Ring#099

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www.project-ring.com//luglio 2005

FISSION MAILED

99 SOMMARIO speciale speciale socrossover//04 virtual, so real//04 rubriche rubriche The ivory tower//10 tesori sepolti 20th century davide jojo’s puzzle park//64 capitolo tre//59 game making era 03 frames dar vita ai pixel//65 100 cose dei vg che arena ameremo Grand Theftsempre//12 Auto//20 Polygons killed the The ivory tower bitmap stars//15 Two cultures//24 Gyakuten saiban//20 kakka banzai indepth avventure testuali//26 piaceri proibiti//24 frames recensioni i voti di edge//28 splinter cell chaos indepth theory//29 PES-parte II//29 brothers in arms//31 recensioni ace combat 5//33 gta san andreas//34 resident evil 4//35 fable//37 devil may cry 3//37 wrc 4//40 god of war//40 the chronicles of shadow of rome//42 riddick//41 berserk//44 burnout 3//43 ghost in the shell stand psi ops//46 alone sight//49 complex//47 second bard’s tale//49 xenosaga II//51 playboy the mansion doom3//53 //50 v//56 gradius cold fear//52 katamary damacy//58 world of warcraft//54 panic maker//60 jademinish empire//57 zelda cap//62 pes: non-recensione//63 Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti, giunge con questo novantanovesimo numero al termine del suo ciclo vitale. È sempre un trauma quando le riviste chiudono. Molti di voi ricorderanno una situazione analoga vissuta qualche anno fa. Un magazine nel cuore di tutti noi dovette chiudere i battenti lasciando i suoi affezionati lettori nel completo vuoto editoriale. Le proteste, gli inviti a proseguire, furono vani allora così come lo sono oggi. Nessuno potrà più ridarci Lotta Continua e nessuno potrà più ridarci Ring.

Ring chiude. Ma quantomeno cerca di farlo con stile. Quello stile che ci ha sempre contraddistinto o che, almeno, abbiamo sempre pensato ci contraddistinguesse. Che parola lunga e strana questa… “contraddistinguesse”. Oh be’, l’importante è che sia giusta… Siamo uomini di mondo noi, no? O comunque ci piace far credere di esserlo e allora via, voltiamo pagina e andiamo avanti, voltiamo le pagine seguenti e sempre avanti, una pagina via l’altra e poi chiudiamo il libro e poi… sempre avanti. Ring tira le cuoia e qualcuno, lì di fronte allo schermo (o indomito fanatico, davanti alla pagina stampata) magari si chiede anche il perché. I Misteri della Morte sono insondabili e ci sono cose che l’uomo non dovrebbe sapere e soglie che non è bene oltrepassasse, ma ok, siete stati lettori fidati e un po’ vi vogliamo bene. Ring stramazza al suolo per svariate ragioni, non tutte esplicabili. Quello che ci piace pensare è che si tratti di una dipartita naturale, a cui in fondo non abbiamo molto da biasimare. L’Anello si è spezzato un po’ perché Ring non è diventato quello che credevamo, un po’ perché non avevamo mai avuto un’idea precisa di cosa Ring dovesse diventare. E dietro a Ring le persone che formavano l’Anello: alcune hanno imboccato nuove strade, altre hanno un po' smarrito la passione, altre ancora che vista la figa chi ci pensa più ai videogiochi… Ring penzola dal patibolo, cappio al collo, con la lingua bluastra che ciondola fuori. E Ring osserva il paesaggio sotto di sé, che ondeggia placido, calmo e tranquillo. Nemmeno Ring se la prende troppo, che ci volete fare, la sua vita l’ha vissuta, magari corta, magari riposta in un angolo di web, ma pur sempre la sua vita, degna di qualche menzione. Di qualcosa si deve pur morire e tanto vale farlo con un minimo di stile. Una lingua bluastra e gonfia è il nostro ideale di stile. E Ring guarda un po’ indietro, nel filmino della sua vita, breve e intenso. Ring è nato come… difficile a dirsi… come sfogo ormonale, forse. È nato come una fisiologica ed ineluttabile impellenza, la necessità di dire le cose che non si leggevano altrove, possibilmente senza render conto a nessuno. Poi Ring è cresciuto e si è fatto meno fracassone, più accettabile ma non meno sovversivo. Poi si è fatto un po’ ruffiano, pieno di reci, ma cosa non si farebbe per due lettori in più… (abbiamo anche piazzato donne nude in copertina, cfr. Ring #10). Ring era il Dito nel Culo di un’editoria moribonda, affetta da malattie neurodegenerative (note e non) e martoriata da incontinenza intestinale. Noi abbiamo tentato di porre un certo rimedio, un tappo a quell’incontinenza. Poi il buco s’è allargato e il dito non è bastato più. Ma il voler cambiare il mondo non è mai stato pieno interesse di Ring. Ring voleva fare un po’ di baccano, divertirsi e magari arrivare a tanto così dal traguardo per dire poi ‘mi son rotto, ho visto la meta, adesso torno indietro’. Forse il fatto stesso che Ring si fondasse su un presupposto farraginoso come questo ne ha decretato la morte termica, per mancanza di nuovi stimoli, nuove idee, nuove menti che riuscissero a smuovere il leviatano redazionale, ormai perso nella contemplazione della propria anarchia nichilista. Eppure qualcosa, ne siamo convinti, Ring è riuscito a dare, a noi e a voi. È stata un’esperienza importante, divertente, istruttiva, irritante, asfissiante e liberatoria, tutto assieme, in un amalgama caotico che aveva certamente le proprie lacune, ma anche una manciata di impagabili meriti. Ring ha fatto cose buone e meno buone. E cose eccellenti, anche.

Oppure no?

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www.project-ring.com E ora è lì che penzola, e i suoi carnefici stanno davanti a quel macabro pendolo con il sorriso sulle labbra. E i suoi carnefici siamo noi. Noi che facevamo parte dell’Anello e che l’Anello abbiamo infranto. Per strada ci siamo persi e ritrovati, abbiamo combattuto contro gli altri e più sovente fra di noi, ce la siamo goduta… parecchio direi. E siamo qui, che guardiamo la nostra vittima, serena, morta perché non aveva più ragioni di restare viva. L’accanimento terapeutico di cui Ring è vittima da svariati numeri non era più accettabile e alla fine il bivio ci è apparso chiaro: spremerci in modo da rendere Ring quello che poteva diventare, sforzarci di spingerlo oltre, spingerlo su in alto, dove merita di stare. Oppure, piantare baracca e burattini e grattarci la panza sorseggiando una cola. Ora, noi siamo bravi-buoni-belli ma anche affetti da pigrizia cosmica, straordinariamente letargici, siamo l’apoteosi dell’ignavia, sublime iperbole dell’indolenza. Date le basi, la scelta è quella che intuite. Ma non siamo qui a lagnarci e in fondo un saggio disse, su Ring #2, ‘ricordate che per entrare nel mito non bisogna solo fare grandi cose, ma anche morire giovani’. Siamo grati a Ring di averci unito e tenuto assieme sotto il suo abbraccio, e siamo contenti di avergli dato una mano a crescere fino a diventare un qualcosa di valido, per quanto piccolo. Ma davvero, nel nostro cuore non c’è posto per la tristezza o il rammarico. Ring finisce qui, chiude, muore. Con la lingua blu a penzoloni… Grazie per averci seguito lungo gli impervi sentieri.

[Fade in black] … la piazza è deserta. Nessuno spettatore, nessuno spettacolo ormai. Il sipario è sceso, muto e deciso. Un’ombra soppiatta striscia e osserva, il corpo morto, freddo che oscilla. Accarezza con devozione il cadavere e poi fissa il suo viso sbiancato, sereno… con la lingua di fuori. Estrae un pinzetta e un bisturi affilato, recide una porzione della mucosa orale per poi precipitarlo nell’abbraccio vetroso di una fialetta. L’ingegneria genetica è la strada primaria verso una razza di super formiche atomiche sterminatrici e figlie di puttana, ma qualcuno manterrà a -272,8° anche il codice genetico di Ring, la sua eredità funesta e rivoluzionaria, la sua anima irrequieta e storta. Da qualche parte, una rosa di eminenze grigie sobilla, sorride nel buio, ghigna e sogna il futuro. Un giorno, forse…

Nemesis Divina

FISSION MAILED

//luglio 2005

99 RING copertina, copertina grafica online e tommaso “gatsu” de benetti grafica a cura graficaPDF a cura di di tommaso tommaso“gatsu” “gatsu”de benetti de benetti sezione online a cura di sezione online a cura di tommaso “musta”collini tommaso PDF e tappi “musta” a cura di gianluca “sator” belvisi collini sito e forum sezione PDF aospitati cura dida www.bitpower.it federico res PDFe ospitati da sito forum ospitati da www.qb3project.net www.bitpower.it redazione PDF ospitati da gianluca “sator” belvisi www.qub3.net cristiano “cryu” bonora redazione emanuele “emalord” bresciani gianluca “sator” belvisi tommaso “musta” collini cristiano bonora tommaso“cryu” “gatsu” de benetti emanuele “lord” bresciani nemesis divina tommaso collini cristiano “musta” “amano76” ghigi tommaso “gatsu” de benetti federico res paolo “jumpman” ruffino nemesis divina giacomo “amano76” “gunny” talamini cristiano ghigi andre“jumpman” “andrea23” ruffino da roit paolo davide videoludico federico res hanno collaborato giacomo “gunny” talamini lucio “Lux” sampietro hanno collaborato nathan garrelts il pupazzo gnawd marco benoit carbone mr. yo Julian Kücklich hob andrea23 per collaborare per posta@project-ring.com collaborare posta@project-ring.com

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CROSSOVER <il Videogioco incontra il Fumetto> di Yellow Sator

(si ringrazia Ivan Fulco per la consulenza)

Il Fumetto è una forma di comunicazione che ha origine nelle grotte del 18000 AC e che, passando per l’antico Egitto e soffermandosi sugli arazzi medievali, giunge ai giorni nostri nelle sembianze di un linguaggio che unisce prosa e pittura, facendo proprie le tecniche cinematografiche di inquadratura e montaggio. Per convenzione, il Fumetto moderno nasce il 16 febbraio del 1896, il giorno in cui un balloon comparve per la prima volta sopra la testa di Yellow Kid. Un secolo di storia che il Videogioco non solo non poteva ignorare, ma che con il passare degli anni ha fatto proprio, acquisendone parte dell’estetica e del linguaggio.

N

onostante fosse solamente una pizza margherita che i limiti tecnologici dell’epoca avevano imposto priva di condimenti, Pac Man arrivò nel mondo dei videogiochi con l’obiettivo di restarci. Il suo insegnamento non lasciava spazio a dubbi: i videogiocatori avevano talmente bisogno di personaggi verso i quali nutrire affetto da innamorarsi perfino un insignificante farinaceo giallo. C’era dunque un urgente bisogno di eroi, originali o meno, e se dal mondo di celluloide potevano giungere icone dal potenziale pazzesco come E.T., anche i fumetti ben si prestavano a generare tie-in di successo. “Come tutti i prodotti realizzati su licenza”, spiegano i Kappa Boys Andrea Baricordi e Andrea Pietroni, “a nostro avviso non è sempre stato ottenuto il massimo che si poteva sperare. Nei giocatori più esperti e smaliziati, questo genere di prodotti non suscita quasi mai un entusiasmo tale da far gridare al miracolo: in questi casi, infatti, i produttori basano il progetto quasi esclusivamente sulla popolarità dei personaggi, e non sulle innovazioni o sulla giocabilità. Ma avviene lo stesso quando il cinema si ispira a fumetti e videogiochi (e viceversa), quindi non c’è di che stupirsi. Pochissime volte le trasposizioni da un medium all’altro sono davvero degne di nota. Nonostante questo, per i fan dei personaggi originali il prodotto resta sicuramente godibile, e anche nelle produzioni minori resta comunque il divertimento di agire in prima persona nei panni dei propri eroi”. Le eccezioni per fortuna non mancano, come Buck Rogers: Planet of Zoom, uno sparatutto prodotto da Sega nel 1982 che anticipava di tre anni il concept alla base di Space Harrier. Certo, dopo qualche partita veniva spontaneo chiedersi dove fosse il personaggio creato da Philip Francis

Nowlan che dava il titolo all’opera. Dentro all’astronave, probabilmente. Luogo ove rimarrà per tutto il gioco. Nello stesso anno, Braccio di Ferro si rivelava meno riservato. Dopo un primo tentativo abortito con il videogame in seguito noto come Donkey Kong, Popeye giunse nelle sale giochi sempre a cura di Nintendo. I due titoli avevano molto in comune: gli stage costituiti da piattaforme collegate da scale, le protagoniste femminili collocate sulla sommità dello schermo e gli spinaci e il martello a fare le veci delle pillole energetiche. Tuttavia l’obiettivo del gioco, recuperare cuoricini e note musicali lasciate cadere dalla dinoccolata Olivia, non aveva molto a che vedere con il fumetto di Elzie Crisler Segar, quindi poco sarebbe cambiato se i protagonisti fossero stati, ancora una volta, un falegname ed un gorilla.

Buck Rogers

Popeye

Esistono tuttavia esempi in cui il Fumetto, oltre ad occuparsi del reparto visivo, suggerisce anche meccaniche innovative. È il caso del folgorante Spy vs Spy, tratto dall’omonima striscia pubblicata da Mad Magazine. Uscito nel 1983 su Commodore 64, Spy vs Spy adoperava lo split-screen per permettere alle due spie protagoniste di vagare

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liberamente per gli ambienti, recuperando oggetti di scena attraverso i quali allestire trappole mortali, in una sublimazione del multiplayer che anticipava di molti anni i frag tournament.

In Spy VS Spy due agenti di fazioni opposte si esibiscono in reciproche crudeltà degne di un Grattachecca e Fichetto. Non è una coincidenza che una striscia del genere risalga al 1960, in piena guerra fredda, ad opera dell’esule cubano Antonio Prohias.

Del resto lo slugfest, il festival del cazzotto, è il sottogenere narrativo più sfruttato dai fumetti di largo consumo. Per il Videogioco, un invito a nozze. In Teenage Mutant Ninja Turtles (1989), Konami approfittava dei quattro fratelli ‘pittori’ per proporre un picchiaduro multigiocatore frenetico e divertente. Anche Asterix (1992) si lasciava apprezzare sia per un tratto fedelissimo alle atmosfere di Goscinny e Uderzo che per un gameplay evoluto, che contemplava la possibilità di raccogliere i nemici da terra per poi scaraventarli contro legioni (in tutti i sensi) di Romani.

Capcom invece si servì delle licenze fumettistiche per proporre sotto una nuova veste i suoi maggiori hit. In The Punisher (1993) il giustiziere ideato da Jerry Conway, affiancato da un improbabile Nick Fury, era protagonista di un picchiaduro a scorrimento erede poco diversificato di Final Fight. Marvel Super Heroes (1995) si presentava invece come l’ennesima variante di Street Fighter, anche se l’introduzione delle gemme dell’infinito – un ciclo narrativo delle serie “cosmiche” della Marvel – riusciva a dar luogo ad un gameplay sufficientemente originale.

E in Italia? Nel Bel Paese l’industria dei videogiochi ha sempre incontrato enormi difficoltà di inserimento. È quindi comprensibile la scelta di pionieristiche software house come Simulmondo di appoggiarsi a passioni ben radicate negli italiani, pubblicando titoli di sicuro richiamo come F1 Manager e I Play 3D Soccer. Tuttavia i successi maggiori per la casa bolognese arrivarono con l’acquisto delle licenze dei fumetti Bonelli: operazione culminata con una linea di videogiochi serializzati e proposti mensilmente nelle edicole. “L'idea mi venne incrociando due passioni mie e degli italiani: quella dei games e quella dei fumetti” ci racconta l’allora direttore di Simulmondo Francesco Carlà. “Conoscevo già Bonelli, Canzio e Sclavi e gli parlai della mia idea. All'inizio coinvolgeva solo Dylan Dog, poi fu il turno di Tex, Diabolik, Spiderman, gli X-Men e Martin Mystere”. Secondo quali criteri commerciali e artistici sceglieste il genere di videogiochi da produrre? “L'idea era quella di essere seriali come erano i fumetti, e di usare le stesse tecniche distributive e gli stessi stili narrativi, naturalmente aggiungendo animazione e interattività. Il genere fu scelto in base alla mia passione e ai risultati delle vendite in edicola. Non ci furono grandi problemi: prendevamo il soggetto e la copertina e adattavamo tutto il resto. Ogni game era corredato da un piccolo fumetto inedito realizzato dagli autori. Quei fumetti oggi sono introvabili cult per collezionisti. Me li chiedono di continuo. Io ne ho ancora un po' nella mia collezione privata”. La Bonelli impose particolari vincoli al progetto? “No assolutamente. Abbiamo sempre avuto un rapporto personale e collaborativo con loro. Bonelli, Canzio e Sclavi si dimostrarono molto partecipi e tutta l'operazione fu un bel mix di creatività e business. Non a caso realizzammo quasi 20 games di Dylan Dog, 14 di Tex, 13 di Diabolik e 3 de L’Uomo Ragno”. Quale fu il responso del pubblico? “Il responso fu eccezionale. Abbiamo stabilito record di vendite irrepetibili in edicola, sia con Dylan Dog che con Diabolik, Tex e Spiderman. Le serie nostre poi, Simulman e soprattutto Time Runners, hanno fatto il giro del mondo. Time Runners fu realizzato in 8 lingue e venduto insieme con la Rizzoli in moltissimi paesi. In Italia il numero 1 vendette, anche grazie al traino TV, oltre 200.000 copie. Potenza dei fumetti”.

Il primo adattamento ludico di Dylan Dog fu acclamato in Francia per le animazioni dell’ indagatore dell’incubo, paragonabili a quelle di un classico come Prince of Persia. Purtroppo gli accostamenti con il capolavoro di Jordan Mechzer finivano lì.

The Punisher

Francesco Carlà

Marvel Super Heroes

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Il linguaggio

La commistione tra videogiochi e fumetti, con il Cinema a fare spesso da intercapedine, va oltre il semplice tie-in ed è al giorno d’oggi radicata al punto che non è semplice stabilire con certezza chi influenza chi. Tomb Raider ad esempio, prima ancora di esordire al cinema, era diventato una serie a fumetti sotto il marchio Top Cow, ma Lara Croft è a sua volta un character ispirato a Indiana Jones: palese omaggio di George Lucas al mondo dei comics di avventura. Il Videogioco, del resto, vanta numerose collaborazioni con alcuni dei più celebri autori del Fumetto, come Akira Toriyama, legato a Dragon Quest, Chrono Trigger e Tobal, oppure Takehiko Inoue (Slam Dunk), che ha disegnato i personaggi del gioco di basket One or Two. E presto li rivedremo entrambi fare coppia con Hironobu Sakaguchi su XBox 360. Negli Stati Uniti l’approccio dei cartoonist verso i videogiochi è stato inizialmente timido. La causa è da ricercarsi probabilmente nella natura sempre sull’orlo del baratro dell’industria dei comics, che ha quindi avuto paura di essere soppiantata dal nuovo medium. La tendenza è recentemente cambiata: Todd McFarlane, oltre a curare il monster design di un’espansione di Ultima Online, ha concesso il suo Spawn all’utenza Xbox di Soul Calibur 2, creando inoltre il personaggio di Necrid. Larry Hama, autore di lunga data di Wolverine, ha scritto la sceneggiatura di Wolverine’s Revenge, mentre l’ideatore di Darkminds Pat Lee non manca di rivelare ad ogni intervista la sua volontà di trarre un comic da Metal Gear Solid.

Wolverine’s Revenge, pur sfruttando il traino pubblicitario dei film sugli X-Men diretti da Bryan Singer, non riproduce le fattezze di Hugh Jackman, ispirandosi invece al tratto di Joe Matsuda.

A livello visivo, sono molti i videogiochi che hanno cercato nei fumetti stili grafici che si allontanino da una vincolante ricerca del fotorealismo. Bastano poche sessioni di gioco a Viewtiful Joe per notare la quantità di omaggi ai comics americani presenti nel titolo Capcom, ed esistono casi limite, come FZero GX, in cui i richiami sono talmente spinti da risultare indigesti ai più. Oltre al semplice citazionismo, i fumetti si rivelano utili ai videogiochi anche per migliorare in settori poco evoluti, come l’espressività facciale. Costretti a rappresentare intere scene per mezzo di pochi “fotogrammi”, i fumetti hanno alle loro spalle un attentissimo studio delle espressioni dei volti. Questo vale a maggior ragione per le strisce umoristiche, che riescono a trasmettere gag anche solo con una variazione minima delle dimensioni degli occhi.

VIDEOGIOCHI A FUMETTi/1 Metal Gear Se progettare uno stealth game non è mai semplice, progettarne uno nel 1987 può sembrare addirittura improponibile. Tra i tanti problemi che Hideo Kojima dovette affrontare, uno dei più ostici riguardava come rappresentare, in una manciata di pixel, i diversi stati di allerta dei nemici. La soluzione fu quella di prendere in prestito dai fumetti i balloon con all’interno punti interrogativi ed esclamativi, nonché le classiche ‘Z’ per le guardie addormentate. Si tratta di un’idea vincente non solo per lo scarso ingombro computazionale, ma anche per l’universalità del codice comunicativo adottato.

Mario e Luigi: Superstar Saga

Nei titoli che, per ragioni economiche o per limiti di hardware, scelgono di non includere il doppiaggio, i dialoghi avvengono mediante caselle di testo. Questi riquadri tendono però a staccare molto con l’immagine a video, risultando fastidiosi. Molti giochi, come il recente RPG di Alpha Dream, hanno quindi dato a tali caselle il layout dei balloon, che si integrano maggiormente con la scena e permettono svariate soluzioni grafiche ereditate dai fumetti: ad esempio la nuvoletta a linea spezzata e con caratteri grandi ad indicare grida isteriche.

Max Payne Molti videogiochi fanno uso di tecniche dei fumetti per le cut scene, ma spesso la scelta è stata quella di visualizzare una vignetta per schermata, omettendo quindi la closure: la visione dell’intera tavola che ritma il passaggio di vignetta in vignetta, generando l'evocazione narrativa. Max Payne garantisce questo passaggio costruendo a video l’intera tavola. Non sarà Frank Miller, mal’atmosfera hard boiled è assicurata.

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“Senza certe espressioni anche la battuta non ha la stessa forza” confida a Ring l’autore di Ratman Leo Ortolani. “[Le espressioni dei volti] sottolineano in maniera anche esasperata ciò che sta succedendo. Quando siamo arrabbiati non abbiamo lo sguardo alterato e la fronte corrugata? Nel fumetto comico, dove la faccia è di gomma, queste caratteristiche vengono accentuate in una smorfia chiaramente impossibile per un essere umano e già comica per questo motivo”. Fino a poco tempo fa la ridotta potenza di calcolo aveva impedito ai videogiochi di entrare così nel dettaglio dei personaggi, e ancora oggi si incontrano difficoltà per la scarsa applicabilità del motion capture sui volti degli attori. Capita quindi frequentemente di vedere, addirittura in kolossal come Halo, protagonisti che muovono la bocca come marionette. Non è pertanto casuale che uno dei titoli che meglio è riuscito a narrare per mezzo della mimica facciale sia The Wind Waker, il cui studio delle espressioni dei volti deriva prepotentemente dal Fumetto.

VIDEOGIOCHI A FUMETTi/2 Accolade Comics Uscito su Commodore 64 nel 1987, Accolade Comics è un vero e proprio videogioco a fumetti. Compito dell’ utente è di premere il tasto “fire” per visualizzare, vignetta dopo vignetta, una spy story umoristica. Occasionalmente è possibile interagire con la trama per mezzo di dialoghi a risposta multipla oppure risolvere elementari enigmi. Purtroppo l’interazione era giusto di facciata: i bivi finivano tutti in un binario morto eccetto uno e i puzzle consistevano in una semplice permutazione oggettistica.

Comics Zone

E la narrazione è sicuramente il reparto in cui il Videogioco rivela i suoi legami più espliciti con i fumetti popolari, innanzitutto nella continua ricerca del sense of wonder. “Il sense of wonder si ha quando ci troviamo di fronte a qualcosa che non accade tutti i giorni e ci lascia, appunto, pieni di meraviglia” spiega Ortolani. “È importante nella narrazione di una storia a fumetti, perché la normalità non interessa a nessuno. La viviamo ogni giorno e chi comprerebbe fumetti che parlano della normalità?”. Lo stesso accade nei videogiochi: ambientati in mondi fantastici ed in cui la credibilità dell’intreccio è spesso secondaria, cedendo il passo a stravolgimenti della trama ideati appositamente per stupire il giocatore. Entrambi i media tendono inoltre ad adottare una narrazione di tipo character driven. Con una simile tecnica, la trama non viene scritta avendo come base un’idea narrativa originale: si inizia invece dalla caratterizzazione dei personaggi. Una volta formato il cast, gli attori vengono “lasciati liberi” di muoversi nel contesto scelto. Lo sceneggiatore sviluppa quindi la storia pensando ogni volta a quale possa essere il comportamento più coerente di ogni personaggio di fronte a semplici stimoli narrativi, come lo scontro con un nemico, il tradimento di un alleato etc. Se ben impiegata, la narrazione character driven può dare luogo a ottimi prodotti come la serie televisiva E.R., e si rivela ideale per il Videogioco,

Molto più interessante è l’esperimento effettuato in Comics Zone (Megadrive, 1995). Sketch Turner è un cartoonist che si ritrova proiettato all’interno del proprio fumetto. Saltando di vignetta in vignetta e, letteralmente, calandosi nei riquadri sottostanti, Sketch dovrà combattere i nemici e risolvere puzzle niente affatto banali fino alla fine di ogni livello, vale a dire di ogni tavola. Una serie di tecniche come le onomatopee e i dialoghi nello stile dei fumetti americani (“What the *@#?!”) danno a Comics Zone un appeal accattivante ancora oggi. Purtroppo la recente conversione su Game Boy Advance non regge il confronto con l’originale.

XIII Se i due titoli precedenti si limitano a rappresentare la tavola di un fumetto, XIII conduce il giocatore fin dentro la stessa, grazie a scenari celshaded e vignette inserite nell’immagine a video. Le onomatopee danno il tocco finale all’emulazione di medium in atto e riportano alla mente le scene di lotta dei vecchi telefilm di Batman. Non sembra quindi casuale che il protagonista di tale serie, Adam West, sia uno dei doppiatori del gioco.

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che necessita soprattutto di protagonisti carismatici con i quali far interagire l’utente. Tuttavia quello che spesso accade è che i personaggi vengano caratterizzati facendo un pesante uso di cliché: l’eroe, la spalla, l’eterna fidanzata, l’acerrimo rivale, l’animale parlante. Senza una solida base narrativa, personaggi del genere non possono che originare intrecci molto simili tra loro. Le storie nei videogiochi tendono infatti a seguire più o meno le solite linee evolutive, spesso riconducibili a quelle dei manga di combattimento. “Solitamente ogni protagonista di questo genere di manga inizia le sue avventure da inesperto” spiega Andrea Baricordi, “una vera e propria lavagna vuota su cui saranno gli eventi stessi a scrivere la storia del personaggio. Pochissimi sono i manga in cui il protagonista conosce già ciò che sta per accadergli, o in cui, se non altro, ha già a disposizione certe abilità o certi poteri che lo aiuteranno a superare le avversità. E, anche in questi casi, ciò che viene raccontato è comunque un percorso di crescita, di accumulo di esperienza, di capacità, di amici e/o compagni di viaggio, di presa di coscienza e di responsabilità. In maniera molto velata, addirittura quasi involontaria, ogni autore giapponese tende a far compiere ai propri personaggi questo genere di percorso, anche grazie al fatto che fin dal primo episodio di un manga si sa perfettamente che prima o poi ci sarà una conclusione, a differenza dei fumetti seriali europei o statunitensi. Tutto deve avere un inizio e una fine, insomma. E, in qualche modo, al termine di una storia un personaggio sarà comunque cambiato, in bene o in male, a seconda di ciò che ha vissuto. Alla fine dei conti, anche nei manga dove più si combatte o in quelli più intrisi di avventura allo stato puro, l’elemento più importante e distintivo è proprio questo, la crescita”. Un percorso di crescita presente praticamente in tutti i videogiochi di avventura, da Zelda a Final Fantasy, e non sono certo gli unici aspetti in comune: “Solitamente viene usata la formula del viaggio per permettere ai personaggi di affrontare nuove sfide, di uscire dai propri confini geografici e mentali. Il viaggio permette il confronto con culture diverse dalla propria, abitudini, modi di fare e di vivere. C’è una sorta di epica moderna, nei manga, dove il corrispettivo del Santo Graal occidentale non è la cerca di un oggetto simbolico (o a volte, lo è, come in Dragon Ball), ma di qualcosa legato al protagonista stesso, alla propria condizione, alla salvezza di una o più persone a esso legate (vedi Le Bizzarre Avventure di JoJo, o anche One Piece)”.

I videogiochi tratti da Capitan Tsubasa hanno cercato di riprodurre la complessità di una partita di calcio di Holly e Benji introducendo menù a tendina come nei JRPG. Il risultato è un’azione frammentata e poco divertente. La medesima sorte è toccata ai tie-in di Slam Dunk.

COSA PUO’ ANCORA OFFRIRE IL FUMETTO L’onomatopea Si tratta di un artificio che restituisce la percezione del suono in un medium, il Fumetto, che non ne dispone. È una comunicazione aggiuntiva fondamentale per lo story-telling: una vignetta completamente nera, eccetto due “snikt”, racconta perfettamente ciò che sta accadendo. In XIII l’onomatopea serve anche per assicurare al giocatore la percezione tridimensionale del suono. È una tecnica che attenua quel senso di smarrimento tipico degli FPS e può essere usata, con opportune variazioni grafiche, anche in giochi non riconducibili ai fumetti.

Il team-up Il team-up è l’incontri di due o più personaggi di serie diverse, che si coalizzano contro la minaccia di turno. Il team up è un espediente classico del fumetto dei supereroi e serve a far conoscere nuovi personaggi ai lettori. Applicato ai videogiochi, il team up avrebbe un potenziale enorme. Basti pensare ad un platform con protagonisti Sonic e Mario, oppure uno stealth game in cui Solid Snake e Sam Fisher indagano sui fatti di Black Mesa.

Il cliffhanger

L’interruzione della vicenda sul più bello, in seguito ad una rivelazione o alla vigilia di una scena madre. Secondo Leo Ortolani: “[Il cliffhanger] ha la doppia funzione di incuriosire il lettore a comprare l'albo successivo e di finire comunque in bellezza, con un colpo di scena, la storia che non si riesce a narrare su un unico albo, per questioni semplici come il fatto che più di tante pagine al mese un autore non può fare. Ha i suoi pregi, è ovvio, perché uno poi si aspetta di vedere come la situazione si sblocca, e l'attesa fa crescere le aspettative. L'unico difetto è quando le aspettative dell'albo seguente non sono soddisfatte da una risoluzione almeno pari, in genialità, con il colpo di scena”. Nonostante la natura seriale di molti titoli, il Videogioco conta pochissimi cliffhanger veri e propri. La scelta ricade nella maggior parte dei casi nei finali aperti, nei quali la vicenda a tutti gli effetti si conclude, ma ciononostante viene lasciato un margine di incertezza necessario per un sequel. Uno dei migliori finali aperti mai apparsi un videogioco è senz’altro il volo verso l’ignoto del protagonista di Another World. Tra i pochi cliffhanger segnaliamo invece i finali di XIII e di Shenmue 2, proprio a ridosso di sequenze fondamentali. In altri casi, ad esempio Soul Reaver, più che precisa scelta narrativa si può parlare di finale volutamente troncato per non ritardare ulteriormente il rilascio dell’opera.

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Tuttavia la narrazione fumettistica applicata ai videogiochi deve tenere conto di alcuni vincoli fondamentali. “Finché si tratta di azione, un videogioco può sicuramente trarre spunti da un fumetto” precisa infatti Baricordi, “ma sarebbe piuttosto difficile rendere ludica una storia d’introspezione, un dramma, una commedia. Basti pensare a un manga come Rocky Joe, di cui pur sono state realizzate diverse trasposizioni videoludiche: il gioco si basa per ovvie ragioni sugli incontri di pugilato, ma non può tenere in considerazione tutto ciò che Joe vive fuori dal ring, i suoi difficili rapporti con gli altri personaggi, la sua drammatica crescita, i suoi sbalzi di umore, la sua psicologia da ragazzo dei bassifondi scagliato sotto i riflettori, i suoi momenti di depressione, le sue paure, e così via. Se vogliamo guardare nel dettaglio un manga d’azione, poi, ci renderemo conto che il combattimento vero e proprio non è altro che la punta dell’iceberg dello scontro fra due personaggi: spesso non si tratta di semplici confronti di forza, bensì di tattica, strategia, astuzia”. L’RPG di scuola nipponica sembra pertanto un genere studiato appositamente per ovviare a questi limiti, assicurando un’approfondita introspezione nei personaggi, con i buoni dalla personalità contraddittoria e i cattivi che non sono mai troppo cattivi, il tutto condito da combattimenti fondati sulla strategia e sulla pianificazione delle mosse. Un tentativo di avvicinamento all’epica dei manga che però costituisce un allontanamento dalla concezione classica di Videogioco, sacrificando parte dell’interazione concessa da questo medium. Infatti, come conclude Andrea Baricordi: “Alla fine dei conti, a mio avviso, fumetto e videogioco combaciano fra di loro solo per un lieve tratto di confine, e benché possano fornire ottimi spunti l’uno all’altro, è probabilmente un errore (almeno basandoci su ciò che è stato realizzato finora) ritenere che siano due generi strettamente legati”.

Maus, di Art Spiegelman, è considerato uno dei capolavori degli ultimi anni, ed è una testimonianza storica talmente dettagliata da essere anche un ottimo strumento didattico. Un traguardo ancora lontano per un videogame.

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NATHAN GARRELTS //

riuscirà mai master chief a fraggare moby dick?

Ogni mese un membro della DiGRA (Digital Games Research Association), una associazione che riunisce studiosi e critici del videogioco, esprimerà in questo spazio i suoi pensieri, le sue riflessioni, le sue scoperte. Gli sguardi di queste persone, coinvolte in modo diverso nel mondo dei game studies o nell'industria del videogioco propriamente detta, saranno uno spunto per arricchire i nostri dibattiti e per crearne di nuovi. La IGDA (www.igda.org) (International Game Developers Association), da sempre impegnata nello studio del videogame e proprietaria degli scritti degli uomini della DiGRA, ha acconsentito alla pubblicazione in lingua italiana su Ring di questi articoli. Ringraziandoli ancora una volta, ci auguriamo che le nostre pagine siano degne della passione che la IGDA nutre per il proprio lavoro. Al fine di stimolare la curiosità di chi volesse approfondire l’argomento, abbiamo deciso di conservare i riferimenti e i link presenti nei testi originali. a cura di Paolo Ruffino Questo numero vede come ospite Nathan Garrelts, Assistant Professor of English presso la Saginaw Valley State University. È fondatore e direttore dell’area di Video Game Studies alla Popolar Culture Association National Conference, e recentemente si è occupato come editor di una raccolta di saggi per la McFarland Press riguardante i videogiochi, i videogiocatori, e i rapporti tra questi due, il cui titolo sarà annunciato a breve. L’argomento di cui discute è uno di quelli di cui si sente parlare poco: cosa accade quando gli studi sui videogiochi entrano davvero nelle accademie? Come vengono visti dalla maggioranza dei professori che non si occupano di questi argomenti, e li hanno sempre tenuti in scarsissima considerazione? Basta entrare in un’accademia per essere rispettati nella Torre d’Avorio?

RIUSCIRÀ MAI MASTER CHIEF A FRAGGARE MOBY DICK? di Nathan Garrelts

O

gni volta che parlo coi miei colleghi dei miei interessi di studio mi sento come se stessi confessando qualche perversa devianza ad un gruppo di recupero. Anche se molto è stato scritto riguardo al rapporto tra gli studiosi e i programmatori di videogiochi, un aspetto che non viene mai discusso è il rapporto tra i ricercatori di questa materia e i loro colleghi estranei a questi argomenti. Tra i realizzatori di giochi le proprie opere sono sempre prese in seria considerazione, ma tra i membri della Torre d’Avorio vivono molti che ancora non sanno bene di cosa si tratti e non si preoccupano del valore culturale del mezzo. L’ignoranza diffusa su questo argomento, unito al fatto che spesso i computer games sono studiati ai margini di diverse discipline, crea una situazione che obbliga gli studiosi a dovere spiegare la loro scelta e quasi giustificarsi ogni volta. Io, personalmente parlando, in quanto dottore in American Studies presso la Michigan State University, non ho avuto difficoltà ad includere i vide-

ogiochi nelle mie ricerche. Vengo da un campo di studi dove c’è chi studia la cultura del circo o le politche riguardanti l’obesità, per cui, anche se del tutto nuovo, il mio non era un interesse così stravagante. Mi sono reso conto di quante domande e perplessità potesse sollevare questo studio solo quando ho iniziato a fare colloqui di lavoro in alcuni dipartimenti d’Inglese. Era inevitabile la domanda: “Come pensi che i videogiochi possano entrare qui dentro?” Tre anni e due cattedre dopo, mi sono reso conto che non è difficile giustificare i videogiochi come forma di letteratura contemporanea degna di essere studiata in un dipartimento d’Inglese. Anche se di solito si chiama letteratura qualcosa di artistico realizzato su stampa, il termine ha un significato molto più ampio. Lasciando stare la percezione delle masse, e le lamentele di alcuni accademici, la letteratura non è neccessariamente stampata, ed infatti non lo è sempre stata.

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L’unico requisito è che si tratti di un oggetto che faccia uso di un sistema simbolico, intenzionale, creativo o artistico per comunicare un’esperienza. Quindi i videogiochi non solo rientrano nella definizione, ma racchiudono al loro interno alcune forme classiche della letteratura: dialoghi scritti, narrazioni che si svolgono, personaggi ed ambientazioni complesse. Inoltre i digital games hanno ripreso e sviluppato il complesso rapporto col pubblico nato con la poesia ed il dramma. Come nella poesia i giochi sottolineano la costruzione di significato basata sulla duplice azione dell’autore e del lettore, e, come nel dramma, l’esperienza non è solo coinvolgente a livello intellettuale ma spesso richiede anche l’azione del giocatore (anche più di quanto Barthes sosteneva che accadesse nel testo scritto).

