LUOGHI DI CURA l’immaginale 13
Violenze in carcere, e non solo ANNAMARIA MANZONI psicologa, psicoterapeuta, grafoanalista e ipnositerapista – Milano https://annamariamanzoni.blogspot.com
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el luglio 2021, tutti i media, se pure con intonazioni diverse, hanno riportato i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo che era circolato un video che mostrava una serie di violenze esercitate dalle forze dell’ordine a danno dei carcerati: calci, pugni, insulti, umiliazioni contro chi era inerme, con le mani alzate, persino a un detenuto costretto su sedia a rotelle. Insomma, vessazioni che rientrano nell’ambito dei tanti modi in cui si declina il concetto di tortura. Tortura che, in Italia, è considerata reato dal luglio 2017, con l’entrata in vigore della legge al riguardo, la cui discussione si era protratta per quasi 30 anni, anni irti di una infinità di ostacoli, attribuibili a un’innegabile diffusa tendenza a giustificare i comportamenti aggressivi a opera dei tutori dell’ordine a danno dei cittadini, detenuti o meno che siano. La storia della tortura è antichissima e ben documentata dagli studiosi. Limitando l’ottica solo ai tempi più recenti, l’idea di fondo che le carceri possano essere per loro stessa natura luoghi di prepotenza e prevaricazione tra i detenuti e sui detenuti, è estremamente diffusa, anche perché supportata da un’enorme filmografia, ricca di lavori di basso livello, atti a soddisfare, con la messa in onda di una sadismo fuori controllo, i bisogni voyeristici e morbosi di una vasta porzione di pubblico. Ma anche di opere importanti, di esplicita denuncia di un sistema malato, divenute in modi diversi dei cult-movies dalle più svariate ambientazioni: tanto per citare Papillon (1974; Guyana francese); Fuga di mezzanotte (1978; Turchia); Nel nome del padre (1993) e Hunger (2008) (Irlanda del nord). Solo l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda gli Stati Uniti: Brubaker (1980); Fuga da Alcatraz (1979); Le ali della libertà (1994); Sleepers (1996). Per arrivare ai nostri giorni con The Mauritanian (2021), trasposizione cinematografica del libro autobiografico I diari di Guantanamo che raccontano i 14 anni di prigionia di Mohamedou Ould Slahi dopo l’11 settembre: è la ricostruzione non solo di una incarcerazione risultata ingiusta, ma anche di mesi di deprivazione sensoriale, torture, assalti sessuali. Che non si trattasse di fatti isolati, ma di procedure abitudinarie, lo affermarono in seguito i due psicologi, James Mitchell e John Jessen, ritenuti e dichiaratisi ideatori di alcune tecniche di interrogatorio, tra cui il famigerato waterboarding, che, nel caso di un detenuto, Khalid Sheikh Mohammed, fu applicato 183 volte in 15 giorni. Limitandoci alle cose di casa nostra, senza dimenticare Detenuto in attesa di giudizio con la denuncia, regolarmente
rimossa, di Alberto Sordi dei mali grotteschi del nostro sistema giudiziario, è doveroso ricordare Diaz (2012), drammatica ricostruzione dell’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola omonima al termine dei lavori del G8 di Genova e delle successive torture praticate a Bolzaneto nel luglio 2001. Nonché Sulla mia pelle (2018), che ripercorre le fasi della tragica morte di Stefano Cucchi, per la quale si è alla fine giunti alla condanna di due carabinieri. Ma esiste anche, sebbene poco noto, un docu-film biografico-sociale, Ossigeno (2012), sulla vita di Agrippino Costa, uno che di carcere se ne intendeva, avendovi passato 20 anni della sua vita, 12 dei quali nelle carceri speciali: la ricostruzione che ne fa è sconvolgente, riferita, tra le altre cose, alla normalizzazione dei soprusi da parte delle guardie, alla prassi consolidata dei pestaggi programmati, che i detenuti aspettavano con la terrorizzata consapevolezza di non potervisi sottrarre, al ripetersi dei passaggi obbligati nello spazio tra le forche caudine delle guardie che colpivano con calci, pugni, manganelli. Il senso di oppressione è racchiuso in quel titolo, Ossigeno, che è un anelito a poter respirare. Non risulta ne siano seguite denunce di falso. E nemmeno che ne siano seguite indagini di alcun tipo. La cultura quindi, popolare o meno che sia, si è sempre nutrita di queste consapevolezze, dove le ricostruzioni documentaristiche si confondono senza distinguersi dalle opere di fantasia: proprio perché evidentemente esiste un brodo di cultura che le violenze in carcere le favorisce e la gente comune ben poco se ne meraviglia, lo considera un dato di fatto, delegando se mai agli esperti il compito di stabilirne la genesi. In altri termini ancora le ricostruzioni colludono con il sentire comune costruito sull’idea di carcere come luogo di punizione, come sanzione afflittiva, in grado di retribuire la società per il male commesso, non esente quindi da potenziali derive incontrollabili; il tutto a grande distanza da un progetto riabilitativo e rieducativo, pure ormai previsto a livello legislativo. All’interno di questa cornice, non è neppure il caso di guardare fuori dal mondo occidentale, nei paesi dove i diritti umani sono carta straccia: nessun commento sarebbe in grado di dare forma alle reazioni di sconquasso del pensiero davanti ai documentari che, on line, è possibile reperire. Restiamo quindi nei limiti del «nostro» mondo: Susan Sontag, quando parlava della sconvolgente testimonianza che le foto di guerra ci offrono, sollecitava a guardarle pensando a