Š 2009 adidas AG. adidas, the Trefoil, and the 3-Stripes mark are registered trademarks of the adidas Group.
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NUMERO 02 / LUGLIO-AGOSTO 2009
HECUBA
SOMMARIO Segnalibri 10 / Visto per voi 12 / Look around 14 / Tre 16 / Entra pure 18 / Laces & Soles 22 / Mixdress 24 / Spon Diogo 28 / Hip Teens Don’t Wear Blue Jeans 32 / Iconoclasts 42 / Sarah Blasko 44 / Hecuba 48 / Iori’s Eyes 52 / Back’n’Roll 54 / Libri 56 / Dischi 58
PUBLISHER & EDITOR IN CHIEF Nicola Guzzon n.guzzon@banana-magazine.com EDITORS Enrico Grigoletti e.grigoletti@banana-magazine.com Alberto Capra a.capra@banana-magazine.com Marco Braggion m.braggion@banana-magazine.com Alessandro Simonato a.simonato@banana-magazine.com ART DIRECTOR Diego Soprana d.soprana@banana-magazine.com PROGETTO GRAFICO Studio Fantastico www.studiofantastico.com STYLING Cristiana Santella c.santella@banana-magazine.com Martina Ferri Faggioli m.ferrifaggioli@banana-magazine.com PHOTO EDITOR Federica Nuzzo f.nuzzo@banana-magazine.com CONTRIBUTORS FOTO Emmanuele Delrio, Francesco Villa CONTRIBUTORS Martina Arzenton, Domenico Di Maio, Fiorella Kibongui, Max Mameli, Sara Spagnuolo, Alan Grillo Spina, Marta Stella
DIRETTORE RESPONSABILE Ferdinando Garavello Registrazione al Tribunale di Padova richiesta il 18/05/2009 BANANA EDIZIONI Via Gioachino Rossini 7, 35026 Conselve PD Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione richiesta il 18/05/2009
www.banana-magazine.com banana@banana-magazine.com Stampa: Papergraf S.p.a. Via della Resistenza 18, 35016 Piazzola sul Brenta PD Tutti i contenuti di questa pubblicazione sono soggetti a copyright. È vietata la riproduzione anche parziale di testi, documenti e foto senza l’autorizzazione dell’editore. Il nome e i loghi Banana sono marchi registrati di proprietà di Banana Edizioni.
Š 2009 adidas AG. adidas, the Trefoil, and the 3-Stripes mark are registered trademarks of the adidas Group.
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SEGNALIBRI
A cura di Alan Grillo Spina
eATING IN TrASLATION
hI AND LOW
www.eatingintranslation.com
hi-and-low.typepad.com
Ho da sempre ritenuto un amico pasticciere la persona più affamata su questo pianeta. Quadri di pâté de foie gras francesi appesi alle pareti e sua madre che mi accoglie in casa con in mano degli insaccati freschi della casa. È addirittura riuscito a prendersi la gotta (malattia medievale dove ti si ingrossa il pollicione per aver mangiato troppa carne, ndr). Però a New York c'è un tipo che “traduce” sul suo sito con grande impegno tutto lo street-food sconosciuto con cui viene in contatto nelle sue spedizioni nella Grande Mela. Chi più ne ha più ne gotta.
Nei mestieri creativi l’unica vera regola è lavorare. Poi c'è un momento per produrre e un momento per analizzare. L’ handcraft sta vedendo senza dubbio un grande ritorno sulla scena del design e negli States sono nati un’infinità di blog usati come collezione di immagini di archivio da cui prendere ispirazione per il proprio lavoro. Hi+Low, curato dalla grafica Abby Clawson Low, è un vero e proprio catalogo di oggetti visualmente interessanti da lei creati o trovati in mercatini, aste di eBay o scovati su atre pagine web. Inutile dire quanti “want!” escono fuori sfogliando per le pagine di Hi+Low.
mArk WeAVer
rANDY GrSkOVIC
www.markweaverart.com
randygrskovic.tumblr.com
“Make something cool every day” è il progetto che ha spinto Mark, talentuoso grafico di Atlanta, a creare quotidianamente un antico mondo parallelo, fatto di astronauti e animali della savana che indossano abiti vittoriani. Diciamo che lavori di questo tipo ultimamente se ne sono visti un po', ma i personaggi di Mark hanno un fascino in più, sembrano prendere vita da vecchie enciclopedie scientifiche di biologia e dagli archivi Nasa, e si fondono insieme in immagini surreali, sbiadite e desaturate. Un po’ come le vecchie foto della nonna.
Randy è un artista canadese della gioventù di oggi, nonché membro associato della gang canadese dei Wizards. Una mia amica di Vancouver è cresciuta lì con alcuni di loro e mi dice che sono un po’ degli idioti cleptomani ma carini, fedeli al bong ma iperattivi con i loro progetti d’arte e i parties che organizzano. Ah, pare anche che siano famosi per avere delle tipe mega avanti che bazzicano nel loro gruppo. Le immagini su questo sito sono la perfetta ispirazione per i tatuaggi del futuro. Bravi ragazzi grskoviciani.
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VISTO PER VOI
A cura di Fiorella Kibongui Foto di Francesco Villa
WOODSTOCk - The AFTer PArTY Triennale Bovisa, via Lambruschini Raffaele 31, Milano - www.triennalebovisa.it In aftero party veritas. Inibizioni cadute già da un po’. La selezione naturale porta all’abbattimento dei deboli e a resistere sono gli strenui pochi ma… pochi. Il giusto passaparola e la corruzione del PR. L’after party non è per tutti. Quel che vi succede se non accuratamente documentato rimane nell’after party. L’after party non è da ricordare. Se ti mancano i requisiti vai a dormire. E prendi un taxi possibilmente. Perché una mostra su Woodstock ha come sottotitolo The after party? L’after party è l’evoluzione di ciò che nell’agosto del 1969, a Bethel, si affermò durante la tre giorni della Woodstock Music and Art Fair. In quell’occasione si realizzò il manifesto della Woodstock Nation e suonarono per l’occasione Hendrix, Janis Joplin, Crosby Stills Nash & Young, Jefferson Airplane, Sly & the Family Stone, Who, Joe Cocker, Santana and more. Il festival andò oltre la data prevista e i musicisti suonarono dal tramonto a tre albe seguenti ininterrottamente. L’intento commerciale degli organizzatori sfumò di fronte all’ondata partecipativa non prevista. Il festival, finite le prevendite, diventò quindi free. Che ciò sia stato determinato dalla forza dell’amore o dall’LSD poco importa. Le caratteristiche di Woodstock rivivono oltre le innumerevoli riproduzioni ufficiali e non dell’evento. Un raduno musicale si fa più affascinante quando ha quel qualcosa che lo rende selvaggio, sudato e passionale. Ai festival ci si sporca, ci si fa male, si vive secondo l’impulso, nous sommes des animaux. Ciò che fa funzionare la macchina oltre le performance degli omini sul palco è la capacità di lasciarsi trascinare a modo proprio creando un corpo solo con il resto del pubblico. Scientificamente parlando tutto sta nello sparare adrenalina, feromoni e testosterone casualmente in aria per ore 12
indefinite. Se la formula funziona il contagio è devastante come la primavera per i leprotti. L’impatto di ordine sociale sul resto dell’umanità invece è una questione più complessa da aff rontare oggi. Il festival è la parentesi di sfogo, vale quanto buttare gli oggetti vecchi dal balcone a Capodanno o lo svernare del famoso nonno a Rapallo messi insieme. L’esposizione fotografica che fino al 20 settembre colorerà la Triennale Bovisa è dedicata quindi al racconto del Festival di Woodstock, dei suoi tratti caratteristici ed emotivi salienti. Fa poi da accompagnamento agli scatti esposti, Generations, la rassegna di film che mostrano il lato spinto delle generazioni che dagli anni ’70 si sono susseguite fino ad oggi, ognuna con le proprie regole, contesti, eccessi e risvolti pseudo politici. Fra i titoli in programmazione da luglio a settembre troviamo: Woodstock, il film (1970), The night James Brown saved Boston di David Leaf (2008), Gioventù, amore e rabbia (The Loneliness of the Long Distance Runner) di Tony Richardson (1962), Southland Tales di Richard Kelly (2006), Les amants reguliers di Philippe Garrell (2005) e Guida per riconoscere i tuoi santi (A Guide to Recognizing Your Saints) di Dito Montiel; Montiel che ha anche presentato in anteprima il suo ultimo lavoro, Fighting. Inoltre, sul palco della Triennale si sono alternati fra giugno e luglio i dj set a cura di MTV Brand New ed il live, fra gli altri, di Noah & The Whale. Deduciamo quindi che Bethel non riconferma solo la forza della controcultura hippy che conosciamo a memoria, ma la nascita della forma più vicina a noi di raduno musicale. Se la situazione politica e sociale è relativamente cambiata, lo spirito di aggregazione intorno alla musica condivisa in spazi aperti continua a pulsare viva. La nostra realtà è l’after party, e deve durare più del previsto.
LOOK AROUND
DO YOU reAD me?! www.doyoureadme.de Se sei a Berlino e ti piace leggere devi andare da Do You Read Me?! perché ci trovi dal mainstream all’indie dell’editoria cartacea. Architettura, grafica, design e moda. L’importante è che sia stampato su carta. Dedicagli un’ora del tuo tempo, magari prenditi un mokaccino nel caff è davanti e sfogliati un po’ di carta nel cortile interno. Se sei a Berlino e non ti piace leggere vai comunque da Do You Read Me?! perché è una piccola chicca nel cuore del Mitte dove puoi parlare di cose interessanti con Jessica e Mark al numero 28 di Auguststrasse.
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A cura di Enrico Grigoletti
TRE / Skaters
ALeX DAVIS
DANIeLe FeNILI
FrANCeSCO mArCONATO
cincinnati (Ohio, Stati uniti)
Bergamo
Istrana (Treviso)
Tre elementi per aff rontare al meglio il post session. Riposarsi tra amici con una birra in mano, avere intorno qualche donna, e ascoltare della buona musica adatta alla situazione.
Tre elementi per aff rontare al meglio il post session. Ascoltare buona musica – ora come ora Jefferson Airplane, una buona “sigarettina”, una buona compagnia di amici.
Tre elementi per aff rontare al meglio il post session. Mangiare, bere e divertirsi con gli amici.
Tre città: il passato, il presente e il futuro dello skate. Bangkok, Cincinnati, Milano.
