Ring#015

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www.project-ring.com//gennaio 2005

M O N D O S O P I T O

15 SOMMARIO speciale speciale virtual, real//04 soso virtual, soso real//04 rubriche rubriche tesori sepolti tesori sepolti metal arms:park//64 glitch in jojo’s puzzle the system//44 game making era 03 The ivory tower dar vita ai pixel//65 //09 arena 20th century davide Grand Theft Auto//20 capitolo uno//45 The ivory tower frames Two cultures//24 one day @ san kakka banzai andreas//11 avventure testuali//26 one night @ thief//12 frames indepth i voti di edge//28 il bignami di indepth jak & daxter//14 PES-parte II//29 recensioni recensioni half life 2//18 gta san andreas//34 halo 2//22 fable//37 metal gear solid 3: wrc 4//40 snake eater//26 the chronicles of prince of persia 2: riddick//41 spirito 3//43 guerriero//29 burnout killzone//31 psi ops//46 ratchet & clank 3//32 second sight//49 jak & daxter 3//34 xenosaga II//51 phantom dust//36 doom3//53 dragonv//56 ball z gradius budokai damacy//58 3//37 katamary sid meier’s panic maker//60 pirates!//38 zelda minish cap//62 metroid prime 2: pes: non-recensione//63 echoes//43 «This is Ring. Kept you waiting, uh?» Anche questa volta, Ring si propone al suo matto e disperatissimo pubblico così come solo le grandi star sanno fare: in ritardo. Certo, è probabile che abbiate già giocato alcuni dei titoli quivi recensiti; ma questo non toglie il fatto che avete bisogno di leggere i nostri articoli per sapere se vi siete divertiti o meno. La redazione vi augura quindi buona lettura, in attesa di bannarvi dal nostro forum a seguito delle vostre proteste in sede di feedback…

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C’è un gigante che dorme, sotto di noi. C’è un gigante che dorme e che potrebbe svegliarsi: meglio non farsi trovare impreparati alla venuta del Sottomondo, o Mondoaltro. Per noi non è facile, noi delle console, che solo adesso e solo a bocconi intravediamo i confini del Nuovo Mondo. Ma se ne distinguono ormai le forme in ogni dove, e occorre prepararsi, stare all’erta. Il Nuovo Mondo è quello Online, che spiraleggia nella sua Rete e canta melodioso calde lusinghe. Per i più, ora, è un miraggio informe, confuso e lontano, ma è tempo per il Nuovo Mondo di svegliarsi e chiamare a sé nuovi sudditi. Da questo numero, Ring comincerà a interessarsi delle strane e arcane fenomenologie che interessano i mondi digitali persistenti, indagando fra le pieghe della Rete per eviscerare quanto di più riposto ci sia. E di ‘tesori sepolti’, pensiamo ce ne siano molti, da dissotterrare. Il Nuovo Mondo Online è molto più di quello che appare in superficie, non è solo deathmatch e cooperative. Non è nemmeno l’organizzazione a squadre di un Joint Operation. O meglio, è tutto questo, ma anche di più. Quello che pulsa sotto di noi è un cuore sociale, che freme per venire alla luce e trovare nuovi amici/amanti. L’impatto che può provocare un diffuso online gaming di tipo persistente (MMORPG, per usarne la sigla cacofonica) è inimmaginabile, eppure meritevole di indagine preventiva: oggi sono in proporzione pochi, eppure sempre milioni, gli utenti reali che trascorrono parte del loro tempo in ambienti digitali. Molti gli aspetti peculiari di questa condizione ludica, ma è nell’impatto delle semplici cose che il ‘gioco sociale online’ promette un brivido capace di scuotere l’industria. Se la semplice azione del parlare è la norma in un GDR offline, in un gioco online questa azione banale è amplificata dal sapere che è una persona reale, per quanto distante, quella con cui interagiamo. E se le cose ‘normali’ acquisiscono più valore, a maggior ragione aumenta la rilevanza delle azioni ‘significative’. La morte di Aeris in Final Fantasy VII è un evento toccante. Commovente. Ma si tratta di un evento ripetibile (basta caricare l’ultimo salvataggio), e capitato in misura pressoché identica a molti (milioni). Tante piccole conquiste, tanti piccoli frangenti quotidiani, sono sempre unici nell’online gaming. Il nostro personaggio è unico. Noi siamo unici. Sconfiggere il Pincopallino Undead che tormenta le lande fatate in cui viviamo, inietterà una sferzata di adrenalina con pochi eguali, specie se abbiamo compiuto l’esorcismo sotto gli occhi di molti spettatori. Assistere ad un gesto di spontanea e disinteressata amicizia è sempre degno di nota, online. Ricevere udienza da Lord Blackthorn, in quel di Britannia, è un evento raro e difficile ad avverarsi…ma come dimenticare un seppur breve colloquio con uno dei character cardine di Ultima Online? Come resistere alla tentazione di strappare un furtivo printshot che ritragga e testimoni lo storico incontro? Sensazioni tutte ignote al single gaming da salotto. Ma se il gigante si scuote e si rigira, è comunque lungi dal destarsi… Oggi esistono tre ‘classi’ che dominano l’industria del VG, che ne muovono le fila e che ne dovrebbero/potrebbero condurre i movimenti. Chi commissiona, chi fa e chi gioca. Produttori, Creatori e Giocatori di videogiochi. Ognuno di essi detiene una porzione di potere, e diverte (o rattrista) notare che proprio i più vicini all’anima del gioco, i Creatori, siano i meno rilevanti nel definire, oggi, forme e comportamenti della Creatura. Dove un tempo i Creatori erano indissolubilmente legati, come padri, al frutto delle loro menti, oggi si trovano spesso lontani. Anonimi. I Produttori plasmano i progetti sui desideri che suppongono animare le voglie consumistiche dei Giocatori, i quali spesso si lasciano ammaliare da certa propaganda commerciale, abdicando così alla loro porzione di potere. I Produttori vincono di quattro lunghezze almeno, sembrerebbe. Ma i MMORPG possono reggersi sul primario interesse di chi lucra su di essi? Più ancora che nei giochi offline, l’interesse del Produttore lede la qualità dell’intrattenimento, che si vede disperdere in andirivieni interminabili, quest e sottoquest irrisorie, scontri casuali e level up furibondo. È sintomatico dei MMORPG commerciali: più si gioca, più si paga. Come un tempo gli arcade, che per spremere più gettoni dovevano durare il meno possibile, oggi i MMORPG spremono abbonamenti protraendosi innaturalmente, ad libitum se possibile. Ed ecco dunque l’utente sconsolato gettarsi in una maratona di incontri di scarso interesse, per la sola ragione di acquisire quel minimo di potere che sappia dar lustro all’esperienza di gioco. Sono pochi i MMORPG che sfuggono a questa triste considerazione, mentre non sono pochi gli utenti che, disperati, si gettano sulle aste online e avanzano offerte (talvolta onerose) per accaparrarsi un personaggio superaccessoriato, con skill al massimo e un pene lungo così.


www.project-ring.com//gennaio 2005 Gli aggiustamenti cui il MMORPG deve sottoporsi, prima che si apra all’attenzione di tutti, sono ancora difficili da quantificare. Da una parte un MMORPG gratuito (magari gestito da volenterosi master) dovrebbe idealmente azzerare la ‘curva lavorativa’, insistendo da subito sulla piena fruizione del gioco. Niente level up da stacanovista della tastiera, ma un set completo di capacità, appaganti da subito, da impiegare in quella particella dell’acronimo spesso trascurata: ‘Ruolo’. La prossima generazione hardware, in combinazione al potenziamento delle linee di connessione, porterà poi all’online gaming di massa, diffuso fra l’utenza meno ‘specializzata’ delle console. Se oggi il gioco online persistente è prerogativa del PC (nonostante significativi precedenti come Final Fantasy XI), domani potrebbe trasformarsi in una consuetudine da consumare davanti alla TV, anziché al monitor. Come cambierà la situazione quando basteranno pochi pulsanti, un pad wireless e le cuffie, per proiettarsi in un mondo parallelo? E con il Nuovo Mondo, quello ‘vecchio’ cresce e cambia. Non vanno infatti trascurati i sensazionali fenomeni registrabili già nelle attuali comunità online, in quelle zone del gioco sociale dove si è concentrato lo zoccolo duro e sperimentatore di chi è ormai solito passeggiare virtualmente, mouse al guinzaglio. Di Second Life stupisce non tanto la possibilità di condurre una ‘seconda vita’, per l’appunto, quanto quella per nulla marginale di generare reddito nella ‘prima’. Così come in altri giochi (Project Entropia, ad esempio), Second Life offre l’occasione di convertire la moneta fittizia con quella reale e frusciante: basta svolgere un lavoro virtuale, quale l’offerta di un servizio, la produzione di beni o la speculazione sugli stessi. Potremmo ritrovarci a giocare ad un MMORPG per una decine di ore settimanali, un paio delle quali investite nel lavoro utile a ripagare le spese di abbonamento! Nel frattempo, sul finire del 2002, una compagnia californiana inaugurava in Messico una singolare attività. Otto computer, una linea ad alta velocità e manodopera del luogo inchiodata ai PC, pigiando e martellando sul mouse, abbattendo orchi e troll, draghi e maghi in Everquest e Dark Age of Camelot. Incrementandone il livello a suon di vittorie, armi e personaggi erano poi smerciati via eBay in cambio di dollari americani. Se Mythic Entertainment, produttore di DAoC, ha provveduto a far chiudere i battenti all’originale imprenditore, Sony Online Entertainment rispondeva bannando sistematicamente gli utenti pescati sui ‘mercati neri’ della rete a vendere i propri personaggi. Microsoft, forse più lungimirante, consente con il suo Asheron’s Call il commercio umano, salvo tassare il ‘passaggio di proprietà’. Quale panorama si stia profilando è difficile a dirsi. No. È proprio impossibile. Il Nuovo Mondo Online è pieno di promesse così come di rischi. L’utenza giocante non è sempre rispettosa delle leggi e dell’altrui interesse, inoltre ad oggi il potere in mano ai Produttori schiaccia le possibilità di concreta evoluzione del genere. Il contesto persistente potrebbe forse trasformarsi in una caotica Kowloon, con noi intenti a sbrigare affari di poco conto, che nella vita reale odieremmo ma che per gioco ci sembrano tollerabili, magari appaganti. Potremo trovarci in vetta al mondo, come regnanti assoluti, dispensando pietà o tirannia a nostro piacimento, godendo della gioia . o sofferenza di altri utenti come noi e dei loro poveri avatar digitali. O forse saremo fra questi ultimi, indignati e arrabbiati per le offese subite, i torti in sospeso, e tutti i crediti di giustizia accumulati in una vita da sottomessi. Forse il Nuovo Mondo sarà esattamente come quello Vecchio. Quello Nostro.

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copertina grafica online e hiroki lawrence grafica PDF a cura di grafica online e tommaso grafica PDF a“gatsu” cura di de benetti tommaso “gatsu”de benetti sezioneonline onlineaacura cura sezione didi tommaso“musta”collini “musta” tommaso colliniPDF a cura di sezione federico resa cura di sezione PDF editor federico res cristiano “cryu” bonora sito e forum ospitati da sito e forum ospitati da www.bitpower.it www.bitpower.it PDF ospitati da PDF ospitati da www.qub3.net www.qb3project.net redazione redazione gianluca “sator” belvisi gianluca “sator” belvisi cristiano“cryu” “cryu”bonora bonora cristiano emanuele“emalord” “lord” bresciani emanuele tommaso “musta” collini bresciani tommaso“musta” “gatsu”collini de benetti tommaso nemesis divina tommaso “gatsu” de benetti nemesis cristianodivina “amano76” ghigi cristiano “amano76” ghigi paolo “jumpman” ruffino federico federicores res paolo “jumpman” giacomo “gunny”ruffino talamini giacomo “gunny” talamini hanno collaborato hanno collaborato il pupazzo gnawd fabio “FBS” simonetti mr. yo lucio “Lux” sampietro hob per collaborare andrea23 posta@project-ring.com

per collaborare posta@project-ring.com

nemesis divina Ring saluta un amico che se n’è andato. Bruno Fraschini, fulgido amante e studioso del Videogioco in tutte le sue forme, ha solo incrociato la nostra strada, lasciandoci tuttavia alcuni ricordi di sé: i suoi scritti, pubblicati qui e altrove, la sua musica, qualche sorriso davanti a una pizza, e un paio di idee strampalate sul medium interattivo, di quelle che piacciono a noi. Metal Gear Solid 3 è una forza, Bruno, ti sarebbe piaciuto. Lo giocheremo pensando anche a te. Ciao Bruno.

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Avvertenza per la stampa Il PDF di Ring è pensato come una vera e propria rivista e va stampato sfruttando entrambe le facciate dei fogli. Per far ciò seguite quattro semplici operazioni: 1) Inserite 25 fogli nella stampante. 2) Assicuratevi che le dimensioni di stampa siano impostate sul 100%. 3) Stampate SOLO le pagine dispari selezionando “pagine dispari” dalla casella in basso a sinistra della finestra di stampa di Acrobat Reader. 4) Girate i fogli e stampate anche le pagine pari. Et voilà!

La cover di questo mese è di Hiroki Lawrence http://r0x0rtenshi.deviantart.com/

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So Virtual, so Real Sull’impatto socio-economico dei mondi virtuali di Gatsu “Games are not democracies” Sanya Thomas Un giorno la rete si riverserà nella realtà, e sarà un bel casino. No, non state leggendo una nuova puntata di Vox Mundi, quello accennato è uno scenario possibile, probabile e forse perfino inevitabile. Visto il fioccare di saggi/articoli sull’argomento, raccogliere una parte delle riflessioni più stimolanti e discuterle su Ring è stato un passo doveroso. In particolare, appaiono degni di nota una manciata di autori fortemente coinvolti nello studio delle comunità virtuali, nello specifico Castulus Kolo, Timo Baur e, forse il più ardito fra questi pensatori, Edward Castronova. In questa sede, proporremo alcune delle loro analisi, commentandole quando necessario, inframmezzandole con altro materiale rilevante allo scopo di questo articolo, e cioè ipotizzare quali potrebbero essere i futuri sviluppi di un fenomeno in aumento e ricco di peculiarità come quello dei MMORPG. I TESTI DI ORIGINE I saggi che prenderemo in considerazione sono: Living a Virtual Life: Social Dynamics Of Online Gaming di Kolo/Bair e On Virtual Economies di Castranova, ambedue disponibili in versione integrale al sito http://www.gamestudies.org. Il primo è uno studio che si preoccupa di raccogliere dati empirici sui giocatori di Ultima Online, il secondo propone teorie e modelli economici ipotetici, relativi ad alcune peculiari fenomenologie che caratterizzano il giovane mondo dei MMORPG. Purtroppo, come buona parte degli studi relativi al videogioco, i due documenti sono fin troppo accademici e difficilmente digeribili dal giocatore medio, di norma poco propenso a perdersi fra modelli matematici e grafici statistici prima di trovare qualcosa di interessante da leggere. Abbiamo ritenuto opportuno riassumere nei paragrafi seguenti solo quello che può interessare l’appassionato di videogiochi, ma se siete incuriositi dall’argomento e volete farvi del male date almeno un’occhiata alla produzione di Castranova, reperibile all’indirizzo http://papers.ssrn.com/sol3/cf_dev/AbsByAuth.cfm? per_id=277893. Ring si impegna comunque a tornare sull’argomento, in futuro. L’IMPATTO SOCIALE .Motivazioni Quali sono i motivi che spingono gli utenti a giocare online, piuttosto che dedicarsi a partite single player o alla meravigliosa arte del giardinaggio? Nelle interviste condotte da Kolo e

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Discendente dalla gloriosa saga epica di Ultima, l’incarnazione MMORPG ha rappresentato per la comunità una oasi inusuale, dove il gioco di ruolo in senso più stretto ha avuto spesso la meglio sul bruto cozzar di spade. Nella foto, una scena a dir poco leggendaria per gli appassionati…

Baur (relative a Ultima Online, ma valide per buona parte dei MMORPG) una delle risposte più frequenti riguardava l’esperienza sociale del gioco, cioè la possibilità di interagire con migliaia di altri giocatori in una società virtuale. Sorprendentemente, la possibilità di portare a termine quest o potenziare il personaggio rivestono una posizione statistica di secondo piano, anche se i valori cambiano sensibilmente a seconda della fascia di età considerata e alla tipologia di giocatore: per esempio, quasi 1/3 degli ‘heavy player’ – utenti con più di dodici sessioni di gioco settimanali della durata variabile fra una e sette ore - ritengono le relazioni instaurate in UO “più importanti delle loro relazioni offline”. Nicolas Ducheneaut, Robert J. Moore e Eric Nickell (Palo Alto Research Center), nel loro saggio Designing for Sociability in Massively Multiplayer Games: an Examination of the Third Place of SWG [1], sembrano confermare, citando il lavoro svolto dal team di Star Wars Galaxies, l’importanza che questo ‘aspetto sociale’ sta assumendo nei MMORPG rispetto ad altre attività: “…sembra opinione comune nell’industria che i MMORPG abbiano attratto una circoscritta comunità di giocatori: i cosiddetti ‘hardcore’ o ‘power’ gamers. Questi giocatori si concentrano sull’efficienza e nel raggiungere gli obiettivi del gioco nel modo più veloce possibile. Nonostante siano ben distanti dall’essere asociali, […] non contribuiscono realmente all’atmosfera sociale del gioco. Pertanto i designer hanno provato a integrare al gameplay l'elemento comunitario: in altre parole, a strutturare le meccaniche di gioco in modo che i giocatori abbiano svariate occasioni di incontrarsi e instaurare relazioni”. Pare che almeno una parte dell’industria stia prendendo coscienza del reale punto di forza dei MMORPG, ed evidentemente sfoghi di personaggi illustri come Richard Bartle (co-autore del primo MUD – Multi User Dungeon – giochi online amatoriali e gratuiti) non sono rimasti inascoltati: “I mondi


virtuali sono concepiti da newbies, e non c’è un cavolo da fare a questo proposito. Non dico designers alle prime armi, intendo giocatori alle prime armi” [2]. .Relazioni sociali nei mondi virtuali e conseguenze reali Una volta stabilita, a grandi linee, la motivazione principale che spinge i giocatori a investire parte della loro vita reale in un contesto fittizio, vediamo come sono strutturate le relazioni interpersonali nei MMORPG. Innanzitutto c’è da fare una distinzione fra relazioni giocatore/giocatore e avatar/avatar, visto che questi rapporti avvengono a livelli diversi e non sempre sovrapponibili. Una cosa è il relazionarsi con una persona che interpreta un ruolo, un’altra è porsi nei confronti di un personaggio interpretato. È interessante sapere che la quasi totalità dei giocatori di UO (88% - ed è ragionevole pensare che una simile percentuale possa essere estesa anche ad altri MMORPG) rimangono in contatto con i loro compagni di avventura attraverso programmi di messaging come ICQ o MSN, che rappresentano sia una rapida via per organizzarsi all’interno del gioco, sia un modo concreto per rimanere in contatto con gli altri giocatori ad un livello più alto. Inoltre, l’84% dei giocatori di UO appartiene ad una qualche tipo di gilda o associazione in game, situazione che ovviamente favorisce le conoscenze a tutti i livelli considerati. Come fanno notare Kolo e Baur, giocare con un gruppo stabile e/o conoscere nuova gente è spesso la ragione principale che spinge gli utenti a giocare, quindi è facile immaginare che il periodo più problematico sia quello iniziale, quando il giocatore novello non conosce nessuno e si sente sperduto in mezzo al caos di un nuovo mondo vivo e pulsante, che sembra ignorarlo completamente. E’ quindi logico aspettarsi che le relazioni nate online abbiano una qualche conseguenza nella vita offline. Come affermano Taylor e Jackobsson [3] “i legami offline fra giocatori servono anche come importanti componenti del divertimento del gioco, e […] non è inusuale trovare gruppi di amici che si muovono da un gioco all’altro. In queste situazioni il gioco diventa semplicemente un nuovo ambiente da abitare per una rete sociale preesistente”. Questo ci porta ad assumere che i legami sociali fra giocatori nel mondo online e in quello offline non siano segregati ad uno solo dei due mondi, ma piuttosto interconnessi in vario modo e con differenti sfumature a seconda della situazione. L’altra faccia della medaglia è costituita da alcuni casi limite, come quelli segnalati da Tim Guest nella sua colonna di opinione su EDGE [4]. Parlando della situazione coreana, patria della più grande comunità online del mondo, Guest ci mette a conoscenza dell’esistenza di una vera e propria Cyber-Terror Unit attiva contro i giocatori che commettono, nel mondo reale crimini, (tendenzialmente tentativi di omicidio, o comunque rivalse fisiche) contro giocatori che nel mondo virtuale spadroneggiano. Esemplare il caso di Kyu Nam Choi, regnante assoluto nel mondo di Lineage II (MMORPG diffusissimo in Corea, prodotto da NCsoft), soggetto ritenuto particolarmente a rischio di attacchi concreti da parte di altri giocatori. Choi, che nella vita reale è praticamente un fallito, alla domanda “se dovessi scegliere tra il mondo reale e quello virtuale,

MMORPG di origine coreana, la saga di Lineage si avvantaggia di una grafica sublime, frutto dell’engine di Unreal, di un design raffinato e di un sistema di gioco incentrato sui combattimenti e su epiche battaglie. Nell’immagine, un assedio che coinvolge centinaia di giocatori.

per quale opteresti?” risponde “nella vita reale, anche se possiedo una mia attività [il suo ristorante ha chiuso - NdA] sono solo una persona ordinaria [Choi, alla veneranda età di 32 anni, non ha mai avuto una ragazza, per sua stessa ammissione – NdA]. Nella vita all’interno del gioco, io domino il mondo. Quindi scelgo il gioco”. Un altro caso che ha suscitato scalpore riguarda la comunità online del gioco PC Second Life (Linden Lab.). L’architetto Derek Jones costruì e fece collassare, nell’agosto dell’anno scorso, una replica esatta delle delle Twin Towers mentre gli avatar di alcune persone che avevano realmente perso dei familiari nell’attacco dell’11 settembre si trovavano all’interno. Ovviamente le proteste non si sono fatte attendere e a chi difendeva l’azione di Jones con il classico “è solo un gioco” si sono contrapposte altre voci decisamente indignate (geniale l’utente che ha chiesto: “Quando esce Third Life, così da scappare dalla nostra seconda vita?”). La domanda che a questo punto si pongono Kolo e Baur, e che vi riproponiamo, è: “Possiamo comprendere meglio le dinamiche sociali offline fra persone reali, partendo dall’insieme dei personaggi che interagiscono nell’ambiente di gioco?”. La risposta non è facile, e come gli esempi di Choi e Derek ci suggeriscono, più che arrivare ad una soluzione del problema i MMORPG aprono tutta una nuova serie di problematiche sociali difficili da interpretare e impossibili da prevedere. L’IMPATTO ECONOMICO Per avere un’idea dei punti toccati dal lavoro di Castranova è bene affrontare di petto il punto centrale della questione. La domanda posta all’inizio della sua interessante analisi è: “Visto l’aumentare dei giocatori nei mondi online, avremo una parallela crescita di importanza delle economie virtuali? E se sì, in che modo influenzeranno l’economia del mondo reale e le sue leggi?”. Queste le differenze che lo studioso individua fra l’economia dei MMORPG e quella reale: 1) La scienza economica, nel mondo reale, sostiene che nessun governo dovrebbe tentare di controllare i prezzi. In una economia online tutta-

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via, il governo (in questo caso il produttore del gioco) può fissare i prezzi come preferisce senza nessun problema. Dal momento che i beni prodotti sono irreali, essi possono essere creati e distrutti senza alcun costo reale. Dunque il tetto dei prezzi non crea un eccesso di domanda, e il tetto minimo non crea surplus. Potrebbe aver senso controllare alcuni prezzi. 2) La scienza economica, nel mondo reale, assume che il lavoro causi inefficienza e controproduttività. In una economia online, è la mancanza di lavoro che causa controproduttività. Indipendentemente dai guadagni, la gente che gioca deve avere qualcosa da fare o si annoierà. Se la struttura di gioco limita l’abilità di essere costruttivamente coinvolti in una qualche missione, o attività, i giocatori non saranno soddisfatti. Lavorare online è cosa buona. 3) La scienza economica, nel mondo reale, crede che la crescita economica sia sempre vantaggiosa. In una economia online, tuttavia, l’incremento del benessere pro-capite – che rende più facile portare a termine quest e missioni – diminuisce il livello di difficoltà del gioco, rendendolo potenzialmente meno interessante. La crescita può essere quindi una caratteristica negativa [e dare luogo a fenomeni di differenti opportunità a seconda della ricchezza dei giocatori, facendo perdere al gioco il suo carattere tendenzialmente meritocratico - NdA]. 4) La scienza economica, nel mondo reale, prende la popolazione umana come costante, e assume anche che i loro gusti e le loro abilità siano pressochè fissi. In una economia online, però, la gente è libera di scegliere una significativa parte delle proprie abilità. I giocatori possono inoltre scegliere quando essere vivi (presenti nel gioco) e quando non esserlo [possono inoltre possedere più avatar contemporaneamente, creando interessanti fenomeni di multipla identità - NdA]. Particolarmente interessante è, come vedremo, anche la parte che riguarda i problemi legislativi nel trattare comportamenti anomali nei mondi online: chi ha giurisdizione su Ultima OnLine? Chi in Everquest 2? Chi in Project Entropia? .Sulle differenze fra le due economie Molti giocatori non spendono online più tempo di quello che spendono per i loro altri hobby più tradizionali. Altri utenti, però, si avvicinano ai mondi virtuali come a realtà alternative, impiegando una sostanziale porzione del loro tempo nei meandri di questi universi fantastici. I giocatori vivono, lavorano, consumano e accumulano ricchezze come fanno/farebbero nel mondo offline. Ci sono molte somiglianze fra l’economia dei mondi virtuali e l’economia reale, ma anche sostanziali differenze: procediamo con una lezione base di economia e prendiamo come esempio la centrale questione del controllo dei prezzi. Nell’economia reale, controllare i prezzi è sconsigliato, poiché le risorse necessarie per mettere in pratica una simile politica spesso sono superiori ai benefici che se ne possono trarre. Inoltre, il costo viene spesso sopportato da quelle persone che invece ne dovrebbero beneficiare. La ragione di questo effetto perverso è che ogni tentativo di controllare i prezzi crea un eccesso di beni o un eccesso di domanda, che a turno generano ogni tipo di costo socale. I beni in più

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InMMORPG Project Entropia è possibile acquistare crediti (PED) nel Un caratterizzato da una peculiarità distintiva: comprandoli in dollari Viceversa, i PED possono mondo di gioco esiste unaveri. moneta corrente (il PED) che può essere successivamente riconvertiti un di tasso di essere comprata con il denaro reale, alad fine acquistare scambio nemmeno malvagio equipaggiamenti e abilità. D’altra parte, è possibile convertire i PED guadagnati nel gioco in dollari americani REALI.

devono quindi essere distrutti, quelli che scarseggiano devono essere distribuiti attraverso un meccanismo che solitamente risulta essere costoso e poco efficiente. Ma, si chiede Castranova, cosa succederebbe se il costo per i governi fosse nullo? Se comprare e distruggere il surplus di beni fosse gratuito? Se produrre qualsiasi quantità richiesta di un certo bene non costasse alcunché? Se ciò fosse possibile, allora il controllo dei prezzi sarebbe realizzabile. Nei MMORPG, l’autorità del caso ha sempre il potere di creare e distruggere qualsiasi ammontare di qualsiasi bene, ad un costo virtuale pari a zero. Quindi, essendo l’autorità responsabile del gioco equiparabile ad un governo, otteniamo che nei MMORPG il controllo dei prezzi è possibile. L’esempio, poco significativo in se stesso, ci suggerisce però che le differenze fra i due tipi di economia sono palpabili e potrebbero iniziare ad avere un certo impatto sulla vita delle persone con il migrare di alcune attività dal mondo reale a quello di gioco. .Sulla necessità del ‘lavoro’ online e altri aspetti economici L’economia ci insegna che il valore di un oggetto non dipende dalle sue caratteristiche o dai suoi componenti, quanto piuttosto dal contributo che quell’oggetto dà al benessere delle persone che lo utilizzano. Quindi, se alcune persone spendono tempo e soldi per vivere in un mondo virtuale, gli economisti riterranno quella locazione redditizia, indipendentemente dal fatto che esista realmente o meno. La volontà di pagare, di sacrificare tempo e fatica per esse, è il segnale definitivo che associa a queste entità un valore economico effettivo. Sempre seguendo le classiche teorie economiche, che in questo contesto iniziano a mostrare seri limiti, se vogliamo rendere la gente più felice, dobbiamo rimuovere loro più restrizioni possibili. Castranova, per dimostrare il paradosso di questa teoria, si rifà in all’esempio dei puzzle: secondo quanto detto, per rendere felice un solutore di puzzle, dovremmo progettarne di meno impegnativi, poiché nessuno è in grado di completare puzzle da tre mi-


lioni di pezzi. Ne deriva, dunque, che un puzzle di due pezzi sia la migliore soluzione possibile, affermazione che come sappiamo non corrisponde alla verità: nessuno ama i giochi troppo facili. Possiamo quindi assumere, per far quadrare le cose, che: a) il benessere emozionale è sempre una meta del comportamento umano. b) sfide ragionevoli rendono la gente felice. Ne consegue che, poiché i giocatori cercando la sfida e il confronto, il ‘lavoro’ che devono compiere on line, non è solo necessario, ma anche ben accolto se ben calibrato. Collegata a questo tema c’è un’altra tematica che Castranova mette in evidenza, quella dei giocatori che vedono i MMORPG come una seconda, o addirittura prima, fonte di guadagno reale. Dai precedenti studi dell’autore, scopriamo che molti individui investono più tempo giocando con EverQuest che nel proprio lavoro. Alcuni rilievi, forse discutibili in quanto generalizzanti e ipotetici, sembrano correlare i giocatori più assidui ai lavoratori meno retribuiti, poiché spendere tempo giocando significa sacrificare entrate modeste. Del resto, anche chi nella vita reale ha uno stipendio alto sembra passare molto tempo online, poiché la vantaggiosa condizione finanziaria permette a queste persone di affrontare con comodo ogni tipo di attività senza assilli economici. Gli unici ad avere dei problemi, in questo senso, sembrano i lavoratori con stipendio medio, probabilmente più sensibili all’impatto che un tempo di gioco troppo prolungato potrebbe avere sui loro guadagni, prima ancora che sulla propria vita. Assumendo per buone le informazioni che Castranova riporta, giungiamo al punto focale: fare soldi reali vendendo item digitali prodotti durante il tempo di gioco non solo è possibile, ma è un fenomeno in larga espansione. Sembra quasi, citando l’autore stesso, che ci sia una “migrazione di lavoratori che passa dal mondo reale a Norrath”. Questo tipo di possibilità, comune anche ad altri MMORPG, ha dato il via a certi fenomeni difficili da gestire persino per i produttori ed i gestori del gioco stesso, come la vendita su ebay di oggetti, item o avatar che di fatto esistono solo in forma digitale. Per alcuni, quindi, l’attività svolta nei MMORPG non è più gioco, ma lavoro. Come dovrebbe avvicinarsi l’economia a questo tipo di eventi, visto che non ci sono precedenti? Inoltre, poiché attività del genere risiedono attualmente in un limbo giuridico e le case di produzione sono divise fra la necessità di regolamentare i loro giochi e quella di lasciare comunque ampia libertà ai giocatori, risulta praticamente inevitabile porsi delle domande su quello che ci aspetta. Cosa succederebbe se una sostanziale parte delle attività economiche/forza lavoro decidesse di migrare sui lidi virtuali dei MMORPG, dove al momento non vige alcuna giurisdizione ‘terrestre’, né tassazione dei beni? Quali saranno gli impatti sociali? Quali quelli economici? E queste nuove forme di mercato, non rischiano di riproporre ancora una volta dei problemi di ordine etico e morale? I giocatori con più soldi, non saranno sempre e comunque avvantaggiati rispetto ai giocatori che non possono permettersi di acquistare item/avatar all’ingrosso? Per iniziare con il piede giusto (...), negli Stati

L’atteso seguito di uno dei MMORPG più giocati e amati al mondo che, nonstante le indiscusse qualità estetiche, ha fatto storcere il naso ai patiti della serie ambientata in Norrath. Di recente, è stato commercializzato anche uno spin-off per PS2, giocabile sempre online.

