezza (che a volte hanno castrato giochi potenzialmente grandiosi) nel migliore dei modi: un gioco sportivo. Semplice, immediato, con una grafica al top del genere ed una fluidità invidiabile. Facile entrare nel suo campo ipnotico, difficile uscirne, svariate ore di gioco dopo, in multiplayer soprattutto. Semplicità ed immediatezza in una ricetta banale come quella di un tiramisù. Eppure buonissima.

SOUL CALIBUR Mentre la prima Playstation non riusciva a rendere onore ai migliori coin-op del suo tempo, la neonata console Sega li prendeva e li migliorava. Soul Calibur ha rappresentato, de facto, la realizzazione dei sogni bagnati di ogni videoplayer di ogni età e nazione. Una preghiera realizzata, un picchiaduro ancorato a 60 fps, arene bellissime in alta definizione piene di luce, colore e dettagli. Abiti splendidi, svolazzanti al vento della battaglia e abbelliti da raffinati fregi e disegni. Un chara design semplice ma concreto. Donne belle ma possibili, uomini rozzi, brutali ed eleganti. SC è la perfezione fatta videogioco. Alla portata del videoplayer medio, mediocre ma anche di quello hardcore alle più alte difficoltà. Se si ama il genere, se si ama il videogaming, se si ama la bellezza.

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ETICA DEL RECORD <delle lotte pazze e disperatissime per uno slot su Arcadia> Di Davide Lunardelli "Il gioco risulta eccessivamente semplice da portare a termine visti i continue infiniti, e la rigiocabilità è a livelli molto bassi” (Dalla recensione tipo della conversione di un gioco arcade)

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er sua natura, il gioco arcade è il gioco da record per eccellenza. Questo non significa che altri tipi di videogioco non possano essere teatro di varie sfide, si pensi solo a quella splendida deviazione che sono le speed run, ma lo scopo primario di un gioco arcade è nel 99% dei casi quello di favorire la competizione tra giocatori. Il giocare per record implica che il giocatore accetti una sfida indiretta con altre persone, nel medesimo campo di battaglia e con le stesse regole. Deve quindi essere possibile un confronto assolutamente preciso tra i vari risultati (in genere punteggi o tempi). Per assicurarsi che questo sia possibile, il primo passo da fare è ottenere le proprie prestazioni da partite giocate su un solo credito. Sembra un’affermazione piuttosto ovvia, ma la forza della sua banalità basta da sola a spazzare via anni di scellerate recensioni italiane. Il secondo nodo focale della questione può sembrare ancora più banale del precedente. Riguarda il giocare sullo stesso “campo di battaglia”. Di un gioco spesso esistono varie versioni (da sala, conversioni, emulazione), varie revisioni (ad es. Armed Police Batrider versione A o B) e varie modalità all’interno dello stesso gioco (ad es. Mushihimesama ULTRA, Maniac, Original). Per quanto riguarda le differenti modalità, è chiaro che devono essere trattate come giochi a se stanti e devono essere quindi create 3 classifiche separate. Per le varie revisioni di un gioco, invece, il discorso si complica sensibilmente, rendendo necessario un confronto concreto tra gli elementi del gameplay che variano. Si entra nel libero arbitrio di chi stabilisce le regole (come vedremo in seguito), anche se in genere piccole differenze che non riguardano il sistema di punteggio come per gli extend nel già citato Batrider (le vite extra, automaticamente aggiunte in una versione e rilasciate come item nell’altra) vengono tranquillamente tollerate. In questa categoria vanno aggiunte anche le differenze legate al territorio di destinazione del gioco. Sono noti infatti casi di rilevanti differenze tra le versioni giapponesi e internazionali di giochi come Battle Garegga (nella versione europea gli extend sono fissi, il gioco risulta snaturato) e Donpachi (diversa gestione delle vite, versione USA facilitata). Non è detto inoltre che diversi formati restituiscano al giocatore lo stesso gioco. Una competizione a punteggio incentrata su un gioco come Mars Matrix, ad esempio, dovrebbe tener presente che la versione arcade e la conversione per Dreamcast presentano sistemi di punteggio differenti. In particolare la prima consente il counter stop (lo stato nel quale il punteggio non può più salire, ad es.

9,999,999 o 99,999,990), mentre nella seconda la cosa è stata “corretta” (si può discutere sulla legittimità di questi interventi) consentendo la normale score rush. Ma non è tutto qui. L’emulazione infatti in molti casi garantisce la perfetta controparte del gioco da sala, ma in altri casi presenta problemi rilevanti, come una differente velocità di gioco. Problema quest’ultimo riscontrabile anche in numerose conversioni. Ben noto il caso Batsugun Special: nel convertirlo su Saturn i programmatori hanno “corretto” il “problema” dei rallentamenti che si verificavano con molti oggetti a schermo. Peccato che la cosa fosse un elemento decisivo nella corsa al 4-ALL, e che quindi la versione per la console Sega risulti decisamente più ostica di quella originale. La questione si chiude parlando dei settaggi. Ogni gioco presenta delle opzioni che permettono di cambiarne radicalmente l’aspetto, rendendo impossibile il confronto tra score. Ad esempio impostando il livello di difficoltà più basso e il numero di vite più alto il risultato è banale, e il confronto con uno score ottenuto con settaggi di default è falsato. Questo ci porta a parlare di un discorso accennato in precedenza. Quali sono i settaggi da usare? Chi decide se due revisioni di un gioco meritano classifiche separate, oppure se un gioco va bannato (e perchè) dalle competizioni? Quali sono gli standard accettati?

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I Giapponesi, tra le tante, hanno tre caratteristiche particolarmente importanti per l’argomento che stiamo trattando. Sono pignoli, onesti e dannatamente talentuosi nei videogiochi. Negli anni ’80 queste tre peculiarità si unirono per la causa del gioco arcade, in quegli anni fenomeno in piena esplosione. Nel 1986 nacque Gamest, rivista che trattava il mondo delle sale a tutto tondo e che soprattutto ha iniziato per prima a occuparsi in maniera sistematica di record. Alcune pagine infatti ospitavano i record inviati dai lettori tramite un coupon contenuto nel giornale stesso. CVG in Italia fece la stessa cosa, ma con risultati alterni. Perché? Perché CVG credeva sostanzialmente a ogni score di cui entrava in possesso, e i settaggi dei giochi in Italia dipendevano dagli umori dei gestori. Gamest invece richiedeva due cose non ai giocatori, ma ai gestori delle sale: settaggi di default in ogni gioco e certificazione di ogni score inviato. Inoltre stabiliva quali giochi non erano adatti alla competizione per punteggio a causa di punteggio potenzialmente infinito oppure, viceversa, punteggio bloccabile (counter stop). Questo sistema ha consentito di creare, numero dopo numero, un vero e proprio archivio di record quasi sempre ineguagliati nel resto del mondo, e soprattutto affidabile in maniera assoluta pur tralasciando ogni forma di prova visiva dei risultati. L’eredità di Gamest è stata raccolta negli anni da Arcadia[#1], che tutt’ora continua quest’opera di raccolta e diffusione. L’importanza di una simile operazione è facilmente immaginabile, e la cultura giapponese (nella quale essere i migliori è un buon risultato ed essere buoni conta poco, in linea di massima) ha aiutato certamente la causa. I giocatori, potendo usufruire del miglior ambiente per giocare (le sala giochi, i migliori cabinati e la migliore competizione) e con l’ambizione di venire pubblicati sulla rivista, hanno dato il via a lotte epiche per la conquista, mese dopo mese, di primati nazionali che quasi sempre corrispondono a quelli mondiali. Molto spesso le battaglie per la prima posizione (la rivista se non in rari casi non pubblica i secondi e terzi classificati) si protraggono per mesi, durante i quali i miglioramenti dei pochi giocatori coinvolti sono talmente marginali che è facile immaginare quale sia la tenacia necessaria per resistere a tale pressione. Che il contributo di Gamest/Arcadia allo strapotere giapponese in campo arcade sia rilevante non va quindi messo in dubbio. Che questo, unito all’ambiente favorevole, possa bastare a creare certe partite diabolicamente perfette è un altro discorso, più che complesso. Aspettando prima o poi di affrontarlo, possiamo solo accogliere con preoccupazione le voci che vogliono Arcadia chiusa entro la prossima primavera dall’editore Enterbrain. Chi raccoglierebbe un’eredità tanto pesante? Forse, ma è un’ipotesi molto remota, le speranze potrebbero venire proprio dall’Italia. E’ sul sito di AIVA (Associazione Italiana Videogiocatori Arcade) infatti l’unico database totale contenente tutti gli score dei Gamest e degli Arcadia, integrati da qualche altro raro record mondiale occidentale provato in maniera certa. Un lavoro durissimo portato avanti dal solito Gemant ZBL Fukuda, ammirato e utilizzato da tutto il mondo. Lunga vita al rock’n roll dei videogiochi quindi, qualunque strada decida di percorrere...

http://www.arcadiamagazine.com http://www.aiva.emuita.it

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SUPER ROBOT WARS <gli asini non volano, Mazinga si> Di Amano 76

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uper Robot Wars. Se non ne avete sentito parlare ma nutrite una febbrile passione per i robot giganti dell’animazione giapponese, allora sono spiacente di annunciarvi che per quindici anni avete perso l’opportunità di assistere alla concretizzazione di tutti i vostri sogni. Il giro di vendite che oggi SRW gestisce è stabilizzato sulle cinquecentomila copie per le console (in prevalenza PS2) e duecentomila mila per i portatili (principalmente GBA). Un traguardo non indifferente se si considera non solo la cifra in sé, comunque altissima, ma anche l'arretratezza del motore grafico, intestardito (a ragione) sull’animazione bidimensionale in un mercato completamente votato a quella tridimensionale. Come c'è riuscita Bandai, che nel bene ma soprattutto nel male è la paladina dei tie-in giapponesi? Il primo capitolo di SRW arriva tra capo e collo dei fan d'animazione, con un’antidiluviana edizione per Gameboy. E' il 1991. Fire Emblem di Intelligent System si è già affermato come precursore ed esponenente del genere, mentre sul portatile di Nintendo hanno già fatto la loro comparsa gli intramontabili Sangokushi (La Guerra dei Tre Regni) e Nobunaga no Yaboo (L’Ambizione di Nobunaga). Il gioco di Banpresto si presenta lineare, scarsamente complesso e troppo breve (solo 13 missioni), ma tutto quello di cui il titolo peccava nella forma lo recuperava con un carisma di prima categoria: gli eroi di 30 anni di animazione robotica erano finiti intascati in uno videogioco che li omaggiava con il dovuto spirito. Il concept che proponeva era tuttavia molto ortodosso e la serie ha acquisito le sue peculiarità solo successivamente, in particolare dal punto di vista estetico. L’impostazione coreografica è infatti molto simile a quella di Fire Emblem: la storia viene narrata attraverso finestre di testo accompagnate dai volti dei piloti, mentre le battaglie, messe in scena su mappe spoglie ed essenziali, lasciano lo spazio a siparietti di animazioni a tutto schermo. A scapito della serie di Intelligent System, va però detto che il crescendo nella qualità delle animazioni non è mai stato consistente, laddove in SRW i traguardi raggiunti in termini di "naturalezza" dei movimenti, varietà delle inquadrature e dinamismo dell'azione sono ormai ineguagliati da qualsiasi altro esponente del genere. Merito di Takanobu Terada, l'audace produttore che con il primo capitolo della serie Alpha (PSOne) ha preso in mano le redini di SRW, e intuitene le potenzialità ha scommesso sulla creazione di animazioni più accattivanti. Di Terada è stata anche l’ispirata iniziativa di predisporre un sistema di settaggio della difficoltà direttamente connotato alle capacità del giocatore, attraverso i cosiddetti “punti abilità”. Ogni missione presenta infatti due obiettivi, uno principale e uno secondario: per completarla e passare alla missione successiva basta il primo, per ricevere un punto abilità bisogna soddisfare il secondo. Al va

CRONOLOGIA Due sono le saghe principali di SRW. La prima nata agli inizi dei ’90 (SRW, SRW 2, SRW 3 e SRW 4) si è conclusa con il monumentale SRW Final, un titolo talmente esteso da venire messo in commercio su due dischi separati (SRW F e SRW F-Final). La seconda è stata pubblicata sul finire degli anni ’90 (SRW Alpha, SRW Alpha Gaiden, SRW Alpha 2 e SRW Alpha 3) e si è conclusa l’anno scorso dopo un costante successo di pubblico e critica, intervallata da SRW MX (PS2, noto per le sue superlative animazioni) e SRW Impact (PS2, capitolo noto per la sua insormontabile difficoltà e le sue centodieci missioni di estensione). Su GBA sono stati pubblicati SRW A, SRW R, SRW D e SRW J, capitoli autoconclusivi con animazioni meno raffinate ma sceneggiature più complesse e slegate dalle continuity originali. Le edizioni portatili si segnalano anche per avere fatto uso di serie animate meno conosciute, come Escaflowne, Betterman, Tekkaman Blade e Big O. riare dei punti abilità ottenuti, seguirà una variazione del numero di avversari e della resistenza al danno dei boss. Dato che gli obiettivi secondari sono indicati esplicitamente, il giocatore può decidere di abbassare o innalzare il livello di sfida indipendentemente dal punto dell’avventura in cui si trova. Una soluzione che rende SRW tanto appetibile all’hardcore gamer quanto al light user, contribuendo a decretare l’inossidabile successo della serie presso il grande pubblico. Col secondo episodio (Super Nintendo) si è rivista la distribuzione dei robot partecipanti, che nel primo capitolo erano assegnati a gruppi specifici corrispondenti a differenti modalità di impiego. In SRW 2 si ha finalmente la possibilità di schierare Mazinga accanto a Gundam, o Getta Robot accanto a Daitarn III. Un'opportunità clamorosa, enfatizzata dalla presenza sempre più massiccia di personaggi secondari, molti dei quali riscattati dalla morte compiuta nelle rispettive serie: Musashi (Getter Robot), Gai (Nadeshico), Tooji (Evangelion), Roy Fokker (Macross), sono tutti tornati sul campo di battaglia grazie all'opportuna intuizione degli autori della saga Banpresto, che hanno dato a questi "gregari" una seconda chance rendendoli non solo parte integrante di trame inedite, ma anche letali assi nella manica capaci di dimostrare una potenza inaudita. Un cenno d'intesa agli appassionati, che da tempo hanno fatto culto di questi "martiri a cartoni" spesso preferiti ai sempre più stereotipati (ed effeminati) protagonisti delle serie televisive odierne.

