Diari di Cineclub - Numero 28 (Maggio 2015)

Page 1

n.3

n. 28 - maggio 2015

Anno IV

Festa del lavoro. Disoccupati, precari... mancano i festeggiati! “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”. Viva la festa del lavoro

“Gli Artigiani” di Onofrio Bramante (olio su tela, 1.100 x 220 cm.) Associazione operaia, Fasano (Br) anno 1989

Parliamo di “Valdarno Cinema Fedic” Come molti di voi sapranno, il Festival che si svolge a San Giovanni ha radici lontane. A questo proposito, abbiamo chiesto a Stefano Beccastrini, presidente del Festival di illustrarci breveViola Vasarri mente lo spirito del Festival e le prospettive future. “ Il Festival è nato nel 1983 ed ha già più di 30 anni. Ho avuto la fortuna di essere tra i suoi fondatori. Marino Borgogni mi propose di spostare il Festival da Montecatini a San Giovanni quando ero Assessore alla Cultura del paese e all’epoca era sindaco Paolo Parigi. L’amministrazione comunale, nell’aderire al progetto, pose alcuni vincoli e condizioni una su tutte che la partecipazione al Festival fosse libera anche per chi non fosse stato iscritto alla Fedic. Inoltre pose la condizione che il Direttore artistico fosse una personalità del mondo della critica cinematografica, in modo che nel Festival vi fosse anche una voce del cinema “adulto” e professionale. Questa è una ragione del successo che ha saputo mantenere il festival negli anni: una

forza dinamica dentro di sé. L’idea vincente che il Valdarno Cinema sia un luogo d’ incontro dei cineamatori Fedic e non Fedic. In questi anni abbiamo visto dei bei film Fedic e dei film di personaggi come Antonioni e Bertolucci. Quest’anno ci riproviamo. Da 3 anni ho avuto questo incarico di cui sono grato, di sostituire Marino Borgogni alla presidenza del Comitato e per questo farò il possibile per far sì che l’eredità di Marino possa continuare a vivere. Quest’anno il Festival inizierà celebrando il 70° della liberazione dell’Italia dal nazifascismo con la proiezione di “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. Verrà poi premiato per la prima volta un regista straniero, Abel Ferrara e di lui verrà proiettato il film “Pasolini” a 40 anni dalla morte dello scrittore. Oltre a questo si aggiunge il tema della valorizzazione dei film girati in Valdarno. Infatti stanno costruendo una guida dei film girati nella vallata per una valorizzazione intelligente, turistica e culturale, del Valdarno”. Belle parole ci arrivano anche da Maurizio Viligiardi, sindaco di San Giovanni: “E’ con il solito piacere e con grande orgoglio che anche quest’anno vedo nascere una nuova edizione segue a pag. 4

La sicurezza sul lavoro vista da Pierfrancesco Uva

«Le giovani generazioni, tramite il lavoro, abbiano la possibilità di progettare con serenità il loro futuro, affrancandosi dalla precarietà e dal rischio di cedere a ingannevoli e pericolose tentazioni» Francesco “Il diritto al lavoro è la priorità delle priorità se vogliamo rispettare l’impronta personalista della Costituzione”. Sergio Mattarella

diaridicineclub@gmail.com


n.

28

Cinedeaf, Festival Internazionale del Cinema Sordo

Conoscere da vicino la cultura sorda attraverso il cinema. E scoprirsi vicini L’Istituto Statale per Sordi di Roma è tra le più antiche istituzioni in Italia, attivo già dal 1784,che si occupano di disabilità. Lo stereotipo del sorLuca Bianchi do come “sordomuto” è duro a morire e sottende la convinzione che il sordo abbia una disabilità che coinvolga anche facoltà intellettive, oltre che espressive. Oggi l’Istituto Statale per Sordi di Roma è l’unica realtà pubblica in Italia, centro di servizi di eccellenza, deputato a occuparsi delle persone sorde. Il cinema sui sordi e sempre di più il cinema dei sordi. Presentiamo la terza edizione del festival sul “Deaf Cinema” il più importante in Italia. La terza edizione sarà una tre giorni 5, 6, 7 Giugno 2015 dedicata a proiezioni, incontri e dibattiti interamente accessibili sul tema del Cinema Sordo e dei suoi autori, da svolgersi presso il Teatro Palladium di Roma. Numerosi sono stati i registi sordi stranieri che hanno accettato il nostro invito a partecipare all’iniziativa, oltre ai registi sordi e udenti italiani che per la prima volta hanno potuto mostrare i loro lavori su uno schermo cinematografico e hanno potuto confrontarsi con i loro colleghi stranieri e con il pubblico sordo ed udente presente in sala. Attualmente ha già ottenuto il patrocinio di Rai – Radio Televisione Italiana, Prix Italia, Ente Nazionale Sordi, Comune di Roma – Assessorato alla Cultura e Municipio VIII, oltre alla mediapartnership di Comunità Radiotelevisiva Italofona e Agenzia ANSA. Attraverso una fase di ricerca e reperimento dei materiali, direttamente e tramite un apposito concorso a cui sono stati chiamati a partecipare i ‘Registi’, sordi e udenti e le ‘Scuole’ di tutto il mondo, sono stati selezionati i film che entreranno a far parte del programma ufficiale della III edizione del Cinedeaf e che saranno poi resi accessibili al pubblico mediante la realizzazione di sottotitoli specifici per sordi, sia in lingua italiana che in lingua inglese. Attualmente è in fase di

stesura il programma definitivo che verrà comunicato ufficialmente sul sito www.cinedeaf.com. Il numero totale delle opere selezionate è di circa 30, per una durata complessiva di poco più di 700 minuti (12 ore ca.). La sezione ‘concorso’ è equamente ripartita tra opere di fiction e di documentario, la provenienza geografica internazionale è varia, tra i numerosi Paesi si annoverano, oltre all’Italia, Inghilterra, Nuova Zelanda, USA, Quebec, Olan-

Valeria Golino, attrice, regista e modella madrina d’eccezione della 3° edizione del Festival Internazionale del Cinema Sordo. Una madrina d’onore che quest’anno ha conosciuto la LIS e il mondo sordo per la lavorazione del prossimo film del regista Giuseppe Gaudino in cui interpreta la mamma di un ragazzo sordo.

da. Storicamente, un varco verso il mondo della sordità e della lingue dei segni si apre solo verso il 1980, anche se la lingua dei segni compare per la prima volta in “Johnny Belin”, un film del 1948, e di sordità si occupa anche un film del 1952 “Mandy, The Crash of Silence” (Mandy, la piccola sordomuta). Si tratta ancora, però, di un modo di guardare alla sordità come un difetto, mera infermità, che al massimo suscita gag divertenti come in “Straziami ma di baci saziami” un film commedia italo-francese del 1968 diretto dal regista Dino Risi, con Ugo Tognazzi nel ruolo del sordo. La prima vera apertura al mondo della sordità e alla cultura sorda avviene solo nel 1986 con l’uscita del film “Children of Lesser God” che vede per la prima volta come protagonista un’attrice sorda, Marlee Matlin vincitrice anche del premio Oscar per l’ interpretazione. Risalgono invece agli anni I protagonisti del festival Cinedeaf sul palco in una precedente edizione (foto ’90 diverse pellicole con le di Giuseppe Fusco) quali sembra che il cinema

2

sia finalmente giunto a sviluppare un discorso maturo sulla realtà delle persone sorde, come il documentario del regista francese Nicolas Philibert “Le Pays des Sourds”, il lungometraggio di difficile reperimento “Dove siete? Io sono qui” della regista italiana Liliana Cavani, o “Marianna Ucrìa”, un film di Roberta Faenza tratto dal romanzo “La lunga vita di Marianna Ucrìa” di Dacia Maraini, recitato dall’attrice e regista sorda Emmanuelle Laborit. Finalmente, anche registi sordi si appropriano della camera da presa e raccontano, da soli e con attori sordi, il loro mondo, le loro esperienze e i loro vissuti con la loro lingua e le loro modalità espressive. Nasce, così, una vera e propria produzione artistica testimoniata dalla realizzazione di diversi Festival di Deaf Cinema come il famoso Deaf Rochester Film Festival, il Deaf In The Picture, Festival di Cinema Sordo olandese, o l’italiana Biennale Internazionale di Cinema e Video del Sordo di Milano e, dal 2012, il Cinedeaf Festival Internazionale del Cinema Sordo del nostro Istituto. L’ambizione, oltre a dare continuità all’esperienza del Cinedeaf, è quella di collocare il “Cinema sordo” all’interno della storia del cinema tutto e valutare come è stato reso visibile quel processo fondamentale, ancorché faticoso, di inclusione della cultura sorda nella cultura nazionale e delle persone sorde nella società che dovrebbe realizzare e vantare comuni diritti di cittadinanza. Di nuovo l’evoluzione delle tecnologie permette un miglioramento della vita delle persone sorde consentendo a coloro i quali erano stati espulsi dall’avvento del sonoro nel cinema di auto produrre quella che sta diventando per queste lingue visuali, prive di scrittura, la genesi della propria letteratura. Luca Bianchi Accessibilità per le persone sorde. Sono dieci anni che declino questo proposito in vari settori spinti da passione e curiosità: software didattici e pedagogia speciale, comunicazione mediate dal computer e social media, memoria storica e archivi digitali. Lavoro come coordinatore della Mediavisuale nell’Istituto Statale per Sordi. Le nostre attività permettono di arrivare oggi ad un’ampia offerta di servizi, consulenze ed organizzazione di eventi culturali. www.cinedeaf.com/ www.issr.it/ISSR.html


diaridicineclub@gmail.com La parola ai politici: Massimo Zedda

E il Charlie Chaplin si trasferì in sezione L’adesione alla FICC e l’importanza della Cineteca Sarda nei ricordi del sindaco di Cagliari Era la fine degli anni Novanta ed era già attiva l’associazione universitaria Sergio Atzeni, intitolata al giovane scrittore sardo scomparso appena qualche anno prima: era legata alla letteratura e con Massimo Zedda gli altri ragazzi con cui l’animavamo avevamo già istituito il premio letterario riservato agli studenti. All’inizio ci stupimmo di quanti fossero gli appassionati, ma la partecipazione alle iniziative cresceva sempre: funzionava la collaborazione con l’Università, lo stesso concorso aveva

grande patrimonio che è la Società Umanitaria-Cineteca Sarda. C’era lì la possibilità di avere in prestito film e documentari di qualunque tipo ma anche e soprattutto il supporto per l’organizzazione di rassegne e un costante aggiornamento per le associazioni e gli operatori culturali. Anche in questo caso, come per la logistica, avevamo un punto di riferimento sicuro: basti pensare che già da alcu-

la diffusione dei social network come luogo di discussione, resiste la funzione fondamentale di luogo di confronto reale e di importante momento di crescita anche personale. Di buono c’è che la passione resiste in tanti che continuano a occuparsi di divulgazione utilizzando lo strumento cinema. A Cagliari e in Sardegna sono nate diverse rassegne e numerosi festival che sono riconosciuti a livello internazionale: l’ultimo – il festival Skepto – si è concluso in città qualche giorno fa e ha coinvolto registi e operatori del mondo cinematografico da tutto il mondo e ha avuto un buonissimo riscontro di pubblico. Sempre più spesso l’Isola è scelta dalle produzioni non locali come luogo in cui girare ed esiste qui un importante movimento di registi, scenografi, attori. E’ un fermento importante, che usa la tecnologia senza dimenticare il fattore umano, e qui sta l’importanza e la bellezza dei circoli del cinema. Massimo Zedda

un ottimo riscontro in termini di partecipazione e di qualità dei manoscritti. Il passo successivo, quello verso il cinema, fu un fatto quasi naturale. Serve fermarsi un attimo a ricordare quegli anni: internet non era così diffuso, anzi, e non era possibile scaricare ogni serie tv e ogni film attraverso il computer, con le connessioni che non erano stabili come quelle attuali e soprattutto erano per la maggior parte di noi quelle delle facoltà. Serviva uno spazio, fisico ma non solo, in cui i giovani cagliaritani e i ragazzi fuorisede potessero vedere un film e discuterne così come già si faceva con i libri. E così alla Sergio Atzeni affiancammo il circolo Charlie Chaplin. Era un circolo nato negli anni ‘80 ma fermo da tempo. Nel 2002 decidemmo di provare a rilanciarlo. Ci aiutava la logistica: la sede del Chaplin, la stessa in cui si svolgevano le proiezioni, era la sezione dell’allora PdS intitolata a Berlinguer in via Leopardi a Cagliari. Per chi non l’ha mai conosciuta, quella sede aveva una sala lunga e larga abbastanza da ospitare un centinaio di persone. Non è un dettaglio da poco, perché in poco tempo furono centinaia gli iscritti all’associazione: chiaramente ci affiliammo da subito alla Ficc. L’appuntamento fisso divenne quello della proiezione settimanale, ma furono da subito numerose anche le rassegne e sempre di più le persone che partecipavano alle attività. Ricordo di quegli anni l’incontro con diversi registi e autori, la possibilità di discutere delle pellicole direttamente con i protagonisti. Fu in quel periodo che scoprimmo, noi più giovani, il

ni anni la Cineteca faceva parte della Fiaf, l’organismo internazionale che mette insieme le migliori cineteche di tutto il mondo e tra queste solo cinque italiane. Era un punto

Classe 1976, è sindaco di Cagliari dal giugno 2011. Diversi i lavori svolti – tra gli altri, attore teatrale – con l’impegno politico sempre in primo piano: a scuola e all’Università, da presidente delle associazioni “Sergio Atzeni” e “Charlie Chaplin”, poi da segretario cittadino della Sini-

Stanley Kubrick

di riferimento allora per noi del Charlie Chaplin ed è da sempre un punto di riferimento nel settore per tutta la Sardegna per la collaborazione e i servizi che offrono ai singoli cittadini, alle associazioni culturali e agli istituti scolastici. E’ indubbio, però, che negli ultimi anni il mondo dei circoli del cinema sia cambiato. La ragione è semplice: è cambiato il mondo attorno. E però, nonostante Internet e

stra Giovanile e ancora politica attiva nel Pds e nei Ds sino ad arrivare a Sinistra Ecologia e Libertà. Nel 2006 viene eletto nel Consiglio Comunale di Cagliari nelle liste dell’Ulivo e nel 2009 consigliere regionale della Sardegna con La Sinistra. Nel 2011, appena eletto sindaco, si dimette da consigliere regionale e rinuncia al vitalizio. Ama Stanley Kubrick, “tutto tranne Eyes wide shut”, dice, “perché si vede che lì non è riuscito a definire anche gli ultimi dettagli”.

3


n.

28

La bellissima piazza di San Giovanni Valdarno, sullo sfondo il Palazzo Pretorio del duecento noto soprattutto con il nome di Palazzo d’Arnolfo

segue da pag. 1 del Valdarno Cinema Fedic. La numero trentatré. Un festival, il nostro, di “Resistenza”, in tutti i sensi. Pur attraversando anni difficili, le ultime edizioni del Festival sono state costruite per onorare una storia che ha visto nella nostra città la presenza di illustri personalità del mondo cinematografico e la partecipazione alla competizione di lavori di grande prestigio e qualità. Tutto ciò “resistendo”, appunto, anche finanziariamente. In questa edizione abbiamo cercato di proporre un salto di qualità sia nelle presenze degli ospiti, sia nelle proposte artistiche, sia nella capacità di rendere maggiormente attrattivo il Festival nei confronti del pubblico sangiovannese e valdarnese. Il lavoro fatto dal Presidente, dal Direttore Artistico e dall’intero Comitato organizzatore ha costruito una proposta che sono sicuro riceverà il gradimento dei nostri cittadini, degli appassionati e di chiunque frequenterà il festival e la nostra città nei giorni dal 6 al 10 maggio prossimi. Aspetto quindi con gioia i giorni del festival. Sono ansioso di conoscere il vincitore del Premio Marzocco di quest’anno, Abel Ferrara, e in generale di salutare una manifestazione che così tanto serve ad arricchire il panorama culturale della nostra città”. E’ di pochi giorni fa la nomina della Giuria del 33° Valdarno Cinema Fedic: composta dal Presidente Stefano “Steve” Della Casa (critico, giornalista, direttore di festival e storico conduttore del programma di Radio 3 Hollywood Party), Valentina Carnelutti (attrice di cinema, teatro e tv,

4

doppiatrice, protagonista tra gli altri di “La meglio gioventù” e “Tutta la vita davanti” e che nel 2013 ha diretto come regista il corto “Requiem”) e Valentina D’Amico, redattrice di Movieplayer.it. La cerimonia di premiazione si svolgerà nella serata di sabato 9 maggio al Cinema Teatro Masaccio. Il programma completo del festival è stato pubblicato su: cinemafedic.it/home/programma-2015. Sempre sul sito, alla voce info “ospitalità nell’area”, troverete l’elenco delle strutture ricettive presenti sul territorio con indicazioni di quelle convenzionate. Concludendo: cos’è il Festival per San Giovanni Valdarno? Il rapporto con la città è molto stretto. Da un lato, molti sangiovannesi sono realmente appassionati di cinema ed aspettano le proiezioni con interesse, dall’altro molti sono incuriositi soprattutto dai personaggi che saranno ospitati durante i giorni del Festival. La location stessa dove vengono svolte le proiezioni la dice lunga. Il cinema Masaccio è l’unico sopravvissuto – a San Giovanni vi erano ben tre cinema – dopo l’avvento dei multisala. Il Masaccio continua ad essere molto frequentato dai sangiovannesi che amano andare al cinema e che preferiscono respirare il clima della sala tradizionale. Da qui l’importanza di riuscire a mantenere vivo l’amore per il cinema e la tradizione in un paese come San Giovanni e il Festival ne è parte integrante. Viola Vasarri

anni, lavora per Trenitalia. Giornalista pubblicista dal 1998, ha collaborato con varie testate locali.