Uniti alcune sentenze hanno sancito che le corti ‘terrestri’ non hanno giurisdizione su ciò che accade online [5]. Una posizione rivelatasi vincente durante un processo, sosteneva che i videogames sono una forma di linguaggio, e che sono quindi protetti dalla costituzione americana; di fatto questa conclusione legittima le compagnie che creano i giochi ad essere i ‘governi’ dei loro mondi [6]. Ovviamente, i giocatori rimangono comunque cittadini di nazioni reali con tutte le relative implicazioni del caso. In futuro le corti reali potrebbero essere le autorità competenti, con i governi che di certo dovranno svolgere almeno un ruolo di supporto (a meno di non immaginare, come predetto in Vox Mundi, una scissione definitiva fra i due mondi con amministrazione interna, ma qui ci lanciamo nella fantascienza più sfrenata). Resta però il fatto che attualmente i proprietari legali del gioco già svolgono questa funzione, con delle implicazioni interessanti. Il potere che detengono deriva dal fatto che ogni giocatore iscritto accetta delle condizioni (End User Licensing Agreement) che limitano fortemente i diritti dell’utente e che non prevedono, ad esempio, alcun tipo di rimborso per i cambiamenti alle meccaniche di gioco, o ai suoi contenuti, che possono essere fatti in qualsiasi momento e senza autorizzazione preventiva da parte dell’utenza. Dice Castranova, concludendo sull’argomento: “Se anche l’emergenza dei mondi virtuali richiedesse una qualche reazione da parte dei governi, non è ben chiaro quali amministrazioni dovrebbero essere coinvolte. I mondi virtuali, al momento, sembrano esistere come entità politiche separate, e questo alza senza dubbio nuove questioni di carattere costituzionale”. CONCLUSIONI Come avete visto gli argomenti da trattare, spesso profondamente interconnessi (eventuali cambiamenti economici avranno sicuramente ricadute sociali, e viceversa), sono complessi e ricchi di sfumature. Molti spunti offerti dai documenti presi in considerazione sono stati tralasciati in questa sede per non aprire troppe questioni (per esempio la necessità, secondo Castranova, di connettere fra di loro i vari mondi online, in maniera da creare un

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vero e proprio ‘universo digitale’) ma altri articoli di approfondimento appariranno fra queste pagine in futuro. Ring sa che nel frattempo continuerete a imperversare nei campi di battaglia di Britannia o nelle foreste di Norrath, ma da adesso in poi, magari, guarderete gli avatar dei vostri ‘concittadini’ con occhi un po’ diversi… NOTE [1] http://www.itu.dk/op/papers/ducheneaut_moore_nickell.pd f [2] Sound Bytes – EDGE#144 [3] The Sopranos Meets EverQuest. Social Networking in Massively Multiplayer Online Games [4] The Guest Column – EDGE#143/144 [5] Kaplan, Carl S. (2001), "Florida Community Can't Shut Down 'Voyeur Dorm", New York Times, 5 ottobre [6] Au, Wagner James (2002), "Playing Games With Free Speech", Technology and Business, salon.com, 6 maggio

In Second Life ogni giocatore può personalizzare il suo avatar come meglio crede. Eventi e discussioni sono all'ordine del giorno: come è facile intuire dall'esempio riportato da Tim Guest, altrettanto facile è far incazzare gli altri giocatori trattando nel gioco tematiche "reali" scottanti.

IL BESTIARIO DAVIDIANO Caro Davide, vorrei segnalarti un curioso bug in cui sono incappato giocando a Snake Eater. Cercherò di tenere lo spoiler sotto i livelli di guardia. Hai presente il boss The Fear, che ti attacca lanciandoti quelle fastidiosissime frecce? Ebbene, dopo averlo sconfitto, ho salvato in tutta fretta perché dovevo uscire e mi sono dimenticato di accedere al survival viewer per togliermi questi dardi conficcati un po’ ovunque nel mio corpo. Quando, giorni dopo, ho ripreso la partita in mano, mi sono reso conto che Snake era guarito da solo dalle ferite provocate, ma che tali frecce continuavano ad essere conficcate nelle carni del nostro, e non c’era modo di toglierle, perché il sistema non le riconosceva più come ferite da curare! Pertanto mi sono dovuto fare il resto del (bellissimo) gioco in modalità puntaspilli, con Snake che sembrava un bambolotto voodoo. L’effetto è stato a dir poco surreale, soprattutto durante la cut-scene del confronto finale con The Boss. Sai, in questo poeticissimo prato fiorito, con quella brezza leggera e una musica struggente, vedere il futuro Big Boss parlare con il suo mentore avendo una sorta di steccolo infilato nel sedere non è stato il massimo del lirismo. Non so se rendo l’idea… Il fratello di Sator

che lo avevo intuito! Cid

Grazie per la segnalazione. In effetti confermi i miei sospetti sul comportamento di Big Boss nei confronti di Eva: il ragazzo aveva veramente una scopa nel c…

Caro Teok, credo che sia sufficiente osservare questa immagine leggermente ritoccata per capire che la persona a cui stai pensando è nientepopodimeno che… Capitan Findus!

Davide, qual è secondo te il colpo di scena più telefonato mai apparso in un videogame? Io voto per il vero motivo del viaggio di Yuna in Final Fantasy X. Era da quando lessi le prime preview

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Io invece voto per la morte di Aeris in Final Fantasy VII. Quella ragazza era come se gridasse “ammazzami” ad ogni persona che incontrava… Caro Davide Videoludico, nonostante i miei ripetuti sforzi, non riesco a trovare una ragazza che mi apprezzi per quello che sono. Secondo te devo abbandonare ogni speranza di farmi una famiglia e tornare a videogiocare? Disperato79 Premettendo che per questo genere di domande dovresti rivolgerti al dottor Nemesis, secondo me sì: devi abbandonare ogni speranza. Davide, sono giorni che mi gira in testa questa domanda e se qualcuno non mi risponderà credo che perderò il senno. Che è in realtà The End? Sono sicuro di averlo già visto da qualche parte. Teokrazia


EDWARD CASTRONOVA // dalla terra di mezzo ad arden

Edward Castronova, l’ospite di questo mese, è Associate professor of Telecomunications presso la Indiana University, e contribuisce al blog TerraNova (terranova.blogs.com), che si occupa di giochi in multiplayer e mondi virtuali. E proprio lo studio dei synthetic worlds, spazi virtuali dove più utenti si incontrano, è al centro dell’attenzione di Castronova, sia da un punto di vista economico che sociale. In questa colonna analizza come due degli scrittori più grandi della letteratura mondiale, Tolkien e Shakespeare, siano stati trascinati di peso nei giochi di ruolo fantasy, e con quali conseguenze. Ma, dopotutto, è davvero possibile ricreare lo spirito della Terra di Mezzo in un mondo online? E possiamo chiedere di interpretare Amleto al primo newbie che passa?

DALLA TERRA DI MEZZO AD ARDEN di Edward Castronova

Più penso alla vita e alle opere di J.R.R. Tolkien, più rimango impressionato dalla durata dei loro effetti. I suoi scritti hanno influenzato per una intera generazione opere letterarie, film e videogiochi, in particolare il genere MMORPG. Quest’ultimo passaggio mi crea ancora qualche perplessità, perché non mi pare aver funzionato alla perfezione. Ho incontrato parecchi elfi giocando online, e pochissimi erano in grado di comportarsi come elfi tolkieniani, intesi come umani prima della Caduta. La Terra di Mezzo è così ricca di eroi senza macchia e acerrimi nemici che non può che essere un pessimo modello per un gioco con migliaia di persone caratterizzate in modo casuale. La naturalità e l’immersione nella parte auspicati dal role-playing comportano che le personali convinzioni e il modo di essere di ciascuno vengano necessariamente a galla. Fortunatamente, esiste un autore di miti che parla della gente esattamente in questi termini, e che rimane imbattuto da qualunque mondo virtuale mai creato: William Shakespeare. Troppo banale e pedante, direte voi. Con la marea di titoli imbottiti di azione disponibili oggigiorno non venderebbe mai.

Io non direi. C’è più violenza nel Riccardo III che in DOOM III; durante la rappresentazione la scena si tinge di rosso, due bambini vengono soffocati vivi, e verso la fine una schiera di non morti fa la sua comparsa solo per rimarcare la fatalità dell’epilogo. Sir John Falstaff (EnricoIV) potrebbe tranquillamente batterti in una gara di bevute, rubarti tutto ciò che possiedi, e persino riuscire a farsi amare per tutto questo. Buona parte delle rappresentazioni si concludono con una grande battaglia. Tragedia, storia, commedia: Shakespeare è più violento, popolare, e a conti fatti più brutalmente genuino, di qualunque altro gioco in vendita al Wal Mart sotto casa. Semmai, bisognerebbe morigerare il livello generale di crudezza per venire incontro agli standard moderni. In ogni caso, non c’è dubbio che sarebbe divertente. E il coinvolgimento? Tolkien sosteneva (On Fairy Stories,1939) che il dramma non era il genere più indicato per il fantasy: devi poter credere nel protagonista, prima di poter credere al mondo in cui vive, e questo secondo livello di incredulità, non presente in letteratura, previene l’immersione del giocatore. E di certo, se il giocatore medio non è in grado di interpretare un elfo, figuriamoci Se sarà in grado di interpretare Amleto.

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Certo non prende in considerazione la possibilità che siano gli spettatori, ovvero una intera società, a diventare (gioc)attori. Non molti scrittori hanno considerato questa eventualità, non prima delle reti informatiche. Ma Shakespeare sì. Esattamente, molte sue rappresentazioni invocano deliberatamente il concetto di virtuale: in Come vi piace, dei tipi scappano dalla foresta di Arden per cambiare il loro status sociale, i loro nomi, persino il loro sesso, e così facendo conducono Jacques, il filosofo della foresta, alla presa di coscienza secondo cui “tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne sono semplici (gioc)attori”. Nel frattempo, La Tempesta fa approdare abitanti del mondo reale in un’isola governata dalla magia, dove tutto è diverso, e il cui proprietario dichiara che tutto è un’immagine: “noi siamo della materia di cui son fatti i sogni” (corsivo mio). MacBeth riassume l’assurdità della sua situazione dicendo che “la vita non è che un’ombra che cammina; un povero (gioc)attore che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più”. Dal canto suo, Enrico V nel prologo dell’omonimo dramma vorrebbe far salire un intero regno su di un palcoscenico a ingaggiare finte battaglie. E il povero Principe Amleto spende buona parte del suo tempo lavorando con degli attori che interpreteranno le stesse parti degli attori realmente in scena, in un effetto a incastro che come suggerisce lo studioso Horald Bloom (Shakespeare: The Invention of Human, capitolo 23) suscita la sconcertante impressione che il principale motivo di struggimento per Amleto non siano i suoi strampalati parenti, ma il fatto che egli sia una persona vera intrappolata in una rappresentazione. Tutte queste interpretazioni mi fanno pensare agli avatar. Quel “ragazzo-vero-inun-gioco” è l’essenza dell’online gaming. Essere online ci rende tutti degli Amleto: non realizziamo quanto il mondo virtuale sembri vero, ma piuttosto quanto quello vero sembri virtuale, e la distinzione si annulla. Voilà: immersione. Shakespeare non invoca semplicemente il virtuale, ma lo comprende in una caratteristica che accomuna tutti gli uomini. Il role-playing, dice, è naturale, qualcosa che facciamo senza neanche pensarci. Nessuno è davvero un eroe o

un cattivo. Pertanto quando andiamo sul palcoscenico del mondo virtuale, non dobbiamo aspettarci di interpretare Amleto, ma piuttosto di essere Amleto, se è questo ciò che siamo. Chiunque sia inconsciamente un giocatore di ruolo, può essere inserito in una storia o un intreccio shakespeariano, che sono tra i più appassionanti della letteratura mondiale. Ne sono testimoni le centinaia di adattamenti di storie di Shakespeare, da West Side Story a Ran di Kurosawa. Possono essere inseriti anche in un mondo di magia, uno molto più semplice da realizzare ordinatamente rispetto a quelli cui siamo abituati. Niente palle di fuoco, solo allucinazioni, indovini, evocazioni e pozioni. Ci sono streghe, fantasmi, spiriti e fate. Ma sono reali, o il frutto dell’immaginazione iperattiva di qualcuno? Il punto è che non ha alcuna importanza. Sia che MacBeth abbia veduto o sognato streghe, ha comunque descritto alla propria moglie una corona, e tutto il resto vien da sé. In quanto miglior scrittore della storia del mondo, Shakespeare merita attenzione. Deve essere letto, anche se molti non ne capiscono il linguaggio. E siccome la tecnologia ci obbliga a leggere per stabilire una forma di interazione, c’è il rischio che il corpus delle sue opere vada cancellato dalle nostre coscienze. I mondi virtuali sono le risposte ad entrambi i problemi. Immergi delle persone in un mondo virtuale shakespeariano, e il linguaggio cesserà di essere un problema. Fornisci un valore alla comprensione di Shakespeare in quel mondo – e ciò è possibile perché in un mondo virtuale puoi creare del valore dal nulla e assegnarlo a qualsiasi cosa – e la conservazione delle sue opere sarà assicurata. Se un mondo virtuale shakespeariano servisse ad ampliare la comprensione su scala mondiale della figura del Bardo, allora varrebbe ogni singolo centesimo dei suoi costi di produzione. Inserito in un ambiente universitario, questo mondo potrebbe offrire anche qualcosa di più. Potrebbe aiutare gli studenti nell’arduo percorso della propria crescita individuale. E potrebbe fornire agli insegnanti e ai ricercatori una società cuscinetto dove poter svolgere ogni tipo di esperimento, relativo all’economia, alle attività di governo, alla sanità pubblica, e molto altro. L’ipotesi non è poi così assurda, vero? Aspettiamo solo che si concretizzi. Arden: The World of William Shakespeare. Coming soon, unless fate o’er rules.

Ogni mese un membro della DiGRA (Digital Games Research Association), una associazione che riunisce studiosi e critici del videogioco, esprimerà in questo spazio i suoi pensieri, le sue riflessioni, le sue scoperte. Gli sguardi di queste persone, coinvolte in modo diverso nel mondo dei game studies o nell'industria del videogioco propriamente detta, saranno uno spunto per arricchire i nostri dibattiti e per crearne di nuovi. La IGDA (www.igda.org) (International Game Developers Association), da sempre impegnata nello studio del videogame e proprietaria degli scritti degli uomini della DiGRA, ha acconsentito alla pubblicazione in lingua italiana su Ring di questi articoli. Ringraziandoli ancora una volta, ci auguriamo che le nostre pagine siano degne della passione che la IGDA nutre per il proprio lavoro. Al fine di stimolare la curiosità di chi volesse approfondire l’argomento, abbiamo deciso di conservare i riferimenti e i link presenti nei testi originali.

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ONE DAY @ SAN ANDREAS di Cryu

PARENTAL ADVISORY: EXPLICIT CONTENT Questo articolo contiene linguaggio scurrile. Se ritenete che volgarità e turpiloquio possano offendere la vostra sensibilità, il consiglio è quello di voltare pagina, ma anche di tenervi alla larga da GTA: San Andreas, in confronto al cui copione questo pezzo sembra un estratto del galateo per educande ottocentesche. Pomeriggio inquinato nel più fatiscente dei quartieri di San Fierro. Due sbirri si presentano a casa mia. Vogliono farmi cecchinare previo pedinamento un giornalista liberal e il suo informatore. No problema, rispondo io. Il giornalista sta prendendo un treno alla stazione a due passi da casa. Direzione Los Santos. Mentre mi scervello amletico sul da farsi piove a video un suggerimento provvidenziale: "SEGUI IL TRENO" Va bon, ciulo una macchina, mi piazzo sulle rotaie del treno e prendo a pedinarlo da distanza utile a odorarne le chiappe. Dopo aver attraversato metà stato in questo modo (yawn), giungiamo a destinazione. "IL GIORNALISTA STA PER SCENDERE. SEGUILO MA NON FARTI VEDERE" Va bon, lo tengo a distanza di sicurezza e gli sto dietro procedendo a passo d’uomo zoppo (yaaawn). "IL GIORNALISTA STA ASPETTANDO UN TAXI. PROCURATI UN VEICOLO PER SEGUIRLO” Va bon, ciulo la prima macchina che passa e lo tengo d’occhio mentre il tassista, evidentemente imbroglione, fa compiere al giornalista una crociera à la Monkey Island 2, girando a cazzo piuttosto che prendere la strada più prossima alla linea d'aria verso la meta. E va bon, gli sto dietro mentre se ne va a zonzo a velocità lumaca (YA-A-A-AWN!). Alla fine si ferma davanti alla ruota panoramica sul molo. Io da bravo killer cecchino lui e l'informatore non appena questi si presenta. Ok, missione compiuta, sono un giocatore abile e felice... ...ma santa merda, mi trovo dall'altra parte dello stato rispetto a casa mia, mo' per fare la prossima missione devo rifarmi un viaggio! Calma e gesso. Mi intrufolo nell'aeroporto, ciulo un aereo e in 5-10 minuti se va bene sono a casina bella davanti alla TV in pantofole di pelo. Squilla il cellulare. È Denise, la mia fidanzata: "Andiamo a far baldoria?" Manco per il cazzo. Già devo farmi i chilometri per tornare dove iniziare la prima missione utile, figuriamoci se perdo un quarto d'ora a scarrozzare in giro una psicolabile che si diverte a sparare ai passanti. Vado all'aeroporto, ci metto un po' a ciulare le macchine adatte a formare una scalinata di fortuna davanti alla rete di sicurezza, e ci metto un po' a stipulare un patto di non belligeranza con il sistema di rilevazione delle collisioni, che mi fa incastrare in ogni possibile poligono delle auto mentre salto dall'una all'altra. Dopo un po' ce la fo, zompo dentro l'aeroporto e ciulo un biplano dopo essermi fatto mezza pista di decollo a piedi (YAAAAAAAAAAAAAAAAAAAWN).

Decollo fuggendo dalla pula (che nel frattempo non ha gradito la mia combo di reati) e faccio rotta per San Fierro. Ora, siccome viaggiare in aereo è palloso esattamente come navigare nel mare aperto di The Wind Waker, prendo a volare un po' a bassa quota per godere meglio del panorama urbano (sai che roba) e provare l'ebbrezza della velocità, che a 2000 piedi è logicamente nulla. Peccato che mentre sorvolo un boschetto (che dall'alto sembrava il deserto di Gobi) mi appare in pop-up selvaggio un pino quando gli sto a cinque metri di distanza. L'impatto è inevitabile. Picchiata con l'aereo in fiamme, mi butto da un’altezza di una decina di metri e sopravvivo. PHEW! Culo vuole che di lì stia proprio passando una volante ancora incazzata con me per i furti di prima. Come al solito, quando serve un'auto per scappare, non ne passa manco mezza. Corro un po' in giro rischiando l’infarto finché dall'oscurità (ormai è notte) spunta una jeep. Bella lì, faccio per aprire la portiera... ed esce un poliziotto. Ma puttana miseria lercia! Al buio si vedevano solo i fari… Il poliziotto mi legge i miei diritti di morire crivellato da una raffica di mitra. “ANNIENTATO” … Ora, non so bene come, ma in un angolo recondito del mio animo trovo la pazienza giobbico-certosina per ricaricare il salvataggio precedente e rifarmi tutta la missione. Flash forward di un quarto d'ora. Ammazzato il giornalista di PSM e il suo informatore (apparentemente Il_Simon), decido che è cosa saggia andare a salvare nella mia casa di San Fierro. Non è proprio dietro l'angolo, ma vabé, piuttosto che rischiare l'inculata di prima... Mi dirigo verso casa quando squilla al telefono quella mentecatta della mia fidanzata. "Andiamo a far baldoria?" Va bon dai, abita di fianco a casa mia, già che passo di lì la rimorchio. In più devo sfogare quanto represso nell'ultima mezzora, e se non me la dà è la volta che l'ammazzo. Siccome in fondo ci tengo a far bella figura con la mia ragazza, mi metto pure a cercare una macchina di lusso, di modo che, vedendomi scendere da essa, la pulzella mi si sciolga addosso. Ciulo una specie di Chevrolet e imbocco la via dove abita Denise. Arrivo di fronte a casa sua, sosto nel cortiletto e smonto dalla macchina con fare da gran divo. Mano che sistema i capelli, sguardo da figo e cazzo già durissimo. Quando a video mi appare la seguente scritta: "LA TUA FIDANZATA NON È A CASA. RIPASSA PIÙ TARDI" … Mentre eseguo la conta dei nervi a fior di pelle, un interrogativo si affaccia alla mia coscienza: con che coraggio d’ora in avanti potrò continuare a sostenere che GTA non istighi alla violenza?

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ONE NIGHT @ THIEF di Cryu PARENTAL ADVISORY: EXPLICIT CONTENT In seguito a un attento esame della commissione PEGI, il seguente articolo è stato classificato nella fascia 18+. Qualche termine un po’ troppo colorito e le mie kingiane doti di cantastorie dell’orrore hanno convinto la commissione della sconsigliabilità di questo scritto a un pubblico di minori. Sorprende invece che a Thief: Deadly Shadows, una delle più inquietanti avventure digitali di sempre, sia stato accordato l’ingresso nella fascia 12+. Per contro, si segnala il bollino relativo alla presenza di linguaggio scurrile, non apposto sulla confezione di GTA: San Andreas, ma qui evocato da inaccettabili epiteti medievali del tenore di “codardo” e “manigoldo”.

Non disponendo di una PS2 modificata, in questi giorni sto cercando di distrarre la fame da Metal Gear Solid 3, quindi ho ripreso quel Thief: Deadly Shadows che avevo colpevolmente interrotto. Acclimatatomi di nuovo con le sue atmosfere di lugubre perdizione, realizzo di essere rientrato nello spirito di gioco da un particolare sintomatico: mi duole la cervicale. È l'effetto collaterale del gotico, che ti tiene con il naso all'insù, a cercare il confine di spazi ostinatamente verticali, a pedinare con lo sguardo le traiettorie paraboliche delle volte, le stelle di nervature in cui convergono gli absidi, i fasci di luce sprigionati dalle sagome oblunghe di finestre lanceolate. Completato lo stage in questione e accondiscesa la peristalsi narrativa con un paio delle solite baggianate (vai a parlare con questo tizio e poi cerca questo posto vicino a quest'altro), intraprendo quella che credo sia l'ottava missione su dieci, ambientata in un ex-manicomio/ex-orfanatrofio abbandonato, infestato e ipotetica sede di una fattucchiera che ce l'ha a morte con me: il luogo della sfiga definitiva. Quando qualcuno me lo aveva descritto come il livello più terrorizzante che avesse mai risolto in un VG gli avevo creduto solo a metà, consapevole dell'effettiva stringiculaggine di certe situazioni già affrontate, ma anche dei liquidi organici che saghe quali Silent Hill e Resident Evil mi hanno fatto evacuare a ettolitri. Mentre scrivo, una paperella naviga beata nel laghetto marrone che ho testé prodotto intorno alla mia postazione di gioco.

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Mi sento quasi raggirato. No, peggio: violentato. Mai fidarsi di un ladro: io compro uno stealth game che quatto quatto si trasforma nel più raggelante dei survival horror. È incredibile come i quick save, il bug che mi costringe a giocare a livello mentecatto, e la mia dotazione formato famiglia di pozioni e armi magiche non siano un conforto sufficiente a farmi procedere con tranquillità. Avete presente l'albergo di SH2? Ecco, siamo lì. Solo, molto più grande, e io deriso da una mappa che è solo un vago schizzo a matita disegnato dal più inaffidabile dei topografi. In più: illuminazione quasi assente (si procede a passo di lumaca con il visore notturno in bianco e nero, che conferisce all'immagine un malinconico fotorealismo d'epoca), un sonoro bastardo esattamente come quello di SH2 e, summa della paura mortale: nessuno. Non c’è nessuno! Ma avete idea di che cosa significhi? Sappiamo bene che nei survival horror la paura è paura dell'ignoto, e pertanto regge fino alla comparsa - liberatoria - del "mostro". E il mostro in SH arriva. Qui no. Ho giocato per più di un'ora strisciando tra fatiscenti corridoi semi-bui, sotto la tortura dell'audio che riproduceva ogni genere di SFX terroristico (non solo lamenti di anime prave in remota lontananza, ma anche rimbombi di indecifrabile provenienza, e soprattutto stillicidi tic-tac di orologio! La killer-application di Capitan Uncino, in senso letterale). Non avete idea di che pressione, di che tormento il continuo quick-salvare e lo sporgersi ossessivo da ogni angolo, attivando il visore dell’occhio artificiale per addomesticare l'oscurità e conquistare la percezione di spazi più in là di un palmo. Quando raggiungo la zona delle celle degli ex-internati, imbocco un dedalo di corridoi continuando a guardarmi le spalle, e mi domando se sia più saggio richiudere le porte che apro (così da impedire a eventuali inseguitori di sorprendermi alla maniera dei sodomiti), oppure lasciarle aperte come stratagemma à la Pollicino, utile al ritorno per fugare ogni dubbio su quali porte abbia varcato all’andata. Mentre cerco di venire a capo di tale sragionamento, mi volto per l'ennesima volta a guardarmi le terga, attivo il visore, zoomo (roba da paranoia, ormai, chi vuoi che ci sia?)… e un paio di sale più indietro scorgo una sagoma che incede tremebonda. Si dirige verso ovest


rispetto alla mia posizione. Quindi scompare dietro un angolo. Peggio di così si muore (le ultime parole famose…). Non solo il mostro non ha fatto la sua bella comparsa davanti a me liberandomi dall'angoscia all’accettabilissimo prezzo di un arresto cardiaco; non solo devo proseguire nella mia azione tingimutande, ma ora ho la certezza che le mie paranoie sono del tutto fondate.

Ho finito Thief. O forse è Thief che ha finito me. Eppure no, non lo vendo. Lo tengo lì, sullo scaffale, insieme a quella manciata di giochi Xbox che resisteranno al Giudizio Universale. Il suo posto, se l'è guadagnato alla grande.

Che diavolo faccio? Torno sui miei passi a caccia del sinistro inquilino raddoppiando il coefficiente di cacca addosso? Oppure, confidando che da quella distanza non possa né avermi visto, né tanto meno essersi messo sulle mie tracce, cerco di mettere tra me e lui più passi che riesco? Anche perché va bene la sospensione dell'incredulità, ma l'intelligenza artificiale ha fatto schifo per le passate 15 ore, proprio adesso dovrà implementare le routine di clearing di MGS2? Ma figurati, dai. Mi lascio alle spalle quella lugubre apparizione di un istante, e avanzo di un altro paio di mezzi corridoi. Quando mi sorge un dubbio: ma allora che cosa ho fatto? Le porte le ho lasciate aperte o chiuse? Mi volto, e dall'ultima grata che ho varcato si allunga un'ombra. Tuttavia, non è abbastanza per dire addio all’abituale condotta idraulica delle mie coronarie. Sin qui di ombre sospette ne ho viste a dozzine, mai hanno rivelato una minaccia effettiva, e ormai ci ho quasi fatto il callo. Questa però si muove. MERDAAAAAAAAAA!!! Due braccia tese spuntano dalla porta che io pirla - ho lasciato aperta. Niente panico, ero preparato da un'ora e mezza all’eventualità. Incocco una freccia elementale al fuoco e la conficco nel petto del sodomita. La creatura accusa il colpo, ma poi, denotando un pessimo temperamento, se la prende tantissimo (pensa te), reagendo alla maniera degli zombie centometristi di Resident Evil su GameCube, e scatta in avanti mostrandosi nelle sue orrende fattezze frankensteiniane. Una seconda freccia nel petto, e poi una terza! Roba da stendere un Olifante, visto che per i non-morti incontrati qua e là nel resto del gioco ne bastava e avanzava una. Ma niente da fare, mi è capitato lo zombie ex-internato (o ex-orfano?) più cazzodurico della galassia. E in barba ai tre fuochi magici che gli ardono in petto si avventa su di me. Sì, uccidendomi. Un'ora e mezza consumata a dialogare con la madre di tutte le paure, per poi prostrarmi alla sua ineludibile esattezza. Non c'era nessuno là dentro. Nessuno, per la miseria. Ma sapevo che qualcuno mi avrebbe ucciso. Non importa che il codice software preveda altre due missioni. Questa è la fine di Thief: Deadly Shadows. Perché non c'è quick save o arsenale da Van Helsing che tenga. Io là dentro non ci torno più. Neanche se mi pagano.

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IL BIGNAMI DI JAK & DAXTER di Sator & Daxter

S

iamo tutti molto indaffarati: il lavoro, lo studio, la palestra, la religione… È pertanto molto difficile riuscire a giocare tutto ciò che il mercato – questo gigante insensibile – ci propone. Va a finire che ci troviamo in un circolo del bridge o in una sala da the della Londra vittoriana e non siamo in grado di partecipare alle dottissime discussioni sul gioco del momento perché, ahinoi, non lo abbiamo nemmeno provato di sfuggita! A questo servono gli indepth: a scoprire tutti i segreti di un videogame, senza l’onere di giocarci. Questo mese raccogliamo l’eredità del professor Bignami per proporvi una plot analysis di una delle saghe simbolo di PlayStation 2 (e questo non è necessariamente un complimento), che tanto ha contribuito a fare di Jason Rubin un’icona di un qualsivoglia mestiere (esclusi quelli di game-designer, narratore, umorista...): Jak & Daxter. JAK & DAXTER (2001) Jak e Daxter, due amiconi dalle orecchie a manubrio di bicicletta, sono convocati da Samos, un anziano stregone sulle orme dell’antica civiltà Precursor. I Precursor, al pari dei Chozo e dei Numenoreani, erano una popolazione tanto avanzata, culturalmente e tecnologicamente, che diventò un avanzo, finendo per estinguersi. Samos sta lavorando insieme alla nipote Keira ad una pozza di terribile Analcolico Moro – un prodotto anche denominato Eco Oscuro, su antica ricetta Precursor – nel tentativo di invadere il più che saturo mercato degli aperitaviti. Purtroppo, a causa dell’attacco di due sgherri cattivi di cui non vogliamo ricordarci il nome, l’amico Catobleppa-Daxter cade nell’analcolico e subisce un’orrenda trasformazione in una specie di opossum. I cattivi per fortuna battono in ritirata, ma lanciano una vaga promessa di fare ritorno. Nessuno prende seriamente questa minaccia. Samos assegna a Jak l’incarico di far tornare l’amico al suo aspetto originale recandosi da Gol, un saggio studioso dell’Eco Oscuro che naturalmente abita molto lontano da lì. Il compito di Daxter è invece di sostare sulla spalla destra di Jak, provocando in lui scoliosi e fornendo una dose accettabile di battute per alleggerire la situazione. Sì perché la metamorfosi kafkiana a cui Daxter è stato sottoposto non gli ha tolto il dono della parola, e ciò è un bene, perché Jak non parla mai, e c’era il rischio di percorrere tutto il gioco più in silenzio che durante un’interrogazione di matematica. Il (più vostro che) nostro vinavilico duo raccoglie un centinaio di batterie per i più disparati motivi, trova il tempo di sconfiggere diversi mostri che stavano sostando in uno spazio dedicato ai soli residenti e arriva alle battute finali dell’avventura senza incontrare nemmeno una finestra di caricamento. Durante il climax, i nostri trovano (il) Go(a)l, ma questi si rivela essere uno dei cattivi del gioco, insieme alla sorella Maia. Come tutti i malvagi che si rispettino, Gol e Maia rivelano a Samos le loro intenzioni di liberare l’Eco Oscuro nel mondo per motivi inerenti la malvagità, appunto. Per far ciò, precisano che a breve si recheranno sottoterra in una specie di tempio Precursor a bordo di un gigantesco robot.