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Gli strategici nipponici gestiscono lo spostamento delle truppe secondo due grandi criteri generali: in uno l'azione avviene individualmente nel rispetto della velocità di ciascun personaggio, nell'altro gli schieramenti presenti sulla mappa si alternano a vicenda. SRW appartiene alla seconda casistica. Quello che effettivamente lo distingue da altri prodotti della stessa categoria è che i personaggi non sono limitati all'utilizzo di un attacco soltanto, ma possono anzi attingere a tutte le armi che hanno sfoggiato nelle rispettive serie a cartoni, ognuna riprodotta con un’animazione apposita. L'efficacia dei colpi a disposizione è stabilita da diversi fattori che rendono ciascun attacco destinato ad un impiego specifico: la gittata, la possibilità di usare un’arma dopo lo spostamento o meno, la compatibilità col terreno, la precisione di tiro. Le caratteristiche dei mech e della loro potenza di fuoco non sono però le uniche di cui si deve tener conto, dato che la qualità delle performance di ciascun robot è subordinata all'idoneità del personaggio che lo manovra. I piloti infatti possiedono statistiche individuali che regolano la loro versatilità, e ognuno di essi possiede un set specifico di abilità spirituali. Queste abilità, dal nome piuttosto buffo, vestono il ruolo che in altri titoli dello stesso genere spetta alle magie. Di regola i piloti che hanno statistiche particolarmente alte hanno magie eminentemente offensive, mentre quelli con statistiche meno valide dispongono invece di magie di supporto più versatili. Un’ulteriore peculiarità che SRW può vantare è la possibilità di alternare ai comandi di un robot piloti differenti. Un esempio paradigmatico è quello del Grande Mazinga, un mech che possiede armi da corpo a corpo e armi a lungo raggio. Con Tetsuya ai comandi, il Grande Mazinga risulta più efficiente nel corpo a corpo, mentre manovrato da Jun è più adatto al combattimento a distanza.. Questo significa che tutti i personaggi che possono pilotare il Grande Mazinga (Jun, Koji, Boss, Sayaka) dispongono di campionamenti vocali appositi per gridare “Missile centrale” o “Raggio Gamma”, nonostante nelle serie originali non lo abbiano mai pilotato.

ORIGINAL GENERATIONS La necessità di coniugare più serie animate in uno stesso contesto ha portato alla creazione di personaggi, robot e avversari inediti. Alcuni di questi, come i Masoukishin (robot legati alle forze elementali) e i Divine Crusaders (organizzazione paramilitare fondata da uno scienziato pazzo) hanno riscosso un successo di pubblico tale che Banpresto ha subito colto l’opportunità e ne ha pubblicato dei relativi spin-off, dando luce ad un paradossale caso di un tie-in nato da un tie-in. La popolarità di questa produzione ha fatto sì che i due titoli legati a questi personaggi, pubblicati su GBA col titolo Original Generation, abbiano venduto più copie delle loro controparti che dispongono di nomi come Mazinga , Getta Robot e Gundam. Nei prossimi mesi è in arrivo un remake di questi episodi su PS2, con animazioni completamente inedite. Come accaduto per le edizioni su portatile, anche stavolta Atlus potrebbe decidere di importare il titolo negli Stati Uniti.

(in alto) Vista la popolarità in terra nipponica, la prolifera Atlus ha deciso di importare la serie negli Stati Uniti. Per ragioni di costo legate al doppiaggio e al copyright dei vari cartoni originali (in America andrebbero pagati uno per uno a decine di distributori differenti) la scelta è ricaduta sullo spin-off Original Generation. Nonostante il passaggio in sordina sul sito di Ign, Gamespot lo ha classificato come migliore titolo dell’anno per Gba. (sopra) La sceneggiatura di SRW è strutturata secondo uno schema ben collaudato: un soggetto inedito riunisce tutti i protagonisti delle serie robotiche contro un nemico comune, mentre una rete di missioni ripercorre i momenti salienti dei cartoni originali. Di conseguenza la qualità dell’intreccio è talvolta annacquata dal fatto che la narrazione tende a far quadrare i conti per rendere credibile la coesistenza di tanti personaggi con background tanto dissimili in un unico universo. Nonostante questo, in SRW Alpha 2 (PS2) due dei più epocali scontri dell’animazione robotica, il Contrattacco di Shia e il Grande Mazinga contro il Generale Nero, sono stati rievocati alla perfezione. Decine di nuovi campionamenti vocali, assenti nelle opere originali, sono stati creati da zero apposta per l’occasione. Sono stati aggiunti dialoghi tra Getta Robo e il Generale Nero, tra Shia e Camille di Z Gundam, tra Anabel Gato e Amuro Rei, e personaggi come i sette comandanti delle legioni di Mikene sono stati ridoppiati completamente per aggiornare la qualità tecnica delle voci originali. Meraviglioso.

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La cultura del doppiaggio in Giappone è molto sviluppata. Esistono periodici esclusivamente dedicati all'argomento, con interviste, biografie, bandi di concorso per giovani talenti, servizi fotografici per dare un volto alle voci più interessanti, più tutta una serie di rubriche "irresistibili" in cui i doppiatori maggiormente conosciuti si sbizzarriscono ogni mese a scrivere qualsiasi stupidaggine gli passi per la testa (raccontando cosa mangiano, dove sono stati la domenica, quanta cacca ha fatto il loro gatto). Non solo. Com'è tipico del business giapponese, un mercato economico altamente specifico in cui pressoché ogni fonte di guadagno viene individuata e poi sfruttata fino ad esaurirla, il doppiaggio ha trovato spazi tutti suoi, come i talk show radiofonici (seguitissimi, nonostante per la maggior parte si tratti di contenuti di 15-20 minuti privi di qualsiasi necessità di esistere) e i drama, dialoghi accompagnati da musiche ed effetti sonori, venduti su appositi cd. I drama hanno una specificità unica al mondo: in sostanza si tratta di spin-off o side story di fumetti, cartoni animati, videogiochi, che usualmente fanno da corollario al prodotto da cui hanno origine approfondendo aspetti del background o sottotrame lasciate in sospeso. Realizzati a partire da un costo che definire esiguo è un eufemismo (il cast delle voci, uno sceneggiatore, e si parte) permettono agli autori una notevole libertà d' azione e possono essere una fonte di guadagno mostruosa. Si tratta in parole povere di una valvola di sfogo per materiale diretto ad un pubblico estremamente ridotto ma estremamente “spendaccione”. Le caratteristiche che questa situazione riflette all'interno della saga di SRW sono presto dette: in un prodotto che si propone il recupero nostalgico dei miti di infanzia, la messa in scena delle voci originali dei vari piloti gioca un ruolo fondamentale. Pensate alla recente edizione di Daitarn 3 operata da Dynamic Italia: doppiata egregiamente, non c'è che dire, tuttavia sarebbe assurdo credere che gli appassionati più "anziani" non abbiano rimpianto minimamente l' avvicendamento nel cast degli interpreti, proprio perchè nei loro ricordi quel determinato personaggio è legato a quella determinata voce. La stessa ottica vale per i ragazzi giapponesi che giocano SRW e si aspettano, giustamente, di poter ascoltare i timbri vocali che hanno imparato ad amare. La filologia in ambito vocale non è l’unica ad essere tenuta in considerazione dagli autori: altrettanto fondamentale è la presenza dell'enciclopedia illustrata tra le opzioni selezionabili.

In essa vengono dettagliatamente riportati tutti i personaggi e i robot del cast, con tanto di descrizioni specifiche grazie alle quali è possibile ricavare ogni genere di informazione, dal doppiatore originale di un pilota fino al peso in tonnellate di un dato veicolo. Le ragioni d' essere di questa opzione sono diverse. Anzitutto quella divulgativa: è dai tempi di SRW 4 (Super Nintendo/PlayStation) che la quantità di serie presenti è aumentata a dismisura, e per un utente è improponibile conoscere ognuna di esse. Non solo: ritrovarsi con personaggi da utilizzare di cui non si sa nulla non è divertente per nessuno, mentre grazie all' enciclopedia è possibile venire agilmente a conoscenza della storyline di un dato cartone animato e della collocazione di un personaggio all'interno di essa. In questo modo il tasso di coinvolgimento non viene mai a mancare, e non è raro “scoprire” serie a cartoni di cui non si conosceva nemmeno l’esistenza o che a prima vista sembravano del tutto anonime. Col tempo Bandai s'è fatta furba ed ha cominciato a sfruttare la situazione, pubblicando contemporaneamente i SRW tramite Banpresto e i dvd-box delle serie a cartoni tramite Bandai Visual, recuperando molti titoli da un abisso a cui erano stati giustamente relegati. Dall'edizione SRW Final in poi (Saturn/PlayStation) l'enciclopedia è passata dall'essere un mero archivio ad un’effettiva spinta per rigiocare uno stesso episodio più volte, in quanto per poter avere le informazioni riguardo un qualche pilota o robot è necessario incontrarlo durante il corso delle missioni, o "sbloccarlo" attraverso passaggi particolari. Ecco allora il caso dei capitoli più recenti in cui si va dalla quindicina di personaggi segreti fino ai trenta e più mech nascosti, tutti abbastanza complessi da ottenere. Un espediente che abbinato alla quantità di combinazioni possibili tra piloti e robot, più tutti i bivi presenti, permette di gustare una longevità estesa che difficilmente risulterà ripetitiva anche giocando una stessa avventura più volte. Resta da vedere come SRW si adatterà al nuovo corso tecnologico intrapreso dal mercato delle console, oggi irrimediabilmente dirottato sui motori tridimensionali e l’alta definizione: gli esperimenti poligonali intrapresi da Banpresto non hanno riscosso particolare successo di vendite, mentre l’alta definizione per l’animazione bidimensionale richiederebbe costi troppo ingenti da sostenere per un’etichetta di dimensioni così ridotte. Comunque vada, chi scrive non vede l’ora di poter gridare “Spada Diabolicaaaa!” mentre impugna il pad di Wii.

Se una cosa è certa di Banpresto, è che i motori poligonali dei suoi giochi sono il non plus ultra dell’orrido. Sia l’episodio per Dreamcast che quello per GameCube hanno confermato la scarsa attitudine di questo editore in fatto di tre dimensioni, ma allo stesso tempo hanno consegnato ai fan dei prodotti ambiziosi che hanno tentato di rinverdire il sistema di combattimento della serie, ormai “vecchio” di quindici anni. Il recente SRW XO per 360, nonostante un motore 3D oltre i limiti del ridicolo, è sotto molti punti di vista il miglior SRW mai prodotto.

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SISTEMA GC, WII VERSIONE PAL SVILUPPATORE INTERNO ETICHETTA NINTENDO MULTIPLAYER NO

ON THE WAY HOME <zelda: twilight princess> Di Federico Res

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ere. We. Are. Il nuovo Zelda è tra noi. L’abbiamo giocato, rigiocato, finito-spolpato-rifinito. Ed abbiamo di conseguenza assistito ad una ridefinizione del concetto di “tutto e niente”. Grazie all’orgia incontenibile di pareri e impressioni vomitati da siti e forum in rete, dalle riviste in edicola e dalla gente al bar. Chi si abbandona a compiaciute/enti press release – Videogiochi – chi rigurgita lodi sperticate a tutto tondo (siti americani), chi esprime immensa delusione e qui per terra si getta e grida e freme (il TFP Forum, più che altro). Fino al sensazionale, l’apoteosi della cazzata: Wind Waker, in generale, era meglio. Ok. Un respiro profondo. Contiamo sino a dieci. Gambe in spalla, dopo tre anni torniamo a parlare di Zelda… Dawn to Dask Abbandonato il cel shading, abbandonate le tinte pastello e il tratto cartoon, Zelda torna a vestirsi di realismo. O meglio, riparte dallo pseudo-realismo già apprezzato in Ocarina of Time. Le terre di Hyrule non sono mai state così belle, vosì evocative, così immense e invitanti. Dal delizioso villaggio Tauro fino alla pianure del regno, passando per la foresta di Firore e ancora avanti, fino al villaggio Calbarico (sic), qui interpretato in una splendida chiave western, al borgo del Castello e al meraviglioso villaggio degli Zora. L’immensità degli spazi si accompagna a paesaggi fiabeschi, tratteggiati con linee morbide, carezzevoli, in quella che appare – e di gran lunga – la migliore Hyrule di sempre. Le brevi incursioni nel Twilight Realm, quasi esclusivamente limitate al primo quarto del gioco, non fanno che aggiungere bellezza a bellezza. Le tinte si fanno mistiche, quasi psichedeliche, rese attraverso una sorta di cel shading che cel chading non è, ma che ne veicola con efficacia le medesime suggestioni. Non c’è granché varietà, nel Mondo del Crepuscolo, ma la (relativa) brevità delle sezioni in esso ambientate scongiura sindromi da assuefazione/rigetto sperimentate in altri titoli Nintendo (Metroid Prime Echoes, nello specifico). La

forza del motore poligonale del gioco si esprime senza remore: un orizzonte di fatto sconfinato, dove ogni cosa è sempre visibile. Edifici, montagne, ponti, vallate; tutto appare semplicemente lì, dove dovrebbe essere, senza che il minimo accenno di pop up ne comprometta lo splendore. Il lucore emanato dagli oggetti più piccoli (compresa la spada di Link) e l’ombra delle nuvole che scivola placida sul terreno sono tocchi di gran classe. Guadagnare la cima di una torre, o di una collina, permette di godere di uno degli spettacoli più belli che Zelda abbia mai offerto: un mondo sterminato, disegnato con criterio e gusto, posto in essere grazie ad un motore grafico fondato sulla perfetta gestione delle risorse. Il pensiero va allo sconfinato e piatto “buco” celeste di Wind Waker. Ai suoi isolotti/scogli privi di attrattive. Al suo mondo (mondo?) frammentato, privo di coesione, disperso in una distesa di niente… Ma la bilancia pende dalla parte opposta, laddove si sollevi l’occhio dal level design (per il quale TT vince e stravince) e lo si posi sullo stile, quello di personaggi e nemici, e l’estetica in generale dei due prodotti. Il character design di WW era semplicemente fenomenale. L’estetica generale del prodotto, malgrado il fastidioso effetto blur, è ancora oggi qualcosa di ammirevole. Twilight Princess, semplicemente, non ce la fa. Tanto è bello il level design, quanto piatto e anonimo l’aspetto della gran parte dei personaggi che si incontrano lungo il mondo di gioco, ad accezione dei PG principali e dei boss. Questi ultimi non sono comunque paragonabili alle magnifiche creature affrontate in Wind Waker. Sul fronte dell’estetica generale, il problema è poi costituito dalla ormai arretratezza tecnica di texture ed effetti speciali, scusabile – inevitabile – negli esterni ma difficilmente accettabile all’interno dei dungeon, dove la sindrome da Nintendo 64 è sempre in agguato. Wind Waker vince, senza dubbio, su entrambi i fronti.