Tre città: il passato, il presente e il futuro dello skate. San Francisco, Barcellona, Sydney.
Tre elementi che hanno segnato l’evoluzione. Vedere uno skateboarder di colore su un magazine o in un video. Scoprire che su di una tavola ci si può fare di tutto. Lo skateboarding nei fi lm, alla TV e su magazines non di skate.
Tre elementi che hanno segnato l’evoluzione. Le ruote di uretano. Le tavole con il nose lungo che hanno raddoppiato il numero di manovre possibili. Le informazioni e i video che grazie alla Rete possono arrivare ovunque in tempo reale.
www.habitatskateboards.com www.inside1984.blogspot.com
www.bluedistribution.com/team (Foto di Giulio Sertori)
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Tre città: il passato, il presente e il futuro dello skate. San Francisco, Barcellona, Hong Kong. Tre elementi che hanno segnato l’evoluzione. L’ollie, inventato da Alan “Ollie” Gelfand nel 1976 e successivamente rivisto da Rodney Mullen. Lo switch. Questionable, il primo video della Plan B, girato nel 1992. www.vimeo.com/3252744 (Foto di Lorenzo Ferraro)
A cura di Max Mameli
DANNY GALLI
JONAThAN GALLO
DIeGO GArCIA DOmINGUeZ
Milano
Gorizia
Milano
Tre elementi per aff rontare al meglio il post session. Un bagno al mare, una grigliata con qualche amico, cena e fi lm in dolce compagnia.
Tre elementi per aff rontare al meglio il post session. Relax, chill, love.
Tre elementi per aff rontare al meglio il post session. Stretching, doccia, Fastum Gel.
Tre città: il passato, il presente e il futuro dello skate. Barcellona, Spalato, Ronchi dei Legionari.
Tre città: il passato, il presente e il futuro dello skate. San Francisco, Barcellona, le città dell Cina.
Tre città: il passato, il presente e il futuro dello skate. San Francisco, Barcellona, Melbourne. Tre elementi che hanno segnato l’evoluzione. Il pool skating degli anni ’70. Il passaggio dalla old alla new school negli anni ’90. L’ingresso nella industry di corporations multinazionali – dai drinks alle sneakers. www.stereosoundagency.com/daniele-galli (Foto di Beatrice Sugliani)
Tre elementi che hanno segnato l’evoluzione. Ogni momento in cui lo skate torna magicamente “di moda”. La macchina fotografica digitale. Internet. www.myspace.com/johnny_gallo (Foto di Filippo Bignolin)
Tre elementi che hanno segnato l’evoluzione. Quando si è “scoperto” che si poteva skateare ambidestri, cioè anche in switch. L'invenzione della tavola con il nose e il tail alzati. Lo skateboarding di Love Park a Philadelphia. www.chefskateboards.blogspot.com (Foto di Beatrice Sugliani e Roberta Maccechini)
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ENTRA PURE
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A cura di Emmanuele Delrio
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LACES & SOLES
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1. YMC - Saddle Shoes - youmustcreate.com 2. Paul Smith - Saddle Scott Shoes - paulsmith.co.uk 3. B Store - Suede Bucks - bstorelondon.com 4. Adidas Originals by Originals Alyasha - Jive Bomber - adidas.com 5. Casue x George Cox - Saddle Shoes - georgecox.co.uk 6. Resonate x Cause - Saddle Shoes - rsnt.tv 7. Hiroshi Tsubouchi - Saddle Shoes 8. Tricker’s - Suede Shoes - trickers.com 9. United Arrows - Saddle Shoes - united-arrows.co.jp 22
A cura di Enrico Grigoletti e Cristiana Santella
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1. Lanvin - lanvin.com 2. ChloÊ - chloe.com 3. Yves Saint Laurent - ysl.com 4. Cole Haan - colehaan.com 5. Omelle - omelle.com 6. Jimmy Choo - jimmychoo.com 7. Hermès - hermes.com 8. Lanvin - lanvin.com 9. Oscar de la Renta - oscardelarenta.com 23
MIXDRESS
girrrlz sunglasses Proenza Schouler / borsa Chloè / costume Missoni / gonna Emanuel Ungaro foulard Yves Saint Laurent / cardigan Nina Ricci / jeans Levi’s / borsa Martin Margiela scarpe B Store / camicia Current Elliot / guepierre Chantelle / t-shirt Rittenhouse Woman
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Styling di Cristiana Santella e Martina Ferri Faggioli Artwork di Diego Soprana
boyzzz t-shirt Cosmic Wonder / sunglasses Ray Ban / pantaloncini Orlebar Brown / giacca Yarmo / cardigan Cowichan t-shirt Folk / camicia Free & Easy + Warehouse / cardigan Sacai / scarpe River Island pantaloncini Rittenhouse Man / gioielli Milk / scarpe Dior Homme / socks Wood Wood x Happy Socks
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boyzzz t-shirt bianca righe blu Surface to Air / felpa bianca righe blu Topman / sunglasses Topman bowie shoe Hope / pantalone blu You Must Create / camicia collo coreana Folk stivaletto nero-marrone Acne / cintura Folk / calzini Topman
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girlzzz borsa Top Shop / sandalo oro Top Shop / Bikini (entrambi) Missoni / abito Halston / infradito oro Musa / collana Erickson Beamon / sandalo oro intrecciato ASO / girrrlz cerchietto foglie Louis Mariette / collana con piume Rheanna Lingham / collana bianca Fernanda Pereira
infradito oro Musa / collana con piume Rheanna Lingham / abito Halston collana bianca Fernanda Pereira / bikinis Missoni / cerchietto foglie Louis Mariette / sandalo oro Top Shop collana Erickson Beamon / borsa Top Shop / sandalo intrecciato ASO
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SPON DIOGO INTERVISTA DI MARTA STELLA
Mia Lisa Spon e Rui Andersen Rodrigues Diogo. Una coppia creativa che viene dal Nord. Un uomo e una donna che hanno unito la loro creatività creando un brand che debutta per la prima volta sulle passerelle alla prossima fashion week di Copenaghen. Banana: Come avete iniziato il vostro percorso? Mia: Abbiamo lavorato insieme su vari progetti per più di quattro anni, lavorando su progetti come il graphic design, la progettazione di gioielli e prêt-à-porter sia per l’uomo che per la donna. Il nostro segreto è l’aver collaborato sempre a stretto, strettissimo contatto. Quand’è che avete deciso di creare la vostra etichetta? Rui: Spon Diogo è stata fondata un anno fa, nel giugno 2008. Pur avendo lanciato il nostro marchio proprio quando è iniziata la recessione economica, abbiamo da subito presenziato alle settimane della moda di Parigi e di Copenaghen, mostrando le nostre collezioni attraverso eventi privati nei nostri showroom. Sarà dalla prossima Copenhagen Fashion Week che inaugureremo la nostra prima passerella. Che cosa significa per voi partecipare alla prima settimana della moda a Copenaghen? Rui: Per noi è sicuramente un gran successo, ed
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è lì che stiamo focalizzando tutte le nostre energie. La settimana della moda di Copenaghen sta crescendo di stagione in stagione, e continua ad attrarre sia compratori che stampa da tutto il mondo. Molte nuove ed innovativi brand stanno ora sfilando sulle passerelle danesi, anche se riteniamo tuttavia che rimanga Parigi l’evento più importante per la moda mondiale. Qual è il vostro concetto di moda? Mia: L’ approccio al design sui nostri capi è architettonico, strutturale, ritmico, fondato graficamente e fortemente nell’amore per il lusso, i materiali e i dettagli sartoriali. Ci piace lavorare con concetti presi in prestito dall’architettura, dall’arte o dalla letteratura. Quindi com’è la donna Spon Diogo? Mia: È sicura, strong e metropolitana. Le vostre ispirazioni, le vostre idee… Rui: Noi attingiamo da qualsiasi cosa, che sia un oggetto o una sensazione. Progetti futuri? Mia: Al momento stiamo lavorando al nostro debutto in passerella, che sta occupando tutto il nostro tempo. Per quanto riguarda il futuro non escludiamo la realizzazione di una linea maschile. www.spondiogo.com
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FOTO: DARIO DE SIRIANNA, ILLUSTRAZIONI: PEIO PEEV STYLING: CRISTIANA SANTELLA, PHOTO EDITOR: FEDERICA NUZZO
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RITA: giacca STUSSY, felpa OBEY, abito LOREAK MENDIAN
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ANGELA: abito P.A.M. ANTONELLO: t-shirt SESSÙN
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ALEXANDRA: maxi felpa MARIOS
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ALESSANDRO: felpa P.A.M.
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FRANCESCO: maxi cardigan LOREAK MENDIAN, pantaloni STUSSY DELUXE BARBARA: cappuccio GLAMOURAMA, t-shirt MARIOS, pantaloni SESSÙN
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ALFREDO: t-shirt STUSSY DELUXE, pantaloni MARIOS
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AcknowledgmentS Blue Distribution - Via P. Vassanelli, 52 - Bussolengo (VR) www.bluedistribution.com www.obeyclothing.com www.loreakmendian.com Slam Jam - Via Pietrasanta, 12 - Milano www.slamjam.com www.sessun.com www.perksandmini.com www.marioslefttanker.com www.stussy.com Nipiroomilano - Via Muratori, 38 - Milano www.nipiroomilano.com www.glamourama.org
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ICONOCLASTS Speciali, proprio come tutti gli altri INTERVISTA DI SARA SPAGNUOLO
Ci muoviamo per orbite sghembe, e sbirciamo in una delle tante stelle della nebulosa indie, una a sei punte, che pulsa da Lisbona. Si cambia prospettiva, ma il sound ha poco del languore del fado latino che uno avventatamente potrebbe aspettarsi. Nel loro omonimo EP d’esordio, gli Iconoclasts parlano con due voci un lo-fi sofisticato, ballad post-rock che sfociano in un emocore deciso e senza compromessi a metà tra i Van Pelt e i nostrani Canadians. Puntellati dalla voce aspra di Diogo e dagli sgambetti in controcanto di Pipa — l’elemento femminile: voce sottile, suadente e cazzuta, suonano sorretti da una matura autoironia e da una raffinatezza abrasiva. Dal loro MySpace ci spiegano cosa si prova ad essere speciali, proprio come tutti gli altri.