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«Perché proprio un robot?» chiede Samos. «Be’, visto che abbiamo un motore grafico piuttosto performante, vogliamo sfruttarlo al meglio!» rispondono essi prima di andarsene con la tipica risata del villain. A questo punto Samos rivolge a Jak e Daxter una frase che può essere considerata il messaggio fondamentale della serie… «Ragazzi, dovete recarvi nel sottosuolo!» Accadono altre cose su cui preferiamo non scucirci, quindi i nostri giungono alla cittadella di Gol e Maia per lo scontro finale. Il malvagico duo attacca i buoni con il gigantesco robot in grado di macinare poligoni come un mulino le olive. E quando tutto sembra andare a ramengo, quattro saggi di cui non vi avevamo parlato perché… ehi… non vi parliamo di tante cose, plagiano Zelda emettendo quattro raggi colorati che, unitisi, formano un fascio di luce bianca. Avete capito bene, si tratta dell’Eco Chiaro, o Analcolico Biondo che dir si voglia. Daxter si trova pertanto ad affrontare un drammatico dilemma morale: deve usare tale Eco per riottenere le sue sembianze originali da Smeagol rincoglionito, salvo poi perire per mano del robot, oppure deve adoperare l’Analcolico Biondo per sconfiggere quest’ultimo? Non si sa perché non possa scegliere entrambi: queste opere occidentali di bassa lega amano troppo i dilemmi scespiriani. Naturalmente il furetto opta per la seconda ipotesi, salvando la situazione e rivelandosi il vero eroe del gioco. Il gran finalone morbidone vede Jak e Daxter attraversare un mistico anello di teletrasporto – citando uno dei film più merdosi di sempre – che, si teme, li condurrà direttamente nei mondi del sequel. Un bad ending, insomma. Interpretazione della trama La raccolta delle batterie a cui il gioco ci sottopone è un po’ la metafora della perdita dell’innocenza, con uno spruzzo di critica al capitalismo. Che cos’è la vita se non una continua ricerca di nuove batterie? Ricorderemo questo gioco perché… Finalmente si può entrare in un’abitazione senza prima attendere il caricamento degli interni. Non c’è nemmeno uno stacco di montaggio: la macchina da presa virtuale segue Jak che entra nelle case per mezzo di un piano sequenza depalmiano. Yu-hu! Dimenticheremo questo gioco perché… Il doppio salto faceva un attimo schifo. JAK II: RENEGADE (2003) Come minacciato nel prequel, Jak e il cane della prateria attraversano lo stargate e giungono nell’unico posto dove si possa giungere quando si intraprende un viaggio interdimensionale: in un mondo apocalittico. Jak non ha nemmeno il tempo di seguire il tutorial: viene catturato e sottoposto a torture a base di programmazione Mediaset del primo pomeriggio. Daxter invece riesce a chiamarsi fuori, e dopo due anni salva l’amico. Tuttavia Jak, un tempo taciturno e docilissimo ragazzo, diventa adesso più malvagio di Previti, inoltre conosce a


memoria tutte le puntate di Forum. Segnaliamo poi che le torture a cui è stato sottoposto affinché parlasse, hanno sortito il loro effetto, e Jak adesso parla! Come da consuetudine, Jak si deve vendicare di tutte le saponette che è stato costretto a raccogliere in questo biennio. Il colpevole del fattaccio è quell’invertito del Barone Praxis, leader della città di Haven City e indagato tra l’altro per concorso esterno in associazione con le teste di metallo, esseri particolarmente malvagi che minacciano la città. Per compiere questa vendetta, non si sa perché ma Jak deve prima completare una serie di missioni ambientate nel sottobosco della resistenza, dei disobbedienti, dei girotondini e altra feccia simile. Qualche attentato dopo, il noglobalico duo riesce ad entrare nel correntone dei DS sotto il comando di Torn, una sorta di Che Guevara privo di sigaro, carisma, fascino etc. Durante una manifestazione di spesa proletaria, Jak e la palla di pelo incontrano Ashelin, una rivoluzionaria molto calda, se non fosse per quella espressione del volto come una che non va di corpo da settimane. Ashelin racconta ai nostri la storia di Mar, il mitologico fondatore di Haven City, nell’evidente tentativo di piantare una tematica che sarà approfondita in seguito. Poi suggerisce a Jak di visitare l’Oracolo, e tutti coloro che hanno visto i tre Matrix cominciano a sbattere la testa nel muro. Succedono un bel po' di cose; Jak conosce un sacco di persone e ne ammazza molte altre. Quindi verso metà gioco i nostri eroi si accorgono che quello in cui sono giunti non è un altro pianeta/dimensione/località balneare: si tratta bensì dello stesso mondo del prequel, però un casino di anni nel futuro. Oltretutto incontrano di nuovo il vegliardo Samos. Che culo. Quando non sanno più che pesci pigliare, J&D si recano dall’oracolo. Questi propone loro un subgame che ricorda un po’ Fantavision e che è di gran lunga la missione più divertente del gioco, poi racconta alcune vaccate tramite il pappagallo Pecker. Ve le risparmiamo. L’importante è sapere che bisogna trovare la tomba di Mar prima che lo faccia il Barone, perché si dà il caso che contenga un potentissimo artefatto. Le tombe, si sa, nascondono sempre robe del genere. Ci sarebbero inoltre da raccontare alcune vicende inerenti lo strano rapporto di sottomissione che lega il Barone Praxis al misterioso leader delle teste di metallo, ma passiamo oltre. Ah, vi riveliamo almeno che Ashelin è la figlia di Praxis. Questo ve lo dobbiamo. Le battute finali si avvicinano. Jak scorta un bambino predestinato ad essere una sorta di messia lungo vari luoghi, la tomba di Mar viene scoperta e una sedicente Pietra dei Precursor diventa d’un tratto un grosso oggetto del contendere. Tuttavia, tra pietre, artefatti, ingranaggi, uova e tessere della metro, Jak II si è troppo sputtanato, e nessuno presta più attenzione a queste cose. Siamo alle ultime cut scene, dove scopriamo che il Barone Praxis, nonostante una stronzaggine oseremmo dire genetica, non è il vero stronzo del gioco. Quel ruolo spetta infatti a Kor! Questi era a tutta apparenza un tipo mite e saggio. Talmente mite e saggio che non vi abbiamo mai parlato di lui. Scusate. Kor era tra l’altro il custode del bambino-messia ed ha aiutato Jak in molte occasioni. Però adesso scopriamo che è addirittura il leader delle teste di metallo. Shock! La città si unisce contro Kor in una sorta di cavalcata dei rohirrim finita tragicamente. Il destino

del mondo poggia ora sulle spalle di Jak, la cui scoliosi non può che aggravarsi. Il confronto con Kor è drammatico. Si fa per dire. Questi rivela a Jak che il bambino-messia in realtà è… Jak stesso da piccolo! Sì perché Jak-grande è stato nascosto nel passato dall’Oracolo in modo che guadagnasse le abilità per contrastate Kor nel presente. Cioè nel futuro. Però Jak è stato contaminato dall’Analcolico Moro, e questo può pregiudicare la riuscita del piano dell’Oracolo, quindi bisogna fare affidamento sui poteri latenti di Jak-bimbo, che però è svenuto. Allora tutto è perduto, omioddio! E mentre Jak cerca di riprendersi da tutti questi plot twist, Kor fa la sua mossa attaccando la Kamchakta con tre dadi. Jak sceglie di difendersi con tre e totalizza 6, 6, 6. Jak vince, e riceve da un coso Precursor il potere dell’Analcolico Biondo, bilanciando quindi la sua metà oscura in una bevanda destinata a rivoluzionare la cultura occidentale. Kor è sconfitto su tutta la linea e si suicida in un bunker sotto il reichstag di Haven City. Siamo quasi ai titoli di coda. Ashelin diventa il nuovo sindaco della città e instaura una forma di governo basata sul comunismo fondamentalista e sulla coltivazione della barbabietola da zucca. Tutti i personaggi festeggiano. Keira sta per infilare la lingua nella bocca di Jak, ma sul più bello viene interrotta da qualche stupida gag. E con un sottofondo di cori ubriachi, Samos intona un discorso volto a giustificare un sequel ed il cui pezzo forte è: «Forse un giorno incontreremo Mar. Potrebbe essere più vicino di quanto pensiamo!», di fatto spoilerando il finale del terzo episodio. Interpretazione della trama… La tortura può essere un ottimo modo per curare il mutismo psicosomatico. Ricorderemo questo gioco perché… Il voto dato a Jak II dalle varie riviste mondiali è un’eccellente cartina di tornasole per saggiare la qualità delle stesse. Dimenticheremo questo gioco perché… Il doppio salto faceva un attimo schifo. JAK 3 (2004) I festeggiamenti e le orgette del finale dell’episodio due non fanno in tempo a concludersi, che Jak si ritrova nel guano fino al collo. Lo scandalo scoppia quando numerosi testimoni denunciano l’eroe per una condotta troppo simile a quella di un GTA a caso. «L’ho fatto solo per vendere qualche milione di copie in più!» confessa Jak in lacrime alle telecamere. Al termine di un processo lampo, segnato dalle veementi proteste di Daxter contro l’accanimento della magistratura, motivata a suo dire da fini politici, la sentenza è emessa. La sindaca Ashelin, che non ha fatto in tempo a varare un decreto salva-Jak in quanto è stata sfiduciata da un certo Conte Veger, si vede costretta ad accettare la condanna: Jak sarà esiliato nel deserto finché morte non sopraggiunga! Nonostante le speranze di molti, un gioco non può terminare alla fine della sua introduzione, quindi Jak si salva: viene condotto da alcuni esuli puzzoni nella città desertica di Spargus, al cospetto del leader Damas.

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Lentamente, Jak diventa una figura carismatica in questa comunità di desperados. Le sue mansioni riguardano soprattutto la caccia al predone del deserto e il ritrovamento di artefatti. È incredibile come questi antichissimi artefatti popolino il deserto in quantità tanto elevate. Roba che nemmeno in Martin Mystere. Le settimane passano, e Damas finisce col prendere Jak in simpatia, anche perché ha perduto un figlio di nome Mar quando era piccolo. Un figlio che se fosse ancora vivo avrebbe la stessa età di Jak. (Fermi, non iniziate con le teorie, sennò vi spoilerate il finale.) L’avventura prosegue a suon di missioni sabbiose. Jak colleziona un numero impressionante di amuleti, pezzi di armatura, medaglie e via discorrendo. Poi quello che temevamo maggiormente si avvera: Jak è chiamato a fare ritorno ad Haven City! La metropoli è adesso nel caos: le teste di metallo hanno colonizzato un quartiere e muovono attacchi continui al resto della città, che è un turbinio di focolai di battaglia e congressi di Forza Italia. Jak irrompe con il suo caratteristico tocco di distruzione e scopre che una specie di meteora sta per schiantarsi contro il pianeta (luogo comune da videogioco n°11). Gli unici che possono dare una mano ai buoni sono i Precursor. Saranno anche estinti, ma questi Precursor sono comunque dappertutto! Vuoi vedere che… Jak teletrasporta la sua mente all’interno della meteora – scoprendo che in realtà meteora non è, trattasi invece di astronave malefica (luogo comune da videogioco n°11 comma 17) – e nei panni di Arbiter compie alcuni atti di vandalismo. Che però non sortiscono alcun effetto. Onin allora prende Jak e il marsupiale da parte e dice loro alcune parole narrativamente devastanti… «Ragazzi, dovete recarvi nel sottosuolo!» Si tratta di un incarico vagamente suicida nelle catacombe. I due eroi obbediscono, ma la missione è veramente troooppo difficile. Quando tutto sembra perduto, Jak e Daxter stanno quasi per pomiciare ma sono interrotti dall’arrivo di pa… di Damas!, a bordo del macchinone a forma di rinoceronte che non vedevamo l’ora di sbloccare. Il party appena formatosi completa una missione di una qualche importanza, quando sul più bello un muro crolla addosso al povero Damas, che si trova ad un monologo di distanza dalla morte. Questi spende il suo gettone per parlare di eroi, di redenzione e cose varie, poi chiede a Jak di trovare suo figlio, che sicuramente è vivo da qualche parte. Lo riconoscerà perché ha un medaglione tipo ques… Argh. Credito esaurito: siete appena deceduto! Jak riconosce il medaglione mostratogli da Damas, anche perché ne ha uno uguale uguale. «Padre!» dice Jak in lacrime. Ebbene sì: Jak in realtà è Mar, della stessa stirpe del fondatore di Haven City, la cui tomba è stata razziata da Jak stesso. Il Conte Veger appare dal nulla e conferma la storia: Jak è stato sottratto a Damas quando era piccolo perché reagiva piuttosto bene all’Analcolico Moro. Poi però è stato perduto da qualche parte nel tempo. Cose che capitano. Ma non è il momento per piangere o incazzarsi: bisogna rincorrere Veger che sta fuggendo verso il gran finale. Questi con l’inganno si era fatto aprire il portale dei Precursor dall’idiotico duo, e adesso vuole attraversarlo per incontrare la non tanto estinta popolazione e digi-evolvere in un Precursor. Cosa che gli garantirà soldi, fama e un certo numero di groupies “barely eighteen”.

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State attenti perché il momento è piuttosto topico. Al cospetto dei Precursor scopriamo che non si tratta di creature mitologiche tipo Nemesis Divina. Sono infatti dei ratti schifosi uguali Daxter, a parte un paio di simpatici pantaloni da surfista! Pertanto quando cadde nell'Analcolico Moro, Daxter non fu umiliato con una trasformazione retrograda, bensì premiato con l'evoluzione alla superna razza dei Precursor, che guida l’universo tipo la Philosopher’s Legacy (ops, spoiler!). Daxter è contento per questa notizia, ma protesta per non aver ancora incontrato alcuna groupie. Poi affronta con Jak un mega-boss comandato da Errol, un personaggio di cui – ci rendiamo conto solo adesso – non vi abbiamo mai parlato. Tutto è bene ciò che finisce in fretta. Il male è vinto. Errol muore. Veger viene trasformato in Precursor e preso come animale domestico da un personaggio minore con l’alito pesante. Jak si becca un bacio ad alto coefficiente di saliva da Ashelin, la quale continua ad avere la tipica espressione sul volto di una che non caga da mesi e mesi. Daxter invece seduce la bionda ingegnera Tess (opportunamente trasformata in opossum), ma soprattutto si accaparra uno stilosissimo paio di pantaloni da surfista. Tutti ballano e cantano sulle note dei Righeira. Alcuni piangono per la bellissima avventura che va a concludersi. Samos ci prova con Onin. Sig ci prova con Torn. Keira, che voleva trombarsi Jak da almeno tre episodi, per la delusione si fa sbattere da Pecker, per poi abbandonarsi alle meta-amfetamine. Jason Rubin approfitta del fatto che sono tutti collassati per il post-rave e ruba un paio di bottiglie di Martini, poi toglie le tende sgommando con la sua Maserati. The End. Applausi in sala. Interpretazione della trama Quando tutto ti sembra perduto, non ti abbattere, c’è sempre una via d’uscita. Devi solo cercarla nel sottosuolo! Ricorderemo questo gioco perché… Il doppio salto è stato migliorato. Dimenticheremo questo gioco perché… Uhm… che cos’è che dobbiamo dimenticare?


INTERPRETAZIONE DELLA SAGA: L’ANGOLO DELLA MASTURBAZIONE MENTALE. È molto facile bollare i tre contributi di Naughty Dog alla generazione hardware corrente come prodotti scialbi, tecnicamente ottimi ma assolutamente privi di fascino. Questa è solo l’impressione superficiale di un prodotto che, se analizzato con gli strumenti della semiotica e i ricettari della trasmissione Mezzogiorno di cuoco, può rilasciare una quantità di significati non da meno di un film di Bergman. Dopo svariate sessioni mental-masturbatorie al gabinetto, siamo stati in grado di tracciare un ardito ma vistosissimo parallelo tra la serie di Jak & Daxter e quella di Metroid. Siamo pazzi? Osservate i numerosi punti in comune… e stupitevi! Metroid (serie) Metroid (serie)

& Daxter (serie) Jak &Jak Daxter (serie)

Samus Samos Samus Samos I Chozo I Precursor I Chozo I Precursor I pirati spaziali Le teste di metallo I pirati spaziali Le teste di metallo Il metroid Il metroid addomesticato addomesticato Daxter Daxter Poteri abbinati luce e all’oscurità e Light Poteri abbinati allaalla luce e all’oscurità Dark Dark e Light Jak Jak Caricamenti assenti, oppure mascherati da da scene Idem Idem Caricamenti assenti, oppure mascherati scene di di porte porte che che si si aprono, aprono, ascensori ascensori etc. etc. Possibilità di scegliere tratra quattro armi Possibilità di scegliere tra quattro armi armi Possibilità di scegliere quattro armi intervenendo Possibilità di scegliere tra quattro intervenendo intervenendo sul D-pad sul C-stick sul C-stick intervenendo sul D-pad Morph ballball È unaÈpalla di gioco Morph una palla di gioco Si èSisoli perper tutta l’avventura Ci sono tanti di quei antipatici che che è soli tutta l’avventura Ci sono tanti di personaggi quei personaggi antipatici vorremmo essere soli soli vorremmo essere La La ricerca deidei sigilli/chiavi Jak non chefaraccogliere amuleti dalle dalle formeforme più più ricerca sigilli/chiavi Jakfanon che raccogliere amuleti stranestrane Fondato sulsul backtracking Fondato sul riciclaggio degli degli ambienti Fondato backtracking Fondato sul riciclaggio ambienti Inizialmente può sembrare un FPS, ma in realtà è Inizialmente può sembrare un platform, ma inma in Inizialmente può sembrare un FPS, ma in realtà è Inizialmente può sembrare un platform, un’avventura in prima persona realtàrealtà è unaèschifezza un’avventura in prima persona una schifezza Ecco quindi il segreto della produzione Naughty Dog a 128 bit: il riuscitissimo tentativo di realizzare un seguito dei vecchi Metroid facendo utilizzo della terza persona, mostrando così a Retro Studios che la sua versione FPS della serie è del tutto apocrifa. Non ne siete ancora convinti? Date un’occhiata a questa immagine di Jak 3…

e poi confrontatela con queste, prese da Metroid Prime 2: Echoes…

Avete notato l’affinità di cromatismi? Avete notato che i nemici sono praticamente identici? Scoop!

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SISTEMA PC VERSIONE ITA SVILUPPATORE VALVE ETICHETTA SIERRA MULTIPLAYER 1-16 ONLINE

BIRTH OF AN AGE <half life 2> di Gunny

È

trascorso un anno da quando, sulle pagine di Ring, affrontavo la particolare struttura, il particolare ‘concetto’ di Half-Life parlando di qualcosa che definivo finzione integrale. Ne parlavo soprattutto come di un espediente di immedesimazione, una scelta di coerenza, uno sviluppo di ciò che i videogiochi un giorno saranno e che null’altra cosa potrà mai ambire di essere. Un mondo generato, tradotto in geometria e colori tramite una mediazione tra la mente di un pensatore e uno strumento di programmazione, può essere vissuto come ogni altro mondo, suggeriva Valve: vissuto di persona. Fintanto che quel mondo deve sottostare a leggi semplificate e limitate, tuttavia, anche la vita fittizia ivi condotta sarà semplificata e limitata: c’è una porta rossa, c’è una chiave rossa; c’è un nemico più grosso, c’è un’arma più grossa. A nulla, ad esempio, varrà la capacità di scrivere qualcosa su un muro, se nessuno dei PNG è in grado di leggere o pensare. Se le velleità espressive del videogioco trascendono questo limitato rapporto di mutuo scambio, la soluzione è affidarsi ad altri linguaggi: il filmato, il testo a video, la scritta su una parete, la chiamata codec. Si rinuncia a qualcosa della purezza del videogioco, ma si raggiungono altri importanti risultati in materia di comunicazione. Analogamente, un surplus di offerta ricreativa comporta sacrifici di qualche sorta. Esistono interazioni lineari e guidate che riescono a intrattenere grazie a un sistema di gioco vario, reattivo, coerente e divertente (da Prince of Persia a Zoe2, passando per Ikaruga o Rez), ma anche interazioni che allargano il campo, ingigantiscono la scala, ampliano il respiro, piegandosi tuttavia a inevitabili discese di ritmo, affinamento e compattezza (Morrowind, GTA, ecc.). Stiamo parlando, per essere chiari, di mondi. Per vasti (in una direzione) o raffinati (in un’altra) che siano, sono e restano oggetto di limitazioni ben precise, che contengono le idee degli sviluppatori di videogiochi entro un numero finito di possibilità creative. Questo accade perché, banalmente, le regole impediscono che accada diversamente. Lo sviluppo ‘orizzontale’ di un certo ventaglio di possibilità, quindi, trae prodigiosi benefici dai rari eventi che consentono di sfondare il limite ‘verticale’: mondi migliori, mondi più duttili, nuove possibilità, nuovi ‘ora si può’. Half-Life2 è, per rispettare l’ordine dei sensi coinvolti, innanzitutto vedere: Valve propone all’avventuriero (non al fragger) uno spettacolo sublime, elegante, avvolgente, pulsante di vita. È il figlio evidente di un lavoro di design che deve aver generato tonnellate di bozzetti, disegni preparatori, schizzi, opere a tutta parete, fotografie comparative (vedere a questo proposito il box riguardante il libro Half-Life2: Dietro le quinte). Pur nel suo sbalorditivo fotorealismo, Half-Life 2 non ha nulla di asettico o poco fantasioso. L’immagine di City 17, con i suoi viali da Vecchia Europa divorata dalle asimettriche strutture metalliche della Combine, richiama in modo reale e attuale gli incubi di una Varsavia occupata dalle truppe naziste, oppure, badando alla cosmesi senza ombra di tragedie storiche, lo slancio con cui i grattacieli della Defence sorgono a due passi dagli ampi viali di pietra di Parigi.

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Il metallo divora la pietra: la tecnologia Combine avanza lentamente, facendosi strada tra le vecchie mura dei palazzi di City 17

Naturalmente Half-Life 2 utilizza gli ultimi ritrovati tecnologiche in materia di texturing, modellazione 3d e illuminazione, ma è la cura infusa in ogni vicolo, in ogni ciuffo d’erba, in ogni palo telegrafico a farne uno spettacolo ai limiti dello svenimento. Al contempo, Half-Life 2 mantiene saldo il ‘patto di reciproca convivenza’ con il portafoglio degli appassionati, palesando il consueto, mastodontico lavoro di ottimizzazione e concedendo a piene mani la sua bellezza a computer sfiancati dalla brutale orgia effettistica dell’oberante DOOM III. Il risultato è uno spettacolo di complessità tecnica parimenti impressionate. Solo, molto più vasto. Solo, molto più raffinato. Perché una texture disegnata da un artista con un solo effetto di superficie colpirà comunque di più di una texture disegnata da un tecnico, per quante dozzine di passaggi effettistici vi si possano contare. Allo stesso modo, uno stormo di corvi gracchianti che si leva vorticoso attorno a una torre che sembra estrapolata dalla fantasia di Isaac Asimov, fino a raggiungere il punto in cui essa trafigge la cappa di nubi di cui si riveste la città prostrata, ha un valore estetico drammaticamente superiore a una massa di corridoietti bumpmappati le cui dimensioni spaziano dal metroXtre al metroXsei. In entrambi i giochi, l’obiettivo conseguito è quello di rendere a schermo percezioni visive avvicinabili a quelle dell’esperienza comune, nondimeno qualunque persona di media intelligenza saprebbe distinguere tra le memorie fotografiche di Robert Capa e il depliant di un’industria di laterizi. Rappresentare è un’arte, e non lo si scopre oggi, fa tuttavia piacere che anche nel mondo dei videogiochi qualcuno sappia ricordarlo. In secondo luogo, Half-Life 2 è certamente sentire: Il sonoro si compone di un azzeccato assortimento di rumori inquietanti (agghiaccianti le nuove urla degli umani vittime di headcrabs), stridii, ronzii da elettricità statica, e di saltuari e ansiogeni accompagnamenti musicali. Il doppiaggio inglese (per quello italiano consultare il box dedicato) è studiato, curato, sentito. I personaggi sanno sottolineare le situazioni d’ansia più delicate e sanno far sorridere quando la tensione si smorza (chiedere a Lamarr e al suo affezionatissimo padrone). L’ottima prova degli attori è poi accompagnata da un minuzioso lavoro


ITALIANS DO IT BETTER…

ITALIANS DO IT BETTER...

…quando non si parla di doppiaggio. Evitate, se potete. Fatevi un favore. Alla voce …quando non si parla di doppiaggio. ‘setting’ della vostra (obbligatoria) sottoscrizione Evitate, se potete. Fatevi un favore. Alla voce Steam, selezionate la lingua inglese. Non comporta ‘setting’ della vostra (obbligatoria) sottoscrizione nessun problema tecnico edinglese. è usufruibile senza proSteam, selezionate la lingua Non comporta blemi anche con latecnico versione delsenza gioco. Unico nessun problema ed è italiana usufruibile proneo: è impossibile audio e blemi anche con la selezionare versione italiana del originale gioco. Unico neo: è impossibile selezionare audio sottotitoli in italiano. Chiunque nonoriginale tolleri oe non cosottotitoli in italiano. non tolleri o non co- dei nosca affatto l’ingleseChiunque è avvisato: la recitazione nosca affatto l’inglese è avvisato: doppiatori italiani di Half-Life 2 laè recitazione la peggiordei viodoppiatori italiani di Half-Life 2 è la peggior violenza lenza perpetrata al comparto audio di un videogioco perpetrata al comparto audio di un videogioco dai daitempi tempi Metal Gear per PSone. di di Metal Gear SolidSolid per PSone.

Alyx e il suo bellissimo sorriso. Le animazioni facciali valgono lunghi minuti di contemplazione.

sull’animazione delle loro movenze e soprattutto dei loro volti, di un’espressività trascinante. Vista e udito non mentono, e a poco vale un riesame a freddo dopo un periodo di decompressione all’insegna del ‘non può essere vero’ o del ’basta Jack Daniel’s prima di giocare’: Half-Life2 vanta la cornice visiva e sonora più bella della storia dei videogiochi. Negli sparatutto solitamente si spara, e HalfLife 2 non fa eccezione. Una vasta scelta di armi, in parte storici attrezzi della prima spedizione a Black Mesa, in parte new entries, accompagna il giocatore in un’esperienza di combattimento che costituisce solo una parte (benché dominante) dell’esperienza complessiva. L’intelligenza dei nemici si attesta inizialmente su livelli convenzionali, in parte per ragioni inerenti alla trama (si ha a che fare con ordinaria ‘polizia di quartiere’ della Combine o alieni Xen), in parte per consentire all’utente un graduale approccio alle più ardue sfide successive. L’arrivo delle truppe Overwatch e degli Antlions, a partire dal livello costiero, cambierà le carte in tavola preparando all’apogeo finale, quando la guerriglia urbana tra la resistenza e la Combine (supportata dai micidiali Strider) si farà convulsa, assordante e ludicamente ubriacante. Le dinamiche dei combattimenti si classificano generalmente su livelli eccellenti, e tuttavia non rivoluzionari. Halo 2, ad esempio, vanta maggiore varietà e situazioni mediamente più adrenaliniche, per via di un’intelligenza artificiale più aggressiva e di un’impostazione più ‘militaresca’. La noia ad ogni modo non si fa mai viva, né il desiderio della scoperta è mai placato.

La trama si dipana senza mai risultare invadente, vivendo di continue informazioni sussurrate più che di colpi di scena cinematografici. La profondità è da ricercarsi nella definizione e nella plausibilità del contesto, più che nelle complessità del plot. Così percepiamo i propositi di fusione ‘passiva’ con la tecnologia Combine esposti da un orwelliano Dottor Breen attraverso megaschermi, reti televisive, stazioni radio e cartelloni di propaganda, mentre la presenza di alieni Xen tra i membri della resistenza rivela che la dittatura vigente ha poco a che fare con gli alieni combattuti nella vecchia Black Mesa. Gli esempi di questa ‘deduzione suggerita’ abbondano. Non mancano comunque le lacune e gli sprechi, a partire dal finale, troppo simile a quello del primo Half-Life ed eccessivamente sintetico. È pertanto appurato che Half-Life 2 sia un gioco di inedita bellezza estetica, suggestivo nel comprato sonoro, intrigante e mai noioso, risultato di un progetto condotto da artisti competenti e da programmatori eccezionali. Ciò di cui ancora non si è parlato è il fuoco rivoluzionario, le regole infrante, il perché Half-Life2 apporta una significativa spinta evolutiva al mondo dei videogiochi, il perché Half-Life2 è il primo videogioco a guadagnarsi la S di Ring. Half-Life, a suo tempo, si era distinto anche per la naturalezza con cui alternava fasi blastatorie e sezioni platform, assalto frontale ed esplorazione silente, esulando spesso e volentieri dalla classica concezione di FPS e adagiandosi in una più ampia definizione di ‘avventura in prima persona’. In HalfLife2 il concetto non è abbandonato. Valve in questi anni si è probabilmente interrogata su che cosa mancasse a questo concetto di ‘avventura’. Esaurito il brainstorming, si è messa al lavoro in due direzioni, entrambe finalizzate a rendere ancora più ‘vivo’ il mondo del loro nuovo progetto. Degli sforzi artistici, cioè di una di queste due direzioni, già si è detto. Dell’altra ci troviamo a parlare ora: la fisica, ovvero la riproduzione delle leggi che regolano la natura e il comportamento dei corpi. Iniziando una partita ci si perde nelle consuete azioni che gli FPS hanno insegnato a ripetere meccanicamente: trova la porta>premi tasto ‘usa’ per parlare>trova nemico>spara. Nel fare questo, e assistendo alle inusuali reazioni del mondo circostante, il dubbio si insinua: ma di solito questo succede? Bastano pochi minuti, ed eccoci impegnati a interagire con un mondo finalmente liberato, dopo troppi anni in cui è stato paralizzato, penalizzato, costretto in posa su un piedistallo come un manichino da vetrina dalla frenetica corsa al potenziamento grafico. Gli oggetti, prima di Half-Life2, o si distruggevano o si lasciavano sul posto immutati, indipendentemente da quanti colpi di cannone vi si rovesciassero addosso. Half-Life2 afferra il ‘manuale della simulazione mutilata’, lo sfoglia con un sorrisino di scherno e lo lascia cadere nel cestino dell’immondizia. Perché in questo mondo così incredibile nella sua credibilità, si possono accatastare casse e bidoni per raggiungere locazioni sopraelevate, improvvisare ponti di travi e lamiere per abbreviare il proprio peregrinare, farsi scudo dalle pallottole altrui reggendo tavoli e caloriferi, innescare cedimenti strutturali sotto i piedi dei propri nemici, ostruire porte per bloccare inseguitori. La Gravity Gun, arma simbolo del gioco, permette invece di compiere azioni che violano le regole della fisica. Nella rappresentazione dell’elemento fisico, infatti, Half-Life2 non è solo il primo gioco a contemplarne le regole: pretende di essere anche il primo gioco a contemplare le eccezioni alle regole. Il

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HALF-LIFE: HALF-BOOK di Nemesis Divina

La ‘cura dei dettagli’ e la ‘credibilità del mondo’ significano anche questo. Un ribelle è appena morto in azione, i suoi compagni passeggiando con un’espressione stanca e triste, alcuni si appoggiano ad un muro e singhiozzano in silenzio.

