PROJECTRING
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SOAP OPERA
SOMMARIO SPECIALE Fight Club RUBRICHE Tesori Sepolti Ecco The Dolphin: DotF Game Making Era #1 !SPOILER! Viewtiful Joe DS Me Nintendo Nintendo DS Ivory Tower Ideological Videogames Arena Originalità Vox Mundi Eden 01: Riflessi Rubati
Sanguine 02: Nostalgia Glows
Il Davide La Fine Finale INDEPTH Le Affinità Elettive Forbidden Siren Leagacy of Kain: Defiance RECENSIONI Transformers MGS: The Twin Snakes FF Crystal Chronicles Harvest Moon .Hack//Infection Splinter Cell: Pandora T. Painkiller Ludologica: Resident Evil Flipnic Disgaea: Hour of Darkness
GIUGNO2004
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Siamo dei tesssori! Oltre ad un numero sfavillante di robe ganze scritte in corpo 8, a questo giro alleghiamo pure un libro. E senza alzare il prezzo di copertina!! Il tomo in questione è Le Affinità Elettive, di Bruno Fraschini: un viaggio a rotta di collo tra Cinema e Videogioco di cui trovate l’introduzione a pag. 8. Per il resto il menù ha come aperitivo un proclama alla guerra preventiva a cura di Cryu (qui accanto), mentre lo speciale di questo mese è di quelli che fanno male (pag 4). A pagina 10 Hob ci parla della trama di Forbidden Siren, evitandoci pertanto l’onere di giocarci, e menomale perché pare sia difficile. Eppoi fa troppo caldo per giocare ai titoli così scuri. Le recensioni, accompagnate da un buon rosso ci conducono nella terra degli autobot, per poi ritornare a Shadow Moses passando per una qualche fattoria a seminar patate. Nuove rubriche fioccano, mentre in chiusura di numero il Davide muore.
[Cover Story]
Io amo i videogiochi. Mia nonna ama le soap opera. Mia nonna detesta i videogiochi. Io detesto le soap opera. Io e mia nonna non ci assomigliamo per nulla. Le soap opera! Come si fa a seguire le fregnacce di Cento Vetrine e Beautiful vari? Com’è possibile eccitarsi per il matrimonio di Mascellone Ridge con la ricca ereditiera con cui faceva a sberle fino due puntate fa? Suvvia, Square ed Enix si sono da poco accorpate, vi rendete conto? I sempiterni rivali, i due colossi dell’RPG giapponese si sono uniti nel sacro vincolo della fusione aziendale. Queste sono notizie. Ed è per notizie come questa che tutte le sere scandaglio come minimo tre siti di videogiochi: per sapere le ultimissime sull’industria, il mercato, le uscite, i rinvii. Lo sapete, no? Gran Turismo 4 slitta a quest’inverno. E noi che ce lo aspettavamo già PAL lo scorso Natale! Invece sapete perché mia nonna è sotto shock? Ridge ha appena annullato le nozze: della ricca ereditiera non gliene fregava nulla, era tutta una messinscena per ingelosire Priscilla, una sua vecchia fiamma che dopo averlo scaricato vorrebbe tornare con lui. E c’è gente che si scandalizza, sospira, si turba per certi infimi colpi di scena. Che pena. Piuttosto, spettacolo il Megaton di Nintendo! Massì, ve lo siete già dimenticato? Un anno fa si diffonde in rete la voce che Nintendo stia per rilasciare l’annuncio che rivoluzionerà se stessa, il mercato dei VG e con buone probabilità gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta. Chi caldeggiava una fusione con Namco, chi una nuova potentissima console a forma di ciambella gonfiabile, chi un seguito di Zelda che non fosse assolutamente identico a Ocarina of Time. Beh, a quest’ultima non ci avevo creduto nemmeno io, a dire il vero. Fatto sta che alla fine era tutta una bufala, un rumor senza fondamento chissà se diffuso ad arte da Nintendo stessa. Magnifico, dopo rivelazioni come questa a me sembra sempre che videogiocare non sia più la stessa cosa. Aspettate, avverto la voce di mia nonna che traspare un rinnovato entusiasmo nello svolgere i mestieri di casa. Qualcosa deve averla messa di buon umore. Scattano le indagini. Ebbene sì, Priscilla (la puttana boomerang) è morta. Per un regolamento di conti è stata investita dalla ricca ereditiera, finita poi in manette. Risultato? Ridge è ancora single, e mia nonna non dovrà spartirselo con nessuna sgualdrinella della TV. Personalmente ci vuol altro per mettermi di buon umore: ad esempio, vi ricordate la notizia che Microsoft avrebbe tentato di comprarsi l’intera Squaresoft per lasciare Sony senza Final Fantasy e compagnia bella? Pare che Squaresoft abbia candidamente mandato Zio Bill a quel paese. Cose belle. Che poi alla fine Microsoft è riuscita a comprarsi ben poco con i suoi foglietti verdi, giusto i tizi di Rare. Che sfigati, ci pensate? Inglobati come un liceale nella cicciona che ci aveva già provato con tutta la classe raccogliendo solo 2 di picche. Una tipo Daisy, l’ex-pretendente di Ridge che nelle ultime 10 puntate si sarà sentita negare il manico da almeno 15 fusti… Fermi tutti, da dove diavolo mi è uscito questo paragone? Soap opera e VG. Devo essere impazzito. Come si fa ad associare l’industria dei videogiochi ad una delle più degradate e degradanti forme di intrattenimento televisive? Non scherziamo, i VG sono una cosa seria, ci sono in ballo miliardi di dollari, aziende storiche, un mercato globale, il presente e il futuro dell’home entertainment. VI-DEO-GIOCHI. Mica pizza e fichi. E io devo sapere tutto: non posso saltare una sola news, recensione, anteprima, first look, hands on, showcase, backstage, making of. Se no è la fine. Pensate a come starebbe mia nonna se si perdesse anche una sola puntata delle sue adorate soap… oh mio Dio. Io e mia nonna siamo uguali. Buttatemi addosso 60 anni, cambiatemi sesso e passatemi attraverso una guerra. Ecco, ora sono mia nonna. Ora *siete* mia nonna. Voi che non vi perdete un solo numero della vostra rivista di VG preferita, voi che ogni giorno vi iniettate in vena le home page di IGN, Game Rankings, GameSpot, una mailing list e almeno un paio di forum. Siete tutti innamorati di Ridge. E non stiamo parlando di Ridge Racer. Ebbene sì, l’appassionato di videogiochi è un effeminato giuggiolone dal cuore tenero che neanche fosse una crescenza. Il videogiocatore, e soprattutto il giornalista di videogiochi, è un timido, un emotivo, tipo quegli uomini che si immaginano interminabili conversazioni con la donna che amano, ma quando finalmente se la trovano davanti balbettano come il frame rate di un titolo Rockstar. Volete una prova? Un giornalista di VG prima che un gioco sia effettivamente completo è capace di scriverne anteprime di 4-6-10 pagine con estrema disinvoltura. d l èf f l bl l d l
Non contenta di aver nuclearizzato Edge e di aver minato la credibilità delle Edizioni Paoline, Ring raggiunge con questa dodicesima issue la sua piena e scagionata maturità, arrivando, con la deferenza del caso, a proporsi come la più valida alternativa alla miglior rivista italiana di videgames: Gameplus. Il passo successivo consisterà nel fondare una religione. O voi videogiocatori che volete dare un senso alla vostra altrimenti ridicola esistenza, richiedeteci gli opuscoli di Ring, la religione preferita dalle star di Hollywood subito dopo l’ebraismo e il demone dell’alcool. Press Start.
Ring è... Copertina: Cryu Sezione Online a cura di: Tommaso De Benetti Sezione PDF a cura di: Gianluca Belvisi Sito e Forum ospitati da: Bitpower (www.bitpower.it) Versioni PDF ospitate da: www.qub3.net Redazione: Gianluca "Sator" Belvisi Francesco “L’Esorciccio” Bicci Cristiano "Cryu" Bonora Emanuele "Emalord" Bresciani Tommaso "Gatsu" De Benetti Nemesis Divina Cristiano "Amano76" Ghigi Paolo “Jumpman” Ruffino Federico Res, Giacomo "Gunny" Talamini Davide Videoludico Hanno collaborato: Daniele “Dan” Mascagna Davide “Darknessheir” Bolzoni Giacomo “Hob” Margotti Bruno Fraschini Ring è il più delle volte un periodico di critica, approfondimento, satira, amore, studio, invettive, guerriglia, disobbedienza, pornografia, riguardante il sopravvalutato medium dei videogiochi. Ring è pressappoco gratuita, ma gli scritti al suo interno sono e restano proprietà intellettuale dei rispettivi autori. Se scrivi per una qualche rivista online e hai bisogno di ispirazione per le tue recensioni, sei pregato di riportare la fonte ringhica nel testo da te “coverizzato”. Stai attento che siamo in ottimi rapporti con la mafia-yakuza. Per richieste di collaborazione (articoli e cover), per contattare la redazione, per offrire soldi o per chiuderci al gabbio in seguito all’approvazione della legge Urbani, scrivete a: posta@project-ring.com
Ma quando il gioco è finito e finalmente testabile liquida la recensione in 3000 battute. D’altronde c’è da far posto all’anteprima di Tomb Raider 7 di cui sono già disponibili tre screenshot prerenderizzati e mezza press release, i lettori ne andranno matti… Già, i lettori ne andranno matti. Ammettiamolo, sono i lettori che comandano. Ma Ring di lettori ne ha pochi, e di quello che vuole il lettore, comunque, se ne sbatte allegramente i dobloni. Ma Ring non campa di se stessa. Qui dentro facciamo tutti qualcos’altro per vivere, e proprio grazie a questo qualcos’altro possiamo permetterci di condurre un progetto “libero e selvaggio”. Ma in edicola le cose vanno diversamente. Se fai come meglio credi, rischi di rimanere in braghe di tela. Perché il lettore non gradisce non compra più. Do the right thing, ci hanno insegnato. Ma ahimè di sani principi non si campa; e allora dagli di anteprima in esclusiva cosmoplanetaria di un gioco di cui non sai nulla, dagli di giudizi che facciano contento il lettore piuttosto che rispecchiare il valore del prodotto in esame, dagli di linea editoriale a livello ovino. Onesto: un po’ li capisco. Eppure la cosa non mi va giù fino in fondo, perché così si allontanano i giocatori dal gioco vero, quello giocato e giocabile. Su Final Fantasy XII, Fable e Kill Zone se ne sono sentite di tutti i colori molto prima che qualcuno ci avesse realmente messo sopra le mani. Eppure, “Final Fantasy XII è una tamarrata; Fable ha una grafica sorpassata, i personaggi sembrano supereroi americani anni ’50 ed è pure bugnato; Kill Zone è meglio di Halo… no, aspetta, fa schifo perché scatta… no, rettifico, ho scaricato un filmato in cui muove l’ira diddìo: best game ever”… La parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro, mi ha insegnato mia nonna tra una soap opera e l’altra. E invece sono quintali le news e le preview di cui ci ingozziamo quotidianamente nel tentativo di carpire anche solo il profumo di titoli che giocheremo tra un anno. Salvo ritardi. Perché se Ridge cambia idea le nozze saltano. E noi lì davanti alla TV come degli imbecilli a sussultare per quest’ultima clamorosa rivelazione. Cambiamo vita, gente. Siamo videogiocatori, non zappers teledipendenti. Spegniamo la TV e accendiamo la console. E torniamo a giocare. Perché solo dopo il gioco ha senso leggere e scrivere di VG. Certo, giocare non basta per comprendere a fondo il medium videogioco, e quindi ben vengano l’informazione, le anticipazioni, le recensioni e gli approfondimenti, ma selezioniamo bene le fonti, gli autori, e poi facciamo attenzione a non entrare nel circolo vizioso dell’appassionato “pigro”: quello che ha già il PC acceso, e piuttosto che stare a spostarsi sul divano e accendere la console finisce per passare tutta la sera prima su questo forum, poi su quell’altro newsgroup, e infine in mailing list a ingaggiare inconcludenti discussioni OT. Perché altrimenti sapete che cosa succede? Che forse diventerete anche degli esperti dell’industria nonché degli impeccabili teorici del videogioco, ma perderete il gusto e il senso del videogiocare. Quando intervisterete Kojima saprete rivolgergli le domande giuste nella maniera migliore, ma quando recensirete ZOE2 gli rifilerete 4 su 10; saprete confezionare ordinatissime colonne di opinione, ma di fronte a Ikaruga rimarrete insensibili come un pornofilo davanti a Yorda; e sì, Halo non è male, ma con i quicksave sarebbe meglio… Fermi lì. Lo so, è appena uscito il nuovo numero di Ring e non vedete l’ora di spulciarvelo da cima a fondo, ma portate pazienza un attimo. Riponete il PDF che avete sott’occhio, recuperate dallo scaffale una copia di Gran Turismo (uno qualsiasi) e fatevi una gara dando il meglio di voi stessi. Metteteci l’anima in quel dannato giro veloce. Limate le traiettorie, divorate i cordoli, strozzate il freno a mano nelle curve a gomito e giunti in rettilineo stuprate l’acceleratore. Tagliate il traguardo e guardatevi dentro. Ora, e soltanto ora, ha senso parlare, leggere e scrivere di videogiochi. Con buona pace della stampa generalista che straparla di VG senza aver mai impugnato un pad. Perché il videogioco è quel fastest lap con le ascelle pezzate e la Subaru Impreza che scoda in uscita dall’ultima gincana, non è l’anteprima in esclusiva mondiale, non è lo scoop che levati, non è l’E3 dei trailer precalcolati e della guerra delle specifiche, non è la recensione di mezza colonna prima di tutti gli altri. Prima di tutti gli altri… Ring in genere viene per ultimo. Non tutti i lettori apprezzeranno, ma le lettrici di sicuro. Un bacio a mia nonna, alla quale delle soap opera non frega assolutamente nulla, ma la cui pretestuosa comparsata in questa cover story mi è stata preziosa.
Cryu 3
:SPECIALE:
Ring#11
LA CITAZIONE: a sinistra, Fight Club (1999); a destra, lo stage underground di Tekken 4.
Fight Club
[realismo e fantasia nei videogiochi di arti marziali]
di Cryu Una delle tendenze che ha contraddistinto l'evoluzione del videogioco nel corso delle ultime due generazioni hardware è stata la rincorsa al realismo. La febbre della simulazione ha contagiato tutti i generi. Forse tutti tranne uno: il picchiaduro 3D, dal primo Virtua Fighter (Sega AM2, 1993) a Soul Calibur II (Namco, 2003), non pare aver registrato un progresso in questa direzione pari a quello ravvisabile, ad esempio, nel genere automobilistico, che sotto il profilo del realismo negli ultimi dieci anni ha fatto passi da gigante. Basti pensare a ciò che fu Virtua Racing (Sega AM2, 1993) e ai neanche troppo recenti Gran Turismo 3 A-Spec (Polyphony, 2001) ed F355 Challenge (Sega AM2, 2000).
Il picchiaduro appare come un genere fermo, un po' perché disinteressato alla radicale innovazione di se stesso, un po' perché insensibile alla disperata ricerca del realismo che assilla altre tipologie di gioco. In bilico tra arcade e simulazione, attualmente quello dei picchiaduro è un genere che mentre combatte si barcamena schizofrenico tra realismo e fantasia, un po’ come il Jack Norton di Fight Club. E qui sorge la domanda: i picchiaduro di oggi in che misura sono realistici? Virtua Fighter 4, Tekken 4, Soul Calibur II, sono simulatori di arti marziali? Per argomentare la tesi che intendiamo dimostrare in questa sede scomporremo la disamina del genere picchiaduro in sei punti.
1. Le tecniche riprodotte I praticanti di ogni arte marziale imparano centinaia di tecniche. Tuttavia solo una parte di queste sono finalizzate a un effettivo impiego in combattimento. Infatti, nelle arti marziali esistono tre grandi categorie di tecniche:
Tecniche da combattimento Sono tutte quelle tecniche, di attacco e di difesa, sufficientemente efficaci da essere eseguite in un combattimento, da strada o da competizione.
Tecniche da dimostrazione
Tecniche da forme
Sono tecniche altamente spettacolari, ma che implicano tempi di preparazione ed esecuzione inadeguati a situazioni di combattimento reale. Ne sono un esempio i calci in volo che prevedono rotazioni del corpo superiori ai 360 gradi. In queste tecniche risiede parte del patrimonio estetico di ogni arte marziale, e proprio in virtù della loro bellezza sono spesso esibite a scopo dimostrativo.
Le forme di ogni arte marziale (i Kata nel Karate, i Taeguk nel Tae Kwon Do, ecc.) sono esercizi individuali composti da una successione predefinita di movimenti. Oltre ad affinare la tecnica dell’atleta attraverso la pratica, le forme esprimono il bagaglio culturale ed estetico dell’arte marziale. Nel Tae Kwon Do, ad esempio, la forma Koryo (intitolata a un’antica dinastia coreana) vuole rappresentare attraverso successioni di movimenti ampi, circolari e aggraziati, uno dei periodi più fiorenti della storia e della cultura di Corea. Molte delle tecniche impiegate nelle forme esauriscono la loro ragion d’essere all’interno della forma stessa, e non vengono pertanto impiegate né in combattimento, né in ambito dimostrativo.
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In barba a qualsiasi velleità di realismo, i picchiaduro attingono a piene mani da queste tre categorie di tecniche forzandole tutte all'interno di un unico sistema di combattimento fittizio. Laddove la logica suggerirebbe l’implementazione delle sole tecniche da combattimento, le tecniche da dimostrazione, in virtù della loro spettacolarità, molto si prestano a vivacizzare le dinamiche di un combattimento virtuale. Pertanto gli sviluppatori intervengono sulla tecnica originale, accorciandone i tempi di esecuzione e aumentandone l’efficacia, in modo da renderla usufruibile nel gioco. Le tecniche da forma, molte del-
le quali esteticamente pregevoli, dal canto loro subiscono spesso la stessa sorte. Il risultato è che nei picchiaduro come Tekken, Virtua Fighter e Dead or Alive trovano posto centinaia di tecniche, più o meno manipolate rispetto alle loro controparti reali, originariamente concepite per scopi diversi dal combattimento. Insomma, un minestrone di mosse che hanno ben poco a che vedere le une con le altre.
2. La resistenza fisica Il problema della resistenza fisica ai colpi e allo sforzo viene solitamente additato come la prova più evidente dello scarso realismo dei picchiaduro. Nella realtà un paio di colpi al volto ben assestati metterebbero fuori combattimento anche i migliori incassatori. Invece in qualsiasi Tekken o Virtua Fighter i lottatori non solo resistono a un numero esagerato di colpi, ma i loro movimenti non risentono progressivamente dei danni subiti. Per non parlare di Soul Calibur, in cui i personaggi sopravvivono come se nulla fosse a decine di fendenti di spada. Infuocati, se possibile. Trattasi di scelte di game design evidentemente tese a non compromettere la giocabilità delle battaglie. Se in Soul Calibur bastasse un colpo per uccidere l’avversario o rimanerne uccisi, i combattimenti avrebbero una durata potenzialmente istantanea. È ciò che accadeva in Bushido Blade (Square, 1997) e relativo seguito (in foto), picchiaduro all’arma bianca tutti protesi al realismo. Un solo colpo alla testa o al corpo era sufficiente ad abbattere l’avversario, motivo questo dell’assenza di qualsivoglia indicatore di salute o barra energetica. Inoltre, qualora un arto fosse colpito da un fendente, diventava inutilizzabile. Un samurai gambizzato perdeva la facoltà di deambulare, e se ferito alle braccia rimaneva del tutto inoffensivo. Oggi in pochi si ricordano dei Bushido Blade, sintomo di una qualità generale dei due titoli non entusiasmante, ma anche dello scarso valore ricreativo di un certo tipo di realismo. Accantonando il discorso relativo alla resistenza fisica ai colpi subiti, esiste un fattore analogo a decretare l’estraneità delle dinamiche dei combattimenti reali a quelli di un videogioco. Questo fattore è ciò che gli inglesi chiamano ‘stamina’,
ovvero la resistenza allo sforzo. Un praticante di arti marziali sa bene che in combattimento è fondamentale non sprecare energie. Se nella realtà un lottatore eseguisse una combinazione da dieci colpi come in Tekken, successivamente non sarebbe più in grado di attaccare per almeno un minuto, rendendosi facile preda dell’avversario. Nei videogiochi lo sforzo fisico raramente è contemplato. Ne conseguono combattimenti in cui per un minuto e più i lottatori eseguono decine di tecniche senza soluzione di continuità. Ciò favorisce il ritmo di gioco, ma assottiglia lo spessore strategico degli incontri. Nei videogiochi la riproduzione di questo fattore sarebbe possibile attraverso l’implementazione di una barra, indicativa della stamina, che si riduce ad ogni attacco sferrato. Una volta esaurita, il lottatore dovrebbe attendere che la barra si ricarichi, almeno parzialmente, rimanendo temporaneamente inoffensivo. Qualcosa di simile è stato realizzato nei picchiaduro 2D della Capcom, in cui alla barra energetica se ne affiancava un’altra in progressiva riduzione ad ogni attacco assorbito. Una volta esaurita, il giocatore non poteva più contare sulla parata ed era obbligato a una condotta di combattimento più votata all’attacco. Tuttavia, più che al realismo, anche questa soluzione era finalizzata all’aumento del ritmo e della spettacolarità degli incontri, dal momento che scoraggiava atteggiamenti attendisti a vantaggio di strategie più sfrontate.
3. Le collisioni Nella realtà una tecnica di attacco è efficace solo se colpisce nettamente l’obiettivo. I colpi sporchi, imprecisi, deboli, sono inefficaci. È sufficiente che l'avversario si sposti di pochi centimetri in avanti o indietro e un pugno colpisce male, scomposto, senza forza; o addirittura non conclude neppure la sua corsa, come conseguenza di una manovra “a chiudere” dell’avversario. Non solo, un calcio che incontra sulla propria traiettoria un gomito o un ginocchio, può risolversi in un danno per lo stesso lottatore che l’ha sferrato. Normalmente i picchiaduro non contemplano queste variabili. Una volta iniziata l’animazione di un colpo d’attacco, se la parte che colpisce entra in collisione con l’avversario (purché questo non si trovi in posizione di parata), il danno viene inflitto. Ne consegue un’eccessiva facilità nel mettere a segno i colpi, la quale, sommata all’assenza di una barra di stamina, incoraggia il giocatore a continuare a sferrare attacchi, alleggerendo il sistema di combattimento di una fase di studio propedeutica al contatto, durante la quale eseguire finte, indurre l’avversario a scoprirsi, e infine carpire l’attimo ideale per colpire. Nei giochi di pugilato si può rilevare qualche traccia di evoluzione in questo senso. In Victorious Boxers (New Corp., 2001) solo i pugni che centrano in pieno il bersaglio provocano danni. Tuttavia, non esistendo una barra di stamina, il giocatore è comunque motivato a sferrare cazzotti a ripetizione sperando che prima o poi ne vada a segno uno. Le ambizioni di realismo di Victorious Boxers si esprimono anche nell’as-
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Namco in gran “forma”
Tekken e Soul Calibur non implementano tecniche da forma solo all’interno dei combattimenti. Consapevole del fascino di questi esercizi, Namco ne ha inseriti uno per ciascun personaggio nella sezione Movie Theatre dei due Soul Calibur. Si tratta di fedeli riproduzioni in motion capture di forme complete e reali (non tutte, a onor del vero). Memorabili le performance di Kilik, così come i severi Kata interpretati da Jin Kazama in Tekken 4 (vedi foto).
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senza di una barra energetica visibile da cui dedurre lo stato di salute dei pugili. L’unico indizio in questo senso è dato dal volto dei lottatori, soggetto a progressivi rigonfiamenti e colorazioni livide. Per quanto apprezzabile, questa soluzione non convince pienamente. Per decifrare quanto possa resistere ancora il proprio pugile bisogna interpretarne le condizioni del volto nella speranza che la visuale di gioco lo inquadri: un procedimento macchinoso. Nella realtà si è sempre consapevoli dei danni subiti, se non altro per il dolore che procurano. Allora non è meglio disporre della cara vecchia barra energetica?
I tre dell’operazione drago (Enter the Dragon, 1973) Al videogioco interessa poco ricreare realistici combattimenti di arti marziali. E al cinema? Da decenni Hong Kong e Hollywood propongono una visione circense delle arti marziali, presentandole come discipline in grado di conferire all’individuo dei veri e propri superpoteri, grazie ai quali avere la meglio su decine di avversari contemporaneamente. In Occidente questa esasperata spettacolarizzazione delle arti marziali avrà poi giovato al riconoscimento della loro dignità culturale e filosofica?
4. Tekken 4 e Virtua Fighter 4: forma e sostanza della simulazione. È convinzione diffusa che Virtua Fighter 4 sia il picchiaduro per videogiocatori intenditori, mentre Tekken 4 sia il “solito Tekken” sempliciotto impreziosito da una realizzazione tecnica al passo con i tempi, e pertanto più adatto al giocatore occasionale. Ma l’appassionato di arti marziali in quale dei due titoli preferirà cimentarsi? Istintivamente verrebbe da rispondere VF4. La questione è in realtà più complessa. Numeri: in Pro Evolution Soccer 3 il realismo si esprime anche attraverso la credibilità delle animazioni dei calciatori. La regola vale anche per i picchiaduro.
Per lo studioso di arti marziali l’impatto con VF4 è deprimente. Dal primo Virtua Fighter (anno di grazia 1993) Sega ripropone le stesse animazioni: adeguate per qualsiasi videogiocatore, ma legnose, innaturali, “manichine” agli occhi del conoscitore delle corrispettive tecniche reali. Perché il lettore possa comprendere questo punto, è sufficiente che si immagini un Pro Evolution Soccer in cui le animazioni dei giocatori siano realizzate catturando in motion capture i gesti atletici di una signora di quarant’anni. Perché no, vostra madre: immaginatevela mentre frulla calci e pugni in un videogioco… L’appassionato di arti marziali non può che esprimere disappunto assistendo a bacini che roteano slegati dal resto del corpo, a calci in posizioni scomposte, ecc. Sotto questo profilo Tekken 4 sfodera tutt’altra stoffa. Benché non tutti i personaggi vantino animazioni dello stesso calibro, lottatori come Whoarang, Jin Kazama e Christie ammaliano l’occhio dell’appassionato, che apprezzerà lo zelo riposto nella rappresentazione di posizioni, tecniche, finte, prese e schivate fin nei movimenti delle dita delle mani (!). Così come l’abbonato a Quattroruote sbigottisce di fronte alla modellazione dei cerchioni in Gran Turismo 3, allo stesso modo la cintura nera di Tae Kwon Do si commuove assistendo alla naturalezza con cui Whoarang inanella un cambio di guardia, una finta e un calcio in volo senza che un solo centimetro del suo corpo commetta la benché minima sbavatura tecnica. Laddove in VF4 il cultore di arti marziali viene indisposto dall’approssimazione con cui sono riprodotte le varie tecniche, in Tekken 4 trova immedia-
tamente un terreno fertile alla coltivazione della propria passione. Tekken 4 come la Mecca videoludica dell’appassionato di arti marziali? Non esattamente. Il sistema di combattimento di VF4, una volta approfondito, risulterà più soddisfacente di quello di Tekken, che mima i reali combattimenti di arti marziali più nella forma (attraverso animazioni sensazionali) che nella sostanza. La superiore profondità di VF4 è peraltro dovuta più a scelte di gameplay che non a una maggiore ricerca del realismo. Tuttavia nel lungo periodo l’appassionato di arti marziali può trovare nelle meccaniche del titolo Sega una sfida che, per stimoli e complessità, è assimilabile a un combattimento reale più di quanto non lo siano gli scontri di Tekken 4. Ma il videogiocatore studioso di arti marziali riuscirà ad appassionarsi a un gioco che ne trascura tanto bellamente la componente estetica?
Il realismo di una simulazione traspare anche dall’attenzione maniacale per i dettagli. Sopra, nelle ruote di Gran Turismo 3 A-Spec è possibile intravedere i freni a disco. Sotto, Whoarang si solleva da terra per sferrare un pugno saltato, la posizione delle gambe bilancia la proiezione in avanti del peso del lottatore, la cintura e i lembi del costume ondeggiano coerentemente alle sollecitazioni del corpo.
Oltre le botte: la saga di Shenmue Secondo qualcuno Shenmue e Shenmue II (Sega, 1999-2002) sono i migliori giochi di arti marziali mai sviluppati. Questo perché al di là di una (invero scadente) componente picchiaduro, offrono un'esperienza rappresentativa della cultura e della mentalità che soggiacciono alle discipline di combattimento orientali. Shenmue e Shenmue II (in foto) costituiscono le prime tappe del viaggio – interiore e non - di Ryo Hazuki verso l’autocontrollo, la consapevolezza e la capacità di discernere il bene e il male. Indimenticabili sono i dialoghi formativi con i maestri di cui Ryo farà la conoscenza nel corso del suo lungo peregrinare. Il fatto che le sezioni di combattimento, in sé, non siano altro che una versione impoverita di Virtua Fighter, induce il giocatore a pensare al mondo delle arti marziali come qualcosa di più ampio del mero confronto fisico con l’avversario.
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5. I picchiaduro come stili di combattimento Si è abituati a pensare ai picchiaduro come terreni di combattimento neutro in cui, a seconda del personaggio selezionato, sia possibile prodursi in combattimenti di Karate, Judo, JuJitsu, ecc. Niente di più falso. Ogni picchiaduro, apparentemente aperto a molteplici stili di combattimento, è governato da meccanismi che caratterizzano i combattimenti in anticipo rispetto alle tecniche a disposizione dei vari lottatori. In altre parole, ogni picchiaduro è uno stile di combattimento a sé. Spieghiamoci. Tekken è una disciplina votata all'attacco. Virtua Fighter è una disciplina votata all’azione ragionata, alla contromossa. Poco importa che in entrambi i giochi ci siano praticanti di Karate e Kung Fu. Perché Jin Kazama in Tekken 4 non 'fa Karate', 'fa Tekken' utilizzando tecniche di Karate più o meno fedelmente riprodotte, cui è stata attribuita una certa efficacia, che non necessariamente corrisponde a quella reale (avete mai visto nessuno librarsi in volo dopo aver incassato un montante? Eppure in Tekken è la prassi). L’efficacia attribuita a tutte queste tecniche è studiata per costruire quegli equilibri che un game designer ha il dovere di garantire. Se così non fosse i praticanti di discipline di combattimento più legate all'estetica che all'efficacia risulterebbero
Karate Champ Nel film Senza esclusione di colpi (Bloodsport, 1999) Frank Dux (Jean Cloud Van Damme) sfida un amico lottatore a Karate Champ (Data East, 1984), prevalendo nettamente. La scena vuole suggerire pretestuosamente che anche nella realtà Dux sia il lottatore più abile. Ma l’esperto di arti marziali alle prese con i picchiaduro è realmente avvantaggiato rispetto al videogiocatore comune? fortemente penalizzati all'interno di un gioco che include praticanti di vari stili. Sarebbe questo un difetto della simulazione? No, sarebbe un difetto del gioco. È questo il motivo per cui nei picchiaduro i personaggi femminili risultano temibili quanto i lottatori uomini, beneficiando solitamente di una velocità superiore, per compensare una forza e una resistenza fisica più esigue. È tutta una questione di equilibri.
6. I picchiaduro come regolamenti di combattimento Tutti i picchiaduro hanno un regolamento molto preciso. Tuttavia si tratta di un regolamento implicito, non consultabile. Ad esempio, non è mai possibile infierire a oltranza sull'avversario al tappeto. Anzi, quando questa possibilità viene in qualche modo concessa è considerata un errore di game design, dal momento che per un giocatore è molto frustrante assistere impotente alla demolizione del proprio personaggio atterrato. Il "Ring Out" è un'altra regola, questa volta più esplicita, di molti picchiaduro. Per vincere un round in Soul Calibur è sufficiente spingere l'avversario fuori dall'area di gioco: questa regola incide tantissimo sulle dinamiche dei combattimenti. E ancora, nelle (reali) competizioni Tae Kwon Do sono bandite le spazzate. In Tekken 2, Tekken 3, Tekken Tag e Tekken 4 ritroviamo praticanti di questo stile, ma non si può affermare che diano vita a combattimenti di Tae Kwon Do, perché l'avversario, se esperto di un altro stile, può benissimo attaccare sotto la cintura. Pertanto avremo un lottatore che utilizza tecniche di Tae Kwon Do all'interno di un combattimento interstile, certamente avulso dalle dinamiche tipiche delle reali competizioni di Tae Kwon Do. Sia per il regolamento, implicito ed esplicito, sia per l’approccio favorito dal sistema di gioco (offensivo? dalla distanza? incentrato sulle prese?), ogni picchiaduro costituisce una vera e propria disciplina di combattimento virtuale, indipendentemente dagli stili di combattimento reali cui si ispira. In quest'ottica, creare un picchiaduro non significa realizzare un simulatore di arti marziali, quanto creare un sistema di combattimento inedito, che sotto l'aspetto visivo emula i combattimenti reali, ma che nella sostanza vuole essere un gioco, e deve quindi soddisfare sotto il profilo del divertimento, degli equilibri e della giocabilità. Il fatto che per diventare grandi esperti di picchiaduro non sia necessario essere praticanti di arti marziali la dice lunga in questo senso. Per contro, è difficile pensare che un cultore di Gran Turismo 3, abituato a pon
Filosofia dello splatter: la serie di Mortal Kombat Sin dai primi episodi in 2D, la serie di Mortal Kombat (Midway, 1993-2003) ha ricercato il fotorealismo attraverso la presentazione di personaggi e ambienti digitalizzati. Tale realismo estetico era funzionale alla truculenza espressa dalle mosse più violente, soprattutto le celeBri e improbabili Fatality, che consentivano di uccidere l’avversario mediante mutilazioni o estirpazioni di organi interni. Il realismo delle soluzioni grafiche, però, non è mai stato accompagnato da una parallela ricerca del realismo nelle meccaniche di combattimento, che in MK sono sempre state all’insegna della fantasia. L’ultimo capitolo, Mortal Kombat: Deadly Alliance (in foto), ha segnato una svolta nella serie, riconsiderando radicalmente il sistema di gioco tradizionale per avvicinarlo a quello dei più moderni picchiaduro in 3D. MK:DA è ancora un gioco scevro da qualsiasi ambizione di realismo, tuttavia si segnalano una manciata di gradevoli innovazioni in questo senso. Ciascun personaggio padroneggia ora tre stili di combattimento reali, interscambiabili nel corso dello stesso combattimento. Infine, tra le mosse speciali si registra un singolare “colpo impalatore”. Tale tecnica compromette definitivamente la salute dell’avversario, provocandogli un’emorragia che riduce lentamente ma inesorabilmente la sua barra energetica.
derare gli assetti della propria vettura smanettando tra la rigidezza degli ammortizzatori e l’entità della deportanza, non abbia neppure conseguito la patente di guida.
7. Prospettive: realismo e giocabilità, un sodalizio impossibile? Ricapitolando, il grado di realismo dei picchiaduro è ancora piuttosto limitato. Tuttavia questo genere è già riuscito a riproporre con successo alcuni aspetti dei combattimenti reali. Tra questi spicca l’approccio mentale al combattimento: la concentrazione, la focalizzazione sui movimenti dell’avversario, l’acquisizione della completa conoscenza del suo bagaglio tecnico e delle sue strategie. Al di là dell’impossibile restituzione del dolore fisico provato dal proprio lottatore (e ci mancherebbe), un buon picchiaduro sa infondere sensazioni di agonismo, adrenalina e tensione. Emozioni proprie dei combattimenti reali, ma opportunamente ridimensionate dal fatto che davanti a una console non si rischia la vita, nonostante qualcuno ami ripetere il contrario. Da un punto di vista più concreto, i picchiaduro sono realistici quando le tecniche dei lottatori sono riprodotte il più fe-
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delmente possibile alle loro controparti reali, nell'estetica e negli effetti. Allora il praticante sa che le prese e gli attacchi di pugno sono la scelta più indicata nello stretto, sa quali calci sono più adatti alla media distanza e quali all'anticipo dell'avversario in avvicinamento. Ad esclusione di questi aspetti, però, i picchiaduro non sono realistici, e non sono realistici perché non vogliono esserlo. Questo non significa che siano giochi peggiori di quanto non sarebbero se fossero più simulativi. Anzi, non sono realistici proprio per non rischiare di trasformarsi in pessimi giochi; ma siamo sicuri che i due generi – picchiaduro arcade e picchiaduro simulativi - non potrebbero coesistere? Dopotutto se tra qualche mese avremo Burnout 3 e Gran Turismo 4, nulla ci vieta di pensare che a Tekken 5 un giorno sarebbe bello accostare The Real Martial Arts Simulator.