A dire il vero, proprio in quanto mezzi che spingono ai limiti le convenzioni letterarie, i videogiochi possono essere considerati esempi perfetti di letteratura postmoderna. Una delle caratteristiche più ricorrenti della letteratura postmoderna è infatti la narrazione frammentata e giocosa, il prendere la cultura popolare sul serio, presentare la prospettiva dimenticata del soggetto che vive al limite, incoraggiare domande ontologiche, e premiare l’ambiguità (Waugh1). La conseguenza è che i lettori devono faticare parecchio per giungere ai significati più interni dei testi postmoderni. Chiunque abbia giocato Silent Hill, Metal Gear Solid 2 o Final Fantasy VII può confermare che è esattamente quello che accade anche in molti videogiochi. Ovviamente molti accademici storcono il naso, notando che i videogiochi non sono stampati. Io credo che la forma espositiva di un testo, il modo in cui viene trasmesso, non sia un fattore cruciale al fine di stabilire se si tratti o meno di letteratura. Per esempio, considerando i tre generi letterari più tradizionali – la poesia, il dramma e la prosa – si nota come già i primi due non fossero inizialmente vincolati alla stampa. La poesia ed il dramma sono indubbiamente letteratura, ma non sono nati come testi stampati, anzi, lo sono diventati solo accidentalmente. La poesia nasce come forma di trasmissione orale: il poema stampato è un modo per preservare, o veicolare con un altro mezzo, il testo originale trasmesso a voce. Anche se molta poesia oggi viene trascritta nello stesso momento in cui è composta, l’attenzione alla sonorità la distingue e ne testimonia le origini orali. La forma di poesia più popolare oggi, la canzone, può essere registrata oppure trascritta. Non a caso Bob Dylan è stato indicato per il Premio Nobel per la letteratura in più di una occasione. Spesso questi discorsi confondono i puristi,

e ci si perde nell’elitarismo quando si parla di accettare i testi dei moderni songwriter come letteratura. Come per la poesia stampata, anche il dramma iniziò ad essere trascritto in modo da preservarlo, trasmetterlo e dunque recitarlo nuovamente; qualcosa di molto simile a quanto accade con la musica riportata sul pentagramma. In realtà trattare il dramma come un testo scritto è una perversione dei dipartimenti d’Inglese. Invece i rapporti tra il testo, la visione e il momento irripetibile della performance sono essenziali per la comprensione del messaggio da parte del pubblico, anche se poi il rapporto tra testo e rappresentazione è ignorato o relegato al dipartimento di teatro. Sfortunatamente nella Torre d’Avorio tutto deve superare i giochi di potere, e lo studio dei digital games non fa esclusione. Anche se diversi accademici sono riusciti ad ampliare l’ambito degli studi di letteratura per includere opere a voce o basate su performance, come i testi di musica hip-hop o i film di Hollywood, queste forme alternative sono viste come bastarde o ai margini, e la letteratura tradizionale resta oggetto di ricerca e studi generali oltre che di corsi appositi. Certo, questo atteggiamento viene difeso sostenendo che gli studenti non possono che beneficiare dalla lettura dei testi canonici, che probabilmente non leggerebbero mai per conto loro. Ma, pur non essendoci prove che gli studenti traggano davvero aiuto da questa pratica, resta certo che chi si specializza su questi testi poi guadagni più facilmente un impiego nelle accademie. Ed inoltre risulta chiaro che questo non permette agli studenti di ricevere aiuti per pensare su quella letteratura con cui davvero hanno a che fare tutti i giorni. Anche se spero che i game studies trovino un loro posto nelle accademie, mi sembra molto difficile che si possa fare meglio dei cugini bastardi già emarginati nei dipartimenti d’Inglese.

Note

1. Waugh, Patricia. Metafiction: The Theory and Practice of Self-Conscious Fiction. New York, Routledge, 1988

LOCALIZE THIS! Preparati per l’appuntamento con ‘MTV at: Xbox Los Angeles Party’. Terremo il piito party del mondo per festeggiare la presentazione di uno dei videogame piti mai creati, ti farimpazzire! A presentare la serata ci sar ‘attore Hollywoodiano Elijah Wood, star de ‘Il Signore degli Anelli’ e ‘Sin City’, oltre che insaziabile maniaco dell’Xbox. Il pindaloso party del mondo ha bisogno della musica piita. Per questo saranno presente due delle pindi band del momento per dare un sound speciale alla serata. I rocker celtici, Snow Patrol, e le leggende di Las Vegas, The Killers, si uniranno ai festeggiamenti e faranno muovere gli invitati per tutto il party. Non perderti l’appuntamento con la rivoluzione dei giochi per console. Dal sito unificato Xbox-Southpark

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LE 100 COSE DEI VIDEOGAMES CHE AMEREMO SEMPRE di Cryu 1.

Sparare ai barili infiammabili.

2.

Tagliare il traguardo in testacoda.

3.

Tentare di uccidere PNG alleati.

4.

Infilare bombe a miccia negli orifizi di creature di grossa taglia.

5.

Provare a tagliare i tornanti di un tracciato rally.

18. Nei giochi con light gun, perdere una vita perché invece che ai nemici ci si è messi a sparare a frutta, bottiglie e finestrini delle automobili. 19. Il selettore 50/60Hz. 20. Falciare l’attaccante avversario in fuga.

6.

Occultare cadaveri anche se nel raggio di un miglio non c’è nessuno che li possa rinvenire.

7.

Trovare lo shotgun in un survival horror.

8.

Schiantarci a 300 all’ora contro un muro per ridurre la vettura in briciole.

9.

Provare la nuova ‘summon’.

21. Controllare la mappa ogni 20 secondi. 22. Salvare ogni 15. 23. Passare alla visuale in soggettiva per guardare com’è fatta la cupola sopra di noi. 24. Puntare il fucile da cecchino agli uccelli. 25. Lanciarsi da un auto in corsa un metro prima che rovini in mare. 26. Scrivere con il mitragliatore il proprio nome su una parete. 27. Cambiare memory card senza spegnere la console. 28. Acquistare inutili suppellettili in giochi dove non si disporrà mai di una casa in cui posizionarli. 29. Tuffarsi in acqua da altezza vertiginose. 30. Anche senz’acqua, a patto di avere appena salvato. 31. Inclinare il pad verso destra o sinistra quando la macchina non ne vuole sapere di sterzare abbastanza. 32. Rifare il livello perché abbiamo sprecato troppe munizioni.

10. Recidere con un’arma da taglio corde a cui è agganciato qualcosa di molto pesante.

33. Tentare un improbabile pallonetto quando con il piattone si andrebbe a botta sicura.

11. Sparare da una postazione fissa. Meglio se con un fucile a canne rotanti.

34. Saltellare su ponti fatti di legno e funi compiacendoci del moto oscillatorio così prodotto.

12. Verificare tutto quello che si può rompere con l’arma in dotazione e lamentarsi per quel muricciolo di legno, che resiste imperterrito ai caramelloni del nostro bazooka.

35. Cavalcare rinoceronti e struzzi.

13. Sperare che il tasto start metta in pausa una cut-scene, quando no, regolarmente la skippa. 14. Imbucarci nel tunnel della Morte Nera. 15. Lanciare un hadoken a un avversario in parata al quale rimane solo un pixel d’energia. 16. Salvare prima del boss di fine livello. 17. Contare di superare un giro della morte anche se lo si imbocca a 34Km/h.

36. Passare sotto i ponti nei simulatori di volo.

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37. Scaraventare i nemici in acqua, fuoco, burroni e pozzi irti di lame. 38. Invertire i comandi lungo l’asse Y, a prescindere dalla configurazione originale. 39. Infilare la barra verticale nella fessura ad hoc formata dai pezzi già posizionati. Altolà Freud! 40. Eseguire il defrag dell’hard disk nella pia illusione che poi DOOMIII girerà più fluido. 41. Incolpare frame rate, pad, lag o incursioni parentali per una sconfitta. 42. Comprare il massimo numero di pozioni trasportabili presso quell’aguzzino del venditore ambulante. 43. Visionare il replay di ogni gol da tutte le possibili angolazioni, specie se l’avversario è umano e preme forsennatamente i tasti nel pad nell’inutile tentativo di skippare.

51. Con visuale impedita, muovere fisicamente la testa verso i margini del televisore, nella convinzione che si riesca a scorgere oltre gli ostacoli rappresentati a video. 52. Sentirci intelligenti dopo aver risolto un enigma di Resident Evil, cinque minuti dopo aver abbandonato per evidente inadeguatezza il cruciverba in copertina della Settimana Enigmistica. 53. Premere nuovamente il pulsante per parlare di fronte a un personaggio di un RPG, nella vana speranza che pronunci una frase diversa da quella che è stato condannato a ripetere all’infinito. 54. Prendercela con le galline di Zelda, con i topi di Ninja Gaiden, con le vacche di Resident Evil 4 e con tutti gli animali innocui che popolano incautamente i pascoli digitali. NB: Nessun animale è stato realmente maltrattato nella redazione di questo articolo. 55. Percorrere una discesa rotolando. 56. Appropriarci di soldi e averi recuperati in casa di gente per bene di cui si è violato indebitamente l’accesso. 57. Ricorrere al freno a mano non appena possibile. 58. Controllare il corretto funzionamento dei bagni: sciacquone azionabile, specchi effettivamente riflettenti, carta igienica consumabile, ecc.

44. Andare ai box per scoprire se si vedono i meccanici. 45. Scegliere il fondale quando si gioca a un picchiaduro in multiplayer. 46. Lanciare nei genitali del battitore in prima base. 47. Conservare il salvataggio prima di un bel FMV. 48. Spendere di più per acquistare la versione italiana e poi impostare la lingua originale per fuggire l’immorale doppiaggio nostrano.

59. Sperperare soldi virtuali in mini-game, scommesse e souvenir. Quindi riprendere dall’ultima partita salvata. 60. Il fischio degli pneumatici che perdono aderenza. 61. Guardare il sole per vedere se il lens-flare è fatto come si deve. 62. Zoomare sulle zone erogene dei personaggi femminili.

49. Firmarci ‘AAA’ dopo aver totalizzato un punteggio patetico. 50. Sbellicarci per gag che nella realtà o in TV non ci strapperebbero neanche un sorriso.

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63. Provocare tamponamenti a catena. 64. Sentirci realmente eroi dopo aver salvato un mondo fittizio. 65. Tagliare erba e alberi a colpi di spada. I videogiocatori sono tutti giardinieri mancati. 66. Suonare il clacson e/o attivare la sirena. 67. Quando all’avversario rimane un solo pixel d’energia, tentare di sconfiggerlo con una mossa stylish, operazione che conduce spesso al recupero e alla vittoria dell’avversario. 68. Muoversi come deficienti per la mappa di un RPG, con gli altri personaggi del party che si muovo a serpente dietro di noi. 69. Saltare. Sempre e comunque. Specie per coprire lunghe distanze, nella curiosa convinzione che saltando si vada più veloci che correndo. 70. Adottare un approccio stealth. Muoversi nell'ombra e, lentamente, osservare con il binocolo il campo d'azione. Calcolare i tempi delle ronde, poi entrare in azione e morire con una pallottola in fronte. Ricaricare il salvataggio e rifare il tutto con approccio John Rambo.

80. Premere due volte X per vedere se c’è il doppio salto. 81. Sgasare prima della partenza. 82. 60fps. 83. Infierire sull’avversario nell’intervallo di tempo che separa il KO dal replay. 84. Proiettili infiniti. 85. Esplosioni. Tante, grosse, luminose, roboanti. 86. Verificare se dalla visuale in soggettiva si vedono i piedi. 87. Tentare di respingere al volo proiettili che potremmo comodamente schivare. 88. Costumi extra sexy. 89. Effetti domino che esaltino la fisica Havock. 90. Il tasto per riportare la telecamera alle spalle dell’avatar. 91. Trasformarci. Animali, demoni, automobili. In qualsiasi cosa, basta di trasformarci. Possibilmente dopo aver riempito un’apposita barra.

71. Calcio volante, spazzata.

92. Il replay di una gara vinta all’ultima curva. 93. Skippare l’animazione d’ingresso a un negozio. 72. Inserire il god mode in un FPS e giocare per dei quarti d’ora senza alcuno scopo.

94. Zittire la colonna sonora, che fa SCHI-FO.

73. Brasile All Stars VS Cina.

95. Vite extra. Sarà un retaggio dei classici arcade, ma quando si vince una vita extra ci si sente sempre dei fenomeni.

74. 'Crash-test-dummie’ perché si sta discutendo del dettaglio di un fondale.

96. Instant kill per strangolamento alle spalle o botta in testa.

75. Invulnerabilità. Specie se corredata da gradevoli effetti di illuminazione e un frenetico jingle ad hoc.

97. Il ‘click’ del tasto R3.

76. Trasformarsi in morfosfera, soprattutto quando non serve, per vedere se il level design è degno di Super Monkey Ball. 77. Posizionarsi di fronte a un getto di vapore solo per far appannare il visore.

98. Demenziali bonus game in cui non si può morire. 99. Personaggi comprimari del tutto ininfluenti sul gameplay ma ottimamente doppiati nelle cutscene. 100.

Giochi in 2D.

78. Montanti che scagliano l’avversario per aria condannandolo a una combo infinita. 79. Sorpasso all’interno portiera contro portiera.

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POLYGONS KILLED THE BITMAP STARS

<pillole di sperimentazione nintendiana su 3d e 2d>

di Marco Benoît Carbone http://marcobenoit.blogs.com

L’

abbandono della rappresentazione bidimensionale in favore dell’utilizzo dei poligoni è una verità storica nelle vicende espressive del gioco elettronico. Per questo, le recriminazioni dei nostalgici radicali su quello che il 2D avrebbe ancora potuto esprimere non andrebbero rigettate in toto come vacui sentimentalismi. In parte, è vero che il 2D avrebbe potuto dare molto di più. La violenta frattura tecnica determinatasi a metà dei novanta, con l’adozione progressiva del 3D, ha provocato un lento ma inesorabile tramonto delle tecniche di rappresentazione bitmap, con il conseguente abbandono di interi generi che proprio su queste formule espressive si erano costituiti. Molti di questi non sono riusciti a re-innestarsi in formule basate su rappresentazioni poligonali. In questo momento alcuni generi “classici” dell’era bidimensionale sono praticamente scomparsi dal mercato, come i brawlers a scorrimento orizzontale. Oppure, se si sono mantenuti fedeli alle proprie tradizioni e meccaniche 2D pur componendosi di poligoni (Contra: Shattered Soldiers, Gradius V…), sono diventati fenomeni da baraccone underground per pochi freaks del pollice fumante, ignorati dai cosiddetti casual gamers e così inattuali rispetto allo zeitgeist videoludico da risultare inadatti persino ad avvicinarsi ai posti alti delle classifiche. Beninteso, il 2D in senso lato esiste ancora. Tanto per cominciare lo schermo è piatto. Per quanto triviale possa suonare questa osservazione, andrebbe ricordato che gli ambienti 3D capaci di far spostare la testa insieme al controller nell’illusione del varco della soglia sono ancora molto rari. C’è poi da osservare che tantissime meccaniche ludiche e svariati generi sfruttano ancora un modello di interazione del tutto bidimensionale nella concezione della fisica, salvo poi non produrlo esteticamente per matrici di punti. Infine c’è la questione del texture mapping, che è e rimane bitmap. Insomma, le tecniche grafiche a mappa di punti hanno perso la centralità nella costruzione dell’ambiente come coordinate X e Y, e con questa concezione si sono inariditi interi approcci ludici; eppure, nell’ingresso nella dimensione Z, le stesse tecniche sono tornate utili per nuovi usi e consumi. In fondo, però, anche l’estetica 2D continua a esercitare un fascino evidente in remake ed esperimenti di varia natura. Per non parlare, poi, del “ritorno al 2D” dell’abusatissimo Cel Shading: la dimostrazione contemporanea e insieme indiscutibilmente atemporale del fascino della linea non fotorealistica, dell’impressione di volumi essenziali. Su tutto questo si potrebbe dire moltissimo. Qui si riporterà solo il modo in cui Nintendo abbia “riflettuto” su questa transizione, portando 2D e 3D allo scontro pur nel rispetto di una transizione storicamente inarrestabile. Non c’è soltanto il fatto che il GBA abbia favorito un ritorno, in versione portatile, al 2D in cui Nintendo eccelleva. Su questa console il bidimensionale non ha espresso altro che remake, compilation, pastiche e risciacqui di meccaniche di gioco classiche o poco ispirate, viziate generalmente dall’atteggiamento in stile “fi-

niamolo presto e facile” o “mettici su due extra e riutilizziamolo” della gran parte di questa generazione di produttori (e consumatori). Su un diverso piano produttivo, al contrario, fatto di una lunga storia di episodi estetici, Nintendo ha prodotto teoria giocabile dello scontro tra i due paradigmi. Per carità, senza arrivare a uno statuto riflessivo dalla portata veramente artistica: eppure, avvicinandosi quantomeno a un discorso artistoide. Il percorso inizia in era 16bit. Il 3D di Nintendo era ancora da venire: i poligoni erano sperimentazione laterale in StarFox o presenza aleggiante e minacciosa di altre compagnie. Il punto di arrivo di questo processo, invece, una decina di anni dopo, è in Paper Mario 2 per GameCube. Nel corso di questi anni si può tracciare una piccola storia della grafica nintendiana, dall’epoca del suo impero al tracollo sotto la tirannia poligonale. Ora, su questo piccolo contributo per Ring: il pensiero statistico e quantitativo non solo non mi si addice, ma non appartiene alla critica degli stili. Nella sua forma impoverita, poi, rischia di diventare citazionismo superficiale, una costellazione impressionistica di dati ammassati senza un significato comune, sparati disordinatamente come sfoggio di conoscenza. Quindi, nessuno me ne voglia se a questo approccio – barocco, forse, nei contenuti sostituisco una breve e asistematica rassegna su episodi-chiave privi di validità universale, eppure legati da elementi di continuità del tutto evidenti nel percorso nintendiano (e, ovviamente, non solo nintendiano). Un’ultima avvertenza. Un’analisi più sistematica su questo tema dovrebbe andare alla ricerca, nei crediti e con le interviste, delle persone reali che hanno determinato queste scelte espressive: cosa, questa, che non ho la minima intenzione di affrontare senza le risorse e gli strumenti adeguati. Nell’attesa che la storia dei videogiochi si possa leggere in facili, trasparenti, esaustive, pubbliche risorse di credits su chi i videogiochi li crea e negozia, ci riferiremo per pigrizia “alla Nintendo”. La lista di esempi che segue, d’altronde, è solo uno spunto, un dubbio se alla Nintendo ci sia davvero chi l’incontro/scontro tra 2D e 3D lo ha pensato organicamente, per poi farcelo giocare. Una cosa è probabile: alla Nintendo, qualcuno ha letto Flatlandia.

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Il naïve come progetto Yoshi’s Island (Super NES - 1995)

Yoshi’s Island è forse il primo esempio di rappresentazione grafica dallo stile ispirato esplicitamente al disegno infantile e ai libri-album di figure pop-up. Nintendo aveva appena schiacciato il Megadrive con il fenomeno commerciale Donkey Kong Country, che cavalcava i sogni del popolo ludico con la famosa tecnica pre-renderizzata ACM, un inno estetico alle future e progressive sorti dell’animazione del gioco elettronico. Yoshi’s Island era il secondo colpo letale ai danni di Sega. Esteticamente, però, questo primo platform del dinosauro più amato dal merchandising cambia stile: e si presenta con fiorellini che spuntano piatti in primo piano, disegni in stile naïve, stelline e soli colorati fatti di tratti di matitoni imprecisi, altri espedienti grafici di questo tipo. Di per sé, questo stile non è un ragionamento autoriflessivo rispetto alla rappresentazione in due dimensioni: questo discorso arriverà a compimento più tardi, ma è già in nuce in Yoshi’s Island. Un voto? A

Pre-rendering e isometria contro il 2D cattivo Super Mario RPG (Super NES -1996)

Nintendo e Square insieme, a detta di molti, hanno consegnato un risultato dalla classe notevole. Super Mario RPG non era solo un ottimo gioco di ruolo, ma aveva una gran bella grafica. Narrativamente, così al grado zero e autoironico, era sicuramente meno stantio di molti RPG dell’epoca. Figuriamoci il suo valore rispetto alla new wave of japan RPGs contemporanea, popolata di bambocci dalle estetiche stra-abusate e derivative, impegnati in imbarazzanti salvataggi del mondo o dell’uni-

verso (se siamo fortunati, del pluriverso). Sia come sia, sul piano estetico Mario RPG era ancora un altro, grande salto sul carrozzone del nuovo stile renderizzato, coerente con la svolta estetica minacciata che ha svecchiato la grafica a 16bit degli ultimi anni sotto la minaccia dei nuovi modelli poligonali. I poligoni, si era visto con Starfox e altri esperimenti, sui 16bit funzionavano poco e male. Meglio l’ACM della RARE, quindi, o qualunque espediente per dare volume e campiture più ricche al 2D. Il lavoro di pre-rendering per Super Mario RPG, poi, si accompagnava all’isometria, che già da sola era stata il primo procedimento del gioco elettronico per suggerire la tridimensionalità dell’ambiente di gioco (come ai bei tempi di Crafton e Xunk). In Super Mario RPG non c’è solo la tensione e il lavorio verso questo varco espressivo, ma pure un riferimento esplicito al rapporto tra 2D e 3D. In un livello, abbastanza avanti nello svolgimento del gioco, c’è un’occasione in cui lo sprite renderizzato di Mario regredisce temporaneamente all’estetica di Super Mario Bros, stridendo notevolmente con l’isometria e l’illusione di tridimensionalità dell’ambiente circostante. Ancora poco, ma un bel pugno nell’occhio. Un voto? B (e un tuffo al cuore)

Polygons killed the bitmap stars Super Mario 64 (Nintendo 64 - 1996) Cosa c’entra un gioco interamente in 3D – e anzi famoso per il salto di Mario nel poligonale - con un percorso di riflessioni sul rapporto tra 3D e 2D? Semplicemente, e proprio rimanendo sul tema, Mario 64 è una frattura epocale per la rappresentazione videoludica. E lo è anche e soprattutto per Nintendo. Tutti gli sforzi di Miyamoto e collabora-

tori si concentrano nel trasportare nella terza dimensione la sensazione di sovrastante superiorità di design tipica dei Mario bidimensionali. Missione riuscita, e da allora Mario non è ancora tornato in 2D con un platform inedito del calibro dei classici del passato. Caso o necessità? Un voto? S

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Textures, cuciture e libri pop-up Yoshi’s Story (Nintendo 64 - 1998) Il seguito di Yoshi’s Island era un platform penoso. In parte, per il target. Yoshi ormai faceva già guadagnare più soldi come pupazzo che da avatar videoludico. In parte, però, scelte di design vergognose sono al lavoro nel gioco e capaci di fare inorridire bambini e adulti di ogni età. Yoshi’s Story ha quantomeno il pregio di segnare in maniera netta il momento in cui qualcuno alla Nintendo ha deciso di esplicitare la vocazione di rimediare elettronicamente lo stile estetico e l’illu-

sione di “profondità piatta” dei libri pop-up per bambini. Pieno di figure di cartoncino che si alzano all’apertura della pagina, stoffe (textures, appunto) nei fondali e altre amenità, Yoshi’s Story è in maniera finalmente dichiarata - una storia giocabile all’interno di un libro per bambini. Peccato che questo si rifletta sul solo piano estetico, senza alcuna ripercussione degna di nota sulla blanda interazione. Un voto? D

A clash between 2D and 3D Paper Mario (Nintendo 64 - 2001) Paper Mario è una svolta espressiva nelle intenzioni, il punto cruciale della riflessione sul rapporto tra stile 2D e 3D elaborata da Nintendo. Fondali in 3D e personaggi piatti che si voltano come fogli di carta esplicitano la riflessione di Nintendo sulla stilistica dimensionale. Paper Mario è però una riflessione incompiuta, più che altro uno spunto. La lavorazione è una delle più travagliate che si ricordi. Nella transizione da Super Mario RPG a questo semi-sequel si era anche consumato il divorzio commercialmente disastroso con Squaresoft. Il nome definitivo del gioco, dal canto suo, e di conseguenza la sanzione ufficiale di questa riflessione sul libro pop-up, arriva dopo quattro anni di ritardi. Quando finalmente si mostra, tuttavia, Paper Mario non delude. Invece di costruire illusione di profondità e tridimensionalità, Nintendo cambia direzione: scardina questa concezione e la mette in

The Golden Age of LCDs Super Smash Bros Meleé (GameCube - 2001)

Già in Super Smash Bros per Nintendo 64 iniziava la stagione dell’autocitazionismo selvaggio di Nintendo. Mentre iniziavano i remake, le compilation, i recuperi storici, nel primo brawler multiplayer della casa di Kyoto era possibile sbloccare un livello speciale, ispirato alla grafica bidimensionale di Super Mario Bros: l’opposizione stilistica rispetto agli ambienti poligonali falso-realistici del gioco era netta. Sotto questa forma, l’extra sembrava avere sprazzi di autoironia: Smash Bros era tutto fuorché 3D nell’interazione, e una simile aggiunta funzionava come clausola di onestà per l’osservatore più attento. Nel seguito per GameCube - che è poi un gioco nettamente più raffinato e riuscito del primo - la citazione diventa sistemati-

discussione facendo scontrare una rappresentazione dotata di profondità - quella dei fondali - con una irrimediabilmente piatta e ad essa apparentemente inconciliabile, quella degli sprite 2D dei personaggi. Le case si aprono allora come costruzioni in cartoncino, Mario entra nelle coperte per riposare scivolandovi dentro come un foglio, i personaggi si voltano e scompaiono momentaneamente in profondità nel cambiare direzione di marcia. Operazione, questa, certamente più artistica o eversiva di qualunque sfoggio grafico da team cinematografico-industriale del solito fainal fantasi, anche se a ben vedere le ripercussioni di questa estetica sul piano interattivo sono inesistenti e il livello narrativo è ancora a un grado troppo semplice perché in Paper Mario si possa trovare un manifesto dello scontro di paradigmi. Un voto? B

ca, e il ricorso alla riflessione sul rapporto 2D/3D esplicito. I fondali ispirati allo stile bidimensionale si moltiplicano, ma l’elemento cruciale nell’autoanalisi estetica è rappresentato da Mr. Game & Watch. A patto di avere Smash Bros, con l’omino degli storici handheld a LCD di Nintendo da oggi potrete pestare anche Mario o Link: tuttavia, a differenza degli altri eroi Nintendo, il protagonista dei Game & Watch non ha guadagnato la dimensione Z. Inserito nella rosa dei combattenti sbloccabili, Mr Game & Watch rimane piatto com’era sugli schermi dei piccoli scacciapensieri anni ottanta. Inoltre, continua a muoversi a scatti, senza un’animazione continua tra una posizione prefissata e l’altra. In sostanza, non è mai uscito dal Game & Watch originale, pur attraversando la storia tecnologica con un balzo immane e improvviso. Il suo livello è poi ambientato proprio all’interno di un Game & Watch Nintendo, con un geniale warp temporale: l’intero hand-held è ri-mediato e rappresentato all’interno dello schermo. Di Super Smash Bros, andando off topic, si potrebbe anche ricordare la grande metafora delle statuine che prendono vita, trapassando idealmente lo schermo per ricordarci della connessione tra videogioco, collezionismo e vecchi giocattoli. Cosa che alcuni potrebbero ritenere eccessivamente infantile, salvo poi ritrovarsela in Resident Evil 4 puntuale come uno schiaffo. Un voto? A

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Per sguardi adulti Legend of Zelda: The Wind Waker (GameCube - 2003)

Asciugato degli eccessi modaioli e riportato a uno stato di stilizzata bellezza, il Cel Shading torna ad essere tecnica per la creazione di mondi estetici sobri, netti ed eleganti e conferisce al nuovo episodio di Zelda una connotazione unica, che fa tuttuno con il progetto interattivo della creatura di Miyamoto, Iwata e Tezuka. In quanto mondo possibile costruito su un’estetica dirompente e “altra” rispetto all’eredità fantasy/naturalistica di Ocarina of Time, Wind Waker è un manifesto di volontà poetica: Nintendo vuol fare la Disney del gioco interattivo, costruire mondi d’animazione giocabili, offrire immersioni fantastiche. E vuol farlo evocando un mondo mosso da poligoni ma che si mostra “piatto” come un film d’animazione. Il progetto è certo più maturo della sensibilità estetica di quanti pensano che il nuovo filmato di Zelda: The Twilight Princess sia “dark”. Un voto? A

La svolta narrativa Mario & Luigi Superstar Saga (GameBoy Advance - 2003) Seguito non ufficiale di Paper Mario, Mario & Luigi Superstar Saga prende in prestito dall’RPG per Nintendo 64 la sola meccanica di gioco, con l’obbiettivo di arricchirla e perfezionarla. Il bizzarro RPG di Nintendo e AlphaDream (tipi dietro un leggendario Tomato Adventure) si avvale di una grafica bidimensionale piacevolmente ricca di occhi stilizzati alla Disney primissima maniera, lontana dal fumettismo dozzinale di certi approcci nintendiani precedenti. Mario & Luigi è praticamente privo di spunti riflessivi sulla profondità di campo, anche se involontariamente disorientante a causa del difficile colpo d’occhio del giocatore sul fondale. Leggero e ironico, autoriflessivo e umoristico, Mario & Luigi è lontano anni luce dalla pesantezza e scontatezza della maggior parte dei JRPG fantasy. Lo stile estetico non riflette su se stesso come in Paper Mario. Tuttavia, come in Paper Mario era l’estetica a riflettere su se stessa, in Mario & Luigi questo aspetto autoriflessivo agisce al livello della narrazione. In questo senso si può sostenere che Mario & Luigi Superstar Saga non sia affatto

una tappa estranea al percorso seguito in questo articolo: la nuova “stagione filosofica” nelle narrazioni ed interazioni di ruolo di Nintendo, battezzata in questo gioco per GBA, troverà pieno compimento confluendo in Paper Mario 2, insieme all’approccio estetico di Paper Mario.

Un voto? B

Poligoni e fogli, secondo round Paper Mario 2 (GameCube - 2004) Paper Mario 2 è la tappa finale di un percorso sulla rappresentazione estetica tra 2D e 3D fatto a tentoni e durato una decina d’anni, per il quale il primo Paper Mario per Nintendo 64 aveva impresso una direzione fondamentale senza riuscire a portare pienamente a compimento l’obbiettivo. Ma è anche la rilettura di un’idea estetica originale, quella di Paper Mario, sotto la specie di una nuova visione narrativa: quella di Mario e Luigi Superstar Saga. Paper Mario 2 ritorna allo scontro tra fondali dotati di profondità e figure piatte con una nuova potenza di calcolo a disposizione, ma soprattutto con un progetto più ambizioso che affonda oltre la superficie, arrivando fino all’interazione

ludica. Uno spirito autoironico e parodistico, nel processo, lo porta a un grado meta-narrativo, di riflessione divertita sulla sua stessa natura e su quella dal genere. In primo luogo, visto che Mario e il suo party sono piatti, è adesso giustamente possibile farli ruotare di profilo per passare in spazi angusti o tra le sbarre; oppure, trasformare i personaggi in aeroplanini di carta, o infine arrotolarli come tubi per oltrepassare ostacoli di varia natura. Le ripercussioni sull’interazione non sono certo rivoluzionarie, ma evidenti. Quel che più conta è che questi procedimenti sfondano la generale arbitrarietà tra interazione ed estetica in azione fino a questo momento negli esperimenti di Nintendo sul tema, fondendole in un progetto finalmente coerente. Infatti, a livello narrativo Paper Mario 2 si

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rivela altrettanto evoluto. Sotto le spoglie di una trama bambinesca si celano dialoghi a doppio strato verso il giocatore, infarciti di riflessioni satiriche sulle narrazioni tipiche degli RPG, divertita autocritica sulla trama, la grafica e i risibili eventi del gioco, momenti di genuina inquietudine (come quando il dragone-cattivone divora inaspettatamente decine di funghetti senzienti), citazioni per frequentatori nintendiani di vecchissima data, persino caute allusioni sessuali con doppi sensi che

mantengono sempre un livello di guardia sul target di base dei più piccini. Un doppio livello di dialogo col fruitore, questo, che sembra recentemente adottato anche in molti altri casi (qualcuno se ne sarà accorto in Resident Evil 4, dove si contrappongono – sic! – Kennedy e Salazar), come espediente dei designers contemporanei per ironizzare lateralmente su trame scontate quanto necessarie. Tutto Paper Mario 2 è pervaso da un senso di post-modernismo autocompiacente, che si incarna addirittura in un attante (auto)dissacratore: Luigi. Per ottenere dei bonus da parte sua occorre sorbirsi le sue lunghe, insostenibili narrazioni delle avventure intraprese nei mondi improbabili del Waffle Kingdom nonché le seriali e ridicole narrazioni-tipo videoludiche che produce ai nostri danni, durante le quali Mario e i suoi compagni non possono fare altro (come chi ha in mano il controller) che addormentarsi russando rumorosamente. Insomma, Paper Mario 2 è un gioco con una trama da adulti, lontano anni luce dai giochini per bambini che si beccano il rating ‘Mature’ per via dei mostracci e di sangue e budella a catinelle. Un voto? B

E il futuro? Considerare Paper Mario 2 come un approdo ultimo della riflessione nintendiana sulle dimensioni estetiche videoludiche equivarrebbe a fare una riflessione decisamente finalistica: di certo, qualcosa di altro arriverà. Cosa aspettarsi, allora? Personalmente, chi scrive è fiducioso sull’evoluzione del livello estetico e autoriflessivo delle proposte della vecchia N. A questo proposito, è rincuorante pensare a quanto possa accadere sul Nintendo DS. È economico: quindi andrà benissimo per il target universale, ma con baricentro sui più giovani, tipico di Nintendo. Allo stesso tempo, però, il double/touch-screen è un ammennicolo per veri geeks, che consentirà sperimentazioni altre rispetto al semplice (e fantastico) sfoggio audiovisivo e di convergenza mediatica del portatile Sony. Nintendo, dal canto suo, ha il vantaggio di una tradizione da recuperare e su cui eventualmente ironizzare. Non è solo l’unica compagnia con un forte senso del recupero storico, dell’autoriflessione sulle tecniche e sugli stili, sul valore di gioco come innovazione non per forza soggetta alla crescita di calcolo: accanto a schifezze come i dialoghi di Mario Party (per le quali Nintendo dovrebbe flagellare il team della Hudson), si può anche trovare un livello narrativo discretamente dissacrante e adulto come quello del “bambinesco” Paper Mario 2. Pertanto, si può solo sperare che ad andare avanti nella compagnia siano i migliori. Il lavoro della critica dovrebbe essere quello di imparare a sciogliere il paradosso per il quale i giochi da bambini hanno la faccia da adulti e viceversa, ma nessuno smaschera questi travestimenti. A volte, il fatto di riflettere sul mezzo che si utilizza passa non passa attraverso il solo gioco estetico o narrativo, ma li intreccia a favore di vari livelli di apprezzamento. Premiare i lavori capaci di riflettere su questo piano enunciativo non significa soltanto favorire il discorso del gioco su se stesso, ma anche premiare i singoli al lavoro: chiunque essi siano.

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HARRY MC BEER

gyakuten saiban

di Amano76

S

piegare il fascino di Gyakuten Saiban (“Processo a Colpi di scena”) è un'impresa sfiancante. Un titolo di questo tipo, con un sistema tanto insolito, fatto di umorismo spiccatamente giapponese e appartenente ad un genere del tutto inconsueto per il pubblico occidentale, rappresenta l'incubo di ogni recensore che aspira ad avere del tempo libero per la propria vita privata. Ma io vi amo. Vi amo, lettori di Ring. Quindi ci proverò. Per voi.

Ryu Naruhodo, nella sua posa più rappresentativa..

Gyakuten Saiban nasce nel 2001 per mano di Shu Takumi, regista di tutti i capitoli sinora pubblicati. Tanto l'umorismo atipico quanto il genere di appartenenza (l'avventura testuale) lo rendono forse un prodotto destinato a non vedere mai l'occidente. Ma se la serie è passata, dal primo al terzo capitolo, da meno di centomila a oltre duecentomila copie vendute, un motivo ci sarà. Da un punto di vista risolutivo Gyakuten non offre sfide ardue, ma si deve anche tenere conto della sua uscita su console portatile: una difficoltà troppo alta avrebbe finito col decapitare un titolo di questa categoria, poco avvezzo a prestarsi alle rapide sessioni per cui l'Advance è stato progettato. L'intuizione di Takumi è stata quindi quella di spettacolarizzare la narrazione facendo il verso ai blockbuster americani, un po' come in passato aveva fatto Mikami in Resident Evil, condendo il tutto con spiccata (e riuscita) comicità giapponese. La particolarità del gioco è ovviamente la singolare ambientazione processuale, ma per quanto anomalo sembri il concept, bastano pochi minuti ad accorgersi che le soluzioni scelte non si discostano di molto da quelle delle altre avventure testuali. La prima parte di ogni capitolo richiede la raccolta degli indizi sulle scene del delitto o in casa dei sospetti, attraverso un ordinario sistema di puntamento che facilita non poco il giocatore, segnalando con una breve animazione del cursore gli e-

lementi interagibili. Come se non bastasse durante i processi si ricevono innumerevoli suggerimenti, alcuni riconoscibili dal colore blu del testo che indica in modo più o meno vago cosa fare, altri annunciati dal suono di un campanello che sottolinea le dichiarazioni più importanti. Oltre ad essere quasi perennemente sostenuto da questi riferimenti, il giocatore non va incontro a grosse difficoltà neanche quando si tratta di compiere scelte fatidiche, dato che di bivi a tutti gli effetti non vi è traccia. Nonostante siano presenti diverse scelte multiple, infatti, qualunque decisione si prenda si otterranno sempre le medesime conseguenze: ad essere modificato sarà esclusivamente il dialogo successivo e non la trama stessa. Gli indizi vengono poi catalogati in due liste che possono essere richiamate sullo schermo in qualsiasi momento, premendo il tasto R: una riporta i nomi, le professioni e le caratteristiche salienti dei personaggi partecipanti, l'altra elenca la totalità delle prove raccolte, alcune inerenti al caso altre svianti. A questo punto si arriva al cuore del gioco, la sessione giuridica. Il giocatore nei panni del protagonista Ryu Naruhodo deve assistere alle deposizione dei testimoni, premendo il tasto L ogni qualvolta ritiene sia stato dichiarato il falso. In tal caso Ryu grida ad alta voce "Obiezione!" e se questa viene riconosciuta come legittima, Naruhodo deve fornire la prova che ritiene corroborante. Qualora sia fornita la prova sbagliata il giocatore farà perdere progressivamente la pazienza al Giudice, segnalata da una barra verde che una volta esaurita comporterà il game-over. Attraverso questo iter la trama prosegue scoccando un Colpo di Scena dopo l'altro, attenendosi ad un registro tematico paradossale dove le logiche risolutive sono totalmente assurde. Non ci sono le trovate geniali di certe avventure Lucasarts ma quanto a tensione umoristica siamo decisamente da quelle parti.

Grazie all’intuitivo sistema di puntamento, ispezionare gli ambienti di gioco si rivelerà una mera formalità. Chi ha spillato sangue sulle avventure grafiche di Sierra lo troverà un insulto.