WE’RE IN

WE’RE IN... Diversamente dal suo predecessore, il multiplayer di Diversamente Half-Life 2 beneficia già da subito della dal suo predecessore, il multiplayer di validissima accoppiata Counter-Strike: Source / Half-Life 2 beneficia già da subito della validissima Half-Life 2 Counter-Strike: Deathmatch. IlSource sottobosco dei modders, accoppiata / Half-Life 2 Deathmatch. dei modders, cresciuto grazieIlalsottobosco flessibilissimo editor cresciuto Worldcraft del grazie al flessibilissimo editori motori, Worldcraft del ’98, sta ’98, sta tuttavia scaldando e già si prospetta tuttavia scaldando i motori, efenomeno già si prospetta il diversi il ripetersi di quel delizioso che per ripetersi di quel delizioso fenomeno che per diversi anni anni produsse decine e decine di versioni custom, produsse decine e decine di versioni custom, rivisitazioni, bellissimi giochi online e realizzazioni rivisitazioni, bellissimi giochi online e realizzazioni umoristiche. propriouniverso universo umoristiche.Un Un vero vero ee proprio cheche probabilmente Half-Life2 come la spina probabilmente imporrà imporrà Half-Life2 come la spina dorsaledel delmultiplayer multiplayer su lunghi anni ancora. dorsale suPC PCper per lunghi anni ancora.

medikit che sta lassù a 15 metri d’altezza, momentaneamente irraggiungibile, può essere risucchiato e utilizzato, la sbarra metallica da 300 chili lunga 5 metri attratta e riconvertita in micidiale arma contundente. Le sabbie infestate dagli Antlions, sensibili alle vibrazioni del terreno, possono essere superate disponendo passerelle costituite da oggetti risucchiati da ogni direzione, oppure strappati da veri e propri edifici. Nella battute finali, una versione potenziata della Gravity Gun consentirà di afferrare anche i nemici, precipitandoli nel vuoto, scaraventandoli sui loro colleghi o incenerendoli nel vicino giunto energetico. L’avventura diventa ‘vera’, la varietà diventa limitata solo dal cervello di chi ne fa uso. I limiti convenzionali dei mondi castrati, costretti al ruolo di teatrini scenici o nel migliore dei casi interessati da circoscritti fenomeni di demolizione, vengono spazzati via dall’Havock, e da un level design che invita alla sperimentazione e alla creatività. La quarta dimensione, la nuova traiettoria evolutiva, il Nuovo Mondo dei videogiochi è scoperto, e Half-Life 2 è il Colombo del caso. La S di Ring, qualora servissero delucidazioni, è il premio a un videogioco che oltre a vantare evidenti qualità di serie A, ha l’ardire di fare qualcosa di mai fatto, di guardare più il là degli altri, di camminare con passo sicuro dove altri hanno paura di avventurarsi. Laddove le promesse di rivoluzione disattese da Fable aggiungevano una delusione in più ad un gioco di per sé già traballante, Half-Life 2 parte da una base d’assoluta eccellenza in ogni comparto, e da questo trampolino spicca un balzo che lo distanzia da qualunque altro videogioco esistente e lo rende unico.

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Edito da Multiplayer.it, unitamente al gioco troveremo sugli scaffali anche il volume Half-Life 2: Dietro le Quinte, poco ispirata traduzione dell’originale ‘Raising the Bar’. Ma sottotitolo a parte, la sostanza non cambia. Purtroppo. Il tomo dedicato all’evento PC dell’anno appare subito di brillante fattura, con carta patinata di qualità superba e copertina cartonata. 29,00€ l’esborso per cotanto splendore editoriale. Il libro prende in esame le origini della serie, fino a svelare segreti e piccole confidenze sulla realizzazione di Half-Life 2. Molte le notizie disseminate nelle pagine: fra idee scartate, iter produttivi singolari, raccontini, speranze e obiettivi, il volume indaga pressoché ogni iniziativa creativa poi confluita nel gioco. Purtroppo, si diceva, il tutto è relegato alle didascalie di un mare di illustrazioni. Half-Life 2: Dietro le Quinte è infatti soprattutto un volume illustrato, che riporta su carta concept design e screenshot particolarmente significativi. La porzione di testo dedicata al fenomeno HalfLife 2 è invece confinata in poco spazio, tanto da ridursi alla stregua di un breviario o di una raccolta di citazioni disorganiche. Lungi dal non dir nulla, il volume tralascia di approfondire gli aspetti tecnici della produzione, calcando piuttosto la mano sull’aneddotica. Non brutto, il volume è più semplicemente un’occasione sprecata di aumentare le nozioni che l’utenza ha dell’industria. Contando la realizzazione mediocre di molti artwork, la sottigliezza delle informazioni fornite e il costo notevole, consigliamo il volume solo a fanatici e collezionisti.

In atri casi si direbbe ‘diverso’. In questo caso si può tranquillamente usare il termine ‘superiore’. La scintilla rivoluzionaria è sprigionata: alterna sarà la bontà dell’uso che ne verrà fatto in futuro, ma ciò che conta è che un vincolo è stato spezzato, una barriera alla fantasia di chi crea forzata. L’esperienza di chi verrà e giocherà i titoli post-Half-Life 2 ne uscirà arricchita. Una nuova era del modo di concepire l’ambiente di gioco ha inizio, e prima che un mondo di giocatori entusiasti vi si getti a capofitto è giusto che il dovuto tributo venga rivolto a chi ha fatto registrare il cambiamento. Lode ai pionieri.

I cittadini, nella fase finale del gioco, abbattono il proiettore da cui ogni (triste) mattina il Dottor Breen li invitava alla passività e all’obbedienza.

VOTO:

SABCD


COMBAT EVALVED secondo commento di Cryu

Half-Life 2 srotola un lungo tappeto rosso che in tutta solennità conduce il videogioco verso nuovi orizzonti. Curioso è scoprire come buona parte di questo percorso solchi territori che appartengono alla tradizione più antica del genere FPS. Senza troppi giri di parole, Half-Life 2 è in larga misura lo sparatutto più comune del mondo: armi trasportabili senza limiti di numero e utilizzabili una sola alla volta; cura istantanea delle ferite a mezzo medi-pack disseminati ovunque; sviluppo lineare che poco concede all'interpretazione strategica della mappa; intelligenza artificiale ordinaria, con PNG che si espongono al fuoco nemico con preoccupante leggerezza. Eppure HalfLife 2 fa il vuoto, e lascia la pur agguerrita concorrenza di genere a spartirsi la geografia ludica del Vecchio Mondo, mentre su quel regale tappeto rosso procede di gran carriera verso l'America del videogaming contemporaneo. Perché se Half-Life 2 non prende le distanze dai cliché di genere, preferendo rivisitarli con stile in tutto rispetto della tradizione che lo precede, dall'altra asservisce ai contenuti di cui è fiero medium il suo intero apparato: gameplay, level design, story-telling, prospettiva registica. Le tematiche esposte si traducono pertanto in situazioni di battaglia, puzzle, ellissi e capovolgimenti narrativi, edifici monumentali, prospettive di camera sapientemente forzate. Non mancheranno futuri approfondimenti su queste pagine. A segnare la rivoluzione è però quella fisica Havock intorno alla quale sono costruite soluzioni di gioco spettacolari, inedite, raffinate, ma soprattutto divertentissime. Sia chiaro, non necessariamente deve considerarsi il miglior FPS di sempre, e tanto meno un gioco perfetto. Tuttavia, attingendo alla propria cultura e producendo un risultato tecnologico senza precedenti, con Half-Life 2 l'occidente ha prodotto il suo Metal Gear Solid 2, e ha indicato nella fisica simulata la quarta dimensione del videogioco. In Ring ne prendiamo atto rallegrandoci. Voto:

SABCD

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SISTEMA XBOX VERSIONE PAL SVILUPPATORE BUNGIE ETICHETTA MICROSOFT MULTIPLAYER 2-4,2-16 LAN, ONLINE

DEATH OF AN AGE <halo 2> di Gunny

A

vvolgente profumo di plastica fresca, metallico riflettersi dell’illustrazione in retrocopertina, manuali e manualetti da sorvolare con lo sguardo. Soprattutto, due dischi che presto, poverini, patiranno l’utilizzo fino ad arroventarsi. Sono le 15.35 dell’11 novembre 2004, e ho tra le mani la bellissima Limited Collector’s Edition del gioco più atteso sulla piattaforma più pesante, esteticamente brutta e dal nome più idiota della storia dei videogiochi. Ma il piacere di accenderla oggi è notevole, accidenti se lo è. Atteso con religiosa pazienza da legioni di appassionati, million-seller predestinato, il profeta del combattimento in soggettiva su console si sfracella (again) con il suo immane peso sul mondo dei videogiochi, rispettando la data tatuata sul bicipite di Peter Moore. L’antenato, nell’ormai lontano 2001, aveva polverizzato diverse delle ragioni per le quali gli FPS consolistici davanti ad un personal computer erano soliti abbassare lo sguardo. Su tutte l’impianto tecnico, semplicemente abbagliante. Sotto altri aspetti, pur con risultati meno incredibili, l’avvicinamento era comunque stato cospicuo: l’inattaccabile binomio tastiera-mouse era stato emulato da un sistema di controllo che, vuoi per la bontà del pad, vuoi per un attento lavoro di adattamento, risultava miracolosamente aderente al contesto ludico. Fu un rumoroso successo, testimoniato dalla perseveranza con cui il gioco Bungie stazionava nelle classifiche di vendita della sua piattaforma, anche a due anni dal lancio sul mercato. Una volta collegata alla rete elettrica, come in ognuno dei 1065 giorni trascorsi dalla data del lancio, la console mi sta chiedendo se oggi è davvero il 15 novembre 2001. Un po’ mi ricorda Goodbye Lenin. Prima di bestemmiare sanguinosamente e di confermare alla console che sì, nonostante siano trascorsi 1065 giorni, oggi è il 15 novembre 2001, mi fermo a pensare. Che cosa voglio? La prima cosa che voglio è un gioco bello quanto il primo Halo. Voglio delle ambientazioni ariose e lussureggianti, delle strutture imponenti e ricoperte di textures meravigliose, voglio un combattimento vario e appassionate, voglio picchiare con un Banshee sulla testa di un manipolo di Covenant atterriti, voglio giocare in LAN con una mezza dozzina di amici e perdere il senso del tempo. È poco? No, non lo è. Ciononostante, le chiamerò richieste di base. Alle richieste di base aggiungo delle richieste accessorie dettate dai feedback più ricorrenti o dal mio personale gusto. Voglio la morte dei livelli basati sul cut&paste, voglio una trama e una cura artistica degna del grandissimo gameplay e voglio, voglio, fortissimamente voglio giocare sulla grande rete. Sono finalmente pronto a giocare Halo 2, ora che lo so: sì, questo è ciò che voglio. E sì, oggi è il 15 novembre del 2001. Ed è un bel partire: si diceva poc’anzi della cura artistica, ed ecco fare la sua comparsa un elegantissimo menù raffigurante una città del futuro, in similwireframe monocromatico. Il tema musicale è il solito, opportunamente riarrangiato. Tutto come prima, tutto meglio di prima. New game: si disegna sullo schermo una schermata di caricamento di grande finezza, dolce premessa al miglior esordio narrativo che si potesse sperare: il processo al gerarca Covenant sconfitto da Chief nel prequel. Fine

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“Halo è qui. Lo Scorpion è con lui.”

stra sulla società e sul credo Covenant, arricchimento di quelli che finora non erano stati altro che nemici buffamente colorati e ridicolmente doppiati, introduzione all’inaspettato co-protagonista della trama della campagna in singolo. Halo 2 inizia così, divincolandosi con furia dai limiti narrativi e di design che facevano assomigliare il primo ad un goffo giocattolone. Alla disgrazia e all’onta che cadono sul Comandante Elite si contrappone un sereno Master Chief, accolto con acclamazione e premiato per il valore dimostrato su Halo. Alla memoria si affacciano illustri precedenti di mortali rivali ascesi e decaduti dal trono dei vittoriosi: Solid e Liquid, Raziel e Kain, Dingo e Nohman. Paragoni impegnativi, ma l’incipit di Halo 2 sembra una dichiarazione di intenti in tal senso. Dopo alcuni minuti di piacevole contemplazione, si passa al gioco giocato, e con esso alla valutazione dei due fattori che aveva decretato il trionfo del prequel: tecnica e gameplay. Beneficiato da un corposo arricchimento poligonale e da un’eccellente stabilizzazione del frame rate, il motore grafico di Halo 2 è la ragionevole ottimizzazione di quanto visto nel 2001. La qualità delle texture è grossomodo analoga, mentre il massiccio multitexturing che ammantava le superfici metalliche del primo Halo pare inizialmente assente. La vera differenza è la cura riposta negli effetti speciali e nelle animazioni, che spazzano via gran parte di quella sensazione di ‘legnosità’ che talvolta si avvertiva nel prequel. Conquiste estranee all’innovazione tecnica, e attribuibili semmai a un rilanciato interesse di Bungie per i particolari. La sensazione è quella di un Halo meno opulento nel dettaglio ravvicinato, ma più fluido, dinamico, rapido. Un Halo con qualche spruzzatina di Ninja Gaiden, volendo avventurarsi in paragoni. Non certo innovazioni in grado di colmare il grosso gap che lo separa dall’ultima generazione di FPS PCistici, ma senz’altro sufficienti a garantirgli un posto d’onore tra i videogiochi visivamente più appaganti del panorama console, insieme a titoli come The Chronicles of Riddick e Metroid Prime 2 (su PS2 non pare invece esserci nulla, né mai ci sarà, che possa raggiungerne gli standard). Il gameplay risponde ‘presente’: solido, appagante come era lecito aspettarsi, arricchito da un’ottima IA e impreziosito da una varietà di chicche assenti nel prequel: il danneggiamento progressivo dei mezzi con tanto di deliziose sub-esplosioni, le


nuove armi, i compagni che finalmente si rivelano utili, la facoltà di disarcionare dai mezzi gli avversari. La mischia è frenetica, a livello Eroico addirittura furibonda. L’ormai celebre dual wielding torna utile in meno situazioni di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, basandosi sull’uso di armi principalmente a corto raggio o dal rinculo difficilmente controllabile: roba da assalto all’arma bianca. L’ingaggio medio-lungo, dal canto suo, privilegia l’uso sapiente del BR55, del fucile di precisione o della carabina Covenant. Il parco veicoli risulta arricchito dal Wraith, in passato inutilizzabile, da una nuova variante di Warthog (dotato di un cannone Gauss da 25mm ad accelerazione magnetica dal suono delizioso e schioccante) e da uno Scorpion ottimizzato (modificata l’assurda e vulnerabilissima posizione del guidatore e l’imprecisione della mitragliatrice coassiale, che nel primo gioco ne riducevano la letalità). I livelli si lasciano attraversano con piacere, proponendo sfide sempre nuove, ma senza eguagliare l’impatto, né il respiro esplorativo, degli scenari di Halo: Combat Evolved. Se si eccettua la sezione del lago (eccezionale), si registrano ambienti meno incisivi e caratterizzati. La progressione è incanalata, convogliata, non più suggerita ma imposta. Fortunatamente, si è troppo distratti dai ferocissimi avversari per risentirne sul serio. Si è troppo coinvolti dalla granata appena affrancatasi sulla schiena di un Elite, che nella deflagrazione proietta un paio di Grunt sulla parete e ne innesca le granate per una devastante catena di fiammate. Si è troppo impegnati ad esultare per il colpo da 90mm appena piazzato sulla cabina di un fastidioso Banshee in picchiata. Troppo, davvero troppo appagante questo nostro combattere e vomitare fiamme, per dare eccessivo peso a imperfezioni grafiche come il pop-up delle texture o al design non geniale delle ambientazioni. Insomma, le richieste di base di cui sopra sono soddisfatte magna cum laude. Halo 2 è un Halo rilucidato, pompato, arricchito, bilanciato, equilibrato come una vettura da corsa. È una base di partenza, e fottutamente buona. Tanto buona che da sola gli permetterebbe di lasciarci ansimanti alle spalle i vari Medal of Honor, Shellshock e Timesplitters. Un tale Killzone potrebbe opporre i suoi pregi (superiorità di design e atmosfera) per candidarsi come concorrente diretto. Di fronte a quest’insidia, Halo 2 per ora rimane fermo ad osservare, come un grosso e bonario gattone. Vi sono ragioni di lamentela per quanto riguarda il comparto giocabilità, l’aspetto grafico, la cura tecnica, il bilanciamento e in generale il divertimento? No, per quanto si possa essere pignoli, Halo 2 è semplicemente il massimo risultato mai ottenuto su console in quanto a combattimento in prima persona. Vi sono ragioni di lamentela circa altri aspetti, cui magari Bungie Studios ha attribuito minore rilevanza? A parere di chi scrive sì, ve ne sono. Procedendo alla riscossione delle richieste accessorie, delude una linea narrativa originata nel migliore dei modi, ma che non tarda a scemare di pregnanza e interesse. Fanno la loro comparsa personaggi trascurabili, sui quali la narrazione edifica situazioni clamorose nelle intenzioni, ma che di fatto faticano addirittura a destare attenzione (difficile ricordarsi un personaggio quando pronuncia nell’arco dell’intera avventura due frasi, delle quali una è ‘forza marines, muovete il culo’ e l’altra è ‘premi il bottone a destra’). Bungie perde l’occasione

Sul sito di Bungie è posibile accedere a tutta una serie di piacevoli concept art che dimostrano la cura riposta nel suo nuovo kolossal.

di far convergere le avventure dei due protagonisti in modo convincente, preferendo affidarsi alle macchinazioni del Parassita (uno dei principali colpi di scena verte su un doppio gioco orchestrato da questa buffa creatura tentacolare ai danni di Chief e Cortana. Sorprendente: io in effetti solitamente mi fiderei ciecamente di un’enorme pianta carnivora radioattiva con una voce presa in prestito da Sauron). Sorvolando su queste trascurabili digressioni della storia, ci si cerca di concentrare sulla resa dei conti con il nemico vero e ultimo: il profeta Verità. Sciaguratamente, nel momento in cui la battaglia sembra pronta a guadagnare un più ampio respiro, ci si imbatte nei titoli di coda. La prima volta pensi ad uno scherzo. Ci riprovi. Nulla da fare, il gioco è finito. Il ‘boss finale’ di Halo 2 era quella specie di pallido orsetto Gummi. Come si chiamava? Ah, si: Tartarus. Nessuna traccia dei ventilati livelli a gravità zero, nessun segno di quel bellissimo livello mostrato a Los Angeles in occasione dell’E3 di due anni fa. Difficile nascondere la delusione per il mancato apocalittico confronto finale, penoso doversi rassegnare a vedere cestinate tutte quelle potenzialità di approfondimento sul mondo dei Covenant, triste vedere ridotto il rapporto Chief-Arbiter ad un semplice pretesto per alternare diverse locazioni. La trama di Halo 2 è superiore a quella di Halo? Senz’altro (ebbeh). La trama di Halo 2 è all’altezza della giocabilità che la accompagna? No, purtroppo non lo è ancora. Di fronte a questi difetti, Killzone potrebbe alzare la voce, rinfrancato nelle sue velleità di nemesi del titolo Bungie. Un infastidito Halo 2 si vede

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Secondo Commento

La Guerra dei 100.000 anni di Cryu

Halo 2, l’esperienza di combattimento multiplayer definitiva.

quindi costretto a dare una accelerata pigiando la nitro, ovvero un grosso pulsante verde con sopra scritto Xbox Live! Se i difetti prima elencati minacciavano di far retrocedere Halo 2 verso la linea di demarcazione che in Ring separa la A dalla B, il comparto online vibra un poderoso calcio nel deretano all’intero pacchetto ludico, proiettandolo lungo disteso sul settore che, nella pista da bowling delle valutazioni ringhiche, contraddistingue la A più piena, e minacciando per lunghi istanti con un colpo di naso l’equilibrio del birillo che, capitolando, gli garantirebbe la S. Inutile spendere parole sull’accurata progettazione di ogni singola arena, sul superbo bilanciamento/piazzamento di armi e power-up, sulle mille opzioni customizzazione del proprio avatar così come del proprio clan, sulla solidità del servizio Live!, sulle decine di ore che passerete in preda all’euforia impallinando tutto e tutti. Halo 2 è la più superba esperienza multiplayer mai esistita su console. Taluni RPG online lo possono forse superarlo sulla lunga distanza, ma i livelli di adrenalina toccabili con il titolo Bungie rimangono superiori e per ora ineguagliabili. Concludendo, ci troviamo di fronte a un titolo fuori dal comune, risultato di uno sforzo produttivo titanico, capace di offrire un’esperienza multiplayer del tutto travolgente. Con Halo 2 e Half-Life2 si può dichiarare conclusa la grande battaglia degli FPS, e tirare i bilanci di quello che forse è stato il periodo più incredibile di sempre per gli amanti del genere. Possiamo relegare chi di dovere nell’angolo degli sconfitti (DOOM III per la sua rozzezza ludica, Killzone per la sua evidente incompletezza), e celebrare con i dovuti allori i giochi che hanno saputo farci sudare dalla tensione, urlare dall’eccitazione, sogghignare di piacere. Ad Halo 2, come al suo predecessore, il merito di aver saputo sintetizzare in sé il fuoco sacro del genere, il furore della battaglia, e di averlo irrorato sulla grande rete, accendendo i segnali di guerra di una comunità in continua espansione e che probabilmente continuerà la lotta per diversi anni. Onore a lui, per aver parificato in buona sostanza il combattimento online su console, tramutandolo da qualcosa di meno (rispetto al netplaying su PC) a qualcosa di semplicemente ‘diverso’. Onore a lui per aver riassunto in sé due decenni di tradizione, e aver chiuso alla grande un’era nel modo di concepire gli sparatutto in prima persona.

VOTO:

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SABCD

Se io fossi uno sviluppatore Bungie, quello stupido tatuaggio a Peter Moore gliel’avrei staccato a morsi. Perché? Perché rilasciare a tutti i costi Halo 2 il 9/11? Per assicurarsi che durante il periodo natalizio Xbox rimanesse sprovvista di qualsiasi esclusiva del benché minimo rilievo? Per allegare all’edizione limitata un DVD in cui gli sviluppatori non fanno altro che lamentarsi delle scadenze imposte da Microsoft ed enumerare i contenuti che hanno dovuto giocoforza scremare? Perché specifichiamolo, il finale di Halo 2 non può definirsi deludente o inappagante, quanto semplicemente assente, così come l’intero livello designato per la resa dei conti conclusiva. Gli stage della seconda metà di gioco, dal canto loro, tornano a patire di quella progettazione modulare dapprima esorcizzata e cui infine è stato obbligatorio ricorrere per ragioni di deadline. Non è un caso che questi ambienti si scoprano altrettanto carenti sotto il profilo ricreativo: complice la scarsa illuminazione, più che una condotta bellica ragionata viene incoraggiata la scellerata rincorsa della fine del livello, evitando in slalom legioni di avversari poco reattivi a neutralizzare questo approccio. Halo come Silent Hill… brrrrrr. La trama, benché afflitta da cliché sci-fi di serie B, ha il merito di intessere un’epica interplanetaria coinvolgendo quattro razze in un conflitto di proporzioni sconosciute al genere; eppure risulta menomata, oltre che di un degno epilogo, di tanti passaggi che ne avrebbero lenito la pretestuosità. E ancora, i livelli di difficoltà Eroico e Leggendario sono resi ostici piuttosto esasperando la resistenza dei nemici e la letalità dei loro colpi, che inculcando loro evolute strategie militari. Infine, per esaurire il campionario di lamentele, come non citare il mediocre adattamento italiano viziato da toni recitativi estemporanei, interpretazioni mediocri (l’eccellente Cortana esclusa) e battute Covenant del tenore di “Siete una razza di barboni!” (sic). Il dovere di critica impone di annotare queste significative lacune, ma con il malincuore di chi si sente esporre da un preside antipatico le marachelle di un figlio amato. Perché sì, a tratti si butta via, ma se parliamo di tecnica, di combattimento, di prima persona e di console, Halo 2 delimita con una vigorosa pisciata un territorio che presiede da incontrastato dominatore. Irriverentemente criticato da molti, il motore grafico macina geografie, schieramenti e volumi di fuoco enormi senza mai dare segno di incertezza. Il fenomenale normal mapping che ammanta veicoli e personaggi è responsabile del vistoso avvicendamento che le texture soffrono sulla media distanza; ma si tratta di un problema che affligge tutti i titoli di genere, Riddick e Killzone compresi, e che in casi come quest’ultimo balzano meno all’occhio solo per via di una resa da vicino comunque non entusiasmante. Il pop-up che si verifica durante le cutscene, è invece il risultato di una discutibile scelta


tesa ad annullare ogni pausa di caricamento tra gioco e narrazione, realizzata con l’avvio di animazioni lo streaming dei cui dati non è ancora completo. Ironico che il problema si risolva installando il gioco su hard disk, possibilità concessa solo ai possessori di console modificate, e quindi esiliati dal gioco in rete. Circa la caratterizzazione stilistica degli scenari, semplicemente non concordo con il mio collega. Senza scomodare il paradisiaco stage lacustre, nessuno degli scenari del primo Halo offriva scorci più suggestivi della città terrestre di Halo 2, dello stage apocalittico della Guerra dei 100.000 anni, di Alta Opera con le sue superfici curve e i suoi cieli solcati da terrificanti incrociatori, della verdeggiante zona costiera percorsa dal fiume e ingioiellata da strabilianti architetture. Certo, il primo stage è un mezzo schifo… esattamente come lo fu l’esordio di Combat Evolved a bordo della Pillar of Autumn. È comunque nella muscolosità del gameplay che Halo 2 non ha eguali. Superficiale relegarne i meriti al prevedibilmente stratosferico multiplayer. Impossibile isolarlo dall’immenso sostrato tecnologico su cui si fonda. La solidità dell’insieme è espressa dalla perfezione dei controlli, dalla puntualità delle collisioni, dal peso delle animazioni, dalla stabilità del frame rate, dai risvolti della mai abbastanza apprezzata combinazione di granate e arma in uso, ora affiancata alle possibilità introdotte dal dual wielding in fatto di frequenza, continuità e abbinamenti di fuoco. Il tutto sorretto da sofisticati equilibri figli di un testing certosino, mirato ad assegnare a ciascuna arma un ruolo e un’efficacia ponderati come parte di un più ampio e organico arsenale. E da questo punto di vista non c’è HalfLife 2 che tenga, Halo 2 è la traduzione in videogioco della più selvaggia e xenofoba cultura americana del piombo: pressoché assente nei messaggi, pressoché inarrivabile nelle sensazioni.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PS2 VERSIONE NTSC/USA SVILUPPATORE KONAMI JPN ETICHETTA KONAMI MULTIPLAYER NO

REPTILE CRESCENDO <metal gear solid 3: snake eater> di Nemesis Divina

L

’essere controverso sembra ormai caratteristica propria dell’uomo che di nome fa Hideo. La controversia calza il designer come un vestito su misura, e non stupisce, perché l’abito è frutto della premiata sartoria Kojima e perché lui nemmeno ci prova, ad essere ‘normale’. Kojima Uomo, prima ancora di Kojima Director, gioca e gioisce con Metal Gear Solid 3, dove a suo tempo aveva giocato e gioito con Metal Gear Solid 2. Prende il videogioco, Kojima, lo plasma, lo fa a pezzi e lo ricompone in forme nuove e belle. E noi con lui, durante il gioco cerchiamo di rimettere insieme i pezzi del puzzle sparpagliato a video, un rompicapo fatto di rimandi, citazioni, segreti, intuizioni, e poi regole e azioni, che sono corpo e cuore del giocare. Con MGS2: Sons of Liberty Kojima proseguiva un discorso creativo che nella sua carriera appare ininterrotto e ascendente, intraprendendo un sentiero mentale arrovellato, un’ammucchiata di temi e strumenti narrativi culminante dei Patriots, nel GW e in Raiden. Indimenticabile Raiden. Chi scrive ora, sosteneva e sostiene che arrivati a MGS2 si possa solo scendere, dopo. L’invalicabilità della perfezione è un legaccio logico che nemmeno gli dèi sanno sciogliere, ma Kojima è figlio di una cultura tanto apparentemente statica in superficie, quanto tumultuosa nelle viscere. E così è dietro l’angolo il ‘ribaltone’, e dove prima trovava posto una poderosa sega mentale, oggi assistiamo ad una sontuosa fellatio ludica. Con ingoio. MGS3, è bene anticiparlo, è un calcio in bocca a chi “Kojima dovrebbe fare (solo) i film”, perché con questo titolo lo schermo è invaso dal piacere giocoso della scoperta di nuovi modi di confrontarsi con l’avversario, tanto umano quanto ambientale. Da quanto anticipato negli interminabili video di presentazione, le premesse di un nuovo modo di intendere lo stealth game c’erano tutte: nuova ambientazione, nuove azioni, nuovi scopi. La rinnovata dimensione ludica, fatta di distese boschive, è un palcoscenico perfetto per un stealth game hardcore, dove ogni passo va pianificato e mosso con perizia. L’improvvisazione è sconsigliabile, l’approssimazione sempre punita. Al contesto verdeggiante, si sposano soluzioni ispirate, per quanto in primo luogo impopolari. L’ampiezza delle locazioni, ben più spaziose degli angusti anfratti del Tanker di MGS2 o della Shadow Moses di MGS, produce una vertigine sensoriale che rende spaesati, insicuri. La gestione della telecamere, a tutta prima cervellotica e inadeguata, non fa che trasmettere al giocatore il dubbio e la tensione del non sapere dove sbattere il naso. Con la pratica, però, si inizia a padroneggiare la funzione dello stick destro, che orienta l’inquadratura verso uno dei punti cardinali, e ancor di più si apprezza il ruolo del tasto R3, che congela la visuale nella posizione prescelta. In questo modo è possibile muoversi, sempre guardinghi, dirigendo l’attenzione verso la zona in cui si prevede il massimo rischio. L’inusuale regia manuale, unitamente all’assenza dello storico radar, rende indispensabile la strumentazione in dotazione. Il rilevatore di movimento è in questo senso una manna dal Cielo Tecnologico, una manna che però non indennizza dalle incognite e dagli abbagli: una sentinella ferma

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Nonostante filmati e screenshot diffusi abbiano privilegiato il contesto arboreo, MGS3 offre diversi interni di edifici da ripulire a suon di piombo o bypassare nel silenzio delle ombre. Non mancano gli elementi interagibili: le trappole, gli immancabili bidoni esplosivi e persino interruttori dell’allarme generale. Per veri masochisti.

sul posto non sarà segnalata, al contrario di un animale che striscia nei paraggi (o cammina, o vola). L’uso combinato degli strumenti di rilevazione si fa dunque necessità, non opzione. Il sonar individua tutti gli ostacoli all’onda sonora, anche se fissi, ma il suono emesso può destare il sospetto di unità nemiche limitrofe. Il rilevatore di battiti cardiaci segnala l’inconfondibile avvicinamento di un soldato (ma non la sua posizione), mentre il visore termico può evidenziare una sentinella appostata nel fogliame. Le soluzioni sono numerose e vanno prese sempre in attenta considerazione dacché la principale innovazione del gioco, il Camo Index, permette di confondersi nell’ambiente circostante ma non impedisce certo ai nemici di fare altrettanto. Nei boschi, i soldati si confondono fra il verde, le loro divise olivastre si perdono nei contorni erbosi e non è mai prudente buttarsi a testa bassa lungo i sentieri nemici. Il Camo Index, in relazione alla divisa mimetica selezionata, segnala la percentuale di mimetizzazione e invita a nascondersi sullo sfondo, naturale o artificiale che sia. Tutt’altro che accessoria, una buona scelta cromatica può consentire di passare inosservati anche a pochi metri di distanza, o di infiltrarsi non visti fra le file nemiche, magari usufruendo di un travestimento appropriato… La noia dell’andirivieni fra i vari menu per la selezione delle divise, è purtroppo concreta e solo relativamente lenita dalla concomitante necessità di risistemare l’equipaggiamento, curarsi e rifocillarsi a cadenze periodiche. MGS3 introduce sostanziali novità nella saga, come appunto l’alimentazione e la cura delle ferite. Senza scendere in dettagli superflui, va detto che troppo spesso si ha la sensazione che queste caratteristiche appesantiscano eccessivamente il tono ludico, obbligati come siamo a ricorrere a periodici spuntini (pena un rumoroso brontolio di stomaco) e alla cure delle ferite riportate in battaglia (pena il progressivo decremento dell’energia). Cura e nutrimento assumono identità quasi proprie, con caratteristiche da mini-gioco che stridono e gravano su di un ritmo di gioco già volutamente lento, riflessivo. Non che si tratti di istanze del tutto pretestuose, solo non rappresentano


l’evoluzione in direzione realistica che qualcuno auspicava, dato che Snake si rimpinza ogni dieci minuti e può assestare una costola incrinata, o estrarre un proiettile nella coscia, nel bel mezzo di un furente scontro a fuoco. D’altronde è noto che il realismo a tutti i costi non sia mai stato obiettivo o prerogativa della serie. La mole di strumenti che Kojima offre al giocatore ha pochi eguali, e saranno necessari numerosi replay per farsi solo un’idea delle possibilità offerte. Una granata fumogena si rivela incredibilmente utile per depistare avversari e boss (ma attenti, se vi buttate in mezzo alle volute di fumo tossirete, rivelando la vostra posizione), sono ancora presenti le riviste per adulti e i caricatori vuoti per distrarre le guardie, è possibile picchiettare sui muri così come avvalersi di cibi avvelenati (o marci, poiché rimasti troppo a lungo nello zaino) per danneggiare gli avversari. Ma è solo l’inizio, perché MGS3 trabocca di eventualità inusuali e non, dettagli messi per il fan più esigente o per il giocatore che ama ‘forzare il gioco’, senza trascurare chi vuole solo divertirsi. Il più grande pregio di MGS3, e il più grande pregio di questo nuovo Kojima, è probabilmente la capacità di sintetizzare l’opera del designer senza gravare sul giocatore. In MGS3 è presente una cifra ludica inedita alla serie, c’è tutto quello che c’è sempre stato e di più. Chi vuole affrontare il gioco come un tiro a segno può farlo, chi vuole concludere la missione con meno di dieci morti sulla coscienza può farlo. Chi vuole puntare dritto al filmato finale trova via libera, chi preferisce trascorrere un paio d’ore nello scontro con un solo boss, può fare anche questo. MGS3 è l’amplificazione del primo glorioso MGS per PSone. Ma ancora, il nuovo Kojima, così come il nuovo Metal Gear, cresce anche sotto il profilo narrativo: dove MGS2 affrontava il giocatore con una struttura ipertrofica, indigesta ai più, MGS3 è la sintesi della narrazione. Come per la parte giocata, la storia si piega ai voleri e alle necessità di chi gioca. Introduzione ed epilogo esclusi, i filmati sono rari e tutt’altro che asfissianti, spesso farciti di galvanizzanti scene d’azione; i dialoghi via radio perdono l’ossessiva cadenza di MGS2, trasformandosi in opzionale occasione di indagine per gli interessati, e saltuaria occorrenza per chi si trova arenato in un determinato frangente di gioco. Ma è soprattutto l’intreccio a stupire per la propria versatilità. Per chi non cerca nulla più che intrattenimento, MGS3 offre solo quello, con una spy-story canonica, degna di uno 007 al pari del sublime tema musicale che accompagna i titoli di testa. Tradimenti accennati, complotti mai troppo imprevedibili, cattivi totali e buoni alla morte. Per quanti invece desiderano andare a fondo e conoscono la timeline della saga come le proprie tasche sdrucite… per questi, MGS3 spalanca una serie di interpretazioni e prospettive interessanti, che non esauriremo certo in un singolo approfondimento (su Ring, dopo l’uscita dell’edizione PAL). L’indagine di ulteriori dettagli narrativi, è la scintilla che impone una seconda tornata di gioco, peraltro incentivata dalla qualità dell’impianto ludico e dall’obesa offerta di contenuti ulteriormente investigabili. L’approfondimento delle tecniche CQC (close quarter combat - il combattimento corpo a corpo) spalanca una serie di nuove opportunità, come immobilizzare i soldati per usarli come scudo umano, oppure interrogarli per sbloccare alcuni dei tanti segreti sparsi per il gioco. La superiore conoscenza dei luoghi e delle tecniche di infiltrazione

L’elusione della sorveglianza passa dallo studio paziente dei pattern di pattugliamento all’applicazione di manovre ardite. È sempre importante tenere conto dei rumori prodotti, innanzitutto strisciando anziché correndo, cosa che rende indispensabile il ricorso al pad digitale in luogo dello stick analogico.

