Ring#011

Page 1


PROJECTRING

__________________________________ n10

www.project-ring.com

APRILE2004

SOMMARIO SPECIALE BOOM BOOM Silicon Valleys RUBRICHE Tesori Sepolti Conker’s Bad Fur Day People Yu Suzuki Me Nintendo Nonline Ivory Tower Affective Gaming Arena Periferiche Chain Mail 3.0 Vox Mundi Column 03: Out Soon

.03 .08 .40 0 .42 .44 .45 .46 .48

Sanguine 01: Carnivorous W.

.49 .52

Il Davide Davide Return!!!1 INDEPTH Versus: Beyond Good & Evil Kikaioo RECENSIONI Ninja Gaiden Onimusha 3 Forbidden Siren Gregory Horror Show Sonic Heroes Fatal Frame 2 Legacy of Kain: Defiance Astroboy Metroid Zero Mission

.54 .00 .15 .18 .00 .23 .25 .27 .30 .31 .32 .34 .36 .38

«Sa’osa? E mi garba dimorto vella rivista, de’, ‘om’è che si ‘hiama? Ring! Eh! Bella su’i serio. Però diobono e finisco sempre l’inchiostro delle stampanti de i’ quirinale. Vabbe’ tanto paga baugigi.» Con queste parole di stima da parte della prima carica dello Stato, Ring si autotraghetta verso il suo episode 11, e per omaggiare baugigi, produce un numero denso di immagini! Non ci credete? Check Silicon Valleys (pag. 8) e l’indepth su Kikaioo (pag. 18), che poi altro non è che un pretesto per un saggio sul character design nipponico. Attenzione: il presente numero di Ring è completamente privo di pesci d’aprile. Abbiamo valutato la cosa e l’abbiamo ritenuta una stronzata…

Ring è... Copertina: David Vineïs www.sub88.com Sezione Online a cura di: Tommaso De Benetti Sezione PDF a cura di: Gianluca Belvisi Sito e Forum ospitati da: Bitpower (www.bitpower.it) Versioni PDF ospitate da: www.qub3.net

[Cover Story]

Fiat Pixel E pixel fu…

Se avete un’età garbatamente veneranda, come me, allora avrete il seguente ricordo: voi che zompettate, in una non ben definita località marittima, impegnandovi nel dirottare ‘casualmente’ i genitori verso quella sala giochi, laggiù. Siete poco più che bambini e solo fra qualche mese imparerete a scoprire voi stessi, condannandovi ad un futuro di cecità e peli sui palmi delle mani. Ma ora non vi importa, le ragazze nemmeno esistono per voi. Esistono solo le lucette che provengono da quei cabinati lampeggianti. E i suoni. Ma soprattutto le lucette. Solo più tardi, molto più tardi, imparerete ad usare termini come sprite o poligono o texture. Per ora, quelli sono solo quadratini colorati che si aggiornano pigri sullo schermo, sono solo simboli e metafore di ciò che rappresentano. E noi li traduciamo benissimo, sappiamo da subito che quel grumo di pixel è in realtà un eroe senza macchia né paura. E poi passano, toh, una quindicina d’anni, e sei qui che conti i peli del naso a Jin Kazama.. L’evoluzione tecnologica dei videogiochi ha numerosi risvolti degni di analisi, ma il più appariscente dei mutamenti investe quella cosa che per prima, anni orsono, rapì i nostri portafogli: La Grafica. È possibile tracciare un parallelo interessante fra l’evoluzione estetica all’interno del VG e la medesima nel mondo dell’arte della Pittura. Ambedue sono linguaggi visivi che tramandano rappresentazioni (non necessariamente del vero) e situazioni (non necessariamente reali). E simili sono pure i percorsi di crescita dei due linguaggi visivi. Dacché la Pittura ha alle spalle una storia più antica, di quella solo trentennale del VG, analizzare i suoi cambiamenti nel tempo può suggerirci le nuove forme che l’estetica del VG potrebbe un giorno assumere. Le prime tracce di testimonianza visiva prodotte dall’uomo, sono vecchie quanto l’uomo stesso. I graffiti paleolitici traducevano cronache di vita quotidiana, ritraendo scene di caccia o rituali, ma ad interessarci è soprattutto la forma stilistica adottata da questi precursori: gli oggetti, animali e uomini venivano ritratti con intento naturalistico, limitatamente all’abilità dell’autore. Il tratto realistico non muta nelle epoche future e anzi, si assiste ad un’accelerazione della spinta verso il vero che sfocia nelle pitture egiziane, greche e poi medievali. Queste manifestazioni artistiche continuano a mantenere in sé caratteri ‘sintetici’ (la bidimensionalità, le proporzioni) ma esse si adoperano per avvicinarsi al mondo come ci appare. È durante il Rinascimento che la ‘scoperta’ della prospettiva imprime una nuova e decisiva svolta nell’impronta realistica dei dipinti (il parallelo videoludico del 3D è qui evidente). Probabilmente a causa della grande capacità riproduttiva raggiunta, però, si cominciano ad intravedere i primi fermenti di una pittura che cerca di ‘codificare’ l’immagine. Puntinisti, macchiaioli, impressionisti ed espressionisti, l’arte astratta o surreale, la pop art.. La misura si colma di nuove correnti che disfano e ricompongono, a discrezione, le linee direttive del vero, muovendosi oltre la forma e proponendo letture e significati nascosti agli occhi, ma non alla mente. Il percorso della Pittura è lungi dall’essere interrotto, a questi movimenti si addizionano quelli iperrealisti (più vero del vero) sino a lambire i confini dell’arte fotografica per poi ritornare nel baratro del simbolico e del rappresentativo grazie al Digital Imaging. È un circolo reiterato e mutevole che spinge ad evoluzioni continue, senza soste né traguardi. Dicevamo del parallelo con il VG.. Superata una prima fase arcaica, quella del videogioco simbolico, siamo in pieno periodo naturalistico, dove l’intento principale è la ricerca del vero, del credibile. Quello che ci attende è dunque la decostruzione dei parametri estetici che oggi ci sono cari, e di questo abbiamo già le prime avvisaglie, con VG che offrono impatti visivi di rottura, caleidoscopi cromatici o grafie inusuali (REZ, Mojib Ribbon, Killer 7). Se oggi giochiamo un Sam Fisher ritratto fra le ombre del Caravaggio e domani confidiamo di baloccarci in un Fable di fiamminga memoria, fra qualche tempo saremo probabilmente proiettati nei mondi molli di Dalì, ci muoveremo nei contesti cari al Cubismo o saremo impegnati in un lavoro di decifrazione, davanti ad uno stage che fa il verso a Gustav Klimt. Nel frattempo, godiamoci il bump mapping e preghiamo la venuta del ray tracing in tempo reale. Un giorno, poi, potremo ritrovarci un’estetica all’insegna del Futurismo più spinto.

Redazione: Marco "Il Pupazzo Gnawd" Barbero Gianluca "Sator" Belvisi Francesco “L’Esorciccio” Bicci Cristiano "Cryu" Bonora Emanuele "Emalord" Bresciani Tommaso "Gatsu" De Benetti Nemesis Divina Cristiano "Amano76" Ghigi Paolo “Jumpman” Ruffino Federico Res, Giacomo "Gunny" Talamini

Nemesis Divina

Hanno collaborato: Stefano “Teokrazia” Brocchieri Giacomo “Hob” Margotti Per richieste di collaborazione (articoli e cover), per contattare la redazione, per offrire soldi o intentare cause legali scrivete a: posta@project-ring.com

Ring è grossomodo un periodico di critica, approfondimento, satira, amore, studio, invettive, guerriglia, disobbedienza, edgekilling, riguardante il sopravvalutato medium dei videogiochi. Ring è oltremodo gratuita, ma gli articoli al suo interno sono e restano proprieta intellettuale dei rispettivi autori. Non ci provate.


:SPECIALE:

Ring#11

Digital Warfare/Digital Soldiers

BOOM di Gunny

BOOM

Puo’ il Videogioco raccontare la guerra?

La notte del 17 gennaio 1991: una notte senza luna. Ma non una notte buia, non a Baghdad. Lampi e bagliori accecanti salutarono l’inizio della guerra delle ‘1000 ore’. Prima che il sistema di difesa antiaereo iracheno si sgretolasse sotto l’attacco aereo della Coalizione, prima che le truppe di Saddam venissero travolte dai carri Abrams del generale Franks, tra i vertici militari statunitensi serpeggiava la paura. La paura riguardava l’emergere di imprevisti, di difficoltà. Riguardava i dubbi sull’esito di un conflitto potenzialmente micidiale. Soprattutto, riguardava lo spettro della Guerra del Vietnam: le regole di ingaggio assurde, le ambiguità politiche, l’impreparazione alla guerriglia di un esercito concepito per giocare a Risiko con il Patto di Varsavia. Ma questi timori non si concretizzarono: il 28 febbraio, l’offensiva terrestre della coalizione si arrestò, decretando la vittoriosa fine della Guerra del Golfo. Meno di due mesi dopo l’inizio della guerra, New York era già teatro della gloriosa parata dei reparti, sotto una pioggia di fiori e coriandoli. La guerra era stata rapida, indolore. Soprattutto era stata chiara, netta, televisiva, più comprensibile di una partita a tennis. L’immagine della Guerra del Vietnam che l’America conservava nell’animo era quella di una bambina nuda, disperata e ustionata dal napalm che scappava urlando da un villaggio rastrellato. L’immagine della Guerra del Golfo che l’america avrebbe conservato erano le schermate dei sistemi di guida delle bombe elettro-ottiche che colpivano con chirurgica perfezione l’obiettivo (rigorosamente militare) verso il quale erano state lanciate. L’immagine della guerra, presso il pubblico occidentale, era stata igienizzata. Riflettiamo: quali sono stati, nel tempo, i veicoli mediatici tramite il quali abbiamo imparato a conoscere la guerra del Vietnam? Risposta: pellicole cinematografiche (Apocalypse Now, Platoon, Full Metal Jacket, Hamburger Hill, Il Cacciatore, Bat21, Berretti Verdi, Good Morning Vietnam…).

3

Pellicole tramite le quali diversi autori o registi hanno espresso il loro pensiero sulla guerra in Vietnam, fosse esso positivo (in pratica un solo caso, Berretti verdi), o negativo (tutti gli altri). Ora: quanti film ricordiamo sulla Guerra del Golfo? Risposta: … Vedo una mano alzata in fondo. Si, Threee Kings, è vero. Una parodia del vecchio I Guerrieri con Clint Eastwood, una fusione commedia-western ambientata dopo la fine della guerra: quindi no, non ci siamo. Ah, nessuno mi tiri fuori Hot Shots, per favore. Altro? Risposta: … Riflettiamo: a cosa dobbiamo questo silenzio? Forse al fatto che sulla Guerra del Golfo non c’era poi molto da dire? Forse si. Nessuna ferita su cui piangere, nessuna menzogna su cui recriminare. Nessun dubbio, emotivo o etico. Il cinema era rimasto silenzioso di fronte alla guerra perfetta. Questo stesso silenzio (direi stupito) del cinema era il contraltare di un’esplosione di popolarità senza precedenti delle forze armate presso l’opinione pubblica americana. Nei 12 mesi successivi alla fine di Desert Storm il corpo del Marines dovette rifiutare un record storico di candidature, quasi 100 volte superiore all’effettiva necessità di reclutamento. Dove andò a sfogarsi, dal punto di vista espressivo, tutto questo entusiasmo dell’opinione pubblica occidentale? Nei 7/8 anni successivi alla Guerra del Golfo, esplode letteralmente il genere del simulatore bellico. Che si tratti dei prodotti arcade dell’era Amiga o dei primi tentativi di effettiva simulazione (Strike Commander, Falcon, Apache Longbow, Armoder Fist), si parla comunque di videogiochi direttamente ispirati agli avvenimenti di Desert Storm, a quelle schermate filtrati dai visori notturni, a quei missili che ‘anche se te ne vai inseguono il bersaglio da soli’. La generazione post-Guerra del Golfo aveva eletto a propria forma d’espressione popolare il videogioco, che consentiva di assaggiare almeno in parte la sensazione che i più decisi si aspettavano di provare arruolandosi in un esercito ora vincente e rinfrancato. Laddove la semplicità della guerra prosciugava la fonte d’ispirazione della pellicola argentata, essa apriva la strada ad un nuovo modo di raffigurare un’istanza, quella bellica, che era divenuta popolare, gradita, desiderata.


:SPECIALE:

Ring#11

La guerra da lontano Poniamo per un attimo di avere di fronte un tavolo, ricoperto delle confezioni di tutti gli wargames prodotti tra il 1991 ed il 1998. Rovistiamo, diamo un’occhiata qua e la. Giochiamo, dove necessario. Che sia una partita a M1Tank Platoon2, a F22 ADF, vi sfido a trovare un gioco dove si possa avvertire la sensazione di aver ucciso un uomo. Non parlo di vedere i suoi occhi spegnersi, di sentirlo piangere o urlare dal dolore. Parlo della sensazione di aver colpito qualcosa che anche alla lontata poteva sembrare un essere umano. Non troverete quasi niente, e nella maggior parte dei casi non distinguerete nemmeno una sagoma umana. Vedrete obbiettivi materiali, quelli si; a decine. Vedrete casematte, bunker, postazioni SAM, blindati leggeri, jeep, carri armati, elicotteri, cacciabombardieri, piste di decollo, antenne radio. Ma non l’ombra di un essere umano. La condotta bellica rimane solo un fattore tecnico (uso della corretta arma, precisione d’utilizzo, rapidità d’esecuzione) asservito ad un obbiettivo semplice e inequivocabile (distruggi la caserma X, elimina il carro armato Y), che si fa fatica a definire politico. Nella guerra igienizzata dell’era del videogioco, l’uomo ha provveduto a rimuovere se stesso. Che altro ci aspetteremmo da un conflitto, in condizioni normali? «La guerra è un vero camaleonte perché in ogni caso concreto cambia un po’ la sua natura; eppure nel suo manifestarsi complessivo e nelle sue tendenze dominanti si rivela come uno strano trilatero, composto dalla violenza originaria del suo elemento, l’odio e l’ostilità, che è da considerarsi come un cieco impulso naturale; dal gioco delle probabilità e del caso che ne fanno una libera attività dello spirito e dalla natura subordinata allo scopo politico, con cui essa si affida alla semplice ragione. «Il primo di questi tre lati si riferisce più al popolo, il secondo più al capo militare e al suo esercito, il terzo più al governo. Le passioni che devono esplodere in guerra devono essere necessariamente presenti già nei popoli; gli scopi politici invece appartengono soltanto al governo.» (Von Clausewitz, Vom Krieg, libro primo: risultato per la teoria ) Adottando un pensiero formulato in era napoleonica, possiamo parlare rispettivamente di elemento morale (umano), tecnico (relativo alle armi e alla fenomenologia della guerra) e politico (il fine che il mezzo serve) Per essere chiari stiamo parlando del soldato che combatte, dell’arma che utilizza e del politico che coordina questi due fattori. Abbiamo imparato ad individuare questi tre elementi attraverso film e romanzi. In molti film di guerra troviamo analizzate le specifiche peculiarità umane dei conflitti trattati: si tratta probabilmente dell’elemento più trattato dal cinema. In molti film di guerra troviamo trattate e criticate le ragioni politiche delle guerre. In tutti i film, per ovvie ragioni, vediamo descritto l’elemento tecnico, inscindibile dal combattimento. In diverse pellicole, si è trattato di come il fattore tecnico (la capacità distruttiva acquisita dall’uomo nel

4

secolo appena trascorso) abbia annichilito ogni ragione umana e politica (Niente di nuovo sul fronte occidentale), o abbia minacciato di farlo in modo irreparabile (Il Dottor Stranamore, The Day After). Tuttavia, negli anni successivi alla Guerra del Golfo, vediamo bene come il videogioco si sia candidato narratore del solo fattore tecnico. Colpa del videogioco? Macchè. Riflettiamo un secondo su queste frasi: «Per ovviare alle attuali carenze in materia di fuoco d’appoggio, abbiamo concepito il progetto Arsenal Ship. Si tratta di una nave semplice e relativamente economica, in grado di trasportare oltre 730 missili da crociera… «/…all’atto pratico questa nave dovrebbe essere in grado di vincere una guerra da più di 500km di distanza e con una sola bordata di missili, per poi tornare a casa a rifornisi per la guerra successiva.» (Ammiraglio Bill Owens, ex vice capo degli stati maggiori riuniti, US Navy) «L’aspetto negativo di questa potenza e flessibilità (del carro armato M1A2, ndGunny) è che per trarne il meglio il capocarro deve essere dotato di eccezionale prontezza e genialità nello sfruttare le situazioni che si presentano di volta in volta. Tutavia, basta pensare alla nuova generazione di ragazzi che hanno passato i primi anni della loro vita davanti ai computer e a giocare con i videogames per capire che sono perfettamente in grado di far funzionare il sistema.» (Tom Clancy, Armored Cav) La guerra è un videogioco, o i videogiochi aiutano a combattere meglio? Andiamo verso una realtà in cui la tecnologia renderà obsoleto il contatto con il nemico? In tal caso non potremo capire se la nostra console sta guidando un vero sistema d’arma o se invece è semplicemente una console: qualcuno dovrà avere la cortesia (o l’onestà?) di spiegarcelo. Ci sarà poco da ridere, in tal caso, ripensando al vecchio Wargames. Andiamo verso una finzione ludica dove l’ultima frontiera da spezzare sarà l’effettiva morte dell’utente? Ma ci sarà davvero bisogno che venga spezzata, date le nuove caratteristiche della guerra che andavamo esamindo sopra? Durante la guerra del Kosovo le forze NATO non riportarono nemmeno una vittima… «Nelle VR Mission si ha una sensazione di dolore e di ansia. L’unica differenza è che non succede davvero.» «Questo è quello che vogliono farti credere, per toglierti la paura che invece si prova nelle situazioni di combattimento. La guerra come un videogioco. Quale sistema migliore per forgiare il soldato supremo?» (Metal Gear Solid2: Sons of Liberty) Mentre la finzione ludica e la finzione bellica convergevano idealmente sui videoschermi dei PC e dei cacciabombardieri F16, il cinema prendeva fiato…


:SPECIALE:

Ring#11

La guerra da vicino 1998: esce in tutto il mondo Salvate il Soldato Ryan. Dopo un periodo di assoluta carenza di cinema bellico, il pubblico mondiale si trova catapultato negli orrori di Omaha Beach. Le ogive dell’artiglieria pesante sollevano nubi di sabbia e sangue. Piovono arti, e tanti premi Oscar. Il cinema bellico, grazie a Salvate il Soldato Ryan, conosce una nuova giovinezza. I registi imparano a ripercorrere i campi di battaglia della modernità, con una nuova parola d’ordine in testa: realismo. Che poi il concetto si concretizzi in un’effettiva ricerca di autenticità (Black Hawk Down) o in un paravento per nascondere una certa immaturità contenutistica (We were Soldiers) pare essere una questione secondaria. I risultati, a prescindere da essa, sono piuttosto buoni. Il videogioco non sta a guardare: Medal of Honor invade la ludoteca degli utenti Sony, Commandos quella dei Pcisti. Tramontano i simulatori bellici, tramonta la guerra tra oggetti. L’uomo ricompare nel videogioco bellico. Le conseguenze? Racconta, il videogioco, la storia di persone coinvolte nelle vicende belliche, ne analizza le motivazioni/i dubbi/le convinzioni? No, non lo fa. Approfondisce, il videogioco, le ragioni politiche o i presupposti storici delle guerre che rappresenta (in un modo che esuli la semplice e necessaria descrizione del contesto d’azione, ovviamente )? No, non lo fa. Le conseguenze. Prima si sparavano missili e si sganciavano bombe su sprite a forma di carro armato. Ora si sparano pallottole e si lanciano bombe a mano su agglomerati poligonali a forma di uomo. Il carro perde ingranaggi, l’uomo perde sangue. That’s all? Ho paura di si. Quand’è stato, esattamente, che ho smesso di considerarmi un wargamer incurante del contesto? Mi capitò, dieci anni fa, di visitare le spiagge della Normandia. Riportai con me un piccolo oggetto, una specie di giocattolo che emetteva uno schiocco metallico, e che i paracadutisti della 101a aviotrasportata USA chiamavano cicala. Serviva loro per riconoscersi senza rischio durante le operazioni notturne. L’avevo acquistato in un museo bellico poco distante dalle scogliere di Pointe du Hoc. Non lasciai in pace per un istante i miei genitori durante il viaggio di ritorno, suonavo la cicala ogni trenta secondi. Ma sono una persona disordinata, e non tardai a perderla una volta tornato a casa. L’ho ritrovata solo l’anno scorso, mentre gettavo via alcuni ricordi d’infanzia. In qualche modo non mi sembrava all’altezza del ricordo che ne avevo; era quasi un tesoro per me, quando l’avevo comprata. Oggi le mie disponibilità economiche sono un po’ diverse. Possiedo un telefono cellulare, e posso contattare chiunque in tutta Europa nel giro di dieci secondi. I seimila ragazzi che la notte del 5 giugno 1944 si gettarono da degli alianti di cartone, per riconoscersi nel buio, avevano solo un giocattolo che io per 8 anni avevo dimenticato in mezzo ai mattoncini Lego…

5

Per la prima volta, sentii dentro qualcosa di sinistro. Quell’oggetto davvero non stava bene in mezzo ai miei giocattoli. Perché non era un giocattolo, benché me lo avessero venduto come tale. Forse ero cambiato io. Ne erano successe di cose in quegli otto anni. Alcune delusioni. Una certa maturazione personale. Salvate il Soldato Ryan. Non faccio del revisionismo: lo Sbarco in Normandia è stato una fortuna per l’Europa e per il mondo intero. Ma qualcosa comunque mi sembrava stonato. Quell’oggetto non aveva niente a che fare con il ricordo o la gratitudine verso chi quel giorno era morto. E non era neppure quello lo scopo per cui mi era stato venduto. Non ci trovavo niente di immorale o riprovevole, quei soldi probabilmente erano serviti per il mantenimento del museo. Allora perché quella sensazione non se ne andava? E perché rispuntò fuori alcuni mesi dopo, mentre provavo in un ipermercato la demo di Medal of Honor: Frontline? All’inizio andava tutto bene: reduce da Halo, in un minuto mi ero ambientato. Ero una scheggia, avevo già un’idea precisa di come infilarmi in un grosso bunker che svettava sulla spiaggia. Ah, di che spiaggia si tratta? Mi accorsi di trovarmi ad Omaha Beach, nel settore Dog Green. Un brivido: otto anni prima, io ero stato su quella spiaggia. L’avevo calpestata, e avevo visitato quello che rimaneva di una batteria di grossi pezzi di artiglieria tedeschi a pochi chilometri da lì. Delle lunghe, pesantissime canne nere che sbucavano da una collina di cemento. Mi sono accorto che non mi stavo più divertendo. Mi sembrava che qualcuno avesse cercato di ricostruire un mio ricordo con poligoni e texture, e che lo vendesse a 59 euro sullo scaffale di un ipermercato. Poco più in là una commessa si affaccendava nel cercare di rifilare GTA:Vice City ad un ragazzetto. Se il ragazzetto avesse chiesto un gioco di guerra, magari la commessa gli avrebbe proposto l’acquisto di quella Omaha Beach poligonale. Il bambino avrebbe ricordato poco di quanto ascoltato svogliatamente dall’insegnante nel mezzo di una classe rumorosa. Un nome, forse: Normandia. Poco altro, immagino. Per il bambino del supermarket, Medal of Honor: Frontline avrebbe rappresentato l’unico mezzo per imparare qualcosa sugli eventi del 6 giugno ’44. Il suo unico ricordo degli avvenimenti sarebbe stato il livello di un videogioco, in cui un soldato in tuta vede deve uccidere soldati in tuta grigia. Almeno finché non sarebbe arrivato un amico a giocare un doppio in split-screen. Per molti mesi un team di tecnici aveva lavorato sodo alla ricostruzione dell’evento bellico. Il realismo storico, visivo e sonoro, sarebbe stato superiore a qualunque gli avesse detto la sua insegnate nei 15 minuti di tempo che il programma scolastico concede ai fatti del ’44. Ma nel retro della copertina, prima di iniziare, avrebbe letto frasi di questo tipo: “usa fino a 14 armi contro dei nemici realistici”/“esaltati immergendoti nei più sanguinosi scontri armati del fronte occidentale”.


:SPECIALE:

Ring#11

È questa quella che, se riusciamo a trattenere le risate, possiamo chiamare una ‘rilettura storica’ ad opera del videogioco. Ma se abbiamo l’ardire di non accontentarci di questo livello di approfondimento, ci sono altre considerazioni che possiamo chiamare in causa. Che lo voglia o meno, il videogioco bellico di oggi non è più semplicemente un passatempo avulso dalla realtà. Il videogioco bellico di oggi, laddove pretende di rendere realistica l’esperienza, fallisce totalmente nello assolvere alle sue responsabilità. Domanda: Di che responsabilità stiamo parlando? Da quando i videogiochi sono responsabili?

Risposta: io si, ritengo che i videogiochi, nel momento stesso in cui decidano di trattare tematiche potenzialmente in grado di modificare la coscienza storica di una persona, divengano responsabili. Non c’è ne ci sarà mai una legislazione che impedisca la trattazione superficiale o errata di materie storiche nei videogiochi: democrazia; libertà d’espressione; libertà di informazione/disinformazione. È plausibile pensare, invece, che con il tempo si formi una sorta di coscienza comune che senza bisogno di un’azione esterna critichi e disapprovi la realizzazione di giochi storici inutili o addirittura dannosi, spingendo i game desinger verso una direzione migliore? Ma soprattutto, esiste una direzione migliore?

La guerra dall’interno Marzo 2001: esce in tutto il mondo Black Hawk Down. Ridley Scott rinchiude le sue opinioni in una cassaforte, gira il film, e se le riprende solo a lavoro ultimato. Black Hawk Down è un documentario (e lo sarebbe ancora maggiormente se fosse stato conservato l’amarissimo finale originario, visionabile nell’edizione DVD), e il suo obbiettivo è descrivere. Black Hawk Down procura allo spettatore gli elementi della vicenda bellica, senza celare l’orrore e senza fornire comode letture/giustificazioni artificiose. Che sia un pacifista che sia un militarista, lo spettatore viene inchiodato di fronte ai fatti, e nel dare una sua interpretazione è costretto a fissare la realtà negli occhi. Pochi mesi dopo l’uscita della pellicola, fa la sua comparsa negli scaffali il tie-in videoludico del film di Scott (Delta Force: Black Hawk Down). La ricostruzione della Mogadiscio digitale è buona. Il realismo delle armi e delle tattiche è buono. Ma è la stessa cosa? Vedere un oggetto poligonale di cui si ignora il nome cadere colpito da un proiettile è un’esperienza traumatizzante? È come vedere Jamie morire dissanguato tra i commilitoni impotenti, o Stuart e Gordon massacrati dalla folla inferocita e denudati? Soprattutto, quegli oggetti poligonali indistinti che sparano dai tetti sono davvero quei mille e più miliziani somali che morirono nel 1993? Inutile dire che no, non lo sono. Volendo essere pessimisti, si potrebbe osservare che ciò che rende un film un degno mezzo d’espressione scompare nel momento stesso in cui l’esperienza diventa interattiva. Una raffica di mitragliatrice calibro 7,62 investe un soldato, che cade urlando. Paradossalmente, la finzione videoludica (che immergendoci nel contesto ci fa capire che quel soldato è ‘nostro compagno’) causa meno turbamento di quella cinematografica, dove lo stesso soldato è un terzo a noi completamente estraneo. La tecnica videoludica, nella sua mera applicazione al contesto bellico, pare totalmente priva della capacità di far riflettere l’utenza. È un sospetto che cresce mentre lo schermo è occupato da America’s Army: le stesse tecniche di rappresentazione di Medal of Honor (spogliate se vogliamo di qualche elemento pseudo-cinematografico), sono agevolemente piegabili a fini propagandistici.

6

America’s Army riproduce fedelmente le modalità di arruolamento e qualificazione al tiro/addestramento dell’US Army. Un filmato, realizzato con identici scopi ed identici slanci retorico/patriottici, risulterebbe quantomai sorpassato e noioso. Ma il gameplay invita la videorecluta a sperimentare, chiudendo gli occhi su qualche ‘hoo-ha’ fuori posto; e magari dicendosi “la guerra non deve essere così male”, mentre scarica su bersagli digitali il suo M16A2 digitale. È questione semplicemente di realismo grafico/sonoro? Non lo credo. È un limite insuperabile del videogioco, che inibisce qualsiasi tentativo di serietà? Non credo nemmeno questo, troppo fresco è ancora il ricordo di Metal Gear Solid (per quanto il suo contesto non sia propriamente bellico). Cosa hanno da dirci in proposito gli ultimissimi videogiochi di guerra? L’anno scorso ha fatto la sua comparsa sugli scaffali l’attesissimo Vietcong. In esso non è difficile scorgere un tentativo di ricostruzione visiva/sonora senza precedenti. Ma non è solo questo che stupisce: in Vietcong si ha l’effettiva sensazione di far parte di un gruppo di soldati. Con soldati non si intende oggetti texturati simili a soldati, si intende proprio soldati. Persone, ognuno con delle caratteristiche proprie e dei tratti distintivi. Lodevole è anche lo sforzo di ricreare l’atmosfera opprimente delle giungle del sud-est asiatico, di simulare lo stress del continuo alternarsi tra combattimento spietato e inquietante silenzio. Non è un punto d’arrivo, ma può essere un punto di partenza. Il futuro Full Spectrum Warrior, stando ai programmatori, si ripromette di ricreare il panico e la frenesia degli scontri a fuoco con grande efficacia (non che Operation Flashpoint avesse fallito). Tutto questo è sicuramente interessante, sicuramente positivo. Ma la domanda è: è sufficiente che un videogioco di guerra comunichi panico e ansia, per poter dire ‘ok, questo è quello di cui sono capaci i videogiochi di guerra’?


:SPECIALE:

Ring#11

Chiudiamo la rassegna parlando di un ultimo videogioco. Si chiama Trench War, ed è un videogioco praticamente perfetto. Ha il solo difetto di non esistere, ma spero lo tollererete per qualche minuto. Trench War è un FPS ambientano nel 1917 a Verdun, Francia nord occidentale. Il protagonista è un fante di nome Jacques Junot. Il suo arrivo in un reparto di prima linea è coincidente con una pausa di due settimane nei combattimenti. Nel frattempo (alcune ore di gioco), l’utente ha il tempo di familiarizzare con i commilitoni. Soprattutto uno di loro, il caporale Francois Ney, che gli da un sacco di consigli utili, e gli confida di essersi fidanzato da poco con sua sorella maggiore, della quale Jacques non ha più avuto notizie dall’inizio della guerra. Finchè tutto è pronto: si sta per scatenare l’offensiva contro le posizioni tedesche. Ma la notte prima dell’attacco, Jacques non ha dormito affatto. Infatti, mentre scortava un addetto ai dispacci fino al comando francese, ha avuto modo di origliare una discussione: il comandante in capo della sua armata, il generale Nivelle (storico, ndGunny), ha concepito questo attacco come un mero diversivo al fine di sguarnire le posizioni tedesche più a nord, e si aspetta una percentuale di morti vicina al 100%. Il gioco fornisce diverse opzioni: si può decidere di tenere l’orribile segreto per se; si ha la semplice possibilità di parlarne con l’amico Francois; si può anche decidere di parlarne ad alcuni ufficiali, per tentare in qualche modo di fermare la carneficina annunciata. Se l’opzione scelta è una delle prime due, l’attacco è inevitabile. Alle 6 del mattino, 14.000 fanti infreddoliti si preparano ad uscire allo scoperto, addentrandosi nel terreno lunare che li separa dalle linee tedesche.

>>Stop’n’Go>> 10 secondi al box

Alb Troppo difficile, hanno rovinato il gioco.... Neuronal Noise anche secondo me è troppo difficile... son al samurai vicino al cimitero, dopo la settima volta (non l'ho fatto nemmeno scendere da cavallo) ho lanciato il pad per terra Marittiello idem...ma il pad crystal non lo lancio a terra! Sti giochi dove devi gestire le pozioni li odio...dammi la sfida è te la supero, ma non farmi tornare indietro perchè ho scoperto che improvvisamente non mi dai più pozioni...mah Alb è proprio questo il tipo di giochi che fomentano il mercato dei giochi copiati :-((( Bilbo Baggins embè certo non è più sufficiente il prezzo alto adesso pure se sono troppo difficili è lecito masterizzarli maperpiasè...

Ad un primo fischio, scattano in piedi. Poco prima del secondo fischio, le batterie tedesche allungano il tiro. Un enorme proiettile da 280mm impatta poche decine di metri all’esterno della trincea. La vibrazione fa perdere l’equilibrio a diversi uomini, ma la sorpresa peggiore arriva quando tutti si sono ripresi dallo shock: il capitano che avrebbe dovuto dare il segnale per l’attacco, che si ergeva sul bordo della trincea, è stato ucciso dalle schegge. Il sergente maggiore, secondo le gerarchie, subentra al comando. Ma è esitante, sentendo il formidabile urlo dei cannoni tedeschi. Il giocatore ha un’ultima possibilità di raccontare al suo comandate quello che ha sentito: forse il peggio può ancora essere evitato. Se ancora una volta prevale l’inazione, l’attacco viene lanciato. La massa di uomini, con un urlo in bilico tra la rabbia e la disperazione, si lancia compatta verso i cavalli di frisia. Ma dopo pochi metri, un proiettile di mitragliatrice di grosso calibro colpisce all’addome Francois, che si accartoccia al suolo, per poi cominciare a contorcersi urlando. Compi la tua scelta, guerriero digitale: il sergente maggiore ti ha già addocchiato; ha l’ordine di sparare a chiunque desista dall’attacco. Ti fermi a soccorrere Francois e rischi che il sergente ti faccia secco? Lo fai tu secco prima? Aiuti i tuoi compagni che vengono fatti a pezzi trenta metri più avanti sperando che Francois sia ancora vivo, quando tornerai? Ti piacciono ancora i videogiochi di guerra, Soldato Jacques? Ti piacciono ancora i videogiochi realistici, Soldato Jacques?

Ninja Gaiden: Non ci sono più gli hardcore gamers di una volta (messaggi liberamente tratti da it.comp.console)

Alb Ma si, non si possono pagare 60 euro per dei giochi che hanno ancora questi difetti, come top spin che doveva essere un gioco di tennis simulativo ed invece sembra di giocare a guerre stellari tanto è arcade, ho speso 230.000 delle vecchie lire per portare a casa 2 videogame frustranti, non è tanto il prezzo, perchè mi sarei pentito del loro acquisto anche se li avessi pagati 5 euro l'uno, è proprio il fatto di far uscire il gioco con simili stupidi difetti che mi fa incazzare! E' ovvio però che se una persona spende tanti soldi per dei prodotti che lasciano un "leggero" disappunto, è lecita la sua propensione a farci un pensierino nel prendere la prossima volta un gioco copiato. Non capisco come questi c....o di produttori di videogiochi non si rendano conto di simili difetti, che sono così palesi, lampanti, se ne accorgono TUTTI tranne loro, o sono degli idioti o sono dei pazzi.... Gian Concordo quasi su tutto, tranne che sulla parte riguardante Top Spin. A me ha divertito moltissimo, nonostante

7

non siano mancate caterve di bestemmie. Non sarà il massimo della simulazione, ma certo un ottimo gioco di tennis. E comunque vorrei far notare come anche sull'amato cubetto la situazione sia identica. F-Zero è ingiocabile, VJ difficilissimo, Metroid frustrante. Sarò io che mi sono imborghesito, ma da un gioco pretendo divertimento e sfida moderata, non un accanimento nei miei confronti o il fatto che per andare avanti siano richieste ORE di apprendimento... Mpjedi Vi dico solo una cosa.... SIETE DEI NIUBBI PORCO MONDO VI MERITATE I GIOCHI DI MERDA DELLA EA ZIO PORCO INFAME LADRO !!!!!!!!!!!!!!!!!!!! E fanculo a tutti!!!!

Recensione di Ninja Gaiden a pag 23


:SPECIALE:

Ring#11

Vincitore nella categoria ‘Excellence in Level Design’ ai Game Developers Choice Awards 2002: Ico affida al level design la trasmissione di buona parte del patrimonio emozionale che lo contraddistingue. Abbacinanti contrasti di luce memori della pittura di Giorgio De Chirico screziano gli spazi malinconici di un’immensa fortezza di ispirazione romanica.

di Cryu

Se l’architettura e il design sono il mestiere di chi progetta ambienti in cui vivere, il level design è quello di chi crea ambienti in cui giocare. Silicon Valleys: un viaggio nelle inesistenti regioni del videogioco. Il level design ricopre spesso un ruolo ornamentale. È lo sfondo, la quinta, il diorama davanti al quale si gioca. Se ben fatto, rende gradevole il soggiorno nel videomondo. Altrettanto spesso il level design è invece strettamente legato al gameplay. Ne esalta o ne inficia le potenzialità, costituendo una parte integrante del sistema di gioco. Tomb Raider avrebbe fatto comunque storia se fosse stato ambientato in un magazzino abbandonato

piuttosto che in affascinanti siti archeologici? Perché il tanto discusso Super Mario Sunshine rimane comunque il miglior platform dell’ultima generazione hardware? Nel level design di questi giochi risiedono le risposte a tutte queste domande. E Gran Turismo 3 sarebbe ugualmente appassionante se come circuito di gara disponesse del solo ovale Test Course? Corrispettivo corsistico del level design, dal canto suo il track design è un fattore de-

cisivo nella creazione di ogni buon simulatore di guida. Dai platform agli sportivi passando per gli sparatutto in prima persona: Silicon Valleys ripercorre i luoghi di dodici videogiochi che hanno lasciato il segno nella storia del level design tridimensionale. Dodici scenari digitali creati appositamente per giocare. Dodici mondi virtuali indimenticabili.

Platform adventure [1]: La saga di Tomb Raider (Eidos, 1996-2003) Eccezionale all’alba del primo episodio della serie, il level design di Tomb Raider si è reso colpevole negli anni di una mancata evoluzione che ne ha decretato la progressiva obsolescenza. Nel 1996 la saga debutta rivoluzionando il genere degli adventure in terza persona. Molto più che un Prince of Persia (l’originale del 1989) in tre dimensioni, Tomb Raider stupisce il mondo per una progettazione degli ambienti di gioco che ha dell’incredibile: per varietà, complessità e ricercatezza stilistica. È il periodo in cui si inaugura il dibattito arte/videogiochi, e gli sforzi di Core per riprodurre in SoftImage architetture inca (fig. 1), greche ed egizie (fig. 2) non passano inosservati. L’esperienza di gioco si impregna di un gusto archeologico secondo a nessun film di Indiana Jones. Lara Croft diventa in brevissimo tempo il simbolo del videogioco anni ’90, e il merito non è certamente da attribuirsi solo alla generosità della sue misure.

A partire dal 1998, con la puntualità svizzera degli aggiornamenti della serie FIFA, Eidos rilascia con cadenza annuale quattro controversi seguiti. Tomb Raider II – The Dagger of Xian, è ancora un grande successo di pubblico e critica, ma rispetto al predecessore offre un level design meno ispirato, scevro di quel sapore misterioso conferito all’episodio precedente dalla sua studiata caratterizzazione archeologica. Tomb Raider III – Lara Croft Adventures abbina location di grande fascino e complessità architettonica, come la giungla dei primi stage, ad ambientazioni oscure ed emotivamente scariche, come lo scenario londinese. Ma a questo punto la serie soffre un gameplay sopravvissuto a se stesso, che non paga solo una generale discontinuità qualitativa, quanto una concezione di level design inadeguata a un panorama software ormai assuefatto al fascino del free-roam-

1

2

8


:SPECIALE:

ing. Nel 1996 spendere 30 secondi attraversando un corridoio deserto costituiva di per sé un intrattenimento efficace. Si stava esplorando un videomondo tridimensionale, con totale libertà di movimento, attraverso i resti di civiltà sepolte e dimenticate. Col passare degli anni – e degli episodi – questo appeal viene completamente meno. L’originale Tomb Raider e Super Mario 64 ispirano un’infinità di cloni. Deambulare liberamente per il videomondo, di per sé non costitui-

Ring#11

sce più né una novità né un divertimento. Ma Core non se ne accorge, e aspetta fino al quarto episodio della serie per riconsiderare lievemente il proprio approccio al level design, creando poi per Tomb Raider - The Last Revelation livelli più compatti, forieri di un ritmo di gioco meno diluito. Non si tratta però di una rivoluzione, bensì di un timido accorgimento a un sistema di gioco obsoleto, che toccherà il fondo della sua picchiata qualitativa con il sesto episodio del-

la serie: Tomb Raider -The Angel of Darkness. La domanda sorge quindi spontanea: com’è possibile che le brillanti menti che nel 1996 rivoluzionarono gli action adventure in 3D, negli anni a venire siano rimaste totalmente a corto di idee? La risposta è semplice: i padri di Tomb Raider, Toby Gard e Paul Douglas, lavorarono soltanto al primo episodio della serie.

Platform adventure [2]: Prince of Persia: The Sands of Time (Ubisoft, 2003) Atmosfere soffuse, vedute da mille e una notte, stellate che incappucciano chiostri esotici guarniti di palmeti: Prince of Persia: The Sands of Time strizza l’occhio a Ico regalando a Lara Croft una vacanza in Medio Oriente. La critica lo ha paragonato soprattutto a Ico e a Devil May Cry

(a quest'ultimo per via delle velleità stylish dei combattimenti), ma ai fini di un esame ambientale POP si presta innanzitutto al paragone con il solito Tomb Raider. Nel paragrafo precedente si accertava come Tomb Raider sia morto di vecchiaia, riproponendo episodio dopo episodio ritmi e sti-

lemi ludici sempre più obsoleti. Per conseguire tempi di fruizione moderni, POP schiva ogni possibile freno all'azione, su tutte la certosina fase di esplorazione che in Tomb Raider precede la risoluzione dei puzzle ambientali. In POP raramente ci si interroga sul da farsi: c'è sempre un flashback, una cut-scene, un'inquadratura ammiccante o un PNG che interviene a illustrare la manovra da effettuare o il percorso da seguire. Se la lentezza è uno dei fattori che negli anni ha decretato l’inappetibilità di Tomb Raider, POP agevola e fluidifica l'azione finanche a degenere nel tutorial e nella progressione inerziale. Se non proprio valorizzato da alcune scelte di game design (come l’invadenza di certi consigli della coprotagonista), il level design di POP viene incoronato da soluzioni registiche d’autore, che nelle fasi finali superano addirittura i virtuosissimi di Ico. Alla telecamera manuale si affiancano inquadrature fisse dalle quali emerge una spiccata coscienza fotografica, massimamente valorizzante del fascino di ogni architettura. Sul fronte della credibilità, il palazzo di POP (fig. 3) denuncia troppo apertamente la sua funzione ricreativa. Laddove il primo Tomb Raider infondeva la suggestione di visitare i resti di civiltà scomparse, in POP scorrono ambienti eterei, evocativi, ma spesso macchiati da una palpabile artificialità di fondo. Ciò si ravvisa sia ad un'analisi tecnica (l'impressione alle volte è di trovarsi di fronte a splendide facciate di cartone dietro alle quali il nulla) che strutturale, dal momento che qualche location soggiace troppo vistosamente allo scopo dell'esplorazione lineare. A farne le spese è la sospensione dell’incredulità, perché una cosa è vivere un’avventura ambientata in un antico palazzo persiano, e altra è percepire che quel palazzo è stato costruito cin-

3

4

9


:SPECIALE:

que minuti fa solo per farci divertire. In definitiva, il level design di POP attualizza Tomb Raider sulla scia di Ico. Il risultato è un mondo elegante ma agile, modellato sulle doti atletiche del principe, che nel

Ring#11

suo sviluppo dinamico recupera parte di quell’immediatezza dell’originale Prince of Persia andata perduta nel disorientante 3D di Tomb Raider. A conti fatti, di quest’ultimo rimane insuperata la credibilità ambientale e l’esperienza

turistico/archeologica; la magia nostalgica della prigione di Ico, dal canto suo, riecheggia nell’inquietudine surreale che sul finire di POP albeggia sulla Torre Aurora (fig. 4).