Nata a S. Giovanni Valdarno nel 1973 dove tuttora risiede. Dopo il liceo scientifico si è laureata in Scienze Politiche alla “Cesare Alfieri” di Firenze. Sposata, un figlio di 10

*Valdarno Cinema Fedic è un festival di eccellenza

Comitato Organizzatore del Festival: In rappresentanza della FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub): Giacomo Bronzi, Daniele Corsi, Roberto Merlino, Antonio Tosi, Angelo Tantaro - Vice Presidente In rappresentanza del Comune di San Giovanni Valdarno: Stefano Bonchi, Simone Emiliani, Barbara Fabbri, Carlo Menicatti, Elisa Naldini In rappresentanza del Cine Club Sangiovannese: Stefano Beccastrini – Presidente, Stefano Pratesi, Serena Ricci – Responsabile Scuola del festival, Giulio Soldani, Jacopo Fontanella, Fabio Franchi – Vice Presidente Responsabile Comunicazione: Angelo Tantaro Web master e social network: Chiara Ferretti Direttore Artistico: Simone Emiliani Direttore Organizzativo: Silvio Del Riccio - Ospitalità: Chiara Donato - Segreteria: Luciano Volpi - Settore tecnico: Blanket (Lorenzo Donnini, Roberto D’Adorante, Rossano Dalla Barba) www.cinemafedic.it Via Alberti, 17 - 52027 SAN GIOVANNI V.no Tel/Fax 055.940943 valdarnocinemafedic@libero.it www.facebook.com/valdarnocinemafedic www.twitter.com/valdarnocinema ed è supportato da Diari Di Cineclub


diaridicineclub@gmail.com Valdarno Cinema Fedic 2015

Abel dopo Ferrara Premio Marzocco alla carriera 2015 al Valdarno Cinema Fedic Nel bel mezzo di una delle passeggiate per la Little Italy di New York che costituiscono l’ossatura del documentario “Mulberry Street” (2010), il noSergio Sozzo stro autore incontra un giulivo visitatore degli stand della festa di San Gennaro: “sono Abel Ferrara, quello di King of New York!”, si presenta il regista. “E che fine hai fatto?”, gli chiede l’uomo. Ecco, ci piace pensare che il Premio Marzocco di Valdarno Cinema Fedic 2015 vada ad Abel Ferrara soprattutto per rispondere a quella domanda spontanea, che il cineasta inserisce senza pudore nel montaggio del film. Andiamo con ordine. Quando Abel utilizza il titolo di “King of New York” come segno di riconoscimento, sa che lo status di autore di culto per il pubblico, i cinefili, la stampa e i festival (il regista è di casa soprattutto a Venezia ma anche Berlino e Cannes lo hanno visto spesso in cartellone) è sostanzialmente dovuto ai suoi anni ‘90, aperti proprio ad inizio decennio dal dolente gangster movie con Christopher Walken. Ai tempi di “King of New York”, Ferrara ha quasi 40 anni (è nato nel 1951 nel Bronx da padre italiano e madre irlandese), e da più di dieci va approntando un cinema malato e personalissimo, quasi costantemente insieme al sodale sceneggiatore Nicholas St.John, ex-componente di una band di cui Abel era il cantante, e amico del regista sin dall’età di quindici anni. Dalla fine degli anni ‘70 Ferrara ha girato di tutto, super8 amatoriali, pornografia, episodi di serie tv commissionati nientemeno che da Michael Mann, e soprattutto “The Driller Killer” (1979), “L’angelo della vendetta” (1981) e “China Girl” (1987), i primi tre tasselli di un percorso mostruoso di autoespiazione in pubblico, autobiografia falsificata dall’inferno in forma sgraziata, straziante, urlata e sanguigna, mappa ancora in progress della notte di New York attraverso le strade degli ultimi e dei perduti. Si iniziano a riconoscere volti ritornanti nel cast, e collaboratori fedeli dietro le linee (il direttore della fotografia Ken Kelsch, il musicista Joe Delia): un cinema che lambisce il rituale purificatore della confessione religiosa, e che Ferrara e St.John andranno caratterizzando lungo una manciata di grandi film sino a “Fratelli – The Funeral” (1996), veglia intorno al mistero sacro dell’assoluzione attraverso lo schermo. E’ a questo punto che probabilmente va situata la domanda che viene rivolta al regista in “Mulberry Street”: “che fine hai fatto?”. Siamo ormai alla vigilia dei 20 anni di “separazione” tra Abel e Nicholas St.John, eppure ancora il cinema di Ferrara risulta legato a quella esperienza condivisa, ai titoli leggendari con Christopher Walken e

Abel Ferrara il ribelle dannato del cinema contemporaneo

Harvey Keitel, tanto che un’analisi effettiva di questa fase contemporanea della sua produzione, legata ad altre icone come Matthew Modine e Willem Dafoe, non è ancora stata strutturata. E allora è da qui che ci piace partire nei giorni del Valdarno Cinema Fedic: da quel “Blackout” che nel 1997 rifrullava completamente un immaginario sedimentato verso la nuova schizofrenia protodigitale (“schizoidi della luce!” urlava ai videoartisti un esagitato Dennis Hopper nel film), e dal “New Rose Hotel” dell’anno dopo che innalzava il nuovo edificio di un cinema ora ridotto a brandelli, a lampi e sprazzi di una visione oramai del tutto mutante e senza controllo. Siamo sicuri che i film potentissimi e scandalosamente intimi del nuovo millennio come “Mary” (2005), “4.44 L’ultimo giorno sulla Terra” (2011), “Welcome to New York” (2014) conservino quell’inquietudine e quello sguardo viscerale, mai riconciliato con il quale Ferrara si aggira da sempre per la nostra fine dei tempi. Sradicato dalle sue vie (con quella sorta di addio doloroso alla Grande Mela che è il piccolo “Il nostro Natale” del 2001) e diventato portatore di un’oscenità apolide sempre meno istituzionalizzata e catalogabile, Ferrara raccoglie oggi gli appunti sconnessi di un mondo in cui alla via crucis dei corpi automartoriati e imploranti del suo cinema si è sostituita una ricognizione tra i fantasmi incastrati nelle macerie dei luoghi, siano essi il Chelsea Hotel del documentario del 2008 o la Napoli ritratta l’anno successivo. E’ per questo che l’ultimo Pasolini si staglia come titolo di assoluta centralità in quest’ottica, raddoppio sulle teorie dell’intellettuale italiano che ne mette in pratica l’intraducibilità per tentativi ostinati, fino a capire che l’unico senso possibile oggi è appunto nella dissoluzione.

La riflessione che ci appare più urgente è allora quella di un processo inverso, che guardi ai titoli monumentali dell’epoca-St.John attraverso il filtro dell’esperienza contemporanea del cineasta: che cosa potrebbe succedere ad illuminare di luce nuova dei testi già rimasticati a tutti i livelli, da quello dell’immaginario popolare a quello accademico, come “Il cattivo tenente” (1992), “Occhi di serpente” (1993) e “The Addiction – Vampiri a New York” (1995)? Rivisitati tenendo a mente il Ferrara dei giorni nostri, questi film ardono di scintille inedite, e mostrano sottotraccia le vene pulsanti di una coerenza che si propaga vitalissima lungo tutta una carriera non ancora fortunatamente del tutto riappacificata e assimilata per davvero. Il cinema di Abel Ferrara guarda oggi ancora nell’abisso, e ci ride un po’ su: come il beffardo “Go go tales” del 2007, in cui Willem Dafoe perde per una quisquilia la possibilità di vincere alla lotteria e risolvere così tutti i debiti in cui affonda il suo locale di spogliarelliste. A chi gli chiede come se la caveranno adesso, il protagonista sorride e risponde: “E’ semplice, ci tocca continuare a giocare.” Sergio Sozzo

(Lecce, 1983) è giornalista pubblicista, critico, speaker e autore radiofonico. E’ vicedirettore del webmagazine Sentieri Selvaggi (www.sentieriselvaggi.it). Cura l’organizzazione di eventi e rassegne. Per la Scuola “Sentieri Selvaggi” è docente di storia del cinema, scrittura giornalistica e critica, linguaggio multimediale.

5


n.

28

Valdarno Cinema Fedic 2015

Il caso “Io sto con la sposa” Il film evento premio Fedic a Venezia sarà al Valdarno Cinema Fedic di San Giovanni Valdarno cui seguirà un convegno sul Crowdfunding E’ possibile che documentare il proprio reato, filmandolo con il rischio di affrontare quindici anni di prigione, possa portarti sul tappeto rosso di Terenzio Cugia Venezia? Questo e molto altro è successo nel corso dell’esperienza vissuta distribuendo il film “Io Sto con la Sposa”. Un film che ha appassionato quasi senza critiche gli oltre 100.000 spettatori che lo hanno visto. Partiamo dal quesito fondamentale: come è possibile che un film documentario, praticamente in lingua araba con sottotitoli in italiano, possa raggiungere oltre 100.000 spettatori, senza aver vinto il Festival di Venezia quando altri documentari blasonati Italiani ne raggiungono a stento un migliaio? Tramite il passaparola, certo, ed un lavoro certosino di preparazione. Ed un approccio distributivo innovativo, che per la prima volta coinvolge non solo le sale di cinema ma anche il vasto mondo che esiste fuori. Il passaparola sul film era partito molti mesi prima dell’uscita in sala il 9 ottobre 2014, ed in particolare da una campagna di crowdfunding su Indiegogo lanciata dai tre registi Gabriele del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry. Una campagna molto ambiziosa per un documentario: raggiungere 75.000 euro di finanziamento per poter produrre il film. Nel giro di otto settimane di campagna ininterrotta ed estenuante andranno anche oltre il loro obiettivo, raggiungendo la cifra record per un documentario Italiano, di €100.000 tramite le donazioni di 2617 tra persone fisiche ed associazioni, ognuna delle quali menzionata come co-produttore nei titoli di coda del film. Questa notizia solleva un polverone nel pacato mondo dei documentaristi italiani: che sia divenuto possibile un nuovo modello di sviluppo? I tre registi, al loro primo film, cercano il supporto di un produttore più esperto per raggiungere qualche Festival importante. Si punta in alto: Marco Visalberghi, che con “Sacro GRA” è già riuscito a dare una dignità e visibilità maggiore all’intero settore. Gli telefonano tramite un’amica comune: lui guarda il film e si associa con una quota del 10 percento, iniziando a dare consigli sul montaggio e su come approcciare i Festival. E’ sempre lui a chiamarmi per chiedere a Cineama di valutarne la distribuzione in sala: evidentemente ai player più grandi il film in lingua araba non convince. Siamo al 10 Agosto, io sto prendendo il traghetto per la Sardegna. Ricordo che per riuscire a scaricare il film il mio computer ci mise quasi una giornata intera. Quando finalmente riuscii a vederlo rimasi molto colpito. Era una storia vera, commovente,

6

poetica. Aveva i sentimenti di un film, non di un documentario. Riusciva a trattare un tema difficilissimo, l’emigrazione, senza risultare pesante o saccente. Raccontava un “noi”, non un “loro”. Non era possibile pensare di doppiare il film, l’espressività dei protagonisti ne sarebbe uscita distrutta, l’intera storia sarebbe sembrata una pantomima. Ma i sottotitoli erano troppo lunghi, alle volte illeggibili, specie quando il ragazzino, Manar, faceva il rap in palestinese. Scegliendo di tenerlo sottotitolato mi era chiarissimo che non avremmo fatto un’ operazione economicamente interessante. Il documentario premio Oscar, “The Gatekeepers” aveva fatto a malapena 5.000 euro di box office. Ma allo stesso modo “Io Sto con la Sposa” era un film che a mio avviso doveva uscire in sala. Iniziammo a mandare il link del film ad alcuni esercenti illuminati per vedere se lo avrebbero proiettato. N e l mentre si ricorreggevano i sottotitoli e si creava il poster del film, riuscendo a convincere i produttori a non usare come immagine il logotipo bellissimo che aveva caratterizzato la campagna web, ma una immagine del film. E si aspettava il riscontro di Venezia. Avere un festival importante per lanciare il film poteva essere fondamentale. Il film alla fine viene preso a Venezia, ma “fuori concorso” nella sezione Orizzonti, non proprio una collocazione tale da permetterti grande visibilità. Ma è da qui invece che partirà davvero la comunicazione di lancio del film. Sono venuti dalla Svezia e dal Sud Italia i protagonisti del film per la proiezione ufficiale. Tasneem Fared, la sposa, è in abito nuziale. Su Facebook hanno lanciato un post chiedendo alle ragazze di venire in abito da sposa. Appaiono circa 90 ragazze da tutta Italia vestite da sposa, e sfilano sul tappeto rosso. I fotografi si scatenano, e viene anche Barbera a farsi fotografare con loro. Il giorno dopo il film, che peraltro ha avuto oltre diciassette minuti di applausi (ANSA scriverà della “standing ovation più lunga del Festival”), è sulla bocca di tutti. La foto di Barbera e delle spose finisce su moltissime testate. E’ il primo di tanti eventi/flash mob organizzati per promuovere il film. I cinema iniziano a rispondere in maniera meno evasiva di prima sulla

possibilità di una tenitura del film. Già, le sale cinematografiche: come conciliarle con la promessa fatta durante il crowdfunding a molte associazioni, di proiettare il film nei loro locali, con la presenza di uno dei registi? La questione emerge mentre si finalizza il contratto di distribuzione. Decidiamo di fare un’ eccezione per le proiezioni nelle associazioni, spronandole però a provare a coordinare una proiezione in sala con quelle che avevamo già identificato. In alcuni casi funziona, in altri no. E chiediamo ai produttori di organizzarle non prima di metà novembre, dopo che saremo in sala già cinque settimane e ragionevolmente saremo quasi fermi. Ai singoli finan-

ziatori invece verranno dati biglietti “omaggio”, acquistati direttamente al cinema dai produttori. Questi “finanziatori dal basso” saranno di fatto i primi spettatori del film, portando ad esempio a Milano a registrare per “Io Sto con la Sposa” il migliore incasso di tutti i film di Milano quel giovedì. E spargeranno la voce a macchia d’olio. Un piccolo aneddoto per far capire come oramai questo è un fenomeno globale. Due giorni dopo l’uscita del film a Roma ero ad una festa di avvocati e musicisti. Avevo la spilletta del film addosso alla giacca. Mi si avvicina una ragazza e fa “Conosci il film? E’ bellissimo pare.” Le dico di si e chiedo dove ne abbia sentito parlare. Mi risponde “Una mia amica argentina lo ha finanziato. Mi ha chiamato ieri per dirmi di andare in sala a vederlo”. Rimango stupito e contento: anche nella distribuzione indipendente siamo entrati nell’era globale. La seconda settimana riusciamo a passare da 20 sale a 40. Nella terza facciamo un esperimento con oltre 40 sale UCI che lo proiettano come primo film “d’essai” di lunedì. Un ottimo risultato anche laddove il genere documentario non è quasi mai presente. Il risultato dopo tre segue a pag. successiva


diaridicineclub@gmail.com segue da pag. precedente settimane è già oltre le più rosee aspettative, ed il film non accenna ad arrestarsi neanche quando viene fatto uscire il vincitore di Cannes, “Winter Sleep”che riduce il numero di sale a disposizione del nostro film ma fa metà del nostro incasso medio. “Io Sto con la Sposa” rimarrà in programmazione in alcune sale (ad esempio il Nuovo Aquila a Roma, all’Apollo a Milano) per oltre 8 settimane consecutive. A metà Novembre inizia ad essere evidente che le proiezioni “dal basso” avverranno in contemporanea a quelle in sala, e non successivamente come pensavamo, in molte città. Si fa azione di contenimento con gli esercenti e gli agenti regionali, per nulla contenti di avere proiezioni spesso gratuite in contemporanea. Stabiliamo con i produttori delle “regole generali” per eventuali richieste future da parte di privati o associazioni. I tre registi non si sono fermati mai, hanno presenziato a oltre 300 proiezioni del film in Italia ed in innumerevoli Festival internazionali, dove vince tra l’altro il premio “Human Rights Nights” del Festival di Ginevra. La maggior parte del budget di distribuzione, minimo rispetto a qualsiasi “lancio” tradizionale, viene speso per viaggi ed alberghi, il residuo per promozioni mirate su Facebook ed altri social network. Si decide di aumentare il budget visto che il pubblico risponde. Il film continua imperterrito, e si ferma solo con l’ondata Natalizia di film “nostrani”, ma riparte poi a Gennaio ed è tutt’ora in sala, per proiezioni evento organizzate in tutta Italia. Ha avuto innumerevoli proiezioni scolastiche e sicuramente verrà inserito nel palinsesto di molte arene estive. Ha raggiunto oltre 100.000 persone, di cui la maggior parte in sala, e quasi tutti sono da Roma in su. Ancora oggi i tre registi riescono a malapena ad occuparsi d’altro che le proiezioni a cui devono presenziare in tutto il mondo. Per noi la grande soddisfazione di aver portato questo piccolo gioiello come primo contributo alla distribuzione indipendente, con un modello distributivo nuovo. E di aver dimostrato che alle volte, se si ha la fionda di un grande film, anche un piccolo Davide può sconfiggere Golia. Terenzio Cugia di Sant’Orsola

Valdarno Cinema Fedic 2015 L’ostenteria

Crowdfunding per il cinema (4. Parte “Prospettive e proposte per il futuro”) 1. Prospettive in Europa e nel mondo. Quali sono le prospettive future per il crowdfunding ? Quali, in particolare, quelle per un crowfunding per il cinema in Europa e in Italia? Il crowdfunding è stato battezzato Ugo Baistrocchi con un nome solo nel 2006 e questa forma di finanziamento continua ad espandersi anche se molti non se ne accorgono o forse, soprattutto, proprio perché molti non se accorgono e, quindi, non lo ostacolano. È facile, invece, profetizzare che nei prossimi anni il crowdfunding diverrà la principale fonte di finanziamento per alcuni settori creativi come la musica, il fumetto e, in parte, il cinema. Che il crowdfunding non sia un fenomeno passeggero ma destinato a durare lo dimostra il rapporto della Banca Mondiale che, già nel 2013, in “Crowdfunding ‘s potential for the Developing World”, prevede che nel 2025 il mercato potenziale del crowdfunding avrà un valore di 96 miliardi di dollari. Ed è già oggi una stima pessimistica. Mentre il fenomeno si sviluppa autonomamente, in tutto il mondo cominciano ad esserci numerosi interventi legislativi. Negli Usa si lavora per “facilitarlo”. Obama, nel 2012, con il “vero” Jobs Act ha avviato il lungo processo legislativo per legalizzare il crowdfunding equity-based e rendere possibile alle piccole imprese e ai piccoli imprenditori di vendere quote in cambio di finanziamenti. In Europa ci si è, invece, mossi soprattutto per “regolamentarlo”. La situazione è piuttosto variegata come si può ricavare dalla “Review of Crowdfunding regulation” pubblicata nel 2014 dall’European Crowdfunding Network. Si può riassumere quello che sta avvenendo in Europa (anche in Italia) come un tentativo di regolamentare il fenomeno, con il pericolo di snaturarlo, per ridurre i rischi per l’investitore che potrebbero esistere per le tipologie di crowdfunding equity (quote) e lending (prestito). Sfugge ai legislatori che il crowdfunding si basa principalmente sulla fiducia, richiede, per funzionare, trasparenza e, finora, nessuno scandalo finanziario ha coinvolto il nuovo settore emergente. Il pericolo, quindi, è che per tutelare il crowdfunding si introducano delle barriere che limitino la partecipazione e che regole complesse, facilmente eludibili da parte di criminali organizzati, ne riducano la trasparenza e la possibilità del controllo sociale.