Sorprendere, immobilizzare e nascondere i corpi dei nemici è ancora esigenza di gioco, ma ancor più di prima, l’essere scoperti si rivela un pericolo. Una volta avvistati, l’Alert Mode scatta implacabile, ed il seguente Caution Mode mantiene le guardie in allerta, spesso sino alla loro completa neutralizzazione.

rende più fluente il ritmo di gioco e ammanta le pause di appostamento, talvolta interminabili, di una tensione tutta particolare che solo l’amante della saga può apprezzare. Per godere appieno di MGS3, purtroppo, è imperativo affrontarlo con il senno di poi. In questo, Kojima fallisce un obiettivo importante per un designer: offrire al giocatore gli strumenti necessari a divertirsi e padroneggiare il gioco. La porzione iniziale è assolutamente incapace di assolvere esaustivamente la sua funzione di tutorial, e di fatto ci si ritrova presto calati in una giungla ostile, in balìa di un sistema di controllo schizofrenico illustrato solo parzialmente (certo, esiste il manuale… ma chi mai lo legge?). Certo, per via di una resistenza fisica di Snake artificiosamente ingigantita, a livello normal il gioco risulta accessibile anche all’utenza più fiacca, ma proprio per questa ragione è buona cosa che il giocatore esperto e l’appassionato facciano un po’ di pratica con la difficoltà base e poi affrontino direttamente l’Hard Mode, più severo ed appagante. Questo a patto che non apparteniate a quella tipologia di giocatori che rigiocano volentieri un titolo. Ed è proprio la mancanza di pratica e l’ignoranza delle molteplici forme di infiltrazione/attacco/difesa che rendono il primo giro incompleto. Per questo

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sante, e non si alleggerirà con i titoli di coda, perché riteniamo che almeno un replay di MGS3 non sia riteniamo chesolo almeno un replay di MGS3 fa- vorrete conancora. i titoli di coda, più perché ne evorrete ancora. Vorrete Vorrete gioco, per questo facoltativo, in quanto alla seconda tornata si non sia ne coltativo, in quanto allaalla seconda tornata si svela più gioco,il esalvataggio per questoofferto basterà riprende salvatagbasterà riprende alla fine, e ilpiù svela completamente il geniosolo dietro macchina. completamente il genio dietro alla macchina. D’altra fine, e più storia,oealle per nostre questa ricorstoria, e gio perofferto questaalla ricorrerete ai forum D’altra parte, questi sintomi di incompiutezza posparte, questi sintomidell’approfondimento, di incompiutezza possono infarerete ai forum o alle nostre future disamine. future disamine. sono infastidire i non amanti stidire i noncolpo amanti è un capolavoro, Un capolavoro che, MGS3 è MGS3 un capolavoro, vero. Unvero. capolavoro che, assestando un duro alladell’approfondimento, generale apprezzabi- assestando un duro colpo alla generale apprezzabilità comunque, del comunque, può di sperare essereo capito o apnon può non sperare esseredicapito lità del titolo. titolo. prezzato da Un tutti. Un capolavoro a cui avvicinarsi con apprezzato da tutti. capolavoro a cui avvicinarsi Parlare oltre di MGS3 senza rovinare il gusto Parlare oltre di MGS3 senzadirvi rovinare il gusto della riverenza ma anche decisione, perché MGS3 è con riverenza ma anche con con decisione, perché della scoperta è impossibile. Possiamo che afscoperta è impossibile. Possiamo dirvi 2005 che affronteMGS3 è un un titolo titolo che che necessita necessita d’essere d’essere domato domato ee spronato, fronterete il probabile vincitore del Ring Award rete il Boss probabile Award 2005 nella per dare il meglio di di sé. MGS3 èè unun insegnante sespronato, per dare il meglio sé. MGS3 nella categoria Hoggvincitore Design, del che Ring calcherete Hogg Design, che vero, che potremmo odiareodiare o nonocapire insegnante severo, che potremmo non in principio uno deglicategoria stage piùBoss poetici, commoventi edcalcherete ispirati di uno degli stage più poetici, commoventi ed ispirati di sempre, che ameremo quando saremo noi a dover raccocapire inma principio ma che ameremo quando saremo sempre, vi troverete imprigionati in un incubo videtroverete imprigionati in un incubodivideoludico a gliere la sua eredità esperienze. E di cui certanoi a dover raccogliere la suadieredità di esperienze. oludico avi tutti gli effetti, farete la conoscenza pertutti gli effetti, farete la conoscenza personaggiE di cui certamente mente piangeremo la ‘morte’. piangeremo la ‘morte’. sonaggi memorabili e forse piangerete anche.diSul memorabili forse piangerete finire, statene certi, ile vostro cuore saràanche. un po’ Sul pe- finire, statene certi, il vostro cuore sarà un po’ pesante, e non si alleggerirà VOTO: SABCD

SMS RECENSIONI

DOES WATHEVER A SPIDER CAN <spider-man 2>

LITTLE ANIMAL PEOPLE <animal crossing>

Il prossimo sarà molto bello.

Ottimo per chi si diverte con niente.

VOTO:

SABCD

VOTO:

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SECONDO GIOVANNI <viewtiful joe 2>

-_-‘

Same of the same.

Abbastanza rotfl, nella sua inconsistenza.

VOTO:

SABCD

<leisure suit larry: magna cum laude>

VOTO:

~

SABCD

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ALIEN SLUG <alien hominid>

YO BRO! <def jam: fight for ny>

Più che riflessi, ci vuole memoria.

Consigliato, anche se non siete neri.

VOTO:

SABCD

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VOTO:

SABCD

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DEJA VU <blinx 2: masters of time and space>

AZZ! <otogi 2: immortal warriors>

Una perdita di tempo (e spazio).

Premi un tasto ed esplode l’universo.

VOTO:

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SABCD

SABCD

VOTO:

SABCD


SISTEMA PS2, XBOX VERSIONE PAL SVILUPPATORE UBISOFT MONTRÈAL ETICHETTA UBISOFT MULTIPLAYER NO

PRINCE AND PREJUDICE <POP: spirito guerriero> di Cryu

S

trano destino quello del Principe a 128 bit. L’esordio è stato valido, ma ampiamente sopravvalutato, complice la magra stagione natalizia 2003, quando era facile spiccare in un panorama software privato dei grandi nomi dell’industria, quasi tutti impegnati nello sviluppo dei titoli da pubblicarsi l’anno seguente. Eppure la critica, affascinata dall’atmosfera esotica, dalla fluidità dell’azione e dalle invenzioni ludiche e narrative legate alle Sabbie del Tempo, sorvolò su vistose lacune, quali un sistema di combattimento banale e intollerabile già nel brevissimo periodo, un level design che solo nell’ultimo terzo di gioco prendeva coscienza delle proprie possibilità, una regia inadeguata alle dinamiche degli scontri e una battaglia finale così scialba come non se ne ricordano a memoria di videogiocatore. Archiviato il successo di critica e le dignitose vendite del primo episodio, Spirito Guerriero si profilava sotto i migliori auspici, forte del know how maturato dal suo team nello sviluppo de Le Sabbie del Tempo. Questo fino al giorno in cui furono diffusi i primi dettagli sul rinnovato look che avrebbe assunto il Principe per meglio allinearsi ai trend del mercato attuale. Ambientazione dark, rifornita dose di gore, character design maschile ispirato al cliché del bel tenebroso e femminile all’insegna della curva pericolosa. Tanto è bastato a molti sedicenti appassionati per bollare subito il tutto come il risultato della prostituzione al mass market di uno dei titoli più genuini di questa generazione. “I am the architect of my own destruction”, recita un affranto Principe a metà della sua nuova avventura. I prevenuti annuiscono maliziosi. E in effetti sì, molte scelte di stile paiono piegate in una direzione forzatamente diversa da quella seguita in Le Sabbie del Tempo: schermate di caricamento grondanti sangue, linguaggio “adulto” e improbabili schitarrate metal a incorniciare l’azione. Tuttavia, appurata la gratuità di questi dettagli nonché la superficialità di altri (si può bere l’acqua di mare…), è sufficiente scostare il velo del pregiudizio per scoprire la verità che in fondo era lecito aspettarsi sin dal principio: Spirito Guerriero risolve quasi ogni lacuna del primo gioco e si impone come il miglior action/platform sulla piazza. In apparenza rimpolpato nelle opzioni ma non nella sostanza, con la pratica il sistema di combattimento si scopre dopato da una galvanizzante iniezione stylish. Sottrarre le armi agli avversari (sconfitti e non) per impugnarne due alla volta spalanca le porte a un nutrito repertorio di combo, che in abbinamento alle prese e alle tecniche volanti propiziate dal wall running soddisfa a più riprese la fantasia marziale del giocatore. Ora scavalcare in volo un avversario può risolversi con una proiezione da judoka a scaraventarlo in un baratro, con un imprevedibile furto di arma con cui procedere alla sua eliminazione, con una decapitazione mediante l’utilizzo a forbice di entrambe le lame brandite. La lezione di Ninja Gaiden e Soul Calibur II, benché non ancora assimilata nella resa dei pesi in gioco, è stata senz’altro recepita in Ubisoft, che ha implementato contrattacchi sulla falsariga delle contromosse di Ryo Hayabusa, decisivi nei ripetuti confronti con quella che pare una sosia di Ivy imbevuta di tecniche Cervantine. In odore di titoli di coda, i

Alcune già splendide architetture traggono ulteriore fascino da un sapiente uso del colore e della luce solare simulata. Anche la loro posizione geografica sull’Isola del Tempo sembra rispondere a precise esigenze scenografiche.

XBOX VS PS2 Più solida nel frame rate, più compatta nella resa solida nel frame rate, più compatta nella resa di di diPiù contorni e superfici, graziata da esclusivi effetti contorni erendering: superfici, graziata da esclusivi effettiil di multipass la versione Xbox vince conmultipass rendering: la versione Xbox vince il confronto senza tuttavia stravincerlo. L’impressione è fronto senza tuttavia stravincerlo. L’impressione è quella di un’immagine più naturale e cinematica, ma quella di un’immagine più naturale e cinematica, ma leggermente meno contrastata rispetto alla controleggermente meno contrastata rispetto alla controparte decifrazionedegli degliscenari scenari più teneparte PS2. PS2. La La decifrazione più tenebrosi brosi risulta pertanto immediata, quella frarisulta pertanto meno meno immediata, e quellaefrazione di zione di secondo in più spesa nell’individuazione di secondo in più spesa nell’individuazione di un un appiglio nella penombra talvolta costare la appiglio nella penombra può può talvolta costare la ripetizione una lunga lungaporzione porzionedidistage. stage. Xbox ripetizione di una SuSu Xbox figurano due trascurabili trascurabilimodalità modalità online figurano anche anche due online di di time attack, attack, l’una l’una finalizzata centotime finalizzataalalsuperamento superamento centometristico di percorsi sterminio metristico percorsi platform, platform,l'altra l'altraallo allo sterminio orde di di avversari. avversari. II tempi giocatori didiorde tempiottenuti ottenutidai dai giocatori connessi al al servizio servizio Live in in una connessi Livesono sonopoi poiraccolti raccolti una classifica. Non Non chiamatelo per favore. classifica. chiamatelo'multiplayer', 'multiplayer', per favore. poteri dalle Sabbie regalano anche momenti di sudata onnipotenza, con i già noti rewind del tempo e slow down dei nemici completati da un'inedita abilità berserk, entro la quale governare il Principe a velocità flash mentre lo schermo è invaso da un abbaglio cremisi. Viewtiful Prince. Pur senza eguagliare i risultati conseguiti dai mostri sacri del genere, le battaglie di Spirito Guerriero hanno guadagnato in spessore e valore ricreativo, esorcizzando lo sconforto che ne Le Sabbie del Tempo faceva capolino ogniqualvolta l’esplorazione venisse interrotta dall’ennesimo scontro insapore. Menzione d’onore per i boss, praticamente assenti in passato e qui introdotti con successo, battendo sul tempo Wanda and the Colossus nell’inaugurazione dello spettacolare sport del “boss climbing”. Non solo: il Dahaka, la tentacolare creatura ombra che dà la caccia al Principe sin dal FMV d’apertura, arricchisce le sezioni platform più istintive di un adrenalinico senso di urgenza, obbligando a dare continuità alle acrobazie necessarie a raggiungere ogni zona franca. In ambito di level design, Le Sabbie del Tempo aveva suscitato l’impressione che la divisione canadese di Ubisoft avesse appreso nel corso dello

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sviluppo le cognizioni necessarie a esprimere il proprio talento. Non per nulla la scalata della Torre Aurora nelle ultime battute entusiasmava assai più delle prime posticce location, la cui architettura denunciava un’estetica incerta e una progettazione pretestuosamente asservita alla risoluzione di suggeriti puzzle ambientali. Spirito Guerriero, dal canto suo, si comporta quasi al contrario, mostrando subito i muscoli per poi arrivare sfiatato alla seconda metà di gioco. Esaurito da pochi minuti un tutorial dalla dubbia efficacia (come palesa il duello con cui si conclude), la monumentale facciata della fortezza in cui furono create le Sabbie del Tempo si impone a video da una vertiginosa prospettiva dal basso: di qui in avanti sarà un’altalena di vedute dimenticabili e panorami sbalorditivi, tra i quali rifulgono i piani alti della Torre Giardino, che meriterebbe di venire ricordata insieme alle Rovine Chozo di Metroid Prime come il documento di level design più preciso di questa generazione hardware. Parlando di stile, le forme e le tinte dell’arte islamica si sono sposate a elementi gotici arcaici, steampunk, romani e delle fortificazioni del medioevo europeo, producendo abbinamenti arditi, dall’esito estetico alterno nonché significativamente più cupo e occidentale rispetto al persianissimo predecessore. Conforta però che alle cadute di stile architettonico non corrispondano altrettanto banali fasi platform, che da parte loro si mantengono sempre su buoni livelli. Rispetto al gioco dell’anno passato l’architettura meglio dissimula la propria sottomissione al game design, ricercando dignità e credibilità autonome. Gli architetti all’ascolto storceranno il naso di fronte a edifici i cui muri portanti sono inutilmente spalleggiati da archi rampanti, per di più poggiati su colonnine anziché contrafforti, ma piace che ora gli ambienti all’aperto siano più ampi, asimmetrici, addirittura selvatici a una prima occhiata, e meraviglia scoprire gli intuitivi pattern di risoluzione attorno ai quali sono stati eretti. Al contrario del palazzo de Le Sabbie del Tempo, ideato per la percorrenza lineare degli spazi compresi tra il piano terra e la sommità, il seguito si svolge su di un'isola edificata in maniera più organica, collegandone le parti con una fitta rete di arterie. Ciò non vuole tradursi in una maggiore libertà di esplorazione, che in ambienti di simili dimensioni e complessità si sarebbe risolta nel disorientamento, quanto nella rivisitabilità degli stessi luoghi mantenendo il backtracking entro i limiti di guardia. I detrattori della retro-esplorazione lamenteranno comunque, e a ragione, minuti di intrattenimento riciclato, ma in difesa di Ubisoft Montréal depongono la continua integrazione dei segmenti di strada già percorsi ad altri insondati, e lo stupore mentale per la comprensione del mosaico geografico ogni volta che una lunga peregrinazione si conclude con il riaffacciarsi a panorami noti, ma da prospettive opposte e vie traverse. La fluidità della deambulazione beneficia poi di due novità: i drappi aggrappati ai quali scivolare verticalmente a mo’ di pertica, e l’intelligente riconsiderazione delle funi, ora collocate a ridosso delle pareti così da oscillare in due sole direzioni, lungo le quali prodursi in tarzaneschi wall run. La bellezza dei complessi più indovinati è valorizzata da una regia che da Le Sabbie del Tempo ha compiuto passi da gigante. Le disfunzioni che affliggevano le riprese dei combattimenti sono state risolte, ed essi risultano ora godibili sia dalla

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visuale dinamica standard che dalle inquadrature predefinite regolabili nello zoom. È in questi scorci che la perfezionata regia virtuale dà il massimo, prendendo le distanze dai dettami di ripresa cinematografica per accostarsi a quelli della fotografia vera e propria. Le inquadrature fisse, spesso adottabili durante il movimento oltre che nello studio ambientale, colgono sempre la prospettiva più suggestiva ammiccando al contempo alla direzione in cui proseguire. Si tratta di un lavoro encomiabile, i cui germogli erano già ravvisabili nel gioco dello scorso anno, ma che solo ora può dirsi emancipato rispetto alla regia artistica di quell’Ico che ne aveva gettato i semi. Dove Spirito Guerriero fallisce è nell’accompagnamento audio. Al di là dell’opinabile gusto dei temi musicali e dei ricorrenti bug nella riproduzione di tracce ed effetti, è il puro sound design a dimostrarsi inadeguato. A seconda della situazione, la CPU si limita a riprodurre un certo brano, mentre durante i combattimenti vengono ripetute estemporanee (e in italiano molto mal recitate) battute di sfida, difficili da credersi pronunciate dai personaggi in scena. Più in generale, è sempre immediatamente percepibile l’ingresso della componente audio nel giocato, laddove i migliori interpreti dell’audio legato ai VG hanno insegnato a incorporare il sonoro in modo da farne un elemento invisibile, inseparabile dall’esperienza ludica complessiva. La narrazione è imperniata su due colpi di scena, telefonato il primo ma brillante il secondo, responsabile di gradevoli incastri spazio-temporali; sono molto migliorate la regia e la qualità dei FMV, peccato che lo storytelling non benefici più di raffinatezze quali gli ingannevoli flashback che ne Le Sabbie del Tempo prefiguravano avvenimenti nefasti poi mai verificatisi. In compenso prima della fine ci sarà tempo per un'irriverente citazione tolkieniana. La duplicità dello stesso scenario da percorrere in epoche diverse aggiunge invece una consistenza tutta Zeldiana all’avventura, la cui longevità risulta artificiosamente dilatata dall’avara distribuzione dei checkpoint nella fase centrale dell’esperienza. Avremmo barattato volentieri due ore di gioco con una mezzora di frustrazione in meno. Il computo delle ore necessarie ad arrivare in fondo si arresta comunque poco sopra le dodici; giova pertanto la presenza di un più gratificante finale alternativo, senza una guida difficilmente imboccabile alla prima tornata. A tratti superbo, complessivamente all’altezza e dozzinale in aspetti perlopiù marginali, Prince of Persia è ancora un gioco dal sapore onirico, magico. Solo, questa volta si tratta di magia nera. I primi dati di vendita stanno dando ragione a Ubisoft, eppure qualche fan de Le Sabbie del Tempo potrebbe non riuscire a gradire quello che è senz’altro un prodotto migliore del suo predecessore. Strano destino quello del Principe a 128 bit. Non c’è da sorprendersi che in Spirito Guerriero voglia tornare indietro nel tempo per cambiarlo.

VOTO:

SABCD


SISTEMA PS2 SVILUPPATORE GUERRILLA ETICHETTA SCEI VERSIONE PAL MULTIPLAYER 2-16 ONLINE

HELGHASTBUSTERS <killzone> di Cryu

K

illzone è qualcosa di nuovo ma non troppo. Non è l’FPS acrobatico del frag propiziato da una manovra di clearing con salto mortale all’indietro, e non costituisce nemmeno l’ennesimo risultato della deriva tattico-simulativa del genere shooter (vedi Operation Flashpoint e Rainbow Six). Killzone è un FPS di trincea, perlomeno a patto che si fuggano gli inconsistenti livelli di difficoltà facile e normale. Loro di là, e noantri deqquà, questo il leit motiv situazionale proposto. Se memori dei livelli di Alta Opera in Halo 2 provate ad abbandonare una posizione sicura per rincorrere a perdifiato l’uscita del livello, una trapunta di piombo cucita da ogni dove vi si ricamerà addosso. Se forti della sicurezza maturata in anni di shooting in multiplayer tenterete la via dell’incursione agile e selvaggia, saranno l’assenza del salto e il frame rate a tratti imbarazzante a imbrigliare la vostra azione, limitando drasticamente lo spettro di manovre evasive e le percentuali di colpi a bersaglio. No, Killzone, non si gioca né correndo né saltando. Si gioca da accucciati. Saranno i vostri tre compagni di squadra a darvi per primi l’esempio. È una prova di nervi, vissuta nell’attesa che l’AI del nemico si dimentichi un braccio o una testa fuori da un riparo, nel silenzioso incedere attraverso fitte mangrovie con i polpacci immersi nell’acquitrino che le alimenta, nella continua ricerca di un nuovo scudo ambientale dal fuoco rettilineo nemico… nella speranza di non venire stanati dalla traiettoria parabolica di una granata. Giocandosi in un clima ricreativo così delicato, Killzone regge finché sorretto dalla varietà di situazioni, dalla sua schiacciante atmosfera plumbea, dall’immedesimazione innescata dai trascorsi dei suoi protagonisti. Ma laddove abbassa la guardia con situazioni di battaglia poco stimolanti, interni poco ispirati, frangenti narrativi più blandi, Killzone (e con lui il giocatore) esce dalla trincea, sopraffatto dalla pulsione di bruciare le tappe verso la fine di una missione poco gradita. E allora Killzone crolla, sotto i colpi del nemico, certo, ma soprattutto di un motore grafico e di un gameplay che non sanno prescindere da tempi e modi all’insegna della calma. Poco sorprende la scarsa godibilità del multiplayer, forzatamente accelerato dai tipici ritmi del deathmatch. La campagna in single player, dal canto suo, si gioca invece lungo il pericoloso confine tra l’intrigo innescato da una suggestiva guerra di nervi e il suo degenerare nella routine del trial and error. Vive della pazienza che incoraggia generando tensione e muore nell’istante in cui l’istinto annoiato prevale sul buon senso militare. Fuori dalla trincea Killzone cessa di essere quell’esperienza coinvolgente, spettacolare e inedita che si vanta a ragione di saper regalare, per scoprirsi nudo in quello che è ma fa di tutto per non sembrare: un FPS molto lineare innervosito dai bug dell’AI e oppresso da un motore grafico da codice beta. Perché parallelamente alla guerra tra i terrestri e gli spettrali Helghast, Killzone ne racconta un’altra, combattuta fra tutt’altri schieramenti. Da una parte un design senza pari, che scava imponenti spaccati urbani futuristici e ricalca la fotografia più toccante delle guerre del secolo andato. Al suo fianco una narrazione convenzionale che si liquida in un finale tiepido come pochi, ma interpretata dai volti giusti,

NAZISTI ARTIFICIALI

Chiaramente ispirati alle milizie del Terzo Reich, gli Helghast obbediscono a routine di AI che riproducono sofisticati comportamenti tattici, come l’ossessiva ricerca di un riparo in condizioni di inferiorità di fuoco, disorientanti scambi di posizione e pazienti attese che da dietro la barricata sia il giocatore a fare la prima mossa. Tuttavia il realismo è messo alle corde da qualche bug di troppo e dalle concessioni a una giocabilità altrimenti impossibile. Gli Helghast si preoccupano più di aderire all’elemento ambientale che offrirà loro protezione che di verificare l’impenetrabilità della linea d’aria che ne collega ogni arto ai fucili avversari. Con la scusa di avvisare i commilitoni, allertano il giocatore ogniqualvolta lo facciano bersaglio di una granata. Frequentemente, capiterà di fissarli negli occhi per qualche pigro secondo prima che si decidano a esplodere il colpo in canna. Più di rado è possibile sorprendere un Helghast in trincea rivolto nella direzione opposta rispetto alla squadra condotta dal giocatore, instillando il dubbio che stia in realtà giocando con qualcun altro. Per sperimentare la massima reattività dei soldati governati dalla CPU provate invece a riempire di bot una delle favolose arene della modalità ‘Campi di battaglia’ settando il livello di difficoltà difficile. E il multiplayer online diventa single player offline.

che ad eccezione degli stereotipati Rico e Adams incorniciano la storia in una dimensione umana concretissima. E ancora il sonoro, che pur patendo le ripetitive cantilene dei PNG esplode i colpi più terrificanti mai prodotti dal chip audio di una console (provate la prima missione con cuffia e volume al massimo). Dall’altro lato della barricata incalzano però un gioco fatto più di momenti che di meccaniche, quell’hype da Halo-killer che da mesi riecheggia nell’ambiente e che alla prova dei fatti ha motivato i facili umorismi dell’utenza Xbox, e infine una realizzazione tecnica con picchiate di performance tali da sollevare preoccupazione per la frequenza con cui i publisher tendono ormai a rilasciare prodotti vistosamente incompleti. E se da una parte in Ring non possiamo che plaudire lo stile e il carattere che Guerrilla ha saputo infondere nella sua personalissima epica sci-fi, dall’altro iniziamo a provare rigetto per la dilagante moda della commercializzazione dei preview code.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PS2 VERSIONE PAL SVILUPPATORE INSOMNIAC ETICHETTA SCEI MULTIPLAYER 2-4 S.C., 2-16 ONLINE

MASTER CHIEF IN WONDERLAND <ratchet & clank 3> di Cryu

I

l platform e lo sparatutto sono due generi diversi. Insomniac se n’è accorta con un gioco di ritardo. Il secondo capitolo delle avventure di Ratchet e Clank aveva già preso le distanze dalla formula del primo episodio, circoscrivendone la vena piattaformica a tutto vantaggio dell’azione blastatoria. Tuttavia, al di là di ulteriori limiti intrinseci che non interessa rammentare in questa sede, Ratchet & Clank: Fuoco a Volontà non risolveva una contraddizione di fondo: si giocava come uno shooter ma si controllava come il platform che non era più. Ora, esistono ulteriori pregi di Ratchet & Clank 3 che non mancheremo di sottolineare in questa sede, ma l’autentica rivoluzione che questo gioco apporta alla serie non emergerà scandagliando ogni anfratto dei 15 e più stage che lo compongono, quanto accedendo alla schermata delle opzioni, e selezionando tra i sistemi di controllo non quello predefinito, non quello con visuale in prima persona (consigliabile al più in un’eventuale seconda tornata), bensì quello indicato dalla criptica dicitura “BLOCCO SPOSTAMENTO”. Di che si tratta? Controlli FPS e visuale in terza persona inchiodata sul coppino di Ratchet. Un altro gioco. Laddove la pigra regia dei precedenti episodi faticava sempre a rincorrere le terga del nostro Lombax preferito, la nuova inquadratura non mancherà mai di riprendere ciò che gli sta di fronte. Laddove puntare bersagli posizionati ad altezze diverse aveva sempre comportato l’affidarsi alle incertezze del lock-on, ora un rapido colpetto allo stick destro porterà nel mirino anche il nemico più imboscato. E tutto senza nessuna routine di puntamento assistito a sminuire i propri meriti balistici. Iniziare l’avventura con i controlli standard e cambiare in corsa dopo qualche livello rende manifesto il divario di performance conseguibili. Come disfarsi dei tacchi a spillo solo al secondo set di una partita di beach volley. Solo così R&C3 sarà libero di svelarsi come lo sparatutto quasi perfetto che è, e voi di sentirvi come Master Chief nel Paese dei Balocchi: sommersi in un oceano di nemici che esplodono come palloncini colorati punzecchiati da un ago incandescente. POF, POF, POF. R&C3 è distruzione soffice. L’azione viene incanalata in due principali tipologie di livelli: quelli tradizionali, dalla meticolosa progettazione topografica e progressione suppergiù lineare, e le vaste arene in cui hanno luogo vere e proprie battaglie, con Ratchet alla testa di un manipolo di buffi droidi pusillanimi incalzati da goffe armate mutanti. L’obiettivo in questi casi può spaziare dalla protezione dei propri inetti commilitoni all’annientamento di specifiche unità avversarie, dalla distruzione di infrastrutture alla completa obliterazione dell’esercito nemico. Tutte situazioni che si susseguono a completare una tavolozza di scenari bellici con il gusto zuccherino dell’epica cartooneggiante. L’anima del gameplay risiede ancora una volta nel folle arsenale di Ratchet, rinnovato negli elementi, mutuabile dalle partite salvate nei precedenti episodi, soggetto a tre upgrade evolutivi mediante l’(ab)uso dell’arma interessata, e come sempre completo, equilibrato, calibrato alla perfezione con l’impennarsi della curva di difficoltà al prosieguo dell’avventura. I fan apprezzeranno la ribadita car

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La critica statunitense sembra impazzita per il multiplayer online di R&C3. Benché forte di prestazioni tecniche a 60fps del tutto esenti da lag, ci è parso invece orfano dell’equazione alla base del grande divertimento che regna nel single player, ovvero l’equilibrio tra la netta (nettissima!) superiorità di fuoco del giocatore e la netta (nettissima!!!) superiorità numerica degli avversari. Per far fronte a esigenze di ordine, il multiplayer si trova costretto a ridimensionare di molto il potenziale dell’arsenale in dotazione, riducendo altresì i combattenti a un massimo di otto, seppur sporadicamente supportati da coppie di BOT. Abbiate pazienza, ma senza quel continuo “POF POF POF”, Ratchet & Clank non è più la stessa cosa.

dinalità del cannone a risucchio, nonché il respawn delle casse già aspirate qualora una sconfitta costringa alla ripetizione di una fase di gioco. Preme sottolineare che i diversi sistemi di controllo e regia comportano riconsiderazioni negli usi ed effetti delle singole armi, ponderati per massimizzarne l’efficacia a seconda della prospettiva e dei comandi adottati. Se agitando la frusta energetica in terza persona Ratchet compirà tre giri su sé stesso, in visuale FPS la userà come un micidiale boomerang, cautelando il giocatore dal mal di mare che innescherebbero le giravolte, e sopperendo con la superiore gittata frontale alla mancata neutralizzazione degli avversari circostanti. Dettagli come questo forniscono indizi inequivocabili circa l’accuratezza del testing che ha seguito l’inserimento delle nuove opzioni di interfaccia. Poco riuscita è invece l’implementazione dei mezzi: l’astronave, capace di strafe e retromarcia, non trasmette alcuna sensazione di volo, mentre la buggy risulta sottosfruttata, in quanto ridotta a compressore dei tempi di attraversamento delle arene più vaste. Di piacevolezza altalenante i sottogiochi che inframmezzano gli stage di shooting puro: spettacolari i due pianeti-sfera, solo simpatico il mini-game del Capitano Quark che scimmiotta i platform 2D dell’era 16 bit, deprimenti le fasi alle redini di Clank e banalmente stupida la ricerca dei cristalli di fogna. Riguadagnate le sue proporzioni originali, inappropriatamente smagrite un anno fa, Ratchet si ripresenta in gran forma: il motore grafico è stato perfezionato per non patire più la sporcizia che in passato affliggeva i profili delle figure, e sfoggia ora quel multipass rendering di cui si soffriva la mancanza osservando le opache superfici metalliche dei precedenti episodi. La generalmente apprezzabile qualità delle texture, l’impressionante estensione verticale di certi ambienti, e la plasticità delle ani


mazioni di avversari anche di grossa taglia chiudono la lista dei benefici tecnici di cui gode l’estetica di R&C3. Ma la tecnologia a poco servirebbe se non fosse supportata dall’estro, dalla fantasia e dall’ispirata verve cromatica di cui in Fuoco a Volontà si erano perse le tracce, e che qui riaffiorano in buona parte degli stage. Tra questi spiccano la suggestiva foresta secolare di Florana e il “Luogo dell’impatto”, con le sue delicate scelte cromatiche all’insegna del violetto. Vistoso neo del comparto grafico è invece l’approssimativa modellazione dei personaggi comprimari, tra cui la volpina innamorata di Ratchet. In ultima analisi, è con nostalgia che si ripensa alle avventurose sezioni esplorative, ai vertiginosi livelli su rotaia, ai gratificanti stage con protagonista Clank, alle riuscite parentesi racing dei primi due giochi. E in effetti è vero: ironia della sorte vuole che questo, tra i tre capitoli della serie, sia forse il meno vario e completo. Ma il più divertente. Difficile lamentarsi.