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Viva Emptiness (?) Dovunque ci sia Zelda, c’è gameplay. In una simile tradizione, Wind Waker fu una specie di rivoluzione, in senso decisamente negativo. Per la semplicità e banalità dei dungeon, per la facilità disarmante, per la quasi totale mancanza di nuove idee. Soprattutto, per l’irritante meccanica legata alla bacchetta del vento e per le sfiancanti ore passate in mare, a non fare – letteralmente – un accidente. Twilight Princess corregge tutti questi difetti, dal primo all’ultimo. Nonostante la vastità della mappa di gioco, nel mondo di Hyrule ci si muove con estrema rapidità. Grazie ad Epona, grazie alla trasformazione in lupo, grazie soprattutto alla capacità di Midna di teletrasportarci in qualunque punto del gioco, dopo aver debitamente “attivato” i teletrasporti. Non ci sono punti morti, non ci sono fasi d’arresto. I dungeon si dimostrano subito ispirati, di complessità crescente, in numero adeguato (otto, più due minidungeon finali) e forieri di nuovi item. Il sistema di combattimento è ugualmente sviluppato ed appa-

gante. È vero, manca un enemy design che dia pieno senso alle sei mosse speciali performabili da Link. Mancano nemici davvero in grado di mettere alla prova le abilità da spadaccino del giocatore, ma non ci risulta che in Zelda ci sia mai stato nulla di simile. Si dice che i combattimenti di WW fossero più profondi: noi ricordiamo (e WW l’abbiamo rigiocato appena prima di cominciare TT) un’unica strategia vincente, che consisteva nel girare intorno al nemico ed attendere che un QTE ci consentisse di attivare la mossa vincente. Dall’inizio del gioco fino al boss finale, non si faceva altro. Qui l’attacco alle spalle è ugualmente centrale, ma a farlo siamo noi, non la CPU. Tecniche come Spacca Elmo o Scudo Mortale integrano una meccanica leggera, che tale vuole essere, vista la centralità di ben altri elementi; una meccanica che a ben vedere sa mostrare qualche muscolo laddove si ingaggino scontri particolarmente affollati (specie quelli nel sottosuolo del deserto Geld), regalando attimi di adrenalina che, come da intenzioni, non fanno altro che colorire un gameplay di suo già bello panciuto. Difficile lamentarsi.

Ma Twilight Princess non è un gioco perfetto, e pur ponendo rimedio ai difetti del prequel si macchia di nuove mancanze, forse conseguenza di uno sviluppo “accelerato” (nonostante i tre anni avuti a disposizione). Tutta la prima parte – dieci ore circa – soffre di un talvolta confuso avvicendarsi di stili di gioco (un tutorial “espanso”) e di una serie di fasi in “modalità” lupo ripetitive. Conlusa questa prima fase, Zelda torna ad essere il solito Zelda. E qui comincia una seconda serie di “problemi”. In primo luogo, nonostante il mondo gigantesco, praticamente non ci sono sidequest. Non c’è la neccessità di attardarsi presso questa o quella location, sviluppare quel classico “affetto” per la dimensione videoludica caratteristico di Zelda. C’è la pesca, c’è l’opportunità di dar la caccia a dei particolari insetti e a delle anime vaganti; il mondo è imbottito di caverne e mini-dungeon segreti. Ma qualcosa manca, ed è quella dimensione cui si è fatto riferimento. I dungeon, inoltre, raramente sanno proporre qualcosa di realmente nuovo, nonostante restino immensamente più stimolanti di quelli “attraversati” in Wind Waker. Quel che è peggio, i nuovi item non trovano grandi applicazioni al di fuori del labirinto in cui sono rinvenuti, fatta salva qualche piccola eccezione. Ma invenzioni come le frecce esplosive o il “mirino telescopico” (che trasforma Link in un cecchino) tengono vivo l’interesse in quello che è un intelligente affinamento dell’intera grammatica zeldiana.

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The Infinite Sadness [attenzione: piccoli spoiler inside] La trama di Twilight Princess, ciò che avrebbe dovuto – nelle intenzioni dello stesso Aonuma, perlomeno quelle da lui espresse – conferire al gioco un’identità unica e particolare, si è invece rivelata una mezza delusione. Le scene animate sono di qualità sopraffina, nella maggior parte dei casi: splendida la regia, splendide le animazioni – realizzate con il motion capture e tra le migliori mai viste su GameCube – affascinanti e intriganti i fatti raccontati. Il problema, è che tutto ciò che si vede lo si vede all’inizio e alla fine del gioco. In mezzo, cioè durante quelle 30 ore che separano le fasi iniziali all’interno del Twilight Realm da quelle finali al castello di Zelda, non c’è praticamente niente. In queste trenta ore TT è solo videogioco, puramente videogioco. Ogni premessa/promessa narrativa è accantonata dopo poche ore, per essere ripresa poco prima della chiusura in maniera giocoforza frettolosa. Il finale c’è, è lì, è splendido e sarebbe totalmente coinvolgente, se giungesse a concludere una trama adeguatamente orchestrata (come accadeva in Wind Waker). Non è così, ed è un peccato. Perché quel finale qualcosa dentro te la lascia, in un modo o nell’altro ti tocca, in un modo o nell’altro si vede tutto Aonuma, concentrato in un attimo che, da singolo attimo, i miracoli non li può fare (vedi box a lato). Resta comunque l’immagine finale dei tre protagonisti storici, a chiudere il cerchio sul senso dell’intera saga. Una delle “fotografie” più belle della storia dei videogiochi, o perlomeno della leggenda di Zelda.

CINGHIALI DA GUERRA

[ATTENZIONE: SPOILER PESANTI]

Il finale di Twilight Princess non è l’unico momento topico, ad ogni modo. L’incontro con le divinità della foresta e le prime incursioni nel Twilight Princess sono momenti splendidi, quasi magici. Altrettanto memorabile, è l’ormai celebre scontro sul ponte che Link affronta nelle prime fasi di gioco, a cavallo di Epona: la vittoria dell’elfo è immortalata da un’immagine trionfale tanto forte che qualunque altro director avrebbe destinato al finale dell’ avventura. Aonuma, invece, ha preferito lasciare Link vittorioso all’inizio del gioco, per ritrarre invece il malvagio Ganondorf, in una vera e propria resurrezione, nella medesima posa durante gli ultimi minuti dell’avventura. Ganondorf è dipinto come una forza inarrestabile, che sopravvive alla magia di Midna e alle frecce di luce di Zelda, per poi arrestarsi – ma soltanto momentaneamente, come ovvio dalle sue ultime parole – solo davanti alla Master Sword che lo trafigge. Il finale di Twilight Princess, forse, è il primo vero e proprio passo verso quella maturità narrativa che a Zelda è sempre mancata.

Twilight to Starlight Se Wind Waker era un’avventura migliore, Twilight Princess è un videogioco quasi perfetto. Non rivoluziona, innova col contagocce, ma si fa manuale del game e level design in ogni singolo aspetto. Potrà stancare chi ne ha già assimilato gran parte delle meccaniche giocando i prequel, non farà cambiare idea ai detrattori storici e non chiuderà certo la bocca ai critici_del_videogioco. Ma che sia il videogioco – gioco – più vasto, più giocabile, più vario e più ricco di sempre non è fatto da nascondere dietro ad un ridicolo “IMHO”. Qualunque cosa significhi.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA 360 VERSIONE PAL SVILUPPATORE RARE ETICHETTA MICROSOFT MULTIPLAYER NO

CARTA CANTA <viva pinata> Di Emalord

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ifficile parlare di Viva Piñata senza prima accennare alla softco che l’ha realizzato. Rare, per chi non lo sapesse, è una delle softco più controverse del mondo. Realizzatrice di alcuni innegabili capolavori su SNES e N64 (Goldeneye e Conker sono i due prodotti dal consenso più unanime) si è svalutata dall’avvento di Gamecube, con la realizzazione di prodotti trascurabili, per poi traslocare a peso d’oro negli studi Microsoft dove ha passato qualche anno di vacanza a spese di Bill Gates. Senza, di fatto, realizzare nulla di epocale (l’unico prodotto, Grabbed by The Ghoulies, è stato largamente ignorato dalla comunità). Sembrerebbe che Rare avesse in realtà una missione speciale: lavorare fin da subito sul software che avrebbe lanciato la successiva macchina Microsoft, oggi conosciuta come Xbox 360. E in un mondo come quello videoludico dove si lavora con anni di anticipo rispetto al mondo là fuori è una tesi sostenibile e peraltro affascinante. Peccato che la missione speciale sia stata un fallimento su larga scala. I prodotti Rare al lancio di Xbox 360, Kameo: Elements of Power e Perfect Dark hanno dimostrato da un lato che l’alta definizione può fare miracoli, dall’altro che la stessa non può coprire concept ludici vecchi di anni e banalità assortite. Risultato finale: la credibilità di Rare non è mai stata così in discussione. L’annuncio di un nuovo titolo per Xbox 360 a un anno di distanza ha generato diverse reazioni: c’era chi diceva che quest’ultimo titolo poteva essere la pietra tombale per la reputazione di Rare e chi diceva che Viva Piñata poteva essere il titolo del rilancio. Dopo avere oltrepassato le 60 ore di gioco e avere sbloccato quasi tutti gli achievements, Ring può confermarvi che l’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è morto. Si, perché Viva Piñata è uno splendido gioco con sostanziosi difetti, che però si annacquano nel suo delizioso fascino e nei suoi meravigliosi personaggi. Ciononostante lo zoo-gardening-simulator di Rare sta vendendo pochissimo sia di qua che di là dal mare, con grande sconforto mio e anche un po’ suo. Chi avrà ragione: Rare o il mercato? Viva Pinata vi porta su un’isola, vi mette a disposizione un terreno da gestire e vi invita a rimboccarvi le maniche. Eliminare rifiuti, dissodare il terreno e piantare tenera erbetta richiamerà i primi visitatori, i Whirlm, la specie alla base della piramide evolutiva di questo prodotto. Donare una casa a questi docili vermetti permetterà loro di innamorarsi e riprodursi, portando nuovi Whirlm e punti esperienza. Stop. Alt. Fermate le macchine e aguzzate la vista. Animali? Punti esperienza? Come sopra accennato Viva Pinata è uno zoo-gardeningsimulator. Qualcosa a metà tra Pokemon, Harvest Moon, e altri svariati titoli gestionali a

vostra discrezione. Per distinguerlo dalla massa Rare ha fatto scelte sagge e azzeccate: semplificazione dei comandi e caratterizzazione grafica unica. Puntare una lente di ingrandimento su uno qualsiasi degli splendidi animaletti che popolano i (necessariamente) numerosi giardini che vi troverete ad aprire, significa mettere in evidenza masse poligonali dalle forme più svariate, anima zioni bizzarre e spassose ed una caratterizzazione grafica degli animali che li fa sembrare di carta crespa, come le pignatte che caratterizzano le feste paesane del meridione d’Italia e di alcuni paesi latinoamericani. Scopo del gioco, manco a dirlo, è acchiapparle tutte.

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Perché una piñata entri a far parte stabile di un vostro giardino occorre realizzare tre condizioni: 1) attirare la sua attenzione 2) attirarla all’interno del giardino 3) renderla stanziale. Tutte queste condizioni, comprese quelle dell’innamoramento, consistono principalmente nell’avere un oggetto, un frutto o una verdura particolare nel proprio giardino, avere un animale particolare o avere raggiunto un certo livello di esperienza come giardiniere. Quest’ultimo si ottiene curando le piante fino a farle crescere sino al massimo livello possibile, usando specifici concimi; facendo accoppiare gli animali oppure creando specie ibride. Ma anche attirando l’attenzione di nuove, esotiche piñate provenienti dalle multicromatiche zone che circondano i vostri giardini. Dai confini delle zone circostanti faranno capolino animali sempre più grossi e “pretenziosi” per diventare stanziali, come anche le piñate amare, perfide piñate rosso rubino che lasceranno dolcetti avvelenati e disturberanno l’altrimenti (troppo) tranquilla gestione del vostro giardino. In qualsiasi momento, premendo X si accede alla variegata popolazione che vive nel villaggio adiacente al vostro giardino: giardinieri, fabbri, prestatori d’opera tra i più improbabili che proteggeranno, cureranno, abbelliranno il vostro sempre più rigoglioso mucchietto d’acri per un esiguo ammontare di monete di cioccolato, la valuta corrente. Se si sorvola su qualche momento di pausa comunque utile per fare esperimenti, se si dimentica la legnosità di qualche meccanismo, l’imperfetta traduzione in lingua italiana che a volte fa di tutto per mettervi sulla strada sbagliata e la difficoltà di comprendere come attirare o creare alcune specifiche piñate (è il bello del gioco, certo, ma a volte è frustrante), Viva Piñata è un gioco assolutamente brillante, da provare. La grafica è splendida, con miliardi di cromatismi distribuiti tra giorno e notte per tacere degli infiniti dettagli che personalizzano ogni frutto o verdura che vi troverete a crescere. Le animazioni delle piñate provocano meraviglia come i loro battibecchi, le loro danze amorose o anche il semplice passeggiare. La colonna sonora è perfetta, bella e mai invadente, e le “scorciatoie” ideate dai creativi Rare per evitare situazioni di stallo o inutili ripetizioni di gameplay sono ingegnose, anche se alcune fasi di stanca sembrano purtroppo inevitabili. L’insuccesso di mercato di Viva Piñata è quindi l’ennesimo fallimento Rare? No, assolutamente. Pur con i suoi difetti Viva Piñata si erge maestoso sopra una pianura di produzioni tutte simili tra loro, a base di azione e combattimenti. Viva Piñata riempie un vuoto, e lo fa con classe e stile. Rare ha tenuto alto il suo nome, e se il mercato ha decretato l’insuccesso di questo gioco è solo perché dimostra di essere limitato nei gusti e nei modi. O forse non ha più bisogno di meravigliarsi. In ogni caso è un peccato.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PC VERSIONE PAL SVILUPPATORE INTROVERSION SOFTWARE ETICHETTA INTROVERSION MULTIPLAYER 2-6

THE REST IS SILENCE <defcon: everybody dies> di Paolo Jumpman Ruffino

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enduto via Internet e realizzato da un gruppo che ama definirsi “gli ultimi bedroom coder”, DEFCON è il terzo gioco della casa indipendente Introversion Software. Eppure è quanto di più lontano possa esserci da un'opera amatoriale. Il prezzo basso e l'assenza di una distribuzione nei negozi non devono trarre in inganno. L'opera di Introversion Software compete con quanto è disponibile oggi sul mercato in termini di giocabilità e longevità; non cerca preziosismi grafici ma punta tutto, e con successo, su uno stile peculiare e di impatto: nei panni di una potenza geopolitica, l’obiettivo è uscire il più possibile incolumi da una guerra ra nucleare. Non è richiesto che tutti i cittadini restino vivi, importa piuttosto eliminare quelli avversari in numero maggiore alle proprie perdite. DEFCON è un gioco pensato per il multiplayer. Una partita dura in media mezz'ora, ma si possono scegliere modalità più rapide. Possibilità dedicata ai giocatori (quasi) casuali, interessati ad un prodotto divertente ed esteticamente accattivante, ma dotato insieme della giusta profondità strategica necessaria ad una adeguata longevità e a mettere a frutto le proprie doti di stratega. DEFCON soddisfa a pieno tutte queste caratteristiche, aggiudicandosi un posto tra i giochi di strategia da non perdere, pur nella sua sostanziale semplicità. Superato il rapido tutorial, si è già in possesso di tutte le nozioni necessarie a dominare la terra (o quel che ne resta), sia che si voglia fare pratica col computer o contro avversari umani via Internet. Eppure, combinare truppe di mare e aeree, piazzare i radar nei punti migliori e cogliere l'istante ideale per sferrare un attacco sono tutte questioni di sfumature, che si imparano solo con la pratica. Case di bambole per fanciulli nell'alto castello E' incredibile come il globo terrestre si adatti perfettamente ad un gioco che fa del bilanciamento tra le forze in campo il suo punto di forza. Se non fosse bastato Risiko a dar credito a quanti sostengono che Dio ha un ottimo senso dell'umorismo, ci ha pensato Introversion. DEFCON prende il mappamondo, così com'è, e lo spacca in sei pezzi: Europa, Russia, Asia, Africa, Nord e Sud America. Sei forze in campo, controllate da sei giocatori diversi. E tutti con uguali possibilità di vittoria e sconfitta, tutti con i loro punti deboli e vantaggi. Ma anche usandone solo due il gioco funziona alla grande (se ad esempio qualcuno volesse ricreare grandi classici come USA vs. URSS, ne ha piene possibilità). Una volta scelto chi controlla cosa, il gioco è un'angosciante corsa contro il tempo. Il timer scandisce le fasi del conflitto dal livello DEFCON5, in cui tutti mettono i loro pezzi sullo scacchiere facendo finta di niente, a DEFCON3, in cui si inizia a tirare qualche mortaretto, fino al delirio termonucleare del DEFCON1. Esistono varie modalità di gioco, che sanciscono diverse condizioni di vittoria, ma in li nea di massima trionfa chi ha più punti al termine del conto alla rovescia. I punti si ottengono colpendo le città avversarie e difendendo le proprie,