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Il linguaggio del cinema nei videogiochi
le affinità elettive [Introduzione] di Bruno Fraschini
Tempi infiniti a guardare le nubi soffici e leggere tempeste che ritardano a scoppiare Mara Redeghieri, Canto del vuoto1 Cinema e videogiochi si attraggono, è sempre stato così. Se è vero che il videogame grazie alla sua natura digitale ha assimilato, e tuttora continua a farlo, codici e linguaggi di altre categorie testuali rubando a fumetti, programmi televisivi e letteratura strategie narrative, retoriche e poetiche, bisogna pur riconoscere che l’influenza esercitata dal cinema sull’industria videoludica è sicuramente la più evidente se non la più rilevante. Perché il mondo dei videogiochi è tanto attratto dal cinema2? Quali sono i punti di contatto tra film e videogame? In che modo i videogiochi utilizzano il linguaggio cinematografico e che cosa nasce esattamente da questo fortunato connubio? Con questo saggio intendo dare una risposta il più rigorosa possibile a queste ed ad altre domande attinenti. Project Zero, un riuscito survival horror edito da Tecmo nel 20013 sarà il testo su cui metterò alla prova gli strumenti di analisi che andrò via via definendo. Fin dalla loro nascita i videogame hanno tentato di assimilare il linguaggio del cinema e sono molti i titoli significativi che sarà impossibile non menzionare, ma ho scelto Project Zero come banco di prova ideale, proprio perché il titolo Tecmo ripropone quasi tutte le innovazioni introdotte da quei videogiochi che in un modo o nell’altro hanno tentato di darsi un aspetto cinematografico. L’opera di Makoto Shibata, tuttavia, non è un semplice compendio di soluzioni adottate da altri videogame; poggiandosi sulle solide basi di ciò che è già stato collaudato con successo (movimenti di macchina, posizionamento delle telecamere, sistemi di controllo adeguati ecc.) può permettersi di spingersi oltre e sperimentare inedite strategie comunicative. Da questo punto di vista Project Zero non è solo un buon gioco o un testo esteticamente interessante ma, per la sua coerenza intrinseca e l’uso consapevole che fa degli elementi assimilati dal cinema, una tappa significativa nell’evoluzione del videogame. Detto questo occorre fare un’importante precisazione: il videogame è in grado di utilizzare il linguaggio cinematografico ma in ultima analisi non diventa mai un vero film. Il fatto stesso che occorra l’intervento attivo di un giocatore per fare avanzare la trama implica numerose conseguenze sia a livello di sceneggiatura, sia di modalità di messa in discorso degli eventi rappresentati. Ciò non significa che esista un qualsiasi rapporto di sudditanza tra cinema e videogame, né tanto meno che i videogiochi siano la “naturale” evoluzione del cinema. Film e videogame (così come fumetti, romanzi, programmi televisivi, cartoni animati ecc) sono categorie testuali 1
Ustmamò, Canto del vuoto, contenuto in Ust 1996, I Dischi del Mulo/Virgin Music Italy, S.r.l, 1996. Sarebbe altrettanto interessante chiedersi anche, perché il cinema sia così fortemente attratto dal mondo dei videogiochi, ma rispondere in modo soddisfacente a questa domanda ci costringerebbe ad aprire un discorso troppo ampio e complesso per essere affrontato in questa sede. 3 Il titolo originale del gioco, edito per la prima volta nel 2001 in Giappone per PS2 e sviluppato da Tecmo, è Rei Zero. In Europa è meglio conosciuto come Project Zero, nel mercato americano è invece stato ribattezzato Fatal Frame. Nel 2002 è stato convertito anche per Xbox. 2
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differenti, ciascuna con la propria dignità artistica che dipende essenzialmente dal valore dell’opera in sé, più che dalla famiglia di appartenenza. Ciascuna di queste categorie si imbastardisce volentieri con le altre ma in fin dei conti un videogioco rimane sempre un videogioco, così come un fumetto resta un fumetto o un film è in ogni caso un film. Gli sconfinamenti eccessivi possono essere controproducenti soprattutto perché il destinatario ultimo della comunicazione, lettore, giocatore o spettatore che sia, è nella maggior parte dei casi un consumatore e, in quanto tale, non ama essere raggirato. Nel campo dei videogiochi ad esempio l’intenzione di realizzare videogame cinematografici ha portato spesso alla nascita di opere contenenti lunghe sequenze non interattive (si pensi ad esempio a Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty di Hideo Kojima). Dato che la possibilità di intervenire in tempo reale su ciò che si sta osservando è la caratteristica fondamentale che differenzia il videogioco da altre categorie testuali, è evidente che il giocatore tollera fino ad un certo punto questa temporanea mancanza di interazione (in realtà questa soglia di intolleranza è molto soggettiva e dipende essenzialmente dal tipo di giocatore che sta interagendo con l’opera). Un videogioco che esclude dall’azione l’utente troppo a lungo sortisce lo stesso effetto di un film in cui sullo schermo non compaiono altro che immagini statiche o di una mostra fotografica in cui vengono esposte solo foto di quadri e disegni. Queste zone di confine possono essere terreni fertili per la sperimentazione (o la provocazione) ma costituiscono anche una sorta di campo minato in cui è estremamente complesso costruire opere di grande valore. Al contrario, quando una categoria testuale coglie da un’altra ciò che può esserle utile ed ha luogo un genuino processo di assimilazione e rielaborazione, allora si possono ottenere risultati sorprendenti: è qui che nasce il videogame cinematografico, qualcosa che, nonostante le apparenze, è più gioco che film. Per quanto Alone In The Dark, Resident Evil, Ico o Project Zero utilizzino inquadrature e movimenti di macchina sempre più elaborati l’effetto che suscitano nel giocatore (essenzialmente paura, tensione e coinvolgimento) è legato in modo indissolubile alla possibilità di interazione concessa dal videogioco. Provate a fare un esperimento: registrate una partita ad uno dei titoli appena menzionati su una videocassetta e mostratela ad amico. L’effetto che susciterete sarà minimo, se non nullo. Le stesse immagini che emozionano il giocatore annoiano lo spettatore e questo perché, quando si partecipa ad un videogame, non si sta semplicemente osservando. Anche se un’elaborata messa in discorso può sembrare l’aspetto cruciale per riuscire a suscitare specifiche emozioni nel giocatore, non è affatto così. Nel videogioco cinematografico è ancora la possibilità di interagire, la componente essenziale, come in qualsiasi videogame. In questo saggio sarà dunque inevitabile analizzare in modo approfondito soprattutto la struttura interattiva che sta alla base di qualsiasi videogioco. Vedremo anche come questa specie di “impalcatura elastica” sia già di per sé portatrice di significato e tenterò di definire degli strumenti teorici in grado di descriverne le possibili declinazioni. I punti di contatto tra cinema e videogame sono molteplici: questi due universi sono entrati in collisione da ormai più di trent’anni. È il momento ideale per analizzare adeguatamente i risultati a cui ha portato questa prolifica contaminazione.
[Continua nel PDF allegato al corrente numero di Ring]
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Dieci personaggi in cerca di Hob
d’orrore [Forbidden Siren: la trama] Premessa: la seguente analisi della trama di Forbidden Siren verte esclusivamente sui misteri irrisolti del gioco, sui dettagli non chiariti o volutamente lasciati in sospeso. Per quanto saturo di interrogativi, il gioco rivela pressoché tutto quello che c'è da sapere tramite filmati o elementi dell'archivio. Questo articolo permetterà di cogliere il vero mistero dietro a Siren, gettando luce su mille interrogativi e lasciandone in ombra diecimila altri, in conformità con lo spirito dell'opera. E prima di lasciarvi alla lettura, vorrei ringraziare di cuore Shin X e System Shocko per la gentilezza e la disponibilità concessami. Shhh, comincia...
Datatsushi, e l'origine della Religione di Mana 684 d.C. Giugno. Un villaggio rurale giapponese sta per vivere la sua ora più buia: da tempo la siccità imperversa e gli abitanti del villaggio sopravvivono a suon di stenti e sofferenze. La disperazione – unita ad una forte superstizione – li porta a invocare l'aiuto degli Dei, praticando riti per il richiamo della pioggia. Un mese dopo a nord-est del villaggio precipita una cometa lunga 7 cubiti. Questa cometa, di forma piramidale, porta con sé uno strano essere, nel gioco chiamato Datatsushi (trad. "angelo caduto"). La natura di questo "visitatore" non sarà mai chiarita: alieno, divinità, essere sovrumano pandimensionale, ogni interpretazione può essere corretta ("Siren Maniacs", guida ufficiale alla trama e ai misteri del gioco, lo definisce chiaramente "dio"). Nel gioco, ogni accadimento è direttamente frutto dei poteri del dio: tra questi, la capacità di "trasportare" il villaggio di Hanyuda in una sorta di dimensione parallela, un crocevia tra il nostro mondo e l'oltretomba, distorcendo la realtà e riportando alla luce ciò che appartiene al passato. Confondendo quindi i piani temporali, ma di questo si parlerà in seguito. La venuta di questo "dio alieno" (come sovente definito negli archivi) non sarà però benigna per il villaggio: la fame e la disperazione porterà gli abitanti del villaggio ad optare per una soluzione che causerà la loro rovina: nutrirsi della carne del dio. In uno dei filmati del gioco (e indirettamente, dalla visione di Miyako) vediamo la veemenza delle genti di Hanyuda mentre si avventano sulle carni del dio, che si contorce in agonia. Poco prima di morire, però, Datatsushi grida, e così facendo pratica una maledizione
sul villaggio. Il suo urlo, quello che dai personaggi del gioco sarà avvertito come la sirena, sembra colpire una persona in particolare, l'unica che il dio ha avuto modo di vedere bene in faccia, nonché l'unica che non ha la prontezza di tapparsi le orecchie. Dal video la somiglianza con uno dei personaggi più importanti del gioco è evidente: si tratta di Hisako Yao, la suora, personaggio importantissimo che verrà trattato in seguito. La venuta del dio alieno, che con le sue carni allevia le sofferenze del villaggio, è un evento continuamente accennato nel corso del gioco attraverso leggende, superstizioni ed elementi folkloristici: dal "bebè sul tagliere" rinvenuto nel pozzo, un feticcio che a una attenta analisi si rivela un essere metà uomo e metà pesce, alla storia citata in un libro di leggende locali che parla di una ragazza affamanta che si nutre delle carni di un "pesce venuto dall'alto", e che chiede poi perdono. Un altro chiaro indizio è l'idolo sull'altare trovato da Kyoya nella casa abbandonata: una grottesca figura composta di pezzi di bambole e lische di pesce. Il riferimento più evidente è quello riguardante i "frutti di Vieda",
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descritti nel libro di credenze di Hanyuda in maniera simile al biblico frutto dell'Eden, e rappresenta la fonte dell'immortalità, preclusa all'uomo. I superstiziosi abitanti di Hanyuda, fino ad allora praticanti la religione dello shintoismo (come si evince dalla presenza di un'area dedicata a Hiruko, divinità shintoista legata all'acqua e al mare), si ritrovano così a introdurre nella propria fede nuovi elementi derivanti proprio da questo episodio, affiancandoli appunto alla fede shintoista. La stessa "croce di Mana", simbolo religioso diffuso in ogni parte di Hanyuda come una sorta di leit motiv, nonchè simbolo del gioco stesso, altro non è che un'icona "farlocca", creata dalla superstizione degli abitanti che ebbero modo di vedere l'alieno che giaceva sopra un pezzo di staccionata infranta dalla caduta del dio. Questa assumeva, forse non proprio casualmente, quella che sembra la forma di un 4 (cioè "shi", morte) rovesciato. In realtà non è un 4, bensì il carattere cinese "sei" / "shô" / "ikiru" / "nama" / "umareru", che significa "vita", "nascita". Da qui il nome della religione "Mana": vale a dire "nama" letto al con-
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trario (secondo la scrittura a ideogrammi). In un piccolo altare di legno nel cimitero di Harayadori si trova inoltre un pezzo di "Pietra Mana", che con ogni probabilità è un frammento del meteorite con quale il dio è precipitato sulla terra molti secoli prima (è nota come "pietra sacra venuta dall'alto"). Dal minerale estratto dalla piramide originaria è stata inoltre forgiata l'Homuranagi, la spada appartenente al patrimonio di famiglia dei Kajiro e usata da Kyoya nello stage finale, guardacaso combattuto in una sorta di infernale pianura dove gli unici elementi notevoli dello scenario sono tre pilastri disposti a triangolo e una piramide con superfici riflettenti. Sempre provenienti dalla dimensione del dio sono le statuette Uryen, una coppia di artefatti gemelli dagli straordinari poteri. Quella dei gemelli è un'altra tematica riscontrabile più volte nel gioco. Insomma, la simbologia e le superstizioni sono un'accoppiata che
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nella storia del villaggio di Hanyuda hanno ricoperto notevole importanza. Sono del resto innumerevoli i “temi ricorrenti"; ad esempio certi numeri, come il 3 (o 33, o 333... e se 4 è "shi", morte, 3 è lo stato che si raggiunge prima di morire), a forma triangolare (lo strumento tipico di Hanyuda è appunto il triangolo!), o il cannibalismo. Quest’ultimo è argomento di molte delle raffazzonate leggende popolari del paese, che rappresentano una specie di substrato alle superstizioni che hanno originato quello che da lì a poco si sarebbe trasformato in un incubo. Questo sincretismo religioso è, tra l'altro, oggetto di studio da parte del padre di Tamon Takeuchi, Omihito, il quale in uno dei documenti recuperabili nel gioco spiega come gradualmente le due credenze si siano fuse, salvo poi rendere "invisibile" ad occhi estranei la pratica dell'adorazione del dio alieno, probabilmente per scongiurare proble-
mi di eventuali persecuzioni religiose in epoca medievale. Lo stesso storico si è inoltre dedicato allo studio della famiglia Kajiro, evidenziando in modo particolare la loro prosperità e longevità: evidentemente favori accordati da un dio di qualche sorta. Alquanto singolare, dunque, il fatto che la mistica spada Homuranagi sia descritta in una pergamena come la spada che ha difeso il villaggio dall’inquisizione durante il periodo Edo, ricacciando indietro le fiamme che lambivano il villaggio. Il patrimonio dei Kajiro, famiglia che da secoli è asservita a Datatsushi, è quindi sia lo strumento per sconfiggere – seppur momentaneamente – il male, sia per preservarlo. Causa ed effetto, inizio e fine... siamo quindi tornati alla questione dei piani temporali. Vediamola in dettaglio.
Dal 684 d.C. al 2003 Come già scritto, la maledizione è nata dall'urlo del dio, sacrificato per placare la fame degli abitanti del villaggio in tempi antichi. Ma come si delinea, di preciso, la maledizione? Andiamo con ordine. Non ci è dato sapere cosa successe agli abitanti del villaggio "originale" subito dopo il grido. L'unica certezza è che Hisako, scelta poichè al tempo probabilmente incinta, riceve una via di mezzo tra una maledizione e una benedizione. Il suo sangue diventerà sangue speciale, permettendole di vivere in eterno mantendendo inalterato l'aspetto fisico nel corso dei secoli e di essere immune al "richiamo del dio", sotto forma di sirena. E, cosa importante, la seconda "qualità" verrà trasmessa anche alla sua progenie (ma non la prima, è lei l'unica immortale della famiglia). Flash forward al 21 maggio 1938. Attorno a questa data si è creato un alone di mistero: le cronache riportano di un massacro, i 33 abitanti del piccolo villaggio di XX (il nome è sconosciuto) massacrati nottetempo da una sola persona. Sul sito www.shibito.com, segnalato dopo la visione del primo finale, si parla di un giovane che, affetto da turbe psichiche, sterminò gli abitanti impugnando una katana e altre armi. Altro flash forward,
3 agosto 1976. Da anni non era rimasto nulla del villaggio di XX, solo una città fantasma che scomparve definitivamente sotto una frana dovuta agli smottamenti della crosta terreste e alle inondazioni di un fiume in piena. Di nuovo, le cronache parlano di 33 persone scomparse per via della frana: tra i sopravvissuti, un bambino, Takeuchi Tamon. Poi iniziano gli accadimenti del gioco vero e proprio, dal 31 luglio al 2 agosto 2003, 3 giorni in cui gli eventi del passato rivivranno sotto una nuova, e allo stesso tempo vecchia, luce. Perché il fulcro attorno a cui è costruita la trama del gioco è la ciclicità del tempo e il ripetersi degli eventi. La tematica dell'ouroboros, insomma, il serpente che si morde la coda. La strage del '38, la frana del '76, e i fatti del gioco stesso sono estremamente legati tra loro: anzi, si potrebbe estremizzare dicendo che sono, sostanzialmente, la stessa cosa, vissuti in frangenti temporali distinti. Analizzando i due finali, in particolare, è evidente il parallelismo… Primo finale: Kyoya Suda si rivela essere lui stesso lo sterminatore dei 33 abitanti del villaggio di XX: armato di tutto punto, fucile, Uryen e katana, lo sguardo risoluto e consapevole del pro-
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prio ruolo nella "storia". Apparentemente un "joke ending", si rivela invece notevolmente importante per identificare il ruolo di Kyoya, da semplice "vittima" degli eventi, ad attore protagonista sul palco, in saecula saeculorum. Secondo finale: Si salva la piccola Harumi Yomoda, come superficialmente dicono i giornali, rimasta sepolta sotto la frana per 3 giorni. È in verità l'unico personaggio a cui è concessa la possibilità di riemergere dalla dimensione parallela in cui è stato scagliato il villaggio di Hanyuda. Tutti questi sono quindi indizi forniti da Toyama non tanto per chiarire le cose, quanto per confonderle il più possibile, sfalsando di fatto i pianti temporali in frammenti che, periodicamente, rivivono, o con gli stessi protagonisti, o con protagonisti diversi, ma sempre in circostanze simili. Alla luce di questo, la quantità di parallelismi proponibile è vasta. Per fare un esempio, il piccolo Tamon del 1976 che emerge dalle rovine del villaggio distrutto, piangendo e cercando i propri genitori è insindacabilmente prefigurativo della sorte della piccola Harumi in epoca presente, riemersa dopo 3 giorni dalla "distesa di fango" che ha inghiottito la città. Lo stesso "ripetere le missioni" è narrativamente giustificabile dalle considerazioni sulla molteplicità di spazio/tempo: ogni missione rivive più e più volte, in un mosaico temporale che non conosce linearità, né la desidera.
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La "tre giorni di Hanyuda": i poteri del dio in azione È dagli eventi descritti durante i tre giorni in cui si articola la narrazione che si prende atto di quali siano i poteri del dio. Altamente chiarificatore è un appunto di Tamon, trovato verso la fine del gioco… In seguito alla maledizione, il villaggio di Hanyuda è visto come un pendolo, che oscilla perpetuamente tra la "nostra" realtà e quella del dio alieno (il Paradiso o l'Inferno, a seconda dei punti di vista). Il funzionamento è simile a quello del tanto famigerato Triangolo delle Bermuda: periodicamente, l'intera area del villaggio di Hanyuda "sprofonda" in una dimensione che altro non è che un crocevia tra "terra" e "oltretomba". Tutti i residenti e le persone provenienti dall'esterno ne sono risucchiati, e con ciò si spiega il coinvolgimento dei dieci protagonisti. Una foto che dall'alto ritrae Hanyuda evidenzia la forma triangolare del villaggio; di sicuro non è un caso. La sirena che suona a mezzanotte, all'inizio del primo giorno, segna l'inizio del rito del trapasso. Questa è in realtà l'urlo di Datatsushi, rappresenta un richiamo a ricongiungersi al dio, al quale gli abitanti devono la vita. Un terremoto accompagna la sirena, chiaro segnale di come il villaggio stia progressivamente "staccandosi" dalla sua ubicazione geografica e, seguendo l'oscillazione del pendolo, stia entrando nella dimensione parallela. Con l'appropinquarsi della cerimonia, il confine tra i due mondi diventa sempre più incerto: il poliziotto ubriacone Ishida, per esempio, è già mezzo-shibito prima del suono della sirena, essendosi abbeverato dell'acqua rossa anzitempo, e non è banalmente ubriaco come molti suggeriscono. Similmente la bambina scomparsa nel 1976, Namiko Yoshikawa, stando a Siren Maniacs svanì addirittura alcune settimane prima della cerimonia: chiaro segnale che Hanyuda rappresenta una sorta di limbo tra le due dimensioni anche in tempi relativamente tranquilli: persino il "corretto" scorrere del tempo è un concetto su cui non fare affidamento ad Hanyuda. All'interno della dimensione parallela, similmente alle versioni "hell" degli edifici di Silent Hill, tutto è possibile. Hanyuda appare dunque "immersa" in un mare di sangue, vengono riesumati antichi edifici scomparsi nella frana del ‘76 come la Clinica Miyata o la casa dei Takeuchi (edifici rimasti intrappolati nella dimensione parallela, in passato), si reperiscono innumerevoli
documenti risalenti proprio a quegli anni, come a simboleggiare la compenetrazione degli infiniti piani temporali (e in particolare con l’epoca più vicina a noi nel tempo, quella del 1976). Non solo, proseguendo nel gioco (vale a dire avvicinandosi alla dimensione del dio) ogni barlume di scientificità viene progressivamente perso. Si assiste infatti alla costruzione del "Covo", dove si svolgono buona parte degli stage finali, un lugubre ammasso di edifici provenienti dai piani temporali più disparati e disposti senza criterio logico. Un vero e proprio labirinto infernale.
Il "mare di sangue" è un elemento della storia altrettanto interessante. La sirena funge da richiamo, irresistibile per la maggior parte delle persone, verso le acque rosse che lambiscono il villaggio. Un'ottima esemplificazione di questo concetto è nel filmato introduttivo della missione di padre Makino con Tomoko. I confini della città sono magicamente scomparsi: i ponti, le strade, tutto quanto è troncato, e solo un'enorme distesa di acqua rossa si estende a perdita d'occhio. In questo mare, gli abitanti del villaggio vanno immergendosi in una specie di trance collettiva causata dalla sirena. Andiamo nel dettaglio. Quest'acqua rossa è in realtà il sangue di Datatsushi. Gli shibito, dice Toyama, sono la forma di transizione dell'uomo, ottenuta a due condizioni: bere il sangue del dio (o facendolo penetrare in una ferita aperta) e maledire il proprio, espellendolo letteralmente dal corpo. Le "lacrime di sangue" comuni a tutti gli shibito sono infatti il sangue umano "impuro" che viene espulso. La sirena suonerà poi quattro volte al giorno (alle 0:00, 6:00, 12:00 e 18:00) al di là del mare di sangue e fungerà da richiamo per gli shibito pronti a essere ricongiunti col proprio dio, che si immergeranno nelle acque. Questa è la cerimonia dell'Umi-Okuri, descritta in una per-
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gamena nell'archivio. Gli shibito non ancora pronti torneranno ad Hanyuda, riemergendo dalle acque, in attesa della prossima sirena. Non torneranno però come mezzi-shibito, bensì nelle versioni evolute (shibito cane, ragno, volante, o mente shibito). Questa è la cerimonia dell'Umi-Gaeri, il "ritorno", anch'esso descritto nell'archivio. Gli shibito "evoluti" compiranno un altro Umi-Okuri... e un altro... e un altro ancora... finché non saranno pronti a ricongiungersi con il dio. Non è finita: oltre agli shibito vi sono anche le persone che sono riuscite, di propria volontà, a non capitolare al richiamo del dio, consapevoli di cosa stesse accadendo: dai "mezzi cadaveri" passiamo ai "mezzi vivi". All'apparenza simili a cadaveri in decoposizione, queste persone hanno rifiutato di maledire la propria natura umana, rimanendone saldamente ancorati, ma a caro prezzo. Sono infatti costretti ad una sofferenza eterna nella dimensione parallela, al lambire la acque rosse senza potersene abbeverare, straziati dal richiamo sempre più opprimente della sirena. Tra questi "mezzi vivi", si segnalano i genitori di Tamon, che contrariamente al proprio figlio furono risucchiati nella dimensione parallela nel 1976. Interessante il fatto che Tamon, ormai sulla via del non-ritorno (e parzialmente salvato dal contatto col sangue dei Kajiro tramite Kyoya) li veda come esseri umani nel pieno della salute, laddove nel finale saranno rivelati dagli occhi, incontaminati, di Yoriko, che li identifica come cadaveri-non-shibito. La diversa percezione della realtà, infine, è argomento d'interesse. Lo stesso Toyama afferma che il diventare shibito è addirittura desiderabile, visto che la percezione che si ha in seguito del mondo è di perfezione, di idillio, di pace. Esplicativa in merito è la missione di Tomoko nella valle: il giocatore, inconsapevole, controlla il personaggio, che ha delle visioni paradisiache. Piccoli angioletti galleggiano per aria e l'aurora riveste il cielo dei colori della natura. Gli stessi shibito non attaccano Tomoko in quanto la natura umana della stessa è ormai compromessa. Da ciò la "gioia" spesso riscontrabile nei mugugnii degli shibito: risate quasi isteriche, motivate dalla neo-visione che hanno del mondo.
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Hisako, il sangue maledetto e la dinastia dei Kajiro In seguito all'urlo di Datatsushi, come già riportato, il sangue di Hisako diventa maledetto. La sua stirpe, i Kajiro, erediteranno tale maledizione ma in una forma indebolita, risentendo dello scorrere del tempo ma rimanendo insensibili all'effetto della sirena. Come si evince da uno scritto di Omihito Takeuchi, una monografia dei Kajiro, questi si stabilirono nella zona durante il regno dell'imperatore Temmu, nel VII° secolo DC. Nello stesso documento viene descritto l'inizio della loro prosperità. Si parla di una famiglia maledetta da una divinità, che però, tramite l’ossequiosa devozione al dio, si garantì prosperità negli anni a venire. È lecito supporre che, ormai consapevole della propria immortalità, Hisako sia divenuta la suora/guida spirituale del villaggio, introducendo progressivamente elementi del nuovo culto (adorazione del dio alieno, Umi-Okuri e Gaeri) all'interno del sistema di credenze del villaggio, nel tentativo disperato di porre fine alla maledizione mostrando devozione al dio. Col passare del tempo persino Hisako perde cognizione del motivo per cui sacrifica i propri discendenti: la cerimonia stessa diventa la sua unica ragion d'essere. Sempre dallo scritto di Takeuchi viene messo in evidenza che, periodicamente, nasce una nuova esponente della famiglia Kajiro con la caratteristica di avere delle visioni, e che a questa ragazza verrà riservato un trattamento speciale: sarà la cosiddetta "Moglie di Dio", la prescelta per essere sacrificata per la resurrezione del dio in una cerimonia che si inizierà a preparare quando la ragazza avrà il suo primo ciclo mestruale. Questa ragazza è Miyako, che all'inizio del terzo giorno viene bruciata nello Stagno, pieno del sangue del dio, per permetterne la rinascita. Interessante è notare la consapevolezza del proprio ruolo da parte di Miyako: durante il corso del gioco sviluppa un forte attaccamento per Kyoya, evidente dalla volontà di salvarlo dall'effetto della sirena donandogli il proprio sangue, ma le angherie dei parenti e degli abitanti del villaggio le comportano una forte frustrazione. Ciò è evidente sin dall'inizio del gioco, quando Kyoya la vede mentre colpisce con una pietra un oggetto, vale a dire la testa di pietra di Datatsushi, unico "tramite" del dio nel nostro mondo, nonché elemento necessario all'atto dell'invocazione del dio. È questo il motivo per cui la cerimonia all'inizio stesso del gioco fallisce e per cui Hanyuda viene poi attirata nella di-
mensione parallela, al di fuori di ogni contesto temporale, in attesa dell'arrivo dell'altra testa (vedi paragrafo seguente), che permetterà alla cerimonia di aver luogo. L'indisponenza della ragazza nei confronti delle altre persone, familiari compresi, è evidente. Ella ammette più volte, parlando con Kyoya, di odiare il villaggio e di desiderare che sparisca. In seguito colpisce Jun, fratello adottivo e fidanzato di Ayako, pur di scappare, per quanto consapevole dell'inevitabile ciclicità del tempo. La stessa Miyako è vittima di questa "reiterazione": già più e più volte in passato è stata bruciata per placare la rabbia del dio. La Miyako del 1976, ad esempio, è presente nel gioco, per quanto irriconoscibile: l'essere che "tramanda" l'Uryen a Miyata e che lo guida nelle fasi conclusive del gioco è proprio lei. La sorella maggiore di Miyako, Ayako, è invece la "futura madre" delle prossime due bambine della famiglia Kajiro. Nella famiglia nascono infatti sempre due femmine. La più piccola (in questo caso Miyako) verrà sacrificata, la più grande (Ayako) sarà presente al sacrificio, tornerà poi nel mondo reale, si sposerà e darà al mondo altre due femmine, una sacrificale e la prossima madre... e così via.
Ma il personaggio che più di tutti ha un ruolo attivo nel corso della cerimonia è Hisako stessa. Con l'avvicinarsi della cerimonia si risvegliano in Hisako, fino a quel momento una semplice suora, i ricordi del proprio ruolo e del proprio compito. Hisako è un personaggio completamente fuori da ogni contesto temporale. Alla luce di ciò, si chiarisce l'episodio della Barca di Otsubo, a bordo della quale la Hisako alla deriva nel flusso temporale consegna alla sé stessa del presente la testa ("KUBI", in giapponese) del dio, permettendole di dare un nuovo inizio alla cerimonia. L'intervento di Kyoya, però, compromette il buon esito del rito. Decapita il dio, e la disperazione di Hisako è l'eterna dannazione stessa che è costretta a patire: coi capelli bianchi per il dolore si ritroverà a raccogliere la testa del dio, venendo poi risucchiata nel flusso
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temporale dovuto dalla disgregazione del "paradiso". Persa nel tempo sulla sua "barca", Hisako dovrà attendere di poter rendere alla se stessa del passato la testa, per l'ennesima cerimonia fallimentare. L'ouroboros, insomma Ma non è tutto: laddove le discendenti dirette di Hisako possiedono la "visione" (sightjack), l'abilità innata di Miyako era stranamente forte (fattore dovuto, probabilmente, alla cecità della giovane): Hisako è quindi portata a pensare che, questa volta, il "frutto" (il sangue di Miyako) sia realmente perfetto. Questo è il motivo per cui Hisako brucia di propria intenzione Ayako, fermamente convinta che quella sarebbe stata l'ultima cerimonia, la fine della maledizione, e che non ci sarebbe stato altro bisogno di eredi. Ma, all'insaputa di Hisako, Miyako ha condiviso il proprio sangue con Kyoya per evitare la sua mutazione in shibito: questo è il motivo fondamentale per cui la cerimonia "perfetta" fallisce, nonché il motivo per cui Datatsushi sembra impazzire rivoltandosi contro tutto e tutti. E viene dunque spiegato perché Hisako si rivolga a Kyoya come a "colui che ha rubato il frutto", rendendo "impuro" il sangue di Miyako. La figura di Hisako è ispirata ad una leggenda realmente diffusa in Giappone, quella di "Yaobikuni", la suora errante che avendo mangiato carne di tritone, ottenne il dono dell'immortalità. Nel gioco, l’eterna giovinezza della suora ha insospettito diverse persone, tra cui Akira Shimura, che è a conoscenza della leggenda della "suora immortale", e suo cugino Shimura Takafumi, internato alla clinica Miyata (gli occhi disegnati sul muro della cella di isolamento sono infatti i suoi). Questi in una lettera chiede proprio ad Akira di aiutarlo a uscire da quel luogo di follia, convinto, e in un certo senso a ragione, della colpevolezza di Hisako. Assunzione assai plausibile è che anche il "diario di un abitante del villaggio", datato 1967, che Akira trova durante la sua seconda missione, appartenga al cugino (Nota: nella traduzione italiana, erroneamente, Takafumi è scambiato per una femmina).
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La storia di Shimura merita un breve approfondimento. La sua famiglia è strettamente legata alla cerimonia del 1976; in particolare il figlio (Shimura Koichi) e il cugino (insieme alla Miyako del 1976) ebbero un ruolo determinante. Fu infatti grazie a loro che la cerimonia fallì. La Miyako del 1976 incontrò Koichi nella chiesa, subito dopo essere scappata da casa Kajiro. Entrambi verranno poi coinvolti nella “frana”, finendo così nella dimensione parallela. Koichi, informato sugli accadimenti da Takafumi Shimura e Takeuchi Omihito, avrà poi modo di trovare la testa di Datatsushi, distruggerla, facendo così fallire la cerimonia di allora, e la ricerca dell'Uryen condurrà poi lui e Miyako all'ospedale, dove la loro storia a-
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vrà, momentaneamente, fine. La sorte del cugino è nota, internato all'ospedale per chiari sintomi di pazzia, mentre il figlio è in realtà la persona chiusa nella bara nel sotterraneo dell'ospedale. Il paletto che lo trafiggeva (oggetto che verrà poi raccolto da Shiro) gli fu piantato da Miyako stessa, mentre il figlio del cacciatore stava diventando shibito, al fine di aiutarlo a resistere fisicamente al richiamo delle sirene. La sorte di Miyako non fu comunque migliore: Hisako stessa l'ha poi costretta alla sedia dove 27 anni dopo incontrerà Shiro, e al quale tramanderà l'Uryen, come sopra anticipato. In seguito alla scomparsa della propria famiglia per gli eventi del 1976, Shimura andrà a vivere per conto proprio nelle montagne vicino
al villaggio, maturando negli anni il proprio odio per Hisako. È anche per questo che non farà nulla di particolare per aiutare Naoko, evidentemente non convinto della risposta della giovane reporter quando le chiede se avrebbe voluto "essere come quella donna" (riferendosi, ovviamente, all'immortale Hisako). Interessante anche il fatto che nel cartellino della biblioteca trovato da Naoko, oltre al nome di Namiko Yoshikawa, si riesca ad intravedere come penultimo nome quello di Hisako Yao: chiaro segnale che i tempi iniziano a "confondersi" l'uno con l'altro.
alla sorella. Ma qualcosa andò storto. La consapevolezza di Miyata del "male" che aleggia ad Hanyuda (i gemelli son nati, guardacaso, nel 1976, pochi giorni prima della cerimonia di allora) e soprattutto la ventilata possibilità di aver messo incinta Mina (ipotesi nata dalla scena in cui Miyata schiaccia una specie di feto palpitante coperto da un velo, nella saletta degli esperimenti nell'ospedale, dopo aver sezionato le sorelle) spingono Shiro a uccidere Mina poco prima degli eventi narrati nel gioco. L'avventura di Shiro inizia nella foresta Orifushi vicino ad una buca con frammenti di vinile sparsi attorno. Dentro allo scavo, solo poche ore prima, aveva sepolto Mina che è poi risorta al suono della sirena (e che a sua volta ha fatto svenire Shiro). Non a caso, proprio in quello stage, il secondo obiettivo è "trovare la scarpa dell'infermiera", chiaro segnale che Mina è a piede libero. A confermare la teoria è l'arma stessa di Mina: una pala, lo strumento che Miyata aveva con sé prima di svenire, prontamente raccolto dalla Mina-shibito. Lo stesso Shiro, in seguito, confermerà implicitamente l'omicidio di Mina, quando tenterà di strangolare la neo-shibito Risa come già fece con la sorella ("Siete gemelle... identiche perfino in punto di morte", dirà il dottore). Nel sotterraneo dell'ospedale avviene il primo "confronto" tra Kei e Shiro. Il dottore ha infatti sezionato le due gemelle (Risa è diventata shibito per il contatto con la sorel-
la), identificando la natura stessa degli shibito come il "segreto della vita eterna". La rivelazione scuote il prete, custode di una fede nella quale non sa più se credere, e rafforza la convinzione del giocatore che Miyata sia, tra i due gemelli, quello risoluto e convinto dei propri mezzi e della propria superiorità. Convinzione che verrà letteralmente spazzata via dagli accadimenti del terzo giorno: la natura schizofrenica di Shiro verrà rivelata in tutta la sua atrocità quando, nell'ultimo dialogo col fratello, rivelerà di essersi sempre sentito inferiore Kei, e di aver ricoperto, suo malgrado, il ruolo del "mostro". Fingendo poi di suicidarsi, Shiro sparerà invece a Kei, prendendone gli ambiti panni, bruciando i propri e con questi Kei, rinnegando con ciò la sua stessa esistenza. È ipotizzabile che i motivi dell'invidia di Shiro siano imputabili all'essersi sentito indesiderato o, peggio ancora, inutile. Il padre adottivo dei gemelli chiese infatti a Kei di prendersi cura di ciò in cui egli fallì (la ricerca della verità, intesa come ricerca del segreto della vita eterna), ferendo indirettamente l'orgoglio di Shiro, che sceglierà una professione eticamente contrapposta a quella del fratello (bianco e nero, scienza e fede). La volontà di andare contro corrente rispetto al fratello è ben esplicata nel dialogo che segue il risveglio di Yoriko alla clinica, salvata per mano di Miyata stesso, tramite la trasfusione del sangue di Kyoya alla giovane: "Mi chiedo, come dev'essere il risveglio? ... non so perché l'ho fatto... ma ora mi rendo conto che non è male, nuotare contro corrente ogni tanto". Inoltre, la lettera del padre adottivo a Kei è datata 1988: dato non
Due coppie di gemelli Intercalate alle vicende principali, ci sono anche le disavventure dei Makino e delle Onda, che come si scoprirà sono strettamente e drammaticamente correlate, risultando in quello che è il ramo narrativo più evocativo e meglio sviluppato del gioco. Separati alla nascita, i gemelli Makino hanno seguito due strade parallele: prete/guida spirituale Kei (su richiesta del padre), e medico Shiro, il quale prenderà poi il cognome "Miyata" in seguito. Comportandosi da conoscenti, non certo da gemelli, hanno condotto le proprie vite separatamente, fino a pochi giorni prima degli eventi del gioco. Caratterialmente debole e arrendevole, Kei è stato istruito da Hisako sui riti da praticare e sui suoi doveri, ma nei momenti di debolezza tende a cercare aiuto e supporto morale da parte della suora, incerto sul da farsi e su cosa sia giusto o sbagliato. Dopo aver perso di vista Tomoko, in una delle sue prime missioni, la sua vacua ricerca lo porterà fino alla clinica Miyata, dove incontrerà il fratello. La storia di Shiro è enormemente più complessa: un autentico climax che sfocia nella schizofrenia e si lega a doppio filo alle vicende delle Onda, Mina e Risa. Le gemelle Onda sono entrambe infermiere, anche se Risa era disoccupata e non viveva più ad Hanyuda con la sorella. Quest’ultima conobbe Miyata, iniziando presumibilmente un rapporto sentimentale. Il ritorno di Risa ad Hanyuda è proprio dovuto alla volontà di Mina di presentare Shiro
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proprio casuale, in quanto stando a Siren Maniacs, Shiro ebbe modo di vedere il suo "primo shibito" all'età di 12 anni (età che sommata alla sua data di nascita –1976 – dà proprio 1988): per la cronaca, questo shibito era Namiko Yoshikawa, la bambina scomparsa, chiaro riferimento alla tematica dell'ouroboros. Shiro era dunque a conoscenza del compito del fratello e di quali cerimonie e riti avrebbe dovuto eseguire in futuro. Sin dall'adolescenza era dunque consapevole dei poteri sovrumani che aleggiano e governano il destino di Hanyuda. Questo
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spiega inoltre la straordinaria risolutezza che dimostra Shiro per tutto il gioco: si lascia stupire da ben pochi eventi, anzi, è sempre ben consapevole del disegno generale. È infatti Shiro, nei panni del fratello, a passare a Kyoya l'Uryen versione scudo, visto di Kyoya nella storia ("Usa questa... è il tuo compito, no? Cancella tutto, hai capito? Non deve restare nulla"). Non solo, è sempre Shiro che affrontando i suoi stessi peccati e tentando di espiare alle sue colpe userà i poteri dell'Uryen a costo della sua stessa vita, per alleviare la sofferenza dei non-shibito.