VOTO:

Dopo un esordio di tutto rispetto, lo humour che permea gli intermezzi narrativi subisce un progressivo riallineamento con la trama, dal sapore decisamente infantile. Fortuna vuole che il Capitano Quark si confermi un mattatore della scena comica digitale, ricordando a più riprese lo Zapp Brannigam di Futurama.

SABCD

ARTWORK! Torna la rubrica tappabuchi più amata dagli effeminati per segnalare “can’t HUE website”, un ottimo sito di fan art dedicato ad uno dei videogames più amati dai giocatori fondamentalisti e dagli esperti della cabbalah: Ikaruga. (Il link lo trovate a fondo pagina.)

http://www.aa.alpha-net.ne.jp/h8195/ikaruga.html

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SISTEMA PS2 SVILUPPATORE NAUGHTY DOG ETICHETTA SCEE VERSIONE PAL MULTIPLAYER NO

PER UN PUGNO DI SABBIA <jak & daxter 3> di Sator & Daxter

«J

ak, ragazzo mio, il futuro ci attende!» Samos

Con queste parole il vegliardo Samos concludeva il controverso Jak II: Renegade, mentre i fuochi artificiali di un inevitabile lieto fine facevano da sfondo ai titoli di coda. Un seguito era quindi nell’aria, e non solo per le parole del nano ipertricotico, ma anche per i numerosi nodi narrativi rimasti ancora da sciogliere, come la “questione Mar” (cfr. indepth a pag.14). Certo è che non ci si aspettava un periodo di sviluppo così breve, anche considerato che Jak II era un prodotto ben lungi dalla perfezione… «A questo punto sarebbe ora di parlare dei difetti di Jak II: Renegade, ma sfortunatamente il titolo Naughty Dog ne è quasi privo…» Alberto Torgano, Nextgame Alberto Torgano ha ragione: Jak II non aveva grossi difetti. Il problema nasceva quando, andando a controllare nel paniere dei pregi, si notava come pure quest’ultimo fosse vuoto. Sembrava quasi che Naughty Dog avesse fatto scendere in campo una squadra di calcio fermamente determinata nella ricerca dello zero a zero. Un titolo che scorreva via agile come un bicchiere di Ferrarelle, ma che non lasciava niente di frizzante nella bocca del giocatore. Ciononostante, Jak II è stato apprezzato da molti. Del resto viviamo in un’epoca di passaggio, in cui ci lasciamo impressionare fin troppo dal polygon count e non guardiamo a ciò che questi benedetti poligoni vanno a rappresentare. Ci beiamo dello streaming dei dati e non capiamo che se gli ambienti sono noiosi da percorrere, lo saranno anche eliminando i caricamenti tra una sezione e l’altra. Fortunatamente non tutti caddero nella trappola tesa dal cane arrabbiato, e un manipolo di recensori con un minimo sindacale di gusto si resero conto che… «Jak II takes the best graphics engine on the PS2 and makes it look ugly 70 percent of the time.» Benjamin Turner, Gamespy Ecco, la stessa cosa si può dire di Jak 3, che con i suoi chilometri di fogne, le città costruite con il copia-incolla e i templi di una cultura architettonicamente antitetica ai Chozo, non fa niente per trapiantare nel giocatore il pollice dell’esploratore. No, il mondo di Jak 3 non lo si esplora: lo si percorre. E solo perché si è costretti a farlo. Del resto il gioco sembra avere molta voglia di distoglierci dal continuo peregrinare da un punto A ad un punto B. In pratica possiamo unicamente scegliere se soffermarci in alcuni punti C per eseguire delle missioncine simili alle ricerche delle monete blu di Super Mario Sunshine. Esatto: prima Rubin critica l’ultimo episodio di Mario, poi copia da esso il suo aspetto più tedioso! Tecnicamente, il motore grafico di Jak 3 fa bene ciò che bene faceva il predecessore, con particolare menzione per la resa delle superfici metalliche. Gli effetti studiati appositamente per questo capitolo, invece, lasciano un po’ a desiderare, come la tempesta di sabbia, realizzata piuttosto rozzamente.

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Il tearing è diminuito, ma anche il frame rate si è fatto più instabile in particolari momenti del gioco. Ad esempio non si capisce se le fasi di corsa su degli animali concettualmente simili agli Yoshi siano riprodotte a frame rate dimezzato o se si tratta soltanto di un effetto tremolante conferito alla macchina da presa virtuale. Certo è che il tutto è fastidioso. Tolta l’esplorazione, non rimangono che le missioni. Il trend iniziato con Jak II è in questa sede ribadito: le piattaforme sono sempre di meno, sacrificate sull’altare dell’action game duro & puro. Oh, niente di male in tutto ciò. Basti pensare a quel gioiellino di Ratchet & Clank 3. Il problema è che contrariamente a Insomniac e al suo delicato lavoro di tuning, Naughty Dog ha lavorato di quantità, ma non di qualità. Se un armamentario di dodici armi piuttosto diversificate tra loro può all’apparenza garantire una discreta profondità di gioco, una volta scesi in campo ci renderemo conto che questa varietà serve a ben poco, visto che sono tutte identicamente letali e che i nemici non hanno risorse per contrastare il nostro volume di fuoco, qualunque esso sia. Finiremo con il passare da un’arma all’altra solo una volta esauriti i caricatori, e non perché una particolare situazione lo impone. L’inutilità di Dark Jak nell’episodio precedente trova qui la sua drammatica conferma. Certo, Dark Jak può adesso lanciare una sfera di energia in grado di abbattere i muri, ed è quindi fondamentale in alcune missioni. Paradossalmente, però, è il gioco a suggerire con un messaggio a schermo quando usare tale tecnica, pertanto il tutto si riduce ad un “aziona la leva/apri la porta”. Fatta salva questa didascalica operazione, vi ritroverete ad attivare il Dark Jak solo per errore, quando invece volevate richiamare la versione Light. Novità di questo episodio, il Light Jak si rivela senz’altro più utile. Purtroppo una delle abilità garantite da questa condizione è il ripristino della barra di salute, e ciò va a completare l’opera di demolizione della difficoltà di gioco iniziata dall’armamentario fuori scala. Per fortuna, Jak non sarà sempre un pedone armato fino ai denti alle prese con un sistema fognario più incasinato di Moria. Le critiche rivolte telefonicamente a Jason Rubin in uno dei precedenti numeri di Ring hanno infatti sortito qualche effetto… «[…] Spiegami piuttosto con quale dei tuoi due


piedi hai partorito il sistema di guida. Sai perché guidare per le strade di Vice City è divertente, mentre volare per Haven City non lo è? Per la forza d’attrito.» «La che?» «La forza d’attrito. È ciò che fa muovere i veicoli e che ti fa compiere tutte quelle cose ganze come le sgommate, i testacoda etc. Ora, tu con queste carriole volanti sostituisci l’attrito con l’inerzia. Ti sembra di aver fatto un’operazione intelligente? Hai mai sentito qualcuno entusiasmarsi per il sistema di guida di Asteroids?» Dalla recensione di Jak II: Renegade, apparsa su Ring#09 Udite udite: Jak 3 ambienta una considerevole parte delle sue missioni su mezzi dotati di ruote, mossi da una signora forza d’attrito e più genericamente da una fisica molto ben realizzata! Il pretesto narrativo per giustificare un simile cambiamento è nell’incipit del gioco: Jak è stato esiliato da Haven City, condannato a perire di stenti nel deserto. Sì, col cavolo. Jak si risveglierà in un avamposto abitato da altri esuli e diverrà ben presto una sorta di Mad Max: formidabile pilota di dune buggy, indefesso oppositore dei predoni del deserto (anch’essi motorizzati) e pronto a puntarti il coltello alla gola se gli mancano mille lire dal borsello. Naturalmente non si tratta di un cambiamento radicale: i personaggi e la storia sono tutti mutuati dal lavoro precedente, però l’ambientazione ha un suo fascino e invoglia il giocatore a “vedere che cosa c’è dopo”. Questo almeno fino al 40% dell’avventura, punto in cui, nonostante le molte dune buggy ancora da sbloccare, Jak sarà chiamato ad esplorare un tunnel sotterraneo (e già qui moccoli) che conduce direttamente a… Haven City. E l’incubo ritorna! Certo, alcuni eventi hanno mutato in parte la geografia della metropoli: la cittadella sospesa è crollata, le teste di metallo hanno colonizzato un intero quartiere, l’antica foresta ha adesso i colori dell’autunno, ma la sensazione di riciclaggio di ambienti è nettissima, e chi di voi credeva che mai nella vita avrebbe dovuto ripercorrere le banchine del porto di Haven City, dovrà tenersi ad almeno 250 metri di distanza da Jak 3. A livello di trama il ritorno alla Contea… pardon… alla Città, non fa certo bene al titolo Naughty Dog, che è infatti costretto a riprendere in mano le redini della storia lasciate alla fine del prequel. Anche le sottotrame più inutili. Nel corso dell’avventura Jak non farà altro che incontrare vecchie conoscenze: «Ehi, ciao Jak! Sono Sig/Torn/Tess. Ci siamo conosciuti in Jak II. Ti ricordi?» diranno questi volenterosi caratteristi. «Er… Certo! Come hai detto che ti chiami?» risponderemo noi imbarazzati, visto che ovviamente non possiamo ricordare personaggi tutti uguali e narrativamente irrilevanti. Ma è proprio lo stile con cui è raccontata la storia a risultare stucchevole: Daxter è irritante nel suo continuo tentativo di alleggerire la situazione con smorfie e battute telefonate; Pecker è addirittura insopportabile, mentre Jak si sputtana nello stereotipo del personaggio cool/grunge a tal punto che nel finale, quando gli eventi lo chiameranno ad una recitazione drammatica, non risulterà per niente credibile. E, badate, non è marginale il fatto che personaggi e trama si siano risolti in completi buchi nell’acqua. Prendiamo ad esempio Conker’s Bad Fur Day. Il titolo Rare è concettualmente molto simile agli ultimi

due Jak, soprattutto nella scelta di proporre un enorme quantitativo di stili di gioco diversi. Ora, Conker sarà ricordato negli anni per i suoi personaggi fuori di testa nonché per una trama geniale e ricca di idee; Jak invece stiamo già cominciando a dimenticarlo, nonostante alcuni commenti della stampa specializzata a dir poco fuori di cavezza… «If you like games, you'll buy this immediately or we'll come to your house and beat you to death.» Ivan Sulic, IGN Sì, certo Ivan, verrai a casa nostra a picchiarci… tu e quale esercito? Per fortuna non tutti i recensori avevano la rata della macchina da pagare… «Jak 3 isn't torture (that is to say, Blinx), but there are better and much more cohesive action/platformer experiences to be had right now.» Benjamin Turner, Gamespy Ma ci teniamo a concludere questa sagra delle citazioni con un estratto di italica saggezza… «Un passo indietro rispetto Jak II, due passi indietro rispetto Jak & Daxter: continua la lenta involuzione della saga realizzata da Naughty Dog. La buona realizzazione tecnica non basta per tenere assieme un gameplay disordinato.» Roberto Corsaro, Punto Informatico Il Re è nudo!

VOTO:

SABCD

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SISTEMA XBOX SVILUPPATORE MICROSOFT ETICHETTA MICROSOFT VERSIONE JAP MULTIPLAYER 1-2

DUST IN THE WIND <phantom dust> di Emalord “Phantom Dust è Power Stone nel mondo di Akira. Con il design di Panzer Dragoon…”

IL CIELO DI PANZER DRAGOON

S

e per giudicare un videogioco bastassero due ore di prova su strada, Phantom Dust avrebbe ricevuto un voto ben più gratificante di quello posto a sigillo di questa recensione. Perché il primo impatto, la sua arroganza stilistica, il suo essere sleeper con le palle [1] mi avevano fatto palpitare il cuore, e ritrovare quell’eccitazione che da tempo i videogiochi non mi davano più. Dopo due ore avrei urlato al mondo che di giochi come questo ne vorrei uno al mese, che su giochi come questo dovrebbero imbastire intere tesi di laurea. Alla terza ora di gioco mi sono dato una sana grattata alle palle [2], mi sono fatto una doccia bollente, e ho rivisto le mie convinzioni… Phantom Dust è, per capirci, uno di quei giochi che ti può restare dentro, oppure funzionare da ordinario riempitivo dell’attesa di qualche novità più succosa. Questo perché il picchiaduro di Microsoft Studios è costruito intorno ad una cultura ben specifica che si ama alla follia o si tollera con indifferenza. Le radici in cui affonda sono quelle degli anime giapponesi del design più stiloso, dei colori usati con gusto, delle musiche che non ti aspetti ma che sposano perfettamente l’atmosfera che ti circonda. La prima mezz’ora di gioco è un prolungato tutorial che da un lato permette un delicato apprendimento delle tecniche di combattimento, mentre dall’altro introduce trama, personaggi e ambientazioni del caso. Chi ama la cultura pop giapponese non faticherà a cogliere svariate citazioni: il mondo post-apocalittico e l’aura combattiva di Ken il Guerriero, i poteri psichici di Akira, la trama memore dell’anime Il vento dell’Amnesia [vedi box], i combattimenti a suon di bolle energetiche di Dragon Ball. Nonostante le svariate fonti, il prodotto finale risulta omogeneo, coerente, e tutt’altro che banale. Merito dell’autore Yukio Futatsugi, ex membro Smilebit che ha messo sul tavolo di lavoro tutto il suo sapere in fatto di design, colore e personalità maturato in casa Sega tra un Panzer Dragoon RPG ed un Jet Set Radio. Lavori criticabili dal punto di vista ludico, ma rarissimi esempi di stile unico e ispirato, che spazia dalla cultura tribale a quella cyberpunk, dal fumetto europeo di Moebius passando per lo stilista Jean Paul Gaultier (vedi box). Introdotto da un FMV di pregevole fattura, Phantom Dust si rivela un picchiaduro alla Power Stone ambientato in arene cittadine in verosimile disfacimento durante i furiosi combattimenti. Il gioco si basa sullo sfruttamento di capsule energetiche che compaiono in punti fissi delle arene ove hanno luogo le battaglie. Sta al giocatore comprendere, in base al briefing della missione in corso e alle potenzialità del nemico, se puntare su skill di difesa e contrattacco, sull’azzeramento di devastanti capacità offensive nemiche, oppure sul più classico seek & destroy all’insegna di rapidi affondi e potenti attacchi. Con l’avanzare della narrazione farà la sua timida comparsa anche una blanda componente RPG, grazie alla presenza di una lobby con NPC da

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Se mai Ring dovesse promuovere un ‘Cielo Grande Cielo Blu Award’ per la migliore rappresentazione digitale della volta celeste, questo premio andrebbe ad un’opera qualsiasi, a scelta, di Smilebit (ex Team Andromeda). Fin dal primo episodio di Panzer Dragoon, il cielo secondo Smilebit non è mai stato una foto ad alta definizione da piazzare su uno sfondo, ma un qualcosa di vivo e pulsante. Nei loro videogame il cielo sembra quasi un corpo vivente, e le nuvole il sangue che scorre vivace e copioso nelle sue membra. A questo aggiungete un sapente uso di contrasti cromatici e otterrete un’idea di quanta poesia, forza e vivacità questi programmatori sappiano infondere nell’etere. Phantom Dust è solo l’ultimo rappresentante di questa filosofia vincente di pura arte descrittiva.

consultare per accedere alle missioni e alla possibilità di creare un ‘arsenale’ di capsule personalizzato attingendo alle 300 acquistabili con i punti esperienza maturati. Tuttavia, privato del suo esoscheletro di contenuti anime e di design, ciò che resta è un picchiaduro che mette in mostra tanta lodevole voglia di fare, eppure incapace di reggere sulla lunga distanza, proprio come altri lavori del passato di Futatsugi. Esaltante e carismatico al suo debutto nel lettore Xbox, si rivela presto guastato da una regia virtuale deficitaria e solo parzialmente stabilizzata dal sistema di lock-on, da una IA nemica a tratti inesistente e da un ritmo troppo incostante. Un prodotto stilisticamente interessante ma ludicamente fallato, ridondante e pretenzioso, forse vittima delle sue incontrollate ambizioni. Un’occasione persa per coniugare forma e contenuto, la cui mancata pubblicazione in Occidente non è il caso di piangere. [1] Esatto, proprio come l’antifurto [2] Sempre quelle dell’antifurto. In Ring la volgarità non è ammessa in nessuna forma…

VOTO:

SABCD


SISTEMA PS2 SVILUPPATORE DIMPS ETICHETTA ATARI VERSIONE PAL MULTIPLAYER 1-2

HO UN VEGETA NEL FREEZER <dragon ball z budokai 3> di Emalord “Kame-Hame-Ah!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”

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uando all’alba del nuovo millennio una Bandai sorprendentemente ispirata lanciò sul mercato Hokuto no Ken Seiki Suesuku Seishi Densetsu, il Popolo del Videogioco si produsse in una ola che pettinò il pianeta. Finalmente era stata resa giustizia ad una saga, quella di Ken il Guerriero, che si era ormai appellata alla Convenzione di Ginevra per i continui maltrattamenti cui era stata sottoposta in sede di trasposizione videoludica. In realtà il giubilo su scala mondiale traeva forza non tanto dalla qualità intrinseca del prodotto, quanto dalle privazioni a cui erano stati sottoposti i fan della saga negli anni precedenti, acquirenti di prodotti limitati nella sostanza così come nell’apparenza. Fino a quel momento aveva sempre piovuto sul bagnato, per i fan di un anime dove non si era mai vista una goccia di pioggia. L’impronunciabile titolo di cui sopra, volendo essere obiettivi, non era certo un capolavoro di gameplay. Si trattava di un’essenziale picchiaduro poligonale a scorrimento, condito però dalla possibilità di eseguire periodicamente le famose tecniche Hokuto, innescabili dalla fulminea impartizione di insidiose sequenze di comandi. Ciò che fece la differenza fu l’impareggiabile cura nel riportare in un videogioco tutti i personaggi, le ambientazioni, i doppiatori e le musiche originali della tanto amata serie TV. A ogni sezione action seguiva infatti un’altrettanto estesa sezione di story-telling con grafica in tempo reale, che ripercorreva tutta la prima serie televisiva fino allo scontro con il titanico Raoul. E ai fan adoranti, tanto bastò per consacrare quel CD per PSone come il miglior tie-in di Hokuto mai realizzato. “Maledetto Kakaroth, sei sempre un passo avanti a me” Oggi, a quattro anni di distanza, sembra di rivedere lo stesso identico film. È cambiata la generazione hardware, cambia il protagonista del gioco, ma nuovamente mamma Bandai si scrolla di dosso l’etichetta di softco rovina-licenze per proporci un tiein che, seppur con qualche magagna, farà felice una buona fetta di pubblico giocante. Narrativamente Dragon Ball Z Budokai 3 copre tutta la seconda parte del manga, con Goku ormai guerriero adulto e in continua crescita grazie agli scontri con avversari sempre più potenti. Il piatto forte del gioco è infatti un goloso story mode che ripercorre le avventure di Vegeta e compagni, fondamentale per sbloccare nuovi personaggi giocabili nella modalità ‘duello’, per aumentare il proprio livello di potere, e per guadagnare soldi da investire in colpi speciali, in vendita nell’apposito bazar gestito dalla schizofrenica Lunch. A livello sensoriale l’intera esperienza si attesta su ottimi livelli: un gradevole cel-shading riproduce fedelmente un amplissimo parco personaggi, e le arene sono una replica commovente dei panorami più caratteristici del manga e della serie animata. Anche il sonoro strilla la sua importanza strategica, riproducendo tutti gli effetti di onde energetiche, teletrasporti e super-velocità che caratterizzavano gli episodi TV. Con una sorpresa nella lista dei collaboratori al soundtrack (vedi box). Tutte queste premesse non fanno altro che au

mentare le analogie tra il prodotto esaminato in apertura e quello sotto esame, analogie purtroppo riscontrabili anche alla voce gameplay. “Sento un’aura potentissima in avvicinamento” [1] È bene precisare che il voto assegnato, per i fan della saga di Toriyama, potrebbe addirittura valere una ‘A’. Tuttavia, per fare un buon picchiaduro, non bastano un nutrito ventaglio di personaggi selezionabili e un’iconografia fedele al manga di riferimento. Occorre fantasia nelle meccaniche, nei controlli, nelle soluzioni di combattimento concesse. Nel prodotto Bandai è invece sufficiente affidarsi a una singola tattica generale per vincere tutti gli incontri più avanzati: ingrandire l'aura, schivare/attaccare, ingrandire ulteriormente l'aura, trasformarsi in Super Saiyan/aumentare il proprio potere, schivare/attaccare, andare in modalità ultra, vincere con una supermossa. Inibendosi questa (intuitiva) strategia, battere avversari come Cell o Majin Bu sarebbe quasi impossibile. Questo buco di game design, condannabile a prescindere, è però paradossalmente coerente con le normali dinamiche dei duelli nel mondo di Dragon Ball, ed è per questo che il voto finale non va a punire oltremisura l’operato di Dimps, pregevole anche alla luce delle ragionevoli novità implementate in questo terzo episodio: inquadrature più cinematiche, nuove pirotecniche mosse in modalità ultra, ma soprattutto il teletrasporto, vera e propria counter difensiva. Ribadiamolo, l’acquisto è sostanzialmente obbligato per tutti gli estimatori della saga, considerando oltretutto la ridotta incidenza dei limiti di gameplay evidenziati qualora si intenda dedicarsi soprattutto al multiplayer.

VOTO:

SABCD

[1] Questa battuta viene pronunciata in continuazione dall’inizio della serie Z fino alla sua conclusione. Considerando la crescita esponenziale del potere di chi la pronuncia, e la persistenza della stessa nei dialoghi, qualcosa non torna. Poi capisci: suona come il “così bianco che più bianco non si può” del Dixan (o era il Dash?) che ci propinano da 25 anni a questa parte. Ora: se il bianco di 25 anni fa era così bianco che più bianco non si può, com’è possibile che ogni anno migliorino la qualità del bianco stesso medesimo? Poi capisci: anche il Dixan (o era il Dash?!?) è un detersivo che continua a superare il proprio livello di potenza. Per ora siamo arrivati a Bianco-Saiyan di 14° livello..

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SISTEMA PC SVILUPPATORE FIRAXIS ETICHETTA ATARI VERSIONE ITA MULTIPLAYER NO

TREASURE ISLAND? <sid meier’s pirates> di Lux

Q

uando lo sviluppo di un progetto coinvolge un centinaio di persone e si protrae per diversi anni tra imprevisti e contrattempi, ha veramente senso parlare del prodotto finito come della creazione di un singolo soggetto? Quei vecchi bucanieri del reparto marketing di Atari devono propendere per una risposta affermativa, vista la loro determinazione nell’issare, a mo’ di jolly roger, il nome del grande Sid Meier direttamente sull’albero più alto: il titolo del gioco. In Sid Meier’s Pirates! il giocatore ha la possibilità di vivere avventurose giornate da filibustiere, beandosi della notevole libertà decisionale concessagli e lasciandosi guidare unicamente dalla propria fame di gloria ed esplorazione. Esotica cornice degli avvenimenti è un Mar dei Caraibi conteso fra quattro potenze europee il cui unico scopo è di aggiudicarsi le migliori rotte commerciali ed il conseguente controllo sulla maggiore fetta di risorse locali. In un contesto di equilibri di forza mutevoli, il giocatore farà la parte dell’ago della bilancia, influendo decisivamente sull’esito dello scontro tra le bandiere in lotta. Lo sforzo necessario a garantire l’egemonia alla propria fazione e ad affermarsi come terrore dei sette mari, dipenderà in primis dal vessillo sotto cui si è scelto di iniziare a navigare. Questo perché i quattro soggetti belligeranti si differenziano essenzialmente per il grado di penetrazione sul territorio e per il controllo esercitato sui punti strategici della mappa.

La videata di gioco, pur presentando un pregevole livello di dettaglio, consente di tenere sotto controllo tutti gli accadimenti in corso nella mappa, e di pianificare col giusto anticipo eventuali cambi di rotta. Ereditata dall’illustre avo del 1987 una struttura di gioco semplice ed avvincente, SM’sP! mette subito in mostra i suoi lati migliori: iniziare a giocare è molto facile e immediatamente coinvolgente, grazie all’agilità con cui si avvicendano i tre momenti cardine del gameplay: navigazione, battaglia e gestione delle risorse previo sbarco cittadino. L’esplorazione navale, oltre a costituire il prevedibile cuore di un titolo ad ambientazione piratesca, si avvale della cura con cui meccaniche assodate sono ravvivate da invenzioni più moderne e originali. Errato sarebbe inquadrare la navigazione come una fase di transizione tra fasi di gioco più vero, magari esposta al rischio di tediosi incontri casuali in stile Final Fantasy. In Pirates! è il giocatore a incar-

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nare l’incontro casuale per la CPU. Raccolte le informazioni circa la rotta del cargo da assaltare, il novello Francis Drake pianifica il percorso ideale, individua il punto di abbordaggio e quindi passa all’azione, tenendo in debito conto alcune variabili fondamentali. Il successo di ogni arrembaggio è infatti subordinato all’adozione della più idonea tipologia di vele (la cui conformazione modifica la posizione da tenere rispetto alla direzione del vento), nonché al corretto sfruttamento delle correnti d’aria e delle tempeste. I fortunali, gradevolmente rappresentati sulla mappa, possono spingere la nave (o l’eventuale flotta) alla massima velocità a patto di riuscire a tenerseli a poppa, o altresì danneggiare le vele e lo scafo compromettendone le performance qualora raggiungano le imbarcazioni. Veleggiare per le acque dei Caraibi è un’esperienza così piacevole ed esotica che spesso ci si scopre impegnati in lunghe e rilassate circumnavigazioni, appagati dalla riproduzione grafica del moto ondoso e rapiti dai tanti piccoli particolari, come i delfini che seguono la scia delle navi, gli scogli e i promontori dall’aspetto fiabesco, o il canto festoso dei propri marinai. Autentica chicca: il cannocchiale in dotazione. La pressione prolungata del tasto destro del mouse trasforma il puntatore in una sorta di lente di ingrandimento, e aziona un azzeccato effetto slow motion che libera momentaneamente il giocatore dalle incombenze di timoniere. Il risultato è uno strumento che non solo appaga la voglia del giocatore di godere appieno della ricercata iconografia, ma al contempo presenta rilevanza ludica, consentendo l’avvistamento di navi nemiche altrimenti non visibili o lo screening dell’area di gioco alla ricerca dei punti di riferimento riportati nella laconica mappa del tesoro. Una volta agganciato un nemico ha inizio il combattimento, sia esso navale o terrestre. Sfortunatamente, la fasi di battaglia non sembrano aver beneficiato della medesima cura profusa nel progettare la navigazione, e risultano generalmente meno interessanti a causa dell’eccessiva elementarità delle meccaniche sottese. Questo comporta che ogni fase di scontro sia praticamente sempre risolvibile senza far ricorso ad un approccio strategico degno di questo nome. La battaglia navale “a cannonate”, per esempio, si riduce a poco più di una variante di Asteroids, con il giocatore impegnato nella manovra di avvicinamento amministrando la pesante inerzia del veliero e cercando di evitare i proiettili nemici. L’arrembaggio consiste invece in un intuitivo duello all’arma bianca contro il capitano avversario. Un maggiore svecchiamento di queste fasi sarebbe stato gradito. Avuta la meglio sul proprio rivale e raccolto il bottino, non resta che indirizzare la prua verso un porto amico ove riparare danni, vendere e acquistare risorse (siano esse navi, cibo o marinai) ed infine parlare con il governatore locale e con gli avventori dell’immancabile taverna per sbloccare nuove subquest. La natura di queste ultime spazia dal bellico (assalto ad un cargo/porto nemico) al mercantile (apertura di una nuova rotta commerciale con un porto lontano) fino all’avventuroso (sconfiggere un altro pirata, ritrovare un tesoro o un parente scomparso). In conclusione, la semplicità dell’impianto di gioco rappresenta allo stesso tempo il principale


MATER SEMPER CERTA EST, PATER NON SEMPER

L’essenzialità delle meccaniche su cui si imperniano gli scontri navali non garantisce il divertimento a medio/lungo termine.