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Tempo fa, durante i mondiali di calcio del 2002, assistevo ad una partita del Giappone contro non ricordo chi. Forse il Brasile. Comunque, guardavo la partita assieme degli amici mentre la squadra del Sol Levante si faceva centrare la porta da missili di ogni tipo: a lunga gittata, a breve gittata, rasoterra, terra-aria. Sennonché uno dei miei compari fa: "ma che cazzo c'hanno da ridere?", alludendo alle facce apparentemente spensierate degli atleti nipponici nonostante il punteggio da partita di tennis. Ci sono due grossi fraintendimenti che si commettono riguardo l'umorismo dei giapponesi: 1) non si divertono affatto nel vedere gente che soffre 2) il 99% delle volte che ridono non lo fanno perché sono contenti. Numero 1. Ciò che fa sbellicare i giapponesi è sì la messinscena del dolore ma solo quando questa ha a che fare con la resistenza al dolore: vedere qualcuno che reagisce in modo esagerato ad una ferita microscopica o assistere ai tentativi di chi cerca di non mostrare la sofferenza fisica costituisce per loro uno spettacolo esilarante, soprattutto se si tratta di un maschio. Ecco il perché nei film di Jackie Chan (inutile che citi sconosciuti epigoni giapponesi) ricorrono le scene in cui l'attore becca una botta, lì per lì sembra non sentire nulla, poi tutto d'un tratto smette di fare quel che stava facendo per massaggiarsi le parti contuse. Numero 2. Per i giapponesi esprimere troppo direttamente le emozioni è un male. Non perché sia sbagliato da un punto di vista morale, ma perché una persona che rivela apertamente il suo stato d'animo lo impone al gruppo di cui fa parte, sia che si tratti del personale di un ufficio o degli elementi di una squadra. È visto come un atteggiamento infantile, un modo come un altro di chiedere le tacite attenzioni di chi sta intorno e che quindi distoglie il gruppo dalla ragione per cui è costituito, si tratti di amministrare pratiche o di vincere una partita. O si ride tutti o non ride nessuno, o si piange tutti o non piange nessuno. Per la mentalità nipponica un adulto non deve imparare a sopportare soltanto il dolore fisico ma anche quello spirituale, ed ecco perché in genere viene usato un sorriso, possibilmente accompagnato da un centinaio di inchini, per camuffare l'effettivo stato d'animo. Cos'è allora che li fa divertire veramente? Principalmente il mancato rispetto delle più basilari regole dell'etichetta, ma in particolare le figure di merda e la superbia. Quello che fa sbellicare i giapponesi, insomma, sono i cafoni. In una società dove mantenere una facciata di rispettabilità e attenersi alle buone maniere riscuote tanta importanza, vedere una persona che viene spogliata della sua apparente austerità o della sua impassibilità (al dolore o alla rabbia) è naturale che faccia divertire. Perciò tanto più è "alto" il prestigio di un individuo, tanto più vederlo finire in situazioni inequivocabilmente volgari, come avere attacchi di diarrea o torcere il viso in espressioni ridicole, contribuisce a far spanciare i nipponici. Nello stessa categoria ricade la sfrontatezza: se la figura di merda è divertente perché una persona viene spogliata del suo contegno (o della sua dignità, in questo sì che i giapponesi sono crudeli) lo è altrettanto l'atteggiamento altezzoso di chi proclama spudoratamente di essere più forte, più intelligente o più bello degli altri. In Gyakuten è un elemento umoristico il fatto che il Giudice, la carica più in vista all'interno di un'aula di tribunale, sia la figura del cast meno ri-

A GRAN VOCE

Il bionico Godo in azione. La sua passione per il caffè è palese anche dalle sue battute a tema, come “Naruhodo, le tue capacità sono come il caffè freddo: rivoltanti”.

In quanto prodotto su cartuccia Gyakuten non vanta alcun doppiaggio, fatta eccezione per tre esclamazioni ricorrenti: Igi ari!, Matta! e Kurae!. La prima si legge ighi ari e significa semplicemente "obiezione!". La seconda invece è un termine più particolare: il significato letterale della parola è "ti aspettavo!", o, tradotto più liberamente, una sorta di "fermo lì!". Questa seconda esclamazione è originaria del Kabuki, il teatro popolare giapponese che pone l'accento sulla spettacolarizzazione della messa in scena. Matta! ("ti aspettavamo"!) è l'incitamento pronunciato dagli spettatori quando un interprete fa il suo ingresso sul palcoscenico, come ad annunciare l'arrivo del colpo di scena. Anche nella scelta di questo termine Shu Takumi ha dimostrato non poca sensibilità creativa. La terza esclamazione infine significa "Beccati questo!" e viene pronunciata ogni qualvolta Naruhodo sottopone una prova al Giudice. Tirandogliela, naturalmente. Questi campionamenti sono stati realizzati dagli autori stessi: Takumi per Naruhodo, il capo-programmatore per Mitsurugi e, in veste di guest star d'eccezione per Gyakuten 3, il noto Hideki Kamiya (regista di Devil may cry e Viewtiful Joe) come "voce" del bionico Godo.

spettata di qualsiasi altra: viene preso in giro perché è pelato, viene preso a frustate, messo a tacere perentoriamente dai testimoni, si fa manipolare dalle smancerie di ragazzine adolescenti. Allo stesso modo è risibile il comportamento sprezzante di Reiji Mitsurugi che considera chiunque un idiota, tacciando con sorrisi beffardi e mettendo alla berlina gli "stolti" che lo contraddicono. Un personaggio da amare. Gyakuten Saiban è stato uno dei pochi, pochissimi, titoli per Game Boy Advance a sperimentare nuove soluzioni, senza alcuna necessità di fesserie come doppio schermo o penna elettronica. L'intuizione di Takumi non solo ha donato freschezza al genere delle avventure dal punto di vista ludico, ma ha anche dimostrato come questa tipologia di titoli sia in grado di abbracciare un'ambientazione umoristica in alternativa a quelle hard

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boiled. Il primo capitolo è arrivato come un fulmine a ciel sereno, e nonostante le vendite piuttosto contenute rispetto alle serie di maggiore richiamo (Pokemon, Rockman Exe, Famicom-mini), sin dall'inizio è stato apertamente coccolato dalla redazione di Famitsu. Ogni uscita contiene quattro episodi: un primo introduttivo e molto breve, due di media lunghezza e per finire un quarto particolarmente esteso. Nel complesso si arriva ad una decina di ore di gioco. Poche? Già, ma con un mercato che tende a contrarre sempre più la longevità dei titoli, Gyakuten Saiban non ha l'obbligo di fare eccezione. I protagonisti principali sono tre: Ryu Naruhodo, l'avvocato al centro delle vicende; Mayoi, una maldestra evocatrice di spiriti che fa da spalla a Ryu; Itonokogiri, un imbranatissimo ispettore di polizia il cui nome (tradotto letteralmente "sega-fili") lo mette sempre al centro delle beffe di tutti i personaggi in scena. Ad essi si affiancano la supercarrozzata avvocatessa Chihiro, che muore nel secondo episodio per poi ritornare come spettro in tutti i successivi, e il supponente, saccente, gustosamente stylish Reiji Mitsurugi. Il cast di Gyakuten è la spina dorsale della serie. In questo senso è lampante l’esempio di Ryu Naruhodo, un fighetto che si presenta in aula con i capelli "a gallina", acconciatura molto in voga tra i giovani giapponesi in cui i capelli sono tirati completamente in su in stile “Super Sayan”: nella realtà sarebbe automaticamente considerato un insulto alla Corte. Per non parlare del suo vizio di indicare col dito i testimoni, altro atteggiamento screanzato (i giapponesi considerano volgare chi gesticola eccessivamente) a cui Ryu ricorre con la massima naturalezza, come a sbeffeggiare la teatralità dei tribunali americani e della cinematografia ad essi ispirata. Ma a ritagliarsi i ruoli e le battute migliori sono soprattutto i comprimari che di volta in volta si alternano nei vari capitoli, rispettando fedelmente i canoni umoristici della commedia popolare nipponica descritti nei paragrafi precedenti. Colpevoli che quando vengono scoperti si tolgono il tupé e lo tirano in faccia al Giudice, avvocatesse che prendono a frustate i testimoni per farli parlare, procuratori cyborg che si alimentano col caffè, medici che confessano apertamente di palpeggiare le pazienti svenute, fantasmi che testimoniano in aula: l'improbabilità della situazioni è talmente estrema che non può non suscitare spasso.

In alto nella foto i quattro comandi disponibili durante le investigazioni preliminari: Esamina, Vai a, Parla, Mostra

MA NZAI! DAVVERO?! La comicità giapponese è suddivisa in diverse categorie di solito denominate in modo tale da confondere chi non conosce la lingua. Eppure non si tratta di generi tanto anomali. Due tra i più popolari, ad esempio, sono il manzai, cioè duetti alla Stanlio e Ollio, e il rakugo, un monologo di stampo ironico o satirico. Per quanto simili ai canoni da noi conosciuti, tuttavia, tanto il manzai quanto il rakugo sono due generi radicalmente nipponici. Il manzai è infatti basato su quel legame tutto giapponese che si instaura tra i senpai e i kohai, una distinzione che di solito è legata all’anzianità cronologica o professionale. Questo tipo di gerarchia è uno dei valori morali più assoluti su cui è fondata la loro società, in quanto è dato per scontato che l’individuo con maggiore esperienza sulla spalle (il senpai) sia tenuto a ricevere favori, servizi e soprattutto rispetto da parte di chi è più giovane o ha meno esperienza lavorativa (il kohai). Lo scopo del manzai è appunto quello di divertire il pubblico mettendo in scena le angherie che i kohai devono sopportare dai loro senpai, come una sorta di umorismo nero sulle crudeli regole sociali che quotidianamente i giapponesi si trovano ad osservare. A differenza del manzai, che è considerato umorismo popolare, il rakugo è invece un genere molto più elitario. Fondamentalmente si tratta di una lunga barzelletta, strutturata su tre elementi: una morale, una battuta conclusiva che solleva il pubblico dalla necessità di ridere, e una calcolatissima mimica dell’interprete. Per chi fosse interessato a questa comicità tanto contorta, in rete sono presenti diversi siti che riportano i monologhi più conosciuti. Naturalmente in inglese.

Di tutti i capitoli pubblicati sino ad oggi il secondo si dimostra il più riuscito. È da questa edizione che si inaugura lo psycho-lock, una feature che implementa il sistema di risoluzione usato durante i processi applicandolo alle interviste preliminari: quando un testimone oculare risulta eccessivamente reticente è possibile metterlo alle strette mostrandogli prove inoppugnabili e costringerlo a rivelare quanto sa. In questo modo le due parti di ogni episodio sono meno "staccate" una dall'altra, e il giocatore è notevolmente aiutato nel capire quale sarà il passo successivo da compiere per completare la raccolta degli indizi. La vera gemma di Gyakuten 2 è tuttavia l'episodio dedicato al circo Tachimi, retto da una sceneggiatura in cui l'autore si è sbizzarrito più che poteva. C'è il clown esperto di giochi di parole e doppi sensi, la tanto avvenente quanto idiota Mirika, il ventriloquo Ben che soffre di sdoppiamento di personalità, e un pellerossa di nome Acro, ammaestratore di leoni talmente pacifico che è sempre coperto di canarini. Attraverso questo impro-

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babile cast Takumi da prova di un’innegabile conoscenza dei meccanismi umoristici, passando dalla comicità aulica di Tommy il clown, condannato a non trovare un pubblico sufficientemente colto da apprezzare le sue battute, allo slapstick di Mirika, che non capisce assolutamente nulla e inciampa ovunque. Fino ad arrivare agli spassosi duetti manzai (vedi box) tra il timido Ben e il suo pupazzo, fornito di una imbarazzante personalità scurrile. L’episodio dedicato al circo Tachimi è anche uno dei più tristi, visto che dapprima descrive malinconicamente il senso di famiglia creatosi tra i vari membri, che all’esterno del circo sarebbero dei reietti, per poi mandare in pezzi l’armonia del gruppo nel corso del racconto. L’omicidio a origine di tutto è quello ai danni del giovane Bat, provocato da uno scherzo dell'ingenua Mirika che regala al ragazzo, suo fidanzato, una sciarpa coperta di pepe allo scopo di farlo starnutire come un matto. Così, quando Bat si reca alle prove nella gabbia dei leoni con la sciarpa indosso e mette la testa nella bocca dell'animale... Questa trama è piuttosto rappresentativa di un qualsiasi episodio di Gyakuten: l'omicidio al centro del dramma è sempre ridicolo o assurdo, inoltre, nonostante il criminale venga immancabilmente svelato e messo in carcere, diversi elementi vengono lasciati irrisolti. L’incoscienza infantile di Mirika, che con la sua stupidità causa la morte del suo stesso fidanzato, è un argomento su cui l'autore non lancia alcuna riflessione: i personaggi parlano attraverso le loro azioni, dando voce alla propria individualità in quel modo unico che contraddistingue lo story telling nipponico, dove il ragionamento sui grandi temi passa in secondo piano alle descrizioni psicologiche. Nel terzo capitolo tutti i nodi sono venuti al pettine. Sono stati conclusi tre anni di sottotrame lasciate in sospeso e tirati i fili di tutti i personaggi, strettamente legati uno all'altro come nella più scontata delle soap opera. L'effetto, naturalmente, è voluto. Quest'ultima uscita denota però un palpabile calo qualitativo. Le trovate sono meno acute, le battute meno spassose, qualche personaggio è privo di mordente. Nel terzo Gyakuten le vicende si sono fatte più serie e più intricate, annacquando così il caratteristico registro della saga, finora spensierato e grottesco. Gli stessi intrecci inoltre non hanno più la potenza umoristica dei precedenti. È quindi evidente che un capitolo all'anno si sia rivelato un ritmo proibitivo per le capacità dell'autore, che nelle interviste pubblicate su Famitsu ha dichiariato di aver subito un fatale crollo nervoso a causa dell'impegno richiesto per mantenere il ritmo disumano imposto dai produttori. Il successo è ormai stabile: la serie sarà tra i primi titoli a battezzare il varo del Nintendo DS, sia in versione giapponese che americana, e il gioco è perennemente idolatrato dalla redazione di Famitsu, ma la solita formula "ogni centomila copie un franchising" ha puntualmente danneggiato anche questo titolo come già era successo per Resident Evil, la serie di Onimusha e quella di Devil may Cry. I produttori di Capcom, loro sì che dovrebbero finire in tribunale…

LA LETTERA DEL MESE (l’unica, okay)

Volete la verità? Non mi giunge proprio alcuna motivazione accettabile per giustificare il fatto che io vi stia scrivendo. È stato un istinto, una propensione del tutto spontanea, una mano (sudata) Smithiana che mi ha paccato sulla spalla col tipico gesto che sottolinea: "Embè!?! Fagli un saluto, no?". Mi googlizzavo alla ricerca frenetica di un Silent Hill 1 d'occasione, di un regazzetto che nell'intento estremo di accontentare la madre sbraitante svuotasse il proprio playscaffale dando in pasto a bagarini al contrario copie di giochi d'autore, di esemplari dimenticati dal mercato ma eternamente impressi nella mente di chi in un videogioco cerca termini come esperienza, sensazione, trasmissione, comunicazione in luogo di inutilità tecniche come giocabilità, animazione e longevità oppure merdate pseudo-anglofone come gameplay. E la mia ricerca mi ha così condotto a voi, alla vostra pagina, al vostro progetto. All'articolo di Cryu su Thief: Deadly Shadows che conteneva richiami più o meno espliciti alla collina silenziosa, oggetto del mio googlico peregrinare. Non so ancora se a prevalere è la smadonnatio nel non aver trovato nessun spacciatore di ricordi che cercavo o la soddisfazione nell'aver scoperto il vostro covo ed aver conosciuto l'altrettanto vostro, come mi piace chiamarlo, "mondo di pensare". Un mondo diritto ma parallelo, dove il guardare vince sul vedere, il vivere sul provare ed il condividere sull'insegnare. Mi siete piaciuti praticamente subito. Solo questo volevo dirvi. Sestacchina

La redazione di Ring non ha pianto quando ha visto il pelato sosia del tipo dei REM annunciare che Xbox360 punta a raggiungere un miliardo di persone; non ha pianto nemmeno di fronte al boomerang di serie per PS3, e figuriamoci se ha pianto quando Nintendo ha mostrato l’autoradio della cinquecento di Reggie spacciandola per una console. Ma la redazione di Ring piangerà adesso! Grazie Sestacchina (se questo è il tuo vero nome) per le buone parole. È con il supporto di persone come te che Ring ha raggiunto la ragguardevole vetta di 99 numeri. Adesso non ci resta che spargere la benzina, dare fuoco a tutto e chiamare la compagnia assicurativa. Excelsior!

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PIACERI PROIBITI <il cheating nei computer games> di Julian Kücklich

«Up, up, down, down, left, right, left, right, B, A, start just because we use cheats doesn't mean we’re not smart» The Moldy Peaches: Anyone Else But You

Il cheating come fenomeno estetico Quello di “imbrogliare” è un aspetto dei computer games che finora ha ricevuto scarsa attenzione nel campo dei game studies. I cheat, d’altra parte, sono una parte importante della “gaming culture”, come risulta chiaro consultando tutte quelle riviste e siti web che offrono pagine e pagine di trucchi. Inoltre, è piuttosto difficile incontrare un gioco privo di qualsivoglia “built-in cheat”. In altre parole: da quando esistono i videogiochi, i cheat fanno parte delle opzioni. Indipendentemente dall’impiegarli o meno, l’esperienza di gioco è sempre influenzata dalla possibilità di essere manipolata “illegalmente”. Nei giochi multiplayer, i cheat non cambiano solo l’esperienza di chi li utilizza, ma anche l’esperienza di tutti gli altri giocatori. In un gioco come Counterstrike, i giocatori equipaggiati con algoritmi di puntamento automatico, o “aimbots”, sono così immensamente superiori agli altri giocatori che i loro avatar si rivelano virtualmente invulnerabili. In molti casi, la vera sfida dei cheater di professione si sposta dalla competizione con gli altri giocatori all’impedire il riconoscimento dei cheat

dal sistema di controllo dei server. Quando si spinge così lontano, la pratica del cheating diventa un’attività “illegale”, il cui piacere deriva presumibilmente dal fatto che metterla in atto significa in qualche modo trasgredire le norme sociali.

Cosa sono i cheat? Definire la pratica del cheating si rivela piuttosto complesso, visto che le tipologie di cheat sono diverse tra loro almeno quanto le varie tipologie di gioco. La maggior parte dei cheat dà al giocatore un vantaggio che generalmente le regole del gioco non permetterebbero, ma non sempre è così. Alcuni cheat cambiano semplicemente l’aspetto delle cose. Per esempio, in Germania, la rappresentazione grafica della violenza è generalmente rimossa dai giochi prima della loro pubblicazione in modo da compiacere la rating board, ma quasi tutto può essere ripristinato semplicemente cambiando i settaggi sulla località. Impiegare questi cosiddetti “blood-cheat” non costituisce una contravvenzione alle regole del gioco, ma richiede spesso una manipolazione diretta dei file (tramite patch), una pratica che va oltre l’uso previsto del gioco. Possiamo quindi definire i cheat come l’usare il gioco in un modo non previsto dai designer? Non credo. Prima di tutto,

non è sempre possibile determinare “l’uso previsto” di un gioco. Un mod come Counterstrike può essere visto come un modo di giocare Half-Life che non è stato previsto dai designer di Valve, ma non è certo un cheat. Imbrogliare non richiede sempre la manipolazione diretta del codice. Le guide sono una pratica comune di cheating in giochi che richiedono forti dosi di puzzle-solving (come Tomb Raider, ad esempio). Ovviamente, i designer hanno progettato i puzzle perché qualcuno li risolvesse, quindi il criterio di “uso improprio” non si applica in casi del genere. I cheat sembrano avere solo una carateristica in comune per definirli: cambiano il modo in cui il giocatore vive l’esperienza. Lo fanno sia modificando letteralmente il look e il feeling di gioco, sia rendendo gli ostacoli progettati dai designer immediatamente sormontabili…

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Un approccio teorico ai cheat Un approccio teorico alla pratica del cheating deve tener conto del contesto. I giochi dovrebbero essere considerati non solo come testi nei quali i cheat possono essere usati per skippare certi passaggi, ma anche come media che incoraggiano nuove forme di interazione simbolica fra gli individui, e anche come sistemi cibernetici, nei quali la pratica del cheating rappresenta una sorta di “re-entry” dell’ambiente nel sistema stesso (ma di questo parleremo in seguito).

Giochi in single-player I giochi d’avventura sono per molti versi simili a testi letterari, e a parte alcuni dettagli possono essere studiati con gli stessi strumenti dell’analisi testuale. Il modo in cui i cheat distorcono lo spazio narrativo dei giochi d’avventura può essere dunque collegato a strategie letterarie simili. Nonostante il gioco d’avventura generico sia deceduto nei primi anni novanta, videogame come Ico richiamano ancora una somiglianza strutturale con questo genere. I cheat usati più comunemente negli adventure sono le guide strategiche. In molti casi, documenti di questo genere forniscono al giocatore istruzioni dettagliate su come procedere attraverso l’esperienza. Negli adventure il piacere deriva dall’equilibrio tra i puzzle che i giocatori si trovano ad affrontare e le risorse che il gioco gli fornisce per risolvere gli enigmi. Più in dettaglio, il piacere dei giocatori deriva dalla sensazione che essi provano quando capiscono che esiste una soluzione. Se questa soluzione può essere trovata al primo tentativo, il piacere di cui sopra viene a mancare, ma se non può essere trovata affatto il tutto diventa in breve tempo frustrante. Ne consegue che “il piacere del gioco” perso durante un’esperienza frustrante, può essere riguadagnato solamente imbrogliando in qualche modo. Possiamo quindi considerare i cheat negli adventure come un mezzo per superare le “costrizioni topologiche” (Aarseth 56) del gioco. Dopo tutto, il piacere derivante da ogni gioco dipende dall’equilibrio fra le sue regole e la libertà che queste regole lasciano al giocatore nell’interazione. Bloccarsi in un adventure game può essere considerata una situazione di sovra-codificazione, visto che sussistono più condizioni necessarie per la progressione narrativa di quelle che il giocatore è in grado di riconoscere. Usare cheat risolve il dilemma diminuendo la percentuale di costrizioni, e rimettendo in moto il processo ludico.

Giochi in multi-player I giochi in multi-player possono essere considerati come media che promuovono nuove forme di interazione tra i giocatori. La comunicazione che ha luogo attraverso il gioco è una forma di metacomunicazione sul processo del giocare. Questa viene identificata come una caratteristica fondamentale della qualità del gioco nell’articolo di Gregory Bateson “A Theory Of Play And Fantasy”, nel quale l’autore espone alcune sue osservazioni riguardanti le scimmie allo zoo: «Vidi due scimmie giocare, impegnate in una sequenza interattiva in cui le azioni o i segnali erano simili, ma non uguali, a quelli di un combattimento. Era evidente ad un osservatore umano che l’intera sequenza non era un combattimento, e che neppure le scimmie lo consideravano tale (315).» Da questo esempio, Bateson conclude che: «il gioco […] poteva avere luogo solo se gli organismi che vi partecipavano si dimostravano capaci di un certo grado di meta-comunicazione, per esempio scambiarsi segnali che trasportano il messaggio ‘questo è un gioco’.»

Questo significa che le regole del gioco possono esse stesse diventare oggetto del gioco: «Rompere le regole sembra essere parte del giocare» (Sales e Zimmerman 268). Il comune denominatore di queste pratiche è la loro natura sociale: un cambio delle regole deve essere accordato fra tutti i giocatori coinvolti. Questo sembra potersi applicare pure ai videogiochi. «Giocando ad un videogioco, il giocatore deve decidere qual’è il comportamento appropriato, esplorando lo spazio di violazione delle regole.» (Salen e Zimmerman 281). Questo diviene evidente in molti giochi multi-player, dove i “power gamers” sono spesso sospettati di aver imbrogliato in qualche modo. «I power gamer spesso spingono il sistema ai limiti cercando quei punti dove l’architettura del gioco è contraddittoria o malleabile. In molti casi è questo genere di comportamenti che viene visto dalla comunità (e spesso dagli amministratori) come troppo simile alla pratica del cheating.» (Taylor 304)

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È dunque la stessa comunità dei giocatori che determina le modalità di cheating. Se le avventure in single-player creano uno spazio narrativo da esplorare, i giochi multi-player creano uno spazio sociale ad-hoc che è costituito tanto dal consenso del giocatore quanto dall’architettura di gioco. È dunque il contesto, più che dei criteri oggettivi, a stabilire se un giocatore sia un “power gamer” o un cheater. All’interno delle gaming cultures, wallhacks, aimbots e altre manipolazioni ‘illegali’ vengono definite attività che fanno parte della cultura del gioco tanto quanto lo sono i clan o i mod. Nonostante alcune di queste attività siano accettate dai publisher per il loro potenziale economico (uno degli esempi più rilevanti è il fenomenale successo di Counterstrike, mod per Half Life), altre sono fonte di disappunto per l’industria visto il disturbo che arrecano ai giocatori comuni. Quest’attitudine schizofrenica che attraversa la creatività incontrollabile della comunità, indica che lo spazio sociale creato dai giochi è ben lontano dall’essere un territorio incontestato. Infatti, la veemenza con cui l’industria propugna misure anticheating è una manifestazione reale di un modello culturale meno incentrato sull’autore, un modello che ha ormai iniziato a rimpiazzare quello tradizionale della produzione, distribuzione e ricezione dei media.

MMORPG L’estetica sociale è probabilmente più pronunciata nei giochi di ruolo online di massa (MMORPG), come Ultima Online. È soprattutto qui che il problema del cheating è sentito maggiormente, sia dai giocatori che dai provider. Mentre usare cheat in un gioco single player può creare un conflitto interno per il singolo giocatore, e farlo in un gioco multi player può favorire facilmente la tensione nelle dinamiche sociali fra giocatori, le implicazioni di imbrogliare nei MMORPG sono di gran lunga più sentite. La ragione di questo immenso potenziale distruttivo è da ricercarsi nel fatto che i giochi di ruolo online si sforzano di creare mondi persistenti che sono influenzati e plasmati da tutti i loro abitanti. L’esempio più eclatante dei danni che i cheater possono fare in un gioco di ruolo online riguarda il famigerato Diablo di Blizzard. Rilasciato nel 1997, è stato un precursore di giochi con mondi persistenti come Everquest e Asheron’s Call, e per questa ragione si è fatto trovare impreparato all’invasione dei cheater che ha seguito la sua uscita. In un’intervista a Games Domain, un rappresentante di Blizzard ha ammesso che la compagnia rimase sorpresa dalla quantità di gente che cercava di imbrogliare in Diablo, e di essere stata praticamente “sommersa” dai cheater (Greenhill 1997). Quello che è successo è descritto da Andy Kuo nel suo articolo “A (very) brief history of cheating”: «E arrivarono i cheater. In quanto società organizzata, indipendentemente dal fatto di essere virtuale, il mondo di Diablo diventava suscettibile agli imbroglioni tanto quanto il mondo reale. Fate finta di essere un giocatore che ha speso innumerevoli ore a sviluppare laboriosamente il proprio personaggio ad un livello altissimo, e che possiede un equipaggiamento molto potente. Poi un giorno incontrate un personaggio di livello ridicolmente alto, dotato di un equipaggiamento inimmaginabile, che vi chiede cose del tipo ‘Come faccio ad attaccare un mostro?’. Improvvisamente i newbie avevano

trovato un modo illegale di alterare i loro personaggi. Usando una tecnica chiamata dumping, potevano replicare ogni item in loro possesso, oppure fabbricarli dal nulla.» In Diablo, l’incubo di ogni società capitalistica divenne realtà: i meccanismi di produzione erano in mano alle masse, e le masse potevano usare uesto potere per destabilizzare l’attentamente bilanciata economia di gioco: “Qualunque sia la ragione, è innegabile che ogni item creato dal nulla contribuirà a deprezzarne completamente il valore” (Greenhill). Altri tipi di cheat, in particolare gli infami comandi “townkill” e “autokill”, danneggiarono il tessuto sociale di Diablo, più che il suo modello economico. Nel gioco originale non era possibile uccidere un altro giocatore all’interno di uno spazio urbano, in modo che i giocatori nuovi e privi di esperienza vi ci si potessero rifugiare. Una volta introdotto il cheat “townkill”, i novellini venivano massacrati con tale frequenza che la loro unica alternativa era imbrogliare a loro volta. Ad ogni modo, la pratica del player-killing non dovrebbe essere condannata del tutto. Come dichiara Elizabeth Reid a proposito dei MUD: «Su alcuni MUD i personaggi dei giocatori possono uccidere qualcun altro. Per alcuni utenti, la possibilità del playerkilling aggiunge profondità e pepe al mondo virtuale. L’aggiunta di un maggior pericolo all’universo virtuale rende capaci gli utenti di identificarsi più fortemente con il loro avatar.»

I MMORPG si possono inquadrare meglio come sistemi cibernetici complessi, nei quali un cambio in una delle loro parti costituenti va ad influenzare tutte le altre parti in un qualche modo. Il modello economico del mondo di gioco e tutti i differenti sistemi sociali possono essere visti come sottosistemi del sistema-gioco. Prendendo in prestito un

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termine dalla teoria dei sistemi, la pratica del cheating è una sorta di “re-entry”, un modo di reintrodurre nel sistema la distinzione basilare che permette di differenziare il sistema dal suo ambiente. Nel caso dei giochi, questa distinzione è segnata dalla differenza fra giocare stando alle regole e di giocare con le regole. Nella vita reale, ci viene continuamente richiesto di aggiustare le regole dell’interazione sociale con gli altri, a seconda dei vari contesti, il che causa un livello piuttosto alto di contingenza nelle interazioni non-standard. In maniera diversa, i giochi stabiliscono una struttura per le interazioni basate su regole che non lasciano molto spazio per la contingenza, dunque costituiscono uno spazio sociale “sicuro”: “C’è un tipo speciale di lucidità e intelligibilità nei giochi. La ‘vita reale’ è piena di ambiguità e di informazioni conosciute a metà […] Nella vita ordinaria è raro trovarsi in un contesto con un tale grado di chiarezza artificiale” (Salen e Zimmerman 123). Attraverso la reintroduzione della possibilità di giocare con le regole del gioco, i cheater reintroducono simultaneamente la contingenza della vita reale, il che spiega la rabbia dei non-cheater verso

chi imbroglia. Alla luce di questa concettualizzazione, sembra piuttosto ironico che nella citazione qui sopra i cheat siano pubblicizzati come in grado di dare ai giocatori poteri “divini”. Dopo tutto, un mondo governato da divinità testarde è una metafora piuttosto azzeccata di un universo contingente, un universo nel quale tutto può succedere in ogni momento.

Conclusione Nella vita reale, le attività che ci portano a porci delle domande sulla validità delle nostre assunzioni rispetto al mondo in cui viviamo sono spesso identificate come opere d’arte. Nei mondi di gioco, questo genere di attività sono prevalentemente considerate come vandalismo, a meno che esse non siano non-distruttive, come Summons To Surrender di Eddo Stern’s, una collezione di personaggi per MMORPG programmati per mettere in atto la stessa azione all’infinito. Da un punto di vista estetico, è difficile differenziare queste attività “sovversive”, dal momento che si differenziano solo per la diversa portata dei loro effetti. Nonostante i progetti artistici nel mondo reale difficilmente possano destabilizzare i sistemi economici o concludersi con la perdita di vite o di possedimenti, questi pericoli sono piuttosto “reali” nei mondi virtuali.

sono soggetti alle stesse relazioni di potere del sistema sociale a cui siamo stati abituati dalla nostra vita di tutti i giorni. Questo non rende necessariamente il cheating un’attività nobile, ma serve come a ricordarci che il campo di gioco si estende ben al di fuori dei limiti dei mondi virtuali, e ciò che è in ballo è la nostra percezione dei giochi come oggetti culturali. In breve, possiamo dire che i cheat meritino maggiore attenzione critica di quella che hanno ricevuto finora, dal momento che contribuiscono alla nostra comprensione e percezione dei giochi digitali. La pratica del cheating fornisce piaceri e gratificazioni e rimarrà una parte integrante della cultura del gioco. Inoltre, lo studio dei cheat evidenzia come i giochi siano avvolti in un contesto sociale e culturale più ampio, collegato indubbiamente al mondo in cui abitiamo. Il fenomeno dei cheat è di particolare interesse nei MMORPG, forme nuove di partecipazione mediatica infuse di codici culturali tratti dal mondo reale, come la presenza del denaro e dei beni materiali. In questo modo, dal momento che i personaggi stessi diventano, nei MMORPG, dei beni, i cheat che indirizzano questa trasformazione posseggono evidentemente un potenziale critico. Il fatto che questa critica sia intenzionale o meno non è rilevante. Come in tutti i giochi, le intenzioni degli autori perdono di autorità di fronte all’uso creativo delle regole. Se non altro, i cheat meritano una particolare menzione perché evidenziano questa “estetica sociale” dei giochi con cui ci dilettiamo.

Sebbene la perdita di item virtuali o personaggi possa significare una perdita finanziaria reale per la persona che li possiede, ora che anche questi item si possono vendere per soldi veri, il pericolo vero risiede nella disillusione dei giocatori. Imbrogliare in un mondo di gioco segnala ai giocatori che questi mondi non sono esentati dalle regole del mondo reale. O per meglio dire, i giochi

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Bibigliografia e riferimenti Gli ultimi accessi ai siti web citati sono del Febbraio 2004. Aarseth, Espen. Cybertext. Perspectives on Ergodic Literature, Baltimore and London: The Johns Hopkins University Press, 1997. Atkins, Barry. More Than A Game. The Computer Game as Fictional Form. Manchester and New York: Manchester University Press, 2003. Bateson, Gregory "A Theory of Play and Fantasy". Play, Games and Sports in Cultural Contexts. Ed. Janet C. Harris und Roberta J. Park. Champaign, Illinois: Human Kinetics, 1983. Ehrmann, Jacques. "Homo Ludens Revisited". Game, Play, Literature. Yale French Studies Nr. 41. Ed. Jacques Ehrmann. New Haven: Eastern Press., 1968. Keri Facer: "What's the point of using computers? The development of young peoplÈs computer expertise in the home." New Media & Society 3.2 (2001), 199-219. Fuller, Mary and Henry Jenkins. "Nintendo® and New World Travel Writing: A Dialogue". Cybersociety. Computer Mediated Communication and Community. Ed. Steven G. Jones. Thousand Oaks: Sage Publications, 1995. Greenhill, Richard. "Diablo, and Multiplayer Games' Future". Originally published in Games Domain, May 1997. Available online at: http://www.cs.auc.dk/~njo/Diablo.htm Grodal, Torben. "Filmfortælling og computerspil". Multimedier, Hypermedier, Interaktive Medier. Ed. Jens F. Jensen. Aalborg: Aalborg Universitetsforlag, 1998. Katz, Jon: "Up, Up, Down, Down". Slashdot.org, November 30, 2000 (http://slashdot.org/features/00/11/27/1648231.s html). Kaufman, Jeremiah. "Cheating: For the Love of God, Don't Do It". Adventure Collective, September 17, 2000 http://www.adventurecollective.com/features/feat ure-cheating.htm. Klevjer, Rune. "Computer Game Aesthetics and Media Studies." Paper presented at the 15th Nordic Conference on Media and Communication Research. Reykjavik, Iceland, 11-13 August 2001. http://uib.no/people/smkrk/docs/klevjerpaper_200 1.htm. Kücklich, Julian. "Literary Theory and Computer Games". Cosign 2001 Proceedings. Amsterdam: CWI 2001, pp. 51-58. Kuo, Andy. "A very brief history of cheating". How They Got Game Archive. http://shl.stanford.edu/Game_archive/StudentPap ers/BySubject/A-I/C/Cheating/Kuo_Andy.pdf. Manovich, Lev. The Language of New Media. Cambridge, Mass. and London: The MIT Press, 2001. Morris, Sue: "Co-Creative Media: Online Multiplayer Computer Game Culture." Scan, Vol. 1, Nr. 1. www.scan.net.au/ scan/journal/display_article.php?recordID=16

Pritchard, Matt. "How to Hurt the Hackers: The Scoop on Internet Cheating and How You Can Combat It". Gamasutra, July 24, 2000. http://www.gamasutra.com/features/20000724/pr itchard_pfv.htm Reid, Elizabeth: "Hierarchy and Power. Social Control in Cyberspace." Communities in Cyberspace. Ed. Marc A. Smith and Peter Kollock. London and New York: Routledge, 1999: 107-133. Salen, Katie and Eric Zimmerman: Rules of Play. Game Design Fundamentals. Cambridge, Mass. and London: The MIT Press, 2003. Taylor, T.L.: "Power gamers just want to have fun?: Instrumental play in a MMOG." Level Up. Digital Games Research Conference. Ed. Marinka Copier and Joost Raessens. Utrecht: Faculty of Arts, Utrecht University, pp. 300 – 311. Wayner, Peter. "Do Cheaters Ever Prosper? Just Ask Them". The New York Times, March 27, 2003. Winnicott, Donald. The Family and Individual Development, London: Tavistock Publications, 1965. Wright, Talmadge, Eric Boria and Paul Breidenbach. "Creative Player Actions in FPS Online Video Games. Playing Counter-Strike". Game Studies, Vol. 2.2, December 2002.

UNA PAGINA DI BIBLIOGRAFIA? o_O Normale che accada, quando si chiedono pezzi ai parrucconi accademici. Vi distraiamo quindi da tutto ciò copincollando un post apparso in origine su it.comp.console sul quale siamo sicuri vi rispecchierete… UN BRANCO DI NERD Avevo già il sentore di essere un nerd e ne ebbi la prova circa un annetto (e più) fa. L'altra sera ho avuto conferma che anche molti dei miei amici sono dei nerd, a livelli ben superiori il mio. Per caso ci siamo imbattuti in un video di certi rappers americani in cui donne nude ballano, si toccano e si fanno trombare. Immagini succulente con queste strafighe puttanone che lesbicano. Ho capito che eravamo un branco di nerds quando nel video per pochi secondi si vede una tv, un mio amico, abbandonando lo stato quasi disinteressato, esclama con vigore crescendo "Ma cos'è...? Una playstation è una playstation!" Non faccio in tempo a vederla sta cazzo di playstation quando l'altro amico mio che stava sulla mia sinistra, si alza di scatto saltellando davanti alla tv, puntando il dito verso lo schermo come un bimbo di quattro anni gridando "Un dreamcast, un dreamcast! Torna indietro, ferma l' immagine , vai a rallentatore..." Vi dico solo che in tre abbiamo 97 anni e che siamo tutti dei single dentro, dopo pochi istanti eravamo in system link a sportellarci con PGR2. Ma quanto può durare?

Crude

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LANTERNE VERDI <splinter cell: chaos theory> di Gunny

I

due più celebri infiltratori del mondo dei videogiochi sembrano appena reduci da una vittoriosa battaglia sindacale per il miglioramento delle loro condizioni lavorative. Snake (dove con ‘Snake’ si intende qualunque protagonista della serie di Metal Gear, non necessariamente the solid one) e Sam si liberano l’uno dell’oppressione imposta dalle mura che il level design della serie gli edificava attorno, l’altro delle soffocanti limitazioni di game design in cui Ubisoft lo imprigionava. Essendo il caso in esame quello di Sam (e essendo già stato a suo tempo esaminato quello di Snake), ricordiamo in breve da quali limitazioni Sam fosse imprigionato: A- Costante riproporsi di situazioni risolvibili attraverso l’unica e tassativa procedura imposta dal tema di sviluppo; B- Assoluta ingestibilità delle eventuali situazioni di azione dinamica/sparatoria; C- Fisica/animazioni e gestione delle collisioni opinabile; D- Trama/colonna sonora/aspetto artistico trascurabili. Pandora Tomorrow aveva riproposto esattamente questi difetti, facendosi perdonare con l’aggiunta di una riuscitissima modalità online, ma non convincendo del tutto. Chaos Theory, fortunatamente, conferma con il passare delle ore che il suo predecessore era poco più di un add-on, e che il vero Splinter Cell 2 ce l’abbiamo sotto gli occhi solo ora.