E’ amministratore unico e socio di Cineama. La società è nata nel 2011 vincendo il finanziamento per start-up innovative “Working Capital” di Telecom Italia. In seguito vince il bando per società innovative della Provincia di Roma nel 2012 ed il Bando Media come “Migliore Distribuzione Innovativa” nel 2013. “Io Sto con la Sposa” è il primo film distribuito direttamente in sala dopo collaborazioni con vari distributori indipendenti. Cineama ha attualmente in distribuzione il film “The Repairman”, altra opera prima di un regista italiano, Paolo Mitton, che in sei settimane ha raggiunto oltre 120.000 euro di box office, ed un folto programma di film anche internazionali per la seconda parte dell’anno. 2. Proposte per una via italiana per il crowdfunding applicato al cinema.

Partiamo da una premessa: il crowdfunding è già presente nel DNA del cinema italiano. Ci si riferisce alla famosa avventura della “Cooperativa spettatori e produttori cinematografici” (Cspc) che fu creata nel 1950 a Genova, raccogliendo i finanziamenti tra operai, lavoratori e studenti, con l’obiettivo di produrre le storie che il pubblico avrebbe voluto vedere ma che nessuno aveva il coraggio di produrre. La Cspc produsse il primo film di Lizzani “Acthung! Banditi!” e “Cronache di poveri amanti” sempre di Lizzani, cioè opere che sono rimaste nella storia del cinema italiano. Purtroppo nel DNA del cinema italiano ci

“Achtung! Banditi!” 1951, il primo film di Carlo Lizzani. Nella foto, Andrea Checchi in una scena del film interpretato anche da Gina Lollobrigida e Giuliano Mondaldo nel ruolo del commissario Lorenzo

stanno anche la Direzione dello Spettacolo, che nel 1954 non concesse il nulla osta per l’esportazione a “Cronache di poveri amanti”, che aveva trionfato al festival di Cannes, e il PCI di Palmiro Togliatti, al quale la cooperativa aveva chiesto inutilmente aiuto. La Cspc senza la possibilità di vendere film all’estero e non avendo la garanzia di essere sostenuta

“Cronache di poveri amanti” è un film del 1954 diretto da Carlo Lizzani, tratto dal romanzo di Vasco Pratolini. Presentato al 7º Festival di Cannes ricevette il Prix International

per altre iniziative in pochi anni dovette dichiarare fallimento. Un esperimento unico al mondo che avrebbe potuto cambiare sessant’anni fa il modo di produrre cinema, venne archiviato. Ma per fortuna il Cinema italiano segue a pag. successiva

7


n.

28

segue da pag. precedente ha oggi una seconda possibilità per incarnare in tutti sensi la cultura del Bel Paese. Le proposte di una via italiana al crowdfunding per il cinema partono da questa premessa e dalla tragica conclusione dell’avventura della Cspc. L’idea di finanziare il cinema direttamente senza intermediazioni era normale per gli italiani di allora e lo è ancora di più per quelli di oggi che vivono quotidianamente in un economia collaborativa in continua espansione. D’altra parte i politici, i vertici delle istituzioni pubbliche e delle corporazioni di settore, ancor meno rappresentativi oggi di quelli di allora, non possono apprezzare un sistema di finanziamento del cinema che sostanzialmente può fare a meno di loro. Per fortuna tutte queste “elite” hanno una visione primitiva e arretrata del crowdfunding, come di tanti altri fenomeni ed eventi che si generano e prosperano negli ecosistemi di socializzazione digitale in cui ormai vive la maggioranza della popolazione. Quali sono, allora, gli interventi legislativi a favore del crowdfunding auspicabili in Italia? Probabilmente nessuno. È meglio che il crowdfunding si espanda senza regole e il fenomeno raggiunga una massa critica che ne impedisca il controllo e lo sviluppo. Purtroppo che in Italia non si facciano nuove leggi è pura utopia. Quali potrebbero essere, allora, gli interventi minimi utili per il crowdfunding per il cinema? Un possibile intervento legislativo potrebbe avere l’obiettivo di estendere alle imprese

cinematografiche la normativa sul crowdfunding equity che già è in vigore ma vale solo per le cosiddette start-up tecnologiche. Un’altra via è quella illustrata nel primo articolo dedicato al crowdfunding, nel quale si immagina che sia lo Stato stesso a gestire una piattaforma di crowdfunding per sovvenzionare opere prime, cortometraggi, sceneggiature, in quanto nessuno come lo Stato potrebbe garantire trasparenza e finanziamenti senza rischi. Se non sarà lo Stato saranno i privati, le banche e le grandi imprese mediatiche anche internazionali a sfruttare il crowdfunding della creatività e, in tal caso, sarebbero necessarie norme che impediscano l’uso del crowdfunding come uno strumento di marketing. Più che regolare le tipologie equity del crowdfunding sarebbe bene che il legislatore elaborasse norme fiscali che favoriscano l’investitore nelle due forme specifiche di investimento a ricompensa e a donazione e che stimolino anche il cosiddetto DIY (do-it-yourself=fai da te), cioè l’imprenditore che invece di ricorrere alle piattaforme standard faccia da solo. Ma gli interventi veramente necessari sono quelli di uno Stato che ha una visione del cinema che non si limita alla produzione ma che stimola e indirizza il crowdfunding verso tutti i settori. Ecco sotto forma di domanda quali potrebbero essere alcune auspicabili aree di intervento legislativo. Perché le pellicole dei capolavori del cinema italiano invece di essere restaurate a spese pubbliche (come avviene oggi), rimanendo

in possesso degli aventi diritto (magari società straniere), non potrebbero essere restaurate grazie all’intervento di migliaia di mecenati il cui nome sarà per sempre legato al restauro e ai quali si dovrà sempre rendere conto dell’uso delle copie restaurate? Perché le tante sale cinematografiche abbandonate non potrebbero venir cedute per quote attraverso operazioni di “civic crowdfunding”, promosse e garantite dagli enti locali, ai cittadini, ai condominii, alle associazioni, affidandone poi la gestione ai circoli del cinema? Perché, infine, (ma si potrebbe continuare) lo Stato non potrebbe garantire a festival e rassegne il doppio di quanto riescono a ottenere tramite crowdfunding? Questi sono solo alcuni esempi di come si potrebbe intervenire per utilizzare il crowdfunding come fonte di finanziamento di tutti i settori del cinema. 3. Conclusioni Il breve viaggio nel crowfunding è giunto al termine. È stata solo una breve introduzione e si spera che non abbia troppo deluso il paziente lettore al quale, in conclusione, si vuole ricordare che il crowdfunding è difficile e rischioso e richiede impegno e competenza da parte di tutti i soggetti coinvolti, perché è fatto delle stesse materie di cui siamo fatti noi e i nostri sogni: fiducia (negli altri), passione e desideri. Ugo Baistrocchi

E la Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici produsse i film di Lizzani volle il suo film e i fondatori della cooperativa furono d´accordo a scegliere a tema della prima opera cinematografica finanziata direttamente dagli spettatori la Resistenza, che proprio a Genova aveva avuto momenti e figure indimenticabili. » (Carlo Lizzani, Quaderni delle Olimpiadi, n. 3, agosto 1951[

Cronache di poveri amanti

Carlo Lizzani

Achtung! Banditi! Il film venne realizzato grazie ad una sottoscrizione di “azioni” da 500 lire. Lizzani, stando a quanto spiegato al tempo dell’uscita del film, ebbe l’idea della sottoscrizione dopo aver assistito alla proiezione di “La terra trema” (1948) e aver discusso con Luchino Visconti del fatto che quest’ultimo non aveva trovato produttori interessati al proseguimento della sua opera (inizialmente pensata come la

8

prima parte di una trilogia). Così il regista ricorda la nascita del progetto: « Fu allora che un gruppo di operai propose di dare vita a una cooperativa che finanziasse dei film coraggiosi, quei film che l’industria privata non si sentiva di produrre. Bisognava rompere il cerchio di una consuetudine umiliante per il cinema italiano, dare un esempio, lanciare una iniziativa che potesse poi essere ripresa da altre città italiane, dimostrare che il popolo non solo amava il nuovo cinema italiano, ma voleva aiutarlo e rafforzarlo. Genova

Il film fu presentato con successo al Festival di Cannes, dove apparve credibile candidato per la vittoria finale del massimo riconoscimento della manifestazione cinematografica (all’epoca denominato Grand Prix du Festival e non ancora Palma d’oro) tanto che, secondo il racconto del presidente della giuria, Jean Cocteau, una delegazione italiana lo avvicinò chiedendogli esplicitamente di non far vincere il film di Lizzani per non favorire l’avanzata dei comunisti in Italia. Malgrado il buon successo ottenuto nelle sale cinematografiche italiane, il film segnò la fine della Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici, dopo due sole produzioni (la prima era stata appunto il film “Achtung! Banditi!”).


diaridicineclub@gmail.com

9


n.

28

Al cinema

“Timbuktu” di Abderrahmane Sissako Un feroce spaccato odierno dell’oppresso Mali “Timbuktu” è uno spaccato di Africa subsahariana presentata da un regista africano, mauritano per l’esattezza ma cresciuto in Mali proprio dove è ambientato questo suo quarto lungometraggio (“La vie sur terre”, “Aspetmik.man tando la felicità”, “Bamako”). Abderrahmane Sissako come cineasta si è formato a Mosca respirando la recente apertura russa verso il mercato europeo che non scorda però la lezione dei grandi della tradizione cinematografica sovietica. Il Mali di Sissako è maestoso negli spazi della natura, con fiumi e deserti ondulati, e pacifico con i suoi riti e la sua solennità atemporale. Timbuktu è qui la porta leggendaria del Sahara, storico snodo dei traffici carovanieri di oro e schiavi. Finché non incombe lo straniero che al giorno d’oggi ha il volto del fondamentalismo islamico, con le sue rigide leggi coraniche e la feroce applicazione della Sharia. Il regista racconta ‘la sua Africa’ presentandoci un piccolo nucleo familiare che vive emarginato e isolato tra le dune del Sahara. C’è il padre Fidane (Ibrahim Ahmed), fiero e forte pastore Tuareg, la bella madre Satima e una figlia vivace e obbediente, Toya. Con loro vive anche un pastorello che si occupa delle bestie appartenenti alla famiglia. Si capisce che l’epilogo sarà tragico quando una guardia jihadista insinua la bella Satima in assenza del marito. Ma un incidente accelera la caduta agli inferi, ovvero il compimento dell’ineluttabile destino di questa famiglia. Il vicino di casa uccide la vacca preferita della famiglia di Kidane, Gps che si era abbeverata dalla sua parte del fiume distruggendo le reti da pesca. Kidane va a chiedere il risarcimento al vicino e accidentalmente uccide il pescatore. A questo punto la legge dei nuovi invasori giudicherà il suo operato, con un finale drammatico all’insegna dell’amore e del sacrificio. Sullo schermo si susseguono le microstorie di diversi personaggi, alcuni d’un realismo crudo e altre più surreali, che si intrecciano attorno alla vicenda personale di Kidane, mescolando riti e sentimenti. Anche il ritmo ha due velocità: più incalzante nelle scene in città e più lento tra le dune del deserto. L’incomprensione linguistica è l’elemento che più emerge nella contraddizione tra le due facce di una stessa fede: da un lato uomini che cercano a fatica nella lingua araba la radice coranica, dall’altro il francese lingua ufficiale del Mali (ricordo della dominazione francese nel ’900) e poi la lingua locale e anche l’inglese come lingua franca portata da un altro popolo colonizzatore. La fotografia si fa unica nel contrapporre la bellezza - anche poetica - di alcune inquadrature

10

con la crudeltà di altre scene (la lapidazione dei due amanti è la più straziante). Sullo schermo colpisce l’incanto della natura e la fierezza dei volti, avvolti dalla musica tradizionale cantata da voci melodiose e suonata

della moschea di Timbuktu e il leader degli jihadisti, dove il primo propugna un’idea di pace e di dialogo, mentre il secondo vede un mondo di fede cieca dove applicare alla lettera la Sharia) che gli ha valso probabilmente la

con strumenti etnici. Una scena che rimane impressa è la partita di pallone senza il pallone, citazione più o meno esplicita da “Blow up” di Antonioni dove però si assiste a una partita di tennis senza racchette né palline. Significativo il titolo francese della pellicola “Le chagrin des oiseaux” cioè “Il dolore degli uccelli”, essendo i volatili, come altri animali del film, come ad esempio la gazzella, metafore della sofferenza del popolo maliniano. “Timbuktu”, nelle intenzioni dell’autore, non vuole essere un film contro l’Islam (il 90% dei maliniani è musulmano). Non vuole essere nemmeno un film di denuncia sebbene sia chiara la posizione sostenuta contro l’oscurantismo fondamentalista (significativo il dialogo sull’interpretazione dell’Islam tra l’imam

vittoria all’ultima edizione del César, con sette premi ricevuti (Miglior film, Migliore regia, Migliore soggetto, Migliore montaggio, Migliore fotografia, Migliori musiche e Migliore suono). Il film è stato presentato a Cannes 2014 nella sezione principale dove ha ottenuto il Premio della Giuria Ecumenica e il François Chalais Prize ed è entrato nella cinquina dei film candidati all’Oscar nella categoria “Miglior film straniero”. Ne è uscito un film commovente alla Rossellini ma disperato come in Pasolini, dove alla fine ci si deve rassegnare alla violenza contro cui sembra impossibile ribellarsi. mik.man


diaridicineclub@gmail.com Il corso di autormazione della Ficc Sardegna

Qui si cresce insieme. Autormazione a Oristano del Centro Regionale FICC Il valore di un impegno culturale e politico con una grande voglia di stare insieme L’annuale corso di auto-formazione organizzato dal Centro Regionale F.I.C.C. Sardegna si è appena concluso e sono tanti i pensieri e le riflessioni che ancora girano nella la mia testa, Valentina Bifulco tante le proposte, le idee e le considerazioni. È stato il primo appuntamento organizzato dopo il Congresso Nazionale, tenutosi a Cagliari lo scorso dicembre, ed è stato una nuova occasione, per i rappresentanti dei circoli del cinema sardi, di incontrarsi per discutere teorie, metodi, strategie culturali e di comunicazione, e, soprattutto, per discutere film. Vedere un gruppo così numeroso di persone (più di cinquanta) scegliere di dedicare un intero fine settimana ad analizzare, condividere e discutere, è sempre un’esperienza emozionante, che fa capire l’importanza dello stare insieme. Non credo che si debba dare per scontato che il successo dei corsi di auto-formazione della F.I.C.C. sia dato in primo luogo dall’atmosfera che si crea tra i partecipanti, che nelle varie fasi del programma si trovano a dover confrontarsi nel rispetto delle diversità che ognuno porta con sé e a condividere democraticamente principi e obiettivi politici e culturali. Il tema di fondo proposto quest’anno è stata proprio la formazione, declinata in tre categorie: quella interna; quella verso l’esterno; quella definita “pubblica”. I gruppi di lavoro hanno prodotto proposte e strategie di diffusione dei principi e dell’azione della F.I.C.C; hanno discusso su come rendere fruibile la letteratura di riferimento, e su come poter entrare nel mondo della scuola, da sempre uno degli obiettivi della Federazione. Durante i gruppi di lavoro – come sa chi, nel corso dei 68 anni di vita della FICC, vi ha partecipato almeno una volta – ci si mette in discussione, ci si confronta, a volte anche con toni accesi, ma si arriva sempre a proposte condivise e partecipate: ognuno può esprimere la propria opinione, nel rispetto delle differenze di idee, sempre in un’ottica costruttiva. Ancora una volta sono stati due giorni intensi, caratterizzati da una grande voglia di stare insieme e di confrontarsi. I rappresentanti dei circoli del cinema di tutta la Sardegna si sono incontrati a Oristano per confermare, ancora una volta, l’importanza di appartenere a una Federazione che si basa su principi e metodi democratici e paritari. Uno dei valori aggiunti di questo corso è stata la presenza dei delegati delle Segreterie regionali del Veneto-Friuli Venezia Giulia-Balcani, della Sicilia e del Molise-Abruzzo, la cui testimonianza ha permesso di fare un piccolo ma significativo passo avanti nel percorso di crescita della Federazione. L’incontro dedicato all’articolazione

A sx Marco Asunis presidente nazionale della FICC e a dx Peppetto Pilleri della Cineteca Sarda. La “vecchia” generazione apre al “nuovo” (foto di Luigi Zara)

della F.I.C.C. a livello nazionale ha evidenziato virtù e criticità dei vari Centri Regionali e

cinema F.I.C.C. “S’Ena Arrubia”,” Zuradili” e “Cineclub Rizoma”, e l’associazione di promo-

Da sx. Enrico e Luca. I futuri operatori culturali sperimentano i nuovi mezzi di comunicazione audiovisiva (foto di Patrizia Masala)

ha permesso di gettare le basi per futuri appuntamenti di auto-formazione: non solo un arricchimento di pensiero ma anche, e soprattutto, umano. D’altronde, i corsi di auto-formazione della F.I.C.C. non sono solamente momenti di formazione, ma anche di conoscenza e convivenza tra persone che condividono principi, valori e obiettivi di politica culturale. In questo senso, sono sicura di poter dire che questo corso è stato un’esperienza più che positiva, non solo per la Federazione, ma anche per me stessa. Quest’anno una ventata di freschezza ha attraversato la sala conferenze: alle presenze “storiche” dei nostri compagni e compagne che da molti anni portano avanti l’esperienza della F.I.C.C. in Sardegna, si sono uniti, fra i tanti nuovi visi, anche i ragazzi del collettivo “Trama”. Le consulte giovanili di Arborea, Marrubiu e Terralba, insieme ai circoli del

zione cinematografica “Kinoki”, si sono riuniti in un coordinamento, “Trama” appunto, e hanno organizzato una rassegna cinematografica itinerante chiamata “Nove Code”. Questi ragazzi, tutti giovanissimi, hanno pensato che, seppur in grado di organizzare eventi culturali anche autonomamente, unendo le forze in un progetto comune avrebbero potuto realizzare una piccola rivoluzione nel loro territorio, che avvicinasse, con delle “trame” appunto, i loro rispettivi paesi, distanti solo pochi chilometri l’uno dall’altro. I ragazzi di “Trama” si sono distinti e hanno partecipato a tutti i momenti del corso, portando entusiasmo e un punto di vista nuovo alle discussioni, ai gruppi di lavoro e – non da trascurare! – ai momenti conviviali di questa intensa due-giorni. Credo di non essere presuntuosa segue a pag. successiva

11


n.