Banana: A prescindere dal fatto che ogni ascoltatore può carpire suggestioni diverse dalla vostra musica, ci sono artisti che vi hanno in qualche modo influenzato nel suono e che, molto probabilmente, a nessuno verrebbero mai in mente? Diogo: Anche se il nostro suono di base è principalmente ben coeso e saldamente legato al concetto moderno di indie-pop e indie-rock, la maggior parte dei nostri riferimenti individuali trova sempre un modo di manifestarsi nelle canzoni. Ad esempio il “bombardamento” di chitarra verso la fine di So Disappointed è il modo in cui Vitor dimostra la devozione al suo eroe Kevin Shields. Per quanto riguarda i testi, Morrissey striscia continuamente nei miei pensieri come un debito mai pagato. È sicuramente l’influenza più importante quando scrivo, anche se tende a mescolarsi con un po’ di Stephin Merritt, una dose di Travis Morrison e un pizzico di Damon Albarn. E Justin Timberlake è la segreta ispirazione dietro a tutte le nostre canzoni, non c’è dubbio.
to cambiamenti dalle esibizioni iniziali a quelle più recenti? I nostri show dal vivo sono sicuramente migliorati nel tempo e sono sicuro che continueranno a farlo. Quando suoniamo dal vivo ci atteniamo strettamente alla politica del ‘divertiamoci’, cosa che rimaneva totalmente senza freni nei nostri primi spettacoli: furia e velocità agli estremi, a costo però di qualche sbavatura tecnica. Da allora abbiamo imparato ad ammansirci un po’, e anche se ci ritroviamo comunque completamente inzuppati di sudore dopo tre o quattro canzoni, siamo molto più contenuti e concentrati sul come rilasciare quell’energia. Il pubblico sembra che apprezzi, per quanto si possa apprezzare una indie band agli esordi. Non abbiamo mai la sensazione che si abbia totale fiducia in noi, ma è una grande soddisfazione quando quei pochi ragazzi e ragazze che nella folla avevano il sorriso stampato in faccia mentre gli urlavamo contro, vengono poi a dirci finito lo show quanto gli siamo piaciuti.
Ho visto in un paio di video gli Iconoclasts contorcersi e saltare sul palco. Si direbbe che improvvisazione e interazione svolgono un ruolo portante nei vostri concerti. Avete nota-
Controcanto dialettico, frequenti inversioni di ritmo e tono, chitarre cigolanti, batteria sincopata… eppure ci deve essere una regola di base dietro a questa irregolarità sistematica.
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Potete svelarcela? Cosa succede quando essere sregolati diventa di per sé una regola? Ci sforziamo sempre di proporre un sano mix di familiare e inaspettato, sia per quanto riguarda la musica che i testi. Proviamo sempre a scrivere canzoni energiche, divertenti, accattivanti, e di renderle anche il più possibile dettagliate ed interessanti — canzoni su cui puoi ballare e scuoter la testa ma che abbiano un substrato nascosto di ingegnosità. Non so proprio se in effetti ci riusciamo. Presumo che la vostra iconoclastia non sia diretta alla letterale dissacrazione di icone religiose: contro quali icone vi battete quindi? Con che armi? E le icone si ribellano? O forse non vi prendete così tanto sul serio e il nome che avete scelto è in realtà ironico. Il nome è per tre quarti ironico, ma il restante è una cosa seria. Abbiamo tutti sicuramente i nostri idoli e passiamo talmente tanto tempo ad approfondire fin nei minimi dettagli le loro vite che non potremmo restarne totalmente impassibili. Per contro, e fino ad un certo punto, facciamo del nome il nostro vessillo. Potremmo facilmente suonare come Arctic Monkeys, o At The Drive-In, o A Place To Bury Strangers, o
quello che ti pare, ma scegliamo di scrivere canzoni che piacciono a noi piuttosto che pezzi che assomigliano deliberatamente a qualcosa. Il che riflette anche un certo disprezzo per i gruppi che in effetti lo fanno. ll web è ai nostri giorni uno dei mezzi più potenti e controversi per conoscere e diffondere musica. Voi siete amici o nemici dei suoi poteri incontrastati? Fino a che punto? Siamo amici per la pelle. Siamo su un sacco di piattaforme sociali e musicali: MyApace, Last. fm, Facebook, Hi5. Siamo persino su questo gioco online chiamato Next Big Sound, in cui i giocatori devono gestire un’etichetta discografica e sottoscrivere i propri artisti indie preferiti. Per un periodo ci ero veramente rimasto sotto. Potete fare in pochi tratti uno schizzo della scena musicale contemporanea in Portogallo e del vostro posto in essa? Vita dura per gli indies? Beh, immagino di sì… Ci sono pochissimi gruppi qui che arrivano al punto in cui la gente ne conosce il nome; ci vuole comunque tanto tempo, e solo un 10% di questi sono effettivamente validi o interessanti. La tanto diffamata usanza inglese (e per certi versi
anche americana, immagino) di trovare quanto di più fresco e recente c’è in musica e di farlo conoscere alla gente — vedi NME, non è tanto diff usa in Portogallo, quindi anche quei pochi gruppi che meriterebbero di uscire dal mucchio solo raramente ci riescono. Eppure band come Linda Martini, X-Wife e Peixe:Avião dimostrano che ciò è possibile, per quanto improbabile. Sono curiosa: se ti dico “nominami un musicista/gruppo italiano” — escludendo ovviamente la razza uber-commerciale, rimani in palla o avresti già qualche nome in mente? Non ho idea di come sia il loro orientamento indie, ma mi è capitato di sentire gli Spiritual Front l’anno scorso a Paredes de Coura e mi son piaciuti parecchio. Vitor [chitarrista della band, Ndr] dice che a lui piacciono molto Verdena e Settlefish. Qualche momento indimenticabile che svetta quando vi guardate indietro? E quando guardate avanti? Abbiamo dei ricordi terribili e un’immaginazione pure peggiore. Ma un giorno saremo in testa alla lineup di Glasto [Glastonbury Festival - UK, Ndr]. È scritto nelle stelle.
Non vi siete attribuiti una descrizione molto lusinghiera per chi vorrebbe ascoltarvi… ma alla fine, le vostre mamme sono o non sono orgogliose di voi? Sempre, anche se stanno tramando alle nostre spalle per distruggere la band. In quale fi lm avreste voluto far parte della colonna sonora? Home Alone [Mamma ho perso l’aereo, Ndr]. Non per il fi lm in sé, ma perché il titolo descrive perfettamente le nostre vite. C’è altro che dovremmo assolutamente sapere degli Iconoclasts? O che sarebbe meglio non sapessimo mai? Amiamo il maiale, Gesù Cristo e le nostre madri, esattamente in quest’ordine. E amiamo i vostri lettori, più di quanto potrebbero mai essere amati da un maiale, da Gesù Cristo o dalle loro madri. myspace.com/iconoclasts
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Sarah Blasko Oniric Aussie Folk INTERVISTA DI MARCO BRAGGION
Vi diranno che suona folk o country. A noi (che l’abbiamo sentita nel suo ultimo As Day Follows Night) sembra che oltre alla tradizione ci sia anche tanta anima. Entrare nel mondo della Blasko significa spogliarsi dai discorsi barocchi della critica AOR ed assaporare la melodia pura, quello che le hanno insegnato maestri del calibro di Leonard Cohen e Nick Cave. Ma non solo: nel suo immaginario c’è una voce che proviene dall’altro capo del mondo. Sarà che la rete ci unisce, ma a noi l’Australia sembra sempre lontana. Avviciniamoci un pochino con l’aiuto delle sue melodie.