uccidendo senza farsi uccidere. Si può calibrare il peso nella classifica finale di un colpo messo a segno rispetto ad uno subito, determinando partite più o meno offensive. Ma fino a che non si raggiungono alti livelli di esperienza e sangue freddo, il piacere di lanciare un grappolo di testate atomiche su una capitale avversaria prevale su ogni calcolo. Proprio su questo punto si basa la profondità del gioco: avventarsi subito verso gli obiettivi caldi può portare ottimi risultati, ma il numero di bombe è contato e si rischia di giocare tutto il resto della partita ad arginare il contrattacco degli avversari. Chi sembra subire all'inizio, spesso sta solo conservando per un momento migliore una manciata di atomi scissi, da mettere a segno a colpo sicuro. Mai come in DEFCON ride bene chi ride ultimo. Tanto più che spesso conviene mirare ad obiettivi strategici, come radar o basi militari, che non danno punti ma assicurano spazi di manovra più ampi. Si possono piazzare sul terreno vari tipi di strutture. I radar consentono di vedere in un certo raggio tutto quello che si muove, fornendo un buon margine per organizzare le proprie difese (ad esempio, lanciare i razzi antimissile in risposta all’offensiva avversaria, per scongiurare la catastrofe). Le basi aeree consentono di far partire i caccia, utili in difesa, e i bombardieri caricati con testate atomiche. Quest'ultimo espediente è quello più difficile da portare a segno: i bombardieri si muovono molto lentamente e sono vulnerabili più di ogni altra unità, ma se si riesce a farli tornare alla base, possono essere “ricaricati” per una nuova serie di attacchi. Una risorsa potenzialmente infinita. I silos sono le strutture da cui partono i missili difensivi e la maggior parte delle bombe nucleari. Se incaricati di difendere, sparano a tutto quello che si trova nel loro raggio visivo; ma se si ordina di lanciare missili atomici contro il nemico, cessano di difendere per passare al contrattacco. Proprio quando si è più pericolosi si è anche più vulnerabili. Le unità di mare aprono strategie ancora più complesse. Sono fondamentali per raggiungere gli obiettivi troppo lontani dalla gittata degli impianti terrestri, inoltre possono essere cruciali sia in difesa che in attacco. I sommergibili sono caricati con armi atomiche e possono arrivare anche molto

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vicino alle città costiere, se una nave più solida sopperisce alla loro estrema vulnerabilità. Le navi, infine, possono caricare unità aeree, da dispiegare lontano dal continente del giocatore. In definitiva la varietà degli strumenti a disposizione permette molte strategie e obbliga a guardarsi da tutti i lati; nulla è al sicuro fino a che il timer non raggiunge lo zero. E quando si gioca in numero maggiore a tre, la quantità di situazioni a rischio da tenere d'occhio aumenta a dismisura, il battito cardiaco sale, il giocatore che sembrava al sicuro salta per aria e quello che pareva intoccabile sembra all'improvviso avere un grande bisogno di una bomba… La fine è nota I lettori non troppo giovani ricorderanno il film Wargames, di John Badham, e la lezione di economia domestica che veniva impartita nel finale: in una guerra nucleare, a voler essere pignoli e a far calcolare le chance di vittoria di ogni stato ad un computer abbastanza potente, viene fuori che il maggiore guadagno lo si ha nel non combattere. Preso questo assunto, il gioco di Introversion Software decide di mettere in scena la soluzione sbagliata. Il mondo è in guerra, e ha tutte le intenzioni di disintegrarsi usando armi nucleari. Nessun lieto fine, comunque vada sarà un disastro. Fatevene una ragione. Anzi, iniziate a schierare le truppe. Il film è un collegamento non esplicito ma fortemente incoraggiato. L'estetica di DEFCON deve moltissimo allo stile con cui, nel film, veniva rappresentata la possibile guerra finale. Uno stile essenziale, dove tutto è sott'occhio e nessun segnale di allarme accompagna la strage di milioni di civili. Non ce n'è bisogno, sarebbe ridondante in un'interfaccia progettata per veicolare informazioni in stato di totale sconquasso, quando è risaputo che nessuno sopravvivrà. “Tutti muoiono” è d'altronde il sottotitolo del gioco di Introversion. Ma forse lo slogan andrebbe tradotto dall'inglese alla lettera: quell'“everybody”, sta per “tutti i corpi”. Ogni forma di corporeità, ogni sistema incaricato di processare un input per restituire un output, di ingerire e defecare, inspirare ed espirare, è divenuto trasparente, scomparso. L'interfaccia esalta la pulizia, l'assenza di interferenze tra comando ed esecuzione (condizione necessaria in regimi d'emergenza politica). Non sono i corpi a morire, ma la loro riduzione ad unità, a numero. Non è stata considerata neanche la possibilità che ci siano dei corpi a rischio, ed è per questo che la morale antibellica del film è alle spalle, superata: il conto alla rovescia per la fine del mondo parte con l'inizio del gioco, nessuno può fermarlo, la decisione di annientarsi è già stata presa a monte. Presa da chi, e con le armi di chi, sarebbe una buona domanda da porsi, se si volesse azzardare un'interpretazione moraleggiante (e strizzare l’occhio ai Radiohead). Certo, se collegamento col film del 1983 ha da esserci, inquieta il passaggio che in pochi anni è avvenuto dalla guerra fredda, che teneva il mondo in scacco, a quelle calde di oggi. Fino a che il gioco di Introversion Software traccerà un mondo fantascientifico, e non si confonderà con un documentario d'attualità, ci sarà qualcuno sparso nel mondo con cui giocare. E questo sembra un limite più che accettabile per la voce “longevità”.

VOTO:

SABCD

http://www.everybody-dies.com/

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SISTEMA 360 VERSIONE PAL SVILUPPATORE INTERNO ETICHETTA CAPCOM MULTIPLAYER

IO SONO LEGGENDA <dead rising> di Emalord

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a cosa che ricorderete di più di Dead Rising sono gli Psycho. Ovverosia i "Boss" disseminati qua e là nel gioco. Hanno routine di movimento scleroticissime, sono generalmente duri a morire, mai troppo, e hanno le intro in real-time più belle che io abbia mai visto. La cosa più immane è che sono tutti umani, dal primo all'ultimo. E in un gioco dove gli zombi sono protagonisti, avere come avversari "die hard" gente che dovrebbe pensare a salvare i suoi simili, piuttosto che massacrarli, è una genialata come solo giapponesi che sniffano mutande potrebbero partorire. Ogni Psycho è introdotto da cut-scene brillanti per direzione artistica, potenti per tecnologia sul campo, esaltanti per quantità di plasma e globuli su schermo. Il doppiaggio? Generalmente gonfio come il petto di un fagiano. Bello tosto come un asse da stiro. Soddisfacente come una grattata ai genitali. Si, direte voi, ma gli zombi? Sono tanti, dico io, e c'è il respawn. Quindi scordatevi di ripulire ampie aree di schermo per respirare odore di napalm la mattina senza che una puttana in piena necrosi vi si attacchi alla patta dei pantaloni per succhiarvi la cerniera. Sempre che non siate in boxer. Cose tutt'altro che rare ad accadere tra l'altro, sia la prima che la seconda. Gli zombi, di fatto, contrariamente a quanto accadeva nella demo sono spettatori puzzolenti delle vostre mirabolanti azioni. Poco più. Azioni? Direte voi col tono di chi pensa di saperla lunga. Tante, dico io con un po' di saccenza che serve a coprire il fiato pesante. Di fatto, in un gioco con una mappa enorme, col rischio di freeroamare fino alla noia, Capcom ha pensato bene di dare una direzione alle vostre stanche membra buttando in campo diversi compiti. Che in una sola tornata non riuscirete mai a fare. Ci sono i CASE, per scoprire cosa ha scatenato l'epidemia zombesca, e ci sono gli SCOOP che vi guidano a qualche scontro con gli psycho o a qualche disperso da recuperare e salvare. Il tutto per guadagnare più Punti Prestigio (PP) possibili, per fare aumentare sveltamente le vostre capacità di attacco/difesa/utilizzo item. Riassumendo: Dead Rising NON E' un actiongame che punta al massacro necrodeambulante. E' un action con aspirazioni RPG che, soprattutto inizialmente, vi fa evitare gli scontri con gli zombi per lasciarvi dedicare ad attività gonfia-PP. Solo ad una seconda tornata, dopo ad esempio aver finito il gioco vedendo tutti i CASE, potrete dedicare tempo ed attenzione ai più svariati modi di cucinare/ affettare/ segare/ perforare/ bruciare/ passare a fil di spada/ secchiare/ deflagrare/ conare/ divellere/ panchinare/ assaltare/ assalire/ brutalizzare morti viventi. O farvi lucidare cerniere. La trama è brillante, le ragioni dell'epidemia bizzarre ma originali, le cut-scene frequenti e ottimamente realizzate. Non si vivono mai veri momenti di panico, ma spesso, per svariati motivi, lo stress e la tensione sono alti. E anche i momenti ilari non mancano. Il prodotto di Capcom mischia serietà, professionalità e una generosa dose di bizzarra pazzia, che si manifesta anche nel modo inusuale e a volte fa-

stidioso di salvare: un solo slot con seri rischi di salvare in momenti inopportuni e dover ricominciare tutto da capo. Ma a parte questo, e a qualche calo di tono qua e la, questo gioco rimane uno dei migliori esempi di "ideale next-gen". Un poutpourri di diversi generi ed ispirazioni, che riescono ad amalgamarsi in modo quasi perfetto.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PC VERSIONE PAL SVILUPPATORE QUANTIC DREAM ETICHETTA MULTIPLAYER NO

PURE UN MIO AMICO QUANDO E’ TESO PISCIA <fahrenheit> Di Paolo Jumpman Ruffino

L

a stampa specializzata ha accolto questo gioco con vari livelli di euforia. Presa dall'entusiasmo l'ha osannato come un ottimo esempio di unione tra narrazione e gameplay. Al contrario, l'idea che muove questa recensione è che Fahrenheit sia una cagata pazzesca, nel senso fantozziano dell'espressione. Non esiste un fattore che giustifichi tanta felicità. La trama e il sistema di gioco sono congelati, capaci di muoversi solo tra stili abusati e prese in giro al giocatore. Arrivati alla fine del gioco, con lo sguardo vuoto, ci si domanda se quanto si è appena visto non sia altro che un flop clamoroso, o un tentativo di complicare la definizione di videogioco: se vogliamo chiamare con questo termine anche una serie di immagini in movimento in cui ogni tanto bisogna premere dei tasti, allora Fahrenheit è videogioco, ma lo è anche il mio lettore DVD. Si vede che volevano fare un film, ma una volta capito che avevano una trama ridicola, hanno pensato bene di rivolgersi ad un pubblico con meno esigenze intellettuali. La componente grafica e sonora si salva, svolge il suo lavoro e crea la giusta atmosfera, pur senza picchi di inventiva. È interessante il fatto che proprio questo aspetto sia stato invece l'unico criticato in buona parte delle recensioni della stampa internazionale. L'incipit del gioco, non c'è che dire, cattura l'attenzione. Se si dovesse giudicare un gioco dai primi dieci minuti, Fahrenheit si aggiudicherebbe la piena sufficienza. L'idea è questa: un uomo in evidente stato di trance si alza dalla tazza del cesso del bagno di un bar e ammazza un povero signore che si stava soltanto lavando le mani. Proprio mentre il vecchietto agonizzante esala un'ultima invettiva contro i giovani d'oggi, guarda un po', viene fuori che l'assassino è il nostro personaggio. Ripresa conoscenza bisogna liberarsi delle prove e cercare di evitare quella che sarebbe una condanna certa. Mancherebbe il movente, ma di questi tempi nessuno ci bada. Viene fuori che oltre al tipo si controllano anche i due poliziotti incaricati di indagare sul crimine. Si vestono così i panni del ricercato e degli inseguitori, ma questo gioco alternato di identificazioni e valorizzazione degli oggetti di gioco viene sfruttato in misura prossima allo zero. Quello che si deve occultare nei panni del criminale, lo si deve poi ritrovare alla guida dei poliziotti; il male di un personaggio è il bene degli altri. Ma, agli occhi dei programmatori, un simile meccanismo non deve essere sembrato fonte di soluzioni interessanti. In compenso, per riprendersi dallo shock dell'omicidio, si può pisciare in un bagno qualunque, in modo da far aumentare di cinque punti la barra della tensione emotiva. Se questa arriva a zero, si ha un game over del tutto arbitrario, visto che non si può controllare il livello di stress (se non pisciando un po' ovunque). Si poteva giocare con la onniscienza del giocatore, che oltre a vedere da entrambi i punti di vista ha già capito dopo dieci minuti che si tratta di una storia mezza voodoo mezza di esorcismo, si poteva giocare sulle aspettative di fronte a sceneggiature già indirizzate su binari percorsi milioni di volte, e invece Fahrenheit riesce ad essere sempre lì dove lo si cerca. Se c'è un personaggio ambiguo, stai sicuro che la chiave del mistero è tutta lì. Se c'è una pistola, stai sicuro che questa sparerà. Se c'è una

vecchia mezza cieca che vive ferma seduta senza manco respirare, vai tranquillo che ha una laurea in “mostri, incubi e prescelti dal demonio”. Buona parte delle scene d'azione si risolve attraverso un sistema di gioco che ricorda il Lion Trophy Show. Se non avete presente, era quel gioco che andava anni fa su Telemontecarlo. Si poteva giocare da casa col telefono premendo a tempo i numeri che comparivano sullo schermo. In Fahrenheit, mentre si balla per mezz'ora con la fidanzata o mentre si prende a calci Belzebù, è necessario schiacciare le freccette direzionali e muovere il mouse, non appena i segnali sullo schermo lo richiedono. Se sbagli tasto, lo fai da capo. Ogni tanto, quando ad esempio Belzebù decide di succhiarti l'anima, o quando c'è da fare le flessioni in palestra perché la storia vada avanti, bisogna rompere la tastiera premendo freneticamente i tasti destra-sinistra. Almeno si bruciano un po' di grassi. Il ricorso a brevi istanti di coordinazione per far procedere la storia sfiora il ridicolo in alcuni frangenti. Può capitare che, in un'area di esercitazione con le pistole, per fare una nuova domanda ad un poliziotto sia necessario scusarsi un momento con lui e sparare per venti minuti a dei bersagli. Gli spunti non erano pochi per creare un gioco di un certo interesse. Una trama povera spesso è alla base di grandi videogiochi. A patto che non si concentri tutta l'attenzione su questa, ma si crei un sistema ludico decente. Ma le fasi interattive di Fahrenheit sono imbarazzanti, e ne resta solo una storia già vista e sentita. Quello che si impara a fare dopo il tutorial è tutto quello che si ha bisogno di conoscere per l'intera avventura. Le competenze del giocatore non vengono mai messe in discussione. Mentre i protagonisti attraversano grandi turbamenti esistenziali, il giocatore non si lascia sfiorare e continua a premere le frecce direzionali a tempo. Le vertigini provate dai personaggi non trovano corrispondenze nel gameplay, che parte con delle certezze e con quelle arriva alla fine. Se c'è qualcuno davvero posseduto da forze oscure, si tratta dei game designer di Quantic Dream.