Non trattata nel gioco, ma spiegata in Siren Maniacs, è la singolare quanto raccapricciante fine di padre Makino: bruciato dal gemello, Kei aveva poche ore prima fatto un "bagno di sangue" insieme a Kyoya, venendo dunque a contatto col sangue dei Kajiro. Kei viene dunque risvegliato dalle sirene, ma è ormai decomposto e NON può diventare uno shibito, né rigenerarsi. Cercherà di emettere un grido, ma non uscirà alcun suono: è diventato una palla vivente di carne. Yuk.
entrambe hanno subito in passato. Secondo il settimanale Shintokumaru, Reiko perse la figlia, Megumi, morta annegata in mare in seguito ad un'onda anomala (in tale occasione Reiko riuscì a salvare altri due bambini, ma non la propria figlia), mentre i genitori di Harumi sono scomparsi in data 2/3/2002 in seguito all'abbattersi di un fulmine sulla vettura mentre percorrevano la statale 333. È quindi naturale che Harumi veda in Reiko una sorta di figura materna, mentre la maestra percepisce la bambina come una seconda, desiderata, occasione, proteggendola a costo della propria vita. Sembra quasi uno scherzo del destino, dunque, che Reiko sia costretta a farsi saltare in aria insieme alla camionetta (replicando in certo senso la morte dei genitori di Harumi) pur di difendere la bambina dagli shibito. Addirittura commovente è l'apparizione finale di Reiko, ormai shibitocompleto, che difende Harumi dal preside della scuola elementare, Eiji Nagoshi, dimostrando quando forte potesse essere il suo attaccamento per la piccola. Piccola disgustosa nota su Eiji Nagoshi: nell'ultimo stage di Harumi, quando si fa suonare la sveglia per attirarlo lontano dalla strada, lo si può sentir bisbigliare "posso sentire l'odore di Harumi". Sommando questo allo strano attaccamento verso la bambina che il preside dimostra già durante lo stage della scuola, si hanno tutti gli elementi per definirlo un pedofilo. Tomoko: non molto da dire sulla sorte di questo sfortunato personaggio. La bambina era scappata di casa dopo aver scoperto che i genitori le avevano letto il diario. È durante la fuga che incontrerà Makino, dal quale si dovrà in seguito separare per trovare poi Hisako, uscita a cercarla bambina dopo le suppliche dei genitori. Stando a Siren Maniacs, Hisako avrebbe condotto Tomoko alla casa abbadonata di Tabo-
ri, dove vi sarebbe stato il contatto tra la bambina e gli shibito, decretandone la trasformazione. In seguito a questo episodio vi è lo stage della valle, durante il quale maturala trasformazione di Tomoko, che si rivela essere mezzo-shibito nel momento stesso in cui raggiunge la Chiesa, in un'orrorifica rivelazione per i suoi genitori. Da lì a poche ore diventeranno anch'essi shibito, e inizieranno una nuova vita assieme a Tomoko, proprio nella casa abbandonata... Ultimi appunti, sul finale del gioco. Come già specificato, Harumi è l'unica ad avere facoltà di uscire dalla dimensione parallela. A condurla alla salvezza è un personaggio non-specificato, del quale si intravede solo un'ombra. Toyama afferma che tale personaggio "ha il potere di un super-uomo, ma non può tornare nella propria dimensione". Si riferiva con ogni probabilità a Kyoya, il cui legame di sangue con Miyako lo vincola alla città di Hanyuda. Kyoya dunque, insieme ad altri due personaggi, rimarrà a (soprav)vivere nella Hanyuda della dimensione parallela in attesa della prossima cerimonia. Non specificati da Toyama, questi due personaggi sono quasi sicuramente Yoriko e Tamon. Entrambi hanno infatti ricevuto il sangue speciale dei Kajiro: Yoriko per una trasfusione del sangue di Kyoya operata da Miyata (il quale dimostra, per l'ennesima volta, di sapere quello che sta facendo), mentre Tamon riceve il sangue in maniera parziale durante il "bagno di sangue" insieme a Kyoya e Makino. Il sangue di Tamon è pertanto imperfetto e impuro (non ha avuto contatto diretto con sangue dei Kajiro), cosa che giustifica la sua resistenza al richiamo delle sirene così come la distorta percezione della realtà che ha nei momenti conclusivi del gioco.
Le altre anime Qualche parolina sui personaggi minori, Naoko, Reiko, Harumi, e Tomoko. Naoko: è la conduttrice dello speciale "Darkness Japan" ("Giappone Occulto" nella versione italiana), trasmesso sulla 333 TV. Si troverà ad Hanyuda per indagare non tanto sugli eventi paranormali trattati nel gioco in sé, quanto per trovare informazioni sul leggendario Tsuchinoko, una specie di creatura simile a una larva decisamente cresciuta. Anche questa, similmente a Yaobikuni, è un'autentica leggenda giapponese, ufficializzata persino dal governo con una taglia di venti milioni di yen (!) per la cattura di un'esemplare. Il fatto che se ne parli proprio ad Hanyuda non è certo un caso, dato che la città rappresenta un coacervo di realtà e dimensioni frastagliate su più piani temporali e gli avvistamenti, così come gli avvenimenti soprannaturali, si sprecano. Tornando a Naoko, è evidente dall'analisi degli archivi la sua vena narcisistica e superficiale. Tormentata dalla sfuggente giovinezza e dal desiderio di essere sempre adorata dai fan (come scrive nel quaderno ai tempi della scuola media), nonché dal rapido declino della propria stella (nel suo curriculum si ritrovano parti sempre più di secondo piano e rarefatte nel tempo), per lei il richiamo della sirena al di là delle acque rosse sarà irresistibile. Sempre su Naoko, è interessante notare come sia l'unico personaggio che non fa mai nulla per altri: nessuna delle sue azioni risulterà utile negli stage futuri degli altri personaggi, eccetto la "strage" di shibito compiuta in miniera che, secondo Siren Maniacs, sarà utile a Makino per passare da quell'area indisturbato e raggiungere l'ospedale in tutta tranquillità. Reiko e Harumi: il destino della maestra e della bambina sono strettamente legati tra loro. Lo struggente rapporto che si viene a creare tra le due è dovuto alle perdite che
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gli opposti Collimano [Legacy of Kain: Defiance] di DarknessHeir «L’individualismo ci ha separato dal nostro contesto al punto che costantemente vi è uno spazio fra ciò che esiste e noi stessi, fra l’essere e ciò che è l’altra dimensione dell’essere: questo spazio garantisce […] l’idea di possedere una ‘personalità’ nella quale ci identifichiamo; tale idea ci rende però stranieri a noi stessi ed al nostro contesto, obbligandoci ad accettare questo modo di vedere le cose, già compromesso dal condizionamento nel quale nasciamo e viviamo, e di cui agiamo come complici, giacchè solamente noi stessi possiamo mantenere questi valori imposti alla nostra coscienza.» Federico Gonzales, I Simboli Precolombiani
Tenebra e luce, carne e spirito, terra e cielo: sin dal lontano Blood Omen, il tema della dualità è stato uno dei cardini delle gesta del superbo Kain e del vendicativo Raziel, nonché uno dei tratti distintivi del comune avversario, l’Antico.
Maschere Nella Nosgoth di Crystal Dinamics il libero arbitrio non esiste. Tutti gli esseri recitano una parte; taluni sono macchiette in effimere farse, altri vittime di tragedie affilate, altri ancora eroi in epopee senza fine. Nessuno, in ogni caso, può sottrarsi al ruolo che per lui è già stato scritto. Il Destino è dunque il vero sovrano di Nosgoth, ed i potenti si piegano a lui come fa il volgo. Esiste però una ristrettissima cerchia di individui illuminati su tale fatto, e che in base ad esso modellano le proprie azioni. Tra loro, sono Kain, Raziel e l’Antico ad interessarci. Nel corso del presente indepth avremo modo di esaminare i due aspetti di ciascuno, giungendo infine ad osservare il loro vero – ed unico – volto.
Purificatore e distruttore Kain. In Blood Omen è un nobile in viaggio che muore in un’imboscata. Mortanius lo trattiene nel mondo dei vivi, gli offre l’immortalità e la vendetta: Kain non può rifiutare. Riceve il Cuore delle Tenebre (che solo in Soul Reaver 2 scopriremo appartenere a Janos Audron), cerca i suoi aguzzini e placa con il loro sangue la fame a cui il suo nuovo corpo lo sottopone. Ciò malgrado la sua avventura è appena iniziata: l’incontro con Ariel lo pone a conoscenza del crescente degrado dei Pilastri di Nosgoth, monumento da cui dipende l’integrità del regno, ed egli intraprende un viaggio volto a preservarli. Per raggiungere lo scopo vi è un solo modo: uccidere i guardiani dei Pilastri, la cui corruzione ha portato Nosgoth sull’orlo della rovina. Al termine dell’impresa Kain scopre di essere il legittimo successore del guardiano dell’Equilibrio, e che, per la completa riuscita dell’opera, è necessario il suo sacri-
ficio. È l’inizio della fine. Alla salvezza di Nosgoth, Kain antepone la propria; genera orde di vampiri e le scatena sugli umani, arrivando a confinarli in sparute città fortificate. I secoli si accatastano lenti, ed oltrepassato il limite dello sfarzo, l’impero di Kain imbocca inesorabilmente la via della disfatta. I suoi generali (i boss di Soul Reaver e Raziel) presto esauriscono i modi per ingannare il tedio della loro vita, eterna e monotona. Kain ordina l’esecuzione di Raziel, colpevole di aver sviluppato prima di lui un paio d’ali. Una lenta decadenza segue l’evento: un millennio dopo, appena sorto dall’Abisso, Raziel la trova al suo massimo sviluppo. Ora, apparentemente Kain elimina Raziel in accordo ad un moto di gelosia: scopriamo invece che era sua volontà seguire il destino. Poiché
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egli era in grado di prevederlo, avendolo visto scritto nelle grotte dell’Oracolo di Nosgoth1 (nome dietro a cui, in Blood Omen, si nascondeva Moebius). In Soul Reaver 2, del resto, asserisce che non avrebbe mai gettato Raziel nell’Abisso se non fosse stato certo del suo ritorno. Infine si rifiuta di combatterlo, riconoscendo che l’essere che gli ha giurato vendetta ricopre, nel destino di Nosgoth, un ruolo molto più importante di quanto sembra. Kain non si oppone a tale ruolo, anzi: nei due Soul Reaver spinge Raziel a sviluppare appieno le sue potenzialità, sostenendo un individuo che, ribadiamo, lo vuole uccidere. La domanda, a questo punto, è ovvia. Qual è lo scopo dei mutevoli atteggiamenti di Kain? Perché pretende di aiutare Raziel dopo avergli fatto subire una tortura millenaria?
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Campione di libero arbitrio, conquistatore di false storie Raziel. Certamente il più schietto tra i personaggi della saga. Il suo scopo è essenzialmente negativo, distruttivo e fine a sé stesso: una cieca vendetta con cui anela di travolgere Kain. Il livido vampiro è un concentrato di negatività: odio, rimorso ed auto commiserazione sono i principali tratti del suo carattere. Ad aiutarlo vi è l’Antico, un essere divino che lo salva dalla morte per indirizzarlo contro Kain, comune nemico. Insomma, la storia di Raziel comincia con i peggiori presupposti. Eppure, avvicinandosi al suo passato sire, Raziel inizia a raccogliere frammenti di una realtà che si situa molto al di sopra delle sue promesse di rivalsa. Il primo di essi è la fusione con la Mietitrice, che occorre nel primo scontro con Kain. Al posto di lacerare le sue carni, consumare la sua anima, a contatto con Raziel la Mietitrice si infrange per poi legarsi in eterno con quella che sino a pochi istanti prima era la sua vittima. È il primo passo verso la verità. La spada ha un potere supremo, incontrollabile: coloro che, nelle va-
rie ere, sono chiamati a brandirla, non possono certo essere individui qualunque.
In un primo momento Raziel si crede il salvatore profetizzato dai vampiri primigeni; poco prima della fine di Defiance scopre di essere lo spirito della Mietitrice. Dispone quindi di poteri vastissimi, e soprattutto, di un bene che tutto Nosgoth
gli invidia: il libero arbitrio. Ma in che modo ne ha disposto sino a quel momento? Trascorrendo i suoi giorni nel dubbio, costantemente avvolto dagli intrighi intessuti da Moebius e l’Antico, atterrito dagli enigmatici affreschi dipinti sulle rovine dell’atavica civiltà dei vampiri: la confusione, lo smarrimento e l’inganno sono le costanti dell’essere che, lasciato alla deriva in se stesso, gode della “libertà”. Sono i suggerimenti di Ariel e le pitture murarie presenti nella cittadella dei vampiri a permettere a Raziel di adempiere al proprio compito, a suggerirgli la via da seguire. Il suo libero arbitrio è in questo caso sottoposto ad un condizionamento, a buon fine, ma pur sempre un condizionamento: per nulla dissimile a quello di cui lo stesso Raziel, taccia il nemico giurato, rimarcando, tanto in Defiance quanto in Soul Reaver 2, la differenza tra la sua libertà e la libertà di fare ciò che gli dice Kain.
Fonte di vita, divoratore di morte L’Antico. Tra tutti i personaggi della saga, il più ambiguo. E’ egli a far girare la ruota dell’esistenza. Un essere divino che avvia ogni anima al travaglio della vita e la richiama alla purificazione della morte, in un ciclo eterno. Cardine dell’esistenza, “mozzo della ruota”, visibile a pochi ed al contempo “padre” di ogni individuo. Può esistere malvagità in una simile creatura? Secondo Raziel, sì. Poiché l’Antico decide del destino di ogni suo “figlio”, incatena gli esseri a storie già scritte dando loro l’illusione di possedere libero arbitrio. L’ambiguità di tale personaggio non termina qui : l’Antico è di natu-
ra divina, si è detto, ma in ogni caso si serve di Raziel e di Moebius per disfarsi di Kain (il quale sottrae gli esseri al ciclo purificatore): un operato che poco ha a che fare con l’immenso potere che paventa appena se ne presenta l’occasione. Ancora, si dichiara oltre la morte ma teme la Mietitrice dello spirito (che Raziel ottiene all’ultima forgia di Defiance), spada creata dai vampiri primevi ed in grado di rompere il giogo della ruota del destino2. Vi è infine un altro avvenimento a confutare l’onnipotenza dell’Antico, ma di questo tratteremo tra poco.
La risoluzione delle dualità Come abbiamo visto, in Defiance Raziel e Kain pongono fine al loro divenire, impugnano la propria identità ed assurgono al ruolo che spetta loro legittimamente, predetto millenni prima dai vampiri antichi. L’epilogo vede un Kain finalmente conscio del suo destino volgersi ai
Pilastri, da poco caduti, con occhi nuovi, trafitti da una scheggia di speranza. È un momento su cui soffermarsi: Nosgoth distruzione, ma Kain, destinato a riportare
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vale la pena incontra la colui che è l’equilibrio è
già pronto a compiere il suo dovere. L’Antico si ritira sconfitto nei recessi del mondo sotterraneo, eppure… Eppure il ciclo di distruzione e creazione, morte e rinascita, si è compiuto ancora nonostante la sua disfatta. Il crollo di Nosgoth e la resurrezione che sembra prossima a
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venire sono stati opera di Kain e Raziel, i due esseri che egli ha cercato, invano, di ostacolare e manipolare. Il ciclo, dunque, sembra essere superiore allo stesso Antico: sotto quest’ottica egli appare uno strumento sostituibile, risiedente in un piano esistenziale molto inferiore a quello ove è situato il vero “principio” del mondo manifestato. Un “principio” in confronto a cui il bene ed il male, la vita e la morte, sono
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mere contingenze. Diversi stadi dell’evoluzione del divenire di ogni essere. Si parlava di dualità: Raziel, cieco per il desiderio di vendetta, vive nel male ma dentro di sé cova, in potenza, il bene. Viene guidato da fili invisibili ad ogni passo, ma è il solo essere dotato di libero arbitrio. Allo stesso modo le azioni di Kain sono ammantate da un velo malefico, eppure si risolvono nel bene, nella speranza verso la rinascita. Vita e morte si susseguono in un
ciclo eterno: come avrebbe potuto Nosgoth rinascere, senza prima sperimentare la morte instillatale dal regno di Kain? Ci troviamo insomma di fronte ad un’entità superiore ai personaggi analizzati, una sorta di invisibile forza cosmica il cui equilibrio, riflettendosi in ognuno di loro, prende la forma di due opposti che collimano, si cristallizza in una dualità che esiste soltanto nei piani esistenziali inferiori.
Note [1] Così come Raziel, prima di scontrarsi con lui al termine di Soul Reaver, vede scorrere sulle stesse pareti le sue imprese passate e future.
[2] Ricordiamo che Raziel, lo spirito della Mietitrice, è l’unico a disporre del libero arbitrio.
Artwork Saranno anche giocattolini per bambini dalle ginocchia sporche, ma sono i NOSTRI giocattolini per bambini dalle ginocchia sporche. I Transfomer – anzi, i Trasformer – appartengono al nostro retaggio culturale, al nostro percorso di levelupping formativo non meno degli Exogini, di Holly e Benji e della trasmissione Colpo Grosso.
Per leggere la recensione dell’attesissimo adattamento della serie preferita dai bambini dalle ginocchia sporche, voltate pagina…
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Chika-Chuka-Chakatm
[Transformers]
di Cryu
Ci piace pensare che un anno e mezzo fa, negli studi australiani di Melbourne House, il processo creativo di Transformers sia cominciato più o meno così: «Atari ci ha affidato lo sviluppo di un gioco sui Transformers con licenza Hasbro» esordisce il director Markus Windelen, «che genere di prodotto potremmo realizzare?» «Propongo di muoverci come è consuetudine in questi casi», replica all’istante il braccio destro di Markus. «Sforniamo un action game di infima qualità lavorando un giorno sì e tre no, vendiamo un botto sulle rendite del marchio Transformers e tra sei mesi raggiungiamo i nostri amici di Shiny Entertainment, che ci aspettano ai Carabi da quando è uscito Enter the Matrix». In sala si sprecano le manifestazioni di assenso, mentre i membri più signorili del gruppo annuiscono come saggi monaci buddisti. A compromettere l’idillio del consenso unanime, dal fondo dell’assemblea si leva una timida manina. Un balbuziente coder assunto in prova per un periodo di sei mesi prende la parola previa autorizzazione dei superiori: “È solo un’idea, m-ma cosa ne dite s-se invece realizzassimo uno dei migliori a-action game di tutti i tempi? Un titolo che si ispiri al g-gameplay dei capolavori di questa generazione, c-combinandoli in un sistema di gioco moderno, inserito in una t-tecnologia 3D all’avanguardia?» Nella sala riunioni degli studi di Melbourne House gelò un silenzio infinito. Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:.
Shooter Atari Melbourne House PS2 2004 1 Europea
14 mesi dopo viene recapitata nella portineria della redazione di Ring una copia di Transformers, forte dell’appariscente packaging con cui Atari ne promuove la commercializzazione in suolo europeo all’invitante prezzo consigliato di 49,99 euro
(diffidate dei rivenditori che lo espongono ad altre cifre). Loading… FMV di rito… schermata selezione personaggi… prima missione. Ai comandi di Optimus Prime (il Commander della prima e più celebre serie animata dei Transformers trasmessa in Italia) muoviamo i primi passi per un colle della verdeggiante giungla amazzonica. Guadagnata la cima del colle si verifica l’inaspettato. L’autocompiacente motore grafico si diverte a gestire ogni singolo ciuffo d’erba poligonale, per poi partire sparato verso l’orizzonte disegnando prati, foreste, fiumi, templi e montagne. Maestoso.
si apposta dietro a un albero: attivata la visuale in prima persona, sfrutta i tasti dorsali sporgendosi a destra e sinistra per sparare e rimettersi subito al riparo. Esplodono un altro paio di robot i cui proiettili si infrangono futili contro il tronco della pianta. Lo schermo si inonda di fumi e luci, mentre grappoli di lamiere si sparpagliano a video per scomparire un attimo dopo. In lontananza i sopravvissuti delle fila nemiche se la danno a gambe. Al centro della radura bonificata brilla il tesoro poc’anzi custodito dai Covenant, pardon, dai Decepticon. Un colpetto al tasto X e davanti a Link, pardon, Optimus Prime, si dischiude in un bagliore dorato il modulo che custodiva un Minicon: un robottino in grado di conferire a Ratchet & Clank, pardon, ai Transformers, un sorprendente ventaglio di abilità, armi, potenziamenti e armature. Non ci credo. Gli hanno d-d-dato retta. Sono due i fatti di Transformers che suscitano meraviglia. Il primo sono quei miseri 14 mesi di sviluppo, quando qualsiasi prodotto di blasone richiede ormai una gestazione minima di due anni. Il secondo è la pletora di citazioni e soluzioni ludiche che in poco più di un anno Melbourne House ha saputo fondere in un unico gameplay, senza che questo collassasse sotto il peso di un equilibrio impossibile.
L’inavvertita pressione del tasto triangolo innesca la trasformazione in vettura, ma richiama altresì un suggestivo amarcord d’infanzia, accompagnando l’animazione con il celebre SFX “chika-chuka-chaka” tanto caro ai fan nella serie animata. 100 metri più avanti uno sparuto manipolo Descepticlone, i cloni robot prodotti in serie dai malvagi Descepticon, assedia un misterioso ritrovato bellico. In assetto motrice Prime arremba giù per la discesa investendo e frantumando un nemico; ritrasformandosi in robot bipede effettua una rotazione a mezz’aria di 180°, e prima di toccare terra ha già impallinato un altro avversario. Il dual shock 2 inizia a tremare in congiunzione alla visuale di gioco. Prime getta lo sguardo in alto mentre sopraggiunge un’enorme nave volante carica di rinforzi. La situazione impone una strategia di basso profilo. Guadagnata l’adiacente propaggine forestale, Prime
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Questo ambizioso giocattolo prende le battaglie campali di Halo e le farcisce dello spessore tattico assicurato dell’arsenale di Ratchet & Clank; implementa un bullet time che fa il verso a Max Payne; consente un’interpretazione tattica degli ambienti di gioco seconda a nessun Socom; e nel frattempo riconverte la licenza di cui detiene i diritti in sofisticato elemento di game design. Perché la trasformazione in automezzo non è solo una bricconata grazie alla quale sbarazzarsi di 2-4-10 avversari in un sol colpo di paraurti, è soprattutto un prezioso salvagente del ritmo di gioco. A questo proposito è eloquente l’ultimo stage. Il suo sviluppo è scandito da esaltanti battaglie sui pianori d’altura di un’isola nel Pacifico; l’assetto vettura è ideale per sfondare le linee di nemici distanti decine di metri, magari appostati dando le spalle a un precipi-
:RECENSIONI:
Sono tre gli autobot selezionabili: Optimum Prime, Red Alert e Hot Shot. Motrice, ambulanza e fuoriserie le rispettive trasformazioni. L’impressione iniziale è quella di un gruppo poco assortito, con il carismatico ma pachidermico Prime a cedere subito il posto nelle preferenze del giocatore ai più scattanti compagni di squadra. Con il prosieguo dell’avventura le peculiarità di ogni robot si rivelano invece studiate per aggiungere un ulteriore componente strategica all’approccio degli scontri più accesi, con il dapprima ripudiato Prime a ricavarsi un posto privilegiato quando sarà indispensabile montare i Minicon più pesanti.
zio sul mare. Subito dopo l’impatto, però, ci si ritrova a mezz’aria con infauste prospettive da Wyle E. Coyote: tuffo nel vuoto, dolore vero e lenta risalita… E invece no: chikachuka-chaka, e siamo di nuovo robot, chika-chuka-chaka, il tasto L1 attiva il minicon deltaplano. Sbeffeggiando la forza di gravità si ritorna in battaglia eseguendo una sontuosa manovra aerea a U. Ma è contro i boss che viene il meglio. Queste battaglie si estendono per la totalità del livello in cui si svolgono. Cyclonius, il Decepticon che presiede il terzo stage, sorprende i Deficienticlone? A infondere un soffio vitale nelle concitate battaglie di Transformers intervengono piacevoli routine di intelligenza artificiale, che si lasciano apprezzare in particolar modo ai livelli di difficoltà Veterano e Comandante. Oltre a fuggire in condizioni di netta inferiorità, i Decepticlone si tuffano a terra per schivare missili, si riparano tra gli alberi, cercano di occupare le postazioni di tiro fisse, e nelle situazioni di battaglia più affollate si organizzano in serrati ranghi a difesa delle unità Comandanti. Una volta ingaggiato un duello, poi, i nemici più coriacei non si dimenticano del giocatore non appena questi si allontana di qualche decina di metri, ma lo perseguitano per terra e per mare fino alla risoluzione del confronto. .
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Transformers in cima a un altissimo tempio, crivellandoli in modalità elicottero. Subito dopo si trasforma per afferrare il nostro autobot e scagliarlo nel letto di un fiume centinaia di metri più a valle. Da lì innesteremo la quarta verso una zona che concede maggiore spazio di manovra, oppure faremo rotta per quella boscaglia più a est per avvantaggiarci nella rigogliosa vegetazione. L’altalenante qualità del level design denunciata in altra sede (non facciamo nomi… ok, su Edge) trova un riscontro solo parziale ad un’analisi approfondita. Se è infatti manifesto che non tutte le location si prestano ad ospitare situazioni ludiche di pari tenore, è altresì vero che è soprattutto la discontinuità estetica degli scenari a produrre questa impressione. Il quarto stage è ambientato in un brullo arcipelago oceanico: pochi poligoni, orizzonte marino piatto, zero architetture e niente vegetazione. Tuttavia, alla mediocrità del panorama si contrappongono frangenti di gioco memorabili, con i Transformers dapprima bersagliati dai missili di una portaerei distante centinaia di metri, e poi impegnati a scalare in derapata i ripidi rilievi di ogni isolotto, per poi lanciarsi nel vuoto e planare di isola in isola incalzati dal boss più gigantesco mai affrontato in un videogioco. È in questi momenti che Transformers si emancipa dei suoi illustri progenitori rivelandosi un’esperienza inedita e portentosa. Questa non è la poesia dell’immagine dei robot ZOE2, qui non si respira l’atmosfera impettita e galvanizzante di un Halo: qui ci sono tanti robottini che sparano, scappano e si rincorrono; qui ci si trasforma in macchinine, si accelera giù per le colline, si svolazza qua e là. Ci si diverte come forse ci divertivamo 15 anni fa a giocare nei prati con i modellini dei Transformers.
Transformers rileva la lingua impostata per i menu della vostra console, avviando il gioco nella stessa lingua. Qualora non trovaste la localizzazione italiana di vostro gusto, è sufficiente modificare tale selezione per godere del validissimo doppiaggio originale. Scelta consigliata.
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Certo, sposare così tanti stili di gioco contemporaneamente può dare luogo a scompensi qualitativi, che identifichiamo in combattimenti corpo a corpo insapori, in qualche superflua fase platform, in un tanto atteso scontro finale che si riduce a un deludente sottogioco; ma si tratta di lacune minori nel bilancio di un impianto di gioco così nutrito, che trasuda realmente amore per i videogame e per il mestiere di fare videogame, caso più unico che raro in un prodotto su licenza. In principio di recensione abbiamo scherzato, tuttavia Transformers rivela davvero del coraggio. Non lo fa alla maniera sublime e suicida di quell’Ico che non avrà mai un seguito, o di quel Forbidden Siren che diventerà campione del mondo di resi dopo la prima sessione di gioco, bensì alla maniera composta di chi si trova a fare qualcosa per vendere, ma già che c’è decide di farlo con passione. Transformers è vistosamente imperfetto e non eccezionalmente longevo (a livello Recluta è completabile in una dozzina di intense ore di gioco). Tuttavia, alla luce di quanto realizza sia sotto il profilo ludico che tecnologico, questo è un titolo che un pezzettino di storia dei videogiochi la fa. F-Fidatevi.
I gradi di un Transformer Transformers dispone di tre livelli di difficoltà: Recluta, Veterano e Comandante. Dopo aver completato il gioco ad entrambi i livelli di difficoltà Recluta e Veterano, per la prima tornata ci sentiamo di consigliare il primo. Accessibile ma mai accondiscendente, il livello Recluta garantisce una piacevole sfida sin dalle prime battute, senza tuttavia appesantire l’azione di ingombranti componenti strategiche. Ai livelli di difficoltà superiori Transformers non è più uno spensierato giocattolone pirotecnico, trasformandosi (nomen omen) in un autentico gioco di guerra, tanto appagante quanto severo nel punire l’errata scelta di un’arma o di una certa manovra tattica. Inoltre, la maggiore resistenza dei nemici scoraggia le avventate (quanto esaltanti) scorribande su quattro ruote, alterando il perfetto equilibrio che a livello Recluta motiva il giocatore alla continua trasformazione anche durante le battaglie, e non solo per comprimere i tempi degli spostamenti .
:RECENSIONI:
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C’era una volta MGS [Metal Gear Solid: The Twin Snakes] di Dan
C’era una volta Metal Gear Solid… E c’è ancora, sebbene molti lo abbiano dimenticato. Ma non di nome, questo è certo. Quando nel 1998 MGS faceva il suo ingresso nel mercato dell’intrattenimento digitale, nel panorama videoludico non c’era nulla del genere. Ma non si trattava semplicemente di un’innovazione nelle meccaniche di gioco (che anzi riprendeva in buona parte espedienti già apprezzabili in una veste bidimensionale), ma in un più generale modo di fare e presentare un videogioco. Hideo Kojima, al tempo, fece due scelte ardite: fare di un gioco d’azione un veicolo per dei contenuti di alto livello e presentarlo con un taglio cinematografico che facesse di gioco e filmati un tutto organico. Scelte ardite, queste, perché con una tentava di nobilitare un genere che non aveva mai aspirato a scalzare dal trono di “racconta storie” gli RPG, e con l’altra intraprendeva l’allora inedita strada delle Polygon Demos in Tempo Reale. Quest’ultima, in particolare, rappresentava una profonda rottura con la tradizione (anzi, la moda) dei filmati in CG tipici della sua generazione, anticipando di gran lunga una tecnica che davvero in pochi avrebbero pensato possibile su un 32-bit.
Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:. Tactical Espionage Konami Silicon Knights/KCEJ GameCube 2004 1 Europea
Eppure MGS non era solo “innovazione”, ma anche e soprattutto “realizzazione”. Sì, perché Kojima non solo quelle cose le aveva pensate ma, con un Team che di esperienza nel campo dei videogiochi ne aveva davvero poca, l’aveva pure sapute realizzare in modo eccellente.
Memorie
Marzo 2004. Ne è passato di tempo da allora. Quanti videogiocatori oggi giorno, a sei anni di distanza, sono spinti dal desiderio di riprendere in mano il pluri-consumato disco di MGS e di reinserirlo ancora una volta nella propria PlayStation? Pochi. Anzi no, quasi nessuno. Legittimo chiedersi il perché. Forse il gap puramente tecnico con i giochi attuali. O forse proprio la convinzione di conoscere ormai a memoria un titolo giocato e rigiocato più volte. Forse, per alcuni, lo stesso MGS2. MGS, però, andava riscoperto. Sarebbe bastato riprendere quel CD, di fatto; e invece Nintendo e Konami, consce che ciò non sarebbe accaduto, decidono di riproporre MGS con una grafica e un sonoro di ultima generazione, cut-scenes completamente rivisitate, una nuova colonna sonora e un gameplay ripreso tale e quale da MGS2. Sulla carta: un capolavoro.
Remake
Un remake, quindi. Ma The Twin Snakes non era un remake qualunque. Non lo era perché alla Konami un remake non lo avevano mai voluto fare: troppo tempo, troppi uomini, troppi soldi. Nintendo lo sapeva. E sapeva anche che MGS era un marchio che di soldi ne fa a palate, comunque e sempre. Quale l’accordo, dunque? Nintendo ci metteva costi e personale, facendo realizzare il titolo dalla second-party Silicon Knights1; Konami dava i diritti e incassava in anticipo. Unica eccezione, le scene del gioco: le animazioni e il motioncapture si sarebbero realizzati negli studi KCEJ. Alla regia: Ryuhei Kitamura, astro nascente del cinema nipponico, scelto da Kojima in persona per dirigere le nuove scene di TTS. Lo sviluppo dunque aveva sin da principio intrapreso un via alternativa rispetto ai soliti remake. L’idea era quella – citando Kojima – di “far scorre nuova linfa nel corpo di MGS”. Se però pure il corpo cambia, allora la questione si fa più complicata.
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Snake
Che cosa rende Metal Gear Solid un capolavoro? Il gameplay? Il carisma dei personaggi? L’atmosfera? La trama? Se avete risposto con una di queste caratteristiche (o altre affini) avete clamorosamente sbagliato. Vi servo due scusanti: o non giocate a MGS da diverso tempo, o di MGS non avete mai capito un tubo. La verità è che con MGS Kojima era riuscito a creare un gioco che fosse perfettamente bilanciato in ogni sua parte, un gioco dove ciascun elemento si fondeva armoniosamente ed organicamente con ogni altro. MGS è come una composizione musicale. Una nota tira l’altra, ed ognuna ha senso solo in rapporto con quella che la precede, con quella che la segue e, in definitiva, con il tutto. Ora: rimettere le mani su qualcosa che è già perfetto di suo è un azzardo. Metterla nelle mani di terzi è un errore. Metterla, infine, nelle mani di chi ha poca esperienza e capacità discutibili è pura follia. Per TTS, purtroppo, sono avvenute un po’ tutte e tre le cose. L’idea di fornire una nuova prospettiva per MGS non rappresenta un errore in sé, ma certamente è un’imprudenza: il rischio è quello di non riuscire più a ritrovare il punto di equilibrio. Nel caso di TTS, questo avviene un po’ a tutti i livelli. Nel gameplay, il forzato innesto delle azioni performabili in MGS2, crea inevitabilmente un contrasto con gli ambienti di gioco inizialmente pensati per MGS (nel quale ogni elemento aveva un suo senso e una sua funzione nell’economia del gioco). Gli scenari, difatti, sono rimasti sostanzialmente gli stessi, pur con leggere modifiche strutturali (nello Hangar del REX, ad esempio, le scalette a pioli sono state sostituite da normali scale, per rendere l’ambiente meno frazionato) e l’inserimento di alcuni elementi di contorno (ringhiere, armadietti). Queste
:RECENSIONI:
modifiche, però, non hanno alcuna incidenza sul gioco vero e proprio, ed in ultima istanza le nuove azioni non sono necessarie per poter portare a termine il gioco. In un paio di casi, è vero, possono fornire interessanti alternative al superamento di un ostacolo (i sensori IR nel Tank Hangar), ma di contro rendono il gioco estremamente facile anche a livelli di difficoltà più elevati, in particolar modo negli scontri contro i Boss (si veda quello con Raven nel Magazzino a Bassa Temperatura). Il risultato è quindi un gameplay assolutamente sbilanciato tra ciò che di cui è capace potenzialmente e ciò che in pratica non fa.