È davvero credibile il contributo di un nome storico come Sid Meier allo sviluppo di un videogioco moderno? Oppure la citazione del grande game designer è da considerarsi un mero espediente di marketing per far abboccare i fan? Crediamo sia pacifica una riflessione sulle dinamiche fondanti dell’industria dei videogames che sottolinei quanto sia ormai distante la dimensione amatoriale e ampiamente mitizzata dei garage coder attivi negli anni ’70 e ’80. Riteniamo archiviato il contesto in cui un singolo soggetto poteva realizzare un gioco commerciale in perfetta solitudine, instillandovi la propria “visione” di game design e rivendicandone l’assoluta paternità. Crediamo sia altrettanto palese che in un contesto odierno caratterizzato da costi milionari, tempi di realizzazione pluriennali ed una gestione progettuale che richiede l’impiego di articolati team di professionisti, non sia più ipotizzabile un legame creatore-prodotto tanto stretto quanto poteva esserlo venti anni fa. SM’sP! sembra confermare tale scetticismo. Da un lato, infatti, ci ha piacevolmente sorpreso come il “nuovo” Pirates! tratteggi un’esperienza sostanzialmente rispettosa del gioco originale, cosa che sembrerebbe avallare l’ipotesi di un effettivo coinvolgimento in sede registica dell’autore. D’altro canto si riscontra altrettanto evidentemente una limitata carica innovatrice rispetto al titolo del 1987, nonché l’assenza dei perfetti equilibri che hanno sempre contraddistinto i grandi classici legati al nome Sid Meier. I dubbi sulla reale paternità dell’opera restano.

pregio e difetto del luna park caraibico allestito da Firaxis, che in un eccesso di severità qualcuno potrebbe definire uno screen saver di super lusso. La struttura modulare basata sull’alternanza di momenti-tipo, si dimostra in principio sufficientemente aperta da garantire humus fertile all’innesto delle mille subquest. Per contro, dopo una decina scarsa di ore, all’ennesima proposta ludica basata sulla ricombinazione degli elementi navigazione-battagliacittà l’interesse non può che andare a picco. In questo senso, sono di ben poco aiuto altre caratteristiche interessanti sulla carta ma ancora una volta poco approfondite, come i corteggiamenti in stile rhythm game e le infiltrazioni stealth in una città nemica. L’operazione di ammodernamento del classico Pirates! può dirsi solo parzialmente riuscita.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA XBOX SVILUPPATORE ODDWORLD INHABITANTS ETICHETTA EA VERSIONE USA MULTIPLAYER NO

QUALCOSA DI STRANO <oddworld: stranger’s wrath> di Nemesis Divina

Strano. Gli estremi, talvolta, coincidono. Lorne Lanning, Cofondatore, Presidente e Direttore Artistico di Oddworld Inhabitants, si è sempre distinto per il suo piglio polemico, insofferente verso le major e pronto alla bagarre dialettica. Non è nato per caso quel Abe’s Oddyssey che trascinava su PSone una pungente satira sociale, e che denunciava, con saporita allegoria, lo strapotere delle multinazionali e dei ricchi poli industriali che schiacciano, sfruttano ed infine mercificano i loro stessi lavoratori. Quel Lorne Lanning dal sorriso affilato, di chi la sa un po’ più lunga di te, e che davanti a un microfono non esita a scoccare strali propagandistici. E poi c’era il più acceso dei suoi rivali: Jason Rubin, ex-Presidente di Naughty Dog: capello corto, sorriso sbiancato a trentasei denti, abbronzatura da fotomodello. Gli estremi, talvolta, coincidono. Ed è così che Lanning, no-logo dell’industria digitale, trasloca gioiosamente sotto l’ala protettrice di Electronic Arts, la Nestlè del Videogioco, la madre di tutti i loghi. E Rubin, in apparenza poco più che un belloccio da copertina, abbandona uno dei fidati second party di Sony, lanciandosi nell’avventura dello sviluppo indipendente in un momento economico che davvero non gradisce i pesci piccoli. Parallelamente, e qui si comincia a parlare di Oddworld: Stranger’s Wrath, Lorne vira tanto il suo orientamento politico quanto la propria visione del ‘far gioco’. Ben lontano dal concept enigmistico e sagace dei precedenti Oddworld, oggi plasma un prodotto teso all’azione pura, seppur graziata da varianti di certo interesse. Eppure, dove Lanning spergiurava come i proiettili viventi fossero solo ‘una delle tante innovazioni presenti’, si scopre che è comunque l’unica novità rilevante. Ma neanche troppo.

Riscuotendo tutte le taglie disponibili in ogni nucleo cittadino, Stranger si guadagna l’accesso a nuove città con relativi ‘poco di buono’ da sistemare. Il Cattivone Numero Uno compare solo alla fine, il resto sono schermaglie prive di buone ragioni narrative, che proprio per questa ragione coinvolgono solo in parte.

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E gli estremi si toccano ancora: il contesto tecnico/scenografico che ospita questa nuova interazione dell’Oddworld annovera diverse analogie con quel Jak & Daxter del summenzionato Rubin. Streaming dei dati, orizzonti obesi, mondo liberamente esplorabile. Ma è nel mood di gioco, spensierato e frenetico, che si ritrova l’impronta commerciale distintiva dei prodotti Naughty Dog. Persino la presenza dello spin attack, figlio di quel Crash Bandicoot e replicato da Jak, pare una citazione dal lavoro di Rubin. Estraneo alle pretese satiriche dei primi episodi, Oddworld: SW procede con fare distruttivo vagamente immotivato, sebbene i cattivi siano effettivamente tali e, dunque, passibili di giusta morte. La trama accenna al tema della diversità, ma tutto passa in secondo piano a favore del sistematico smantellamento delle postazioni nemiche, l’abbattimento di boss più o meno coriacei, la scoperta di questa o quella variante del proprio arsenale, via via sino al pirotecnico finale, senza che il cervello s’ammazzi di fatica, senza che il cuore consumi ingranaggi emotivi.

Ma non va letta come menomazione, questa mancanza di un più alto uso delle potenzialità espressive del videogioco: solo non aspettatevi la sottile ironia/critica/poesia dei primi episodi. Oddworld: SW è un prodotto che lavora di grilletto e punta al quid più immediato e viscerale del videogaming. Inteso questo episodio come lo spinoff che è, tutto scorre più coeso, benché senza sussulti eclatanti. Indubbiamente, con questo titolo, il team di Oddworld Inhabitants raggiunge la maturità tridimensionale, che tanto latitava nel maldestro Munch’s Oddyssey. Le tre dimensioni non sono più


un surplus ingombrante, ma uno strumento ludico e una forma naturale dello Stranomondo. Stranger, il protagonista, si lascia condurre con dolcezza e reattività, assecondando i morbidi tocchi sullo stick e reagendo con prontezza ai cambi di inquadratura, delegati allo stick sinistro o efficacemente gestiti in automatico. L’azione scorre fluida, senza che il codice ceda mai alle esose richieste della materia poligonale a video, negando l’imputazione di ogni prematura dipartita ad eventuali inciampi tecnologici. Anche il lavoro di finitura sui controlli è esemplare: benché concepito come action in prima persona, Oddworld: SW ingrana la terza con un’intuitiva pressione di stick. La deambulazione con ripresa di spalle comporta l’ampliamento della visione delle pertinenze di gioco, una superiore cognizione delle minacce nei paraggi, una più diretta trasmissione del senso di movimento, la messa in risalto delle vie di fuga e dei rifugi dove recuperare energia. La terza persona, poi, veste con precisione elementari fasi platform, inibendo però l’uso delle armi a lunga gittata e imponendo l’uso delle sole tecniche corpo a corpo.

Da questa stessa visuale si attiva inoltre la modalità ‘tour’: muovendo poche falcate con lo stick alla sua massima inclinazione, Stranger prende a correre a quattro zampe consentendo la copertura di lunghe distanze in pochi secondi. Inaugurata da Tranformers, questa soluzione accorcia l’andirivieni fra gli stage; tuttavia, diversamente che nel gioco di Melbourne House, Oddworld: SW non offre battaglie campali o inseguimenti mozzafiato attraverso le sue pur ampie distese erbose. Quasi un’abilità inutile, non fosse che sconfitto un boss, il ritorno alla città/hub sia generalmente lungo e altrimenti tedioso. Inoltre

non esistono obiettivi secondari che motivino la retroesplorazione di zone già ripulite, dunque poco importa il potersi muovere con agilità fra mappe ormai morte. È comunque nella soggettiva che il gioco vive per la maggior parte dell’esperienza, mettendo in luce la peculiarità di design che lo contraddistingue: i proiettili viventi. Sono scoiattoli, puzzole, bestiole litigiose o placidi insettoni elettrici, tutti ben caratterizzati e superbamente doppiati nel loro buffo copione di versi e incitazioni alla battaglia. Otto tipologie di fuoco incarnate da altrettante specie animali, potenziabili ad un livello superiore che ne amplifica, senza stravolgerne, le proprietà. A differenza di quanto era lecito aspettarsi, però, i bioproiettili risultano sottosfruttati: dove la combinazione di animaletti differenti poteva incoraggiare una ragionata risoluzione degli scontri, ci si trova più spesso a sparare a zero, ricorrendo raramente e senza esito decisivo alle tecniche non letali (il gas stordente della puzzola, il richiamo dello scoiattolo…) cui spetterebbe invece il ruolo di diversivo e ispessimento dello shooting brado. Questo nelle ricorrenti situazioni ad alto tasso di piombo. Quando la superiorità numerica del nemico viene meno si possono invece adottare strategie più pacate, tese alla cattura piuttosto che all’eliminazione. In qualità di cacciatore di taglie, Stranger può procedere a un’aspirazione degli avversari a mo’ di anime di Onimusha o Soul Reaver. L’assimilazione di un avversario stordito (dunque vivo) è più lenta rispetto al recupero di un cadavere, ma nel pieno rispetto della tradizione del Dead or Alive, una preda viva rende di più. Purtroppo, un altro potenziale stimolante del ritmo di gioco e della materia grigia si accoda alla lista delle idee parzialmente inespresse, dal momento che a fronte della scarsa offerta di potenziamenti acquistabili capita assai di rado di restare al verde. Perché, dunque, arrischiarsi a stordire i tapini, anziché imbottirli di sano e rapido piombo? Lanning nicchia e non risponde.

I proiettili viventi sono i protagonisti morali del gioco. Sulla balestra è possibile posizionare due tipologie di animali, i cui effetti e tempi di ricarica variano da specie a specie. Come in Halo 2 è dunque auspicabile una buona accoppiata di munizionamenti. Peccato solo che la sostituzione dei proiettili avvenga via menu, appesantendo il ritmo di gioco.

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SPEAKIN’ ODD

Il lavoro di doppiaggio svolto per Oddworld: SW è letteralmente mastodontico. Non tanto per il numero di linee registrate, quanto per la qualità della recitazione delle stesse, specie in considerazione del fatto che sono tutte opera della stessa persona: manco a dirlo, Lorne Lanning. Un’interpretazione magistrale che stupisce per versatilità e varietà di intonazioni (sebbene i filtri vocali abbondino). Nella speranza che il doppiaggio italiano suoni bene almeno la metà di questo…

La rivalità Lanning/Rubin nasce e cresce nel periodo immediatamente successivo al lancio di PS2. Rubin si pone subito a fiero difensore ed esaltatore della macchina Sony, assicurando la qualità dei risultati tecnici ottenibili. Da parte sua, gli strali di Lanning all’indirizzo della console verticale culminano nel trasferimento del progetto Munch’s Oddyssey (secondo capitolo della maxi saga oddworldiana) su Xbox, unica piattaforma ritenuta in grado di farlo girare. Rubin attacca esplicitamente la scarsa esperienza di Inhabitants in ambiente 3D ed elargisce promesse che effettivamente manterrà con Jak & Daxter. Di suo, Lanning sforna un gioco deludente, tanto sotto i profilo ludico che quello tecnico, dando insitamente ragione a quelli che, a tutta prima, parevano solo strilli propagandistici di uno stipendiato Sony. Con Oddworld: Starnger’s Wrath, Lanning rialza finalmente la testa (laddove Rubin l’ha abbassata con JakII…).

THE ART OF…

La saga di Oddworld si è sempre mossa un poco oltre il videogioco. Al di là degli intenti sociali, all’inno alla libertà e alla dignità dell’individuo, il lavoro artistico dietro la serie è sempre stato enorme e valido. Oggi, il materiale visivo che ha costituito le fondamenta dei quattro titoli sinora pubblicati, trova una veste elegante nel volume The Art of Oddworld Inhabitants: The First Ten Years 1994 – 2004. Una panoramica completa ed esaustiva sui vari processi produttivi, con note a margine e centinaia di illustrazioni, frame dai FMV e screenshot di rilievo. Il libro è edito in Australia, da http://www.ballisticpublishing.com, ma è disponibile anche presso importatori europei e americani.

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Delude infine il climax che precede l’epilogo, il quale richiama la rocambolesca fuga finale del primo Halo senza tuttavia restituirne il coinvolgimento. Una corsa a rotta di collo fra strutture collassanti, fuoco nemico incessante e ostacoli da schivare, ma dopo l’esaltazione e l’ansia dei primi tentativi, la testa cala sconfortata fra le spalle, oberata da richieste di precisione chirurgica e da nessuna concessione all’utente frustrato (ad esempio sfoltendo qualche nemico ad ogni nuovo tentativo). Davvero un delitto di design, perpetrato dove fa più male, ossia alla fine, con il giocatore che, uno per uno, maledice tutti i beta tester nominati nei titoli di coda… Senza dubbio, Oddworld: SW riserva ottimi momenti, scorci visivi fra i più fotogenici su Xbox, un mondo affascinante e graditi tocchi di classe. Eppure, a fronte dei lodevoli progressi in ambito tridimensionale e delle buone intuizioni del team Inhabitants, qualcosa manca. Al carismatico protagonista si contrappone una marmaglia di boss zotici un po’ tutti uguali e dai pattern mai entusiasmanti; all’originalità dell’armamento male si abbina la scarsa varietà di applicazioni possibili; al mondo ricco e originale si specchia una trama vuota, frammentata e poco appagante. Alla fine, come insegna Jason Rubin, tutto sta nel bicchiere. E qui, il bicchiere è mezzo vuoto.

VOTO:

SABCD


SISTEMA GC VERSIONE PAL SVILUPPATORE RETRO STUDIOS ETICHETTA NINTENDO MULTIPLAYER 1-4 S.C.

RETRO GONE PRIME<metroid prime 2: echoes> di Federico Res L’impatto con Echoes è spiazzante. L’universo di Samus Aran comincia ad essere osservato attraverso occhi estranei: Echoes segna l’apertura della serie a quelle istanze cinematografiche tanto care al VG contemporaneo, mettendo in campo velleità narrative che mal si adattano al feeling peculiare della serie. Parallelamente, un soundtrack per la prima volta sottotono e un impatto grafico che troppo deve al primo MP, segnano il peggior preludio possibile per un episodio di Metroid... Ma il preludio di un’opera difficilmente ne ritrae l’autentico valore. E bastano poche ore per rendersi conto che, dopo quasi vent’anni, Metroid è ancora Metroid. Quando la delusione per il mancato aggiornamento tecnico cede allo stupore per l’altissima iconografia, quando flashback e cut scene lasciano il passo al solo visore di Samus, quando l’ambient music di Kenji Yamamoto ritorna ai fasti di un tempo (citando perfino il brano abbinato ai Maridia in Super Metroid), quando tutto ciò accade, staccarsi dallo schermo non è più un’opzione contemplata. Perché il fascino è l’unicità della serie scorrono in Echoes come nel suo diretto predecessore. E sebbene la formula di gioco non sia più fresca, sebbene MP2 non emerga dal limbo del more of the same, ma anzi soffra i limiti di un gameplay a rischio d’obsolescenza, il suo DNA è sempre in grado di offrire quelle emozioni per cui ancora oggi migliaia di fan venerano la Cacciatrice e le sue avventure... L’aspetto che più stupisce di Echoes è la concezione estetico-architettonica dei suoi mondi virtuali. Chi ha avuto modo di sperimentare la magnificenza delle Chozo Ruins ha un’idea di cosa lo aspetti in Echoes: senza giri di parole, uno dei più eccezionali capolavori di level design che il VG ricordi. V’è del genio, dell’assoluta eccellenza nel modo in cui gli artisti di Retro Studios disegnano e trasportano su schermo i panorami alieni di Agon, le umide paludi di Torvus o gli anfratti ipertecnologici della Fortezza del Cielo. In Echoes non c’è traccia di bump mapping, ma ogni sua più piccola cavità sembra “pulsare” di vera vita. Spiare i mille meccanismi lucenti e brulicanti incastonati nelle pareti della Fortezza lascia basiti. Ammirare le costruzioni asimmetriche, la compenetrazione di tecnologia e natura, gli annichilenti spazi aperti di Agon è quasi un’esperienza mistica, oltre che una minaccia all’integrità delle propria mandibola. Quando si va a scrutare da vicino i tanti strati di pietra scolpita, ferro battuto (!), legno intagliato e quant’altro sia riprodotto ad arte dal team texano, si scopre un crogiolo di tecniche e stili artistici che si fondono e si compenetrano dando vita all’universo alieno più bello (nonché architettonicamente credibile) che mente umana ricordi. Unica nota di rammarico va alle texture in low res inspiegabilmente poste a rappresentare alcuni panorami. Ubriachi della bellezza di Aether, imbattersi in scorci fissi e impastati dalla bassa risoluzione è l’equivalente emotivo di una randellata sui denti. Fortunatamente accade di rado, e lo shock si supera presto, ma il perché di tale scempio resta un mistero... Al di là dello splendore estetico, il level design si conferma eccellente per la sua estrema funzionalità al gameplay. I presupposti di Echoes sono i medesimi del predecessore: la concezione dei livelli

Sebbene nessuna testata specialistica ne abbia parlato, alla prova dei fatti il lock-on di MP2 dimostra un’occasionale imprecisione che può incidere negativamente sull’esito degli scontri a fuoco. Considerata l’importanza del prodotto e l’assenza di tale difetto in Metroid Prime, vien da riflettere sulla sempre meno rigorosa fase di testing a cui Nintendo sottopone i suoi prodotti...

prevede varie letture di ogni “stanza”, che si rendono possibili con la graduale acquisizione dei vari item. Ogni anfratto del gioco, come da tradizione, offre percorsi molteplici che premiano e gratificano con oggetti e locazioni inedite ogni qualvolta si trovi il modo giusto per superarli, sia esso un tunnel da percorrere in modalità morfosfera o una serie di ganci sul soffitto cui appendersi con il raggio gancio. Tutto questo è accademia. Ma Echoes supera il diretto precursore (e per certi versi anche gli avi bidimensionali) grazie ad una distribuzione più intelligente dei potenziamenti, atta a scongiurare interminabili peregrinazioni da un capo all’altro della mappa di gioco. Salvo alcune eccezioni quel che serve per continuare, in Echoes, si trova sempre nelle vicinanze del prossimo obiettivo. Ciò non si traduce in un’alterazione ai canoni della saga, nell’eliminazione del backtracking, ma nella riduzione sensibile dei suoi inutili eccessi. Ci si ritrova ancora a tornare varie volte sui propri passi, ma questa volta lo si fa non per recuperare artefatti utili dalla parte opposta del pianeta, ma certi di seguire (quasi) sempre un percorso rivolto ad un reale progresso. Come al solito, la progressiva dominazione sul mondo di Aether si attua nell’uso delle abilità di Samus. Ad item classici rimasti immutati (Raggio Ricarica, Visore Combat, Astrosalto) si affiancano abilità nuove (Visore Echo, Visore Dark) o riprese dagli episodi passati (Screw Attack), nonché una versione riveduta e corretta del Visore Scan (ora in grado di mostrare in tre colori diversi – rosso blu e verde – oggetti ed elementi ambientali, informando immediatamente sulla necessità/utilità di eseguire ogni nuova scansione). Aggiunte e modifiche che, se nel caso del Visore Scan portano grossi benefici al gameplay, per oggetti quali il Visore Echo o lo Screw Attack tradiscono un lavoro di pianificazione poco accurato. Sebbene entrambi gli oggetti siano realizzati alla perfezione, il loro impiego è limitato a pochi momenti cruciali, sul finale dell’avventura, e al rinvenimento di alcuni potenziamenti di importanza secondaria. Peccato. Ma la novità maggiore di MP2 è quella “dimen-

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dimensione parallela” più volte annunciata in sede di press release. “Aether Oscuro”, costituendo circa il quaranta per cento dell’estensione totale del gioco, si compone di locazioni speculari alla sua controparte “luminosa”, sapientemente distorti nella morfologia e nell’impatto estetico. Sebbene il suo funzionamento sia analogo a quello dei mondi alternativi già presenti in Link to the Past e Soul Reaver, e il suo apporto diversificante all’esperienza ludica non sia irresistibile, Aether Oscuro rende più affascinante l’esplorazione ed offre momenti di riflessione senza dubbio più profondi di quanto sperimentato nel prequel. Purtroppo l’idea alla base delle “bolle di luce”, le zone franche attraverso cui è necessario muoversi affinché l’aria velenosa di Aether Oscuro non danneggi Samus, è mal concretizzata. Se all’inizio del gioco spostarsi da una bolla all’altra aggiunge pepe e strategia agli scontri, considerata l’energia persa tra uno spostamento e l’altro, con l’acquisizione degli item necessari a proteggersi dall’aria malsana la situazione si ribalta. Le bolle di luce ricaricano incessantemente l’energia, che i già fiacchi attacchi dei nemici non sembrano in grado di minacciare seriamente: questo è uno dei difetti maggiori di Echoes, la facilità. Facilità che si accompagna, purtroppo, a dinamiche di battaglia oramai obsolete... Metroid non è mai stato uno shooter, non c’era motivo di aspettarsi che Echoes spezzasse la tradizione inseguendo le gesta di Master Chief e compagni. Ma è pur vero che il peso lordo dei combattimenti ha sempre rivestito una certa importanza nell’alchimia metroidiana, non solo per ciò che concerne i boss. Eppure le fasi di combattimento tra un boss-fight e l’altro, in Echoes come nel prequel, non brillano per dinamicità ed inventiva. Il sistema di controllo non costituisce in sé un ostacolo al particolare ritmo degli scontri, né il (comunque tutt’altro che ben ritrovato) respawn dei nemici è primo responsabile della ripetitività dell’azione: da un lato le dimensioni ridotte degli ambienti riducono le esigenze di mobilità comuni a molti giochi in prima persona, dall’altro un efficace script di aggiornamento dei nemici, unito ad una progettazione dei livelli che non costringe quasi mai allo scontro, fa sì che il continuo approvvigionamento di nemici non infastidisca come in passato. Il problema di fondo sta nel puro e semplice enemy design. Dispiace ritrovare in Echoes insipide meccaniche basate sul semplice aggiramento dei nemici volto alla ricerca dei loro punti deboli, o momenti in cui non si ha altro da fare che caricare il charge beam e attendere il palesarsi del nemico per rilasciare il colpo. L’uso dei due beam di polarità opposta (Raggio Luce e Raggio Oscurità), con le loro scorte limitate di munizioni, pur introducendo un elemento strategico non aggiunge valore ludico agli scontri. L’arma bianca è efficace su Aether Oscuro, l’arma nera su Aether “luminoso”, ma quasi mai si ha necessità di utilizzarle insieme in un unico scontro. Discorso simile per molti degli item inediti, come il seeker launcher (che permette di sparare in un colpo solo cinque homing missile diretti a cinque bersagli diversi), indispensabile per aprire alcune porte ma inutile in battaglia, o il Raggio Eclissi, anch’esso essenziale per l’apertura di taluni passaggi ma ininfluente durante gli scontri. In materia di boss, d’altro canto, Echoes non delude. Il numero degli antagonisti eccellenti risulta sensibilmente aumentato (ora ve ne sono circa quindici), e l’inventiva alla base della loro concezione diverte e appaga quanto in passato. La riduzione del livello di sfida (un giocatore smaliziato vincerà

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la maggior parte degli scontri al primo tentativo) rende giocoforza meno gratificanti le vittorie, ma trovarsi di fronte a capolavori di enemy design quali Anophelia, Amorbis, il colossale Quadraxis o il cervellotico guardiano della morfosfera è un’esperienza difficilmente dimenticabile. Oltre ad un maggior sfruttamento della morfosfera e dei suoi upgrade, il boss design di Echoes si distingue per una minore complessità concettuale, quando le meccaniche chiamano in causa solo alcune delle abilità di Samus, ma anche per l’assenza del senso di frustrazione che pervadeva alcuni degli scontri del prequel. Deludente, infine, il boss-doppelganger identificato come Samus Oscura: antagonista totalmente privo di carisma, sia a livello di narrazione sia per quanto riguarda il contenuto ludico dei tre scontri dei quali è primo attore. Un peccato: la “X-Samus” di Metroid Fusion era di ben altra pasta... Metroid Prime 2: Echoes è un imperituro monumento di game design, ma al tempo stesso un raffinato esempio di more of the same. Ci si aspettava che Nintendo svecchiasse il concept limando le imperfezioni e gli anacronismi che la serie ha palesato nel passaggio dalle due alle tre dimensioni, ma tali attese sono state ripagate solo in parte. Il level design ha guadagnato in profondità strutturale e bellezza estetica, il backtracking ha perso pretestuosità e ottenuto un senso in più in virtù di Aether Oscuro; parallelamente, la narrazione non si è evoluta (se si escludono gli “scivoloni” della prima parte del gioco), i combattimenti ordinari non hanno acquisito spessore e i nuovi item, pur ottimamente concepiti, non hanno trovato un impiego all’altezza delle loro possibilità. Ciononostante, Metroid Prime 2: Echoes è uno dei più grandi esempi di game e level design che questa generazione ricordi. Non solo per le motivazioni ludiche/estetiche già esposte, ma per questioni inerenti il lato prettamente tecnico del game design. Il modo migliore per superare un ostacolo non è tentare di scavalcarlo, ma aggirarlo: Retro Studios ha fornito la prova più eccezionale di come i limiti hardware possano essere aggirati affinché le volontà espressive degli artisti non debbano scendere a compromessi. Echoes è spettacolo da vedere e da giocare, e questo non lo si deve né ad un motore grafico ultra-pompato né a tecniche “alternative” come quella del cel shading. E allora in alto i power beam, in onore di Samus Aran e dei suoi nuovi “genitori”...

VOTO:

SABCD


SISTEMA PS2, XBOX, GC VERSIONE PAL SVILUPPATORE SWINGIN’ APE STUDIOS ETICHETTA SIERRA MULTIPLAYER 1-4 ANNO 2003

ROCK’n ROLL ROBOT!<metal arms: glitch in the system> di Federico Res

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etal Arms è una sorta di “corollario” alla storia degli action game destinato – pare – a restare ignoto ai più. Pubblicato circa un anno fa, adombrato da blasoni quali Ratchet & Clank 2 o Jak II e non supportato da una efficace campagna promozionale, il titolo di Sierra ha marcato presenza su ognuna delle attuali console a 128 bit senza lasciare il segno su nessuna di esse. Eppure nei suoi 42 livelli c’è passione, inventiva, originalità e ironia, c’è un piccolo grande manuale di game design che aspetta soltanto di essere sfogliato. Il robottino Glitch, dimentico del proprio passato per via di una non meglio specificata amnesia robotica, si trova coinvolto nella lotta dei ribelli di Stella di Ferro contro il regime tirannico instaurato dal Generale Corrosive, un droide tanto letale quanto furbo. Il suo ruolo è presto chiaro: unirsi ai ribelli, imparare a combattere (magari diventando il droide-soldato più eroico di sempre) e smantellare a furia di raffiche di plasma e cariche di carotaggio la crapa metallica del colossale Corrosive... Metal Arms non è un ibrido, sebbene custodisca al suo interno tonnellate di piattaforme (peraltro ingegnosamente disposte). Metal Arms è uno sparatutto, violento, aggressivo, ostico a ognuno dei quattro livelli di difficoltà (il primo, tutt’altro che “easy”, è un ottimo punto di partenza per i giocatori meno avvezzi al genere). Uno sparatutto al tritolo: comandi in stile FPS, con entrambe le leve analogiche chiamate a muovere l’avatar e ad indirizzarne i colpi, e i tasti dorsali a fare da grilletti per le oltre quindici armi disponibili. Telecamera, ovviamente, incassata alle spalle del piccolo protagonista. Tutto intorno centinaia di bot nemici che vomitano piombo, corrono ai ripari ed eventualmente saltano in aria in gioiose deflagrazioni di rondelle e bulloni. L’armamentario si rivela subito molto ampio, annoverando fucili laser, mitragliatori, lanciarazzi e una larga serie di smart bomb e accrocchi tecnologici (come il mirino telescopico o il “guinzaglio”), ma è la sua capacità di evolvere grazie a semplici upgrade, recuperabili in giro o presso appositi punti vendita, a lasciare un sorriso di compiacimento sul volto di chi gioca. Un semplice sparachiodi, opportunamente potenziato, acquista la capacità di sparare punteruoli esplosivi da conficcare nelle carni metalliche dei nemici. Il già temibile lanciarazzi, upgradato al suo terzo livello, erutterà in un colpo solo quattro missili a ricerca più un poderoso razzo centrale. Quel che più sorprende è il certosino bilanciamento in prospettiva del quale Swinging Ape Studios ha progettato ogni arma: non c’è fucile o granata che non trovi il suo impiego, non c’è situazione bellica che non richieda il ricorso strategico a tutti i pezzi d’artiglieria nella saccoccia di zinco di Glitch. Una tale potenza di fuoco non potrebbe esprimersi appieno senza un robusto enemy design e una intelligente progettazione dei livelli. Fortunatamente, Metal Arms incorpora esempi eccellenti in entrambi i campi. Se l’IA avversaria dà talvolta segni di ebetismo, con bot che dando le spalle a Glitch non si accorgono del suo roboante incedere su pavimenti metallici, è innegabile che tali disfunzioni rispondano a precise scelte di game design piuttosto che a sviste di programmazione. Metal Arms concede infatti largo spazio alla pianificazione di condotte belliche personalizzate. Un gruppo di Grunt avvistato da un’altura diventa facile bersaglio di lanciarazzi e smart bomb, da vomitare in sicurezza senza timore d’essere scorti. Nulla vieta però di compiere un balzo, atterrare alle spalle dei nemici e scatenare una carneficina in puro stile Rambo. Il droide ai comandi di una torretta nemica, qualche centinaio di metri più in là, sarà facilmente vaporizzato dalla combo lanciarazzi+mirino telescopico; tuttavia, un’incursione all’

Oltre al single player, Metal Arms propone una sezione multigiocatore forte di numerose arene dedicate (sbloccabili racimolando particolari “chip” nella Campagna), nonché suddivisa in modalità classiche (“Rissa tra bot”) e modellate su alcune particolari abilità di Glitch (“Mischia di possesso”). Sono tutte giocabili anche in singolo, un plusvalore non da poco per chi sa profilarsi una fruizione 1 player only.

ombra delle trincee seguita dal lancio di una granata non sarà meno letale. E così via: l’intelligenza artificiale sacrifica qualcosa in termini di credibilità per consentire di giocare nel modo che si preferisce. Tuttavia, non per questo i nemici lesinano in vivide iniziative di strategia e amor proprio (cercare un riparo, aggirare il giocatore o rispedire a calci una granata inesplosa), che anzi tendono a farsi via via più sottili. Il level design vede Glitch attraversare miniere sotterranee, deserti popolati da Mil (i soldati-robot agli ordini di Corrosive) erranti, appostamenti nemici ed enormi città: ognuna di queste ambientazioni non stupisce sotto il profilo estetico, ma gratifica sotto quello strutturale. A labirinti e sezioni più lineari si avvicendano arene e spazi aperti. A scontri contro boss di taglia più o meno oversize (ostici ed esaltanti da sconfiggere) si susseguono vere e proprie sezioni di corsa o ai comandi di mezzi corazzati, quali navette volanti o micidiali carri armati. La varietà non manca, ma è l’assoluta bontà di ogni singolo momento a stregare l’appassionato di shooter e ubriacare l’utente a digiuno di action game. Metal Arms si fregia di una eccellente localizzazione italiana. La folle collezione di personaggi trova nel doppiaggio diretto da Viviana Guglielmi una deliziosa serie di voci, ciascuna con la propria intonazione e il proprio timbro, affettati a dovere per ripassare il colore di ogni personalità in scena. Il lavoro svolto sui testi è ugualmente eccellente: l’ironia dello script originale è mantenuta grazie a un’intelligente traduzione, che nonostante qualche “sedere di latta”, “rottura di coglioni” o “droide del cazzo” (ovattati però dal classico BIP), non scade mai nella volgarità. Inspiegabilmente la versione GameCube è priva di traduzione e doppiaggio: chi avesse problemi con l’inglese, o non volesse perdersi l’ottimo adattamento italiano, dovrebbe ovviamente rivolgersi alle versioni per Xbox e PS2. C’è un lavoro sopraffino, dietro lo chassis cromato di Glitch. Il lavoro di un team talentuoso, che certo meriterebbe tanta attenzione in più: al giocatore giusto, in grado di comprendere e apprezzare l’opera di valore, il compito di giocare Metal Arms e decantarne le lodi ai propri compagni di giochi...

