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Muratori: Il bambino autistico è come un migrante in un mondo sconosciuto

ratori devono, invece, avere una “teoria della mente” solida e il più possibile variegata, che consenta loro di costruire un senso, per attribuire significato al comportamento dell’altro. Da qui è partito il nostro percorso, ci siamo interrogati su cosa fosse primario: primario è quello che viene prima, ovvero la vita che incontriamo dal primo giorno di esistenza. Nell’autismo ci troviamo di fronte a un disturbo complesso, di cui vediamo le caratteristiche fin dal primo giorno di vita». È un incipit chiaro quello fatto da Magda Di Renzo, responsabile del servizio Terapie dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), per raccontare al convegno che celebra i 50 anni dell’Istituto le origini del modello terapeutico DERBBI – Developmental, Emotional Regulation and Body-Based Intervention, denominato progetto Tartaruga. I bambini con disturbi dello spettro autistico non sono stati in grado di costruire un mondo interno come si immagina per lo sviluppo tipico. E in tema di difese arcaiche e difese del sé, Di Renzo chiarisce: «Un bambino che nasce con questa atipia e si confronta con un mondo che non sa che lui ha queste atipie, per proteggersi dagli stimoli che arrivano dall’esterno rimane fissato nel tentativo di cercare comunque una possibilità di auto-soddisfacimento. Tende a ripetere i movimenti in modo omeostatico, proprio per ritrovare una sensazione di piacere, proteggendosi in sacche autistiche. La non-comprensione del suo comportamento dall’esterno attiva in lui angosce profonde – sottolinea la studiosa – e la ripetuta incomprensione dell’altro gli genera preoccupazione». Già nel ‘69 il neuropsichiatra Eugenio Gaddini sottolineò che la prima imitazione che il bambino fa è un’imitazione per percepire. «Il bambino percepisce il cambiamento che si verifica all’interno del corpo in relazione allo stimolo esterno – precisa Di Renzo – ma solo quando potrà creare una prima distinzione tra il proprio corpo e quello dell’altro, allora l’imitazione diventerà “un imitare per essere”. È un passaggio che i nostri bambini non riescono a fare, perché in loro non si verifica la distinzione della propria corporeità da quella del caregiver primario». Che senso possiamo dare a un comportamento di un bambino con autismo? «Noi operatori dobbiamo aiutare il piccolo a uscire dalle sue idiosincrasie senza violare il suo sé , risponde Di Renzo. Oggi sappiamo che le protoconversazioni (i primi scambi madre-figlio) nell’autismo si impoveriscono, e non perché la mamma non sia in grado di sostenerle, ma perché viene a mancare la reciprocità. Al caregiver primario non arrivano i segnali. Il nostro modello lavora sul come entrare in questo mondo sensoriale – continua la terapeuta – siamo in presenza di ipo- o iper-sensorialità, nel senso che nello stesso bambino in momenti diversi ci possono essere risposte ipersensoriali o ipo-sensoriali e dobbiamo essere attenti nel cercare di decifrarle. Oggi – prosegue Di Renzo nel suo intervento al convegno IdO – sappiamo quanto sia fondamentale che nel bambino ci sia la capacità di riparare qualcosa che non è andato. Nei primi anni di vita è necessario che la madre attribuisca al figlio un’intenzione, per iniziare quel dialogo di sperimentazione che è ciò che naturalmente le mamme fanno: il “Penso cosa pensi” permette tutte le trasformazioni» . Da qui la psicoanalista ritorna a spiegare il modello DERBBI dell’IdO: «I nostri operatori vanno nei luoghi in cui il bambino vive e manifesta la sua vitalità, proprio per comprenderne il significato e aiutarlo a ripartire nel suo percorso individuale, ma non necessariamente da quell’unico che può essere immaginato per lui. In tema di sviluppo si parla infatti di percorsi e ci sono molte strade diverse per arrivare a uno stesso obiettivo. Il modello evolutivo a mediazione corporea – sottolinea la specialista – permette di entrare con i bambini molto piccoli in questa dinamicità e comunicazione corporea, coinvolgendo immediatamente i genitori». Il modello DERBBI è partito come modello di valutazione, oltre che di terapia. «La valutazione è un primo momento significativo, che è già terapeutico. È importante osservare i segni di rischio, ma non definirli subito in senso patologico –continua Di Renzo – e darsi un tempo di monitoraggio per effettuare aggiustamenti alla diagnosi. Nella nostra valutazione multisistemica sono compresenti vari specialisti, dal neuropsichiatra allo psicoterapeuta e agli psicologi impegnati nella parte testologica, nell’osservazione delle produzioni ludiche spontanee del bambino, oltre che a leggere la relazionalità dei genitori. Nel progetto Tartaruga c’è anche la figura dell’osteopata, essendo consapevoli di quanto siano pregnanti gli aspetti corporei». L’IdO aiuta i genitori stando loro accanto: «Nella terapia diadica c’è il coinvolgimento del corpo del terapeuta quale strumento di terapia – spiega la responsabile dell’IdO – nel senso che il corpo del terapeuta diventa un facilitatore che aiuta madre e/o padre a decodificare alcuni segnali incomprensibili nel bambino, per far ripartire la relazione, consapevoli che alcune caratteristiche rimarranno però tali. Abbracciammo il metodo evolutivo per mettere il bambino nelle condizioni di poter apprendere dall’esperienza e dalla relazionalità». Di Renzo conclude infine sul benessere di questi bambini: «Puntiamo a una vita che abbia un suo senso più che a spingere verso prestazioni che rischiano di non essere raggiunte e condizionano negativamente la vita di questi piccoli».

Neuropsichiatra: È cambiata la prospettiva, da malattia a condizione

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«Il bambino autistico è un po’ come un migrante che arriva in un mondo di cui non conosce bene le regole». Utilizza questa metafora Filippo Muratori, neuropsichiatra infantile e direttore dell’Unità operativa complessa di Psichiatria dello Sviluppo presso la Fondazione “Stella Maris”, per restituire un’immagine chiara di come l’autismo possa essere oggi considerato. «Siamo passati dal parlarne solo come disturbo e malattia, a parlare dell’autismo come condizione. Questo è il

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