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Banana: As Day Follows Night sembra essere l’album più intimo della tua produzione. Penso in particolare alla canzone All I Want. I ritmi e gli arrangiamenti sono abbastanza allegri, ma i testi sono più focalizzati all’intimismo. Pensi che sia difficile trovare “quello che vogliamo davvero”, specialmente in questi giorni di cosiddetta crisi? Pensi che ci sia uno stato d’allerta — continuamente propinato dai media, che altera in qualche modo i nostri sentimenti? Sarah Blasko: Penso sia difficile essere contenti. La vita della gente è un continuo lottare per essere felici di quello che si è realizzato. Spesso c’è questa ricerca di “qualcosa di più” che è difficile da definire, cose che in realtà non esistono. Niente è perfetto. Sì, è importante non essere contenti con meno di quello che ci si merita, ma ci deve pur essere una linea, sennò si continua a lottare per qualcosa di irraggiungibile. Ho letto della tua esperienza in Svezia con il produttore Björn Yttling. Sei andata là per registrare e mixare l’album. Ci puoi dire qualcosa di più? Perché la Svezia? Per completare l’album sono stata in Svezia circa cinque settimane. Ho guardato un po’ di dischi della mia collezione e il suo nome usciva fuori spesso come produttore e come arrangiatore d’archi. Ho fatto qualche ricerca e gli ho mandato una lettera. Penso sia stata una buona scelta, perché dal suo lavoro si capisce che ama la musica pop, ma gli arrangiamenti e i suoni mostrano anche un attaccamento al passato. Mi piace il suono fresco ma old fashioned. Pensi di essere connessa con la “rinascita folk” che sta uscendo dal nord Europa? Mi piace la musica pop svedese: pop ma sofisticato e un po’ originale. Non mi sento di essere parte di nessuna scena, vado con il mio istinto e guardo quello che succede. Probabilmente sono più vicina a questo tipo di musica che alla musica rock/ pop australiana. In No Turning Back c’è una connessione forte con il western sound di Ennio Morricone. Conosci la sua musica? Pensi che queste radici folk-country vengano dalle tue origini australiane? Yeah! Conosco la sua musica. Cose grandi e meravigliose. Ma non era esattamente il mio intento suonare come lui. Il suono è venuto fuori durante la session strumentale, quando il tecnico del suono ha pompato alcuni filtri... penso stia proprio bene in quella canzone. La traccia parla di sentimenti di perdita e di solitudine e questi suoni desertici ci stanno a pennello. L’uso della tua voce è cambiato molto rispetto a qualche anno fa; hai aggiunto più sfumature e cambi di dinamica. Hai studiato con qualcuno in particolare o è solo esperienza accumulata? Penso sia l’esperienza. Ci ho messo un po’ a trovare la mia voce. Non ho studiato con nessuno in particolare. La mia voce suona come un animale selvaggio, ma ogni tanto mi piacerebbe aver avuto un training più specifico. Amo cantare e con questo disco è stato bello esplorare la mia vocalità. Björn
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mi ha dato molta fiducia, cosa che mi ha permesso di usarla come fosse uno strumento. In qualche traccia ho sentito dei rimandi a Jeff Buckley (Down On Love) e a Björk (Lost & Defeated). Quali sono i tuoi cantanti preferiti, quelli che ti hanno influenzato di più? Penso che ti stia confondendo con Leonard Cohen quando parli di Down On Love. La melodia ha qualche somiglianza con Hallelujah [e infatti l’ha coverizzata proprio Jeff! Ndr]. I cantanti che mi hanno ispirato sono Björk, PJ Harvey, David Byrne, Paul Mc Cartney, Billie Holiday, Cat Power, Thom Yorke e Nick Cave. Anche Julie Andrews in The Sound of Music. La gran parte dei pezzi contenuti nel tuo album parla di amore e di sentimenti. Pensi sia ancora attuale parlare d’amore nelle canzoni folk? Perché non ti met-ti a scrivere qualcosa di più aderente al “sociale”? Penso sia importante scrivere di quello che si sente nel profondo. Quando ho composto questo album, avevo amore e delusione nel mio cuore e così mi sentivo quasi obbligata a parlarne. Qualsiasi cosa scrivi devi essere anche capace di farla, e farla bene. Non penso che tutti siano in grado di scrivere una buona canzone politica, per farlo devi avercela dentro. Non vorrei mai fare nulla che non sia sincero. Probabilmente tra un po’ di tempo scriverò di politica o temi sociali, ma ora non è il momento. Penso che Sleeper Awake sia la cosa che ci va più vicina in quest’album. Quella canzone parla di autostima, di tirar fuori la propria forza che molte volte dorme nascosta. È una canzone per incoraggiare la gente a svegliarsi a reagire contro quello che c’è attorno a loro e a non perdere la speranza. Nel numero precedente abbiamo intervistato Natasha Khan di Bat for Lashes. C’è un mini-boom di cantanti “indie” al femminile (Isobel Campbell, Lykke Li, La Roux, …) che si ispirano a suoni del passato. Anche nel tuo lavoro c’è un remix di stili retrò. Ti senti connessa in qualche modo a quest’estetica? O sei più folk based? Mi piace la musica che mi piace [sic! Ndr] e ho dei gusti abastanza eterogenei. Mi piacciono le cose vecchie, anche il vestire abiti vecchi. Da bambina avevo un feeling per le cose old fashioned: mi sono sempre piaciuti i film in bianco e nero, mentre i miei coetanei si guardavano l’ultima novità da Blockbuster. Mi piace il senso di straniamento della vecchia Hollywood, i musical. Ho sempre amato la collezione di vecchi dischi di papà. Mi sembrano così romantici i tempi passati… Suonerai in Italia nel prossimo futuro? Quali sono i tuoi progetti? Lo spero. Ad agosto sarò in Europa con il tuor, ma non ho pianificato nulla per l’Italia [come al solito! Ndr]. Magari più avanti, quest’anno o l’inizio del prossimo, vedremo. Prossimamente ho un tour e qualche festival che mi aspettano nella mia Australia. www.sarahblasko.com
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HeCUBA INTERVISTA DI DOMENICO DI MAIO FOTO DI Lauren Dukoff
Hecuba sono Isabelle Albuquerque e Jon Beasley. Entrambi radicati alla cinematografia shi-fi, hanno iniziato ad emergere grazie alla creazione di colonne sonore per film di fantascienza. Il risultato del loro percorso artistico è un misto tra minimalismo, pop elettronico ed interpretazione teatrale, con atmosfere surreali ed evocative degne di una moderna ricostruzione della tragedia euripidea da cui traggono il nome.
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Banana: Salve ragazzi, presentatevi. Isabelle: Siamo Isabelle Albuquerque e Jon Beasley, qualcuno ci sonosce come Hecuba. Viviamo a Los Angeles ed è da poco uscito un nostro album chiamato Paradise. Stiamo anche girando un videoclip, magari sarà pronto per quando uscirà questa intervista. Raccontateci un po’ come vi siete incontrati, dov’è successo e com’è andata. Isabelle: Ci Siamo conosciuti a Brooklyn, NY. Jon stava girando un film basato sulla storia di una donna rapita dagli alieni e stava cercando una ragazza che potesse interpretarla. Voleva qualcuno non del tutto apposto e, aha!, ha trovato me. Abbiamo iniziato a lavorare sul film insieme in un palazzo disabitato di Manhattan. Collaborare è stato fantastico. Una volta finito il film abbiamo pensato che sarebbe stata una buona idea continuare a girare altro materiale e comporre musica per film di fantascienza. Quindi ci siamo trasferiti a Los Angeles, abbiamo iniziato a provare e proporre strani show per la città, a volte con dei ballerini, a volte con un koto [strumento a corde tipico della tradizione giapponese, Ndr], altre volte ancora usando delle trombe. Di lì a poco siamo arrivati al nostro primo EP Sir, uscito con l'etichetta Manimal Vinyl — Lucky Dragons ne ha fatto un remix pazzesco; poi ci siamo presi un anno per registrare l'album vero e proprio: un lavoro strutturato, denso, che contiene al suo interno diverse storie. Presto realizzeremo anche una serie di cortometraggi che accompagneranno l’album. Cercando sul web qualche vostro “biglietto da visita” mi sono imbattuto in pagine interminabili che riguardavano una tragedia greca di Euripide che risponde proprio al vostro nome, quella ispirita appunto ad Ecuba, moglie di Priamo. C’è per caso qualcosa all’interno della mitologia che fa da vena creativa alle vostre produzioni? Jon: È divertente che la cosa più bella riguardo ad Ecuba sia il fatto che ella affermi: «Fotti il mito, apri gli occhi e guarda le cose per quelle che sono realmente, altrimenti potresti ritrovarti in un luogo oscuro come quello in cui mi trovo io ora.» Magari non avrebbe detto proprio così, ma ci siamo capiti. La vita vera e le cose di ogni giorno sono ciò che condizionano e spingono le nostre produzioni. A volte penso ad Herzog e a quanto siano veri i suoi documentari e i suoi film.: “the ecstatic truth” come lo chiama lui. La vostra musica ha un forte potere evocativo, al punto che l’ascolto del disco risulta secondario rispetto alla performance live e, se devo essere sincero, anche solo a livello visivo la presenza scenica di Isabelle sembra indispensabile, forte di un magnetismo che rende
l’atmosfera decisamente surreale. Dove immaginereste quindi, in termini di luogo, un vostro show per poter essere al pieno della vostra espressività? Jon: Il sogno è andare in tour con i Rainbow Arabia [duo elettronico e sperimentale formato da Danny e Tiffany Preston, Ndr] in tutti i migliori cinema nel mondo ed ogni show dovrebbe essere ascoltato in Dolby Surround. Ma sarebbe bello anche suonare sulla Luna: non ci sarebbe gravità e tutti potrebbero ballare e muoversi come Michael Jackson. Hecuba è qualcosa che nasce da un progetto più profondo, Jon ha alle spalle un pò di lavoro in campo cinematografico e quello che ne è saltato fuori è una sorta di maturazione del tutto. Non è quindi corretto attribuire il merito del prodotto ad un punto di vista unicamente musicale? Isabelle: No, non del tutto. La musica è ciò con cui siamo realmente partiti, ma non è l’unica cosa con cui vogliamo interagire. Quel che oggi è musica domani potrebbe diventare cinema, scultura, ecc. Per farti capire: c’è un piccolo palazzo — a dire il vero ha più la forma di una scatola che di un edificio vero e proprio, a Sunset Boulevard in Echo Park, che Jon ed io sognamo di possedere un giorno. Lo chiamiamo Hecuba headquarters e tutte le cose usciranno da lì. Hecuba-lampadina, Hecuba-cuffie in Dolby Surround, Hecuba-questo, Hecuba-quello… A questo punto, dateci un po’ di nomi fondamentali per voi, in campo artistico e/o cinematografico. Jon: Iniziamo con i registi: Kubric, Tarkovsky, Disney e Chaplin. Sono i nostri supereroi. Tra gli artisti invece citiamo Kippenberger: ha sempre spaccato tutto. Quando e qual è stato il vero punto di svolta che vi ha concesso di produrre un album come Paradise? Jon: È divertente pensare che in relatà non ci sia mai stato un vero e proprio punto di svolta, come lo chiami tu; non abbiamo mai avuto un’opportunità così eclatante. Abbiamo sempre fatto un milione di strani lavori e vissuto in modo altrettanto strano che ci permetesse di poter stare alzati fino a tardi per comporre e lavorare sui pezzi. L’incontro con la Manimal Vinyl è stata la conseguenza naturale di un così duro lavoro e di tanti sacrifici; possiamo dire d’esserci presi la nostra opportunità da soli, come se fossimo una sorta di “ladruncoli d’occasioni”, lavorando e credendo in quel che facevamo, anche se la strada che stavamo percorrendo era un po’ fuori dai canoni contemporanei della musica per così dire indipendente. Quando incontrammo Paul, della Manimal Vinyl, ci eccitava il fatto che non fosse attaccato ad uno specifico tipo di musica o di estetica. Il