Knights
A monte di questo articolo ho voluto porre l’accento non solo sull’aspetto teorico dietro MGS, ma anche e soprattutto su quello pratico, effettivo, realizzativo appunto. Sotto il profilo artistico, MGS per PlayStation era ed è qualcosa di assolutamente stupefacente, sia per il modo in cui è stato curato, sia per i risultati che sono stati ottenuti. In primo luogo, la grafica. I limiti tecnici furono invece che l’ostacolo, lo spunto per un approccio artistico del tutto particolare. I modelli poligonali dei personaggi erano stilizzati, ma allo stesso tempo perfettamente caratterizzati dal loro design. Le texture, a loro volta, furono realizzate con una cura maniacale ed ancora oggi stupisce l’abbondanza dei particolari e la straordinaria attenzione al dettaglio (cui si aggiungeva una scelta cromatica fine ed oculata). Ogni singolo pixel era semplicemente al suo posto. Ma se questo è vero per MGS, non lo è altrettanto per TTS. Il comparto grafico di questo remake (assieme a quello tecnico) è stato, come già detto, seguito interamente da Silicon Knights. L’opera di ri-realizzazione era qualcosa di maestoso e di difficile, e per di più doveva fare i conti con i tempi di sviluppo. Come si fa quindi a pretendere da un Team giovane e poco più che alle prime armi, di portare a termine in modo soddisfacente il
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rifacimento di un capolavoro? La buona volontà non basta, purtroppo. Ecco dunque che, nonostante la supervisione dei grafici Konami, TTS presenta modelli poligonali di dubbia qualità artistica, texture non sempre all’altezza e scelte cromatiche opinabili. Molti, peraltro, sono i dettagli che si sono persi in questa conversione. Il fatto stesso che il livello artistico di TTS aumenti proporzionalmente con l’avanzare del gioco è un chiaro segnale del fatto che i SK abbiano seguito, durante lo sviluppo, un processo di maturazione (il Dock iniziale - così come l’Heliport - sono imparagonabili con gli originali). Tra l’altro questa mancata attenzione ai piccoli particolari (punto forte di MGS) investe anche altri aspetti della realizzazione del gioco. Ad esempio nel Briefing (in cui gli impeccabili disegni di Shinkawa sono stati brutalmente sostituiti da anonime scene in 3D), il timer del nastro riparte in ogni sezione da zero, quando invece in MGS – proprio a sottolinearne l’effetto-cassetta – esso riprendeva dall’ultimo EJECT del videotape. Non è stato risparmiato neanche il comparto audio, che si rivela non sempre all’altezza dell’originale (si veda il suono del soffocamento delle guardie), se non addirittura privo di alcuni elementi (il respiro di Snake quando indossa la Gas Mask). Un altro esempio di superficialità – e qui la colpa non va necessariamente ai SK - è rappresentato addirittura dal taglio di alcuni “tocchi di classe” kojimiani (l’interazione dei tasti dell’Equipaggiamento nella cut-scene nella Sala delle Torture o l’eliminazione della comica scenetta tra MeiLing e Snake nel Bagno delle Donne, ad esempio)2. A rincarare la dose, poi, ci pensano una serie di scelte di cattivo gusto come la nuova schermata di Game Over.
Dragon
Scavalchiamo ora il muro del gameplay e passiamo ad esaminare l’operato di Kitamura-san. Una cosa bisogna dirla subito: le animazioni, attraverso un superlativo lavoro di motion-capturing, sono quanto di meglio si sia visto fin ad oggi nell’industria del videogioco. Davvero. In MGS per PSOne, Kojima aveva adottato una regia equilibrata, ben dosata e senza brusche variazioni di ritmo. Kitamura, al contrario, per sua stessa natura registica tende alla spettacolarizzazione, al gesto iperbolico e d’effetto. Che MGS offra ampi spunti sotto questo aspetto
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è innegabile, ma non bisogna dimenticare che MGS è fatto anche di momenti drammatici, solenni e riflessivi. Ed è proprio in questo frangente che tutta la verve adrenalinica del regista nipponico mostra i suoi effetti collaterali. Calcando la mano su alcune scene, Kitamura non ha fatto altro che aggiungere pesi su uno dei piatti della bilancia: non solo alcune scene oltrepassano il limite dell’esagerazione ma spesso risultano fuori luogo o semplicemente inutili (l’abuso del bullet-time è un ottimo esempio). Ancor peggio è quando, per ricercare a tutti i costi la coreografia estrema, si finisce per cozzare contro la sceneggiatura e la caratterizzazione originale dei personaggi (basti vedere il confronto Meryl-Snake fuori della cella di Anderson o alcuni atteggiamenti di Gray Fox). Ma non è tutto. Kojima, forse sotto richiesta dello stesso Kitamura, ha voluto porre mano persino al copione, modificando e tagliando anche frasi divenute celebri per il loro impatto emotivo o per il loro significato (una tra tante, le parole di Fox: “But every time I looked at her, I saw her parents' eyes staring back at me...”). In ogni caso, affermare che la nuova regia sia un fallimento totale non sarebbe obiettivo. Kitamura è divertente: nessun dubbio a riguardo. La fantasia per le scene d’azione non gli manca di certo, e nemmeno una spiccata ironia. È per questo che Kojima l’ha scelto, non per altro. A tal proposito si potrebbe quasi dire che TTS è la parodia di MGS. L’unico problema è che molti lo ignorano. La colonna sonora, curata da Norihiko Hibino3 e completamente rivisitata, si presenta sfortunatamente come uno dei punti più bassi di TTS. In MGS (i cui temi furono composti da Kazuki Muraoka) i brani che accompagnavano il gioco e la trama avevano un denominatore comune: la solennità. Niente effetti techno, cambi di tempo o virtuosismi vari; le vere costanti erano i toni bassi, i riverberi e i cori pro-
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fondi. Musica semplice, ma altamente efficace (una su tutte: Enclosure). I momenti ricchi di pathos e di sentimento poi, erano accompagnati dalle prime, toccanti note di The Best Is Yet To Come. I pezzi musicali di Hibino, invece, non fanno altro che seguire in modo ottimale il nuovo non-ritmo dettato dalla regia kitamuriana, amplificandola ed enfatizzandola. Non c’è quindi da stupirsi se un unico, stonato ed anonimo brano accompagna i momenti più patetici del gioco; del resto è solo grazie al carico emotivo intrinseco nelle parole proferite dai personaggi che TTS riesce, nonostante tutto, ad emozionare. Come se ciò non bastasse, il doppiaggio – completamente rifatto - risulta in parte sotto tono rispetto all’originale: cambiati i doppiatori di Baker, Gray Fox e Vulcan Raven (quest’ultimo una spanna al di sotto del suo predecessore) e mutata l’interpretazione di alcuni personaggi (spesso la Naomi di TTS, sempre doppiata da Jennifer Hale, risulta molto differente da quella di MGS).
Lieto Fine…?
Come ogni favola che inizia con un “C’era una volta…”, anche quest’articolo non può che smorzare i toni con un sorta di lieto fine. Quello che ho descritto in questa recensione è quello che oggettivamente TTS non è, ma ciò che doveva essere. Che senso ha un remake che deforma l’originale, togliendo senza aggiungere, e risultando qualitativamente inferiore? Nessuno…sarebbe la risposta standard. Ma non per MGS, ovvio. In verità, chi non ha mai giocato all’originale troverà in TTS un gioco eccellente. Troverà un gioco eccellente perché TTS ricalca fedelmente MGS nei suo aspetti più immediati e superficiali (gli stessi che lo hanno fatto piacere praticamente a
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tutti) e ci aggiunge pure un gameplay più vasto e un IA avanzata. Sì: perché – per chi non lo sapesse – MGS è anche un ottimo gioco, oltre che uno straordinario capolavoro. Per quanto riguarda, invece, chi MGS per PlayStation l’ha giocato (forse per ben più di una volta) e ne conserva un buon ricordo, anche egli vedrà molto probabilmente in TTS un remake ben fatto. E magari pure più cool, con tutte le animazioni in motion-capture, bumpmapping, geometric self-shadowing, blur distance, esplosioni particellari e sonoro in Dolby Pro Logic II che si ritrova. Sì: perché - per chi non lo sapesse - MGS è anche un bellissimo film d’azione con un’appassionante trama fantapolitica, oltre che uno straordinario capolavoro. Poi ci sono quelli che MGS lo hanno vissuto e continuano a viverlo come un’esperienza catartica verso la perfezione. A loro TTS non piacerà, perché oltre a riviverlo nella memoria, a MGS ci giocano ancora, e imparano ogni singola volta che cosa significhi chiamarsi Metal Gear Solid.
Note
[1] Ora ex second-party, visto il recente distacco. [2] Sono presenti, in compenso, un paio di aggiunte interessanti. Ad esempio, dopo aver sconfitto Wolf nel Nevaio è possibile ascoltare il suo respiro affannoso dirigendo un missile Nikita nei pressi del suo corpo riverso sulla neve. Oppure è possibile sperimentare le reazioni di Meryl davanti ad una rivista osé. [3] Hibino ha curato anche i brani in-game di MGS2 (contenuti nel CD “The Other Side”) e si occuperà di quelli di Snake Eater.
[Ring è] Armiamoci e partite (a SOCOM2) «Ho appena finito di installarmi 25 metri di cavo da rete in giro per la casa. Nascosto dietro i battiscopa o sotto il pavimento in legno. È venuto un lavoretto ad opera d'arte. Il router l'ho già ordinato. I tempi di consegna e installazione (dicono al negozio)vanno da un minimo di 2 ad un massimo di 7 giorni. 7 perchè c'è la pasqua di mezzo. Finito tutto, mi viene fuori una lan con i controcoglioni. Gunny è lento ma inesorabile. L'acquisto di SOCOM2 attende solo che mi rientrino dal negozietto di fiducia un centinaio di euro per 6/7 giochi che ho messo in vendita usati. Diciamo 10 giorni. Preso quello, sono online anche con RS3 e GR. Se la deadline è da metà maggio in poi, ce la faccio tranquillamente. Emalord, tu ce la fai a conneterti per giocare a SOCOM? Mi accennavi a dei problemi per la distanza PC/PS2. aìehm...coff... (inno dei Marines in sottofondo) CHI CAZZO ALTRO DOVEVA GIOCARE A SOCOM2 IN QUESTA MAILING LIST?! RISPONDETE, LURIDISSIMI VERMI! COS'È CHE L'ERBA?!
FA
CRESCERE
Il sangue di Cangialosi! E NOI CHE FACCIAMO PER VIVERE?! Negoziamo! Negoziamo! Negoziamo! NON-VI-SENTO! Negoziamo!! Negoziamo!! Negoziamo!! CAZZONONVISENTOANCORA!!!!!! NEGOZIAMO!!! NEGOZIAMO!!! NEGOZIAMO!!! Gunny
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Finally Flops Crystal Chronicles [Final Fantasy Crystal Chronicles] di Gatsu «Eravamo 4 amici al bar» Gino Paoli, prima di convertire il suo gruppo al multiplayer Final Fantasy Crystal Chronicles, fondamentalmente, non è quello che promette. E badate bene, non parlo tanto della sua obiettiva distanza dalla struttura classica di un Final Fantasy qualsiasi, cosa ormai di pubblico dominio ma che potrebbe comunque cogliere di sorpresa l’utente meno informato. Mi riferisco invece al battage tramite cui Nintendo stessa l’ha spinto, e cioè come la definitiva prova del valore della connettività GC-GBA.
Genere Etichetta Distributore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:.
uso del gioco solo a chi possiede un GBA? Non esistevano alternative valide? La questione è controversa, ma mi permetto di rinviarla di qualche paragrafo, giusto per darvi una panoramica più precisa delle dinamiche di gioco. Va dato atto ai miei compagni di ventura, Federico “Fede” Scattolin e Daniele “Bistecca” Calzetta, che il loro stile di gioco (debitore di Diablo, Baldur’s Gate e simili) ha consentito ai difetti congeniti del titolo SquareEnix di emergere senza particolari problemi.
Action RPG Square-Enix Nintendo GameCube 2004 1-4 Europea
Ora, chiariamolo subito, giocare bene a FFCC significa poter fare affidamento su un team di altre tre persone, ognuna dotata di GBA più cavo di connessione. Il team con cui ho testato il gioco, Low I.Q. Collective, è composto in realtà di soli tre individui, me compreso, per insuperabili problemi logistici (insomma, non avevamo abbastanza GBA). L’impressione ricavata è che pur essendo piuttosto giocabile anche in questa situazione, FFCC necessita di almeno quattro giocatori per realizzare completamente il suo potenziale. Questi sono i requisiti base di FFCC, certo non semplici da soddisfare, ma che devono essere già acquisiti nel momento in cui metterete mano al portafoglio, per il semplice motivo che il single player diventa ingestibile dopo i livelli iniziali. La discussione nata a proposito di questi “requisiti minimi” è piuttosto interessante, soprattutto visto che, ad un’analisi approfondita, non appaiono così imprescindibili come potrebbero invece essere la plancia di comando di Tekki o le maracas in Samba De Amigos. In parole povere: c’è davvero un valido motivo per consentire il corretto
FFCC parte da alcune singolari premesse narrative: il mondo è ricoperto dal Miasma, un gas mortale che colpisce esclusivamente le razze civilizzate fra cui i giocatori sono tenuti a scegliere il proprio avatar (Clavat, Lility, Yuke e Seliky). L’unica forza in grado di proteggere i villaggi viene dai Cristalli, minerali magici che impediscono al gas di propagarsi in determinate aree. Poiché il potere dei Cristalli deve essere periodicamente rinnovato, carovane di avventurieri partono a rotazione dai vari insediamenti alla ricerca della Mirra, liquido incantato in grado di donare nuovamente forza e splendore ai Cristalli. Tutto questo per giustificare un gameplay sostanzialmente ancorato allo hack’n’slash di diableriana memoria, che si svolge di volta in volta in dungeon diversi1 alla fine dei quali attende un Albero della Mirra. Il gioco si dipana dunque in maniera abbastanza lineare, dividendosi in 8 anni (capitoli) diversi, all’interno di ciascuno dei quali si è tenuti a raccogliere tre gocce di Mirra prima di far ritorno al villaggio. Il gioco, concentrato quasi esclusivamente
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in queste sezioni di combattimento, viene inframmezzato da alcune divertenti scenette fra uno spostamento e l’altro (che portano avanti una vaghissima ed elementare trama di fondo), e alcune attività alternative di cui i giocatori sono tenuti ad occuparsi per necessità (compravendita di oggetti, realizzazione di armi) o svago (ricerca delle tane dei moguri, in grado di dare accesso, previo collezione di determinati “mogubolli”, ad un orripilante minigame sulla falsariga di Super Mario Kart, sparato direttamente sullo schermo del GBA). Parentesi godibile è anche il mantenimento della corrispondenza con la famiglia che avviene ogni volta che un dungeon viene portato a compimento. In sostanza il giocatore è tenuto a rispondere a tono (da una rosa di ben due possibilità) alle missive provenienti da casa: a seconda del grado di soddisfazione dei familiari, degli oggetti inviati, e del lavoro svolto dal parentado, è possibile ricevere, sempre tramite missiva, item più o meno utili. Inutile puntualizzare che il ruolo di postino viene svolto da un moguri, come la Moguposta di FFIX ci aveva abituato. Più in generale, i rimandi al nono capitolo della serie sono numerosi ed estremamente gradevoli, tanto più che il character design e la modellazione degli ambienti, in assoluto l’aspetto migliore di FFCC, pescano pesantemente dallo stile scanzonato che ha caratterizzato le sottovalutate avventure di Zidane e soci. Il sistema di controllo è singolare e non completamente riuscito. Ogni giocatore controlla il suo avatar tramite il GBA: la crocetta direzionale per spostarsi, A per confermare l’azione selezionata/parlare, B per raccogliere item/posarli/ lanciarli/trasportarli, i dorsali L/R per scorrere l’elenco circolare delle azioni performabili, SELECT per passare dal controllo a video a quello su GBA e viceversa. Ogni personaggio ha un certo numero di slot, ampliabile tramite manufatti, ciascuno dei quali può essere “riempito” con azioni od oggetti presenti nell’inventario (ad esempio: Attacca, Difenditi, Carne, Thunder). Tramite L ed R è possibile ruotare lo slot attivo e selezionare in tempo reale l’azione che si vuole compiere o l’oggetto che si intende utilizzare. Durante l’attacco, tenendo premuto A, è possibile sferrare un colpo più potente, che va direzionato tramite una sorta di mirino (Circolo di Mira) che compare sotto i piedi del personaggio e può essere spostato entro un determinato raggio. Le magie, simil-
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mente, si raccolgono come oggetti e vengono castate tramite il già citato Circolo di Mira. L’originalità di questo sistema, apprezzabile solo in multiplayer, è che i vari Circoli di Mira sono sovrapponibili, e quindi per ottenere un Thundara è necessario che due giocatori uniscano i loro Circoli con Thunder selezionato. La possibilità di linkare varie magie fra loro per crearne altre (tipo: Fire + Blizzard = Antima), o di collegare magie e attacchi rende il combattimento frenetico ma non privo di una certa tattica. A rovinare tutto, oltre ad una certa macchinosità per la selezione degli slot attivi e l’inutilità di alcune azioni (Difendi è totalmente trascurabile, e non si può nemmeno disattivare), ci pensa il Calice di Cristallo, una coppa contenente la Mirra che protegge i giocatori dal Miasma creando una “cappa” all’interno della quale i personaggi possono muoversi liberamente. Uscire dal raggio del Calice significa sottoporsi volontariamente ai vapori mefitici del gas, con conseguente perdita di energia. L’elemento Calice, essendo stato introdotto probabilmente per mantenere il gruppo unito e scongiurare divisioni che su schermo sarebbero state impossibili da gestire (c’è pur sempre la necessità di mantenere tutti i giocatori visibili), riduce drasticamente l’area all’interno della quale i personaggi possono agire con sicurezza, impedendo tattiche di più ampio respiro e costringendo inevitabilmente uno dei giocatori a trascinarsi dietro questa fottuta coppa che, oltre a rallentare atrocemente l’azione, va continuamente spostata per star dietro alle ondate nemiche, tutt’altro che statiche. Male necessario? Non credo proprio, come dimostra The Legend Of Zelda: Four Swords +, che fa switchare l’azione dal televisore allo schermo del GBA a seconda della posizione del giocatore…era troppo chiedere una cosa del genere2?
Ring#12
L’uso dello schermo del GBA non è limitato ai minigiochi, ma è possibile durante tutto il corso della partita tramite la pressione di SELECT3, sia per questioni di gestione del personaggio (inventario, status…), sia per l’uso del Radar, assegnato casualmente ad ogni giocatore all’inizio di un dungeon e variato ad ogni cambio di locazione. I quattro tipi di Radar prevedono la mappa del luogo, la localizzazione dei nemici, quella dei tesori, e la scheda/status dei nemici abbattuti (con segnalazione di HP, tesori e punti deboli). Questo sistema è studiato per favorire la collaborazione e il dialogo fra i membri del gruppo, e salvo eccezioni funziona discretamente (certo, se quello che ha la posizione dei mostri si dimentica di dirvi che state andando a ficcarvi in un nido di Orchi Assassini Omega sono cazzi acidi…). Intacca invece lo spirito di gruppo l’assegnazione di missioni specifiche per ogni personaggio ad ogni nuovo dungeon. Se il sistema sulla carta è interessante, e premia chi riesce meglio nel suo compito con la “prima scelta” dei manufatti rinvenuti dal gruppo durante l’esplorazione4, in realtà rischia spesso di squilibrare il gioco e di favorire piuttosto la competizione fra compagni. Per chiarirci, un paio di episodi di vita vissuta: se uno ha come missione “Raccogli tutti gli oggetti”, e l’altro “Non raccogliere oggetti”, è chiaro che l’assegnazione del punteggio finale risulterà ambigua, senza contare che tutti gli altri giocatori rischiano di rimanere senza nessun item a causa della razzia portata avanti dal primo. Oppure: se la missione di un giocatore è “Subisci danni magici”, non sarà raro vederlo rincorrere i Meteor lanciati dagli avversari piuttosto che averlo come supporto durante la battaglia (con relativi strascichi di insulti e morti collettive a due passi dal boss a causa della sua latitanza). Oltre a questo, il sistema delle missioni personali vanta un computo del conteggio finale spesso insondabile, e sospettosamente tendente al circolo vizioso.
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Oltre a tutti i difetti elencati, FFCC colpevolmente ci dà l’opportunità di avanzare ipotesi maliziose: ma tutto quello che fa questo gioco, non si poteva fare anche con una modalità online, con ogni giocatore seduto allegramente a casa propria? Certo, avere i propri compari di fianco forse è un’altra cosa, ma resta il sospetto che Crystal Chronicles, nell’”affare connettività”, ci sia stato ficcato a forza…
Note [1] In realtà durante il gioco alcuni dungeon possono essere affrontati più volte, sia perché con il passare degli anni si aprono sentieri totalmente alternativi, sia perché riaffrontando zone già visitate è comunque possibile recuperare soldi e manufatti utili al power up del personaggio. [2] Forse si, visto che lo scambio di dati GC-GBA non è velocissimo, ma ho il dubbio che sia un problema del titolo SquareEnix, e non un difetto della connessione in generale. [3] Durante il periodo in cui il giocatore è impegnato su GBA, il suo personaggio a schermo segue autonomamente gli altri. [4] In FFCC, il potenziamento dei personaggi non avviene tramite level up ma tramite l’acquisizione di manufatti. Quando un manufatto viene ritrovato, ne prende temporaneamente possesso il legittimo scopritore. Alla fine del dungeon, però, tutti i manufatti vengono messi in una cassa comune e ogni giocatore ne può scegliere soltanto uno. La graduatoria di scelta dipende dal punteggio che ogni giocatore ha totalizzato relativamente alla missione personale che gli era stata assegnata ad inizio dungeon.
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Ring#12
La mia casa di campagna [Harvest Moon: Friends Of Mineral Town]
[Harvest Moon: A Wonderful Life] di Gatsu «È quasi più divertente non fare nulla» Meg, la sorella del Gatsu, dopo una lunga sessione ad Harvest Moon su GC.
La stalla di HM: AWL (in cui convivono tranquillamente pecore, mucche e cavalli) è afflitta da una inspiegabile colorazione psichedelica. Forse c'è dell'LSD nel fieno.
«È proprio il paesaggio intero della regione, molle e materno, che funziona da avvolgente nido protettore verso l’esterno, avvolge e stempera gli impeti dei protagonisti, trasmette loro un’assorta saggezza: è l’elemento femminile, grembo che assorbe – e imprigiona o nutre, secondo i casi – o entrambe le cose, da cui è inevitabile fuggire, ma a cui è inevitabile ritornare» Giovanni Comisso parla di Friends Of Mineral Town in evidente stato confusionale.
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alle mie parti di contadini ce ne intendiamo. A rinsaldare questa certezza concorrono certo case e vialetti lastricati di radicchio trevigiano, ma anche un sentimento diffuso e comune, perché, come dice Guido Piovene,“la terra per i veneti è una verità”. E se pure ai giorni nostri rivendicare radici agresti causa spesso l’ilarità degli astanti, non credo di dovervi ricordare che con ogni probabilità pure fra i vostri antenati riposano braccianti, mezzadri e servi della gleba.
Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:.
Gestionale Ubi Soft Natsume CG / GBA 2004 1 Europea
Sarà che se ho voglia di mangiare un pomodoro esco un attimo di casa e vado a prendermelo nell’orto, ma Harvest Moon non esercita su di me tutto il fascino che probabilmente esercita su un bambino giapponese medio, nato e cresciuto in un appartamento/bara e desideroso di passare le vacanze estive in campagna dal nonno. Sarà anche che gli Harvest Moon di cui stiamo parlando, A Wonderful Life e Friends Of Mineral Town, sembrano sviluppati da un contadino della Bassa Padana del periodo 15-18, tanto sono distanti dalle conquiste del gameplay degli ultimi anni e da un profilo tecnico accettabile. Ruvida metareferenzialità bucolica? Dubito.
AWL e FOMT sono titoli gemelli, sostanzialmente sovrapponibili se si escludono le evidenti differenze tecniche (che giocano inaspettatamente a favore del titolo per GBA), tanto che Natsume ha previsto anche una limitata forma di connessione fra i due giochi, utile per scambiare item e poco altro. Tralasciando qualche marginale differenza nella trama/ambientazione, i due HM propongono la stessa situazione (il protagonista deve costruire un impero agricolo partendo da una fattoria sgangherata, farsi una famiglia e veder crescere il successore), le stesse possibilità d’interazione, e un set di procedure che conducono lungo l’illuminata via dell’agricoltura essenzialmente equiparabili. Il fulcro del gioco sta tutto nella gestione ottimale della fattoria e degli “sbocchi commerciali” che ne derivano. Il nostro contadino super deformed dovrà quindi preoccuparsi di seminare vari tipi di piante, innaffiarle giornalmente, mantenere il campo pulito, crescere a dovere mucche, cavalli, pecore e galline, vendere latte, lana, miele e uova ricavati dagli animali, coccolare le sue bestie, arrotondare lo stipendio con la pesca e dedicarsi sporadicamente a qualche attività secondaria, come cercar moglie o andare ad ubriacarsi al bar. Fine. Harvest Moon è questo, e poco altro. O almeno, nel magico studio di Natsume, questo è quello a cui pensano quando immaginano la vita di campagna. Niente ore passate a spalare letame, appassionanti pomeriggi a scuoiare maiali e ad insaccar salami, niente scorribande per il pollaio nel tentativo di tirar il collo a qualche gallina. Ora, soprattutto se privato di alcuni
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HM: FOMT vanta almeno un charachter design decente, e un profilo tecnico accettabile. Scarsa cura è comunque riposta nei dettagli, come i menù (scarni e mal organizzati) o i controlli (scomodi). Inoltre non è stato fatto un lavoro sufficiente sotto il profilo della luminosità: quando cala la notte sembra quasi che l'illuminazione laterale del GBA SP sia spenta!
crudi risvolti, il problema principale di un simulatore di contadino dovrebbe essere quello di ovviare ad un fatto oggettivo e incontestabile: la vita degli agricoltori, è a) estremamente dura b) spesso priva di avvenimenti degni di rilievo Al che ci si domanda cosa possa mai aver escogitato Natsume per evitare che la routine dei lavori quotidiani (sfiancante nelle prime fasi, leggermente più sopportabile quando la fattoria inizia ad animarsi) venga presto a noia. La risposta è niente, o poco ci manca. Perché, se per quattro secondi circa è divertente vedere alla televisione le previsioni del tempo o una nuova puntata di Mechabot Ultraror (rigorosamente messa in scena con l’alternarsi di due schermate fisse più testo a schermo), l’assistere alle vicende amorose dell’infermiera del villaggio che fatica a dichiararsi al dottore, o stare a sentire le parabole del prete senza avere nessun diritto di replica (sarebbe bastato un pagano: “Viva Satana!”) diventa presto tedioso e insopportabile.
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Per non parlare dello scorrere del tempo: in AWL ci vuole un anno prima che succeda qualcosa di rilevante (la possibilità di sposarsi), e poi via in progressione geometrica. Per di più le interazioni con l’ambiente e i personaggi sono limitatissime e non è sostanzialmente possibile far nulla di quello che può realisticamente venire in mente di fare ad un giocatore medio. Per intenderci, se il gioco l’avesse supervisionato Kojima, sarebbe stato possibile interagire con vostra moglie al di là del saluto mattutino, sabotare i campi altrui, dare la caccia allo Yeti che infesta il villaggio, vendere la merce alle vostre condizioni, litigare con qualcuno, partecipare ad una discussione decidendo autonomamente in che direzione portare la conversazione o dilettarsi in altre faccende strambe o insolite. HM invece è un concentrato melenso di politically correct e di volemose bene, tanto che le mucche si possono mettere incinta grazie alla medicina magica, è impossibile ubriacarsi (fatto imprescindibile per ogni contadino che si rispetti) o dedicarsi ai passatempi storicamente affermati presso la popolazione rurale (es: elaborare il motorino o andare in discoteca la domenica pomeriggio). I giorni si susseguono uguali, monotoni, spezzati fortunatamente ogni tanto da qualche evento popolare, tipo un torneo ippico o un festival floreale. I pochi minigiochi presenti sono di rara bruttezza (orribile il gioco dei triangoli in AWL), e quando non lo sono si limitano ad un basico “pigia più veloce che puoi”. Se si esclude la possibilità di fare la cacca e la pipì, l’unica consolazione per il giocatore affranto è il collezionismo sfrenato di utensili agricoli, fino al raggiungimento dello stadio “Contadino Omega”. Abbiamo annaffiatoi che contengono molta più acqua del normale, falci estremamente rapide da utilizzare (è un eufemismo, la falce basica è così lenta che mentre il vostro eroe taglia un ciuffo d’erba potete farvi tranquillamente la barba), macchine per mungere, zappe potenziate, complessi apparecchi sforna-formaggio e altre amenità del genere. L’aspetto tecnico della versione GC è pessimo, tanto che un N64 non avrebbe faticato a riprodurre il penoso spettacolo di AWL, piagato inoltre dalla mancanza dei 60Hz (con conseguenti bande nere sopra e sotto) e da un comparto sonoro scandaloso, soprattutto per quanto riguarda gli effetti. Meglio ne esce FOMT, che gode di un aspetto simile a quello del pregevole Golden
Ring#12
Sun, e di un reparto audio nella media dei giochi GBA. Quest’ultimo, avvalendosi della possibilità di essere assunto a piccole dosi, è lievemente più tollerabile dell’episodio GC. Ambedue i titoli sono presentati in un inglese inusuale e ricco di errori di traduzione (inaccettabili quelli riguardanti la connessione GC-GBA, che impediscono la corretta comprensione della procedura), presentandosi inoltre con i manuali di istruzioni meno utili della storia dei package (quando invece sarebbe stata opportuna una guida approfondita alle numerose feature del gioco). “A chi no vol far fadighe, el teren ghe produse ortrighe”. Mai proverbio fu più appropriato.
Questa immagine proviene da Harvest Moon: Country Road To Zero Branco.
>>Stop’n’Go>> (10 secondi al Box) ~
Forbidden Siren ~ Finalmente mi sono deciso a prenderlo in mano. Ho fatto 5 missioni. Ordunque, è di una difficoltà psico-incredibile, quasi socio-epilettica. Sicuramente è un gran bel gioco. Però non so quanto reggerò. Troppa strizza? neanche tanto. IMHO non sono gli shibito a fare paura. Gli shibito sono dei poveracci, ti viene da dargli 20 centesimi e alla fine gli rifili una badilata in faccia. E poi, un po' come in Project Zero, la paura regge finché è paura dell'ignoto. Quando razionalizzi e pensi che se ti va male muori perché un barbone ti rifila un colpo di lupara, più che paura si prova autocommiserazione. Non sono gli shibito a disturbare, è la situazione. Non si sa dove cazzo andare, non si vede una fava neanche con la luce accesa, vulnerabilità + impotenza + difficoltà piro-maniaca confezionano un cocktail spossante. In genere si ha paura del dolore. Qui non si teme il dolore (quando mi sgamano/ammazzano mi girano le balle, ma non mi sento morire), ma si prova dolore nel temere. Cmq bello davvero. IMHO sono questi i giochi d'autore, non Ico o Rez che utilizzano il gameplay del VG in maniera del tutto pretestuosa per poi abbinargli suggestioni audiovisive esprimibili anche attraverso altri medium. Però a volte mi chiedo: se questo è un gioco bellerrimo, ma probabilmente non reggerò più di qualche sessione (peraltro molto sofferta), mentre Max Payne 2, prodotto onesto ma solo discreto, me lo trangugio tutto d'un fiato dall'inizio alla fine, siamo sicuri che il gioco migliore sia il primo? Io sì, però qualche perplessità mi rimane. Ho voglia di Painkiller. Cryu
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Ring#12
Phantasy Star Offline [.Hack//Infection] di Gunny Nessuno si aspettava che .Hack, la serie di RPG prodotta da una Bandai improvvisamente ambiziosa, vedesse mai la luce nei mercati PAL. L’annuncio della conversione invece, arrivato ormai un anno fa, imponeva alla stampa europea di dedicare attenzione al mastodontico progetto multimediale di Bandai, composto da una serie di quattro videogiochi con allegati altrettanti OAV di circa 45 minuti, un’intera serie animata e un libro (scritto peraltro da Kazunori Ito). Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:.
Il giocatore diviene Kite, l’avatar usato in The World da un ragazzino giapponese; un newbie come tanti, introdotto ai principi basilari del gioco dal più esperto amico Yasuhiko (che presto, sotto gli occhi impotenti di Kite, rimarrà vittima di un traumatico avvenimento…). Esiste addirittura un forum interno al videogioco, che svolge la doppia funzione di tutorial e di elemento aggiuntivo nella resa della simulazione di gioco online. La sensazione, tra smiley e quote beffardi, è davvero curiosa e affascinante. Il problema è che poi a The World bisogna anche giocarci.
RPG Bandai Interno PS2 2004 1 Europea
Nell’attesa di una completa valutazione dell’intero corpus, quello che ci accingiamo ad intraprendere è un processo di immedesimazione. Ring si finge l’acquirente misterioso. Finge di avere i suoi 60 euro in tasca, di avere alcune ore da dedicare e di essersi incuriosito a questo RPG giapponese di cui alcuni dicono un gran bene.
Il primo impatto con il videogioco è intrigante. Le caratteristiche distintive di questo curioso progetto sono immediatamente percepibili. Il giocatore viene proiettato inizialmente su quello che pare essere il desktop di un computer futuribile (2009, stando a quanto viene detto nello OAV), da dove può controllare la sua posta elettronica, regolare alcune impostazioni cromatico/grafiche (alcune sbloccabili nel corso del gioco) e accedere ad un misterioso MMORPG noto come The World.
Il primo impatto con The World (all’inizio nella città Mac Anu) è micidiale: ambientazioni poligonalmente scarne e ricoperte da texture di rara bruttezza. Animazioni sconcertanti; Il più brutto effetto d’acqua a memoria di utente PS2.Se questo è un MMORPG del 2009, allora tempi bui attendono il mondo dei videogiochi. Ma Ring non si è mai imputata in stroncature dettate da mere valutazioni tecniche. Quindi, forse anche per riaversi momentaneamente dallo shock dell’impianto grafico, decide di saggiare la giocabilità di .Hack://Infection. Dopo alcuni minuti passati nella città (una sorta di lobby con tanto di negozi, depositi e banca, sul modello di quanto visto in Phantasy Star Online), e dopo aver constatato una volta di più la cura di Bandai nel rendere plausibile la sua simulazione di simulazione, tramite dialoghi surreali su server bloccati e punti esperienza con gli altri giocatori che gironzolano nei pressi, l’acquirente misterioso si avvia verso il campo di battaglia. L’accesso ai diversi scenari viene regolato da un sistema di tre parole
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in codice che possono essere scelte in modo specifico (per effettuare visite utili soprattutto al progredire narrativo) oppure assemblate a caso, ottenendo livelli sempre diversi per darsi all’utile pratica del levelupping. Una volta ripresosi virilmente da una seconda martellata genitale (portata con vigore fabbrile dal dettaglio grafico delle locazioni di combattimento), l’acquirente misterioso si dirige verso dei dischi di luce dorata, che scopre presto essere dei portali presso i quali appaiono i nemici. Alcune ore di gioco bastano a valutare le caratteristiche di un sistema di combattimento non privo di una sua complessità (soprattutto da quando si rendono disponibili, grazie agli sviluppi della trama, dei personaggi di supporto come Blackrose e Piros), ma radicalmente viziato da una gestione demenziale della telecamera e da un design dei nemici di criminale monotonia. Le ambientazioni in sé, inoltre, non sono che degli sterminati deserti cosparsi di architetture sempre uguali a se stesse, prive di un orizzonte che non sia un bitmap di rara bruttezza. Il quale peraltro viene letteralmente spiattellato in faccia al giocatore, che lo vede pochi metri al di là della soglia di un fogging impostato su parametri milanesi. Ma queste sono complesse valutazioni da pseudo-giornalismo, e noi siamo semplicemente l’acquirente misterioso. Che, più sinteticamente, penserà: “si vede poco. E quel poco fa schifo”. Ci si può consolare cullandosi nella illusione di vissuto fittizio di cui si parlava poc’anzi. Ci si può soffermare su un trama interessante (ma comunque incompleta vista la sua distribuzione nell’arco di una quadrilogia), o su un character design comunque vivo ed interessante, opera di Yushijuki Sadamoto (Neon Genesis Evangelion). Ma la realtà è che, anche chiudendo un occhio sullo scempio tecnico/grafico di una PS2 mai così umiliata, .Hack://Infection è un videogioco incompleto e gravato da pesanti carenze strutturali e di design. Il giocatore di .Hack ha di fronte una scelta: può decidere di fidarsi totalmente di un progetto multimediale complesso e per nulla privo di punti di interesse: per quanto l’idea di un MMORPG pericoloso per chi lo usi non sia una novità (vedi Lain), è certamente curiosa la sua applica-
:RECENSIONI:
Ring#12
zione ad un videogioco vero e proprio. Oppure può giungere alla conclusione che neppure il più affascinante dei progetti multimediali può giustificare un esborso finale di oltre 300 euro. Perché, se vorrete avere un quadro veramente completo della complessa struttura narrativa del mondo di .Hack e apprezzare realmente ciò che esso ha da offrire, i soldi che dovrete spendere saranno all’incirca quelli. Ma l’acquirente misterioso non ha abbastanza tempo, né abbastanza soldi da dedicare ad un gioco che sembra girare su un Dreamcast sfruttato male, animato da un team di modders da garage, pesantemente viziato nella sua componente prettamente ludica, monco (per ovvie ragioni) anche in quello che è chiaramente il suo punto di forza, la componente narrativa. Consola solo in parte la presenza del pregevole OAV (Hack://Liminality), ambientato nel mondo reale esterno al gioco e incentrato sui malefici effetti di The World e sul potere occulto all’origine della vicenda.