VOTO:

SABCD

(voto espresso in “gradi Ring”, quelli giusti...)

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SISTEMA PS2 VERSIONE USA SVILUPPATORE CLOVER STUDIO ETICHETTA CAPCOM MULTIPLAYER NO

DRAGON KICK YOUR ASS INTO THE MILKY WAY! <god hand> di Federico Res

God Hand è una presa per culo”. Per il suo sbatterti in faccia un level design così merdoso che faresti meglio tu col Lego. Per come omaggia/perculizza Ken il Guerriero, Street Fighter e un mucchietto di altri capisaldi del picchiaduro. Per come schifa l'utente ubriaco della bellezza estetica di God of War, Devil May Cry e compagni. Perché non c'ha uno straccio di ful moscion vidio introduttivo e la trama fa schifo. Ma come funziona God Hand? God Hand funziona che si menano le mani per 9 livelli col character relative. Prendete Leon versione RE4, moltiplicate per due la sua reattività e concedetegli schivate fulminee laterali/indietro/sul posto performabili con l'analogico destro. Aggiungete l'orientamento automatico verso il nemico più prossimo (à la DMC), ma non il tastino per cambiare bersaglio (à la DMC3). Poi un centinaio di mosse più o meno devastanti, più venti tecniche speciali uber spettacolari, più il God Mode, più un tot di mosse “enemy relative”(TM), eseguibili cioè contro determinati nemici. Alla fine funziona che God Hand funziona. Il character relative è quello che è, lo sappiamo, ma in GH è sfruttato al meglio delle sue possibilità. Sta lì per piantarti i piedi davanti al nemico: tu e lui, ci si scazzotta e vediamo chi vince. Il problema (“buuuu!”) sorge al verificarsi di scontri affollati, risse e assalti in forze del nemico. Difficile gestire tre o più ostili che attaccano da tre o più lati (ma il radar in alto a destra è molto utile per tener sotto controllo i movimenti del nemico). Difficile gestirli anche per la mancanza di mosse che permettano di sbrogliare efficacemente una situazione affollata. Mosse come il dragon punch rotante di Axel in Streets of Rage II. [Asciugo il lacrimone. Fisso l'orizzonte con sguardo da figo]. In simili occasioni, si finisce per 1) fuggire 2) cercare qualcosa da scagliare in faccia ai nemici 3) usare calci volanti (che possono mandare a gambe all'aria un paio di nemici per volta) 4) fuggire, cercare qualcosa da scagliare in faccia ai nemici, usare calci volanti, fuggire ecc. Un po' triste, per la verità. Per fortuna (“yeeeee!”), gli ambienti sono abbastanza ampi da non obbligare quasi mai a scontri troppo affollati, inoltre è sempre possibile insultare l'avversario più vicino (L2) affinché s'incazzi e ingaggi da solo un duello, lasciando i compagni presso le retrovie. E nell'uno contro uno God Hand rivela una profondità che sorprende. L'obiettivo dei coder era ovvio: semplicità e profondità. La prima si è concretizzata in tre tasti d'attacco, col quadrato che scatena una combo di 4-6 colpi; una semplice combinazione (giù+tasto) e il cerchio adibito a prese e attacchi speciali, attivabili all'occorrere di particolari condizioni (didascalia). La profondità, invece, è incarnata dalla completa “customizzabilità” del parco mosse. Ad ogni tasto e ad ogni combinazione si può assegnare la mossa che si preferisce. La combo principale (quadrato) si configura in assoluta libertà. Calci, pugni, spazzate, uppercut: tutto come vi pare. Esaltante & gustoso. Specie alla luce delle peculiarità delle mosse, che vanno concatenate con strategia per dar vita ad uno stile di lotta che sia efficace in ogni situazione. E via di Guard Breaker che sfondano la guardia del nemico, via di spazzate

Le particolari condizioni cui si fa riferimento consistono negli attimi di momentaneo stordimento di cui il nemico è occasionalmente preda, il più delle volte a seguito di una combo particolarmente devastante; oppure quando l’avversario è a terra. Si tratta di mosse “enemy relative”, che cambiano cioè a seconda dell’avversario che si ha davanti, nonostante l’esecuzione sia sempre demandata al solo tasto cerchio. Si va da devastanti scariche di pugni a prese di vario genere, per giungere a strangolamenti e sculacciate…

che lo gettano a terra o uppercut caricati che lo spediscono a mezz'aria. Gomitate, ginocchiate, calci volanti, pugni alti/bassi/medi. Ogni colpo si inserisce nel meccanismo di God Hand svelandone la perfetta concezione. Al giocatore il compito di interpretare ogni istante col ricorso alla giusta tattica, pena un rapido e ignobile game over: il button mashing non è decisamente di casa...

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God Hand incorpora un sistema di level upping decisamente atipico, assolutamente geniale. Vi sono quattro livelli di “putenza”: 1,2,3, e Die. Quanti più colpi Gene riesce a mandare a segno e a evitare in schivata, tanto più il suo livello sale. Solo che non è lui a diventare più forte, ma gli avversari: gestibili ai primi due livelli, da cardiopalma al terzo, infinitamente bastardi al livello Die. In pratica, più il giocatore sboroneggia con combo e schivate varie, più God Hand lo mette alla prova. Assolutamente meraviglioso.

A completare un ottimo sistema di lotta corpo a corpo giunge il “god mode” (R2), attivabile al lampeggiare di una barra energetica che si carica durante i pestaggi. Gli effetti sono devastanti: invulnerabilità, potenza raddoppiata dei colpi e movimenti fulminei. Ma non basta. Gene ha anche a disposizione svariate God Reel, mosse totaliglobali-che-spaccano-tutto e che offrono uno spettacolo da coca & pop corn. R1 attiva un bullet time di alcuni secondi, si sceglie la mossa preferita da un menu a tendina e si assiste alla vera potenza della God Hand. Tra mirabolanti sforbiciate aeree, terremoti scaricati al suolo, calci nelle palle e i Cento Pugni di Hokuto le God Reel mettono in luce le eccezionali animazioni di Gene e la maestria di Clover nello sfruttare (senza abusarne) il cliché cinematografico dell'ultimo decennio. Schifosamente stylish. Schifosamente e basta, invece, è il level design. Sembra l'abbiano fatto apposta: ambienti oscenamente scarni e gravati da imperdonabili difetti di programmazione (tipo i muri che diventano invisibili quando ci si avvicina troppo). Da solo avrei fatto molto meglio. Non posso credere che non sia così. Tra l'altro, il peggio lo si vede proprio all'inizio del gioco (non che poi cambi molto, comunque). Lasciamo stare, va'.

God Hand omaggia: ecco un character design che strizza l'occhio a Hokuto no Ken, ecco le donnine dotate di frusta di Streets of Rage, ecco l'automobile di Street Fighter 2 da fare a pezzi in un livello bonus. God Hand dissacra: ecco il colpo di culo (in senso anatomico) dei due giganti gay del primo livello, ecco Gene che carica la God Hand sbirciando una foto porno, ecco le sculacciate supersoniche rifilate alle cattive ragazze che affollano il gioco, ecco il calcio nei testicoli andare a vuoto se eseguito contro i due giganti gay di cui sopra. Un vortice, ma che dico, un'armageddon cazzara appiccicosamente irresistibile. Scorretto e perfido e strappamutande. God Hand è una presa per culo in primo luogo per chi non lo giocherà (“Boooring!”). Perché qui dentro c'è tutto quanto descritto in questi seimila caratteri più tanto altro che si è preferito tacere. C'è un level design di merda ma un gioco che trascina impetuoso di livello in livello. C'è adeguata profondità tecnica e immediatezza per-tutte-le-età. Senza dimenticare i lacrimoni e gli sguardi all'orizzonte di chi grazie a Clover ricorda i giorni di Strade Incazzate e Bisticcio Finale. “Mikami e Clover santi subito” disse qualcuno. “Assumete un level designer” direi io, se non fosse che Clover non esiste più. Quindi quoto: Mikami e Clover santi subito. God Hand è una forza.

VOTO:

SABCD

DON’T ACT LIKE YOU DON’T LIKE THE BALL BUSTER! Conclusa l’avventura una prima volta, God Hand mette a disposizione un nuovo livello di difficoltà (Hard) ma non permette di affrontarlo mantenendo i potenziamenti acquisiti durante la prima tornata. Tuttavia, dal secondo giro in avanti tutte le mosse e tutte le God Reel sono immediatamente disponibili presso il negozio, inoltre le liquidità guadagnate spaccando i barili e sconfiggendo gli avversari raddopiano, permettendo di ri-potenziare adeguatamente Gene in un paio di livelli. Una scelta forse strana, ma che alla prova dei fatti si rivela un’ulteriore fonte di divertimento. Hint: per guadagnare il maggior numero di soldi, Gene consiglia l’uso frequente dello schiaffo “Pay Off”. Risultati garantiti! Se ancora non siete soddisfatti, God Hand vi mette a disposizione due divertenti sottogiochi per guadagnare soldi, che con un po’ di pazienza possono riempirvi le tasche della giacca e della cravatta. Il primo è il Casino, dove è possibile giocare a Black Jack o tentare la sorte con le slot machine (e farsi pestare da un nerboruto buttafuori ispirato al Zangief di Street Fighter). Il secondo vi dà la possibilità di puntare sulle corse dei chihuahua. Chihuahua che hanno nomi del tipo “Fission Mailed”, “49 Cent” e “Mikami’s Head”…

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SISTEMA PS2 VERSIONE NTSC SVILUPPATORE CLOVER STUDIO ETICHETTA CAPCOM MULTIPLAYER NO

IN THE FOREST OF THE NIGHT <okami> di Federico Res

O

kami m'ha rapito. M'ha risucchiato nel suo mondo onirico, chiedendomi di spazzar via la tenebra che ammorbava il colore. M'ha chiesto di ridar vita a fiori e alberi, pianure e montagne, foreste e città. Mi ha stregato col suo sumi-e in technicolor che (volenti o nolenti) richiama abusate polemiche circa arte e VG, VG e arte. Non contento, Okami m'ha donato un pennello e l’opportunità di trasformare il suo mondo in una tela (tasto R1, con la possibilità di ruotare la camera per ricercare l'angolazione migliore), chiedendomi di spargere l'inchiostro in linee e disegni. E proprio per questa via mi ha concesso l'interazione con gli elementi del suo mondo, l'acqua, il fuoco, il ghiaccio, il vento, le saette. Per questa via mi ha permesso di sferrare i colpi risolutori in numerosi duelli, o di liberare la mia strada da massi giganteschi. Con il suo pennello Okami mi ha condotto attraverso scenari memorabili, lungo vallate e dungeon, fino al cospetto di boss scenicamente splendidi, di tanto in tanto coinvolgendomi in semplici sottogiochi e perfino in sezioni piattaformiche piacevolmente retrò. Le ore passavano e Okami mi rapiva, conducendomi inesorabilmente verso un finale sempre più vicino... Okami m'ha deluso. Si chiede tanto, al mondo meraviglioso e gigantesco racchiuso in Okami, alle sue valli e ai suoi campi, alle sue foreste e alle sue spiagge, così squisitamente pennellate dai talentuosi grafici di Clover. Si chiede tanto ed è facile farsi conquistare da un design assolutamente senza pari – e che tale resterà, con ogni probabilità, ancora per tanto tempo; da una serie di personaggi tutti ugualmente buffi e deliziosi, dalla trama epica/umoristica che rilegge le pergamene shinto offrendo una versione alternativa, più imbranata ma senz’altro più simpatica, dell’eroe Susano. Farsi rapire da tutto questo è molto facile, ma altrettanto esile è l’equilibrio instaurato tra il valore dell’epica e dell’estetica di Okami da una parte, e la sua sostanza ludica dall’altra. Detto in altri termini, Okami sa catturare, ma può facilmente deludere. Perlomeno, può deludere l’appassionato di action adventure, magari reduce dal mastodontico Twilight Princess (recensione a pagina 20). Per una serie di motivi, scelte di design, difetti o caratteristiche o comunque le si voglia chiamare, che piegano Okami ora verso l’originalità, ora verso lo stanco citazionismo… La struttura di Okami ricorda da vicino, potentemente, quella di un qualunque Zelda. Anche qui viaggiamo tra pianure e vallate, foreste, spiagge, villaggi. Anche qui – molto meno di frequente però – di tanto in tanto siamo chiamati all’interno di un cosiddetto “dungeon”, dove è necessario risolvere una serie di puzzle “ambientali” di media difficoltà. Anche qui, occasionalmente, siamo chiamati a sconfiggere avversari più o meno grossi e di varie fogge e dimensioni, tutti ugualmente stupidi. Infine, anche qui side quest e sottogiochi assortiti ci permettono di “staccare” dalla main quest per un po’ di sano cazzeggio. A dirla tutta, Okami preferisce lasciare i dungeon a occasionale variazione (in tutto sono solo quattro, tutti molto elementari) e

concentrarsi su una serie di piccole sub-quest, che in sinergia con la trama costituiscono la vera muscolatura del gioco. Ma sono anche, a conti fatti, il suo punto debole.

