l’immaginale 7
Il lungo viaggio di Gilgamesh La visione immaginale della morte e della rinascita LOREDANA BENVENGA psicologa, psicoterapeuta, analista junghiana– Lecce
Il presente articolo è stato pubblicato sulla rivista «l’immaginale», anno 9, n. 14, aprile 1993 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro Celeste (Mt 5, 48). I sintomi della malattia non sono altro che una manifestazione mascherata della potenza dell’amore e l’intera malattia è soltanto amore trasformato (Th. Mann).
Gilgamesh, leggendario re sumero della citta di Uruk, è l’eroe di un poema epico basato su leggende tramandate per secoli dai Sumeri e trascritto su tavolette verso la metà del II millennio a.C. Egli è figlio di un dio e di una mortale; questa condizione semidivina gli conferisce tale forza ed energia che i sudditi, stanchi delle sue continue imprese, implorano gli dei di dargli un compagno, come moderatore alla sua impetuosità. La dea dell’Amore Aruru acconsente alla loro richiesta e crea Enkidu, uomo semplice e istintivo, nato nella foresta, che ha il dominio sugli animali, perché riesce a indovinarne i segreti bisogni. Un giorno Gilgamesh manda da lui una prostituta per tentarlo; Enkidu giace con lei per sei giorni e sei notti, perdendo così la sua innocenza e il suo potere. Egli decide di sfidare allora la forza del re, di cui ha tanto sentito parlare: nella lotta tra i due Enkidu ha la meglio, ma rispetta l’avversario con tale deferenza che essi divengono amici inseparabili. Viene pertanto accolto alla corte di Gilgamesh come fratello. Con il passare del tempo però la vita cittadina fiacca l’energia di Enkidu; Gilgamesh comprende che entrambi hanno bisogno di una spedizione ricca di avventure che li possa stimolare. Insieme partono e affrontano, decapitandolo, il mostruoso gigante Khumbab, guardiano del Sacro Bosco dei cedri, dimora degli dei. Durante il viaggio di ritorno uccidono anche il feroce toro del cielo mandato dalla dea Ishtar, offesa dal rifiuto di Gilgamesh, del quale si era invaghita. Questa impresa non è tollerata dagli dei che, riunitisi in consiglio, decidono che la punizione migliore per Gilgamesh sia far morire Enkidu. Straziato dal dolore per la perdita del fratello e dalla consapevole sofferenza della mortalità, il re vaga per la foresta, piangendo notte e giorno. È ossessionato dall’idea della morte e dalla ricerca disperata di poterla evitare.
Un giorno sente parlare del suo avo Utnapishtim, che ha ottenuto dagli dei l’immortalità per aver salvato la terra dal Grande Diluvio; decide di partire per cercarlo. Dopo un lungo viaggio raggiunge la dimora dell’avo il quale gli confida che può ottenere anch’egli l’immortalità se riesce a rimanere sveglio per sei giorni e sette notti. Gilgamesh si sottopone alla prova, ma fallisce: il sonno, fratello minore della morte, alla sesta notte lo vince. La sua amarezza impietosisce la moglie di Utnapishtim, che gli rivela l‘esistenza di una pianta magica che fa ringiovanire. L’eroe decide di partire per cercarla; riesce a trovarla e a raccoglierla dopa grandi difficoltà nelle acque dolci sotterranee e con essa inizia il viaggio di ritorno a Uruk. Durante il percorso, a causa del forte caldo, pensa di ristorarsi facendo un bagno; da una buca vicina esce un serpente che, attratto dal profumo della pianta magica, si avvicina e la divora. La ricerca di Gilgamesh si rivela pertanto fallita. Il re torna nella sua città e impara ad attendere l’inevitabile avvicinarsi della morte. *** Le toccanti vicende del mito del giovane eroe Gilgamesh ci consentono d’introdurre una riflessione in chiave simbolica su una tematica dolorosa, ma irrinunciabile: la presenza dell’evento morte nella vita. La percezione simultanea e invasiva della sua ineluttabilità, con la quale impariamo presto a convivere, il suo irrompere brusco e spesso inatteso propone un confronto continua con la nostra limitatezza, il nostro essere «finiti», elemento inquietante della natura umana. Il pensare quotidiano, incline alla concretezza e tristemente disassuefatto alla dimensione simbolica, rifugge dall’incontrare ciò che pienamente si configura come negativo, come Ombra. I pensieri sulla morte vengono evitati, l’impatto emotivo che ne deriva allontanato rapidamente. Ne scaturiscono rituali scaramantici di negazione e di evitamento che finiscono per produrre, com’è noto, per compensazione inconscia, un’immagine fantasmatica e onnipotente della morte, che si annida costantemente dietro ogni vissuto di malattia, dietro ogni malessere. Le patofobie, espressione di un disagio legato