L’impressione emerge già dopo una manciata di secondi di gioco: il motore grafico tramandato a Pandora Tomorrow dal primo Sprinter Cell è stato accantonato a vantaggio di un nuovo, spettacolare motore tridimensionale. I giochi di rifrazione e gli effetti texturali sono fantastici, in particolare la sensazione di ‘bagnato’ di determinate superfici è resa in maniera sbalorditiva. Il passo in avanti non è altrettanto radicale per quanto riguarda i personaggi, alcuni dei quali anzi impressionano lo spettatore con volti abominevoli (e purtroppo, mentre si procede nell’interrogatorio di occasionali ostaggi, la telecamera è generosa nel

rivelare lo scempio). Al di là di piccolezze simili, comunque, deambulare negli ambienti di Chaos Theory significa subire un bombardamento costante di dettagli tecnico/grafici che certo non possono essere motivo di dispiacere. A Ring insistere su questi aspetti non piace, ma anche Ring ammette di aver passato il suo buon minutino di bambinesca curiosità di fronte ad un alluminio ondulato o ad un pavimento di pietra inumidito dalla pioggia. Passando ad altre buone nuove, già dal primo livello di gioco (e a maggior ragione nel prosieguo dell’esperienza), è possibile notare un elemento quasi blasfemo per la tradizione della serie: i bivi. Non si tratta di nulla di rivoluzionario, ma spesso e volentieri il gioco consente di scegliere tra un percorso breve e maggiormente esposto, o uno più evasivo ma meno rischioso. In alcuni livelli (come quello della nave, vagamente parente di Cold Fear), la verosimiglianza architettonica ha palesemente la priorità sulla prosecuzione lineare, e quindi le locazioni divengono addirittura sovrabbondanti, a tutto vantaggio della credibilità. Il passo avanti non è affatto trascurabile; dalla prossima avventura di Sam, Ring spera di ricevere in dono anche la facoltà di esaminare preventivamente la pianta dell’edificio e decidere autonomamente la strategia di ingresso: elisbarco, lancio HALO, fogne, cavo, arrampicata, pacco celere3. Sarebbe il paradiso dello spy gaming. Ma forse non è questo il momento di avanzare pretese.

Passiamo ad un altro limite storico della serie che Chaos Theory getta dal finestrino: la condotta d’azione. Afferrare il fucile d’assalto e aprire il fuoco, un tempo, significava vedersi rovesciare addosso una pioggia di nemici. In condizioni di completa padronanza motoria, non si sarebbe trattato di un problema irrisolvibile: i nemici in questione erano stupidi come girini. La legnosità terrificante del sistema di fuoco e puntamento, tuttavia, finiva col dare vita ad una sorta di regolamento di conti tra handicappati, che spesso risultava fatale per la pazienza del giocatore, prima ancora che per la salute del suo avatar. Uscirne perdente significava assistere all’orribile schermata di game over (pro-

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blema ora risolto con soluzioni grafiche più piacenti) e imprecare pensando a dove si trovasse l’ultimo checkpoint (problema anch’esso risolto con il comodissimo quicksave); uscirne vincenti dava la sensazione di aver fatto del male a dei diversamente abili in condizione di ubriachezza. Come se non bastasse, superati i tre allarmi (non due, non quattro: tre), Lambert decideva che il lavoro non faceva per te e la missione finiva. Ma in Chaos Theory, la sensazione che si sia scelto di operare una svolta si ha già da un dialogo che appare in una delle prime missioni: «Fisher, non fare troppo rumore.» «Fammi indovinare, tre allarmi e la missione è finita.» «Certo che no, Sam. Non siamo in un videogioco. Però facendo rumore te li troverai addosso, quindi cerca di essere prudente.» Divertito dal simpatico scambio di battute, il giocatore è spinto a verificare se quanto detto da Lambert corrisponda a verità. E fortunatamente si, la corrispondenza è assoluta. Agire in modo aggressivo in Chaos Theory non significa rovinarsi la fiancata contro il guard-rail del sistema di gioco: significa semplicemente assumersi un rischio. Sin dall’inizio della missione è possibile scegliere tra un equipaggiamento più votato all’intrusione silente ed uno più adatto al confronto armato, oltre ad una terza opzione definita ‘Redding’: essendo Redding il nome di uno dei consulenti di Sam, chi scrive pensa che si tratti del bilanciamento giudicato ottimale dal brav’uomo della NSA. La comparsa di un coltello nella dotazione di Sam (e anche qui le conquiste sindacali paiono essersi estese all’intera categoria) consente una certa capacità d’offesa a corto raggio, mentre le armi sono lievemente più gestibili e facili da usare in combattimento: in particolare, l’efficacia terminale delle munizioni 5,7mm della pistola di Sam sembra aver finalmente superato quella della controparte softair. La stessa pistola ha una curiosa funzione secondaria che consente di accecare le telecamere e disabilitare temporaneamente le luci, e in generale di agire su vari dispositivi elettronici (brillante la trovata dei vetri dall’opacità variabile, nella missione ambientata nella sede di Displace). In un’ottica più generale, si ha l’impressione che il videogioco si plasmi attorno alla condotta preferenziale del giocatore, mettendolo alla prova richiedendo impegno, ma punendolo solo nella eventualità di una gaffe della cui evidenza sarà probabilmente il primo a rendersi conto. Le situazioni al limite del paranormale che infestavano i precedenti episodi sono ridotte al minimo. In passato una guardia, tentando di aprire una porta ostruita da Sam, dopo alcuni angoscianti secondi di convulsioni da collisione disfunzionante diceva ‘non era niente’ e se ne andava. Ora la stessa guardia si insospettisce e sfonda la porta, travolgendo nell’impatto anche il dispettoso agente. Tutto l’impianto ludico è studiato con maggiore buon senso, meglio calibrato, perfezionato, contrito e redento. Da un punto di vista artistico, invece, il DNA della serie esige il suo tributo di banalità: trama debole (per quanto comunque più chiara e vagamente più interessante rispetto a quella di Pandora Tomorrow), musiche non indimenticabili, Zio Sam in pericolo, cowboys dal cuore d’oro e musi gialli dall’infinita perfidia. Ma non ci si aspettava seriamente un cambio di rotta sotto questo aspetto, quindi bando a piagnistei eccessivi. Volendosi spingere in critiche più concrete, si può ancora rimpro-

verare Ubisoft per la qualità delle animazioni, sicuramente migliorate ma ancora non del tutto convincenti, e per alcune incongruenze relative alle azioni performabili (i grandi classici: salti davanti ad un tubo a due metri dal terreno e ci rimani aggrappato; salti davanti ad un gradino di un metro e non riesci ad inerpicartici).

Ma sono dettagli che non possono sminuire in alcun modo quella che è la migliore (per ora) concretizzazione del potenziale della serie. Forte delle sue correzioni di rotta, della sua appassionante modalità online e del suo abbagliante motore grafico, Chaos Theory è il miglior saluto possibile che Ubisoft poteva dare agli aficionados di Sam il Pescatore. Il saluto è chiaramente un arrivederci, e con tutta probabilità è riferito alla prossima generazione: ritorno che a questo punto Ring non può che attendere con ritrovata fiducia e curiosità.

VOTO:

SABCD

SMS REVIEW

MORE SPANDULI! <conker live & reloaded> La parte LIVE fa cagare. La parte RELOADED è invecchiata male. VOTO:

SABCD

LUCY IN THE SKYZZO

<lumines>

Bello soprattutto se si è drogati. VOTO:

SABCD

BATEMAN’S BATMAN <batman begins> È piaciuto ad Amano76. VOTO:

SABCD

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AIRBORNE BROTHERHOOD<brothers in arms: road to hill 30> di Gunny

Q

uantificare l’impatto di Salvate il Soldato Ryan sul mondo dei videogiochi bellici è veramente un lavoro da piramidi egizie; a sette anni dall’uscita della pellicola di Spielberg, continua imperterrito il saccheggio della leggendaria scena del settore Green Dog di Omaha, come se l’ispirazione degli sviluppatori fosse rimasta impigliata in quei monumentali venti minuti senza riuscire più a divincolarsene. Brothers in Arms, ennesimo FPS ambientato nei luoghi del D-Day, si presenta senza costringere all’ennesima rivisitazione di quella dannata spiaggia, che ormai ogni videogiocatore conosce come nemmeno Von Rustedt o Eisenhower hanno mai conosciuto. Per contro, prima della conclusione ci sarà l’occasione di proporre un’insolita citazione dal summenzionato colossal di Spielberg, “Oh mia forza, guida la mia mano…” La storia è quella di una squadra della 101a divisione aviotrasportata, le celebri ‘Screaming Eagles’, che oggi sono diventati l’unica divisone da assalto elitrasportato al mondo: gli uomini della suddetta divisione furono impiegati nella ‘fortunata’ delle due spiagge americane, quella di Utah. La storia di questi uomini, che dura otto giorni, comincia con quello che in concreto è il suo epilogo: il resto del gioco sarà un lento ritornare a quel traumatico evento, avvenuto ad una settimana di distanza dal ‘giorno più lungo’. Carentan, cruciale ‘città cerniera’ che divideva i due settori americani (l’uno costituito dall’entroterra di Omaha fino a Caen e l’altro dalla penisola di Cherbourg), è l’obiettivo finale di questa squadra di soldati.

Gearbox promette realismo, promette immedesimazione, promette rispetto verso la realtà dei fatti storici. La volontà appare sincera: nessuna musica accompagna le convulse sparatorie, nessuna (o quasi) concessione cinematografica interrompe l’esperienza in prima persona; interessante, benché non certo inedita, la possibilità di visitare documenti storici nell’apposita sezione ‘extra’. Il contenuto di questa sezione, ampiamente pubblicizzata dagli sviluppatori, ha tuttavia dei limiti ben precisi. Le informazioni sono frammentarie, giusto una collezione di ‘pillole’, inadatta a chi si aspettasse un’analisi dell’operato del Generale Bradley o una descrizione approfondita dei veicoli militari

dell’epoca: “Questo è il carro M3 Sherman. Ha un Cannone da 75mm. Ce n’erano tanti. Fine.” Il gioco non è un prodigio di tecnica, come certi filmati (quello dell’E3 2004 ad esempio), lasciavano sperare. La pulizia è notevole, gli effetti delle esplosioni convincenti, i modelli di uomini e mezzi ben fatti. Detto questo, si assiste al pop-up selvatico dei ciuffi d’erba a una decina di metri di distanza, le ambientazioni non sono mai particolarmente imponenti (Carentan esclusa, che tuttavia è in massima parte panorama non interattivo) e la quantità di uomini e mezzi su schermo raramente supera la ventina, tra amici e nemici. Audio buono, se si esclude il doppiaggio italiano: per quanto sia fastidioso doverlo ripetere ciclicamente, è inaccettabile che un videogioco totalmente incentrato sulla fedele ricostruzione di un episodio bellico drammatico sia motivo di convulsioni da ilarità incontrollata sin dal filmato di presentazione. Il protagonista, Baker, gode di una voce tutto sommato credibile e piacevole, e le riflessioni che intervallano le missioni si lasciano ascoltare senza fastidio. Sfortunatamente, ci sono altri personaggi: sulla fatidica collina del fattaccio, il radiofonista Legget afferra la sua .45 e, disperato, spara nel nulla urlando “prendeeetemiii, crucchi di meeeerda!” (inevitabilmente, un colpo di artiglieria lo riduce a frattaglie nell’istante immediatamente successivo). Ora, se con un certo sforzo si può chiudere un occhio sull’utilizzo del più banale espediente da war movie che possa esistere (il soldato ormai disperato che viene ucciso mentre urla e spara esponendosi senza alcuna ragione), non è possibile fare altrettanto quando un doppiaggio tanto ridicolo consegna alla prima missione un giocatore che sembra reduce da un box DVD contenente 18 puntate di Zelig e quattro bottiglie di spumante. Questo difetto non inciderà sulla valutazione finale: vista la buona qualità del parlato inglese, non è giusto che il lavoro di Gearbox Software sia penalizzato per un problema estraneo al lavoro dei creatori veri e propri. Ma se avete un minimo di dimestichezza con l’inglese, fatevi un favore e procuratevi la versione britannica. Tralasciando la personale rappresaglia che Ring minaccia di scatenare sulle abitazioni di certuni doppiatori dell’italico stivale, vi è ragione di chiedersi che cosa distingua, a livello prettamente ludico, il titolo in esame dai suoi innumerevoli predecessori. La risposta è: i dettagli. Questo perché nulla di quello che appare in Brothers in Arms è realmente innovativo: il gioco consente di farsi seguire dai propri compagni di sezione, gestendo nel frattempo spostamenti e fuoco di un’altra unità tramite la semplice pressione del grilletto sinistro. Il sapore è un po’ quello di un Full Spectrum Warrior o di un Operation Flashpoint in scala ridotta. Il fuoco di soppressione della squadra di supporto costringe il nemico a non esporsi, il lavoro di accerchiamento del giocatore e della squadra d’assalto lo stringono sotto il fuoco incrociato. Saltuariamente, viene fornito il supporto di un carro armato. Chiarito che il sistema è militarmente verosimile e ludicamente efficace, non è che una a-

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deguata riproposizione di qualcosa che si era già visto su scala più vasta diversi anni or sono. La mappa tattica (tasto ‘menu’) è uno strumento puramente contemplativo, considerando che la coordinazione delle unità controllabili si effettua sempre durante l’azione vera e propria.

L’intelligenza artificiale si attesta su discreti livelli: nessuno compie miracoli, ma nessuno fa fesserie. I compagni cercano riparo ogni volta che è loro possibile, ma si dimostrano abbastanza utili anche mentre seguono Baker in un assalto all’arma bianca. Le truppe naziste tendono a conservare la posizione fino all’annientamento, e anche quando attaccano non sono certo dei fulmini di guerra; lo stesso vale per i carri armati, che si lasciando comodamente scalare e imbottire di bombe a mano. Scricchiola un po’, il ‘realismo innanzitutto’, quando il protagonista compie dieci giri trotterellando attorno ad un Panzer che non riesce a puntargli il cannone addosso, e continua goffamente a ruotare. Il discorso sulla limitata scala tattica dell’azione va applicato anche alla mobilità. Lo scenario è un puzzle che offre sempre una ridotta gamma di ragionevoli soluzioni. Non è un fronte bellico in continuo mutamento, è il livello di un videogioco che nel 2005 deve guardare ancora in faccia i suoi limiti, laddove un noto gioco del 2001 questi limiti li aveva ampiamente aggirati. Alle volte, le limitazioni al peregrinare appaiono poco plausibili (un torrente chiaramente attraversabile per aggirare una posizione MG42; una staccionata parzialmente spezzata alta non più di 30 centimetri da terra). GTA non ci ha viziati, e non sentiamo il bisogno di un GTA bellico: non ne abbiamo bisogno non perché l’idea sia abominevole, ma perché quel noto gioco del 2001 ha già soddisfatto qualunque assurda fantasia potessimo nutrire. Sempre sia lodato Operation Flashpoint, profeta inascoltato. Se Ring ci fosse stata, gli avrebbe forse conferito la sua ambita ‘S’. Ma torniamo ai nostri parafratelli. Di fronte ad una miscellanea di influenze diluite (un Call of Duty senza la sua azione di massa; un Full Spectrum Warrior senza il suo realismo tattico; un Operation Flashpoint senza il suo illimitato problem-solving), il rischio è quello di un prodotto totalmente anonimo. Rischio in parte scongiurato dai quei dettagli distintivi cui si accennava poc’anzi. Dettagli in massima parte orientati ad una rappresentazione realistica della condizione di soldato: l’assenza della croce di puntamento impone di fermarsi e fare uso degli organi di mira delle armi per mettere a segno i propri colpi. Colpi

che peraltro si riveleranno assai imprecisi se il giocatore non si trova in posizione inginocchiata. Il realismo dei danni: un paio di colpi ben assestati sono sufficienti a stendere ogni nemico, così come tre/quattro proiettili bastano a causare la morte di Baker. La difficoltà del gioco è già considerevole a livello normale; a livello difficile o reale, l’accresciuta vulnerabilità e il grande volume di fuoco generato dagli avversari trasformano ogni movimento esposto in una angosciante roulette russa. Come è giusto che sia, in un gioco che intende narrare quanto abbiano rischiato e sofferto quei soldati piovuti dal cielo.

L’esperienza si chiude con una contraddizione: senza voler entrare nei dettagli narrativi, l’atmosfera da tragedia annunciata che si respirava fino alla penultima missione mal s’accosta ai toni retorici e fracassoni del filmato conclusivo. Viene quindi da chiedersi se la consapevolezza con cui molti (americani?) si vantano di trattare il tema bellico sia effettivamente tale. L’impressione è che questi ‘molti’ ritengano sufficiente una robusta dose di scene violente (e in Brothers in Arms non mancano, dall’headshot con schizzo alla pizza margherita in cui si trasforma uno dei componenti della squadriglia durante un attacco aereo) e qualche spruzzatina di pessimismo/lieve introspezione per giudicare la propria una trattazione ‘matura’ della guerra. Se qualcuno riferisse al sottoscritto che nelle menti di questi ‘molti’ perlomeno un dubbio esiste, il sottoscritto ne sarebbe alquanto sollevato. Al di là di queste considerazioni, Brothers in Arms è un’esperienza valida, impegnativa e a tratti emozionante, sorretta da un gameplay piacevole, da scelte coerenti, da una Normandia molto ben ricostruita (le colline ondulate, le chiesette gotiche, le inconfondibili bocages che dividono i campi e le stradine) e da un multiplayer ben supportato. Non vi è una ragione particolare che imponga di preferirlo ai suoi rivali, ma non vi è nemmeno un motivo che suggerisca ai wargamers di lasciarlo sullo scaffale.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PS2 VERSIONE USA SVILUPPATORE INTERNO ETICHETTA NAMCO MULTIPLAYER NO

EVERYTHING’S SO BLURRY<ace combat 5: the unsung war> di Sator Maverick

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in dall’antichità, l’Uomo ha sempre cercato di liberarsi da quei limiti fisiologici che lo volevano animale di terra, ottenendo così la capacità di volare. Questo naturalmente per poi esibirsi in mortali duelli aerei. Il 21 novembre del 1783, a Parigi, il professore di chimica Jean Francois de Rozier e il marchese Francois d'Arlandes furono i primi esseri umani a sollevarsi in cielo senza l’ausilio di una catapulta. La geniale intuizione che rese possibile la rivalsa dell’uomo sul pennuto fu opera dei fratelli Montgolfiere, e consisteva nel riempire d’aria calda un pallone del diametro di 15 metri. Come spesso accade, i due fratelli ebbero l’idea quasi per caso, durante un festino a Lione conclusosi con un contest in cui bisognava scoreggiare all’interno di un preservativo. Certo, la mongolfiera non era esattamente un mezzo dinamico nei movimenti, ma ciò bastò al lungimirante Luigi XVI per organizzare i primi combattimenti aerei della storia. Tali scontri, tenuti ogni domenica dopo le funzioni religiose, consistevano per lo più in lanci di pietre con la fionda da parte dei piloti dei lentissimi palloni, nonché offese all’altrui albero genealogico quando le munizioni andavano esaurendosi. Vista la noia generale di simili manifestazioni, il popolo francese si disaffezionò ben presto alla cosa, e sviluppò un crescente malcontento che culminerà con la Rivoluzione del 1789. La paura di un’analoga insurrezione popolare spinse gli inglesi fratelli Wright a ideare un mezzo volante dai movimenti un attimo meno sonnolenti. Stavano nascendo gli aeroplani. Stava nascendo il mito del dogfight. Due guerre mondiali e svariati attacchi preventivi dopo, l’antica arte del dogfight si è perfezionata a tal punto da perdere completamente il suo fascino originale a base di complicate evoluzioni e procedure balistiche ai limiti dell’umana (tr)aspirazione. Gli odierni combattimenti aerei, infatti, sono quasi esclusivamente di natura BVR (Beyond Visual Range), in cui il massimo del coinvolgimento consiste nel premere un pulsante quando un reticolo di mira ci dice di farlo. Anche il cannone di bordo, arma un tempo gloriosa che decretò l’insuperabilità di personaggi come il barone e il porco rossi, sono oggi optional che non vengono adoperati da anni, come il casco per i motociclisti napoletani. Con il ritorno della noia per simili duelli aerei, è tornato anche il rischio di una nuova insurrezione popolare, e i disordini del G8 sono lì a dimostrarlo. L’obiettivo che Namco sta portando avanti con la serie Ace Combat, è quindi quello di traghettare questa disciplina nel ventunesimo secolo mantenendo una parvenza di interesse. Ciò è stato possibile battendo la pista tracciata da due dei migliori film di sempre: Star Wars e Top Gun. L’opera lucasiana non dedica molto metraggio di pellicola al dogfight – preferendogli le più zen ed economiche scene di cappa e spada – ma quello che c’è, ha influito pesantemente su tutto ciò che è venuto dopo. Ci riferiamo ovviamente alla scena della distruzione della Morte Nera.

Se ad una certa altitudine i paesaggi di Ace Combat 5 danno l’illusione del fotorealismo, anche perdendo quota non si ha una perdita di dettaglio degna di nota. I paesaggi montani sono anzi graziati da un’accurata modellazione delle catene montuose. Tuttavia i mezzi corazzati a terra, sia nemici che alleati, sanno ancora di micromachines poste su un presepe.

Grazie ad una realizzazione tecnica eccellente – ci troviamo forse di fronte al Gran Turismo dei giochi d’aerei – Ace Combat 5 può permettersi un largo utilizzo di missioni a bassa altitudine senza che venga meno la sospensione d’incredulità a causa di texture belle solo sopra i tremila piedi. Ed è proprio a pochi metri dal suolo che il paesaggio perde la sua mera funzione di skin e diventa un elemento attivo del gameplay, proprio come la Morte Nera per Luke. Liberarsi del nemico eseguendo uno slalom tra i pilastri di un ponte, duellare tra le pareti di uno stretto canyon, inseguire il capo squadriglia all’interno di alcune grotte ed effettuare una scorribanda in una lunga galleria sono sicuramente le situazioni più adrenaliniche che Ace Combat 5 ha da offrire. E un aggiornamento dell’immagine che non dimentica nemmeno uno dei sessanta fotogrammi al secondo rende l’esperienza estremamente precisa, oltre che elettrizzante. Per quanto riguarda Top Gun, il capolavoro di Tony Scott, oltre a decretare l’immortalità artistica di Tom Cruise e aver educato generazioni di elettori della famiglia Bush, ha anche l’enorme merito di aver impresso nel cinefilo il fascino dell’uomo all’interno della carlinga, il mito dell’accademia aeronautica, l’amicizia e le invidie tra compagni di squadriglia. Si tratta di persone super addestrate che sfrecciano nel cielo a svariati G proteggendo la Democrazia, ma si tratta anche di semplici esseri umani. Tutti vorremmo poter essere come loro. Casi di omosessualità in caserma a parte. Ace Combat 5 raccoglie il testimone di Top Gun raccontandoci le vicissitudini della squadriglia di Sand Island, un avamposto militare di Osea in perenne vigilanza dei movimenti del nemico di sempre: quella Yuctobania che 15 anni prima aveva fatto esplodere una guerra sanguinosa. Con l’eccezione del complesso personaggio di Nagase – un’orientale, naturalmente – i comprimari e il protagonista stesso risultano caratterizzati facendo un pesante utilizzo di cliché recuperati

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Il filmati sono talmente belli che in alcuni frangenti raggiungono lo statuto di ‘artwork’. La storia non ci abbandona nemmeno nelle sequenze in-game, dove i vari personaggi non fanno che tempestarci di domande a cui dobbiamo rispondere ‘sì’ o ‘no’ con il d-pad. Considerato che l’inglese dei dialoghi è sporcato dalle interferenze radio, e che i sottotitoli sono difficili da leggere nello stesso momento in cui eseguiamo qualche complessa manovra, accade spesso di rispondere ‘sì’ alla cieca, sperando poi di non aver ammesso niente di compromettente sulla propria vita sessuale.

dalla libreria standard dei racconti a sfondo militare: il giovane “puro”, la testa calda, il buffone, il generale ottuso, il meccanico che la sa lunga, l’eroico caposquadra, il patriottico Presidente etc. Questa narrazione di tipo object oriented è tuttavia lungi dal rappresentare un danno. In Ace Combat 5 c’è un entusiasmo talmente candido nel suo raccontare, che pur non aggiungendo niente di particolarmente originale al genere, riesce comunque ad appagare il giocatore. Questo anche grazie a filmati in computer grafica di qualità esageratamente Namco e ad una delle colonne sonore più belle e azzeccate degli ultimi anni. Nonostante alcuni eccessi retorici del pre-finale – con una detestabile melodia patriottica cantata da tutta la squadriglia in volo – la sensazione che dà la trama di questo quinto capitolo della serie è quella di infilarsi un paio di comode scarpe vecchie. E la narrazione è fondamentale, in Ace Combat 5. Senza di essa, infatti, non ci sarebbe tutta questa necessità di aggiornamento del già ottimo quarto episodio, anche per via della mancanza del multiplayer online. La novità strutturale più importante – se non l’unica – introdotta nella serie è la gestione degli ordini da assegnare alla squadriglia. Tramite dpad, è possibile chiedere ai propri compagni di volo di stare in copertura, rompere la formazione, adoperare l’arma secondaria e attaccare un certo bersaglio. La prima opzione è utile soprattutto se vogliamo scrollarci dalla coda un nemico cocciuto, oppure impedire tout court che ci arrivi, dietro alla nostra coda. C’è da segnalare però che a livello normal i missili lanciati contro di noi possono essere evitati con estrema facilità eseguendo una semplice manovra evasiva all’ultimo momento (spesso basta girare sul proprio asse), e anche ad hard si è colpiti solo se ci comportiamo negligentemente. Non si rivela pertanto granché necessario ‘sprecare’ i compagni a guardarci le spalle. La possibilità di dividere la formazione e fare in modo che ogni aereo pensi per sé è al tempo stesso la strategia più fruttuosa, ma anche la più invisibile. I compagni di squadriglia, forti anche della loro invulnerabilità, ci faciliteranno il compito (non

di troppo) prendendo di mira alcuni bersagli, ma ci daranno anche l’illusione di essere nuovamente soli, lassù. L’autorizzazione ad usare l’arma secondaria avrebbe anche qualche effetto a livello strategico se i compagni di stormo la adoperassero veramente. Dopo aver finito il gioco due volte, non ricordiamo di aver visto un solo pilota gestito dalla cpu lanciare ad esempio una bomba a caduta libera contro un avversario a terra; ma forse è una questione di timidezza. L’ordine di attaccare un determinato bersaglio è l’abilità che useremo più spesso, e quella che ci indisporrà maggiormente. Questo perché i nostri sottoposti non sono ometti autosufficienti che, se gli dai un bersaglio, lo martelleranno fino a distruggerlo. Sarà infatti sufficiente dedicarsi ad altro dopo aver assegnato l’ordine, perché loro facciano altrettanto. L’opzione pertanto non consente di suddividersi i bersagli ed effettuare così un più rapido repulisti, ma solo di avere un supporto – lento ed impreciso – sull’attuale oggetto del nostro dogfighting. A conti fatti, la gestione strategica dello stormo pare una buona idea sulla carta, in attesa di vederla sfruttata a dovere si spera già nel prossimo capitolo.

La visuale dal cockpit è naturalmente la più evocativa, e la possibilità di guardarsi intorno intervenendo sullo stick destro aumenta sensibilmente l’illusione di ‘esserci’. Purtroppo alcuni modelli di aereo – come l’F117 – hanno una strumentazione così invasiva da lasciare solo una minima porzione di esterno visibile. A quel punto, conviene dirottare la propria scelta sulla visuale ‘paraurti’ (oppure in quella ‘after burner’, se siete dei lamer)…

La serie Ace Combat risulta ancora una volta l’unico e il miglior compromesso possibile tra la noia di una fedele simulazione in ambito PC e la troppa spensieratezza arcade dei vari sparatutto in stile After Burner. Questo quinto episodio saprà entusiasmarvi con un impianto tecnico prossimo alla perfezione ed una storia avvolgente. E al pensiero di come potrà essere Ace Combat 6 su PS3 viene voglia di fracassarsi la testa contro il muro inneggiando a satana per avere anche solo un misero screenshot.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA GAMECUBE VERSIONE PAL SVILUPPATORE PRODUCTION STUDIO 4 ETICHETTA CAPCOM MULTIPLAYER NO

SURVIVAL SHOOTER <resident evil 4> di Federico Res

L

a genesi di Resident Evil 4 è stata difficile. Quattro anni di sviluppo, quattro versioni distinte, un’esclusiva GameCube inizialmente inattaccabile poi sgretolatasi in favore di Sony. E una testa – quella di Shinji Mikami – virtualmente mozzata e rotolata nel cestino dei rifiuti (“the day it goes to the PS2, I’ll cut my head off”). Una gestazione sofferta che si è riflessa, inevitabilmente, sul prodotto finale. RE4 si fregia di un motore grafico eccellente – sul quale sarebbe inutile tessere nuovi elogi – ma fa i conti con cadute di stile e cambi di ritmo, localizzati tanto nel level design quanto nel gameplay. A momenti di grande ispirazione e pathos, l’opera Capcom frappone fasi inutili e prolisse; alla messa in scena di ambientazioni splendide e credibili fa seguire vedute incoerenti, frutto di cenni artistici e architettonici confusi. Non c’è costanza, nell’ultimo gioco di Mikami. Eppure giocarlo è un’esperienza unica, irresistibile...

La meccanica di gioco innescata dal ritrovamento di Ashley prevede che Leon si prenda cura della ragazza, proteggendola dagli attacchi dei ganados e dalle trappole disseminate lungo gli ambienti. Quando il level design separa i due protagonisti, proteggere Ashley richiede l’uso del fucile di precisione: RE4 introduce così fasi di cecchinaggio particolarmente appaganti, seppure semplici nelle meccaniche.

Via le camere fisse, ora l’obiettivo inquadra ogni cosa dalle spalle del protagonista. Via il puntamento automatico, ora Leon è libero di mirare ad ogni parte anatomica dei nemici. Via gli zombie, ora il bestiario si distingue per agilità e ostinazione. Restano, invece, due leggi inflessibili: si spara solo da fermi, e i proiettili non sono mai abbastanza. Da qui in poi Resident Evil 4 esplode viscerale potenza. Gli ambienti di gioco sono territori di caccia entro cui i ganados (gli abitanti del pueblo) incalzano Leon allo scopo di massacrarlo. A nulla serve fuggire, nascondersi in qualche cascina, volare dalle finestre o guadagnare i piani alti degli edifici. I ganados sfondano porte, adoperano scale a pioli, si inerpicano sui tetti. Escono dalle fottute pareti. La lotta è l’unica via. Ma non si tratta di svuotare caricatori fino a che ogni nemico è stramazzato al suolo. Prendersi cura di un ganados infuriato – data la forzata immobilità che ciò implica – significa esporsi agli attacchi di svariati suoi simili. La prima legge vibra. Un paio di colpi all’indirizzo del villano più prossimo, poi è tempo di ricaricare, allontanar-

si ed elaborare fulmineamente il prossimo schema d’attacco. Ogni punto sensibile del nemico, quando colpito, produce un effetto diverso: un colpo alla spalla disarma, uno alla testa stordisce, uno alle gambe fa perdere l’equilibrio. In mezzo a un branco di paesani armati di forche e asce, usare queste informazioni costruttivamente è il solo modo per sopravvivere. A maggior ragione considerate le esigue scorte di proiettili a disposizione (cfr didascalia). La seconda legge ruggisce. Due colpi di pistola devono piantarsi nell’addome del ganados che impugna una forca, un colpo di fucile deve allontanare quello che imbraccia la motosega, una granata accecante deve ammansire un gruppo più compatto di ostili, cosicché Leon possa occuparsene con calma. Ogni proiettile deve avere la sua destinazione, ogni attacco il suo ruolo preciso, in un’azione sistematica di offesa e difesa. Ma non c’è nulla di predefinito, nulla di scriptato. Leon può gestire la battaglia come meglio crede, ogni volta in modo diverso...

Il misterioso venditore fornisce a Leon qualsiasi tipo di fucile o pistola. I suoi prezzi spesso alti non scoraggiano, per la facilità con cui è possibile accumulare denaro (mietendo nemici o raccogliendo i “tesori” sparsi per le location) e per la possibilità di rivendere l’artiglieria inutile riottenendo parte del denaro speso per acquistarla. Non sono in vendita, invece, le munizioni: al giocatore è lasciato il compito di procurarsele da sé, scandagliando gli ambienti di gioco e frugando nelle tasche dei ganados abbattuti.

Con il progredire del gioco, la disponibilità di nuove armi (acquistabili e potenziabili in un particolare negozio, cfr didascalia) moltiplica le variabili tattiche della battaglia. Il fucile di precisione consente l’azione dalla distanza; il lanciamine permette di conficcare ordigni a tempo nelle carni o nelle vicinanze dei nemici; il potente lanciarazzi apre la via ad una distruzione di livello superiore. A ciò fa eco un progressivo ispessimento del grado d’acredine dei nemici, i quali all’uso di falci e bastoni affiancano balestre (a dardi infuocati e non), mazze ferrate, candelotti di dinamite e perfino mitragliatrici. Il meglio viene durante gli assedi, con decine di ostili che circondano Leon, o nelle battaglie contro avversari dotati di difese particolari, quali corazze protettive o sistemi di mimetizzazione ottica. I combattimenti contro i boss, frequenti e scenicamente splendidi, sono un ottimo complemento all’azione ordinaria. Sebbene ogni scontro si riduca

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all’assimilazione e alla ripetizione di pattern poco complessi, è degna di lode la volontà di affrancare il giocatore da una condotta troppo basata sull’uso delle armi, per spingerlo a sfruttare la conformazione della mappa al fine di scovare i punti deboli del nemico. Che ci si trovi alle prese con un semplice ganados o con un boss colossale, la limitatezza dell’inventario scoraggia condotte troppo sfrontate (il lanciarazzi garantisce potenza, ma la sua mole toglie spazio alle altre armi e ai curativi), e costringe a selezionare con pignoleria il proprio bagaglio. Pad alla mano, RE4 dimostra un bilanciamento al limite della perfezione. Ed è questo il suo pregio più grande: offrire una sfida mai banale né eccessiva, che punisce e gratifica senza mostrarsi mai ingiusta. Altri due fattori contribuiscono ad esaltare l’esperienza e ad aumentare la piacevolezza del titolo. Il primo è rappresentato dai “Quick Timer Event”, mutuati da Shen Mue, ottimi nel tramutare le scene di intermezzo in frenetiche schegge di “laser game” e nel pompare nuova adrenalina nelle vene; il secondo consiste nel formidabile character design di Yamanaka Masaki. Dai ganados a El Gigante, da Salazar a Lord Saddler, RE4 pullula di creature umane e di loro degenerazioni genetiche, mirabolanti tanto nell’aspetto quanto nelle movenze, imponenti e superbamente caratterizzate. Tra le creature più fantasiose, i fan di Ridley Scott riconosceranno l’omaggio ad Alien più riuscito di sempre...

Gli extra disponibili una volta terminato il gioco sono di tutto rispetto. Oltre ad un costume alternativo e alcune nuove armi (come la pistola automatica “Matilda”), si sbloccano le modalità Mercenaries e Assignment Ada. La prima, come già accadeva in RE3: Nemesis, mette al comando di mercenari armati fino ai denti alle prese con orde infinite di nemici, da massacrare incondizionatamente. La seconda, ambientata sull’isola, vede Ada Wong infiltrarsi nelle installazioni degli Illuminados allo scopo di raccogliere alcuni campioni di plagas, da consegnare al proprio misterioso datore di lavoro. Un nuovo livello di difficoltà, “Esperto”, diventa inoltre selezionabile.

Si è già accennato in apertura all’incostanza creativa cui Resident Evil 4 paga dazio. I problemi partono dal level design e giungono sino al gameplay: l’ariosità e la libertà di movimento respirate nelle prime fasi si rivelano, purtroppo, esclusiva del pueblo e dei suoi dintorni. I primi momenti di RE4 sono anche gli unici dove sia davvero possibile coreografare battaglie frenetiche ed imprevedibili, in ragione di locazioni via via più anguste e lineari. Non a caso, quando l’avventura si sposta all’interno del castello e successivamente sull’isola, il versatile concetto di “azione rapida” – riguardante tutte le azioni eseguibili con la sola pressione del tasto A, come saltare dalle finestre o abbattere

scale – perde progressivamente di senso, non potendo più essere applicato a location composte da stretti corridoi e piccole stanze. Accanto al problema della “blindatezza” degli ambienti successivi al pueblo, va aggiunto quello della loro verosimiglianza. Se il pueblo era realistico, credibile e visivamente splendido, il castello e l’isola appaiono architettonicamente incoerenti ed esteticamente traballanti. Qui non si discute il livello di dettaglio o la definizione delle texture, ma l’adesione – quasi certamente dettata da limiti di tempo – a un concetto di level design che ammette setting inverosimili, non sostenuti da alcun principio architettonico o iconografico. Pensate al maniero di un qualunque Castlevania e avrete un’idea di ciò che si vuole intendere. Un simile approccio, in un gioco dal taglio così ricercatamente cinematografico, è per forza di cose deleterio. RE4 pullula di edifici dalla morfologia astrusa e ambientazioni fuori luogo (come la stanza dei draghi di fuoco nel castello) a totale detrimento di quella sospensione dell’incredulità così ben convogliata nella prima parte del gioco. Quel che è peggio, è che il gameplay non trae alcun vantaggio da simili location, ma ne è invece limitato, sfociando talvolta nella pretestuosità. Nel castello ciò si ravvisa durante le sezioni basate sui precetti del vecchio Resident Evil, che tentano di riabbracciare le suggestioni del passato ma finiscono per smarrire i presupposti del presente; sull’isola la sensazione è di un action game che, pur conservando i tratti da “shooter di sopravvivenza” sopra esposti, non si esprime al meglio a causa di una sensibile carenza di varietà. In ultimo, la trama non sembra fare alcuno sforzo per mascherare la propria piattezza e mancanza d’ispirazione: un intreccio pessimo, a tratti ridicolo, raccontato attraverso dialoghi serrati ma inverosimili, in cut scene palesemente ispirate ai bullet time di Matrix. Nonostante queste ultime siano visivamente appaganti, l’impressione generale è di un lavoro di contorno, svolto a tempo perso, nella convinzione che la natura action del titolo non abbisogni di grossi sussidi a tema narrativo. Il che è vero in buona parte, giacché l’inutilità della trama è il difetto a cui meno si fa caso. Tuttavia, chi conosce il fertile background narrativo della saga si rammaricherà all’idea di tanti spunti interessanti sistematicamente ignorati, in favore di un nuova sceneggiatura decisamente squallida. Al di là di pregi e difetti, è scritto che Resident Evil 4 deluda chi deve essere deluso. Il fan irriducibile, rimasto all’asciutto di paura e tensione, sarà deluso. Il critico, inappagato da un quid ludico utile al soddisfacimento di pulsioni violente e poco altro, sarà deluso. E forse l’esteta, ammaliato dal fenomenale carattere del pueblo ma insoddisfatto dal raffazzonato design del castello e dell’isola, resterà pure lui scontento. Chi deve essere deluso, alla fine dei giochi, tale rimarrà. Ma resta il fatto che l’opera Capcom sia un gioco nuovo, violentemente votato a sensazioni action difficilmente sperimentate in altri prodotti. Un gioco orfano della connotazione da horror psicologico prevista in precedenza, mutato in carneficina, dove per sopravvivere non si fugge l’orrore ma lo si fronteggia in duelli all’ultimo sangue: welcome to the world of Survival Shooter...