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Okami chiede di spazzar via la tenebra che nasconde il colore: ciò va fatto a colpi di pennello, sugli alberi e le porzioni di ambiente coperte o occultate da una sorta di inchiostro venefico. Basta un semplice cerchio, o una semplice linea, affinché Amaterasu dissolva l’inchiostro oscuro e restituisca al mondo il suo vero splendore, avendo di conseguenza la possibilità di potenziare le proprie statistiche come in un vero e proprio RPG. In aggiunta, è possibile dar da mangiare a un fottio di animaletti sparsi per l’intero mondo di gioco, per ottenere in cambio la medesima ricompensa. Operazioni semplici, ripetitive e ripetute decine (centinaia) di volte lungo tutta l’avventura, determinandone la lunghezza (40 ore) in larga misura. Lo dimostra la possibilità, alla seconda tornata, di ignorare in toto le sub-quest “da potenziamento” grazie al mantenimento delle condizioni raggiunte sul finale del primo giro, e poter così ri-completare il gioco in una decina scarsa di ore. Per fortuna il valore di Okami si esprime nella sua estetica e nelle emozioni che “ripulire” un mondo sì magnifico comunica, ma la sostanza ludica latita, il più delle volte. Okami è un viaggio avvolgente tra momenti memorabili e splendidi, e fasi più stanche e immote. L’incontro con i boss, quasi tutti scenicosplendidi e ludico-divertenti, è sempre una grande esperienza, almeno fino a quando gli stessi boss non si ripresentano al nostro cospetto tali e quali, per la terza o quarta volta (talvolta obbligatoriamente). I due minigiochi presenti – la pesca e una sorta di platform 2D vecchio stile – sono variazioni apprezzate, ma alla terza-quarta iterazione inevitabilmente stancano. Le evoluzioni della bella trama divertono e conquistano, i lunghissimi dialoghi accompagnati dai mugugni incolori dei personaggi possono stancare presto. Okami è un saliscendi, più che il crescendo che ci si aspetterebbe dopo il primo, spettacoloso boss-fight. Un saliscendi che culmina in un finale annacquato e assai poco ispirato, sintomo di una chiusura un pochino affrettata o di carenza d’inventiva dei designer. Ma il vero punto di debolezza, a nostro avviso, è l’elemento che insieme alla splendida grafica doveva fare di Okami un’esperienza unica. Quel pennello in base a cui tutto il gioco è stato pensato, il cardine intorno a cui Okami ruota, ma con stanchezza. Su una struttura che fa di sub quest e dungeon i propri mattoni, Okami cala il suo pennello multiuso sperando che qualche linea e qualche cerchio bastino a renderlo un'esperienza unica. Così non è. Si interagisce con una quantità di elementi diversi, ma sempre allo stesso modo, tracciando una linea da un punto A a un punto B. Si invocano albe e tramonti, si materializzano bombe e si scatenano folate di vento, ma non si va oltre qualche cerchio scarabocchiato in fretta e senza cura. Raramente si è chiamati a fare un uso combinato dei vari tipi d'inchiostro a disposizione, che ci si trovi in una vasta pianura o nel bel mezzo di un dungeon. Gli effetti delle azioni di Amaterasu sono sempre splendidi, appaganti. Le meccaniche ludiche che li sottendono lo sono assai più di rado.

40 ore di Okami, la console è spenta, il pad riposto. E Okami un po’ m'ha deluso. No so se dipenda dal suo essere praticamente un plagio – seppur a tratti splendido – dell'action adventure per antonomasia, o perché, ma forse è la stessa cosa, non riesca a liberarsi dall'ombra del proprio ispiratore, nonostante ci provi dall'inizio alla fine. Quel che è certo è che l'opera di Hideki Kamiya cresce fino a toccare punte qualitative eccelse, per poi ridiscendere in un limbo di semplice piacevolezza. È, in sintesi, un insieme di momenti che hanno il loro punto di forza nella spettacolarità più che nella sostanza ludica. I giocatori più sensibili alla sua calda atmosfera ne saranno rapiti; quelli maggiormente desiderosi di buon videogioco si annoieranno di tanto in tanto, tra un punto saliente e l’altro. Ciò non toglie che Okami va giocato, a prescindere, poiché il suo valore artistico semplicemente non ha eguali nella storia del Videogioco. In questa chiave va interpretato il voto che trovate qui sotto.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA ARCADE, PS2 VERSIONE JAP SVILUPPATORE INTERNO ETICHETTA CAVIA MULTIPLAYER LOL!

THE LUNATIC <ibara> di Davide Lunardelli

I

l terzo giorno Dio creò lo sparacchino, e pensò che era cosa tosta. Disse agli uomini: "Andate, evitate di morire ed usate le bombe solo nei momenti di emergenza". La settimana dopo però Raizing decise di ribellarsi a Dio, e capovolse le leggi che egli aveva creato. Dio ebbe la peggio. Fu in ricordo della gloria passata che Cave decise di risparmiare Raizing, assoldando tra le sue fila il solo Yagawa-san e decidendo di portare avanti la blasfemia. Ibara, primo parto di questa unione diabolica, è infatti un gioco Raizing incastonato nell'estetica dei nuovi padroni di casa. Se le tinte sbiadite hanno dunque lasciato spazio ai colori sgargianti, e gli impersonali boss sono ora pilotati da splendide e svestite signorine, quello che non è cambiato è la sostanza. Il medal system ritorna qui più elegante che mai, con medaglie che diventano più invitanti man mano che il loro valore sale, fino ai mitologici 10K. Ma non sono certo le medaglie che fecero infuriare Dio... La tipica meccanica Raizing (riproposta con ammirabile dedizione in Ibara) prevede appunto il rovesciamento delle norme basilari dello sparacchino. Il suicidio strategico è reso possibile dagli extend che il gioco dona ogni milione di punti e necessario dall'avanzata impetuosa del rank, il famigerato livello di difficoltà variabile. La bomba inoltre diventa lo strumento principe per realizzare punti. Dal rivelare le medaglie nascoste, al permettere semplicemente un guadagno maggiore nella distruzione di determinati nemici, i frammenti di bomba raccolti diventano merce preziosissima ma allo stesso tempo di consumo quasi sempre immediato e costante. Merce tanto decisiva da giustificare il suicidio anche solo per averne ancora a disposizione. Facile intuire che il buon gioco arrivi soltanto tramite la ricerca del sadico equilibrio tra punteggio, suicidio e bombe. Un sistema di gioco che ripudia la difesa in favore dell'offesa, e nel fare questo offende volontariamente il giocatore con un carico di difficoltà decisamente superiore alla norma. Delizioso. Ma perchè Ibara nel 2006 è uno splendido, superiore gioco? Non è forse la mera riproposizione di una vecchia formula ben incartata? Hell yeah. Ibara vince perchè è danatamente Raizing, e Raizing non meritava certo di morire. Tanti giocatori ne volevano ancora, e in Ibara possono trovare una sfida eccellente unita ad una veste grafica insuperabile ed alle solite musiche che farebbero tornare arzillo il più imbolsito giocatore di MMORPG. Tanto basta.

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SISTEMA DREAMCAST VERSIONE JAP SVILUPPATORE INTERNO ETICHETTA G-REV MULTIPLAYER ^_^

SWANSONG?<under defeat> Di Davide Lunardelli

L

'ultimo gioco per Dreamcast? Poco male, tanto l'ultima console Sega ha già abbondantemente dato. Inoltre quando è uscito l'ultimo gioco (decente) per... Uhm... GameCube? Data una simile premessa è dunque lecito aspettarsi da questo Under Defeat (targato G-Rev) un finale col botto. E così è. Nato ovviamente su Naomi e convertito con facilità e rapidità, UD è uno shmup dalla grafica tridimensionale e dall'ambientazione bellica. I dubbi quando si parla di sparacchini e grafica 3D nello stesso discorso DEVONO sorgere nell'appassionato, questo è certo. Ma bisogna anche saper cedere alla lussuria: se Ikaruga è stato il primo shooter 3D a presentare una grafica convincente ed al tempo stesso pregna di inimitabile stile, UD segue questa via. Pulizia e compattezza le parole chiavi, e la sensazione di trovarsi nel mezzo di una vera e propria battaglia (acuita dal design realistico di tutti i mezzi in campo) è forte. Ma è su un altro terreno che si svolge la battaglia decisiva, quello del gameplay. Ed ancora una volta il titolo G-Rev non delude. Lontano dagli stilemi tipici del maniac shooter, UD lavora di fino su un'intuizione non nuovissima. L'elicottero che andiamo a pilotare infatti può ruotare sul suo asse

proprio come Zero Gunner insegna da qualche anno. Ma, diversamente dal titolo Psikyo, la rotazione del mezzo dipende apprezzabilmente dalla direzione del nemico agganciato. Di conseguenza i pattern offensivi sono impostati in maniera da lasciare il giusto spazio di manovra al giocatore accorto, senza asfissiarlo ma al contempo impegnandolo in maniera significativa con rapidi guizzi. Anche il sistema di punteggio si distacca dai complicati sistemi di chain che dominano (giustamente) i moderni sparacchini e si affida a qualcosa di semplice e solido. Tre tipi di armi secondarie, infatti (pod alternabili grazie a power-up), devono essere puntate su un nemico per eliminarlo e dare il via alla classica moltiplicazione dei punti base di esso. Domare i vari tipi di pod e costruire la propria strada attraverso gli stage capendo quale va utilizzato in quale momento è un lieto passatempo. Semplice e compatto, impegnativo ma non tedioso, Under Defeat è dunque semplicemente un buonissimo gioco, da giocare ovviamente con impegno e costanza perchè possa esprimere interamente il suo potenziale. Probabilmente l'ideale per celebrare la fine di una console che ha lavorato in maniera eccelsa pur rimanendo nella penombra di un'industria malata...

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SHALOM di Gunny

I

primi passi al Ritiro Bagagli dell’Aeroporto di Tel Aviv hanno uno strano sapore di costrizione. Ti viene da chiederti se sia il solito vecchio trucco degli sviluppatori, ma per quanto il sospetto sia forte la credibilità della scena lascia ammirati: niente più pareti d’aria, niente più porte che ‘è rotta, non riesco ad aprirla’, solo un nugolo di guardie del corpo dagli occhiali scuri che fanno del loro meglio per impedire che Eirenes Norbakken, ovvero la gracile e anziana protagonista di Shalom, esca all’aperto e, con ogni probabilità, perisca della morte di Rabin. Eirenes è norvegese, è un’incaricata speciale dell’ONU per le trattative di pace in Medio Oriente; incaricata con speranze simili a quelle d’un tempo, forte d’un intelletto e di una cultura che per speranzoso preconcetto si immagina fredda, cordiale. Ragionevole, conciliante. Figlia di un occidente freddo che di Dio ha perso quasi il ricordo, inviata a mediare tra coloro che, pur venerando lo stesso identico medesimo, da cent’anni si dilaniano pretendendo d’eseguirne le volontà. L’Occidente stesso è stanco di tentare, stanco di fallire, e non è generoso come un tempo nel fornire ad Eirenes ciò che le serve. Il suo budget è preciso, razionalmente conteggiato e richiamabile a schermo non appena lo si voglia. Tutto incide su di esso: il costo giornaliero della sua protezione durante l’attraversamento di zone a rischio, i viaggi fino alle capitali straniere per avviare negoziati, i piatti deliziosi che per etichetta si offrono ai potenti e anche ai poco potenti. Ed è un costo che certamente non cala se si perde un’intera giornata bighellonando in un aeroporto. Sono queste considerazioni a spingere con forza verso l’attuazione della prima scelta: la prima meta diplomatica, ovvero il primo leader con il quale stabilire contatti diplomatici. I parametri in base ai quali conviene operare la propria scelta variano ogni volta che si affronta il single player, e dipendono essenzialmente da quanta affidabilità garantiscono i vari leader: avvisa un complesso negoziato multilaterale è del tutto inutile se il leader al quale hai fatto inaugurare la ‘cornice di trattativa’ viene rovesciato da un’organizzazione terroristica o è troppo prudente per l’insofferenza popolare. L’atterraggio a Tel Aviv non è stato dunque casuale, dato che il premier Olmerth, del partito Kadima, è indicato dai parametri di missione di Eirenes come il più saldo dei potenziali pilastri del negoziato. Il viaggio fino al palazzo di Olmerth non è un filmato, è l’attraversamento di un’area alla RockstarGames, che va accuratamente pianificato a seconda dello scenario e di circostanze che a volte sono desumibili sono mettendosi in cammino. Israele è uno stato sviluppato e mediaticamente liberale, una democrazia compiuta: l’arrivo di Eirenes a Tel Aviv non è un mistero, e data la libertà di spostamento elevata all’interno della città la possibilità di un attentatore solitario è elevatissima: paradossalmente, in città come Tel Aviv una scorta nutrita è più importante che nel Libano del Sud o a

Gaza, dove anche un convoglio di jeep blindate sarebbe immediatamente bersagliato con molotov e colpi di kalashnikov. Se non direttamente con missili controcarro. In posti simili, paradossalmente, Eirenes sarebbe più al sicuro da sola o con un paio di accompagnatori fidati e di etnia araba. Il negoziato è avviato rapidamente, con pregi e difetti immediatamente chiari. Olmerth ha verificato con la crisi in Libano che i tempi in cui Israele contava religiosamente sull’infallibilità delle sue forze armate sono finiti. Il ’67 è lontano, e da allora ogni fazione antisionista ha imparato sin troppo bene i principi di combattimento asimmetrico che hanno trasformato l’Iraq in un vulcano. In conseguenza di ciò, è interessato a negoziare. Eirenes esplora la disponibilità del leader tramite un sistema di dialogo dinamico che muove dalle ormai lontane basi di Mass Effect, che dopo due anni si sono evolute in un sistema di simulazione comportamentistica che consente ad ogni personaggio d’una certa rilevanza la piena consapevolezza delle opzioni a sua disposizione, il loro peso potenziale (e la qualità d’esso) sul negoziato in corso, e soprattutto l’effetto d’eventuali offerte sulla propria credibilità presso il proprio partito o l’opinione pubblica. Anche in ragionamenti tanto machiavellici, anche in persone ormai anziane e caute, conta molto la prima impressione e le sensazioni istintive. Le prime frasi di Eirenes, riguardassero anche la qualità del caffè appena offertole o il ‘tempo che fa’, hanno un peso ben preciso nel susseguirsi della trattativa. Un leader in difficoltà in cerca di aiuti diplomatici le accoglierà come una manifestazione di disponibilità, un leader ben saldo e scarsamente convinto della necessità di concedere le interpreterà come debolezza e non offrirà che vuote cortesie. Non ci sono indicatori di alcun genere per rendere questo intelligibile al giocatore, tutto è deputato al viso e alla mimica del personaggio in questione: personaggio che chiaramente può essere a sua volta freddo come un giocatore di poker, e apparire ancora saldo come roccia pur nel versare delle più disperate condizioni negoziali.

