Conversazioni sulla ceramica

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IN BANCA DEL TEMPO SI SCAMBIA

DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA a cura di Franco Cocchi

1 LE TERRECOTTE DI MARSCIANO: ORIGINI ANTICHE E UN MUSEO RECENTE (VISITA GUIDATA AL MUSEO DELLE TERRECOTTE) 2 SAN MICHELE TRAFUGATO [LA MATTONELLA DI ROTECASTELLO E ALTRE OPERE SCOMPARSE ] 3 BRAJO FUSO: UNA CERTA IDEA DELLA CERAMICA 4 CON GRAZIA [STORIA E ATTUALITÀ DELLA FABBRICA GRAZIA DI DERUTA] 5 L’UMBRIA CERAMICA DEL NOVECENTO (1) 6 L’UMBRIA CERAMICA DEL NOVECENTO (2) 7 DERUTA E GUBBIO QUESTIONE DI LUSTRO 8 TERRE COTTE E LATERIZI DI MARSCIANO E DINTORNI 9 AL TEMPO DI PERUGINO 10 DERUTA E LA CRISI DEL SEICENTO 11 ECCO S ’AVANZA UNO STRANO ARTISTA (R-EVOLUTION )

con (in ordine di apparizione) Giulio Busti, Clarissa Sirci, Ubaldo Grazia, Marinella Caputo, Alberto Satolli, Stefano Bottini, Ettore Sannipoli, Rosaria Catana, Clara Menganna, Luca Pesante, Nicola Boccini, Rita Miranda, Luca Leandri, Marino Moretti, Maurizio Tittarelli Rubboli, DAL 9 NOVEMBRE PRESSO LA SALA CAPITINI A MARSCIANO , TUTTI I VENERDI ’ ALLE ORE 20,30 IL PRIMO INCONTRO SI SVOLGERA ’ PRESSO IL MUSEO DINAMICO DEL LATERIZIO E DELLE TERRECOTTE DI MARSCIANO INFO : 346 70 51 214 BDTMARSCIANO@GMAIL.COM


9 novembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

LE TERRECOTTE DI MARSCIANO ORIGINI ANTICHE E UN MUSEO RECENTE (VISITA GUIDATA AL MUSEO DELLE TERRECOTTE)

Indicizzato fra i musei tematici del sistema museale umbro, il Museo Dinamico del Laterizio e delle Terrecotte del Comune di Marsciano è stato inaugurato nel 2004 nella sede del palazzo Pietromarchi, parte dell’antico castello della città. Il Museo contiene una campionatura di laterizi di produzione locale (ca.50 opere), una raccolta di terrecotte invetriate popolari (ca. 150 opere), una collezione di sculture e disegni di Antonio Ranocchia (Marsciano, 1915-1989) e una Madonna in trono con Bambino e santi di scuola umbra tardo rinascimentale. Nel deposito, non visitabile, sono conservate circa 100 terrecotte. La sezione dedicata alle terrecotte è giustificata da un’antica e significativa presenza locale di vasai, testimoniata fin dal XV secolo e proseguita con una certa consistenza fino all’Ottocento fino ad esaurirsi nella seconda metà del secolo scorso. La raccolta di manufatti, promossa dal Comune di Marsciano nell’imminenza dell’inaugurazione del Museo, ha seguito criteri eterogenei nel tentativo di documentare la produzione regionale e le diverse tipologie produttive. L’esposizione, ordinata da Giulio Busti e Franco Cocchi, si sviluppa al secondo piano del museo secondo un percorso espositivo tematico distribuito in: -Sala del Camino: dove è allestita una mensa ottocentesca e comprende terrecotte da mensa (piatti, vaselle, zuppiere) e di altro uso domestico (scaldini, bracieri) dalla fine del XIX alla metà del XX secolo. -Galleria degli Orci: espone grandi contenitori per uso agricolo destinati alla conservazione di derrate alimentari, olio e vino (orci) alcuni datati e di particolare pregio artistico perché ornati con plastiche a rilievo e provenienti dalla fornace Coppoli (poi Vincenti) di Sant’Enea. -Sala delle Pignatte: espone contenitori “da fuoco” destinati, cioè, alla cottura dei cibi (pentole, tegami, leccarde) o di riscaldamento domestico (scaldini, bracieri). -Sala delle Brocche: espone contenitori “da acqua” (brocche, bottiglie, vaselle e altri versatori) destinati al trasporto e alla mescita di liquidi quali acqua, vino e olio, per uso mercantile e domestico, o destinati ad uso di cucina (colaerba e colapasta) o per lavaggi (tinozze). -Bottega del vasaio: sala didattica dove è allestita una rappresentazione sintetica dei processi di lavorazione della ceramica, la “ferratura” delle terrecotte da fuoco ed è esposto un antico tornio a ruota proveniente dall’ultimo laboratorio di terrecotte esistente a Marsciano.

Ne parliamo con: GIULIO BUSTI. Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta insegna Tecniche della ceramica presso l’Accademia Belle Arti di Perugia. Artista ceramista le sue opere hanno ottenuto premi internazionali. Esperto ceramologo nel Consiglio Nazionale Ceramico, ha tenuto lezioni e conferenze sulla storia della ceramica in numerose istituzioni museali ed è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia. Ha redatto con Gian Carlo Bojani il progetto funzionale del Museo della Ceramica di Deruta, ha ordinato il Museo Grazia di Deruta e, con Franco Cocchi, la sezione delle Terrecotte del Museo di Marsciano.

CLARISSA SIRCI. Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Perugia è oggi direttrice del Museo della fabbrica Grazia di Deruta. Specializzata in restauro della ceramica, insegna Storia dell’Arte, Disegno e Arte della Ceramica ed ha svolto ricerche sull’evoluzione delle forme e sul revival della ceramica umbra tra Otto e Novecento. E’ animatrice di laboratori Giocare con l’arte condotti secondo il metodo di Bruno Munari ed ha curato mostre d’arte. E’ componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Deruta.

FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


9 novembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Terrecotte e laterizi dell’Umbria Le attuali conoscenze sulla storia della ceramica umbra sono ancora prevalentemente riferite agli esiti delle ricerche e degli studi ceramologici, sulle produzioni decorate susseguitesi dal basso Medioevo in poi. Ne risulta, essenzialmente, più che una storia della ceramica, una storia della pittura su ceramica […]. Tale questione, che è relativa alla delimitazione del campo d’indagine, non riguarda ovviamente la sola ceramica umbra, ma si inquadra più in generale nelle problematiche epistemologiche e metodologiche della ceramologia moderna. Non è, infatti, sfuggita ai più attenti studiosi della materia, la necessità e l’importanza dell’indagine e della sistematizzazione teorica sulle tipologie ceramiche non decorate e, in particolare, sulle espressioni più popolari di uso quotidiano e di basso contenuto tecnologico, come è appunto il caso delle terrecotte invetriate di uso domestico e dei laterizi. Si può anzi affermare che la questione è aperta fin dalle origini della ceramologia, allorché Cipriano Piccolpasso, nel suo noto trattato della metà del Cinquecento, dedica un breve paragrafo del terzo libro al “muodo di fare gli pigniatti”. In esso poco si dice, in realtà, di come si fanno le pentole e molto, invece, si argomenta per giustificare la considerazione riservata, in un testo destinato ad andare “per le corti tra spiriti elevati et animi spechulativi”, alla parte più umile della arte del vasaio. […] A cogliere l’attualità del pensiero di Piccolpasso, da un punto di vista che vuole rivalutare la “cultura materiale”, è Gian Carlo Bojani che così commenta: […] “Se dunque la maiolica istoriata del Cinquecento, e quella epigone fra Otto e Novecento, ha finito per fagocitare una serie innumerevole di esperienze acculturate o di più immediata, sorgiva espressività popolare [...} quel che ha patito di una eclisse pressoché totale è propriamente l’arte vera e propria del vasaio” [..]. Le medesime esigenze di documentazione e salvaguardia sembrano aver animato, nella originaria configurazione del Museo della Ceramica di Faenza, la sistemazione della XVIII sala dedicata alle “Ceramiche Popolari e delle Colonie”. […] La raccolta del museo faentino, unico esempio nazionale di documentazione della ceramica popolare, non conteneva, inizialmente, campionature di ceramica umbra; alla lacuna si rimediò negli anni Sessanta quando, grazie ad alcune donazioni, vennero acquisite terrecotte provenienti dalle fornaci di Assignano e di Montefalco. La mancanza di una specifica documentazione, fosse anche una campionatura delle tipologie locali o delle tecniche di lavorazione, ha posto l’esigenza di indagare più sistematicamente sulle ceramiche popolari di uso quotidiano dell’Umbria, sulla spinta, anche, del continuo emergere, dalle ricerche d’archivio e dai ritrovamenti archeologici nei centri di produzione ceramica più antichi, di indubbie testimonianze relative alla presenza storica ditali produzioni. Così, una volta allargato il campo a tutto il territorio regionale, la ricerca delle antiche produzioni di terrecotte e laterizi ha svelato il lato finora nascosto della ceramica umbra mostrando uno scenario sorprendente, dove si scorge numerosa e diffusa, fino agli inizi del Novecento, la presenza di fornaci, sia per stoviglie che per

laterizi, tanto da configurare in modo ancor più significativo la vocazione ceramistica dell’Umbria. […] Ne è sortito un quadro che, benché descriva in modo più puntuale la situazione ottocentesca, può agevolmente essere preso a riferimento anche per periodi precedenti, tenuto conto sia della relativa stagnazione economica che la regione ha conosciuto dal Seicento all’Ottocento, che determinò semmai la compressione dei consumi e il rallentamento dell’iniziativa imprenditoriale piuttosto che il loro sviluppo e trasformazione, sia del perpetuarsi immutato delle tecniche produttive fino allo sviluppo industriale. In ogni caso, le attività sembrano svilupparsi sulla base di una combinazione di fattori che includono: la disponibilità locale di argilla adatta alle lavorazioni ceramiche, la posizione strategica per il commercio, un’economia locale in grado di sostenere sia la domanda sia gli investimenti, la presenza in loco di conoscenze tecniche. […]Perfettamente sovrapponibile a quella di Piccolpasso è la descrizione delle tecniche e dei procedimenti fatta, pochi anni orsono, da un “cocciaro” di Torgiano: “Innanzi tutto occorre sapere che per i cocci sono necessarie e la terra rossa e l’argilla o palombino. La terra rossa dà una forza maggiore al coccio, il quale, pertanto, servirà per essere impiegato al fuoco di cucina; la terra argillosa, invece, non potrebbe esser usata per terraglia da cucina perché non resisterebbe al calore: si adopera perciò in lavori da porre sui mobili, per vasi da fiori, per lavamani ecc. La terra rossa è sempre stata prelevata da un campo della parrocchia, al vocabolo Entrata; quella di argilla o dalle sponde del Chiascio o del Tevere, mentre attualmente la si preleva da una collina presso Deruta. La terra prelevata e recata presso la bottega, ‘si rullava, cioè si faceva passare tra due rulli al fine di eliminare piccoli sassi, o altri corpi duri; presentemente, la terra viene filtrata con macchine moderne che assicurano maggior finezza, anche se non sempre uguale resistenza in confronto ai cocci d’una volta. Quando la terra è pronta per l’uso, sì passa al tornio e si tirano fuori vari prodotti dì dimensioni diverse: brocche, pignatte, pignatti, sputarole, badessa (stufarola a due manici), truffe, scolatori. scolaerbe, catini, vaselle, bacinelle, pretine, scaldini, testacce, ecc. Il prodotto vien fatto asciugare all’ombra ed appena asciugato, passa al forno. Affinché il prodotto non si rovini, occorre tener presente un particolare modo di procurare la caloria necessaria per la cottura dei cocci e per la loro simultanea e omogenea verniciatura: il fuoco si comincia col far ardere, per circa otto ore, delle stecche di legno […]; poi si dà fuoco a piccole quantità di legna fina con mezze fascine, quindi si progredisce con fascine intere, una dopo l’altra, fino al punto di raggiungere la caloria di circa 900° capace di fondere la vernice applicata dentro e fuori ai cocci. Eseguita la cottura, il prodotto resta nella fornace ancora un giorno per dargli modo di freddarsi. Quando il prodotto viene sfornato, si porta in magazzino (una volta si caricava sul carretto e si proseguiva, magari il giorno dopo, per fiere e mercati) per la vendita in loco o per il prelievo che qualche commerciante farà”. Da: G. Busti, F. Cocchi, Terrecotte e laterizi, Perugia 1996