Platform adventure [3]: Legacy of Kain – Soul Reaver (Eidos, 2000) La caratteristica chiave del gameplay di Soul Reaver è da ricercarsi nella rilevanza ludica che Crystal Dynamics ha saputo conferire al level design del reame di Nosgoth. La trovata della doppia dimensione si traduce nella duplicità del design di tutti ambienti di gioco. Esistono due versioni per ciascuna location: reale e spettrale (fig. 5 e 6). La risoluzione di molti enigmi prevede che il giocatore alterni le due configurazioni. Laddove nella dimensione reale la distanza tra due piattaforme non è copribile con un salto, la stessa distanza può ridursi grazie alle deformazioni subite dall’ambiente nella dimensione spettrale. 5

Singolarità di Soul Reaver è il meccanismo di risoluzione dei puzzle a cui addestra il giocatore: una sorta di pensiero laterale applicato al game design tramite il level design. Se l’ambiente pone un problema, la soluzione non sarà da ricercarsi attraverso il suo studio, bensì questionando a monte i termini del problema modificando l’ambiente stesso. Quando in Tomb Raider il giocatore rimane bloccato in situazioni apparentemente insolubili, non gli resta che prodursi in una minuziosa osservazione dell’ambiente, alla ricerca di appigli, vie d’uscita, congegni dapprima ignorati. In Soul Reaver quandunque gli ambienti pongono degli ostacoli alla loro esplorazione, al giocatore è concessa la facoltà di intervenire direttamente sulla loro morfologia. Al design di Soul Reaver è poi deputata la produzione si quell’atmosfera di perdizione, fatalità, e irrecuperabilità che permea l’intera avventura. Le architetture del Reame di Nosgoth, dai Cancelli all’Abbazia Sommersa, si distinguono per una forte ispirazione agli stili gotico e moresco. Ma ciò che le rende così suggestive è l’abbandono e il decadimento che paiono aver subito. Crystal Dynamics ha allestito uno scenario di agghiacciante miseria in cui è evidente la traccia di un passato grande e ambizioso, quando Nosgoth non era ancora stata corrotta dal malgoverno di Kain. La Cattedrale Silenziosa, con i suoi corridoi angusti cuciti in altezza da archi a sesto acuto, e i Cancelli di Nosgoth (fig. 7), “che una volta si estendevano fino al cielo”, producono un effetto destabilizzante all’occhio dell’osservatore. Lo spazio di queste costruzioni è vertiginosamente verticale. Sono templi che evocano il tempo di una civiltà industriosa e fiorente, infine decaduta e dimenticata. In Soul Reaver II e Legacy of Kain: Defiance (in foto la Saraphan Stronghold – fig. 8) esploderà in pompa magna il talento architettonico di Crystal Dynamics. Forti dei supporti hardware di ultima generazione, gli ambienti realizzati per i due seguiti offrono un impatto estetico nettamente superiore. Tuttavia, il fascino delle location del primo Soul Reaver rimane tutt’oggi ineguagliato, in quanto prodotto dalla risonanza di uno sfondo narrativo extradiegetico. La storia di Soul Reaver era suggestiva soprattutto perché scaturita da un’altra storia, maestosa, lontana e mai raccontata, che nel presente lasciava memoria di sé solo in migliaia di metri cubi di roccia scolpita.

10

6

7

8


:SPECIALE:

Ring#11

Platform adventure [4]: SOS The Final Escape (Irem, 2002) Il singolare level design di SOS The Final Escape costituisce la condizione necessaria del gameplay che in esso si dipana. Lo scopo del gioco è semplice: fuggire da una città che sta crollando sotto gli effetti di un sisma. Solo un level design mutevole in tempo reale può consentire questo tipo di gameplay, dove il giocatore deve riconsiderare continuamente le proprie intenzioni per assecondare i repentini sconvolgimenti della morfologia degli scenari:

collo verso l'uscita, continuando a variare la traiettoria della corsa per schivare le macerie in caduta libera.

La terra trema. Al cedimento improvviso del soffitto mi affretto verso l'uscita più vicina. Una violenta scossa la ostruisce, obbligandomi alla ricerca di un'altra via di fuga. Una nuova scossa smuove i detriti di quello che fino a un attimo prima era un vicolo cieco, ma che ora socchiude un pertugio verso la salvezza. La scossa non cessa e sotto una pioggia di calcinacci mi scapi-

9

Il level design rappresenta l’autentico avversario contro cui il giocatore deve confrontarsi per tutto il gioco. Non deve ingannare il fatto che l’avventura incorpori una sottile trama comprensiva di ‘cattivi’ della situazione. In SOS i contendenti sono il giocatore e il sisma. L’uno contro l’altro, dall’inizio alla fine.

Il sisma, entità estratta, si concretizza in una città suicida che mentre è intenta a distruggersi fa di tutto per trascinare con sé il giocatore (fig. 9). Da teatro dell’azione di gioco, in SOS il level design si emancipa ad antagonista del giocatore. Come le guardie in Metal Gear Solid, come gli zombie in Resident Evil, come le forze dell’ordine in Grand Theft Auto. In qualità di minaccia, il level design è anche responsabile dell’emozione dominante l’intera esperienza di gioco: il panico. Con i survival horror il videogioco ha suscitato paura, angoscia, orrore, ma mai panico. Quando in SOS un intero cavalcavia si abbatte a pochi metri dal protagonista, o quando il ponte sotto i suoi piedi inizia a sbriciolarsi, nel giocatore si infonde un’emozione mai provata prima davanti a uno schermo.

First Person Shooter: 007 GoldenEye (Nintendo/Rare, 1997) Benché si tratti di un gioco datato 1997, la scelta di un FPS significativo dal punto di vista del level design ricade su 007 GoldenEye per un motivo semplicissimo: è l’inventore dello sniper mode, ovvero della modalità di fuoco in prima persona con regolazione manuale dello zoom del mirino telescopico. Proprio attorno alla pratica del cecchinaggio Rare costruì le missioni più riuscite dell’intero gioco. La prima (la diga – fig. 10) e la terza missione (la piana innevata – fig. 11) erano un sensazionale esempio di level design concepito per valorizzare un certo tipo di gameplay. Queste location erano caratterizzate da due elementi che favorivano l’uso del fucile con mirino telescopico:

10

1) Ambientazione a cielo aperto (fig. 10). Ovvero: estensione della porzione di livello “a tiro” dalla singola posizione. 2) Numerose torrette di avvistamento (fig. 11) da riconvertire in postazioni di tiro. Eliminare dalla distanza la sorveglianza delle strutture pattugliate, consentiva una volta giunti sul posto di esplorarle senza il timore di rischiose sparatorie ravvicinate. 11

Azione: Devil May Cry (Capcom, 2001) In Devil May Cry il level design svolge quasi esclusivamente una funzione di cornice dell’azione di gioco, influendo su di essa solo nel momento in cui location particolarmente anguste complicano l’esecuzione delle manovre evasive. Tuttavia, in occasione degli scontri con i boss, l’elemento chiave per il successo è la corretta lettura del luogo della battaglia. Il primo scontro con Phantom ne costituisce un esempio lampante. All’interno di quella che sembra una

cattedrale vivente il giocatore deve impiegare le colonne della sala come riparo dalle bordate di lava del nemico. Ma è solo al livello di difficoltà più elevato che si apprezza una più profonda relazione tra il design della location e la miglior strategia offensiva adottabile. A livello ‘Dante Must Die’, infatti, l’unica arma da fuoco a cui Phantom si mostra vulnerabile è il NightmareB, il misterioso fucile energetico che si ottiene verso la fine della prima tornata di gioco. Apparentemente

11

di scarsa utilità, esso svelerà il proprio potenziale solo riaffrontando l’avventura ai livelli di difficoltà più elevati. Contro Phantom la strategia vincente consiste infatti nell’uso continuativo del NightamareB, i cui raggi carambolano impazziti per il soffitto e le navate della sala colpendo a ripetizione lo scorpione di lava. Una scena illuminante circa la mai troppo apprezzata importanza che una condotta stylish ricopre nell’economia di gioco.


:SPECIALE:

12

Ring#11

13

14

Anche nella sua funzione squisitamente estetica, il level design di DMC si distingue per l’ardita ibridazione di stili architettonici diversissimi. Le influenze gotiche (fig. 12) e neogotiche (fig. 13) sono le più evidenti, tuttavia non mancano all’appello contaminazioni ellenistiche (fig. 14), del medioevo europeo (fig. 15) e di una disturbante bioarchitettura, come nel caso delle colonne pulsanti nella sala di Phantom (fig. 16). Il risultato è un level design stilisticamente azzardatissimo, eppur sorprendentemente coerente ad un’analisi estetica finale. Questo fa di DMC uno dei ‘pezzi d’architettura’ più notevoli della storia dei videogiochi, e costituisce uno degli innumerevoli aspetti in cui l’infausto Devil May Cry 2 paga dazio se paragonato al suo predecessore.

15

16

Sportivi [1]: Aggressive Inline (Acclaim, 2002) I simulatori di skateboard, pattini in linea e i trick game in generale devono al level design almeno il 50% della loro attrattiva. In altre parole, il gioco è divertente se sono divertenti gli stage. Tony Hawk in autostrada sarebbe il gioco più brutto del mondo. Amped 2 con una sola pista perfettamente rettilinea e priva di gobbe sarebbe di una noia indicibile. È questo il motivo per cui nessuna trasposizione videoludica del surf ha mai pienamente convinto. Pennellare evoluzioni intorno a quella che in fin dei conti rimane sempre la stessa onda risulta presto stucchevole. La direzione evolutiva del level design del genere è stata indicata dalla serie di Tony Hawk. Oltre a varie riproduzioni di arene concepite espressamente per lo skateboarding, la serie di Neversoft offre da sempre scenari urbani riconvertiti da arte in teatri di folli evoluzioni su tavola. Aggressive Inline di Z-Axis esplode al massimo le potenzialità di questo approccio, vantando le ambientazioni più improbabili per un titolo del genere. Il risultato è straordinario: stage come quelli al luna park (fig. 17) o al museo (fig. 18) propongono situazioni tanto insolite quanto galvanizzanti. L’esecuzione di un grind lungo i binari di un otto volante piuttosto che sulla colonna vertebrale di un T-Rex regalò emozioni inedite agli appassionati del genere, ed avvicinò i neofiti a una filosofia di gioco che, all’avvento del terzo Tony Hawk, abbisognava di una sferzata di fantasia per recuperare la sua appetibilità originaria.

12

17

18


:SPECIALE:

Ring#11

Sportivi [2]: WRCII Extreme (SCEE, 2002) Con WRCII Extreme la pendenza irrompe quale caratteristica chiave del track design. Si tratta di uno dei rari simulatori di guida in cui i tracciati sono costruiti sfruttando al massimo le tre dimensioni. Il segreto risiede nel tool utilizzato per la loro creazione, denominato ‘Spline World’ dagli sviluppatori di Evolution Studios. Esso permette di generare rapidamente aree tridimensionali con un’estensione che supera i 50 km quadrati, all'interno delle quali viene poi scavato o rialzato il percorso di gara. Laddove negli altri racing game i tracciati sembrano nastri concepiti bidimensionalmente, e solo successivamente movimentati lungo la terza dimensione (con gobbe, salti, ecc.), in WRCII le piste nascono già tridimensionali. Pertanto si sprecano le scalate e gli scollinamenti, con il fattore pendenza che incide palpabilmente sulla condotta di guida, dal momento che successioni di tornanti in leggera salita o in ripidissima discesa esigono un approccio nettamente distinto. “Più di 800 chilometri di piste”, recita uno strillo sul retro della confezione europea. E non uno uguale all’altro, aggiungiamo noi. Ciascuna tappa del World Rally Championship è uguale solo a se stessa. Rispetto al primo WRC emerge una consapevolezza dei track designer molto più lucida. Il risultato è un’enciclopedia di situazioni rallistiche di ineguagliata completezza. Entrando nel merito del cuore della simulazione è d’uopo segnalare la strettezza della carreggiata. Non si tratta di un’esclusiva di WRCII, è la componente chiave della riuscita di ogni simulatore di rally con ambizioni di realismo. Ma limitare l’ampiezza del percorso è possibile solo nel momento in cui il modello simulativo non obblighi a controsterzi esageratamente prolungati, come in GT3, che per questo motivo include tracciati sterrati larghi come autostrade. In ultima analisi, il track design di WRCII si distingue per un fattore che non incide sulla componente simulativa in senso stretto, quanto sull’esperienza di

gioco tout court. Una certa regia, un preciso gusto fotografico sembrano soggiacere alla progettazione di certi tracciati:

19 CIPRO: Una serpentina di aspri tornanti cadenza l’ascesa del versante in ombra di un rilievo montagnoso. A mezzo chilometro dalla vetta la vegetazione si dirada fino a svelare la roccia nuda della sommità. Un ultimo, lunghissimo curvone conduce alla vetta. Lo imposto, scalo due marce e inizio a derapare. A metà traiettoria la Subaru Impreza è investita dalla luce arancione del tramonto che incipria il versante opposto della montagna. Varcato il passo inizia la discesa. Alla prima curva a gomito il piede sprofonda nel freno, ma lo sguardo fugge dal percorso di gara verso il panorama da cartolina che si staglia oltre il guard-rail. Dal fondo valle il nastro d’asfalto risale svelto un nuovo pendio impellicciato di fitta boscaglia. Tra due minuti sarò lassù.

Momenti come questo arricchiscono il feeling di gioco di un piacere turistico mai sperimentato prima in nessun racing game.

Sportivi [3]: SSX 3 (EA, 2003) I giochi di snowboard sono un genere ibrido a metà tra i racing game e i trick game. Velocità e performance stilistica condividono il medesimo gameplay, richiedendo ambienti di gioco parimenti valorizzanti dell’una e dell’altra componente. Ne risultano tracciati innevati che alternano pendenze vertiginose a dossi da cui spiccare voli acrobatici.

20

Oltre ad esplodere entrambe queste componenti, SSX 3 propone un track design rivoluzionario rispetto alla canonica serie di piste affrontabili singolarmente e accessibili solo da menu. Tutti i tracciati appartengono al medesimo luogo virtuale, una gigantesca montagna, esplorabile a prescindere dalla partecipazione alle innumerevoli competizioni ivi allestite. L’organicità dell’ambiente di gioco, che vede ogni pista collegata all’altra dagli opportuni raccordi, dona coesione e consistenza a un track design che si arricchisce del fascino del freeroaming. L’esplorazione, nei giochi di snowboard solitamente relegata alla sola scoperta di scorciatoie, si affianca qui alla velocità e all’esecuzione di trick quale caratteristica chiave del gameplay. Decine di sfide e di bonus conquistabili unicamente setacciando la montagna pongono l’accento su questa componente, esaltata da un look&feel degli scenari che combina panorami

13

da documentario (fig. 20) e sonorità ambientali new age. Ma è nelle ‘Peak to valley races’ che si percepisce tutta la carica innovatrice del track design di SSX 3, ovvero in quelle competizioni che prevedono la discesa a valle da uno dei tre picchi della montagna. Dal picco più alto fino alla città situata alle pendici si frappongono fino a 30 minuti di ininterrotta crociera su neve, attraverso le piste più prossime alla linea d’aria che unisce la sommità all’arrivo. Il continuo (ma invisibile) accesso al DVD consente l’acquisizione in tempo reale dei dati relativi alla porzione di gara immediatamente successiva, traducendo la competizione in corso in un’esperienza di gioco inedita per estensione e continuità. Lo sviluppo di un ambiente di gioco innovativo e della tecnologia necessaria a sorreggerlo è pertanto la pietra angolare su cui Electronic Arts ha edificato uno dei migliori titoli sportivi di sempre.


:SPECIALE:

Ring#11

Platform: Super Mario Sunshine (Nintendo, 2002) Il level design di Super Mario Sunshine fa acqua da tutte le parti. Non che sia un male. L’elemento liquido costituisce infatti il leit motiv di tutti i mondi in cui è ambientato il gioco. La scelta, prima ancora che da ragioni estetiche o atmosferiche, è dettata da un game design teso a esplodere tutte le possibilità ludiche dell’acqua in ambito platform. In assetto ‘pistola ad acqua’ lo Splac 3000 in dotazione a Mario regola l’interazione con le creature dell’Isola Delfinia, mentre in assetto jet pack agevola i movimenti dell’idraulico, spostando il baricentro della deambulazione piattaformica verso le fasi aeree. Non a caso i livelli di SMS presentano un accentuato sviluppo verticale rispetto a Super Mario 64. Il potenziamento ‘Spruzzoturbo’ comprime i tempi di risalita laddove la godibilità delle scalate più babeliche potrebbe venir compromessa da frustranti cadute. Sulla scia di SM64, anche SMS rifugge mondi progettati per assecondare un’esplorazione lineare

lungo determinati percorsi (alla Ratchet & Clank, per esempio), a favore di morfologie più equilibrate, compatte, immediatamente zeppe di cose da fare, mai dispersive o disorientanti. Perché deambulare liberamente per il videomondo, di per sé non costituisce più né una novità né un divertimento. Nintendo lo sa. Quindi non tanto ‘livelli’, quanto ‘paesaggi’: ambienti dalla conformazione irregolare, credibile, dalla fortissima caratterizzazione mariesca. È quest’ultimo punto una evoluzione stilistica rispetto a SM 64. Laddove il classico stage innevato di SM64 avrebbe potuto essere l’ambientazione montagnosa di qualsiasi platform game, in SMS ciascun livello trasuda identità nintendiana e demenzialità idraulicobaffuta. Le casette di Colli Ariosi (fig. 21), i prati di girasoli sorridenti, lo spassoso luna park con la giostra degli Yoshi: tutte impagabile cartoline di level design rigorosamente Mario-style. A ciò si aggiunge il dinamismo dei vari mondi, mutevoli col prosieguo del gioco al

fine di offrire situazioni ludiche sempre nuove nei medesimi spazi. Un’ultima riprova di sopraffina competenza in materia di level design è testimoniata da un numero di missioni subacquee sorprendentemente basso per un gioco in cui l’acqua la fa da padrone. Nintendo è perfettamente consapevole del ritmo lento e della dispersività che da sempre affliggono le fasi subacquee dei videogiochi, e ne ha pertanto ridotto al massimo la presenza in SMS.

21

First Person Adventure: Metroid Prime (Nintendo, 2002) Dominatore incontrastato dell’edizione 2003 dei Game Developers Choice Awards, Metroid Prime si è aggiudicato entrambi i riconoscimenti di “Game of the Year” ed “Excellence in level design”. Ancora una volta l’esame ricade su ambienti digitali di rilievo sotto entrambi i profili ludico e architettonico. L’esplorazione del pianeta Tallon IV procede vivace lungo tutti e tre gli assi cartesiani, approfittando di un sistema di controllo così riuscito da non risentire della congenita incompatibilità della visuale in prima persona con le manovre di salto. Lo sviluppo di questa componente platform accentua il distacco tra MP e il genere FPS, tradizionalmente più votato all’azione che all’esplorazione. Esplorazione peraltro condita dagli half-pipe e dalle sezioni su rotaia dedicate alla ‘morfosfera’: perfettamente integrate con il resto dei livelli, tanto da non dare mai l’impressione di un bizzarro sottogioco estraneo al gameplay in cui si inserisce. Una suprema forma di integrazione tra sistema di controllo, gameplay e level design si realizza in occasione degli scontri con i boss (fig. 22). Ad agevolare la messa in atto della miglior strategia evasiva/ offensiva non interviene solo il sistema di lock-on, ma anche la pianta circolare delle arene che ospitano la battaglie.

Paradossalmente, il meglio e il peggio del level design di MP risiedono entrambi nel criterio di stratificazione secondo cui Tallon IV si lascia esplorare. Ciascuna location non si mostra mai tutta in una volta, ma svela nuovi aspetti di se stessa ad ogni tornata che segue l’acquisizione di una nuova abilità. Ma il ‘backtracking’, dal canto suo, costituisce l’unico intoppo alla piacevolezza dell’esplorazione, da metà gioco in poi accompagnata da un’impressione di ripetitività forse evitabile implementando un sistema di teletrasporto. Sotto il profilo stilistico, per la modellazione di Tallon IV Retro Studios ha visualizzato una civiltà aliena attraverso la creazione di uno stile architettonico ad hoc. Dopodiché ha proceduto alla ragionata demolizione degli scenari costruiti, per restituir loro un aspetto remoto, decaduto e sottilmente malinconico. Il procedimento è assimilabile a quello adottato in ambito cinematografico per l’allestimento di set anticati, ad esempio i ruderi di templi e statue che compaiono nelle pellicole de Il Signore degli Anelli, i quali risalgono a ere precedenti rispetto a quella in cui sono ambientati libro e film. È nel complesso delle Chozo Ruins (fig. 23) che MP esprime maestoso le sue migliori qualità estetiche in fatto di level design. Nell’e-

14

splorazione di questa regione si ritorna a sperimentare il gusto archeologico che permeava il primo Tomb Raider, con in più lo stupore derivante da ambienti dal look violentemente “altro”, inedito, alieno. E ancora una volta ci si scopre a giocare sotto l’impulso tutto turistico di scoprire nuovi luoghi per lasciarsi rapire dal loro fascino.

22

23


:INDEPTH:

Ring#11

Beyond Good & Evil

VS

Between Good & Evil

di Good Sator & Evil Cryu Cryu – «BG&E esordisce bene, mostrando subito il fianco alle critiche ma offrendo tutta una serie di pregi che ti convincono a chiudere un occhio sulle magagne. Grafica pittorica, virtuosismi registici, panorami poetici, atmosfere incantate, scorci caratteristici (la città non è altro che una Venezia tra i monti), sensazionale uso del colore abbinato ad alcune delle migliori texture viste su PS2. Tutto questo spalleggiato da una colonna sonora a tratti sorprendente per un VG europeo (il pezzo Propaganda è eccezionale, e anche il sottogioco cui si accompagna è molto divertente). In più il character design è una meraviglia, a cominciare da Jade, per continuare con lo Zio Maiale, pardon, Zio Pey’J. Ma anche il cane è da sbellicarsi. Tutti espressivi, originali, pittoreschi. E poi è graziosa l'idea del giornalismo d'assalto, lo scopo di ogni infiltrazione è quello di scattare delle foto, un po' come nel Tanker di MGS2. Intrigante. Ma ahimé, manca tutto quello zoccolo duro di gioco che poi sarebbe andato ad ornarsi di tutti i pregi qui sopra elencati. A cominciare dalla grafica: stile a profusione, ma accompagnato dal peggior motore grafico della storia di PS2. Se durante le cut scene il gioco è visualizzato in formato 16:9, durante le fasi di azione la porzione di schermo attiva si restringe ulteriormente. Troppo, troppo, troppo stretto. Aggiungiamo che i poligoni sono davvero pochi, viene da chiedersi come diavolo sia possibile che dopo quattro anni di sviluppo si verifichino cali di frame rate così drastici. Ancel dice che il gioco era già completo, seppur diverso, due anni fa. Anche ammettendo che due anni fa Ubisoft avrebbe avuto il coraggio di rilasciare un gioco con questo motore grafico, nei due anni extra non si poteva ottimizzarlo un tantino?»

Ancel) su Dreamcast o PC: stesso stile, ma con texture e colori ancora più belli, a tutto schermo. In BG&E la visuale è talmente sottile che spesso non sono neanche inquadrati i piedi della protagonista.» Sator – «Un ottimo senso dell'inquadratura. Non mi dire che ti ha dato fastidio una cosa simile. A me è addirittura piaciuta.» Cryu – «Eccome se mi ha dato fastidio. La percezione dello spazio circostante risulta parziale, complicando l’orientamento. Ti sembra di stare col naso nel culo di Jade: sexy quanto vuoi ma ti viene da spostare indietro la sedia. Se a questo ci aggiungi il frame rate claudicante e la nevrosi della telecamera virtuale il mal di testa è assicurato.» Sator – «Mal di testa? Allora GTA che effetto ti fa? Un alien che balla la rumba all'interno della scatola cranica? Tra l’altro la mobilità della telecamera quando Jade é nascosta dietro a un riparo é veramente eccellente.» Cryu – «E non è tutto. Il peggio si verifica quando si cerca di scorgere che cosa ci sia un filo più in alto o più in basso di Jade. Si deve ricorrere alla soggettiva perché lo schermo finisce poco sopra la sua testa e appena sotto i suoi piedi; ma la soggettiva ha i bordi oscurati per dare un effetto obiettivo da macchina fotografica. Caspita se è scomodo, anche perché una visuale in soggettiva così limitante penalizza la libera degustazione di certi splendidi ambienti di gioco.»

Sator – «Le tue critiche mi sembrano esagerate. L'eccellente stile grafico riversato nel gioco mi basta e mi avanza. Che mi frega del polygon count?» Cryu – «Niente, infatti. Però se ci sono pochi poligoni è assurdo che il frame rate sia così traballino.» Sator – «Ovvio che se ci sono entrambe le cose, stile e fluidità, uno è più contento, ma proprio non ce la faccio a penalizzare un prodotto con tanto senso del bello solo perché gli ingegneri che hanno lavorato al motore grafico preferivano andare coi viados. Ci sono troppi Jak II in giro per non applaudire un BG&E.» Cryu – «Fatto sta che i limiti dell’impianto tecnico penalizzano ciò che dovrebbe invece valorizzare: la materia artistica. Come avere un pittore sensazionale e farlo dipingere su dei quadratini di carta igienica invece che su una tela di un metro per due. Un fottuto spreco. Prendi Rayman 2 (sempre del team capeggiato da

Sator – «I livelli si sviluppano principalmente in orizzontale, e quelli che hanno più piani non necessitano di occhiate elevate. A meno che non stiamo cercando animali, ma in questo caso serve appunto la fotocamera.» Cryu – «Sono convinto che con i VG che prevedono spostamenti in tre dimensioni il 16:9 sia solo una scocciatura. Avere la visuale di gioco dimezzata non è proprio un vantaggio.» Sator – «Perché no? Pensi la stessa cosa quando ti vedi Le Due Torri?» Cryu – «Le Due Torri è un film, non devo giocarci dentro. Anche durante le cut sce-

15

ne di BG&E non mi lamento dei 16:9, ma quando prendo in mano il pad e mi trovo la visuale così sproporzionata tra larghezza e altezza mi sento in una gabbia ampia quanto un campo da calcio ma alta un metro e mezzo. D'altronde ci sarà un motivo se ci si lamenta da anni delle bande nere nei giochi PAL. Ecco, questo è fatto in Europa, però ha le bande nere spesse il doppio di quelli fatti in Giappone e convertiti alla buona.» Sator – «Nelle conversioni PAL le bande nere non perseguono alcuna ricerca dell'inquadratura, anzi, ti fanno pure vedere personaggi grassocci (oltre alla ridotta velocità).» Cryu – «Ma la sensazione di claustrofobia che danno è assimilabile. Oltretutto i giochi PAL schiacciano ma non tagliano niente. In BG&E a volte mi sembra proprio che manchi un pezzo di visuale. Una scelta di stile? Ci credo poco: l'engine non riesce neanche a gestire uno schermo metà nero, mai nella vita avrebbe potuto muovere una grafica a pieno schermo.» Sator – «Poco importa se la scelta del 16:9 only sia stata dettata da motivi artistici o per le magagne del motore. Conta il risultato, non la causa che lo ha prodotto. Stessa cosa per gli anni di sviluppo. Buoni per nozionismi ma ininfluenti nel giudizio di un'opera. Per dire: Spielberg Lo Squalo voleva che fosse ben visibile nel film: un po' tipo ET. Ma il pupazzo che avevano fatto quelli degli effetti speciali era talmente penoso che ha dovuto tenerlo nascosto inventandosi millemila inquadrature geniali e sequenze al cardiopalma (DU-DUM) che fanno del film il capolavoro che é.» Cryu – «Parlando di gameplay, ho apprezzato lo spunto dell'interazione con i personaggi comprimari. È ciò che volevano fare in Studio Cambridge con Primal e che non sono riusciti a realizzare. Brillanti anche molti enigmi: semplicissimi, ma perlomeno un po' originali. Ma siamo alle solite: c'è tutto il contorno, ma manca lo scheletro. BG&E è uno stealth game primordiale. Guardie che hanno un cono visivo approssimabile alla linea retta, intelligenze artificiali inesistenti, credibilità generale delle situazioni evasive pari a zero.» Sator – «Consideri un difetto la visuale ridottissima in lunghezza della guardie di MGS? Io no. È semplicemente una delle regole del gioco. I nemici di BGE invece hanno una visuale che si estende in lunghezza ma non in larghezza: cosa ampiamente voluta dagli sviluppatori e che va ad incastonarsi in un gameplay che ne fa un uso consapevole. Inoltre non condivido il "primordiale". Ci sono un sacco di trovate per rendere varia l'azione stealth ed il tutto rivela un buon studio delle cau-


:INDEPTH:

se/effetto. E non dimentichiamoci che si tratta di puzzles. Non è Splinter Cell né vuole esserlo.» Cryu – «Ma gli stealth game erano così cinque anni fa. Tutto già fatto e già visto decine di volte. Ora soluzioni del genere fanno specie come farebbe specie se ne Le Due Torri Gollum fosse una marionetta di plastica. 50 anni fa nessuno avrebbe fiatato, ma oggi è anacronistico. Ne abbiamo già fatte troppe di sequenze stealth così basilari, non solo nei primi MGS, ma anche in tutti i cloni che ha generato. Se uno passa davanti alla TV mentre giochi (a me è capitato) scoppia a ridere vedendo che sei accovacciato di fianco (non dietro, di fianco) a una guardia e questa non ti vede, così come è pazzesco che se apri una porta dietro una guardia questa non sente il baccano che fai.» Sator – «Perché tu consideri lo stealth gaming di questi giochi una simulazione dell'agire stealth nella realtà, quando invece a BG&E non si cura minimamente di ricreare i comportamenti degli SWAT reali. Sono giochi che stabiliscono delle regole (vista in profondità, bombole sulle spalle come punto debole, granata pulisci-tutto) e su questo imbastiscono il loro gameplay.» Cryu – «Nessun dubbio a questo proposito, ma l’easy gaming può farla da padrone negli arcade e sui portatili, ma in un adventure lo vedo fuori posto. I combattimenti poi, mamma mia. È bello il fatto che mentre si combatte si debba anche preoccuparsi di fotografare l'avversario esponendosi alle sue grinfie nel tempo in cui si aggiusta l’inquadratura, ma il combattimento in sé è pietoso. Ancora una volta il contorno è intrigante, ma la pietanza cruda. Gli scontri si svolgono in questa maniera: appena bisogna menare le mani il frame rate fa le valige e parte per le Canarie, dopodiché rimane da pestare come fabbri X facendo giusto un po' d'attenzione a quando gli avversari caricano (e allora giù di botte al quadrato per schivare). In caso di presenza di un personaggio comprimario (doppia H o Zio Pey’J) ogni tanto si pigia anche il triangolo…» Sator – «…Utile anche a fini enigmistici. Non consideri poi la direzione in cui pestare. Anche quella è importante, molto più che schivare: questa utile soprattutto contro i mostri sulla luna. I combattimenti sono divertenti, anche se poco approfonditi.» Cryu – «La trama poi, all'inizio mi piaceva più che altro per i soggetti coinvolti (ribadisco: protagonisti d’eccezione!), ma è la stessa di Ratchet & Clank, però imbevuta con il cliché della cospirazione alienogovernativa. E poi continua a ripetere cose ovvie. Già alla fine dell'introduzione si capisce lontano un miglio che le Squadre Alfa sono in combutta con gli alieni. Nonostante questo le tre ore di gioco successive sono un susseguirsi di informazioni a supporto di una conclusione già ampiamente conclamata. Ronf.» Sator – «Certo che si capisce fin dall'inizio che le Squadre Alfa sono in combutta con gli alieni: c'è scritto anche nelle press release! Narrativamente la storia non si sviluppa per farti scoprire quello che già

Ring#11

sai: i protagonisti devono invece capirne i modi e i motivi e, soprattutto, devono trovare le prove per convincere la popolazione; e più ci provano, più i media al soldo delle Squadre Alfa smentiscono tutto dicendo che è un complotto orchestrato da quei comunistacci dell'IRIS.» Cryu – «Ok, ma il fatto stucchevole è che per tre ore continuano a imboccarti, come a dire "se non sei ancora sicuro sicuro sicuro della cospirazione eccoti la conferma". Ad esempio, Jade pronuncia un sacco di battute da idiota da cui si evince che non ha ancora capito nulla. Nonostante questo ci si ritrova a selezionarle per poi sentirsi dare del tonto dal proprio interlocutore. La mia autostima ringrazia.» Sator – «Il fatto è che Jade non ha letto le press release e che tu non hai colto il conflitto principale del gioco, e che interessa soprattutto Pey'j: è giusto che io, Zio Maiale, rischi la mia vita in un'indagine quando ho delle precise responsabilità verso i bambini del faro? Se fai scoprire subito che le Squadre Alfa sono certamente in combutta con i DomZ, togli potenza a questo conflitto, perché dài a Pey'j un motivo valido per continuare (cercare di impedire nuovi rapimenti). Così invece il collegamento Squadre Alfa/Domz non è sicuro, e i personaggi devono assumersi un rischio maggiore.» Cryu – «Ma è proprio quello che succede! È dall'intro che si capisce che Zio Pey'J sa che le Squadre Alfa sono culo e camicia con i DomZ.» Sator – «Sono sospetti. Poi Zio Pey’j sa molto di più ma non può darlo a vedere. Inoltre è ovvio che sono cliché, ma sono cliché usati con competenza: il colpo di scena dello Zio Maiale a capo dell'IRIS, poi, è veramente bello.» Cryu – «Non mi è piaciuto neanche questo. Per due motivi: 1) Pey'J è un suino. E come usa come nome in codice? ‘Cinghiale’. Inventiva saltami addosso. Se lo merita di farsi catturare. 2) Assurdo che il capo di un'organizzazione si esponga in prima persona in una missione operativa.» Sator – «Ma lui non si voleva esporre! È Jade che decide di indagare. Pey’j non vorrebbe nemmeno accettare la missione ricevuta dal fantomatico signor De Castellac. Questo perché, essendo a capo dell’IRIS, sapeva che “De Castellac” è un nome fittizio usato per reclutare nuovi membri. Un po’ come “Nemesis Divina” per Ring. Pey’j tenta più volte di convincere Jade a desistere, e le va dietro solo per non lasciarla sola.» Cryu – «Chapeau. Ma adesso spiegami come è possibile commettere un errore di narrazione come questo: il colpo di scena della resurrezione di Pey'J è completamente rovinato da un’anticipazione indiretta, ovvero gli ascensori attivabili solo da tre individui contemporaneamente. Indovina-indovinello: si arriva alla base DomZ in due per recuperare un terzo, prima di ripartire è necessario recarsi in un luogo che richiede la presenza di tre

16

personaggi. Quando troviamo il terzo questo è morto. Secondo voi è proprio morto morto morto? Di solito ci si lamenta di come un ottimo gameplay sia sciupato da una pessima trama. Qui è il contrario, con un colpo di scena il cui effetto è letteralmente infranto da un gameplay telefonato.» Sator – «Ti ribalto la cosa... Trovi l'ascensore a tre. Pensi: “Hurrà, troverò Pey'j e ce ne andremo a spasso tutti e tre!”. Poi trovi Pey'j, imprigionato come Han Solo. Svenuto? Sicuramente, dài. Poi lo liberi e lo trovi morto. Ma... e l'ascensore? NOOOOOOOOOOOOO!!!» Cryu – «Ci hai provato. Ma in un VG, se una cosa c'è, è perché prima o poi va usata, non ci sono santi. L'ascensore a tre è proprio ciò che mi impedisce di gridare NOOOOOOOOOOOOO!!!» Sator – «Ora, seriamente: il ritorno in vita dello Zio è talmente immediato che non credo sia stato inserito per suscitare sorpresa. Serve invece a evidenziare, ancora una volta, il legame strettissimo che lega Jade a Pey'j, nonché a dare qualche indizio sulla vera natura di lei. E voglio sottolineare come il tutto segua le regole classiche della narrazione, vale a dire che quando si deve ribadire una cosa, bisogna farlo in un contesto di tensione crescente: dal semplice rischio di morire durante il primo boss, alla "morte apparente" nel finale. È quasi lo stesso motivo per cui Aragorn, ne Le Due Torri, vola giù dal dirupo. Qualcuno in sala pensava veramente che Aragorn fosse morto? No. Allora la scena è stato un fallimento? No, assolutamente.» Cryu – «Assolutamente sì. Narrativamente è il momento peggiore di tutto il film, peggio di Legolas SSX. Perché quella scena è poco credibile non per il fatto che muoia il protagonista (seee, come no), ma perché non è girata con i crismi delle morti importanti. Quando Aragorn finisce di sotto non c'è nessuno slow motion (sempre c'è lo slow motion quando muore qualcuno, vedi Boromir o Haldir), nessuna colonna sonora lirico-struggente, nessuna immagine, anche parziale, di Viggo che vola di sotto.» Sator – «Questo perché il film non ci prova nemmeno a far credere allo spettatore che Aragorn stia cavalcando nei Campi Elisi; ci dice piuttosto che il nostro eroe, fico quanto vuoi, non è imbattibile. Non é un caso che una scena simile sia stata inserita alla vigilia della battaglia del Fosso di Helm.»


:INDEPTH:

Cryu – «Ma io al cinema sono anche disposto, per sospensione dell’incredulità, a credere per dieci minuti che il protagonista sia morto (se ci ragiono so che non è così, perché è impossibile, ma posso non ragionarci), a patto che tu, regista, ci metti del tuo per farmelo credere. Così quando “scoprirò” che era tutta una finta sospirerò come Èowyn alla ricomparsa del suo amato.» Sator – «Io la penso al contrario. Se mi metti lo slow motion usi un codice universalmente riconosciuto per una cosa specifica: la morte di un personaggio. Se poi il personaggio non muore allora mi girano, perché il codice é stato usato per imbrogliare.» Cryu – «Da questo punto di vista è molto più credibile la presunta morte di Trinity giù dal palazzo in Matrix Reloaded che non la caduta nel baratro di Aragorn ne Le Due Torri. Tié, Matrix Reloaded è un film migliore de Le Due Torri (grasse risate). Ritornando alla storia di BG&E, la scena dopo i credits in cui a Zio Pey'J compare in mano una piovretta DomZ mi ha fatto lo stesso effetto della tipica fine dei film horror di serie Z quando dalle macerie che hanno sepolto il cattivone finale spunta una mano...» Sator – «Ma negli horror é una scena fine a se stessa. Giusto per far fare il sobbalzo finale sulla poltroncina. Qui invece c'è un personaggio a cui vogliamo bene che sta nascondendo qualcosa che potrebbe condurlo alla rovina: è un'anticipazione sulla prossima puntata (che ahimé, dubito vedremo).» Cryu – «Sarà, se questa fosse stata la sceneggiatura di un film l'avresti distrutto, ma in un VG ti sta bene.» Sator – «Vero. Qualsiasi sceneggiatura di un videogame, se fosse stata in un film, l'avrei distrutta. Non sono media narrativamente paragonabili (sai che ronfate uno Shenmue al cinema, e Final Fantasy VII? Rotfl!).» Cryu – «Forse tu non attribuisci enorme dignità espressiva al VG, per cui quanto di buono arriva è tutto grasso che cola. Per me non si tratta di un medium inferiore, perlomeno a livello di grammatica, poi, come sostiene Nemesis, a poter dire qualcosa col VG sono in quattro gatti in virtù dei mostruosi investimenti alle spalle di ogni produzione. Ma questo è un limite estrinseco del medium, non intrinseco.» Sator – «Sinceramente è vero. Ritengo il VG a livello di grammatica inferiore a cinema e letteratura.» Cryu – «Per me, invece, i VG e i film sono sì media per certi versi paragonabili. Certo, sono cose diverse, una trama banale (Shenmue) vissuta dall'interno grazie a mirabili escamotage tecnico/ludici può diventare credibile, esattamente come quando nella realtà ti capitano cose che paiono scritte da uno sceneggiatore, non è che ti lamenti della scarsa credibilità dello storyline della tua vita e incroci le braccia, la vivi e basta perché è reale per forza.» Sator – «Esattamente. L'interazione valorizza moltissimo una trama. Ma se togli

Ring#11

l'interazione, la trama di un VG per ora ha sempre detto poco e abbastanza male. Nel globale di un racconto, intendo. Nelle piccole scene invece ancora ancora se la cava. Per dire: Final Fantasy il film. La storia è schifosa. Siamo tutti d'accordo. Ma se tale storia la sposti in un VG credo che molti videogiocatori eiaculerebbero sui forum di mezzo mondo.» Cryu – «Tuttavia sono convinto che con un VG si possano raccontare storie coerenti e credibili come con un film o un libro, e non parlo per ipotesi, ma con in testa Silent Hill e Metal Gear Solid. Ritornando al gioco, le fasi sull'hovercraft sono emblematiche della scarsa cura riposta nel rifinire l’opera tutta: oscillano tra il divertente e il banale, ma sempre inficiate da una rozzezza di fondo determinata un po' dalla realizzazione tecnica, un po' dai controlli, un po' dal sistema di sparo, un po' dagli scatti della telecamera. Quando nella recensione dicevi che i giochi Nintendo come Zelda li puoi maltrattare quanto vuoi ma alla fine reggono sempre, credo che intendessi questo: sulla barca di Link ci si annoia a morte, ma tutto fila via liscio come l'olio: i controlli, la camera, il motore grafico, i colori, le animazioni di Link, tutto. Le fondamenta ci sono, poi magari sono sotto-sfruttate, ma mostrano la loro forza. Sator – «Credo che BG&E abbia sofferto la sua natura multipiattaforma. Probabilmente molte risorse sono state concentrate lì invece che in altri posti. Penso che questo genere di giochi sia il più difficile da sviluppare, perché devi competere con una cosina da nulla chiamata Zelda e perché racchiudono in sé moltissimi stili di gioco. E tutto deve essere ben amalgamato e coerente.» Cryu – «Ma proprio perché contengono svariate tipologie di gioco si chiude un occhio se fanno tutte un po' pena prese singolarmente, e si considera solo l'amalgama. Vale lo stesso discorso per Vice City e Shenmue: ottimi giochi nell'insieme, mediocri nei vari sottogiochi che li compongono (sparatorie di GTA e picchiaduro di Shenmue anyone?).» Sator – «Amalgamare diversi stili ludici, in una struttura via via più profonda, senza una netta suddivisione in livelli… Secondo me bisogna essere molto più che ingegneri. È un inferno, sono pronto a scommetterci. Un platform in confronto è una bicchierata d'acqua.» Cryu – «Mettiamola così: è più difficile realizzare Mario Party o Super Mario Sunshine? Uno è un autentico Decamerone del VG, l'altro "solo" un platform.» Sator – «È un caso limite. Ti rispondo dicendo che secondo me un dungeon di Zelda è la cosa in assoluto più difficile da realizzare a livello di game design. Inoltre gli sviluppatori hanno pagato il loro essere alla prima esperienza nel fare un gioco simile.» Cryu – «È vero, per Ancel e soci BG&E era la prima esperienza in un gioco à la Zelda, ma BG&E ha ereditato da Rayman e relativo seguito enormi porzioni di gioco. L'idea dei comprimari, le sequenze racing, pensa che ho riconosciuto un motivo sonoro preso paro paro da Ra-

17

yman 2, e alcuni elementi grafici sono proprio quelli di Rayman 2. Addirittura la trovata di invertire i comandi sul finire del gioco per ricreare l’effetto di Jade che sta perdendo il controllo di se stessa è ereditata dal primo Rayman: un mago ti faceva un incantesimo ed eri costretto a superare un livello con i comandi invertiti.» Sator – «Un eventuale sequel avrebbe buone chance di sfondare, ma soprattutto di aggiungere una boccata d'aria fresca. Cosa che fa questo BG&E, ma non pienamente.» Cryu – «Esatto, nonostante la sua pachidermica gestazione, a questo gioco sembra mancare ancora un anno di sviluppo.» Sator – «Un altro anno di sviluppo? Farebbe bene a qualsiasi gioco.» Cryu – «Sì, ma a BG&E avrebbe fatto benissimo. Ci sono le idee, ma manca la sostanza. c'è l'estro, ma mancano le basi.» Sator – «BG&E le basi le ha eccome. Gli manca l'approfondimento che solo il mestiere può dare.» Cryu – «Stiamo parlando di Michel Ancel e Ubisoft, non di un team di sviluppatori da cantina. Ti immagini se BG&E fosse stato sviluppato da Capcom che pienone? Forse a Ubisoft è mancato davvero del coraggio. Quando due anni fa avevano finito un gioco, avrebbero dovuto pubblicarlo. Invece si sono lasciati condizionare dall’insuccesso commerciale di Ico, a dire di Ancel simile nel look alla prima versione di BG&E, così hanno ricominciato daccapo tutto col morale nei calzini e non ce l'hanno fatta a completarlo.» Sator – «Hanno tentato. Posso capirli.» Cryu – «Anche se alla fine del gioco scattano le anticipazioni, non sono così sicuro che ci sarà un BG&E2. Perché in questo BG&E c'è del valore, ma è riposto là dove in pochi riusciranno a vederlo.»