suo è un gusto eclettico e aperto e per noi questa è una cosa molto importante. Ha lanciato il nostro primo EP e il nostro ultimo album. Nonostante la sua sia una piccola etichetta, non è stato catturato dalla “trappola” dell'indie; vede le band in maniera molto profonda. Vedi ad esempio i Rainbow Arabia, o Warpaint, o We Are the World… suonare con loro è pazzesco. Qual è il concept dell’album e quali sono le influenze che hanno reso possibile questo vostro lavoro. Isabelle: Hecuba è il nostro primo progetto musicale insieme. Jon è stato in molte altre band. La meno degna di nota si chiamava Shadowpark, era una goth-band in cui cantava quando era ancora un ragazzino, a St. Louis. Tutti quanti la chiamavano Eyeshadowpark perché tutti i ragazzi avevano i volti completamente imbrattati di trucco. Le storie che girano sulle loro esibizioni sono sconcertanti, da non crederci. Mi sarebbe piaciuto esserci stata per rendermi conto di persona. Io invece, ancora prima di conoscere Jon, stavo lavorando ad un progetto chiamato Dolores The Diamond. Il nome l’avevo concepito sulla falsa riga di quello d’arte utilizzato da mia nonna quando era una band-leader e cantante in Tunisia, ovvero Smarda The Jewel. Avevo composto degli ottimi pezzi, notevoli direi. La hit che nessuno ha mai ascoltato parlava di me intenta a rubare bambini in giro per Manatthan. Il concept di quest album è mutato, e continua a cambiare. Tutti possiamo fare le cose, ma una volta messe al mondo bisogna cambiarle e sperare di continuare a cambiarle, lo diceva Yoko Ono in una grande intervista. Canzoni che si evolvono. Non credi che le canzoni discendano dalla scimmia!? Prova a pensarci. Ho letto che avete condiviso il palco con Bat For Lashes per qualche data americana. Tra l’altro siete “figli” della stessa etichetta. Natasha sta percorrendo un periodo indubbiamente brillante, deve essere stata un’esperienza di rilievo averla accompagnata per un po’. Jon: È stato assolutamente fantastico andare in tour con Bat For Lashes. Tutti gli show erano sold out con un pubblico incredibile ed entusiasta. Abbiamo vissuto dei momenti splendidi ed è stato sensazionale vedere Bat For Lashes suonare ogni sera: il suo show è una potenza. La voce di Natasha è qualcosa di indescrivibile e il modo in cui si espone è esemplare. Ci hanno davvero inspirato. Ben Cristophers è come un mago e la loro batterista Sarah Jones è la mia eroina: potrei ascoltarla suonare in loop per sempre. Grazie mille per tutto. Buona fortuna. Hecuba: Grazie a voi, e speriamo di vederci al più presto. www.hecubahecuba.com
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IOrI’S eYeS
Atmosfere straniere da arca di Noé e la ricerca di un porto franco e dolce dove depositare un carico di musiche davvero esplosive INTERVISTA DI CLAUDIA SELMI
Prima erano tre ma adesso sono due. Hanno accompagnato in tour i Blonde Redhead ancora prima di aver inciso un disco. E un disco a dire il vero non l’hanno ancora inciso. Ma è appena uscito l’EP “And everything fits in the yellow whale”, una mistura di sensazioni grigio-lilla e post-pop, che, però, non ha nessuna intenzione di scomparire tra le nebbie e le strade a Milano. E ora il microfono passa a loro: ecco a voi Iori’s Eyes. Banana: Chi sono e di che colore sono Iori’s Eyes? Clod: Iori’s Eyes sono due amici che si sono conosciuti al liceo, che suonavano in due gruppi differenti e che decisero, un giorno, di creare qualcosa assieme. Ha funzionato, e da allora continuano a “creare” assieme. Di che colore sono? Decisamente grigio-lilla (non pastello). Estate 2009. Cosa significa per gli Iori’s Eyes
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l’estate 2009? Come pensate di ricordarla se vi guarderete indietro tra qualche anno? Clod: È un’estate che vedrà nascere il nostro primo video ufficiale (il pezzo in questione è The Boat), diretto da Francesca De Isabella. Siamo molto eccitati all’idea. A fine agosto dovrebbe uscire ufficialmente l’EP. Si può dire dunque che è un’estate che dà le sue soddisfazioni. Siete giovanissimi. Quale periodo è stato particolarmente importante per voi finora, dal punto di vista personale e della formazione della vostra coscienza musicale? Sofia: Un periodo per me importante è stato l’inverno 2007, periodo in cui abbiamo suonato con i Blonde Redhead. Poter calcare lo stesso palco di un gruppo dei quali siamo super fan è stata un’esperienza che ci ha caricato molto, soprattutto se tieni conto che è stata la nostra quinta data in assoluto. Clod: Confermo, dal punto di vista personale
quel periodo ci ha fatto molto bene e lo ricordiamo come uno dei migliori. Per quanto riguarda la nostra formazione musicale, che però per noi è anche molto importante dal punto di vista personale, l’incontro con Federico Dragogna è stato illuminante. Lui è forse l’unica persona che musicalmente ci conosce al meglio e che ci ha fatto sviluppare al meglio le nostre potenzialità senza essere invadente. Quali sono gli esempi musicali, o non solo, che cercate di seguire? Perché? Cosa vi piace oltre la musica — ad esempio tra registi, fotografi, scrittori, ecc.? Clod: Non cerchiamo di seguire nessun filone musicale, lasciamo che le influenze ci guidino, senza stare troppo a pensare. Tanto poi, come dicevo appunto, le influenze esterne agiscono inconsciamente su quello che fai, non per forza bisogna decidere di seguire un determinato genere musicale o determinati gruppi per fare qualcosa
di proprio, quindi tanto vale non pensarci troppo e suonare. Mi piace molto la fotografia, nella mia ignoranza mi perdo in alcune fotografie. Trovo meraviglioso il fatto di poter vedere, anche solo per un attimo, con gli occhi di qualcun altro. Ultimamente Sofia mi ha fatto scoprire un fotografo bravissimo che si chiama Mike Brodie, anche se ora come ora a livello “emergente” ci sono due fotografe che hanno attirato la mia attenzione: Ilaria Covolan (che ha collaborato con noi più volte) e Iris Humm. Sono giovanissime e secondo me tra qualche anno sentiremo parlare di loro. Sofia: Io non mi sento solo una musicista e assorbo tutto ciò che mi piace e che trovo stimolante, dalla fotografia al cinema, alla musica. Quest’estate mi sono immersa totalmente nel cinema di “genere”; sono rimasta colpita da un film che si chiama Una casa alla fine del Mondo di Michael Mayer. Sempre su questo genere, un film che tratta le stesse tematiche, ovvero “genitori gay che non adottano i figli, ma li fanno”, è Baby Love di Vincent Garenq. Come nascono tecnicamente i vostri pezzi tra Clod, chitarra e voce, e Sofia, basso e tastiere? Quali bestie e orrori e odori e sapori avete infilato dentro la “balena gialla” del titolo del vostro EP And Everything Fits in the Yellow Whale? Clod: Ultimamente entrambi portiamo in sala idee, riff “fatti in casa” e poi li sviluppiamo assieme. Io a casa scrivo molto, ho il computer pieno di registrazioni, ma alla fine solo alcune cose decido di elaborarle. Nella balena ci abbiamo messo tante cose, tante situazioni diverse tra loro: paure, amori, speranze… Comunque sia, se gli Iori’s Eyes ti devono mettere davanti alla dura realtà (fortunatamente succede poco, i nostri testi per lo più parlano d’amore) lo fanno con tranquillità, senza spaventarti. Non serve a nulla urlare, le cose possono essere recepite anche con dolcezza, anzi, ”arrivano” meglio secondo noi. Poi sono punti di vista. Sofia: Sì, sono perfettamente d’accordo. La balena raccoglie tutto, è un simbolo molto rappresentativo per noi, è un contenitore perfetto per la nostra musica. Anche la balena probabilmente non si sente solo balena, come io non mi sento solo musicista. Avete un collaboratore/produttore artistico che è una sorpresa: Federico Dragogna dei Ministri — che ha cercato di sfilarvi un poco la vostra patina post-rock ritoccando il suono con dilatazioni di un rock artico ed arrangiamenti brillanti che sono un compromesso tra “l’orecchiabilità” e la ricercatezza, una sintesi affascinante tra il dream-pop e il lo-fi sussurrato. Cosa avete da dire a vostra discolpa? Sofia: Ci teniamo a precisare che la produzione non è stata seguita solo da Federico Dragogna ma anche da Alessio Camagni (Noise Factory): senza di lui And Everything Fits in the Yellow Whale non suonerebbe così. A nostra discolpa diciamo che comunque sia Iori’s Eyes nell’ultimo periodo sono cambiati (si parla già di quando eravamo ancora un trio). La gente si ricorda dei pezzi post rock perché erano gli unici presenti sul MySpace fino a due mesi fa, ma dal vivo era già da un po’ che “rodavamo” pezzi che col post-rock non centravano nulla, vedi Acustica e The Boat. Qualcosa stava cambiando e
sia Federico che Alessio con il sound di questo EP hanno sferrato il colpo finale: ci hanno aiutati a focalizzare i nostri punti forza che, vuoi per la nostra giovane età e per l’inesperienza, ogni tanto andavano perdendosi per strada.
colari, se non per noi stessi. Abbiamo degli obiettivi e vogliamo raggiungerli con la giusta calma. Abbiamo lavorato tanto per ottenere quello che abbiamo, che per altri può essere poco ma per noi è tantissimo, e continueremo a farlo.
È un miracolo che le vostre canzoni siano costruite su melodie così fragili senza caderci dentro. Credo che sia questa la vostra bellezza, un mistero di melodie sottili tra il post-rock, l’artpop e lo shoegaze. Vi sentireste parte di una nuova rinascita del post-rock? E se sì, come la chiamereste? Quanto contano i testi nel vostro caso, e nella visione che avete della musica? Che genere di testi vi piacciono? Clod: Come dicevo prima, il post-rock con noi non c’entra più molto, lo shoegaze magari sì, ma tratti, ripeto “a tratti”, però più nella dimensione live. Il post-rock non ha bisogno di rinascere perché non è morto, ci sono gruppi super fichi ora in giro che spaccano sempre e comunque: dai mostri sacri quali Mogwai, Explosions in the sky (non parlo degli Slint perché non so neanche se esistono più, si sciolgono e si rimettono assieme con la facilità con la quale io mi infilo i calzini la mattina), ma anche realtà meno conosciute, che però si stanno facendo spazio pian piano, come i This Will Destroy You e i Mono. Diciamocela tutta, il post rock noi lo vediamo come una realtà di nicchia perché in Italia non se la caga nessuno, ma se vai negli Stati Uniti o comunque anche in nord Europa, insomma se esci dall’Italia vedi che così di nicchia non è. Negli States impazziscono per il post-rock. Il problema è semplice: nel nostro Paese, a livello mediatico, di fruizione, non c’è spazio per queste realtà; è un peccato perché ai concerti degli Explosions e dei Mogwai qui in Italia ho visto i pienoni di gente. Per quanto riguarda noi Iori’s, direi che potremmo definirci “post-pop”, mi piace come accezione, anche se non so se esista. Per quanto riguarda i testi ti dico che sì, sono molto importanti. C’è molto di autobiografico in quello che scrivo (tranne in quello di I Said You and I Grow Old, per motivi che non sto a spiegare). C’è la mia visione delle cose che ci circondano: alcuni sono testi “apparentemente” criptici devo dire, ma sono nati così, niente di studiato, nella mia mente le cose girano come le scrivo. Sofia: Ad esempio, del testo di The Boat ho sentito dalla gente varie interpretazioni, ognuno ci si identifica in maniera diversa, per alcuni rispecchia la situazione dell’Italia in questo preciso periodo storico, altri ci vedono la fine di un amore. Penso che la criticità dei testi permetta una più facile immedesimazione e un trasporto maggiore nell’ascoltare la musica. Clod: Per quanto riguarda la tipologia di testi che mi piacciono direi che sono molto attratto dai testi semplici, diretti, che parlano d’amore principalmente, testi alla Emiliana Torrini per esempio: li trovo espressivi e delicati al punto giusto.