23 novembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

SAN MICHELE TRAFUGATO [LA MATTONELLA DI ROTECASTELLO E ALTRE OPERE SCOMPARSE]

La notte di San Silvestro di due anni fa venne rubata dalla facciata della chiesa di Rotecastello una formella in maiolica derutese datata 1587 raffigurante San Michele Arcangelo. Nonostante gli appelli del parroco Don Giuseppe Petrangeli (don Peppino), la mattonella non è stata ancora ritrovata. Riccetti (2010) ricorda che fin dal 1896, Carlo Franci, presidente dell’Opera del Duomo e ispettore dell’“Ufficio dell’Ispettorato pei Monumenti e Scavi”, aveva segnalato la mattonella al comune di Orvieto temendo che venisse trafugata. Nella sua nota Franci la descrive come “una maiolica smaltata delle fabbriche di Deruta portante la data 1587 e delle dimensioni di 0,35 per 0,50 circa, rappresentante S. Michele Arcangelo in piedi che uccide il drago”, “esistente all’esterno sopra la porta” della chiesa rurale di Rotecastello. Franci tornerà nuovamente ad occuparsene nel 1901 in occasione di un’ispezione motivata dalla vendita abusiva di paramenti sacri della chiesa di Rotecastello. Nel 1987 la mattonella fu presentata al Colloquio internazionale sulla ceramica rinascimentale italiana del British Museum di Londra (Busti-Cocchi, 1991) tra le produzioni inedite tardorinascimentali di Deruta. Un altro grave furto è stato commesso a Marsciano qualche anno fa allorché dal chiostro della piccola chiesa del Cerro fu asportata una formella seicentesca con la Visitazione ripresa da Federico Barocci. Ancora nel circondario subì un tentativo di furto la mattonella posta in un’edicola all’ingresso di Canalicchio. Datata 1775 rappresenta un ex-voto che ringrazia la Vergine per lo scampato pericolo dalla peste che colpì la zona qualche anno prima. Ritrovata, è stata restaurata e ricollocata nella sede originaria.

Ne parliamo con: GIULIO BUSTI. Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta insegna Tecniche della ceramica presso l’Accademia Belle Arti di Perugia. Artista ceramista le sue opere hanno ottenuto premi internazionali. Esperto ceramologo nel Consiglio Nazionale Ceramico, ha tenuto lezioni e conferenze sulla storia della ceramica in numerose istituzioni museali ed è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia. Ha redatto con Gian Carlo Bojani il progetto funzionale del Museo della Ceramica di Deruta, ha ordinato il Museo Grazia di Deruta e, con Franco Cocchi, la sezione delle Terrecotte del Museo di Marsciano.

CLARISSA SIRCI. Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Perugia è oggi direttrice del Museo della fabbrica Grazia di Deruta. Specializzata in restauro della ceramica, insegna Storia dell’Arte, Disegno e Arte della Ceramica ed ha svolto ricerche sull’evoluzione delle forme e sul revival della ceramica umbra tra Otto e Novecento. E’ animatrice di laboratori Giocare con l’arte condotti secondo il metodo di Bruno Munari ed ha curato mostre d’arte. E’ componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Deruta.

FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


23 novembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Targhe devozionali e votive La presenza di raffigurazioni a carattere sacro nella ceramica umbra trova primi esempi in alcuni rari reperti in maiolica arcaica, di epoca tardo-medievale, provenienti da ritrovamenti effettuati a Orvieto e a Deruta. Si tratta, nel primo caso, di due tazze carenate che sono decorate in verde ramina e bruno di manganese, i colori ca-ratteristici della maiolica arcaica, una con la raffigurazione dei Simboli della Passione e l'altra con quella dell'Agnus Dei. A Deruta, invece, è stato rinvenuto un piccolo frammento del fondo di una tazza in cui si intravvede chiaramente la raffigurazione, tracciata negli stessi colori delle maioliche orvietane, dei Simboli della Passione. Tali immagini, piuttosto comuni e diffuse nel repertorio simbolico cristiano, trovano corrispondenza con coeve produzioni sia alto-laziali che marchigiane, ma restano esempi abbastanza isolati tra i motivi decorativi della maiolica arcaica che risultano essere prevalentemente di tipo geometrico-floreale o magicosimbolico. Per molto tempo il repertorio iconografico sacro nella ceramica. non soltanto umbra, rimase limitato a semplici simbologie: fi-no ad oltre la metà del Quattrocento il trigramma bernardiniano, con il corredo di fiamme e rag-ere rappresentò, infatti, uno dei soggetti più frequenti nelle produzioni dei centri ceramici dell’Italia centrosettentrionale. Solo alla fine del XV secolo una più varia e complessa iconografia che comprendeva diverse raffigurazioni a carattere religioso — divinità, santi, eventi miracolosi, scene di vita cristiana e mariana — si affiancò alle iniziali e semplici simbologie seguendo Io sviluppo rinascimentale della ceramica umbra che progrediva da una produzione d'uso, più o meno corredata di ornati, ad una più decisamente decorativa e artistica caratterizzata da rappresentazioni figurative e istoriate. Non è difficile riconoscere in questa trasformazione la forte influenza esercitata sui ceramisti dalla pittura contemporanea che, specie in Umbria, trovava fertile terreno e che comportò l'immissione nella pittura vascolare di temi e soggetti iconografici, ma anche di schemi, tecniche e modalità espressive già sperimentate nella pittura murale, su tavola o su tela e a cui corrispose, nelle fabbriche, un fenomeno di specializzazione delle maestranze che enfatizzava il ruolo e la figura del pittore. Ciò determinò anche la ricerca di superfici sempre più estese per dipingere scene o figure; esigenza che trovò dapprima soluzione negli "spazi riservati", cioè apposite delimitazioni che incorniciano la figura o la scena, e, successivamente, nel fondo piano dilatato dei grandi piatti "da pompa" fino ai tondi e, per quanto qui ci riguarda, alle superfici piane e squadrate con il pannello murale e la targa. Cioè quanto di più simile alla tela, alla tavola o all'intonaco, potesse offrire la ceramica. Curiosamente, tanto più laica e profana fu la pittura su piatti

e vasi, tanto più dedicata al sacro fu quella su pannelli e targhe. A partire almeno dai primi anni del XVI secolo, infatti, l'iconografia sacra sembra assurgere ad autonoma tipologia produttiva sia nel genere delle targhe devozionali sia in quelli affini dei pannelli murali con raffigurazioni ad uso liturgico, delle targhe segnaletiche e infine delle targhe ex-voto che, nel loro insieme, rappresentano uno dei fenomeni produttivi più resistenti e duraturi della ceramica umbra, tanto da giungere, seguendo l'evoluzione sia delle officine locali sia degli usi religiosi, fino ai nostri giorni. Non sempre pertanto, a differenza di quanto accaduto in altre regioni, queste tipologie produttive ebbero carattere popolaresco, inteso sia come espressione di arte popolare sia come dimensione popolare della destinazione d'uso. Esemplificativo è a proposito quanto si riscontra nella produzione derutese che rappresenta, grazie all'abbondanza sia di reperti che di studi e ricerche, il fenomeno più facilmente descrivibile. Più volte, infatti, ricorre il caso di raffigurazioni le cui fonti iconografiche provengono direttamente da pitture, plastiche o stampe coeve, e che sottendono, perciò, sia una solida formazione e specializzazione degli autori in campo pittorico sia una destinazione d'uso, se anche minore, non immediata e volgarizzata. Più vicine all'arte popolare, per la comune identità socio-culturale fra produttore, committente e destinatario, ap-paiono invece le targhe votive. In particolare quelle legate al diffuso e popolare culto della Madonna dei Bagni nel santuario di Casali-na nei pressi di Deruta dove, accanto all'immagine divina non sempre rappresentata in modo canonico, si affianca la raffigurazione realistica dell'evento funesto che ha determinato l'intercessione, accompagnata spesso da enunciati didascalici con intenti didattici e monitori. Primi riferimenti cronologici nello sviluppo formale e stilistico delle targhe ceramiche umbre so-no segnati da alcuni esemplari datati che si collocano fra la fine del XV secolo e i primi anni del secolo successivo. Una targa segnaletica derutese che reca la data 1492, oggi conservata nelle raccolte del Castello Sforzesco, è illustrata nella monografia dedicata a Deruta da De Mauri che così la descrive: “ trovata a Deruta nel 1910, mentre si resturava una casa, oggi di proprietà Stocchi. Lo stemma reca il monogramma JESUS CHRISTUS, e la data 1492. Attiguo alla casa v’è un chiosco con cisterna nel cui parapaetto di pietra sporge in bassorilievo uno stemma simile. Si ritiene che la casa appartenesse ad una corporazione religiosa. Questa mattonella fu venduta al Prof. Mariano Rocchi di Perugia, e passò ancora in altre mani”: Da: G. Busti, F. Cocchi, Targhe devozionali e votive, G.Bojani (a cura di), Il lavoro ceramico, Milano 1998


30 novembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

BRAJO FUSO UNA CERTA IDEA DELLA CERAMICA

Ne parliamo con: GIULIO BUSTI. Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta insegna Tecniche della ceramica presso l’Accademia Belle Arti di Perugia. Artista ceramista le sue opere hanno ottenuto premi internazionali. Esperto ceramologo nel Consiglio Nazionale Ceramico, ha tenuto lezioni e conferenze sulla storia della ceramica in numerose istituzioni museali ed è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia. Ha redatto con Gian Carlo Bojani il progetto funzionale del Museo della Ceramica di Deruta, ha ordinato il Museo Grazia di Deruta e, con Franco Cocchi, la sezione delle Terrecotte del Museo di Marsciano. SYLVIE BÉAL. Nata a Lione, è assessore alla cultura, ai Servizi sociali e politiche socio assistenziali, volontariato, politiche sanitarie, cultura, gemellaggi del Comune di Torgiano. Tra le promotrici del gruppo di iniziativa femminile ‘Parole di donne’. Insegna all’ Istituto Universitario di Mediazione Linguistica di Perugia.

FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


30 novembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Brajo Fuso Una certa idea della ceramica Fuso sorprende tutti con la creazione del Fuseum cui comincia a lavorare dal 1961 quando acquista un vasto terreno sulla collina di Monte Malbe nei pressi di Perugia per realizzarvi il suo buen retiro: una casetta cui da dà il nome di Brajta e una galleria in cui raccoglie tutte le sue opere circondate da un parco che si popola di sculture costruite con materiali di recupero. La débrisart è il genere che lo caratterizza e che lo vede eccellere al punto che […] Argan e Verdet, non esistano a definirlo uno dei più grandi artisti del momento. Giulio Carlo Argan racconta il Fuseum come un assemblage grandeur nature, “curioso museo in campagna con tutto intorno un bosco-giardino fitto d'interpolazioni plastiche, solo vagamente narrative ed allegoriche, con molti riferimenti, questa volta chiarissimi, alle più attuali ricerche artistiche: sculture fatte di pezzi di macchina o di tubi di cemento, ceramiche dalle forme aggressive e dai colori violenti. Sono evidentemente i feticci del mondo tecnologico in una versione bonariamente burlesca, che li riporta in seno alla negata, disintegrata eppur sempre risorgente, incancellabile realtà naturale” . […] Ma il parco è anche un'antica rêverie che Brajo ha già prefigurato nella storia fantastica di Occhiopino: “Questo fu poca cosa di fronte al “Castello Fatato” che Occhiopino ingegnosamente, seppe ideare e ricostruire, utilizzando i ruderi di un vecchio castello, che s'aggrappava alle pendici di un monte in una località vicina. Tutte le sere terminato lo studio, Occhiopino trovava il tempo di occuparsi del suo grandioso progetto....Vennero dapprima raccolte le pietre sparse intorno ai ruderi e con enorme fatica rimesse quasi esattamente al loro antico posto. Rottami, barattoli, legname, cartone, fili di ferro e i materiali più disparati che si poterono racimolare servirono a dare nuovamente a quei ruderi un aspetto di maestosa imponenza. Cinque anni durarono i lavori” . “In un certo senso – concludono Crease e Mann - la tenuta di Fuso appare come qualsiasi altra utopia individuale creata dall’uomo”, ma a differenza di analoghi microcosmi che gli autori elencano , “Fuso non era interessato a nascondersi dal mondo moderno…Il Fuseum piuttosto abbraccia e si impegna in quel mondo. Qualsiasi cosa là è stata ricavata da scarti di cose contemporanee – i rifiuti della società consumistica- mescolati con elementi naturali come sabbia, foglie e legno. Fuso non si è preoccupato molto della differenza fra oggetti naturali e creati dalla tecnica: ha usato tutto quello che ha trovato… Ha chiamato il risultato di questa mescolanza Debrisart. La Debrisart del Fuseum è una lotta per una sintesi tra un punto di vista individuale ed il mondo spesso indifferente” . La ceramica prende parte alla nuova avventura di Brajo affollando di frammenti e di cocci colorati la piazzetta e i viali del Fuseum. Materiali di scarto, altrimenti inservibili che Fuso compone secondo logiche geometriche e di raggruppamenti di colore (tav.1 ). L’officina di produzione sta nel Coccibus, maccheronica denominazione dell’atelier riservato alla amata ceramica da cui, in quegli anni, escono le metalloceramiche, vasi candidi vestiti di filo di ferro e di borchie colorate fatte di tappi di bottiglia.