:INDEPTH:

Ring#11

Anatomia di un Character Design [Chooko Senki Kikaioo] di Amano76

Il re dei Pilder I grandi picchiaduro della storia non hanno solo imposto il proprio sistema di combattimento, ma hanno anche inculcato nell'immaginario dei giocatori personaggi come quelli di Street Fighter II o Tekken o King of Fighters. In Capcom, data la confidenza col genere, non sono mai venuti a mancare prodotti esemplari in questo senso, tanto che persino il terzo Street Fighter, un titolo ignobile dal punto di vista strategico, può farsi vanto di un traguardo simile. Pochi però sono riusciti a proporre soluzioni nuove ed originali come quelle presenti in Kikaioo. È vero che di recente l'etichetta di Osaka si è profusa in molti picchiaduro su licenza, come quello bidimensionale di Jojo, quello tridimensionale di Spawn, o il mastodontico Marvel vs Capcom 2. E Chooko Senki Kikaioo, per quanto sfoggi un cast di personaggi inediti, in un certo senso è anche lui figlio di simili condizioni. Ciò che separa quest'ultimo dal resto della produzione Capcom è che alla progettazione abbia collaborato un veterano come Shoji Kawamori: in Kikaioo l'autore non si è solo divertito a recuperare, ironizzandoli, i soliti personaggi-tipo dei cartoni robotici, ma è anche riuscito a sintetizzare, con estrema complessità, matrici storiche con altre di gusto odierno. Il cast del gioco non è pertanto una semplice tessera del carisma di questo impeccabile picchiaduro1, ma anche una chiave di lettura di quelle che sono le tensioni semiotiche del character design nipponico.

Cerotti rotantiii! Junpei [foto], pilota di Kikaioo, è il classico protagonista delle serie a cartoni anni '70, rozzo ma dagli alti ideali. Una testa calda poco imbarazzata dalle donne, che pensa solo a salvare il mondo, far vincere la giustizia e andare d'accordo con gli amici. Il suo viso possiede un particolare ben visibile: un cerottone grande e grosso sul naso. Lo sfregio sulla faccia (o il cerotto) è una caratteristica ricorrente in molti personaggi giapponesi: in una società in cui il viso sbarbato e impeccabile è la condizione principale di bellezza esteriore, abbinato ove possibile a capelli di forma e colore assurdi, il protagonista con imperfezioni sul viso sta diventando una figura classica dell'immaginario a cartoni e quello videoludico. Si pensi a Ryo Hazuki (cerotto), Solid Snake (barbone e capelloni), o Squall (sfregio sul naso), o il più recente Monkey D. Luffy del blockbuster One Piece (squarcio sulla guancia): tutti personaggi distinti da imperfezioni del volto che saltano immediatamente agli occhi, senza le quali risulterebbero impersonali e ordinari. Si potrebbe terminare il discorso concludendo che sono tutti discendenti di Capitan Harlock, in realtà il fatto che così tante caratterizzazioni della cultura popolare giapponese moderna convergano su questa faccenda della cicatrice, non è casuale. Lo sfregio (o il cerotto che la nasconde) risponde alla classica necessità narrativa di dare una cifra di distinzione al protagonista, è vero,

ma rappresenta anche una sorta di segno dei tempi, una beffa alla spasmodica cura per l'aspetto esteriore di tanta gioventù giapponese, la cui appariscenza non è altro che l'indice più clamoroso di una diffusa superficialità. Una simile interpretazione ovviamente non vale in senso assoluto, ci sono esempi di segno completamente opposto (Sayuki, trasmesso da MTV, tanto per dirne uno) tuttavia è innegabile che una simile "corrente di pensiero" da parte di molti character designer sia più che diffusa, e questo perché in genere il loro lavoro è indirizzato ad un pubblico che non è dedito a coltivare un aspetto modaiolo e appariscente. Si pensi a Final Fantasy X, in cui lo sbruffone Tidus, tanto simile nell'aspetto ad un adolescente trendy nipponico (abbronzatura artificiale, tinta bionda, abbigliamento cool) viene presentato come un egocentrico incapace di rendersi conto della situazione che sta vivendo: è proprio questa scelta estetica di Nomura che accentua la drammaticità del momento in cui l'eroe deve affrontare la realtà dei fatti sino ad allora trascurata, perché lo spettatore ha fin dall'inizio del gioco etichettato Tidus in base alla sua apparenza. Una scelta che dimostra come l'ormai ufficiale character designer di Final Fantasy non sia un semplice appassionato di tamarri, ma un disegnatore di talento in grado di sintetizzare le intuizioni degli sceneggiatori con personalità e malizia.

18


:INDEPTH:

Ring#11

Sono figo perchè non ci vedo Anche il "personaggio con gli occhiali" è un altro segno dei tempi. Santificato dall'inimitabile caratterizzazione di Gendo Ikari, il quattrocchi è una figura narrativa che sta acquistando uno status di onnipresenza senza precedenti. Il Simon Harvard di Kikaioo, comunque, più che parte di questa nuova corrente, è l'inequivocabile stampino di Maximilian Genius e va catalogato semmai come un tributo al suo antenato di Macross2. Eppure che sia uno dei protagonisti della vicenda nonostante la pecca delle lenti, salta agli occhi. Un esempio più valido del contagio di questo trend in ambito ludico è il Lizard Vales di Valkyrie Profile, raffigurato come un diabolico cospiratore col vizio di aggiustarsi gli occhiali ogni cinque minuti. La sua miopia, probabile conseguenza di uno studio incessante, non ha la funzione di esprimere un aspetto estetico poco appetibile quanto più sottolineare l'eccezionalità della sua intelligenza e quindi la sua superiorità, che l'inquietante mago piega a propositi di ogni risma arrivando persino a costruirsi cloni della protagonista per farne bambole sessuali. Cominciato come tentativo ruffiano per guadagnare le simpatie del pubblico degli otaku, tarati da difetti estetici che spesso sono il motivo del loro isolamento (non sempre involontario), il personaggio miope ha assunto via via maggiore ricorrenza narrativa, arrivando a diventare un’icona della positività a tutti gli effetti: si pensi a molte caratterizzazioni recenti come quella di Auron in Final Fantasy X (tanto per non citare i soliti giochi), o Basara in Macross Dynamite 7 [foto] o ancora al Bolt Crank di Eat-man, o il semi-onnipotente Citan di Xenogears, tutti protagonisti/eroi segnati dalle loro montature raffinate e

stylish, ma pur sempre portatori (ganzi) di un handicap. Fondamentale in questo senso la gamma di interpretazioni di Yoshiyuki Sadamoto, character designer tra i più abili, la cui carriera offre originali esempi di stilizzazione di personaggi miopi che hanno poi contagiato l'immaginario degli anime in modo a dir poco radicale. Il Ramus di Lunar, ad esempio, è doppiamente tarato dagli occhiali e dal suo sovrappeso, ma è un personaggio solare e in più di un caso è quello che prende le redini del gruppo: nonostante abbia tutte le carte in regola per essere un escluso da antologia, rappresenta invece una figura positiva e di comando. Una caratterizzazione molto curiosa per il periodo, in cui le "spalle" munite di lenti da vista occupavano la classica funzione che potremmo definire, con un sostantivo volontariamente comico, dello "spiegatore": il personaggio che mentre l'eroe fa a botte col cattivo o calcia un "missile" in porta, sta in disparte a commentare le mosse e le tecniche utilizzate. Categoria che rispecchia proprio l'elevato indice di maniacalità degli otaku, spesso fisicamente inermi ma al contempo depositari di conoscenze insolitamente approfondite per l'età che possiedono. A Ramus seguono poi Kensuke di Evangelion e il Jean de Il mistero della pietra azzura, ispirati al Tonbo di Kiki's delivery service (lungometraggio di Hayao Miyazaki). Grazie a Sadamoto l'archetipo del personaggio miope compie la sua evoluzione conclusiva, consegnando finalmente alla storia dell'animazione due quattrocchi con tutte le qualità per essere protagonisti: socievoli quanto istruiti, il loro ruolo entusiasta e vivace non è più quello accessorio dei cartoni di un tempo ma diventa anzi quello fondamentale dei personaggi

che con la loro positività guidano i protagonisti delle storie (Shinji un in caso, Nadia nell'altro) a migliorarsi e a maturare. Buffo come oggi sembra non ci sia niente di più cool che tenere un paio di lenti calate sul naso...

Simon Harvard

Basara

Auron

All'ombra di Gundam Shadow red è uno dei personaggi più riusciti del cast di Kikaioo, anche se il mistero che lo circonda si dissolve in fretta: è il padre di Junpei, e l'epigono, ovviamente, è Darth Vader. Ora, tracciare una mappa delle figure narrative ispirate all'irascibile sith ideato da Lucas è impossibile, tuttavia se si limita lo spettro d'analisi al cosmo delle produzioni giapponesi il cerchio si stringe. Non solo, trascurando l'elemento di parentela tra Shadow red e il protagonista del gioco, quello che rimane è un aspetto esteriore che sembra parodizzare il Sephiroth di Yoshita-

ka Amano. In questo caso però si sminuirebbe l'ispirazione di Kawamori: il "cattivo" bello e con spada a tracolla è un'icona ben più radicata nell'immaginario nipponico. La

19

sua "bellezza", fatta di un viso privo di cicatrici, di occhi felini con lunghe sopracciglia, e di capelli lunghi dalle tinte insolite (biondi o argentei o bianchi, cioè innaturali per un giapponese qualsiasi) è infatti un connotato negativo, è assoluta come il male che la nemesi esercita. Shadow red non ispira antipatia: è morale, è forte, è sicuro di sé, è un ideale maschile; eppure allo stesso tempo rappresenta lo sbugiardamento del pregiudizio estetico secondo cui l'aspetto è la chiave dell'accettazione e della superiorità, perché attraverso questa icona la bellezza esteriore e quella interiore


:INDEPTH:

vengono rese chiaramente distinte. La katana in spalla è invece tributo ad un altro parco dell'immaginario, cioè quello delle serie cosiddette sentai, le produzioni televisive giapponesi che noi conosciamo come Power Rangers, o Spectreman, o Megaloman. In queste opere caratterizzate da una capillare frequenza di scontri a mani nude, non di rado sono presenti nelle fazioni dei cattivi personaggi molto simili a samurai medievali dotati di una forza superiore a quella di chiunque altro. In loro ricorre l'equipaggiamento della spada, per due motivi: il primo è il simbolo della loro scorrettezza (un arma bianca contro i semplici pugni), il secondo è l'ideale di onore e coraggio che il loro aspetto cavalle-

Ring#11

resco richiama, un ideale che viene corrotto dalle forze negative a cui viene prestato fino a conferire dignità e tragicità alla nemesi. Tale caratterizzazione contraddittoria è classica nel fantastico giapponese a cartoni quanto in quello a fumetti, proprio perché entrambi figli di una cultura segnata da una millenaria matrice scintoista, in cui bene e male non sono concetti assoluti ma compenetranti. Un personaggio che è l'esempio più riuscito di questo modello è Char Aznable, apparso nel leggendario Kidoo Senshi Gundam. Bello e abile, Char è allo stesso tempo un traditore (si arruola nell'esercito di Zion per ucciderne i leader, mandanti dell'omicidio del padre) e un ufficia-

le con uno spiccato senso di cameratismo; è innamorato perdutamente della sua donna (che arriva persino a definire come colei "che avrebbe potuto essere una madre per me"), ma non esita a sacrificarla per i propri scopi di vendetta. Doppiato da Shuichi Ikeda e contraddistinto dalla predilezione per il rosso (colorazione che ricorre in tutti i mech che pilota), Char è stata una figura talmente cardinale e memorabile nell'animazione nipponica che Kawamori non ha potuto fare altro se non renderlo la matrice principale dell'affabile Shadow Red. Il risultato è una nemesi tra le più riuscite nella storia dei picchiaduro Capcom, che condivide lo stesso doppiatore di Char Aznable. Sarà un caso?

Non è tutto Horus quel che luccica Alma e Nakato (foto in basso) sono forse i personaggi ideati con meno fantasia di tutti, nel cast di Kikaioo. I loro assurdi nomi sono un tributo alle opere di Yoshiyuki Tomino, in cui i protagonisti delle storie hanno identità esotiche o inesistenti3 connotate al background narrativo (spazio o universi paralleli). In esse Tomino inscena la sua personale visione della natura umana, mostrando come anche ad anni luce di distanza o in realtà alternative questa sia comunque caratterizzata da una drammatica inclinazione alla guerra. I "buoni" delle sue storie non sono mai impeccabili eroi dalla rigorosa condotta morale, né i suoi "cattivi" dei semplici tiranni assetati di sangue. Allo stesso modo non sono mai due soli personaggi a darsi battaglia ma bensì schieramenti opposti, che traboccano di casi umani di ogni tipo e pongono lo spettatore di fronte ad uno scenario in cui l'integrità e la dissoluzione non sono direttamente legate ad uno o l'altra fazione.

È per questo motivo che sia Alma che Nakato non offrono alcun elemento estetico distintivo, perché nelle produzioni di Tomino le figure narrative principali sono sempre inizialmente neutre, ingenue, incontaminate. Sono gli eventi e gli incontri che affrontano a portarli a maturare nelle attitudini e nella sensibilità (o a indurire i loro cuori), senza mai rivelarsi dei "semplici" superuomini capaci di salvare il mondo con l'aiuto di un robot. Non è un caso che entrambe le storyline di Alma e Nakato siano separate dal cosmo di Kikaioo, quasi come se Kawamori li avesse ritratti per concedere un atto di presenza ad un'interpretazione estetica e comportamentale con cui probabilmente non si trova a suo agio, ma che pure riconosce come tipica e vivida nei cartoni robotici. Il celebre autore è da sempre stato legato a caratterizzazioni più cool, affini a quelle che popolano i vari Macross in cui i piloti sono sempre spacconi, spavaldi e perché no anche un filino antipatici. È quindi probabile che abbia trovato varie difficoltà a gestire due personaggi tanto distanti dal suo gusto. Non è raro che una stessa saga presenti caratterizzazioni (grafiche e attitudinali) dei personaggi ben diverse da una serie all'altra, basti pensare ad un altro esemplare titolo ispirato ai robot giganti: Zone of the Enders. Come nella maggior parte dei capitoli di Gundam ad essere protagonista del primo capitolo è un ragazzino, Leo. Nelle intenzioni dell'autore originale lo svolgimento della serie di Z.O.E. avrebbe seguito la crescita di Leo da adolescente inoffensivo fino alla sua maturazione in qualità di veterano, partecipe

20

di una guerra che l'ha coinvolto suo malgrado, lungo un iter piuttosto simile a quello che Amuro Rei compie attraverso la lunga epopea di Gundam. È non è un caso che il character designer del primo Z.O.E. fosse lo stesso di Gundam X, cartone in cui il protagonista Garold deve, oltre a salvare il mondo, mettere in salvo l'indifesa Tifa4. Z.O.E. presenta tutti gli elementi distintivi di questo tipo di racconto animato, senza però negare aggiunte proprie come l'origine del metatron, Leo che per la codardia è l'indiretta causa della morte degli amici, i capi dell'esercito che non esitano a sfruttare Leo per le sue capacità, o ancora come la instabilità emotiva di Viola. Diversi elementi già visti, ma proposti in una soluzione inedita. Tuttavia, con l'avvicendamento alla direzione della serie, le premesse tipicamente "tominoidi" di Z.O.E. sono state sostituite da un protagonista tamarro (capelli bianchi, uniforme nera, atteggiamento sprezzante) più in linea con l'estetica di Macross che quella di Gundam, devastando così il già non proprio originalissimo background del predecessore. Rimossa la riluttanza all'assassinio di Leo, tolto l'unico elemento di contrasto con il clima cupo e bellico (la purezza di Ceres), privato il Baphram di qualsiasi elemento umano (Noman sembra ormai semplicemente spalleggiato da un esercito di mech automatizzati) quello che resta è un one-man show che si risparmia interrogativi e conflitti etici. E Leo è ormai già cresciuto, i suoi contrasti interiori risolti probabilmente da lungo tempo. Avvincente comunque, ma che spreco.


:INDEPTH:

Ring#11

Dianaaaaa Flash!

Nella storia giapponese le donne hanno sempre assunto dei ruoli piuttosto insoliti per l'ottica occidentale: le prime fondamentali opere letterarie sono state composte dalle cortigiane dell'imperatore, molti fantasmi della tradizione sono di sesso femminile (si veda l'interessante Fatal Frame) e molti governi sono stati condotti all'ombra di donne che riuscivano a manipolare il volere dei reggenti con il metodo più vecchio del mondo. Ma quello che è veramente strano è il superomismo "in rosa". In Giappone esiste tutto un filone di personagg"esse" ispirate alla Cutie Honey di Go Nagai, che combattono le forze del male sostituendo al dinamismo muscolare l'impiego delle proprie traballanti grazie. La scintilla scoccata dal papà di Devilman ha acceso un focolaio di imitazioni che nel tempo hanno sostituito all'ironico spirito dell'eroina nagaiana, diretto a sbeffeggiare il machismo imperante nei manga anni '70, una corposa cifra soft-core. Reika Amamiya, alter-ego umano di Diana 17, non è infatti altro che una delle tante wonder-woman nipponiche a occupare l'immaginario del pubblico maschile sentimentalmente e psicologicamente meno sano. Un'atipica cosmogonia di cui fanno parte le Knight Sabers di Bubble Gum Crisis [foto a destra], le sette agenti di Silent Moebius, la protagonista di Moldiver, la smutandatissima Aika (protagonista dell'omonimo cartone animato) e tante altre. Ma non è di queste che vogliamo occuparci, nonostante ad alcuni di voi farebbe sicuramente piacere. Piuttosto è interessante evidenziare le tracce che un simile filone ha lasciato nel mercato videoludico. Basti pensare al recente Final Fantasy X-2, in cui per la prima volta nella storia della serie il protagonista principale non è un eroe maschile bensì tre ragazze, che guardacaso dispongono del potere di

cambiare d'abito come, per l'appunto, Cutie Honey (o la più conosciuta Sailormoon, a sua volta ispirata anche lei al fumetto di Nagai). Possibile che il pubblico odierno preferisca ad un coetaneo in cui riconoscersi, l'immedesimazione con la donna che si vorrebbe trombare? Chi scrive ha sempre adocchiato con un certo sospetto quei giocatori che nei picchiaduro selezionano personaggi femminili, ma perlomeno in quel caso si deve tenere conto che un utente si possa trovare a proprio agio con un determinato set di colpi associato alla Chun-li di turno. A questo punto però come affrontare l'aberrante Asuka 120% pubblicato su PlayStation [foto sotto]?

E tuttavia le prosperose atlete di Asuka 120% non sono che la mera propaggine di un grottesco trend inerpicatosi dal Pc-Engine Duo5 fino al mercato odierno, esteso come un edera e tenace come la gramigna. Grazie all'avanguardistico supporto ottico in un epoca dove era la cartuccia a troneggiare, la console di Nec aveva battezzato un numero imprecisato di nuovi generi e sottogeneri. Tra questi facevano bella mostra le simulazioni d'appuntamento, prosperate grazie alla possibilità di campionare decine di minuti di doppiaggio e di filmati sui compact disc. Generalmente si trattava di ordinari platform in cui a interpretare il ruolo di protagoniste erano eroine con una ricorrente doppia identità di liceali in uniforme e di guerriere in armatura, ma col tempo molti altri generi sono stati pornografati a dovere. Nel corso degli anni queste improbabili ragazzine superdotate non solo continuarono a far mostra di sé nel genere platform, ma invasero anche le terre dello shoot-em-up (Galaxy Fraulien Yuna, Musha Aleste) e dell'RPG (Megami Tengoku, Dragon Half). E vendevano! la serie di Valis raggiunse persino il quarto capitolo, ripartito su Pc-Engine, Megadrive e Super Famicom, mentre il mondo degli anime si popolava rapidamente di personaggi a loro vol-

21

ta ispirati da questi videogiochi, come ad esempio quel Genmu Senki Leda visto anche in Italia. Chi volesse saggiare il grado di follia raggiunto da queste produzioni potrà agevolmente farlo procurandosi un paio di titoli: Wonder Momo per Pc-Engine e Mugenshi Valis per Duo. Quest'ultima in particolare era divenuta nel tempo una saga "storica" a tutti gli effetti, tanto da continuare a sfornare a ripetizione nuovi capitoli sull'elitaria console di Nec. Due erano le principali attrattive per il pubblico: la difficoltà della impresa ludica e tinte voyeuristiche sempre più audaci. Mugenshi Valis non era solo un prodotto settario nella sua ostilità al completamento ma anche nel fascino della sua protagonista Yuko, che mostrava le sue "arrapantissime" mutandine bianche al momento di saltare o di scivolare, che poteva cambiare fino a otto abiti, e che offriva allo schermo un bel paio di chiappe budinose durante i segmenti animati. La cosa preoccupante è che fino a poco tempo fa questa sindrome affliggeva solo i giovani nipponici che, si sa, sono un popolo non esattamente canonico. Ma se pensate che gli occidentali siano immuni al pericoloso trend delle uber-woman, fate un attimo un pensierino a Lara Croft...


:INDEPTH:

Ring#11

Colpevoli senza volto L'acefalo Wiseduck con la sua troupe di ben sei piloti riporta invece alla mente un altro noto filone robotico giapponese, quello realistico inaugurato da Ryosuke Takahashi con Soko Kihei Votoms (Votoms Cavalleria armata) in cui ancor più delle vicende dei singoli piloti o delle prodezze di titanici mech antropomorfi a venire esaltata è la "natura" della guerra. Ancora più che nelle serie di Yoshiyuki Tomino, ugualmente attinente a tematiche militariste, Takahashi priva i robot delle sue storie di qualsiasi parvenza umana: tanto le armature corazzate di Votoms quanto i mech del recente Gasaraki si distinguono per la loro estrema funzionalità, privi di colori appariscenti o "visi" che richiamano alla memoria i barocchi elmi giapponesi. In questo senso Takahashi non ha ispirato solo altri autori del mondo dell'animazione ma anche e soprattutto gli autori di Front Mission, serie di videogiochi in cui tanto la fantapolitica (genere carissimo al regista) quanto la caratteristi-

ca struttura "funzionale" dei mech giocano a favore di un ambientazione che ambisce a ricreare un conflitto credibile. Svicolando l'attenzione dello spettatore dai mech e dalle loro perfomance, Takahashi dà risalto alla realtà della guerra con amici che finiscono nel trovarsi su fronti opposti, dove i buoni e i cattivi riconoscono di somigliarsi più

profondamente di quanto non si aspettassero, dove sono messe in scena le crudeltà estreme che i conflitti causano e allo stesso tempo giustificano. Non è un caso se tanto nel primo Front Mission (ma solo nella recente riedizione per PlayStation) quanto nel terzo, il giocatore è chiamato a prendere le parti di due diversi personaggi che militano in fronti opposti e calato in un contesto ove gli è permesso assistere concretamente alle tante assurdità della macchina bellica. Un po' come avviene nello story-mode del Wiseduck, in cui il protagonista Alvin si deve scontrare con una realtà che lo mette di fronte a scelte che non vorrebbe fare ma è costretto a compiere pur di sopravvivere. Tant'è che due sono i finali possibili: uno con la pace raggiunta a costo del sacrificio di una bambina che il protagonista fa di tutto per salvare, e l'altro che vede salva la bambina ma Alvin morto, con i compagni persi a ricordarlo puro e idealista, forse un po' cambiati dall'averlo incontrato.

Che il machismo di tanti eroi dei cartoni robotici anni settanta sia stato abbandonato in favore di caratterizzazioni più originali e meno "appetibili", è un aspetto della produzione attuale che va lodato, tanto che gli esempi iconoclasti risultano sempre più frequenti.

Tuttavia non si può fare a meno di notare il limite di assurdità a cui si è giunti: in Betterman, recente cartone Sunrise, il protagonista Keita è il primo pilota nella storia dell'animazione robotica a portare occhiali grossi come finestre [foto di Keita]. D'accordo la diversità, ma

questo proliferare di complessati e piagnucoloni è disarmante. "Dove andremo a finire...", disse il contadino giapponese di 75 anni, mentre si scaccolava con una mano e raccoglieva il riso con l'altra....

Note [1] Chi ha dubbi in proposito potrebbe concedere un occhiata allo scopiazzatissimo War of the Monsters. Persino il personaggio principale è identico.

COSPLAY! È con malcelata rigogliosità che inauguriamo in questa sede una nuova rubrica tappabuchi. Cosplay! Ami travestirti come il tuo eroe (o eroina, quella ne serve tanta) preferito per poi magari compiere lunghe passeggiate sui viali? Scrivi a posta@project-ring.com inviando un’immagine del tuo travestitismo videoludico-molesto. Tra un anno, il cosplayer più simpatico/malato di mente riceverà un premio di qualche tipo. Frattanto godetevi questa splendida principessa Zelda. Non sarà Uma Thurman, ma almeno è resistente alle carestie…

[2] Conosciuto in occidente come Robotech [3] O peggio ancora involontariamente ridicoli. Char Aznable, in incognito nella serie di Z Gundam, assumerà il nome di Quatro Vagina [4] E non solo in Gundam X. Un simile casting era stato escogitato già in Gundam Victory. [5] Esiste una quantità incommensurabile di versioni dell'accoppiata Pc-engine+lettore cd. Qui ne abbiamo riportata una a scelta a caso.

22


:RECENSIONI:

Ring#11

Sulle Montagne d’Autunno [Ninja Gaiden] de L’Esorciccio Travestito interprete di un epigono di Double Dragon dall’inusitato grado di interazione con l’ambiente e di tre acclamati action game per NES, Ryu Hayabusa torna per rivendicare la paternità della camminata verticale sul muro, con il pretesto di una spada sottratta alla sua dinastia. E se non si può elogiarne il tempismo, ché durante il periodo di maternità, i muri sono divenuti una superficie comunemente praticata dai personaggi dei videogiochi, sarà senz’altro la foggia a restituire a Ninja Gaiden il trono degli Action Game: genere che armonizza platform con shoot/beat em up; corrente la cui portata, massima negli anni 90, è andata progressivamente assottigliandosi a causa, forse, dell’inadeguatezza di un’acerba tecnologia tridimensionale. Fra picchiaduro e action game sono sedici anni che Ryu cammina sui muri; permetterete che vi dia una lezione di knowhow.

Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione

.:scheda:.

Ninjutsu Tecmo Team Ninja Xbox 2004 1 USA

Capitolo I – Il sentiero in 2D ~ L’ Irrefutabile prefazione ~

Nessuno si chiede perché l’architetto che ha progettato il castello di Dracula abbia previsto piattaforme fluttuanti. Né come, in effetti, sia riuscito a implementarle. Nessuno mette in discussione il principio per il quale Belmont trarrebbe giovamento dal vandalizzare le proprietà del Vampiro a scudisciate. Pochi si chiedono perché nel corso di una partita tipo, dalle finestre di Castlevania si alternino raffigurazioni della luna in almeno 5 diverse fasi, a una distanza dall’orbe terracqueo variabile dagli usuali 384.000 Km di media a “impatto con il pianeta terra in 14 secondi”. È anche per questo che i videogiochi 2D funzionano: perché non pretendono d’essere altro se non “giochi“, con regole che non hanno l’ambizione di essere traduzione in chiave ludica di leggi fisiche o d’altra specie. D’altronde, se non si può razionalmente giustificare il fatto che il nostro personaggio possa muoversi solo in linea retta, tanto vale.

conseguenza logica dover ricercare una corrispondente verosimiglianza narrativa, strutturale, perseguita fin nelle possibilità atletiche dei protagonisti. Ora. Ninja Gaiden non è un’esperienza a tratti interattiva, non è un’opera d’intrattenimento elettronico. Sebbene suggestivo e considerevolmente coreografico, non dilata le tempistiche con pause ad effetto o primi piani teatrali. O meglio, questi ultimi sono presenti, ma imputabili all’imperizia del cameraman, che provvederemo ad oltraggiare più avanti. Ninja Gaiden è un videogioco, nel senso classico e più elementare del termine, e suggestione e sospensione di incredulità non sono le sue priorità. Non domandatevi perché il leggendario fabbro, l’anziano Muramasa, abbia già visitato ogni dannatissima locazione del gioco per erigervi statue di sé medesimo, che fungono da succursali in franchising del suo negozio a Tairon. È un mio sacrosanto diritto di videogiocatore avere la possibilità di fare spese prima dello scontro con un boss, e per non obbligarmi a ripercorrere a ritroso monasteri, cripte, laghi di magma e caverne di ghiaccio per tornare giù in città dove upgradare la spada, ecco che il centenario esercente ha precauzionalmente installato, in ogni un angolo, un distributore automatico di pozioni, armi e accessori. La credibilità di questa trovata è discutibile, l’efficacia ludica, no. Allo stesso modo, non chiedetevi perché Ryu Hayabusa abbia bisogno di un biglietto per la festa che si tiene all’Han’s Bar di Pleasure Street, e non indagate sulla verosimiglianza della legge fisica che consente a Rachel di camminare in posizione eretta. Sarebbe come chiedersi perché, quando sul tavolo ci sono regio, tre di denari e sette di bastoni, io che in mano ho il regio, il regio sono obbligato a prendere. Regole del gioco, asservite al solo valore ludico, escogitate all’unico fine di renderlo più appassionante o meno scontato. Tranne quella cosa del biglietto, in effetti.

Un’immane disgrazia si è abbattuta sugli action game, provenendo dall’asse Z. Se questo tipo di rappresentazione grafica ha consentito un contesto estetico più verosimile, a certi sviluppatori è parso

23

Capitolo II – Sulle montagne d’autunno

~ C’è uno che percorre il sentiero del Ninja ~

Quella del capitolo primo è una premessa necessaria: Ninja Gaiden rischia di apparire carente se lo si approccia con l’aspettativa di essere condotti per mano e inseriti, pigiati dentro una storia, infilati in un personaggio. Si inizia l’avventura senza il beneplacito di un FMV che ci spieghi il motivo per cui Hayabusa si trova ai piedi di una montagna, con una cascata alle terga e una parete rocciosa adeguatamente impervia d’innanzi. È l’istinto del giocatore a spingerlo in alto, e se proprio questo, sopito da anni di tutorial, viene meno, ci pensano i messaggi che Ayane ci lancia da una postazione ignota a suggerire la via. In dieci metri di ascesa si padroneggiano i rudimenti dell’elaborata componente platform di Ninja Gaiden. Chiaro che a questo punto entrino in scena, con conveniente balzo enfatico, i primi Ninja sui quali saggiare il filo della nostra katana… Le combinazioni dei 2 tasti di attacco producono allora un rutilante vorticare di lame e la pressione del tasto B scaglia raffiche di shuriken all’indirizzo dei molesti che… Ahia. Un attimo. Pausa. Menu. Nel corso del gioco, Tomonobu Itagaki sembra talora divertirsi a cagionare l’irrefutabile dipartita del giocatore in modi creativi, il più ricorrente dei quali è figlio della filosofia “adesso qui ci mettiamo un boss molto vigoroso, che se anche il giocatore lo accoppa, poi ne spunta un altro grande il doppio che così muore di sicuro”. Il tutto a chiaro vantaggio del fattore “Santa Merda!1” e a detrimento del joypad. Infame eppure equanime, però, Ninja Gaiden non presenta casi in cui al giocatore non sia concesso di esentarsi dal morire, quelle circostanze in inglese chiamate “cheap” nelle quali il designer si premura di ricordarti che può detrarre vite a gradimento, a prescindere dal livello di abilità del quale puoi con onore fregiarti. Laddove le versioni NES traevano sollazzo dal lanciarti contro un piccione sbucato dal margine destro dello schermo, nell’esatto momento in cui Hayabusa si librava sopra un baratro infinito, l’ultimo titolo del Team Ninja rifugge questo approccio. Questo è sì un gioco dove un ipotetico counter delle defezioni del protagonista potrebbe arrivare a misurare tre cifre dopo un paio d’ore di svago, ma se è vero che la difficoltà bastarda soverchia il giocatore avventizio già al primo boss, è forse bene informare che, paradossalmente, questa prima malvagità di fine livello, è assai più perigliosa del confronto finale (un paradosso doppio, ma questa è una sottigliezza che non potete gradire). Il che, trovando una conveniente scorciatoia fra le perifrasi, significa che è dare la scalata alla curva di apprendimento la parte più malagevole; ma una volta sulla cima si scende con lo


:RECENSIONI:

slittino, chiaramente prestando attenzione agli alberi. Certo è che arrivare sulla cima significa diventare atleti del joypad ed è qui che si apprezza la fulminea ricettività dei comandi, che permette di realizzare un movimento nell’istante esatto in cui lo si pensa. Copula con questa l’efficacia del tacito e discreto sistema di non-lock on, che solo nel momento dell’azione indirizza Ryu verso il nemico più prossimo senza mai male interpretare il nostro volere. Non esiste una strategia statica che permette di affrontare i combattimenti in relativa tranquillità. Sebbene il button mashing paia inizialmente una soluzione che garantisce una resa visiva di decoroso livello, assistere al prodursi in un’enorme gamma di elaborate evoluzioni gratuite di Ryu per poi vederlo finire faccia terra con uno sgambetto, riesce a dissuadere il casual gamer in tempi brevissimi. Bisogna essere stilosi ma efficaci, rapidi nel parare i colpi ma senza arroccarsi nella postura tartaruga (ninja), dimentichi che i nostri avversari sono capaci di prese particolarmente bastarde. Flessibili e costantemente consapevoli della conformazione del teatro dello scontro. Per quanto forti siate, per quanto potenziata la vostra lama ed estesa la barra energetica, ogni combattimento è potenzialmente foriero di una spartana schermata di game over. Resume Game Il primo trittico di capitoli perplime per struttura eccessivamente pretestuosa e level design troppo evidentemente piegato ad un ruolo introduttivo. “Carino, però..” si pensa, senza peraltro riuscire a concludere la frase. Con l’arrivo a Tairon, città imperiale dei Vigoor (sia in questa sede bastante segnalarli come i cattivi) Ninja Gaiden cambia faccia, e non solo perché Hayabusa smette il pigiama da Adam West per indossare la tuta in lattice con addominali sbalzati in bump mapping di Michael Keaton. Pur sempre caldeggiando una struttura dei livelli predisposta in funzione del gameplay e non viceversa, Ninja Gaiden intarsia i 12 capitoli successivi in un mondo maggiormente coerente, ed è proprio dalla coesione dell’impero Vigoor che il gioco ricava il senso di immersività che fa difetto ai primi 3 capitoli e inizia a convincere e inghiottire l’utente. Da qui, Ninja Gaiden si sviluppa lungo propaggini di un’unica area centrale: Tairon diviene l’ideale prateria di Hyrule di uno Zelda: Ocarina of Time maggiormente votato all’azione. Nonostante l’estrema difformità delle molte locazioni presenti, la progressione è graduale e segue una logica topograficamente plausibile e perfettamente confacente alle priorità ludiche. I paragrafi si susseguono rinnovandosi. La componente tagliaffetta, predominante ma non isolata, non tedia, sostenuta da un numero di tecniche paragonabile a quella di un beat em up 1 contro 1 (e si ricorda che ognuna delle armi del gioco ha una nutrita movelist dedicata). E proprio quando si pensa di poter prevedere la direzione nella quale si evolverà il gioco, Ninja Gaiden sor-

Ring#11

prende con sequenze maggiormente adventure, che ora cedono il passo a puzzle (lievemente) più elaborati, tratti che ricavano il maggior utile dalla possibilità di utilizzare arco e frecce in prima persona, carezzevoli sciarade di natura piattaformica. Più avanti, il rinvenimento di specifiche armi e item consentirà, da tradizione, l’accesso a quelle aree bonus dinnanzi alle quali siamo transitati più volte nel corso del gioco. La stessa geometria di Tairon subirà variazioni rilevanti in seguito a particolari eventi della sceneggiatura. Fino alla fine il Team Ninja sa miscelare questi elementi per offrire un bilanciamento diverso, una sfida stimolante, un diversivo, un incentivo.

Capitolo XV – The Core: Il Team Ninja riesce per primo pienamente a far coesistere immediatezza bidimensionale e suggestione tridimensionale. E se Dante c’era andato vicino, Ninja Gaiden rappresenta la piena maturità del genere non trascurando alcun altro aspetto di gioco. O quasi. Quasi, perché, come accennato, l’azione è purtroppo resa talvolta confusionaria da un cameraman inoperoso e penalizzato da un quoziente di intelligenza artificiale non particolarmente elevato. Va riconosciuto, a parziale discolpa del cineoperatore, che è certamente compito improbo seguire la lesta azione di Ryu Hayabusa riuscendo contemporaneamente a includere nell’inquadratura i numerosi maldisposti che lo circondano. Nondimeno, alcuni errori potevano e dovevano essere evitati. Si finisce talvolta per menare precauzionali fendenti a vuoto o per beccarsi una shuriken sulla sella del naso, inaspettatamente pervenuta dall’oltreschermo. Rientra comunque nei limiti dell’umano evitarle all’ultimo istante o bloccarle, e mi spingo oltre, fino a sostenere che riuscire in questa impresa gratifica ed innalza lo spirito ninja del giocatore diligente, offrendo al contempo un’ottima scusa per l’incapacità dell’inadeguato. Non è però un’ottima scusa per il Team Ninja, che nel generale contesto di eccellente lavoro di cesello, avrebbe dovuto curare maggiormente questo aspetto. In particolare, sono i rapidi spostamenti verticali di Ryu a causare grattacapi allo scioperato cameraman che a questo punto ci figuriamo adiposo e sofferente. Viene in aiuto il tasto R, da premersi con una frequenza simile a quella del tasto di attacco, che ha la funzione di richiamare l’attenzione della regia su di sé. I boss, che si inseguono in rutilante coreografia, potrebbero in alcuni casi essere supportati da meccaniche di gioco più creative: in generale, gli scontri più memorabili sono quelli con altri nerboruti ninja della nostra taglia, che funziona-

24

The Way of the Ninja Affronta all’arma bianca eserciti di ninja, samurai e militari, elicotteri, tank e la più meravigliosa, spaventosa, maestosa e terrificante, parata di mostri di fine livello nelle cui narici la capace cassa toracica del box abbia mai soffiato l’alito di vita e bumpmapping. Maneggia con sapienza varie armi per il corpo a corpo e da lancio, non disdegnando incantesimi di rara possanza visiva. Ma la dote ginnica più prodigiosa di Hayabusa è che, in quanto ninja, non ha bisogno di completare il ciclo di un’animazione per passare al movimento successivo, non ha bisogno di poggiare il piede destro sul terreno durante la corsa per spiccare il salto, non ha bisogno di mostrarci ogni frame dell’animazione in cui ripone la spada nel fodero, per aggrapparsi a un cornicione dopo un aggraziato volteggio. Non ha bisogno che voi veicoliate, tramite pressione di combinazioni di tasti dall’accessibilità opportunamente problematica, il vostro desiderio di camminare su una parete, o attraverso la prolungata pressione della leva, di scavalcare un parapetto. Quello che altri personaggi impiegano alcuni istanti potenzialmente fatali a capire, Ryu Hayabusa lo intuisce. E con stupefacente precisione lo mette in atto. È forse questo l’aspetto che più di ogni altro consacra Ninja Gaiden come la perfetta esecuzione tridimensionale di un classico delle 2D.

no come picchiaduro 1 contro 1 con piena dignità, Boss più corpulenti sono talvolta collocati in aree troppo anguste per poter essere affrontati con lucidità. Altri ancora attaccano con pattern fin troppo elaborati e imprevedibili, al punto che un giocatore meno che orgoglioso, dopo qualche tentativo infruttuoso, potrebbe decidere di tornare da Muramasa per rimpinguare le scorte prontosoccorsiche e affrontare il mostro caricandolo a testa bassa e tracannando pozioni curative, incuranti del suo ostentare atteggiamento ostile nei nostri confronti. Si potrebbe anche dire che Ninja Gaiden ha un valore narrativo prossimo al nullo e fa poco per sedurci con i suoi interpreti, se si esclude modellare sul torace di Rachel un robusto paio di gigantiche tette, secondo una spensierata consuetudine della software house nipponica. Ma non possiamo dire di essere innamorati del personaggio; al più, si può ipotizzare con lei del ragguardevole sesso senza amore. Questi sono i principali deterrenti al debutto della S ringhica, per quanto effettivamente, Ninja Gaiden tracci con netto taglio di katana la proverbiale linea di demarcazione, lasciandosi d’un volteggio la concorrenza alle terga prima di un teatrale ninja vanish.


:RECENSIONI:

Ring#11

L’Attacco del Clone

[Onimusha 3]

di Amano76

Delusi. Così si resta dopo aver completato Onimusha 3. La trilogia è diventata una serie, ma assieme ai tempi narrativi si è dilatata anche la qualità. Il genere delle avventure vive del senso spettacolare che tenta di riprodurre, dell'impatto estetico, dell'attenzione che provoca intorno a sé con gli screenshot diffusi dalla stampa. L'unico modo che ha di resistere alla sua fama è mantenere le promesse, perché non esiste delusione maggiore di un prodotto che fallisce pur in UNO solo degli aspetti ove garantiva eccellere.

Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione

.:scheda:. Survival Samurai Capcom Interno PS2 2004 1 Giapponese

Viene spontaneo chiedersi come si possa riuscire ad avere per le mani il sistema di combattimento di Onimusha 2, non impeccabile ma comunque gustosamente sfaccettato, e finire con l'edulcorarlo al punto di renderlo monotono e frustrante. Non capita di rado ultimamente: basta dare un'occhiata alla saga di Devil May Cry. Ciononostante la preoccupante piega che ha preso Capcom nella realizzazione dei suoi prodotti di grido fa cascare le braccia (e non solo quelle). In Onimusha 3 non è più possibile sconfiggere un avversario secondo il metodo che si preferisce, ma si deve anzi categoricamente ricorrere a tecniche specifiche per ciascun tipo di nemico. Non viene concesso spazio all'improvvisazione e allo stile. L'accento dato all'esecuzione degli Issen (fulminei movimenti della spada che eliminano gli avversari con un colpo solo) li ha resi non più risorse da "utente esperto" ma strumenti imprescindibili. Se questo può far sembrare il gioco più strategico, è però innegabile che spesso mettere a segno gli Issen si rivela un'impresa condizionata dall'eccessiva quantità di avversari, con il giocatore imprigiona-

to nel mezzo di situazioni ove l'unica garanzia di sopravvivenza è il ricorso alle super. A ben poco serve tentare gli Issen a catena (premere rapidamente il tasto quadrato per effettuare a ripetizione la tecnica appena descritta) visto che il tempismo richiesto per metterli a segno risulta ancor più inaccessibile di quello per le Chain di Vagrant Story. In definitiva il non poter gestire autonomamente le strategie d'attacco impedisce di acquisire la piena padronanza del sistema di combattimento, lasciando in bocca il sapore amaro dell'umiliazione. Intanto lo sguardo corre alla confezione di Viewtiful Joe: la tentazione di afferrarla diventa sempre più grande... È cambiato qualcosa, con il tanto sbandierato passaggio alle tre dimensioni? Bah, qualche sporadico accorgimento è stato effettuato, ma niente che abbia a che fare con una rinnovata interpretazione dello spazio ludico. A spiccare è il debutto della tengu1 Akon, che permette di ovviare ad uno dei problemi "storici" di questo genere di avventure (quelle a inquadratura fissa) poiché la petulante fatina si dirige automaticamente verso gli avversari nelle vicinanze, scongiurando situazioni di attacchi inaspettati. Sempre ad Akon è stato demandato l'incarico che in passato era affidato a talismani e collane, cioè quello di ripristinare l'energia vitale, diminuire il consumo di punti magia durante l'uso delle super o assorbire anime a una maggiore velocità. Cambiandole l'uniforme (ne possiede sette, da scovare negli scenari del gioco) si possono ottenere tutta una serie di effetti benefici che se usati con criterio si rivelano particolarmente agevolanti. Almeno in modalità normal. Già. Un altro problema di Onimusha 3 è che seppure ci si intorpidisce di Issen, viene comunque elargita una quantità tale di anime gialle (ripristino dell'energia vitale) anime bianche (ripristino punti magia) pozioni e unguenti curativi, che alla fine persino completare gli Spazio-tempo demoniaci diventa un impresa da poco. Un altro palese

25

smacco rispetto al secondo capitolo, dove ne erano presenti ben cinque e tutti sufficientemente proibitivi. Stavolta ce ne sono tre, tutti brevi e facili da portare a termine. Considerato che in quanto a strategia gli Spazio-tempo demoniaci erano il fiore all'occhiello della saga, risulta completamente imperscrutabile la scelta degli autori di semplificarne durata e complessità.

Lo Spazio-tempo demoniaco, una sorta di dungeon che si estende verticalmente e dove ogni piano aumenta il grado di sfida offerto con avversari sempre più tenaci e numerosi. Almeno così accadeva nei primi due episodi...

Più di tutto, quello in cui pecca Onimusha 3 è l'atmosfera. La "giapponesità" dei capitoli passati, già di per sé contaminata dalla presenza dell'europeo Reno e della sua cricca di antipaticissimi comprimari, è stata annacquata da una galleria di mostri poco ispirati, da scenari impersonali (per giunta, spesso e volentieri, "occidentali") nonché da "cattivoni" senza spessore. I caratteristici templi buddisti, i castelli medievali con le loro assi di legno lucido e con i loro paraventi illustrati, i giardini in perfetto stile Zen, tutto si è volatilizzato per far spazio a Notre Dame, all'Arco di Trionfo e alla Torre Eiffel. Fa comunque il suo porco effetto, almeno per chi ha visitato la capitale francese, ma in qualche modo viene a snaturarsi l'animo orientaleggiante della saga. A questo c'è da aggiungere una sceneggiatura elementare che più elementare non si può, incapace di concedersi tanto l'ironia (se non quella involontaria) quanto alcuni momenti di sana crudeltà visiva. Lo stesso Reno "interpreta" (interpreta?) un personaggio che non si lascia ricordare per alcun tratto distintivo, alcun conflitto interiore, e che in conclusione risulta come il solito prestanome cinematografico (ricordate One? con la straordinaria partecipazione di Bruce Willis?). Samanosuke non rivela altro di sé che l'intenzione di eliminare definitivamente Nobunaga, senza mai mostrare alcun rimpianto per gli affetti che si è lasciato alle spalle


:RECENSIONI:

(Ayame e la principessa Oyuki) o manifestare una qualsiasi emozione fuori dalle righe. Di fatto è un personaggio solo, abbandonato, ma talmente austero e morigerato da risultare fastidiosamente noioso. L'unico elemento creativo a restare intatto è il gusto musicale che ha contraddistinto i capitoli passati, ma non basta una notevole colonna sonora a riempire le vuote pretese cinematografiche di Onimusha 3.

Reno durante un furioso scambio di complimenti con un genma (i cattivi del gioco). L’annotazione del numero di "merde" che pronuncia durante l'avventura richiederebbe l'uso di un pallottoliere. [SPOILER] Molto divertente la scena in cui il suo amico gli crepa tra le braccia mormorando: "Speravo di morire vicino a mia moglie e mia figlia, invece lo farò tra le tue braccia. Merde!". Un grande momento drammatico, non c'è che dire [/SPOILER].

Onimusha76 Devono essersene accorti PERSINO i giapponesi. Onimusha, la serie di punta di Capcom per PS2, è passata dalla sua media di un milione di copie a episodio alle quattrocentocinquantamila del terzo2. Non è la prima volta che succede. La saga di Resident Evil aveva subito la stessa sorte all'epoca di PlayStation, con un primo episodio venduto in 1'120'000 copie, un secondo che addirittura superò i 2'150'000, e un terzo che ne totalizzò 1'380'000 (tutto questo nel solo Giappone). Poi Capcom decide di traslocare Resident Evil su un'altra console: pur essendo uno dei titoli più venduti del Dreamcast (400'000 copie circa) Code Veronica non raggiunse né si avvicinò alle cifre a sei zeri delle puntate precedenti. Il pubblico si era evidentemente stancato della stessa formula ripetuta ad libitum, finché Mikami non ebbe la poco avveduta idea di pubblicare un remake del capitolo originale su Gamecube. Il verdetto del mercato, nonostante l'eclatante votazione di Famitsu (10, 10, 9, 10) è di 150'000 copie. Bocciato. E nonostante questo Capcom ha forse imparato la lezione? stando alla qualità del gioco appena recensito, si direbbe proprio di no...

Ring#11

Estrema confusione poi nel sistema di combattimento, che finisce con lo sballottare il giocatore da un personaggio all'altro, costringendolo a venire a patti con dei controlli leggermente differenti ad ogni avvicendamento. È vero che l'alternanza di stili era presente anche nel secondo Onimusha, ma in quel caso il passaggio da un personaggio all'altro era molto meglio scandito. In più (e viene da dire: oltre al danno la beffa) il set di armi a disposizione pecca di sovrapponibilità. Le peculiarità di ciascuna spada o frusta sono ora molto meno consistenti che in passato, sia per quanto riguarda la rapidità delle combo sia per quanto riguarda le prestazioni coreografiche: le catastrofiche super delle armi precedenti comunicavano mirabilmente la potenza magica che veniva scatenata, mentre i movimenti che accompagnavano le sequenze di colpi erano attentamente studiati per esprimere la leggerezza o la pesantezza dei vari equipaggiamenti. Ancor più risibile poi il controllo del terzo personaggio, Michelle (la concubina di Reno), che in qualità di variazione sul tema "scontri corpo a corpo" propone l'utilizzo di armi a lungo raggio. Inutile dire che lo spessore strategico offerto da mitragliatrici e fucili di precisione è sottile quanto quello vantato da un Resident Evil. Preso come un'opera a sè, il nuovo Onimusha sarebbe un buon gioco. Forse. Ma così, un terzo capitolo inferiore sotto ogni aspetto ai precedenti, è uno scempio che non può passare indisturbato. La totale insufficienza è scongiurata dall'eccellente modalità hard, in cui la difficoltà a procedere non è frutto di uno scarso numero di oggetti curativi (come avvenuto nei primi due episodi e come avviene, da sempre, nella serie di Resident Evil) ma di un accorto riposizionamento dei nemici e dall’inserimento di gruppi di avversari organizzati in modo più eterogeneo. Paradossalmente, invece di risultare ancor più confusionaria, quest'opzione garantisce maggiore libertà strategica e più varietà di combattimento. Altrimenti nulla avrebbe salvato l'ennesimo sequelciofeca di Capcom dalla temutissima D di Ring. Ridatemi Jubei.

Note [1] Uno dei tanti tipi di folletti presenti nei racconti tradizionali giapponesi. Presentano caratteristiche corvine e amano prendersi gioco degli umani. [2] La stima è aggiornata all'ultima settimana di marzo

26

[Ring è] Il Ritorno del Re IMO il finale poteva essere molto migliore, propongo due versioni: - Alla fine, quando sono a Gondor e tiran fuori Arwen da dietro il bandierone, arriva Morgoth a cavallo di un nazgul e porta via la principessa. Viggo si veste da idraulico e saltella via... - Finale uguale a quello presente, con la chiusura sul portoncino di casa Gamgee. La porta si chiude. Poi si spalanca e ne esce la mano pelosa di King Kong.

Nemesis Divina

~ [Ring è] Il gaffiere miope Domanda: qualcuno ha giocato Lord of The Rings per SNES? Io mi sono bloccato dopo 20 minuti perchè non trovato gli occhiali che il Gaffiere rivoleva indietro (pensa te che merda).

Gunny

~ [Ring è] Seminale Devo riempire un barattolo di sperma per un'amica che deve fare la tesi all'accademia delle Belle Arti. Tesi sull'erotismo nell'arte e fra i progetti tira fuori un dipinto con tempera mista a sperma. Che storia. Sarà bello essere munto a fini artistici ^_^

Nemesis Divina

~ [Ring è] Link a… www.ntsc-uk.com Consigliatomi caldamente da Amano, inizialmente mi aveva fatto un'impressione da worst site ever. In realtà il problema stava tutto nel fatto che un tale Ollie Barder ha scritto una recensione di ZOE2 (voto 5/10) straripante di vaccate. Tra l'altro lo stesso tizio ha dato solo 6 a Otogi 2, a conferma delle giga-aspettative che nutro verso questo titolo. Il resto del sito, e soprattutto il resto dei redattori, mi sembrano invece piuttosto validi. E per piuttosto validi intendo sorprendentemente buoni per essere su internet. Fatevi un giro, hanno anche la recensione del gioco dello stercoraro. Cryu


:RECENSIONI:

Ring#11

La Sirena Suona Sempre due Volte

[Forbidden Siren]

di Hob «It's been a bad day, please don't take a picture» R.E.M., "Bad Day"

Introduzione

Forbidden Siren è un gioco che è partito col piede sbagliato. All'indomani del suo annuncio, in molti erano ancora dubbiosi per quanto riguarda il genere di appartenenza: cosa deleteria per un franchise sconosciuto. “È di SCEI, saranno quelli di Ico?”, “l'ho provato, ma non ho mica capito... dove sono i nemici?”, dubbi legittimi, almeno fino al momento in cui non è stata annunciata la mente dietro al progetto: Keiichiro Toyama. Direttore dello sviluppo del primissimo Silent Hill (quello bello, diranno alcuni) e del presente Siren, la bontà dei suoi lavori è un dato di fatto. La sua capacità di creare autentici "microcosmi horror-ludici" è impareggiabile: mondi fatti di suggestioni, di scorci di vita quotidiana che trasfigurano in autentici incubi, alienando i protagonisti delle vicende e con questi l'utente, condotto per mano sull'orlo di un baratro senza fondo. E se in un certo senso Silent Hill può essere considerato un prototipo, ancora legato alla concezione biohazardica del survival horror, Siren ne è invece la realizzazione completa: il survival horror secondo Toyama. Nessun compromesso, stavolta. Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione

.:scheda:. Stealth Survival Sony SCEI PS2 2004 1 Italiana

No more Umbrella

La trama è solo il primo dei molteplici aspetti che pone Forbidden Siren su un piano del tutto diverso rispetto a quello del canonico survival horror. Articolata lungo tre giorni, la storia narra le vicende di un gruppo di dieci persone in qualche modo invischiate con la città di Hanyuda. Gli elementi scatenanti della narrazione sono una strana cerimonia svolta tra i boschi – accompagnata da una straziante litania in sottofondo – il suono di una sirena

nella notte e un "mare di sangue" nel quale sono immersi gli abitanti della città. Da questo mare di sangue i cittadini Hanyudensi (si dice?) emergono sensibilmente alterati nella forma e nel carattere. Sono adesso Shibito, una sorta di versione “senziente” dello zombie classico, caratterizzati graficamente in maniera splendida e sensibilmente differenti l'uno dall'altro: dal poliziotto che alterna tre-quattro diverse smorfie in un secondo, alla bambina che piange e gronda sangue, passando per molte altre varianti. Gli Shibito sono il perno intorno al quale è costruito il gioco. Pur non essendo fulmini di guerra, hanno capacità che lo zombie di serie può solo sognare: aprire le porte, sparare con diversi tipi di armi e, in particolare, dare la caccia al giocatore in maniera "attiva". Altro aspetto distintivo del titolo SCEI è il dipanarsi della narrazione. Il giocatore si ritroverà più volte nei panni di ciascuno dei dieci protagonisti, in maniera assolutamente non lineare, nel tentativo di ricostruire quello che è realmente accaduto nel villaggio di Hanyuda. Il gioco diviso in missioni, ognuna delle quali prevede il raggiungimento di uno specifico obiettivo. L'ordine cronologico delle missioni è all'apparenza scelto a caso, ma in verità segue un disegno ben preciso. Uno schema mentale facilitato dal “link navigator”, una tabella che sintetizza gli accadimenti di ogni singolo scenario, riportando quale personaggio è stato controllato in un certo lasso di tempo e che cosa è successo in quella particolare missione. Sempre tramite il link navigator è possibile accedere a nuove fasi di gioco, previo il completamento di alcuni quadri chiave che fungono da requisito, anche narrativo, per la missione successiva; o anche affrontare nuovamente uno scenario già completato per raggiungere il compimento di un obiettivo secondario, la cui importanza diverrà chiara solo con il proseguire del gioco. Similmente al primo Silent Hill, che poteva finire anche senza spiegare un bel niente, la comprensione della storia in Forbidden Siren è proporzionale alla dedizione dell'u-

27

tente. La trama è complessa, convoluta, e si rifiuta di dispiegarsi completamente. Compito del giocatore è di mettere insieme gli indizi, i dettagli all'apparenza inutili, collegando i riferimenti nel modo giusto. Le contraddizioni, in puro stile Toyama, non mancheranno, ad esempio perché gli abitanti escono dalle acque sotto forma di Shibito? E come mai Kyoya, il primo dei protagonisti, pur cadendo nel mare di sangue ferito a morte, ne riemerge completamente sano? Che significato ha la sirena che ha dato inizio a quest'incubo? Tante domande, poche risposte: un lavoraccio, ma comunque appagante, un segno distintivo dell'operato di Toyama. E se proprio non riuscite a comprendere ogni risvolto della trama, ci penseranno per voi i prossimi indepth di Ring ;)

Kyoya Suda, il primo personaggio che vi ritroverete a controllare: in questa scena, tratta dall'intro, lo si vede spiare nella cerimonia religiosa svolta tra i boschi. Una curiosità che si ritroverà ben presto a ripagare. Interessi compresi.

Somebody save me

Okay, subito con la domanda da un milione di dollari: Forbidden Siren fa paura? Sì, sì e sì. Il gioco È terrorizzante. Detto questo, è possibilissimo non entrare nella mentalità giusta. D'altronde, la paura fa 90, non 100. Non si tratta di un fattore oggettivamente discretizzabile: le esperienze di ognuno in merito cambiano la propria percezione del terrore. Forbidden Siren non tenta la pugnalata tra le costole, quel colpo di scena improvviso che, vissuto la prima volta, è già vecchio: l'atmosfera, la "malattia" e la frustrazione sono le tematiche centrali dell'esperienza ludica. Siren va vissuto nel modo giusto, piegandosi alle nuove leggi dettate da Toyama, e non cercando di ribellarsi ad esse. Alcuni potrebbero non gradire tutto ciò, ma quello che si perdono è proporzionale alla loro superficialità. Andiamo nel dettaglio… Abituati al più classico dei survival horror, Siren si rivela inizialmente alienante. Disarmati, inermi, contro un nemico che ci dà la caccia senza sosta, l'unica vera arma di cui veniamo dotati è il sightjack. Si tratta di una facoltà particolare, comune a tutti i protagonisti del


:RECENSIONI:

gioco, tramite la quale il personaggio può sintonizzarsi, come fosse una radio, sulle “frequenze” degli altri esseri, siano umani o Shibito, permettendo la visione dagli occhi della creatura. Esperienza genuinamente disturbante, il sightjack è tutto fuorché mera feature da sbandierare nel retro della scatola. Si tratta piuttosto dell'elemento centrale del gameplay e della sopravvivenza in Siren. Gli Shibito non sono misericordiosi: quando vedono il giocatore, lo inseguono, o peggio, nel caso dei cecchini, lo crivellano di proiettili. E sono sufficienti due colpi per riscoprirsi defunti. No, non ci sono erbette. È qui che il sightjack entra in azione: la necessità di rimanere celati allo sguardo nemico, evitando il confronto ogniqualvolta possibile, è di fatto attuabile prendendo “in prestito” la vista dei nemici, studiando così il loro pattern di pattugliamento o la zona di appostamento dei cecchini. Ma esistono anche metodi alternativi di utilizzo del sightjack, che con il proseguire del gioco stupiscono per la loro genialità nell'implementazione (e non pensiate che sia utile sightjackare solo gli Shibito… origliare vi è sempre piaciuto, scommetto... ;) Tuttavia il sightjack non trasforma il gioco in un banale nascondino: capire dove sono appostati gli Shibito rimane decisamente arduo, a meno di conoscere la topografia di ciascuna zona a menadito. Similmente, la sintonizzazione sulle “frequenze giuste” è più difficile del previsto. Il sightjack si attiva premendo L2, per poi ricercare le frequenze visibili lungo un’ipotetica “banda” rappresentata dai 360° dello stick analogico – le frequenze sono però, in genere, stipate in un intervallo angolare assai stretto, obbligando a compiere il “giro di

Ring#11

stick” con lentezza e metodo. Ma non è tutto: altro aspetto fondamentale del gameplay è la mappa. In questa, la posizione del giocatore non è esplicitamente segnata. È però possibile orientarla in modo da guardare nella direzione in cui guarda il personaggio, e fornisce una legenda dei landmark più importanti (case, edifici, ponti, fiumi...), utili per poi cimentarsi in vere e proprie gare di orienteering al buio, riconoscendo sulla mappa i vari punti di riferimento: “Ecco la casa, a destra c'è il ponte, quindi se scendo da qui arrivo alla cabina?”. Cosa che, pur complicando la vita al giocatore, funziona a meraviglia. Il fatto di non poter esplorare gli ambienti a propria discrezione, a causa della “minaccia Shibito", è comunque degnamente compensato da questo “obbligo”, che costringe ad una pianificazione ragionata dei sopralluoghi.

Kyoya ha visto giorni migliori, mentre sullo sfondo Miyako è inerme nel modo più assoluto. Alcune missioni richiedono la scorta di alcuni personaggi mediante semplici ordini da menù del tipo "fermati", "avanza", o "urla" per attirare l'attenzione degli Shibito su di sé e offrire una chance di fuga al compagno tramite l'ovvio "scappa!".

Fermi tutti, non è ancora finita: anche la torcia, di cui ognuno dei personaggi è dotato, è finalmente inserita nel contesto di gameplay giusto. Ricordate il consiglio in Silent Hill di spegnere la torcia per

Hob consiglia...

La struttura ad incastro della trama di Forbidden Siren ricorda molto da vicino quello che è il miglior esempio di narrativa a fumetti degli ultimi tempi: 20th Century Boys, un manga di Naoki Urasawa. Similmente alle tre giornate di Siren, la trama di 20thCB si dipana lungo diversi periodi storici (guardacaso, tre), ed esattamente come il gioco di Toyama alterna senza sosta i vari personaggi, creando un mosaico in continua evoluzione, dove nessun ramo di storia viene abbandonato, dove nessun dettaglio è inutile o fine a se stesso e dove niente succede per caso. Altro aspetto analogo è il fatto che alcune missioni di Siren impongano al giocatore di fare certe cose pur senza capire bene perché le si fa (esempio, aprire una porta pur senza doverla attraversare nell'immediato), cosa che sarà poi evidente con il proseguire delle missioni. Similmente, 20thCB sfrutta abili giochi di regia facendo sì che a una prima lettura il significato appaia chiaro, insospettabile nella sua essenza, mentre alla luce della lettura dei volumi successivi, il tutto si carichi di nuove valenze e significati, fino al momento in cui si ha la consapevolezza di essere stati sul binario sbagliato per tutto il tempo, incolpevoli, ma sconfitti da un'organizzazione della trama da premio Nobel. Un capolavoro assoluto consigliato senza riserve. Se Ring recensisse i manga, 20th Century Boys sarebbe il suo primo S.

28

evitare di essere visti dai nemici? A che pro, di grazia, quando è sufficiente colpire due o tre volte un mostro per ucciderlo, o peggio, dribblarlo con una facilità clamorosa? Bene, benissimo anzi: in Siren la torcia è finalmente l'arma a doppio taglio che ci si aspetta. Gli Shibito la vedono, e se la vedono, la vogliono veder spenta. Questo costringe a fare alcuni tratti al buio, sotto la pioggia, affidandosi unicamente al proprio orientamento, timorosi che accendendo la torcia si possa essere scovati da un momento all’altro. Cominciate a capire? Credo di sì. Forbidden Siren è giocabile in due modi, uno buono e uno cattivo… 1) il metodo “Trial & Error”, che alcuni redattori e i più frettolosi tra i giocatori potrebbero finire per seguire. Non è difficile da spiegarsi, in quest'ottica, il 54/100 dato a Siren da CVG, e in generale la mancanza di voti di fascia media dati al gioco. O insufficiente, o eccellente. I seguaci del Trial & Error sono rei di voler imporre a Siren le caratteristiche degli altri survival horror, per poi rimanere frustrati per l’ennesima morte dovuta alla fretta, alla noncuranza, ma soprattutto alla mancanza di immedesimazione, finendo quindi per bollarlo come ingiocabile. 2) il metodo “dello sfigato impaurito”, colui che avanza a carponi, la torcia spenta, un passo avanti e due indietro, perché “lì mi sentivo più sicuro”. Quello che gli Shibito non li vuole neanche vedere, men che meno combattere, e che controlla dopo ogni passo col sightjack di non essersi esposto troppo, consapevole della possibilità di retry in caso di morte, ma che ciononostante non vuole morire. Ogni avvistamento è seguito da un flash rosso, una veloce visione dagli occhi dello Shibito e un sussulto sul pad. Panico, spengo la torcia, cerco riparo, mi accuccio e BLAM! uno sparo nella notte. Mi colpirà? Oppure, raggiungendo il personaggio che mi ha fatto da guida, lei mi guarda e dice: “attento, ce l'abbiamo alle costole”, mi volto e vedo la luce di una torcia poco più in là, e si avvicina... E ancora, l'inizio della terza missione, con uno Shibito cecchino sulla casa vicino al ponte, che obbliga a cercare una via di fuga sul letto del fiume, cercando copertura sotto al ponte, per poi procedere nuovamente nella pioggia, a torcia spenta per non essere visto... Fuggire, io voglio SOLO fuggire... Morale della favola, con il secondo metodo si finisce per giocare avvertendo una tensione che è dai tempi del primo Silent Hill che non si provava. Ma laddove in SH era


:RECENSIONI:

una tensione “tarocca”, in gran parte frutto della capacità di autosuggestione del giocatore, in Siren la minaccia c'è, ed è tangibile. Gli Shibito fan paura. Non solo il design è azzeccatissimo, ma avere nemici intelligenti, tra l'umano e il demoniaco, che mugugnano, parlottano, che si trovano lì proprio per dare la caccia al giocatore e che NON si possono uccidere (qualche personaggio ha con sé un'arma, ma è comunque consigliabile di non abusarne: il munizionamento è alquanto ridotto) finalmente impone di giocare ad un survival horror consapevoli della situazione disperata che vivono i protagonisti, condividendo con loro l'angoscia del non essere visti e del non voler vedere. L’impossibilità silenthilliana del “gioco di corsa per vedere cosa c'è dopo” è pertanto ineludibile. Le regole di Toyama non si spezzano, né si piegano. Non c'è una via di mezzo, questa volta il male è più forte del bene. Al giocatore il decidere o meno se stare al gioco.

Cielo rosso sangue, torcia accesa, Shibito in marcia. Welcome to Hanyuda :)

Like this, like that

Graficamente, il titolo è apparentemente grezzo, non presenta vette di indicibile splendore visivo, è talvolta approssimativo, ma rimane coerente nelle scelte artistiche, arricchite da un lavoro di ricerca a livello simbolico e iconografico che ha del miracoloso. Lavoro che fa trasparire in pieno la potenza di suggestione dell’opera di Toyama.

Ring#11

I personaggi, in primis, sono stati texturizzati avendo come base le persone vere. Nessun superfigo o aspirante idol di sorta, quanto persone normalissime, talvolta persino bruttine: veri e propri attori sul palcoscenico di un incubo. In alcune situazioni la scelta si rivela fin troppo ambiziosa. Il motore grafico non tiene certo dietro ad esigenze di fotorealismo, rendendo alcune scene più brutte a vedersi di quanto fosse lecito aspettarsi, soprattutto a causa di espressioni “falsate”, animate con pochi frame, senza contare il lip-sync fuori tempo, a tratti imbarazzante. Ma sono peccati veniali e non compromettenti. Gli scenari, pur non presentando moli poligonali ninjagaideniane, si difendono benissimo. Il gioco è articolato in dieci maxi-zone, all'interno delle quali non vi sono caricamenti (niente porte, niente “now loading”): fattore fondamentale per aumentare l'immersione dell'utente. Al di là di ogni disquisizione tecnica, l'atmosfera che si respira è proprio quella di una tipica località giapponese di montagna. Un villaggio rurale che versa in un male apparentemente incurabile, dilaniato dalla pioggia e avvolto da un buio opprimente. Bellissimo. Infine il sonoro: il gioco non è accompagnato da alcuna melodia, bensì dal semplice audio ambientale, molto buono nel complesso ma che non raggiunge i fasti di quanto ideato per i vari Silent Hill da Akira Yamaoka, musicista e “rumorista” di Konami Tyo, il cui lavoro rimane su vette di eccellenza insuperate. Inoltre, disgraziatamente Sony ha optato per il doppiaggio in italiano, tutto sommato decente, ma che di fatto smorza il feel così marcatamente giapponese del gioco. Voci jap e sottotitoli sarebbero stati – molto – ben accetti.

Capostipite

Toyama si dimostra, per la seconda volta, un autentico mostro di bravura. Questa volta però senza fare l'occhiolino a tutti. Forbidden Siren è difficile ai limiti del frustrante, mentalmente gravoso e da esaurimento fisico. Un titolo malato sin dalla sua prima concezione, un titolo non certo per chiunque in quanto non concede mezze misure, non scende a compromessi. Come i grandi capolavori, ha il coraggio di fare delle scelte, e di rimanere coerente con esse fino in fondo. Venderà pochissimo, ma farà parlare di sé. È un titolo importante quanto atipico, un taglio netto col passato, con la vecchia concezione del survival horror, un titolo ricercato, studiato a tavolino nei cinque anni di silenzio di Toyama. L'abbandono della barca del Biohazard “classico” da parte di Mikami e soci non sorprende alla luce di quello che Siren rappresenta: il nuovo capostipite nel genere dei survival horror.

:SMS-RECENSIONI: Speciale Game Boy Advance

di Pocket Sator

Flop of the PoP

[Prince of Persia: LSdT] Il principe non corre sui muri. Lasciate perdere.

~ Pandora Bauli [Splinter Cell: Pandora Tom.] È Super Mario stealth con un sacco di azioni eseguibili. Tutte noiose.

~

The Blair Siren Project

Molti di voi ricorderanno il caso mediatico della strega di Blair, quella compenetrazione tra diversi media, la generazione incontrollata di suggestioni sul pubblico, tanto da portare a pensare che fosse realmente una storia vera. Siren, nel suo piccolo, prova a fare altrettanto. Nel corso del gioco, si trovano numerosissimi documenti (i classici "files" di Resident Evil), che contengono, tra le altre cose, elementi apparentemente extra-ludici. Un semplice esempio, un file nel gioco contiene il link ad un sito, www.shibito.com. Il sito esiste realmente. E non solo, a quanto pare anche la città di Hanyuda esiste veramente, e guardacaso dopo la pubblicazione del gioco sono iniziate a girare strane voci che fosse una città fantasma, una leggenda di cui si preferisce non parlare: secondo queste voci, in una notte tutte le persone del villaggio sarebbero morte in seguito alla diffusione di una “bolla di gas” dovuta a uno smottamento della crosta terrestre. Bullshit? Verità? Resta il fatto che la città di Hanyuda esiste, ci sono le coordinate, si trova in qualsiasi atlante del Giappone. È scritta con kanji diversi rispetto a quella del gioco, ma...

29

Pop of the Prot

[Pop Idol]

Un rhythm game in cui i tasti non vanno premuti seguendo un ritmo? Ma che bella pensata!

~ Nemo Remigi

[Alla Ricerca di Nemo] A mia sorella fa cagare.


:RECENSIONI:

Ring#11

Have a nice stay, forever [Gregory Horror Show] di Gatsu

È facile confondersi…

Gregory Horror Show è il gioco che non ti aspetti. Primo perché con un titolo così l’unica cosa che ti viene in mente è che si tratti di un tie-in di The Rocky Horror Picture Show, secondo perché dagli screenshots è sostanzialmente impossibile capire come diavolo possa essere impostato il gameplay. Un po’ come per Animal Crossing, con cui il titolo Capcom spartisce tra l’altro uno stile grafico originale e vagamente allucinato. GHS, sviluppato da Production Studio 3, ha inoltre il grosso pregio di inserirsi in quel filone di titoli made in Capcom caratterizzati da una forte volontà di apparire “innovativi” (Viewtiful Joe, Killer7, Resident Evil 4…), pur essendo basato su un cartoon giapponese misconosciuto dalle nostre parti. E se stile grafico e trama sono forse più adatti ad un pubblico di giovanissimi, la meccanica di gioco stupisce per quantità di idee, per non parlare degli squilibrati personaggi con cui il nostro avatar si troverà ad interagire. Benvenuti nell’hotel di Gregory… .:scheda:. Survival demential stealth horror Etichetta Capcom Sviluppatore Production S. 3 Sistema PS2 Anno 2003 Giocatori 1 Versione Europea

Genere

…Quando hai un cubo al posto della testa

Il nostro alter ego virtuale non ha un nome. Giusto per fare un dispetto a Sator, lo chiameremo Oppipop. Di Oppipop noi non sappiamo un bel niente: né da dove viene, né perché abbia la testa così grossa. Il gioco inizia di fronte al Gregory’s Hotel: Oppipop ci si ritrova per errore dopo aver vagato inutilmente per la foresta-piena-di-nebbia. Il fatto che il Gregory’s Hotel sia in un’altra dimensione non intacca più di tanto la credibilità dell’intreccio, anche se viene naturale domandarsi cosa diavolo abbia combinato Oppipop per meritarsi una punizione simile. Alla porta arriva lui, protagonista assoluto del cartoon (chiaramente sto improvvisando): Gregory, un vecchio topo strabico dalla risata sardonica. Felice come una pasqua di ricevere un nuovo ospite, Gregory ci guida verso una stanza che sarà poi punto di partenza e base operativa del nostro Oppipop lungo tutto il corso del gioco. Prima di cominciare, una allegra Morte di origini

presumibilmente scandinave (la Nera Signora indossa infatti un cappello a foggia di bandiera svedese, per motivi a me ignoti…) ci compare in sogno, informandoci che l’unico modo per ritrovare la strada di casa è sottrarre le anime agli altri ospiti dell’albergo e consegnarle a lei. Dopo questo rassicurante incipit l’hotel è a nostra disposizione: tramite la mappa del piano terra che Gregory ci ha fornito Oppipop può girovagare per le stanze, iniziando a conoscere alcuni dei personaggi con cui si troverà ad interagire (16 in totale) e cercando di capire come funziona questa cosa del “fregare le anime”. La meccanica di gioco è abbastanza semplice: Oppipop può svolgere sostanzialmente una manciata di azioni (bussare alle porte, spiare dalle serrature, origliare i discorsi altrui, raccogliere/usare item, parlare con gli ospiti dell’albergo e leggere libri), tramite le quali deve riuscire a carpire i punti deboli degli ospiti in maniera da coglierli di sorpresa e costringerli a cedere l’anima. Il tempo di gioco è diviso in capitoli, durante i quali Oppipop fa la conoscenza, generalmente, di 3 ospiti per volta. Allo scopo di facilitare la risoluzione degli enigmi, ad Oppipop è concesso di tenere una sorta di taccuino, dove può annotare, ora per ora, le occupazioni della vittima designata. A complicare la faccenda, oltre alla esuberante personalità degli ospiti, concorre la furia di quelli a cui l’anima è già stata sottratta, che non perdono occasione di rincorrere Oppipop per fargliela pagare (anche a causa di questa particolarità, il gioco inizia a diventare tosto solo verso la fine, quando l’albergo è pieno di ospiti tutti tendenzialmente incazzati). Giusto per fare qualche esempio senza rivelare troppo, vi troverete alle prese con personaggi come James (diabolico nipote di Gregory, un incrocio fra Bart Simpson e il mefistofelico neonato dei Griffin), Catherine (un’infermiera maliziosa come una pornostar pronta a prelevare il vostro sangue con una siringa enorme), Hell’s Chef (un cuoco violento e puntiglioso), Neko Cat (un gatto a cui sono stati cuciti occhi e bocca, perennemente affamato) o Mummy Papa & Mummy Dog (una coppia di cani che si lamentano dei loro dolori, deambulando con armi conficcate in testa e bende e ferite dappertutto). Non tutti i personaggi sono ugualmente godibili da “sconfiggere”, perché molto spesso è fin troppo facile capire come rubar loro l’anima (in un paio di casi mi sono bastati pochi minuti di gioco). Nonostante questo, alcuni degli ospiti sono davvero spassosi, e tre o quattro di loro richiedono anche un certo impegno (in particolare Clock Master & My Son, Cactus Gunman e Hell’s Chef). Menzione d’onore va a Lost Doll, una versione “bambolosa” della protagonista de L’E-

30

sorcista, alla quale è sostanzialmente impossibile sfuggire. Farsi cogliere di sorpresa dagli ospiti furiosi comporta sempre una riduzione sostanziosa della Salute Mentale di Oppipop, nonché spesso l’aggiunta di qualche status negativo (mal di testa, nervosismo, malinconia, confusione), elementi che complicano un po’ la vita del giocatore con effetti grafici stile “sbornia”, inversione dei controlli o emorragiche perdite di sanità mentale. Inutile dirlo, il riposo e la lettura di qualche buon libro consentono a Oppipop di ripristinare/potenziare la Mental Gauge.

Time for juuuuudgment!

Tecnicamente il gioco è meglio di quanto sarebbe lecito aspettarsi: dotato di supporto per i 60hz, Gregory Horror Show è fluido e piacevole alla vista, pur non presentando grande complessità poligonale o effetti grafici da urlo (interessante la nebbia). Mediocri i filmati in CG, anche se moderatamente divertenti. Il sonoro è adatto all’atmosfera semiseria del gioco, così come gli effetti sonori e le brevi parti di parlato (da oscar il doppiatore di Judgment Boy). Strepitoso il finale, che si prende terribilmente sul serio facendo contemporaneamente il verso a saghe “adulte” come Silent Hill. I punti in cui Gregory Horror Show pecca sono purtroppo l’eccessiva facilità degli enigmi (sarebbe stato auspicabile un approccio più “laterale” a certe quest), una sostanziale impossibilità di affrontare le situazioni secondo pattern alternativi (in alcuni casi si arriva ad un paio di possibilità, comunque troppo poco) e una certa frustrazione che subentra nelle fasi finali del gioco quando tutti gli ospiti della casa ci vogliono morti: altro che Grande Fratello! Deprecabile, infine, che Oppipop sia praticamente inerme di fronte agli ospiti, anche se questa incapacità di difendersi dà luogo ad un confronto con il boss finale dallo svolgimento quantomeno insolito… Ad ogni modo GHS è uno dei titoli più originali apparsi sul mercato ultimamente, e a mio avviso va assolutamente premiato, pazienza se garantisce solo 10 ore di divertimento…o preferite passarne 100 a fare scontri casuali? PS: vi faccio notare, senza fare nomi, che in rete potete trovare GHS nuovo a circa 25 euro…


:RECENSIONI:

Ring#11

Sonica

[Sonic Heroes]

di Federico Res Sonic Heroes è privo di compromessi. È un gioco di Sonic Team, col talento di Sonic Team, e i difetti di Sonic Team. Ha un sistema di telecamere irrispettoso del giocatore, restio a slegarsi dalle routine di base per offrire una visuale di gioco degna di tale nome. Ha un sistema di controllo tendenzialmente schizofrenico, sempre pronto a sfuggir di mano come un’anguilla tarantolata. Ti asseconda finché fai il suo gioco, ti deride se fai di testa tua: a interrompere l’azione e tornare indietro si guadagnano visuali sbilenche, scorrette. A ballar la rumba sulle piattaforme sospese si casca immancabilmente di sotto. Sonic Heroes ti mette davanti a corse forsennate, ma si dimentica di registrarti i freni. A quel punto puoi decidere: mantenere il controllo e continuare a correre, o saltar fuori e gridare allo scandalo. Il che equivale a chiedersi: Sonic Heroes è il risultato di arguzie di game design partorite da giapponesi anarchici fatti di cocaina, o la conseguenza di tempi di produzione incompatibili con un sano periodo di debug? .:scheda:. Genere Speed Platform Etichetta Sega Sviluppatore Sonic Team GameCube, PS2, Xbox Sistema Anno 2004 Giocatori 1-2 Versione Europea

Qualunque sia la risposta (che trovate da qualche parte in fondo all’articolo) Sonic Heroes resta un container di divertimento misto a grappoli di invettive. Il gameplay è quello dei vecchi capolavori per Mega Drive, il level design cita i due Sonic Adventure usciti su Dreamcast. Da quei titoli, SEGA ha estirpato tutto ciò che non costituiva corse mozzafiato lungo ambienti lineari e verticali. Tutto ciò, in pratica, che ai fan dell’istrice non è mai andato giù. Sonic Heroes è Sonic al 100%. Niente divagazioni nell’adventure, niente crociate in stile shooter. In una progressione lineare, affrontiamo una serie di quattordici livelli disegnati esplicitamente per esaltare le velocità assurde del porcospino. Le citazioni ai trascorsi della saga sono innumerevoli: SH straborda di loop, salti improbabili, voli funambolici, binari sospesi e aggrovigliati da grindare. Non mancano le centinaia di anelli d’oro, disseminate per ogni dove, come unica fonte di energia (Sonic resta in vita finché possiede almeno un anello, muore se viene colpito quando l’apposito indicatore scende a zero). I pattern si affidano al modello “da A a C passando per B”: dove A è una piattaforma, C un’isoletta e B una molla in grado di

proiettare Sonic verso il disgregamento del muro del suono. La presenza nemica, dal canto suo, è solo il pretesto per nuove evoluzioni. Un tocco al tasto A fa saltare Sonic, un secondo tocco lo trasforma in una meteora diretta verso il nemico più prossimo. Dopo il primo attacco, un rapido tapping produce attacchi a raffica che Sonic indirizza verso qualsiasi cosa gli stia vicino. Il risultato è la distruzione orgiastica di plotoni interi di nemici in tempi che rasentano il motoneurale. E se la strategia latita, l’esaltazione scalpita: specie quando il ponte teso tra A (piattaforma) e C (isoletta) non è più una molla ma una serie di droidi volanti da travolgere a mezz’aria…

Ad aumentare la longevità del titolo contribuiscono le modalità multiplayer e sfida. All’interno di quest’ultima è possibile rigiocare i livelli già completati, alla ricerca della votazione più alta (espressa in lettere) o di nuovi emblemi da collezionare. A minacciare la longevità del titolo, d’altra parte, ci si mette la colonna sonora. I brani di Sonic Heroes non si discostano molto dal trash-rock già sentito nei due Sonic Adventure, e solo qualche lodevole divagazione elettro-pop (come la traccia abbinata a Casino Park) migliora un approccio musicale sinceramente discutibile… Ma il vero quid, il cuore dell’opera SEGA è il nuovo Team Battle. Sonic Heroes si affronta ai comandi di un team di tre elementi. Scelto il proprio team preferito tra una rosa di quattro (Team Sonic, Team Dark, Team Rose e Team Chaotix) si apprende la prima regola del Team Battle, Un tocco ai tasti X e Y è il ‘gimme five’ per un istantaneo cambio di leadership. Calati nell’azione, è immediatamente chiara la seconda: Ogni cosa in Sonic Heroes è modellata secondo le abilità dei protagonisti. Tempo pochi istanti e ci si ritrova vittime di un meccanismo convulso. Il loop all’orizzonte reclama la velocità esclusiva di Sonic (e dei personaggi degli altri team dotati di medesime abilità). Il giocatore sbircia l’angolo ALTO/DESTRA per aver chiaro lo schema del team, quindi sceglie il tasto da premere per ottenere il controllo di Sonic. Passato il loop, una serie di macigni blocca la via: il giocatore sceglie il controllo di Knuckles e abbatte gli ostacoli a suon di pestoni. Spazzati via i macigni, fa la sua comparsa uno stra-

31

piombo: il giocatore richiama Tails e spicca il volo, trascinando gli altri teammates, verso l’apice del dislivello. In quel momento è chiara la terza regola: Alle azioni semplici conseguono quelle composte. Premendo B durante il volo, Tails si produce in un poderoso colpo di reni e scaraventa i compagni – provvidenzialmente chiusi a palla – contro i droidi che stazionano fuori portata (Thunder Shoot). Knuckles, riavutosi dall’impatto, assume il comando e scatena il Fire Dunk (salto + B): sospeso a mezz’aria, fa roteare i compagni, divenuti sfere di fuoco, scagliandoli violentemente contro i droidi in precedenza storditi da Tails. Infine Sonic, sfruttando il Tornado Spin Attack (salto + B) rovescia i droidi e li colpisce a tradimento, mentre si agitano a terra impotenti… Azioni semplici/azioni composte: l’obiettivo è la prestazione perfetta, la partita priva di punti morti, dove ogni componente del team svolge la sua funzione in armonia con i compagni. Aiutano in ciò i character gates, pietre miliari che indicano la formazione migliore per superare un passaggio o cedono automaticamente il comando al personaggio più indicato. Aiuta il campo visivo splendidamente ampio, garante di una rapida e infallibile decifrazione dell’environment. Ma più che altro, aiuta scendere a patti con l’ultima regola di Sonic Heroes: Ogni azione, semplice o composta, si compie a velocità ciclonevrotica. Dove “ciclonevrotica” evoca la metafora di un giapponese anarchico, fatto di cocaina, alle prese con un monociclo sistemato sul cocuzzolo del K2… Sonic Heroes è la risultante di arguzie di game design, e, parallelamente, la conseguenza di tempi di produzione incompatibili con un sano periodo di debug. È un meccanismo imperfetto, che richiede al giocatore lo sforzo di adattarsi alle sue mancanze (telecamere e relativa imprecisione dei controlli in primis) e lo ripaga rimanendo sempre uguale a se stesso. Ciò significa, per chiunque non sia insensibile alla semplicità, una grossa coppa di gelato alla crema con scaglie di cioccolato amaro. Per tutti gli altri, un titolo da evitare. Un prodotto che invano prova a cogliere lo spirito dei tempi, proponendo una longevità robusta (per finire realmente il gioco è necessario completare i 14 stage con tutti i team), un aspetto grafico solido (di cui si apprezzano i 60 fps e alcuni effetti di luce) e la solita infarinatura di “stylish”, che Sonic per primo ha introdotto nell’universo dei videogiochi. Un prodotto che arranca privo del free roaming, o di sostanziali stimoli alla rigiocabilità (presenti solo per i veri fan del porcospino). Un prodotto che vorrebbe avere un posto nel mercato odierno ma che, intimamente, del mercato odierno se ne frega. E allora la tenzone è tutta tra gioco e giocatore, con quest’ultimo da identificarsi nel fan SEGA di vecchia data. La contesa è nello stabilire quanto siamo incapaci noi e quanto è imperfetto il gioco. Non si giunge mai a capirlo davvero, ma nel mentre ci si diverte una cifra…


:RECENSIONI:

Ring#11

La Casa degli Spiriti [Fatal Frame 2: Crimsom Butterfly] di Teokrazia Orrore: “Sentimento di forte paura e ribrezzo destato da ciò che appare crudele, ripugnante, in senso fisico o morale” Terrore: “Sentimento di forte sgomento, di intensa paura” Stringiculo: “Glaciale contrazione dello sfintere anale indotta da una fruizione notturna di Fatal Frame”

È facile confondersi…

I luoghi comuni mi stanno sul cazzo, c'è poco da fare. E quando si parla di Fatal Frame (Project Zero in Europa) il luogo comune è in agguato. L'utenza si dimostra infatti propensa ad etichettare il titolo come semplice epigono di Silent Hill, inserendolo nel filone "psicologico" del survival horror, dietro al best seller targato Konami e chiudendo qualsiasi altro discorso in merito. E ciò, in quanto luogo comune, mi sta piuttosto sul cazzo. E a ragione, dico io, perché ad un esame più attento i meccanismi della paura alla base dei due titoli mostrano ben poco in comune, oltre al fatto di porsi ambedue in aperta antitesi all'approccio splatter/finestra_rotta_dai_ cani di Resident Evil… Mentre Silent Hill conduce ad una lenta e inesorabile macerazione interiore, andando a rovistare in zone dell'animo dove albergano sensi di colpa e paure primordiali, e sfalsando le capacità cognitive del giocatore allo scopo di metterne in dubbio identità e ruolo, Fatal Frame opera all'opposto: mantenendo integro l'assetto emotivo dell'utente. Quanto più è lucido il giocatore, mentre attraversa le fatiscenti stanze di questo Giappone maledetto, e tanto più l'ansiogena coltre d'angoscia che innerva il titolo Tecmo si consolida, concretizzando la sensazione d'essere costantemente osservati da qualcuno… qualcosa, che potrebbe tornare dal mondo dei morti da un momento all'altro.

Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione

.:scheda:. Terrore Agghiaccante

Tecmo Interno PS2 2003 1 Europea

Sebbene coinvolga tematiche tanto care alla serie di Konami (il senso di colpa e il dolore della separazione) e nonostante sia interessato da inedite occasioni di pausa, temporaneo riparo dallo stato di tensione altrimenti perenne (il cosiddetto "stringiculo" di cui parlano i dizionari di italiano più raffinati), Crimson Butterfly ribadisce e rafforza l'autonomia del modello horrorifico della serie di appartenenza, risolvendosi in un'agghia-

cciante incursione all'interno di un mondo crudele e disincantato, che di magico ha ben poco. La storia, che anticipa quella narrata nel primo episodio di trent'anni, segue le vicende delle gemelle Mio e Mayu, attratte all'interno di un villaggio che non dovrebbe esistere e in lotta contro un destino che le vuole protagoniste di un antico rito fratricida. Il rapporto fraterno, in particolar modo quello fra gemelli, è il leit motiv del titolo e viene sviscerato con eleganza dal comparto narrativo rendendo ancor più devastanti ed incomprensibili gli orrori che attendono le due ragazze, facendo così da cassa di risonanza emotiva al potenziale terrorifico dell'esperienza. Come e più del prequel, Crimson Butterfly trova infatti una delle sue maggiori ragioni di fascino in questa capacità di sposare l'orrore al dramma, perché dietro ad ogni raccapricciante apparizione spettrale che si para di fronte a Mio (la sorella controllata dall'utente) c'è una vita spezzata, delle cui vicissitudini si viene resi partecipi tramite i documenti (diari e lettere) e le testimonianze audio disseminati lungo le aree di gioco, nonché attraverso coinvolgenti flashback. Il copioso avvicendarsi di cut-scene ed eventi in tempo reale, assieme ai repentini cambi d'inquadratura e alle incursioni di un lirico bianco e nero, assicurano un senso di continuità tra "narrato" e "giocato", difficilmente riconoscibile nelle produzioni concorrenti, e che contribuisce in maniera insostituibile all'edificazione di un'atmosfera spiazzante, in continuo fermento, sulla quale germoglia una sensazione di pericolo imminente che aggredisce il giocatore, già destabilizzato da uno sviluppo della vicenda che offre ben pochi punti di riferimento. Strutturalmente, Crimson Butterfly eredita in toto l'impostazione del progenitore, immergendo l'utente in ambienti

interamente poligonali, ritratti alternando con equilibrio angoli di ripresa fissi e telecamere mobili, e ricorrendo poi agli strumenti tradizionali del genere d'appartenenza: esplorazione, enigmistica e combattimento. Purtroppo, non tutti gli elementi posti a fondamento del gameplay sono sviluppati con perizia, andando ad incidere negativamente sulla godibilità complessiva. L'attività esplorativa, incentrata come di consueto sulla ricognizione delle aree di gioco alla ricerca di indizi, esige di premere meccanicamente il tasto Azione su ogni centimetro dello scenario, questo perché il luccichio, pensato per far risaltare gli oggetti con cui interagire, è applicato ad una scarsa percentuale di essi e non elimina quindi la necessità di perlustrare affannosamente stanze, corridoi e strade per evitare di mancare l'oggettistica non segnalata. Una dinamica di questo tipo, che si trascina in maniera farraginosa ormai da tempo immemore, oltre a portare all'erosione dell'abusato tasto X, appesantisce tangibilmente il fluire dell'azione e avvelena l'immedesimazione nel contesto, poiché ad ogni ingresso in una nuova locazione si deve pagar pegno, ripetendo il rito propiziatorio della pulizia a testa bassa, con buona pace della sospensione dell'incredulità. Una gestione più intelligente e snella di questo aspetto avrebbe generato effetti benefici sulla fruizione e avrebbe certamente evitato l'occorrenza di alcuni casi al limite del paradossale, quando si è impossibilitati a proseguire e quindi costretti a girare a vuoto per aver mancato, magari di pochi centimetri, l'attivazione di una cut-scene risolutiva… Delude anche il puzzle solving, il quale si adegua al generale livellamento verso il basso della sfida, offrendo enigmi semplici e ripetitivi (fortunatamente senza mai raggiungere i livelli offensivi di un Resident Evil). A concedere maggiore respiro agli aspetti di matrice squisitamente avventurosa, ridestando l'interesse altrimenti sopito, interviene l'utilizzo della Camera Obscura, una misteriosa macchina fotografica in grado di percepire la presenza di manifestazioni ultraterrene, siano esse rappresentate da malefici spettri, innocue anime in pena o banali campi di energia mistica. Grazie alla Camera Obscura è possibile vedere cose celate all'occhio umano e rinvenire indizi e oggetti altrimenti imperscrutabili, intuire il nesso intercorrente tra determinate locazioni o, più semplicemente, prendere delle istantanee degli spiriti erranti che infestano il villaggio (pratica che ha un suo perché, come vedremo…). Lo spostamento della visuale dalla terza persona alla soggettiva provocato

Il legame tra Mio e Mayu, piuttosto che rimandare al rapporto per eccellenza di questa generazione a 128 bit, ovvero quello tra Ico e Yorda, richiama invece più propriamente, nei modi e nel profilo psicologico di ciascuna, quello intercorrente tra Michele e Filippo, protagonisti dello sple ndido Io Non Ho Paura di Gabriele Salvatores, tratto dall'omonimo libro di Niccolò Ammaniti (2001 Einaudi, 220 pagine, 9 Euro). Che il producer Keisuke Kikuchi sia un appassionato di cinema e letteratura italiana?

32


:RECENSIONI:

dall'impiego della Camera Obscura, aggiunge un surplus non indifferente all'alimentazione della tensione, perché non contento di aver imbastito un climax terrorifico all'ennesima potenza, Fatal Frame si spinge oltre, imponendo all'utente di sondare l'ignoto con fare da voyeur, con la consapevolezza che il rischio di trovarsi faccia a faccia con il terrore è tutt'altro che remoto. Il lavoro d'indagine, alla cui base ci sono esigenze di game design, ma anche il semplice cazzeggio fine a se stesso, acquisiscono in questo modo un'attrattiva non indifferente.

Ring#11

scura (dimensioni e sensibilità dell'obiettivo, massimo accumulo energetico), nonché interessanti funzioni supplementari come lo zoom, la possibilità di evadere gli attacchi, quella di rallentare o rendere maggiormente visibili i fantasmi e quella di sferrare colpi devastanti (lo "Zero Shot"). Il ventaglio di possibilità offerte, unito all'esigenza di gestire con intelligenza le risorse disponibili (pellicole e punti esperienza), elevano ad un livello superiore lo spessore e il potenziale strategico degli scontri. Il senso di gratificazione viene poi alimentato dall'ottimo lavoro di caratterizzazione dei numerosi fantasmi, ciascuno dei quali vanta pattern comportamentali e attitudinali ben differenzianti, richiedendo di essere ingaggiato privilegiando di volta in volta particolari condotte, fatto che viene valorizzato negli scontri a più avversari, disseminati con maggiore frequenza e complessità rispetto al prequel.

zione degli item"), lasciano emergere la voglia di fondo di accontentarsi e di accontentare, di preferire il consolidamento del franchise piuttosto che ricercare con maggiore coraggio una sua evoluzione sostanziale. In questo senso, la natura ibrida di Crimson Butterfly (visto e rivisto a livello esplorativo, fresco e dinamico nei combattimenti), potrebbe rivelarsi controproducente, specie di fronte all'avanzata di titoli come Forbidden Siren, Silent Hill 4 e il prossimo Biohazard che promettono di condurre il survival horror ad una nuova era, relegando ai musei tutto ciò che possa apparire anche solo lontanamente old school…

>> Stop’n’Go >> 10 secondi al box ~

Localizza Questo! ~ Il corredo di extra offerti, oltre alla possibilità di creare ed editare il proprio album fotografico (con un ingombro di spazio su memory card dimezzato rispetto al primo capitolo) e di ammirare trailer e gallerie d'immagini, incentiva discretamente la rigiocabilità. Nuovi livelli di difficoltà si sbloccano man mano che il gioco viene terminato, rendendo disponibili nuovi finali, nuovi fantasmi da catturare, alcune funzioni extra della Camera Obscura e, in pura tradizione Tecmo, nuovi costumi e accessori per vestire le due protagoniste. Il Mission Mode, già incontrato nel prequel, si rivela un gradevole diversivo confermando al contempo la bontà del sistema di combattimento. Ma la Camera Obscura è principalmente uno strumento d'offesa, l'unico a disposizione di Mio, per tenere testa e debellare i fantasmi che attentano all'integrità sua e, in alcuni passaggi dell'avventura, della sorella. Per sconfiggere il nemico è necessario sottrargli energia scattando delle foto al suo indirizzo, fino a farlo scomparire. Il combat system, dotato di una certa sofisticazione e ben bilanciato già nel prequel, ha beneficiato di miglioramenti sia a livello quantitativo che qualitativo, confermandosi come l'elemento più rappresentativo e riuscito del gameplay. L'efficacia di ogni singolo scatto dipende da una serie di fattori, primo fra tutti il tipo di pellicola impiegata, ciascuno dei quali (a partire dal "Type 7" blando ma dal munizionamento infinito, fino ad arrivare al devastante ma raro "Type Zero") ha un potere esorcizzante e tempi di ricarica differenti. A seconda della distanza, della precisione e del momento in cui viene sferrato il colpo, si ottengono effetti diversi, infierendo più o meno danno, guadagnando la possibilità di concatenare scatti consecutivi senza sottostare ai canonici tempi di ricarica o portare addirittura all'uccisione istantanea dell'avversario. Tutte queste variabili incidono inoltre sui punti esperienza attribuiti a ciascuno scatto, il cui accumulo consente di acquisire, previo l'ottenimento di specifici item, incrementi delle caratteristiche della Camera Ob-

Si giocava a Final Fantasy Christal Cronicles.

A livello tecnico i miglioramenti più evidenti riguardano i modelli poligonali, decisamente più morbidi e verosimili, la qualità e il numero delle animazioni e la resa degli effetti speciali. Gli esterni e le texture sono invece curati in maniera altalenante, mentre le cut-scene e il doppiaggio denotano pregevole fattura. Una menzione d'onore spetta all'eccellente gestione delle vibrazioni del pad, fra le migliori in assoluto su PlayStation 2. Crimson Butterfly rende onore alla giovane tradizione di Tecmo in fatto di survival horror e offre un'esperienza ricercata nei modi che, grazie alla sapienti scelte tecniche e stilistiche, all'efficace comparto narrativo e all'intrigante uso della Camera Obscura, gli permettono di segnalarsi, al pari del prequel e del poco considerato The Thing, come uno dei tentativi più riusciti di rinfrescare un panorama dove regnano speculazione e conservatorismo. Sebbene raggiunga meno assiduamente le vette d'insostenibilità toccate dal predecessore, Fatal Frame 2 si consegna a noi come una delle più alte traduzioni in videogioco di concetti quali "terrore" e "spavento", stagliandosi, sotto il punto di vista meramente emozionale, ai vertici della categoria. Ci sono però aspetti che detestano perplessità e ne ridimensionano la caratura, proiettando contestualmente qualche dubbio sulle intenzioni dei programmatori. L'accondiscendenza con cui il gioco si lascia consumare anche se affrontato a livelli come "Normal" e "Hard" e l'ostinazione con cui è stato rispettato un modo ormai obsoleto di intendere il genere (consultare alla voce "acquisi-

33

Allora io longilineo mago, il mio amico nanetto-guerriero (chi ha il gioco capisce) e la sua ragazza che ci fa da guaritrice/guerriera (abbiamo inventato il chierico anche se nel gioco non c'è ). Con i nostri tre gba stiamo giocando a questo fantastico gioco quando arriva una carovana (uno dei tanti mini eventi). «Attenzione» ci fa il tipo, «Siamo stati attaccati da un mostro orrendo!» Noi pensiamo: "fico mo ci parla di qualche quest cassuta". «Si, state attenti anche voi al terribile BUDINO NERO» Le nostre facce o_O Mentre già pensavamo di dover affrontare un tremendo crem caramel gigante ci ripigliamo dal mal di stomaco causato dalle risate e entriamo in una missione… Dopo vari pestamenti osservo il mio display che mi indica la forza dei mostri e scopro l'arcano Signori, la professionalissima squaresoft ha tradotto SLIME in BUDINO :| Austin Punisher da it.comp.console


:RECENSIONI:

Ring#11

Vae Victus [Legacy of Kain: Defiance] di Nemesis Divina

Il Videogioco è uno strumento di narrazione. D’altra parte, sono in molti a reclamare la legittima affermazione della narrativa ludica, ossia quel flusso coerente che nasce e cresce aderendo alla nostra prestazione su schermo e che, meglio di qualunque altro artificio, dovrebbe definire la particolarità del videogioco. Se di questa narrazione ludica coerente abbiamo solo rari esempi (qualcuno cita l’armoniosa solitudine del cammino di ICO oppure la forsennata ed estatica danza di Dante, in Devil May Cry), molto più di sovente ci imbattiamo nel Grande Inganno: il cinema travestito da videogioco, in un rincorrersi di cut scene e filmati. Croce nel fianco degli studiosi del medium videoludico, l’ingombrante intromissione dell’intermezzo e del FMV ha sino ad oggi dettato il primo mezzo di trasmissione della narrazione, e se da una parte esistono esempi che offrono scampoli decisionali o situazioni da “interpretare”, più in generale l’equazione universale è: Gioco+FMV=Buon VG. E questo Legacy of Kain: Defiance si guarda bene dal dirottare strade tanto battute e ben collaudate…

Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione

.:scheda:.

Action Eidos Crystal Dynamics PS2, Xbox 2004 1 USA

Da sempre forte di un costrutto narrativo di prima grandezza, la saga di Nosgoth continua il suo percorso all’ombra dei Pilastri, in cerca di colui che riporterà l’Equilibrio. Un percorso che trova in LoK:Defiance un atto conclusivo, a chiusura della contesa che da cinque capitoli trascina i destini di Kain l’Eletto e dello spettrale Raziel. La Storia è ragione principale e portante di questo episodio della saga e richiama a sé gli intrecci dipanati negli episodi precedenti, riunendo i protagonisti nel medesimo

luogo e nel medesimo tempo. Dobbiamo quindi ribadire come Defiance si profili quale acquisto imprescindibile per tutti i fan delle vicende di Nosgoth. Per tutti gli altri giocatori, la narrazione non perde di fascino: la cronologia è agevolmente riassunta con video e testi, ed è pur vero che la storia di questo capitolo mantiene un’aspetto autonomo a sufficienza, il che rende la trama apprezzabile anche per il neofita della serie (anzi, LoK:Defiance può essere sfruttato come testa di ponte, sebbene riveli il finale, per scoprire o approfondire fatti e personaggi della saga).

Gli scenari di LoK:Defiance si estendono in buona misura, con dislivelli e svariati accessi a nuove locazioni. Alcuni di questi accessi risultano irraggiungibili in ragione di futuri upgrade delle capacità dei protagonisti, ma anche a causa della natura duplice dell’avventura: Kain e Raziel, infatti, ripercorrono talvolta i passi l’uno dell’altro, incappando in porte e passaggi esclusivi dell’altro personaggio. Per quanto eccella nell’offrire lo snudamento delle trame di Nosgoth, LoK:Defiance non può certo rinnegare la propria natura di videogioco, né ignorare la figura del videogiocatore. La propensione alla narrazione della saga, però, si fa ben sentire nei ritmi di gioco, mai frustranti né lenti o troppo impegnativi, come poteva succedere nei precedenti due Soul Reaver. A differenza dei passati capitoli, e più in linea con lo spin-off Blood Omen 2, l’azione di gioco si sposta infatti dalla risoluzione degli enigmi a quella dei combattimenti, rinne-

34

gando quasi del tutto il backtracking: un modo efficace per concentrare l’attenzione sullo svolgersi degli eventi e sottolineare il ruolo di protagonisti e comprimari. Percorrendo i capitoli, alternativamente nei panni di Raziel e di Kain, si massacrano legioni di cacciatori di vampiri o spiriti inquieti o guardiani fantasma o non-morti. I combattimenti risultano poi meno evitabili che in passato, dove l’evasione della lotta era privilegiata, tant’è che ora numerose aree aprono i loro accessi solo dopo aver debellato ogni forma ostile in esse presenti. Dettando il ritmo di gioco a suon di scontri, Crystal Dynamics si è dovuta premurare di offrire un battle system appagante e godibile. Il risultato è un successo solo parziale. Decisamente il migliore fra i sistemi adottati nel corso della serie, LoK:Defiance offre comandi semplici ma versatili: due attacchi di media e grande entità, un attacco telecinetico (utile per scaraventare i nemici in profondi baratri, o infilzarli sulle lame che adornano le pareti) e la classica abilità del salto. Varie combinazioni si sbloccano proseguendo nel gioco e risultando invariabilmente in nuove e più letali forme di combattimento. Nettamente migliorato il sistema di lock on, ora più affidabile rispetto al precedente Soul Reaver 2, mentre subisce un assottigliamento il carnet di poteri di ambo i personaggi i quali, in ragione di una maggiore intuitività, presentano controlli sostanzialmente identici (per quanto Kain si avvantaggi di una maggiore potenza sul campo e Raziel mostri maggior affidabilità nelle fasi platform). Abbandonata l’idea delle armi intercambiabili nativa di Soul Reaver 2, il nuovo capitolo si basa esclusivamente sulla Mietitrice (in possesso di Kain) e sullo spirito della stessa (la lama fantasma brandita da Raziel). Al di là delle azioni di schermaglia, le spade possono essere infuse di essenze elementali liberando le quali si possono azionare poteri secondari che, in maggior numero, si presentano come attacchi devastanti a base di fulmine, fuoco, ghiaccio, ecc.. Se la lama di Kain ha sviluppi esclusivamente bellici, quella di Raziel piega i suoi poteri anche alla risoluzione degli enigmi, disegnando nuovi percorsi fra i livelli, azionando appositi interruttori o agendo con le proprie caratteristiche distintive (l’Elemento della Terra permette di camminare sott’acqua e creare piattaforme, l’Elemento dell’Acqua congela le cascate tramutandole in pareti scalabili, ecc…).


:RECENSIONI:

L’Intelligenza Artificiale esita a stupirci. Sono rare le occasioni in cui si è messi in difficoltà dai nemici, anche quando essi ci assalgono in gran numero. Le grosse statue alate armate di spada, ad esempio, sono così goffe e lente che il modo migliore per sbarazzarsene è fare in modo che si colpiscano fra di loro, con le grosse armi. Sempre in considerazione di un limitato coinvolgimento ludico del giocatore (per renderlo al meglio spettatore), quest’ultimo capitolo della saga tralascia la caratteristica che, prima fra tutte, aveva decretato il successo di Soul Reaver: il passaggio di Raziel, dal piano materiale a quello spettrale e viceversa. Nei precedenti capitoli dedicati a Raziel, infatti, il protagonista poteva trascorrere fra i due piani di esistenza. Il reiterato passaggio era indispensabile per porre soluzione agli enigmi o per ripristinare la barra d’energia nutrendosi delle anime erranti. In LoK:Defiance questa particolarità non è persa, ma senz’altro molto ridimensionata. Più in generale, le risposte agli enigmi ambientali non tardano a venire e nella grande maggioranza dei casi la strada da percorrere è univoca; trovarsi nel dubbio sul da farsi è occasione remota e la via si srotola davanti a noi con disarmante scioltezza. Ed è pur vero che, come detto in apertura, LoK:Defiance è una sinfonia lineare ma non per questo dissonante. Numerosi invece i dettagli che rendono palpabile lo sforzo profuso dai creatori del gioco, a partire dalle architetture ardite che ornano i livelli sino a giungere ai bei dialoghi, efficacemente recitati nella versione inglese dagli attori storici della serie. Più in generale, ogni livello di gioco si distingue per un’ambientazione curata e visivamente godibile: l’evocativo cimitero da cui dipartono i nostri passi, la sontuosa magione del vampiro Vorador, la Fortezza dei Saraphan, gli Abissi e così via. Ogni stage assume forme distintive e lussuose, rivestite di tes-

Ring#11

suti che tradiscono la proprio natura digitale solo sulla brevissima distanza e che scorrono sotto i nostri occhi con una fluidità che invoglia l’osservazione. Non da meno l’effettistica di contorno, che al di là di effetti di luce, trasparenze e distorsioni, acquista un valore aggiunto nell’ispirata interpretazione della Dimensione Spettrale: i toni cromatici mutano in sfumature verde/blu e, mentre in sottofondo grida e lamenti ci distraggono, le immagini si vestono di un blur evanescente e conturbante. E d’altra parte l’impatto visivo è degno sposo della manifesta teatralità dell’opera, la cui storia si sviluppa con misurati colpi di scena ed un’anamnesi rarefatta che prende spunto dai numerosi affreschi disseminati lungo il percorso, ritraenti le varie fasi della Profezia di cui noi ci scopriamo man mano protagonisti.

>> Stop & Go >>

Videogiochi nei romanzi - Scc, sto giocando, - le dico. - Yoshi si è mangiato quattro monete d'oro e sta cercando di trovare la quinta. Mi devo concentrare. - Oddio, chi cazzo se ne frega, - sospira Alison, - di un nanerottolo grasso a cavallo di un dinosauro che salva la fidanzata da un gorilla incazzato? Victor, siamo seri. - Non è la fidanzata. È la principessa Daisy. E non è un gorilla, - insisto. – È Lemmy Koopa del malvagio clan dei Koopa. E come al solito, bella, non cogli il senso. - Illuminami, per favore. - Il senso di tutta la storia è che Super Mario Bros rispecchia la vita. - Ti seguo -. Alison si osserva le unghie. - Dio solo sa perché. - Uccidere o essere uccisi. - Mmmm - Il tempo sta per scadere. - Capisco. - E alla fine, bella... rimani... sola. da Glamorama

~ Con l’eccezione della porzione finale di gioco, LoK:Defiance è avaro di scontri epici e memorabili. Scarseggiano infatti i boss, e quelli presenti non eccedono in dimensioni o potere offensivo. Un vero peccato, specie in memoria degli enormi e pittoreschi avversari del primo capitolo della saga. E di Legacy of Kain: Defiance, non resta infine che il ricordo di una vicenda epica. Non del gioco o delle musiche o dei combattimenti o degli enigmi Sotto il profilo ludico, l’opera di Crystal Dynamic offre poco e quello che c’è lesina in novità e fulgore. Essenzialmente pretestuoso, il girovagare fra gli scenari è dettato dalla meraviglia visiva ispirata dagli ambienti e dal desiderio di conoscere gli sviluppi della trama, ottimamente orchestrata dalla penna di Amy Henning. Non ci si aspetti, dunque, nulla più di questo. Ma non ci si aspetti, neppure, che ciò sia poco.

35

E per chiudere in bellezza, una foto di Arwen (Liv Tyler) in safficissimo atteggiamento con la un tempo fredda Èowyn (Miranda Otto)…

Quindi la conclusione del triangolo amoroso della Trilogia mette incredibilmente fuori gioco il barbuto re Aragorn figlio di Arathorn, forse impegnato col suo nuovo amore: Hidalgo.


:RECENSIONI:

Ring#11

La Mappa dei Sentimenti

[Astroboy]

di Amano76

Un gioco nato per essere coperto di alloro, Astroboy. Voluto da Sega, prodotto da Treasure, realizzato da un cast di veterani della produzione a 16-bit (tra i quali Tomoharu Saito, autore del cult Bishoku sentai barayaro1, presto recensito su queste pagine) e tratto dall'opera di Osamu Tezuka per eccellenza: Tetsuwan Atom. Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione

.:scheda:. Traduzione Completa Sega Treasure GBA 2004 1 Giapponese

Per gli ingordi di grafica bidimensionale come il sottoscritto il GBA si è rivelato una vera e propria manna dal cielo. Titoli come Black Matrix Advance, Summon night, Rockman Zero o Golden Sun hanno dimostrato che il 2D è un linguaggio impeccabile nell'esprimere l'iconografia di un tie-in, o comunque di giochi ove il richiamo al mondo del manga e dell'animazione sia eclatante. Tuttavia il paffuto motore grafico di Astroboy non è che un barlume di fronte al raggiante game design ideato dal suo autore Tetsu Zorgel. Il primo e forse il fondamentale merito che va riconosciuto a questo titolo è infatti di essere quanto il dott. Bonora definiva in Licenza da uccidere [cfr. Ring 6] una "traduzione completa". Prendendo spunto dal Pinocchio disneyano, Tezuka tratteggiò in Astroboy la maturazione sentimentale di un robot-bambino, nato dal desiderio insieme folle ed egoista di uno scienziato che non era riuscito a rinunciare al giovane figlio morto. Come nel manga, anche nel gioco Treasure il candido automa ha la necessità di imparare tutto quello che può sulla condizione umana, assimilando il significato di gioia e dolore, amore e odio, vendetta e misericordia dalle persone che incontra durante le sue mille avventure. Questo aspetto del fumetto di Tezuka si traduce nella necessità per il giocatore di rintracciare i quaranta e più personaggi presenti nel-

l'avventura, alcuni dei quali diabolicamente nascosti. Incontrandoli, Atom riceve la possibilità di potenziare le sue capacità robotiche e d'attacco, garantendosi così la sopravvivenza negli scontri con i coriacei avversari del gioco, altrimenti insormontabili (letteralmente insormontabili). Ciascun personaggio viene poi catalogato in un'esauriente enciclopedia, visualizzabile a mo' di pianta esagonale. Questa mappa rappresenta l'animo di Atom: ospita i "cuori" delle persone che ha conosciuto, delle vittime che ha salvato, dei nemici che ha sconfitto, insomma di tutti quelli in cui si è imbattuto e che lo hanno cambiato o, più precisamente, fatto evolvere. Il giocatore può liberalmente scegliere se complicarsi la vita tentando di sbaragliare le difese avversarie con uno sparuto mucchio di upgrade, oppure setacciare meticolosamente ogni fondale alla ricerca di nuovi personaggi per garantirsi una cospicua quantità di potenziamenti.

L'animo di Atom. Nei punti cardinali sono distribuiti i valori assoluti (l'Amore, l'Odio, la Giustizia etc.) incarnati dai personaggi più importanti, al centro quelli secondari; ognuno è corredato di informazioni e curiosità che lo riguardano. Valore enciclopedico a parte la mappa è la risorsa prima di indizi per completare l'avventura, in quanto non tutti i membri del cast sono "capiti" da Atom al primo incontro. Alcuni devono essere affrontati più volte e quindi cercati negli stage dove hanno fatto la loro entrata in scena o dove si sono nascosti: un segnalino grigio sta a significare che Atom non ha ancora compreso l'indole di un determinato personaggio, mentre una casella oscurata da un punto interrogativo indica gli incontri necessari a proseguire nella storia.

36

Osamu Tezuka Conosciuto anche come Dio dei Manga, ha plasmato non solo l'immaginario dei lettori della sua generazione ma anche quello delle successive, grazie a capolavori senza tempo come Jungle Taitei (Kimba il leone bianco), Dororo, Ribbon no kishi (la Principessa Zaffiro), Black jack e tanti altri. Curioso per natura, colto (si laureò in medicina senza però esercitare mai la professione) la sua frenesia per il raccontare si è estinta solo con l'inevitabile morte, che lo colse durante il completamento del mastodontico Hi no Tori, un manga incentrato sull'eterno ciclo della reincarnazione. Che l'aspetto esplorativo e quello strategico siano così intrecciati tra loro non è una novità per il mondo dei videogiochi. Di certo lo è per un tie-in: raramente sono apparsi prodotti capaci di proporre in chiave ludica quello che un'opera originale propone in chiave narrativa. Ma neanche questo esaurisce i meriti del lavoro di Treasure, perché oltre alla felice intuizione del suo regista, Astroboy possiede anche meccaniche di combattimento di grande valore. Una sostanziosa varietà di attacchi, un apprezzabile ritmo di gioco bilanciato tra momenti frenetici e altri pacati, boss che hanno da due fino a sei tecniche aggressive, un convincente sistema di canceling (interrompere una sequenza di colpi con una super-mossa)... C'è di che far impallidire tanti altri prodotti dello stesso genere per la console portatile di Nintendo. Titoli come Gekido, Rockman zero, Spiderman o Iron-man, tutti comunque bellissimi (ne parliamo un'altra volta) tutti comunque privi di altrettanta profondità nella struttura ludica. Purtroppo gli autori si sono dati spontaneamente la proverbiale zappa sui piedi con il motore grafico, carico all'inverosimile di effetti ottici, sprite su schermo e sfondi in parallasse. Se siete di quelli che amano perdere una partita per colpa di un rallentamento, be’, qui ce n'è per tutti i gusti. C'è chi dice si tratti di casi sporadici. Non credetegli: molti boss hanno attacchi letali che oltre ad essere pressoché ineludibili fanno arrancare il frame rate fino ad aggravare ulteriormente la difficoltà di sfida. Come se non bastasse poi abbondano i passaggi colmi di avversari, alcuni dei quali in grado di occupare tutto lo schermo o addirit-


:RECENSIONI:

tura di fuoriuscirne, causando situazioni dove si verificano rallentamenti degni di un'erosione geologica. Difetti del genere sono la morte per un gioco d'azione ed è scoraggiante che una simile, basilare grammatica sia sfuggita a dei veterani come gli autori di Treasure2. Altro passo falso, per quanto irrisorio, è l'epilettico andirivieni da un sistema di controllo all'altro, alternando sezioni di volo ad altre a terra, ad altre ancora in sospensione a mezz'aria. Il gioco costringe a leggere modifiche dei comandi a disposizione mischiando continuamente le carte in tavola. Un fattore trascurabile, se non fosse che in coppia ai rallentamenti il danno causato in termini strategici diventa piuttosto cospicuo.

Atom alle prese con uno degli svariati boss del gioco. La foto è stata scattata poco prima che lo schermo cominciasse a rallentare. L'acconciatura del protagonista è ispirata a quella di Tezuka stesso, che l'autore si ritrovava al mattino appena alzato. Il titolo del manga, tradotto letteralmente, è: Atom, Braccio di ferro.

Ring#11

Un prodotto colto che brilla tanto per l'idea su carta quanto per la professionale realizzazione, dove Treasure cita (l'universo fumettistico di Tezuka) e si cita (meccaniche a parte, in uno degli stage scorre il tema di Gunstar Heroes). Un paradossale esempio di gioco dalla difficoltà adulta ma con protagonista un bambino, in un mercato di giochi dalla difficoltà infantile ma con protagonisti adulti....

Note [1] Gioco splendidamente nonsense dove le meccaniche del picchiaduro si fondono con quelle della simulazione culinaria, ritratte da un design grottesco ed eccessivo. Ogni stage vede i protagonisti superare una sezione di combattimento dove oltre a pestare gli avversari si raccolgono gli ingredienti che lasciano cadere una volta battuti. A questa parte segue una schermata conclusiva in cui si possono combinare gli ingredienti ottenuti in cibi che potenzino le capacità dei personaggi. [2] Va detto, comunque, che nell'intervista pubblicata sul sito giapponese di Sega, il capo-programmatore del gioco, il fantomatico Yaiman, ha apertamente ammesso che sin dall'inizio aveva fatto presente al regista i limiti imposti dalla ridotta memoria del GBA.

Doppio finale carpiato (spoiler warning) Astroboy regala grandi momenti di gioco e grandi momenti di commozione. Non risparmia neanche i colpi di scena: l'avventura si interrompe improvvisamente quando Atom affronta il cattivo della storia e sconfiggendolo mette in moto una serie di eventi che portano alla fine dell'universo. Ma non appena il giocatore pensa di dover ripetere tutto il tragitto sinora compiuto alla ricerca dell'errore che gli è stato fatale, ecco la Fenice che restituisce una nuova vita ad Atom e gli dona la possibilità di tornare indietro nel passato per rettificare quanto andato storto. L'avventura ricomincia: attraverso una modalità di selezione degli stage il protagonista può viaggiare nel tempo, recuperare indizi vitali, battere nemici già sconfitti ma ora più forti di prima, e giungere infine al segreto dell'esistenza (la sua). Sublime.

37

[Ring è] Gustosi spaccati di vita redazionale che in paragone TGM è il Sole 24 ore… Come aveva saggiamente previsto Gatsu, la mia proposta ha suscitato il bordello nucleare. Allora, chiariamo, la mia idea era di ospitare quanti si muovessero già giovedì in modo che si guadagnasse un giorno assieme. Poi venerdì sera ci si sarebbe trovati a BG come previsto. Fatto sta che escludevo a priori i trevigiani che avrebbero dovuto venire in macchina. Cosa che non fanno più. Purtroppo casa mia è piccina e oltre i quattro posti letto la cosa si fa drammatica. Ora ho la conferma di Amano (che arriva a BS per suo conto alle 21.30) e i trevigiani che arrivano ad orario consono a quello amanico. Non ho invece capito quando arriveranno, in Padania, Paolo e Res (Amano mi ha dato sabato come possibile data di entrambi...). A sto punto io sarei per chiudere le frontiere di casa mia ad ulteriori arrivi prima di sforare la portata massima del pavimento.. al che sarebbe forse saggio che gli altri (che non ho capito quando cacchio si possono muovere) si trovassero direttamente da Ema. Sempre se Ema può tenervi a casa sua mentre lui è via a lavoro (io ho già anticipato ad Amano che mentre sono a lavoro potrà gioiosamente passare lo spazzettone per terra...). Grande sarebbe che vi muoveste con la macchina di Cryu (se può) così dividete le spese (e al ritorno c'è anche Amano) e ci si muove più agevolmente. Ah, sabato forse fa una capatina anche DH (che però si volatilizza in nottata). Al max potrei tirar fuori un ulteriore posto a casa mia, ma sia chiaro che io per terra non ci dormo (a casa mia, a casa di Ema no prob). A proposito, se qualcuno di voi può portare una sarcazz di pompa per il materasso ad aria faccia un fischio che la mia è rotta (alla peggio vado a comprarla venerdì sera quando si viene a BG, ma non vorrei trovar tutto chiuso...). NOTA: non tollererò osservazioni su casa mia tipo: "cazzo, ma sono due anni che vivi qui e ancora hai le lampadine con i fili che escono dal muro", "ma in frigo non c'è niente?", "nello sgabuzzino deve esserci sepolto un cadavere..", "hai il rumore video alle finestre", "ma cazzo, non hai il tavolo da pranzo?!", "se è vero che i morti si trasformano in polvere, allora sotto il tuo letto c'è un distaccamento di Auschwitz", regolatevi Nemesis Divina


:RECENSIONI:

Ring#11

The Light of Samus Aran [Metroid Zero Mission] di Federico Res

Metroid: Zero Mission è quel tipo di prodotto che rende il GBA anacronistico, e fottutamente indispensabile. Difficile non inquadrarlo come la solita smaliziata manovra commerciale: si tratta di un remake, l’ultimo di una lunga serie (che annovera Yoshi’s Island, Zelda: Link to the Past e Secret of Mana); difficile non vederlo come esponente di quel revival tecnoludico su cui la macchina Nintendo naviga a vele spiegate. Anacronistico: non stravolge il format della serie, non vi apporta modifiche né va alla ricerca di monoliti alieni, che conducano il franchise verso stadi evolutivi inediti. Zero Mission è il solito Metroid. Ma c’è qualcosa, nel suo codice binario, che lo rende indispensabile. Fottutamente indispensabile. C’è qualcosa che costringe a pensare al GBA come ad una piccola meraviglia, piuttosto che come ad un emulatore portatile di Super Nintendo. Zero Mission è il solito, splendido Metroid. Remake ufficiale della prima avventura di Samus – datata 1986 su NES –, erede ideale della magia di Super Metroid… Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione

.:scheda:.

Metroid Nintendo Interno GBA 2004 1 Americana

Descrivere Metroid sarebbe ridondante. La sua struttura ibrida, che sfrutta elementi RPG e shooter impiantandoli in un format propriamente adventure, è rimasta la stessa dal primo, remoto capitolo per NES. Ciò non è un male, beninteso: attraverso gli anni, attraverso i seguiti – attualmente sei – Metroid ha saputo conservare i propri punti di forza senza scordarsi di guardare al futuro. Super Metroid ha rielaborato in modo geniale i presupposti originali, esibiti in Metroid e Metroid II: Return of Samus. Metroid Prime ha condotto Samus nella terza dimensione, ridefinendo il concetto di immedesimazione tramite una trovata insieme banale e formidabile, la soggettiva. Metroid Fusion ha ‘spezzato’ la tradizione facendo delle avventure di Samus una successione di mini-task, e di conseguenza perdendo buona parte del fascino della serie: tuttavia, ha saputo adattare Metroid alla pratica fugace del gioco portatile. Ora è il turno di Zero Mission. Il giocatore che ha esperienza del mondo non può fare a meno di chiedersi: in che modo Zero Mission soddisfa le istanze della serie? Zero Mission risponde: imbrogliando il giocatore.

Se ammettiamo che il fulcro di Metroid è l’esplorazione – con l’uso ragionato di strumenti e abilità – vien da sé il modo truffaldino in cui il gioco Nintendo esercita il suo fascino. Col presupposto di un mondo variegato, multiforme, complesso, Metroid trascina in un gameplay dallo schema elementare. Uno schema che prevede il rinvenimento di particolari abilità – mine, super missili, ipersalto, ipervelocità – e il loro utilizzo nel superamento degli ostacoli del level design. Ma se ogni strumento ottenuto spalanca al giocatore svariate porte, quasi sempre è soltanto una la via che gratifica con un reale progresso nel gioco: lo strumento A apre il passaggio B, l’abilità X dà accesso al percorso Y. Non c’è libertà di movimento, in Metroid. C’è però un meccanismo – quasi perfetto – che costringe ad un metodico lavoro di perlustrazione. La rete di cloache e budelli di Zebes mostra i propri varchi solo a chi ne sonda ogni anfratto. Esplorare ogni percorso apparentemente agibile è l’unico modo – unito a memoria e intuito – di rivelare la vera via per l’avanzamento. Questo è l’inganno di Metroid. Ogni edizione del frainchise ne ha proposto una propria variante: il primo Metroid ne ha fornito la versione più convincente, tramite un environment sterminato e la totale assenza di save point. Metroid II e Super Metroid non sono stati da meno, e anzi hanno scongiurato la dispersività che talvolta intaccava il prequel. Metroid Prime, facendo i conti con il tridimensionale, ha perso complessità e rivelato maggiormente la linearità di fondo. Metroid Fusion, pecora nera, ha costretto l’avventura in un sistema di micro-missioni, facendo della linearità il proprio vessillo. Alla luce di ciò, è lecito chiedersi: [1] l’inganno di Metroid è legittimo? [2] La libertà simulata di Metroid è un reale limite alla sua giocabilità? [3] Un ambiente vasto e liberamente esplorabile, che preveda decine di percorsi per il raggiungimento di un unico obiettivo, gioverebbe alla serie?

Le strategie di attacco dei boss – specie nei casi di Kraid e Ridley – rimandano fin troppo a quanto visto in Super Metroid. Tuttavia, la presenza di alcuni boss opzionali e di un nemico finale nuovo, lima efficacemente il senso di dejà vu

38

A queste domande Zero Mission risponde: forse. Che significa si, ma anche no. Si, perché ZM, se rapportato al suo vero ispiratore (Metroid 3) non regge il confronto. La sua struttura è più semplice, più intelligibile, meno cervellotica. Il numero di aree esplorabili è minore, la diffusione generosa di save point (si tratta pur sempre un gioco per GBA) giova alla rapida memorizzazione degli ambienti, spoglia Zebes di buona parte del suo fascino alieno. Il sistema di suggerimenti, pur essendo decisamente meno invadente di quello impiegato in Metroid Fusion, non fa che tirare a galla la linearità del gameplay, agevolando l’esperienza ai neofiti. Per tutti questi motivi (e per la banalità delle fasi finali, costruite su meccaniche stealth fin troppo basiche) Zero Mission meriterebbe un environment più ampio, liberamente esplorabile, privo di limiti.