28

segue da pag. precedente nello scrivere che questo corso di auto-formazione sia stato un successo e che, ancora una volta, l’educazione degli adulti e il diritto alla risposta del pubblico siano stati il collante che ci ha tenuto uniti e continuerà a farlo, nel ricordo e nell’insegnamento di Fabio Masala e delle altre persone care alla storia della nostra Federazione. Valentina Bifulco

Corso residenziale di autoformazione FICC Sardegna 17/19 aprile 2015. Hotel Mistral 2, Oristano Servizio fotografico di Luigi Zara

Laureata in Sociologia all’Università degli Studi di Urbino. Con l’associazione ONLUS Legambiente si impegna, per 4 anni, tra classi di educazione ambientale e progetti internazionali e nazionali di sensibilizzazione. Nel corso di questi anni entra in contatto con la cultura zingara e nell’ottobre 2008 realizza un progetto europeo in Albania riguardante l’integrazione di questa minoranza etnica nel territorio europeo. Frequenta il Master in “Educazione alla Cittadinanza e ai Valori” dell’Università di Barcellona specializzandosi in integrazione culturale. Attualmente vive in Sardegna e collabora con diverse testate e radio online occupandosi di cultura ed ambiente. Con l’associazione Entulas, della quale è presidente, realizza progetti sui temi dell’integrazione culturale e della multiculturalità.

Foto di Gruppo di Valentina Bifulco

12

Gigi Cabras, Segretario regionale FICC Sardegna

Laura Mancuso Prizzitano,direttivo nazionale FICC

Pia Brancadori, in pp,della Circola nel Cinema Alice Guy

Giuliana Salome, Segretario FICC Abruzzo - Molise


diaridicineclub@gmail.com Ricordo per Manoel De Oliveira

Una breve, filmica, portuense, “A’ la recerche du temps perdu” Porto della mia infanzia (Porto da minha infanzia), 2001 di Manoel de Oliveira Lo scorso 2 aprile è morto all’età di 107 anni Manoel de Oliveira, il più vecchio (ma stavo per scrivere “il più antico”) e al tempo stesso il più, spiritualmente e intellettualStefano Beccastrini mente, giovane (ossia aperto al cambiamento continuo, alla sperimentazione permanente, alla ricerca senza fine del nuovo che non è mai soltanto nuovo) tra i cineasti europei. Era nato a Porto l’11 di dicembre del 1908 e alla sua città natale, cui era legatissimo, dedicò il film – assai toccante, nostalgico, quasi elegiaco “Porto della mia infanzia”. Personalmente ammiro ed amo l’intera opera cinematografica di de Oliveira ma effettivamente “Porto della mia infanzia” è quello che mi ha sempre commosso di più (forse perché sono molto affezionato alla città di Porto, meno triste e languida della vicina – e peraltro struggente ed indimenticabile - Lisbona: non a caso i portuensi chiamano “mangiatori di lattuga” i cugini lisboneti e questi ultimi chiamano “tripeiros”, mangiatori di trippa, i cugini di Porto) e dunque proprio di esso parlerò in questa mesta circostanza, per ricordare – anzi celebrare – il suo autore. “Porto della mia infanzia” è un’opera filmica colma di musica (non a caso inizia e finisce, oltre che filmando il mare, mostrando, di spalle mentre sta appunto dirigendo un concerto, un direttore d’orchestra) e di poesia (è infatti assai ricco di metafore, prima di tutte, appunto, quella del mare, simbolo a un tempo del cambiamento costante e dell’infinità della vita). Quello di de Oliveira si impone sommessamente, come un cinema che utilizza spesso lunghi piani-sequenza e lenti campi e controcampi, così da apparire, ma è un’impressione superficiale, semplice, quasi elementare o addirittura rudimentale, ed è invece genialmente totale, sempre riscoperto e quasi reinventato, ad ogni film. “Porto della mia infanzia”, inoltre, è in fondo, assai modernamente, un film del genere docufiction ossia composto di brani di repertorio, di brani documentari e di brani di fiction appositamente girati. Dopo i titoli di testa, e l’avvertenza sotto forma di didascalia che “Ricordare momenti di un passato lontano/è come viaggiare fuori dal tempo/soltanto la memoria di ognuno può farlo/è quello che cercherò di fare”, vediamo, un po’ sfocata come fosse colpa del tempo, l’immagine di una vecchia casa semidiroccata, ormai ridotta a un rudere, a un “fantasma di casa” come dice la voce fuori campo dell’autore. Tale voce, che ci accompagnerà per tutta la durata del film, ci informa anche che si tratta della casa natale di Manoel anzi de “la casa ove lui è nato e suo padre è morto”. Era situata in Rua 9 Julho (in

onore di quel 9 luglio del 1832 in cui Dom Pedro El Liberador tornò dal Brasile con il proprio esercito e riprese saldamente in mano le sorti del Portogallo, cadute nelle grinfie di un despota anticostituzionale). Quella casa era stata l’Eden della sua infanzia e dalle finestre

alla gran quantità di mendicanti…E guardavo la gente impegnata in mille lavori e mi chiedevo se un giorno anch’io sarei stato capace di fare tutte quelle cose”. La famiglia era ricca – il padre un industriale di passamanerie - e i de Oliveira avevano un loro palco privato al tea-

Manoel de Oliveira (1908 – 2015) regista portoghese, considerato da molti uno degli autori più significativi della storia del cinema mondiale

di essa aveva l’abitudine, fin da bambino, di osservare la città, tutta quanta aperta davanti ai suoi occhi, fantasticando sulla vita dei suoi

Locandina del film

abitanti. “La testa appoggiata alla finestra, osservavo la città” ricorda la voce fuori campo “Pensavo alla miseria in essa tanto diffusa,

tro Sà do Banderas, ove si recavano periodicamente ad assistere sia alle opere liriche (egli ricorda ancora, per esempio, una superba “Carmen” di Bizet) che alle commedie contemporanee. Una sera, il giovanissimo Manoel rimase colpito, e spaventato, dall’operetta “Miss Diabo”, scritta da due concittadini portuensi. La vicenda, che parlava di ladri e di furti, suscitò in lui un inquieto timore cosicchè, usciti alfine dal teatro e dunque in piena notte, i genitori ordinarono al conducente della carrozza, per calmare il figlio, di girovagare per una Porto che al ragazzo apparve – così restando impressa persino visivamente nel suo ricordo – una sorta di misterioso ma magico labirinto, con le sue viuzze scarsamente illuminate, le sue piazze ormai addormentate in un impenetrabile silenzio, i suoi tanti monumenti spettrali nel proprio emergere improvviso dal buio notturno. Tra questi ultimi, molto amati dal piccolo Manoel, la statua di Dom Pedro El Libertador, in Praca do Libertade, e, poco più in là, quella di Almeida Garrett, poeta romantico e patriota liberale, seguace del medesimo Dom Pedro. Il ragazzo, all’epoca, era ghiotto di dolciumi come tutti i ragazzi del mondo e soprattutto dei babà e delle sfogliatine della Confeteria De Oliveira, che ormai da anni, purtroppo, non segue a pag. successiva

13


n.

28

segue da pag. precedente esiste più. Altri ricordi emergono, man mano, dalla memoria profonda del cineasta e vengono portati, in ricreata e vivente immagine, alla luce dello schermo dal film. Ad esempio quello, di cui restano molte sequenze di repertorio (logicamente in bianco e nero: siamo negli anni 20), dell’uomo che – eroe per poche ore d’una intera città- coraggiosamente scalò, senza alcun attrezzo bensì arrampicandosi a mani nude tra balaustre e cornicioni, i 76 metri della Torre dos Clérigos, simbolo di Porto e opera del toscano Niccolò Nasoni da San GioAurélio da Paz dos Reis

tratto la trama del suo primo lungometraggio, “Aniki-Bobo”, 1943), Agostinho da Silva (divenuto poi il filosofo della resistenza al salazarismo) e altri ancora. Passavano le giornate nei caffè letterari e bohemiens della città (come il Majestic, che ancora esiste ed è persino di moda) bevendo Porto, discutendo di cultura, scrivendo seduti ai tavolini in disparte le loro prime opere. Al Majestic, per esempio, Manoel de Oliveira - che ormai aveva scelto, dopo un’esperienza sportiva di pilota automobilistico, il cinema quale propria vocazione professionale ed esistenziale - scrisse il soggetto di un proprio film sul Douro, il fiume cittadino, che si sarebbe dovuto intitolare I giganti del Douro ma che non gli fu mai permesso di realizzare: in compenso, ancora al Douro è dedicato il suo film di esordio nella regia, Almeida Garrett, scrittore portoghese del periodo romantico

vanni Valdarno, architetto e giramondo settecentesco. Eppoi le esposizioni floreali o automobilistiche al Palacio de Cristal, cui accorreva ogni volta tutta la buona borghesia cittadina. Le tradizionali passeggiate, primaverili ed estive, del dopocena, percorrendo gli ombrosi viali e salutandosi a vicenda. Il primo e dunque casto amore, fatto di baci innocenti seppur teneramente trepidi, di un Manoel ormai adolescente con la cugina Guillerminha, presto morta di tubercolosi. Poi i luoghi più frequentati dalla dorata gioventù portuense, e dunque anche da Manoel ormai avviato a diventare un bel giovanotto, si fecero il Club do Porto, più elegante e raffinato, e il Club Primavera, più popolare: in entrambi si beveva il dolce vino che dava fama e ricchezza alla città, si cercava di abbordare donnine quasi mai gratuitamente disponibili, si cominciava a parlare oltre che di sesso anche di politica (nonchè di letteratura, di pittura, di filosofia e di cinema, la nuova arte che proprio in quegli anni 20, grazie a pionieri quali Aurelio Paz do Reis, cui de Oliveira dedica un entusiastico e grato omaggio, si andava affermando anche in Portogallo). Nei primi anni 30, Manoel prende a frequentare assiduamente una cerchia di giovani intellettuali – poeti, narratori, pittori, filosofi - quali Rodolfo Casais Montero (poeta dolente ed amaro), Rodriguez Freitas (da una novella del quale avrebbe, anni dopo,

14

all’esilio all’estero od a quello – forzatamente tacito, nascosto e non meno penoso – in patria (Montero, all’estero, morì, lasciando una stupenda poesia nella quale è scritto, tra l’altro, Europa sogno futuro, Europa alba a venire: Radio Londra la trasmise nel 1945, alla fine della guerra). Avviandosi al termine, “Porto della mia infanzia” torna a mostrarci la casa diroccata già vista all’inizio eppoi il mare notturno, che si infrange sugli scogli. Una specie di Ninna Nanna dolorosamente somigliante ad un Fado, intanto, intona fuori campo: “Cantami delle canzoni dolcemente/Tristi tristi com’è di notte il mare/Cantami canzoni per vedere se finalmente/La mia anima si calmerà e riposerà/Quando tra poco la morte mi verrà a cercare”. Il film fu presentato fuori concorso al Festival di Venezia del 2001, suscitando nel pubblico una vera e propria, commossa, ovazione in quanto esso apparve a tutti i presenti come il dolente, mesto, sobrio addio d’un grande uomo – e di un genio del cinema – alla propria città natale, alla propria arte e persino alla propria vita ormai prossima a finire. De Oliveira aveva all’epoca 93 anni. In realtà ne visse ancora quattordici, durante i quali realizzò addirittura altri nove film (complessivamente assai belli: splendido “Un film parlato”, 2003) e tornò varie volte ospite a Venezia, ove nel 2004 gli fu assegnato il Leone d’oro alla carriera. Prima di andare a calmare e far riposare la propria anima nella morte, egli ha scritto anche un “Poema cinematografico” che dice tra l’altro: “Mare recondito e senza limiti che sei la memoria, cosa nascosta di tutti i tempi e di nessun tempo. Ma tu, memoria! Ecciti la vita e l’immaginazione. Che preservi e selezioni. Così il cinema. Il cinema che audiovisivamente può e fissa della vita il teatro che trasforma letteratura e pittura in azione, in spettacolo. E siano questi materiali o immateriali, della vita ci resta l’impressione che il reale non esiste, ma solo confusione il resto — illusione”. Stefano Beccastrini

Il douro a Porto negli anni 20

“Douro, faina fluvial” (Douro, lavoro fluviale), del 1931. La notte la passavano, invece, andando in gruppo a vagabondare per le oscure stradine della città vecchia o lungo il grande fiume che, lento e solenne, scorreva sotto i numerosi ponti di Porto per andare infine a gettarsi nel vicino Atlantico. E parlavano, parlavano, parlavano: idealisti come si può essere a vent’anni, curiosi di conoscere il mondo ma anche vogliosi di cambiarlo, più fantasiosi visionari che lucidi politici. E tuttavia, a partire dal 1932 (anno in cui Antonio de Oliveira Salazar salì al potere e instaurò in Portogallo un governo autoritario chiaramente ispirato dal fascismo italiano), fortemente invisi – nonostante la loro personale innocuità ma in forza delle loro idee scandalose agli ottusi occhi del potere - al regime che difatti, più o meno precocemente, finì con il costringerli tutti quanti

Locandina del film


diaridicineclub@gmail.com Strategie per coinvolgere lo spettatore/utente

Dal crossmediale al transmedia storytelling: strategie di coinvolgimento top-down I prodotti seriali e cinematografici sono diventati cross mediali, perciò non vivono più solo in televisione e sul grande schermo, ma sono fruibili su una miriade di supLaura Frau porti diversi, come gli smartphone e i tablet. Le varie emittenti e produzioni sono disposte a far di tutto per accaparrarsi, se non la fidelizzazione, almeno un momentaneo seguito da parte del pubblico, soprattutto ora che vi è un sovraffollamento di prodotti abbastanza simili tra loro - se non uguali - per via di remake, rifacimenti e