La critica le registra, ma per lo più le ignora. Il grande volume che nel 1976 raccoglie la documentazione della produzione artistica di Fuso con gli scritti di Argan, Tomassoni e Verdet, riserva alla ceramica un ruolo marginale: non più di poche illustrazioni in bianco e nero in appendice. Viceversa la mostra monotematica postuma di Torgiano (1986) non trova spazio per una riflessione critica, fra le tante riportate, che si soffermi sulle sue ceramiche. Ne aveva, però, trattato Domenico Coletti su La Nazione del gennaio 1976 dove annunciava la prossima uscita del catalogo: “Brajo Fuso non è tutto qui, s’intende. Il suo sperimentalismo, condotto con l’entusiasmo, l’estro e la foga di un ventenne, investe alti campi, altri settori. Per rimanere nei tempi più prossimi s’impone il ricordo delle metallo-ceramiche, che si aggiungono ed oltre passano gli scopi ricavati dalla gioielleria, fatta con materie non necessariamente nobili, ma riscattate dalla loro condizione proprio per l’uso cui, nell’occasione, vengono destinate. L’idea è semplice nel suo proporsi, non trattandosi di altro che di addizioni, di stratificazioni successive, di ghirigori, gabbie, legature, anse metalliche, inserite nel corpo spesso dell’oggetto. Una sovrapposizione, ma anche un completamento” . Le Metalloceramiche riceveranno anche attenzione da Domus e parteciparono al Premio Internazionale della Ceramica a Faenza nel 1968 , ma fondamentalmente saranno destinate al Fuseum dove ancora si trovano e che sembrerebbe la loro collocazione naturale. Brajo sfugge fino alla fine a rigidi inquadramenti in questa o quella corrente d'arte . Anche nella ceramica, dove la personalità di Brajo Fuso rappresenta un fenomeno a sé stante. Se proprio lo si deve collocarlo collocare, somiglia più a una ristretta schiera di colti ceramisti che mostrano un’idea personale della ceramica. La frequentano con passione per motivi diversi, talvolta anche del tutto casuali, ma non è la loro occupazione, piuttosto un modo di esprimersi profittando di alcune caratteristiche uniche della ceramica insieme oggetto d'uso personale o relazionale, scultura e pittura. Un approccio che accomuna Brajo Fuso a Quentin Bell, che praticò l’arte più per svago che per mestiere, perché un vaso è un pretesto per procurarsi un po’ di felicità visiva, di godimento diretto e sensuale della forma e del colore. O a Beatrice Wood ceramista celebre, che alla ceramica approdò perché le mancava una teiera del servito antico di Delft. Alcune sue opere, oggi sono nelle collezioni del Moma, ma l’arte – disse - non l’aveva mai interessata quanto l’amore. O, ancora, a Ricky Boscarino, allievo della Wood, autore di lustri e del surreale “Luna Park”, un parco personale di ceramiche e sculture nei pressi di New York. Ossessionato dal produrre opere in grande quantità per popolare il parco, al giornalista del New York Time costruire e dal produrre opere in grande quantità confessa che "It's not easy being me, let me tell you," . Forse, di sé stesso, il ceramista Brajo forse direbbe direbbe ciò che scrisse del suo Occhiopino: “Non seppe mai se il suo fu un sogno o una portentosa realtà” Da: G. Busti, F. Cocchi, Brajo Fuso. Una certa idea della ceramica, Milano 2010


7 dicembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

CON GRAZIA STORIA E ATTUALITA’ DELLA FABBRICA GRAZIA

Ne parliamo con: GIULIO BUSTI. Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta insegna Tecniche della ceramica presso l’Accademia Belle Arti di Perugia. Artista ceramista le sue opere hanno ottenuto premi internazionali. Esperto ceramologo nel Consiglio Nazionale Ceramico, ha tenuto lezioni e conferenze sulla storia della ceramica in numerose istituzioni museali ed è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia. Ha redatto con Gian Carlo Bojani il progetto funzionale del Museo della Ceramica di Deruta, ha ordinato il Museo Grazia di Deruta e, con Franco Cocchi, la sezione delle Terrecotte del Museo di Marsciano. UBALDO ERMELLINI GRAZIA. Discendente da un’antica famiglia di vasai dirige da circa quaranta anni la Ubaldo Grazia snc ., fabbrica intitolata al nonno che la rinnovò negli anni Venti del

secolo scorso. La sua guida ha dato notevole impulso all’esportazione e alla diffusione del brand aziendale negli USA aprendo anche alla innovazione di giovani artisti e designers. Ha inoltre costituito il museo aziendale oggi parte della rete museale regionale. CLARISSA SIRCI. Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Perugia è oggi direttrice del Museo della fabbrica Grazia di Deruta. Specializzata in restauro della ceramica, insegna Storia dell’Arte, Disegno e Arte della Ceramica ed ha svolto ricerche sull’evoluzione delle forme e sul revival della ceramica umbra tra Otto e Novecento. E’ animatrice di laboratori Giocare con l’arte condotti secondo il metodo di Bruno Munari ed ha curato mostre d’arte. E’ componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Deruta. FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


7 dicembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

L’evoluzione della produzione derutese nelle forme della ceramica. Il caso della Grazia. Clarissa Sirci La trasformazione moderna della produzione ceramica tra Otto e Novecento, è ben esemplificato dalla vicenda della “Grazia”. Originata da intenti manifestatamente storicisti rivolti alle “riproduzioni artistiche in maiolica” dopo un lungo periodo di maturazione connesso alla ripresa produttiva e artistica derutese , la produzione della Grazia si orientò ben presto verso un ibrido […] che associava decorazioni riprese dagli antichi ornati derutesi, desunti dallo studio di frammenti o di reperti originali di epoca rinascimentale e seicentesca, a forme di altra derivazione. L’esame delle morfologie della produzione della Grazia rappresentano, perciò, una fonte di conoscenza, non secondaria, della evoluzione della produzione derutese che, ancora oggi, caratterizza in larga parte il prodotto tipico locale. Tra la vasta esemplificazione possibile, prenderemo in esame i casi dei serviti da tavola, di derivazione moderna non imitabile dalle antiche produzioni storiche; quello dei piatti da “pompa”, al contrario caratteristici della produzione derutese del rinascimento […]. Mazzucato (1985) ritiene, a proposito dei primi, che solo verso la metà del Cinquecento possa intravvedersi la concezione di “servizio” come “insieme di stoviglie che formano per la loro unità funzionale e stilistica, un corredo da usare anche sulla mensa”, ne rintraccia il prototipo nelle “credenze” cioè nei corredi di stoviglie sovente con le insegne della famiglia disposte sulla scaffalatura dei mobili denominati, appunto “credenze”. Ma più che all’uso funzionale della tavola, Mazzucato argomenta che essendo costituiti da piatti di grandi dimensioni non avessero una utilizzazione pratica, ma quella, piuttosto, “di ostentare una certa ricchezza o i titoli nobiliari” […]Non va poi, sottaciuto, un documento derutese del 1535, recentemente emerso dagli archivi in cui Francesca Baglioni Ranieri si rivolge ai priori derutesi per ottenere la fornitura da qualche fabbrica derutese di un servito "lo più bello si possa haver", da utilizzare per ospitare papa Paolo III in visita a Perugia. Qualunque siano le origini antiche del servito da tavola in ceramica, appare molto probabile che quello moderno derivi piuttosto da quelli prodotti dalle manifatture europee di porcellana (Castelfranchi Vegas et al. 2000). Celebre è il servizio da tavola disegnato da Johann Joachim Kandler a Meissen per il conte Von Bruhl direttore della manifattura reale, verso la metà del Settecento che per la prima volta si svincola dai modelli orientali. Già nel Settecento, poi, le manifatture ceramiche più consolidate si dedicano ai serviti da tavola risentendo dell’influenza della porcellana, ma è fra Otto e Novecento che il servizio in terraglia raggiunge una notevole diffusione, grazie anche al minor costo, specie nelle versioni semplificate dei corredi che passano dagli oltre cento pezzi allo standard composto da quarantadue o cinquantasei pezzi per sei commensali (Bosoni-De Giorgi 1983). Il cambiamento ha a che

fare con le novità nelle abitudini alimentari e nei costumi sociali e del mangiare in pubblico. Secondo Maria Antonia Casanovas, del Museo de Ceramica de Barcelona, i primi cambiamenti vanno fatti risalire, nel XVII secolo, alla corte di Filippo V, Borbone dove si affermò l’allestimento di tavole artistiche “alla francese”, guarnite di spettacolari composizioni di frutta fresca e sciroppata, sculture di bronzo o porcellana come fossero aiuole di giardini. L’ostentazione della ricchezza nel servizio da tavola non corrispondeva tanto a vanità o dimostrazione di potenza, quanto ad un esercizio di buone maniere, un modo per onorare gli invitati mostrando il patrimonio familiare. L’era imperiale napoleonica impose, successivamente, il servizio “alla russa” ancora oggi utilizzato, vale a dire il servire i commensali dal piatto di portata […]. Il catalogo della Grazia 1929, rivela una consistente produzione di serviti da tavola che possono essere composti in versione da sei o dodici posti, che comprendono rispettivamente quarantatre e ottantacinque pezzi. Si nota un’ulteriore evoluzione delle forme, nel senso di una loro semplificazione, dettata sia dalle esigenze della produzione seriale che da un’adesione a forme più semplici e lineari, prive di complicazioni che vengono, semmai, recuperate nell’ornato. Pare, perciò, una reminescenza delle volute rococò settecentesche le sagomature della tesa che si trovano sul piatto da antipasti “centinato” […]Considerazioni analoghe possono valere anche per i servizi da caffè o da the dove, tuttavia, non vi sono ovviamente originali antichi locali e le tipologie della Grazia sembrano riferirsi, salvo qualche caso, alla consolidata tradizione nazionale, in particolare a quella della manifattura Ginori di Doccia, come si vede nelle teiere riportate in sezione. Anche il caso del “piatto da pompa” , tipologia rinascimentale su cui Deruta era specializzata, risente di un certo ammodernamento. Ciò appare singolare, poiché in questo caso potevano essere disponibili i modelli originali di cui anche il museo comunale all’epoca, disponeva. Nella produzione di fabbrica, il piatto da pompa viene addomesticato nella nuova versione di “piatto decorativo” e assume nuova sembianza. Se gli originali quattrocinquecenteschi non scendevano sotto le dimensioni dei quaranta centimetri di diametro, anche dovendo mantenere una certa importanza, nella nuova versione le misure variano da dieci a cinquanta centimetri, ma la versione più diffusa è quella media, tra i venticinque e i trenta centimetri. Una versione ridotta, quindi, che la assimila al piatto da tavola e che meglio si addice all’arredamento contemporaneo dove la figura con la bella donna o l’imperatore ha funzioni di citazione storicista e, non più, di monito didascalico. Anche la morfologia muta verso l’appiattimento delle superfici, se negli originali quattrocenteschi la profondità del cavetto raggiunge anche i cinque centimetri conferendo rilievo e movimento alla composizione, ripartita tra scena centrale e cornice, nella versione attuale la profondità si dimezza e, soprattutto, perde lo stacco netto tra la tesa e il cavetto. […] Da: G. Busti, F. Cocchi, Museo della fabbrica di maioliche Grazia di Deruta, Milano 2009