Ma anche no. Perché Zero Mission è ben lontano dai rigidi schemi di Metroid Fusion. Laddove MF tradiva l’atmosfera e il feeling della saga, Zero Mission è un possente ritorno alle origini. Spariscono trama, mini-task, computer. Spariscono i fiumi di testo a video vomitati dalle Navigation Room. Sparisce l’azione guidata, il gameplay telefonato. Resta Zebes, col suo ventre malato e la sua superficie spazzata dai venti. Resta Samus, con la sua tuta prodigiosa e la sua caccia solitaria al Mother Brain. Restano le idee e le invenzioni che hanno fatto grande la saga. Ancora una volta la morfologia del pianeta è la sfida più grande. Vincere gli ostacoli apparentemente impossibili, che il level design semina in ogni anfratto, è la prima fonte di soddisfazione. Quando i rebus di Zebes ridestano il Mc Gyver nascosto nel nostro cervello, stimolando l’uso creativo e combinato degli strumenti, la soddisfazione sale di livello. E quando sperimentiamo la perfezione del sistema di controllo, l’eleganza delle movenze di Samus, la soddisfazione cresce ancora. Cresce così tanto da somigliare a un metroid, accucciato sulla nostra testa e intento a succhiarci l’energia vitale. A quel punto, l’unico modo di staccarsi da Zero Mission è portarlo a compimento. Cosa a dir vero non troppo problematica (almeno ai primi due livelli di difficoltà), e curiosamente poco dispendiosa in termini di tempo: dopo l’ultimo scontro e la fuga in extremis, il contatore segna appena quattro ore. E anche se il tempo di gioco reale è maggiore (poco meno del doppio), Zero Mission non fa mistero della propria brevità. Ma come dice il saggio candela che arde col doppio dello splendore brucia per metà tempo. E Zero Mission è il solito, splendido Metroid. Anacronistico, fottutamente indispensabile…


:RECENSIONI:

>> Stop’n’Go >> Driv3r: Hands on, jaws off di Cryu

Il 3/3/2004 a Milano si è tenuta l’anteprima italiana di Driv3r presentato alla stampa da Martin Edmondson, presidente di Reflections. «Ok, Stuntman era una sola e là fuori c’è la serie di GTA che fa sfracelli, per cui caro Martin sai già che questa volta non puoi toppare». Se il palestrato Martin sapesse leggere il pensiero altrui, alla vigilia dello show case milanese di Driv3r sulla mia fronte avrebbe letto qualcosa del genere. Rinomata per la sua puntualità, Ring tiene fede alla sua fama arrivando sul luogo dell’evento munita di copioso ritardo d’ordinanza. Il placido Martin ha già iniziato ad illustrare lo scheletro di quello che costituirà il gioco finale: sistema di controllo, inquadrature, fisica delle vetture e degli oggetti, ambienti e modalità di customizzazione dei replay. Un primo istantaneo caricamento (lo streaming pare una delle doti più eccezionali di questo Driv3r) dà modo a Martin di offrirci un giro turistico per l’esotica Istambul. Di fronte al dettaglio degli ambienti, allo sviluppo verticale della città e alla bontà del frame rate l’inviato ringhico esprime un commento tecnico poco decifrabile ai non addetti ai lavori: “porco cazzo!” Perché dopo anni di stitichezza renderwariana, il ricordo delle stentate performance degli engine di GTA e GTA:VC cede il passo alla godutissima fluidità del motore di Driv3r. Miami, Nizza e Istambul si lasciano percorrere che è una bellezza, con le loro 150 miglia di strade e 30.000 edifici più o meno fedeli alle loro controparti reali. Ok, c’è il solito aliasing rompicoglioni, qualche texture meno bella di altre (ma con i titoli Rockstar non c’è davvero paragone) e qualche lieve problema di pop-up che coinvolge non tanto l’orizzonte visivo (v-a-s-t-o) quanto alcuni dettagli (siepi, muretti, ecc.) a bordo carreggiata che spuntano fuori dal nulla a 100 m dalla propria vettura. Davvero poca cosa rispetto alla solidità ostentata da ambienti di gioco minuziosamente caratterizzati nel look e nel design. Se siete quelli per cui le dimensioni contano vi farà piacere che la sola Miami vanta dimensioni (e conformazione) assimilabili alla famosa Vice City. Ma al di là della prestanza scenografica degli ambienti, Martin pone in risalto a più riprese le sofisticate routine fisiche implementate: Esce dalla sua vettura e prende a crivellarla di colpi fino a farla esplodere. A seguito di una spettacolare fiammata gli pneumatici abbandonano la carcassa dell’automobile rotolando un po’ qua e un po’ là. Martin passa alla visuale in soggettiva e prende di mira una gomma che rotola lentamente. La colpisce una, due volte accelerandone la rotazione, dopodiché la colpisce una volta sul lato provocandone la caduta. «Non serve a niente ai fini del gioco», precisa consapevole Martin «ma il coinvolgimento ne guadagna». Se ancora una volta potesse scrutarmi nella mente, l’affascinante Martin leggerebbe «quoto». Pausa. Restart game. Martin riprende a sparare come un assatanato alla sua

Ring#11

vettura: i proiettili bucano la carrozzeria, i vetri si infrangono, le gomme esplodono e il peso della vettura si sposta sulla ruota sabotata. Pausa. Restart game. «Stavolta prendo la moto». Martin fa fiero sfoggio delle routine tese a simulare la distribuzione del carico su 2 sospensioni. “Se mi sposto in avanti, la sospensione anteriore si comprime, se mi sposto indietro, la moto si inclina di conseguenza”. Segue una dimostrazione di manovre maranza (impennate anteriori e posteriori, burnout vari, ecc.) durante le quali non viene mai nominato GTA:VC, ma che vogliono chiaramente dimostrare che sotto questo profilo Driv3r non abbia davvero nulla di meno. Ok, ok, io intanto apprezzo il selfshading sulla moto, cui Martin accennerà tra qualche minuto. Pausa. Restart game. Martin risalta in macchina e inizia a seminare il panico per le strade di Nizza. “Non c’è sangue nel gioco” precisa mentre falcia una manciata di ignari pedoni e fa saltare il cranio a un paio di malcapitati poliziotti. Meno male, penso io, visto che il look realistico del gioco avrebbe conferito a queste scene una crudezza spropositata. Intanto ci mostra come negli inseguimenti giochino un ruolo fondamentale le sparatorie da gestire contemporaneamente alla guida. Giunto in prossimità di un ponteggio Martin frena, derapa in inversione a U falciando col retrotreno una delle gambe della struttura. Il ponteggio collassa su se stesso mentre ciascuna delle sue (tante) parti reagiscono coerentemente alla demolizione della gamba colpita. Purtroppo ancora una volta Martin si ritrova sprovvisto di facoltà paranormali, altrimenti non gli sarebbe stato difficile leggermi nella mentre 3 semplici parole: Half Life 2. Un paragone certamente esagerato, ma routine fisiche di questo tipo le avevo apprezzate solo in quel famigerato filmato E3. Pausa. Restart game. «Prendo l’autoarticolato.» Martin salta su un 18 wheeler per bazzicare pachidermico per la periferia di Miami. Ok, buffo, ma da guidare non dev’essere uno sballo, penso io. Ed è qui che Martin illustra una feature di rara golosità. La motrice può staccarsi in qualsiasi momento dal rimorchio mediante pressione dell’apposito tasto. Questo comporta che impostando una curva è possibile effettuare una svolta rilasciando nel mentre il carico, che invece prosegue in rettilineo investendo tutto ciò che si trovi lungo la sua traiettoria. Il concetto è simile al tuffo da auto in corsa già presente nei vari GTA (comunque implementato anche in Driv3r), con la differenza che così non si rimane col culo sull’asfalto, e che il rimorchio di un autoarticolato provoca danni ben più spettacolari rispetto a un’ordinaria vettura. Pausa. Restart game. Martin punta un’incolpevole vettura e inizia a tamponarla sadicamente fino a spingerla contro una struttura. L’incolpevole vetturetta viene letteralmente pressata contro la parete. Cose belle. Martin conclude la presentazione illustrando come editare i replay delle proprie imprese: tutto molto intuitivo e versatile. Bottom line: capolavoro all’orizzonte? Diavolo di un Martin, pensavi di fregarmi? Tu non saprai leggere nel pensiero, ma io sì, MUAHAHAHAHAHA. Lo so io

39

che cos’avevi in mente: «gli faccio vedere la graficona, tanti begli incidentoni, la fisica sborona e un po’ di violenza gratuita che male non fa (ehr…), così sono tutti contenti e intanto del gameplay vero e proprio non gli faccio vedere una cippa.» Canaglia di un Martin, ci hai mostrato quella che è l’intelaiatura del gioco: il motore grafico, la fisica, il city design… ma solo un paio di spicciole missioni (tra cui quella che ho avuto modo di giocare personalmente). Morale? La base del gioco c’è tutta, ma le sue effettive qualità ricreative sono ancora tutte da verificare. Perché precisiamolo: Driv3r NON è un GTA. Driv3r è innanzitutto un gioco di guida, e laddove nella serie RockStar la componente racing è solo uno dei tanti elementi che costituiscono l’esperienza di gioco, in Driv3r la guida è l’anima del gioco: gli inseguimenti, le derapate, gli spostamenti di carico, i peli alle architetture che incombono sul marciapiede. Lo spessore del modello di guida pare buono, sufficientemente profondo (inutile dire che tra tutti i convenuti il sottoscritto sia l’unico ad essere riuscito a completare una missione :-p), le città sono splendide ma… ma quanto testato non è davvero abbastanza per azzardare un giudizio. Il buon racing game si misura sulla distanza, sulla varietà, sulla longevità. Il primo Driver ha segnato un’epoca. Al momento non è ancora chiaro se Driv3r sia solo Driver aggiornato al 2004 o se si tratti effettivamente di un racing game moderno e completo. Inoltre non si sa nulla di come le sezioni a piedi verranno integrate a quelle in auto. Finora ho visto il protagonista Tanner uscire da una macchina solo per rubarne un’altra, oltre che per esplorare gli interni. Già gli interni, è qui che lo streaming da DVD mostra i muscoli. Nessun caricamento interrompe l’esplorazione delle strade e l’ingresso di un bar in cui Martin fa un casino pazzesco freddando il barman e sbriciolando tutte le bottiglie sul banco. Ricapitolando. Le premesse ci sono, il gioco non ancora. Ci si vede a giugno Martin.

Backstage

Si dice il peccato ma non il peccatore. È con malcelata malizia e fittizia signorilità che riporto, senza esplicitare i nomi dei responsabili, un paio di affermazioni espresse durante il pranzo da qualcuno dei colleghi convenuti: «Ma ‘sti giochi son tutti troppo difficili. Io vorrei anche riuscire ad andare avanti.» «D’altronde è ovvio che se non ti inviano il gioco la recensione te la devi inventare»


:TESORI SEPOLTI:

Ring#11

Gli Occhi dello Scoiattolo [Conker’s Bad Fur Day] di Sator the Mighty Poo

Visualizzate un recinto. Al suo interno, alcune fette di formaggio pascolano e intrattengono una vita sociale di tutto rispetto. Lo scoiattolo fa il suo ingresso nel recinto. Le fette di formaggio notano subito lo scoiattolo e gridano dal terrore, poi, in branco, iniziano una fuga scomposta. Lo scoiattolo, le mani protese innanzi, insegue il branco di latticini, ne isola uno più lento e si concentra su di esso, come i documentari insegnano. Il formaggio scappa disperato, ma una padellata ben assestata lo sbatte a terra. Lo scoiattolo raccoglie il latticino, il quale, riprendendo i sensi, si rende conto di dove sta per essere condotto: dal topo col meteorismo. Grida di terrore fuoriescono dalla sua bocca pastorizzata. Gli occhi disegnano una disperazione a lunga conservazione. Lacrime cagliate scorgano copiose. E quando il topo è ormai vicino, la disperazione muta in isteria: il formaggio si agita, strilla, piange, è fuori di sé. Ma non serve a niente: lo scoiattolo getta la sua preda nella bocca del ratto scoreggiante. Che gradisce. In tutta questa operazione, gli occhi dello scoiattolo non hanno lasciato trapelare malvagità, né sadismo. È stata la curiosità a muovere il rosso caudato, e lo sarà per tutto il gioco. La curiosità di vedere cosa può accadere ingozzando un topo fino a farlo esplodere; la curiosità di visitare l’interno di una mucca affetta da diarrea; la curiosità di spiare un ingranaggio-femmina eseguire una fellatio ad un ingranaggio-maschio; la curiosità di sbirciare le felliniane tette di una margherita; la curiosità di orinare addosso a delle pietre ballerine in una discoteca per pietre ballerine. Possiamo veramente biasimarlo? .:scheda:. Genere Tutti Etichetta Nintendo Sviluppatore Rare Sistema Nintendo 64 Anno 2000 Giocatori 1-4 Versione Europea

probabile pronuncia teteska, capisce che il problema consiste nel fatto che – reggetevi forte – al tavolino manca una gamba! Per aggiustarlo è necessario trovare qualcosa o qualcuno da inchiodare al posto dell’arto mancante. Un approfondito studio rivela che uno scoiattolo rosso sarebbe perfetto per lo scopo. Nel frattempo Conker, uno scoiattolo rosso dall’irresistibile parlantina, è al pub con gli amici, ubriaco come tre irlandesi (ubriachi). La serata volge al termine e Conker esce dal locale con l’andatura sinusoidale di un cirrotico. Un’epica vomitata non migliora le cose. Compito iniziale del giocatore è di condurre il collassato Conker a casa, dalla sua amata coniglietta Berri, ma non dimentichiamoci del problema sollevato dal malvagio panther-like king: quel tavolino di certo non si aggiusterà da solo, e a Conker capita di essere sia scoiattolo che rosso. Una brutta scoiattola da pelare. Inoltre, che cosa sta tramando il Dottor Stranamore-like tizio? Chi ha rubato l’alveare dell’ape regina? Con chi la sta tradendo suo marito? Chi sono i Tediz? Perché stanno organizzando un’invasione? Quale innominabile creatura della notte si nasconde nella villa antistante il cimitero? Come si alleva un dinosauro? Ma soprattutto: che cos’è tutta questa puzza di merda? È bene poi precisare che Conker’s Bad Fur Day inizia dalla fine, con un Conker che, dopo mille peripezie, è diventato “king of all the land”. Ma che fine ha fatto il precedente regnante? Perché uno scoiattolo tanto in gamba, una volta divenuto re, si è circondato di idioti come il topo scoreggiante, gli ingranaggi pompinari e il forcone suicida? E Berri? Dove si trova l’unica persona che Conker vorrebbe avere al suo fianco? Per scoprirlo, non resta che premere start…

Ze milk is on ze table

La trama di Conker’s Bad Fur Day è estremamente semplice nella sua drammaticità. Il malvagio panther-like king ama appoggiare il suo quotidiano bicchiere di latte sul regale tavolino a fianco del regale trono. Purtroppo una congiura del destino provoca ogni volta la caduta del summenzionato bicchiere, e quindi la perdita del liquido ricco di calcio. Perché? Interrogato sulla questione, una specie di ratto/Dottor Stranamore dalla im-

Questa immagine è talmente eloquente da non necessitare di commenti. Ci limitiamo a dire che il T-Rex che Conker sta cavalcando non è il primo che incontrerà nel gioco. Lo scoiattolo infatti avrà il privilegio di covare un uovo di T-Rex, allevando poi l’animale appena nato e fresco di imprinting. Stendiamo un velo di silenzio sul destino di tale creatura...

40

It happens to be a platform

Sì, Conker’s Bad Fur Day è in linea di massima un platform: un genere che su Nintendo 64 non ha mai avuto molto seguito (sarcasmo). Ma vi prego, non giudicatelo male solo perché è un platform. E in fondo, siamo proprio sicuri che si tratti di un platform? La pubblica accusa potrebbe produrre un impianto probatorio fondato su elementi come il fatto che, tramite pressione del tasto A, lo scoiattolo spicca un bel salto e, con un’ulteriore pressione dello stesso, questi rimane sospeso in aria grazie alla coda-rotore di tailsiana memoria. Ma una simile accusa di fatto non sussiste, perché nel corso del gioco i salti che Conker si troverà ad eseguire da una piattaforma a un'altra sono pochissimi. All’incirca ventitré. E del resto sono totalmente assenti gli oggetti di scena tipici del genere: niente piattaforme semoventi, pericolanti, roteanti, spunzecchianti, altalenanti o lampeggianti.

Quali sono i due film degli anni ’90 maggiormente impressi nell’immaginario collettivo? Sicuramente Pulp Fiction e The Matrix. In questa geniale sequenza Conker riesce a citarli entrambi in un colpo solo. E considerando il destinatario di quella katana, possiamo aggiungere una ulteriore citazione da un classico della fantascienza, che non riveliamo in quanto trattasi dell’ultimo boss. Conker’s Bad Fur Day è un videogioco contenitore. Un po’ come Domenica In. Il suo gameplay ad assetto variabile scava nei generi e produce in uscita una sommatoria di stili di gioco. Il titolo Rare inizia appunto assumendo i connotati di platform (giusto per rendere omaggio alla macchina su cui gira), ma ben presto muta, e confluisce nel ricco filone degli arcade-adventure, con ascendente puzzle-oriented. Un po’ Zelda, un po’ Tomb Raider, Conker procede nella sua decostruzione dei generi divenendo volta volta racing game, survival horror, FPS, stylish shooter (con tanto di bullettime) etc. Tutto ciò mentre i controlli del joypad si adattano al gameplay on screen. Ad esempio se nelle fasi platform i tasti C servono a ruotare la telecamera, nella sezione survival horror – tra l’altro molto più divertente di un certo titolo Capcom – gestiscono lo strafe laterale. Ma non è tutto. Un’approfondita modalità multiplayer a quattro giocatori assicura un’elevata rigiocabilità grazie a deathmatch à la Quake, contest basati sullo sbarco in Normandia (!) e corse in hoverboard. Cooool! Tutto questo couscous ludico ha però un rovescio di medaglia: Conker non innova praticamente in nessuno dei generi riprodotti, anzi, è finanche semplicistico nell’uso delle zone contestuali per la risoluzione di molti enigmi (non tutti).


:TESORI SEPOLTI:

Le zone context sensitive sono cerchi nel terreno al cui interno è disegnata una B. Se Conker transita sopra uno di essi, una lampadina compare sulla sua testa. Una pressione del tasto B farà a quel punto scattare un’azione prestabilita (ma è tutto spiegato meglio dallo spaventapasseri beone all’inizio del gioco), utile per superare il puzzle o il boss che si trova nelle immediate vicinanze. Un simile impianto provoca giocoforza un’impoverimento della strategia di gioco. Viene infatti meno gran parte dell’analisi dello scenario e delle caratteristiche del nemico, magari con un’attenta valutazione degli oggetti in inventario. In Conker’s Bad Fur Day quello che si fa la maggior parte delle volte è di recarsi nella context area più vicina, premere B e vedere che cosa succede. A quel punto l’enigma lascia ben poco all’immaginazione. Si tratta quindi di un videogioco che guarda al passato prossimo e al presente, ma che non pensa al futuro. Niente di male in tutto ciò, visto che il 90% dei giochi in commercio fa altrettanto. Anche perché Conker’s Bad Fur Day, nella sua imperfezione originale, è un gioco praticamente perfetto… Le migliori musiche mai udite in un platform accompagnano un’azione varia e divertente, ambientata in un mondo treddì che tutto è fuorché frutto dei calcoli in virgola mobile del 64 bit Nintendo. Mentre giocate provate a mettere in pausa e a dare un’occhiata ai fili dietro alla console. Controllate che un cavo malandrino non se ne sia uscito dal nintendozzo per attaccarsi tipo al frullatore in cucina, sottraendogli potenza computazionale. No perché altrimenti non si spiegano quelle texture, quella complessità poligonale, quello sfoggio di effetti come gli schizzi di sangue e diarrea…

Quando si dice il parto di una mente malata: questo boss è interamente fatto di merda e assalirà Conker lanciandogli parti di sé. Ma l’aspetto assolutamente rotfl è la canzone che questi accompagna al suo pattern d’attacco: “I AM THE MIGHTY POO AND I’LL THROW THE SHIT AT YOU!”. La vera difficoltà di questo boss è di trattenere le risa mentre cerchiamo di scaricarlo là dove la cacca in genere va a finire. C’è un qualcosa di perfetto in Conker. C’è la sazietà di un pranzo talmente ricco che a nessuno verrebbe in mente di chiedere altro. Una sazietà che non deriva solo dal gioco, ma anche dal geniale umorismo che non abbandona mai la scena, dalla sensazionale abilità nell’inserire citazioni, dalla capacità di raccontare con intelligenza, dal modo in cui un gioco Nintendo, su una piattaforma Nintendo, riesce a prendere bonariamente per il culo Nintendo. Conker’s Bad Fur Day è un cavallo di Troia, anzi, un cavallo di Nintendo, costruito dall’Odisseo Chris Seavor.

Ring#11

Chris Seavor, chi era costui?

Lasciando ad uno dei prossimi People il racconto dell’infanzia di Chris Seavor e delle sue polluzioni notturne, basti in questa sede sapere che si tratta della mente dietro a Conker’s Bad Fur Day. I titoli di coda dicono di lui che ne è stato sia project leader che game designer. Ha inoltre dato il suo contributo come background artist, ha curato la sceneggiatura e – punto esclamativo! – ha doppiato praticamente tutti i personaggi eccetto Berri e il fiore con le tette. Sì, ha doppiato pure la mucca con l’accento inglese. Non sappiamo se ci sia il suo zampino anche dietro ai servizi di catering durante lo sviluppo del gioco. Mobygames al riguardo non conferma né smentisce. Maligne voci di corridoio rivelano che Conker non è stato apprezzato da Nintendo a causa dei suoi contenuti “blasfemi”, e che le ragioni dell’insuccesso commerciale siano da ricercarsi in un boicottaggio della casa madre, oltre che nella pubblicazione tardiva. Fantagiornalismo. Quello che è sicuro è che la cattiveria con cui Conker schernisce Nintendo (basti pensare che invece di stelle o monete, lo scoiattolo recupera pacchi di verdi bigliettoni, i quali hanno bel gridare per farsi notare dal giocatore) è solo di facciata. Un esame approfondito rivela infatti un profondo rispetto per la big N. Un indizio al riguardo sono gli special thanks a Hiroshi Yamauchi, oppure la strategia per uccidere l’ultimo boss, che oltre a riprendere un’epico finale cinematografico, è anche uno dei più sinceri omaggi al fondamentale Mario 64. Ma Conker non copia. Conker usa piuttosto la potente arma della citazione per fare satira cinematografica e videoludica. È principalmente il Cinema ad essere saccheggiato: Dracula, Matrix, Il Padrino, Salvate il Soldato Ryan, Le Iene, Pulp Fiction, Il Dottor Stranamore, Lo Squalo e molti altri. C’è una clamorosa “passion” cinefila in questi omaggi. Non si tratta solamente di inserzioni easy volte a strappare il sorriso. La regola fondamentale, per quanto riguarda l’inserimento di citazioni nella narrazione, è di non arrendersi ad esse. Mai accontentarsi dell’ammiccamento fine a se stesso. La citazione deve essere uno spunto da arricchire poi con un’aggiunta originale che dia dignità all’operazione, magari ribaltandone le premesse o la conclusione (giocando così con le aspettative del pubblico), oppure inserendo battute che ironizzino sul film o sul genere citato. Seavor riesce magnificamente in questo, quadagnandosi a mani basse l’appellativo di Autore. Se la comicità di Ron Gilbert si basa sulla battuta intelligente e il dialogo brillante à la Woody Allen, Chris Seavor trae linfa dall’umorismo volgare. Ma attenzione: non una volgarità stupida tipo Vanzina, quanto piuttosto una volgarità colta, riconducibile ai Monty Python e a Kevin Smith. In conclusione, Conker’s Bad Fur Day è un titolo dall’importanza sperminale. Amare i videogiochi e non aver giocato a Conker equivale un po’ ad amare il Cinema e non aver visto Il Sentiero del sultano grigio, oppure amare i libri e non aver letto The chessroom. Più che un Tesoro Sepolto, un’Arca dell’Alleanza che contiene il Sacro Graal che contiene l’Unico Anello.

41

Command & Conker: Red Squirrel Il nemico è alle porte. Il regno di cui Conker fa parte si imbarca in una guerra preventiva contro i terribili Tediz: orsacchiotti di peluche dagli occhi talmente malvagi da disturbare anche il giocatore più incline alla violenza. Lo scoiattolo in realtà non aveva intenzione di partecipare alla guerra: in effetti si è arruolato attratto dalla possibilità di applicare zainidinamite ad ignari soldati kamikaze. Ma con l’inganno si troverà in una delle imbarcazioni che si apprestano a sbarcare sulla spiaggia nemica. Guardate i suoi occhi dopo che hanno visto l’orrore della guerra in una sequenza circa tre volte più emozionanate di tutto Medal of Honor…

Ecco il messaggio del gioco: l’assurdità della guerra va oltre la cartoonesca malvagità da videogame. Non ha niente a che fare con una mucca sventrata, uno zombie aperto in due o un latticino mangiato vivo. Qui la gente muore sul serio. Conker si è imbattuto in qualcosa di realmente cattivo, e ha capito al tempo stesso di non essere il simpatico anti-eroe di un videogioco anti-nintendiano, ma solo un’inutile pedina come tante altre che i generali hanno mandato a morte sicura (cfr. “BOOM BOOM”, a pagina 3). Quegli occhi tristi, quello sguardo chino mentre tutto intorno i soldati vengono macellati è una delle immagini pacifiste più forti mai espresse da un videogame. Ma, ehi, Conker è uno che sa adattarsi alla situazione. È uno che ci sta dentro! Infatti poco dopo…

Guardate i suoi occhi, guardate con che ritrovata sicumera impugna i mitra di ordinanza e fuma il sigaro di ordinanza. Lo scoiattolo ritorna nel suo personaggio e si prepara ad assaltare i bunker che si affacciano sulla spiaggia. Ci sono dei compagni da vendicare. Ci sono dei pupazzi di pezza da massacrare, e Conker non ha intenzione di ritornare dalla sua Berri prima di aver cavato tutta l’imbottitura da questi orsacchiotti nazisti-comunisti-terroristi. Fa lo stesso.


:PEOPLE:

Ring#11

L’icaro impunito [Yu Suzuki] di Amano76

«Se si facesse una media tra tutti i dipendenti Sega delle ore di straordinario compiute, io arriverei primo» Yu Suzuki, l'uomo che non riesce a produrre un gioco se non può costruire un cabinato da 5 euro a gettone. L'uomo che non si cimenta in nulla che costi meno di un Titanic. Colui il quale se decide di realizzare una simulazione di guida dedicata all'ultimo modello Ferrari, deve fare uno schermo a tre pannelli perché sennò l'immagine non è intellegibile. Dategli un paio di miliardi e lui ve li spenderà tutti. Tanto è un genio. «Non gioco, di solito. I miei titoli sono influenzati da altre cose come i film, andare a San Francisco, visitare la Napa Valley, e comprare vino [ride]» C'è dell'ironia nel fatto che un autore di VG con il cognome identico a quello di una nota marca di veicoli a due ruote, sia giunto alle luci della ribalta con una simulazione motociclistica. Un segno del destino, quasi. Ma se è vero che c'è del talento in Yu Suzuki, i primi a riconoscerglielo sono stati i dirigenti di Sega. Hang-on fu infatti un incarico piovuto dal cielo poco dopo lo scoccare del secondo anno di arruolamento nella compagnia, a testimonianza della fiducia che in così breve tempo Suzuki era riuscito a guadagnare. Faccendiero, socievole, interessato a tutto, la personalità dell'autore si fece subito distinguere, e maggiore credito (in entrambi i sensi) gli venne conferito quando il giovane produttore colse al volo il progetto Hang-on, trasformandolo in un cabinato di grande successo tanto in patria quanto all'estero. Forte di un team di programmatori di tutto rispetto, Suzuki ebbe l'idea di abbinare alle qualità grafiche della System 8 (una storica scheda arcade di Sega che consen-

tiva di "scalare" le dimensioni delle immagini per dare un effetto tridimensionale) un controller completo di tutto: volante, carrozzeria, ruote, e un impianto meccanico per simulare l'inclinazione del mezzo al momento di affrontare una curva. È il suo primo prodotto, ma già il successo gli permette di investire in altri titoli dello stesso genere. Nascono così Afterburner, Space Harrier, e Out-run. Tre progetti che non brillano certo per complessità strategica, ma che pur sempre risultano riusciti sotto ogni aspetto e capaci di regalare sensazioni memorabili con i loro giganteschi cabinati semoventi. Nonostante l'appariscenza esteriore, però, Suzuki dimostrò comunque intuizioni non da poco nella struttura ludica. Come si può idealmente accomunare Out-run ad Hang-on per le tinte "arcade" del metodo di guida, altrettanto gli F16 di Afterburner (o il suo sequel/epigono R360) e il biondone con tuta da motociclista di Space Harrier sono legati dall'acuta intuizione di Suzuki di un equipaggiamento con proiettili a ricerca. In questo modo l'autore ha potuto cambiare l'asse di scorrimento dello schermo da quello x a quello z, lasciando inalterata la proverbiale velocità degli sparatutto senza dover rallentare l'azione per rendere possibile la mira degli obiettivi, altrimenti impossibile a causa delle ridotte dimensioni degli avversari quando apparivano all'orizzonte. Non fu un caso se successivamente ognuno dei suddetti titoli venne poi trasposto su console, dove nonostante il mancato plus-valore garantito dai cabinati, comunque il giocatore poteva assaporare meccaniche soddisfacenti e frenetiche come quelle provate in sala. «Negli ultimi cinque anni ho costantemente studiato il cinema. Ho accumulato più di 500 Dvd. [...] Le grandi produzioni hollywoodiane sono difficili da analizzare. Sembra-

42

no troppo perfette per essere studiate. Sono molto più utili i film di seconda categoria che provengono da Hong Kong, che mostrano cosa NON si deve fare» Per capire Virtua Fighter e Shenmue, è molto utile rovistare nel passato di Suzuki. Nasce a Iwate nel 1958, una località rurale dove il lavoro fisico è all'ordine del giorno. Si aiuta nei campi, si aiuta a sbrigliare e svuotare le reti da pesca: si può dire che la fatica e la fisicità sono i due aspetti della vita con cui Suzuki ha a che fare più frequentemente. L'autore era tuttavia profondamente legato anche all'arte. Con padre e madre docenti di musica classica (chitarra acustica uno, piano l'altra) appena iscritto al liceo formò subito un proprio gruppo. Fu in quel periodo che il giovane Yu decise di mirare al successo musicale, ma la realtà, che ancora una volta era venuta a cercarlo, lo colpì dove fa più male quando un suo caro amico, reduce dal tentativo di sfondare a Tokyo, tornò portando cattive notizie: campare di musica non è un obiettivo che ci si poteva concedere in una metropoli come la capitale. A scuoterlo definitivamente contribuì una delusione d'amore, al seguito della quale Suzuki tentò invano di trovare una risposta alle sue sofferenze in libri come Il rosso e il nero di Stendhal o Metamorfosi di Kafka. Durante le sue peripezie sentimentali giunge allora alla definitiva conclusione che le sue profonde riflessioni non l'avrebbero mai portato da nessuna parte. Doveva agire. Forte della sua personalità aperta e spontanea (la militanza in un gruppo musicale gli aveva insegnato cosa significasse il contatto con il pubblico) Suzuki impiegò ben poco tempo a trovare spazio in Sega, società che come tante altre nello stesso periodo si trovava a dover gestire un guadagno crescente (quello dell'industria arcade) senza però detenere il numero di risorse umane necessario a espandere le sue attività. Privo di alcuna nozione in materia di linguaggio macchina, Suzuki si dimostrò subito ricettivo e disposto a lavorare sodo. Senza mai lamentarsi si assunse tutti gli impegni che gli venivano offerti. Questo, più la sua carismatica socievolezza, lo fecero prendere in simpatia dai superiori, che in breve cominciarono a privilegiarlo e a prestare attenzione alle sue idee. In due anni lo scaricatore di porto di Iwate era già diventato uno degli autori di punta di Sega.


:PEOPLE:

«A dire la verità il Gamecube è la migliore piattaforma su cui sviluppare. L'Xbox è a metà tra le altre due, essendo un hardware discreto, mentre la Ps2 è la più difficile da gestire» Nel 1992 Suzuki scopre il poligono. Affascinato dalle meccaniche tridimensionali, suo chiodo fisso sin dai tempi di Space Harrier e Afterburner, l'autore tenta un primo approccio con il genere forse a lui più congeniale: la simulazione di guida. Pur mantenendo un taglio smaccatamente arcade, Virtua Racing propone numerose innovazioni grazie alla nuova confezione poligonale, ma non si rivela un punto di rottura quanto il successivo Virtua Fighter. Constantemente teso a nuove esperienze, Suzuki resta profondamente colpito in questo periodo dalle arti marziali. Studia tecniche di combattimento da maestri cinesi, diventa un atleta a tutto tondo e l'anno seguente si lancia nell'impresa che lo consegnerà all'immortalità. Convinto che i picchiaduro del periodo puntino eccessivamente alla spettacolarizzazione senza riuscire a comunicare al giocatore la vera essenza delle arti marziali, Suzuki costringe i componenti del suo team a intense sessioni di pratica al combattimento, badando che acquisiscano coscienza della forza sprigionata da un singolo pugno o da un singolo calcio. Quando Virtua Fighter esce nel 1993 nessuno si aspetta un titolo dove non solo l'avanzata grafica poligonale riproduce con movimenti fluidi i colpi delle tante tecniche riprodotte, ma propone anche per la prima volta un sistema di combattimento condizionato dal tempismo, dove ogni singolo colpo può risultare fatale. Niente più sequenze di combo da imparare, niente più supermosse che proiettano un personaggio da un lato all'altro dello schermo, ma un mondo virtuale gestito da una fisica credibile. È tuttavia il secondo capitolo a segnare l'effettivo boom di popolarità del gioco, quando Sega propone il nuovo Virtua Fighter sia per il domestico Saturn che per le sale arcade sparse in tutto il paese. Un successo talmente vasto da raggiungere persino l'Occidente, mercato ove, ancor meno che in Giappone, il Saturn non se la passa al meglio. «Utilizzando i film in qualità di termine di paragone, Shenmue non è come Guerre Stellari ma come Ro-

Ring#11

cky... insomma, vita quotidiana ma eccitante» Dopo tre sequel di successo, riconoscimenti ovunque (Virtua fighter è l'unico coin-op presente allo Smithsonian Institute di Washington) e strette di mano ricevute da pubblico e critica, Suzuki decide che è ora di sperperare quattrini in un progetto più ambizioso di qualsiasi altro tentato finora. Cresciuto a riso e giochi per PC (quei pochi con cui confessa di aver avuto a che fare, come Wizardry e Ultima) decide che nel piattume di Dragon Quest e Final Fantasy c'è bisogno di un rpg più raffinato nella forma e nel contenuto. Nasce Shenmue. In esso Suzuki riversa tutto se stesso, tanto dal punto di vista creativo che emotivo. Un'interazione palpabile con i personaggi non giocanti, un sistema di combattimento non a turni ma in tempo reale, estrema cura per dettaglio e realismo, più l'immancabile lezione ai giovani di oggi (volete la paghetta? guadagnatevela come facevo io). Tutto nel gioco rispecchia l'animo e le esperienze dell'autore. 450'000 copie vendute in giappone, grandi apprezzamenti dalla critica d'oltreoceano, ma qualcosa non funziona. A fronte delle spese sostenute, Shenmue non si rivela il successo che l'autore prospettava. Per la prima volta Suzuki si controlla le tasche e le trova miseramente vuote. Esce Virtua Fighter 4. Poi Virtua Fighter 4 Evolution. A breve uscirà Virtua Fighter 4 Final Tuned. Poi il colpo di grazia: Virtua Fighter Quest, sottotitolo “Lo sputtanamento finale”. Costretto a rimettersi in piedi da una caduta forse rovinosa (di sicuro umiliante) Suzuki porta al macello Virtua Fighter 4, ora più popolare che mai, rivendendo il motore grafico di Shenmue quando capita e producendo versioni edited del suo pupillo picchiaduro. Un esempio plateale della piega assunta dalla storica serie di Sega è stata l'aggiunta, nel capitolo Evolution, di Brad Burns e Go. A prima vista tutto in ordine, se non fosse che analizzando il sistema di combattimento di Vanessa [foto in alto] con quello dei due nuovi arrivati ci si accorge di come la lottatrice di colore sia stata saccheggiata e suddivisa nella creazione di Burns, con postura e movenze da kick boxing praticamente identiche a quelle di Vanessa, e di Go, con posture e movenze che saranno pure ispirate al judo, ma che somigliano un po' troppo a quelle della succitata fanciulla. Delusione e raccapriccio.

43

Non è tanto la gioia nel trovare un'incrinatura in Virtua Fighter ad essere qui proposta, quanto il rammarico nel constatare quanto e fino a che punto sia giunta la caduta libera economica che Sega sta affrontando negli ultimi anni. Viene allora spontaneo chiedersi perché Suzuki, pur occupando una posizione di spicco nella compagnia, a oggi non sia ancora riuscito a trovare i fondi per Shenmue 3 e non abbia ancora annunciato nessun progetto inedito. Brutta cosa non poter più fare coin-op con quattro schermi, un cabinato fornito di triclinio, una procace hostess che passa i gettoni e un motore poligonale che riproduce una ruota panoramica a dieci chilometri di distanza dalla pista di guida…

Videografia 1985 Hang-on, arcade 1985 Space Harrier, arcade 1987 Afterburner,arcade 1988 Powerdrift, arcade 1989 R-360, arcade 1992 Virtua Racing, arcade 1993 Virtua Fighter, arcade 1994 Virtua Fighter 2, arcade 1996 Virtua Fighter 3, arcade 1997 Amuro Namie - Digital Mix, Saturn 1999 F-355 Challenge, arcade 1999 Shen mue, Dreamcast 2001 Shen mue 2, Dremcast 2002 Virtua Fighter 4, arcade 2003 Virtua Fighter 4 Evolution, arcade


:RUBRICHE:

Ring#11

Nonline[Me Nintendo #11] Di Gatsu

La politica online di Nintendo è

nota a tutti, perché, semplicemente, non esiste. Sussistono solo un paio di titoli che supportano il collegamento in rete su Gamecube (uno è Phantasy Star Online, l’altro mi sfugge) e tutto il resto è lasciato all’intraprendenza degli utenti smanettoni che in modi anche poco ortodossi sono riusciti a far girare online roba tipo Mario Kart Double Dash tramite improbabili connessioni artigianali e programmi selfmade. Ora, la situazione non è certo delle più rosee e molti sviluppatori se ne sono accorti, riservando i costosi supporti online a servizi già avviati come Xbox Live! o al network Sony relativo a PS2. E’ nuovamente una di quelle situazioni in cui Nintendo vacilla, dimostrando di non saper più capire cosa davvero desiderino gli utenti? No. E adesso vi spiego anche il perché. Di fronte al buon successo dei servizi concorrenti, viene naturale pensare che la politica di Nintendo sia semplicemente troppo conservatrice e ancorata ad una “vecchia concezione” del videogame. Proviamo però a scavare un po’ in profondità, per vedere se la valutazione negativa del gioco online da parte della casa di Kyoto non sia invece basata su qualche analisi relativa al lungo periodo… Dave Jones, la mente dietro al sempreverde Lemmings, ha dichiarato nella intervista pubblicata su Videogiochi 005 (Febbraio 2004): “…un gioco [online] deve avere qualcosa di speciale per convincere la gente a spostarsi da un titolo all’altro, abbandonando la propria comunità e gli amici, e a starci. E’ una sfida completamente nuova per l’industria. In passato quando usciva un gioco massiccio la gente ci giocava per un mese o due, lo finiva e poi diceva ‘ok, sotto con il prossimo’. Con i titoli online la gente gioca mese dopo mese dopo mese, quindi quando lanci un gioco online non ti devi limitare al marketing passivo: devi letteralmente strappare i giocatori dai titoli a cui stanno già giocando. Ci vuole una strategia di vendita completamente nuova e sarà piuttosto difficile metterla in atto. Ci sono anche altre implicazioni: attualmente i giocatori comprano quattro o cinque titoli all’anno, ma con la penetrazione dei titoli online nel mass market sarei sorpreso se la gente comprasse più di due titoli all’anno”. Dite la verità, quanti di voi hanno avuto modo di discutere con appassionati di Ultima OnLine o Starcraft? Quelli che hanno alzato la mano, sapranno allora certamente che gli aficionados dei titoli Origin e Blizzard sono praticamente fossilizzati su quegli unici due titoli. Non nel senso che dall’uscita dei giochi suddetti non hanno provato altro, ma nel senso che una volta entrati a far parte della

comunità relativa non ci si schiodano nemmeno morti, non importa quanti altri MMORPG o strategici il mercato proponga loro. E, mi sembra evidente, nessuno di questi giocatori sarà disposto a pagare più di un abbonamento o due al mese per giocare… quindi, a farla semplice, il rischio concreto nel proporre tutti questi giochi incentrati sull’online è di vedere utenti che per mesi di dilettano solo con un paio di titoli, ignorando bellamente tutto il resto. Questo significa calo delle vendite, a casa mia.

Esistesse almeno un modello economico universalmente funzionante. Io non conosco una singola persona che per giocare ad Ultima OnLine paghi un regolare abbonamento: tutti si affidano a server amatoriali scansando del tutto qualsiasi ricarico pecuniario. Pensate davvero che tutto questo sia irrealizzabile su console, alla luce di gente che riesce a far girare online titoli NON pensati per l’online (vedi l’esempio di Mario Kart Double Dash riportato in apertura), che monta chip per qualsiasi esigenza, che installa Linux su una console Microsoft? Inoltre, pensiamoci bene. Per giocare a Final Fantasy XI è necessario: acquistare PS2 e relativi accessori, possedere il broadband adapter e l’hard disk, acquistare il gioco, installarsi una linea ADSL e, in più, pagare un abbonamento mensile, con l’aggravante che fra qualche anno Final Fantasy XI non sarà più supportato da nessun server sul pianeta, diventando, sostanzialmente, inutilizzabile. Proprio non capisco, ma come fanno a convincervi? Diamo per scontato che le prossime generazioni avranno il modem integrato e anche in Italia l’ADSL diventi lo standard (non improbabile, visto il tasso di crescita dei contratti): resta il problema degli abbonamenti, per me fattore determinante nella scelta di un giocatore nel non-abbandono di un titolo sul quale magari ha speso una fortuna (già me lo vedo: “perché dovrei cambiare gioco? Qui ormai sono una divinità e tutti si inchinano al mio passaggio, chi me lo fa fare di ricominciare da capo, soprattutto dopo che per gli abbonamenti a CiccioPasticcio Online ho ormai speso l’equivalente di tre stipendi?”).