In cosa riuscite meglio, a parte la musica? Cosa avete attaccato ai muri in camera? Clod: A me piace molto giocare a basket, e sono parecchio dotato devo dire, ma non ho la maglia di O’Neal appesa in camera purtroppo. Con una mia amica (ovvero la Francesca De Isabella citata prima) ho anche tirato su un progetto che prende il nome di ZTA Production: si tratta di videomaking (ma non semplici videoclip) per band emergenti e non. Il progetto è appena partito ed è molto carino. Sofia: Nel tempo libero io fotografo con una macchina degli anni ’60 che apparteneva al mio gran nonno. Sono una dilettante, ma gli ultimi scatti mi stanno dando grande soddisfazione e la cosa che mi diverte di più è l’essere autorizzata ad immortalare momenti che altre persone vivono.
Siete una proposta musicale davvero unica nel genere, tra i gruppi emergenti italiani in circolazione sicuramente uno dei migliori. Quali rivoluzioni avete in mente per il futuro? Clod: Grazie mille del complimento innanzitutto. Beh, non abbiamo in mente rivoluzioni parti-
Qual è tra le quattro dell’EP la vostra canzone più sofferta e quella che invece è stata partorita senza particolari dolori? Quella di cui siete più fieri? Clod: Nessuna è stata partorita con particolare difficoltà rispetto ad un’altra, anche perché i nostri pezzi nascono rispettivamente nelle nostre case quando siamo “ispirati”, se si può dire così, quindi nascono in determinati momenti e con naturalezza. Io personalmente adoro As Always, è così semplice ma allo stesso esercita un enorme peso psicologico su di me. Sofia: La mia preferita è The Boat, è un pezzo al quale sono particolarmente affezionata perché mi ricorda la sensazione precisa e lo stato d’animo dell’autunno passato, e mi fa ricordare di quando facevamo le prove nel box sotto casa mia. La vostra canzone o il vostro album preferito in assoluto? Clod: Il mio disco preferito di tutti i tempi è il White Album dei Beatles. Ora come ora mi piace molto Lovetune for Vacuum di Soap & Skin: pelle d’oca quando lo ascolto. Sofia: Album preferito di sempre non saprei, ce ne sono molti che mi piacciono moltissimo, non ne ho uno in particolare. Da un anno ormai coltivo un amore esagerato per il primo album di Chris Garneau, Music for Tourists. Una canzone che invece mi prende e che riesce a commuovermi in qualsiasi momento è The Greatest di Cat Power. Qual è una domanda che vorreste vi venisse fatta e puntualmente manca? E cosa rispondete? Clod: Domanda: Come vi immaginate da vecchi? Risposta: In un agriturismo in Toscana a strimpellare con una vecchia chitarra acustica e ad allevare terranova (non sto scherzando); sono cani per i quali vado fuori di testa e mi piacerebbe avere un allevamento un giorno. Sono scelte. Sofia: Persa in un orto botanico a coltivare fiori. E ho detto tutto. myspace.com/ioriseyes
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BACK’N’ROLL
1 luglio 1979, LA FINE DI UN’EPOCA LEGGENDARIA Un bianco che si schiera con i neri, che vuole sghettizzare la loro musica e portarla al successo che merita. Sam Philips non si lascia demoralizzare da chi gli sconsiglia il grande passo e nel 1952 fonda a Menphis la Sun Records, etichetta che lancerà Ike Turner, Junior Parker, Jerry Lee Lewis, Roy Orbison, Carl Perkins, Charlie Rich, Johnny Cash, solo per citarne alcuni. Avvocato mancato e disc-jockey dell’Alabama, nel 1951 produce Rocket 88 di Jackie Brenston e Ike Turner, che in poco tempo entra nella classifica dei dischi più venduti. Arrivano i primi soldi e, pochi anni dopo, la fortunata intuizione: un ragazzotto bianco varca le porte dei suoi studi per realizzare un disco da regalare a sua madre per il compleanno. È Elvis Presley e Sam ne scorge subito le potenzialità. Sono anni d’oro per l’etichetta di Menphis e per il suo fondatore che non smette di lanciare grandi successi. Il rock’n roll agli inizi degli anni Settanta comincia però a subire l’ondata beat e dopo l’iniziale tenacia, Sun firma l’atto di vendita, segnando la fine della leggenda. 3 luglio 1999, LA BARITONO EXPERIENCE PERDE LA SUA ANIMA PULSANTE Muore oggi Mark Sandman, leader di una delle band più innovative degli anni ’90, i Morphine. I fan accorsi a Prenestina se lo vedono morire davanti agli occhi, stroncato da un infarto sul palco del piccolo paese sui colli romani. Quarantasette anni e un passato fulminante da rocker cupo e delirante: Good (Rykodisc, 1992), Cure For Pain (Rykodisc, 1993), Yes (Rykodisc, 1995) i dischi che hanno segnato un decennio. Audaci (formazione a tre, senza chitarra, basso a due corde suonato dal cantante) e malinconici (la voce di Sandman profuma di Nick Cave), i Morphine creano una nuova forma di rock fatta di composizioni solo in apparenza semplici e lineari, che in realtà danno vita un sound nuovo e personalissimo. Finisce così dopo soli sette anni dall’uscita del disco d’esordio la baritono experience, come amava definirla Sandman, che ha dedicato la sua vita “a dare la caccia a quel sound che ci fa dannare da quando siamo nati” (cit. Sandman) 3 luglio 1969, BRIAN JONES: UN ALTRO NOME DA AGGIUNGERE ALLA SCIAGUR ATA LISTA “J27” “Morte accidentale dovuta a casualità” la notizia diffusa dal coroner, ma non si liquida così la morte del chitarrista degli Stones, nonché vera anima dannata del gruppo. Sull’accaduto esistono decine di versioni, si sono ipotizzati intrighi, c’è chi ha portato avanti le indagini arrivando a inedite ricostruzioni dei fatti e chi , presente alla festa quella notte, ha deciso negli anni di vendere scottanti rivelazioni (N.Fitzgerald, Brian Jones: the Inside Story of the Original Rolling Stone). Siamo a Hartfield (Sussex, Inghilterra) e la mattina del 3 luglio, sul fondo della piscina della sua villa, viene ritrovato il corpo senza vita di Brian Jones, icona del rocker dannato on the road. Uno stupido gioco di apnea lo tiene sott’acqua per troppo tempo e alcuni dettagli si sono rivelati certi: non è solo quella notte, è strafatto e nessuno si accorge di nulla. Ha ventisette anni e come Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, il suo nome ha una “J” di troppo. 15 luglio 1989, “PINK FLOYD A VENEZIA: LO SHOW DEL SECOLO” Chi sarebbe disposto a sacrificare un ventennio della sua giovinezza per un salto nel passato? Direzione: laguna veneziana. Perché? Il concerto dei Pink Floyd, of course. Una band che ha scritto e continua a influenzare la storia della musica. Un palco galleggiante. Una città in panico, una folla di oltre 200.000 mila persone impazzite, disposte a rischiare la vita in arrampicamenti no-limits pur di godersi lo show. Fa il suo ingresso David Gillmour e dopo di lui un’astronave che proietta luci in tutta la laguna. Gli effetti speciali sono incredibili, il megaimpianto e il maxischermo fanno il resto. E poi musica, di quella che spacca, di quella che ti scorre dentro, pelle d’oca. Wish you were here viene cantata in coro da migliaia di giovani venuti da mezzo mondo, con le magliette “Live in Venice” (chi c’era conferma) dipinte e sudate, capelli lunghi e nuvole di joints fumati per tuffarsi senza freni nella dimensione psichedelica per eccellenza. Io un pensierino lo farei… 17 luglio 1959, MUORE LADY DAY Questo il nome che aveva scelto per lei Lester Young, suo grande amore scomparso qualche mese prima quel tragico 17 luglio 1959, il giorno in cui Billie Holiday viene trovata morta su un letto d’ospedale a New York. Un’esistenza travagliata, una depressione sempre latente peggiorata dall’abuso di alcool e droghe, una genialità musicale senza eguali: all’anagrafe Eleanora Fagan Gough è considerata senza riserve la più grande cantante di jazz di sempre. A diciotto anni, esasperata dalle sue condizioni di vita, decide di tentare la fortuna con il canto e comincia a esibirsi nei locali del quartiere di Harlem. Una voce simile non poteva passare inosservata e in poco tempo viene scritturata da John Hammond, che prima la fa entrare nell’orchestra del re dello swing Benny Goodman, poi in quella di Count Basie nel 1935. Arrivano poi gli anni degli importanti contratti con la Decca e di grandi successi come Don’t Explain, God Bless the Child, Lover Man, You’re My Thrill. Indimenticabile la sua interpretazione di Strange Fruit, brano antirazzista di Lewis Allan. Una fragilità travolgente e irresistibile.