14 dicembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

L’UMBRIA CERAMICA DEL NOVECENTO (1)

Se si esclude il caso di forte segno qual è Umbertide, con la manifattura Rometti operante dagli anni venti, la visione che s’è imposta dell’Umbria ceramica di questo secolo — e particolarmente di quella dei primi decenni fino alle soglie dell’ultima grande guerra — è del tipo tradizionalistico ottocentesco, attesta- tosi sulle grandi esperienze del passato: medievale per Orvieto, rinascimentale specie per Deruta e Gubbio. Si può dire che questa visione è divenuta col tempo onnivora, un vero e proprio stereotipo. Il fenomeno ottocentesco della ripresa storicistica che ha invaso a pieno il campo di questa visione, in realtà sembrerebbe appartenere solo parzialmente all’Umbria. Non è un caso che nella pubblicistica delle grandi esposizioni nazionali e internazionali dell’epoca, che erano veri e propri media di grande presa sull’immaginario collettivo e che esaltavano il “risorgimento” delle antiche virtù, è raro che appaiono imprese umbre di qualche rilievo. Un’eccezione di gran conto riguarda il marchigiano Giovanni Spinaci presente a varie di quelle manifestazioni e che, operante a Gubbio già negli anni cinquanta del secolo scorso, affrontò la fabbricazione delle maioliche a lustro nel contesto di una più vasta produzione di stoviglie domestiche fra cui quella in terraglia ad uso “d’Inghilterra” (Minghetti, 1939, p. 390). All’Esposizione universale di Parigi, ad esempio, nel 1878 erano presenti terrecotte di R. Angeletti e F. Biscarini di Perugia, piatti a riflesso di P. Rubboli di Gualdo Tadino, vasi ad imitazione etrusca di Bertanzi di Umbertide. Giovanni Spinaci di Gubbio, sempre all’Esposizione parigina di quell’anno “s’ebbe la medagli d’argento per i suoi modelli riprodotti e per la felice imitazione dei capolavori di maestro Giorgio, dei suoi disegni e dei suoi lustri metallici” (Corona, 1880). Altre fabbriche, come la Ginori di Doccia con le sue maioliche oltre alla porcellana, o la Cantagalli di Firenze, la Farina o la Ferniani di Faenza, alcune botteghe di Pesaro diffondevano a largo raggio il verbo storicistico — nelle tipologie formali e decorative così come nelle tecniche anche di tradizione umbra, appena oltre la metà del secolo scorso. Se si fa eccezione per Gubbio e Gualdo, ben presto trainate dalla riproposizione delle maioliche a lustro (Fiocco - Gherardi, 1989), generalmente, per l’Umbria, questo avviene in larga scala soltanto verso la fine di quello stesso secolo, per diffondersi ampiamente nella prima metà del Novecento. Quel fenomeno culturale che rifletteva, da una parte, il diffondersi sempre più capillare di una storiografia erudita locale e di un collezionismo soprattutto internazionale e, dall’altra, l’incentivazione ad una ripresa dell’artigianato sulle basi di una programmata riscoperta delle tradizioni fabbrili anch’esse squisitamente locali: quel fenomeno in Umbria, nel nostro secolo, è solo un riflesso di quello ottocentesco. (segue)

Ne parliamo con: MARINELLA CAPUTO. Docente in Storia dell’arte e art writer, si è laureata nel 1985 alla Università degli Studi Perugia in Lettere Classiche - Indirizzo Archeologico, discutendo una tesi sulla Decorazione parietale di Primo Stile nel Lazio. Ha partecipato a campagne di scavo ed è autrice di numerose pubblicazioni in campo archeologico, di critica d’arte e storia della ceramica. E’ autrice de La Collezione Rubboli, Storia e Arte dell’Opificio gualdese di Maioliche a Lustro, Perugia 2010. E’ attiva esponente delle associazioni culturali Stefano Bicini, Humanities Spring, Rubboli.

ALBERTO SATOLLI. Architetto e storico dell'arte è Presidente dell’Istituto Storico Artistico Orvietano. E’ stato docente del Liceo d’Arte di Orvieto. Autore di numerose pubblicazioni e comunicazioni a convegni sulla storia e architettura della città di Orvieto, alle sue ricerche si devono le più significative scoperte sulla antica ceramica orvietana. Tra i suoi lavori più recenti Il duomo mascherato ovvero l'antica cattedrale di Orvieto (2010) e 1908-1910 : documentazione non riciclata sul programmatico saccheggio delle maioliche antiche orvietane. (2011) FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


14 dicembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Diverrà un prodotto di “routine” delle botteghe, produrrà sì delle copie e in più casi talmente ben fatte da porsi anche in tangenza o in associazione magari a posteriori con la falsificazione: ma amplierà quello storicismo oltre la copia per annetersi tutta una imagerie pittorica extra ceramica: medievale, rinascimentale via via fino a quella purista epreraffaellita, e persino ma solo timidamente liberytaria e déco. Cosi si è verificato a Deruta come a Orvieto, a Gualdo Tadino come a Gubbio: e non sarà soltanto d’arredo ad esserne connotato, ma il vasellame d’uso, i vari tipi di servizi da tavola. La scelta di campo avveniva sempre all’interno del passato, magari contaminato, eclettico. Per la dialettica fra una riproposizione fiolologica della tradizione e una interpretazione della stessa, basti qui ricordare quanto avvenne ad Orvieto negli anni venti dell’Arte dei vascellari, quale l’ha riesumata Satolli (1983) […]dove l’interpretazione dell’antico si modernizza in un qual gusto figurativo déco all’italiana ma pur sempre di segno medievaleggiante, e in una linea spiccatamente di tradizione umbra. Se questa, indubitabilmente, è l’immagine prevalente che si ha dell’Umbria ceramica, è tempo ormai che se ne corregga il conseguente stereotipo. S’è detto forte all’inizio e non a caso, del segno forte di modernizzazione produttiva rappresentato da Umbertide a partire dagli anni venti inoltrati: e non s’intende sottolineare qui tanto la presenza di artisti del calibro di un Cagli o di un Leoncillo, o anche di un Baldelli che operò anche a Città di Castello (si veda Cortenova - Mascelloni, 1986). Vedrei a prescindere dalle “prove d’artista” pur riprodotte talora in serie, che sia da considerare piuttosto la novità della produzione del vasellame da tavola, e comunque d’uso; quella nuova “progettazione” che radicalmente rompeva con qualunque segno della tradizione ceramistica umbra. Tradizione superata nello stesso tipo di costituzione d’impresa rispetto alla bottega artigianale o all’atelier del singolo ceramista, anche se non ancora vera e propria azienda industrializzata. Su questa stessa linea, sul finire degli anni venti ma soprattutto negli anni trenta, sono Deruta con la CIMA e Perugia con la Salamandra ad offrire un’alternativa a una tradizione tanto radicata. Furono due imprese, a un certo momento accomunate da una stessa ragione sociale, di

particolare rilievo ma a cui sinora molto parcamente si è prestato attenzione (si veda il contributo di Busti Cocchi, 1986, pp. 83-89). Questa nuova progettazione umbra, che s’ammodernava nei materiali, nelle tecniche, nelle forme e decorazioni, nei processi produttivi, negli imprenditori come nei tecnici e nei progettisti, eguagliava per qualità e competitività quelle analoghe proposte in quei decenni da fabbriche nazionali di sperimentata gestione, quali: la Società ceramica italiana di Laveno, la Galvani di Pordenone, la Richard-Ginori con gli stabilimenti di Doccia, Mondovì e San Cristoforo, ed altre ancora: come la Lenci di Torino, talune fabbriche di Sesto Fiorentino, Civita Castellana, Albisola, Vicenza. Certo, sui risultati di una ricerca propriamente estetica, la produzione umbra andrà contestualizzata anche con i canoni e le mode dell’epoca per poterne dedurre gli aspetti di originalità o meno. Indubitabile, tuttavia, che dalle connotazioni assunte, che vanno da reminiscenze di un vero e proprio art déco internazionale a divulgazioni pararazionaliste e parafuturiste (AA.VV., 1988; Buddensieg, 1984) è un’immagine “moderna” che veniva ad incunearsi in un contesto annoso, con un prodotto di qualità e di largo consumo. Il tempo, è vero, non ha dato ragione a questo tipo d’imprenditoria: come nel caso dell’Umbria così in quelli di altri centri sopra ricordati, tante di quelle fabbriche hanno ormai e da tempo chiuso il loro ciclo vitale impoverendo l’industria ceramica italiana, per ragioni complesse che qui non è il caso di ripercorrere. Questa mostra, che può dirsi “campionaria”, è una occasione per l’avvio di una sistematica conoscenza di vicende, per una riconsiderazione di prodotti ormai di antiquariato, per l’individuazione d’uno squarcio di storia della ceramica italiana nel XX secolo e infine, perché no?, per slegare l’Umbria ceramica da una visione univoca e forse indicarle le possibilità di nuovi obiettivi consoni al nostro tempo. Da: G. Bojani, Ceramiche umbre 1900-1940, Perugia 1992


21 dicembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

L’UMBRIA CERAMICA DEL NOVECENTO (2)

S. Bottini, Percorsi dal figurativo, all'astratto, all'informale, Perugia 2007

Ne parliamo con: STEFANO BOTTINI. Critico d'arte, fotografo d'architettura ed editore. Autore di oltre trecento saggi e recensioni critiche, ha curato la grande mostra sull'arte italiana del dopoguerra "Percorsi dal Figurativo, all'Astratto, all'Informale", tenutasi a Spello nel 2008. Ha pubblicato dodici volumi di fotografia d'architettura negli ultimi quattro anni, ed esposto i suoi lavori alla Triennale di Milano, ai Giardini della Biennale di Venezia, al Parco del Foro Italico e recentemente alla Commissione Europea di Bruxelles.

FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


21 dicembre 2012

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

La nuova ceramica umbra del Novecento di Franco Cocchi Il secolo scorso ha visto dispiegarsi una stagione di grande vivacità e trasformazioni per la ceramica dell’Umbria. È vero che l’immaginario collettivo tende ad identificarla con una ‘tradizione” di repertori decorativi ricchi di raffaellesche, foglie d’acanto e damaschine, che a molti piace raccontare come se fosse tramandata di padre in figlio, ma ciò non corrisponde alla realtà. La attività ceramica dei centri umbri, quasi scomparsa alla metà dell’Ottocento, non sarebbe sopravissuta se non fosse stato per l’iniziativa, anche imprenditoriale, di artisti e intellettuali che ripresero a studiare, copiando e rielaborando, le antiche decorazioni. Incoraggiati tanto dalla diffusa estetica storicista, quanto dalla rivalutazione delle identità patriottiche, riaprirono le fornaci e avviarono quelle imprese che fecero, più tardi, la fortuna della ceramica artistica umbra. Si generò, così, un rapporto inestricabile - ma ciò pare una condizione connaturata alla ceramica- fra arte e industria. Questo rapporto non ebbe un andamento lineare, e benché il fenomeno non abbia avuto ancora sufficiente approfondimento, si intravede come tra Otto e Novecento, le vicende della ceramica umbra abbiano rappresentato una sorta di traduzione locale del movimento delle Arts and Crafts di William Morris. Sono, infatti, forti le somiglianze tra le imprese artigiane di Morris, strenuamente avverso alla produzione industriale in serie e propugnatore del ritorno al lavoro manuale, e quella de “Vasellari Eugubini Mastro Giorgio” fondata a Gubbio da Ilario Ciaurro e Aldo Ajò, o la analoga “Arte dei Vascellari di Orvieto”dello stesso Ciaurro con Pericle Perali o, ancora, la “Grazia” di Ubaldo Grazia. Fino agli anni Venti circa, il risultato produttivo fu una ceramica che guardava al passato, magari rinnovandolo con qualche rivisitazione liberty, come si vede nelle contemporanee esperienze di Alpinolo Magnini a Deruta e di Alfredo Santarelli a GualdoTadino. Una produzione di buon successo, rivolta prevalentemente ad un pubblico colto e folto, ma anche nostalgico e passatista. Resiste, perciò, l’Umbria agli attacchi diretti ai “falsificatori di ceramiche” messi all’indice dal Manifesto dei pittori futuristi già dal 1910, ma non può rendersi altrettanto impenetrabile alle rapide e travolgenti trasformazioni dell’arte e dell’architettura internazionale che giungono fino all’arredamento domestico, dove Decò e Moderno rigenerano il classico italiano. In quel periodo - ci avviciniamo agli anni Trenta - anche la ceramica umbra vive delle ulteriori trasformazioni. Lo scenario è, ora, dominato dalle pretese egemoniche e monopolistiche della Maioliche Deruta-CIMA, che in pochi anni ha conseguito le maggiori quote di mercato del settore della ceramica artistica italiana (da ciò ancora il primato umbro attuale), anche se restano vivaci alcune case indipendenti come la Grazia di Deruta e la neonata (1927) Rometti di Umbertide. Il gruppo Deruta-CIMA si organizza come una manifattura industriale di larga scala e specializza le produzioni di carattere tradizionale negli stabilimenti di Castelli, Deruta, Gubbio e Gualdo Tadino, mentre quelle innovative, di stile Decò e Moderno, trovano posto in quelli di Perugia (La Salamandra e Aretini). Grande merito di questa impresa fu anche quello di avere aperto le porte, senza riserve, agli artisti e ai designer rendendola una dei principali laboratori di progettualità artistica applicata alla produzione industriale. È in questo scenario che si colloca la condizione comune degli artisti richiamati in questa rassegna. L’avere, cioè, avuto a che fare con la cultura ceramica umbra, densa di connotazioni storiche, memorie, archetipi ben conservati e un apparato industriale imponente, mentre il filo conduttore delle loro diverse esperienze ceramiche sta, invece, nell’ansia del nuovo che questi interpretarono nei decenni intorno alla metà del secolo. Emblematica ed anticipatrice è perciò, l’esperienza del

giovanissimo Corrado Cagli attivo alla Ars Umbra di Settimio Rometti appena costituita, dove, a dispetto del nome che sembrava richiamare memorie storiciste, l’opera dell’artista e degli altri protagonisti della fabbrica si muove in sincronia con le correnti dell’arte contemporanea. Una breve stagione, questa, destinata a tramontare in poco più di un decennio, quando al limitare della seconda guerra mondiale, la crisi di identità della ceramica italiana e, poco dopo, l’economia di guerra risulteranno devastanti. Sembrano accorgersene, per primi, alla maioliche Deruta che lanciano nel 1939-40 la linea Derutanova affidata ad Enrico Ciuti e ingaggiano Nino Strada che, partito dalle esperienze futuriste con Tullio d’Albissola approda, proprio a Deruta, ad un personalissimo stile. Nel dopoguerra la crisi è evidente, il disastro economico mette in grave difficoltà tutta le manifatture artistiche. La Maioliche Deruta, tenta nuovamente di rinnovarsi affidandosi a Brajo Fuso, con cui partecipa alla IX Triennale di Milano, ma è contemporaneamente minacciata da una grave crisi finanziaria che la condurrà, dopo una lunga agonia alla definitiva chiusura. La ricerca verso nuove espressioni e forme della ceramica, non passa più per l’industria, oramai ridotta per dimensioni e capacità economica, ma parte dagli artisti stessi ed è sostenuta dagli apparati culturali che un’organizzazione, per lo più volontaristica, fa concretizzare in premi e concorsi che divennero spesso porte di ingresso per l’Umbria o, al contrario, servirono a rivelare all’esterno i talenti umbri. È il caso del Premio Deruta, edizione 1954, che rivela il giovanissimo Edgardo Abbozzo, come fosse la personificazione della nuova ceramica umbra di cui i promotori della manifestazione erano alla ricerca, ma che avvicina alla ceramica anche i pittori della Scuola Romana, giovani ma già di rango, da Renato Cristiano, il vincitore, a GiulioTurcato. Non sarà certo un caso che tra i giurati del concorso vi fossero Corrado Cagli e Leoncillo Leonardi, quest’ultimo laureato nello stesso anno al Premio Faenza. Ai ragazzi straordinari che tentavano di innovare la ceramica con le loro decorazioni astratte variopinte, si aggiunse presto la schiera dei materici — informali che trovavano nella ceramica un terreno particolarmente congeniale anche - per dirla con le parole di Cesare Brandi - “per la evidente intenzione degli artisti informali di tagliare ogni sorta di nesso o di cordone ombelicale con il passato”.Vi si cimentano in diversi, specie nelle edizioni del Concorso internazionale della ceramica di Gualdo Tadino che si tengono annualmente dal 1959 e alla Biennale della ceramica di Gubbio dal 1960. Il rapporto degli artisti con la fabbrica è, tuttavia, molto allentato e rimane difficile anche quando dall’una e dall’altra parte, negli anni Settanta, si fanno seri tentativi di dialogo. Ci provano Alviero Moretti e Mario Lispi che consorziano un bel gruppo di aziende per produrre multipli d’artista e, sull’altro versante, Nino Caruso e Piero Dorazio che fondano a Todi il Centro Internazionale della Ceramica Montesanto, uno dei rari casi italiani, di studio pottery. Restano, invece quasi ignorati e senza alcuna eco produttiva, i cretti di Burri e i togli di Leoncillo benché conducano la ceramica ad elevate ed autonome espressioni artistiche. Eppure, con il grande pannello arancione della Expo Universale di Montréal nel 1967, Leoncillo Leonardi otteneva, finalmente, anche il riconoscimento pubblico da tempo atteso e, con lui, la ceramica come arte toutcourt: “Leoncillo pensava in ceramica, ma nel modo più eletto - scrive infatti all’epoca Cesare Brandi - come Michelangiolo pensava in marmo, accogliendo cioè le possibilità insite del procedimento tecnico e delle qualità esteriori come una struttura di visione”.

Da: G. Busti, F. Cocchi, A.C.Ponti, Arte all’opera. Artisti e ceramica del Novecento in Umbria, Perugia 2006


11 gennaio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

DERUTA E GUBBIO - QUESTIONE DI LUSTRO

Ne parliamo con: ETTORE SANNIPOLI. Esperto e docente di storia dell’arte e restauro, è autore di oltre cento saggi e recensioni critiche su argomenti di storia eugubina e, in particolare sulla ceramica antica e contemporanea di Gubbio. Ha curato mostre e rassegne d’arte tra cui “Brocche d’Autore” che si tiene annualmente dal 2002 a Gubbio in occasione della Festa dei Ceri; “Omaggio ad Alan Caiger-Smith maestro del lustro” (2008), “La via della ceramica tra Umbria e Marche” (2010). E’ componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. GIULIO BUSTI. Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta insegna Tecniche della ceramica presso l’Accademia Belle Arti di Perugia. Artista ceramista le sue opere hanno ottenuto premi internazionali. Esperto ceramologo nel Consiglio Nazionale Ceramico, ha tenuto lezioni e conferenze sulla storia della ceramica in numerose istituzioni museali ed è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia. Ha redatto con Gian Carlo Bojani il progetto funzionale del Museo della Ceramica di Deruta, ha ordinato il Museo Grazia di Deruta e, con Franco Cocchi, la sezione delle Terrecotte del Museo di Marsciano. FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


11 gennaio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Per una storia della ceramica eugubina del Rinascimento di Ettore A. Sannipoli

Nel Rinascimento Deruta e Gubbio divennero i .principali centri della produzione italiana dì maiolica lustrata. Proprio con l'introduzione della tecnica dei lustri metallici, verso la fine del Quattrocento, la ceramica eugubina si elevò qualitativamente e ben presto assunse rilevanza nazionale. Tra i ceramisti locali allora operanti va ricordato quel Giacomo di Paoluccio titolare di una prestigiosa bottega assieme al meno noto fratello Tommaso. Con lui contrassero società, a partire dalla fine degli anni ottanta, Salimbene e Giorgio Andreoli, originari di Intra sul lago Maggiore. Già nel 1495, e più esplicitamente nel 1501, Giorgio e Giacomo producevano ceramica lustrata, con ogni probabilità simile a quella derutese ma arricchita da un intenso lustro rosso rubino. Tale collaborazione di fatto risultò proficua soprattutto per gli Andreoli, i quali continuarono a sfornare maioliche caratterizzate da inconfondibili lustri metallici nel periodo di maggior successo di questa tecnica, tra il secondo e il quarto decennio del XVI secolo. sulla base delle ceramiche datate che-ci sono pervenute, i più antichi esemplari sicuramente lustrati a Gubbio risalgono pero al secondo decennio del Cinquecento (1515-1520 ca.), periodo in cui prese avvio la serie delle maioliche siglate o firmate da Mastro Giorgio. Sono gli anni in cui Gubbio divenne, per breve tempo, capitale del ducato di Urbino, durante la dominazione medicea che si protrasse fino al 1521. In alcune di queste ceramiche si possono individuare ancora influenze derutesi, ma analogie maggiori sono ravvisabili con i centri marchigiani di Castel Durante e, successivamente, di Urbino. I documenti archivistici provano come presso l'Andreoli lavorassero operatori provenienti da queste città del Ducato ma anche da Deruta: tra essi Paolo di Francesco e Federico da Urbino, Paolo e Giovanni Antonio da Deruta, Beltramino dì Giovanni Piero e Giovanni Luca da Castel Durante. Il repertorio decorativo comprende 'grottesche', 'palmette', `trofei' e “belle donne'. Su tutti i pezzi risplendono i lustri dorati, argentati e rossi tipici della produzione locale. Verso il 1530 si intensificò l'immissione sul mercato di coppe con decorazioni a rilievo sulla parete e stemmi, emblemi, figure di santi al centro. È questa una produzione poche volte siglata, tradizionalmente riferita ai figli di Giorgio (in special modo a Vincenzo), che collaborarono attivamente col padre e ne continuarono l'impresa. I contatti dell'ormai celebre bottega con i principali decoratori eugubini, durantini e urbinati, portarono alla realizzazione di ‘istoriati’ a lustro di notevole qualità, riconducibili a diversi nuclei, legati — rispettivamente — al 'Pittore del Giudizio di Paride' e al 'Pittore di Sant'Ubaldo', a Nicola da Urbino e al suo entourage (ad es. il 'Pittore del Bacile di Apollo' e il `Pittore dì Fetonte'), a Francesco Xanto Avelli e alla sua cerchia (ad es. Francesco Urbini, il 'Pittore Lu Ur', Giulio da Urbino e il 'Pittore S' — forse Sforza di Marcantonio). Molti dì questi 'istoriati' furono dipinti e lustrati a Gubbio; ma è probabile che la presenza di Vincenzo Andreoli in Urbino tra la fine del quarto e l'inizio del quinto decennio sia indice di una sua attività di lustratore anche nella città marchigiana, forse iniziata già qualche anno prima.' La sigla "N" (ipoteticamente identificata con quella di Vincenzo) compare spesso sul retro di questi pezzi. L'attività della bottega degli Andreoli venne formalmente divisa tra i figli di Giorgio nel 1547. Mastro Giorgio morì nella primavera del 1554. Durante tutto il XVI secolo furono attivi a Gubbio anche altri vasai, alcuni dei quali vennero in contatto con gli Andreoli, e praticarono la ceramica lustrata. Da: E.A. Sannipoli, La via della Ceramica tra Umbria e Marche, Perugia 2010