“The Blair Witch Project” (di D. Myrick e E. Sanchez), film del 1999, deve il suo successo soprattutto alla campagna pubblicitaria sul web che riuscì a creare intorno alla strega di Blair una vera comunità di appassionati

trasposizioni. Come catturare l’attenzione degli spettatori? Come convincerli a vedere un film piuttosto che un altro? Film e serie tv non solo viaggiano su media differenti, ma all’interno di ogni singolo universo narrativo si generano diverse esperienze di intrattenimento: soprattutto le narrazioni seriali ci hanno abituato a forme di coinvolgimento totale dello spettatore, attraverso meccanismi di comunità e pervasività che possiamo riscontrare nei prodotti più recenti, come “Lost” o “Game of Thrones”. Le nuove forme narrative sono partecipative e immersive. Spesso lo spettatore non viene coinvolto semplicemente per la durata della serie o del film, ma ben oltre: ne sono prova gli ARG (gli alternate reality game, videogiochi crossmediali che mescolano l’esperienza di gioco con la vita reale), i videogiochi, i fumetti e altri prodotti lanciati in contemporanea o subito dopo un film o una serie, come prosecuzione del mondo rappresentato, e che rendono più duratura l’esperienza d’immersione dello spettatore-fan. Sono state tante le strategie portate avanti negli ultimi anni per espandere gli universi di prodotti seriali e cinematografici, per rafforzare l’affetto e la fidelizzazione del pubblico. Nel 1999 uscì al cinema “The Blair Witch Project”, una pellicola indipendente sulla scomparsa

di una troupe cinematografica ad opera di una strega. Il successo del film è legato soprattutto al fatto che gli autori, con l’intento di rendere più realistico il mondo descritto nel film, crearono artefat- 14 mesi prima dell’arrivo de “Il Cavaliere Oscuro” nei cinema di tutto il mondo venne ti, pitture, sculture, do- realizzato un ARG che coinvolse più di 10 milioni di persone cumentari, vecchi libri, tutti rigorosamente fake e poi postati sul web: questo tipo di narrazione transmediale generò sul web una comunità di appassionati della Strega di Blair, rimasti affascinati dalla possibilità di esplorare questo nuovo universo. Nel 2007, prima dell’arrivo nelle sale del nolaniano “Il cavaliere Oscuro”, la Warner fece realizzare un ARG che, per 14 mesi, coinvolse circa 10 milioni di partecipanti in tutto il mondo nei piani criminali del Joker: decifrarono mail criptiche, chiamarono numeri di telefono trovati su torte glassate, risalirono a degli indirizzi e vi si recarono (solo alcuni) fi- L’infografica sul cannibalismo e la carne umana sicamente. In questo modo i fan vennero pubblicata da Fox quando a settembre 2014 a Londra coinvolti nel film più di un anno prima dalla sono stati distribuiti finti burger di carne umana per il proiezione e la strategia adottata si rivelò di lancio della quinta stagione di “The Walking Dead” successo, poiché il film fu il più visto del 2008. Anche nel mondo delle serie tv troviamo Zelanda e DDB hanno installato in una piazza esempi di curiose iniziative. Attorno a “Lost” di Auckland (Nuova Zelanda) una statua di 7 metri raffigurante Joffrey, tra i personaggi più odiati dai fan: attraverso l’hashtag #BringDownTheKing gli utenti su Twitter avevano la possibilità di buttare giù la statua e, in modo figurato, anche il personaggio; e sul web gli utenti di tutto il mondo hanno partecipato alla caduta del Re monitorando le condizioni della statua attraverso delle telecamere installate nei pressi della piazza. Quest’anno la Fox, per lanciare la quinta stagione di “The Walking Dead”, ha fatto distribuire per le vie di Londra degli hamburger al (pseudo) gusto di carne umana, mentre Sky Atlantic ha ricrePer il lancio della terza stagione di “House of Cards”, ato per pochi giorni a Milano il Freddy’s BBQ Sky Atlantic ha trasformato uno storico chiosco Joint – tanto caro a Frank Underwood, protamilanese nel Freddy’s Bbq Joint, tanto amato dal gonista di “House of Cards” – in cui si potevaprotagonista Frank Underwood per le sue costolette no mangiare le famose costolette marinate. Si sono stati ideati romanzi, siti web fittizi (co- tratta di un nuovo modo di raccontare le stome quello della Oceanic Airlines) e tre ARG, di rie. Oggi col transmedia storytelling i pezzi di cui il più famoso è stato la “Lost Experience”, una storia vengono raccontati su media diveruna campagna interattiva svoltasi su blog, po- si, cosi che in ognuno di questi non troviamo dcast, il ComiCon di San Diego, quotidiani e che una parte di una storia più ampia, ricoriviste, iniziata nel 2006 a cavallo tra la secon- struibile assemblando tutti i pezzi sparsi tra i da e la terza stagione: senza espliciti legami media. Il muro tra pubblico e personaggi, tra col racconto della serie, l’ARG sfruttava però il finzione e realtà viene fatto cadere, garantensuo mondo, espandendolo con indizi e con- do la massima immersione nella narrazione. nessioni. Grazie alla “Lost Experience” i fan poterono scoprire enigmi irrisolti, come, ad esempio, l’origine della serie di numeri 4-8-1516-23-42. Nel 2014, per il lancio della quarta stagione di “Game of Thrones”, Sky tv Nuova Laura Frau

15


n.

28

La memoria è un’ingranaggio collettivo

La memoria di Mario Ciampolini, un cineamatore d’altri tempi Nel 1961 a 33 anni ho iniziato la mia lunga attività di cineamatore (uso questo termine desueto perché tale mi sento ancora) dopo aver acquistato una cinepresa Crown giapponese di scarso valore sia tecnico che econoMario Ciampolini mico, che ben presto ho dovuto sostituire con una Bolex Paillard Reflex P1 di tutt’altro livello, che mi ha permesso di migliorare in buona misura l’immagine fotografica dei miei filmati. Sono comunque rimasto un cineamatore “della Domenica” per circa dieci anni filmando le solite cose legate indissolubilmente a detta categoria di appassionati. Debbo dire però che col progredire della mia suddetta attività ho potuto maturare una conoscenza del linguaggio cinematografico che mi ha portato a meglio considerare l’importanza del montaggio e del conseguente ritmo del susseguirsi delle immagini. In questo periodo ho potuto inoltre conoscere alcune persone che avevano già iniziato a sperimentare percorsi più impegnativi di un cinema più evoluto, per cui nel 1971 ho voluto cimentarmi con un primo film a soggetto basato su una storia paranormale che mi frullava da qualche tempo in testa. Lo intitolai “Camera oscura” e lo presentai al Festival di Castrocaro della F.N.C del 1972 ottenendo con mia grande e genuina sorpresa il premio, sia pur minore, di una medaglia d’oro. A seguito di ciò ,decisi di iscrivermi al Circolo Cineamatoriale Genovese nato nel 1964 e affiliato alla Federazione Nazionale Cineamatori (FNC).Poi nel 1973 Giorgio Moneta, un cineamatore che aveva già vinto un Fotogramma di bronzo al Festival di Torino della FNC, mi propose di lavorare assieme alla realizzazione di un film di cui aveva elaborato la sceneggiatura. Accettai di buon grado e nacque così un sodalizio che si protrasse fino alla seconda metà degli anni 80. Avemmo la fortuna di vincere al Festival FNC di Castrocaro 5 Fotogrammi d’Oro e 2 d’argento, altri Fotogrammi li ho vinti sia da solo che ìn collaborazione con Nicola di Francescantonio e Franco Ligalupi. Uno dei flim girati con Giorgio Moneta “ Cosa mi fai?”, merita un discorso a parte per quanto accaduto dopo che nel 1975 vinse il Fotogramma d’Oro a Castrocaro. Il film trattava di una ragazza minorenne fatta abortire dal padre e si trovò al centro di una polemica con il giornale del Vaticano L’Osservatore Romano che accusò Giorgio Moneta e il sottoscritto di apologia di reato, in quanto a quei tempi l’aborto non era stato ancora depenalizzato. La notizia arrivò ai giornali genovesi tramite un comunicato dell’ANSA. ll principale quotidiano di Genova, IL SECOLO XIX, inviò il giornalista Bruno De Ceresa ad intervistarcì e pubblicò l‘articolo su quattro colonne.

16

Alla proiezione del film nel nostro Circolo, la sala fu invasa da un folto gruppo di Radicali, che proprio in quel periodo stavano conducendo una campagna a favore dell’aborto e ci ringraziarono per averli, sia pure involontariamente, favoriti nella loro battaglia. Il sodalizio con Giorgio Moneta è terminato alla fine degli anni 80 ed io ho continuato la mia attività fino ai giorni nostri producendo una serie di cortometraggi a soggetto con altre saltuarie collaborazioni, specialmente nel campo della sceneggiatura. I temi sono di varia natura: vita vissuta, racconti di scrittori famosi e soggetti di pura invenzione tra i quali ohimè devo ricordare anche un film in costume ambientato nel 1300 e un western con tanto di galoppate, sparatorie, risse nel saloon e naturalmente i pellerosse. Ma in questo periodo ho realizzato anche molti documentari sem-

Mario Ciampolini e Giorgio Moneta nel film “Ultimo racconto” del 1973 (foto di Ferruccio Jochler)

pre in collaborazione con altri cineamatori quali in particolare Claudio Serra, Gianni Sorgia e con il giornalista critico cinemato-

Piero Pruzzo nel film “Più forte dell’odio” del 2007 (foto di Claudio Serra)*

grafico Piero Pruzzo. Con Claudio Serra il tema principale sono i mezzi di trasporto e più precisamente le auto d’epoca, i tram scomparsi

Mario Ciampolini esegue la sonorizzazione di un film in Super 8, anno 1971 (foto di Giorgio Moneta)

da Genova, la ferrovia locale Genova-Casella) lo scandalo della metropolitana genovese (oltre 30 anni per realizzare 6,5 km) e fuori dai suddetti argomenti, un film sul regista Pietro Germi. Con Gianni Sorgia i temi sono la musica, in particolare il jazz, del quale siamo entrambi appassionati e l’escursionismo , in particolare l’ Alta Via dei Monti Liguri, che ha richiesto un impegno di quasi due anni tra riprese e montaggio. Con Piero Pruzzo lavoro ormai da un decennio nella realizzazione di video che riguardano il cinema professionale, relativi a celebri attori e registi del passato, a musical USA , a personaggi celebri della musica e della danza (Natalino Otto Harry Warren, Glenn Miller, Fred Astaire) e infine a documentari di autori che sono passati alla storia. E infine su video relativi ad attori e registi italiani e stranieri, ho collaborato anche con Claudio G. Fava. Negli ultimi anni la FNC è andata gradatamente in dissoluzione. Il nostro Cineclub era rimasto praticamente l’unico ad essere operativo e le scarse risorse economiche creavano crescenti difficoltà alla organizzazione della rassegna del Fotogramma d’Oro. Con l’accordo di tutti i soci è stato quindi deciso di affiliare il ns. Cineclub alla Fedic. Ho telefonato all’amico Roberto Merlino, già conosciuto a Castrocaro, il quale ha accolto con molto calore la nostra richiesta che è stata poi accettata ufficialmente all’inizio del 2014. Così abbiamo trovato una associazione molto ben organizzata, piena di iniziative e progetti, nella quale contiamo di trovare un nuovo impulso per la nostra attività futura. Mario Ciampolini

Nato a Udine nel 1928, trasferito a Genova nel ’39. A seguito bombardamenti sfollato a Lavagna (Livorno), ha vissuto, insieme alla sua famiglia la resistenza. Laureato in ingegneria meccanica industriale, ha lavorato all’Ansaldo e all’Italsider e gli ultitimi anni sulla Portaerei Garibaldi per soluzioni acustiche, termiche e tagliafuochi. Nel ’90 è andato in pensione. Nel 1972 è iscritto al circolo cine-amatoriale del FNC, dal 2014 al Cineclub Fotovideo Genova www.cineclubgenova.net aderente alla Fedic


diaridicineclub@gmail.com

L’oralità aporica del loop cinematico Come avanzato nella prima parte di questo breve saggio, dimensionato quale situazione, il cinema è altresì ambiente in cui lo spettatore si presta complice consapevole e scolpisce via via nella mente i legami, le motivazioni, le azioni e la pluralità delle reazioni. Ogni attimo è aporico e nel circuito lo spettatore acquisisce ben presto il ruolo d’interlocutore (1) Questa concezione del simultaneo sviluppo della materia e dell’intelletto è ingegnosa, merita di essere capita (2). Accanto sopravvive una seconda realtà, formulata per spettatori inabili a entrare nel loop, tanto da avCarmen De Stasio vertirsi in una sorta di auto-isolamento, che, in un certo modo, costringe a prendere (scegliere) posizione: sforzarsi o rinunciare. L’una costruttiva e adeguata all’essere uomo (dunque asimmetrica); l’altra plastificante ed esteriore. L’accumulo di presenze nuoce a chi si presta allo sforzo a motivo dell’elevato numero di referenti asimmetrici. Sull’altro versante è il compiacimento procurato dal flash di pensiero, che non contribuisce alla dimensionalizzazione intuizionale e disattiva il circuito in favore di un’assimilazione balenante, sì che lo spettatore e la sua mente vadano a riposare subito dopo. Nulla accade nel frattempo. Ciò detto, questa è una realtà che di reale non ha i crismi: nello spazio storicizzato, un evento è un fatto, ovvero, gode di uno svolgimento. È tracciabile. E tuttavia, se la costruzione è fragile, va da sé che i componenti non sedimentino e cadano rovinosamente. In queste circostanze – diverse dalle situazioni, in cui i soggetti sono tanto l’uomo, che il suo comportamento; tanto la sua abilità di mediazione ambientale, quanto il suo perentorio rifiuto logico o la sua mai cattedratica assunzione consapevole – si oppone ovunque un giudizio. Il che rientra nel tracciato mediamente logico (definizione, visualizzazione, sintesi, opinione): è in questo momento che la soggettività si rivela cadenzando un giudizio tronco, sordo e affrettato, che evita di spingersi più in là. Ancora una volta, si traccia una conclusione attesa, giacché l’intero percorso ha svolgimento univoco di superficie. Egualmente tale sarà il giudizio. Contrastivo e assoluto, nulla riferisce, né della personalità di chi ha avuto approccio alla situazione (nello specifico, parlo di un film) né delle intenzioni concretizzate in ambienti evolutivi e anti-statici in progress. Nell’appercettiva condizione situazionale, invece – ovverosia, quando l’interlocutore si sforza di penetrare le dinamiche prive di sottotitoli di un cinema che spinge affinché sia pensato come arte tra le arti – consente di esprimere un pensiero solidificante, comprensivo di dettagli (nel caso precedente oserei parlare invece di condizione anestetizzante e privativa). Non a caso parlo d’interlocutore: un cinema che non

si rivolga a un interlocutore non è arte, né realtà auto-riconoscibile. È un altro-altrove in-

Per certi aspetti, il cinema possiede anche una natura tecnica, per via di un meccanismo atti-

Le « rotoreliefs » di Marcel Duchamp. Una copia dell’originale la n. 8 appartiene all’Archivio di Carlo Montanaro e custodito a Venezia nella “Fabbrica del Vedere

definibile, non misurabile, non immaginabile. Ovvero, finzione di facile oblio. Doveroso, a tal punto, configurare il ruolo dell’interlocutore, nel cui etimo sussistono due realtà unitive: inter + locuzione, da leggere come abilità di scambio di locuzioni (unità evolutive in strutture enunciative), che interagiscono in spazi e tempi diversi per possedibili certezze. Affinché l’interlocuzione si realizzi, è basilare uno scambio generativo, appunto, che permetta alle parti di arricchirsi mediante quesiti successivi e intra-oltre-ponibili. In quanto struttura cinetica, l’impianto andrà a solidificare un luogo nuovo e in continuo transito come condizione ottimale di rafforzamento delle competenze – attuative per un verso e conoscitive e di pensiero dall’altro. La maniera contempla l’eliminazione dello spazio amorfo tra lo schermo e lo spettatore-interlocutore, anche per via di una decisività basata (è in essere la volontà) su flessibili note di conoscenze e di ambienti che rendono merito all’esser uomo. O alla grandezza dell’uomo. Da qui la misura secondo cui, nella valenza aporica del senso in prospettiva, il cinema si ricerchi adottando le medesime strategie di un cercatore d’oro. Realtà di cui gode nel richiamo alla cinetica: forza che imprime movimento. Accumulatore d’elettricità che avvia il movimento.

vatore di sogni passando dall’intelletto. Lì l’accumulatore di elettricità scatena la dinamica delle terminazioni nervose; attiva i processi della memoria e chiede sostegno alle facoltà individuali. Ciononostante, esso può traslare in de-cumulatore e fornire una risposta diversa, secondo cui l’osservatore passivo licenzia la sua non-capacità di sforzarsi con agevoli risposte che attingono alla pura percezione. Quanto detto va ad aprire un campo per chiuderlo subito dopo perché privo di impalcature interlocutorie, in ogni caso assimilabili ad un chorus: concentrativo o distrattivo, tendente a illuminare la comprensione o, il più delle volte, a compromettere il completamento del circuito comunicazional-conoscitivo. Carmen De Stasio 1. Performance cinetica e lettero-cinematica, C. De Stasio in «Diari di Cineclub», anno IV, n. 27, aprile 2015, p. 16 2. Storia della filosofia occidentale, B. Russell, IV vol. Longanesi, Milano, 1967, p. 1053

*

nel prossimo numero Il valore (dis)equazionale nella dimensione cineramografica

17


n.

