l’immaginale 7
Cutting e contenimento analitico: il sangue di Anna MICHAELA CALCIANO psicologa, psicoterapeuta, analista junghiana ARPA (Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica) e IAAP (International Association for Analytical Psychology) – Roma
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n questo articolo vi presenterò il caso di Anna e utilizzerò l’immagine del Sacro Graal quale metafora del contenimento analitico al fine di esplorare le condotte autolesive giovanili, con particolare riferimento al cutting, manipolazione corporea che assume sempre di più carattere rilevante nello scenario collettivo attuale. Le modalità espressive del disagio giovanile, in particolar modo di quello adolescenziale, sembrano preferire l’utilizzo concreto del corpo per inscrivere ed esprimere la sofferenza e impongono, a noi analisti, la necessità di riflettere su ciò che si attiva nello spazio analitico con ragazzi che compiono «forti» manipolazioni corporee e che stimolano in noi dei sentimenti controtransferali altrettanto forti. La generosa e affascinante leggenda del Graal mi aiuterà a connettermi alla storia di Anna, paziente che ho incontrato, perché praticava cutting. L’amplificazione di alcuni episodi e immagini connesse alla storia di Parsifal mi forniranno la possibilità di esplorare alcune aree psichiche individuali e collettive delle condotte autolesive, difficilmente narrabili con il solo supporto del pensiero. Lo scenario di riferimento cui l’articolo si ispira considera la manipolazione estrema del corpo non solo un’espressione psicopatologica, ma anche un tentativo dei ragazzi di riavviare un dialogo con il proprio centro, il proprio Sé e di mettere mano al proprio processo individuativo. La storia di Parsifal, eroico protagonista della «Cerca» del Graal mi aiuterà a connettermi alla storia di Anna, paziente che ho seguito per tre anni e che ho incontrato la prima volta quando aveva 15 anni, perché praticava cutting. Prenderò a riferimento il «Perceval», poema cavalleresco di Chretien de Troyes e per altri aspetti il Parzeval di Wolfram von Eschenbach. In entrambe le opere, Parsifal è un giovane rampollo che vive relegato in una foresta, sotto il dominio di una madre possessiva, che per paura di perderlo in battaglia, lo cresce fuori dal mondo e dalla conoscenza. Un giorno Parsifal vede passare i cavalieri di re Artù, ne subisce il fascino, abbandona la madre e decide di diventare cavaliere della tavola rotonda. Giunge al castello del Re Pescatore, re ferito e immobile da molti anni, che può soltanto pescare nello stagno del castello, ed è l’ultimo custode del Graal. Proprio qui, alla presenza del re «mala-
gnè», assiste a una processione altamente simbolica e ha la visione del Graal, una splendida coppa sprigionante luce e ornata di pietre preziose. Parsifal, nonostante la straordinarietà della scena cui assiste e nonostante le ferite che vede sul corpo del Re Pescatore, non gli rivolge la sola domanda che avrebbe potuto liberarlo dalla sua inguaribile malattia. Non gli chiede la causa della sua ferita, causa a sua volta dell’infecondità di tutta la sua terra. Se avesse posto la domanda sarebbe divenuto lui il nuovo custode degli oggetti totemici, invece è costretto a riprendere il suo avventuroso viaggio alla ricerca di una nuova purezza che gli possa consentire di arrivare al Graal. In tutta la letteratura la Cerca del Graal ha questo carattere essenzialmente dinamico, di conquista, di superamento di prove, di riti sacrificali presso eremi, per arrivare alla consapevolezza di sé. Anna, la mia paziente, vive – come Parsifal – all’ombra di un terribile complesso materno negativo; ambedue dovranno separarsi dalla madre per accedere al loro percorso di crescita caratterizzato da sacrifici, tanti errori e penitenze, ma anche da un coraggio stra-ordinario nel mettersi in gioco e riuscire a riprendere il dialogo con la vita interiore, e con quel Centro che li include e li trascende, il Sé. M.-L. von Franz (1960) sottolinea che «la storia di Parsifal è un esempio particolarmente bello di questo tipo di tensione verso la realizzazione del proprio destino». FENOMENOLOGIA DEL CUTTING Chi sono i cutters? Oggi «tagliarsi» sembra divenuta una «moda giovanile»; molti adolescenti dichiarano di essersi tagliati almeno in due episodi della loro vita e i genitori allarmati telefonano, dicendo che vogliono portare i figli in terapia perché si tagliano, quasi fosse la concretezza di quelle ferite a far rendere loro conto che i ragazzi da qualche parte sanguinano e sono simbolicamente feriti. Sono sempre più convinta che i ragazzi usino il taglio per esprimere il loro dolore e, semmai, per richiedere aiuto. Molti autori concordano oggi sul fatto che appare cambiato il modo con cui i ragazzi esprimono il dolore. Personalmente assisto sempre più a giovani che faticano tantissimo ad argo-