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PS2 VERSIONE PAL SVILUPPATORE PRODUCTION STUDIO 1 ETICHETTA CAPCOM MULTIPLAYER NO

PARADISO PERDUTO <devil may cry 3: dante’s awakening> di Cryu

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ante sceglie la sua preda nel mucchio, si avventa sul malcapitato e infila una successione di tre fendenti fulminei, l’ultimo dei quali proietta l’avversario nel vuoto; allora lo imbocca con un’ostia di fucile a pompa, spicca un balzo prodigioso e una volta a mezz’aria lo battezza con il ferro della spada. Fin qui nulla di nuovo. Quindi inizia Devil May Cry 3: Dante incorona ripetutamente il nemico a suon di fendenti, dopodiché rimpiazza al volo lo spadone con una coppia di lame elementali, e con queste lo benedice tre, quattro volte, per poi cambiare cannoni e redimerlo col fuoco purificatore di Ivory & Ebony. E ricomincia il giro: spada, lame, pistole. Anzi, fucile. Anzi, pistole. Colpo di grazia: un miracoloso fendente rotante in picchiata. Esatto, tutto in volo. Roba da perdere il conto dei secondi trascorsi da quando è iniziata la combo aerea. La verità è che questo è davvero nulla, perché quando di mezzo ci saranno altri cinque stili di combattimento (l’uno ispirato a ZOE2, l’altro a Ninja Gaiden, l’altro a…), lanciarazzi, nunchaku e chitarre elettriche (don’t ask), il campionario di combinazioni d’attacco eseguibili fuggirà qualsiasi velleità di descrizione. Ma per non confondere nessuno, è bene precisarlo fin da subito: Devil May Cry 3 è un titolo attaccabilissimo un po’ in tutti i reparti, salvo nel più importante: il sistema di combattimento. Semplicemente senza rivali. Se questo da solo riesca o meno a tenere in piedi la baracca è un interrogativo a cui chi scrive ha dato una risposta personale coronata da tre punti esclamativi, ma che non vuole esprimere nel corso di questa recensione, preferendo fornire al lettore tutti gli indizi necessari a capire se DMC3 sia o meno il gioco che fa per lui.

Cut-scene all’insegna dello humour grottesco e dell’azione impossibile compensano egregiamente una trama che, eufemisticamente, definiremmo “di genere”. Veri e propri siparietti comici introducono personaggi caricaturali orchestrati da un Dante scanzonato e “simpa” come non mai. Menzione d’onore anche per i gustosi intermezzi celebrativi dell’eccesso trash: sarebbe interessante assistere a una gara di velocità tra Dante e Sonic sulle pareti di un grattacielo…

Prefiggendosi l’obiettivo di ambire alla palma di miglior action game per PS2, DMC3 tenta la strada dell’ispessimento di stampo ruolistico. Sei stili di combattimento e relativi stadi evolutivi, una dozzina di armi da potenziare (e rifornire nelle funziona-

STYLISH!

Si è fatto un gran parlare dei famigerati sei stili di combattimento di DMC3. Ma di che cosa si tratta esattamente? Semplice, a seconda dello stile selezionato, al tasto cerchio viene assegnato un particolare ventaglio di azioni. Qualche esempio? Schivate multiple, wall run e sprint aerei con Trickster, spettacolari fendenti aerei con Swordmaster, pistole puntate su due avversari contemporaneamente con Gunslinger, stop del tempo con Quicksilver. La ragionata progettazione delle sfide contenute in ciascuna missione attribuisce una valenza strategica alla scelta dell’uno o dell’altro stile, concessa solo a inizio stage o presso le statue-negozio a cui ci ha abituato la serie. Oltre agli stili e alla possibilità di equipaggiare due armi per tipo alla volta, un’ulteriore evoluzione del sistema originale è data dalla potenziabilità delle armi da fuoco, che garantisce l’efficacia delle amate pistole anche nell’ultima frazione di avventura. Azzeccata anche l’idea di assegnar loro una funzione di collante tra le combo inanellate con le armi da mischia.

lità) costituiscono terreno fertile alla coltivazione del Dante che più da vicino interpreta la propria concezione di stylish fighting. Ma se già come action DMC3 paga la ripetitività di situazioni, location e avversari continuamente riciclati, le abilità in palio raramente sono sufficienti a garantire la ripetibilità cui aspira dando l’opportunità di rigiocare le missioni superate. La prospettiva di costruirsi un Super Dante rodato in tutti gli stili e munito d’ogni genere di attacco è allettante, ma il “meno male” con cui si saluta la conclusione di tanti capitoli la dice lunga sulle probabilità che vogliate cimentarvi nella ripetizione di missioni che già non brillano per varietà, ispirazione e ricercatezza scenografica. A chi serba nel cuore furibonde battaglie contro marionette demoniache, rettili

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FIGLI DI UN DIAVOLO MINORE

Colonne portanti dell’originale DMC, i boss di questa edizione esaltano, impegnano sino allo sfinimento ma non rivaleggiano con i campioni del sommo predecessore. Penalizzati da una modellazione mai troppo accattivante e da un combattuto rapporto con la regia virtuale, risentono soprattutto nell’imperfetto “incastro” con le abilità di Dante. Il segreto è quasi sempre colpirli alle spalle o quando abbassano la guardia, ma anche quando la loro risoluzione richiede un’interazione fisica più complessa, lasciano sempre una sensazione di incompiutezza e casualità. Gli equilibrismi sul dorso del Gigapede sono vertiginosi, ma il rodeo sullo scorpione lavico del primo capitolo rimane storia a sé. Fin troppo evidenti, infine, certe fonti di ispirazione: Beowolf, il bestiale guardiano bipede, non è altri che lo Zodd del manga Berserk. gladiatori e impalpabili felini in agguato negli spazi raffinati della bio-cattedrale di Mallet Island, spiace comunicare che questa volta si combatte contro dei… dei… boh, all’interno di un… di una… boh. Solo l’ultimissima frazione di gioco regalerà vedute più visionarie ispirate agli scherzi prospettici di Maurits Cornelis Escher. Inoltre, benché graziato dal selettore dei 60hz e da un frame rate generalmente ancorato ai 60fps, DMC3 sconta una personalità artistica discutibile e un motore grafico con prestazioni da prima generazione (c’è tutto: aliasing, blur, rallentamenti, pessimo texturing, cromatismi sgradevoli). In altre parole, il terzo DMC è estraneo alla pulizia video del secondo, e dista anni luce dalla riuscite sperimentazioni neogotiche del capostipite. Discorso analogo per la colonna sonora, una nenia di estenuanti ritornelli rauchi che neanche POP: Spirito Guerriero, solo alla fine ringalluzzita dalle necessarie cavalcate epicheggianti. L’opinione di chi scrive è che lo stylish gaming non abbia a che fare soltanto con azioni di gioco che sbeffeggiano la legge di gravità, ma che costituisca un sottogenere del videogiocare in cui ciascuna componente, interattiva e non, concorra a inscenare uno spettacolo audiovisivo esteticamente importante. Senza una cornice immaginifica all’altezza, senza una colonna sonora che esalti l’azione contenuta, senza animazioni che ricreino l’eleganza del bel gesto atletico, non si può parlare di stylish a tutto tondo. Piuttosto che l’eccentrico lord sbruffone dell’esordio, il giovanissimo Dante di questo prequel è uno starnuto della MTV generation: bat-

tuta facile e sorriso da spot, ma sotto sotto carente nei fondamentali, vedi la sgraziata posa rannicchiata che assume durante il fuoco aereo o l’approssimativa posizione di parata dello stile Royal Guard. Fortunatamente, il parco animazioni del protagonista è talmente vasto e perlopiù riuscito da autorizzarci a chiudere un occhio su certe cadute di… stile. Se la certezza di un gameplay granitico può comunque rassicurare il partito dei “me ne sbatto della grafica”, tre elementi critici si intromettono a ridimensionare sensibilmente il piacere della lotta pura: regia virtuale, sistema di lock-on e bilanciamento della difficoltà. La telecamera non funziona, c’è poco da fare. Nemici costantemente esclusi dalla scena sono liberi di attentare indisturbati all’incolumità di Dante, peccato veniale nelle situazioni di massa, ma reato capitale nel momento in cui gli avversari sono solo un paio. Il sistema deputa al giocatore l’onere di supplire alle deficienze della regia automatica, assegnando allo stick destro la rotazione della visuale (laddove concessa); tuttavia, questa possibilità è parzialmente vanificata dalla lentezza della camera manuale e dal sovraccarico di azioni che gravano sulla mano destra, già alle prese con sei pulsanti. L’agganciamento del bersaglio viene ancora una volta attivato dal tasto R1, demandando a L3 il trasferimento del mirino da un avversario all’altro. Il problema è che ciò avviene senza obbedire a criteri di prossimità o criticità. In un gioco dai ritmi telecinetici come DMC3 non è ammissibile che per incrociare un attacco in arrivo sia necessario passare in rassegna tutti i soggetti nei paraggi. In ZOE2 il sistema è analogo: R1 per il lock-on di primo livello, L2 perché l’intelligenza artificiale inquadri puntualissima l’obiettivo secondario più impellente. In ZOE2 funziona, in DMC3 no. Risultato: nelle situazioni di mischia si rinuncia spesso al lock-on ripiegando sull’indirizzo manuale dei colpi. La difficoltà è argomento spinosissimo. Confidando nell’abilità del giocatore occidentale medio (?), Per le edizioni occidentali Capcom ha deciso di imbastardire il livello ‘normal’ della versione giapponese, eliminando altresì i checkpoint da cui ripartire infinite volte in caso di decesso. Morale? Un livello facile giustamente soft, e un livello normale impietoso, anche per chi ha completato l’originale DMC ai livelli più elevati. Questo inizialmente. Da metà gioco in poi la curva di difficoltà si affloscia inspiegabilmente tornando su livelli accettabilissimi. Ma signori, che Via Crucis muovere i primi passi nell’avventura ripetendo la stessa missione cinque-sei volte prima di avere la meglio sul boss di turno! A complicare il tutto pesa l’avarizia con cui vengono elargiti i ‘continue’ e gli oggetti curativi (anche acquistabili, ma a prezzi esorbitanti). Certo, ripetere ogni missione un paio di volte dopo averla risolta garantirà i potenziamenti necessari a destreggiarsi nella successiva con relativa disinvoltura; ma come già sottolineato, la ripetitività delle situazioni scoraggia questo approccio, che tanto puzza di backtracking travestito da componente RPG. Per contro, il gioco si gode assai di più a una seconda tornata lampo, confortata dai poteri già acquisiti nel corso del primo giro e con il pepe aggiunto dal livello di difficoltà superiore. Tuttavia, il nostro messaggio è questo: DMC3 è roba hardcore, entrate a vostro rischio e pericolo. Per i fanatici della dietrologia, ci sentiamo di non indicare in Shinji Mikami il grande assente di cui questa serie denuncia l’assenza da quando la cari-

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ca di producer è passata a Tsuyoshi Tanaka, bensì nel director Hideki Kamiya, che pur avendo dichiarato a chiare lettere di aver “creato il sistema di gioco, l’aspetto generale, la storia”, nonché “supervisionato e diretto un po’ tutto, dallo sviluppo al doppiaggio” del primo DMC, manca sempre all’appello quando la stampa si arrabatta per attribuire una teorica paternità al capostipite della serie. E poco sorprende che in termini di direzione artistica il Viewtiful Joe di Kamiya si sia dimostrato molto più coerente del discontinuo Resident Evil 4 di Mikami.

Acquisito circa a metà avventura, il ‘Devil Trigger’ non ricopre il medesimo peso che nei precedenti capitoli, e capita anzi spesso di dimenticarne l’esistenza. Si segnala il curioso aspetto retrò del Dante in forma demoniaca, che tanto ricorda i telefilm giapponesi anni ’80 a base di maschere di gomma e tutine aderenti.

I giocatori delusi dall'inqualificabile DMC2 hanno tuttavia motivo di rallegrarsi, Dante’s Awakening incarna davvero il risveglio del franchise dall'incubo in cui era sprofondato. E quasi a voler tendere ai fan una mano di pace fatta, questo nuovo seguito pullula di citazioni e richiami al capitolo originale. Le sequenze di apertura e chiusura, in particolare, rendono un doveroso tributo al Dante che quattro anni fa sconvolse tutti i canoni vigenti in materia di character design. D’altro canto, la storia voleva che Dante giungesse in Paradiso passando prima dall’Inferno e poi dal Purgatorio. Centrando il Paradiso al primo colpo, per i due seguiti a venire Capcom si è ritrovata sul groppone Inferno e Purgatorio. Ma dopotutto, i diavoli sono angeli caduti. E il figlio di Sparda almeno ci sta provando a riguadagnare il cielo.

VOTO:

SABCD

PHILOSOPHER NEMESIS

Dire che gli atei vivono una vita priva di speranza è un tormentone che mi sono sentito ripetere più volte e lo trovo davvero sintomo di una visione limitata della vita stessa. È così difficile capire che dio è la risposta diretta della paura dell'uomo della morte? Che poi è pure la risposta di gran lunga più semplice: dovremmo ammirare chi si sforza di ricercare soluzioni più complesse, o chi, con filosofia zen e robe simili, accetta che la vita si compia e basta. Azz, forse siamo più osservanti noi atei, che ci pieghiamo al vero verbo divino della natura, del destino e del caso, che è nonscritto e mai-detto. Tra l'altro ho sempre trovato divertente l'escamotage teologico per evitare il suicidio di massa e arginare così l'estinzione del genere umano, alla rincorsa di un'eternità di gioia e luce. Ma poi, mi son sempre chiesto, a cosa serve per i cristiani la vita sulla terra? Dio dà la vita a Pierferdinando Casini, che vivrà in maniera retta e si guadagnerà il paradiso. Dio dà la vita a 'Mbutu, che nasce in africa e muore a tre anni. Ma se Pierferdinando Casini vive centoventi anni, avrà probabilisticamente più opportunità di cedere alla tentazione e peccare, mentre 'Mbutu si guadagna l'aldilà senza sforzo. Questo pensiero mi ha portato a formulare la tesi BOT, ossia che tutte le persone che soffrono al mondo siano solo delle comparse, il cui scopo è unicamente quello di tentare e mettere alla prova le vere anime che dovranno poi guadagnarsi l'eternità. Sapendolo, ovviamente, non c'è più ragione di compatire gli sfortunati, dato che non sono veri esseri viventi. Nemesis Divina

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SISTEMA PS2 VERSIONE USA SVILUPPATORE SANTA MONICA STUDIOS ETICHETTA SCEA MULTIPLAYER NO

OLIMPIC SLAM <god of war> di Nemesis Divina

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a volontà di riuscire è talvolta la scintilla capace di divampare in glorioso incendio. Quando la divisione americana di SCEI raccolse uno dei suoi team, allora reduce da Kinetica (trascurabile clone di Wipeout), si era già deciso che God of War dovesse percorrere il sentiero dei blockbuster, un titolo pesante da sostenere e spingere, così come sostenuto e spinto è stato Killzone. La volontà di riuscire, talvolta, è sufficiente per farcela. D’altra parte, lo sforzo produttivo non è ininfluente, ed è anzi determinante nella misura in cui si occupano strutture e uomini per tre anni, all’inseguimento di un risultato d’eccellenza. Inusuale, a dire il vero, il terreno scelto come campo di gioco per questo nuovo titolo: GoW prosegue infatti il discorso action attualizzato da Devil May Cry, solo con una maggiore propensione narrativa ed enigmistica. La sfida è grande, specie per i team occidentali, in genere poco avvezzi al genere, ma GoW si presenta subito con buone carte da giocare ed uno stile sufficientemente distintivo, nonostante i forti richiami alla serie Capcom. La struttura di gioco è più fluida e progressiva rispetto al percorso a missioni di Dante, ma permane la necessità di un’applicazione stilosa delle numerose mosse, concatenabili in più modi, l’uso coreografico di certe inquadrature, l’imponenza della architettura e le immancabili missioni in cui l’eliminazione di tutti i nemici in un’area sblocca l’accesso alle stanze successive.

Il cammino di Kratos verso la redenzione della propria anima prava, stupisce per la sua fluidità. Di rado un titolo PS2 ha avuto un frame rate tanto soddisfacente, supportato da masse poligonali imponenti e contorni levigatissimi. Solo qualche difetto di tearing e alcuni modelli poco convincenti ledono un quadro visivo comunque maestoso.

Il protagonista Kratos si rivela presto un abile portatore delle nostre aspirazioni brutali: fatta un po’ di pratica, e potenziate le armi tramite l’investimento di poco originali globi rossi, è possibile inanellare combo che si estendono da un nemico all’altro, toccando senza problemi conteggi a tre cifre. Pur senza raggiungere l’appeal stylish del buon Dante, Kratos mette in scena movimenti colmi di vigore e gusto macabro, infilzando gli avversari con le sue lame e roteandoli grazie alle catene che tengono le due spade ancorate agli a-

vambracci, percuotendo a terra gli avversari, decapitando o disarticolando i nemici, fino a malmenarli con le loro stesse membra. È un riversamento di plasma continuo ed eccitante, volutamente forzato, utile a disegnare i contorni della perversa etica violenta da cui trae origine Kratos, figlio di quella Sparta amante e cultrice della guerra. A rendere ancora più appagante il mulinar d’arma e il mutilar d’arto, viene in aiuto una regia virtuale sempre attenta e che solo in rarissime occasioni nasconde l’eroe allo sguardo del giocatore. La regia è completamente gestita dalla CPU, una scelta saggia dal momento che quasi sempre punta l’obiettivo nella direzione migliore sottolineando certi passaggi con suggestivi movimenti di macchina: l’attraversamento di un ponte, la discesa per una scala a chiocciola o la corsa lungo un costone di roccia, guadagnano rilievo grazie a una semplice ma sapiente variazione prospettica. Inoltre, la regia automatica solleva lo stick destro dalla sua funzione tradizionale, autorizzandola a gestire l’evasione laterale durante i combattimenti. Inclinando lo stick in avanti, indietro o di lato, si avvia una capriola o un balzo che può fare la differenza fra una mazzata raccolta in fronte e il ritrovarsi incolumi sul lato sguarnito dell’avversario. Le opzioni d’attacco sono numerose e facilmente attuabili, senza contorsionismi delle dita bensì tramite lo studio intuitivo della tempistica e una buona dose di creatività: attacchi aerei, parate, prese e soprattutto i ‘mini-eventi’, che portano ad un’uccisione spettacolare, dettati da diverse tipologie di movimenti (una serie di pulsanti da premere in successione, il martellamento di un tasto o una sequenza di movimenti dello stick). Ma per quanto nutrito, il parco mosse, rimpinguato da quattro magie di supporto e una barra ‘berserker’, non può valere da solo il gusto del giocare. A stimolare il gusto per l’ecatombe perpetrata da Kratos è la variegata fauna ostile, che raccoglie e rivisita la mitologie greca, scenario principe del gioco. Ciclopi, gorgoni e centauri, satiri e cerberi, arpie, minotauri e persino un’Idra: il bestiario ellenico è ricco di sfumature e differenti pattern d’attacco al punto che, davanti a una schiera di nemici misti, la difficoltà registra una degna impennata imponendo una precisa strategia, almeno ai livelli di difficoltà superiori. Ma è proprio nel livello di difficoltà che GoW tradisce uno degli aspetti peggio interpretati dell’industria attuale: il livello di base, quello NORMAL, è accondiscendente in maniera irritante, tanto da rovinare quasi del tutto il gusto guerresco degli scontri, che si piegano alle mani di Kratos senza lasciare cicatrici a testimonianza del suo valore. Persino il combattimento finale può essere completato premendo a caso i tasti, affidandosi alla fortu-

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na e ad una pressoché inesauribile barra energetica. Decisamente diverso l’andazzo in HARD, dove gli scontri assumono un tenore più maschio e fisico, con l’occhio che fugge spesso in alto a sinistra, dove la barra verde si consuma con equa rapidità rispetto ai colpi ricevuti. Non possiamo esitare a consigliare (imporre) l’Hard Mode sin dall’inizio. Si segnala però un errore odioso, assurdamente endemico del genere: come in DMC, la ripetuta morte in una stessa sezione porta il gioco a suggerire l’idea di abbassare il livello di sfida. In Hard, esistono in effetti una manciata di frangenti che richiedono un attento studio di strategie nonché una copiosa dose di testardaggine e reiterazione della missione. La distribuzione frequente e saggia dei checkpoint allevia l’irritazione da replay, ma in alcune occasioni la tentazione di passare a livello inferiore è grande. Purtroppo, e qui sta l’infamia, una volta ridotto il livello di difficoltà, non è possibile ripristinare quello di partenza compromettendo così la restante porzione di gioco, ormai molle come un budino.

lista di extra mai così grassa. La Sfida degli Dei consiste in una quest ulteriore composta da dieci prove di varia natura, ci sono poi making of, un notevole book artistico, una divertente galleria interattiva sui modelli scartati nella versione finale del gioco e quattro vestiti sbloccabili da riutilizzare nei replay (ognuno dei quali conferisce differenti abilità).

Durante i combattimenti la strategia è d’obbligo. Schivare, parare, prolungare combinazioni, eseguire magie o industriarsi per recuperare energia dai relativi scrigni: è una violenta partita scacchi con esiti mai scontati. A livello Hard, Kratos ha il suo bel da fare per sopravvivere e ogni assalto nemico può nascondere insidie impreviste.

Le inusuali armi di Kratos, due lame assicurate alle braccia tramite grosse catene, garantiscono coreografie visive che soddisfano anche il gusto del bello, oltre a quello del macabro. Molto interessanti i prototipi di Kratos scartati, visionabili a gioco ultimato.

Il cammino che conduce verso lo scontro con il dio della Guerra è poi disseminato di un’enigmistica sufficientemente elaborata, mai cervellotica, da appagare il giocatore e rilassarlo fra una sessione di scontri e l’altra. Esistono poi battaglie di massa, in cui si falcidiano i nemici come in una messe estiva, o duelli con pochi avversari coriacei, o ancora, combattimenti gravati dal contesto ambientale (trappole e precipizi) o situazioni specifiche (schiere di arcieri o palle infuocate da schivare). In generale è la varietà la caratteristica vincente di GoW, che si dimena fra porzioni subaquee e scalate verticali, combattimenti appesi ad una fune sospesa nel vuoto e duelli a distanza, estenuanti combinazioni di colpi e ricorso alla magia. Anche lo scenario muta in maniera significativa e apprezzabile snodandosi fra le mura della gloriosa Atene, fino alle viscere dell’Ade, passando per gli abissi dominati da Nettuno e poi su fino al Monte Olimpo. È un viaggio, una cerca appassionante che porta il giocatore a svelare il passato tormentato del protagonista e ad intravedere, nel contempo, il destino degli dèi. A coronare un’esperienza che in modalità Hard si protrae per una pregna decina d’ore, giunge una

GoW è un lavoro egregio ed energico, fortemente voluto dai suoi creatori e sapientemente pianificato a tavolino, prima ancora che in formato binario, lo testimonia l’accurato lavoro artistico, superbo nell’estetica dei livelli e nei bozzetti preparatori per il bestiario. L’accompagnamento sonoro è sontuoso e sprizza kolossal da ogni nota, così come l’impianto visivo non fa che ribadire la fortissima intenzione di sfondare. E infine, GoW riesce nell’intento appagando il giocatore che lo affronta in maniera adeguata (hard) e che accetta di sviscerarne il sistema di combattimento, complesso ma versatile e mai astruso. GoW getta basi solide per il futuro di un brand che tornerà a far parlare di sé e che sussurra promesse di sequel già durante i titoli di coda. Tuttavia, se pure GoW trasuda di elmenti ben riusciti, situazioni intriganti e passaggi epici, tuttavia il risultato finale manca dell’eccellenza che contraddistingue le sue parti costitutive. Su tutto si percepisce l’aura di artificiosità, il sentore di un progetto della testa, del calcolo, prima ancora che della mente e del cuore, di un autore che vuole creare. GoW riesce in maniera eccellente nel suo intrattenere ma non riesce a fare altro: la storia, per quanto ben redatta, non ci tocca mai da vicino, le peregrinazioni di Kratos non evadono mai dalla loro ineluttabile contesto ludico e in generale tutto il mondo percorso appare fin troppo evidentemente come una scenografia su cui recitano degli attori in maniera poco spontanea. Ma per gli amanti dell’action, il Dio della Guerra è qui, massiccio e incazzoso, a reclamare il trono che sino ad oggi è stato del suo ispiratore. La parola a Dante…

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PS2 VERSIONE USA SVILUPPATORE PRODUCTION STUDIO 2 ETICHETTA CAPCOM MULTIPLAYER NO

IO SO’ ROMEO, ER MEJO DER COLOSSEO

<shadow of rome>

di Amano76

S

hadow of Rome è l’ennesima avventura Capcom, genere di cui la softco di Osaka ha abusato più di qualunque altra e con minore fantasia. Mentre Irem, Sony e Sega sono riuscite a tirare fuori il meglio dalla simbiosi tra sequenze cinematografiche e attività ludica, Capcom ha più spesso puntato a rivendere la stessa minestra (le serie di Onimusha e Resident Evil su tutte) o ancora peggio ad annacquarla (Chaos Legion). Complessivamente, Shadow of Rome è un lavoro malriuscito. L’intreccio narrativo ha un suo fascino ma non decolla mai a causa di colpi di scena telefonati e della mancanza di un tema di fondo. Le locazioni, benché ricostruite con la dovizia utile a catturare l’attenzione degli appassionati del contesto storico romano precristiano, sono di numero sparuto. Le texture sfoggiano spudoratamente pixel, i poligoni non fanno economia di aliasing, e un fastidioso effetto di blur delle immagini in movimento rende nauseante guardarsi intorno dalla soggettiva per ammirare le architetture. Le stesse fasi di stealth alla Metal Gear Solid, che riprendono senza vergogna oggettistica e procedure risolutive dal titolo Konami, non fanno altro che frammentare criminosamente il cuore dell’esperienza di questo Shadow of Rome: i combattimenti tra gladiatori.

Le fasi stealth ai comandi di Ottaviano non brillano per ispirazione. Gli obiettivi consistono nella raccolta di informazioni e di monete d’argento con cui acquistare gadget, decorazioni e mobili per l’appartamento di Ottaviano. Collezionare questi oggetti non incide sul prosieguo del gioco se non mediante l’acquisizione di nuovi camuffamenti, comunque accessori e ininfluenti sul successo delle infiltrazioni. Ottaviano può inoltre tramortire gli avversari per poi rapinarli delle loro vesti, ma queste non potranno essere conservate nella missione successiva.

Di fatto, vestire i panni di Ottaviano celandosi alla vista di guardie e senatori alla ricerca di prove che dimostrino il complotto dietro la morte di Cesare è poco più che un diversivo. Sono le sessioni all’arma bianca che hanno luogo nelle arene il meglio che la nuova avventura di Capcom ha da proporre, e l’offerta è di quelle che meritano di essere rese note.

Il sistema di combattimento in sé non presenta alcuna caratteristica che non sia già stata vista altrove: si può parare, schivare e colpire a propria volta, mettere a segno delle combo e caricare i colpi tenendo premuti i pulsanti del pad: un po’ di tutto quello che si è abituati a vedere in questo genere di produzioni. Ciò che distingue Shadow of Rome è il suo peculiare sistema di acquisizione del punteggio, che introduce nelle meccaniche di lotta un soggetto inedito: il pubblico. I punti chiamati Salvo! (il significato è quello letterale in italiano) vengono assegnati dagli spettatori assiepati sugli spalti, che accompagnano le gesta in atto con grida di gioia, incitamento, imprecazioni e coriandoli. Il pubblico vuole vedere dolore, violenza gratuita sugli animali (tigri ed elefanti, naturalmente), ossa rotte, cadaveri dissacrati e corpi pressati sotto gigantesche trappole fino ad esplodere come buste di sangue. Al giocatore spetta il compito di soddisfarlo. Questo concept tanto pulp risulterebbe riprovevole se non fosse per lo spirito umoristico celato nei dialoghi che lo incorniciano, davvero esilaranti, e per le eufemistiche nomenclature associate ai Salvo!. Esistono circa duecento azioni eseguibili per compiacere il pubblico romano, da quelle più automatiche come Guard and Counter (colpire subito dopo aver parato un colpo avversario) a quelle più anomale come The End of Pompei (abbattere tutte le colonne presenti in un’arena) o perverse come Sadist’s Kick (giocare a calcio con la testa di un avversario appena decapitato). Ne citiamo qualche altra: My Fellow Romans: gettare una rosa al pubblico. Può capitare che qualche fan lanci una rosa sul terreno, in quel caso si può scegliere se lanciarla a propria volta contro un avversario (Thorns of the Rose), lanciarla in mezzo agli spalti o gridare selvaggiamente con il fiore in mano per moltiplicare il numero di Salvo! ottenuti (Rose Call). Master Thief: rubare le armi ad un avversario per più di cinque volte. L’equipaggiamento può essere selezionato prima di fare ingresso nell’arena, può essere raccolto da terra durante i combattimenti o rubato dalle mani stesse degli avversari. Big Roman Balls: entrare nell’arena a mani nude. Stand and Deliver: raccogliere da terra un nemico in fin di vita, posizionarlo in piedi e poi impalarlo/decapitarlo/sgozzarlo. Esistono più di venti armi e ad ognuna di esse è assegnata una “fatality” specifica. Fire Fighter: colpire un avversario mentre è avvolto dalle fiamme. Alcune arene, come quelle adibite alla Battle Royal, sono fornite di trappole incendiare, a pressione, lame rotanti e altro ancora, in cui è possibile spingere avversari ignari mandandoli incontro a dolorose e spettacolari morti. Human Catapult: afferrare un avversario alle spalle e gettarlo in aria. Questo “lancio del peso umano” rende possibile fracassare la testa di un nemico contro un muro (Walled-in), contro un altro nemico (Domino Effect) o proiettarlo in qualche trappola.

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E infine Red Volcano (tagliare un avversario a metà) Juicy Tomato (far esplodere la testa di qualche malcapitato con una mazza ferrata) Meat Collector (tranciare in un solo colpo tre parti del corpo di un nemico) Take one for Team (farsi scudo di un avversario bloccandolo alle spalle con una presa) e tante altre tutte da scoprire in una festa sadica di rigenerante, catartica ultraviolenza.

La fantasia con cui sono stati realizzati i volti, gli abbigliamenti e le posture dei vari villain meriterebbero un articolo a sé. Notevole anche la coerenza delle architetture, sorprendente se si pensa a quanto distino dall’estetica nipponica e alla disgraziata incapacità degli autori occidentali quando si tratta di riprodurre locazioni e iconografie giapponesi.

A nobilitare una simile filosofia di combattimento, altrimenti fine a sé stessa e inutilmente volgare, ci pensa anzitutto la profondità strategica offerta dalla selezione delle armi, ognuna con proprietà peculiari. Come il gladio, mirato a inanellare sequenze di combo assieme al pugnale qualora si privilegi l’approccio diretto, o ad essere usato in coppia con lo scudo per affidarsi a tattiche più caute. Abbiamo poi la scimitarra, fragile e inefficace contro le armature, ma che può recidere qualsiasi arto; la mazza, adibita a smantellare le pesanti corazze degli atleti più alti e nerboruti; le versioni con impugnatura a due mani delle tre armi appena citate (nell’ordine Master Sword, Alabarda, Maglio); la lancia, che permette sensazionali impalamenti nonché di avere la meglio nelle mischie più gremite; più diverse altre ancora dall’uso sempre più complesso.

la varietà di utilizzo delle molteplici tattiche offensive, difensive e assassine. Ogni arena non deve soltanto essere conquistata in ragione della semplice vittoria sugli avversari, il giocatore deve anche accumulare un determinato numero di Salvo! che difficilmente potrà totalizzare se si dedicherà esclusivamente a un’arma. Una volta superata la sfida ci si potrà inoltre cimentare nel tentativo di ottenere le coppe d’oro, garantite solo a chi sfrutterà appieno l’estrema libertà risolutiva concessa. La difficoltà sta nel fatto che oltre all’esperienza e alla fantasia in fatto di coreografie omicide sarà richiesto di invocare più volte il tifo dagli spalti, quando cioè il gladiatore grida ferocemente verso il pubblico subito dopo aver ottenuto dei Salvo!, raddoppiandone così la cifra appena acquisita ma esponendosi al rischio di linciaggio da parte di una folla di avversari. Difficoltà, si diceva. Un’ultima saporita leccornia offerta da Shadow of Rome è il suo bilanciamento pressoché millimetrico: già a livello normal (il più basso), si finisce in più di un frangente con la barra vitale ridotta all’osso, ma mai il giocatore viene penalizzato dalla scarsa reattività dei controlli, dalla telecamera o da qualsiasi altra cosa che non sia la propria inesperienza o avventatezza. Se anche il titolo Capcom ha delle colpe imperdonabili, di fronte alla cura, alla fantasia e allo spessore strategico delle battaglie gladiatorie (che occupano la maggior parte del gioco), non si può non regalare una menzione d’onore agli autori di questa ode alla sete di sangue.

VOTO:

SABCD

INTERVALLO

Gunny (al centro) con viso in caucciù e scimmiame assortito.

Come se non bastasse l’enorme mole di ore di gioco offerta dalla sperimentazione di approcci alla battaglia sempre diversi, ottenendo tutte le coppe in modalità normal, hard ed expert si sbloccano dei riuscitissimi mini-game che danno fondo alle molteplici sfumature del sistema di combattimento.

Ennesima sfaccettatura di Shadow of Rome è che il gioco premia sì la furia omicida, ma ancora di più

Panorama: gli unici 4 giapponesi che toccheranno una Xbox360

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SISTEMA PS2 VERSIONE JAP SVILUPPATORE YUKES ETICHETTA BANDAI MULTIPLAYER NO

RUSH HOUR <berkserk - cronache della guerra dei sacri demoni> di Amano76 lare più facilmente combo. Infine, il mitico cannone "portatile" per avere la meglio sui coriacei boss del gioco. Le munizioni di ciascuna arma si ripristinano dopo un certo lasso di tempo (specifico per ogni pezzo dell’armamentario), consentendone un uso frequente e garantendo maggiore varietà in fase d'attacco. Naturalmente la combinazione cannonata/spadata-su-rinculo è presente in tutto il suo splendore, così come i colpi caricati, stavolta decisamente più efficaci (nonché vitali nell'ultima parte del gioco). Enfatizzato da una credibile lentezza nei movimenti del Cavaliere Nero e dalle vibrazioni del Dual Shock, il sistema di combattimento si rivela una sadica goduria, tanto visiva quanto tattile. Questa nuova produzione vanta circa 70 minuti di filmati che rievocano le vicende del manga, dall'incontro con il rinato Grifis fino alla sfida con uno dei suoi Angeli. Le sequenze sono gestite attraverso il motore poligonale, fatta eccezione per il sacrificio della Squadra dei Falchi (realizzato con dettagliata computer grafica). Degne di nota le inquadrature, rispettosamente fedeli al fumetto.

Y

ukes è un team che mi ha sempre affascinato. Provo un certo disprezzo per chi si occupa di giochi dedicati al wrestling (la serie di Toukon Retsuden, in questo caso) ma non ho potuto fare a meno di prendere a cuore le loro produzioni, dopo aver provato Ertzvaju (PSX) e Berserk - La Mandragola dell'Amnesia (DC). Il primo mi affascinò per la folle spettacolarizzazione dei combattimenti, il secondo per l'opportunità allora unica di interpretare il Cavaliere Nero (guai a chi lo chiama "spadaccino") e di vedersela con il coriaceo Zod in un faccia a faccia memorabile. Ora che Yukes stessa ha messo in campo un nuovo concorrente al titolo di "tie-in definitivo del manga di Miura", le considerazioni da fare fioccano come la forfora. L'impatto iniziale ci mette poco a spazzare via lo spessore ludico e audiovisivo del predecessore. Dopo una maestosa introduzione, accompagnata da un formidabile brano di Susumu Hirata – già autore della colonna sonora del capitolo per Dreamcast – si ha l'opportunità di cimentarsi immediatamente con un esauriente tutorial. Un faccione di neve gigante (che fa quasi simpatia) permette di sperimentare su di sé il sistema di controllo, che rivela subito la meccanica di gioco inedita del prodotto. Mentre ne La Mandragola dell’Amnesia l’efficacia degli attacchi era proporzionale al numero di combo andate a segno, nel titolo per PS2 gli autori hanno impostato il sistema di combattimento in modo da enfatizzare la pesantezza dell'Ammazzadraghi e la versatilità dell'equipaggiamento. Il gioco ne ha considerevolmente guadagnato in coerenza, rispetto alle dinamiche di lotta viste nel manga: stavolta Gatsu, piuttosto che vedersi costretto ad interrompere i movimenti terminata una sequenza di combo, può continuare a scagliare fendenti in ogni direzione finché un qualche avversario non lo colpisce. Per quanto riguarda l'armamentario, ogni arma assume una spiccata e nuova dimensione tattica: bombe a mano per farsi largo quando si è chiusi agli angoli, pugnali per bloccare gli attacchi a testa bassa degli avversari, balestra/mitra per accumu-

Premendo i tasti R2 e L2 si attivano rispettivamente Equipaggiamento e Azioni di Supporto. I personaggi e gli avversari sono catalogati nell'enciclopedia in-game, dove è possibile ammirare da vicino i modelli poligonali (utilizzando effetti di zoom) e selezionarne versioni alternative, se disponibili. È anche presente un catalogo comprensivo di tutte le sequenze cinematografiche.

Alcuni passi falsi dei programmatori hanno però finito con lo stemperare tanta catartica viulenza. I primi avversari che ci si trova contro sono dei pupazzi di neve! Non solo campioni del ridicolo ma anche vittime ben poco appaganti da macellare. Se durante il terzo capitolo i massacri ai danni dei troll coprono schermo, alberi, case e Gatsu stesso con dosi macroscopiche di sangue e fette di carne pelosa che volano ovunque, nelle prime ore (non minuti, ore!) di gioco si va incontro ad avversari decisamente poco soddisfacenti in termini di sfida e monster design. Per fortuna i vari gradi di difficoltà selezionabili e la ghiotta antologia di boss compensano egregiamente le sbavature dei combattimenti di massa. A livello hard ed expert Berserk è un vero incubo. Le mischie contro gli avversari comuni, prive di qualunque rischio in modalità normal, diventano un pericolo da non sottovalutare: ad aumentare non è solo la quantità di danno causata da un singolo colpo, ma anche il numero di individui che attaccano contemporaneamente. Basta una distrazione e non appena si finisce chiusi in un angolo ci si ritrova con l'energia vitale dimezzata e l'acqua alla gola. Per non parlare degli scontri con i boss. Dal punto vista coreografico e tattico i combattimenti contro gli avversari di fine livello sono davvero avvincenti: giocando prima a difficoltà normal e poi aumentandola gradualmente, si può gustare la

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fedeltà "cinematografica" con cui sono stati riprodotti i duelli più celebri, per esplorare in seguito ogni sfaccettatura delle strategie di attacco elaborate da Yukes.

La funzione delle combo (in basso a destra dello schermo) è quella di moltiplicare il numero di punti esperienza acquisiti. Ogni nemico è associato ad un numero fisso di punti esperienza che cresce esponenzialmente in base alla quantità di combo andate a segno, cioè di colpi inferti senza subire attacchi. Una volta ottenuti, i punti esperienza possono essere impiegati per aumentare le caratteristiche fisiche di Gatsu, la rapidità di ricarica dell'armamentario e l'efficacia delle azioni di supporto dei compagni.