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A cura di Martina Arzenton
9 agosto 1969 , LA MENTE OSCUR A DEL PEACE&LOVE. CHARLES MANSON (Cincinnati, 12 novembre 1934) A pochi giorni dalla tre giorni di pace e amore, ha luogo uno degli omicidi più efferati della storia degli Stati Uniti. Raffinato quartiere Cielo Drive, Beverly Hills: i corpi di Sharon Tate (moglie di Roman Polanski) e di altri quattro amici, che si trovano con lei nella villa, vengono trovati massacrati e brutalmente deturpati. Sulle pareti, scritti con il sangue delle vittime, una parola “PIGS” e un inno Helter Skelter (titolo di una canzone dei Beatles). La Manson Family ha colpito ancora e questa volta la violenza è esplosa in tutta la sua efferatezza. Mente e predicatore della cerchia Charles Manson, musicista mancato, figlio di una prostituta, senza un padre certo, arrestato più volte per furti e rapine. Il suo furgone nero carico di giovani scappati di casa, attratti dal suo diabolico carisma, dal razzismo estremo profetizzato e dal quotidiano rifornimento di droga (LSD in primis), si aggira da tempo per le vie di San Francisco, in piena Summer of Love. Ritenuti colpevoli di questo e altri omicidi, in seguito all’abolizione della pena capitale in California, dal 1974 sono rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Corcoran, 280 km a nordovest di Los Angeles. 15 agosto 1969, DOPO TENCO E GUCCINI, L’ITALIA CENSUR A JE T’AIME MOI NON PLUS Ai primi posti della Hit Parade radiofonica, grande successo europeo, ma in Italia di Je T’Aime Moi Non Plus non vi è traccia. Censurata dalla RAI e depennata dalle classifiche, viene considerata troppo spregiudicata e non adatta alle pudiche orecchie italiane… Troppi sospiri, gemiti peccaminosi, si grida allo scandalo e scatta la censura. Serge Gainsbourg duetta in questo brano con una splendida e disinibita Jane Birkin, che risponde alle strofe con mugolii ammiccanti e provocatori, contagiata dal clima libertino che aleggia alle porte degli anni Settanta. Ma l’artista francese non è nuovo, né si sottrarrà a questo genere di provocazioni: durante uno show televisivo brucia in diretta una banconota da 500 franchi, proibito per legge e in Inghilterra dichiara senza mezzi termini di volersi portare a letto Whitney Houston alla fine della trasmissione. 15 - 16 - 17 agosto 1969, Woodstock Festival. Come arrivare: Woodstock, fattoria di Bethel, un’ora e mezza a nord di New York venerdì 15 agosto, PROGR AMMA: Friday is the folk-music night. Joan Baez A tarda notte Joan Baez culla gli ultimi rimasti sotto il palco. È dolce, rabbiosa, aggraziata e quel pancione che sostiene la chitarra è una cornice. La sua carriera artistica è cominciata dieci anni prima, sul palco del Newport Folk Festival, seguita dall’incisione dell’album Joan Baez (Vanguard Records, 1960) raccolta di ballate folk e blues per sola voce e chitarra. Nella vita, come nei suoi testi, sostiene fin dagli esordi cause per la difesa dei diritti civili e in favore di una politica estera pacifista. È in prima linea nelle contestazioni contro la guerra in Vietnam. Duetta con un ancora poco conosciuto Bob Dylan e cavalca a pieno l’ondata folk revival americana di cui è una delle massime esponenti. We shall over come (di Pete Seeger) canta a Woodstock e inneggerà nel 1963 accanto a Martin Luther King nella Marcia per i Diritti Civili di Washington. sabato 16 agosto, PROGR AMMA: Janis Joplin & The Kozmic Blues Band Non può certo mancare all’evento, la voce graffiante e viscerale del blues, la donna inquieta, dall’esistenza folgorante: Janis Joplin, la vera regina della Summer Of Love, accompagnata dalla sua nuova band The Kozmic Blues Band. Dopo il trionfo al Monterey Pop Festival (giugno del 1967), dove eseguì un’indimenticabile versione del brano Ball and Chain di Big Mama Thornton, si presenta sul palco di Woodstock perfetta nella sua nuova veste da solista, abbandonata la band Big Brother and the Holding Company, con la quale aveva registrato Cheap Thrills (Columbia, 1968). Ora è lei la vera e indiscussa protagonista. domenica 17 agosto (esibizione slittata alle 8:00 del 18 agosto), PROGR AMMA: Jimi Hendrix - Gypsy Sun and R ainbows Sono circa le otto del mattino quando Jimi impugna la sua Fender e finalmente sale sul palco. Un mega ritardo sull’headliner fa slittare l’esibizione prevista per la serata di domenica e a godersi lo spettacolo sono poco meno di 30.000 persone completamente estasiate (sul mezzo milione di presenze dei giorni prima). Ed è subito un vortice, Foxy Lady, Voodoo Chile, Purple Haze e nel finale una versione acidissima e vertiginosa dell’inno americano, Star Splanged. Rabbia, disapprovazione, la lucida presa di coscienza di migliaia di giovani accorsi da ogni parte del mondo vengono incarnati dallo zingaro elettrico, che sul quel palco diventa l’emblema assoluto del rock. Genio sregolato e consapevole, inarrivabile… Quando di tratta di lui non serve dilungarsi, solo due parole: Jimi Hendrix.
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LIBRI
Italo Calvino
Dino Buzzati
Gli amori difficili
Un amore
Mondadori, 1993 Pagine 264, € 9,00
Mondadori, 1963 Pagine 270, € 7,80
Alla fine della lettura di queste pagine, si ha l’impressione che i quindici racconti raccolti in esse, suddivisi in due parti distinte (Gli amori difficili e La vita difficile), siano delle piccole favole, nonostante gli ultimi due siano dei racconti lunghi, delle favole per lo più metropolitane nelle quali a fare da protagonista principale è l’incomunicabilità dei sentimenti tra donna e uomo, l’impossibilità di poter comunicare all’altra/o quello che si prova davvero. L’amore è, pertanto, quello non realizzato o già conclusosi, quello che, nella sua inadempienza, tuttavia si realizza e si manifesta in maniera più tangibile che mai, come avviene ad esempio ne L’avventura di un impiegato: “[…] e lui era già nella tensione dei loro giorni insieme, nell’affannosa guerra delle ore, e capiva che non sarebbe riuscito a dirle nulla di quel che era stata per lui quella notte, che già sentiva svanire, come ogni perfetta notte d’amore, al dirompere crudele dei giorni”. Altre volte, come ne L’avventura di due sposi (che ha pure ispirato un episodio cinematografico di Mario Monicelli), la difficoltà di due vite separate da orari di lavoro discordanti diventa il motivo per una coppia di giovani coniugi per assaporare e condividere la preziosità e la tenerezza dei pochi momenti che possono passare insieme. Questa di Calvino è, quindi, una sorta di antologia dell’amore nella quale le voci che la compongono sono esposte attraverso situazioni esemplari, con una maestria e una sensibilità rare.
Forse non è certo il libro più conosciuto tra quelli della vasta produzione dello scrittore bellunese, noto più che altro per Il deserto dei Tartari oppure per Il segreto del Bosco Vecchio. Non per questo le sue pagine sono prive di sorprese, anzi. Un amore si scosta bruscamente dai romanzi e dai numerosi racconti precedenti di Dino Buzzati e va scandagliare gli aspetti più bui del sentimento per eccellenza: l’amore, appunto. La vicenda dai tratti fortemente autobiografici – Buzzati stesso scrive di aver conosciuto l’amore vero soltanto a cinquantacinque anni, dopo l’incontro con la ventenne Almerina Antoniazzi, sua futura moglie – vede come protagonisti da un lato Antonio Dorigo, affermato e benestante architetto milanese non più così giovane ma, tuttavia, ancora illuso che un sentimento vero possa ogni cosa; dall’altra parte c’è invece Laide, una giovanissima puttana che approfitta senza rimorso delle attenzioni quasi maniacali e ossessive rivoltele dall’ingenuo amante, una figura di donna che racchiude in sé aspetti contrastanti che la rendono, proprio per questo, attraente e affascinante. Fa da sfondo la Milano degli anni ’60 del boom economico la quale diventa un vero e proprio paesaggio del sentimento, un labirinto dai toni cupi e minacciosi attraverso i cui meandri si dipana una tragedia che, nonostante gli anni trascorsi dalla pubblicazione, è ancora oggi toccante e attuale.
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A cura di Alessandro Simonato
Raymond Carver
Roland Barthes
Principianti
Frammenti di un discorso amoroso
Einaudi, 2009 Pagine 289, € 19,00
Einaudi, 2005 Pagine 258, € 10,00
Qui in Italia era uscito per la prima volta nel 1987 con il titolo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore mentre negli Stati Uniti era stato pubblicato sei anni prima (Robert Altman ne rimase impressionato al punto che ne trasse ispirazione per America Oggi). Quest’anno Einaudi, che ha in programma la ripubblicazione di tutte le opere narrative di Raymond Carver , pubblica nuovamente questa raccolta di racconti con il suo titolo originale e senza i pesanti tagli voluti originariamente dall’editor Gordon Lish. Si scopre una scrittura molto più ricca ma mai stucchevole, di molto lontana dall’etichetta alquanto stretta di minimalismo letterario con la quale spesso è stata inquadrata dalla critica. Diciasette quadri uno in fila all’altro, diciassette storie che immortalano le esistenze di altrettante coppie in momenti cruciali delle loro esistenze, attimi che tuttavia appartengono alla vita di tutti i giorni di un’America lontana dai fasti e dagli eccessi delle sue metropoli. Sono persone comuni, che stanno imparando o che non hanno mai imparato (dipende dal punto in cui si trovano avanti con gli anni) come gestire i propri sentimenti ma che, nonostante ciò, ci provano in tutti i modi, come dei principianti, appunto. In ogni racconto avviene una lenta esplosione che trova il suo culmine verso le ultime righe, una miscela che ha il gusto amaro della sconfitta e dell’ineluttabilità dell’errore.
Tutti ne hanno o ne hanno avuto a che fare, presto o tardi: è inevitabile e bisogna farci i conti. Ma che cos’è l’amor? Ci hanno provato e ci provano in tanti da sempre a capirlo, a scriverlo, a dipingerlo. Tutte queste voci, tutti queste tessere disseminate nel corso dei secoli nelle opere di scrittori, filosofi, pensatori e musicisti sembrano costituire un discorso discontinuo ma, tuttavia, sostanzioso e presente, oltre che attuale, un discorso a proposito dell’amore. Come tutti i discorsi, anche quello amoroso è composto da un glossario di termini caratteristici che vengono analizzati con precisione degna di un chirurgo da Roland Barthes: abbraccio, angoscia, annullamento, assenza, corpo, cuore, gelosia, rimpianto, scenata e tenerezza sono soltanto alcune delle voci presenti in questo volume. Come ha scritto Pier Vittorio Tondelli “non si tratta di un manuale: non vi dirà come comportarvi né che cosa fare per togliervi dall’affanno e dall’ingombro di un abbandono. […] Roland Barthes vi darà uno specchio bellissimo per riflettere, pensare, decidere, paragonare la vostra storia a quella di Werther o a un haiku giapponese; vi darà un respiro più ampio in cui emettere il vostro rantolo e, improvvisamente, la coscienza del vostro amore si rafforzerà”.