28

I dimenticati

Lido Manetti Negli anni Venti del Novecento - quando il nostro cinema muto, dopo i fasti del precedente decennio faticava a tornare in luce, tanto che si giravano pochissime pellicole -, molti attori e attrici diVirgilio Zanolla venuti popolari nell’epoca d’oro, e i giovani che potevano scommettere qualcosa sul loro fascino fisico, decisero di emigrare in paesi dalla cinematografia economicamente più florida: come la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. Lido Manetti possedeva entrambe le caratteristiche appena citate: perché era di bell’aspetto e godeva di grande notorietà, pur essendo poco più che ventenne. Nato a Firenze il 21 gennaio 1899, a soli diciassette anni aveva esordito davanti alla macchina da presa in una particina nel film «Principessa» di Camillo De Riso, il primo dei sessantadue da lui interpretati; quell’anno stesso, grazie a De Riso ottenne un contratto alla Cæsar Films, dove debuttò come protagonista in «Malìa» di Alfredo De Antoni, accanto alla diva delle dive, Francesca Bertini: fu per lui l’inizio del successo, che lo vide a fianco di attrici celebri quali Italia Almirante Manzini, Rina De Liguoro, Carmen Boni e le sorelle Jacobini, e lo rese particolarmente caro al pubblico femminile in pellicole come «Addio, giovinezza» di Alfredo Genina (’18), accanto a Maria Jacobini, Helena Makowska e Ruggero Capodaglio, dove fu un Mario misurato ma credibile, e «La statua di carne» di Mario Almirante (’21), con Italia Almirante Manzini. Fece anche in tempo a interpretare una guardia romana nel «Quo vadis?» di Gabriellino D’Annunzio e Georg Jacoby, il colossal che registrò un clamoroso insuccesso, aggravando la crisi economica in cui si dibatteva il cinema italiano. E Manetti, che fino allora aveva rinunciato a vantaggiose offerte inglesi e tedesche per lavorare nelle produzioni di quei paesi, per proseguire onorevolmente l’attività fu costretto ad emigrare: nel dicembre del ’25 s’imbarcò sulla “Dante Alighieri” diretta a New York, dove sbarcò dopo una traversata tempestosa. Ricominciare da capo per lui fu durissimo. Restò inoperoso quasi un anno, finché il produttore Carl Bennet non lo scritturò per l’Universal Picture, spedendolo ad Hollywood. Qui, dopo un impatto assai negativo, riuscì infine a spuntarla su altri 26 concorrenti per la parte di Henri nel film «Il signore della notte» (Evening Clothes) di Luther Reed (’27), interpretato da Adolphe Menjou; quest’ultimo, colpito dal suo talento gli ottenne una scrittura alla Paramount. Manetti prese così a lavorare con buon ritmo: ma per questioni di mercato fu costretto ad assumere il nome d’arte di Arnold Kent; il fatto era che,

18

Paramount un’auto in piena corsa l’investì, uccidendolo sul colpo. Si trattò di un incidente; però qualcuno (come il suo amico regista Roberto Roberti, padre di Sergio Leone) sospettò un assassinio ad opera della mafia commissionato da qualche collega per motivi di gelosia professionale. Lido Manetti aveva solo ventinove anni. Il suo posto in «Segreti» venne assunto dall’attore irlandese Matt Moore. Virgilio Zanolla

Marco Asunis, Presidente della FICC su Carte di Cinema in uscita a fine maggio

Lido Manetti

alto e con gli occhi chiari, non poteva incarnare il ruolo di amante latino come gli emuli di Rodolfo Valentino; a completare il suo processo d’integrazione si aggiunga che, proprio allora in cui il ‘sonoro’ si avviava a subentrare al ‘muto’, egli parlava un inglese impeccabile. L’evento fu commentato dal giovane Alessandro Blasetti in un gustoso articolo sulla rivista “Cinematografo”: «Artisti d’Italia: Lido Manetti è scomparso: vivrà per lui Arnold Kent». Manetti-Kent lavorò con attori di prestigio come Gary Cooper, William Powell, Pola Negri, Nancy Carroll, Florence Vidor, Evelyn Brent e Clara Bow; ma sempre in parti di fianco. Nel ’28 la United Artist lo volle in prestito per il ruolo di antagonista ne «La donna contesa» (The Woman Disputed) di Henry King e Sam Taylor, accanto a Gilbert Roland e Norma Talmadge; il suo personaggio, quello dell’ufficiale russo Nika Turgenov, era decisamente negativo, ispirato all’ufficiale prussiano nel racconto «Palla di sevo» di Maupassant: ma la sua figura e la sua recitazione incisiva l’imposero all’attenzione di critica e pubblico. Pagando alla Paramount una ricca penale per la rottura del suo contratto, l’United Artist lo scritturò subito: meditava di affiancarlo a Mary Pickford nel film «Segreti» (Coquette), il primo in cui l’ex fidanzata d’America avrebbe fatto udire la sua voce, quello grazie al quale nel ’29 vinse l’Oscar; per l’attore fiorentino sarebbe stata la definitiva consacrazione. Ma il destino aveva deciso altrimenti. Perché la mattina del 29 settembre del ’28, mentre egli si trovava davanti agli studios della

Marco Asunis (foto di Luigi Zara)

Sul prossimo numero di Carte di Cinema, rivista on line della Fedic, sarà pubblicato un intervento dal titolo: “Il futuro del cinema e il nuovo pubblico” a firma del Presidente della FICC - Federazione Italiana Circoli del Cinema, Marco Asunis. Nel sviluppare il tema sullo stato di oggi e quali prospettive domani dell’ attività culturale cinematografica delle nove Associazioni Nazionali di Cultura Cinematografica, Il Presidente della FICC evidenzia l’ impegno sul piano politico culturale delle nove Associazioni per un lavoro comune atto a contrastare una “realtà nazionale sempre più improntata a svilire il ruolo della cultura cinematografica e della formazione del pubblico nel nostro Paese”. Ricorda poi, in un altro passaggio, quanto sia importante il lavoro dei circoli del cinema “…che sostiene e divulga in particolare il cinema di qualità, sviluppando una politica che favorisce cultura e critica attiva del pubblico, magari in zone dove le sale cinematografiche non esistono più oppure nelle stesse nostre scuole”. Marco Asunis auspica infine: “Appare sempre più evidente per il futuro continuare a lavorare su un fronte di impegno comune, in cui l’associazionismo continui a porre al centro del proprio essere l’obiettivo di crescita culturale e critica del pubblico”. DdC


diaridicineclub@gmail.com Teatro

E nacquero i teatri nazionali Le novita’in tema di contributi del fondo unico dello spettacolo al teatro di prosa: a febbraio il primo passo, il riconoscimento dei teatri nazionali. A colloquio con Franco Oss Noser, presidente Agis Triveneto E’ della fine del mese di febbraio la decisione della Commissione consultiva per la prosa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo di riconoscere quali Teatri Nazionali per il triennio 2015-2017 le seguenti istituzioGiuseppe Barbanti ni: il Teatro di Roma, il Teatro Stabile della Città di Napoli, la Fondazione Emilia Romagna Teatro, Fondazione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, la Fondazione Teatro Stabile di Torino, il Teatro della Toscana, il Teatro Stabile del Veneto – Carlo Goldoni. La Commissione ha così cominciato a dare attuazione alle innovazioni contenute nel decreto ministeriale del luglio 2014 che introduce nuove tipologie di soggetti ammissibili ai contributi per la prosa e regola criteri e modalità di concessione individuando nuove categorie di beneficiari dal 2015. Ne parliamo con Franco Oss Noser alla guida del Consiglio di Presidenza dell’Agis di Friuli, Trentino e Veneto. “Si guarda con grande attesa, non disgiunta da qualche preoccupazione, per i possibili risultati di questo provvedimento. La situazione era bloccata. Ogni realtà era incasellata in una determinata categoria di contributo, spesso decisivo per la sopravvivenza del soggetto. La crescita, lo sviluppo delle diverse imprese di spettacolo non era esattamente nelle previsioni della normativa del 2007 in vigore sino alla fine del 2014. Ora si è passati da un quadro improntato a forti rigidità alla concreta possibilità per i soggetti di poter programmare, nell’arco della progettualità triennale che ispira la nuova normativa, da una categoria all’altra”. Ci può illustrare la filosofia che può avere guidato le scelte della Commissione in tema di individuazione dei teatri nazionali?“ Nel dibattito che ha preceduto la decisione della Commissione se ne è tanto disquisito senza approfondire. Anzitutto sulle ragioni per cui ci potessero essere più teatri nazionali. All’estero le situazioni sono diverse da paese a paese. Naturale che l’Ungheria, dieci milioni di abitanti, un quarto dei quali concentrati nella capitale, abbia un unico teatro nazionale e dei teatri regionali, altrettanto comprensibile è che un paese come la Francia, vasto con diverse aree di interesse culturale, ne abbia più di uno. E’ ovvio che la situazione italiana sia assimilabile più alla realtà d’Oltre Alpe che a quella magiara. La storia del teatro in Italia

presenta diverse scuole, accompagnate da un repertorio di autori di fama internazionale: penso in particolare alla tradizione veneta e a quella napoletana. Condivido la scelta della Commissione di riconoscere più di un teatro nazionale. Dei dieci che avevano presentato domanda magari non avrei escluso Genova, diventato teatro di rilevante interesse culturale. Qualche perplessità ho avuto circa il riconoscimento attribuito al Teatro Stabile di Napoli, che non sta attraversando, anche per la situazione degli enti locali un gran momento.” Nella realtà di sua competenza, l’Agis del Triveneto, come ha operato? “Nel Veneto mi sono battuto con successo per l’unione dello stabile privato, la Fondazione Atlantide di Verona, con il Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni. Sono convinto della necessità, in questo particolare momento storico, di favorire la costituzione di imprese di spettacolo attrezzate sotto il profilo organizzativo e delle dimensioni, il più cospicue possibile. Piccolo può essere bello, sì ma solo per qualche anno. Poi vengono le difficoltà. La questione è che, Franco Oss Noser

Teatro Stabile del Veneto – Carlo Goldoni

in diverse realtà italiane, i vertici delle istituzioni teatrali spesso non hanno compiuto sforzi sufficienti per trovare accordi di vera collaborazione che potessero favorire la nascita di nuovi soggetti o il rafforzamento di quelli esistenti” Che ne pensa del rischio, da molti paventato, che le novità introdotte penalizzino la qualità delle proposte a favore della quantità? “Il pericolo può esserci. Il Decreto obbliga le imprese di spettacolo a guardare anzitutto al loro ruolo di servizio pubblico:

questa è la novità più importante. I soggetti ammessi a contributo debbono favorire la crescita del pubblico sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo. Il teatro di prosa è fondamentale per lo sviluppo sociale, culturale ed economico di una comunità. Nella nostra società lo spettacolo dal vivo, fruito in maniera collettiva, è uno degli ultimi contesti in cui si dà spazio alla riflessione e alla mediazione. Non lo sono più, e lo constato con amarezza, corpi intermedi come i partiti e i sindacati. Il teatro con il suo messaggio rivolto alla collettività sta sempre più diventando un elemento indispensabile, vitale per ogni comunità.” La Commissione sta proseguendo l’esame delle ulteriori istanze di interesse culturale, nonché di tutte le altre del settore prosa, vale a dire quelle d’innovazione infanzia e gioventù, del teatro di strada, della commedia musicale e dell’ operetta. Ci potranno essere ulteriori novità? “Sì, penso in particolare ai circuiti, pubblici e non, che potranno usufruire di un’altra opportunità prevista dal Decreto, la multidisciplinarietà. I circuiti teatrali potranno ampliare la loro attività, distribuendo anche concerti musicali e spettacoli di danza. Una novità che va letta nel senso di incentivare tutti i processi che possano favorire il rafforzamento della realtà esistenti”. Giuseppe Barbanti

19


n.

28

Viaggio nel cinema in Sardegna: Mamuthones e spaghetti western tra le nuove promesse dell’era delle web series Il mese scorso abbiamo iniziato, incauti, un viaggio attraverso il cinema sardo, o più generalmente, il cinema in Sardegna: un viaggio che vuole essere uno spunto di riGiulia Marras flessione, forse spirituale, forse meditativo, sperimentale, impulsivo, sicuramente irrisolvibile. Così questa volta, facciamo direttamente un salto in avanti, senza guardarci troppo indietro, per esaminare le giovani realtà che oggi stanno scavalcando anche la cosiddetta nouvelle vague sarda. Per età innanzitutto, ora che i mezzi digitali facilitano sia la produzione indipendente che la distribuzione per canali non tradizionali, e per formati: da una parte per quanto riguarda i finanziamenti fioccano infatti i crowdfunding e la raccolta dal basso, dall’altra il lungometraggio si serializza per lo più in web series e corti, la cui uscita è dettata più dalle risorse economiche del momento che dalla continuità della narrazione. Un esempio lampante di quest’ultimo caso è “Ischidados”, episodio pilota di un progetto non ancora definito, tutto-

“Ischidados” zombie in Sardegna

ra in cerca di produttori. Da autori torinesi, la Sardegna è principale ambientazione e ispirazione: in una terra invasa dagli zombie, c’è qualcuno che è rimasto ad opporsi: in “Ischidados” riappaiono i Mamuthones, figure mistoriose della storia sarda e maschere tradizionali del carnevale della Mamoiada.

Mamuthones, con i loro campanacci e il viso coperto

Costumi oscuri ma propiziatori per il passaggio delle stagioni senza spiriti malvagi, tornano qui salvatori dai non-morti. Con uno stile chiaramente ispirato alle serie britanniche e americane, giocando con la familiarità degli onnipresenti zombie e con l’inserimento originale

20

Successo alla Los Angeles Web Fest per la serie “Quella sporca sacca Nera”, il western girato diretto dall’ogliastrino Mauro Aragoni

di affascinanti pesonaggi di una civiltà dimenticata, “Ischidados” rischia di essere la promessa horror (troncata, se non rinnovata) della nuova serialità italiana, se mai ce ne sia stata una. Per chi da fuori arriva in Sardegna, c’è chi dalla Sardegna riesce a vincere addirittura in America. Mauro Aragoni da Tortolì ha fatto un gran parlare di sé ultimamente: quasi dal nulla e quasi da solo, ha tirato su “Quella sporca sacca nera”, uno spaghetti western a cavallo tra Sergio Leone e Quentin Tarantino. Presentato al Roma Web Fest 2014, il gioco serissimo di Aragoni, interamente fruibile su YouTube diviso in 4 parti da 20 minuti, ha vinto sei premi su otto nomination all’ultimo Los Angeles Web Festival (tra cui Miglior Sceneggiatura, Miglior Fotografia e Miglior Attore Protagonista; Hollywood, praticamente. A differenza di “Ischidados” però, la storia è ambientata in Messico nel 1895, tra vendette e pistoleri nelle terre non sospette dell’Ogliastra: inoltre, grazie al viaggio in America, Aragoni è riuscito a girare qualche scena ex loco, ma nel nuovo montaggio ammette: “sto riuscendo con facilità ad unire il deserto del Nevada e i suoi canyon con le montagne di Urzulei”. Come in passato, la Sardegna si conferma, oltre che perfetto Far West, luogo senza nome, ma non senza identità: “immenso set cinematografico” come definita dal giovanissimo regista (classe 1988), isolata dalle influenze esterne permanenti, non perde mai la presenza scenica, non per vanità, ma per carattere intrinseco vero e proprio. “Quella sporca sacca nera”, con un quadro digitale che vuole ricordare la pellicola, attraverso graffi e sporcature, d’altronde porta con sé l’immaginario banditesco ereditato iconicamente da “Banditi a Orgosolo” di De Seta, “Barbagia” di Lizzani o ancora “Pelle di bandito” di Livi fino ad arrivare a “Giarrettiera Colt” di Gian Rocco, anch’esso ambientato in Messico. Ritornare al

passato per capovolgere il presente: questo il principio cardine attorno a cui ruota gran parte della produzione cinematografica in Sardegna. Il nuovo progetto di Aragoni è “Nuraghes”, film “colossal epico che prende spunto da un’antica civiltà realmente esistita in Sardegna durante l’età del bronzo; si tratta di ricostruire alla lettera i bronzetti, con i loro costumi nei dettagli, mai realizzati prima, utilizzando i veri materiali dell’epoca”. L’ambizione è tanta, come tanta è la voglia di esplorare un territorio, con la sua Storia e il suo patrimonio culturale, che in realtà non è ancora stato affrontato dal punto di vista del cinema. In questo momento sono proprio i giovani a decidersi ad aprire un baule, rimasto riservato a storici, antropologi e ricercatori, per rovistare e riportare miti e leggende altrimenti sepolti e a cui forse solo il cinema può regalare di nuovo splendore: se il futuro è negato, o non se ne riescono a vedere i tratti dal buio che lo nascondono, come in “Perfidia” di Angius, tocca a Mamuthones e bronzetti ridare un nuovo nome a un’intera generazione e al cinema. Come nota già Mario Pitzalis nel 2012 in “Gli argonauti del Mediterraneo Occidentale. Spunti per una lettura sociologica del cinema di finzione della Sardegna”, «mentre i moderni volevano rompere con il passato – e “Padre Padrone” ne è un esempio paradigmatico – la società ipermoderna ridà dignità al passato anche quando lo rianima dentro forme ultracontemporanee». Le possibilità oggi sono infinite: non solo un bagaglio storico-culturale da riscoprire e riportare alla luce, ma anche le varianti tecniche di elaborazione cinematografica: riprese con smartphone, distribuzione dal basso, web, streaming, programmi open source. L’isola-baule è stata riaperta. Giulia Marras


diaridicineclub@gmail.com

L’arte del parlar di sé Ovvero biografia e cinema tra Nuti, Pieraccioni e Virzì ”La realtà è come se fosse sempre dietro a dei velari che si strappano”, diceva lo scultore Giacometti, “ce n’è ancora un’altra, sempre un’altra; è una ricerca senza fine”. Quelle tante realtà sono ciò che percepiamo Lucia Bruni di noi quando ci raccontiamo; “ricche di contraddizioni e di incanti che provengono dalla memoria e dal non essere confortati dai sensi”, come sosteneva Proust, ci lasciano in balia di noi stessi, pronte a mettere a nudo il nostro animo e quindi le nostre debolezze. Ma non è forse proprio ciò che vuole chi sceglie questo percorso narrativo dietro una macchina da presa? Il concetto vale anche quando raccontiamo di altri, perché riconduce sempre al medesimo gioco di specchi, alle problematiche della identità e del suo “doppio”. Finzione e verità, omissione e rivelazione trovano il loro spazio nella complessa dialettica che lega la vita quotidiana all’arte e l’arte alla vita, la componente metalinguistica che giocoforza ne deriva, lascia ampi spazi di argomentazione e riflessione. Siccome il ventaglio che si apre su questa materia è assai vasto, per il presente articolo parto ancora una volta dalla Toscana per trovare il filo conduttore, destinando il rimanente a future esposizioni. Ecco che nell’ambito della cosiddetta “commedia all’italiana”, troviamo del materiale adatto. Francesco Nuti (Prato, 1955) personaggio quanto mai complesso, con i numerosi ruoli in cui si è raffrontato nell’ambiente dello spettacolo (attore, regista, sceneggiatore, produttore, cantante, paroliere) è emblematico in questo senso per il suo raccontarsi soprattutto attraverso la figura femminile. In “Io, Chiara e lo Scuro” (1982), da un fortuito scambio di valige nasce un amore con alti e bassi, dove la ragazza (Chiara) si rivelerà fondamentale per far ritrovare al protagonista il suo equilibrio nella vita quotidiana. Diversa è Giulia in “Caruso Pascoski di padre polacco” (1988), che con i ripetuti tradimenti sconcerta e disorienta Caruso giungendo a un finale in equilibrio precario. E ancora Margherita di “Donne con le gonne” (1991) dove una turbolenta vita matrimoniale porta all’esasperazione il protagonista che finisce anche in galera, pur con un finale da favoletta. Oppure Rossana, Francesca e Andrea di “Io amo Andrea” (2000) dove addirittura Nuti cerca il lato femminile confrontandosi con le problematiche della omosessualità e dopo un ingarbugliata storia, sceglie di ritornare a una quasi normalità. Oppure Paola dell’ultimo film di Nuti attore “Son contento” (1983), dove ancora una

volta è la donna l’ago della bilancia di orientamenti e scelte. Citando questi film (solo alcuni ovviamente) risulta chiaro come il protagonista adoperi soggetti e personaggi al fine di rivelarsi in ogni propria piega di pregi e difetti: affettuoso, pusillanime, ostinato, caparbio, indulgente, e così via, ma convinto di rimettersi sempre in discussione. Allo stesso modo, anche se impiegando differenti approcci narPaolo Virzì