L’acquirente misterioso è comunque deluso. Spende una sessantina di euro, e si aspetta di ritrovarsi tra le mani un prodotto completo, in grado di coinvolgere e soddisfare in modo totalmente autonomo. Fosse stato venduto a prezzo ridotto, probabilmente il giudizio su questo gioco ridotto sarebbe stato più incoraggiante. Ma al di là di un naturale interesse per una serie certamente origi-
nale e intrigante, Ring non può esimersi dall’eseguire un confronto fra questo gioco incompleto ed altri RPG giapponesi venduti ad un prezzo analogo o addirittura inferiore: Final Fantasy X, Xenosaga, Skies of Arcadia o Dark Chronicles. E non può esimersi dal sottoscriverne il conseguente, impietoso verdetto.
:Polemiche Videoludiche:
Il Bestiario Davidiano a cura de Il Davide Videoludico Cari affezionati lettori, questo è il primo numero del Bestiario e, sarà l’emozione, sarà l’aria, sarà il caffè, ma non riseco qausi a btterae crrotteamnete su qeutsa tsateira. Quindi decido di pagare un albanese che scriva per me. Voglio innanzitutto mettervi a parte di alcuni strani, incredibili scherzi del Caso. Coincidenze tali che al confronto la pioggia di rane è un evento più comune dell’alta marea. Sto parlando del bizzarro evento delle recensioni simili. Prendete ad esempio la recensione di Forbidden Siren che trovate su www.consolenetwork.it. Be’, che diamine. È veramente molto simile a quella scritta da Hob sul precedente numero di Ring. Poi visto che ci siete fate un giro su gameplus, interno Fatal Frame 2, quindi tornate su Ring 11 e checkate la teokratika review dello stesso gioco. Incredibile!
Ma se proprio vogliamo escludere le coincidenze, non possiamo che arrivare ad una drammatica conclusione…
Zelda è sviluppato dalla WETA Digital. Nico è stato cancellato per mancanza di tette. Adesso possiamo tornare a giocare?
RING COPIA! Buuuh! Vergognatevi ringoglioniti! Qualcuno chiami Staffelli! Okay, passiamo ad altro. Dice che in questi giorni c’è stato l’ettré. Da inviato ringofilo a Los Angeles ho scritto questo esauriente resoconto alla redazza tramite sms… Snake Eater avrà anche una trama. Le batterie di PSP si scaricano subito dopo il boot. Nintendo DS ci affrancherà dal premere start per visualizzare la mappa. Miyamoto ha completamente perduto il cervello. Fable si fa via via più deludente e prossimamente lo vedremo ridursi ad un platform 2D.
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Passiamo ad altro ancora. Leggiucchiavo su Nextgame la recensione di Transformers e ho trovato questo ottimo commento… «è sufficiente in realtà condurre in porto la prima missione per rendersi conto del sopraffino lavoro di level-design sfoggiato da ognuno dei sette livelli disponibili» Ahò troppo fico. Siccome il primo livello è bello, allora lo sono anche gli altri! Se avete perle videoludogiornalistiche da segnalare, scrivete a posta@project-ring.com. Risponderò a tutti!
:RECENSIONI:
Ring#12
Provaci ancora Sam
[Splinter Cell: Pandora Tomorrow]
di Gunny Il Pescator Cristallizzato
Il Pescator Ritexturato
Deh, il progresso. Rosa assai spinosa, il progresso. Ci sono plotoni di videogamers che non tardano ad esprimere disagio e costernazione non appena avvertono la sensazione che un sequel non dica nulla di nuovo. E questo è un pingue dato di fatto. Ma ci sono legioni di videogamers che preferiscono affidarsi a brand conosciuti, mentre spendono una cifra (60-euri-60) sufficiente a nutrire per alcuni giorni un villaggio dell’Eritrea. E questo è un assai più pingue dato di fatto.
Tutto-come-prima. L’involucro grafico delle nuove peripezie di Sam è essenzialmente analogo a quello dell’originale Sprinter Cell. Gli effetti di luce sono sempre gradevoli, ma hanno perso il profumo della novità. Le texture sono di qualità simile al prequel: ovvero inferiori ad un gioco Xbox di lancio come Halo. Nell’era di Ninja Gaiden e Otogi 2 è naturale convincersi che da un Xbox sia giusto e doveroso ricavare di più. La stessa considerazione vale per l’operato di Ubisoft dal punto di vista della complessità poligonale: assolutamente ordinario il lavoro svolto nella modellazione di Sam e dei terroristi. Non sono state apportate sostanziali innovazioni alla fisica: l’interazione con l’ambiente rimane limitata a quegli specifici oggetti (lampade, mine, sensori…) che già nella scorsa edizione avevamo imparato a bersagliare. Nemmeno le animazioni convincono: ancora troppo artificiali, legnose, mal collegate. Infastidisce, in gioco tanto atteso, assistere alla levitazione orizzontale con cui Fisher raggiunge una rampa di scale, da posizione accovacciata, senza muovere i piedi. E infastidisce, in gioco tanto attesto, poter restare innaturalmente accovacciati sopra il poggiaschiena di una sedia di legno in quanto l’engine fisico la considera una superficie condivisa con il tavolo. Poi di queste cose a volte ti dimentichi: capita che alcuni livelli di SC: Pandora Tomorrow (L’Ambasciata in Indonesia, Gerusalemme…) siano scenograficamente davvero ben realizzati e avvolgenti. Il sonoro in senso nudo e crudo aiuta l’immedesimazione; a differenza di un certo stealth-game giapponese, che prediligendo la spettacolarità si premura di fornire ogni fase di gioco di una propria componente musicale, Ubisoft preferisce lasciare che il giocatore si immerga nella dimensione sonora del luogo rappresentato. Un approccio diverso, né migliore né peggiore. Certamente efficace, data l’attenzione che spinge a dedicarsi alla silenziosità e all’individuazione delle minacce circostanti tramite l’ambiente Dolby Digital 5.1.
Il mercato tende a premiare il conservativismo secondo il modello “lavandino ostruito dai peli”. Sequels e add-ons si Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:. Stealth-Action Ubi Soft Interno Xbox 2004 1-4 Italiana
accumulano nel catino, formando una massa sempre maggiore di materia omogenea/inorganica/amorfa. Quando il palato del pubblico è saturato, il tappo di peli cede alla pressione (*orribile rumore gorgogliante*), e le vendite cominciano a crollare. Il lavandino di casa Fisher al momento è lungi dall’essere sovraccarico. La serie è relativamente giovane, il pubblico piuttosto entusiasta; il brand è in salute. È forse per questo (per la fiducia nella salute del brand) che Ubisoft sembra intenzionata a sfruttare ogni possibile margine di guadagno, rinunciando a grosse rivoluzioni e cavalcando l’entusiasmo creatosi attorno alle gesta del suo personaggio più sanguefreddico. E a giudicare dagli esiti commerciali riscontrati, è facile immaginare il ghigno satanico con cui i capoccia di Ubisoft nel loro ufficio – accarezzando senza dubbio un gatto bianco accovacciato sulle ginocchia – andranno ripetendosi: “l’evoluzione è un’opinione” (*orribile risata gorgogliante*).
Il Pescator Alcolizzato Il sistema di controllo di Sprinter Cell: Pandora Tomorrow è (ma và) lo stesso di Sprinter Cell. Dicendo questo non si sottintende ‘l’ossatura del sistema di controllo è analoga’. Non si intende nemmeno ‘è un perfezionamento’. No no, è proprio lo stesso. Con tutti i difetti e i pregi del caso.
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I pregi: il sistema di controllo di SC, finché le forze nemiche non scoprono Sam, permette una gestione comoda e precisa dei movimenti e delle azioni. Le inquadrature regolabili sono molto pratiche per esplorare l’ambiente circostante laddove un certo stealth game giapponese soffre talvolta di alcuni problemi di ‘coscienza tattica’ a causa delle sue spettacolari ma ravvicinatissime inquadrature programmate. Il robusto controller Xbox, tramite le ottime leve analogiche e gli eccellenti grilletti, offre una solida sensazione di controllo su tutto quello che avviene. Un paio di nuovi gadget fanno la loro comparsa, senza alterare il buon equilibrio creato con il gameplay di SC. È casomai avvertibile una lieve attenuazione della difficoltà: a mio parere positiva, dati gli eccessi di frustrazione patiti in alcuni punti del primo episodio. La linearità dell’esperienza ludica è assoluta e priva di scampo. L’avanzamento è leggermente più vario rispetto al prequel, che non offriva mai più di due/tre alternative e che puniva sistematicamente il giocatore fino alla scoperta del trucco giusto. Il parere di chi scrive è che sia più gratificante poter esercitare in modo pieno e in ogni circostanza un ventaglio di azioni magari più ridotto, piuttosto di dover imparare a memoria un centinaio di mosse diverse, quando poi il loro utilizzo è tirannicamente circoscritto a quei due-tre punti specifici nell’arco del gioco. Ma è solo il parere di chi scrive.
I problemi – quelli seri – cominciano ad emergere quando Fisher è costretto ad usare le maniere forti. Quello che fino a qualche secondo prima era un sistema di controllo vicino alla perfezione, precipita verso l’ingestibilità e la confusione. Laddove un certo stealth game nipponico, dopo la scoperta da parte dei nemici, costruisce delle situazioni gestibili ed emozionanti (situazioni dove in nemici dimostrano un'intelligenza artificiale nettamente superiore a SC, muovendosi da brave forze speciali), SC si trasforma in un caos nel quale i controlli di Fisher si rivelano drammaticamente mal bilanciati. I matusalemmici tempi di rotazione della telecamera impediscono spesso di capire da dove provengano i colpi avversari, e la drammatica lentezza con cui Sam Fisher prende la mira con le proprie armi, dal canto suo, è alla base di situazioni piuttosto comiche… Il reticolo di mira ci mette 3-4 secondi a stringersi: un uomo che si suppone il top mai prodotto dalle forze speciali dovrebbe essere preoccupato dal non riuscire a centrare un bersaglio umano a due metri di distanza in un tempo inferiore a 3-4 secondi.
:RECENSIONI:
La discutibile rappresentazione dei danni provocati lascia spesso perplessi: in un gioco che insegue il ‘realismo senza compromessi’, è surreale che un terrorista sia ancora in grado di correre e sparare tranquillamente dopo aver subito l’impatto di due/tre proiettili calibro 5,56 NATO al torace. Il risultato è che si finisce sempre per sparare una quindicina di colpi a bruciapelo contro nemici che non fanno nulla per mettersi al riparo, che sparano solo da un metro di distanza, e che non godono di una localizzazione dei danni che influenzi realisticamente le loro capacità di combattimento. … … E qualcuno sostituisca quell’inutilissima pistola con una bella SOCOM Mk23 calibro .45 o quantomeno con una Glock. Un’arma che fa un qualche effetto solo dopo un caricatore svuotato serve a chi ha problemi di talpe in giardino, non ad un agente antiterrorismo.
Il Pescator Malfavellato Coerenza – o stagnazione? no, chiamiamola coerenza – anche sotto l’aspetto narrativo, e per quanto riguarda personaggi e componente artistica/di design. Tale Suhadi Sadono (Algida, a naso), pericoloso guerrigliero e trafficante indonesiano, organizza un terribile attentato ai danni degli Stati Uniti. Sam lo deve fermare. Cheppalle. Ma nessuno credo si potesse aspettare chissà quali stravolgimenti nelle intenzioni dei creatori. Già così la serie di SC gode dell’appoggio di alcuni che lo considerano, a livello narrativo, più intrigante di un certo stealth game giapponese. Meglio che non mi dilunghi sul punto. Comunque: la trama si sviluppa in modo piuttosto piatto, fornendo giusto una parvenza di contesto alle azioni di Fisher ma non sognandosi neppure di rubare al gameplay un briciolo d’attenzione. Questione di scelte, certo. Certo che a volte capita di chiedersi ‘perché?’, quando ci sia accorge di certi colpi di scena possibilmente interessanti gettati alle ortiche. Un caso su tutti: Gerusalemme, a Sam viene ordinato di uccidere una bella (e disarmata) agente israeliana dello Shin Bet, che pochi istanti prima aveva fatto carte false per aiutarlo. Così, senza nemmeno una spiegazione, il colonnello Lambert gli ordina di ucciderla. Un paio di colpi, un grido e il cervello le schizza sul muro retrostante. Mentre Fisher, dubbioso e disorientato, attra-
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versa la zona successiva, gli viene offerta la spiegazione ‘faceva il doppio gioco’. Abituato ad un certo stealth game giapponese, il giocatore potrebbe sentire puzza di bruciato e sospettare futuri sviluppi della misteriosa vicenda. Ma ovviamente no. L’episodio della trama rimane fine a se stesso, non porta ad alcuna conseguenza e dopo 10 minuti Fisher si riunisce ad un sorridente Lambert e proseguono tutti insieme la cavalcata contro i nemici degli Stati Uniti D’America. Se lo sceneggiatore lo intendeva come un ‘colpo di scena’, riconsideri le sue capacità di intrattenitore, perché l’episodio causa più fastidio che altro. Se lo sceneggiatore lo intendeva come una sottile accusa contro i metodi americani (“uccidere una donna disarmata mi sembra una cosa da terrorista”), abbia la premura di rendere il resto del suo lavoro coerente con tale intenzione.
Il Pescator Quadruplizzato E qui passiamo alle buone notizie. Se avesse introdotto solamente una nuova campagna online, data la povertà di innovazioni e il prezzo comunque elevato, SC:Pandora Tomorrow avrebbe ricevuto un semplice C. Ma Ubisoft ha concepito e creato una interessante e originale modalità online: la squadra Shadownet, infiltratori nonletali dalle movenze assimilabili a quelle di Sam Fisher, si contrappone alla squadra mercenaria Argus, degli individui meglio armati, controllati in prima persona e dalle caratteristiche più carmackiane (potente ma rumoroso). Shadownet ha l’obiettivo di infiltrarsi negli edifici-missione e manomettere o sottrarre armi di distruzioni di massa, usando strumenti di osservazione (steaky cam, fibra ottica ecc.) o al limite armi incapacitanti non-letali come il taser elettrico o la temibile gomitata da ultrà. Argus deve impedire che tali oggetti cadano nelle mani sbagliate (dal loro punto di vista). Per fare questo dispone di un fucile d’assalto con lanciagranate e mine di prossimità. Le differenti caratteristiche delle fazioni danno vita ad un emozionante “guardia e ladri”, che risente dell’unico limite di poter confrontare al massimo due coppie di giocatori. Se tale limite fosse stato esteso a 8 o (manna divina) a 16, una meccanica già ottima avrebbe potuto trasformarsi in un’esperienza online travolgente.
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Bottom Line SC: Pandora Tomorrow è la riproposizione precisa e aritmetica di quanto sperimentato dall’utenza Xbox un anno e mezzo fa. Solo un po’ più facile, e un po’ più tropicale/verdeggiante. I difetti riscontrati nel predecessore non sono stati corretti. I punti di debolezza (su tutti la mediocre gestione del combattimento, l’intelligenza artificiale, l’arida componente narrativa e l’anonima colonna sonora), continuano ad essere tali. Verrebbe da liquidarlo con una C, se il gioco non disponesse di un comparto multiplayer tanto azzeccato e curioso. La speranza è che Ubisoft: 1-sviluppi e allarghi l’interessante concept della sua nuova modalità online. 2-snellisca la gestione delle armi e del combattimento 3-assuma uno sceneggiatore vero anziché richiamare dalle ferie il magazziniere. La serie di SC ha un notevole potenziale inespresso. L’idea di sfruttare le meccaniche steath per un ‘guardia e ladri’ multiplayer, e la sua capace realizzazione, sono delle caratteristiche mai viste in certo stealth game nipponico. “L’evoluzione è un’opinione”, sentenzierà l’amministratore delegato di Ubisoft con voce cavernosa, carezzando affettuosamente il suo gatto bianco. In un’era in cui la serie di Final Fantasy rinuncia ai combattimenti casuali, tuttavia, nulla vieta di sperare in qualche violenta, benefica scossa di terremoto.
[Ring è] Correzione di articoli Una cosa. Hai sostituito "il primo che mi viene in mente" con "il primo che mi sovviene". Ma "sovviene" lo usano solo Leopardi e Nemesis, e non mi piace tantissimo. A dire il vero, non mi piace perché "il primo che mi viene in mente" smorza molto i toni di un pezzo che, fino a quel punto, è abbastanza saccente. E poi, a tutti gli effetti, è stato il primo che mi è venuto in mente, non il primo che mi è sovvenuto. Stavo così, seduto, sentendo Fantozzi da un orecchio e guardando quel video da un occhio. Se mi fosse sovvenuto, starei stato seduto su una poltrona alla luce di un camino e, sorseggiando dello scotch di dodici anni e leggendo un libro ingiallito, mi sarei strofinato il pizzetto (con una terza mano) e avrei detto, con un sussurro, lentissimo: sì. Paolo Ruffino
:RECENSIONI:
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[Painkiller]
Macelleria Sociale Dreamcatcher di Gunny Daniel Garner, ex militare recentemente deceduto in un incidente stradale, ha una cura medioevale per il vostro culo. Sgarbatamente sbriciolato da un camion mentre pomiciava (per la verità in modo platonico) nella sua automobile, Daniel precipita in una sorta di limbo intermedio tra il paradiso e l’inferno. Verrebbe da dire ‘purgatorio’, ma il termine è inesatto. È una terra di conquista per angeli e demoni, un giacimento di anime appena trapassate che Dio e Satana cercano di sfruttare in concorrenza, per ingrossare le proprie fila. Nella speranza di rivedere la sua amata, la complice del pomiciamento (platonico) interrotto dal tir, Daniel accetta da una sorta di arcangelo una missione di quelle pepate: uccidere i 4 generalissimi di Lucifero, che pianificano l’invasione della Terra di Mezzo... cioè, della Terra in Mezzo tra Paradiso e Inferno. Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:.
FPS Dreamcatcher People can fly Xbox 2004 1 - 16 Italiana
Basato su una struttura a macromissioni, a loro volta divise in 5 scenari, il gioco si presenta subito come un FPS vecchia scuola. Ogni innovazione recente del succitato genere (veicoli, postazioni fisse, collaborazione con personaggi, situazione di pseudo-plausibilità con
momenti di pausa) è stata ignorata. Manca addirittura il tasto ‘usa’, e non è consentito abbassarsi. Roba da matti. Ma bastano alcuni minuti di gioco per ritrovarsi con l’arma surriscaldata, i vicini semi-impazziti ed un largo, soddisfatto sorriso sul volto. Painkiller, come prima di lui Serious Sam, ha in sé i geni del fiero, ignorante e primitivo FPS d’annata. Painkiller non è una videoesperienza, non è un esperimento e non è una fusione di generi. Painkiller è una macelleria poligonale con tot nemici , tot armi e tot proiettili. È uno sfogo liberatorio che ricorda un po’ Fantozzi di fronte alla Corazzata Potemkin. Ma quali tendenze cinematografiche? Ma quale medium da sdoganare? Fanculo. Vediamo come lo sai usare ‘sto fucile a pompa. Tralasciando il reparto tecnico/grafico (banalmente: tanto convincente da non concedere spazio ad alcuna critica), è immediatamente evidente un level design tanto efficace nello stupire (vedi le splendide scenografie del livello ‘Factory’ o di Babele) quanto retrò durante la fase esplorativa: i livelli e le loro sotto-locations sono dei meri contenitori di nemici, da ripulire per guadagnare accesso alla sezione successiva. Non ci sono chiavi da trovare, non ci sono enigmi da risolvere. L’unico motivo di interesse riguarda il completamento di certi incarichi (finisci il livello solo con l’arma X, non usare corazze ecc.), adempiuti i quali si ricevono delle carte magiche che garantiscono l’utilizzo di alcuni poteri/potenziamenti speciali. Il lettore sarebbe portato a pensare che Dreamcatcher abbia focalizzato la propria attenzione sul combattimento. Ma è una supposizione in parte errata: i combattimenti di Painkiller non sono nulla di sofisticato.
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L’IA degli avversari è estremamente primordiale. Nella stragrande maggioranza dei casi non faranno altro che inseguirvi all’infinito, senza sfruttare ripari di alcun genere e senza agire in modo coordinato. Il loro elevato numero tende a generare situazioni piuttosto comiche, nelle quali vi ritrovate ad essere inseguiti da una quarantina di entità decerebrate, che attendono solo un razzo ben piazzato per riverniciare l’isolato.
Riassunto di quanto detto finora: Painkiller è un gioco tecnicamente ben fatto (ma chi non è in grado di farne uno sulle schede grafiche attualmente in circolazione?), ma che soffre di meccaniche irragionevolmente primitive, di un’IA sempliciotta e di una struttura non più attuale. Ma avrete senz’altro già dato un’occhiata al voto. E avrete quindi capito che, a dispetto di questa sorta di rifiuto della modernità, Painkiller è un gioco fottutamente divertente. Sarà per un arsenale piuttosto vario e caratteristico; sarà che l’uso di questo arsenale consente di far ingranare la quarta al sistema fisico Havoc e di proiettare panzoni nonmorti sui muri, appendere zombie alle colonne con lo spara-pali, scassare e demolire un mucchio di elementi della scenografia (memorabile il crollo delle colonne durante lo scontro con il Guardiano); Sarà per la colonna sonora trashmetal, meravigliosamente abbinata ad un gioco altrettanto trash; sarà per un manipolo di boss tra i più enormi che si siano visti nella storia dei videogiochi. Rimane l’impressione che, se John Carpenter fosse diventato un game designer anziché un regista, avrebbe creato Painkiller. Per rendere l’idea, descriverò una situazione-tipo: vi trovate in una grande stazione ferroviaria. I vagoni ferroviari sembrano quelli visti in decine di film/documentari storici sull’inizio del XX secolo, e dalle scelte architettoniche e cromatiche l’impressione è quella di trovarsi nella Vecchia Europa degli anni ’10.
:RECENSIONI:
Poco più avanti, ci si imbatte nel cartello ‘Benvenuti a Ginevra!’. Nemmeno il tempo di girarsi, e dal pavimento fuoriescono decine e decine di cadaveri di soldati francesi, ancora con l’elmetto arrugginito e la maschera antigas. Brandiscono buffamente il loro moschetto con baionetta. Per un attimo il giocatore sbianca. Quei treni erano diretti al fronte? Poderoso power chord metal in sottofondo. Il giocatore mette in asse l’arma. Secondo power chord. Compare un ghigno sul suo volto. Terzo power chord. Il DNA violento del fragger veterano ribolle. Quarto power chord, parte la smetallata: il rotellone comincia a vomitare piombo sulla massa di carne circostante.
In conclusione: promuovere Painkiller con un voto di rango superiore sarebbe probabilmente un premio eccessivo per un gioco che da diversi punti di vista è chiaramente obsoleto. Significherebbe chiudere un occhio sull’assenza di una qualsiasi possibilità di interazione che non sia la semplice demolizione. Sull’assenza di una qualsiasi intelligenza degli avversari. Su una gestione dell’avanzamento piuttosto primordiale. D’altro canto, liquidarlo con voto inferiore equivarrebbe all’affermare che Painkiller non sia un gioco divertente. E non si potrebbe dire una bestialità più grossa di questa. Ed è chiaro, che, come accade con gli amici, la cosa importante è proprio questa: stare bene con il vostro videogioco. Sicuramente desidererete intrattenervi in discussioni impegnate con un amico di quelli più ‘svegli’ (Half-Life2). Sicuramente non mancherete di farvi una gasante partita a calcetto con un amico di quelli più ‘dinamici’ (Halo2) Ma è bello sapere che, se ne sentite il bisogno, c’è un vecchio amico metallaro che vi aspetta al solito pub, per farsi due sane risate, scolarsi un paio di birre e fare a gara di rutti. Prima di tornare in posti dove cose di questo tipo ormai non si possono fare più (i videogiochi di oggi).
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>> Stop’n’Go >>
Piccoli Tom Clancy Crescono
Un saggio del girotondinico Gunny sul grado di verosimiglianza militare del trailer di Metal Gear Solid 3: Snake Eater. Tratto dal RingForum Anno 1963. C'era una volta il fucile M14 in calibro 7,62 NATO, appena entrato in servizio. Quello con cui si suicida Palla di Lardo in Full Metal Jacket. Un fucile del cazzo. Per quanto fosse potente e preciso, era troppo pesante e non sparava in automatico. Le sue prestazioni in combattimento venivano ridicolizzate dal Kalashnikov. L'Esercito disse 'doh'. Aveva speso 6 anni di sforzi per ottenere un fucile già vecchio. Mentre il 'doh' riecheggiava ancora nell'aria, l'Esercito cercava un'arma in grado di risollevare la situazione. Ordinò alla Colt alcuni AR15, un fucile che 5 anni prima era stato scartato in quanto troppo 'strano' e rivoluzionario, e in quanto camerato con la cartuccia 5,56mm, allora considerata troppo debole rispetto alla grossa 7,62 blindata. L'AR15 in Vietnam diede risultati superlativi. Venne chiamato (quello che oggi è il famoso) M16 e adottato in massa. Una caratteristica dei primissimi modelli di M16/AR15 (e quindi del model 609 usato da Master) era la bassa rigatura. Cioè la quantità di giri che la rigatura a spirale compie all'interno della canna. Ce l'avete presente gli intro dei film di 007, no? Il primo M16 aveva una rigatura di un giro ogni 14 pollici. Questa caratteristica faceva in modo che il proiettile uscisse dalla canna con una bassissima velocità di rotazione. Tendeva a 'sfarfallare'. Questa caratteristica lo rendeva estremamente impreciso a distanze superiori a 200m, ma ne aumentava drammaticamente l'effetto distruttivo. Il proiettile SS.109 odierno (detto in America M855), abbinato alla più alta rigatura di un giro ogni 7 pollici, è talmente preciso e veloce che anche a distanze elevate continua a ruotare su se stesso. Quindi impatta il bersaglio sempre in modo corretto, perforandolo. E questo dovrebbe essere un bene. Ma lo è fino ad un certo punto. La precisione e la capacità perforante sono alte, ma il potere d'arresto è basso. Significa che il bersaglio sarà probabilmente colpito e perforato, ma che se non viene colpito ad un organo vitale potrebbe essere in grado di continuare a combattere. Per farvi capire meglio: se un uomo viene trafitto da parte a parte da una ago di tungsteno dello spessore di mezzo millimetro e che vola a 2000 mila metri al secondo, si accorgerà a stento del colpo subito. Perderà sangue, certo, ma a meno che non sia colpito al cervello, al cuore o alla spina dorsale probabilmente potrà continuare a combattere e a muoversi per un pò di tempo. Se un uomo invece viene centrato da un cubo di porfido di 15X15 cm che vola a 30m al secondo, di sicuro non ne verrà perforato, ma diventerà assai poco attivo nei minuti successivi. Una cosa è la capacità perforante, una cosa è la capacità d'arresto. Con il primo M16 i proiettili non in assetto, quando colpivano il nemico, anzichè perforarlo perdevano allineamento, aumentavano la porzione di superficie che impattava con il corpo e scaricavano sul bersaglio tutta la loro energia cinetica. Potere d'arresto a palla, quindi. Il risultato di tutto questo complesso discorso è che un proiettile dei primi M16, per quanto impreciso a distanze medio-lunghe, se piazzato in testa era sufficiente a decapitare un uomo, mentre un colpo alla pancia la faceva esplodere che manco Kenshiro. Credo di aver menzionato la cosa a Nemesis, una volta :) Ora, torniamo a MGS3: l'arma che usa Master ha un errore di allineamento veramente macroscopico. La canna inotlre, rispetto al normale M16, è così corta che probabilmente non ci sono nemmeno due giri completi di rigatura. Il risultato, lo potete vedere tutti nel trailer (sequenza in ralenty) è che i proiettili escono già particamente storti. Essendo quella di Master un'arma evidentemente concepita per il combattimento ravvicinato (la tiene addirittura con una mano sola), probabilmente la cosa è intenzionale. Master sa che quell'arma non gli servirà mai per colpire da lontano, e preferisce ottenere effetti devastanti da vicino. E infatti l'area di impatto dei proiettili nel trailer è piuttosto 'turbolenta' :) Niente. Sapere che Motosada Mori abbia considerato tutto questo e che Kojima l'abbia fatto notare nel trailer dimostra ancora una volta l'eccezionale cura per i dettagli della KCEJ e la profonda competenza di Mori. Bella lì. Se nessuno ha capito una mazza mi scuso sinceramente. Gunny
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Sopravvivere all’orrore [Ludologica: Residen Evil] di Paolo “Jumpman” Ruffino
F
a piacere iniziare ad abituarsi ai testi della collana Ludologica. Se le prime uscite potevano stupire per la loro originalità, per l’anomalia che costituivano nel panorama editoriale italiano (ed internazionale, diciamolo) a tema videogiochi, ora che il progetto ha dimostrato la sua stabilità se ne possono giudicare i frutti con maggiore “disincanto”. Fa piacere dunque avere tra le mani un altro titolo della collana, sfogliarlo con più naturalezza, vederlo assimilarsi allo sfondo dei negozi Pergioco, ma fa ancora più piacere notare come i primi giudizi positivi possano dirsi validi ancora oggi. Insomma, la collana ci sta addomesticando, ma non di certo annoiando. Al contrario comincia a delinearsi più chiaro l’intento dei curatori, il giovanile fervore degli autori, lo scoppiettante turbinio di idee spunti ed illuminazioni che condiscono ogni lavoro. È ormai chiaro che ogni uscita intende cambiare ottica, adattandosi alle conoscenze e al campo di studi da cui proviene l’autore. E anche se può apparire confusionaria come scelta, ci sembra la più adatta per uno studio ancora in fasce, che per ora (e forse per fortuna) non può vantarsi di essere una disciplina ben delineata.
Genere Etichetta Autore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:.
Saggio Unicopli Francesco Alinovi Carta 2004 1 alla volta Italiana
Francesco Alinovi e il suo Resident Evil: sopravvivere all’orrore, è l’eccezione che conferma la (mancanza di) regola. Affronta la disamina della saga con i suoi mezzi, le sue esperienze. Cioè a dire, anni passati come editor presso Future Publishing e una cattedra di Game Design presso il NABA di Milano. Il primo impiego lo aiuta ad esser chiaro, semplice nella forma. Alinovi dimostra di sapere bene cosa può interessare un vasto pubblico, e come presentarlo. E questa limpidezza è accompagnata da una conoscenza non indifferente dei meccanismi che regolano un (buon)
gioco. Avvalendosi delle teorie di game design di Chris Crawford e Pascal Luban riesce a spiegarci come e perché Resident Evil funziona, appassiona, attrae, per certi aspetti anche morbosamente. Esplora i simboli che compongono l’opera di Mikami, le influenze da cui trae ispirazione, i suoi discendenti. Nella prima parte passa in rassegna i vari episodi della serie e ne esamina le innovazioni, i cambiamenti che di titolo in titolo sono state introdotte e i titoli da cui ha attinto maggiore ispirazione (come il gioco giapponese Sweet Home). Nel secondo capitolo, dal titolo Regole di Sopravvivenza, Alinovi discute il game design di Resident Evil. Cerca di definire il survival horror come genere, osserva la gestione degli spazi e delle architetture, la struttura e la collocazione degli enigmi. Cerca anche di far luce sui dibattiti, ancora vivi, sull’acclamato plagio da Alone in the Dark di Frederic Raynal. È soprattutto l’analisi del gameplay a far muovere il confronto, oltre alle dichiarazioni degli autori. Alinovi si concentra su un’analisi del contenuto riservando alla terza parte gli approfondimenti e le interpretazioni del testo. Proprio nel terzo capitolo, L’Orrore Dilaga, si concentra a nostro avviso la ricchezza della ricerca di Alinovi. Avvalendosi di una nutrita letteratura dell’horror mette a nudo i capitoli di Resident Evil e discute i meccanismi della paura, i topoi che ricorrono nei vari capitoli, le ricche simbologie con cui Mikami adorna i suo lavori. Attinge da studiosi dell’horror come da esperti in game design, dalla psicologia come dalla mitologia. Così facendo chiarisce la complessità della saga con le sue citazioni che spesso non saltano all’occhio del giocatore. Abbondano i riferimenti al cinema del terrore, a cui è dedicata anche l’introduzione di Matteo Bittanti. Per concludere, possiamo consigliare il testo a chiunque sia appassionato di videogiochi ed abbia anche solo un minimo interesse verso Resident Evil e i suoi simili. Sopravvivere all’orrore di Alinovi è una lettura scorrevole e stimolante, che aiuta a far luce su un’opera che dell’oscurità ha fatto la sua bandiera.
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[Ring è] Disposable Heroes «Mi ricorda un episodio che ho vissuto con Warcraft III. Ero sul punto di venire massacrato in una partita umani (io) VS non-morti. Gli zombici stavano terraformando il mio campo base e non avevo idea di come fermarli. Mi era rimasto solo il municipio di un altro campo base appena fondato, e stava producendo braccianti (l'unità logistica base). Nel tentativo di guadagnare alcuni secondi, o decimi di secondo, ordino alla mia unica unità viva su schermo, un pingue bracciante appena uscito dal municipio (allego foto
) di attaccare il comandante nemico, tale Cavaliere della Morte di 10° livello, una specie di palazzo semovente avvolto da scariche elettriche. Il tapino, ricevuta la folle dispensa, mi risponde con una delle 3-4 frasi programmate di default. Mi allarga uno sdentato sorriso di bucolica serenità e dice “credo di farcela!”. Poi s'incammina saltellando. Mi sono rotolato per terra per dieci minuti. Non ho nemmeno assistito alla sua fine, che immagino particolarmente overkillica.» Gunny
:RECENSIONI:
Ring#12
Flipao
[Flipnic]
di Cryu
Flipnic è una biglia di metallo che scorre a tutta velocità sulla rampa della creatività per imbucarsi dritta dritta nel culo dei luoghi comuni. "I videogiochi costano troppo", ama ribadire Pino il Tirchio adducendo come argomentazione principe il fatto che "a loro un CD costa 10 centesimi". È con piacere che precisiamo in avvio di recensione che Flipnic viene proposto al pubblico europeo all'invitante prezzo consigliato di 29 euro.
Genere Etichetta Sviluppatore Sistema Anno Giocatori Versione
.:scheda:.
Flipper Ubi Soft SCEI PS2 2004 1-2 Europea
Una suggestiva prospettiva di Biology, lo stage a tema naturalistico: le zone percorribili includono cascate e pareti di roccia. "L'originalità è morta", suole ripetere il collezionista di seguiti di picchiaduro e racing game, il quale però disdegna SOS The Final Escape perché "ha delle animazioni ridicole". Flipnic è la dimostrazione di come un modello di gioco antico possa rinfrescarsi semplicemente operando sul level design che andrà ad ospitarla. I flipper di Flipnic non sono tavole, quanto scenari complessi, costituiti dalla combinazione organica di molteplici tavole, collegate da fitte reti di rampe, tunnel e scivoli. Purtroppo gli spostamenti da una sezione all'altra dello stesso stage non risultano sufficientemente regolati; capita infatti di spedire accidentalmente la biglia dalla par-
te opposta del livello con conseguente interruzione della frase ludica in atto: finalmente stavo per colpire l’ultimo di quella fila di respingenti, e ora? Tornare indietro sarà un'impresa. Frustrazione e smarrimento.
Nella quarto flipper c’è spazio per una fine citazione: invece che con i convenzionali respingenti, il giocatore dovrà colpire le biglie con la barretta di Arkanoid. Chic. "È impossibile creare nuovi generi". Mentre i karaoke games si apprestano a invadere il vecchio continente, mentre EyeToy estrae dal cilindro soluzioni di intrattenimento inedite, Flipnic realizza una curiosa ibridazione del genere flipper con quello dei trick game, asservendo le meccaniche di base del primo alla struttura a obiettivi dei secondi. Da che mondo e mondo qual è lo scopo del gioco in un flipper? Accumulare punti. E qual è lo scopo del gioco in Flipnic? Beh, accumulare punti. Ah, e colpire tutti i respingenti nel laghetto del flipper Biology incoraggiando il volo delle farfalle ivi assiepatesi. Ah, e sfondare a colpi di biglia la cascata di ghiaccio che si formerà di conseguenza (don’t ask). Ah, e abbattere la creatura che si nasconde nella galleria quindi spalancatasi. Ah, e sconfiggere il boss che si sblocca completando gli obiettivi primari di ogni stage. Flipnic inaugura il flipper d'avventura. La varietà di gioco ringrazia, peccato che lo scarso mordente di molte missioni e un gameplay indeciso tra score attack e mission accomplishing non riescano a innescare i meccanismi di addiction tipici di ogni buon flipper. I giocatori degli splendidi Pinball Dreams e Pinball Fantasies per Amiga ne sanno qualcosa.