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DISCHI
Plastik Fantastik Summer Innesti sintetici a 8 bit per party sotto l’ombrellone Aspettando il nuovo disco del moloch Daft Punk di cui si vocifera da troppi mesi, restiamo nel pianeta cartoon e ci facciamo travolgere dalla plastica del pop. Cavalcare ancora l'onda 80 è ormai cosa per pochi lupi che rinnovano il pelo e non si sognano di perdere il vizio del sound sciccoso. Il dubstep si gira al ragga, la minimal si frantuma e guarda alla techno... e il so called retrofuturismo? Sempre più poshy e convinto del suo verbo va spocchiosamente incontro al pop, lo incarna, lo possiede e lo fa suo. I segnali sono molteplici: le campagne miliardarie della Ray Ban che ci impone il sorriso dei suoi occhialoni colorati con il mantra Never Hide, quel ritorno ai “colori colori” nella passerella da strada e tanti accessori che credevamo obsoleti ma che in realtà rendono il pianeta 80 sempre più “nau”. In più — ovviamente, la musica. Vediamocela.
Il Re Felice Il dragone che salta di nuovo sulla baracca delle console in acido è Felix Da Housecat. Se con il suo Kittenz & The Glitz aveva scardinato il suono degli anni ’00 (rivelando tra l’altro il talento di una fanciulla smaliziata del calibro di Miss Kittin), oggi si autogasa con il suo nuovo He Was King. In copertina solo il suo faccione, come a dire: il suono sono io, e il resto (forse) non conta. Nei suoi ultimi mix (tra cui uno dedicato alla città di Milano per Global Underground) avevamo sentito qualche glitch che tempestava le sonorità di acido; oggi il gattone si ripulisce delle ferite corrosive passando al pop. Il due volte nominato Grammy ci spara in faccia una sequenza che ha nelle vene il motore di Detroit e i synth di The Hacker. Un binomio che oggi fa pop chic, ma che nel contempo ti spara dei bassi in acido (Kickdrum), delle cavalcate moroderiane (Do We Move Your World) e dei synth 90 trompe l’oreille. In più, visto che l’uomo si ricorda di essere stato giovane, si mette a far gara con i campioncini del suono italo maranza thebloodybeetrootscrookers: Elvi$ e la sua progressione, LA Ravers e la sua sfacciataggine pompata da filtri in espansione Daft. Insomma, starà invecchiando, avrà abdicato, ma un pezzo del trono è sempre suo. Buon vecchio gatto da balera.
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The Art of Partying Quelle magliette che fanno scena, quegli uccellacci che piangono o quelle tettone così cartonate che ti fanno sorridere. Se n’era parlato molto tempo fa di Parra. Sapevamo che avesse anche un gruppo. Le Le appunto. E oggi ti pianta in testa una lastra di marmo. Marble, un piccolo EP che raccoglie sei tracce e ti spara dell’acido in bocca. Meno di mezz’ora e sei già in tour con le sue visioni. Duch-ghetto-tech insieme ai compagni Fabergé e Vumani per dancefloor al neon plissettati e uberfescion. Art of partying che rivanga nel passato ma che ostenta sicurezza e si stacca con queste mosse abili da citazionismi che non reggono il tempo. Sarà che ci piacciono i suoi manifesti, sarà che ogni tanto abbiamo bisogno di un cocktail pesante, ma questi Le Le sono la riposta che fa risuscitare (almeno per quest’estate) il (ri)tocco francese. Vie lattee da bere Confermare le derivazioni ’80 con un’eccezione: Joakim. Il francesino che viene dalla deep, che sguazzava nel remixaggio di casa Kitzuné e che oggi, visto che c’ha quattro soldi si mette a fare musica suonata. Ed è la svolta. Nel puro senso rock suona alive e non lo riconosci più. Sì, perché ci sono ancora degli ingredienti nella sua proposta che richiamano le
A cura di Marco Braggion
leggende french touch: i riff disco à la Lindstrøm e quei ricordi plastificati in salsa Depeche Mode Ottanta. Ma sono solo décor. Il grosso sta nella svolta suonata, nel calcare il palco, e nel contempo presenziare la francesità incarnata nella capitale con la Tour Eiffel. Muoversi dal centro del ritmo pur restando fermi. In barba alle mode, in barba alle compilation, lui ci prova con un’album interlocutorio e deviante. Milky Ways, come a dire che guardare alle stelle del krautrock non è più un difetto. Anzi, lo spostamento verso la motoricità dei ’70 probabilmente salverà i parrucconi alla corte del Re Sole. E quindi per far stare in piedi un’estetica ormai votata allo stucco, ci vogliono personaggi del calibro di Joakim. Pronti a rischiare il flop, ma consapevoli di averci provato. A cavallo di un tappeto volante oltre le stelle. Costellazioni e trip assicurati, tra lounge à la Stereolab e funk bianco che più bianco non si può. Vale il biglietto. La rossa L’immagine è offuscata dal barocchismo della banana più rossa che mai. E la patina non è solo esteriore. La patina è l’essenza. Ricoperta di gel la ragazza La Roux è lì sul pezzo, la senti che ti parla con quella voce che è un po’ Kylie un po’ tempo delle mele, un po’ adolescente da classifica un po’
figlia di mignotta italo (la Ciccone degli esordi, tanto per intenderci). Ma non sai staccarti dalla sua seduzione fatta dei soliti ingredienti: il rossetto del pop che ti lascia le sbavature sulle paillettes della camicia, il neon che ti fa male agli occhi e che ti resta impresso nella retina dei timpani, con quei ritornelli urlati a squarciagola, quelle tastierine che credevi un gioco innocente. La Roux è la Salerno di oggi. Senza le magliette bagnate, senza sesso, senza boys ma androgina al punto giusto. Il trucco è lì: quel vedononvedo sentononsento che ti fa schiacciare il repeat per cercare i rimandi. E mentre sei lì che cerchi, ti accorgi che lei ti ha fottuto: quelle 12 canzoni sono solo sue e tu le hai già imparate a memoria. Adesso non ti resta che cercare il prossimo concerto vicino a casa. Lei è il David Bowie che ti imprigiona nel suo Labyrinth. E tu ci sei cascato, come uno sciocco, intrappolato nella nostalgia di quegli ’80 così Gazebo, così lunatici, così perfetti. Come una bolla di sapone. Che basta un soffio e non c’è più. Ah, la perfezione della leggerezza…
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Klaatu, Barada, Nikto! (Helen Benson)
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Si diceva DI ALBERTO CAPRA ILLUSTRAZIONE DI DIEGO SOPRANA
Si diceva: tutti sono dj e tutti sono fotografi. Dimenticavo: tutti hanno una biografia. Non so se ci avete fatto caso anche voi ultimamente, ma letteralmente chiunque — indipendentemente da cosa faccia nella sua vita e da quale utilità la sua esistenza rivesta per il genere umano — è descritto (si descrive) in una breve biografia, rigorosamente auto prodotta e scritta in terza persona singolare. Chiunque abbia svolto la benché minima attività che sia possibile ricordare ha deciso che l’intero resto del mondo è assolutamente interessato a conoscerne ogni minimo dettaglio. Myspace, con il suo campo “Chi sono”, ha fornito il destro ad un esercito di grafomani esibizionisti per poter raccontare, con dovizia di particolari, informazioni di cui avremmo fatto volentieri a meno per il resto della nostra vita. Facebook, grazie a Dio, ce ne sta scampando, ma la frittata ormai è fatta ed ogni scusa è buona per sentirsi sbrodolare addosso descrizioni di vicissitudini in realtà comunissime, da parte di persone che vorrebbero sentirsi tanto speciali. Non tutti devono essere necessariamente popolari, non tutti (giustamente) hanno fatto (o ancora avuto il tempo di fare) qualcosa che sia veramente interessante e di cui abbia un senso dare comunicazione all’esterno, non tutti. La cosa non è affatto chiara a molte persone che manifestano tutto il loro disperato bisogno di sentirsi qualcuno (e pur, in questo, uguali agli altri) in questo tipo di descrizioni. Il sempre più labile confine che separa il mondo dell’entertainment dalla vita di tutti i giorni ha assottigliato le differenze di abitudini ed esigenze tra chi “appare” per professione e chi tenta di farlo per emulazione. La cronica riproposizione di modelli reputati vincenti unicamente in quanto popolari, ha fomentato il desiderio di notorietà. E ne parlo rivolgendomi ad un pubblico che ben familiarizza con il concetto di poseur — sbocco — e con la
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fama di persone che nella loro vita non hanno mai fatto nulla a parte bere e farsi fotografare in ogni fottuta discoteca del nord Italia — famosi perché famosi, insomma. In preda a quella stessa necessità di rispecchiarsi in modelli pre-confezionati che porta pasciuti impiegati ad indossare magliette aderenti e giovani donne imbarazzanti shorts inguinali — evereybody wants to be a tronista —, giovani teenager in fissa con gli Ed Banger e piccole ragazze-myspace costantemente riprese dall’alto (e con i piedi storti) si producono in interminabili descrizioni di sé, dei loro studi e del come/dove/quando si siano appassionati alla musica, alla moda e alla fotografia. Per cui, se Montale di sé scriveva soltanto: “Montale Eugenio. È nato a Genova il 12 ottobre 1906 e risiede a Milano. Dottore in lettere, giornalista, scrittore, poeta, premio Nobel per la letteratura nel 1975” e, cazzo, aveva vinto il Nobel, per la vita di un giovane dj di neanche venti anni potrà capitarvi di imbattervi in infinite descrizioni, riguardanti ogni più piccolo ed insignificante aspetto della sua vita. E poi anche sta cosa di parlare di sé in terza persona…“Alberto Capra nasce a Verona, il 10 maggio 1984…”, chi cazzo sei, il Papa? Io sono nato, ho fatto, sono andato. Recuperiamo il valore della sobrietà, il gusto dell’essenziale: riscopriamo il gusto di conoscerci senza spiattellarci in faccia ogni informazione possibile ed immaginabile che ci riguardi. A posto così, insomma. Basta biografie. Datevi alla scrittura di racconti o poesie. Voi donne continuate a fotografarvi, invece. Meno piedi storti, più nudità. Voi tutti uscite di casa, indossate una camicia per andare in spiaggia — oh yes, una camicia — e godetevi l’estate. In redazione la odiano tutti e nessuno ha voluto menzionarla esplicitamente in questo numero. Io sono un dissidente: abbronzatevi e a portatevi Banana sotto l’ombrellone. Ci si vede quando i bambini tornano a scuola.