Francesco Nuti

rativi, si può parlare del fiorentino Leonardo Pieraccioni (Firenze, 1965), attore, regista, sceneggiatore, scrittore, comico, cantautore, per il quale la figura femminile risulta perno su cui ruota tutto il suo mondo, ma certe costanti del proprio e dell’altrui vivere il quoti-

esistenziali, sempre giocati comunque su toni assai leggeri, come quelli di Nuti del resto. Quanto alla vis comica dei due, si ride è vero, ma sotto sotto si coglie anche la vena malinconica che ci avvolge come un tenero sudario. Di altro spessore (i riconoscimenti della critica e i premi ricevuti negli anni lo confermano) e di altro approccio riguardo allo svelamento di sé, sempre con la costante della vena malinconica, è Paolo Virzì (Livorno, 1964), regista, sceneggiatore e produttore, per il quale l’ambientazione di alcuni suoi film come “La bella vita” (1994), “Ovosodo” (1997), “La prima cosa bella” (2010), è un pretesto per fare dell’autobiografia in modo mediato. Questo si ritrova anche in tutta la sua produzione che ci fa entrare nel quotidiano, talvolta con cruda amarezza, come in “Caterina va in città” (2003), “My name is Tanino” ((2002), o nell’ultimo “Il capitale umano” (2014), per citarne alcuni. Virzì, se anche dà spazio ai contrastati e sofferti rapporti fra i due sessi, sceglie di andare al di là scavando dentro l’animo umano per cercarvi quel tanto che ognuno di noi riesce a dare. Lucia Bruni

Leonardo Pieraccioni

diano (fra il serio e il faceto) sono riferimenti importanti per ribadire taluni concetti esistenziali. Lo vediamo alla costante ricerca dell’anima gemella che quasi sempre si rivela dopo infinite peripezie, vissute comunque con un certo distacco; mentre per Nuti il “dramma” si consuma sul posto, per Pieraccioni c’è sempre tempo perché arrivi. Dal primo, “I laureati” (1995), dove la donna è riferimento e pretesto per giustificare errori e debolezze e dove la finale, con il tentato suicidio del professore, è occasione per riconsiderare certe scelte e chiudere il cerchio della storia, si passa alla serie di film che la vedono al centro di tutto il narrato: “Il ciclone” (1996), “Fuochi d’artificio” (1997), “Ti amo in tutte le lingue del mondo” (2005), “Una moglie bellissima” (2007), citandone alcuni, per arrivare all’ultimo, “Un fantastico via vai” (2013), in cui Pieraccioni tenta di ritornare un po’ su riflessioni

21


n.

22

28


diaridicineclub@gmail.com Festival

Sardinia Film Festival news X International Short Film Award - 2015 - April / September (Sassari 22 I 27 giugno) A fine giugno Sassari diventa la capitale dei giovani film maker europei. Negli ultimi tre giorni del Sardinia Film Festival (22-27 dello stesso mese), la città sarà invasa da un drappello di giovani autori under-trenta provenienti dalle scuole di cinema dell’Unione Europea, Grazia Brundu pronti a confrontarsi tra inquadrature e primi piani sulle nuove tendenze dei film “in corto”, senza trascurare, però, nemmeno i lungometraggi. Il meeting nasce grazie al finanziamento del Comune di Sassari, il supporto della Fondazione Sardegna Film Commission e di enti pubblici e privati. Come racconta il presidente del Sff Angelo Tantaro «sarà un’occasione per riflettere e confrontarsi sui temi del cinema come strumento di cultura, creatività, ma anche di lavoro che porterà la X edizione al centro del dibattito europeo». L’idea, spiega, è quella di fare incontra-

Claudia Firino, Assessore per la Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport della Regione Sardegna, ospite del Festival nella precedente edizione, con il Direttore artistico Carlo Dessì

re i film maker con istituzioni, imprese, produttori e distributori, insomma con la «filiera dell’industria cinematografica nel suo complesso, ribadendo il ruolo del festival nella promozione del cinema fatto da giovani che con difficoltà producono e distribuiscono le loro opere». La tre giorni aprirà una finestra sul “dopo

La sigla dell’edizione 2015 del festival è di Paolo Bandinu

le scuole di cinema” e fornirà consigli pratici su come essere competitivi e spendibili sul mercato. In pratica, i giovani film maker saranno protagonisti di laboratori e masterclass, oltre che di proiezioni incrociate che permetteranno sia a loro che al pubblico di farsi un’idea di cosa bolle nelle pentole cinematografiche delle varie scuole nazionali. Negli stessi giorni al Sff arriveranno anche gli operatori del settore cinema di Moviementu-Rete cinema Sardegna: sicuramente dall’interazione tra questa tenace realtà sarda –impegnata a trasformare l’industria cinematografica in una ricchezza culturale ed economica per l’Isola- e i colleghi del resto d’Europa nasceranno nuove collaborazioni e interessanti strategie di sviluppo. Nel frattempo, mentre si definiscono tutti i dettagli del meeting, l’attività del Sardinia Film Festival procede senza soste con proiezioni alternate a trasferte negli altri festival europei. A fine aprile, il Cineclub Sassari, promotore del Sff, ha presentato in anteprima sarda il tour di Janas. Storie di donne, telai e tesori nelle principali città dell’Isola: Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano. Il documentario racconta la tessitura in Sardegna ed è stato accolto con curiosità e interesse dal pubblico, grazie anche alla presenza degli autori Giorgia Boldrini, Giulio Filippo Giunti e Stefano Massari e della protagonista Stefania Bandinu, che hanno fatto rivivere con le loro immagini tecniche artigianali affascinanti e antiche di secoli, a volte sconosciute anche agli stessi sardi. Per quanto riguarda gli scambi con i partner europei, dal 20 al 24 maggio il direttore artistico Carlo Dessì sarà l’ambasciatore del Sff al settimo Corona Fastnet Short Film Festival, nel piccolo villaggio irlandese di Schull, nella contea di Cork. Il motto del festival è: “Il nostro villaggio è il nostro schermo”, perché nel paese, privo di cinema, i

cortometraggi in concorso vengono proiettati nelle sale pubbliche, nei bar, addirittura sulle facciate dei palazzi. E possono anche essere visti, durante tutto l’anno, su telefonini e laptop, grazie a un sistema wifi diffuso in tutta Schull. «L’Irlanda è la seconda tappa di un tour iniziato a Tallinn lo scorso febbraio, -racconta Carlo Dessì -, che ci sta portando in giro ad informarci su quello che succede negli altri festival. Da parte nostra raccontiamo la storia decennale di un festival che ha una personalità ben definita nel panorama europeo, e un ruolo culturale di primo piano in Sardegna e nel resto d’Italia». E conclude: «Lo scambio di film e di esperienze è fondamentale per costruire una rete europea, al cui interno i ragazzi usciti dalle scuole di cinema possano trasformare anni di studi e di speranze in un lavoro vero e proprio». Grazia Brundu Sardinia Film Festival organizzato da Cineclub Sassari Via Bellini, 7 - 07100 Sassari www.sardiniafilmfestival.it mail: info@sardiniafilmfestival.it Luogo del Festival “Quadrilatero” Università di Sassari viale Mancini 5 Direttore artistico Carlo Dessì Presidente Angelo Tantaro

*Sardinia Film Festival è un evento di eccellenza ed è supportato da Diari di Cineclub

23


n.

28

La primavera pugliese La Puglia come fucina di produzione cinematografica Con la primavera arriva un momento magico per il Mondo del Cinema in Puglia. L’avvio - ormai da sette anni - è dato dal Bif&st. Si parla a parAdriano Silvestri te del Festival Fritz Lang, aperto dalla proiezione di un documentario realizzato da Rüdiger Suchsland. Ed è anche l’occasione per incontrare ancora il professor Martin Koerber, che già era stato a Bari lo scorso anno in Mediateca. Ci sono poi i set operativi per il Cinema e la Televisione: la sera in cui si presenta a Bari il festival, Nichi Vendola fa rilevare che - nella rotonda antistante l’albergo - c’è un “accampamento” per i mezzi tecnici, che girano la nuova serie tv della Guardia di Finanza “Il Sistema”, con regia di Carmine Elia (andrà in onda su Rai 1). Cominciano ad arrivare – inoltre - nelle sale i film prodotti nelle stagioni estive dello scorso anno: la settimana/cinema che inizia Giovedì 9 Aprile ha in programmazione addirittura cinque film girati in toto nella Regione, a cui si aggiunge un sesto titolo – “Third Person” – che il regista Paul Haggis ha voluto ambientare in parte a Taranto. E queste proiezioni nei cinema si sommano ai programmi trasmessi in tv: dopo “Braccialetti Rossi”, riscuote successo (share al 25 percento su Rai1) la fiction “Pietro Mennea, la Freccia del Sud” ambientata a Barletta e Bari da Ricky Tognazzi. Infine i riconoscimenti: a Cannes uno dei tre film Italiani in concorso per la Palma d’oro (oltre a

Masseria “Accetta Grande” di Statte. Da segnalare gli sfarzosi costumi, realizzati da Massimo Cantini Parrini per questo film, sostenuto da Apulia film commission. Ma andiamo per ordine: al Bif&st le lezioni di cinema sono tenute quest’anno da Alan Parker, Jean-Jacques Annaud, Costa-Gavras, Ettore Scola, Andrzej Wajda, Edgar Reitz, Margarethe von Trotta e Nanni Moretti. Felice Laudadio, presenta l’assemblea della Fédération Internationale de la Presse cinématographique, che «Festeggia il 90° compleanno a Bari, Città che ospita per la settima volta consecutiva l’incontro annuale dei critici cinematografici.» Klaus Eder dichiara: «Mi trovo al centro del Mondo del cinema; lavoriamo su due progetti: la retrospettiva di Francesco Rosi e la serie di master class. Prendiamo esempio dal festival di Bari per esportare la formula in altri Paesi.» Maurizio Sciarra aggiunge: «È un po’ un ciclo che si chiude: oggi la Puglia ha al suo interno il ciclo completo del cinema e, oltre all’aiuto alla produzione ed al sostegno alle sale, l’ultimo anello sono i critici: è il patto tra chi i film li fa e chi i film li legge». Grande emozione per la proiezione del documentario “Quando c’era Berlinguer”, introdotto da Ettore Scola, Walter Veltroni si rivolge ai ragazzi: «È la vostra età quella a cui ho pensato per fare questo film, il cui successo è merito di Berlinguer. Era un uomo piccolo con una faccia meravigliosa e degli occhi che raccontavano una verità interiore. Ecco: il film racconta il suo coraggio e racconta una idea di politica, la bellezza della politica, il suo essere una mis-

domanda era molto forte, perciò il Bif&st ha avuto successo. Il festival ha settantamila protagonisti nella Città e tocca a loro rappresentare questa esigenza e far sentire che questo è un evento di tutti. Come amministratore, per dieci anni ho fatto soprattutto attività di ricerca di fondi e di risorse, per garantire la prosecuzione dei progetti di qualità. È importante sapere chi e quando staccherà l’assegno, cercando tra le risorse che esistono e che vanno intercettate.» Tra gli eventi collaterali il premio “Short Roads” di Mercedes è andato a “Domani è qui” di Viola Piccininni. Affollatissimo il Workshop di Europa Creativa con interventi di Cristina Piscitelli e Andrea Coluccia del Ced Ita Media di Bari. Ma altri riconoscimenti arrivano al Cinema “Made in Puglia”: il corto “Kild K” di Roberto De Feo e Vito Palumbo - finalista ai corti d’Argento a Roma - porta a casa una Menzione Speciale. Nella sezione competitiva del prossimo Valdarno Cinema Fedic, c’è il film “The Tin Hat” di Giuseppe Boccassini. Il Festival del Cinema di Berlino dedicato al calcio (“11mm Football Film Festival”) pone al primo posto sul podio

"Una Meravigliosa Stagione Fallimentare", docufiction girata a Bari, è stato sostenuto da Apulia Film Commission con 50.000 euro (Apulia Regional Film Fund)

Il kolossal fantasy di Matteo Garrone a Castel del Monte (Barletta-Andria-Trani) con Vincent Cassel

Nanni Moretti e Paolo Sorrentino) è Matteo Garrone, con “Tale of Tales. Il Racconto dei racconti”, girato tra i castelli e i luoghi storici della Puglia: intreccia tre storie diverse in tre Regni, con altrettanti Sovrani (interpretati da Salma Hayek, Vincent Cassel e Toby Jones): le fiabe popolari in dialetto Napoletano, raccolte ne “Lo Cunto de li cunti” dallo scrittore e militare di ventura Giambattista Basile - del XVII secolo - si fingono narrate da dieci vecchiette in cinque giornate. L’estate scorsa il set ha operato a Castel del Monte, poi nel maniero Normanno di Gioia del Colle e nelle location del Villaggio Petruscio di Mottola e della

24

sione laica, che fa vivere esperienze collettive fantastiche: tutto questo vive in Berlinguer, nella sua vita e vive nella sua morte.» Al festival tra i film italiani fanno incetta di premi “Torneranno i Prati” di Ermanno Olmi, “Anime Nere” di Francesco Munzi e “Noi e la Giulia”, girato in Basilicata da Edoardo Leo. Per il panorama Internazionale viene premiato Louis-Julien Petit per “Discount” e una menzione speciale è riservata a Oles Sanin per “Povodyr” (The Guide). Alla cerimonia di premiazione Silvia Godelli dichiara con forza: «Bisogna continuare a garantire il diritto ed il futuro del Festival. Il territorio era pronto e la

«Una Meravigliosa stagione fallimentare», girato interamente a Bari da Mario Bucci. L’operatore di questo film, il giovane Enrico Acciani, a sua volta, è l’unico pugliese ammesso – con il suo corto “Blasè” allo Short Film Corner di Cannes. E veniamo alle produzioni che investono tutto il territorio della Regione, trasformato in un immenso set a cielo aperto: “Banat” di Adriano Valerio, dopo le riprese in Macedonia (Paese che per la prima volta entra in co-produzione con l’Italia), e in Bulgaria e Romania, approda a Bari. La docufiction “L’Età d’oro” di Emanuela Piovano si gira tra Monopoli e Otranto: la location principale è una vecchia Arena, con terrazza sul mare, utilizzata durante la guerra per le proiezioni ai soldati alleati: la protagonista gestisce la struttura, che rimane attiva fino agli Anni ’80, ristrutturata ed allestita con poltrone originali: liberamente ispirata al libro omonimo di Francesca Romana Massaro e Silvana Silvestri. Si lavora – inoltre - nella Marina di Melendugno, a Santa Maria di Leuca e nella Città di Trani al film “Loro chi?” diretto da Fabio Bonifaci segue a pag. successiva


diaridicineclub@gmail.com segue da pag. precedente Cinema e letteratura in giallo e Francesco Miccichè, con protagonisti Marco Giallini ed Edoardo Leo. Mentre per “La Ragazza dei miei sogni” di Saverio Di Biagio, le riprese sono tra Giovinazzo, Molfetta e Bari.