44

Perfino Microsoft, forte dei successi di Xbox Live! (nonostante le tensioni con EA proprio a riguardo del modello economico), ha deciso di ridimensionare i suoi impegni online sul fronte PC, piattaforma da anni abituata al gioco online: "Il nostro obbiettivo con Mythica era quello di creare un MMORPG realmente innovativo. Ma se il gioco sembrava in grado di presentare elementi originali nel genere, dopo un'attenta valutazione del panorama MMORPG Microsoft ha deciso di ridimensionare i suoi progetti, procedendo a investimenti minori nel campo”. E che dire della cessione di Asheron’s Call, pezzo forte dei MMORPG by Microsoft, o della rinuncia di Ubisoft a pubblicare il sicuro hit The Matrix Online?

The Matrix Online, un gioco in rete dove il giocatore impersona un tizio imprigionato in una rete, che però deve svegliarsi. O una cosa del genere. Ubisoft ha rinunciato alla pubblicazione di un hit sicuro per un solo motivo: il gioco online si sta dimostrando poco vantaggioso dal punto di vista economico. Che sia colpa dell’architetto? Insomma, il problema inizia a farsi sentire e Nintendo ha fatto una scelta saggia nel tenersi in disparte. Oltre alla carenza di infrastrutture, senza un modello economico VANTAGGIOSO per l’utente, in grado di favorire il passaggio da un titolo all’altro senza costi aggiuntivi e senza traumi eccessivi (compreso l’acquisto di periferiche specifiche, che necessariamente devono essere già incluse nella console), il business del gioco online rischia di rivelarsi un clamoroso flop, un po’ come la new economy: finché erano in pochi funzionava, quando ci si sono buttati cani e porci c’è stato un drastico ridimensionamento. Il fenomeno raggiungerà quasi sicuramente la saturazione nel giro di pochi anni e porterà alla paralisi totale un mercato che incrementa costantemente l’offerta senza preoccuparsi affatto delle conseguenze… Oppure credete che l’insistenza di Nintendo sulla connettività sia casuale?


:RUBRICHE:

Ring#11

[The Ivory Tower] Ogni mese un membro della DiGRA (Digital Games Research Association), una associazione che riunisce studiosi e critici del videogioco, esprimerà in questo spazio i suoi pensieri, le sue riflessioni, le sue scoperte. Gli sguardi di queste persone, coinvolte in modo diverso nel mondo dei game studies o nell’industria del videogioco propriamente detta, saranno uno spunto per arricchire i nostri dibattiti e per crearne di nuovi. La IGDA (www.igda.org) (International Game Developers Association), da sempre impegnata nello studio del videogame e proprietaria degli scritti degli uomini della DiGRA, ha acconsentito alla pubblicazione in lingua italiana su Ring di questi articoli. Ringraziandoli ancora una volta, ci auguriamo che le nostre pagine siano degne della passione che la IGDA nutre per il proprio lavoro.

Al fine di stimolare la curiosità di chi volesse approfondire l’argomento, abbiamo deciso di conservare i riferimenti presenti nei testi originali ad autori mai citati nelle nostre pagine. Questo mese ospitiamo uno scritto di Jonathan Sykes, studioso presso l’eMotion Laboratory della Caledonian University di Glasgow. Sykes si occupa delle relazioni tra le moderne tecnologie e le emozioni dei fruitori. Un sentiero ancora molto poco approfondito che potrebbe in futuro fornire spunti rivoluzionari per i videogiochi. Basti pensare alle prime applicazioni che Sykes sta sperimentando, illustrate in questo articolo. Che stia per finire un’era? È presto per dirlo, ma di certo le opportunità che si celano dietro questi studi potrebbero cambiare il nostro modo di giocare. Per ora alla pressione di un tasto corrisponde un movimento su schermo, cosa potrebbe accadere se, con la stessa fatica, si potessero suscitare infinite emozioni? E cosa se, abbandonando i bottoni, si passasse ad un controllo basato sul pensiero, che reagisca direttamente alle nostre sensazioni? Siamo vicini ad una svolta?

Affective gaming di Jonathan Sykes Shigeru Miyamoto, il padre dei franchise di Mario e Zelda, sostiene di progettare i suoi giochi partendo da una serie di particolari esperienze emotive. Sony, produttrice di console, ha battezzato la CPU di Playstaion2 “Emotion Engine”. Ovviamente la comunità dei giocatori percepisce l’importanza delle emozioni all’interno dei giochi, ma allora perché molti videogiochi offrono una esperienza così leggera dal punto di vista emotivo? La ragione è per lo più imputabile alla relativa immaturità dell’industria. Laddove l’industria cinematografica si riferisce a dei testi sicuri e consolidati per gli autori che vogliono suscitare la commozione nel pubblico, l’industria dei giochi digitali non ha ancora finito di redigere il primo capitolo del manuale d’istruzioni. Considerato che i videogiochi sono un medium visivo, ci si aspetterebbe che sia possibile trasferire degli altri media le tecniche per suscitare emozioni. Sfortunatamente, non è proprio così. Il regista di un film ha il controllo completo sulla immagine che appare sullo schermo – l’angolatura, l’ordine sequenziale di ogni scena e il suo ritmo. Al contrario, il game designer affida il controllo di questi elementi al giocatore. Il giocatore sceglierà l’angolatura della telecamera ideale per far passare Mario sulla fune, così come la direzione e la velocità con cui il gioco procede. I media interattivi devono ancora trovare le loro regole per suscitare emozioni, ma conoscono già qualche trucchetto…

Provocare una risposta emotiva nel giocatore

La natura interattiva dei giochi digitali permette soluzioni nuove e davvero originali per suscitare emozioni. Mentre chi guarda un film assiste immobile allo schiudersi del mondo narrativo, il videogiocatore deve interagire con questo ed ogni contesto ha il potere di evocare una risposta emotiva differente. Per esempio, una grande torre dai pilastri di marmo è generalmente considerata più imponente, ci fa sentire più piccoli e a disagio rispetto a una piccola stanza con un divano e un camino scoppiettante. Alla Caledonian University di Glasgow stiamo studiando alcuni ambienti rino-

mati per essere fonte di esperienze soprannaturali. Modellando e adattando alcuni luoghi di Edimburgo ritenuti infestati, siamo riusciti a costruire degli ambienti di gioco capaci di produrre la sensazione di presenze spettrali nel 60% delle persone che li hanno provati. Tra le esperienze raccolte c’era chi sentiva un fantasma respirare dietro la propria nuca, chi avvertiva una presenza nel mondo virtuale rabbrividendo all’ingresso di alcune stanze, sentendo e provando cose non programmate in quell’ambiente.

Riconoscere lo stato emotivo del giocatore

Ci sono vari strumenti che possono essere usati per riconoscere lo stato emotivo del videogiocatore. Dei ricercatori al MIT di Dublino hanno esplorato gli utilizzi del Galvanic Skin Response (GSR) per determinare lo stato di allerta del giocatore. “Relax-to-Win” è un gioco terapeutico in cui il livello di tranquillità del giocatore determina la velocità di un mezzo da corsa. All’Interactive Institute di Stoccolma per il gioco “Brainball” misuriamo l’attività cerebrale di due giocatori con un elettroencefalogramma (EEG). I due devono controllare una pallina di ferro il cui movimento è determinato dalla loro capacità di meditazione. Un metodo alternativo per misurare le emozioni usando l’apparecchiatura delle normali console viene studiato alla Caledonian University di Glasgow. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che lo stato emotivo del giocatore può essere controllato dal modo con cui usano il controller. Non solo la maggiore o minore pressione dei bottoni può indicare lo stato di allerta, ma anche la frequenza con cui vengono premuti e rilasciati indica l’emozione provata dal player. Ci sono tre grandi vantaggi che possono derivare dalla conoscenza delle emozioni del giocatore. 1) Contenuti dinamici Come il buon vecchio cantastorie adatta il suo racconto agli ascoltatori riuniti attorno al falò, così il game designer potrebbe cucire i contenuti del gioco in modo che calzino a pennello ai suoi giocatori e alle loro emozioni. In particolare

45

è rilevante il momento in cui si mette in pausa il gioco per andare a mangiare, rispondere al telefono, dormire ecc. Quando torna il giocatore difficilmente sarà nelle stesse condizioni emotive di quando ha fermato il gioco, e quindi non gusterà appieno la paura suscitata dall’apparizione improvvisa di uno zombie che irrompe attraverso il vetro colorato della finestra. Invece monitorando le emozioni del player il game designer può ristabilire il percorso di ogni climax. Questo significa che il giocatore si potrebbe trovare sempre nelle condizioni ottimali per godere appieno dei contenuti. Per fargli gustare al massimo la comparsa improvvisa di uno zombie si potrebbe ricostruire la suspense e attendere che si raggiunga un sufficiente livello di terrore. 2) Comunicare a terzi lo stato emotivo Il rapporto con l’avversario gioca una parte fondamentale. Per esempio, è molto più piacevole battere un avversario soddisfatto di sé e fiducioso che un nervoso newbie senza la minima idea di come si controlli il suo avatar. Con l’arrivo dell’online gaming ci si è trovati di fronte alla possibilità che l’avversario non sia più fisicamente presente, annacquando l’esperienza sociale tipica delle sessioni multiplayer. Ma se il software è in grado di determinare la condizione emotiva del giocatore si potrebbe mettere su schermo un personaggio che vi si adatti e la rispecchi. 3) Meccaniche di gioco emotive Conoscere le emozioni del giocatore permetterebbe di costruire nuove meccaniche di gioco basate sulle stesse emozioni. Un esempio dato da Zen Warriors, un gioco in fase di pre-produzione alla Caledonian University di Glasgow. Zen Warrior è un gioco di combattimento in cui, per fare l’ultima mossa, il giocatore deve passare da uno stato di aggressione controllata ad una interiore calma Zen. Sono tempi entusiasmanti. I videogiochi hanno compiuto il grande passaggio estetico dalle due alla tre dimensioni. Il prossimo passaggio sarà quello di suscitare emozioni più profonde e varie, e stiamo scrivendo solo il primo capitolo del manuale d’istruzioni.


:RUBRICHE:

Ring#11

Stage 2: le periferiche [Arena: opinioni in multiplayer] Perifericonvergenza di Gatsu

La situazione attuale delle periferiche dedicate ai videogiochi è molto diversa rispetto a qualche anno fa. Ad esclusione dei classici pad, gli unici controller in grado di imporsi ad una fetta significativa d’utenza sembrano essere quelli relativi ai rythm game (tappetini, tastiere musicali, tamburi, maracas and so on), ai giochi di guida (volanti di varia foggia, quasi sempre compatibili solo con una fascia di software molto ristretta) e agli shooter in stile Point Blanck/House Of The Dead (Guncon et similia). Ogni periferica di altro tipo è sostanzialmente scomparsa, sia relativa al software (pensate solo alla quantità di joystick che accompagnavano l’uscita dei picchiaduro 2D qualche anno fa, alle canne da pesca, a paccottiglia stile Power Glove…), che all’hardware (adattatori, lettori di dischi…). Una parte della responsabilità l’hanno avuta i controller di nuova generazione, adatti a quasi tutti gli stili di gioco, il resto dipende più che altro da un calo di interesse degli utenti per le periferiche più strampalate, che il più delle volte risultano inutilizzabili se non con uno specifico gioco (il controller del simulatore di treni Densha de Go! per dirne uno). E poi c’è la questione costi: inutile sottolineare che ben pochi sono disposti a sborsare denaro aggiuntivo per portarsi a casa hard disk di dubbia utilità (PS2), modem sottosfruttati (Gamecube) o controller elefanteschi (XBox – Tekki). E’ però fuori discussione il fatto che alcune delle recenti comparse nel mercato delle periferiche sembrino studiate appositamente per un utilizzo più generico, in grado tra l’altro di aumentare di molto il coinvolgimento di un gioco. Mi riferisco nello specifico all’introduzione dell’accoppiata cuffie+microfono, ad EyeToy, ed estendendo un attimo il significato di periferica, alle console portatili di Nintendo e Sony (GBA/DS/PSP) in grado di interfacciarsi alle loro sorelle maggiori. Ora, mi sembra un dato di fatto che l’integrazione dell’hard disk nella console Microsoft sia stata una buona idea, perlomeno dal punto di vista di utenti e sviluppatori: i primi hanno

avuto la possibilità di giocare a titoli preclusi alle console concorrenti proprio a causa dell’assenza del disco fisso, i secondi hanno battuto strade inedite per il pubblico abituato a macchine dall’impostazione più classica. Il fatto che in termini economici sia stato sconveniente per Microsoft offrire un hard disk, non intacca minimamente l’esito positivo dell’esperimento. Quello che intendo dire è che le periferiche, per trovare oggi una ragione d’esistere, devono necessariamente essere fornite insieme alla macchina a cui sono destinate. Chiaro che questo non è immediatamente conveniente da un punto di vista economico, ma sul lungo periodo questa potrebbe essere la strada giusta, tra l’altro già intrapresa da Sony che ha annunciato una PS3 con una sorta di EyeToy integrata. Inoltre, mi sembra un grosso sbaglio la decisione di Microsoft di rimuovere l’hard disk in favore delle classiche e certamente più remunerative memory card per il successore di Xbox: l’obiettivo deve essere quello di “offrire il più possibile in un colpo solo”, non il contrario. E’ praticamente dimostrato che periferiche e add-on non garantiscono MAI una buona base installata (a meno che non siano indispensabili), tale da giustificare grossi investimenti nello sviluppo di giochi dedicati. La mia speranza è quindi quella di vedere, nella prossima generazione di console, oltre ai tanto agognati controller wireless, cavi di collegamento GBA/DS/GC – PSP/PS3 inclusi nelle confezioni, telecamere incastonate nello chassis e/o all’occorrenza rimovibili, cuffie fornite di default, supporti di memoria di serie…Si tratterebbe certamente di sopportare una spesa iniziale maggiore, ma a tutto vantaggio dell’offerta ludica conseguente. E se da qualche parte c’è da tagliare, che si sopprimano quelle feature extraludiche non più fondamentali come la lettura dei CD/DVD o il pratico tostapane integrato…Siamo qui per giocare, o sbaglio?

No More Mr. Nice Guy di Nemesis Divina

L’idea che l’epoca d’oro delle periferiche sia trascorsa, perduta nel mar morto della memoria, è singolare. Al contrario, oggi assistiamo alla legittimazione della periferica, l’elevazione del suo significato, l’attestazione della sua validità intrinseca. Qualcuno manda i ricordi al passato e rievoca un’epoca fatta di controller bizzarri, sempre tesi a (cercare di) offrire nuove e coinvolgenti esperienze extrasensoriali. Ricordiamo vibropack da applicare al torso per percepire i colpi subiti, compagni di gioco elettronici, guanti per la realtà virtuale, pistole, fucili, bazooka. Molte di queste periferiche presero a nascere allorquando Nintendo dominava, quando Nintendo era ancora saldamente al comando ed al comando della quale sedeva implacabile Hiroshi Yamauchi, un vero squalo degli affari che, tenendo fede al motto guerriero che i samurai avevano tramandato all’industria giapponese, manovrava ogni situazione commerciale come una vera e propria guerra, tesa all’annientamento dell’avversario. Ed ecco dunque che a fianco di una produzione ludica ineccepibile, nasceva tutto un proliferare di pretesti tecnologici. In piena fascinazione da ‘realtà virtuale’ e sviluppo tecnico accelerato, il giocatore ambiva nuove esperienze e Nintendo (ed altre con essa) era pronta ad offrirne. Ma si trattava di pretesti, appunto. Raramente una periferica offriva un che di indispensabile o comunque valido. Il Power Giove è una delle produzioni che maggiormente rasentano il truffaldino, cavalcando l’onda della VR e offrendo un guanto da indossare con ‘ricamato’ indosso un normalissimo pad, con tasti e bottoni ancora da pigiare.

46

Il miraggio di palpare un paio di seni sodi sul ponte ologrammi resta distante per un poco ancora… È invece in questa generazione che la periferica guadagna totalmente senso, motivando in sé la validità del proprio acquisto. EyeToy è la prima periferica che va nominata, che ad un prezzo accessibile offre una tecnologia efficiente, un gioco e una serie di applicazioni possibili alternative. Non è un caso che EyeToy sia divenuto in breve tempo un million seller, traguardo raggiunto oggi a fatica dai giochi stessi. Ma l’EyeToy non viaggia da solo. Sony per prima ha inaugurato con SOCOM la funzionalità dell’headset che abilita alla comunicazione vocale. Strumenti semplici e noti come cuffie e microfono contribuiscono a rinnovare l’esperienza ludica. Da una parte, online, l’insulto scorre nel doppino telefonico in tempo reale (lag permettendo), aumentando la partecipazione dell’utenza. Ma ancora, in SOCOM offline il microfono permette di impartire semplici ordini, funzione estremizzata in Life Line (PS2, Konami 2003/2004), titolo mediocre ma controllato al 90% dai comandi impartiti vocalmente. In futuro tutti gli action game militari (MGS, Splinter Cell) potrebbero implementare quetsa funzione, offrendo briefing in game da ascoltare nelle cuffie, durante l’azione di gioco a pieno vantaggio del coinvolgimento. Sempre il microfono è protagonista dell’exploit dei rythm game vocali, dove la CPU rileva e riconosce l’intonazione del cantato, fungendo quindi da ‘tappetino’ del terzo millennio. Il modem stesso è una periferica la cui utilità è da anni testata e garantita su PC e che anche su console, compatibilmente alla propria linea telefonica, sta riscuotendo un ragionevole successo.


:RUBRICHE:

Ring#11

Senza dubbio, il limite maggiore della periferica è esser tale, ossia venduta fuori dalla console. Eppure, come intelligentemente sta dimostrando EyeToy, è possibile spingere i compratori ad interessarsi ad un prodotto, se questo si offre come alternativa all’acquisto di un altro gioco e permette, esso stesso, di giocare (ecco perché ogni periferica necessita di una killer application fornita in bundle a prezzo credibile). E Sony, finanziando EyeToy, ha continuato a percorrere la propria strada di sempre: offrire il videogioco anche a chi non

è così interessato al VG. EyeToy ha spopolato fra i casual gamer, mentre è stato accolto con freddezza dagli appassionati. Ed è questo il centro focale, la periferica va oggi intesa come quid extraludico per extragiocatori. Chi ama e conosce il videogioco da molto tempo, deve trovare le proprie emozioni dentro lo schermo, senza invocare il miraggio di una periferica totale, senza reclamare il vero virtuale o altro. Le periferiche sono effetti speciali, indubbiamente efficienti ed efficaci. Ma il videogioco è e resta altro.

Sony al volante, pericolo costante di Cryu

Il controller è la porta per il videomondo. Senza controller non si gioca. Senza controller c’è solo il rolling demo. Il controller è il fulcro della leva dell’interazione: da una parte il gioco, dal-l’altra il giocatore, al centro il controller. Parrebbe una questione di importanza secondaria, dopotutto siamo abituati a considerare la piattaforma hardware e il software quali unici fattori decisivi di un’esperienza di gioco. Eppure, caso strano, l’accoppiata mouse+tastiera ha relegato per anni gli FPS al solo ambito PC, la bassa risoluzione dei TV rispetto ai monitor e la scarsa diffusione dei mouse per console hanno sempre tenuto avventure grafiche e strategici alla larga da Playstation & Nintendi vari. Poi c’è Tekki, con quel bestione di controller da 45 comandi. Solo per accendere il mech occorre attivare sette stick e premere due pulsanti. In Tekki il gioco è il controller, la soddisfazione di domare due cloche, una decina di stick e una trentina di bottoni contemporaneamente. Infine ci sono i racing game, e qui non ci sono santi: per godere davvero di un’esperienza di guida simulata è imprescindibile un volante con pedaliera. Con force feedback e cambio a cloche, se possibile. Pensatela come vi pare, ma la periferica di controllo, in un racing game, è responsabile di almeno il 30% del divertimento. Sega Rally, Daytona USA: indimenticabili le emozioni trasmesse dalla tecnologia idraulica di questi cabinati. Poi un bel giorno esce Gran Turismo, il miglior gioco di guida mai realizzato; ma non esce in salagiochi, esce su PlayStation, e scusate tanto, ma io voglio giocarlo con un volante. È a questo punto che inizia il dramma della mia vita… A quei tempi Mad Catz aveva appena prodotto un ottimo volante analogico compatibile un po' con tutti i racing game per PlayStation, munito di una robusta pedaliera e di un’onesta leva di cambio. È il primo volante console della storia a restituire un buon feeling di guida. Tra Gran Turismo e Colin McRae inizio a macinare migliaia di chilometri. Sono un videoguidatore felice. Ma non per molto… Molti sviluppatori si rendono conto che il pad analogico di PlayStation non è affatto preciso (quelli di DC e N64 lo erano infinitamente di più). Pertanto in un racing game può capitare di rilasciare lo stick dopo una curva senza che questo torni in posizione perfettamente neutra. Per ovviare a questo problema la successiva generazione di giochi di guida (Driver, Gran Turismo 2, Colin 2) implementa una zona morta: se rilasciando lo stick questo non torna perfettamente al centro, fa nulla, la macchina procede comunque diritta, perché i programmatori hanno inserito un margine entro il quale lo stick può muoversi senza influire sulla direzione della vettura. Pro-

blema risolto? Per i giocatori via pad sì, per gli amanti del volante è l’inizio del calvario. Quel piccolo margine, impercettibile giocando col pad, riprodotto su un volante dal diametro di 30cm significa un angolo morto di circa 20 gradi. Sterzo leggermente a destra, sterzo leggermente a sinistra, ma la macchina non curva. Risultato? Tutta una generazione di racing game ingiocabili con qualsiasi volante, anche i più lussuosi (neppure il bellissimo Guillemot con licenza Ferrari). Infine esce Gran Turismo 3, ed esce accompagnato da un fiammante volantone blu firmato Logitech. Da allora questo volante ha settato un semi-standard, nel senso che tutti gli sviluppatori sanno che il volante più o meno "ufficiale" di PS2 è quello. Pertanto i vari WRCII e 3 funzionano egregiamente. Già, se però chi sviluppa non si cura di rendere il suo simulatore giocabile con questo volante, non è detto che alla fine sarà possibile utilizzarlo. Pochi giorni fa è uscito il nuovissimo volante Logitech dedicato a Gran Turismo 4: 149 euro di solido metallo e parti mobili squisitamente rifinite. Guidarci GT4 sarà fantastico. Ma sarà fantastico anche per i possessori del precedente volante Logitech? Ma soprattutto, a giugno esce Driv3r, che personalmente attendo con ancora maggiore ansia di GT4; i Reflections non hanno mai dimostrato grande interesse per volanti (il primo Driver e il Mad Catz erano nemici giurati), pertanto chi lo sa se il prossimo Driv3r sarà compatibile? Io sono praticamente certo di no, anche in virtù del fatto che le fasi a piedi sarebbero improponibili via volante. Certo, si potrebbe facilmente ovviare al problema tramite riconoscimento di un pad inserito nella porta 2, ma qualcosa mi dice che nessuno ci penserà. Morale: tra qualche mese potrei avere in casa il miglior gioco di guida urbana di sempre, un volante da mille e una notte… e non poterli utilizzare insieme! No, non andiamo bene. Urge uno standard ufficialissimo, urge una direttiva Sony. Oggi come oggi rischi di comprarti un volante da 150 euro senza nessuna garanzia che ti funzioni con i tuoi giochi di guida preferiti. E quindi... e quindi non lo compri, a meno che tu non sia schifosamente ricco o perdutamente appassionato (per un autentico cultore dei motori rimango dell’idea che giocare a GT4 via pad sia una bestemmia). Ci vorrebbe che Sony si prendesse la briga di imprimere il suo marchio sul volante Logitech e di dire "questo È il volante PS2, se volete fare un gioco di guida per PS2 deve essere compatibile, altrimenti niente licenza". Facciamo finta di sperarci. Dopotutto sperare costa meno di qualsiasi periferica.

Le periferiche che non dovrebbero mancare nel “Mighty Buco di Merda” di ogni lettore di Ring… Molto probabilmente Onimusha 3 non sarebbe così deludente senza l’imprescindibile joypad-katana di ordinanza. Una periferica con un taglio tutto suo…

Come non ricordare il grandioso rabbit-pad di Philips Cucina? L’unica periferica premiata da Famitsu sia per l’ergonomicità che per il character design.

Direttamente dai contenuti extra del prossimo blockbuster Metal Gear Solid: Philantropy, un fucile che rende il quotidiano sgominare di terroristi un lavoro per docili pensionate. La periferica preferita dai portalettere americani.

Ed ora lei. La periferica definitiva. Il telecomando di PS2! Con questo superbo prodotto potremo fruire della funzionalità più importante della console Sony, la visione dei DVD, senza più far inciampare nostra madre sul filo del joypad. Approvato dal MOIGE.

47


:RUBRICHE:

Ring#11

CHAINMAIL 3.0

[posta@project-ring.com]

Chissà cosa c'è dietro!? Si domanda qualcuno. Dietro ci sono i cereali, risponderebbe il filosofo. Ma anche delle persone, aggiunse Marcello Cangiatosi in quel di Ring#10. Dietro a che cosa? Ma ai videogiochi, naturalmente. I videogiochi rimangono l'espressione della creatività dell'uomo di cui oggigiorno viene meno valorizzata la paternità creativa. Se si dice canzone, si pensa subito al cantan-

te, se si dice film, si pensa subito al regista, se si dice videogioco si pensa subito… ehr, a che si pensa? Alla softco? Se va bene, altrimenti non si pensa a nulla, al massimo al prezzo. Ed è qui che interviene il sanguinario Marcello, a proporre la messa in risalto degli autori del videogioco in prospettiva di una sua definitiva emancipazione espressiva. "Firmiamo i videogiochi" è l'imperativo caldeggiato. Ma la questione è complessa… a voi la parola.

Caro Marcello, non credi sia forse un po' azzardato definire Toyama "il creatore di Silent Hill"? L'industria videoludica sembra affamata di autori, tanto che serie storiche nate nell'anonimato si affrettano a darsene uno (Castlevania Igarashi, Contra Nakazato), ma sembra più una mossa da press release che altro [...]. Silent Hill è il prodotto di un team di persone. Lo scenario writer Hiroyuki Owaku, il musicista Akira Yamaoka, l'art director Masahiro Ito, Takayoshi Sato per i filmati in CG; sono tutte persone che vi hanno lavorato dal primo episodio ad oggi. Il director è invece cambiato ad ogni episodio: Keiichiro Toyama, Masashi Tsuboyama, Kazuhide Nakazawa... [...] Mi aspetto molto da Siren1. In effetti, posso anche convenire che il primo Silent Hill resta ineguagliato in quanto a effetto terrorizzante... [...] Per ipotesi, conveniamo che Toyama sia il miglior director che SH abbia avuto [...] ora, se Siren spaventa come promesso, sarà facile banalizzare il tutto: Toyama è un genio, Silent Hill "orfana" di Lui non vale una cicca. La stampa specializzata dovrebbe andarci piano con la "politica degli autori", ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Truffaut scriveva per i Cahiers du Cinema. L'idea stessa che un gioco sia il prodotto di un unico uomo, il Regista, è una deformazione. Da quel poco che posso capire Konami si avvicina di più come metodo di produzione allo studio system hollywoodiano. [...] Spero vivamente di non dover assistere al propagarsi dell'ennesima leggenda metropolitana. Quella che vede il leggendario Toyama lasciare Silent Hill, serie ormai troppo commerciale, per perseguire i suoi ideali in fatto di horror. [...] Per tornare on-topic; certo, l'industria del videogame non ha ancora assimilato del tutto la strategia dei nomi di richiamo, una cosa a cui i comic book sono arrivati da tempo. Non è incredibilmente in ritardo come sembri voler dire, comunque. Ormai sono anni che ogni fan Nintendo conosce il nome di Miyamoto, molti si stupirebbero vedendo quanto sia corta la lista di giochi di cui è stato personalmente "director" negli ultimi anni. Mi sembra che il buon Takashi Tezuka abbia diretto Zelda sin da Link's Awakening, e parliamo del 1993... Già, ma chi lo conosce? Un effetto collaterale del catalizzare l'attenzione del pubblico su un nome di richiamo è appunto questo. Il caso di Kojima è ancora diverso, in quanto è Kojima stesso a proporsi come un regista, inteso in senso cinematografico... In effetti, è uno dei pochi a cui sia stata concessa finora una ampia libertà ma sopratutto uno stretto controllo sui propri progetti. Ad analizzare anche superficialmente le tematiche di Snatcher e Policenauts fino a Sons of Liberty, c'è da stupirsi dell'incredibile coesione tematica. Sarebbe interessan-

te capire quanto dell'approccio autoriale che Kojima ha assunto sia una diretta conseguenza del suo pensare il videogioco in termini cinematografici (non è una critica, ci mancherebbe). Ad ogni modo, il nome di Kojima è servito da chiaro richiamo pubblicitario per la saga di ZOE. Ma al di là della fanfara, Kojima non ha certo lavorato su ZOE quanto su MGS. Il suo coinvolgimento potrebbe dirsi analogo per proporzioni a quello che Miyamoto ha ipoteticamente in Twin Snakes... Ma forse è proprio questo il punto; forse quando vedremo "Keiichiro Toyama Presents" a caratteri cubitali sulla confezione di un gioco, potremo affermare con una certa sicurezza che Toyama è assurto a etichetta da p.r. e il gioco è nelle mani del suo team... [...] Chi posta su GameFAQs è gia abituato a classificare gli rpg in base al compositore: Uematsu, Mitsuda, Sakimoto, Iwadare, Sakuraba e compagnia... Ricordo che Star Gladiator fu commercializzato in italia con il bollino: "dagli autori di Resident Evil". In questo senso non drammatizzerei troppo il caso Siren. [...] Le sue sorti dipendono dal nome di Toyama in copertina in minima parte. È un titolo di notevoli qualità, sarà accolto come lo fu Silent Hill all'epoca, che era realizzato da perfetti sconosciuti. [...] Ancora non sono arrivato al nocciolo della faccenda. Uno dei modi di pubblicizzare è appunto quello di sbandierare nomi di richiamo. Siamo d'accordo, però precisiamo bene: è pubblicità, non informazione. Attorno ad un nome si crea un'aura mitica, e si è visto che ciò fa bene alle vendite dei comic book, ad esempio. Quindi, dalla furba copertina del gioco non mi aspetto altro in futuro che strilloni di questo tipo. Mikami!! Miyamoto!! Kojima!! (tranquillo, il nome è riportato anche sull'edizione europea di Sons Of Liberty). [...] E per finire, la proposta provocatoria ^_^ E se invece del modello cinema si approdasse al modello libro? Cover di Siren assolutamente spoglia sul davanti: l'acquirente gira il box e in basso scorge una piccola foto in bianco e nero e una noticina: "Keiichiro Toyama, 30 anni si è laureato in bla bla... Fra i suoi lavori, la direzione di Silent Hill...Vive in una tranquilla periferia con i suoi tre adorabili gattini...".

48

Setzer [1] Hai notato che Siren (sa - i - re - n) in katakana si legge e scrive esattamente come i primi quattro ideogrammi di Sa - i - re - n - to - Hi - ru, Silent Hill? Con un po' di immaginazione questo titolo, troncone mozzo di Silent Hill, potrebbe significare la volontà di un ritorno alle origini. In effetti, nel primo Silent Hill più che negli altri l'enfasi era sulla fuga...


:STORY-TELLING:

Ring#11

[Vox Mundi]

Column 03: Out Soon! di Gunny

A qualcuno doveva essere sembrata una buona idea. Geniale, perfino. Ed il fatto che ‘Loro’ sconsigliassero vivamente di attuarla, non faceva che rendere l’opzione più attraente. Il virus SEAL fu caricato in dosi massicce sulla Vecchia Linea il 14 Dicembre 2109 e con iniezioni mirate nella Seconda Internet che, nessuno riusciva ancora a capire come, i digitali di Nu Gea erano riusciti ad intaccare, questo sebbene fra i due web non esistessero ponti telematici né tantomeno strutturali. Per ogni quartiere formattato sulla Vecchia Linea, un nuovo settore virtuale della Seconda Internet veniva convertito al dominio dei digitali, che semplicemente replicavano i dati rimossi dalle allocazioni precedenti, senza tuttavia occupare uno spazio maggiore. Come il SEAL si trasmise all’uomo, resta però un mistero. Il più nefando che l’Uomo ebbe la sfortuna di incontrare. Aaran Bolqvuist sbuffò una voluta di fumo convulsa. Che si fottessero. Che se ne andassero, la coda fra le gambe. Il SEAL era una brutta bestia, attaccava a livello genetico, qualcosa di mai visto. Ma nemmeno Kalì in persona, con un M60 tenuto in ognuna delle molte braccia, gli avrebbe fatto muovere il culo dal suo studio di Roma. Con tutta la fatica che aveva fatto per arrivarci e i piedi che aveva pestato e i culi che aveva baciato. Aaran Bolqvuist morì solo qualche mese dopo, di SEAL, come sembrava succedere a tutti quelli che non si digitalizzavano nel web. Ma quel giorno aveva ancora abbastanza boria e potere e orgoglio da infischiarsene del richiamo medico e, con i piedi sulla scrivania, sfogliava una rivista. Un allegato, una qualche ristampa anastatica di una qualche rivista di inizio millennio. Senza nemmeno pensarci concatenò le prime parole della pagina, e poi lesse: ELECTRONIC ENTERTAINMENT EXPO, 2011 Scrivere una preview è un po’ come giocare d’azzardo: mai fidarsi delle dichiarazioni, delle prime impressioni, di ciò che appare manifesto. Il volume d’affari spinge programmatori e produttori a convogliare tutto il loro sforzo nella presentazione di videogiochi che spesso, poi, si rivelano totali delusioni ma che comunque riescono a racimolare una quantità sufficiente di scaricamenti, a causa dell’hype creato. Ring è tornato da centinaia di fiere, dopo migliaia di interviste altisonanti e con in saccoccia milioni di rumorosi press kit. Ring è più diffidente di un gatto selvatico, quando sente pronunciare la parola ‘rivoluzione’. Ma ogni tanto dei rischi bisogna saperseli prendere. Chi scrive ricorda ancora il piacere della scommessa vinta con Reporter, e prima di lui con Blood on the Tracks e con Fahrenheit. Sapete anche, cari lettori, che chi scrive non scommette mai, se non si sente assolutamente sicuro di fare la cosa giusta.

49


:STORY-TELLING:

Ring#11

E quindi si: a tre di distanza da Reporter, Ring ha l’impressione di percepire nuovamente l’atmosfera elettrica della rivoluzione. Lo stand non era dei più grandi, in questo E3 dominato dalla sfida tra la piattaforma proposta dall’asse Mac/Sony e l’agguerrita DigiTouch della Repubblica Popolare Cinese. Il videogioco in questione si chiama The World, ed è presentato da un team scozzese, i Dirty Days. La compagnia in questione conta solo 19 associati, e ha sede a Glasgow. Di passaggio verso prodotti e palchi più ricchi e luminosi, Ring lancia un’occhiata di striscio verso il Dirty Stand, e nota la scritta RealLife MMORPG. Ring sbuffa, si mette le mani in tasca e si appresta a tirare dritto: Ring non ne può più di MMORPG, stantii parchi giochi interessati da evoluzioni meramente tecniche e numeriche, e gestiti da giostrai estremamente rumorosi nel ribadire pregi esclusivi che di esclusivo hanno davvero poco Ma poi Ring rimane fermo, con la coda dell’occhio sempre puntata sul Dirty Stand: i Dirty Days, nota Ring, se ne stanno fermi. Non schiamazzano, non infastidiscono i passanti. Se ne stanno seduti tranquilli, con un sorriso a metà tra l’idiota e il diabolico. Hanno un’aria da ‘un giorno tutto il mondo vedrà…’. Ormai colma di curiosità verso mammiferi di tale interesse scientifico, Ring si avvicina ai videoschermi di The World. Nota elementi di ambientazione urbana. Nota un uso quasi amatoriale del motore di Quake4 su licenza. Ring sa cosa il nostro lettore starà pensando; ed è d’accordo. Sì, uno sfruttamento amatoriale di un motore già di per sé vetusto non è un buon biglietto da visita nell’era del raggiunto fotorealismo. Ring nota anche la scarsa quantità di NPG rappresentati. E nota subito un microfono, appoggiato accanto a uno degli schermi al plasma. «What’s the microphone for? » chiede Ring al Dirty Day più vicino. «Give it a try…» risponde l’individuo con fare vermilinguoso, sguardo alla Jack Nicholson. «E che cazzo di risposta sarebbe?» mormora in italiano strettissimo Ring, mentre, infastidita, da le spalle allo spocchioso Verminicholson. «Mi scusi, anche lei parla italiano?» … Ring compie una rivoluzione di 180° in senso orario, per procedere alle prime stime della figura di merda rimediata. Ma poi si accorge che Verminicholson non sta guardando, parla invece al telefonino con qualcuno, in scozzese. Non può aver pronunciato quelle parole. Ring non capisce. «Non desidera parlare con me? Beh, non importa, scusi il disturbo. Buona giornata!» … Ring compie una rivoluzione di 90° in senso antiorario, fissando ora lo schermo di The World. Un signore di circa 50 anni, un po’ stempiato, ci guarda per una frazione di secondo, poi si gira e comincia a passeggiare sul marciapiede. Con un lungo, profondo brivido che le attraversa la schiena, Ring, afferra il controller e si avvicina al soggetto. Il passante sembra accorgersi del movimento e si gira con aria interrogativa. Ring, assuefatta a secolari abitudini, preme il tasto azione, tentando un’interazione. Un uppercut stende il posato signore, mentre il Doh! di Ring rieccheggia nel centro conferenze di los Angeles. «Ma è impazzito? Qualcuno mi aiuti!» prende a gridare il posato signore.

50


:STORY-TELLING:

Ring#11

Un vigile accorre dalla strada propinqua, mentre Ring, rendendosi per la prima volta conto di avere un microfono in mano, comincia a capire il da farsi. «Mi scusi, non volevo!» tenta Ring senza troppa convinzione. «Ma come non voleva! Mi ha steso!» protesta il posato signore. «What’s going on?» tuona il vigile, sorprendentemente simile a Bud Spencer. «Non l’ho fatto di proposito! Ah, sorry…it wasn’t my intention! I’ve just…» Un secondo Doh!, più interiore e raccolto, rieccheggia nel centro conferenze di Los Angeles. Come spiegare alla creatura digitale l’errore nell’utilizzo del controller? «Stay quiet and follow me. The police station’s just behind the corner. Don’t try anything odd…» prosegue il sempre più innervosito vigile Spencer, mentre il signore sembra ancora incapace di metabolizzare l’accaduto. Ma Ring non cede. Ring, tra tutte le riviste presenti all’E3, ha una particolarità. È una rivista italiana. «Signore, la prego! Convinca questo vigile a non denunciarmi, a non farmi del male. L’ho colpita, guardi, non so nemmeno io perché! Poveraccio sono! Malato diventato! Mio figlio, piccinino, è morto l’altro ieri in culla. Mia moglie è impazzita, e lavoro per pagarle le cure. Manco io so da dove ripartire! È colpa di me, individuale tapino, o è il mondo che è spietato, e non lascia respirare un cuore sensibile?! Io non sono cattivo! Mi disegnano così!» Finito il piagnisteo, Ring si accorge di essere circondato dai rappresentanti di almeno altre 20 testate giornalistiche. Nessuno di loro sa ancora se scoppiare a ridere o se chiamare il servizio d’ordine. Nel videoschermo, il signore pare commuoversi, e fa cenno a Bud Spencer di lasciar perdere. «Stia attento, poteva farmi davvero male» mormora prima di riprendere la sua passeggiata. La videoludovita cittadina riprende indisturbata. Ring si volta lentamente, di 90°, stavolta in senso antiorario. Verminicholson la sta guardando, con un’espressione che dice «Puoi chiamarmi…Joker.» Ring ricambia elevando un sopracciglio ad altezza inumana, quasi ancelottiana. Ring poi compie un’ampia panoramica oculare sulla massa umana che ormai popola il Dirty Stand. Lo massa umana, silenziosa ma concupiscente, sta guardando Ring, con un’espressione da «fai pure, ma sbrigati che poi tocca a noi.» Ed è così che Ring, coltello tra i denti, si avventa su Verminicholson con l’atavico obbiettivo di ogni giornalista: strappare un servizio su un evento rivoluzionario. Servizio che troverete a pagina 14 di questo stesso numero di Ring.

Sanguine 01: Carnivorous Wind di Nemesis Divina

14/12/2174 03:34 a.m. PRIMA: «La sai una cosa? Fai schifo. Tu, piccolo uomo… sei viscido. Dì la verità, tuo padre è italiano? Li detesto, sono dei sudici… oppure hai sangue negro nelle vene, uh? Dì un po’, non sarai mica ebreo? O arabo? Peggio, americano?! Irlandese!! Oh, l’importante è che tu non sia una qualche specie di frocio… flaccidi molluschi.»

51


:STORY-TELLING:

Ring#11

No, Fabian Himmler non era una cattiva persona, solo che quando apriva bocca cercava di discriminare quante più categorie umane possibile. Non che i rimasti al Mondo (quello Vero) meritassero maggior considerazione... Fabian era un tipo… come dire… originale. Se ne stava là, seduto su un trono ghigeriano, pantaloni in lattex nero aderenti alle cosce, petto nudo e due bretelle che gli rigavano il torso. La pelle era sbiancata chirurgicamente, tanto che l’epidermide appariva lattiginosa e si scorgevano al di sotto i tortuosi condotti sanguigni. Aveva i capelli d’un giallo accesso, pettinati indietro e un naso nobilmente adunco incorniciato da un viso rigoroso, eppur bello. Gli occhi erano modificati, con iride bianca e cornea d’un nero opaco, mentre lungo le braccia risaltavano gli impianti sottocutanei: biglie e ganci di metallo innestati sotto la pelle, per dare luogo a «protuberanze esteticamente rilevanti», avrebbe detto lui. Il periodo in cui il Post_Gothik prese piede, nessuno se lo ricorda più. Quando in molti, dopo il SEAL, migrarono verso i confini digitali di Nu Gea, la feccia venne a galla e i Goth non erano nemmeno l’aspetto peggiore del Mondo. Idolatri della carne, anticonformisti, nichilisti, edonisti… Due Cagne si baciavano ai piedi di Fabian. Cosa spingesse un umano a scendere alla condizione di Cane, neanche Will Padner riusciva a spiegarselo. Dai bracciali che Fabian indossava, dipartivano sottili catene dorate che terminavano appese ai collari di due ragazze, nude, con gli arti mutilati all’altezza di gomiti e ginocchia. Will, che pure non era esempio di virtù, stentava ad accettare una tale sottomissione volontaria. Ma questo era un posto strano, un posto di mostri. E dove andare sennò, per comprare mostruosità? Fabian trasse dal fianco una sottile custodia, di pochi centimetri di lato, e la porse sorridendo a Will. «Digitale o digitalizzato?» chiese il ragazzo, assestando tremante gli occhialini tondi. «Digitale» sibilò Fabian. «Eheh» ridacchiò nervoso «bene. Sono più… veri. Più sensibili…» Fabian lo guardava dall’alto in basso, con sguardo furioso ed un sottile elettrico divertimento in fondo agli occhi. Poi sorrise tagliente. «Dammi i soldi, vattene e divertiti. Ha dodici anni, fai del tuo peggio...» Will prese il datapad dalla tasca e accreditò nervoso la somma pattuita, poi prese la custodia con il disco e si allontanò dopo un cenno di saluto e uno sguardo inquieto ad una delle Cagne, che mugugnava languida. «Will Padner! Tu sei uno schifoso pervertito e perirai nella fiamma!!» gli giunse teatrale da dietro le spalle, ma era già oltre la soglia e non esitò a richiudere la porta dietro di sè.