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CAPITOLO 1

di Gianluca “Sator” Belvisi IERI 1982 All’improvviso pensai che qualcosa stesse per cambiare. Quel… – non sapevo ancora come chiamarlo – quel dispositivo si trovava a pochi metri da me, luminoso. Avevo otto anni. Mi avvicinai con cautela e, in punta di piedi, scrutai dentro il grande occhio squadrato di quella meraviglia tecnologica. Vidi un’imponente catena montuosa sotto un cielo nero alieno. Vidi un veicolo a sei ruote percorrere un accidentato terreno rossastro con la naturalezza di un ferro da stiro su una camicia. Mi sentii Alice davanti allo specchio, e Dio sa quanto ne avessi avuto bisogno, in quei giorni, di uno specchio dentro cui perdermi. Figlio unico, i miei genitori erano sempre una stanza più in là di dove mi trovavo io. Così impegnati nell’ignorarsi a vicenda che si dimenticarono di insegnarmi come trovare degli amici. Stavo quasi sempre da solo, anche se ogni tanto Donkey veniva a farmi visita. Trascorrevo le giornate a leggere fumetti e a vedere i cartoni in tv. A volte rimanevo in silenzio per così a lungo che una crosticina di saliva mi sigillava le labbra. I momenti più felici della mia infanzia li ho trascorsi con mio nonno, un signore molto anziano ma ancora in gamba. Veniva a prendermi con la sua vecchia lambretta scalcagnata, la vernice impreziosita da venature di ruggine, il sedile in finta pelle con vere screpolature e una natica deformata da un marciapiede troppo alto. Insieme andavamo in un sacco di posti bellissimi. Il mio preferito era la casa del popolo. Là mio nonno iniziava interminabili partite a tresette, beveva vino rosso e parlava male del governo. Io ne approfittavo per esplorare l’edificio. Fingevo di essere un agente segreto all’interno della fortezza dei cattivi, e le numerose fotografie di uomini baffuti, appese ai muri della casa del popolo, contribuivano molto all’immedesimazione. Fu durante una di queste operazioni di spionaggio che mi avventurai in una stanza fumosa e lo vidi. Moon Patrol. Che nome stupendo! Capii subito che la levetta e i due pulsanti servivano a comandare quel portentoso veicolo lunare, ed ero abbastanza grandicello per sapere che una simile esperienza non sarebbe stata gratuita. Guardai in basso e notai due buchette per le monete. Recavano la scritta: 2x100. Duecento lire. Ammazza quanti soldi! Tornai di corsa al tavolo del tresette e feci pat-pat sulla spalla di mio nonno. Questi, dall’espressione timida ma decisa del mio volto, capì che doveva seguirmi. Lo condussi al cospetto di Moon Patrol. Mio nonno lo osservò attentamente. Vide che si trovava vicino ai flipper, perciò intuì che doveva trattarsi di qualcosa di analogo, solo più avveniristico. Lesse l’importo da inserire: 2x100. Svuotò il portamonete sulla sua manona ma ne uscì solamente una monetina da 200 lire. Andò al bancone del bar per cambiarla con due pezzi da cento. Io stavo già esultando per l’epifania che stava per compiersi: presto avrei esplorato la Luna!

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(Anche se la Luna mica era rossa.) Mio nonno fece ritorno, si inginocchiò, inserì una moneta nella fessura di sinistra, l’altra in quella di destra, si rialzò, premette qualche bottone ma… non accadde niente. Capii allora che le monete dovevano essere inserite nello stesso foro. Lo feci presente a mio nonno: questi rimase un attimo in silenzio, poi strinse le spalle e mi disse che la prossima volta avrebbe portato altri spiccioli. Quindi tornò al tavolo del tresette. Non potevo crederci. La prossima volta… e quando? Come faceva mio nonno a non capire? Io non potevo attendere una prossima volta: lo dovevo provare subito Moon Patrol! Mi feci coraggio e raggiunsi il tavolo da gioco con l’intenzione di domandare molto educatamente se uno di quei signori avesse cento lire da regalarmi. Mi bastava un misero pezzo da cento! Nessuno negherebbe una monetina ad un bimbo così silenzioso! Ma prima di poter formulare la mia richiesta, mio nonno pronunciò delle parole che mi ancora mi tormentano… «Accuso napoletana a fiori e tre assi mancante picche.» Le bestemmie che fecero seguito a quella frase sibillina chetarono ogni mio tentativo di elemosina. Avevo pensato che qualcosa stesse per cambiare, e invece non cambiò un bel nulla. Fu allora che cominciai a progettare l’eliminazione di mio nonno. DAL PROFEZIARIO

OGGI 2005 Il neon singhiozzò un poco, prima di accendersi. L’uomo con i gradi di Generale dette un’ultima scorsa agli appunti, fece la conchetta con la mano per controllarsi l’alito e attese i primi commenti da parte dei convocati, che non tardarono ad arrivare. «Posso sapere per quale motivo ci troviamo nella war room del Dottor Stranamore?» chiese una voce maschile. «Già, e io posso sapere dove cavolo è Peter Sell…» aggiunse una voce femminile, interrotta da un nervoso: «Chi siete? Perché ci avete condotti in questo posto?» «La mia testa! La mia preziosissima testa!» disse una quarta dolorante voce. L’illuminazione ormai a regime rivelava una sala grande, grigia, priva di finestre. I muri erano ricoperti da monitor, mappe e orologi dai diversi fusi orari. Un ampio neon circolare scendeva dal soffitto fino quasi a toccare un tavolo di pari diametro. Quattro persone sedevano su sgabelli posti in modo che dessero le spalle all’uscita. «Signori, vi prego di non allarmarvi» disse una quinta persona sistemata alla parte opposta del tavolo. «Sono il Generale Nick Fury, direttore dello S.H.I.E.L.D. C’è un’ottima ragione per cui vi trovate qui e ne sarete subito informati. Tuttavia, prima di iniziare con le spiegazioni, gradirei che ognuno di voi si presentasse.» Vi fu qualche istante di scettico silenzio. «Che faccio, comincio io? Mi chiamo Alessandra C e sono una scrittrice donna: anche se mi rendo conto che possa sembrare assurdo.» «Sono Nemesis Divina, redattore di una rivista di videogiochi geniale, alternativa, rivoluzionaria. Si chiama Gameplus.» «Jason Rubin. Game designer.» «Shigeru Miyamoto… uh… Scorpione!» «Perfetto. Vi ringrazio di aver accettato quello che, per ragioni di sicurezza, è stato un invito alquanto vago» disse Fury. «Invito?!» protestò Jason Rubin. «Volete dire che sono stato l’unico ad essere preso a manganellate in testa, infilato in un sacco e riempito di pizzicotti lungo tutto il viaggio in macchina?» «Perdoni il comportamento dei miei agenti, signor Rubin: conducono una vita povera di soddisfazioni» si scusò Fury. «Ebbene, so che in questo momento vorreste essere a casa a consultare siti pornografici, ma la situazione è della massima gravità, e il vostro aiuto sarà fondamentale. Non ho problemi ad affermare che il futuro del mondo potrebbe dipendere dall’operato di voi cinque.» «Noi cinque?» obiettò Alessandra C dopo un rapido calcolo. «Veramente siamo in quattro!» «Gunny, a questo punto credo tu possa manifestarti. So che sei qui da qualche parte» disse Fury guardandosi intorno. Alessandra C iniziò a tremare in maniera via via più intensa: «C-che sta succedendo?» «Oh mio Dio, la ragazza sta per esplodere!» gridò Miyamoto tuffandosi a terra e coprendosi le orecchie con i sandali. Alessandra si alzò dallo sgabello assolutamente senza esplodere: la fonte della vibrazione era lo sgabello stesso. Tutti si avvicinarono incuriositi, osservarono attentamente l’oggetto e, dopo alcuni secondi, si resero conto che si trattava di una persona travestita da sgabello e accovacciata in posizione fetale. «Un camo index del 105%. I miei complimenti, Gunny.»

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«Grazie Generale» disse Gunny alzandosi in piedi e riattivando la circolazione. Poi, rivolto ad Alessandra C: «È stato bellissimo, beibe. Incontriamoci di nuovo al prossimo briefing.» Le parole di Nemesis Divina coprirono in parte gli insulti di Alessandra C: «Adesso dovremmo esserci tutti, potrebbe dunque spoilerarci il motivo di questa convocazione?» «Senz’altro. Come potete leggere a pagina due del memorandum posto sul tavolo di fronte a voi, negli ultimi dieci giorni le questure del Paese hanno registrato la sparizione di numerose persone in circostanze molto poco chiare. In nessuno dei casi è stato riscontrato un motivo valido che potesse giustificare la scomparsa, né vi sono tracce di sorta su dove queste persone possano al momento trovarsi. «Ora, di norma lo S.H.I.E.L.D. non si occupa di fatti del genere, ma alcuni particolari ci hanno messi in allerta. Dopo una verifica incrociata degli indizi, siamo riusciti a isolare due elementi in comune a tutti i casi. Il primo riguarda la categoria sociale di appartenenza degli scomparsi: si tratta infatti di appassionati di videogames in una maniera che gli esperti qui alla base definiscono ‘molesta’. Per la lista completa dei soggetti andate a pagina tre…» Nemesis Divina scorse l’elenco: «Vediamo… Bobbyzeta, Giobbi, Inki, Foxtrone, Snowball, Baggins, Castelli, Avecone, Fogman, Papero, Morgul, Sicumera…» «Floyd, M@ster, Giampi, Capasso, Scirio, Sephirot, GuK, Esorciccio, Zer∅, Forrest, l’intero forum di Gameplus, e la lista continua per pagine e pagine!» proseguì Miyamoto. «Insomma stiamo parlando di lamer, di fanboy, di trollazzi vari» commentò Gunny. Fury annuì. «Nel giro di pochi giorni, i maggiori fondamentalisti videoludici sono come svaniti dalla faccia della terra. E questa, converrete, non può essere una coincidenza.» «E qual è il secondo elemento in comune?» domandò Jason Rubin. «Il secondo elemento in comune ha una classificazione di segretezza di livello alfa, pertanto la notizia non dovrà uscire da questa stanza. Vedete, negli appartamenti degli scomparsi abbiamo rinvenuto, scarabocchiato da qualche parte, il simbolo che potete trovare a pagina venticinque…»

Un umidiccio silenzio scese nella sala briefing. «Be’, non mi dice nulla. Che cosa dovrebbe rappresentare?» chiese Alessandra C. «A giudicare dalla reazione dei suoi colleghi» disse Fury, «lei signorina C è l’unica a non aver mai sentito parlare del Davide Videoludico. Questo simbolo è il suo marchio di riconoscimento. Le basterà per ora sapere che il Davide Videoludico è considerato il più pericoloso terrorista di tutti i tempi. E questa è solo una riduzione della portata dei suoi crimini. «Nel dicembre del 1995 il Davide rapi la figlia del Presidente, chiedendo come riscatto la cancellazione del Natale dal calendario. Nel 1998 tentò invece di assassinare il Papa con un miliardo di cavallette ammaestrate, ma il suo colpo più audace è il cosiddetto Capodanno di Sangue, quando la notte del 31 dicembre del 1999 l’umanità come oggi la conosciamo fu a un passo dall’estinzione…» «Ma di che diavolo sta parlando? Non è successo niente di tutto ciò!» protestò Alessandra. «Questo perché noi dello S.H.I.E.L.D. abbiamo deciso che non doveva essere accaduto. Abbiamo insabbiato la cosa, signorina C. Lo abbiamo fatto perché lei e i suoi simili continuaste il vostro quieto vivere. La popolazione non doveva sapere di essere stata sull’orlo del collasso. Si fanno le cose più assurde quando si ritiene di essere sull’orlo del collasso, come smettere di andare lavorare oppure annullare tutti quegli inutili acquisti su Internet.» «Dunque è tutto vero» pensò a voce alta Nemesis Divina. «Avevo letto un sacco di mezze verità in rete, ma devo ammettere che non ci avevo creduto fino in fondo. Il furto del Natale, l’attentato al Papa: niente di tutto questo aveva riscontri attendibili. E l’atto più eclatante, il Capodanno di Sangue, è stato l’unico ad essersi guadagnato qualche titolo di giornale, anche se ridotto a quella bufala del millennium bug.» «Ma allora come sono andate veramente le cose?» domandò un Miyamoto pallido in volto. «Adesso non c’è tempo per i flashback» tagliò corto Fury. «Vi basti sapere che lo S.H.I.E.L.D. è riuscito a debellare ogni minaccia allestita da questo genio del male.

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Abbiamo organizzato una caccia al Davide a livello mondiale, finendo per scovarlo nascosto nelle montagne del Gennargentu. «Dopo averlo tratto in arresto, abbiamo sottoposto il Davide ad alcune sessioni di lavaggio del cervello con lo scopo di renderlo inoffensivo: docile come un nintendaro. Per quattro anni il Davide Videoludico ha trascorso una vita di insignificante routine al fianco di un nostro agente dormiente, e nel fratt… » « …e nel frattempo voi dello S.H.I.E.L.D. lo studiavate» lo anticipò Gunny, furioso. «Ammetto di sì. Il Davide ci serviva vivo. Dovevamo capire alcune cose… alcuni poteri di cui sembrava disporre e che…» «… e che volevate trovare il modo di replicare.» Fury annuì grave. «Tuttavia, alcuni incidenti accaduti ultimamente, come il furto del codice di Half Life 2 e gli errori di battitura nella rivista Videogiochi, ci hanno fatto temere per un graduale risveglio della diabolica mente davidiana: assopita da tutto quel candeggio mentale, ma non del tutto cancellata. «Lo confesso, abbiamo avuto paura, e io personalmente ho dato l’ordine di ‘rottura dei rapporti’ all’agente dormiente incaricato di sorvegliarlo. L’ordine è stato eseguito con apparente successo, ma in qualche modo – e questi casi di sparizione lo confermano – il Davide sembra essere riuscito a soprav…» «Non ci credo» obiettò fermamente Nemesis Divina. «Il Davide è morto. Ne sono sicuro. Io stesso ne ho avuto conferma. Ne ho anche riportato un resoconto ufficioso su Ring. È stato assassinato da Liquid Davide alcuni mesi fa.» «A questo posso rispondere io» disse una figura femminile apparsa su un monitor alle spalle del Generale Fury. «Ma tu sei Silvia! La moglie del Davide!» gridò Nemesis Divina, incominciando a capire. «Vedo che mi conosci di fama, caro Nemesis. Silvia è uno dei tanti nomi che ho adottato in questi anni. Sono io l’agente dormiente assegnato alla sorveglianza del Davide Videoludico.» «Devi essere molto ligia al dovere, considerando che lo hai sposato.» «Fa parte del mio addestramento: sono completamente devota alla Missione; quale essa sia. E se la Missione lo prevede, posso persino innamorarmi. Anche se non è stato questo il caso. «Quando ho ricevuto l’ordine di rompere i rapporti, sono passata da agente dormiente con nome in codice ‘Silvia’, ad agente sul campo, con nome in codice ‘Liquid Davide’.» «Liquid Davide…» ripetè Gunny con un filo di voce. «Deriva dal fatto che il tuo compito era di liquidare il Davide Videoludico, vero?» «Esattamente. Purtroppo prima di morire il Davide mi ha teso un tranello che non sono stata in grado di prevedere: mi ha chiesto come ultimo desiderio di poter scaricare la posta. Acconsentii, e poi lo tolsi di mezzo. Tuttavia, dalla ricostruzione fatta in seguito dallo S.H.I.E.L.D., l’ipotesi più verosimile è che il Davide non impiegò quei pochi minuti per controllare le e-mail, bensì per fare un’immagine del suo cervello e spedirla su una casella postale sconosciuta.» «Fermi tutti, mi state dicendo che è possibile masterizzare un cervello? E quale account potrebbe contenerne l’immagine, gmail?» disse sarcastico Rubin. «Veramente la iso della mente del Davide, compressa e splittata con Winrar, sta su dodici floppy dell’Amiga» puntualizzò la donna. «Ma come fate ad essere certi di questa ricostruzione? In fondo le vostre non sono che congetture. Chiunque potrebbe aver rubato il codice di Half Life 2, incasinato i testi di Videogiochi e rapito quei deficienti, magari facendo poi ricadere la colpa sulla buonanima del Davide» commentò Nemesis Divina. «A supporto della nostra teoria abbiamo alcune prove che consideriamo inconfutabili» replicò Fury: «cose come tracce genetiche davidiane lasciate sui layer inferiori del modello tcp-ip e piccole variazioni di tensione ai capi di alcuni condensatori nei modem adsl. Ma l’indizio principale che ci fa ritenere senza ombra di dubbio che il Davide sia ancora vivo, è che egli sta attualmente tenendo una rubrica tappabuchi sul pdf di Ring.» «Oh, quello» disse Nemesis picchiandosi in fronte. «Perfetto. Ammettiamo pure che questo Davide Videolucido sia vivo, vegeto e colpevole di quei crimini là» disse Alessandra C. «Posso sapere che cosa abbiamo a che fare noi con la vicenda? Non ci crederà mica coinvolti in qualche modo…» «Niente di tutto questo. La vostra estraneità ai fatti non è in discussione. Tuttavia è mio dovere avvertirvi che, in seguito alla presunta eliminazione del Davide, siamo entrati in possesso della sua rubrica telefonica personale, e in essa abbiamo trovato solo cinque numeri di telefono. Numeri che corrispondono alle abitazioni di voi cinque.» Nick Fury piazzò a questo punto una pausa strategica, cercando di interpretare le espressioni dei diretti interessati in reazione alla notizia. «Ora, dagli appunti lasciati sulla rubrica, sappiamo che la presenza dei numeri dei signori Rubin e Miyamoto deriva dal fatto che si tratta del game designer più amato e di quello più odiato dal Davide Videoludico.» «E ti pareva» commentò Rubin demoralizzato. «Scommetto quindi che era lui a mandarmi tutti quei topi morti per posta…» «Esatto, è proprio così!» si affrettò a precisare Gunny. «Forse non ci siamo capiti» disse Fury. «Lei Rubin è il game designer preferito del Davide, mentre Miyamoto è il più detestato.»

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«Oh!» fece Rubin lusingato, lanciando un’occhiata di scherno al collega giapponese. «Per quanto riguarda i vostri numeri telefonici, Nemesis e Gunny, immagino si tratti di una prassi standard per i collaboratori di Ring.» I due annuirono. «Inoltre il Davide voleva interpretare Otacon nel film Metal Gear Solid: Philanthropy» aggiunse Gunny. «Ma durante il provino andò completamente fuori parte, tirando fuori un’interpretazione a metà strada tra il Marlon Brando de Il Padrino e Frodo in versione Monte Fato; per poi tentare di gettare il regista in una bacinella di lava portata per l’occasione.» Fury si appuntò l’aneddoto. «Signorina C, non le nascondo un certo stupore per aver trovato il numero di una donna nella rubrica del Davide.» «Lo stupore è assolutamente reciproco, visto che non lo conosco e… Oh mio Dio! Stai a vedere che era lui il maniaco che mi faceva tutte quelle telefonate porno alle tre di notte!» «Esatto, è proprio così!» si affrettò a precisare Gunny. Nemesis Divina si alzò in piedi per assumere una posa maggiormente cool: «Bene signor Generale, ci ha illustrato lo scenario e ci ha subdolamente avvertito che, se non obbediamo ai suoi ordini, può incastrarci con questa storia della rubrica…» «Signor Divina, lei vede complotti ovunque» commentò Fury a mani giunte. «Certo, certo. Ci dica una volta per tutte che cosa vuole che facciamo.» «Bene. Dovete recarvi nella Matrice e iniziare una quest di ricerca del Davide Videoludico, o meglio della sua mente. E quando lo avrete trovato, dovrete ucciderlo.» «Glom» fece Miyamoto. «Io in vita mia ho assassinato solamente tartarughe!» «Frena frena frena. Mi spiegate perché volete mandare noi a compiere una missione del genere?» domandò Alessandra C. «Dove sono i vostri supersoldati d’elite nel momento del bisogno? Perché non chiamate Capitan America?» «Cap al momento è in Iraq a infilare un po’ di democrazia nel sedere della popolazione locale» disse Fury. «Perché allora non mandate Batman?» «Batman raramente abbandona Gotham.» «E Babbo Natale?» «Uhm, Babbo Natale non esiste.» «Okay, okay, cercavo solo di delineare i confini della narrazione!» «Generale Fury» si intromise Jason Rubin. «La ragazza ha ragione: noi non siamo i più indicati a svolgere questo incarico. Prenda ad esempio Miyamoto: le sembra che una responsabilità del genere possa gravare su questo nippo-effeminato? E quel tipo che imita Snake? Al primo segnale si pericolo si camufferà da cartello stradale e ci lascerà da soli. Io poi ammetto che sono anni che non sollevo niente di più pesante di un Martini…» «Signor Rubin, questa non sarà una prova di forza, giacché nella Matrice la forza è un concetto che non ha senso. Questa sarà una prova d’astuzia. Ci saranno enigmi, ci saranno prove di abilità, di bullet-dodging, di path-finding. Ma soprattutto sarà necessario un certo know-how dell’ambiente. Vedete, voi tutti avete una cosa in comune con il Davide…» Sicuramente non il sesso, pensò Alessandra C riferendosi ovviamente a se stessa… e in una certa misura a Shigeru Miyamoto. « …voi condividete con il Davide gran parte della configurazione cerebrale, e questo per noi è di fondamentale importanza. Ci serve gente che pensi come lui, ci serve gente in grado di risolvere i suoi puzzle perversi, ci serve gente che sappia anticipare ogni suo pattern e quindi batterlo. Voi, come dicevo, condividete con il Davide il fatto di essere… nerd.» Il silenzio scoppiò nella war room. «Che cos’è, uno di quei giochi ‘trova l’intruso’?» domandò Nemesis Divina un po’ risentito. «Posso capire gli altri qui presenti, ma la parola ‘nerd’ è quanto di più lontano dalla mia persona vi sia…» «Nemesis, ti voglio ricordare che in questo momento sei vestito come Alucard, il protagonista di Symphony of the night…» disse Jason Rubin. «Uhm, touche.» «Signor Generale» domandò Gunny. «Non essendo nuovo a questo tipo di operazioni, ho sviluppato una certa esperienza sul campo, e so bene come voi governativi amiate mandare i soldati in missione per cause apparentemente nobili, salvo poi scoprire che è tutto un complotto e che le vostre motivazioni sono tutt’altro che nobili, se capisce cosa intendo. Per cui evitiamo la solita tiritera e diteci subito che diavolo state tramando alle nostre spalle.» Stupito dalla richiesta, Nick Fury prese ad allentarsi il colletto dell’uniforme con l’indice, non sapendo che rispondere. Una fioca lampada da tavolo si accese all’angolo più remoto della war room, rivelando una figura in ombra che, gomiti sulla scrivania, aveva assistito in silenzio fino a quel momento: «Signor Gunny, questo non è un atteggiamento corretto da parte sua: cerchi per cortesia di non uscire dal ruolo che le compete. E comunque il solo aver ipotizzato una condotta doppiogiochista da parte nostra, dovrebbe rassicurarla sul fatto che non ci saranno colpi di scena in tal senso. Altrimenti che colpi di scena sarebbero?» «Be’, anche questo è vero.» «Ho sentito abbastanza. Se un uomo misterioso celato nell’oscurità mi dice che non c’è niente da temere, non vedo perché non dovrei fidarmi!» aggiunse Nemesis Divina.

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I cinque accettarono l’incarico con entusiasmo e si scambiarono vari abbracci camerateschi. Alcuni agenti dello S.H.I.E.L.D. entrarono nella war room con l’incarico di condurli nella virtual room (passando per la corridor room). Il Generale Fury si sentì sollevato. «Gunny aveva quasi scoperto le nostre intenzioni» disse Fury all’uomo in ombra una volta rimasti soli. «È in gamba. Lo abbiamo scelto per questo.» «Temo però che in futuro potrà darci delle noie.» «Abbiamo preso contromisure anche in previsione di ciò. Non è il caso di preoccuparsi.» «Okay. Partitina a Risiko?» «Certo. Io tengo le armate nere.» «Vuoi sempre tenere le armate nere. Hai veramente rotto le palle con queste armate nere. Era da tanto che volevo dirtelo.» I tecnici della virtual room svuotarono la vescica dei cinque con delle enormi siringhe, poi dettero loro delle tute in lattice da indossare e alcune girelle Motta per merenda. «Signori» esordì Nick Fury entrando nella stanza a preparativi ultimati. «Voi tutti vivete nell’ambiente dei videogames, quindi conoscerete senz’altro la Matrice e il suo funzionamento…» «Veramente è la prima volta che ne sento parlare!» disse Miyamoto sorridendo, mentre una nipponica gocciolina di sudore calava dalla sua fronte. Jason Rubin scosse la testa. «Miyamotosan, deve sapere che, contrariamente a quanto si crede, i videogiochi non vengono realizzati da programmatori obesi dopo anni di progettazione. Questa è una diceria che abbiamo messo in giro per giustificarne i prezzi esorbitanti. Anni fa, i governi di Stati Uniti, Giappone e Cina crearono un mondo virtuale che può essere considerato in tutto e per tutto una dimensione parallela. Questo mondo, chiamato ‘Matrice’, contiene tutti quegli elementi di distrazione oppiacea per le masse universalmente noti con il termine ‘intrattenimento’. Stiamo parlando non solo di Internet e della telefonia cellulare, ma anche di mondi immaginari come l’universo Disney o l’Italia raccontata dal TG1. Uno di questi mondi si chiama Videogamia ed è la terra in cui vengono filmati i videogiochi. Esatto: filmati con una macchina da presa da registi tutt’altro che obesi, e non progettati in C++. Linguaggio che nemmeno esiste.» «Fico! Quindi Mario, Luigi e compagnia bella sono personaggi che vivono in questa Videogamia…» disse Miyamoto con una diversa luce negli occhi. «Ed è là che credete si nasconda la mente del Davide Videoludico?» aggiunse Gunny. «È assai probabile. Le e-mail contenenti le rubriche tappabuchi che il Davide scrive per Ring provengono infatti da lì. Più precisamente dai sotterranei della città di San d’Oria, a Vana Diel.» «Sta cercando di dirci che il Davide Videoludico ha trovato rifugio nel mondo di Final Fantasy XI? Quasi quasi preferirei l’oblio» commentò Nemesis Divina. «Non necessariamente. Riteniamo infatti che tali e-mail vengano spedite non dal Davide, ma dal suo unico e migliore amico: Donkey. Il vostro compito è quindi di trovarlo e seguirlo fino al nascondiglio del Davide. Ma dovrete fare molta attenzione: Donkey ha un curriculum di omicidi alle spalle che farebbe impallidire un contadino del nord-est…» «C-chi viene ucciso nella Matrice, muore anche nella realtà?» domandò Miyamoto. I suoi quattro compagni non furono in grado di dargli una risposta. «Signor Miyamoto, per caso lei muore dopo aver fatto game over ad un videogioco? Per caso lei muore se, mentre sta parlando al cellulare, la linea cade? Non si può morire nella Matrice: si tratta pur sempre di una realtà illusoria creata dall’Uomo. Non preoccupatevi per queste vaccate da film di serie zeta.» Tutti tirarono un sospiro di sollievo. «Ciononostante, per motivarvi e accrescere la suspense» proseguì Fury, «coloro che moriranno all’interno della Matrice saranno sottoposti al loro ritorno ad un trattamento ipnotico punitivo. Dopo questo trattamento, chiamato Cura Ludovico, sarete costretti a rinunciare alla vostra più grande passione, giacché il solo pensarci vi farà venire una fortissima nausea.» «Sta dicendo che non potrò più fracassare dei Nintendo 64 con il corpo cosparso di nutella?» domandò Nemesis Divina. «Ehi, credevo di essere l’unico a farlo!» commentò Miyamoto. «Tutt’a un tratto mi rendo conto che un party di cinque elementi può non essere sufficiente» disse Alessandra C. «Non potremmo avere qualche rinforzo?» «Niente da fare. Non mi piacciono i gruppi troppo numerosi: non fai in tempo a caratterizzare tutti i personaggi. Forse tra un po’ vi manderò qualcuno» rispose Fury. «Sentite, visto che il nostro gruppo non ha ancora un nome, che ne dite se ci chiamiamo X-Men?» domandò Jason Rubin. «Da piccolo non facevo che leggere fumetti, e ho sempre desiderato far parte degli X-Men!» «Spiacente ma quel nome non è disponibile» disse il Generale. «È stato opzionato dai giocatori dell’Inter.» «Oh, basta, mi sono rotto i coglioni di tutti questi discorsi» disse Nemesis Divina inforcando degli occhialini trendy. «Ce ne stiamo qui seduti a parlare da così tanto tempo che mi sembra d’essere in un fumetto Bonelli. I need some action!»

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Il Generale Fury sorrise divertito: «Non vedevo l’ora di sentirlo dire! Bene, accomodatevi sui lettini, indossate il casco-visore e connettete alle vostre tute quei cavi che non servono a niente ma che fanno scena, quindi passate rapidamente le prime opzioni…» «Ci vediamo dall’altra parte gente!» disse Nemesis Divina. «Ah, una cortesia: cercate di non essere troppo nerdish…» «Omioddio! È possibile vestire il nostro avatar come vogliamo!» cinguettò Miyamoto. «Hurrà!» fece Rubin. «Signor Fury, il motore poligonale della Matrice ha anche il fur-shading?» domandò Alessandra C. «No perché in caso contrario mi posso mettere la minigonna…» Nick Fury alzò gli occhi al cielo. Sei ore dopo i salvatori del mondo erano pronti a partire.

DOMANI 2047 Il Messico non era mai stato così brullo. Da ore il veicolo a sei ruote percorreva una superficie irta di buche e dossi, lungo un paesaggio desolato, privo di vegetazione e con montagne troppo lontane per sembrare raggiungibili. «Fermati!» disse l’uomo seduto al lato del passeggero. «Che c’è, l’hai trovato?» «Non ne sono sicuro, ma mi sembra di vedere un albero in direzione 2-1-1. E in questa zona non ne avevamo ancora trovato uno.» L’autista arrestò il veicolo, aprì la portiera, scese a terra e trasse di tasca il binocolo elettronico. «Hai ragione, è lui. Riesco a vederlo appollaiato su quella pianta.» Anche il passeggero uscì dal mezzo. Entrambi indossavano un’uniforme militare che recava sulla schiena la scritta ‘Pattuglia Lunare’. Guardò nella stessa direzione e vide una figura anziana e sorridente, vestita con una tunica bianca e seduta sul ramo di un albero privo di foglie.» «Siamo stati fortunati a trovarlo» disse il guidatore. «E se fosse successo qualcosa in nostra assenza? Come possono pretendere che facciamo da guardie del corpo al Papa quando questo se ne va in giro senza dirci nulla?» «Il Papa non si sta certo divertendo. Sono settimane che è impegnato a terraformare la zona e, anche se il risultato non mi piace molto, tutto ciò fa parte del suo disegno divino, quindi è cosa buona e giusta. Ed è un lavoro duro, puoi scommetterci. Chi siamo noi per criticarlo?» «Sto solo dicendo che un po’ di collabor… Ehi, hai visto qualcosa muoversi?» «Dove?» «Trentacinque gradi alla destra dell’albero. Mi è sembrato di… eccolo di nuovo!» Una figura umana compariva e scompariva alla vista dei due militari a causa del terreno fortemente ondulato. La sua direzione tuttavia era chiara: stava correndo verso il Pontefice. «Codice viola. Attentato in corso!» Gridò l’autista, poi estrasse la pistola di ordinanza e iniziò a correre in direzione del Papa. Il passeggero prese dal veicolo il fucile da cecchino e si buttò a terra. Il primo e il secondo colpo andarono a vuoto. Il terzo colpo partì proprio mentre l’autista, ormai piuttosto vicino all’albero, osservò meglio il sospetto attentatore ed esclamò: «Ma… è un bambino!» Il proiettile andò a segno e il bambino rotolò a terra a pochi metri dal Pontefice. «Era veramente un bambino, accidenti» disse il passeggero una volta giunto ai piedi dell’albero con il fucile ancora fumante. «Ma non dovrebbero essere a scuola a studiare i classici?» «Mi sa che questo qui non imparerà mai la quinta stagione dei Simpson. Che razza di spreco. Comunque abbiamo fatto il nostro dovere e non possiamo essere biasimati. I civili sanno bene che non devono avvicinarsi al Papa per nessuna ragione…» «Ehi, si è mosso!» «Viva la realtà!» disse il bambino con un filo di voce, prima di spingere il pulsante che attivava l’esplosivo legato al torace. La deflagrazione fu terribile. «Vaff… Ehi, che cazz… vaff… Allora era veramente un terrorista!» gridò il passeggero, sconvolto dall’accaduto. «Ehi, perché non siamo diventati sordi? Ma soprattutto: perché non siamo morti nell’esplosione?» «Il Papa deve aver esteso il suo AT Field per proteggerci.» I due si inginocchiarono in lacrime. Il Papa sorrise, li benedì con la mano, poi dispiegò le sue tre paia d’ali e volò via. L’albero su cui sostava si polverizzò. «Che bello, non lo avevo mai visto così da vicino!» disse l’autista commosso, mentre decine di piume roteavano verso terra. «Sai, credo che il Papa ti abbia cagato di striscio sulla spalla.» [Prossimamente: le miniere di San d’Oria e… Donkey.]

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nEXT iSSUE…

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