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Eirenes non è nuova al gioco, e sa che richiede tempo: il fatto è che questa volta, il tempo gioca contro di lei. L’avventura in Single Player ha come premessa costante la necessità di ottenere i migliori esiti diplomatici possibili nella sistemazione della questione arabo-israeliana, prima che l’Iran possieda armi di distruzione di massa a sufficienza da scatenare un attacco su Israele, o da spingere Israele ad attaccare preventivamente. Il tempo massimo è di due mesi, l’equivalente di un millesimo di secondo per un negoziato in Medio Oriente. E’ per questa ragione che ogni secondo del pur tranquillo colloquio con Olmerth sembra non finire mai. Dopo un’ora e mezza le posizioni sono ormai chiare: Olmerth si sente sicuro della sua posizione nel partito Kadima, e comprende la necessità di migliorare la condizione della ‘nazione’ palestinese in modo da compiacere il resto del mondo arabo e isolare l’Iran, rendendo in tal modo improbabile una sua azione militare. Per fare questo, però, muove dalle tradizionali, inamovibili pretese Israeliane, le pretese d’un popolo costretto sempre sulla difensiva da secoli e aggrappato alla miseria di ventimila chilometri quadrati: l’immediata cessazione della minaccia terroristica di Hezbollah, a nord, e di Hamas dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Eirenes è consapevole di cosa questo comporti: sono necessarie delle trattative con la Siria di Assad, nume tutelare di entrambe le organizzazioni. Interrogato sulla possibilità di una road-map progressiva, Olmerth si dichiara disposto a premiare la cessazione delle attività aggressive di anche uno solo dei gruppi terroristici con la cessione delle alture del Golan e il ritiro completo dell’esercito dalla

Cisgiordania, unitamente alla cessazione di ogni nuova attività di colonizzazione. Le prove generali di un ritiro completo dalle aree a maggioranza araba, preludio per la fondazione di uno Stato Palestinese. Eirenes ora deve fare in fretta: quelle che ha ottenuto sono ufficiosi propositi di disponibilità, non promesse personali né tantomeno atti negoziali formali. Un attentato contro un autobus o una pioggia di razzi Kassam sarebbero più che sufficienti a infondere nell’opinione pubblica il desiderio di una dimostrazione di forza da parte dell’esecutivo, e la disponibilità a trattare si tramuterebbe in inflessibilità militaresca. Sentimenti e umori del popolo vanno anch’essi considerati, sono il mare di magma sul quale galleggiano i continenti della politica. Come e più di Tommy Vercetti, Eirenes deve sempre ascoltare la radio. Come nemmeno Tommy Vervetti faceva, Eirenes deve fare il possibile per carpire ogni notizia rilevante dai quotidiani di ogni paese dove viaggia, e mantenersi in contatto informatico con l’ONU e le agenzie di stampa. Ogni nuovo evento utilizzabile è indicato dal gioco con un colore speciale, e conservato nel taccuino di Eirenes come utensile dialettico davanti al quale ogni leader manifesterà una peculiare reazione. Nel taccuino ora c’è scritto: alture del Golan, stop agli insediamenti, ritiro di Tsahal dai Territori, seria intenzione a lavorare ad un processo di pace da parte di Israele. Prossima tappa: Damasco…

Le immagini a corredo di questo articolo provengono dalla bella galleria raggiungibile a questo indirizzo: http://www.internetcamera.it/gallery_lombardialcentro.asp

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A G A I N S T

I N F I N I T Y

di Federico Res

“Mi chiamo Herzog e faccio Killzone 2”. Se fossimo giornalisti di Videogiochi commenteremmo: ‘con plateale e ardito citazionismo il lead designer di Guerrilla si accinge a presentare alla stampa il nuovo, ambizioso progetto della softco olandese’. Ma siccome siamo trentenni che ancora si rincoglioniscono coi giochini, diciamo: ‘sta minchia, Herzog, dimostracelo. Chiunque tu sia. Già perché “fare Killzone 2” implica ben più che un mero esercizio d’artigianato finalizzato a produrre un sequel ordinario. “Fare Killzone 2” vuol dire avere sul capo migliaia di lame pronte a cadere inflessibili. Vuol dire dimostrare al mondo che se Metal Gear Solid 4 fa cagare non è colpa di PlayStation 3. E soprattutto significa dar libero sfogo alle potenzialità inespresse del pur ottimo – migliore su PS2 – sparatutto in soggettiva creato da Guerrilla qualche anno fa. Quell’Halo killer killato dal presentarsi come tale. Eppure davvero tale, in un senso probabilmente rimasto incompreso dai più: quel Killzone che trasformava l’FPS arcade (paradigmaticamente incarnato proprio da Halo) in simulazione videoludica di guerriglia, urbana ed extra-urbana. Quel Killzone che a laser multicolori e alieni dal sangue turchese contrapponeva città e centri commerciali semidistrutti e potentemente realistici. Quel Killzone che abusava di panic cam (molto prima di Gears of War), effetti di fumo e quant’altro per ricreare davvero la guerra. Quel Killzone dal potenziale enorme, uscito sul mercato con almeno un anno di anticipo, e col conseguente 40% di incompletezza, grazie alla dirigenza Sony. Già, fare Killzone 2 vuol dire tante cose. Ecco perché, caro Herzog, devi dimostrarcelo. Herzog sorride all’applauso un po’ forzato che segue il suo esordio sul palco della sala conferenze

affittata da Sony in quel di Amsterdam, a duecento metri da un bordello comunale popolato da cinquantenni con le vene varicose coperte da calze a rete economiche. Ha in mano un Sixaxis, quel coso senza vibrazione perché Sony non aveva soldi per continuare a pagare l’affitto del brevetto Immersion. I’m gonna show you our game, for the first time. This is not a target render. Sorride. Il pubblico applaude di nuovo, stavolta con maggior spontaneità. Non che Herzog ispiri chissà quale fiducia: piuttosto, sbocciano i sorrisi maliziosi di chi è pronto a calcolare l’abisso tra il trailer mostrato un anno fa e la vera grafica di Killzone 2. Buio in sala. L’enorme schermo alle spalle di Herzog proietta un altrettanto enorme logo: Killzone. Il logo svanisce, e al suo posto compare una seconda scritta: Against Infinity. La dimostrazione ha inizio… Killzone 2 comincia come cominciava lo stupefacente teaser dell’anno scorso. Lo sbarco dei soldati ISA presso il fronte Helgast è l’equivalente emotivo di un calcio allo stomaco: è guerra, è Killzone al massimo del suo potenziale. Tralasciando l’aspetto tecnico poiché poco ci frega ora, l’impressione è quella di sempre: Guerrilla ci sa fare. Ma non c’è molto tempo per compiacersi. Le difese Helgast si sollevano invincibili in un nugolo di razzi ed esplosioni, il nostro plotone è come spazzato via nello spazio di un lampo. La schermata nera che segue ci offre l’occasione per scoccare uno sguardo a Herzog, ma nell’oscurità della sala è impossibile decifrarne l’espressione. Ma sappiamo, in qualche modo, che sorride. Di gusto.

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. “Qui comincia la nostra operazione…” dice il game designer dalla penombra. Le immagini riappaiono. È il risveglio di un soldato (il capitano Templar, come apprendiamo più avanti), che in soggettiva tenta di rimettersi in piedi combattendo lo stordimento causato dall’esplosione. Pare che il fuoco degli Helgast lo abbia scaraventato piuttosto lontano dalle macerie del ponte presso cui è avvenuto l’attacco: si guarda intorno in una landa desolata, solcata da dossi di terra rossa e crateri neri di fuliggine, testimonianza di furiose guerre di confine. Templar è solo. Cerca di far funzionare la sua radio, ma non c’è verso. Chiama a gran voce i compagni, ma non ottiene risposta. Esita. Poi imbraccia il fucile, lo carica – dandoci occasione di ammirare le splendide animazioni di ricarica già apprezzate nel prequel, qui ancora più curate ed esaltanti. Punta in alto. Spara alcuni colpi, poi resta in attesa. Dopo qualche istante, da un punto imprecisato del campo di battaglia (difficilmente localizzabile per via del fumo e delle nuvole di polvere), giungono alcuni colpi di risposta. Ovattati, esitanti e appena udibili sopra il frastuono di navi e detonazioni lontane, che riempie l’aria. Templar abbassa l’arma. Si guarda intorno. Poi solleva di nuovo il fucile. “Ora è il vostro turno” dice Herzog mettendo il gioco in pausa e risvegliandoci da una specie di trance. Gli scocchiamo uno sguardo: sorride. “Avete appena assistito alla forma di comunicazione principale in Killzone 2. Quando le radio non funzionano – e non funzioneranno per gran parte dell’avventura, ve lo garantisco – l’unica cosa che vi resta è il vostro fucile. Fatene buon uso. E tenete conto che anche gli Helgast sanno sparare per aria. Potreste inseguire per un’ora la fonte di segnali di questo tipo, per poi accorgervi di avere a che fare con un avamposto Helgast pronto a farvi il culo.” Detto ciò, riavvia il gioco e si riparte, verso il significato di Against Infinity… Against Infinity è, in sostanza, la nostra missione. Infinity è la roccaforte degli Helgast sulla Terra. Si tratta di una torre di massima sicurezza costruita e occupata dagli ISA fino a pochi mesi prima, quando le truppe Helgast chissà come sono riuscite ad espugnarla e ad impadronirsene. Noi dobbiamo riprendercela. Killzone 2 è questo, in buona sostanza. Solo che, stando alle rivelazioni di Herzog, Infinity è l’edificio più corazzato e impenetrabile mai costruito dall’uomo. Le sue difese contemplano un vasto assortimento di missili – anche a testata nucleare, seppur di potenza non superiore all’equivalente di tre Hiroshima, come da disposizioni internazionali precedenti all’inizio della guerra contro gli Helgast. Carri corazzati, una nutrita flotta di caccia e alcuni bombardieri pesanti a decollo verticale, senza contare l’infinito numero di soldati Helgast presenti nel perimetro della torre. Ma noi siamo videogiocatori e queste cose ci fanno un baffo, figuriamoci. Allora ecco il vero motivo della forza di Infinity: le piattaforme SD. “Il perimetro di Infinity è inviolabile perché difeso costantemente dalle piattaforme, ora sotto il controllo degli Helgast. Disattivarle è impossibile. Ma troverete il modo di aggirare l’ostacolo…” La dimostrazione, a questo punto, ci consente un potente sguardo sulle meccaniche di Killzone 2. Templar si muove solo, tra le macerie di una cittadina situata in prossimità del ponte che abbiamo visto all’inizio del gioco. Non c’è un percorso, una via prestabilita, un itinerario segnalato o imposto in qualche modo. L’ambiente di gioco è una serie

di zone ampie, ampissime, e di altre più ristrette, perfino claustrofobiche. Tutto è caricato in streaming, ogni zona si connette alle altre per molteplici vie. Qui le truppe Helgast sono diradate, presenti in sparute avanguardie mediamente armate. La città è splendida, e splendidamente distrutta. La la geometricità di strade ed edifici è sconvolta da bombardamenti, esplosioni e guerriglia urbana. Templar sta cercando qualcuno. Lo cerca rispondendo ai suoi colpi – una specie di linguaggio morse da apprendere “in presa diretta”, poiché soggetto a variazioni da situazione a situazione e da persona a persona. Tra sporadici combattimenti, esplosioni e crolli assortiti – in buona parte scatenabili in prima persona e a proprio vantaggio – Templar individua il suo alleato e lo raggiunge. Giunto nelle viscere di un centro commerciale sventrato (strizzata d’occhio al primo Killzone) vediamo Templar ribellarsi alla condotta guardinga tenuta da Herzog per voltarsi di scatto e un po’ goffamente, al suono di un otturatore che scatta, a vuoto, nel buio. Davanti agli occhi di Templar scorre in un lampo la penombra violata da deboli infiltrazioni di luce, scorrono scale d’acciaio accartocciate e muri frantumati, fino ad un punto nel buio dove brillano due occhi arancio vivo. Occhi che vengono gettati ai piedi di Templar, su una maschera Helgast. Una figura scura, con un fucile puntato al suolo, emerge dall’ombra. È Hakha.

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“Questo è ciò che chiamo Cineocchio”, dice Herzog mettendo in pausa il gioco e ricordandoci i deliri di un certo occhialuto in maglietta bianca, assorbiti in notti insonni davanti a Raitre. “Quando accade qualcosa di improvviso i nostri riflessi ci spingono ad identificarne la natura, facendoci voltare, piegare, inchinare o rotolare di lato in maniera automatica. Vale sia per gli scansafatiche come voi – risate “veramente grasse” in sala – che per un duro super addestrato come Templar. Dunque vale per Killzone 2. Un otturatore scatta, una bomba esplode, un Helgast irrompe alle spalle, una nave compare nel cielo. Il vostro personaggio ignorerà per alcuni istanti gli imput del controller e si volterà verso l’evento “clou”. Questo ci permette di coreografare splendidi colpi di scena lungo tutto il gioco senza abbandonare la soggettiva e alimentando il realismo che vogliamo raggiungere.” Noi pendiamo dalle sue labbra. “Ovviamente” continua “portato a termine il gioco una prima volta sarà possibile disattivare completamente il Cineocchio”. Ovviamente. Dall’incontro con Hakha, che dona a Templar la possibilità di impartire ordini al compagno, Killzone 2 diventa “salvate il soldato Martin”. Nel senso che per vincere Infinity il soldato Martin, chiunque sia, è fondamentale. “E’ la chiave per acquisire un parziale controllo sulle piattaforme SD ed inficiarne l’efficacia, così da renderle inutilizzabili per la difesa del perimetro più interno di Infinity, e permettervi di entrare.” Herzog spiega ogni cosa sopperendo alla mancanza pianificata di ulteriori info, che andranno raccolte via via lungo il corso del gioco. “Da questo momento in poi, Killzone 2 è guerra ad ogni livello”. E ciò che segue non potrebbe essere più esplicito. Facciamo un passo in avanti, al momento in cui Herzog, conclusa la demo, illustra la fisionomia del mondo di Killzone 2 tramite un modello tridimensionale in wireframe. Infinity è situata su un piccolo altopiano, protetto a sud da una terra di nessuno larga qualche chilometro, e monitorata dalle piattaforme SD. Il limite di tale zona coincide col ponte nuclearizzato e la città con cui ha inizio il gioco. A nord, esattamente dalla parte opposta, l’altopiano scende bruscamente trasformandosi in una scogliera coperta di vegetazione, quasi a strapiombo qualche decina di metri sul mare. Il versante orientale è completamente occupato dalle rovine di risaie e coltivazioni industriali, trasformate in pantani e acquitrini. A ovest, infine, le propaggini della scogliera prima descritta divengono basse montagne spoglie, che cedono il passo, a nord-ovest, alla costa e alle spiagge. Infinity svetta più o meno al centro di un territorio di migliaia di chilometri quadrati, che in un modo o nell’altro incorpora tutti i luoghi già visitati nel prequel rielaborandoli in un nuovo contesto. Il cuore di Killzone 2 sta nella sua struttura totalmente aperta. “Niente a che vedere con GTA e robe simili” si affretta a chiarire Herzog. ”Il vostro compito è trovare il soldato Martin (che potrebbe essere ovunque, in un luogo differente ad ogni partita), e per farlo dovrete andare in giro per il mondo di gioco seguendo l’istinto e gli indizi. Ma qui non siete in una città fantasma. Siete in un campo di battaglia che rigurgita Helgast”. Qui si tratta di espugnare avamposti, liberare trincee, passare le linee nemiche senza essere scorti qualora le forze Helgast siano manifestamente superiori. Qui il sistema di controllo degli NPC si dimostra di importanza totale. “Ricorderete che, nel primo Killzone, provare a impersonare Rambo portava ad una morte molto breve. Qui è la stessa cosa, ma su scala più alta. Vale a dire: procedere tutti

L’immagine qui sopra e quella a pg.38 provengono da questa splendida galleria: http://www.fotos.geschichtsthemen.de/iraqwar/iraq.htm

verso un’unica direzione vuol dire finire tra le braccia degli Helgast. In mezzo ad un fuoco incrociato, in un’imboscata, in un campo minato. Dovrete organizzare i movimenti degli alleati, decidendo di mandarli presso il fronte orientale mentre voi vi dirigete a nord. Potete lasciare due NPC presso un mortaio pesante, affinché vi coprano quando, centinaia di metri più a ovest, vi avventurate sulle cime nude delle montagne. Potete comunicare con gli NPC – con i fucili, i fumogeni o con le radio, laddove saranno attive – l’eventuale esito di un’azione di infiltrazione, di un’offensiva o quant’altro e decidere sul momento la prossima mossa. Killzone 2 è un campo di battaglia dove è necessario essere buoni strateghi, oltre che buoni soldati.”