14/12/74 Ore 22:21 p.m DOPO: «Non lo so… non va niente bene.» Passeggiava nervosamente, con la giacca in raso grigio. Una cravatta nera sul campo chiaro della camicia, pantaloni stirati a puntino e un orologio di pregio. Per quanto il mondo respirasse ormai una boccata d’aria e due di merda, gli avvocati continuavano a vestirsi come ai bei tempi. Se mai ce ne furono; nessuno comunque li ricordava… questo era certo. Joshua Spada si grattò il collo, poco sotto l’orecchio. Poi passò la mano fra i capelli castani e ben pettinati. Mulinava nell’aria una cartella porta-appunti mentre borbottava, annuiva e dissentiva fra sé. Poi diede una pacca alla cartella con il dorso della mano e con aria sconsolata affondò nella sedia davanti a Will Padner.

52


:STORY-TELLING:

Ring#11

Will si massaggiava ambo le cosce… l’opera di ricostruzione dei tessuti era rapida e indolore ma lasciava un formicolio fastidioso. Una vetrata opaca nascondeva gli agenti di polizia mentre un neon diffondeva luce artica nella stanza. «Un digitale… non è un bell’affare. Lo sai questo, Will?» ma nessuno rispose. «Fosse stato un digitalizzato… lo sai. Qui le cose si dimenticano, il Mondo non ha più memoria e a nessuno interessa d’averne. Ma Loro ricordano. Tutto.» L’avvocato Spada si lasciò cadere verso il duro schienale. «Non dimenticano mai. Sei fottuto, ragazzo. Uno Snuffer fottuto.»

14/12/74 Ore 16:04 p.m. DURANTE: Fu un tonfo sordo, probabilmente diminuito da un insonorizzatore Sydney-Hwang. La porta cedette di schianto. Will si ruotò rapido sulla sedia, completamente nudo come ogni volta che “operava”, e non ebbe tempo nemmeno per maledire gli dèi. Uno schiocco rotondo si espanse per la stanza, piccola e zeppa di colonne di cianfrusaglie tecnologiche, poi la sua coscia destra gorgogliò. Will vide il femore luccicante, rigato di rosso, mentre un quadricipite penzolava molle, adagiandosi al pavimento. Il resto della coscia era finita sul tavolo con i suoi tre computer. Will si mosse d’istinto nel tentativo di cancellare i dati del programma e, girando sulla sedia, la rotula esposta fece un lamento, poi cedette, lasciando cadere a terra la porzione inferiore della gamba. «Schifoso…» le parole gli si strozzavano in gola, mentre il calcio del fucile dell’agente Rico Schmidt affondava alla base della nuca di Will Padner, mandandolo steso a terra. «Rico, calmati…» impose il comandante Thorvald. «Chang, dai un’occhiata a questa roba, guarda se è quello che cerchiamo. Rico, tu allontanati… ho detto ALLONTANATI CAZZO!!» Rico si ritrasse verso una finestra, dalla quale attinse l’aria fredda di Berlino. Si levò il casco da incursione e si massaggiò il viso, disperato. Will Padner guardava in su, mente un induttore gravitazionale veniva puntato alla sua gamba sana. Sorrise all’agente che lo teneva sotto mira, costatando come la propria erezione fosse ancora vistosa. Rudolph Chang digitava veloce sulla tastiera, richiamando i dati nascosti e gli ultimi utilizzi del processore. Will era un ottimo programamtore e sapeva il fatto suo, ma aveva avuto solo pochi secondi e non era riuscito ad attivare l’intera macro di copertura dati. Chang esultò e Will socchiuse gli occhi lasciandosi andare nel torpore della sconfitta. Chang portò alla bocca il microfono e chiese se ci fosse qualcuno nella stanza visualizzata a schermo. Silenzio. Poi una voce flebile rispose. Una voce di bambina. «Vieni avanti piccola, non avere paura. Siamo agenti della WOA, non ti faremo del male. Vieni avanti, se esci possiamo uploadarti a Nu Gea non appena troviamo un server disposto ad accoglierti, lì sarai al sicuro. Lì starai bene…» E si fece avanti. Chang si ritrasse d’istinto, sulla sedia. Ad uno degli agenti vicino allo schermo scivolò l’arma di mano mentre il comandante strinse le labbra, poi si voltò poi verso il sottoposto con il graviton e annuì senza parlare. Uno schiocco pieno si produsse e muscoli e ossa si sparpagliarono per la stanza, mentre Will urlava. Rico, con la città morta che si stendeva fino all’orizzonte, osservava fra i singhiozzi le proprie lacrime, che precipitavano giù, verso l’inferno in strada.

53


:STORY-TELLING:

Ring#11

Davide Return!!!1 (Davide Reborn parte 2 di 2)

[Il Davide Videoludico UNDICI]

di Sator Egidio

«Nemesis posso dividere in due parti il racconto del Davide

Videoludico che sto scrivendo? Ho una mezza intenzione di portare la seconda parte al festival di Cannes…» Sator Egidio NELL’EPISODIO PRECEDENTE…

Un insolitamente lucido Davide Videoludico maleinterpreta un versetto del Ring Forum e decide di piantarla coi videogiochi. PER SEMPRE! Con l’abnegazione di un kamikaze della NATO, il Davide produce scatoloni su scatoloni di paccottiglia videoludovoluminosa e li regala ai vicini, una famiglia di albanesi. Poi, sentendosi improvvisamente svuotato, prende a vagare per la notturna città. Durante questo free roaming, il Davide viene raggiunto da una coppia di picciotti dalle non ottime intenzioni. Costoro lo conducono dal boss della Mafia-Yakuza, il quale giustamente intende assassinare il Davide reo di essersi unsubscritto da Xbox Live. Sfruttando un punto debole dei siciliani, il Davide fugge, ma è presto inseguito da una masnada di mafiosi. Maximo cum sedere, egli trova rifugio nel negozio del Bitte, ma un picciotto con un buon algoritmo di pathfinding riesce a seguirlo fino a ivi. Scoppia tra i due una rissa molto poco cattolica, interrotta dal Bitte stesso e dal calcio del suo fucile. L’alquanto dinamico duo si risveglia nel sottoscala di Bitpower e si scopre legato a delle sedie discretamente ergonomiche. Il Bitte espone i suoi motivi di risentimento verso i compari di sventura, e alla fine le ragioni paiono tutte dalla sua; poi seleziona il picciotto per intrattenere… pubbliche relazioni. Mentre i due si conoscono meglio, il Davide riesce a fuggire per meriti assolutamente non suoi, e correndo correndo correndo raggiunge la piazza senza nome della città senza nome (dove anche i migliori tassisti gettano la spugna). Quando tutto sembra andare per il meglio, una Honda S2000 si mette sulle tracce davidee, e fa per investire il Nostro, incurante del sistema di danneggiamento…

Il brum brum della Honda, coadiuvato dal boom boom della marmitta, macinava implacabile i suoi giri al minuto in direzione di un imbe(ci)lle Davide Videoludico. Il quale aveva ormai accettato l’idea di cessare la propria esistenza di lì a poco. Presto avrebbe abbandonato questa valle di mafie e commercianti di sesso per andare in un posto migliore: a cavalcare rigogliosi canguri lungo le saltellanti steppe dei Campi Elisi. Ma giusto a ridosso dell’inevitabile impatto, un paracadute sortì fuori dal popò della Honda e verosimili routine fisiche arrestarono l’automobile nipponica a poche unità di misura dagli umidicci pantaloni del volenteroso Davide. Niente Campi Elisi per il Nostro. Per adesso. Si udì un click mefistofelico (per quanto mefistofelico possa essere un click) e la portiera si aprì. Un fumo rosso demoniaco (per quanto demoniaco possa essere un fumo rosso) si propagò dall’interno dell’auto, poi, dopo pochi istanti di suspense, una figura si disegnò stilosamente fuor dall’abitacolo. E il Davide cadde in ginocchio. «Oh. Mio. Dio.» fece con le lagrime avviluppanti i buchi per li occhi. «Kazunori Yamauchi!» «Ma icché dici, viso di curignolo?» commentò un extracomunitario lì nelle vicinanze impegnato nell’atto di scassinare un parchimetro (mostrando tra l’altro una notevole padronanza dello slang del basso grossetano). «Quello è Simone Crosignani!» «Oh. Mio. Dio. Il_Simon!» si corresse Il_Davide che, camminando come Voldo, si avvicinò al megaredattore naturale con il proposito di rinnovare il Sacro Rito della Lavanda dei Piedi. Apriamo una parente. CONCERNING IL SACRO RITO DELLA LAVANDA DEI PIEDI Fu questa una manifestazione che si ritagliò il suo decimo di secondo di notorietà verso il finire degli anni ’90. Le cronache dell’epoca raccontano di un sogget-

54


:STORY-TELLING:

Ring#11

to, convenzionalmente chiamato “il Davide”, che durante l’annuale manifestazione SMAU si esibiva in un rituale di passaggio appunto detto della Lavanda dei Piedi. A vedersi i peduli nettati era ogni anno la personalità videoludica maggiormente di spicco presente alla fiera. Iniziato nel 1996 con Marco Auletta, il Sacro Rito della Lavanda dei Piedi proseguì l’anno successivo ai danni di Rhona Mitre – la prima Lara Croft – che per l’occasione evitò la doccia nelle quattordici settimane antecedenti il rito. Molti individuano in questo il motivo principale per cui Eidos la licenziò. Nel 1998 i piedi accuratamente insalivati furono quelli di Stefano, PR di Ubi Soft. Nel 1999 toccò invece a Francesco Carlà, mentre nel 2000 il rituale raggiunse il suo momento di massimo fulgore con la politura pedestre di un tipo vagamente rassomigliante a Peter Molyneux. Poi, ahinoi, Il Davide prese la mononucleosi, e le autorità decisero di sospendere la rassegna fino a data da definirsi. Il Nostro non affrontò sportivamente la cosa, e tentò di intrufolarsi nella manifestazione successiva indossando un completino stealth da tartaruga ningia. Fu trovato settimane dopo il termine della fiera con il guscio incastrato in un cunicolo dell’impianto d’areazione. In condizioni di grave denutrizione. Per questo motivo una sentenza della Corte di Cassazione del 2002 “impone al soggetto Videoludico Davide di tenersi ad una distanza di almeno duecentocinquanta chilometri da Milano Fiera e da qualsivoglia luogo di aggregazione a fini di promozione videoludico-gastronomica”. Chiudiamo una parente. «Oh, capitano mio capitano!» recitò in ginocchio Il Davide al suo capitano Crosignani. «Sono tuo fan di lungherrima data! Conobbiti nelle pagine della rivista dal nome onomatopeico e seguibbiti dappertuttissimamente! Ah, quanto appassionante fu il tuo editoriale contro i giocatori hardcore e che invidia per i tuoi racconti da snowboarder alticcio!» Come il lettore avrà intuito, al_Davide era partito il proverbiale boccino, ed era già tutto salivante sui sandali simoniaci quando si ricordò della decisione presa durante la scorsa puntata. «Ehi aspetta un attimo. Mi sono ricordato della decisione presa durante la scorsa puntata. Io coi videogiochi ho chiuso, e non ho intenzione di farmi convincere né da te, né dalla Mafia né dal Bitte e né tantomeno da Antonella Clerici (questo lo dico perché spero nel prossimo incontro)». «Ero al corrente di questa tua decisione» commentò il Simon con voce giovannipaolosecondica. «Il reparto abbonamenti di Videogiochi mi ha segnalato pochi minuti or sono la tua disdetta. Devo dire che sono rimasto molto deluso. Deluso da te, Davide, perché è per persone come te che abbiamo creato Videogiochi e le sue cover in rilievo. Non puoi neanche immaginare lo sconforto che mi ha preso quando ho saputo che lasciavi il giro. E per giunta senza farne parola con me, che ti ho pure dimostrato amicizia accettando i tuoi consigli sulle copertine numero tre e quattro. Ora, a causa di questa tua disdetta, siamo costretti a diventare bimestrali. Ti rendi o non ti rendi conto delle conseg…» «LE FIRME!» fece di botto il Davide con voce secolare e dito manzonianamente puntato in direzione crosignanica. «Non avete voluto inserire le firme in Videogiochi? Adesso ne pagate le conseguenze! Dovete capire che voi giornalisti videoludici ci appartenete! Noi videogiocatori non abbiamo una personalità personale, e siamo troppo presi dagli attacchi epilettici per sviluppare uno spirto critico videolucido (sic). È per questo che viviamo in funzione di gente come voi. Abbiamo bisogno di te, Raffo, PBS, Auletta, Gallarini, Bittanti, Bonaventura di Bello, Silvestri, Ualone, Avecone, Ravanelli, i fratelli Ravetto, Berzi, Maderna, Calcaterra, Minini Saldini, Ziello, Bovabyte, Il Pastore, Il Pupazzo, Il Paglianti, Albini, Fulco, Cangialosi, Cinquemani, Teokrazia! «Questa è gente che scrive sulle riviste, quindi È MIGLIORE di noi stupidi giocatori che giochiamo senza essere pagati milioni per farlo! È solo grazie a questa gente che noi giocatori capiamo che PES è meglio di FIFA o che i Tomb Raider sono tutti uguali. Ecco perché abbiamo il sacrosanto diritto di amarvi, di scrivervi lettere anonime, di dedicarvi messaggi ricolmi di piaggeria su forum tipo TFP, oppure carichi d’odio come su ICC. Perché abbiamo anche il diritto di odiarvi, di invidiare il vostro status privilegiato e i vostri viaggi a Los Angeles. «Con la decisione di omettere le firme ci avete tolto questo sacrosanto diritto all’adorazione. Avete rifiutato il vostro rango di neo-divinità pagane! Per me, quello è stato l’inizio della fine. Ma se la mia disaffezione è iniziata da codella vostra inusitata scelta, poi si è propagata, e ormai non ne ho più per niente e nessuno. Odio questo ambiente così violento, così sessualmente esplicito, così volgarmente privo di cultura, così lontano dai romanzieri russi del secolo scorso. Quindi vaffanculo tutto. Sì, vaffanculo anche tu» sentenziò infine il Davide indicando non Il Simon, come potevasi pensare, bensì il se stesso riflesso nella pozzanghera ai suoi piedi. (Un geniale richiamo all’episodio precedente, tra l’altro.)

55


:STORY-TELLING:

Ring#11

«Affanculo io? Vacci tu!» rispose incredibilmente il Davide Videoludico riflesso nella pozzanghera. «Tu e tutta questa merda di settore dei videogames e chi ci sguazza. No, no, no, no, no. In culo ai PCisti, che fanno finta di divertirsi a giocare a l’ennesimo effepiesse premendo F5 prima di svoltare ogni angolo. Smettetela, tanto lo sanno tutti che l’unica cosa che vi fa godere è aggiornare i componenti ogni quarto d’ora per fare il top-score al 3D Mark. In culo ai consollari, che non sanno nemmeno eseguire un doppio click su setup.exe e addirittura se ne vantano. Giocate pure coi vostri marii e i vostri granturismi, ma scordatevi i mod, scordatevi le skin aggiornabili, scordatevi i giochi pornografici. Rimarrete sfigati per tutta la vita! In culo ai sonyani e a tutti i vostri giochi smasterizzati. Quanto vi piace vedere la pleistescio vendere milioni e regalare miliardi a una multinazione del cazzo e alla criminalità organizzata. In culo ai nintendari, a Mario, a Peach, a Yoshi e ai centocinquantamila Pokemon. Acchiappateli tutti e mandateli al rogo, insieme ai rincoglioniti che ci giocano. Ragazzi, crescete una volta per tutte! In culo agli xboxari, che smanettano per leggere divx su una console che non è altro che un PC travestito creato da un travestito come Guglielmo Cancelli, che dopo aver rovinato il mercato del software, vuole affondare le sue unte manacce nei videogames. Fateci caso xboxari: siete tutti brutti. Ci sarà un motivo! «In culo ai retrogamers, che rompono coi loro giochi vecchi del cazzo e cercano di convincerci che quegli ammassi informi di pixel con tre colori in croce sono migliori dei giochi di oggi. Si stava meglio quando si stava peggio, eh? E allora andateci nel passato. Mangiatevi un burrito vecchio di sei anni, così tornerete indietro nel tempo, e quando sarete nel passato, vedete di restarci! In culo agli online players. Guardatevi: vi riunite in clan per giocare a prodotti reazionari come America’s Army, e mentre combattete, vi date pure del lei in cuffia. Siete da ricovero! E in culo pure a voi cheaters. Ce la mettete tutta per rovinare le partite, per ottenere cosa? La vostra piccola vittoria domestica contro il sistema? Ma andate a farvi massacrare dai celerini! In culo a quelli che giocano coi simulatori d’appuntamento importati dal Giappone. Siete per caso giapponesi? E allora smettetela di giocare a prodotti che non sono fatti per voi e trovatevi una donna vera! In culo ai pirati. Avete fatto fallire software house come Cinemaware, che pubblicava giochi graficamente fichissimi e quasi completamente privi d’interazione, precorrendo quindi i tempi. «In culo alle software house che pretendono il Nove a giochi vergognosi come E**** T** M***** minacciando altrimenti boicottaggi, e in culo alle riviste che le accontentano. State disonorando la memoria del signor Pulitzer! In culo a Edge, la madre dei magazine snob del cazzo che sparano voti a casaccio perché così fanno tendenza. Quattro a ZOE2? Ma andate a lavorare! In culo a Famitsu e ai suoi redattori rincoglioniti. Non vedete che il Giappone è economicamente con le pezze al culo? Vi decidete o no a cercare un lavoro serio e fare quindi qualcosa per aiutare il vostro Paese? In culo a Nextshame e ai suoi articoli scritti da cani. Le virgole le hanno inventate 500 anni fa. È tempo di imparare come si usano! E la recensione di The Hobbit l’avete scritta o l’avete defecata? In culo a tutte le decine di siti di videogiochi, tutti uguali, tutti fatti con PHP Nuke, tutti pieni di redattori incapaci che bramano i giochini gratis, copiano le recensioni dai siti stranieri, non hanno il minimo gusto videoludico e giudicano in base alla loro console preferita. In culo a tutti quelli che scrivono “videoludico”. Chi vi credete di essere, il fottuto Marshal McLuhan? Cercate di collegare il cervello con il culo per una volta e rendetevi conto che non siete dei massmediologi del cazzo! «In culo a Ring e ai suoi atteggiamenti da dito in culo dell’editoria. Amici, non ci crede nessuno a questa cosa. Smettete di fare gli intellettualini usciti dal Dams, piantatela di mettere gli uni in fondo ai punti esclamativi e vedete di non adoperare parole che non conoscete, né di inventarne di nuove. Non avete visto quante pagine ha già il dizionario? Siete la danzante merda del settore. Prima ve ne renderete conto, meglio sarà per voi. «Ma soprattutto in culo a Osama Bin Laden, a Al Qaeda e a quei cavernicoli retrogradi dei fondamentalisti di tutto il mondo: avete rovinato il finale di MGS2! Dovete crepare bastonati da settanta vergini stufe di essere maltrattate da sudici stronzi come voi!» David e Simon si trovarono entrambi esterrefatti nell’osservare esterrefatti questa pozzanghera. Non ne avevano mai conosciuta una così polemica. Probabilmente era una sorta di pozzanghera telepate che leggeva il subconscio della gente che vi si rifletteva e tramutava in panda chiunque vi si tuffasse. «Ehm, scusate. Credo di avervi interrotto» disse la pozzanghera per porre termine all’imbarazzante silenzio venutosi a creare. «Quando mi faccio prendere la mano tendo a diventare oltremodo invadente. Vi chiedo ancora perdono.» Sia il Davide che il Simon accettarono di buon grado le scuse della pozzanghera, e si trovarono tacitamente d’accordo nel dimenticare il di lei sproloquio. Cosa che dovreste fare anche voi lettori.

56


:STORY-TELLING:

Ring#11

Il Simon stava per riprendere in mano il copione quando notò delle onde concentriche prodursi nella un tempo ciarliera pozza d’acqua. Qualcosa fece TUTUM CLANG! E poi lo fece un’altra volta. E poi un’altra volta ancora. E così via discorrendo. «Che cos’è questo suono come di passi metallici?» chiese un Davide poco avvezzo ai rumori non prodotti dal proprio corpo. TU-TUM CLANG! «Non ci posso credere, lo hanno messo in funzione. Pazzi, pazzi furiosi!» TU-TUM CLANG! «Voglio subito sapere il soggetto e il complemento oggetto della tua frase!» TU-TUM CLANG! «L’Ordigno Fine di Mondo: Il Metal Gear Turiddu! Si tratta di un terribile progetto bellico sviluppato in gran segreto dal NA.P.S. Team per conto della…» Il Simon si interruppe. Seguì un intensissimo TU-TUM CLANG. Zoom sui suoi occhi sbarrati. «Per conto di chi?» gridò isterico il Davide strattonando il Simon per la collana in oro massiccio. «Mi serve la fine dell’aneddoto!» Ma il Simon era ormai completamente uscito dal personaggio. Grazie ad una counter, si divincolò dalla presa davidea, poi indietreggiando celermente disse: «Be’ allora io qui avrei finito. Ah, e non ti porto nessunissimo rancore per quella cosa di Videogiochi, caro Davide, anzi, ti ufficio l’estrema unz… ti rinnovo volentieri la mia amicizia. Chissà: forse dalla bimestralità nascerà qualcosa di buono. Cerchiamo di rimanere in contatto, okay?» Poi il Simon si allontanò di gran carriera dalla piazza senza nome, trovando rifugio nei pressi dello scassinatore extracomunitario poch’anzi intervenuto, con il quale si intrattenne a ragionare di musica rap e delle differenze stilistiche tra east coast e west coast, old school e new school. Una conversazione vieppiù dottissima di cui forse un giorno vi metteremo a parte. I TU-TUM CLANG erano oramai sì forti e sì vicini che le budella videoludiche del Davide Videoludico sobbalzavano a ritmo dance. Si udì a quel punto un gran fragore, e gli edifici che davano su un lato della piazza andarono a terra come le mutande di una squillo, che se l’undici settembre fosse stato in Italia col cavolo che avremmo potuto raccontare questa scena, anzi, molto probabilmente saremmo subito passati al paragrafo in cui il Nemesis canta la sua canzone videoludica. Ma stiamo divagando pericolosamente e spoilerando altresì. Ritorniamo a bomba. Annunciato dal Simon, il Metal Gear Turiddu si palesò sulla piazza senza nome dopo aver fatto ceneri di alcuni bellissimi palazzi neonascimentali e un cartellone della birra moretti. Il Davide si trovò al cospetto di questa potente arma bellica finanziata forse dai fondi della P2, di Gladio, dello stalliere Mangano e… DELUSIONE! Il Metal Gear Turiddu, l’Ordigno Fine di Mondo, era una tremenda schifezza! Oltre a presentare un mech design più retrogrado dei robotti di Go Nagai, MGT era stato assemblato con materiali di scarto di materiali di scarto. Copertoni di TIR impilati andavano a formare due gambe tozze poco saldamente appiccicate a due autoscontro del luna park, facenti le veci dei piedi. Il TU-TUM CLANG non era prodotto da queste innocue macchinine, ma veniva bensì emulato da un subwoofer rubato dal Festival de L’Unità di Asciano Pisano e posto all’altezza dell’inguine. Il busto del robot era stato messo insieme alla bellemmeglio unendo pezzi di cucina Berloni con il davanti di una 127, il tutto abbellito da decorazioni natalizie di qualche lustro addietro. Due braccia idrauliche sottratte a scavatrici della ditta “Calabrese” permettevano sganassoni dalla direzione prevedibile nonché la possibilità di creare le fondamenta di un edificio in poche ore. La testa non c’era, o meglio, al posto della testa si trovava il sedile di un DC-9 dell’Alitalia, sopra il quale stazionava nientepopodimeno che… Be’, Salvatore “Vlad” Takeda, il Parrino della Mafia-Yakuza, in un tentativo poco velato di riciclaggio di boss. Il Davide si ritrovò al cospetto della sua nemesi della puntata precedente. Adesso è veramente la fine, pensò. Prestò deraperò con la mia lambretta lungo le desertiche pinete dei Campi Elisi. «Bella merda il tuo mech!» chiosò una voce da in cima il campanile della chiesa senza nome, proprio di fronte all’innominabile municipio. «D’altronde che altro potevamo aspettarci da quei terroni dei NA.P.S.?» «Chi osò chiosare una simil cosa?» fece il Davide, vieppiù ammirato da sittanta sfrontatezza. «Se è il Bittanti devo ricordarmi di chiedergli il significato di cronotopo.» «Cu fu a dicere accussì?» gridò adirato il Parrino. «Cu c’este drassupra? Scenni drabbascio figghiebbottana!» «Ohi ohi. Qui si iniziano a offendere le madri: significa che stiamo entrando in un climax» commentò il Davide con l’aria di chi la sa lunga.

57


:STORY-TELLING:

Ring#11

I fari della 127, posti all’altezza dei capezzoli del Metal Gear Turiddu, illuminarono il cucuzzolo del campanile rivelando una figura nera impermeabilizzata. Questa approfittò del fatto che noi tutti la stavamo guardando per spiccare un doppio salto, a cui fece seguire un numero inquantificabile di capriole. Poi l’uomo in nero prese a discendere a corsa il muro del campanile fino a giungere sulla piazza senza nome, esattamente tra il Davide e il Turiddu. Il Davide inforcò gli occhiali a fondo di bottiglia di cocacola e osservò tale raminga figura… La lunga chioma, i pantaloni in pelle, la camicia viola, gli stivali con gli speroni, il medaglione a forma di Playstation, gli orecchini raffiguranti Jak & Daxter. «Ma tu sei… sei… il Negoziatore… MARCELLO CANGIALOSI!» declamò un Davide in estasi e non senza la saliva che già principiava a fremere altresì. La figura misteriosa, alle parole del Davide, si tolse il neropastrano, rivelando due fasce di pelle poste sugli avambracci. Una recava la scritta “NEMESIS”. L’altra concludeva con un “DIVINA”. «Marcello, stai facendo il cosplayer di Nemesis Divina?» «No, io sono il signore Dio tuo. Io ti ho creato. Io sono il tuo Architetto.» «Eh già, quella è proprio la risposta del Nemesis per tutto!» rise il Davide. «Voglio farti i miei complimenti per il tuo articolo su Il Negoziatore, caro Marcello. Condivido ogni parola: è proprio un’ingiustizia che il nome di Peter Jackson compaia sulla locandina di Bad Taste…» «Tu, Nemesisse, picché stai ccà? Chisto non este lo territorio tuo. Risponnimi!» disse il Parrino che nel mentre era sceso dal MGT e si era avvicinato al Nemesis per un tremendo faccia a faccia. «Quest’uomo mi appartiene» rispose il Nemesis in dotta citazione bramstokeriana, «pertanto ti sollecito a non arrecare lui danno alcuno.» «Chisto impussibbile è. ‘U picciotteddru mancò de rispetto a Microsoft, e pe’ chisto merita di murire. Nienti di personale: ieo te rispetto, Nemesisse, ma una quistione di bisinisse è.» «Il rispetto è assolutamente reciproco, ma ho paura che la Mafia dovrà riconsiderare le sue priorità affaristiche. Ché il Davide non si tocca.» «Nemesisse, ieo nun vulìa de sciarriarmi co’ tia, ma este mio dovere avvisarriti che assai periculoso pozzo diventari…» «Caro Parrino, lei non mi spaventa per nulla.» «Male faciste a dicere accussì. Tu non canusci lo putere mio e de lu Metal Ghiar.» «Non lo conosco e non m’importa. Vede Parrino, a me basta sapere che lei è un boss della malavita. E come tutti i boss, può sembrare inizialmente imbattibile, ma mi dia il tempo di memorizzare i suoi due o tre pattern e infilerò la sua colonna vertebrale su per il suo colon anale mentre mi gratto lo scroto con il braccio del merdal gear.» Senza rispondere il Parrino, che evidentemente controllava il magnetismo, lievitò in sella al Metal Gear Turiddu. Inserì la chiavetta e fece per rimetterlo in moto ma… Niente! Riprovò ancora, poi ancora, poi tirò l’aria e fece pressione sul pedale… Ancora niente. «Non fare così che lo ingolfi» si premurò di dire il Davide, «l’hai messa la miscela al duepercento?» Il Nemesis si diresse verso il Parrino per eseguire una stanca fatality. «Statti fermo Nemesisse, che ancora vinto non sugno… Picciotto Portaborse, ieo scelgo a tiaaa!» E così profferendo il Parrino scagliò una pokeball davanti al Nemesis, dalla quale si materializzò il Picciotto Portaborse, già incontrato di sfuggita al porto. Costui aveva lineamenti vagamente oriental-partenopei e un’espressione a metà strada tra uno shibito e un promoter di telemarketing. «Ishimori, accidi a chisto fitusu!» Nemesis Divina strinse la mano destra a pugno, poi allungò il pollice e il mignolo ottenendo la forma di un cellulare, che si portò all’orecchio. «Gunny? Per favore teletrasportami il ferro due.» E come per magia tra le mani del Nemesis comparve una scimitarra lunga due metri. Il Picciotto Portaborse non si scompose di fronte a questa apparizione, e tirò fuori un coltellino dell’esercito svizzero. Il Versus stava per principiare. Ne seguì un duello fatto di movimenti talmente rapidi che non si capiva un tubo, allora entrambi rallentarono i loro pattern. Il Picciotto Portaborse aveva dalla sua la velocità e le skill di una Taki, mentre il Nemesis rispondeva con l’estetica di un Sigfried. Tuttavia ad un certo punto il lungochiomato si stufò di questo combattimento accademico e disse: «Ehi, guarda ai tuoi piedi… le mutande di una sedicenne che non se la lava da sei settimane!» Per una frazione di secondo il Picciotto Portaborse perse il suo vigile aplomb. Il Nemesis approfittò di questa distrazione per mandare a segno due roteanti colpi verticali di scimitarra, che mozzarono le braccia del Picciotto. «Adesso non sarai più in grado di portare le borse. Questa è la punizione che ti meriti. Ho parlato.»

58


:STORY-TELLING:

Ring#11

In lacrime, il Picciotto Portaborse tornò all’interno della pokeball. «E adesso si prepari al decesso, Parrino!» dichiarò il Nemesis. La lama puntata. Ma il Parrino non si preparò per niente a decedere, anzi, emanò una grassa risata. «Marcello, guarda là… Un gatto nero… Stanno cambiando qualcosa!» gridò il Davide che per la paura era montato sulle spalle del Nemesis già da alcuni minuti. E infatti una colonna di luci motorizzate fece ingresso nella piazza senza nome. La Mafia-Yakuza era intervenuta in gran numero, con decine di picciotti a bordo di pick-up, armati di forconi, picconi, pietre, catene e assi con ciodi. I pick-up si disposero in circolo come le carovane del far west, individuando nel sistema Davide-Nemesis il loro centro di massa. Poi scesero dalle auto e circondarono i Nostri ad armi slabbrate. Il quale Davide, oramai si era rassegnato alla morte. A breve avrebbe guidato il suo scoreggiante ATV per la glabra tundra dei Campi Elisi. «Nun pienzavi mica che fusse facile accussì?» fece il Parrino. «Certo che lo pensavo. Non sono mica il Bonora!» «Chisti fussero ‘a mea guardia privata. Te presento li 88 picciotti!» «…ottantasei ottantasette ottantotto. Marcello, sta dicendo la verità!» chiosò il Davide. «Parrino, io le giuro non capisco. Ha mobilitato la sua squadra d’elite solo per un nerd che vuole smettere di videogiocare?» si interrogò il Nemesis. «I videoggioghi me fatturano chiù dilla droga che venno alle star de lu cinematografo. Però te debbo confessari che stanco sugno de dover dipendere da chisti laidi nicareddri che nun sapeno fari altro che starrese davanti a nu televisori e lamentarrese pi’ colpa di nu’gioghino picché nun este come vulevano iddri. Chista gente schifo me face, quinni, dopo lu Davide, i miei picciotti accideranno a tutti li hardecore ghemers della Terra. MUHAHAHAH!» «Non vi conviene, non lo permetterete. Gli hardcore gamers vi servono per sopravvivere.» «Ci stanno livelli de sopravvivenza che simmo preparati ad accettari. Ieppoi sono i casual ghemers chilli che mannano avanti lu bisinisse. Gli hardecore ghemers nun cuntano ‘na minchia…» «Non permetterò mai che gli stronzi che giocano a FIFA abbiano il sopravvento sul mondo dei videogiochi!» e così dicendo, un Nemesis Divina in berserk roteò orizzontalmente la scimitarra facendo volare via le teste di quattro picciotti. Gli 84 rimanenti gridarono una bestemmia in giapponese, assunsero all’unisono la posizione del loto e si scagliarono in direzione nemesis-davidea. Più arrabbiato di barbalbero, il Nemesis mutilava arti con la sua scimitarra come un contadino falcia le messi, quindi scagliava nemici in aria con un calcio, capriolava all’indietro sui picciotti che cercavano di attaccarlo alle spalle, tagliava loro lo scalpo, saltava e in volo divideva in piccole parti eguali con una segreta tecnica Nanto i picciotti precedentemente lanciati in aria, quindi tirava gli scalpi precedentemene raccolti contro i nemici sul suolo. Awesome! Passarono secondi di inraccontabile massacro, mentre il subwoofer del Metal Gear Turiddu suonava un pezzo di Luciano Ligabue. «NOOO BASTA!» gridò ad un certo punto il Davide ancora ancorato alle spalle nemesiache. «Non ne posso più di questa carneficina! Mi sento impotente! Mi sento come se stessi sprecando un’occasione! Perché? Che cos’è questa sensazione che ho dentro di me e che vuol venir fuori?» Sia il Nemesis che i picciotti sopravviventi si fermarono. «Credo di sapere cos’hai» disse il Nemesis con understatement dopo essersi scrollato dalle spalle il suo fardello. «Davide, anche se tenti in tutti i modi di negarlo, dentro di te TU sei un videogiocatore e, come tutti i videogiocatori, senti il bisogno di interazione violenta. Nel profondo del tuo cuore tu desideri uccidere orde di persone così come faccio io. Non possedendo però il physique du role, devi accontentarti della carneficina simulata dei videogames. Sono molte le persone che nutrono le tue stesse pulsioni. È per questo che i Patriots hanno inventato i videogiochi. Tu sei destinato a video(il)luderti.» «Non è vero! Io non voglio ammazzare nessuno: desidero solo vivere una vita tranquilla, magari in campagna! Voglio allevare la terra e coltivare le bestie, ecco cosa voglio fare…» Il Davide si lasciò cadere al suolo, poi frignò: «Vorrei solo che il Videogioco non si fosse mai preso la mia vita.» «Molti di quelli che vivono una vita normale meritano di videogiocare, e nessun videogiocatore merita una vita normale. Non spetta a gente come te decidere. Quello che potete fare è obbedire al meglio agli ordini che vi vengono imposti. Ma se me lo permetti vorrei provare a convincerti con una canzone.» A queste parole il Metal Gear Turiddu iniziò a suonare una base melodica di Tiziano Ferro, mentre il Simon, l’extracomunitario mariuolo, gli accorrenti Bitte e il picciotto invertito, più i picciotti sopravvissuti degli 88, l’ex-portaborse e il Parrino stesso iniziarono un balletto di accompagnamento a metà strada tra la danza moderna, la polka e gli attacchi di diarrea. Ma ascoltiamo la canzone del Nemesis…

59


:STORY-TELLING:

Ring#11

Lo abbandon de la machina iocosa lo sacro pad, la levetta tua sposa la carta di memoria el cavo scart il bel tasto select e lo amico start, tale è il destino che placido vuoi di vita vissuta senza un EyeToy? Fu sì malsano codesto Ikaruga da farti desiar patetica fuga? E qual futur scontato e banale attende chi sceglie lo mondo reale? Un gran malesser dimolto tremendo spetta a colui che tralascia Nintendo. E rimpiangerai la vita di prima ad ogni nuova del divin Kojima. Perderai Zelda, el gioco del Pingu lo Viutiful Giò, la mitica Ringu i giochi hardcore e i grandi affanni o l’ultimo special di Dan e Gunny. E Gran Turismo, e tal Ninja Gay o’l feticismo de Uinning Elev’n 6. Qual Davide tristo e mesta ragione fu quella che omise il tondo gettone dal vaginal foro, che non puote senza. Tuo è’l destino de’ giovani brutti: fatti non foste a viver come tutti ma per giocar altrui videoesperienza E il Davide pianse. Si accasciò a terra e pianse; pianse come mai aveva pianto in vita sua dai tempi di Titanic. Pianse perché non capì assolutamente nulla delle parole del Nemesis. E quando non capisce, il Davide in genere piange. Le lacrime davidee commossero i presenti, che cessarono di ballare e presero ad abbracciarsi e a scambiarsi segni di pace. E chi aveva perso le braccia buttava bacini ai poveretti che non avevano più la mascella. «Voi picciotti ancora vivi, annatevinne dalle vostre famigghie e date loro nu bacio da parte mia!» disse un Parrino commosso e straziato anch’egli dalle lacrime. «Ma lassate ccà i brazza e i gambe che perdeste, che aggiu fatto n’accordo co’ Mecchedonalds Italia.» «Adesso so cosa fare» disse il Davide non appena si riprese dal pianto. «È solo che…» «Che cosa, mio caro Davide?» chiese il Nemesis, apprensivo. «Se ritorno ad essere un videogiocatore, la mia vita assomiglierà pericolosamente a quella dei personaggi dei fumetti. Ogni loro saga promette chissa quali stravolgimenti, con tanto di claim: “e dopo niente sarà come prima!”, mentre poi alla fine non cambia mai un bel nulla…» «Fammi capire» fece il Nemesis. «Tu accetti di ritornare un videoplayer a patto che la tua vita subisca un qualche cambiamento?» «Esattamente!» «Che ne dici se ti dò dieci euro? Ti sembra un cambiamento adeguato?» «Non scherziamo!» rispose il Davide, che non aveva da fare il resto. «Ehi, che te ne pare se divento un game designer, eh? Sarebbe fichissimo! Sarei al tempo stesso più gagliardo di Jason Rubin e più effeminato di Miyamoto. Farei giochi commerciali ma al tempo stesso anti mass-market. Ad esempio ho questa idea di un gioco di basket ambientato durante le ore d’aria delle carceri di massima sicurezza: possiamo commettere i falli più clamorosi e le difese più scorrette, inoltre una sezione manageriale permetterà al giocatore di assoldare di nuovi condannati anche per mezzo della coercizione mediante saponetta nella doccia. Eppoi potremmo acquistare la licenza di Kobe Bryant, se lo condannano…»

60


:STORY-TELLING:

Ring#11

«Uhm, no. Spiacente ma non posso permetterti di diventare game designer» disse il Nemesis. «Sei patetico, certo, ma non sei sufficientemente patetico per essere credibile in quel ruolo. Ehi, ti piacerebbe scrivere per Ring?» Il Davide ebbe un mezzo collasso. «S-stai dicendo che io, Davide Videoludico, potrò far parte della redazione della rivista che nuclearizza quotidianamente Edge? MA QUESTA È UNA COSA STREPITOSA! Finalmente diventerò anche io un giornalista di videogiochi! Finalmente verrò pagato per giocare! Finalmente potrò farmi adorare da quei perdenti dei videogiocatori! Sarò un Dio tra gli uomini! Accetto accetto! Ho già un mente un casino di articoli: uno special sull’omosessualità nei personaggi dei giochi Square, un frame sull’igiene dei videogiocatori, un tesoro sepolto dedicato a Poker Ladies (il mio most pleied di sempre)…» «Veramente io pensavo più a farti scrivere qualche tappabuco per il pdf.» Il Davide rimase un attimo interdetto. «Mi stai dicendo che non potrò scrivere altro che i tappabuchi?» «Esattamente.» «Ma questo è un grandissimo onore! Grazie! Non deluderò la vostra fiducia!» Scoppiò un sentito applauso. Tutti i personaggi di questa fantastica storia acclamarono la suisuoipassica decisione davidea. «Bravu lu picciriddru!» disse il Parrino. «Grande Davide!» gridò il Bitte. «Domani ti rinnovo l’ordine dei Tokimeki Memorial!» «Respect bro» disse il Simon. «DA-VI-DE! DA-VI-DE!» fece la pozzanghera. «Ce l’hai fatta Shinji!» disse il Picciotto Portaborse, che evidentemente aveva perduto troppo sangue. Poi tutti fecero la ola. Il Metal Gear Turiddu suonò una cover metal di Should I stay or should I go e tutti presero a pogare e a bere drink offerti dal frigorifero Berloni. Il Davide si mise un attimo in disparte. «Un telefono che non squilla» parve dire fra sé e stesso mirando il cellulare. No, aspetta. «Una squillo che non telefona» precisò fra sé e stesso mirando il cellulare e pensando alla Silvia, che santo cielo era quasi mattina e non si preoccupava di dove fosse il marito? Poi compose il 112. «Pronto, carabinieri?» Nel mentre il Nemesis e il Parrino si stringevano la mano mentre sorseggiavano un grappino. «’U maiale turnò nell’uvile!» «Nel porcile, Parrino, i maiali vanno nei porcili.» «E che aggiu detto ieo?» «Sono contento che sia andato tutto secondo i piani. Mi dispiace solo di aver tolto la vita a tanti suoi stipendiati, Parrino. Ma spero che questo non pregiudichi i nostri rapporti di buon vicinato…» «Non ci pienzare nemmeno! E che sarà mai quacche picciotto muortammazzato! Un onore fu pe’ mia lavorari cu’ tia. Ehi, chenne dici di ‘na collaborazione tra voi di Ring e noi bravi ragazzi?» «Sta parlando di uno scambio di banner?» «E picché no quacche scambio d’articuli? Teniamo ‘u gazzettino d’u mafiusu che schifio facesse videoggioghicamente…» «Parliamone davanti a un bel piatto di pasta con le sarde.» Il Davide Videoludico non rimase alla festa. Non era in vena di festeggiare. Se ne andò senza salutare nessuno perché aveva fretta di riprendersi la propria vita. Arrivato sulla soglia di casa, scorse gli abbaglianti delle gazzelle dei carabinieri parcheggiate davanti all’abitazione dei vicini e andò a vedere che succedeva. «Una telefonata anonima ci ha rivelato il covo di questa banda di topi d’appartamento» disse al Davide un carabiniere mentre arrestava la famiglia di albanesi – madre, padre e tre bambini. «Tra l’altro tali soggetti avevano ancora con sé la refurtiva dell’ultimo colpo, che a quanto dicono le etichette delle scatole è avvenuto proprio a casa sua, signor Videoludico.» «Oh cielo, la mia collezione di videogames!» barrì il Davide. «Per fortuna l’avete trovata! È il mio tesoro! Grazie carabinieri! Spero ve la caviate in quel processo del G8!» «Facciamo solo il nostro dovere, anzi, ci dispiace della noia che questi immigrati le hanno causato.» «Eh, cosa ci vuole fare. Dopotutto sono albanesi.» «Vedrà che passerà loro la voglia di rubare alla gente che lavora: li manderemo in un campo di concentramento a Guantanamo.» Il Davide strinse la mano a tutti i carabinieri, poi si riappropriò della sua collezione videogiochica, salutò tutti e fece finalmente ritorno alla sua abitazione, e più precisamente al suo Mighty Buco di Merda. Egli trasse un profondo respiro. «Sono tornato», disse.

61


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.