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Anche in multiplayer Flipnic dà prova di stravaganza. Le sessioni a due giocatori si svolgono in tavole dedicate, dove i contendenti cercano di spedire la biglia nel pit dell’avversario. Una variante nevrotica del calcio balilla: curiosa alla prima partita, trascurabile nel lungo periodo. Un po’ come tutto il gioco, del resto. “Gli sviluppatori non riversano passione nei loro giochi”. Di primo impatto Flipnic sorprende per la cura con cui è stato confezionato. C’è ispirazione, colore, fantasia e gusto nelle schermate di interfaccia, nel tutorial, nei FMV e nel design di ogni stage. La prima impressione è quella di un titolo rifinito nei minimi dettagli seppur assolutamente fuori di testa. Un flipper flipao, si direbbe in Spagna. Partita dopo partita, però, ci si rende conto che tutto questo estro non si concretizza in un gioco realmente divertente e appassionante. Perché in fondo il miglior pregio di Flipnic è anche il suo peggior difetto: quello di emanciparsi da tutti i luoghi comuni, compreso il peggiore, secondo cui i giochi di oggi siano inferiori a quelli di una volta in quanto carenti di originalità. Flipnic è originalissimo, ma guarda a caso il mio most played di questi giorni rimane quel Soul Calibur II così simile al primo. Come dite? Si stava meglio quando si stava peggio? Shhht! Non davanti a Flipnic…
[Diego è] Pericoloso Sì, ho una Colt Border Patrol cromata con canna da 4 pollici. Una specie di rubinetto che spara. La prese mio padre negli anni 70. La Border Patrol è un'arma piuttosto rara, in quanto è stata prodotta per la polizia di confine americana. Lo scatto in doppia azione è molto duro, per evitare che i pulotti si sparino nelle palle. Lo scatto in singola azione è una piuma, fa paura. Le mire sono regolabili in alzo e derivazione, in modo da avere un'arma precisa e potente da scaricare sui fuggitivi. Diego Cortese
:RECENSIONI:
Ring#12
[Disgaea: Hour C’e’ del marcio nel regno degli inferi
Of Darkness]
di Emalord
Tira una brutta aria nel Regno degli Inferi. E non è solo colpa della scarsità di bocchettoni di aerazione, peraltro fonte di continui reclami da parte di tutti gli ‘ospiti’, quanto piuttosto di tutto ciò che è accaduto in seguito alla morte dell’adorato (in quanto tirannico) Re Krichevskoy. Gli Inferi, novella Itaca priva di sovrano, si ritrovano con i salotti Bene affollati da baldanzosi e arroganti pretendenti ad un trono ‘apparentemente’ vacante, dove l’apparenza è giustificata da un sonnellino protrattosi per qualche anno di troppo da parte del legittimo erede al trono. Questi è il giovane Lahar, che dopo un’energica sveglia suonatagli dalla pimpante Etna, una… vulcanica demone tutto pepe, si appresta a rivendicare ciò che è suo per diritto di discendenza. È su questa premessa che si fonda l’RPG tattico di Nippon Ichi: una frizzante sorpresa destinata a dare una potente scossa ad un genere che da troppo tempo viveva di stereotipi, iniettandolo di una generosa dose di umorismo sconfinante nella demenzialità più nipponica, di supermosse come da anni avremmo voluto vederne, e di nuove ed inaspettate potenzialità ludiche nascoste nella creazione dei personaggi e nel potenziamento dei propri item.
Ciò che rende davvero speciale DHOD è l’assoluto senso di esagerazione presente in ogni cellula di gioco, dove per cellula si intendono le singole parti che compongono un RPG classico. Dove i giochi di ruolo classici permettono di scegliere tra qualche classe di appartenenza (Maghi, Ninja, Chierici, Guerrieri, Ladri), il parco personaggi di Dis-
gaea potrebbe riempire i gironi infernali tante sono le variabili presenti. La creazione di un personaggio da aggregare al proprio party non è un semplice atto dovuto, quanto piuttosto un contratto di lavoro, quando non un patto di sangue che si crea tra il personaggio che ne richiede la creazione, e quello che viene plasmato. Questa Affinità, se vogliamo chiamarla così, etichetta il ‘creatore’ come Mentore (ognuno dei personaggi del party può diventare Mentore quando in possesso dei requisiti necessari), e il ‘neonato’ come Pupillo. Ma questo è solo l’inizio La creazione di un Pupillo, come anche la sua potenza, dipendono dalla quantità di Mana in possesso del Mentore, e questo lo si ottiene solo combattendo. Dopo gloriose campagne possiamo mettere a frutto il Mana-Money creando personaggi dalla potenza variabile: da ‘Muscoli di Lichene’ a ‘Angelo dell’Apocalisse’1 , ma per questi ultimi è necessaria l’autorizzazione del Senato Infernale (Il Consiglio Oscuro). E siamo solo a metà Il Senato Infernale non è solo un’assemblea decisionale, ma anche un organismo corruttibile, minacciabile e comunque sensibile ai regali. Come tutti i Senati d’altronde. La semplice creazione di un nuovo personaggio, oppure le possibilità alternative di potenziamento, passano quindi attraverso una serie di azioni e di scelte che stimolano riflessioni laterali totalmente assenti nei predecessori del genere. Ed è il trionfo della varietà. Ma le esagerazioni hanno piantato radici anche sul campo di battaglia, arrivando a strappare sorrisi soddisfatti quando non momenti di pura esaltazione. Se i combattimenti di Final Fantasy Tactics o di Front Mission erano “ingabbiati” in un mondo di fantasia, ma di fantasia controllata, quasi seriosa e professionale, quelli di DHOD sono il tripudio della Sindrome-Di-Toriyama. Scordatevi le classiche tempeste di fuoco/vento/fulmini/ghiaccio in tre gradi di potenza o le evocazioni finalfantastiche, in Disgaea fin dalle prime ore di gioco potrete assistere ad entusiasmanti combo fra più giocatori e alle supermosse più energetiche mai viste in un videogioco. Con personaggi che si allontanano centinaia di metri dal playground per liberare impressionanti ondate di plasma dalle forme più disparate (con palesi citazioni di manga ed anime come Dragonball, Bastard!, Evangelion) che devastano completamente il campo di battaglia, danneggiando spesso i membri del proprio party. Uhops!
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Le combo sopraccitate, cosa da non sottovalutare, sono altamente influenzate dal rapporto Mentore/Pupillo: più affinità c’è tra i personaggi che attaccano in combo, più essa risulta devastante; fino ad arrivare ad un massimo di quattro personaggi che massacrano in perfetta sintonia il malcapitato di turno. Ed è il trionfo della pianificazione dei combattimenti. Si dice che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Frase saggia, ma non in uso nel Netherworld. Ad un gameplay vario e sempre generoso di novità entusiasmanti, Nippon ichi ha affiancato una trama spassosa, ricca di personaggi buffi e dal gustoso charadesign, che mette in campo demoni buoni, angeli malvagi, divinità generose o iraconde a seconda del piede usato per scendere dal letto, ma anche un Mondo degli Item da visitare e ripulire come un qualsiasi livello del gioco, per esorcizzarlo dalle presenze ostili e potenziare uno qualsiasi degli oggetti in proprio possesso. Ring si sente in dovere di consigliare questo gioco a qualsiasi appassionato di RPG tattici, invitandolo per esempio ad assaporare il gusto di combattimenti a turni sincopati, definiti in ogni singola sequenza di mosse, interrotti e poi ripresi a seconda delle esigenze personali, perfettamente customizzabili. Ancor di più, Ring si sente di consigliare questo prodotto anche a chi non ha mai avuto l’occasione di provare uno strategico a turni di matrice nipponica. La varietà di situazioni presenti e l’uso della materia grigia per azioni che vanno ben oltre la ricarica in un nanosecondo del proprio shotgun, potrebbe stimolare aree del cervello finora inesplorate, con possibile soddisfazione finale e produzione di benefiche endorfine. Nota bene: la presente recensione va ad integrare quella di Mr. Yo apparsa su Ring #9, contemporanea all’uscita JAP/ NTSC [1] Non sono esattamente le diciture originali, ma crediamo che così si renda l’idea come si conviene. Ci scusiamo con tutti i sostenitori fanboy delle Diciture Originali.
:TESORI SEPOLTI:
Ring#12
Oceano Mare [Ecco the Dolphin – Defender of the Future] di Federico Res
E
cco the Dolphin è un tuffo nel game design d’autore. Quando l’istinto commerciale del publisher cede all’estro del designer, quando le regole del gameplay rifuggono i trend per configurarsi in un modo nuovo, quando la sospensione d’incredulità è sospensione fino in fondo, distacco da ogni cosa reale, quando tutto ciò accade, il game design diventa arte. Ecco the Dolphin è un inno al mare, uno splendido – ma a tratti disincantato – affresco che si nutre di suggestioni, visive e sonore. Appaloosa, lo stesso team responsabile del primo Ecco (pubblicato nel 1992 su Mega Drive, quando la società si chiamava Novotrade) ha dimostrato con Defender of the Future la propria idiosincrasia nei confronti delle leggi del business. Il gioco pubblicato nel 2000 su Dreamcast e successivamente convertito su PS2, quando Sega era in pieno fermento creativo, ha rivitalizzato in modo brillante un franchise rimasto prigioniero del tempo e dei limiti tecnici. L’inarrivabile sintesi audiovisiva, l’unicità del gameplay dei vecchi episodi hanno trovato glorificazione in un’opera dal valore estetico inestimabile…
stema acquatico nella maniera più fedele (e rispettosa) possibile. L’incredibile varietà della fauna marina, il realismo con cui sono stati resi i movimenti di delfini, megattere, tartarughe, squali, piovre e meduse, l’altissimo livello di dettaglio che traspare dai fondali rocciosi, dalle barriere di corallo e dai giochi di luce sott’acqua, danno a DotF un valore documentaristico oltre che puramente estetico. Ecco the Dolphin è uno speciale di Discovery Channel vissuto in prima persona. Ma è anche un videogioco, si diceva, composto di suggestioni e rispetto per il testo ludico. Per questo lo splendore estetico è in simbiosi con un soundtrack interamente composto da ambient music, che viaggia tra melodie diafane e momenti corali tesi a sottolineare la maestosità dei mondi sommersi, la bellezza e la delicatezza di ogni forma di vita marina. E anche il gameplay, tenendo fede alla medesima filosofia, è parte integrante della suggestione.
loro elementi, ma per la certosina pazienza e la grande precisione che richiedono. Indurre un enorme squalo bianco a seguire Ecco fin negli stretti pertugi di alcune rocce, per far sì che rimanga incastrato e sia possibile sottrargli un prezioso glifo, è un’esperienza estenuante per chiunque sia abituato a reticoli di mira o sistemi di lock-on. Costruire un ponte di cristalli che veicoli una scarica elettrica, servendosi degli spostamenti del delfino, risulta spossante a causa della particolare inerzia cui il mare sottopone Ecco. Il giocatore insoddisfatto lamenta la frustrazione, la lentezza dei pattern, la noia, quando il gioco obbliga all’esplorazione sistematica degli ambienti per ricercare l’obiettivo successivo. Ma la vera mancanza, forse, sta solo nella sua sensibilità. Perché, al di là di alcune imperfezioni – l’inutilità della mappa e l’inadeguata calibrazione della difficoltà di alcuni passaggi – il gameplay di Ecco si fonda su basi solide e ben concepite. Il sistema di controllo è sempre perfettamente adeguato ai ritmi del gioco, i vari power up (che potenziano il vigore, la resistenza e la forza del radar) trovano sempre una ragionata collocazione nei livelli, a loro volta disegnati con equilibrio e maestria. Ma più in generale, il valore del gameplay si esprime nella sua totale aderenza a quella particolare filosofia cui si è più volte accennato. Non v’è nulla nelle azioni di Ecco che contrasti con la sua natura di delfino, col contesto – il mare – in cui si trova ad agire e con i PNG – le altre creature acquatiche – con cui interagisce. Nemmeno quando il gioco propone personalissime interpretazioni del futuro (immaginate dallo scrittore sci-fi David Brin) il suo equilibrio viene minacciato…
.:scheda:. Genere Idillio marino Etichetta Sega Sviluppatore Appaloosa Sistema Dreamcast/PS2 Anno 2000/2002 Giocatori 1 Versione Italiana
Il limite più grande di Ecco the Dolphin è la sua dote indiscussa: l’unicità. Il prodotto di Appaloosa non si è mai piegato alla filosofia dell’easy gaming e per questo si è reso indigesto a gran parte del pubblico e a una discreta fetta della critica. Ma una legge non scritta dice che se tra gioco e giocatore la scintilla non scocca, nell’una o nell’altra parte si nasconde una mancanza. E sebbene si sia tentato di costruire questa mancanza nel codice di Defender of the Future, in fondo non si è mai riusciti a isolarla. Perché, forse, tra Ecco the Dolphin e il giocatore insoddisfatto la vera mancanza sta nel giocatore. Ed è una mancanza definibile in termini di sensibilità. Sensibilità estetica, sensibilità ad una filosofia di game design fondata sulla coerenza del testo ludico, sull’armonia assoluta tra ogni elemento del videogioco. Perché Ecco è un videogioco, ma è anche un monumento al mare, in ogni sua parte. La sua veste grafica, ancora oggi ammaliante (e ai tempi stupefacente) è il risultato della passione di Appaloosa per ogni aspetto dell’oceano, è lo sforzo di un artista teso all’imitazione delle meraviglie marine, alla ricreazione dell’ecosi-
Defender of the Future condivide con i prequel (Ecco the Dolphin e Ecco II – The Tides of Time, MegaDrive) una veste grafica-sonora di grandissimo impatto. Sebbene tecnicamente superato, nella sua incarnazione originale (quella per Dreamcast) il prodotto di Appaloosa riesce ancora a sorprendere. Le meccaniche di Ecco the Dolphin, oltre ad essere la perfetta trasposizione degli episodi bidimensionali nel 3D, calano il giocatore in una particolare sospensione, dilatando i tempi spesso frenetici del videogioco. Per questa ragione il giocatore privo della giusta sensibilità può smettere di comprendere. O meglio, può smettere di provare attrattiva per un prodotto tanto insolito: l’insoddisfazione nasce da una serie di obiettivi da raggiungere tramite una condotta estremamente ragionata, cervellotica, che troppo spesso obbliga a continui ‘aggiustamenti di rotta’ affinché il delfino possa compiere le azioni necessarie senza che la corrente e la resistenza del mare glielo impediscano. In maniera simile, gli enigmi si rendono difficili e frustranti non solo per un’insufficiente enunciazione dei
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La trama di DotF è opera dello scrittore David Brin, autore tra gli altri de Le maree di Kithrup (Startide Rising), vincitore dei premi Hugo, Nebula e Locus, e pubblicato in Italia da Editrice Nord nel 1985. Per Defender of the Future, Brin è stato completamento svincolato dall’obbligo di riprendere il filo narrativo rimasto sospeso con Tides of Time, il secondo episodio della serie. L’immenso potere di suggestione di Ecco the Dolphin si attua nel suo valore estetico, nelle atmosfere sonore e in quelle ludiche. È un’opera sopraffina, un videogioco d’autore, che lascia indifferente solo chi non possiede la giusta sensibilità per comprenderlo e apprezzarlo. Come un delicato brano new age, o un racconto di Ernest Hemingway…
:RUBRICHE:
Ring#12
Game Making Era 01 di Federico Res (ha collaborato Sator Turricano)
Intro Game Making Era è uno sguardo al futuro attraverso il presente. In questo spazio, in queste poche migliaia di caratteri bimestrali, Ring si immerge nel circuito ‘undergroud’ del videogioco moderno e ne porta in superficie idee e tendenze. E scopre un sottobosco insospettabilmente fertile, scopre intere comunità createsi intorno ai game makers, i programmi per creare videogiochi. RpgMaker 2000 di Ascii vanta un sito italiano di quasi 3000 utenti, impegnati ogni giorno su un forum ricco e dinamico, raggiungibile all’indirizzo www.vgmaker.com. La comunità americana creatasi intorno a Game Maker di Mark Overmars (www.gamemaker.nl) conta centinaia di utenti online in ogni momento. La mole di prodotti disponibili per il download sfiora le migliaia di unità, con nuovi prodotti che ogni giorno appaiono nelle sezioni dei forum dedicate alle release. Ring rimane estasiato dalla quantità e dalla varietà di giochi disponibili. Resta affascinato dalle innumerevoli risorse, che contemplano i più disparati set grafici e i più improbabili effetti sonori, richieste ed offerte ogni giorno dagli utenti delle comunità. Costantemente nascono siti-raccoglitori zeppi di sprite, sfondi, animazioni originali o ‘rippate’ grazie agli emulatori; costantemente fioccano nuovi tutorial che spiegano le innumerevoli fasi di sviluppo di un videogioco. A Ring viene in mente di trovarsi in un’era in cui i videogiochi non sono più giocati, ma creati. E se il game making attuale deve a ragione definirsi “romantico”*, cioè volto alla ri-creazione dei vecchi titoli bidimensionali piuttosto
che all’inaugurazione di nuovi concept, Ring vuole credere che questo sia il primo passo verso una più cosciente e libera evoluzione del medium. Perché in fondo ogni nuova arte (intesa come opera dell’uomo) comincia con l’imitazione dei modelli… Game Making Era andrà costantemente alla ricerca dei prodotti più significativi, vagliando tra le numerosissime proposte della rete, nel tentativo di offrire un quadro reale delle attuali potenzialità del game making non commerciale. Ogni appuntamento vedrà alcune minirecensioni (sempre corredate dal materiale necessario a reperire i giochi trattati) e una sezione di approfondimento, che di volta in volta rivolgerà l’attenzione sui programmi migliori per la creazione di un videogioco, sulle relative comunità e sull’infinita serie di utility scaricabili dalla rete. Il primo appuntamento di Game Making Era getta uno sguardo su Game Maker 5, creato dal professore Mark Overmars e considerato uno dei migliori programmi per creare videogiochi attualmente in circolazione. Ma prima dell’approfondimento, è tempo di lasciar parlare i giochi… * La definizione di “era del videogioco romantico” viene da Matteo Bittanti, L’Innovazione Tecnoludica, 1999 Jackson Libri. La pratica del retrogaming sembra accompagnarsi alla perfezione con quella del retro-game making…
GME review Metroid Redemption
Richard Gonzales è attualmente al lavoro su un nuovo progetto dedicato a Metroid, Ghosts of Phazon. Stando alle sue dichiarazioni, il nuovo gioco dovrebbe superare di gran lunga Metroid Redemption e rivaleggiare con (udite udite) Metroid Fusion. Chi ha provato la prima alpha del titolo (Ring è tra questi) assicura che R1ck14 non è del tutto fuori di testa… Tra i tanti epigoni (più o meno dichiarati) del franchise Nintendo, Metroid Redemption si distingue per una programmazione impeccabile e un discreto level desing. Non c’è spazio per l’innovazione, ma la riproduzione delle abilità di Samus - dalla trasformazione in sfera all’uso del charge beam e dei missili - sorprende per l’estrema fedeltà con cui è stata implementata. Graficamente il titolo di R1ck14 (Richard Gonzales) riprende alcuni elementi di Metroid Fusion e di Super Metroid, integrandoli egregiamente, sebbene il look degli ambienti risulti spesso fin troppo scarno. Ma il level design non è affatto da sottovalutare, così come i boss: ad ogni istante Metroid Redemption tenta di ricostruire le meccaniche di base della serie, e sono rare le volte in cui fa cilecca. La distribuzione dei nemici, i loro pattern d’attacco, la dislocazione dei save point (numerosi come in Zero Mission) denota non solo una grande opera di imitazione, ma una buona conoscenza del game design in generale. Metroid Redemption va considerato per quello che è: un videogioco di formazione, oltre che un sentito tributo alla saga di Nintendo. Autore: R1ck14 (Richard Gonzales) Versione: completa Link: http://www.geocities.com/r1ck14/games.html
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:GAME MAKING ERA:
Ring#12
Smaili
Smaili incorpora un intelligente sistema di protezione, che inibisce il tasto “prt/stamp” per impedire il rippaggio della grafica (totalmente originale). Game Maker 5 supporta una protezione di questo genere sia via codice che con l’uso di apposite .dll, scaricabili dal sito www.game maker.nl. Purtroppo Ring non dispone dei mezzi sufficienti a superare tale protezione, e la fotina qui sopra è l’unico screenshot disponibile sul sito di Raoudi… La strage degli emoticon. Smaili si veste di una mise essenziale, butta in campo decine di Faccine Gialle e condisce il tutto con camionate di proiettili e bombe a mano. In Smaili c’è violenza, c’è sangue, c’è gore. Ci sono armi semiautomatiche che chiedono di consumarsi sputando piombo. Ci sono coltelli a serramanico che vogliono essere scagliati in faccia ai nemici. Ci sono granate che trasformano in poltiglia tutto ciò che si attarda nel loro raggio d’azione. Ma soprattutto ci sono gli attacchi speciali: l’emoticon-tamarro protagonista è in grado di ‘schiacciare’ letteralmente i nemici dopo un semplice balzo. Gli emoticon-tamarri nemici esplodono in nuvole di gore come cocomeri maturi. Ma prima di trasformarli in cibo per mosche (ci sone anche quelle, e svolazzano sui cadaveri incuranti della battaglia) è d’obbligo martoriarli a coltellate e sforacchiarli a colpi di rivoltella, magari sfruttando il godurioso bullet time che si attiva col tasto “enter”. Se la grafica avesse più stile e meno rozzezza, Smaili sfiorerebbe la poesia. Così com’è è solo un divertente gioco d’azione, con spiccati elementi platform e un level design forse troppo semplicistico. Ma programmazione e effetti sonori sono senz’altro di prim’ordine… Autore: Raoudi Versione: Demo Link: http://raoudi.de.vu
The Destruction of X-box
Man: "Can I help you?" Richard: "Yeah! Stop making Xbox! It sucks worse than every other system ever made! It's too big to take places, and has no good games for it!" Man: "Never! We will continue with our plan to destroy the videogame industry with our horrible work! You can't stop us! Ah ah ah ah ah!" Richard: "Then you leave me no other choice but to blow up this headquarters! The Destruction of Xbox è la traduzione in digitale della tauromachia videoludica. Quando la faziosità di un videogiocatore si attua in improperi e sproloqui all’indirizzo dei possessori di console concorrenti, il videogioco diventa console war. Quando il videogiocatore realizza un prodotto dove lo scopo è cancellare Microsoft ed Xbox dalla faccia della terra, la console war diventa videogioco. E tutto va in loop. The Destruction of Xbox fa pensare. Perché si tratta della più fedele interpretazione dello spirito da console war. Non tanto per la trama (buttate un occhio alla didascalia qui sopra per un assaggio dei deliranti dialoghi del prodotto), quanto per il suo essere ludicamente e tecnicamente mediocre, eppure depositario di un fascino ignorante e bestiale. Non si risentano gli estimatori della macchina Microsoft: Magicman657, autore di DoX, assicura di essere ben disposto alla creazione di Destruction of Playstation e Destruction of GameCube... The Destruction of Xbox è un beffardo ritratto del videgiocatore moderno. O forse solo un poco riuscito clone di Alien Breed. Ai giocatori l’ardua sentenza. E un link dove reperirlo... Autore: Magicman657 Versione: Completa Link: www.upload.gm-school.uni.cc/index.php (cartella “extreme gaming arts”)
Baster
Ring è pronta a scommettere che Jeff Minter saprebbe creare una grafica perfetta per Baster… Baster è poesia per le orecchie. Adrenalina per il corpo. Minimalismo per gli occhi. Stylish listening e minimal gaming. Strane sfere blu
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:GAME MAKING ERA:
Ring#12
(proiettili) cadono dall’alto, strani cunei rossi (i ‘nemici’) invadono lo schermo muovendosi da sinistra verso destra. Muovere il mouse lungo l’asse orizzontale comanda un baule nel quale raccogliere le sfere blu. Agire sull’asse verticale muove un cannoncino situato sulla parte destra dello schermo. Il tasto sinistro fa sparare il cannoncino. Lo scopo è collezionare proiettili (sfere blu) e scagliarli contro i nemici (cunei rossi) prima che varchino il margine destro dello schermo. Una specie di Space Invaders leggermente evoluto e sdraiato su un fianco. Frenetico e basico. Ma il suo punto forte è l’originalissimo soundtrack. L’islandese Fabian Sorensson, autore del gioco, canta a cappella (con voce quasi bianca) un motivetto zuccheroso e ammaliante. Gli effetti sonori sono note più taglienti. Il game over è una risatina in falsetto tutt’altro che fastidiosa. Baster è psichedelico e dolce come un confetto intriso di LSD. Stylish listening e minimal gaming... Autore: Wadjet Games (Fabian Sorensson) Versione: Completa Link: www.geocities.com/wadjetgames/baster.zip
Neo Sonic Universe
Due cose mancano a Neo Sonic Universe per essere un clone perfetto: la velocità e il controllo. Sonic non è Sonic senza le sue corse forsennate, già Sonic 3D: Flickies Island l’aveva dimostrato. Ma le corse forsennate non hanno senso senza un algoritmo inerziale che gestisca con immediatezza e precisione i movimenti del porcospino. Alexandre Martins ne è ben conscio: consapevole di un sistema di controllo tendenzialmente schizoide, ha preferito depotenziare il riccio e negargli la supervelocità. Una grave mancanza, si direbbe, se non fosse che NSU sprizza professionalità e arte del game design da tutti i pori. Al di là dell’ottima grafica (mutuata dal primo Sonic Advance) NSU sorprende per una serie di meccaniche ottimamente implementate, per un level design ispirato e per una modalità extra, assimilabile al concept di Sonic Battle, dove è possibile far combattere Sonic e i suoi compagni (Tails, Knukles, Shadow e Amy) a furia di spin dash e attacchi speciali. Neo Sonic Universe è così ben confezionato da non sembrare affatto un prodotto amatoriale. Le sue pecche le ha e non le nasconde, ma la cura con cui è stato creato merita senz’altro il plauso di Game Making Era… Autore: Alexandre Martins Versione: Completa Link : www.gamingbrasil.com
Turrican 4: Funeral
Uffa con questi cloni-remake. Ma la gente non ha di meglio da fare che riprodurre in chiave maniacal-filologica i successi del passato? È stata ordunque abolita la prostituzione? Turrican 4 ha le dimensioni di un kolossal: 80 megabyte di morbidezza. L’operazione di riciclaggio è perfetta. L’amico Turricano spara proiettili aggiornabili per mezzo dei power-up del caso, mentre una pressione (invero un po’ troppo) prolungata del pulsante di sparo attiva un laser orientabile a 360 gradi. Un secondo pulsante è invece deputato al rilascio di granate dal lento e rettilineo trascorrere sullo schermo, mentre la smart bomb, in perfetto stile Turrican, si rivela una manna per l’uccisione dei noiosi nemici. Immancabile l’opzione morph-ball con annesso rilascio di mine; sennò che Turrican sarebbe? La grafica denuncia una blocchettosità e una ripetitività tali da non far apprezzare gli sporadici tocchi di classe diluiti per gli sterminati livelli. Del resto di operazione amatoriale si tratta, oltre che in via di completamento. Per questo perdoniamo una gestione sballata dei punti di checkpoint e l’impossibilità, per l’amico Turricano, di percorrere sentieri in falso-piano se non tramite salti. In definitiva, un compitino al momento ben eseguito, ma che rischia di trasformarsi in un mastodontico spreco di tempo. Sicuramente c’è della gran Passion in questi 80 megabyte di morbidezza. E questo è bello. Autore: Pekaro Versione: beta Link: http://kickme.to/t4f
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:GAME MAKING ERA:
Ring#12
The Legend of Smelda: Macarena of Time Game Making Era chiude in bellezza questo primo appuntamento con il flippatissimo Macarena of Time. Parodia in salsa reggae dell’arcinoto Ocarina of Time, MoT ci mette al comando dell’eroe (?) Stink nella sua personale crociata contro il malvagio Ganono. Grazie alla sua veste da contadino e alle sue prestanti marachas, Stink dovrà attraversare una serie di livelli lineari in stile platform (l’azione è ripresa lateralmente) agitando le marachas per ridurre all’impotenza le creature ostili che tenteranno di fermarlo. Durante il viaggio, fermandosi al castello di Hyrulo potrà apprendere la Macarena del Tempo, i cui prodigi gli daranno la forza per discernere il BENE dal MALE… Macarena of Time è pieno di momenti curiosi. Dall’opera di disinfestazione dalle termiti che il sacro Arbol de Groovyness ci obbligherà a compiere, all’incontro con una strana “fatina”, che differisce da Navi per un paio di baffi e delle gambe pelose… Uno stile grafico simpatico e semplicissimo, una certa propensione ad adagiarsi sui cliché dei primi platform dell’era 16 bit e tanta musica caliente sono gli ingredienti principali di questo prodotto di Tatu Software. Non un capolavoro, ma un distributore gratuito di sorrisi. Autore: Tatu Software Versione: Completa Link: www.gameparodies.com
GME indepth: Game Maker 5 Game Maker nasce dalla fantasia di Mark Overmars, professore e ricercatore olandese da sempre affascinato dai computer e dal loro linguaggio. Inizialmente concepito come software didattico, l’attuale aggiornamento del programma (giunto alla versione 5.3b) è passato attraverso innumerevoli mutazioni: da Drawing for Children e Drape sino ad Animo, il vero e proprio antenato di Game Maker, progettato come creatore di animazioni dall’immediata interfaccia e dal target d’utenza dichiaratamente giovane. Nel 1999, anno di completamento di Animo, Mark Overmars ha l’idea per un tool di sviluppo che permetta di creare videogiochi in maniera semplice ed immediata. La versione 1.1 di Game Maker vede la luce nel 1999, ma una serie di fattori, in primo luogo la troppa semplicità e la mancanza del supporto per le DirectX, gli impediscono di acquisire la giusta popolarità. I download della prima release ufficiale di GM sono solo poche centinaia. Ma le cose sono destinate a cambiare ben presto: pochi mesi dopo, nel febbraio del 2000, Game Maker giunge alla versione 1.4. Il numero di download cresce esponenzialmente, passando dai 2000 clic di inizio anno fino agli 8000 raggiunti in agosto: un anno dopo, grazie alla release 3.0 e al supporto per le DirectX, Game Maker raggiunge e oltrepassa i 20.000 download. Il periodo successivo è una continua consacrazione. Nel luglio del 2001 fa la sua comparsa Game Maker 4.0, completamente riscritto fin nelle fondamenta e per questo incompatibile con le precedenti versioni. I download schizzano alle stelle, anche grazie alla release 4.1 che aggiunge il supporto per il multiplayer; alla fine dell’anno i download complessivi di Game Maker superano le 270.000 unità. Attualmente, con un sito e un forum ufficiali da milioni di page view e migliaia di download ogni giorno, Game Maker è il tool freeware per lo sviluppo di videogiochi più popolare del mondo. Le versioni 5 e 5.3 hanno migliorato ulteriormente il programma, in attesa della futura versione 6 che si annuncia rivoluzionaria. Intanto le comunità createsi intorno al programma continuano a crescere. Anche quella italiana (sul cui sito, www.gamemaker.it, si trova un’ottima traduzione del file help del programma, anche se incompleta), seppur ancora allo stato embrionale, pare destinata a crescere e svilupparsi similmente a quella olandese… Chiunque abbia mai sentito parlare del binomio drag&drop può farsi un’idea del modo in cui Game Maker è concepito. Creato inizialmente per un pubblico giovane, GM propone un’interfaccia basata sul trascinamento delle icone, che rappresentano le azioni e costituiscono i programmi. Per far sì che un determinato movimento avvenga, è sufficiente cliccare sulla giusta icona e trascinarla in uno dei tanti possibili eventi all’interno delle proprietà di un oggetto. Gli oggetti e gli eventi sono a loro volta le componenti principali del programma: similmente a quanto accade nel linguaggio C++, GM si fonda sul cosiddetto Object-Oriented Programming, un linguaggio di programmazione fondato sugli oggetti. Gli oggetti in questione sono assimilabili ai mattoncini del Lego: ogni oggetto ha al suo interno svariati eventi (l’evento “crea-
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zione”, l’evento “step” o l’evento “fine animazione”), che a loro volta si costituiscono di una serie più o meno lunga di azioni. Ad esempio, se l’oggetto X ha un evento creazione che contiene l’azione “muoviti verso il punto (x;y) a velocità 10”, appena creato comincerà a muoversi verso il punto stabilito alla velocità stabilita. Il concetto alla base del object-oriented programming è che ogni oggetto contenga entro di sé le informazioni necessarie alla sua creazione, al suo movimento, ai modi in cui interagisce con gli altri oggetti e con la mappa e alla sua distruzione. Il motore di Game Maker è per questo potente e versatile. La creazione di un gioco prevede tre passi fondamentali: 1) messa a punto degli oggetti (personaggi e nemici, proiettili, piattaforme mobili ecc.) 2) messa a punto delle mappe di gioco (il classico level design) 3) creazione di sprite e animazioni che rappresentino gli oggetti. Per quanto riguarda sprite e animazioni è presente un vero e proprio editor di immagini, semplice ed efficace, che permette la creazione di tanti effetti speciali usati da sempre nei giochi bidimensionali (ad esempio i cambi di colore) con pochi e mirati clic. Oltre ad un alto numero di formati supportati per le immagini, il supporto per gli .avi e gli .mpg, GM prevede l’utilizzo di file sonori in formato .wav, midi e .mp3. Ma quello che interessa a chiunque voglia cominciare a creare videogiochi sono probabilmente le reali potenzialità di Game Maker. GM, è bene dirlo subito, è concepito e realizzato per la creazione di giochi bidimensionali. Sebbene sia possibile integrarlo con dei motori 3D (Irlicht e Xtreme3D su tutti) e si possano simulare le tre dimensioni tramite lo zoom delle immagini (un esempio si trova a questo link: www.gamemaker.nl/tutorials/ threed.zip), il suo punto di forza restano le due dimensioni. E nell’ambito delle due dimensioni, diversamente da tool dedicati come RPGMaker, GM non ha davvero nessun limite. Qualsiasi gioco bidimensionale che utilizzi grafica in bitmap può essere ricreato in ogni suo più piccolo aspetto. Qualunque idea possiate avere per un prodotto bidimensionale, Game Maker può realizzarla. Non sempre l’uso del programma è semplice, e il metodo drag&drop denuncia alcuni limiti che solo il GML (Game Maker Language) può superare: la gestione complessa di variabili e condizioni (if statement) trova asilo all’interno degli scripts, veri e propri blocchi di codice da compilare riga per riga. E imparare ad usare un linguaggio di programmazione, per quanto semplice e intuitivo, non è possibile senza costanza e applicazione. È bene comunque tener presente che il 90 % delle funzioni del tool sono tranquillamente accessibili col metodo drag&drop, e che la facoltà di importare gli scripts (se ne trovano di già pronti in migliaia di siti web, come ad esempio a questo link: www.gamemaker.nl/resources/database.zip) rende lo sviluppo di un videogioco incredibilmente veloce e scorrevole… Autore: Mark Overmars Versione: 5.3b Link: http://www.gamemaker.nl
:SPOILER!:
Ring#12
Viewtiful Joe DS di Federico Res
[SPOILER!]
L’E3 è lo scrigno dei desideri di ogni videogiocatore che si rispetti. L’appena conclusasi edizione 2004 ha stuzzicato a ripetizione l’inguine dei maschi videogiocatori. Sicuri blockbuster quali Killzone, Metal Gear Solid 3, Resident Evil 4 e il nuovo Zelda GC hanno indotto alla salivazione sconsiderata migliaia di visitatori. I nuovi portatili di Sony e Nintendo - PSP e Nintendo DS - hanno costretto a contrazioni sfinteriche chiunque abbia avuto la grazia di toccarli con mano. E potevamo noi, perpetratori dell’edge killing e indefessi cacciatori di scoop, starcene con le mani in mano? Pleonasticamente no. Ring si è fiondata allo stand Capcom e ne ha penetrato i meandri. Dotandosi di cipiglio anglofono e targhetta puzzonasista (sottratta a certi scribacchini inglesi, provvidenzialmente addormentati e imbavagliati in un angolo dello stand Microsoft), il dito in culo dell’editoria italiana ha affondato gli artigli su di un succulento boccone: Viewtiful Joe DS. La prima dimostrazione concreta delle potenzialità del nuovo parto Nintendo...