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Sullo schermo, limitatamente ai pochi chilometri quadrati di territorio mostrati, accade proprio questo. Herzog manda Hakha presso un mortaio, gli comunica dalla distanza – con sventagliate ritmiche di mitra – di tenersi pronto, quindi spinge un gruppo di Helgast a seguirlo, presso uno spazio sgombro tra le macerie. Un breve segnale al compagno, e gli Helgast saltano in aria in pochi attimi. Il momento dell’attacco è ripreso da un cineocchio, in cui Templar getta uno sguardo al cielo e attiva lo zoom del fucile automatico per scorgere le scie di fumo dei colpi appena sparati da Hakha: dieci decimi di secondo da brivido. “Situazioni di questo genere sono all’ordine del giorno. Non c’è nulla di scriptato, o meglio… gli script si attivano in modi sempre nuovi dipendentemente dalla condotta del giocatore. Se non sapete che pesci pigliare – spiega Herzog – non dovete far altro che chiedere ai compagni con un cenno del fucile. Ognuno di loro suggerirà una strategia diversa, tutte potenzialmente vincenti. Starà a voi scegliere quella che ritenete più efficace.“ Tutto ciò, confessa Herzog, raggiungerà vette di tatticismo all’interno di Infinity, una volta che saremo riusciti a penetrarvi. Nell’interno della torre gli apparecchi elettronici funzioneranno e si potrà chiamare e vedere in tempo reale (grazie a un non meglio specificato “proiettore retinico”) i compagni impegnati anche centinaia di metri lontano da noi. “Una cosa del genere sarebbe troppo onerosa da fare per gli esterni. Negli interni, possiamo barare senza che nessuno se ne accorga… rendiamo grazie agli impulsi EMP”. Ridacchia. Alla fine della dimostrazione, scorre un breve rolling demo. Si tratta di alcune sequenze cinematografiche, o cineocchi, identici per stile e regia al famoso teaser. Tre di essi si imprimono nella nostra memoria, nonostante la durata fugace. Nel primo: ripresa mandata a schermo di un proiettile che raggiunge e penetra la testa di un uomo, fuoriuscendo dalla parte opposta. La scena è ricostruita da varie angolazioni, la “svastica” Helgast compare in un angolo dello schermo. Nel secondo: lo stesso uomo – con la testa semi coperta da una cupola – spara con due pistole in due direzioni diverse, in quella che pare un’esecuzione Helgast. Le vittime sono Luger e un secondo soldato ISA. L’uomo assomiglia pericolosamente al generale Vaughton. Nel terzo: un Helgast abbarbicato in una sorta di esoscheletro potenziato, munito di quelle che sembrano ali d’acciaio, subisce il fuoco di Templar e si schianta al suolo. Cineocchio sulla sua testa: il caschetto è saltato via, la faccia di Helgast è intaccata dalla polvere da sparo. Il colorito verdognolo sembra “sciolto”, come fosse trucco. La pelle al di sotto è innegabilmente umana. Ci basta un attimo per riconoscere il suo volto: Visari…

idee innovative di gameplay, non è il suo scopo. Killzone 2 è pensato con poche e precise arguzie. La sua struttura permette al giocatore di vivere centinaia di esperienze diverse ad ogni partita, gli permette di sperimentare le più diverse strategie. Ma tutto ciò è gestito tramite, davvero, un pugno di calcoli. Chiedetevi perché, su PlayStation 2 o Xbox o anche Psone, non avete mai visto uno sparatutto simile. Non perché non fosse possibile farlo – figuriamoci – ma perché l’apparente complessità del concept è sempre stata vista come una minaccia al successo commerciale. Killzone 2 nasce come prima killer application per PS3. PS3 è ben poco diffusa, al momento, e le vendite che Sony prevede per il gioco, nell’immediato, non sono certo astronomiche. Ecco perché possiamo permetterci di fare Killzone 2 a questo modo, senza temere insuccessi. Inoltre, in uno scenario dove la spinta all’acquisto è rappresentata quasi unicamente dalla stampa specializzata e dalla pubblicità, Killzone 2 ha la via spianata per imporsi. Vogliamo che la next gen sia davvero tale. Vogliamo che il videogioco vada avanti e abbiamo la possibilità di farlo. Immaginate quanti cloni di Killzone 2 spunteranno fuori, se avremo successo…” E se invece sarà un fallimento? Chiediamo, di riflesso. “L’eventualità non è contemplata” risponde ridendo. Poi se ne va senza salutare. Noi facciamo altrettanto. Con in testa il boato delle navi Helgast e l’immagine persistente di una torre eretta in mezzo ad un mondo di splendori e macerie.

Raggiunto Herzog presso una sala privata, gli rivogliamo le nostre perplessità. Quante variabili ci sono in gioco? Quanto è pesante il codice di Killzone 2? È forse un progetto troppo ambizioso, per una softco come Guerrilla? Herzog sorride, ci fissa per alcuni attimi come se fossimo del tutto scemi. “Quando un personaggio esce dallo schermo” dice “diventa una semplice variabile. Una truppa Helgast che non potete vedere è un semplice calcolo statistico. L’esito delle battaglie combattute dai vostri compagni a chilometri di distanza è un calcolo talmente semplice che mi vergogno a parlarne. Killzone 2 non è concepito in trincea, se mi passate la metafora a tema. Non reca chissà quali

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SISTEMA PS2 VERSIONE USA SVILUPPATORE INTERNO ETICHETTA NAMCO MULTIPLAYER 1-2 DATA DI USCITA 13-09-2005

URBAN REIGN Di Mr.Yo La crescita del mercato videoludico ha portato alla ribalta titoli sempre più mass oriented, fomentando sempre più il “cheap gaming”. Siti e riviste martellano sempre di più su titoli di facile fruizione, che siano accompagnati da un aspetto audiovisivo sempre più realistico, talvolta dalle tinte forti. Molto spesso, anzi, ci si concentra più sull’aspetto audiovisivo a discapito delle fondamenta ludiche dei prodotti. Alcuni generi poi, non avendo un particolare riscontro e non potendo mascherarsi dietro a quello che la massa si aspetta di vedere, stanno assottigliando i propri esponenti tanto da dar l’impressione di dover scomparire da un momento all’altro. Altri, trovando un riscontro favorevole, continuano a battere sulla solita formula collaudata, andando a soffocare progetti sicuramente più interessanti (e sicuramente meno remunerativi). Non è un caso che Clover, uno dei più promettenti gruppi interni in forza a software house nipponiche rilevanti, sia stato smantellato: non è bastato il franchise di Viewtiful Joe, non sono bastati né Okami, né God Hand. Ma come la stessa Capcom/Clover ha provato a osare, anche Namco non si è tirata indietro, andando a ripescare quel filone tanto in voga nel mercato Arcade nel suo momento d’oro: il picchiaduro di massa. Nato vent’anni fa e distintosi inizialmente con Nekketsu Kouha Kunio-kun (Renegade in occidente, convertito anche per Commodore 64 in modo discreto) di Technos, passato per la prima consacrazione con lo pseudo seguito Double Dragon (sempre Technos), e giunto al pirotecnico Final Fight di Capcom, ha fermato il suo corso dopo i tre Bare Knuckle (Streets of Rage) per Megadrive, salvo qualche titolo non sempre convincente buttato alla rinfusa quasi a voler dire: “non seppellitemi, non sono ancora morto!” Namco, col coraggio che l’ha contraddistinta con opere quali Taiko no Tatsujin o Katamari Damashii, ripesca il genere dei beat’em up a scorrimento, lo modella come fosse argilla e gli conferisce una nuova immagine. Non ha la presunzione di apportare radicali cambiamenti: elimina lo scrolling in favore di arene fisse, rinnova numerose sfaccettature, rinverdisce e amplia diversi aspetti del genere, regalandoci il primo dei più interessanti esponenti degli ultimi anni, e forse, di sempre: Urban Reign (e l’altro lo avete indovinato? E’ God Hand della defunta Clover, recensione a pagina 31). Al principio è difficile rimanerne galvanizzati: partendo da una introduzione in CG la cui qualità è messa a dura prova da una eccessiva compressione, passando per menù che definire esteticamente grezzi è poca cosa e arrivando a uno dei più classici storyboard da b-movie (“supercazzuto invincibile e macchinazioni losche da parte dei soliti ricchi-potenti-brutti-ecattivi”), non ci si aspettano chissà quali cose. D’altronde anche un sindaco wrestler culturista a cui hanno rapito la figlia non era certo un incipit migliore. Ma al primo impatto, ne subentra un altro, come aperitivo. Sedici noni, scansione progressiva, sessanta fotogrammi al secondo inchiodati nel mogano. Pioggia, pozzanghere riflettenti, fuoco, luci, e tutti gli effetti particellari del caso. Animazioni legate degnamente tra di loro e quasi sempre credi

rattività, come le macchine della discarica o le impalcature, che a seguito di violenti scossoni traballano e perdono pezzi qua e là. E ancora, un party di grossi bestioni che vogliono farci la pelle disposti di una buona IA, che impegna la CPU e il motore del gioco, che svolge il suo ruolo alla perfezione e senza incertezze. E si segnala anche una delle migliori telecamere mai sperimentate durante le partite in multiplayer.

bili (ho detto quasi). Niente palle di fuoco, niente salti di trenta metri. Numerosi squarci cittadini divengono arene di battaglia, ciascuno dotato della propria inte

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Musiche incalzanti fanno da sottofondo, riuscendo a enfatizzare il rumore di un pugno in faccia o di una testa che va a sbattere contro un muro. La colonna sonora di Urban Reign è più che adeguata e regala al videogiocatore una sensazione di “punch” che in altri casi reclamerebbe l’aiuto di un subwoofer ed elevati livelli di pressione. Namco pare aver dato una notevole importanza agli effetti sonori, e sicuramente questi ripagano con una sensazione di maggior coinvolgimento. Nonostante il suo status di gioco di serie B (vuoi per genere di appartenenza, vuoi per budget), dal punto di vista tecnico, il picchiaduro rissaiolo di Namco insegna ai colleghi una o due cose sulla programmazione metal bashing e sulla fusione delle varie componenti tecnicoludiche, che lo rendono un prodotto di qualità. Introduzione e menù a parte. Pad alla mano, ci si chiede se servano veramente tutti questi tasti: il gameplay difatti prevede l’utilizzo di tutti i tasti frontali, di tutti i tasti dorsali, dello stick analogico sinistro (o del pad digitale, più preciso ma meno sensibile) e delle varie combinazioni del caso, unitamente alla telecamera assegnata allo stick destro (un altro boccone difficile da digerire, se si pensa che generalmente questo tipo di giochi non prevede l’utilizzo di più di tre tasti e uno stick/pad digitale). Quindi si comincia, parte l’avventura e si rendono disponibili via via vari extra, tra opzioni di gioco e personaggi utilizzabili, sbloccabili soddisfando specifici requisiti. Attaccare da fermi, in avanti, all’indietro, in corsa, sulle tre linee alta-medio-bassa, effettuare prese “localizzate”, prendere oggetti d’offesa e di difesa (anche al volo) da utilizzare o lanciare, schivare gli attacchi, contrattaccare, effettuare prese da davanti e da tergo, aeree, da terra, combinate con elementi del fondale. Colpire contemporaneamente due avversari, sfruttare pareti e strutture massicce per compiere mosse acrobatiche, schernire gli avversari, apprendere e utilizzare particolari abilità individuali che necessitano tacche di energia spirituale, assegnare punti esperienza alle proprie caratteristiche al passare di ogni livello. Effettuare mosse combinate, utilizzare a piacimento il personaggio principale o il partner selezionato/assegnato per la missione, impartire ordini al proprio partner. Tutto questo viene via a via assimilato dal giocatore, che col tempo miscelerà le varie tecniche tra di loro, innescando terribili sequenze di lotta (anche grazie all’ausilio del lock-ok). Senza considerare, inoltre, che lo stile di combattimento varia drasticamente da un personaggio all’altro, tra discipline quali kung fu, boxe, street fighting, wrestling, thai, kendo e via dicendo, ai quali si aggiungono le armi che ogni livello mette a disposizione. Brad Hawk è il giaccapitonato buttafuori protagonista del gioco, ingaggiato dalla bella Shun Ying Lee per salvarle le sode chiappe dalla situazione spiacevole di turno. Lungo ben cento livelli, avremo modo di capire i risvolti della trama e soprattutto impareremo ad addomesticare il sistema di controllo, e con un po’ di costanza, giungeremo ad utilizzarlo con scioltezza, innescando sequenze di lotta che sarebbero le coreografie perfette per uno spettacolare b-movie asiatico col Jet Lee di turno. La sfida è sempre varia e crescente (contentino finale a parte). Nonostante le missioni non

differiscano eccessivamente le une dalle altre, è la personalità degli avversari che garantisce la totale assenza di noia. Ogni volta che incontreremo un personaggio di rilievo non faremo certo fatica a riconoscerlo. Quando riceveremo le prime legnate da Shotaro Kadonashi, l’esperto karateka, sapremo da subito che non si tratta di un nemico qualsiasi. Quando la nostra faccia virtuale sarà livida di gomitate e ginocchiate e saremo accasciati in terra osservando Yoon Bulsook, il brivido di deja-vu da Ong Bak correrà sulla schiena. E così via sino ad arrivare a quello che è ritenuto, almeno personalmente, il più violento, grosso e cattivo dei cattivi, ovvero il sig. Golem, che non si accascerà di certo al suolo semplicemente scrivendogli EMET in fronte. Urban Reign riesce a stimolare l’adrenalina del giocatore senza mai portarlo alla frustrazione. Imbattersi nelle situazioni più difficili non stimola la rinuncia, bensì la voglia di riprovarci e di rimettere in gioco le proprie capacità. La CPU non bara, e non è stupida. Se ci si trova in mezzo a numerosi avversari, difficilmente staranno tutti a guardarvi, anzi, approfitteranno di situazioni favorevoli per attaccarvi in massa, continuando a prendervi a calci e pugni quando sarete in terra, magari bloccati da uno di loro in una temibile morsa. Inoltre non esiste un colpo (speciale, segreto e non) che ripetuto ad libitum agevoli il giocatore, si ha anzi spesso l’idea di affrontare avversari capaci governati da intelligenza umana, contro i quali ripetere sempre le stesse strategie conduce velocemente alla sconfitta. La mancanza della modalità cooperativa per due giocatori nella modalità storia è probabilmente l’unico vero appunto che si possa fare al gioco. Fortunatamente, anche il semplice “alternarsi di pad” tra una missione/vita e la successiva riesce a mantenere vivo l’interesse, specie quando si va alla ricerca del fatidico ranking “S” per ciascuna missione, magari affrontata ai livelli di difficoltà più elevati. Sono comunque presenti modalità multiplayer ricche di opzioni e variabili, partendo dal classico scontro uno contro uno senza armi (giocando nei panni di Paul Phoenix e Marshal Law potreste giurare di essere al cospetto di Tekken, solo un po’ più “tridimensionale”); fino alle più violente risse, con giocatori umani (massimo quattro) e non e l’ausilio di ogni sorta di arma. Urban Reign e God Hand sono una vera benedizione, per quei giocatori vecchio stampo che hanno sempre pianto la semi estinzione del genere. E sono una benedizione per quei giocatori novelli che pur (non) avendo (ancora) apprezzato i classici, godono dei titoli che fanno della giocabilità e della sfida adrenalinica i loro punti di forza.

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