Tecnica e produzione della decorazione a lustro nella storia della ceramica umbra di Giulio Busti Se pare ben documentata la sostanziale identità nelle procedure di produzione del lustro tra Gubbio e Deruta in epoca rinascimentale rimane, tuttavia, irrisolta la questione relativa alle diverse tonalità dei lustri delle due fabbriche. […] L’analogia tecnica potrebbe suggerire l’esistenza di maggiori contatti fra i due centri di quanto l’unica testimonianza scritta a proposito di un tal Paolo da Deruta alle dipendenze di Mastro Giorgio, ci ha finora riportato. La questione è rilevante anche dal punto di vista della importazione e delle diffusione della tecnica. Pare infatti improbabile sia la scoperta casuale del lustro da parte del ceramista, in quanto le procedure e i materiali del lustro differiscono notevolmente da quelle impiegate per la normale produzione, sia, per gli stessi motivi, la scoperta mediante sperimentazioni condotte per imitare lustri di importazione. Sembrerebbe più ovvio ipotizzare che l'apprendimento e la trasmissione della tecnica sia avvenuto per conoscenza diretta, come d'altronde ritiene Ravanelli Guidotti […] e anche Caiger-Smith che attribuisce a Pinturicchio la funzione di tramite tra le botteghe di Valencia e quelle di Deruta. Resta tuttavia incerta la datazione della comparsa e della permanenza della produzione a lustro nelle botteghe umbre. Come è noto una targa derutese a rilievo e con lustro rosso del 1501 è il più antico esemplare datato, mentre attribuito a Gubbio è un piatto a grottesche con lustro oro datato 1515. Tuttavia nel 1498 il derutese Pietro Paolo Masci celebrava i propri lavori di maiolica, cioè a lustro, e si ha inoltre notizia che l'anno successivo a Gubbio tal Mastro Giacomo forniva una tazza di maiolica al monastero olivetano di San '. Un'altra considerazione porta a datare la comparsa del lustro a Deruta almeno al 1465, anno in cui i maggiorenti derutesi proibirono ai vasai di accatastare fasci di ginestre o altre legno «minute» dentro le mura del castello e nelle vie del borgo sottostante, salvo che per il giorno e la notte in cui avveniva la cottura. Si ricorderà, dalla testimonianza di Piccolpasso, come le ginestre, a causa del loro elevato potere fumogeno, venissero impiegate come combustibile per effettuare la riduzione nella cottura del lustro, proprio detta proprietà le rende inadatte alla normale cottura […]Si dovrà attendere la ripresa revivalistica della seconda metà dell'Ottocento perché il lustro ricompaia nelle botteghe umbre. Dapprima a Gubbio dove fra il 1855 e il 1857 Luigi Carocci secondo alcuni, o Angelico Fabbri secondo altri, riscoprirono, dopo numerose sperimentazioni la tecnica del lustro. Sempre a Gubbio si distinse successivamente Giovanni Spinaci che perfezionò ulteriormente la tecnica arrivando a presentare alcune opere alla Esposizione Universale di Parigi del 1879. Si aggiungeranno in seguito Giuseppe Magni e Antonio Passalbuoni. A Gualdo Tadino la ripresa fu segnata invece negli stessi anni dagli esperimenti di Paolo Rubboli a cui seguì, alla fine del secolo la copiosa produzione a lustro di Alfredo Santarelli. A Deruta si registra un primo tentativo ad opera di Domenico Grazia che partecipa ad una esposizione locale con un saggio di lustro rosso; saranno tuttavia gli esperimenti di Alpinolo Magnini e Ubaldo Grazia agli inizi del Novecento e dar vita ad una fiorente produzione di opere a lustro, talora copie fedeli di esemplari d'epoca. A Todi infine si ha notizia di alcuni riusciti tentativi compiuti dal conte Francisci La ripresa va certamente inserita nel generale clima revivalisti-co, ma non è forse estranea alla riscoperta della tecnica del lustro la diffusione della prima edizione a stampa del trattato di Piccolpasso pubblicata a Roma nel 1857

Da: C.Fiocco, G.Gheradi, Ceramiche umbre dal Medioevo allo Storicismo, Faenza 1989


18 gennaio 2013

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TERRE COTTE E LATERIZI DI MARSCIANO E DINTORNI

Ne parliamo con: ROSARIA CATANA. Architetto con specializzazione in Allestimento e Museografia. Componente del Comitato Direttivo dell’Istituto Nazionale di Architettura (In/Arch) ha curato, in particolare, l’allestimento delle mostre “Un museo lungo un secolo” presso il Museo regionale della Ceramica di Deruta (2006) e “MAU/01”, dedicata agli architetti umbri e realizzata in occasione di FestArch – Festival Internazionale di Architettura, a Perugia dal 2 al 5 giugno 2011. E’ autrice di un saggio critico con rilievo architettonico sull’antica fornace Grazia di Deruta. GIULIO BUSTI. Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta insegna Tecniche della ceramica presso l’Accademia Belle Arti di Perugia. Artista ceramista le sue opere hanno ottenuto premi internazionali. Esperto ceramologo nel Consiglio Nazionale Ceramico, ha tenuto lezioni e conferenze sulla storia della ceramica in numerose istituzioni museali ed è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia. Ha redatto con Gian Carlo Bojani il progetto funzionale del Museo della Ceramica di Deruta, ha ordinato il Museo Grazia di Deruta e, con Franco Cocchi, la sezione delle Terrecotte del Museo di Marsciano.

FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


18 gennaio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Terrecotte e laterizi di Marsciano "È celebre questo luogo per i lavori, che vi si fanno de vasi di terra, i quali somministra in gran copia, non solo a Perugia, ma a tutta l'Umbria, e Toscana". Così, nel 1648, Cesare Crispolti, storico perugino, a proposito di Marsciano". Precedentemente Cipriano Piccolpasso ricordava che a Marsciano essercitio principale di quegli huomeni è di far le pignatte, così come nella visita del 1587, il cardinale Innocenzo Malvasia: Vi si fanno pignatte et altri vasi simili di terra grossa in molta eccellenza, et è essercitio che per lo spaccio che ha dà da mangiare a molte famiglie. Che fosse un'attività rilevante per l'economia della cittadina è ulteriormente testimoniato del fatto che gli antichi statuti locali disponevano, già nel 1531, che il camerlengo dell'arte dei pignattari occupasse il secondo posto nelle processioni. […]. Gli stessi statuti vietano il lavoro domenicale, ma si fa eccezione, oltre ai lavori per i generi di prima necessità, per i "fornaciari, pignattari et vassari quando avessero prima messo el foco ad le fornace". Mancano purtroppo notizie più dettagliate circa la produzione delle terrecot-te marscianesi, ma che queste do-vessero avere una loro specificità e riconoscibilità sembra attestato da un inventario derutese del 1764 e da un secondo del 1828. I due in-ventari attestano anche la continuità produttiva delle fornaci di terrecotte marscianesi che sembra invece declinare nella seconda metà dell'Ottocento. Infatti Comez nel 1888 segnala la sola fornace di stoviglie di Salvatore Carabassi e nel 1914 Ascenzo Riccieri, autore di un saggio storico su Marsciano', fa appena un cenno alle contemporanee fornaci di stoviglie domestiche che, insieme a quelle di laterizi, a un rinomato pastificio e a un chiodificio, costituivano la principale attività economica della cittadina. Non meno rilevante doveva essere, fin da tempi remoti, la produzione di laterizi. Alla difficoltà di reperire una documentazione storica decisiva, in attesa di ricerche sistematiche nell'Archivio Storico locale, supplisce per il momento la diretta osservazione dell'architettura dei borghi più antichi del territorio marscianese dove è possibile ancora ritrovare i segni di questa attività. Scrive infatti Francesco Cavallucci: "Il territorio di Marsciano in passato era ricco di fornaci di laterizio se ne trovano distribuite su quasi tutto il territorio marscianese […] Qua e là sono numerosi gli elementi in cotto con motivi orna-mentali; altri sembrano recare il marchio della fornace di provenienza". Che nella zona, poi, vi fossero fornaci è dimostrato anche dalla semplice lettura delle mappe catastali ottocentesche dove è documentato che nella frazione di Spina i religiosi di San Domenico possedevano una casa con fornace; a Sant'Apollinare nel vocabolo Podere Fornace è registrata una casa con corte ad uso di fornace; a Badiola una casa con corte ad uso fornace è di proprietà di Scipione Montesperelli". L'abilità dei fornaciai marscianesi è poi significativamente testimoniata da un documento del 1432, nel quale si legge che i priori di Perugia, non trovando in città esperti tegolari e mattonari, affidarono la conduzione di una fornace agli "expertissimi magistri" Antonio di Pietro, Francesco di Stefano e Valentino di Lalo, tutti di Cerqueto. Le antiche tradizioni ceramiche di Marsciano, se non hanno trovato un moderno sviluppo nelle terrecotte e nelle stoviglie, hanno visto, invece, all'inizio del Novecento la trasformazione in senso industriale della produzione di laterizi. Ciò si deve, in particolare, all'iniziativa di Pio Briziarelli, fondatore nel 1907 della fornace omonima. In origine, la fornace è dotata di un forno a fuoco continuo, probabilmente Hoffmann, e di un motore elettrico da 25 cavalli. "Impiega per 300 giorni all'anno circa 40 operai, di

cui 5 femmine, a cui è corrisposto un salario vario di lire 1,25 a lire 2,50, e produce laterizi comuni, mattoni forati, tegole, tubi, vasi che vengono smaltiti nella piazza e nei centri vicini''. Altre fornaci locali sono quella della Società Faloci e C., probabilmente anch'essa a fuoco continuo, quella di Giosilio Uccellini che conduce invece una fornace "a pignone" e quella infine di Elpidio Alunni. Alla produzione di laterizi la Briziarelli affiancò negli anni venti una produzione di terrecotte artistiche e architettoniche. Dal 1924 al 1938 circa figurava infatti nell'azienda una sezione artistica di terrecotte, affidata alla direzione di Pietro Guaitini, allievo di Francesco Biscarini, che comprendeva le attività di modellazione di argilla, di trasformazione in formature in gesso e di produzione di materiale architettonico e decorativo in terracotta. Negli stessi anni la "Briziarelli" si configura come una tra le principali aziende del settore. Scrive, infatti, Pasquina Bettolini, in una ricerca sull'industria umbra del periodo: "In questo settore [dei laterizi] si contano dal 1937 14 aziende, ma le sole in-formazioni disponibili, e comunque sempre frammentarie, riguardano le fornaci Briziarelli di Marsciano La fornace di Marsciano, all'inizio del 1938, produce speciali tipi di laterizi appositamente studiati per realizzare la massima economia nell'impiego del ferro, che vengono utilizzati nella costruzione dei solai, tetti e coperture in genere. Nel 1939 le Fornaci Briziarelli occupano circa 350 operai". Il periodo bellico segna agli inizi delle ostilità un'ulteriore espansione della fabbrica grazie alle commesse militari, tanto che "nel corso del 1940 - scrive ancora Bettolini - l'azienda segnala delle difficoltà per lo smaltimento del prodotto dalla fornace di Marsciano a causa dell'insufficiente nu-mero dei vagoni ferroviari. Nel gennaio 1941 richiede i vagoni per trasportare il materiale pronto a Roma dalla stazione di Santa Maria degli Angeli, il materiale da spedire serve per il completamento del Palazzo del Littorio, per vari lavori di carattere militare e per l'E42. Alla fine del 1941 Briziarelli fa presente al Prefetto la situazione critica in cui si trova l'azienda a causa dei ridotti rifornimenti di lignite da parte della miniera di Bastardo. La fornace Briziarelli è destinata alle industrie ausiliarie, alle caserme, alla costruzione delle case popolari e case coloniche. Un documento del 1944 fornisce notizie dettagliate sull’azienda. Si tratta di una società in nome collettivo formata da diversi esponenti della famiglia Briziarelli che possiede vari stabilimenti. Oltre quello di Marsciano dove 300 operai producono vari tipi di laterizi, la fornace di Assisi (scalo) raccordata alla stazione occupa normalmente 100 operai; quella di Foligno che dispone di mattoni pieni; quella di Petrignano d'Assisi in prossimità dell’aeroporto e, infine, la fornace di Sangemini nei pressi della ferrovia. Gli impianti sono stati danneggiati dalle truppe tedesche e dai bombardamenti degli alleati. In particolare, la fornace di Marsciano è priva di elettricità e il raccordo ferroviario è stato distrutto e perciò la Briziarelli richiede l’assegnazione di mezzi stradali per garantire con le rimanenze di materiali esistenti, le forniture al Comando Militare Alleato per la ricostruzione dei ponti distrutti. Nel novembre 1946, la sospensione della fornitura dell'energia elettrica che impedisce il funzionamento dei forni, costringerà Pio Briziarelli a cessare l'attività. Il licenziamento degli oltre trecento operai è un momento drammatico per la città che si risolve parzialmente solo nell’estate successiva e, ancora, all'inizio del 1948 la ditta Briziarelli poteva usufruire della corrente elettrica esclusivamente per la parte di lavorazione a ciclo continuo".