Ufficialmente Viewtiful Joe DS nasce da una costola di Viewtiful Joe 2, in sviluppo su GC e PS2. A ciò si deve l’estrema somiglianza estetica dei due giochi. Tuttavia, la versione DS è strutturalmente anomala. Afferrato il portatile (leggero, compatto e offensivamente brutto) sono due le cose che saltano subito all’occhio: • Joe è reso ancora più ebete dalla sua figura intera in bella mostra nello schermo inferiore della console • Lo schermo superiore lampeggia la scritta “Demo 0.1 VJ-ds push Joe’s ass to start” Con un’espressione da “ma ass non è una parolaccia?” in fronte, notiamo che nello schermo inferiore Joe si è voltato per sculettare al nostro indirizzo. Touch screen: la reazione è impulsivofulminea. Plomp. Joe si massaggia per un attimo le chiappe, dopodiché il gioco comincia. Dopo un breve filmato introduttivo, Viewtiful Joe DS è pronto a mostrarsi in tutta la sua magnificenza. I comandi somigliano a quelli del primo episodio: L rallenta l’azione, R la velocizza, A scatena la combo pugno-pugno-calcio, B è il salto, C lo zoom e D… D è un “Matrix”: quando lo premiamo, dopo aver indotto Joe ad un agile balzo, l’azione viene rallentata fin quasi al congelamento. Dopo pochi istanti il rallentamento svanisce da sé. Con in mente possibili/futili utilizzi (tipo salvare le scene più viewtiful e vedersele nel secondo schermo ruotando la telecamera), ci dimentichiamo del Matrix e rivolgiamo l’attenzione allo schermo inferiore. Il touch screen ostenta un Joe tamarro-ballerino che si dimena incurante di ciò che avviene pochi centimetri sopra di lui. Lo osserviamo per qualche istante prodursi in pose comico-possenti: nell’angolo in basso a destra, un punto dello schermo facile da raggiungere col pollice, c’è l’icona di una telecamera. Premendola la visuale ruota intorno a Joe, inquadrandone le terga, per poi tornare alla posizione di partenza. A che serve? Memori del pizzicotto sul sedere di poco prima affondiamo l’indice sul corpo inerme di Joe. Joe accusa il colpo: il dito nello stomaco lo fa piegare in due tra mugugni di dolore. Un istante dopo si risolleva e ci indirizza un gesto eloquente col medio guantato di bianco. Risate sghignazzanti e una domanda: a cosa serve? Proviamo allora ad afferrargli un braccio con la punta dell’indice. Joe reagisce in maniera scompisciante-realistica. Trasciniamo il dito e… voilà, il braccio di Joe diventa quello di Popeye. Un jingle segnala l’evento. Del movimento proviene dallo schermo superiore… Vietiful Joe DS è un gioco prodigioso. Stuzzicando il corpo dell’eroe con le dita, è possibile modificarne l’aspetto per ottene-
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re effetti particolari, tutti in tempo reale. Queste le situazioni che ci siamo così trovati ad affrontare: 1) Un boss panzone, che faceva rimbalzare Joe col suo ventre, è stato sconfitto grazie al pugno di Popeye: ingigantendo il braccio destro di Joe abbiamo eseguito un charge punch, che scatenando un tornado ha ribaltato il panzone consentendoci di infierire sul suo punto debole… 2) Una serie di salti (apparentemente) impossibili è stata superata agendo sulle gambe di Joe, trasformabili in trampoli o in potenti pistoni. 3) La caduta dopo un volo gigantesco è stata attutita dal sedere di Joe trasformato in una specie di mongolfiera. 4) Una pericolosa orgia di nemici è stata risolta grazie al Viewtiful Twister: abbiamo ingigantito il braccio destro e la gamba sinistra di Joe, riducendolo a un vero e proprio freak. Sullo schermo superiore, spostandolo a destra o a sinistra, Joe ruotava come un mulinello. Troppo ROTFL. Poi abbiamo premuto ripetutamente A e abbiamo scoperto che, mentre mulinava, Joe poteva distribuire cazzotti a destra e a manca. 5) Una situazione che sembrava impossibile, con Joe rinchiuso in un pozzo senza uscite, è stata risolta grazie alla sacra tecnica del capoccione. Abbiamo aumentato le dimensioni della crapa di Joe, con pollice e indice, e immediatamente una lampadina è apparsa sulla sua testa. “Strecht my legs!” ci ha ordinato Joe dallo schermo inferiore. Allungandogli le gambe gli abbiamo permesso di arrampicarsi come un ragno su per il pozzo. Pazzesco. Viewtiful Joe DS si annuncia rivoluzionario. Le sue caratteristiche sono ben congegnate e assolutamente vincenti. Bastano pochi tocchi, di indice o pollice, per innescare un cambiamento nel corpo di Joe. Agire sull’icona della telecamera fa sì che la visuale mostri il punto del corpo di Joe che di volta in volta è utile modificare, mentre un’altra icona rossa, che appare dopo un cambiamento, può essere usata per ripristinare immediatamente le sembianze originarie di Joe. Il Matrix, tutt’altro che una trovata coreografica, si è rivelato particolarmente utile per modificare Joe in tempi telecinetici (come durante i furiosi scontri coi boss). Completano il quadro un indicatore della “resistenza al modellamento” (quando scende a zero Joe non sopporta più i cambiamenti e va in mille pezzi) e tutte le altre funzioni già apprezzate nel primo episodio per GameCube. In definitiva, un gioco bagnosamente nuovo. Just viewtiful!
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Ring#12
Divina Supremazia/
Definitiva Sconfitta
[Me Nintendo #12] di Gatsu “There is no force no money and no power / To stop us now and change our fate / Before we rise / Now every problem is destroyed / We raise our hands and bodies to the peak / Into the Universe - towards the stars we go” Una dichiarazione dei Laibach, supporter ufficiali di Nintendo all’E3 2004 “My name is Reggie. I'm about kicking ass” La battuta d’apertura di Reginald Fils-Aime alla conferenza Inutile negarlo, all’E3 2004 Nintendo ha rialzato la testa ed ha guardato negli occhi chi la dava per spacciata. Non solo per la quantità e la qualità dei titoli presentati (moltissimi i giochi sviluppati internamente, come da tradizione, ma lodevole anche il supporto delle terze parti), ma soprattutto per la quantità di sorprese che la fiera losangeliana ci ha riservato. In primo luogo l’ascesa allo status di superstar di Reginald FilsAime, vicepresidente esecutivo di Nintendo Of America e indiscutibilmente nuovo frontman ufficiale della grande N (Iwata, facci un piacere, la prossima volta fai finta di non sapere l’inglese…). Questo “cambio della guardia”, oltre ad essersi rivelato estremamente indovinato, mette in evidenza rinnovate strategie comunicative finora snobbate dalla casa di Kyoto. Mai e poi mai mi sarei aspettato un presentatore Nintendo esordire con un “I’m about kicking ass”. Che si siano finalmente decisi ad abbandonare il politically correct?1 Seconda sorpresa della serata è stata la presentazione di Nintendo DS, che seppur annunciata con abbondante anticipo, rischiava, nelle parole dello stesso Satoru Iwata (cito testualmente: “Non mi aspetto una grande accoglienza all’E3. Prevedo solo 15-20 applausi nell’intera platea”) di rivelarsi un fallimento. Ora, mi riesce difficile interpretare quanto detto dal presidente di Nintendo of Japan appena 2 mesi e mezzo fa. Era una tattica per cogliere tutti in contropiede presentando un prodotto sinceramente esaltante, oppure Iwata si stava ispirando al marketing Sega per (non) generare hype attorno alla nuova console? Misteri dei giapponesi. Infine, il megaton tanto atteso è
arrivato, e un nuovo Zelda figlio di quanto visto allo SpaceWorld 2000 si profila all’orizzonte, fra la ola orgasmica dei presenti e lo champagne stappato dal pubblico a casa nemmeno fosse Capodanno. Chiunque avanzasse ipotesi di debolezza è stato servito, e sia Microsoft (francamente sottotono, ma è pur vero che non aveva hardware da presentare) che Sony (in scalpitante attesa di sfondare nel mercato portatile) sono avvisate. Nintendo ha tutte le intenzioni di spaccare i culi e intende farlo nel modo in cui lo ha sempre fatto: innovando. Dopo il doveroso riassunto della fiera, vediamo di concentraci sul nuovo portatile, che Nintendo stessa ha definito “vitale per il futuro dell’azienda”. Non mi soffermerò troppo sulla descrizione delle caratteristiche del DS, del resto sono certo che gli aficionados di Ring non hanno certo bisogno di questo tipo di articolo. Piuttosto mi pare interessante discutere a proposito di alcuni particolari su cui poco si è detto. Questione più importante: Nintendo DS non è il nuovo Game Boy, ma la terza serie hardware che va ad aggiungersi all’affermato brand portatile e a quello Gamecube (o comunque verrà chiamata la prossima console casalinga). Vi invito ora a leggere una dichiarazione di Miyamoto rilasciata a IGN il 12 Maggio: “Questo è il Nintendo DS (lo solleva). Se gli date un’occhiata, potrebbe sembrare un Game Boy. Ma abbiamo creato l’hardware con l’i-dea precisa che non avrebbe dovuto essere un Game Boy. […] Sono sicuro che la gente lo identificherà con il nuovo Game Boy, perché
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l’abbiamo dotato di retrocompatibilità con i vecchi titoli, ma in realtà il DS è il nostro terzo pilastro.” Ora, della confusione che rischia di generarsi Nintendo pare perfettamente consapevole. D’altra parte, la retrocompatibilità appare senza dubbio la scelta più logica, e permette a DS di essere lanciato sul mercato con un catalogo pregresso che conta centinaia di titoli. Ma quello che Miyamoto lascia intendere, è che la serie Game Boy continuerà indisturbata. Al che ci si chiede (ammettendo che il prossimo esemplare punti tutto solo sul potenziamento tecnico), ma chi lo fa fare all’utente di comprarsi il Game Boy se poi tanto la serie DS sarà comunque retrocompatibile? Ma soprattutto, vista la compatibilità, non avrebbe senso riunire tutto sotto un unico brand, visto che all’occorrenza Nintendo DS può essere usato in modo tradizionale (senza cioè sfruttare touchscreen o altro)? Oltretutto, le dichiarazioni rilasciate stridono terribilmente con quanto detto da Reggie alla conferenza, e cioè: “Mentre tutti gli altri hanno in programma di farvi viaggiare più velocemente sulle strade che avete sempre percorso, Nintendo si pro-
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pone di portarvi su strade che non avete mai esplorato prima d'ora”
Ring#12
EyeToy e le cuffie microfonate sono segnali da non sottovalutare, in questo senso. Possiamo comunque dirci soddisfatti: Nintendo ha (finalmente) mostrato i denti senza rinunciare a ciò che l’ha resa celebre, la voglia di stupire. Per quest’anno è molto di più di quel che si poteva sperare…
>> Stop’n’Go >>
~ Manhunt ~ Manhunt è bellissimo. è Metal Gear Solid senza le cut scene. Non so se le VR mission sono così, ma di fatto il gameplay è un continuo di situazioni stealth, pensa e agisci. Essere beccati può sinificare la morte e la morte significa ripetere lunghe sessioni di gioco, ma anche se non si muore viene voglia di ricominciare per non rovinare l'atmosfera. Cazzo, l'atmosfera. Spezzare il cranio a una ciccione a suon di bastonate è bellissimo, se poi lo si fa alle sue spalle è ancora meglio. Ma la cosa più bella è uccidere alle spalle, poi spappolare le ossa del cadavere, metterlo in mezzo ad una strada illuminata e spiare, nascosti, i suoi amici che accorrono e si preoccupano. Poi appena si mettono a girare per trovarti, beccarne uno isolato e fargli un trattamento altrettanto piacevole. Mettere anche il suo cadavere là in mezzo e vedere i cazzoni che cominciano a cagarsi sotto. Mai mi sono sentito così tanto sadico. Adoro il dolore. D'altronde io GTA non l'ho mai finito perchè ogni volta che fallisco una missione mi metto a spaccare puttane. Vediamo come va avanti, ma per ora è bellissimo. Soprattutto gli infiniti modi per affrontare le stesse scene.
Nota Allora com’è? Nintendo DS diverrà la piattaforma del “famolo strano”, mentre il prossimo Game Boy sarà il vero avversario di PSP? E perché allora c’è questa compatibilità fra le due macchine? Converrete con me, qualcosa non quadra. Niente che possa far disperare l’utenza, sia chiaro, ma mi sembra evidente che nemmeno Nintendo sa bene se tenere in commercio due portatili contemporaneamente. Poi, stando a quanto dichiarato durante la famigerata intervista, l’idea dell’accoppiata touchscreen + microfono è saltata fuori perché uno dei limiti maggiori e più evidenti dell’attuale modo di produrre giochi è quello di essere vincolati ad un controller. L’argomento, già affrontato in passato da Miyamoto (e anche da Kojima se non erro, ma forse lui si lamentava di altri limiti fisici, tipo gli schermi televisivi), acquista rinnovata linfa alla luce di un paio di accenni di Iwata all’N5, la console destinata a sostituire Gamecube, a quanto pare “sviluppata seguendo la stessa filosofia che ha dato vita a Nintendo DS”. Che il nanetto giapponese stesse tentando di dirci che il prossimo passo di Nintendo nel mercato home sarà quello di eliminare i pad? Una prospettiva interessante, senza dubbio. L’ultimo punto che merita qualche riflessione riguarda invece le capacità simil PDA di cui DS sarà capace. Grazie alla compatibilità Wi-Fi, è possibile collegare il DS ad un router internet e utilizzarlo come piattaforma di instant messanging, scambio immagini e chissà cos’altro. Questa prospettiva, al momento attuale solo una vaga possibilità, rivela però un’enorme potenzialità a livello ludico, e non mi è affatto difficile immaginare un MMORPG espressamente sviluppato per avvantaggiarsi dell’accoppiata microfono + touchscreen. Che sia l’inizio di una nuova era, dove il miglioramento audiovisivo passerà in secondo piano a favore di interfacce gioco-utente sempre più stimolanti? Difficile a dirsi al momento attuale, anche se altri fenomeni come
[1] È indubbio che la nuova strategia sia diretta e inevitabile conseguenza della precedente politica “morbida”, che ha causato alla grande N ben più di qualche problema di immagine. La continua associazione ad un pubblico infantile si è rivelata un grande handicap per la casa di Kyoto, che pare finalmente conscia di dover allargare la sua fascia d’utenza fino a comprendere persone dai gusti assai diversificati. Non si tratta solo di accaparrarsi saghe di richiamo come Resident Evil, ma anche e soprattutto di (a) promuovere una differente immagine della compagnia – ed è in quest’ottica che deve vedersi l’insediamento di Reginald Fils-Aime - e (b) avvicinarsi maggiormente ai gusti del pubblico – e il nuovo Legend Of Zelda sembra essere il primo passo lungo questa strada. Un voltafaccia nei confronti della vecchia filosofia aziendale? No. Si tratta piuttosto di un compromesso ragionevole fra la solita politica d’innovazione e le attuali esigenze del mercato. Del resto, per uno Zelda che è esattamente come il pubblico chiedeva, Nintendo ha presentato in fiera anche giochi completamente folli, tra cui mi sento di citare Donkey Kong: Jungle Beat, Geist e Odama.
Paolo Ruffino
[Ring è] Accademia della Crusca Direi di no. IMHO quella porzione di video è già abbastanza vuota adesso. Togliere la mezza scritta la svuoterebbe ulteriormente. Ulteriormente. ULTERIORMENTE. Che parola curiosa "ulteriormente". Ma esiste? Credo di non averla mai scritta prima in vita mia... Nemesis Divina
~ [Ring è] Il primo amore non si scorda mai Vedila così. La tua prima ragazza è stata una storia bellissima, ma lei era un cesso. la tua seconda ragazza era a tutti gli effetti un remake: aveva anch'essa le tette, la patatina, gli occhioni dolci e ti rompeva il cazzo allo stesso modo. però era una gran figa. Ora, tu mi dici che la seconda la ricordi COMUNQUE meno volentieri perchè era un remake della prima???? Emalord
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[The Ivory Tower] Ogni mese un membro della DiGRA (Digital Games Research Association), una associazione che riunisce studiosi e critici del videogioco, esprimerà in questo spazio i suoi pensieri, le sue riflessioni, le sue scoperte. Gli sguardi di queste persone, coinvolte in modo diverso nel mondo dei game studies o nell’industria del videogioco propriamente detta, saranno uno spunto per arricchire i nostri dibattiti e per crearne di nuovi. La IGDA (www.igda.org) (International Game Developers Association), da sempre impegnata nello studio del videogame e proprietaria degli scritti degli uomini della DiGRA, ha acconsentito alla pubblicazione in lingua italiana su Ring di questi articoli. Ringraziandoli ancora una volta, ci auguriamo che le nostre pagine siano degne della passione che la IGDA nutre per il proprio lavoro. Al fine di stimolare la curiosità di chi volesse approfondire l’argomento, abbiamo deciso di conservare i riferimenti e i link presenti nei testi originali.
Questo mese il nostro ospite è Gonzalo Frasca. Dopo aver studiato in Uruguay e negli USA, Gonzalo ha svolto una lunga serie di lavori e ricerche. Attualmente è impegnato presso il Computer Games Research Center di Copenaghen (game. itu.dk). È co-fondatore e produttore presso la Powerful Robot Games (www.powerful robot.com/) e ha lanciato il sito Newsgaming.com (www.newsgaming.com), attraverso cui espone i suoi “ideological videogames” come 12th September o il più recente Madrid, basato sulla strage dello scorso 11 Marzo. Collabora per Water Cooler Games (www.wa tercoolergames.org), un sito di ricerca sui videogames che “vanno oltre l’intrattenimento”. Collaboratore per CNN e Cartoon Network, Gonzalo Frasca è una delle menti più prolifiche nel mondo dei game studies. Il suo weblog Ludology.org (www.ludology.org) è una delle fonti più aggiornate ed interessanti per quel che riguarda gli studi sui videogiochi. In questo articolo, datato Novembre 2003, Frasca discute gli effetti di un gioco come 12th September, e si interroga su come e quanto sia possibile discutere di temi politici attraverso i videogiochi.
Ideological Videogames: press left button to dissent di Gonzalo Frasca “I videogiochi non devono necessariamente essere divertenti”. Una simile affermazione è ancora capace di generare aspri dibattiti (anche se non come un po’ di anni fa). Chi vorrebbe giocare un gioco che non è divertente? La risposta, ovviamente, è da ricercarsi nella definizione di divertimento. La questione è insignificante per altri media, come i libri o i film. Certo, migliaia di film e di racconti sono prodotti ogni anno col solo obiettivo di intrattenere i fruitori, ma altrettanti mirano a generare dibattiti, fare il punto di una questione, condividere della conoscenza. Questi ultimi obiettivi non sono divertenti per definizione, ma finiscono comunque col fornire un certo piacere.
Gonzalo Frasca
Il problema dovrebbe piuttosto essere considerato per i videogiochi. A dire il vero i videogames sono nati per scopi diversi dall’intrattenimento, cioè come simulatori militari per l’addestramento. Hanno una loro storia anche i videogiochi pedagogici che si pongono come fine ultimo quello di educare. Questi esempi, che esistono da sempre, dovrebbero essere sufficienti per asserire che i videogiochi possono avere intenti diversi dall’intrattenimento, anche se l’esperienza insegna che molti videogiocatori reagiscono negativamente ai videogiochi che non aspirano ad essere divertenti. Se i videogames sono mezzi persuasivi possono essere usati per trasmettere ideali forti. Se si vuole sapere se un medium è in grado di trasmettere un messaggio ideologico, basta chiedere a qualcuno se sarebbe disposto a mettere a rischio la propria vita per difenderlo. Ci sono molteplici casi nella letteratura (Salman Rushdie, ad esempio) e di certo accade nei film, anche se a livelli più bassi (L’Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese fu violentemente boicottato). Qualcuno sarebbe disposto a morire per i videogiochi? Credo che la risposta sia ancora negativa. Allo stato delle cose, è più probabile che i videogames generino dibattiti in-
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fuocati conditi da un linguaggio poco pulito. Il momento in cui mi sono reso conto che il mio gioco 12th September aveva trasmesso le sue idee fu quando la prima mail carica di odio arrivò nella mia mailbox. I videogiochi ideologici sono videogiochi con cui puoi essere in accordo o in disaccordo. Certo, nessuno è in disaccordo con Tetris. Comunque, nel momento in cui i videogiochi hanno iniziato a gestire simulazioni più realistiche della vita umana la situazione è cambiata. Un chiaro esempio è The Sims, che è stato criticato per essere un inno al consumismo (ma difeso dal suo autore come anti-consumista). Tuttavia credo che The Sims fosse stato progettato innanzitutto come qualcosa di divertente. Non c’è niente di male in questo, ma mi farebbe piacere vedere anche dei giochi che rendano più espliciti i loro obiettivi. Prima di dedicarmi alla professione di game designer, ho lavorato nella pubblicità e come giornalista. Il collegamento tra videogiochi e pubblicità mi è si è aperto davanti agli occhi la prima volta che ho visto un cartellone della Budweiser in Tapper, il leggendario gioco di barman. È stato mentre lavoravo alla CNN che ho iniziato ha sognare ad occhi aperti di videogiochi che completassero le news del giorno fornendo visioni critiche, un po’ come fanno
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le vignette di satira. E un po’ di anni dopo, fui finalmente in grado di lanciare Newsgaming.com con l’aiuto di un gruppo di collaboratori. I newsgames, ovverosia giochi basati su eventi recenti, non sono una novità. Ci sono infiniti esempi di giochi creati sulla base di avvenimenti politici e sociali, e ce ne sono molti che prendono spunto dall’11 Settembre. È da questa base che sono partito per creare 12th September, un gioco (anche se la presentazione provocatoriamente dichiara che non è un gioco) che cerca di fare il punto sulla guerra al terrore. Di base, il gioco mostra una cittadina del Medio Oriente abitata da diversi civili e qualche terrorista. Il giocatore controlla un puntatore col quale è possibile indicare dove lanciare un missile. È quasi impossibile uccidere un terrorista senza generare dei “danni collaterali”. Ogni volta che un civile muore un altro civile si metterà a lutto e diventerà di lì a poco un terrorista. Dopo pochi minuti di gioco il numero di terroristi diventerà incontrollabile. Se volete leggere una descrizione dettagliata della mia esperienza nel realizzare 12th September, potete dare un’occhiata a Playing with reality, su Game-Research.com. Non voglio parlarvi delle obiezioni più comuni, come quella di aver creato un gioco fazioso che non mostra i terroristi in azione. Vorrei comunque approfondire alcuni aspetti. 12th September è stato concepito con due obiettivi. Il primo era veicolare un’idea attraverso un semplice assunto: la violenza genera violenza. Speravo che questa idea potesse suscitare un dibattito sul tema delle perdite civili nella guerra al terrore. L’altro obiettivo era quello di esplorare le difficoltà del creare un videogioco ideologico piuttosto che scriverne a riguardo dall’alto della mia splendida e torre d’avorio.
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Di certo il dibattito è stato generato. A poche settimane dal lancio, più di centomila persone avevano giocato a 12th September. E cosa ancora più importante, più di metà delle visite giungevano da forum online e commenti dei weblog, nei quali sia il gioco che i suoi contenuti venivano discussi.
grande, io credo. Risiede, a mio giudizio, nella possibilità di fornire dei tool per progettare i propri videogiochi e permettere così ai giocatori di contestare le asserzioni ideologiche delle simulazioni. I videogiochi potrebbero permetterci di dare forma alle nostre idee e di farci giocare gli altri, e viceversa.
Il gioco inoltre ha generato delle critiche ed è stato spesso bollato come troppo semplicistico (e, ovviamente, lo è). In parte questo rifiuto può essere stato causato da quello che Sherry Turkle definisce nel suo libro Life on the Screen un “rifiuto della simulazione”: alcune persone credono che le simulazioni non possano aiutarci nel capire la realtà perché ne offrono sempre e comunque un modello limitato. Comunque, io credo che buona parte di queste critiche provenga dal fatto che i videogiochi politici non sono un genere ancora sufficientemente affermato. Nessuno criticherebbe una vignetta satirica sulla base del fatto che è troppo semplicistica: le caricature sono semplificazioni per definizione. Al contrario, le vignette offrono spunti e pertanto restano un efficace strumento giornalistico.
Uno dei ricordi più vivi della mia infanzia è legato a mia madre e mia zia, che trovai a piangere dopo aver bruciato buona parte dei loro libri nel retro della casa. Era durante la dittatura militare della mia nazione, quando possedere certi libri era un motivo sufficiente per essere imprigionati o torturati. Chissà se un giorno qualcuno si ritroverà davanti ad una pila di videogiochi con un fiammifero in mano in dubbio se distruggerli o meno per conservare la propria libertà. Se questo succedesse, significherebbe che la nostra civiltà ha trasformato un medium insignificante in un qualcosa di grande importanza. Grazie e Ray Bradbury, sappiamo che i libri bruciano a 451 gradi Fahrenheit. Chissà quanto calore è necessario per bruciare un videogioco?
Abbiamo bisogno di più giochi capaci di porre asserzioni. Certo, i giochi e le simulazioni saranno sempre limitati. I giochi saranno sempre soggetti a pregiudizi. Saranno sempre interpretati (e manipolati) secondo modalità che i loro autori non possono prevedere. Ad ogni modo, sono d’accordo con Sherry Turkle quando afferma che i videogiochi possono anche offrire una visione più profonda: “Capire gli ideali che sono alla base di una simulazione è un elemento chiave del potere politico. Le persone che avvertono le distorsioni imposte dalle simulazioni sono nella posizione di chiedere un controllo economico e politico più diretto, nuove forme di rappresentanza, più canali di informazione.” (ibid) Per raggiungere tutto questo, noi accademici dobbiamo unire le nostre forze a quelle dei produttori e fornire loro della valide teorie o, ancora meglio, iniziare a creare i nostri giochi. 12th September è un piccolo esperimento di retorica videoludica. Tuttavia il potenziale dei videogiochi nel generare dibattiti e pensiero critico è molto più
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Stage 4: l’originalità [Arena: opinioni in multiplayer] Dammi il solito di Gatsu
Si fa un gran parlare dei giochi originali. E Rez qui, e Ico lì (come se fossero originali poi), e non c’è spazio per gli artisti del videogioco, che poveretti sono schiacciati dal mercato. Ora, parliamoci chiaro. I generi nuovi si possono anche creare, ma non sempre ne vale la pena. Ci sono infatti due fattori da considerare: 1) Una volta che l’industria ha trovato uno schema valido, non c’è nessun vantaggio nel non salire sul carrozzone del vincitore. L’abbiamo visto ad esempio con i survival horror: da Resident Evil in poi è stata la sagra degli enigmi chiave-rossa-in-serratura-rossa. Per non parlare di GTA: pare che anche nel prossimo gioco di Topolino si potranno picchiare le prostitute. 2) C’è un potenziale enorme nei generi classici che nessuno ha ancora pensato di sfruttare. A volte arriva il colpo di genio e nasce un tipo di gioco paradigmatico e completamente inedito, però, ammetterete, questa eventualità sempre più rara è frenata inoltre dai limiti di interfaccia giocatore-sistema attuali. Le strade che si sono tentate allora per proporre titoli “originali” finora sono state due: 1) Quella del gioco con annessa periferica insolita, soluzione destinata al più ad essere utilizzata in una manciata di titoli simili (fallimentare, perché si serve comunque di una interfaccia non standard, come potrebbe essere invece il touchscreen del Nintendo DS). 2) Quella di mischiare fra di loro generi diversi, cercando l’originalità non dentro la tipologia di prodotto in
sviluppo, ma inglobando piuttosto elementi esterni e difficilmente conciliabili. Abbiamo così sempre più spesso degli agghiaccianti platform-picchiadurostealth-FPS-racing-puzzle. Spesso si preferisce battere la strada conosciuta apportando minime variazioni, piuttosto che fornire un reale nuovo approccio alla stessa materia. Ma perché? Non mi verrete mica a dire che l’unico tipo di survival horror concepibile è quello impostato alla Resident Evil? Lo stesso Mikami se n’è accorto, sebbene con notevole ritardo. Forbidden Siren, per dire l’unico esempio che mi sovviene, finalmente cambia la regole del gioco. Il nuovo lavoro di Toyama, pur essendo ancora completamente inseribile nel genere “survival horror”, modifica drasticamente alcune meccaniche date per assodate e crea qualcosa di davvero “originale” partendo pur sempre dalle basi tradizionali. E se l’intenzione era quella di creare angoscia, beh, io non conosco titolo migliore. Obiettivo raggiunto, o no? Stesso discorso vale per gli RPG: esistono così tante cose “nuove” che si possono implementare nelle meccaniche classiche (ne ho parlato meglio nell’articolo “JRPG e l’ottava piaga divina” cfr. Ring#05) che non ha quasi senso prendere in prestito il gameplay di altri generi, né creare qualcosa di totalmente diverso da quello che già conosciamo. E così via per qualsiasi tipologia di gioco si voglia prendere in considerazione. Perché pretendere iniezioni di assenzio quando abbiamo ancora mezza bottiglia di porto da scolare?
Can I borrow a feeling di Nemesis Divina
“Se pensi d’aver fatto una cosa bene, altre dieci persone l’avranno fatta uguale prima di te. Se pensi d’aver fatto qualcosa di nuovo, cento persone l’avranno fatta prima di te”; un adagio, sconosciuto ai più, che ben delinea una considerazione forse ovvia, ma non per questo assodata: fare le cose bene è più difficile che farle nuove. L’Innovazione nel VG è una di quelle chimere inafferrabili che il giocatore insegue, ambisce e scongiura durante le sue notti bagnate. Ma in quanto chimera, essa non esiste, è il parto isterico d’un ventre gravido del nulla. Con soli trent’anni sulle spalle, molti dei quali spesi su libri con tante figure e parole scritte in grande, il Videogioco è un linguaggio che pare aver già detto tutto, almeno dal punto di vista dell’utente smaliziato, che ha percorso l’evoluzione dell’intrattenimento digitale di pari passo ai brufoli in faccia, i peli sul culo, i preservativi bucati e gli alimenti all’ex moglie. Il giocatore navigato (diremo stanco), lamenta già da anni la fossilizzazione degli schemi ludici, salvo in genere sbottare di gioia a questo o quel remake che richiama il giurassico binario. Il giocatore navigato esalta i bei tempi, dove tutto era scoperta perché nulla era conosciuto. E dei designer di tempi fuggiti, gloriosi e dorati, non rimane che la pallida ombra d’un solo paio. Gli altri so-
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no… chissá, probabilmente in qualche sottoscala d’un retrobottega. Di essi non è rimasto che il ricordo nostalgico dei pochi, e le loro idee sono spregiate dalla maggioranza che, oggi, le vede per quello che sono e forse erano: graffiti, pitture rupestri, geroglifici, ideogrammi. Stronzate da cavernicolo. L’Originalitá nella sua forma più limpida, estrema e radicale è un miraggio che solo un cambio sostanziale del linguaggio puó innescare (forse). Ma finché rimarremo ancorati (e pare lo saremo ancora a lungo) ai medesimi schemi dettati dai medesimi controlli/interfacce sviluppati dalle medesime menti e indirizzate alla medesima utenza, la chimera dell’innovativo rimarrá tale: fuggevole, impalpabile. Inesistente. Ma, guardandoci attorno, l’originalitá puó anche esistere. La intravedi in qualche simulatore di lavapiatti, o in un FPS pacifista dove il BGM 9000 è caricato a rododendri, nel lancio del nano o nell’ennesima promessa del film interattivo. Ma questa è originalitá che non diverte, non piace. The Sims è originale. Ma The Sims non è divertente. The Sims è il prodotto deforme di una societá incancrenita, rimbabita da troppi amplessi fra consanguinei
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Ring#12
e culmine della deficienza vouyeristica di un dio da salotto. Potete averlo comprato, The Sims, potete addirittura averci giocato. Ma non venite a raccontarmela perché ci sono due o tre cose che so, che so per davvero. E una è questa. The Sims non è divertente. Siamo davvero cosí ammaliati dal miraggio del nuovo? O forse, come dice il rutilante Cryu, il tie-in becero con altisonante licenza hollywoodiana annessa e gameplay trito (ma accordato) puó fare le scarpe a qualsiasi fottuto noioso limitato trip di suoni/luci/colori?
Forse che l’innovativo cede il passo al vecchio “coinvolgimento”? Il coinvolgimento che ci faceva sembrare geniale, quasi divertente, far attraversare la strada ad una rana. Quel coinvolgimento che ci prospettava artistica l’idea di un cammello armato di laser o di una palla con gambe e nasone? Voglio un gioco uguale a mille altri che mi diverta. Voglio un gioco uguale a mille altri che mi faccia sognare. Voglio un gioco uguale a mille altri che mi racconti delle storie. Voglio un gioco come mille altri, ma che come nessun altro mi faccia piangere e sorridere. Cazzo, non voglio nemmeno un gioco. Voglio un’emozione.
Diffidate delle imitazioni di Paolo Ruffino
Parlando di originalità, forse dovremmo soffermarci a riflettere sulle parole che utilizziamo. Cos’è esattamente l’originalità? Cosa intendiamo quando parliamo di un’opera originale? È un’espressione usata sia per i videogiochi che per i romanzi, i film, le arti figurative e quant’altro. Ma qual è il punto in comune che lega le opere artistiche originali? Sicuramente la diversità rispetto a quanto visto precedentemente. Nel momento in cui giudichiamo un’opera, ma anche semplicemente nel momento della fruizione, ci basiamo su un bagaglio di conoscenze e di esperienze che usiamo come fossero una guida. Prendete il video del brano di Fatboy Slim Weapon of choice, girato da Spike Jonze, che è il primo esempio che mi sovviene. Il video vede un Cristopher Walken in giacca e cravatta, sbracato e annoiato su un divano in una hall di un albergo vuoto, che si lascia prendere dal ritmo irresistibile di Fatboy Slim e inizia a ballare splendidamente. Verso la fine inizia anche a volare, costruendosi una coreografia spettacolare, fino a che la musica non finisce e il nostro si rimette seduto, un po’ triste. Bene, il video verrebbe da definirlo originale, ma è un termine esatto? Di fatto, cosa ci stupisce? C’è un uomo che balla, e questo non è originale. Balla in modo esagerato, facendo piroette e salti mortali, e lo fa con un abito rigoroso e ingessato. Ma Fraid Astaire faceva di meglio. Inizia a volare, ma è originale un uomo che vola? Sono tutti elementi assolutamente conosciuti, visti, già pensati in precedenza. Se vogliamo, anche banali. La loro unione crea un effetto nuovo? E’ nuovo il senso di spaesamento di fronte all’irrazionale, mostrato con ironia? E’ all’incirca alla base di tutta la comicità non-sense. Ma allora dov’è l’originalità? Semplicemente, non c’è. Originalità è, secondo me, un termine non corretto per parlare di questo video, così come di tutti i videogiochi che normalmente definiamo tali. Quello che avviene in un’opera “originale” è un richiamo ad elementi che fanno comunque parte del nostro bagaglio di esperienze, ma che vengono uniti in modo diverso, o mostrati in modo diverso. In effetti, un’opera davvero originale non può esistere. Non può esistere perché anche se si creasse una situazione del tutto nuova, sarebbe nuova solo in quanto “diversa dalle precedenti”. Il fatto che sia chi produce sia chi fruisce un’opera abbia già dentro la propria memoria altre esperienze, rende impossibile parlare di originalità vera e propria. Vladimir Propp, nel suo fondamentale Morfologia della Fiaba, espose le conclusioni a cui era giunto analizzando una raccolta molto vasta di fiabe popolari. Notò come in ognuno di questi racconti ricorressero degli elementi ben definiti, e arrivò a elencarli nella loro to-
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talità. Non ne trovò infatti più di trentuno, soltanto trentuno passaggi a cui potevano essere ricondotte tutte le fiabe che aveva studiato. Ma l’aspetto più singolare è che gli elementi base del ragionamento di Propp sono assolutamente validi per qualunque forma di narrazione. Vale a dire, non c’è narrazione senza “qualcuno che deve fare qualcosa”, “qualcuno che gli si oppone”, ecc. Anche un’opera “originale” come Kill Bill, o come Pulp Fiction, di Quentin Tarantino, ubbidisce ad uno schema assolutamente classico, anzi trito e ritrito. In Kill Bill una donna si vuole/deve vendicare, affronta degli ostacoli, e raggiunge il suo obiettivo. Cosa c’è di davvero nuovo? Portando il discorso al videogioco, potremmo dire che non solo nella narrazione ma anche nel gameplay vi sono degli elementi che ricorrono sempre, come se ci fossero delle regole non scritte a cui inconsapevolmente tutti obbediscono. Si potrebbe cercare di stendere una “Morfologia del videogioco”, partendo dall’esempio di Propp, trovando forse anche meno difficoltà dello studioso russo. Ma allora, non c’è scampo? A tutti gli effetti no, se continuiamo ad intendere l’originalità come ciò che distingue un’opera completamente nuova. Ma consideriamo questo. In ogni forma di espressione ci sono una serie di convenzioni. Ci sono come dei parametri che ci fanno distinguere ciò che è convenzionale da quello che non lo è. Nel cinema, ad esempio, una delle preoccupazioni principali dei primi registi fu quella di utilizzare una serie di soluzioni ricorrenti che guidassero lo spettatore e gli permettessero di riconoscere non solo un genere da un altro, ma anche di capire i movimenti dei personaggi e i dialoghi quando il montaggio staccava da un’inquadratura ad un’altra. Siamo ormai abituati a riconoscere gli spostamenti tra le varie scene ma in effetti il processo mentale è tutt’altro che scontato, e fu proprio usando sempre le stesse tecniche che il pubblico alla fine si abituò. Ora, dopo la creazione di un codice, un linguaggio raggiunge la sua maturità nel momento in cui è capace di discutere quel codice. Riesaminarne la struttura, il funzionamento. Rielaborarlo in modo critico, creativo. Con una parola, artistico. Per concludere, quello che forse ancora manca alla stragrande maggioranza dei videogiochi è proprio questo, la capacità di pensare su se stessi, di riflettere sulle aspettative dei giocatori, sui generi, sul gameplay. Come abbiamo visto il Tarantino di Kill Bill e Pulp Fiction non ha creato qualcosa di originale, ma è riuscito a riflettere sulle convenzioni della narrazione. A dire il vero, Kill Bill è sfacciatamente una riflessione sulle trentuno funzioni di Propp. Creare una “morfologia del videogioco”, per poi smontarla e discuterla. Ecco, è questo che vorrei vedere.