Lo spessore offerto dalle battaglie con i boss è garantito da due novità assenti nel capitolo precedente: le contromosse e gli attacchi imparabili. Per attivare le contromosse occorre premere il tasto deputato alla guardia (la croce) un attimo prima di incassare un colpo. Nel caso se ne effettui una con successo, si attiverà una brevissima animazione non-interattiva (un po' come avveniva in Erztvaju), ripresa da una diversa angolazione dipendente dalla posizione dei personaggi sul terreno di gioco. Ai livelli di difficoltà più alti la contromossa è uno strumento di sopravvivenza imprescindibile: con essa non solo si possono respingere gli attacchi ordinari, ma anche le imparabili, che se andate a segno comportano una consistente perdita di energia vitale. Padroneggiare la risorsa strategica delle contromosse rende possibile concludere un combattimento senza versare una sola goccia del proprio sangue. Le imparabili possono essere effettuate colpendo un avversario in procinto di attaccare: sullo schermo apparirà il glifo del Sacrificio, e premendo il tasto triangolo Gatsu eseguirà un colpo che il suo bersaglio non potrà evitare (sottolineato anch’esso da un’animazione particolare, diversa, questa volta, per ogni nuovo avversario affrontato). Tanto la contromossa quanto le imparabili non sono ad esclusivo uso del giocatore: i boss possono compierne a piacimento ed è fondamentale sapere come prevenirle entrambe, a livello hard ed expert, poiché quando la difficoltà viene incrementata gli avversari utilizzano i colpi a loro disposizione variando più spesso angolazione e velocità, nonché attaccando del tutto inaspettatamente. Queste due risorse, unite ad ingegnose strategie risolutive, rendono i duelli con i boss una vera gioia, soprattutto nel caso in cui vengano selezionati i due gradi di difficoltà più elevati. Prive della confusione che in genere intacca le produzioni tridimensionali, dove un inaspettato cambio di inquadratura provoca immeritati errori o occulta porzioni del terreno di gioco (non faccio nomi, dico solo "Capcom"), le battaglie di Berserk si distinguono per l'impostazione impeccabile della

I SEGRETI DI BERSERK

Meritevoli di menzione le opzioni che saranno sbloccate una volta concluso il gioco. Una è il 100 Beast Murder, composta da dieci missioni che richiedono condizioni particolari da soddisfare per vincere; l'altra è il "solito" Boss Mode, particolarmente benvenuto considerato lo spessore coreografico e ludico offerto da questa produzione. Completando con successo il 100 Beast Murder si possono sbloccare dieci armi da taglio differenti, utilizzate dai personaggi più conosciuti del manga: il pugnale infuocato di Isidoro, il fioretto di Grifis, la bastarda di Gatsu ai tempi della sua militanza nella Squadra dei Falchi, l'ascia dentata di Zod e persino una chitarra elettrica. Ognuna di esse ha delle proprietà specifiche (raggio d'azione, rapidità, efficacia) che però non sono rese specificamente note ma devono essere intuite dall’uso. Ogni lama ottenuta potrà in seguito essere selezionata sia nel Boss mode che nello Story mode, ma non nell'ostico 100 Beast Murder, dove tra le altre cose sarà possibile affrontare una versione di Zod che richiederà sforzi e riflessi sovrumani per essere sconfitta. Queste modalità, assieme alle difficoltà hard ed expert, stirano considerevolmente la durata effettiva del gioco, rendendo il prodotto valido anche dal punto di vista della longevità. Tentare di risolvere lo Story Mode senza passare prima per la difficoltà normal andrà a tutto danno del vostro buonumore, vi avverto.

telecamera e per lo spiccato bilanciamento tra le capacità di Gatsu e quelle degli avversari di fine livello. La sensazione di combattere praticamente ad armi pari è forse la caratteristica più marcata del titolo prodotto da Yukes, e non mancherà di affascinare la maggior parte dei fan del manga. Infine, ma questo non tutti lo riterranno un difetto, la cooperazione con i compagni di gruppo non è resa nel migliore dei modi. Ad esempio, viene spontaneo domandarsi perché gli autori non abbiamo preso a modello Ico per riprodurre le condizioni di viaggio di Gatsu, costretto, nel fumetto, a badare contemporaneamente a se stesso e a Caska. Ancora. È accettabile che Puck appaia dal nulla, quando lo si richiama coi comandi (anche se mi domando cosa costasse rappresentarlo tramite una pallina verde luminosa, fluttuante per lo schermo). Stonano palesemente con lo spirito del gioco, invece, le entrate in scena di Isidoro, di Silke e di Ser-

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tutta la vicenda, mentre non c'è che una debole traccia degli spassosi punzecchiamenti tra Isidoro e Puck. Viene da chiedersi perché non si sia optato per sfruttare in modo migliore la compagnia di Caska e la collaborazione con gli altri protagonisti, che il motore grafico non avrebbe avuto difficoltà a visualizzare considerata la cornucopia di animazioni e modelli poligonali che manda a video. Ciò avrebbe anche permesso di scongiurare gli accenni di monotonia che di tanto in tanto colpiscono gli scontri di massa, unica ragione del gameplay (ma dei quali comunque non ci si stanca, viste le setteotto ore di durata del gioco).

pico. Da una parte ci sono sequenze cinematografiche che ricalcano l'opera originale, dall'altra i compagni di Gatsu si eclissano magicamente non appena si passa da un full motion video al gioco vero e proprio. Quest'interpretazione macchietistica si fa sentire anche nella narrazione. Nonostante la durata consistente i filmati fanno economia di pathos, trascurando molti dialoghi – sia di gruppo che introspettivi – che nel manga erano serviti a definire i personaggi. Ad esempio, Farnese ha due battute in

Berserk per PS2 è un gioco a modo suo degno dell'opera originale, più consistente del predecessore su DC e riuscito negli obiettivi che i suoi autori si sono preposti. Peccato per la traduzione ludica, letterale per certi aspetti ma assolutamente libera per altri. Boss memorabili.

VOTO:

SABCD

IL BESTIARIO DAVIDIANO Benritrovati al bestiario. Ci scusiamo per l’interruzione del dibattito portato avanti negli ultimi mesi riguardante l’argomento: “ma quanto è scemo Teokrazia?”. Essendo questo l’ultimo numero di Ring (as we know it), abbiamo deciso di sfruttare questo spazio per fare una breve cronologia della rivista che ha spaccato svariati culi in questo settore pieno di effeminati incompetenti. Ring nasce dall’unione di un gruppo di intellettuali di sinistra ritrovatisi sul newsgroup it.comp.console a parlare di lotta proletaria e invidia del pene. Dopo un anno di acceso dibattito in mailing list, il progetto iniziale – scrivere una versione ‘Ultimate’ della Bibbia – muta in quello di una rivista terroristica sul sopravvalutato medium dei videogames. Il primo numero di Ring, ‘Neonascimento Digitale’, conteneva un tasso di seghe mentali tale che Enrico Ghezzi fu ricoverato d’urgenza per un repentino calo di zuccheri. Già dal secondo numero, ‘Alfieri dell’Irreale’, Ring si assicurava uno scoop epocale intervistando Dio, il quale confidava a microfono spento che non solo un embrione è una persona, ma che anche un barattolo di maionese lo è. Con il terzo numero, Avantgarde, Amano76 approdava in redazione e contemporaneamente il concetto di deadline diventava un qualcosa di astratto. Anche Gunny giungeva in quei giorni sulle sponde ringhiche insieme al suo amico immaginario John Wayne. Il quarto numero, oltre ad avere un editoriale completamente privo di virgole (in stile Nextgame), com-

prendeva lo scoop ‘Philips Cucina’, un articolo incomprensibilmente amato dai lettori. Nel frattempo degli agenti dormienti di Ring approdavano in Super Console con l’intento di demolirla dall’interno. L’obiettivo fu raggiunto in un solo mese. Ricordiamo che i redattori di Ring sono responsabili della chiusura di un numero di riviste tale che la Microsoft è recentemente venuta a trovarci in redazione per studiare la nostra tecnica di lavoro. Ring 5 aveva come titolo 101101 000, ossia la versione binaria del numero ‘360’. L’intento era chiaramente quello di anticipare il nome della nuova console Microsoft. Cristiano Bonora entrava nel Soviet Ringhico dopo un arduo test iniziale che consisteva nell’operare il paziente de ‘L’allegro chirurgo’ senza far scattare il naso-allarme. Ring 6 vedeva l’introduzione della rubrica Versus, una delle tante innovazioni prodotte da Ring per il suo popolo di mentecatti. Un trend continuato nel numero successivo con il mastodontico VS dedicato a Wind Waker e l’esordio della rubrica !Spoiler!. Ring 8 è il numero dell’anniversario. Oltre ad articoli ricolmi d’odio, come da costume per i numeri di anniversario, si segnala per i bellissimi Ring Awards. Il gruppo è ormai affiatato, nella ML regnano litigi tra componenti, i quali poi si ritrovano uniti nel lanciare offese alle spalle di tutte le altre riviste. Un ambiente sano e produttivo, quindi. Ring 9 cadeva a Natale con una overdose di recensioni, tra cui quella dedicata al gioco più bello di que-

sta generazione: Beyond Good & Evil. Ring 10 vedeva un ineguagliabile special sui racing games a cura di un Pupazzo Gnawd prossimo alle nozze e una serie tale di articoli da meritarsi l’appellativo di best issue ever. Ring 11 era parimenti grandiosa, con uno specialone sui giochi di guerra a cura del pacifista Gunny e l’introduzione delle rubriche Ivory Tower e Arena. C’era nell’aria la consapevolezza che tutte le altre riviste, in confronto, facessero cagare. Ring 12 offriva al suo pubblico il suo primo Ring Gift: il libro ‘Le affinità elettive’ del compianto Bruno Fraschini. Inoltre vedeva il primo editoriale sottratto ad un Nemesis ancora scalciante (non come quello di adesso: grasso, pelato e berlusconiano), e si segnala per l’esordio della rubrica Game Making Era, poi copiata a stretto giro di posta da TFP. Ring 13 e 14 si attestavano su livelli di insana qualità, ma i tempi di sviluppo si allungavano oltremodo. Ring 15 sotto questo punto di vista, fu un parto come si suol dire anale. Da lì al numero 99, con la decisione di bruciare baracca e burattini e trasferirsi in uno stato che consenta il matrimonio tra gay, il passo è stato breve. E adesso? Come farete voi senza nemmeno uno straccio di rivista veramente ganza da leggere? Come faremo noi senza un mezzo attraverso il quale vomitare diarrea sul lavoro altrui, in un mondo sempre più votato all’autodistruzione? La risposta verrà dal cielo sotto forma di piaga.

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SISTEMA PS2 VERSIONE PAL SVILUPPATORE CAVIA ETICHETTA BANDAI/PRODUCTION IG MULTIPLAYER 1-2

GIÚ NEL CYBER-MANGA<ghost in the shell: stand alone complex> di Federico Res

M

otoko Kusanagi è in piedi, le spalle contro il muro, un fucile automatico AR-27 stretto tra le mani. Al di là della parete uno scorcio di cielo al tramonto e il ronzare meccanico di un elicottero d’assalto. Un segnale audio annuncia l’arrivo di una chiamata sul canale criptato. – Maggiore, qui Ishikawa. Pare che l’unico punto d’accesso ai registri di Key Yazuka si trovi sull’Oniyanma. L’unica chance che abbiamo per scoprire le attività segrete della regione autonoma di Tohoku è salire a bordo del mezzo. Il maggiore resta in silenzio per qualche secondo. – Roger – dice infine. Il suo sguardo si posa in un punto indefinito per un lungo istante. Poi la donna si stacca dalla parete, esce allo scoperto e scarica una raffica contro i mitragliatori anteriori dell’Oniyanma. Un lampo bianco, un missile a ricerca si proietta verso il Maggiore. Motoko esegue una capriola, schiva il missile e atterra in perfetto equilibrio. Getta via l’AR-27, imbraccia un M23-GL e mira al portellone spalancato dell’Oniyanma, dal quale tre guardie puntano le loro armi. L’esplosione spazza via i nemici. Mentre la nube di fumo si dirada, il Maggiore corre verso il bordo del grattacielo su cui si trova, spicca un balzo e si aggrappa con le dita rinforzate in titanio al pianale d’acciaio dell’Oniyanma. Un guizzo, e in un attimo è a bordo...

Il multiplayer di Stand Alone Complex prevede un’unica modalità: deathmatch tutti contro tutti o a squadre di 2. Le arene a disposizione dei giocatori sono gli stessi livelli di gioco, che si sbloccano dopo il completamento nella modalità in singolo.

Non si può dire che Ghost in the Shell: Stand Alone Complex non dia modo al fan dell’universo di Masamune Shirow di calarsi al meglio nei panni dei suoi intriganti personaggi. Cavia, coadiuvata da Bandai e dallo stesso Production IG, cattura ottimamente lo spirito della serie animata: l’azione scorre fluida, mai interrotta da sequenze precalcolate, costantemente integrata da una fitta rete di dialoghi via codec in tempo reale. La natura fortemente arcade del gameplay permette di giocare e al tempo stesso prestare attenzione alle informazioni ricevute via codec, che svelano i retroscena della trama; ma è la possibilità di dettare noi stessi

il ritmo dell’azione – decidendo di ascoltare un dialogo piuttosto che buttarci subito nella lotta – a fare di Stand Alone Complex un buon tie-in. La trama si dipana secondo lo stile di Production IG, attraverso indagini minuziose e rivelazioni costanti. Il ritmo serrato e la complessità dei dialoghi possono talvolta nuocere alla comprensione delle vicende narrate, ma un comodo e completo logbook – che permette di riascoltare i dialoghi e rivedere i filmati – sopperisce all’occasionale mancanza di chiarezza della sceneggiatura. Come era logico aspettarsi, la storia di Stand Alone Complex è uno degli aspetti su cui maggiormente si è puntato per la riuscita generale dell’opera: dispiace pertanto rilevarne l’ispirazione non eccelsa e l’incapacità di coinvolgere fino in fondo, anche per la mancanza del sostrato filosofico comune a manga e film. Si rivela dannoso per il coinvolgimento, inoltre, il presentare personaggi già formati e non soggetti a crescita interiore. Tale aspetto della trama, seppur non lo si possa declamare come difetto, fa si che il prodotto Cavia si dimostri più appetibile per chi conosce la serie animata – di cui questo gioco sembra a tutti gli effetti un episodio inedito, collocabile tra la prima e la seconda stagione televisiva – piuttosto che per i giocatori non in confidenza con l’universo cyberpunk di Shirow. Ad ogni buon conto è doveroso citare tra i meriti di Stand Alone Complex i FMV che aprono e chiudono ogni missione, discreti sotto il lato tecnico e forti di un’ottima regia, e alcuni momenti di gioco particolarmente riusciti: tra questi lo stage finale, dove riecheggiano le suggestioni visive sperimentate nel primo lungometraggio di Oshii e si avverte con maggior efficacia lo spirito della saga. Infine il particolare aspetto grafico, sobrio ed essenziale, si rivela azzeccato per le linee estetiche sensibilmente vicine alle tinte di film e serie animata. Niente che un buon cel shading non avrebbe fatto meglio, ma vista la solidità del frame rate – fisso a 30 fps – e la natura tie-in del gioco, il lavoro di Cavia non può certo essere biasimato. Dal punto di vista ludico, purtroppo, Stand Alone Complex si rivela un action game basico e superficiale. Non c’è meccanica che non si sia già vista in uno qualsiasi degli action-shooter in terza persona; non c’è momento di gioco che non rimandi a titoli analoghi, nella maggior parte dei casi qualitativamente superiori. In Stand Alone Complex si spara per la maggior parte del tempo, ma il divertimento non va di pari passo al volume di fuoco liberato. Kusanagi e Bato si passano costantemente il testimone lungo livelli mediamente estesi, quasi sempre lineari, popolati da BOT che atterriscono per la congenita stupidità. Sordi e ciechi a un palmo dal naso, i nemici non si scompongono per una raffica di mitra esplosa a pochi metri dalla loro testa e non modificano i pattern di vigilanza alla vista dei cadaveri dei propri compagni. L’evidente artificiosità delle loro comunicazioni radio non confonde mai il giocatore – come invece accadeva in Half Life – che resta sempre ben consapevole della loro totale mancanza d’iniziativa.

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PHILOSOPHER GUNNY Credo che non ci sia UN evento della mia vita includente un medio/alto bisogno di locomozione che non sia coinciso con uno sciopero dei treni. I ferroviari sono ancora fermi al secondo gradino del mio concetto di adesione sociale, che a questo punto espongo…

Stand Alone Complex permette di recuperare le armi dei nemici dopo averli uccisi, garantendo così una disponibilità praticamente infinita di munizioni. Ciò compensa la diffusa – e voluta – carenza di upgrade.

In un contesto simile, a poco serve l’ottimo sistema di controllo allestito da Cavia: comandi in stile FPS – con l’uso di entrambe le leve per spostarsi e mirare e dei dorsali per fare fuoco – e lock-on limitato all’uso di alcune armi particolari ma generalmente trascurabile, vista l’agilità della mira manuale. Un sistema di controllo quasi perfetto, in sé appagante ma insufficiente a sollevare l’esperienza dalla soglia della semplice piacevolezza. Da rilevare come la particolare agilità di Motoko (provvista tra l’altro di una mossa evasiva fortemente coreografica) determini spesso pattern di gioco direttamente riconducibili a quanto visto nei primi Tomb Raider. Il salto da parete a parete è spesso incentivato, mentre la comprensione e la dominazione degli ambienti gioca spesso un ruolo fondamentale. Vista la bontà del sistema di controllo tale feature non può che risultare gradita, anche in considerazione delle labili meccaniche action.

Primo Grado: irrilevanza Il grado delle persone terribilmente stupide e dei bambini. La sovrastruttura esiste, ma loro non la colgono, in quanto passano il tempo a truccare il motorino/riempire le discoteche (gli stupidi), e a meravigliarsi di quanto sia marrone la cacca che fanno (i bambini, ma talvolta anche gli stupidi). Non rendendosi conto della sovrastruttura, ad ogni modo ne sono ricompresi e non costituiscono un elemento di discontinuità Secondo Grado: ribellione inconsapevole Appena scorti i tratti della sovrastruttura, questa categoria tende a combatterla, per paura dell'ignoto o necessità di farsi bello con l'amica/l'amico intellettuale. Sintomi: acquisto di scarpe già rovinate, autogestione scolastica, odio verso le forze dell'ordine. La categoria comprende spesso anche persone molto intelligenti, ma mai e in nessun caso comprende persone rilassate. Terzo Grado: aquiescienza amorale Il singolo si rende conto che la seconda fase è improduttiva e cessa di lottare, riconoscendo che la sovrastruttura/il sistema esiste e che bene o male c'è sempre stato e che insomma io che cazzo posso farci c'ho l'erba in giardino da tagliare e da qualche anno ho anche difficoltà ad avere erezioni. Quarto Grado: pimpante consapevolezza Il singolo realizza che tutto è Bene, evince l'universale dal particolare e si compiace nel constatare che la macchina stritolatrice del sistema (qualunque sistema esso sia) trionfa in modo sistematico sulle pulsioni innovatrici. Forte di questo egli ringrazia, e svolge il suo ruolo di misero, anonimo e insignificante (ma felice!) ingranaggio confidando che un giorno il sistema stesso non lo divori (ma si sbaglia! infatti i più illuminati prevedono questo e passano al…)

In ultimo, l’hacking si rivela un extra pressoché inutile e malamente implementato. Necessario in una sola occasione (durante la prima missione), il processo che permette di prendere il controllo degli avversari è macchinoso e poco gratificante, nonché già ampiamente sperimentato in Metal Arms di Swingin’ Ape Studios, uscito oltre un anno fa. Ghost in the Shell: SAC è un tie-in migliore del titolo sfornato da Bandai nel 1997, ma incapace di avere senso al di là del franchise del quale rappresenta la licenza videoludica, e proprio per questo degno di considerazione unicamente da parte dei fan della saga. Tuttavia, anche se si appartiene a quest’ultima categoria, un sano testing precedente all’acquisto è cosa buona e giusta.

VOTO:

SABCD

Quinto Grado: Martire della Grande Ruota La mia fase! In pratica è come quando un buddhista riesce a spezzare il cerchio delle rinascite. Il singolo, totalmente accecato dalla luce emanata dal sistema e dai suoi infiniti mezzi di livellamento (fisico, mentale, morale e in futuro chissà anche sessuale), arriva infine alla Verità. In sostanza, diviene vittima consenziente del sistema da lui stesso teorizzato come il migliore possibile. Con sistema non s'intende niente di che, eh, un qualsiasi McDonald va benissimo. Tutto questo per dire che se i ferroviari arrivassero infine alla quarta fase, viaggiare con i treni in italia sarebbe bello. Soprattutto magari passare su un tratto rovinato da uno smottamento pochi secondi prima, e dove gli operai hanno creato coi loro corpi un binario di carne provvisorio per evitarti a tutti i costi un ritardo. Ecco, io un pò mi commuoverei. Gunny

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SISTEMA PS2-XBOX VERSIONE PAL SVILUPPATORE INXILE ETICHETTA UBISOFT MULTIPLAYER NO

YE BARD’S SONG <bard’s tale> di Nemesis Divina

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e disquisizioni sulla necessità di creare contenuti originali si sprecano o, comunque, si sono sprecate. Tuttavia – qualcuno se ne è pur reso conto – non sempre originalità corrisponde ad eccellenza e non sempre la via del ‘mai-fatto-prima’ significa un totale stravolgimento delle regole del gioco. Anzi, spesso lo ‘sbalordimento’ riesce meglio se si mantiene un contesto anonimo, conosciuto, nel quale si introduce un elemento anarchico e impazzito. Lo ha capito bene certo cinema horror, quello meno fracassone e gore, dove una normalità squassata da eventi insondabili non fa che amplificare l’effetto sullo spettatore. Allo stesso modo, con genio, InXile fa proprio uno dei generi più stereotipati e immutabili e lo stravolge, sottilmente ma irrevocabilmente. Bard’s Tale è un clone di Diablo e nulla più, parrebbe. Anzi, per rendere meglio l’immagine, Bard’s Tale è un clone diretto di quel Champions of Norrath da cui eredita anche il motore grafico. La solfa è sempre quella: un eroe solitario contro il mondo, un mondo tridimensional/isometrico nel quale aggirarsi alla cerca di tesori, acquisendo magie e acquistando armamentari via via più potenti, sino a salire sulla vetta del mondo e sconfiggere un qualche demone assetato di potere, o di sangue, o di potere e sangue. Nulla di nuovo sotto il sole: quest e sub-quest di varia natura che si aprono dialogando con i numerosi NPC, nemici che attaccano in folti gruppi, boss da sconfiggere, persone rapite/scappate da ricercare, bande di briganti da liquidare, dungeon da ripulire, tesori da scovare e… principesse da salvare, ovvio. Proprio un monumento al cliché… Stacco. L’umorismo, specie quello demenziale, tende a trarre ispirazione dal costume e dalle consuetudini. Ora, esiste occupazione più reiterativa del Videogioco? Forse sì, ma ciò non toglie che il medium Videogioco, negli ultimi (e anche primi) decenni di vita sia un coacervo di stereotipi, di situazioni viste e riviste e, in gran parte, di situazioni intrinsecamente stupide. Il fatto che l’umorismo, specie quello autoreferenziale, non si sia molto diffuso nel Videogioco stupisce, dacché una delle cose che i giocatori prediligono è divertirsi, e dunque perché non farlo ridendo del nostro passatempo preferito? Forse che l’umorismo non è una scienza esatta, replicabile a piacere, ma deriva da menti creative e predisposte e che queste non siano così diffuse, in un’industria che prima di tutto insegue il venduto. Evidentemente, InXile deve essere riuscita a trovare un paio di teste burlone e ispirate che riescono a ridere di se stesse: requisito indispensabile per far ridere gli altri. Bard’s Tale nasce da questo presupposto. Su un contesto come detto noto e a tratti scontato, l’avventura prende vita attorno alla carismatica e insolita figura del Bardo, un ‘eroe’ mosso non dai propositi di Gloria e Giustizia, quanto piuttosto da quelli di Denaro e Ghiandola Mammaria. Alle richieste dei bisognosi, il Bardo risponde per le rime chiedendo/chiedendosi cosa può guadagnarci. E anche una notte fra le coperte di qualche ragazza è moneta bene accetta… Se i dialoghi ben dispongono il giocatore per la loro goliardia e le risposte pepate del bardo (e di certi suoi arguti interlocutori), e il parlato diverte con un doppiaggio teatrale a dir poco sontuoso nella sua interpretazione, quello che maggiormente colpisce è il dono raro dell’autoironia. Sono diversi e preziosi gli esempi che meriterebbero menzione, ma è inopportuno rovinare la sorpresa. Basta però dare un’occhiata all’incipit narrativo, con l’Eroe impegnato a disinfestare dai topi la cantina (dungeon) di una locanda. Diamine! Tre stereotipi del fantasy videoludico riuniti in un istante (senza parlare dell’ilare conclusione della vicenda). Ma ancora, il primo lupo ucciso rilascia una quantità obesa di tesori, monete, armi e armature. La voce narrante inizia a descrivere le meraviglie ritrovate, quando ad un tratto si ferma e s’interroga sulla giustezza di quanto va dicendo. Ed è proprio il Bardo ad intervenire, rendendo

noto che “in questi lupi si trova sempre un sacco di roba”. E via così, con dialoghi surreali fra il Bardo e il Narratore, divisi fra i bassi istinti della carne, il primo, e la ricerca di un bene superiore, il secondo. Bard’s Tale prende letteralmente per il culo – e con stile – quello che il Videogioco di genere ci ha insegnato fino ad oggi: il Bardo si secca di fare avanti indietro per le terre, con l’unica ragione di diluire le ore di gioco, così come si lagna dei negozi che espongono armi con prezzi assurdamente alti, il cui acquisto è impensabile nelle prime fasi di gioco. È un continuo vorticare di situazioni che il giocatore conosce e riconosce, spesso con largo anticipo, e a cui il gioco dona una luce nuova e imprevedibile in quanto sa che noi sappiamo come vanno le cose, o meglio, come dovrebbero andare.

Bard’s Tale è gradevole alla vista e non soffre grossi inciampi, sebbene caricamente più snelli (su PS2) avrebbero reso più fluida la pratica di gioco. Il Bardo affronta in solitario le sue avventure, ma grazie alle sue melodie magiche è possibile richiamare creature amiche, il cui numero è determinato dallo strumento usato per le evocazioni. Seppur con meriti innegabili, Bard’s Tale cede sotto una struttura di gioco trita e, soprattutto, sulla mancata localizzazione. Il doppiaggio, certo, è di livello tale che non avrebbe potuto avere un adeguato impatto in italiano, e pure lo scritto rimanda alla parlata arcaica e fa ampio uso di giochi di parole legati alla tradizione o ai modi di dire. Non stupisce quindi che UbiSoft abbia evitato la traduzione (impresa improba), ma ciò non toglie che la conoscenza linguistica necessaria debba essere alta per godere delle battute, spesso accennate e sottili, ed in genere anche per la comprensione del gioco, resa ostica da un ampio uso di arcaismi e parole di uso poco comune. Se avete un inglese di livello non buono e siete francamente stufi di pigiare ripetutamente un tasto all’indirizzo dei nemici, allora l’ironia di Bard’s Tale non vi solleverà dal peso di una struttura di gioco che ha nelle fondamenta i propri difetti. Per tutti gli altri, il viaggio in compagnia del Bardo sarà invece occasione di ridere con lui e di noi, trasformando i limiti del genere in uno spunto per una battuta sagace o una stoccata velenosa all’indirizzo di chi gioca.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA PC SVILUPPATORE CYBERLORE ETICHETTA ARUSH INTERACTIVE MULTIPLAYER NO

IL GIOCO COL PORNO DENTRO <playboy the mansion> di Paolo Ruffino

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layboy The Mansion è, potenzialmente, la migliore idea che un produttore di videogiochi potesse avere. Essenzialmente, l’idea è quella di unire due delle industrie dell’intrattenimento più solide, attraenti e redditizie, quella dei videogiochi e quella della pornografia, attraverso i due brand più simbolici dei rispettivi mercati, The Sims e Playboy. Per essere più corretti, il gioco di Maxis non è riprodotto in modo ufficiale, ma il tentativo di emularlo in molti dei suoi aspetti è talmente palese da rischiare la denuncia. Dicevamo che si tratta del concept più geniale che si possa immaginare. Allora cos’è che rende questo titolo una schifezza immane? Innanzitutto, due punti evidenti: il primo è che l’unione di questi due brand può facilmente avere successo in termini di vendite, ma che l’alchimia abbia successo in termini di gameplay è cosa assai più difficile. Il secondo, è che una miscela così esplosiva non può funzionare semplicemente come un’addizione, aggiungendo nient’altro che le tette a un titolo di successo. Sarebbe stato più corretto cercare un buon bilanciamento. Approccio che Playboy The Mansion per certi aspetti prova ad abbracciare, ma con risultati modesti.

Notate il colore della pelle del maggiordomo e dello scribacchino. Ed ora quello del ricco playboy per antonomasia e della rockstar...no, lasciate perdere, non è per questi motivi che questo gioco fa disperare...

la sfida è inesistente. Non esiste, innanzitutto, che una playmate neghi il fiore della sua giovinezza al sessantenne in vestaglia, né che si trovi a disagio nel posare per una copertina. Ogni personaggio ha delle caratteristiche, dei gusti e degli stati d’umore, ma sono dettagli in un mondo decisamente masturbatorio, dove tutti e tutte sono sempre ben lieti di assecondare i nostri piaceri. Manca dunque la profondità, o supposta tale, delle relazioni sociali dei Sim. Manca in generale una cura per il dettaglio nella caratterizzazione fisica e morale dei personaggi. Le donne sono descritte in termini binari: selezionabili per le copertine/non selezionabili, tettone/piatte, playmate/non playmate. Lo stesso vale per gli uomini: i loro peni sono eretti/a riposo, sono in boxer/vestiti, amici/non amici (‘nemici’ sarebbe troppo complesso, porterebbe eccessive preoccupazioni). È difficile anche solo distinguere sullo schermo un personaggio da un altro perché appaiono, e questo è interessante, tutti uguali. E così l’interfaccia macchinosa viene ulteriormente appesantita e resa meno intuitiva. Di The Sims tralascia alcuni degli aspetti che ne hanno decretato il successo. Non esiste la possibilità di scambiare modelli prodotti dagli utenti attraverso Internet, mentre invece sarebbe stato bello, ad esempio, creare il personaggio di sé stessi ed inserirsi nel gioco travestiti da coniglietta/o. O dare sfogo ad altre idee possibilmente più felici. Sono presenti vari elementi d’arredo ma non sono abbastanza diversificati da incentivare il desiderio di abbellire la Mansion. Oltetutto lo stile generale della villa è sempre lo stesso, e l’unico sfizio con un minimo d consistenza che ci si può togliere è appendere ai muri quadri famosi dell’arte contemporanea. Non si capisce bene perché, per quel che riguarda i quadri, ci si sia sforzati di riprodurre opere famose di Van Gogh o Toulouse Lautrec, considerato che non danno particolari soddisfazioni e non vengono di certo preferiti alle bocce virtuali di qualsivoglia mademoiselle. Abbandonati questi aspetti, non resta che accettare il gioco solo per il suo lato pornografico. Peccato anche questo manchi all’appello.

Perché non è The Sims

Vestiamo i panni, o meglio la vestaglia, di Hugh Hefner, celebre fondatore della rivista che rivoluzionò il mondo della pornografia negli anni ’60 e che non ha mai smesso di vantarsene. Le modalità di gioco sono due. Una è ricalcata sul The Sims originale, cioè data una certa quantità di soldi iniziale dobbiamo far nascere e proliferare la nostra villa e la rivista guadagnando e trombando sempre più. Modalità che chiameremo, per restare nel campo semantico continuamente evocato dal testo, ‘palle all’aria’. La seconda modalità riprende la versione console di The Sims (piccolo il mondo, vero?) ed è strutturata su missioni che ricostruiscono la scalata al successo di Mr. Hefner. Uno story mode che, compensando con oggetti, locazioni e fighe sempre nuove, ci spinge a completare i vari numeri del magazine rispettando certi criteri. Chiariamo subito che, comunque si voglia giocare,

Scegliete con quali di queste concludere la vostra festa, basta cliccarci sopra. Bello vero? Ed invece riesce ad essere noioso.

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coraggiosa ed imprevedibile che aveva l’iniziativa editoriale. Unica via di fuga è la lettura in chiave ironica. Ironia verso The Sims ed il mondo della pornografia al tempo stesso, mostrati nel loro lato più riprovevole. Ma, e non mi si accusi di malafede, mi riservo un ampio margine di dubbio sulla possibilità di una simile sottigliezza, che certo però trasformerebbe il gioco di Cyberlore in una delle più interessanti opere degli ultimi tempi.

Arredare la Mansion non porta a nulla, ma in fondo tutti moriremo e scompariremo nel nulla, per cui nessuna azione ha senso. Forse che Playboy voglia farci riflettere sul sesso, scusate, senso ultimo delle cose?

Perché non è Playboy

Ispiratosi ad una rivista che, storicamente, ha sempre promosso la libertà sessuale, Playboy The Mansion è un triste manifesto di una sorta di eccesso razionalizzato e controllato. Anche l’ubriacatura della rockstar invitata al party esclusivo è regolata, prevedibile. Chiaccherare cinque volte con una playmate di amore/affari/argomenti vari porta ad un sua risposta positiva alla richiesta di farlo sul divano/letto/sdraio. Non è tanto un problema la mancanza del nudo integrale, che certo lascia perplessi, ma la totale assenza di motivi di eccitazione. I quattro poligoni che formano le tette extra large sono raggiungibili con un rapido calcolo ed un’ottimizzazione dei tempi. Spendere una certa quantità di denaro per un party esclusivo comporta un proporzionale aumento di fama. Più alto il numero delle stelline, cioè maggiore la bravura, di un giornalista, un fotografo o una playmate, più alto il valore complessivo del numero che stiamo per pubblicare. Il quale, state tranquilli, a detta dei nostri aiutanti sarà sempre il ‘migliore mai prodotto’. Ci si annoia ben presto di accumulare punti in questo modo. A poco vale la possibilità di accedere, come bonus, ad un archivio di copertine ed interviste che sono rimaste alla storia, come quelle a Michael Jordan e Bill Gates, e difficilmente si può credere che chi si avvicini a questo titololo lo faccia per un interesse filologico. Se è possibile invitare una playmate nella piscina, decidere come vestirla (o svestirla), e farle delle foto per la paginona centrale, sconforta poi scoprire che anche se si sceglie lo scatto fatto al suo mignolo la qualità del lavoro avrà lo stesso valore. È, insomma, la totale perdita del pensiero critico a favore di una poetica del puro effetto. Non importa come, importa cosa tu stia facendo: una foto, una scopata, valgono tutte lo stesso. È il ‘primitivismo percettivo’ di cui parla Gianfranco Pecchinenda, citando Provenzo, al suo massimo splendore, una “situazione in cui ogni distinguo viene eliminato e si tende a ricondurre tutto ad un unico comune denominatore”.1 Se questo può essere vero per ogni videogioco, e per la stessa pornogafia, qui si alza la posta in gioco perché ad essere ridotto a numero è qualcosa di complesso, sottile, delicato e prezioso come il rapporto tra un uomo ed una donna. Rispetto alla rivista, poi, il gioco perde tutta quella dimensione provocatoria,

Playboy è sempre stato un trampolino di lancio per la carriera politica nel nostro Paese, come dimostra il numero del Novembre 1983 dell’edizione tedesca.

Che si diventa ciechi

Non eccita, non diverte. Playboy The Mansion è la viva dimostrazione della difficoltà di unire due industrie apparentemente così vicine. Se è masturbazione arredare casa, come ci ricordava il protagonista di Fight Club2 che aveva sostituito i cataloghi Ikea a Playboy, arredarne una virtuale è un’azione ancora più spinta. Peccato non valga lo stesso per ogni ambito della sfera sessuale: scopare una playmate non è mai stato così noioso. Segnaliamo in chiusura la buona colonna sonora, con un Felix da Housecat (cioè la sua versione virtuale) che può essere adddirittura invitato ai propri party privati. Il giudizio su Playboy The Mansion è insomma fortemente negativo, ma resta vivo un ultimo sospetto. A capo del progetto c’è una donna, tale Brenda Brathwaite. Che il movimento femminista sia finalmente riuscito a colpire il suo nemico di sempre con un’inviata segreta? Riferimenti 1) Gianfranco Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione: la nascita dell’homo game, Editori Laterza 2003 2) David Fincher, Fight Club, 1999. Tratto dall’omonima novella di Chuck Palahniuk.

VOTO:

SABCD

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SISTEMA XBOX VERSIONE PAL SVILUPPATORE DARKWORKS ETICHETTA UBISOFT MULTIPLAYER NO

ONDE <cold fear> di Nemesis Divina

C

opiare è importante. Chiunque si sia avvicinato ad un’arte, privo di un talento superiore, sa bene che il modo più rapido e proficuo per migliorarsi è copiare dai maestri, da chi ha già percorso la strada del mestiere. E copiare, a differenza di quanto sia comune pensare, non è pratica semplice. Il Cold Fear di Darkworks, già artefici del controverso Alone in the Dark 4, aiuta a delineare i contorni di questo pensiero. Il progetto prende il via come malcelato epigono di quel Resident Evil 4 che ha suscitato ampio clamore sulla scena mondiale. Fino al recente e inaspettato annuncio di conversione per il sistema Sony, infatti, RE4 prometteva di terrorizzare la sola utenza GameCube. Insopprimibile, per Ubisoft, la tentazione di coprire (almeno commercialmente) il posto lasciato vacante su PS2 e, perché no, Xbox. Con invidiabile opportunismo, Cold Fear si palleggia fra il plagio e la citazione oscena in luogo pubblico. Il sistema di mira è infatti mutuato da quello mostrato nei primi filmati di RE4 diffusi da Capcom, con il protagonista spostato sulla sinistra in una semi-soggettiva di sicuro effetto. Un simile angolo di ripresa, attivabile a piacere, aumenta l’immedesimazione e permette di portare a segno precisi headshot, indispensabili per eliminare definitivamente le nutrite mostruosità ambulanti. Se normalmente la deambulazione è ripresa in terza persona con inquadrature fisse, negli scontri a fuoco diventa indispensabile l’uso della semisoggettiva. Diversamente da RE4, Cold Fear permette però di muoversi anche in questa modalità. Il risultato è un ritmo circospetto, con arma spianata e pronta al fuoco, che esalta la tensione di un contesto cupo e ansiogeno già di suo. Una trovata di design brillante, che si impone come chiave ludica preferenziale, al punto che in terza persona andranno percorsi solo i passi di fuga dai pericoli più urgenti. La gestione della mira risulta precisa e puntuale, almeno sulla media distanza, nel breve, invece, si impasta lasciando spesso il giocatore spaesato, con il nemico a gettargli le braccia al collo con fare tutt’altro che amichevole. Al di là dell’ovvia irritazione che segue ogni colpo subito, questo difetto impone un approccio saldo e freddo ai corpo a corpo. L’eliminazione dei nemici va condotta con criterio e rapidità, in modo da evitare scontri ravvicinati. Purtroppo, Cold Fear non contempla i danni localizzati, con l’esclusione della testa, che in caso di headshot sboccerà in un fiore di materia cerebrale e ossa craniche. Coreograficamente appagante e strategicamente vantaggioso, l’head-shot si rivela ben presto la soluzione preferibile a tutte le situazioni di combattimento. Tuttavia, presa dimestichezza con la sensibilità dello stick adibito alla mira, le teste esploderanno una via l’altra in uno show splatter alla lunga stanchevole e privo di strategia. Le variabili aggiunte delle diverse armi non incidono in modo significativo, sebbene siano disponibili un robusto lanciafiamme e uno sparaarpioni con fiale proteiche, che distraggono gli avversari per alcuni preziosi momenti. La verità è che Cold Fear risulta presto ludicamente insapore, in quanto privo di acuti dettati da

un’idea innovativa di fondo o da un’intuizione portante. Una trama banale e sgraziatamente diretta non è che la scusa per una sequela di sparatorie mai troppo impegnative e un’esplorazione rada di eventi. Quindi? Quindi Cold Fear è un gioco onesto, un buon gioco che per molti versi anticipa un futuro possibile dei survival horror: la riduzione delle scampagnate nei menu, il richiamo rapido dell'arsenale disponibile, la scomparsa di enigmi pretestuosi e alcuni dettagli di design conferiscono al gioco di Darkworks un credito che queste produzioni minori generalmente non meritano.