Da: G.Busti e F.Cocchi, Terrecotte e laterizi dell’Umbria, Perugia 1996


25 gennaio 2013

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AL TEMPO DI PERUGINO

Ne parliamo con: GIULIO BUSTI. Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta insegna Tecniche della ceramica presso l’Accademia Belle Arti di Perugia. Artista ceramista le sue opere hanno ottenuto premi internazionali. Esperto ceramologo nel Consiglio Nazionale Ceramico, ha tenuto lezioni e conferenze sulla storia della ceramica in numerose istituzioni museali ed è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia. Ha redatto con Gian Carlo Bojani il progetto funzionale del Museo della Ceramica di Deruta, ha ordinato il Museo Grazia di Deruta e, con Franco Cocchi, la sezione delle Terrecotte del Museo di Marsciano.

FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


25 gennaio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Perugino e la ceramica Per cogliere quale possa essere stato il concreto impatto dell'arte di Perugino sulla ceramica rinascimentale umbra è utile non prescindere dalla considerazione delle possibili vie di influenza. Se si deve ipotizzare un diretto contatto con il pittore e/o la sua produzione, questa si è dispiegata principalmente a Firenze, Roma e Perugia, senza toccare nessun centro ceramico a eccezione di Deruta, dove l'artista verso il 1476 eseguì una delle sue prime opere. Non Orvieto, dove la sua permanenza fu occasionale, più che altro per le mancate committenze del duomo, né Gubbio dove non risultano sue presenze e lo sviluppo della ceramica sembra piuttosto influenzato dalla perizia tecnologica di Giorgio Andreoli, da un lato, e dall'altro dal vicino istoriato urbinate. E mentre resta più enigmatico il rapporto con Perugia, a Deruta si intravede il maggiore apporto della pittura di Perugino. Tuttavia, le indagini finora condotte su basi di comparazione stilistica hanno preferito, nella quasi totalità dei casi, rintracciarvi una vicinanza con Pinturicchio. A favore di questa idea, anche una serie di indizi che vanno dalle supposte parentele acquisite del pittore […] ai rapporti di Pinturicchio con papa Alessandro VI Borgia che Caiger-Smith (1985) ha ipotizzato come possibile via per la trasmissione del lustro dalla Spagna moresca a Deruta; alla frequente presenza nelle cappelle affrescate da Pinturicchio di pavimenti maiolicati ritenuti, talvolta erroneamente, derutesi; fino al ritrovamento da parte di Briganti (1906) di una lettera autografa del duca Valentino che, accampato a Deruta nel 1500, riceve la visita del pittore. "La delicatezza cromatica, il sottile linearismo, l'esuberanza decorativa di questo gentile artista — scrive poi Marabottini Marabotti — parevano fatti apposta per essere trasferiti sulla maiolica; e viene da domandarsi, per la coincidenza di date e i legami familiari ricordati, se non fosse proprio lui a suggerire alle botteghe derutesi del primo quarto del cinquecento quello stile un poco arcaizzante che le caratterizza. Persino il lustro dorato, che a Deruta sottolinea ed esalta le figurazioni profilate con gusto bidimensionale, sembra singolarmente riecheggiare gli ornati a oro largamente profusi nelle tavole e negli affreschi di Pinturicchio". Anche di recente un'acuta analisi di Hess (2002), ritiene stringenti le analogie tra alcuni piatti a lustro disegnati a spolvero, tra cui i la serie di Angeli annuncianti e quelle di "belle donne' con diadema del tipo la Giulia bella o di quelle del tipo La Fiammetta bella. [..]Hess ipotizza che la trasmissione sia avvenuta mediante la copia o l'utilizzo di cartoni da bottega impiegati come spolveri. Secondo Fiocco e Gherardi “una 'maniera peruginesca" oscillante tra Perugino e Pinturicchio è il risultato di una generica influenza esercitata dalla pittura umbra sulla ceramica derutese, già sottolineata da De Mauri (1924), che vi vedeva però un apporto diretto degli artisti riconoscibile dalla comparazione stilistica e che riportava, per quanto riguarda le opere esaminate nella monografia dedicata a Deruta, al ciclo di affreschi del Collegio del Cambio. In effetti, la vicinanza stilistica fra i due pittori rende difficile discriminare quale sia la fonte iconografica cui i derutesi possano essersi riferiti. Il caso della serie degli Angeli annuncianti è significativo in proposito, poiché strette analogie possono trovarsi con l'angelo dell'affresco Madonna in trono con Bambino e santi di Pinturicchio nella chiesa di Sant'Andrea di Spello (1507-1508) come suggerisce Marabottini Marabotti (1982) ripreso da Hess (2002), ma ancora più stringenti con l’angelo di destra nell'affresco Eterno tra angeli (1500), dipinto da Perugino nella sala dell'Udienza del Collegio del Cambio di Perugia, che può contare su maggiori elementi di concordanza per i

panneggiamenti delle vesti e la postura. A favore di Perugino depongono altri elementi. In primo luogo, concordando con Hess, il medium può essere rappresentato dai disegni preparatori o dai cartoni, e in effetti qualche rara ma significativa esemplificazione mostra una possibile derivazione. Un disegno di un artista peruginesco, che riproduce la Venere affrescata nelle volte della sala dell'Udienza del Collegio del Cambio, si trova nel Gabinetto Disegni e Stampe della Galleria degli Uffizi di Firenze, prova evidente della circolazione del modello che ha ispirato la serie del tipo La Fiammetta bella che, benché nel piatto sia tagliato a mezzo busto, mostra una stretta concordanza, mentre la stessa figura intera, variata la posizione delle braccia, è stata impiegata per il piatto con la rana incoronata della National Gallery di Washington. Attribuito a Perugino è un bel disegno con due giovani donne con una cornucopia e una testa di cervo, anch'esso conservato nella galleria fiorentina, nel quale la donna di destra porta una cornucopia dal cono lungo e flessuoso appoggiata sulla spalla, come si vede ad esempio nel piatto Non bene pro toto del Victoria and Albert Musem […] L’ipotesi che Perugino possa aver disegnato modelli per i vasai appare effettivamente improbabile, benché alcuni esempi indichino che il maestro in varie occasioni forni modelli per opere di arte decorativa. È noto il caso della navicella d'argento con l'immagine di Sant'Ercolano che i priori della città fecero realizzare su disegno di Perugino all'orefice Mariotto di Marco e che veniva esposta "piena di confezzioni” sulle tavole dei grandi ricevimenti; suo è anche il disegno del coro di Sant'Agostino di Perugia e quello di un portale in pietra che i priori ordinarono per la Sala Grande del palazzo nel 1518; ma si tratta di committenze istituzionali. Può, forse, argomentarsi su un disegno di versatore attribuitogli e conservato all'università di Oxford. I modelli e i disegni provenienti dalla bottega restano perciò il medium più probabile, anche in considerazione del fatto che, come si vede dalle opere in mostra, l'influenza di Perugino non fu totalizzante. Le sue pitture non vennero cioè replicate integralmente, magari in piccolo formato, ma gli elementi, gli spunti perugineschi furono adattati, aggiustati in uno schema già consolidato nella ceramica derutese che divideva tra la figura centrale, dove di solito era il tema principale, e la cornice riccamente decorata sulla tesa, o al contrario decontestualizzati e reinterpretati come nei piatti a grottesche attribuiti a Nicola Francioli. Vi è un'unica, isolata, eccezione rappresentata da una mattonella istoriata con Madonna in trono con il Bambino e i santi Rocco e Sebastiano nel Victoria and Albert Museum, nemmeno attribuita a Deruta benché riproduca un'ambientazione inequivocabilmente peruginesca che ricorda da vicino la Madonna fra i santi Battista e Sebastiano alla Galleria degli Uffizi. Anche i temi prescelti dai vasai Derutesi, pur riecheggiando gli elementi di fondo di quelli prediletti da Perugino, ne semplificano la struttura narrativa, non solo per adattarla alle esigenze tecnologiche o fisiologiche della ceramica, ma anche nella descrizione delle figure. Così, pur restando in tema di amore sacro e profano ben esemplificato dal piatto Faustina bella, in cui si inserisce il Timor Domini che appare nelle cartelle le "belle donne" derutesi si innestano nella già consolidata tipologia delle coppe amatorie e si giovano certamente della purezza e dello stile che viene da Perugino, ma tendono a restare, salvo casi d'eccezione, confinate nell'orizzonte concettuale del piccolo dono, dell'oggetto portabile da rendere in omaggio.

Da: G.Busti e F.Cocchi, La Ceramica umbra al tempo di Perugino, Milano 2004


1 febbraio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

DERUTA E LA CRISI DEL SEICENTO

Ne parliamo con: LUCA PESANTE. Laureato in archeologia medievale presso l'Università degli Studi di Firenze, si occupa prevalentemente della storia della ceramica nel Lazio del tardo Medioevo e d'Età moderna con particolare attenzione alla circolazione degli artigiani e dei "saper fare" su cui ha pubblicato specifici lavori. Nel 2012 ha organizzato il convegno La ceramica nel Seicento fra Lazio, Umbria e Marche. E’ attualmente impegnato nella catalogazione dei materiali ceramici medievali e post medievali dei Musei Vaticani.

CLARA MENGANNA. Ha condotto numerose ricerche d’archivio, anche su commissione di amministrazioni pubbliche, che hanno messo in luce significative novità sulla antica ceramica derutese e su altre vicende di interesse storico e oggetto di pubblicazioni. Tra queste (con Lidia Mazzerioli): La famiglia Mancini: i documenti (1997), I Marchesi Monaldi signori del Castello di Migliano 1380 – 1937 (2009). Ha presentato al recente convegno di Bagnoregio uno studio sul commercio del piombo e dello stagno nell’Umbria del Seicento.

FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


1 febbraio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

Alcune considerazioni sulla ceramica dell’alto Lazio in età moderna Romualdo Luzi e Luca Pesante L'altro centro di lavoro che emerge dai documenti è Bagnoregio. La prova di maggiore evidenza per il XVI secolo è la massiccia presenza di uomini che hanno a che fare con il lavoro dell'argilla all’interno dei documenti d'archivio, ma l'aspetto ancor più interessante è che la maggior parte di essi è originaria di Deruta. Esiste una circolazione di artigiani tra i due centri (prevalentemente da Deruta a Bagnoregio) che si interrompe soltanto alla fine del XVII secolo. Tale mobilità ha in qualche modo rallentato la formazione di uno stile proprio della ceramica bagnorese, che assumerà però caratteri puntualmente distintivi soprattutto nel XVII secolo. Oggi come allora, non siamo ancora in grado di riconoscere gran parte dei prodotti bagnoresi del XVI secolo, cioè di operare quella distinzione con le ceramiche di Deruta. Viene pertanto il sospetto che tra le tante maioliche finite nelle guardaroba romane e registrate come fabbricate a Deruta ci siano anche alcuni prodotti realizzati in realtà in qualche bottega di Bagnoregio, forse dai derutesi stessi. Perché in effetti, il trasferimento di vasai derutesi nell'alto Lazio tra Cinque e Seicento trova una spiegazione, per ora, soltanto se si interpreta come un avvicinamento a quel circuito commerciale che ruotava attorno al principale centro di consumo di ceramica dell'Italia centrale, Roma, che - si è visto - comprendeva anche i luoghi di lavoro del Lazio settentrionale. Proprio a Roma, non a caso, la presenza di artigiani di Deruta - che già dalla seconda metà del XV secolo vi esportano grandi quantità di "vascella pinte" - nel corso della seconda metà del XVI secolo è minoritaria rispetto ai vasai di Casteldurante e di Faenza che, con alcune famiglie di Gallese, controllano la gran parte della produzione e della vendita di ceramica. Nel 1576 un vetturale di Acquapendente (i vetturali molto spesso acquistano ceramiche dai produttori per andarle a rivendere altrove) ci informa che con alcuni soci è impegnato nel trasporto e vendita della ceramica di Acquapendente unitamente a quella di Bagnoregio. Dunque, i vasai dei due centri erano in grado di realizzare oggetti che potevano essere venduti facilmente anche molto lontano, nonostante la pesante incidenza dei costi del trasporto. Dello stesso anno è anche il pagamento effettuato dai padri domenicani della Quercia di Viterbo per il corredo della loro spezieria commissionato ai vasai di Bagnoregio. Dagli inventari romani dell'ultimo decennio del XVI secolo si ricavano altre importanti informazioni sui centri produttivi alto laziali: alcuni contenitori d'uso comune, in particolare "foconi" (bracieri) di misure diverse, vengono importati da Nepi e da Vasanello. Ma da quest'ultimo centro di lavoro dell'argilla ("Bassanello" nelle fonti antiche) e da Gallese, provenivano fin dall'ultimo quarto del XV secolo la maggior parte di ceramiche d'uso comune vendute sul mercato urbano di Roma ("pile, piattelli, pignatte, coperchi"). Al quadro finora delineato dovrebbe ancora aggiungersi la città farnesiana di Castro (a partire dal 1579) e con ogni probabilità anche Viterbo, nella quale fino alla metà del XVI secolo furono attive diverse botteghe di ceramica da mensa.

La ceramica derutese del Seicento Giulio Busti e Franco Cocchi Il fenomeno può leggersi nell'ambito della situazione di crisi che alla metà del Seicento fece perdere all'Italia centrosettentrionale il primato economico dell'Europa a favore dell'Olanda. Scrive, in particolare, Malanima: «In ogni epoca esistono economie-guida ed economie meno avanzate, dal momento che in ogni epoca l'efficienza produttiva e le risorse sono distribuite nello spazio in maniera diseguale. Dalla fine del Settecento alla fine dell'Ottocento l'economia-guida fu quella inglese. Considerato lo stato delle tecniche, operava più vicina al livello massimo delle potenzialità produttive. Prima di quella inglese, dalla metà del Seicento alla metà del Settecento, l'economia-guida fu quella olandese. Prima ancora, nei trecento anni e più dalla fine del Duecento all'inizio del Seicento, il primato economico fu dell'Italia del Centro-Nord. Quest'area comprendeva il territorio che va dalle Alpi fino alla Toscana meridionale, all'Umbria e alle Marche incluse [...]». La crisi provocò un generale arretramento della società italiana, ma il cambiamento strutturale, secondo Malanima, ebbe piú effetti sul peso dell'Italia nell'economia mondiale che sul livello di prodotto lordo poiché la produzione si riorganizzò adeguandosi alle nuove necessità. Nel settore industriale, il declino dell'industria laniera fu compensato nella seconda Seicento dall'espansione di quella della seta, grazie anche al largo impiego di manodopera rurale. Da questo punto di vista anche la produzione derutese si accosta al Seicento nell'ambito di una progressiva perdita della posizione di prestigio acquisita dalla ceramica fra le arti decorative nel periodo rinascimentale; la produzione si riorganizza adattandosi a mutate condizioni economiche e sulla base delle contemporanee esigenze funzionali ed estetiche. Lo segnala il massiccio ritorno a forme d’uso, in particolare, la stoviglieria da credenza e da tavola che, anche se decorata, non tradisce la destinazione d'uso, come d'altra parte testimonia inequivocabilmente il passo di Ciatti. Scompare definitivamente il piatto da pompa e la pittura si trasferisce sulle superfici piane targhe e dei pannelli, mentre solamente qualche attardato pittore si esercita ancora su piatti e vassoi presi dalla bottega del vasaio. Il cambiamento è pienamente avvertito anche dalla storiografia ceramologica. Per De Mauri una targa eseguita da Pietro Paolo Mancini nel 1630 è l'ultimo genuino esempio della produzione derutese: “In seguito lo stile va perdendo le sue particolarità più spiccate, volgendosi ad imitazioni, accettando caratteri forestieri.[…] La forma va facendosi sempre più complicata ed artificiosa. Siamo alla decadenza.” Sembrerebbe tuttavia decisivo più che l’attenuarsi delle tipizzazioni artistiche e decorative, il profondo mutamento degli stili di vita che caratterizzano il periodo. L’età moderna, infatti porta l’arricchirsi degli interni domestici che coinvolgono la ceramica per l’introduzione di beni legati ai nuovi consumi, quali servizi da tè e caffè, e per sostituire a più buon mercato sia le stoviglie metalliche che le costose porcellane.

Da: N. Stringa, Studi sulla ceramica abruzzese-umbromarchigiana, Tolentino 2012


8 febbraio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

ECCO S’AVANZA UNO STRANO ARTISTA (R-EVOLUTION)

Ne parliamo con: ANNA MOSSUTO. direttore responsabile del Gruppo Editoriale Corriere, che pubblica il Corriere dell'Umbria, quotidiano in edicola dal 1983, Corriere di Arezzo, Corriere di Siena, Corriere di Maremma, Corriere di Viterbo e Corriere di Rieti.

PAOLO LUCCIONI. Architetto, ha partecipato numerosi concorsi nazionali ed internazionali ottenendo premi e riconoscimenti. Tra questi, il Premio Europeo di Architettura per impianti sportivi promosso dal CONI e dal Consiglio d’Europa. Nel 1999 Officina Edizioni pubblica la monografia dal titolo “Architetture di Paolo Luccioni” a cura di Mario Pisani. E’ stato responsabile della Sezione Architettura del Trevi Flash Art Museum. E’ Accademico di merito per l’Architettura all’Accademia di Belle Arti di Perugia e componente del Comitato Scientifico del Museo del laterizio e delle terrecotte di Marsciano. FRANCO COCCHI. Psicologo, dirige la unità operativa di formazione della Asl2. Esperto ceramologo, è autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla materia ed è componente del Comitato di Disciplinare della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio. Ha curato mostre d’arte ceramica antica e contemporanea tra cui, nel 2011, la collettiva internazionale Evolution Art Revolution nel Museo Nazionale di Danzica. E’ correntista della Banca del tempo di Marsciano


8 febbraio 2013

[DIECI CONVERSAZIONI (+1) SULLA CERAMICA]

.... artistica che, in passato, ha connotato significativamente la nostra regione. Lontanissimi i tempi delle biennali e dei concorsi internazionali che animarono fin dagli anni Cinquanta una felice stagione ricca di fermenti e di sperimentazioni, ma oramai lontani anche i Multipli d'arti-sta, le rassegne regionali all'Arte Fiera di Bologna e i festival Cotta Terra degli anni Ottanta, lo scenario complessivo mostra un generale rallentamento, mentre un improvviso oblio ricopre quella nutrita schiera di artisti della ceramica che tentarono, riuscendovi, a cimentarsi con i nuovi linguaggi dell'arte contemporanea portandovi le specificità proprie della cultura ceramica. A cercarle, di ragioni di questo esaurimento se ne trovano diverse. Non si direbbe una mancanza di talenti, quanto di opportunità e di orientamento. Non possono non registrarsi in tal senso la paradossale scomparsa degli istituti d'arte per la ceramica (Deruta e Gubbio) in favore di licei artistici dove la ceramica non è più di casa; le politiche culturali dei centri di antica tradizione ceramica che, salvo il caso di Gubbio, si dedicano alla propria identità in modo confuso ed estemporaneo. E ancora, la scomparsa o la marginalizzazione di operatori culturali e animatori di manifestazioni che non è stata meno decisiva nel rapido decadimento della spinta verso l'innovazione artistica. Si sente fortissima, infatti, la mancanza di personalità di rilievo come Edgar-do Abbozzo -scomparso prematuramente quando già emarginato dalla direzione dell'Accademia di Belle Arti- la cui generosa azione di promozione della ricerca artistica e di artisti giovani e meno giovani, non ha ancora trovato un sostituto. Si potrebbe aggiungere l'involuzione di tutto il comparto ceramico industriale, cui in passato la ceramica d'artista si era in gran parte appoggiata che, incapace di fronteggiare la crisi globale, ha oramai virato verso l'assistenzialismo ai produttori piuttosto che investire nella creatività artistica. Le eccezioni sono dunque rare e meritano attenzione, specie quando nascono senza sostegni e contributi pubblici o protezioni di sorta. L'apertura dell'estate è segnata dall'esposizione ai primi di giugno delle ceramiche dell'architetto e designer Michele De Lucchi alla Rocca Paolina nell'ambito del Festarch, il festival dell'architettura che in soli due anni si è imposto come uno dei più significativi eventi culturali della regione. L'esperimento di De Lucchi ha trovato la partnership della Ubaldo Grazia di Deruta per una collezione di vasi, da replicare in pochi esemplari, ispirati agli acquerelli di Ottorino De Lucchi, fratello dell'architetto. La formula in sé non è nuova, i multipli a tiratura limitata appartengono tanto all'arte moderna che al design e se anche nella ceramica umbra si

contano precedenti significativi, mai si erano spinti a tale profondità di rapporto tra l'autore e l'artefice. Se per il primo appare ovvio che l'oggetto risulti dalla elaborazione intellettuale dell'ideatore (doppia e sofisticatissima in questo caso), l'apporto della realizzazione artigianale non consiste solo nella perfetta esecuzione, ma sta nella interpretazione, secondo la propria cultura operativa, del pensiero dell'artista. In questa operazione di traduzione la Grazia porta, perciò, la propria caratterizzazione storica e non è indifferente che possa vantare una continuità produttiva secolare. Su tutt'altro versante alla fine di giugno, poi, il Comune di Gubbio ha sostenuto l'iniziativa di Giampietro Rampini, ospitando una delegazione di artisti del Sultanato dell'Oman che si è confrontata con una selezione regionale di ceramisti e artisti. Tra questi, Lucia Angeloni, Marino Moretti e Maurizio Tittarelli Rubboli, accomunati da una solida padronanza delle tecniche ceramiche e dallo scantonamento, ricercato con diverse soluzioni estetiche e formali, dalle espressioni tradizionali della ceramica umbra. Grazie alla regia di Ettore Sannipoli, la manifestazione ha dato perciò continuità ad una esplorazione che Gubbio ripetutamente dedica al rapporto fra la ceramica umbra contemporanea e le sue versioni storicizzate codificate nella produzione artigianale. Operazione da cui c'è da aspettarsi, prima o poi, qualche nuova caratterizzazione produttiva. Si segnala, infine, a chiusura dell'estate, la mostra di Martha Pachón Rodriguez alla galleria Ab Ovo di Todi. Giovane e affermata artista si è guadagnata in poco più di dieci anni di attività artistica un gran numero di riconoscimenti inter-nazionali. Dai premi riportati ai concorsi di Faenza del 2006 a quelli di Mino (Giappone) nel 2008 e ad Andenne (Belgio) nel 2010, fino al recente primo premio al XVI concorso di Valladolid. Dalla originaria Colombia dove ha avuto una solida formazione artistica, si è perfezionata in gres e porcellana a Faenza, dove oggi risiede. Docente e pubblicista oltre che ceramista, Martha Pachón interpreta efficacemente nelle sue porcellane rese a gioielli, installazioni o sculture, l'arte globalizzata dei tempi attuali. Si tratta di un evento importante. Le opere dell'artista mostrano. infatti, un modo di intendere la ceramica che si rivolge a spazi diversi della vita quotidiana. E non può passare sotto silenzio l'attività della galleria di Todi che, caso piuttosto raro nel nostro Paese, si dedica con tenacia alla promozione di artisti-artigiani contemporanei delle cosiddette arti applicate, oramai del tutto affrancate dalle arti maggiori. F.Cocchi, L’estate della ceramica umbra, Corriere dell’Umbria, 27 agosto 2012


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