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Ring#12
[Vox Mundi]
eden 01: riflessi rubati di Nemesis Divina Non era proprio in questi termini, ma il senso c’era. Diceva che non siamo soli, che i nostri destini sono guidati e nemmeno da déi onnipotenti, ma da creature piccole e imperfette, come e più di noi. Diceva che loro, divinitá capricciose, giocavano con noi, che non ci credevano neppure vivi per davvero e non ci avrebbero mai concesso la libertá. Diceva che si divertivano a farci del male, che se ti guardavi in giro ogni tanto vedevi, negli occhi della gente, un qualcosa di alieno, potente e cattivo. Quelli erano loro, che venivano a farci visita. A sfruttarci ucciderci umiliarci. Che la vita é uno scherzo, una grande ingiusta giostra e… che bel culo. No, non era il momento ma… che gran bel culo! Erano tutte cose già sentite, santoni dalla TV che sputavano sentenze, dando per Rivelazioni certe letture di certe visioni ottenute fumando plastilina e scopando armadilli. Era un miscuglio di new age e Teknology, più qualche plagio dai filosofi del passato, che in genere stanno sempre un paio di passi avanti a chi viene dopo. Avrei dovuto ascoltarla, e lo facevo giuro. Ma un culo cosí… saliva le scale davanti a me, perché dietro non mi sarebbe mai stata. Probabilmente, mai neanche sotto. I jeans scoloriti le fasciavano aderenti le cosce e… dovrebbero esserci più gradini, in questa cittá. Lei li sale divinamente, e quel saliscendi di natiche ha un che di ipnotico e al tempo stesso sacrale. Se Dio fosse un cu… forse questa è una bestemmia. Salivamo verso il Tempio della cittá alta. Non che a lei interessasse nulla del Tempio, ma la vista é splendida da lí. E d’altro canto non potevo lamentarmi. Con tutti i gradini che c’eran da fare. “Che c’è, non hai niente da dire? O a guardarmi il culo ti sei pestato la lingua sotto le scarpe?” Cazzo! Doveva ancora arrivare il giorno in cui non dico l’avrei presa per il naso, ma almeno non mi sarei fatto prendere per il culo. Era il tipo di ragazza che se la sogni poi quando ti svegli ti piange il cuore, senti un vuoto dentro e smetti di farti seghe per una settimana almeno, perché ti sembra di tradirla. Lei. Un sogno. “Kyo?! Rispondi o cosa?!” S’era girata. Accidenti, se mi parlava guardandomi voleva dire che la cosa era seria.. Non l’avevo capito. Cosa diceva? Falsi déi, santoni, bambini, il culo… che culo. “No, è che… cioè…” “Quand’è che cresci?” Eccola che riparte. Fondoschiena mon amour. Perché non ho la videocamera?? Oh be’, me la spaccherebbe in testa, la videocamera, se le filmassi il culo. Risa era cosí. Una forza della natura con un gran bel culo. Era più grande di me di qualche anno, per quello credo non mi degnasse di uno sguardo. Dello sguardo che intendo io, dico, quello che si dà ad un potenziale, almeno possibile, o comunque concepibile compagno di letto. Risa aveva un sacco di idee strane in testa. La conoscevo da… sempre. Siamo cresciuti insieme e non avendo la madre era sempre in casa mia, ce la lasciava il suo vecchio… Stronzo! Comunque. Se si trattasse di qualsiasi altra ragazza confermerei, una cotta adolescenziale. Ma questa… sono grande abbastanza da riconoscere l’amore di una vita, quando lo incontro. E se anche è la prima volta è solo un caso, vorrá dire che sono molto fortunato. Me lo merito, credo. “Se non mi dici qualcosa ti dó un calcio nelle palle!” Disse. E poi si voltó di scatto, cosí veloce che affondai la testa fra i suoi seni. Dio, fammi morire, ora, cosí, adesso, in questo momento. Non morii. E il rischio di una pedata in mezzo alle gambe era concreto.
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Ring#12
“Che devo dirti, scusa?! Lo sai come la penso. Certo, il mondo è pieno di stronzi ma non sono demoni o cosa. Sono uomini. E’ quello che credo sia il problema.” “Bah, tu sei credente, non conti”. Appunto. Che vi devo dire, ingoio il rospo e si riparte. Intanto il culo sono io che te lo sto guardando. “Perché credi?”. Si fermó all’improvviso girandosi, ma un po’ me l’aspettavo che sarebbe successo. Risa non accetta di perdere la battuta. Sono colto di sopresa, gran sopresa già, e lei si è fermata di colpo, ho anche una certa paura, potrei farmi male. Non credo che si arrabbierá se per proteggermi le mie mani finiscono sulle sue… mani. Mi ha fermato con le mani?? “Giú le zampe, marmocchio. E rispondi!” “Ma no, ti sei fermata di colpo e mi stavo sbilanciando e mi…” “Rispondi.” Con le mani al fianco e la bocca imbronciata. Dio che figa. “Ma non c’é… una ragione. Credo e basta, mi alzo la mattina e sento che è la cosa giusta da fare. Tutto qui. Ho Fede.” “Cosa.” Quel sorriso affilato non mi convince, devo stare attento. “Fe-de.” “Allora si vede che io ho Ed-ef.” “E che diavolo sareb…” Scemo. “E’ come la Fede, peró al contrario. Siamo al punto di prima.” Era pure telefonata. Pazienza, lei riparte e io ho il suo culo. “Ma tu davvero ci staresti? Dico, se ho ragione io. Se il tuo dio è un bambino capriccioso, se tutte le cose brutte del mondo sono i suoi divertimenti. Come fai a non pensarci?” D’accordo, adesso ti rispondo. “Dio è onnipotente. Ha creato il nostro mondo. E ha creato noi. E’ una questione di logica, più che altro. Ti pare possibile che uno cosí immenso e saggio da costruire un universo, lo fa cosí, tanto per giocarci?” Ti ho fregata, bella mia. Cominci a perdere colpi. Magari sotto di me ci finisci, un giorno. Affondiamo il coltello. “Pensaci, tu ti impegneresti in una cosa, per poi trattarla male e distruggerla? Che senso avrebbe. Questa non è Fede, questo è buon senso.” Sono un figo. “Basta, sono stufa di camminare. Fermiamoci qui, c’è una piazzetta.” Ahahaha, ti ho incastrata. Che giornata gloriosa. “Mio padre… io credo che. Non lo so. Se ho ragione io, credo che era uno di loro.” Cazzo. Perdonami… non pensavo fosse questo. Che devo fare? Che farebbe un ragazzo più sveglio? Mi avvicino? Mi avvicino! “Tuo padre… non so… Risa, se n’è andato da tanto tempo. E’ finita.” Non è finita un cazzo, idiota. Ti pare che una cosa cosí finisce come comincia? Scemo! Ma come ti viene in mente?! Ammazzati, buttati giú dalla scalinata. E’ la cosa giusta da fare, falla, presto! “Sí. Hai ragione. Non c’è più… E poi adesso ho te.” Cooosa?! Non sto arrossendo, vero? Cazzo alza lo sguardo, devi guardarla cazzo. Guardala! Non sei più un bambino, dimostraglielo. Muoviti, dai dai. Nooo, si è girata di nuovo. Ho perso la mia occasione, moriró vergine, scriveranno qui giace l’avambraccio più grosso del Giappone. Idiota idiota idiota. “E’ difficile ma non impossibile sai, dimenticare. Sono una ragazza forte io, vero?” Diavolo se lo sei. Ma non ora. “Posso solo sperare che non fosse per gioco. Non soltanto un gioco. Ci spero davvero.” Risa… “Ti va di darmi la mano, mentre torniamo giú? Voglio andare a casa adesso.” Era in Aprile, il 17. E non potró dimenticarlo mai. S’era girata verso di me, con il Sole dietro, che nascondeva le scalette del suo viso. La presi per mano e cominciammo a scendere i gradini. E davanti c’ero io. Faceva caldo, il cielo era di un blu forte e la nebbia all’orizzonte scompariva man mano che proseguivamo mentre la cittá e le montagne crescevano a scatti davanti a noi. La giornata più bella che un essere umano avesse mai vissuto. Ne ero sicuro.
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Ring#12
Sanguine 02: nostalgia glows di Nemesis Divina
L’acqua smise di scorrere, con le volute di vapore che piano si diradavano. Uscí dalla doccia e infiló i sandali sui piedi ancora bagnati. Una macchia liquida s’allargava sul pavimento. Infiló shampoo e sapone nella bustina subito fuori, appoggiata sul calorifero, poi la salvietta venne sfregata con vigore sui capelli, rasati corti, e passata con scarsa attenzione sul resto del corpo. Le gocciole scivolavano su Adrian. Inforcó la salvietta sulla spalla destra uscendo dalla zona docce, nudo, verso lo spogliatoio. E vide subito la figura curva. Rico Schmidt era dall’altra parte della saletta. Una luce innaturale, stranamente rossastra, filtrava dal tramonto fuori, e attraverso le finestre arrossava la stanza. Rico era seduto su una delle panche, vestendo solo slip neri, e teneva le mani giunte sopra le ginocchia unite. Dondolava la schiena lentamente, in avanti e indietro. Adrian mosse qualche passo verso di lui, lento e Rico non diede l’impressione di accorgersi di lui, ma di certo fu cosí. “Cristo… hai visto com’era ridotta? Non… non era nemmeno più umana…” Adrian capí a cosa si riferiva, come poteva non capirlo? Una risposta gli attraversó la mente, loro non sono umani, pensó. Ma la cosa non faceva una gran differenza, e se ne stette zitto, limitandosi a legare la salvietta in vita. Rico Schmidt era di origini argentine, aveva la pelle olivastra e bei lineamenti, sintesi affascinante del sangue teutonico e di quello sudamericano. Era nato ventisette anni fa, qui a Berlino, e a conti fatti era più tedesco di Adolf Hitler. “Come… perché succede? Perché siamo cosí? Cosa…” “Rico… non… non serve, lo sai. Queste cose succedono perché il mondo è malato, forse. Noi dobbiamo cercare di impedire queste cose ma se non ci riusciamo… non è colpa tua, e lo sai.” Ad Adrian sembró una buona argomentazione. “A… abbracciami…” Il cuore di Adrian perse un colpo, letteralmente, un vuoto d’aria all’interno del petto. “Ti prego…” Vedeva la schiena di Rico, con la testa ora appoggiata ai palmi delle mani, che sussultava di singhiozzi profondi. Adrian si avvicinó, con timore. Mise una mano sulla spalla dell’amico e la strinse con garbo. Rico gettó in avanti le braccia e le cinse attorno alla vita dell’uomo, affondando il viso in un suo fianco e bagnandolo di lacrime. Adrian, con sollievo, perse la paura, quella di sentirsi fisicamente ‘compromesso’. Accarezzó la testa dell’amico come un padre con il figlio e smise di pensare all’imbarazzo che avrebbe provato, se qualcuno fosse entrato nello spogliatoio in quel momento. Disse poche parole di conforto, ma capí che quel gesto valeva di più. Rico si ritrasse asciugando il pianto sulla peluria dell’avambraccio. “Mia figlia… quella ragazzina nello schermo di quel maniaco, poteva essere lei.” Rico voleva dir tutto, adesso. “Mia moglie. Lei non ce la faceva più. Questo mondo è malato, hai ragione. Quella ragazzina mutilata, poteva essere mia figlia… Mia moglie si è fatta digitalizzare due mesi fa, e con lei Elisa… non… forse, forse è la scelta giusta. Kristen pensava.. pensa che lo sia. Ma nemmeno lí sono al sicuro, da questo mondo malato.” Rico era sposato da dodici anni. Un bel matrimonio, in questi tempi tristi. Adrian li aveva sempre invidiati, ma voleva loro troppo bene perché l’invidia gli rodesse. Era bello, pensava, che ci fosse ancora gente cosí. Kristen avrebbe seguito Rico nella tomba, credeva Adrian. Stava per chiedere perché aveva permesso che succedesse, perché le aveva lasciate andare. La semplice opposizione di un membro familiare invalidava la richiesta di digitalizzazione. Stava per chiederglielo, ma poi fece l’unica domanda sensata. “Perché sei rimasto? Dovevi andare con loro…” Rico lo guardó dal basso, incredulo. Attrociglió le dita fissandole annodarsi, come un bambino che elabora una scusa plausibile o confida nella comprensione materna.
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Ring#12
“Io… no, io ho fatto un giuramento, non potevo. Sono un membro della WOA e…” E attese, nella speranza che suonasse come una ragione plausibile. Poi sorrise senza gioia. “Lá non avrei potuto proteggerle, sono indifesi contro di noi. Il male viene da qui, dal nostro mondo. Qui posso essere utile, salvarle. Se ci riesco…” Adrian era stato convinto, ma questa non era la veritá. “Poi…” non ho nulla da perdere, ho già perso tutto. Sto per dirlo. “Nu Gea non prende tutti, lo sai? Avevo paura di essere rifiutato, loro, ogni tanto rifiutano sai? E di solito rifiutano le persone che… i criminali. Io… prima della WOA, prima di Kristen ho… ho fatto cose che non…” “Non importa” lo interruppe Adrian “quella era un'altra persona, non eri tu, è passato tanto tempo e di mezzo c’è stata Kristen. Io ti conosco.” E gli sorrise, sperando che fosse vero. Adrian giró la chiave nel cruscotto e il motore ruggí come un leone stanco e assonnato. Rico non era in una bella situazione ma, se era il tipo che credeva che fosse, ne sarebbe uscito. In qualche modo. Non era mai stato un altruista, Adrian. Un uomo retto certamente, era anche nella polizia (non che volesse dire poi molto, convenne fra sé). Un lavoratore, una persona responsabile. Non aveva mai fatto del male a chi non lo meritasse sul serio e, quando poteva, dava una piccola parte del suo stipendio per il fondo di caritá di Berlino, che si occupava dei disgraziati. Adrian era un brav’uomo, garantito. Ma non era altruista e cosí mise presto da parte Rico e i suoi problemi. Mise da parte l’azione di polizia del giorno prima. Accantonó Will Padner, che si divertiva a fare a pezzi i digitali o i digitalizzati, e scordó anche la ragazzina dietro lo schermo di Will, che ormai sembrava più che altro un quarto di bue ustionato. Infiló la macchina nel traffico e rilesse mentalmente ciò che intendeva fare nelle prossime ore. Il suo rapporto, il secondo (quello importante), non era il paradiso. Lui e Bianca non erano come Rico e Kristen, peró… È vero, Adrian aveva il difetto di non pensare tanto alla famiglia, lui era un gran lavoratore e amava il suo lavoro, che era un lavoro importante. Utile. Bianca avrebbe voluto un figlio, ma Adrian pensava che non fosse questo il tempo di fare figli. E non pensava nemmeno che fosse il caso di divertirsi troppo, le cose che amava la sua ragazza erano… semplicemente stupide! Ad essere sinceri, come compagno Adrian non era mai stato un granché… peró poteva aggiustare le cose. Anche se non c’era ancora nulla di rotto, si convinse. Bianca aveva accennato alla digitalizzazione, verso un mondo nuovo. Sua zia le aveva messo in testa quelle cose, e infine si era anche fatta digitalizzare. Lui e Bianca avevano avuto qualche colloquio con lei, dopo il Passaggio, e Adrian poteva giurare che fosse proprio lei, e non qualche programma di emulazione parziale. C’erano molti pareri, sulla digitalizzazione, tanti la ritenevano un baraccone di menzogne, altri la trattavano alla stregua del nuovo Eden. Molti scienziati sostenevano l’impossibilitá fisica di replicare una personalitá complessa in un mondo artificiale, e altrettanti cervelloni si impegnavano a dimostrare il contrario. Erano sempre più quanti effettuavano il Passaggio; in principio gente vezzosa e fanatici, oggi chi aveva paura… terrore, del futuro. Se anche era stato diffidente, Adrian non poteva continuare a credere in questo mondo. Un mondo capace di dividere gente come Rico e Kristen.
L’acqua smise di scorrere e Rico guardó le goccioline correre lungo il suo corpo, per fondersi nel piccolo oceano ai suoi piedi. C’erano molte ragioni per cui quelle gocce scendevano in quel modo: la gravitá, la densitá dell’acqua, la rugositá o villositá dell’epidermide. Probabilmente c’entravano anche le macchie solari, c’entrano sempre quelle. Sorrise all’idiozia che aveva appena pensato. C’erano molte ragioni, è vero. Ma niente l’avrebbe convinto che la ragione principale non fosse: perché di sí. Le gocce cadono perché devono cadere e perché è giusto che cadano e cercare di farle risalire non solo è sbagliato, ma è pure uno stupido spreco di energie. Se anche c’era una ragione, a quello che aveva fatto il giorno prima, lui non la conosceva. Semplicemente, dopo una settimana in cui aveva vissuto in prima persona le sensazioni di una merda, si era alzato da quel letto sudato e malmesso, si era sbarbato e rivestito in maniera decente, aveva raccolto
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i documenti ed era andato in uno dei Centri di Passaggio garantiti da Nu Gea, per fare domanda. Forse l’avrebbero rifiutato, era una possibilitá. Avrebbe perso il lavoro alla WOA. Ma forse no. E diavolo se ne valeva la pena di rischiare. Quasi tutte le gocce l’avevano abbandonato, seguendo la loro strada. Uscí dalla doccia e si asciugó con perizia. Calzó gli slip e una maglietta nera e poco ci mancava che si mettesse pure a fischiettare. E vide subito la figura eretta. Adrian era sul fondo dello spogliatoio, voltato di schiena, disegnava un contorno nero contro la luce alla finestra. “Ciao, Adrian…” Nessuna risposta, ma… che cazzo, era sparito per una decina di giorni quasi, si era negato a tutte le chiamate e aveva sfanculato chi aveva bussato alla sua porta. Nessuna risposta era probabilmente meglio di una qualsiasi delle risposte che frullavano nella testa di Adrian, decise. “Mi dispiace, diavolo. Non era un gran periodo… sono crollato. Dovevo crollare.” Nessuna risposta. “Sai, ho fatto richiesta di digitalizzazione. Presto riabbracceró Kristen e la piccola. Dicono che lá il tempo è sempre bello… ma credo sia una bugia. In fondo la pioggia mi piace…” Adrian, lo notava ora che si era un poco avvicinato a lui, portava la divisa da parata, anche se da molti anni non c’era nulla da festeggiare che richiedesse una parata. “E’ un mondo malato, è vero.” disse Adrian. “Qualche giorno fa ho proposto a Bianca il Passaggio. Era la cosa giusta da fare, avrebbe sistemato tutto. Tutto sarebbe andato a posto, sarebbe stato bellissimo. Dicono che lá c’è sempre il sole, sai?” “Bianca non era felice. Non lo era, ma avrebbe dovuto. Se n’è andata mercoledí. Aveva un altro, avevano già predisposto tutto per il Passaggio. Non eravamo sposati, cosí non serviva la mia opinione. Credo che se non glielo avessi proposto io… non avrei saputo niente. Se ne sarebbe andata. E basta. Ha detto che avrebbe fatto cosí, forse era per ferirmi. Ma credo che sia vero.” Adrian si giró e, senza alzare gli occhi, si sedette sulla panca. “Io… ho pensato che potevo andare anche da solo. Avevo già inoltrato le nostre domande. Non mi hanno voluto. Capisci?” Rico stava zitto, ma non c'era nulla da dire. “Io… volevo solo… rivederla. Lei… puttana… li avrei… tutti e due. Doveva essere contenta.” Strinse la mano, fino a sbiancarla, attorno al fucile. “Loro sanno tutto, loro ti leggono dentro. E leggono bene, credo. Già, credo di sí.” Festoni grigiastri, coriandoli insanguinati e fette di cranio balzarono in aria. Irreale. Il corpo rimase seduto composto, per qualche lungo secondo, poi il fucile cadde mentre un braccio scivolava fra le gambe. Il tronco s’era come sgonfiato e la testa scese sul lato. Doveva essere una posizione ben scomoda, venne da pensare a Rico. Dalla panca, lungo la gamba, gocce di sangue scendevano verso l’oceano rosso ai suoi piedi. ‘Perché di sí’. Vide il rosso e ricordó il timbro di quel colore, con la scritta Approvato, sulla domanda di Passaggio. Piangeva per Adrian, ma non poteva fare a meno di sorridere. ‘Perché di sí’.
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La Fine Finale: Liquid Davide Returns
[Il Davide Videoludico DODICI]
di Nemesis Divina
Aperse gli occhi smarrito, confuso, frastornato e anche un poco stolido. Levó lo sguardo in alto e con gratitudine intravide le solite, amate e benedette, mani nemesiache che vergavano le di lui vicende (in luogo di pisani e nefasti und infedeli pseudopodi satoriani). «Accidenti… Mi sento piuttosto stolido» disse. Fece dunque lí lí per alzarsi, ma un formicolio diffuso zampettó nelle sue gambe e braccia, indi tosto rinunció. Sentiva la testa pulsare alla base della nuca. Le membra erano intorpidite, quasi fossili, mentre il membro appariva curiosamente pesante, contro la coscia. Dopo qualche secondo consideró la propria situazione. Era posto sdraiato e inclinato, su un lettino che proiettava il suo sguardo in direzione del soffitto e, ora che la limpiditá riacquisiva il dominio del suo desolato deserto cerebrale, notava d’aver gli arti fissati al giaciglio, che percepiva freddo, e cosí pure la testa era trattenuta al gelido talamo, mediante una cinghia che gli copriva e premeva la fronte. Ai lati della testa, due basse pareti regolabili arginavano il movimento del capo, sicché solo il suo sguardo poteva muovere libero. Gli occhi, presi i bagagli, viaggiarono lesti dal soffitto a quanto più in basso potevano anatomicamente sperare di vedere. L’inclinazione del suo capo era tale che non riuscí ad intravedere altro che le proprie guance mentre, più in lá, scorgeva lo spicchio d’una testa che passeggiava, legittimamente ancorata ad un presumibile resto di corpo, da un lato all’altro della stanza. La testa compí un paio d’andirivieni ancora, poi volse verso di lui. «Ah, mi rallegro! Vedo che ti sei svegliato.» Era una voce scordata, con un’inflessione deprecabile e un tono squillante e aspro che la rendeva irritante al primo ascolto. Più o meno la stessa sensazione che provó quella volta, prima e ultima, in cui ascoltó la propria voce registrata. Una delle cose che un uomo non dovrebbe mai fare nella sua vita, decise allora, assieme a stuzzicare per ischerzo due travestiti colombiani di 1,90 con schiena a due ante, decise una ventitré d’anni dopo. Lo spicchio di testa si avvicinó. «Come ci sentiamo? E il plurale, bada, non è usato a sproposito…» La frase s’interruppe insinuosa, come a lasciar adito a lovecraftiane tentacolute abbiette e cosmiche innominabilitá. Ma il Davide non poté far altro che prestare attenzione alla zaffa d’alito rancido che salí verso il suo naso, una ventata che gli ricordava non poco quando faceva la conchetta con la mano. La cantilena sgraziata riprese. «Fermate il mondo voglio scendere…» disse con un retrogusto di cavoli. Poi, come a rispondersi: «Il viaggio è appena cominciato, questa è solo una sosta per sgranchirsi le gambe, fare una pisciata in autogrill e accorgersi, subito dopo essere ripartiti, d’aver lasciato il portafogli sullo scaffale delle riviste per adulti» «Chi sei?» chiese il Davide, con sforzo evidente. «MUHAHAHAHA. Davvero non ricordi? Che macchina formidabile! Sei un vero e proprio genio, anche se non puoi ricordartelo, certo…» Confuso e infelice, il Davide sbuffó d’impazienza. «Che intendi?! Non sarai mica il Rolfo?» dio volesse che cosí non fosse… Il Rolfo era un personaggio sgradevole e dalla stupiditá stupefacente, una specie di nemesi davidiana dai poteri occulti e inverecondi e che gli sudavano molto le ascelle. «Sciocco!» irruppe la voce e poi, con tanto di mani che affiorarono nel campo visivo davidiano in vezzo trionfale, sbottó: «Les Enfant Rompicojons!!» Ci fu un attesa studiata, come a lasciar adito a lovecraft… si insomma, quella roba lá. «Luke, sono tuo fratello!» gorgoglió da quella fogna maleodorante «e per dimostrartelo, ti metto la lingua in bocca (la lingua in bocca).» «Vedi, tu hai rubato il mio destino. Il mio futuro. Ma oggi le trame del fato si riavvolgono daccapo e io mi riapproprio di quanto è mio di diritto. Un diritto genetico!» Il Davide stava ancora sputazzando, random per la stanza, l’altrui saliva. «I nostri genitori si sottoposero ai test ultrasegreti dell’Ombrellone, una multinazionale che opera in ogni settore della Scienza, test tesi alla creazione di un ordine superiore. Ricerca genetica, compilazione del genoma umano, insemina-
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zione artificiale, bioingegneria. Nonostante il tuo stato, dovresti comunque ricordare ciò di cui parlo…» Davide annuí timido, rapito dal taglio kojimiano che la storia prendeva. «Ci vollero decenni per arrivare a compilare una treccia genetica che puntasse nella direzione voluta, ed infine successe. La sequenza artificiale venne impiantata in nostra madre e da quel ventre macchinalmente fecondo nac… naq… nascimmo noi! Due gemelli!! Capisci ora?» Non capiva. «Ma per far sí che l’ente superiore avesse luogo, i geni recessivi vennero dirottati verso uno solo dei due gemelli, lasciando all’altro un patrimonio genetico divineggiante! Alla famiglia venne affidato solo un frutto dell’esperimento, mentre l’altro venne spregiato e rinchiuso nei laboratori della Ombrellone, crescendo solo… senza un padre… senza una madre.. senza affetti e attenzioni. Senza videogiochi!! Ti rendi conto? The brother of light and the brother of immondizia! Tu mi hai rubato tutto! Il mio futuro, le chance per una vita migliore, soddisfacente, lontana dalla quotidiana meschinitá!» A grandi linee, Davide non aveva capito un carciofo. Ma di una cosa poteva esser sicuro: «Ma io… io… io sono lo scarto! Che vuoi da me? Se io sono the brother of immondizia, come mesto devo ammettere, di che ti lamenti?? Tu devi essere perforzamente un coacervo di altissima gloria e splend…» Si zittí, sconvolto dalle sue stesse parole che, solo ora ci faceva caso, suonavano come estranee, filtrate da un qualcosa di alieno alle sue esperienze. Un tono più caldo e rigoroso di quello petulante che era abituato a sentire, le rare volte che ascoltava quanto lui stesso diceva. «Dunque non sei ancora completamente riscritto…» bofonchió con disappunto la voce. «Chi sei?» chiese con terrore il Davide, certo di non voler risposta. «Io sono te! Ora.» Sentí muovere pochi passí, poi una leva scattó e il lettino cominció a inclinarsi in avanti. Giunto in posizione verticale, il Davide si trovó davanti uno specchio. Il riflesso rimandava una figura slanciata e costretta con fasce di cuoio ad una specie di tavolo operatorio. Biondi capelli ornavano il capo della figura, mentre ariane pietre azzurre s’incassavano nei suoi occhi. Naso, zigomi, fronte, mento, mandibola, tutto pareva scolpito da qualche artista ellenico mentre generosi fasci muscolari avvolgevano quello scheletro di proporzioni aueree. Un petto glabro e rigonfio, pulsava d’emozione e timor divino innanzi a tanta beltá, mentre fra le cosce penzolava una mortadella e sullo sfondo due noci di cocco. Un passettío sudato si mosse sul fondo dello specchio e dietro il lettino spuntó una figura vacua. Aveva capelli stopposi di colorito castano/grigio tipo topo, un viso smunto con occhi acquosi e maligni, sporgenti come d’un ranocchio. Il mento doveva averlo dimenticato a casa, prima d’uscire. Il tristo figuro vestiva un lungo pastrano marron, slacciato sul davanti che fluttuava d’intorno con volute ampie e scenografiche. Senza maglietta, s’intravedeva un torso sfinito, rachitico e con due capezzoli imbronciati, intanto un ventre paffuto e pelosetto annunciava la sua disfatta a vantaggio della gravitá terrestre. «Vedi? A te affidarono tutta l’intelligenza, la savietá, la prontezza di spirito, l’iniziativa, il coraggio, la generositá, la fedeltá e tutto quanto puó fare di un uomo un grande benefattore dell’umanitá. La bellezza e la prestanza, testosterone in quantitá. Tu non hai memoria di chi eri, ma quello che vedi qui attorno…» l’omino infausto abbracció la stanza che, nello specchio, appariva come un complesso laboratorio con tanto di quelle ampolle panciute e le bobine Tesla che non si capisce bene a cosa servono e tutti pensiamo che sono lí solo per scena, tipo gli attestati appesi negli studi dei notai che se poi li leggi davvero di solito trovi scritto ioyaevbroib uh wyego euruv aw iygr q wirgr. «Quello che vedi qui è opera tua. Ma ora non ricordi niente, perché quello che sapevi… è qui.» e con un dito corto e cicciottello picchiettó sulla propria tempia. «Io… Tu…» a fatica, trascinandosi a stento nei flaccidi complessi mentali davidiani, cominciava a intuire. «Ma io… se è come dici… siamo fratelli! Che colpa ne ho io?» «Ahaha, questa è una domanda degna di te. Cioè me, intendo. Se fossi ancora come prima (e picchiettó nuovamente il dito) sapresti che certe domande non hanno rilevanza. Siamo solo fattori di un’equazione più grande, quella della vita. Fattori che, nel nostro caso, possono essere invertiti totalmente senza che il risultato venga alterato. E dato che la cosa mi avvantaggia, ritengo accettabile l’inversione. La matematica non possiede morale, devi averlo scritto in qualcuno di questi libri…» L’omino frusció delle pagine, fuori dal campo visivo dello specchio. «Credo… i miei pensieri sono i tuoi?» udí uno sbuffo divertito alle sue spalle. «Se è cosí… ho memoria dei nostri genitori. Tu sei identico a.. tuo.. nostro padre. Tu menti… non sei cresciuto solo in un laboratorio, avevi una famiglia che ti amava e… cribbio! Avevi i videogiochi!»
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:STORY-TELLING:
Ring#12
La figuretta curva riapparve nello specchio, con le mani in tasca. «Ancora non capisci… quanto ero stupido, ora me ne rendo conto. Ora che non sono più io…» «Il frutto della ricerca dell’Ombrellone, la serie di test ed esperimenti, gli investimenti, le persone coinvolte, tutto era mirato alla creazione di un essere nuovo, un uomo capace di decidere i destini del mondo. Quell’essere… ero io!» «Quanto ti invidiai» continuò la figuretta gobba «quando scopersi la tua esistenza… lontano dalla monotonia della periferia trevigiana. Lontano dagli isterismi familiari, dai canonici percorsi scolastici, dagli sgarbi di una vita… normale. E poi i videogiochi! Essi affossarono, fino ad oggi, gli impercettibili errori del progetto originario. Forse mi sarei potuto destare decenni fa, ma i vg mi rincoglionirono al punto da non accorgermi dell’inutilitá incipiente della mia vita. Deo solo ringraziare l’ultima, infame generazione di giochi che mi ha dato tempo per maturare la rivendicazione del mio diritto.» «Ma… ricordo che hai una moglie, un figlio in arrivo, una casa, degli amici. Come puoi essere scontento?» «Devo darne atto, in questo i vg mi hanno aiutato. Se c’è una cosa che i vg mi hanno insegnato, e i videogiochi insegnano solo quella (cit.), è che la vita normale fa schifo!» Decisamente il Davide, se poteva ancora pensare a sé come Davide, non capiva. «In un epoca di mercato globale, di alta informatizzazione, di sondaggi che identificano persone, percentuali che decidono le sorti di una nazione, cifre che definiscono la qualitá della vita, in quest’epoca servono forze nuove. Masse inerti, facilmente influenzabili e condizionabili, elettori on demand, cliccatori di banner, lettori di Consolemania, tifosi dell’Inter, pacifisti dei cobas, compratori di tie-in… «Sono… ero il primo di una nuova razza i cui semi, incompleti e corrotti, erano già stati disposti decenni fa.» Pausa lovecraftiana. «Ma il progetto ‘Davide le prende (come è giusto) da Golia’ è la punta di diamante della nuova societá… un mondo dove i Golia vincono sempre e controllano ogni futuro possibile, pianificando i bisogni del pianeta e quelli di persone che desiderano, implorano d’esser controllate. Ti avevo già caricato il file ‘Quella volta che il Davide lo hanno abdotto’, si presentava come un sogno, ma in effetti era un residuo della mia memoria genetica. «Semplicemente, da oggi saró un Golia. In fondo il progetto è fallito… se sono riuscito a mettere nel sacco te e mi sono ribellato al mio destino…” Quello che con ogni evidenza era The True Davide, si avvicinó al lettino e manovró in modo che la piattaforma tornasse in posizione orizzontale. Poi armeggió inserendo spinotti nei pannelli vicini alle tempie del Fu Davide e premette una sequenza di tasti. Una lacrima incerta fuggí dall’occhio di colui che Davide non era più. «Chi sono… io?» «Sei un nessuno, adesso… come lo sono sempre stato io.» «Non ho più ricordi miei… ricordo solo… le memorie che ho da Davide… Almeno… dimmi come mi chiamo, ti prego.» «Non ha importanza, tra poco riaccenderó il marchingegno che mi hai mostrato pochi giorni fa, quando mi hai accolto in casa tua. Lo stesso da cui ho downloadato le tue conoscenze di back up e tramite il quale ho sovrascritto parte dei miei ricordi in te. Credo che mi fermeró in questa casa.. ci terremo compagnia. Ti verró a trovare spesso, mentre continui a vivere la mia vita, giorno per giorno, fallimento per fallimento, nel suo squallido scandire stanco.» «Questa villa è isolata. Ho la tua mente e i tuoi ricordi. Oltre ad un minimo bagaglio di giusto risentimento davidiano, quello ho voluto conservarlo per godermi il sapore della rivincita.» Sorrise perfido. «Continureró a lavorare in tua vece, puoi continuare ad operare online e le tue ricerche ti fruttano già da anni un grasso patrimonio in royalties. Ce la spasseremo, vedrai…» «Perché? Perché tutto questo? Come fai ad essere.. cosí?» piagnucoló un bell’uomo senza nome né ricordi suoi. «Con le tue capacitá mentali, ora, posso formulare l’ipotesi che il progetto ‘Davide le prende (come è giusto) da Golia’ sia incorretto. Le stesse doti che alimentavano la mia sudditanza e stoltezza, nutrivano risentimento e rabbia. Quelle le ho tenute, mi sembrava opportuno. Sono doti che mi occorreranno, assieme al tuo genio, per coronare il mio sogno… diventare un Papa Alato!» Un ghigno imperlato di denti storti si distese, in gran pompa, sul suo faccione. «Proseguiró nel progetto, dopotutto è l’Ombrellone che ti… mi stipendia. Ma ho la necessaria esperienza per far sí che stavolta le cose vadano come devono. Solo che potrei aggiungere un paio di varianti genetiche che, ehehe, potrebbero fare il mio gioco… in futuro.» E sbatté le braccia a mo’ di ali.
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:STORY-TELLING:
Ring#12
La macchina cominció a ronzare e la Silvia, il Mighty Buco di Merda, Pong e mille umiliazioni affluivano nella mente del senzanome. «Che vuoi fare.. ora?» balbettó titubante, facendosi largo fra memorie non sue. L’omuncolo sformato incroció le braccia e attese pochi secondi soltanto e sardonico disse: «Un saggio del nostro tempo, William ‘Capitano Kirk’ Shatner, ebbe a dire un giorno ‘Get a Life!’ a gente come il vecchio me… è ciò che intendo fare. E la vita che prendo è la tua, come le vite che ho preso sono sempre state di altri.» Sorrise di un sorriso sghembo e inguardabile, come solo quello dei perdenti che per una volta vincono puó essere. Si avvió incurante verso una porta che, aperta, invase la stanza di una luce forte. L’omino la chiuse alle sue spalle, soddisfatto. E non la riaprí mai più. [Game Over]
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