Da tenere d’occhio, i ragazzi di Darkworks: encomiabile la loro attenzione all’atmosfera, troppo spesso lontana dai tavoli degli sviluppatori. Molti i frangenti di gioco emotivamente carichi e numerose le ‘stanze’ che favoriscono il torcicollo. Un’ambientazione, quella di Cold Fear, che ti entra nelle osse, come l’acqua che si rovescia dal suo cielo digitale.

Su tutto cala imprescindibile l’ambientazione. Un Renderware mai così bello fuori dalle piste di Burnout, traduce uno scenario di impatto devastante. La baleniera che ospita la prima sezione di gioco è un’imbarcazione lugubre, silenziosa e ostile, attorno alla quale ruggisce una tempesta che scuote il mare impennando cavalloni. Gli strattoni cui è sottoposta la nave sono convincenti e solidi, mentre il vento e le gocce sferzano graziosamente lo schermo. Ma non è solo questione di poligoni o effetti. Cold Fear propone un valore aggiunto all’estetica del gioco: il movimento. Il continuo caracollare della baleniera rende sottilmente viva la nave. L’orizzonte visivo è vittima di oscillazioni e spostamenti degli oggetti mobili, mentre sul ponte danzano le ombre di numerose strutture svettanti, ombre gettate dai fari e dalle fiamme di uno scenario catastrofico che sta cannibalizzando se stesso. Un movimento estetico che si ripercuote anche negli interni, con stanze che ondeggiano ora placide ora funeste. In tal senso, è grande il rammarico per una pressoché nulla interazione ambientale, che avrebbe incrementato di molto la sensazione di precarietà. Per chi scrive, in fatto di resa estetica dello scenario viene qui fotografata una delle migliori cartoline ricordo di questa generazione, da affiancare

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all’estro architettonico di Devil May Cry ed i giochi di luci/ombre in ICO. Ma Darworks paga dazio per la necessità di rincorrere la data d’uscita di RE4 e perde per strada quello sporgente bernoccolo di game design che, a conti fatti, affiora soltanto qua e là. Al di fuori della scarsa componente narrativa e di alcuni disgraziati interventi in FMV (nella convinzione, tutta occidentale, che essi rafforzino la tensione, quando è vero il contrario…), Cold Fear mette in campo sensibili ingenuità a livello di struttura. La mappa, saggiamente rimossa dal novero delle opzioni consultabili, è assente gradita per gran parte della lineare avventura, salvo suscitare nostalgia in due frangenti, che richiedono un po’ di insano backtracking. Ma è soprattutto in quella che si profilava come la novità più concreta, che Cold Fear delude. Frustata dalle onde e dal vento, la nave è perenne vittima di scossoni e sobbalzi che si ripercuotono sulla stabilità del protagonista. Proprio in prospettiva di queste eventualità è possibile aggrapparsi a ricorrenti balaustre, corrimani e parapetti, con l’ulteriore opzione di mirare e far fuoco con una sola mano, mentre l’altra è occupata a garantire una salda presa. Purtroppo, però, il pericolo di finire in mare o scaraventati a terra è remoto, e in più aggrapparsi comporta una disorientante rotazione di novanta gradi della precedente posizione di mira. Se si aggiunge che così facendo la mira NON diventa più stabile, è inevitabile dimenticarsi alla svelta del tasto incaricato di quest’azione dal potenziale notevole ma dallo sviluppo increscioso.

TROVA L’INTRUSO Uno dei controller qui sotto esposti non va d’accordo con gli altri. Quale?

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Non solo RE4, perché Cold Fear scimmiotta anche il claustrofobico e buio DOOMIII, passando per la rugginosa e traballante prigione di Butcher Bay, direttamente dall’ottimo Riddick. Un riuscito mix di elementi scenografici che, in diverse situazioni, affianca per qualità i suoi blasonati ispiratori.

Cold Fear non mira alle alte vette della classifica e nemmeno a quel posticino nel cuore dedicato ai VG. È un lavoro onesto, che si gioca e si gode in scioltezza, ideale per un noleggio o un acquisto d’occasione. Perché, sul serio, l’estetica del movimento vale da sola il prezzo del biglietto.

VOTO:

SABCD

8

La risposta corretta è ovviamente la 6. Il bunny-controller di Philips Cucina infatti è l’unico che, oltre ad esistere veramente, non fa del tutto schifo.

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SISTEMA PC SVILUPPATORE BLIZZARD ETICHETTA BLIZZARD GIOCATORI TROPPI

4 GNOM3REGAN! <world of warcraft> di Andrea23 SILICON & SYNAPSE

B

lizzard, da che è nata, è sinonimo di divertimento elettronico. Una software house atipica, che ha perseguito fin dai suoi albori una filosofia ben precisa nel creare le proprie PI e riassumibile nel celebre “adagio videoludico” easy-toplay/hard-to-master. Così sono nati Warcraft, Diablo e Starcraft ciascuno dei quali, a modo proprio, ha segnato in maniera indelebile la concezione alla base dell’on-line gaming. Alla luce di questo passato glorioso e forte delle esperienze maturate in questi anni grazie a Battle.net, network per la gestione online nato con Diablo e sopravvissuto fino al recente Warcraft III: The Frozen Throne, l’annuncio di un MMORPG targato Blizzard solo questione di tempo. Il brand di Warcraft, ormai rinomatissimo, non solo sarebbe capace di trascinare anche l’ultima porcata low budget al successo planetario, ma si sposa talmente bene all’intuizione di quel geniaccio di Lord British (aka Richard Garriott, creatore di Ultima Online) che viene spontaneo chiedersi se Bill Roper (ex VP di Blizzar North) e soci non avessero in mente, già undici anni fa, il concept alla base della loro ennesima gallina d’oro. Confinati dalla potenza computazionale dell’epoca, si limitarono alla grottesca rappresentazione di una scaramuccia tra due fazioni, abbozzate a suon di bitmap e campionamenti midi: Warcraft: Orcs and Humans. Negli anni successivi il tema della guerra rimarrà una costante e a cambiare progressivamente sarà invece la tipologia di gioco, con una Blizzard prima impegnata ad offrire una valida alternativa al pionieristico Command & Conquer Red Alert (Warcraft II: Tides of Darkness) e poi a creare il perfetto punto di incontro tra strategico in tempo reale ed il gioco di ruolo: Warcraft III: Reign of Chaos. L’ultimo step di questo processo segna il completo distaccamento dalla componente strategica, dando la massima precedenza a quella RPG, anche se rigorosamente in… “chiave Blizzard”. Una ipotesi romantica, ma forse non così lontana dalla realtà. In ogni caso Blizzard ci riprova, portando quella che nel ’94 era un’Azeroth isometrica ad una tridimensionalità su scala umana, in un’epica guerra finalmente combattuta in prima (terza) persona con e contro centinaia di altri giocatori. PIVIE Cronologicamente, World of Warcraft si colloca in un periodo immediatamente postumo agli eventi narrati in Warcraft III e relativa espansione: con la Legione Infuocata sconfitta nella memorabile battaglia del Monte Hyjal, la tregua siglata tra Umani, Orchi ed Elfi sembra destinata a durare, mentre in realtà fratture interne alle stesse tre razze accelerano un destino ineluttabile. Il conflitto non tarda a riaccendersi e ciascuna etnia, in un complesso intreccio di interessi, compromessi e incomprensioni, ha un proprio motivo per mettere nuovamente mano alle armi.

Un druido e due troll si coalizzano contro un nemico comune, pazzia? No, se l’obiettivo è esplorare la Caverns of Time, una delle tante locazioni al momento precluse ai giocatori e su cui Blizzard mantiene il massimo riserbo.

Inizialmente, WoW non si discosta dai suoi concorrenti e propone la classica e indispensabile selezione di razza e classe del proprio avatar, più altre opzioni secondarie atte a personalizzare il proprio alter ego digitale. I primi passi nel mondo di Azeroth sono tanto indimenticabili quanto problematici, specie per i meno avvezzi alle esperienze online. Per ovviare ad un’impatto troppo brusco, Blizzard ha oculatamente predisposto delle aree d’ingresso ben protette dalle minacce esterne, dove impratichirsi con una serie di quest a difficoltà crescente. Grazie a questo espediente, il giocatore è portato non solo ad una progressiva conoscenza del sistema di gioco, ma soprattutto è invitato a ‘migrare’ gradualmente verso territori esterni e più inospitali. Un percorso preferenziale e ben strutturato, dal quale sarà possibile deviare in ogni momento, personalizzando dunque il corso della propria avventura. Pur venendo incentivata, grazie a quest abbordabili ed appaganti, l’esperienza in solitario a lungo termine cessa d’aver mordente rendendo l’ingresso in una gilda non solo consigliabile, ma addirittura imprescindibile se il proprio scopo è di avere accesso ai contenuti di più alto livello. Una gilda ben organizzata sotto il profilo socio-econo-mico sarà in grado di collezionare/produrre celermente item epici, di cui beneficiano tutti i membri, e di mettersi quindi nelle condizioni ideali per affrontare dungeon altrimenti proibitivi e boss di forza inarrestabile, con caratteristiche mitologiche. Specializzarsi in una o più professioni permette inoltre di arricchirsi rivendendo le materie prime raccolte (pelli, erbe, minerali, etc…) o elaborarle in prodotti finiti (tra cui armi, armature, pozioni) sia per uso personale che, ancora una volta, in ottica commerciale. Fin qui nulla di rivoluzionario, dove WoW prende però le distanze dalla concorrenza è in quest peculiari che porteranno più giocatori, organizzati in party, ad esplorare i meandri di dungeon che, per dovizia di particolari e level-design, non hanno nulla da invidiare alle controparti single-player. Queste aree, denominate Instance, hanno la particolarità di essere, a conti fatti, dei piccoli ‘universi

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paralleli’: sullo stesso server risiedono più copie della stessa Instance, tante quanti sono i gruppi di giocatori che vi prendono parte. Il vantaggio è duplice: permettere ai partecipanti di completare le proprie missioni in tranquillità e senza interferenze indesiderate, nonché di prevenire (sulla carta, vedi BOX1) seccature derivate da eventuali lag e crash.

Ecco che fine ha fatto Grisù, abbandonati i sogni di gloria nel corpo dei pompieri, ha ripiegato sul ruolo di cameo in World of Warcraft. Nome d’arte Azuregos, massima attenzione perché è davvero incazzato!

PIVIPI Fino ad ora è stata trattata solo una faccia della medaglia, quella che in gergo viene identificata come PvE (Player Vs Environment), l’altra è il PvP (Player Vs Player) ed è forse la caratteristica più importante, specie dopo i cambiamenti apportati dalla patch 1.4 che ha rigirato come una frittata i server dedicati. Un aspetto, quello del PvP, che al lancio del gioco era già enfatizzato a livello di gameplay, tenendo in considerazione che l’unica interazione permessa tra orda e alleanza è quella violenta, che ogni tentativo di comunicazione verbale è impedito dalla barriera linguistica creata ad hoc dagli sviluppatori e che la stessa organizzazione territoriale incentiva a tenere una condotta difensiva o offensiva a seconda che ci si trovi all’interno di confini amici, nemici o in contesa fra due fazioni. Già questi espedienti sono bastati in passato ad acuire la lotta intestita tra i due schieramenti, ma è solo con l’introduzione recentissima dell’Honor System (un sistema molto sofisticato, attraverso cui viene stilata una classifica settimanale a seconda delle uccisioni che sono state conseguite) che il conflitto si è esplicitato in tutta la sua violenza, rendendo praticamente impossibile la vita dei giocatori alle prime armi. Attualmente questo sbilanciamento dei server PvP è un problema serio e si pensa verrà mitigato dall’introduzione dei Battlegrounds, grazie ai quali convogliare la maggior parte dell’attività PVP in aree dedicate. Del tutto simili come impostazione tecnica alle Instance, ma dal gameplay totalmente agli antipodi, laddove queste ultime sono il perfetto connubio tra single-player e MMORPG, i BG saranno quanto di più vicino ci possa essere ad una partita online di Warcraft III, con la piccola variante di essere giocata non dal punto di vista del comandante onnisciente, ma da quella della singola, microscopica, unità di fanteria. Non è ancora chiaro il loro funzionamento preciso, non essendo

CRASH(RIDGE), LAG & POSTEPAY La realtà dei fatti, fino a qualche settimana fa, era esattamente all’opposto di quanto descritto nel corpo della recensione. Nonostante le innumerevoli fasi di betatesting, la distribuzione scaglionata e le code (infinite) per accedere ai server, latenze altissime e crash erano all’ordine del giorno e, si badi, non è certo un modo di dire né un fenomeno isolato. Una situazione insostenibile, alla quale è stato posto rimedio solo da poco grazie alla migrazione di innumerevoli account su altri server meno popolati. Ma questo è ancora il meno… sempre più utenti riscontrano ingenti difficoltà utilizzando la carta prepagata Postepay per aggiornare il proprio abbonamento. Una soluzione provvisoria sarebbe quella di selezionare nell’account billing page il circuito “VISA” e non “VISA electron”, peccato che molti, una volta fatto ciò, siano stati costretti a ripetere la procedura ogni 24 ore, pena l’impossibilità a giocare. May God bless Blizzard!

ancora stati implementati, ma si parla già di battaglie campali tra raid di decine di giocatori, ai quali sarà richiesto di coordinarsi e studiare strategie di attacco, grazie anche a mezzi da assedio coi quali devastare difese, edifici, risorse rivali e, nel caso, prenderne direttamente il controllo.

Chi è quel cane che ha il coraggio di contare i poligoni? Questa è Theramore Isle, suggestivo avamposto alleato nelle terre di Kalimdor comandato dall’incantatrice Jaina Proudmoore.

LEROYYYYY! Le foto a corredo della recensione lasceranno trasparire una certa carenza di dettaglio: poligoni in difetto e qualche texture slavata di troppo, ma mai come in questo caso WoW va visto dal vivo per essere giudicato. Non che su video i poligoni si moltiplichino e le texture aumentino risoluzione, ma come rimanere impassibili alla prima trasvolata sopra le infernali Burning Steppes? O dinanzi la ciclopica Ironforge, millenaria città nanica scavata

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COMING SOON Come da abitudine la softco. Californiana, una volta raggiunto puntualmente lo scorso novembre il rendez-vous con lo scaffale, non si è seduta sugli allori ed a cadenza tanto lenta quanto inesorabile ha aggiornato il proprio pargolo digitale: ora limando qualche imperfezione, ora aggiungendo inedite feature o ancora cercando di bilanciare al meglio la delicata alchimia sulla quale si fonda un gameplay talmente complesso. Nel breve periodo, come già detto, verranno introdotti i Battlegrounds e nel medio e lungo termine la situazione è altrettanto prosperosa tra nuovi raid-dungeon, l’implementazione delle classi ‘Hero’, più innumerevoli contenuti riservati ai giocatori hi-level. La lista della spesa: http://www.worldofwarcraft.com/info/unde rdev/

nel cuore di una montagna? Per non parlare della mozzafiato capitale umana, Stormwind. La forza visiva di WoW sta nel suo riuscire a rendere alla perfezione maestosi skyline e nel poter contare su un senso del monumentale con pochi eguali, mentre le scelte cromatiche ed il tratto fumettistico gli donano uno stile inconfondibile, permettendo al contempo di sfuggire agli scomodi raffronti che un design più realistico avrebbe comportato. A coronare questo quadro già d’eccellenza ci sono l’assenza dei caricamenti, che aumenta non di poco l’immersione nell’universo di gioco, e l’accompagnamento sonoro orchestrato, virato su toni solenni ed epici con forti richiami alla trilogia cinematografica tolkeniana. Le caratteristiche a video, sono poi largamente scalabili a pieno vantaggio delle configurazioni meno prestanti, tanto che PC non più vecchi di due riusciranno comunque a gestire WoW senza problemi. L’unica nota dolente riguarda le prestazioni in situazioni di sovraffollamento, sarebbe dunque opportuno, anche se non indispensabile visto che si sta parlando di circostanze straordinarie, dotare il personal computer di almeno un gigabyte di ram.

mai visti e che gli altri sviluppatori possono solo invidiare. Per farla breve World of Warcraft è riuscito dove tutti hanno fallito: rendere accessibile un un genere elitario per definizione come il MMORPG.

L’aquila è uno dei numerosi “mezzi di trasporto” grazie ai quali coprire notevoli distanze, altrimenti improponibili da percorrere a piedi. Ed è proprio in questi frangenti che WoW da il meglio di sé esteticamente parlando: orizzonti sterminati, effetti di luce abbacinanti e scenografie da favola la fanno da padrone.

Dopo Ultima Online ecco la nuova pietra miliare. Blizzard, esattamente come il Re dei Lich al termine di Frozen Trone, Arthas, osserva altezzosa gli avversari sconfitti e prostrati. Avanti il prossimo!

VOTO:

SABCD

È INTELLIGENTE MA NON SI IMPEGNA! Sebbene qualche problema di troppo a livello distributivo e tecnico abbia fatto sorgere dubbi sul futuro europeo delle battaglie tra Orchi & Umani, Blizzard non pare darsi per vinta e, per quanto molti grattacapi siano ancora lungi dall’essere risolti, il suo supporto alla comunità rimane tangibile e costante (vedi BOX2). Tolti i problemi più tecnici (pur sempre rilevanti, visto quel che si fanno pagare) rimane un gran bel pezzo di MMORPG, al quale va riconosciuto il merito di aver limato i difetti congeniti che affliggevano la categoria, non richiedendo maratone davanti al computer per poter giocare con profitto, né tanto meno obbligando ad avere un party anche solo per completare il più inutile degli incarichi. Ultimo, ma non meno importante, offre uno dei background fantasy più suggestivi che si siano

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SISTEMA XBOX VERSIONE PAL SVILUPPATORE BIOWARE ETICHETTA MICROSOFT MULTIPLAYER NO

ORIENT EXPRESS <jade empire> di Nemesis Divina

B

ioware persegue una strada strana, avviata con Star Wars: KOTOR e rafforzata con questo Jade Empire. Una strada che porta all’action RPG in chiave occidentale e con un forte risvolto ‘etico’ delle azioni e delle scelte fatte durante l’avventura. Un modo di intendere il gioco che, dati alla mano, ha pagato e paga, soddisfacendo sia i produttori sia i consumatori, tanto avvezzi all’illusione di ‘libertà totale’ da inseguire ogni chimera si fregi di questo motto. Più concretamente, proprio come in KOTOR, Bioware innalza una struttura con una certa discrezionalità concessa al giocatore e una sontuosa mole di sottomissioni che, però, non riescono mai a guizzare verso l’eccellenza e non offrono scampoli di storia videoludica come invece faceva, seppur con i suoi difetti, Shen Mue. La via che attraversa Jade Empire appare tutto sommato stereotipata, senza acuti, così come convenzionale è la propensione verso il bene o verso il male, divisi in una dualità in genere tanto netta da rendere limitata l’interpretazione del ruolo da parte del giocatore: cercare di dar vita ad un personaggio originale attraverso azioni e dialoghi, nel tentativo di uscire dal clichè Buono o Cattivo, si traduce spesso in comportamenti contraddittori o sconclusionati. Succede dunque che non si riesca a creare un contesto credibile sino in fondo, supportati da un personaggio che sa essere solo piamente devoto al Bene oppure mosso da una malsana predisposizione al Male.

bili conseguenze, il risultato viene vanificato dalla imperizia dei designer, che fraintendono completamente il potenziale di tale decisione (vedi Box SPOILER). Davvero fastidioso, dopo le dimostrazioni di interazione gioco/giocatore portate in mostra da MGS2, vedere come temi di un certo rilievo siano trattati in modo superficiale e come si continui ad attribuire al concetto di ‘libertà ludica’ il significato di ‘quantità di percorsi disponibili’. Sul sentiero di Jade Empire di rado si ritrovano bivi etici su cui il giocatore è indotto a riflettere e, quando questo sembra accadere, le trame si distendono in modo tale che una decisione, magari sofferta, culmina con uno sterile happy end il quale sminuisce la condotta di gioco con la semplice attribuzione di un ‘premio alla bontà’, semplicistico e fuori luogo. Se, come in KOTOR, l’impianto etico lascia ancora a desiderare, il resto, come in KOTOR, brilla discretamente. Jade Empire si struttura come un RPG dichiaratamente action dove il peregrinare attraverso i villaggi di una Cina mitologica si interrompe di frequente per dare spazio a scontri che, diversamente dal precedente gioco, sfruttano un approccio completamente in real time. Abbandonato l’ibrido ‘tempo reale/strategico a turni’ di KOTOR, ci si trova ora davanti alla richiesta di riflessi, rapida capacità decisionale ed il ricorso ad una strategia di stampo picchiaduristico più che da scacchista. Le opzioni bellicose sono elevate, rilevanti e personalizzabili grazie ai punti esperienza accumulati. Ci sono mosse d’attacco e magie di supporto, come tecniche speciali o l’uso di armi da taglio e da fuoco. La disponibilità del Ki influenza sia magie che recupero fisico, mentre la barra della Concentrazione regola l’uso delle armi e, alternativamente, attiva uno slow

BUG CONCETTUALI

Durante l’avventura incontreremo, come di consueto, personaggi pronti ad offrirci i loro servigi per simpatia, comunità d’intenti o necessità. Durante le battaglie, un solo compagno può seguire il protagonista, fornendo le proprie abilità distintive e influendo su vari aspetti del protagonista (aumento di Ki, ripristino della Resistenza, ecc…).

Essendo la discrezionalità etica il fulcro presunto del gioco, stupisce che fin troppo limitate siano le conseguenze effettive delle nostre azioni. Certo, differenze esistono, ma incidono talmente poco a livello ludico da far mancare l’appunta-mento con il cuore del giocatore che, infine, procede un po’ come meglio crede, senza attenersi a intenzioni morali o a ragionamenti che gli si potrebbero suggerire con una pianificazione più attenta. E anche nel finale, dove finalmente si rintraccia la prima (e unica) scelta rilevante dalle sensi-

Jade Empire tradisce la matrice occidentale grazie ad un numero di sviste e trascuratezze sin troppo elevato: dall’incapacità di rendere vivi i personaggi, sino alla presenza di animazioni rigide e banali (come quelle in prossimità degli scrigni che vedono il/la protagonista muoversi meccanicamente davanti al forziere, dacché di lato è impossibile avviare l’animazione di apertura). Più tragica ancora è l’incombenza di cut scene registicamente pessime e talvolta anche inverosimili, con il protagonista che combutta ad alta voce, mentre il nemico è chiaramente visibile a pochi passi. O ancora, infiltrato in una setta di assassini, non solo si permette al protagonista di mantenere le vesti abituali, ma gli è persino consentito avere appresso uno dei compagni, quando l’accesso al covo era a titolo personale. Molto più semplice prevedere una solo mission, invece di frantumare la credibilità dei nemici e, con essi, buona parte della storia.

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motion in stile Matrix. È inoltre possibile infondere il Ki nelle magie di supporto, che in genere apportano solo status negativi, in modo da provocare un danno fisico aggiuntivo. A fronte dei vantaggi offerti dall’approccio action, il nuovo sistema di combattimento mostra anche il fianco ai difetti critici del genere: i frequenti scontri ad alto numero di partecipanti non facilitano il compito della regia virtuale e d’altra parte, le collisioni non impeccabili e alcuni bug dell’Intelligenza Artificiale generano tecniche di lotta ‘scorrette’. Fuori dai campi di battaglia si gode di un ampio grado di personalizzazione, fondato su una serie di gemme – da selezionare fra quelle in possesso – che influiscono su svariati parametri, relativi sia al combattimento che alla personalità dei PG. La personalità si manifesta durante i dialoghi: avere un alto punteggio di Carisma acuisce la forza delle nostre parole, mentre un importante livello di Intuizione può svelare nuove scelte fra quelle a disposizione Così come in KOTOR, le conversazioni rivestono un’aspetto ponderante dell’avventura e si rendono indispensabili per accumulare informazioni, sbloccare sotto-missioni e conoscere meglio l’ambientazione. Nulla di nuovo, dunque, anche se va segnalato il lodevole tentativo di offrire un’infarinata di filosofia orientale, diffusa attraverso la bocca di numerosi saggi e fra le pagine dei libri consultabili. Triste, invece, lo stuolo di comprimari che non riescono ad incidersi nella memoria del giocatore, risultando infine come una componente scenografica e un supporto in battaglia (nemmeno il sacrificio di uno dei compagni riesce a sollevare l’andazzo emotivo del gioco).

SPOILER Nella porzione finale del gioco è offerta la possibilità di accogliere nel party un guerriero straordinariamente forte, che per tutta l’avventura è risultato un temibile nemico. Questa scelta, però, impone la prigionia dell’anima irrequieta del guerriero e dunque si configura come azione malvagia. Asservire la sua anima provoca la minaccia di ammutinamento di buona parte dei compagni. Accettando di perdere compagni in luogo di un soldato ben più forte, si scopre via FMV che il protagonista non accetta le defezioni dei propri vassalli e decide di imprigionare anche le loro anime, in un azione che assolutamente non corrisponde alle intenzioni del giocatore ma che tiene conto solo delle banali etiche dei designer. Molto meglio sarebbe stato accettare l’abbandono dei compagni e, in una situazione successiva, rendere sensibile questa mancanza (e difatti questa situazione esiste nel gioco, in una battaglia onirica combattuta nella propria mente, solo che i compagni prestano aiuto spirituale incuranti della nostra azione di poco prima, che ci aveva dipinto ai loro occhi come futuro despota e non come un salvatore).

Con poca sorpresa, le azioni offensive si basano sugli archetipi elementali e sull’imposizione di status negativi che ben conosciamo (paralisi, pietrificazione, cecità…). Più interessante il discorso legato alle numerose arti marziali, che si presentano sotto forma di mosse basiche da concatenare con gli altri stili.

Se in generale le ambientazioni soffrono dell’effetto ‘palcoscenico teatrale’ (con un’urbanistica e un’arredamento banali), alcuni scenari appaiono sinceramente ispirati. E’ il caso del regno celeste e degli strani esseri che la popolano.

Dove Jade Empire eccelle è nella scelta dell’ambientazione, inusuale e ispirata. La mitologia cinese, anche se rielaborata e forse un po’ spicciola, è fonte di grande suggestione ed è un piacevole stacco rispetto al classico fantasy occidentale di stampo tolkieniano. Meno convincente la componente estetica che, seppur dotata di cromatismi accesi e ben dosati, non dimostra, salvo alcune eccezioni, un design degno della portata del titolo. Troppo spesso ci si trova poi in un vacuo andirivieni per missioni di scarso interesse, se non il vantaggio in termini di punti esperienza e soldi. Qualche difetto in sede d’animazione e la virulenza di frequenti caricamenti e di savepoint disposti in maniera pessima, non possono comunque affondare un block buster che si configura tale nella

qualità elevata del doppiaggio, con migliaia di linee di testo e una traduzione italiana esemplare. Le circa venti ore di gioco scorrono fra situazioni convincenti e inciampi fastidiosi ma mai tragici, sullo sfondo evocativo della tradizione cinese. Il finale offre tre conclusioni diverse e un gustoso colpo di scena, che rischia di cambiare le carte in tavola (salvo non riuscirci troppo). Un’avventura a tratti stanca, ma nel complesso appagante, che riesce a trasmettere il senso epico del crescendo, della ricerca e dello scontro. Jade Empire paga dazio per una filosofia ludica intrinsecamente errata e lo sterile ricorso al ‘sistema etico’ che continua a venir ridotto ad un bilanciamento fra ‘numeri, azioni e scelte’, quando dovrebbe invece mostrarsi solo nelle ‘conseguenze’.

VOTO:

SABCD

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I PERSONAGGI…

CAPITOLO 2 di Gianluca “Sator” Belvisi 2.1 SAN D’ORIA «…e con questo, cara Alessandra, credo di aver esposto con il più puntiglioso dei dettagli i motivi per cui voi donne non diventerete mai delle brave scrittrici, poetesse, pittrici, filmaker, game designer, eccetera eccetera. Ho seri dubbi anche sulla vostra effettiva abilità ai fornelli, ma tant’è…» concluse Nemesis Divina. Stava passeggiando insieme ad Alessandra C lungo un vicolo poligonale di San D’Oria. Le mani giunte dietro la schiena. «Che dire. Le tue parole mi sconvolgono nel profondo» commentò Alessandra C dopo alcuni istanti di silente sgomento. «Penso che quando questa storia sarà finita dovrò sedermi e ripensare completamente la mia vita. Grazie Nemesis!» «Non c’è di che mia giovane padawan. Siamo una squadra, dopo tutto.» Svoltarono in una delle vie principali della città. A parte loro, sembrava non vi fosse nessun altro. «Già, una squadra. Che ne pensi degli altri membri del party?» «Be’, Gunny è come un fratello, ma che dico fratello?, un cugino. Soprattutto da quando mi ha dato una parte nel suo film. Sto progressivamente mutando la caratterizzazione del mio personaggio da un agente infiltrato della C.I.A. al Kakihara di Ichi the Killer. Su Jason Rubin invece non mi sono fatto un’idea precisa. I suoi giochi mi piacciono perché sono usciti su piattaforme Sony, ma se guardo all’essere umano dietro al game designer, allora mi sorgono dubbi sulle sue reali qualità. Forse si tratta di uno di quei personaggi destinati a morire subito: un po’ come Vicks e Wedge di Final Fantasy.» «Speriamo di no. Gli ho abbastanza messo gli occhi addosso, se capisci cosa intendo.» «Miyamoto invece è una piacevole conferma. Nei forum l’ho sempre definito un rincoglionito sopravvalutato che si è completamente bevuto il cervello, ma dentro di me non potevo non cercare di essere obbiettivo, ed ero giunto alla conclusione che si tratta in realtà di un genio: uno che ha rivoluzionato il mondo dei videogiochi in ogni reparto. Adesso che lo conosco di persona scopro invece che è un rincoglionito sopravvalutato che si è completamente bevuto il cervello. L’insegnamento che ne posso trarre è che bisogna sempre fidarsi dei pregiudizi.» «Amen. Ehi, credi sia stata una buona idea quella di dividerci per cercare l’ingresso delle Miniere?» disse Alessandra guardandosi intorno. «Non vediamo gli altri già da un pezzo, inoltre queste strade deserte mi stanno mettendo i brividi.» «Strade deserte?» Nemesis smise di camminare e fece segno ad Alessandra C di fare altrettanto. Pochi istanti dopo, decine di figure più o meno umanoidi iniziarono a comparire dal nulla. La strada si fece ben presto brulicante di vita digitale. «Visto? Non siamo mai stati soli. È colpa del lag se non vedevamo nessuno. Deve es-

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sere una feature che hanno importato da Shenmue. Personalmente preferisco se continuiamo a camminare: odio le patetiche forme di vita che giocano online, anzi, a dir la verità sto incominciando a detestarlo tutto questo ambiente… questo per così dire medium…» «Sul serio? Non me lo sarei mai aspettato. Dopo tutto scrivi su una delle migliori riviste del pianeta… e non sto parlando di Gameplus.» «Guarda, Ring è praticamente l’unico collante che mi è rimasto con il mondo dei videogiochi. Per questo voglio tenermela ben stretta. Allora, riprendiamo la passeggiata?» «No, aspetta» lo interruppe Alessandra, «credo di aver visto Jason!» Aveva ragione. Jason Rubin si trovava a poche decine di metri da loro, seduto sul bordo di una fontana nella piazza principale della città. Stava dialogando con una cassetta della posta. Quando Nemesis e Alessandra furono più vicini, notarono che la cassetta della posta era in realtà Gunny in mimetica urbana. «Eccovi finalmente!» disse Alessandra C. «Ma che sono quelle facce sconsolate?» «Brutte notizie, purtroppo. Gunny ha appena avuto un’estenuante conversazione al codec con Nick Fury. Pare che il Davide Videoludico abbia colpito ancora.» «Oh no, qualche vittima?» «Nessuna, se si esclude la lingua italiana» rispose Gunny. «A pagina 7 di Videogiochi numero 13 è stata rinvenuta la parola “localazzioone”. Nonostante ore di brainstorming, gli esperti dello S.H.I.E.L.D. non sono riusciti a risalire al significato originale del termine, pertanto ritengono che non sia un semplice refuso. Il sospetto è che si tratti di un messaggio in codice inserito dal Davide. Un messaggio che preannuncia un imminente attentato. In questo momento stanno compiendo su di esso una serie di analisi filologico/settimana-enigmistiche nel tentativo di decodificarlo…» «Santa merda» fece Nemesis stringendo il pugno. «Diabolicamente geniale!» «Purtroppo» continuò Rubin, «nell’incertezza sul da farsi, lo S.H.I.E.L.D. ha ricevuto ordine dal Governo di eseguire un attacco preventivo contro tutte le riviste videoludiche che abbiano legami col Davide, e che quindi potrebbero essere ricettacolo di ulteriori parole in codice…» «Questo significa che…» «Che Ring è la prima nella lista di queste riviste canaglia. Proprio adesso una squadra SWAT sta assaltando la sede della redazione di Ring…» Nemesis Divina crollò in ginocchio con lacrime di rabbia: «stanno invadendo casa di Emalord?!» «Già» confermò Gunny. «Ema sarà probabilmente condotto al lager di Guantanamo, dove degli aguzzini governativi getteranno nel cesso in sua presenza delle confezioni di Radiant Silvergun. Con tanto di fascetta.» Preso dallo sconforto, Gunny si interruppe e, rivolto verso terra, vomitò alcune raccomandate. Nemesis fece il gesto come di togliersi un invisibile casco: «dobbiamo uscire da qui e salvare la rivista e la salute mentale di Emalord!» «Fermati! Fury ha detto che se ti togli il casco virtuale farai partire un’istanza potenziata del programma Cura Ludovico, con l’obiettivo di invertire per sempre la tua sessualità!» «Dov’è Miyamoto? Lui è l’unico che può cavarsi dalla Matrice e trovarne perfino giovamento!» gridò un isterico Nemesis. «Shigeru è andato a comprare lo zucchero filato» lo informò Gunny. «Ma è inutile: Fury si è detto dispiaciuto per come sono andate le cose, e che lui non ne ha colpa. Io gli credo: la colpa è del Governo, anche se c’è la possibilità che sia il Davide a cercare di metterci l’uno contro l’altro.» Alessandra C fece sì con la testa: «siamo costretti a rimanere qui fino al termine della missione, quindi l’unica cosa che possiamo fare è finirla al più presto.» «Hai ragione» disse Nemesis rialzandosi e assumendo determinatezza. «Ma non completeremo questo incarico così come ci è stato assegnato. Troveremo Donkey, sì, ma invece di pedinarlo fino al nascondiglio del Davide, ci faremo dire dove si nasconde a suon di sganassoni. Faremo il lavoro sporco, poi, una volta usciti da qui, sarà il turno del Governo. Diventeremo Liverpool ai loro occhi!» Nemesis Divina protese in avanti il braccio destro. Gunny appoggiò la propria mano sul dorso di quella di Nemesis. Jason Rubin e Alessandra C fecero altrettanto. «Tutti per uno e uno per t…» «Ah, voglio partecipare anch’io a questa stucchevole rappresentazione di spirito di squadra!» esclamò un accorrente Miyamoto gettando via lo steccolo dello zucchero filato. E così fece. Una volta liberatisi dalle mani appiccicose del nipponico, i Cinque erano pronti a riprendere la missione. «Bene, che facciamo adesso?» disse Alessandra C controllando per l’ennesima volta se il suo fucile da cecchino era carico. «Dobbiamo uscire da San D’Oria» replicò Gunny. «Ma fuori da qui ci sarà senz’altro una prateria-hub ricolma di mostri: dovremo sorbirci combattimenti più frequenti delle figure di merda del Presidente del Consiglio…» si lamentò la ragazza.

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«L’ingresso delle Miniere non si trova in città. Dobbiamo varcare la porta ad ovest e dirigerci verso il vicino lago Hylia» disse Gunny, che aveva smesso l’uniforme cittadina per indossare l’outfit ufficiale di Solid Snake. «Come fate a saperlo?» domandò Nemesis. «Abbiamo messo insieme alcuni fondamentali indizi» rispose Rubin. «La porta a sud della città è ostruita da invalicabili coni di plastica arancione, la porta ad est ha un cane da guardia che non lascia passare nessuno, la porta a nord per essere attraversata necessita di un pollo di gomma, che non abbiamo. Inoltre tutti gli NPC che abbiamo interrogato ci hanno detto di prendere la porta ad ovest e andare al lago Hylia. Sono stati molto chiari: le parole “ovest” e “Hylia” erano celesti grassettate.» «Dio benedica i videogiochi lineari» rifletté Nemesis Divina mentre controllava l’affilatura della sua ammazzadraghi. «Okay, allora possiamo partire» disse Alessandra C incrociando lo sguardo dei compagni. «Ehi Shigeru, hai un martello in tasca o sei solo contento di vedermi?» «Ho un martello in tasca!» rispose, ed estrattolo, assunse una posa a metà strada tra il potente Thor e un maniscalco che si è appena fracassato il pollice. «Conosco perfettamente questo territorio: sono pronto ad assumermi le mie responsabilità verso il party e condurvi incolumi a destinazione!» Gli altri membri del gruppo applaudirono galvanizzati, mentre i passanti facevano largo spreco di emoticon entusiastici. Tredici ore dopo, i Cinque giunsero al lago Hylia stanchi morti e con la barra di energia rossa lampeggiante. 2.2 HYLIA «Be’, ragazzi l’importante è che vi abbia condotto a destinazione, no?» disse Miyamoto. «Per quanto riguarda le peripezie che abbiamo dovuto affrontare durante il tragitto, sono convinto che abbiamo tutti il coraggio di dimenticarcene…» «Vaffanculo muso giallo!» squarciagolò Alessandra. «Tredici ore per fare un paio di chilometri?! Ci avremmo messo molto meno se tu non ti fossi fermato a pisciare su ogni masso alla ricerca di monete blu. E che bisogno c’era di offendere la madre della Ultimate Weapon? Eh, Nemesis Divina?» «Guarda che non ho parlato per sentito dire. E poi ragioni tu, che hai cercato per tutto il tempo di riprodurre il jingle dello spot della Barilla con l’ocarina, per poi fartela rubare dal primo thief di passaggio. Adesso come facciamo a chiamare Epona e mangiarcelo per cena?» «È chiaro che non funzioniamo come squadra» disse Gunny. «No, è chiaro che TU non funzioni come squadra!» replicò Jason Rubin. I due iniziarono ad azzuffarsi per terra. «Compagni!» esclamò Alessandra C con tono materno. «Abbiamo forse già dimenticato l’appiccicosa promessa fatta poche ore fa?» Gunny e Rubin smisero di prendersi a morsi. «Siamo una squadra di reietti in un mondo che ci odia. Per questo dobbiamo rimanere uniti, senza concederci il lusso di distrarci nemmeno per sei minuti. Perché non si sa quanti gol possiamo prendere, anche in soli sei minuti… «Ehi, guardate là! Sulla sponda occidentale del lago c’è una parete di roccia con alla base una freccia lampeggiante. Non sono brava come voi nella detection, ma credo che dovremmo andare a controllare…» Nemesis Divina aiutò Gunny e Rubin a rialzarsi. I due si concessero un abbraccio di scuse. Poi il gruppo si diresse, più unito che mai, verso il punto indicato dalla freccia. Una volta arrivati a destinazione, la freccia scomparve, rivelando al suo posto un gigantesco portone, sprangato per mezzo di una spessa catena e con la seguente scritta incisa sul legno…

QUESTA È LA OUTER DOOR CHE CONDUCE ALLE SACRE MINIERE DI SAN D’ORIA DITE IL GIOCO ORIGINALE ED ENTRATE «È un enigma» concluse Jason Rubin. «Fortuna che sono bravissimo con gli enigmi nei videogiochi!» Si guardò intorno. «Uhm, vediamo…» disse toccandosi il mento con indice e pollice. Socchiuse gli occhi e continuò ad esplorare la zona per alcuni secondi. «Non capisco. Non mi pare di vedere nessun cubo da spostare…» Prese a grattarsi la nuca. «Okay, ho finito il mio repertorio» ammise sconsolato. Nemesis Divina volse lo sguardo al cielo con rassegnazione: «è chiaramente un puzzle ad attivazione vocale. Credo che dobbiamo semplicemente pronunciare il nome del videogame originale per eccellenza e la porta si aprirà.» «Quale gioco può essere più originale del primo mai fatto?» disse Gunny tra gli assensi generali. Poi, dopo essersi schiarito la voce: «dico Tennis for two!» Non accadde niente.

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«Certo, Tennis for two è stato il primo» si intromise Nemesis, «ma non si può parlare di originalità, visto che è l’adattamento del gioco del tennis. Dico Spacewar!» Niente. Miyamoto si sistemò il cappello di Mario sulle ventitré e calò l’asso di briscola Donkey Kong. Nulla. Allora rilanciò con Mario Bros, Devil World, Excite Bike, Duck Hunt, Hole’s Gun Alley, Super Mario Brothers, Legend of Zelda, Doki Doki Panic, Super Mario Kart, Starfox, F-Zero, Doctor Mario… Ma la porta non si scompose. «…Mario 64, Ocarina of Time, Super Smash Bros, Waverace, 1080°, Animal Crossing, Advance Wars, Pikmin, Metroid Prime, Four Swords, Wario Ware e la mia arma finale: NINTENDOGGUSUUUUUU!» La porta non fece peh. «N1NT3ND0 1S D00M3D!!!» esultò Nemesis Divina. «Brutta figlia di puttana di una outer door!» abbaiò il nipponico prendendo a calci lo stipite. «Tu non sai chi sono io! Guarda che se mi girano ti faccio trasferire nel mondo di Resident Evil 1 a fare le animazioni di loading! Ti mando a Silent Hill a fare una di quelle porte arrugginite che non si aprono mai!» Quindi si accasciò a terra e pianse moltissimo. «Scusatemi» disse poi asciugandosi il naso con la cravatta. «Credo di essere un tantinello uscito dal personaggio!» Alessandra C, seduta su una roccia vulcanica e per nulla turbata dal poco edificante spettacolo, cercava di pensare lateralmente: «un momento, la scritta è in italiano, ma non esistono giochi nativi in italiano – o almeno, non giochi decenti – quindi mi sa che c’è stato a monte un lavoro di localizzazione…» «Già, e allora?» commentò Rubin. «Niente, pensavo a voce alta… uhm… gioco originale… original game…» «Vabbe’, sentite» fece Jason Rubin, «io ci provo, hai visto mai che… Jak & Daxter!» Il legno della outer door iniziò a scricchiolare. Per un attimo parve che la porta stesse per aprirsi, ma si trattava soltanto dell’onda d’urto prodotta dalla stronzata appena detta. «Eureka, ci sono!» disse Alessandra C scattando in piedi. «Bolla, salto, bolla, salto, bolla, salto, destra, player 1!» Si udì il jingle da enigma risolto di Zelda e la porta magicamente si spalancò. «Ma certo, l’original game, la gabola da inserire nella schermata dei titoli di Bubble Bobble!» esclamò Nemesis Divina battendo il pugno destro sul palmo sinistro. «Ehi c’era pure il power up, te lo ricordi?» «Nessuno ricorda mai il power up. Per questo ogni cabinato di Bubble Bobble lo aveva inciso da qualche parte con il temperino» spiegò la ragazza. «Be’, non mi stupisce che sia stata Alessandra C a risolvere l’enigma. Quel videogame era uno dei pochi ad essere appositamente progettato per le femmine» commentò Jason Rubin, forse un po’ invidioso. «Per tua informazione» chiarì Alessandra, «Bubble Bobble lo giocava il mio fidanzatino. Io a quei tempi finivo già Ikari Warriors con un credito…» Gunny raccolse il suo backpack e fece per incamminarsi all'interno delle Miniere, quando si accorse che pochi metri oltre l'apertura appena formatasi vi era un’altra porta chiusa. «Chi l’avrebbe mai detto che dietro all'outer door ci sarebbe stata una inner door?» disse Rubin. «Vai Alessandra: risolvici anche questo puzzle, ché noi siamo uomini d’azione. Ahr ahr!» «È un enigma semplice» si intromise Miyamoto. «Vedete quella stella disegnata sulla porta e il numero cinque al centro? Significa che prima di entrare dobbiamo raccogliere cinque stelle. Suggerisco di dividerci. Io faccio la quest delle monete rosse. Mi raccomando se ne trovate una di avvert…» «Basta, non ho tempo per queste cazzate» sbuffò Nemesis Divina. Quindi abbatté con un calcio la inner door e passò oltre. «ERESIA! ERESIA! Ha appena varcato una soglia senza il richiesto numero di stelle! BESTEMMIA!» gridò Miyamoto, poi incominciò a rotolarsi per terra tirandosi ripetuti cazzotti sulla testa. Gunny e Rubin immobilizzarono il giapponese, impedendogli di infliggersi altro danno, mentre Alessandra C gli fece ingoiare un’amanita muscaria, che sortì subito i suoi effetti rilassanti proibiti dalla legge. Dopo aver cantato tutta la discografia di Janis Joplin, Miyamoto fu pronto a riunirsi al gruppo e varcò insieme ai compagni la soglia per le Miniere di San D’Oria. Nemesis Divina li aspettava poco oltre, seduto su un’antica scalinata a tagliarsi le unghie dei piedi.

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2.3 IL DUNGEON «Dove siamo?» domandò Alessandra C mentre cercava di abituarsi all’oscurità. «A occhio e croce mi pare una via di mezzo tra le miniere di Pitfall e uno stage sotterraneo di Super Mario» rispose Nemesis Divina. «Ottimo!» saltellò Miyamoto ancora leggermente in preda agli effetti del fungo allucinogeno. «Conosco queste gallerie come le mie tasche. In verità conosco un sacco di caverne, dungeon e sottopassaggi pedonali…» «Ah sì, devo averlo letto su un People dedicato a te» disse Alessandra C. «Fin da piccolo ti piaceva andare in questi luoghi per il puro gusto dell’esplorazione: lo stesso che hai messo praticamente in ogni tuo gioco!» «Er, veramente ci andavo per mastur…» Jason Rubin era rimasto vicino all'entrata, allarmato come da qualcosa: «compagni, non vorrei spaventarvi, ma credo che là fuori un Calamarcio sia appena sorto dalle acque del lago e stia venendo tipo ad ucciderci.» «Perfetto, avevo giusto voglia di mangiare qualcosa di vivo» commentò Nemesis impugnando l’ammazzadraghi. Gunny gli pose una mano sulla spalla. «Non andare. Anche se uccidi questo Calamarcio, ne verrà subito un altro, poi un altro e un altro ancora, nel più disgustoso dei boss recycle…» «Capisco. Allora rinuncio al mio spuntino di mezzanotte. Suggerirei di spostarci a destra dello schermo fino a quando non succede qualcosa.» Guidato da Shigeru Miyamoto, il party si incamminò per i cunicoli bui del dungeon. Trascorsero minuti di pathfinding alternato a backtracking. «Ehi, che ve ne pare di tutta questa storia?» chiese ad un certo punto Nemesis Divina per interrompere una conversazione che stava prendendo una piega fin troppo calcistica. «Voglio dire: il Davide che in realtà è un terrorista ricercato... l'upload del suo cervello nella Matrice... cioè, tra l’altro ‘sta cosa mi suona anche un po’ familiare. Avete per caso letto Vox Mundi?» «No.» «No.» «No.» «No.» «No.» «Okay, vaffanculo. Comunque dovremmo stare attenti a non farci manipolare da nessuno. Credo sia importante scoprire come stanno le veramente cose, perché la verità ha tante facce eccetera eccetera. Quello che per il Governo è un terrorista, potrebbe in realtà essere un ribelle anarchico tipo V for Vendetta, e sinceramente non credo che sarei in grado di uccidere un anarchico…» «Non preoccuparti Nemesis» lo tranquillizzò Gunny. «Anche se adesso è tutto un po’ nebuloso, penso che sia normale, visto che siamo solo agli inizi. Mano a mano che andremo avanti nella missione, le cose dovrebbero diventare sempre più chiare, quindi potremo fare le nostre scelte, valutando da quale parte schierarci con maggior cognizione di causa. Certo, questo a meno che la storia col procedere non diventi un segone mentale tipo Evangelion. In tal caso potremmo sempre mandare a fare in culo tutto e andarcene allegramente a troie.» La galleria che stavano percorrendo si aprì in una vasta area sotterranea. Un largo e profondo crepaccio tagliava trasversalmente il luogo. L’uscita era posta al di là del burrone, alla stessa altezza dell’ingresso. Una scalinata di roccia, scolpita lungo la parete del lato sul quale era giunto il gruppo, scendeva ripida e tortuosa. I tratti finali della scalinata, così come il fondo del crepaccio, erano avvolti nell'oscurità. Il party si fermò sull’orlo del precipizio a contemplare lo scenario. «Sentite anche voi un rumore in fondo a questo budello, come di migliaia di esseri che danno lo straccio per terra?» domandò Alessandra C. «Lo sento, sì. Dite che siamo in pericolo?» fece Jason Rubin. «Non saprei» commentò Nemesis Divina. «Il mio senso di ragno ha smesso di pizzicare da quando ho ripreso a farmi il bidet.» Gunny estrasse il binocolo per la visione notturna e dette un'occhiata in basso: «ma quelli sono mudokon. Centinaia, migliaia di mudokon che stanno lucidando il pavimento!» «Allora non c’è niente da temere. Lo sanno tutti che i mudokon sono imbelli» disse un rassicurato Nemesis Divina. Gunny fece per annuire, ma: «aspettate, mi sta vibrando il codec. Chi sarà? Ah, è Nick Fury. Che vuole a quest’ora? Oh, io non rispondo…» «No, dài, e se poi è importante?» «Vabbe’, vabbe’, un attimo… Ciaaao Nick! Dove sei? Sì, sì, no, certo… Maddai… Uh-uh… Ah-ah. Occhei, senti, ti mando un messaggino quando abbiamo fatto. Ciao, sì ciao, ciao. Era Nick Fury.» «Buone nuove?» chiese Alessandra C. «Certo che no. Mi ha rivelato che dopo il ritiro di Oddworld Inhabitants dal mondo dei videogiochi, un incazzato Lorne Lanning ha attivato una personalità nascosta in tutti i mudokon rimasti a Videogamia. In pratica adesso sono malvagi.» «Non ci credo. Quei docili schiavi affetti da meteorismo?»

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«Quei docili schiavi hanno sbranato la redazione di Nintendo Rivista Ufficiale in un bordello di Delfinia.» «Oh no! E adesso?» «Non vi preoccupate. Anche se perfidi, i mudokon sono pur sempre anime semplici. Se qualcuno gli si avvicina con cautela, li saluta e dice loro una semplice azione da compiere, loro la eseguiranno. Adesso scenderò da solo queste scale e gli ordinerò di addormentarsi profondamente. A quel punto potremo passare.» Detto ciò, Gunny iniziò la discesa armato di determinazione. «Ehi Shigeru» sussurrò Rubin mentre attendeva lo svolgersi degli eventi, «guarda la mia PSP: è l’unico modello al mondo senza nemmeno un pixel bruciato.» Shigeru Miyamoto prese in mano la PSP di Rubin, si sedette su una bassa roccia dalla forma cilindrica – probabilmente la base di una colonna poi crollata – e si incantò ad osservare quello schermo perfetto con l’espressione di un siciliano di fronte ad un piatto di pasta con le sarde. Dal fondo del crepaccio si udì Gunny dire: «Ciao!» Vi fu come risposta un corale: «CIAAAAAAOOOOOO!» «Amici mudokon, c'è una cosa che vorrei che faceste...» «Allora, ti piace la PSP?» continuò Rubin rivolto al giapponese. «AMMAZZA!» Dal fondo del crepaccio si levarono rumori agghiaccianti, come se migliaia di ghepardi fossero scattati all’unisono su un’unica preda. Le grida di Gunny, intervallate da orribili suoni di carni lacerate, raggelarono gli altri membri del team, che inforcarono le proprie armi, ma non ebbero il coraggio di discendere le scale. Dopo alcuni drammatici minuti, una figura strisciò dolorosamente fino alla cima del crepaccio. Era Gunny. «Okay, voglio solo sapere chi è stato.» Il party si dimostrò compatto nell’indicare istantaneamente Shigeru Miyamoto. Con le ultime tacche di stamina, Gunny rilasciò ad un lacrimante Miyamoto un cazzotto dall’alto verso il basso che si infranse sulla nipponica testa. La base cilindrica su cui era seduto il game designer si rivelò essere non il rimasuglio di una colonna, bensì un pulsante, che in seguito alla sollecitazione si abbassò. Il terreno prese a tremare. La scalinata crollò su se stessa come un castello di carte, mentre un meccanismo nascosto fece spuntare da una sponda del precipizio uno stretto ponte di roccia che si congiunse con l’altro lato del crepaccio, a poche decine di metri dall’uscita. «La fortuna finalmente ci sorride» disse Nemesis Divina evitando alcuni massi che continuavano a cadere dal soffitto. «Coraggio, attraversiamo lesti il crepaccio prima che venga giù tutta la baracca!» Poi si caricò Gunny sulle spalle e iniziò a correre sul lungo ponte di roccia, seguito da Alessandra C. Jason Rubin tese la mano a Miyamoto, che si rialzò dolorante. Insieme intrapresero una lenta traversata. «Volevo chiederti scusa, Shigeru, per come ci siamo comportati con te fino ad ora. Non so, forse ci aspettavamo che il creatore di Mario, Zelda e così via fosse una figura tipo semidivina, e ci siamo dimenticati che sei pur sempre un essere umano – per di più giapponese – con le tue debolezze, infantilismi e perversioni che ti caratterizzano come individuo e che sono specchio del tuo genio.» «Jason, queste tue parole mi colpiscono. Sai, forse è la mia commozione cerebrale a parlare, ma credo che ci sia posto in Nintendo per un game designer che ha appena abbandonato la compagnia che ha contribuito a fondare… » «Parli di me? Vuoi davvero che entri in Nintendo? Cavoli, sto sognando!» «No, non stai sognando. Che ne dici? Insieme tu e io daremo alla luce una nuova età dell’oro!» TUM. «Che è questo rumore?» TUM. «Dobbiamo sbrigarci!» gridò Miyamoto. «Lui non deve raggiungerci mentre siamo ancora sul ponte!» «Lui chi?!» Con un balzo, una gigantesca creatura verdognola atterrò sul fragile ponte, vicino ai due game designer. Vi furono severi scricchiolii che non lasciavano presagire niente di buono. La creatura ruttò lingue di fuoco. «Un Bowser! Non possiamo batterlo! Presto, scappiamo, raggiungiamo l’uscita!» Jason Rubin, ubriaco di paura, iniziò a correre come un disperato, lasciandosi indietro un ancora indolenzito Miyamoto. Giunto alla fine del ponte, vide una leva: «Gunny! Non è questo il momento di travestirsi da meccanismo che fa scomparire il ponte. Vieni, dobbiamo fuggire!» e così dicendo allungò il braccio per strattonare l’amico, ma l’emulo di Solid Snake si trovava già al sicuro con Nemesis e Alessandra vicino all’uscita, e ciò che Rubin aveva tirato era veramente la leva connessa al meccanismo che fa scomparire il ponte, il quale non poté far altro che ubbidire all’input. Sia il Bowser che Shigeru Miyamoto videro svanire la roccia da sotto i loro piedi: si scambiarono un’occhiata di disperazione e caddero nel baratro.

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«Complimenti Vicks, hai appena ammazzato Wedge» disse Nemesis Divina avvicinandosi. «Oh no. Miyamoto è morto. Questo è il peggior giorno della mia vita dopo quella volta in cui subii un “otorinolaringoiatra” durante la finale del campionato di Scarabeo» pianse Alessandra C. «Non facciamo a tempo a finire il tutorial, e già perdiamo un membro del gruppo. Perché non mi stupisce il fatto che si tratti di Shigeru?» fece sarcastico Gunny. Ma Jason Rubin era in lacrime. «Voi non capite, questa è una tragedia per tutti, ma soprattutto per me! La morte di Miyamoto in questo mondo significa che subirà la Cura Ludovico nell’altro, quindi perderà la sua passione più grande: non potrà più realizzare videogiochi! OMFG SONO ROVINATOOUUOO! A CHI MI ISPIRERÒ DA ORA IN POI? E MI AVEVA PURE PROMESSO CHE… BUAAAAAAAH!» «Coraggio Jason, cerca di farti forza» disse Nemesis Divina tenendolo saldo per impedirgli il suicidio. «Io non so che cosa cancellerà la Cura Ludovico. Non so quale sia la più grande passione di Shigeru Miyamoto, ma di una cosa sono sicuro: non erano i videogiochi.» «E comunque puoi sempre prendere come modello Peter Molyneux» disse Gunny. Fu troppo. Jason Rubin svenne. 2.4 DONKEY «Ohi, la mia testa! Dove mi trovo?» «Perché tutte le persone che rinvengono devono sempre chiedere dove sono?» si interrogò Alessandra C. Si trovavano in una vasta cavità sotterranea di forma semisferica. L’ambiente, stranamente illuminato a giorno, era quasi del tutto spoglio, se si escludevano alcuni alberi, rocce e una bassa vegetazione. «Che è successo?» «E figurati se non chiedeva pure questo… Dopo che sei svenuto per lo shock di aver ammazzato il tuo idolo Shigeru Miyamoto – ops, scusa per avertelo ricordato! – ti abbiamo messo su una lettiga costruita con alcuni poligoni e portato con noi. Il percorso ci ha condotti in questo geofront, da cui non sembra che vi siano uscite. Adesso dobbiamo capire che fare…» Nemesis Divina, che fino a quel momento aveva osservato in silenzio la location, sollevò di scatto l’ammazzadraghi. «Ho capito dove siamo! Dài ragazzi, pensateci: un luogo così vasto e vuoto non può essere che un boss stage. Abbiamo trovato la tana di Donkey!» «Finalmente affronteremo quel grasso gorilla peloso!» ringhiò Gunny impugnando la combo socom-coltello. «Grasso gorilla peloso?» domandò Alessandra C. «Grasso gorilla peloso, certo!» «Stai parlando di Donkey? Tu conosci Donkey?» «Ovviamente no, ma mi sono fatto un’idea su chi possa essere.» «Fammi capire» cercò di far chiarezza la ragazza, «tu ritieni che Donkey, l’unico e migliore amico del Davide Videolurido, sia in realtà…» «Peter Jackson, sì!» «AH AH AH AH AH! Poveri stolti!» «Chi ha parlato?» gridò Alessandra C terrorizzata. Gunny si girò in tutte le direzioni: «deve essere lui!» disse. «Oppure è Fran Walsh, non saprei.» «Avete fatto male i vostri conti, eroi! Non sono un regista neozelandese, non sono un gorilla scaricabarili e non sono nemmeno Giobbi. Sono semplicemente Donkey!» Con grande impiego di effetti particellari, una figura umanoide alta tre metri e con una tuta in lattice rossa si materializzò davanti a loro. Aveva la testa di un asino e una coda con un ciuffo di peli all’estremità. L’essere ragliò soddisfatto per la qualità del suo ingresso: «tuttavia, visto che siamo all’interno della Matrice, potete chiamarmi con il mio nome digitale… eDonkey!» «Argh! Il re di tutti i sistemi peer to peer!» esclamò Nemesis Divina, trattenendosi a stento dall’inginocchiarsi. «Vabbe’, ho sbagliato pronostico, ma come hai fatto a sapere che stavamo arrivando? Abbiamo tenuto un approccio stealth per tutto il tempo!» disse Gunny togliendosi i ramoscelli d’ulivo che aveva tra i capelli. Ormai non servivano più. «Aprire la inner door senza l’ammontare richiesto di stelle ha fatto scattare l’allarme silenzioso. Sono andato a controllare indossando una mimetica da Calamarcio e ho trovato voi. Quindi vi ho seguito. Vi sono stato a stretto contatto per tutto il tragitto nelle Miniere.» Jason Rubin osservò Nemesis Divina con lacrime di rabbia. «La tua bestemmia ci costerà la vita!» «Un momento. Hai detto che ci sei stato a stretto contatto? Ecco perché quando Nemesis ha chiesto di Vox Mundi ha ricevuto come risposta cinque “no”, invece di quattro» disse la puzzle-solver Alessandra C. eDonkey gongolò come un Galliani alla fine del primo tempo.

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«Ma come mai non ci siamo accorti della tua presenza?» «Mi sono reso invisibile grazie alla mia perfetta conoscenza della programmazione di questi luoghi.» «Stai dicendo che hai sfruttato il lag?» «Preferisco di più come l’ho spiegato io.» «Senti» disse Nemesis Divina, «è chiaro che muori dalla voglia di esibirti in un monologo…» «Non ho bisogno di monologhi, caro il mio capellone, io sono eDonkey! Sono l’alfa e l’omega, l’entità a cui tutti quotidianamente si collegano e rendono grazie. Sono il reattore della condivisione, il flagello dei diritti d’autore, il re del dvdrip, l’imperatore dello screener, il mullah dello scan, colui che ha preso la trasformata di Fourier e l’ha fatta diventare Contenuto. Sono il supremo manipolatore di menti, la nemesi dei patriot, l’alfiere dell’irreale, l’anti-etico per eccellenza, il maestro del relativismo. Io sono il cugino di chiunque: il magnanimo parente che tutto ha e tutto concede. «Pazzi siete voi che decidete di sfidarmi, giacché le mie armi sono i vostri stessi segreti. Affrontare me significa affrontare il vostro lato oscuro!» «Signor “non ho bisogno di monologhi” permettimi una domanda» disse Gunny: «e se uno non avesse segreti? Potrebbe, come dire, infliggere una curetta medioevale al tuo culo?» E così minacciando lanciò contro eDonkey una stun grenade. Ma la granata non sortì alcun effetto. Incredibilmente, eDonkey aveva previsto la tipologia d’attacco di Gunny e si era coperto gli occhi in tempo. «Ooh, chi abbiamo qui… nientepopodimeno che Gunny: il nuovo Kojima, il nuovo Lucas, il nuovo Mollica! Tu sostieni di non avere segreti, Gunny, ma adesso ti dico che male facesti a scagliare la prima pietra. Io, che tutto posseggo e tutto condivido, ti domando: che ne sarà della tua carriera di regista quando la gente vedrà il tuo primo “lungometraggio”?» «Nessuno lo vedrà mai. Era una tale stronzata! Figuriamoci se mi sogno di distribuirlo! Ah ah! Non c’è niente da temere!» «Ne sei sicuro?» «Certo!» «Sicuro sicuro?» «Er… non dovrei?» «Non dovresti. Ho dato incarico a dei topi d’appartamento albanesi di procurarmene una copia. Proprio in questo momento lo sto mettendo in power-share. Presto tutto il mondo potrà ammirare Blood Brothers, un film di Giacomo Talamini!» «NUOOOOOO!» Gunny crollò in ginocchio. Le sue statistiche ebbero un tracollo alle voci Carisma e Sex Appeal. Alessandra C, pur provando per lui una minore ammirazione e attrazione fisica, cercò di consolarlo: «coraggio Gunny, non ti devi vergognare per un film sbagliato girato quando eri giovane. Lo abbiamo fatto tutti! Pure io una volta che avevo bisogno di soldi ho partecip…» «Alessandra» la interruppe eDonkey, «forse ti interesserà sapere che sto condividendo il filmato della finale di Unreal Tournament: torneo che hai miseramente perduto perché nella mappa “Via Montenapoleone” ti fermavi sempre a guardare le vetrine!» La scrittrice si vide dimezzata la Concentrazione e l’Autostima, mentre la voce Fashion aumentò di diversi punti. «E Nemesis, caro Nemesis, che pena mi fai tu che scarichi filmati di finti stupri ai danni di ragazze giapponesi.» «Finti?!» Nemesis Divina, adombratosi, andò in blind. «Sir… Per me niente?» domandò Jason Rubin, che forse si sentiva emarginato. «A te dirò una sola cosa: BUKKAKE.» Jason Rubin iniziò a tossire violentemente e a sputare per terra, come se tutto ad un tratto ricordasse un’esperienza rimossa. Pur nella momentanea cecità, Nemesis Divina fece due passi in avanti roteando l’enorme ammazzadraghi. «Bene eDonkey, nonostante l’enorme rispetto che nutro per te e per il tuo lavoro, le nostre priorità nei confronti di Ring e del povero Emalord ci impongono di riempirti di botte fino a quando non cagherai il nascondiglio del Davide Videoludico. Quindi se non ti spiace, considerata la nostra premura, salterei tutta la parte dei discorsi e passerei subito alle mazzate!» «Non vi darò mai l’informazione che cercate, luridi fascisti governativi! Presto il Davide Videoludico farà la sua prima e più importante mossa per la conquista di Videogamia. A quel punto…» «Ma che è questa cazzata di conquistare Videogamia?» protestò Nemesis Divina. «Ma siete veramente così nerd da non rendervi conto che state cercando di occupare una terra inutile? I videogiochi sono il medium più sopravvalutato che esista! Tutto ciò che c’è dentro un videogame… i mondi, le storie, i personaggi… tutte queste cose che tanto appassionano le ignoranti anime videogiocatrici non appartengono al medium, ma sono state prese di peso dai film, dai libri, dai fumetti. Il Video-

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gioco non è altro che un plagio, una carta carbone di altri media con in più l’illusione dell’interattività. Per la puttana: abbiamo appena fatto una sequenza ricalcata pari pari dal Signore degli Anelli, e adesso ci troviamo in un geofront. Ti rendi conto? Un geofront!» «Non ho la più pallida idea di ciò che stai dicendo.» «Cerca di fare uno sforzo. Ficcatelo in quella testa di ciuco: non c’è NIENTE di bello nel videogiocare. È solo un modo come un altro per sprecare la propria esistenza!» Alessandra C rimase esterrefatta da queste parole: «Nemesis, non avrei mai pensato che tu…» «Lasciami in pace!» Gunny era all’apice dell’ira: «eDonkey, hai appena fatto piangere Nemesis Divina. Pagherai anche per questo. Formazione d’attacco!» Il party si posizionò a delta con le armi un pugno. «Bene! Se questo è ciò che volete…» eDonkey assunse la posa dell’uomo vitruviano: «SLOT AMICI, VENITE A ME!» La sua muscolatura iniziò a gonfiarsi in maniera preoccupante, mentre le orecchie asinine emettevano i Carmina Burana a 320 kilobyte al secondo. «Siamo. Nella. Merda» fece Alessandra C. «Forse no» disse Gunny. «Chiederò aiuto via codec al mio consulente militare Motosada Mori. Lui saprà dirci quale tecnica adottare per sconfiggere eDonkey!» Il sosia di Snake poggiò un ginocchio a terra, si infilò due dita nell’orecchio e disse: «pronto, casa Mori?» La situazione si faceva drammatica: eDonkey aveva quasi finito il suo trattamento ormonale e un forte vento aveva incominciato a soffiare all’interno del geofront. Gunny si rialzò in piedi togliendosi le dita dall’orecchio. «Allora? Ti ha dato qualche hint?» domandò Nemesis Divina. «A dire il vero Motosada si è un po’ incazzato» rispose Gunny mentre si puliva le dita sulla giacca di Rubin. «Ha detto che non mi conosce, che sono le tre di notte e che se non la smetto di telefonargli mi farà avere notizie dal suo avvocato.» «Allora non abbiamo speranza? Vi mostrerò dunque il significato della C in Alessandra C!» e così dicendo la scrittrice voltò le spalle al gruppo e prese a correre in direzione di alcune insenature rocciose, poste vicino al limite esterno del geofront. Jason Rubin la osservò fuggire: «credo che la C stia per ‘Codarda’.» Gunny cercò di lasciarsi Blood Brothers alle spalle: capì che il gruppo aveva bisogno di un leader. «Lasciatela andare. Siamo noi tre adesso e dobbiamo comportarci da party affiatato. Rubin, voglio che ti scagli addosso a eDonkey picchiandolo a tambur battente. Io e Nemesis ti lanceremo da dietro le pozioni di cura.» «Occhei!» Jason Rubin partì a testa bassa come un torello: «ti faccio il culoooo!» «Ma tu hai pozioni di cura?» chiese Nemesis Divina a Gunny. «No perché io non le ho prese: il dottore si è scordato di farmi la ricetta…» «Be’, ho una vigorsol.» Con un uppercut, eDonkey lanciò Jason Rubin in aria e iniziò un’interminabile juggle, poi azionò lo zero shift, raggiunse Rubin in volo e si esibì in una presa a 69 con successivo schienamento a terra. Jason Rubin vomitò la milza. Equipaggiato con il lanciarazzi, Gunny cercava il momento giusto per sparare. Nemesis Divina, la vista ancora un po’ annebbiata, corse a liberare Rubin dalla presa mortale: sollevò l’ammazzadraghi sopra la testa e rilasciò un fendente verticale. Il boss ragliante rotolò via all’ultimo momento e la lama tranciò l’avambraccio destro del game designer, il quale lanciò una bestemmia talmente lunga e variegata che eDonkey ne fece un mp3 e la mise istantaneamente in condivisione. Gunny inquadrò il boss mentre stava per rialzarsi e fece fuoco con il lanciarazzi. Il missile disegnò una parabola di fumo e si diresse contro eDonkey, ma questi compì un balzo e camminò sopra il razzo deviandone la traiettoria contro un albero. «RAZORBACK 2!» gridò poi. Dalla schiena gli uscirono due lame rotanti che si diressero contro i membri del party ancora in piedi. Nemesis Divina parò il colpo con l’ammazzadraghi, ma fu orrendamente scagliato all’indietro contro una roccia. Gunny fu colpito di striscio all’addome e si accasciò a terra in preda al dolore. «Avete perso» disse pacatamente eDonkey osservando i suoi antagonisti agonizzanti. «Del resto non avevate alcuna possibilità. Ho la velocità di una dorsale in fibra ottica, ho un sistema di recupero da errori e una funzione di anteprima che mi permette di conoscere ogni vostro attacco nel momento stesso in cui lo pensate. Ammettete la sconfitta?» «La ammettiamo» disse Gunny con una smorfia. «Ti chiedo solo una cosa: finiscimi con un colpo netto. Non mutilarmi, ti prego: non voglio fare la fine del protagonista di E Johnny prese il fucile…» «Perché, che fine ha fatto?» «Be’, lui ha avuto diciamo un…» iniziò a spiegare Gunny. «Aspetta un attimo: tu non conosci E Johnny prese il fucile?» «A-al momento non…»

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«È un bellissimo film di guerra, anzi, sulle conseguenze della guerra. Certo, è un film vecchio, e non è famosissimo presso i non appassionati del genere, ma non capisco come fai a non conoscerlo, visto che l’ho scaricato proprio dal tuo network.» «Sì, sto condividendo un film con quel nome, ma…» Gunny si illuminò: «ma non l’hai mai visto, vero?» «…» «Ma certo, ho capito! Tu impieghi tutta la giornata a mettere roba in condivisione, quindi non hai il tempo di vedere i film, provare i giochi, ascoltare la musica che tu stesso fai scaricare agli altri. Sarai anche la cosa più vicina che ci sia all’Aleph di Borges, ma sei l’unico a non giovarsi dei tuoi stessi benefici!» «N-non…» Nemesis Divina intuì dove stava andando a parare il compagno di squadra: «lascia che ti faccia qualche domanda caro eDonkey. Un trivia semplice semplice: con quale frase finisce Via col vento?» «Mumble… e tutti vissero felici e cont…» «PROT! Risposta sbagliata. Come fa il ritornello di Nel blu dipinto di blu?» «Qualcosa come tarizùm larillallero?» «PROT! Risposta sbagliata. Guarda, te ne faccio una facile: chi era il padre di Luke Skywalker?» «La so, la so!» lo prendeva in giro Gunny alzando la mano. «Zitto che mi deconcentri! Questa ce l’ho sulla punta della lingua…» Stava sudando freddo. «…Saruman!» «ROOOTFL!» Gunny e Nemesis Divina iniziarono a contorcersi dalle risate. «Cazzo ridete? Guardate che se mi girano chiudo i rubinetti, così non potrete scaricare più niente!» «Ridiamo perché abbiamo appena scoperto come fotterti!» disse Nemesis. «Impossibile, posso prevedere ogni vostro attacco nel momento stesso in cui vi si forma il pensiero in testa!» «L’hai già detto, ma se invece di pensare a quale azione eseguire, ci limitassimo ad esempio a citare il nome di un film? Ti faccio vedere: Alessandra? Il nemico alle porte!» «Il nemico alle porte, ricevuto Gunny!» eDonkey fu colpito da un proiettile sparato dalla distanza. L’urto lo fece indietreggiare di qualche passo e perdere un’incredibile quantità di energia. «Chi è stato, com’è possibile?» «Quando Alessandra C se n’è andata, ho capito subito che la C del suo cognome stava per ‘Cecchina’, pertanto sapevo che si sarebbe appostata da qualche parte tenendoti nel suo mirino. Le ho solamente dato il segnale di sparare in un modo che ero sicuro non avresti predetto, perché chiaramente non hai visto il bel film di Annaud.» «Ah, la C sta per ‘Cecchina’? Io avrei detto ‘Campeggiatrice’» commentò Nemesis. «Adesso, caro eDonkey, sono sicuro che Jason Rubin, alle tue spalle, sarebbe lieto di riservarti il trattamento che Mario dedicò a Bowser in Super Mario 64…» «Ottima scelta, Gunny!» Con il braccio sano, Jason Rubin afferrò eDonkey per la coda, lo fece roteare sempre più velocemente per poi scagliarlo contro un masso. «P-pietà!» ragliò eDonkey. Il volto tumefatto. «Nessuna pietà» disse sprezzante Jason Rubin. «Non hai giocato a Super Mario 64. Questo significa che sei un asino…» «E adesso Nemesis» continuò Gunny. «Che ne dici di torturare un po’ il nostro amico con lo stile di Hannibal Lecter?» «No, no! Chiedimi Miike! Chiedimi Miike!» «Che Miike sia! Direi di iniziare con Ichi the Killer…» Snikt. Una lama comparve sul tallone di Nemesis Divina, che con un colpo di tacco amputò le gambe di eDonkey. «…poi potremmo continuare con Audition…» Un Nemesis sempre più eccitato si munì di due aghi da sarta, che conficcò pazientemente negli occhi dell’agonizzante boss. «…e terminiamo con… Gozu!» «Ehi che cosa vuoi fare con quel mestolo?» gridò eDonkey. «NO! NO! AAAAARGH!!!» «Avete visto? Uniti ce l’abbiamo fatta!» disse Alessandra C arrivando di corsa come un portiere dopo che la sua squadra ha segnato. «Siamo stati grandi!» esultò Jason Rubin, niente affatto preoccupato per la mutilazione subita. Gunny si avvicinò ai resti ancora in vita di eDonkey: «e adesso, ammetti la tua sconfitta e dicci dove si trova il Davide.» «Giammai! Te l’ho detto: sono provvisto di un sistema di recupero da errori!» Due gambe spuntarono dai moncherini. eDonkey scattò in piedi a pochi centimetri da Gunny: «ti mangerò vivo!» disse aprendo la bocca.

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Ma l’essere asinino non riuscì a completare l’attacco. Alessandra C era rimasta attenta ad eventuali colpi di reni da parte di eDonkey e, da quella distanza, non poté che centrarlo con un headshot da instant kill. eDonkey ricadde a terra. Il suo corpo si liquefece in pochi istanti. Alessandra C fu avvolta da un’aura viola. Sulla sua testa comparve la scritta: “LEVEL UP!” «Oh no! Siccome il colpo di grazia glielo ha dato lei. Adesso si beccherà anche i nostri punti esperienza. Che stronza!» protestò Rubin. La scrittrice parlò con voce evangelica: «l’Alessandra C che conoscevate non esiste più. D’ora in poi, il mio nome sarà Alessandra B!» Vicino ai resti di eDonkey si formò una colonna di luce che raggiungeva il soffitto del geofront. I membri del party vi entrarono e furono trasportati in superficie. Si trovavano di nuovo a San D’Oria. «Che bellissima avventura!» esclamò giocondo Nemesis Divina. «Mi spiace Jason per il tuo braccio…» «Oh, fa niente: mi ci farò montare sopra un mitra come quello di Barret.» «Se solo Shigeru fosse qui con noi ad impiastricciarci col suo zucchero filato…» disse Alessandra B. «Già… Ehi Gunny, perché sei così serio? Qualcosa non va?» domandò Nemesis. «Sei ammattito? Certo che qualcosa non va. Non abbiamo trovato il nascondiglio del Davide!» «Oh, non preoccuparti. Avevo pensato ad un’eventualità simile. Inizieremo un’indagine: interrogheremo i personaggi più famosi dei videogiochi. Se il Davide è veramente venuto a Videogamia, sarà senz’altro andato a conoscere qualcuno dei suoi eroi. Vedrete che prima o poi salterà fuori qualcosa. Suggerisco di iniziare recandoci allo SCUMM BAR: mi è venuta voglia di grog.» «Ottima idea Nemesis!» si complimentò Rubin. «Grazie! D’un tratto mi è ritornato l’amore per questo medium che temevo di aver perduto per sempre. Vi dico che non solo riusciremo nel nostro compito, ma faremo anche risorgere Ring dalle sue ceneri!» Vi fu un commosso applauso da parte di tutti i passanti. «Allora sarà meglio farlo in fretta» disse Gunny, «perché ho appena decifrato il messaggio segreto contenuto nel refuso di Videogiochi 13.» «Intendi “localazzioone”?» «Esatto. È l’anagramma di: “EA CAZZONI, LOOL!”» Nemesis Divina fece la faccia così: o_O. «OMFG… Lo aveva detto eDonkey che il primo bersaglio sarebbe stato anche il più importante: Electronic Arts sta per essere attaccata dal Davide Videoludico. E a quanto pare ci sarà da ridere.» SECRET STAGE Nella sala briefing dello S.H.I.E.L.D., Nick Fury e l’uomo celato nell’oscurità spensero i monitor che inquadravano il party vittorioso a San D’Oria. «Così ci sono riusciti. Donkey è morto» commentò Nick Fury appoggiandosi allo schienale. «È andato tutto secondo i piani» disse l’uomo celato nell’oscurità. «Anzi, meglio, se si considera che i Cinque non ci ritengono responsabili della chiusura di Ring.» «Che intende farne?» «Lasciamoli alla loro inutile detection. Chissà, in seguito potrebbero ritornarci utili.» «Come desidera» disse Fury. «Adesso che Donkey è stato tolto di mezzo, abbiamo libero accesso alla sua enorme rete di PC. Finalmente disponiamo della potenza computazionale necessaria a realizzare il nostro progetto: il computer ad embrioni sarà presto una realtà.» «Emani subito gli ordini necessari all’avvio del progetto, Generale Fury.» «Sarà fatto… signor Videoludico.»

PROSSIMAMENTE… 20th CENTURY DAVIDE <capitolo 3> forse

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