L’ assassino di Elio Petri (1961) Cast: Marcello Mastroianni, Salvo Randone,Cristina Gaioni, Micheline Presle, Andrea Checchi, Paolo Panelli, Toni Ucci, Mac Ronay

Ambra Angiolini e Michele Placido a Bisceglie, città che ha ospitato la maggior parte della lavorazione del film “La Scelta”

Molto ampio e in fase di sviluppo in Puglia – come in tutta Italia – è il lavoro per le Serie Tv: per tramandare il messaggio della testimone di giustizia Lea Garofalo, uccisa nel 2009, interpretata dalla attrice pugliese Vanessa Scalera, si gira la miniserie “Se ti diranno di me” di Marco Tullio Giordana, con riprese a Gravina in Puglia e nel Tribunale di Bari. Arriva alla seconda fase l’altra serie “Questo è il mio Paese”, girata tra Vico del Gargano, Manfredonia, Ischitella e San Marco in Lamis. La protagonista – interpretata da Violante Placido - è una donna forte: ritorna al suo Paese d’origine, che assume il nome di (poca) fantasia di Calura, si candida Sindaco e vince. In pochi mesi rinnova la vita del luogo, in termini di socialità, trasparenza ed avviando un rilancio dell’economia. Per completare le note sulla televisione, si ricorda la replica della fiction trasmessa recentemente su Rai1: “Volare. La grande storia di Domenico Modugno” con Beppe Fiorello, diretta da Riccardo Milani, girata nei paesi di nascita e di gioventù del cantante: Polignano a Mare e San Pietro Vernotico. Ma la descrizione del momento magico del Cinema in Puglia si registra con l’elemento più significativo: la proiezione dei film nelle sale. “La Scelta”, girato a Bisceglie da Michele Placido su testi di Pirandello, nei primi dieci giorni di programmazione ha incassato un milione di euro, abbinando critica favorevole e successo di pubblico. In Aprile, dopo “Latin Lover”, l’ultimo film di Virna Lisi girato da Cristina Comencini tra San Vito dei Normanni e Monteroni di Lecce, si proietta anche “Ameluk” di Mimmo Mancini, tutto ambientato a Bitonto; e arrivano nelle sale anche due film interamente girati a Bari: “L’Amore non perdona” di Stefano Consiglio e “Forever in Love” di Doris Simone. Da rilevare che in Marzo sono usciti nelle sale anche “La Terra dei Santi” girato a Manfredonia da Fernando Muraca e “La mia vita amore per sempre” di Roberta Bellini anch’esso ambientato a Bitonto. Adriano Silvestri

Saltellando per canali televisivi ogni tanto capita anche qualche lieta sorpresa, o meglio la possibilità di riscoprire anche dei film da tempo scomparsi da ogni circuito Giuseppe Previti e che ogni tanto misteriosamente ricompaiono. E così abbiamo “ritrovato” un film del 1961, diretto da Elio Petri, da un soggetto dello stesso Petri e di Tonino Guerra, “L’assassino”, un bel giallo di impostazione classica, ma principalmente centrato sul ritratto del protagonista, con un’analisi psicologica dello stesso assai accurata.La trama ci narra di un giovane antiquario romano, Alfredo Martelli, che viene una mattina all’alba fermato in casa sua dalla polizia e portato in questura senza che gli sia fornita alcuna spiegazione. L’uomo si arrovella sul capire perché è stato convocato in questura, quando il commissario Palumbo lo informa brutalmente che è sospettato di omicidio. E’ stata infatti assassinata la sua ex-amante, che il Martelli era andato a trovare a casa la sera prima per chiederle di dilazionare un pagamento. Martelli che dietro un’ apparente strafottenza è un insicuro e un opportunista è uomo che vale ben poco e sembra incapace di reagire all’accusa e finisce in camera di sicurezza. Solo la scoperta del vero colpevole gli permetterà di lasciare la questura e tornare a casa, ma gli sarà servita la lezione? Marcello Mastroianni, già attore affermato sia in teatro che al cinema, qui si trova ad interpretare un personaggio assai interessante. L’architetto Martelli non è un assassino, probabilmente dall’uomo vacuo che è, non ne saprebbe neppure essere capace. Certamente è una persona senza un briciolo di umanità, il regista lo definisce “totalmente disumanizzato”. Lui vive per i propri bisogni, i rapporti con gli altri sono finalizzati solo a questo scopo, la matura amante (la bravissima Micheline Presle) gli serviva solamente per i soldi, la giovane amante (Cristina Gaioni) è un’oca giuliva, ma appena la famiglia di lei scopre i guai in cui lui si è cacciato la fa scomparire. Ma resta il fatto di un uomo che negli altri vede solamente degli oggetti da usare per i propri scopi, una sorta di usa e getta, senza alcuna morale da rispettare. Elio Petri era alla sua opera prima, lui punta sul disorentamento di questo giovane antiquario, belloccio ma senza spessore alcuno. Martelli/ Mastroianni rivive in quella lunga nottata in questura, attraverso una serie di flash-back, un po’ la storia della sua vita, vita di un squallido arrampicatore sociale, sempre pronto a

sfruttare le debolezze degli altri, vedi anche il rapporto con la donna che sarà poi assassinata.Il film è impostato come un giallo, c’è una indagine di polizia condotta da quell’ eccellente attore che è stato Salvo Randone (peccato che il cinema lo abbia sfruttato ben poco), ma a Petri interessa più che l’assasssino evidenziare la “disumanità” del protagonista. Il film è stato ritrovato e restaurato grazie a

un’operazione congiunta della Cineteca Comunale di Bologna, del Museo del Cinema di Torino e della Titanus. Un film in conclusione di grande qualità, una costruzione assai accurata in cui si trovano vari influssi, addirittura si è parlato di nouvelle vague, ma resta una pellicola notevole. Mastroianni è perfetto nel ruolo di quest’uomo indolente e cinico, senza scrupoli, basti vedere come tratta la madre venuta a trovarlo a Roma. Randone è altrettanto eccellente nel creare il personaggio del commissario, ricco di silenzi significativi, di allusioni di fronte a quest’ omuncolo che ha capito subito di che pasta è fatta, e ci gioca un po’ come il gatto con il topo. Petri è regista ormai lontano dal neorealismo, il suo è già un cinema-apologo, un cinema impegnato che sa costruire i suoi “mostri” e non importa che siano degli assassini. Un uomo doppio, ambiguo, non importa se abbia ucciso materialmente. Possiamo dire buon sangue non mente, Petri già in questa opera prima si dimostra autore assolutamente originale che seguirà poi una propria idea di fare il cinema, un “ grande” cinema. Giuseppe Previti

25


n.

28

Un gesuita al cinema

Egidio Guidubaldi, quel che resta nel mio ricordo Padre Guidubaldi a Cagliari, cineforum, nuovi spazi, occupazione dell’anfiteatro e l’esilio Padre Guidubaldi che per vent’anni a Cagliari inventò nuovi spazi, promosse il cineforum, occupò l’anfiteatro e poi fu esiliato. Egidio Guidubaldi, Padre Guidubaldi, Bracco Gaetano Marino per tutti, non era il Gesuita che, secondo tradizione, ti saresti aspettato di incontrare. Non appariva uomo di chiesa. In tutta la mia esperienza guidubaldiana l’ho visto dire messa solo per un evento nazionale, drammaticamente politico degli anni settanta; ma di cui io non ricordo esattamente il fatto, forse l’omicidio Moro? Lui stesso, Bracco, ci confessò, che dovette indossare l’abito talare solo perché non aveva i soldi per dedicarsi allo studio. Già da qui si potrebbe intuire il perché di tante sue scelte che spesso mettevano fortemente in imbarazzo la Compagnia di Gesù di via Ospedale a Cagliari. Il mio ricordo parte proprio da lì, dal luogo storico che diede ogni fortuna incredibile, insieme ad altrettanta amarezza, a Padre Guidubaldi. Io, fuggitivo di casa, con in tasca appena diciotto lustri, teatrante imberbe, ebbi modo di raccogliere un po’ di soldini per sopravvivere proprio facendo il suo segretario scrivente, dattilografo, di cui, confesso, non aver mai capito niente in quei suoi dettati. E me lo ricordo lì steso sul letto a causa di una trombosi alla gamba, in mutanda bianca, a dettare ed io a scrivere i suoi straordinari ed ermetici pensieri, che anticipavano di oltre dieci anni ogni evento culturale. Di solito si chiama genio. Bracco alloggiava in una delle cellette di via Ospedale. Ricordo una stanza amena, sobria, piena di carte sparse, riviste e schede di opere di cinema. Ogni cosa riferiva solo di cinema, nient’altro che cinema. Ed infatti il cinema era la sua arma vincente. A Guidubaldi molti intenditori di cinema devono la propria formazione. Diciamo anche subito che il suo vero sogno era, invero, il teatro, la compagnia del Teatro Universitario Sardo, che volle ad ogni costo finanziare e mettere in piedi, ma solo ed esclusivamente con i soldi derivanti dagli incassi del cinema, quel cinema glorioso che stava proprio in via Ospedale, di sotto casa, il Cinema San Michele, che raccoglieva migliaia e migliaia e ancora migliaia di giovani e meno giovani, le proiezioni straordinarie non erano più tali. Ma di teatro, del linguaggio teatro, Bracco non ne capiva niente, diciamolo. Troppa confusione intellettuale tra i due linguaggi, cinema e teatro, comparazione inaudite e spericolate, per le quali ci sarebbe voluta una grande preparazione. Questo il suo principale difetto, dico di Guidubaldi, dimenticarsi che ci stavano gli altri a cui far passare il messaggio. Ma lui era un genio puro, ci riusciva assai difficile, infatti, comprendere certi

26

inquietanti schemi teorici e filosofici sulla semantica linguistica della scena teatrale Edipica, il di cui risvolto politico migratorio volutamente traslato in un incomprensibile, ma probabile triangolo territoriale e strategico, che comprendesse tre città: Cagliari, Palermo e Tunisi, appariva per i tanti un assoluto sconfortante non capito. Attento che ci piazzava Dante, pure. Noi eravamo giovani, incoscienti, ignoranti, e soprattutto inadeguati ad ogni progetto. Diciamolo una volta per tutte. Lui, Bracco, lo sapeva bene, ma non contava, lui aveva il suo progetto, il suo obiettivo. Guidubaldi aveva il cinema, le pellicole che solo lui riusciva a portare a Cagliari e restavano in cartellone per settimane e settimane, la coda al botteghino la si misurava partendo dal verduraio, dal tabaccaio, dalla piazza Jenne, non so se mi spiego? Soldi, soldi e soldi. Presenze di pubblico da capogiro, un consenso inevitabile di massa che preoccupava non molti, politici e operatori della così detta sinistra intellettuale legata ai partiti e alla gestione della

Padre Egidio Guidubaldi detto Bracco, sempre controcorrente, scomparso nel ‘94 a 74 anni

cultura al popolo passando attraverso i contributi pubblici a pioggia. Ma i numeri di presenze davano ragione inconfutabile al Gesuita Guidubaldi e provocavano forti tensioni. Cito un esempio per tutti a cui assistetti non senza un certo timore. Erano gli anni caldi della contestazione. Guidubaldi lo si ricorda soprattutto per le sue serrate in sala post-film e il blocco delle uscite. Letteralmente una vera e propria operazione di sequestro di persona. Mi spiego. Cinema al completo, fine della proiezione, porte improvvisamente chiuse e Bracco spunta da dietro lo schermo per affrontare il famigerato “dibattito”. Oggi avrebbe rischiato l’arresto immediato. Bastano poche battute, non c’è comunicazione, e si tenta d’andar via, ma, come già detto, le porte son chiuse, devi restare lì, e sorbirti il sermone; in un certo senso, in questo si poteva evincere il senso dell’assoluta buona fede intellettuale di Guidubaldi. Non era malvagio, ci credeva e basta. Ma tra i ragazzi in sala ci stanno alcuni che son piuttosto agitati. Una ragazza, Maria,

sbava di bocca e con occhi di sangue tenta di aggredire fisicamente Bracco. È una ragazza corpulenta e tracagnotta, forzuta. Una femminista e casinista. La trattengono a stento. Nonostante tutto, Guidubaldi, le si appressa e a due centimetri dalla faccia sventola alla energumena, a mo’ di ventaglio e sberleffo, una della centinaia di mazzette/biglietti, vuote/vendute e canta: “odor di popolooo”. Fu l’apoteosi della verità assoluta e inconfutabile: voi rubate soldi allo stato, io me li guadagno i soldi al botteghino. Nessun contributo pubblico Guidubaldi mai ebbe, per scelta, per orgoglio, per dispetto, forse; ed infatti dilapidò ogni capitale nella compagnia teatrale. In questo Bracco, amministrativamente, non era assolutamente capace, né affidabile. Non sapeva fare i conti per niente, anzi era proprio un vero pericolo, sia per il suo stesso Ordine che per chi investiva nelle sue imprese. Pericolo serio, tanto da venirne pubblicamente diffidato alcune settimane sul quotidiano locale prima della sua precettazione da parte degli stessi Gesuiti di Cagliari. Una specie di resa dei conti con chi si sa ma non si dice. Poi ci fu l’epilogo. Guidubaldi divenne davvero scomodo. S’era d’estate e un uomo politico assai influente in città fu ridicolizzato pubblicamente da Bracco – per la cronaca, fu la questione della riconquista e riapertura dell’Anfiteatro Romano della città, con tanto di foto sull’Unione Sarda, che riportava il corpulento Gesuita Guidubaldi mentre scavalcava le inferriate del monumento. Insomma quella mattina d’estate quell’uomo politico saliva la via Ospedale, avviluppato in uno sguardo determinato, viso allungato di chi sa quel che può esigere. Avanzava in quella salita per recarsi dal padre superiore dei Gesuiti. Noi, io e Guidubaldi, si usciva nello stesso momento per andare proprio ad aprire il cinema di sotto. Un incontro inatteso in perfetto stile Bunuel, nessun saluto, occhi bassi e grandi muti segnali in cui si ascriveva il finale dello stesso Bracco. Lui stesso profetizzò, da uomo conoscitore, che sarebbe cominciata la sua “dipartita”. Infatti così fu, nel tempo di nemmeno qualche giorno si vide recapitare il foglio di via dalla città, precettato, e cominciò la sua fine. Morirà solo e dimenticato, abbandonato da tutti. Gaetano Marino

Attore, autore e regista, contastorie, drammaturgo del suono e videomaker, ha allestito e diretto teatri. Direttore artistico dell’Associazione Culturale Aula39 e delle attività teatrali realizzate dall’ERSU di Cagliari. Si dedica alla scrittura, regia e produzione di cortometraggi e videopoesie. Dal 2014 ha inaugurato Quarta.Radio Sardegna (www.quartaradio.it), una web radio che si occupa di cultura e arte. www.gaetanomarino.net


diaridicineclub@gmail.com Mostre

Matisse - Maestro dell’arabesco Scuderie del Quirinale fino al 21 giugno Matisse vive a cavallo di due secoli (18691954) tra il tumultuoso e fervido periodo artistico che vide la fine della concezione di un “mondo classico” legato alla storia e alla rappresentazione della natura con l’ImpresGiovanni Papi sionismo e post-Impressionismo e la rennovatio ancora di più esplosiva e frammentaria della ricerca delle avanguardie storiche dei primi anni del Novecento a cominciare dal Cubismo e dal Futurismo. Questi periodi vengono scolasticamente “divisi” in realtà sono ovviamente senza soluzione di continuità. Lo stesso Matisse che aveva ben presente le pennellate vibranti e rapide dei “pittori della luce” e la riflessione silenziosa geometrica di Cézanne, sgomenta il pubblico al Salon d’Automne del 1905 con opere dalle tinte piatte e stridenti che aprono la stagione Fauve (le Belve). Il ritratto di sua moglie con colori accesi e squillanti ne è l’emblema e vessillo. E’ anche lui, dopo aver realizzato il quadro “la gioia di vivere”, che apre a Picasso, nel salotto di Gertrude Stein, l’interesse per l’esotico e il primitivo che sarà fondamentale per lo spagnolo (e per l’arte moderna) strappandogli da lì a poco con il famigerato quadro di Les deimoiselles d’Avignon lo scettro dell’arte parigina. Tutta la “banda picassiana” ed oltre rimarrà sconvolta da quella composizione di fanciulle da bordello che ripercorre la storia dell’arte: dal profilo egizio fino alle seduzioni scultoree di figure africane. Tranne l’imperturbabile amico Henri. “Il primitivismo è il frutto di uno stato primordiale dello spirito che non si può rigenerare artificialmente” sentenzierà da lì a poco.

Matisse non è interessato ai tanti sperimentalismi che si susseguiranno a piè sospinto con le avanguardie artistiche, ne rimane lontano e incontaminato e per tutta la sua vita non ne verrà mai coinvolto. Continuerà la sua ricerca infischiandosene altamente e dall’alto della sua visione estetica inseguirà sempre i suoi arabesque. L’elemento ornamentale (giocare con la linea esaltando la potenza del colore) è da lui sempre evocato nelle tante declinazioni e composizioni: è decorazione pura, un ornato curvilineo che diventa spazio, geometrie spiraliformi che assumono l’importanza di ogni singola parte del quadro: è come aver trovato un segno gioioso che si ripercuote in ogni dove, un timbro musicale che partecipa dell’ampia trascrizione e sublimazione del concerto della natura. Come una prima zolla Henri Matisse, “Nudo in poltrona, pianta verde”, (1937) Nizza, Musée Matisse

(lontana dalla metafisica dell’eterno) e poi la sua sconfinata fiducia nella gioia di vivere che si esprime attraverso la bellezza dell’emozione che viene sempre prima dell’ordine: Luxe, calme, et volupté. Il culto olimpico della felicità (che è inseparabile dal senso tragico della bellezza) è ciò che ci rende vivi, sembra ricordarci il nostro artista. Che abbia ragione lui? D’altronde quando gli uomini uccidono la gioia vivono decisamente male . Di lui Picasso il suo amico-rivale ha potuto dire che “porta un sole nel ventre” che è e rimane la sua lezione: continua e ritmica “Danza” dell’esistenza. Giovanni Papi

Henri Matisse, “Ritratto di Yvonne Landsberg” del 1914

Henri Matisse, “Il paravento moresco” (1921), Philadelphia Museum of Art

di paradiso che evoca l’età dell’oro e poi si ramifica e diffonde in fantasie incontaminate. Matisse è un pittore fiabesco e di fiabe dove il suo impulso irrefrenabile per l’articolazione dell’ordito e dell’intreccio, mediato dalla visione orientale (dovuta ai suoi interessi e ai suoi tanti viaggi) è calato nella figura occidentale. “E’ la figura umana che mi offre il modo migliore per esprimere il sentimento religioso della vita”. Le sue odalische sembrano uscire dalle pagine dei racconti di Le mille e una notte. Matisse sospende la storia tra classicità e modernità, non si allontana dalla prima e non entra nella seconda: sospende il tempo che non è mutazione o corsa verso obiettivi sempre diversi come la civiltà del progresso industriale vuole far credere. Per lui il tempo è contemporaneità continua dove fondamentale è la verità mondana dell’impermanente

Henri Matisse, “I pesci rossi” è un dipinto (cm 147x98) del 1911, conservato nel museo statale di arti figurative Museo Puškin di Mosca

27


n.

28

YouTube Party #8

Breaking Bad Remix (Seasons 3-5) Visualizzazioni - 4.800.957 (link) La trama - Il regista, Placeboing, ha rimontato una pluralità di spezzoni del telefilm Breaking Bad, trasformandoli in un originale brano musicale. In questo contesto, i Massimo Spiga personaggi assumono il ruolo di cantanti o di elementi ritmici in un pezzo corale dal groove inarrestabile. L’esegesi - Breaking Bad Remix è un’opera costruita su tre piani, in modo tale da rappresentare i classici momenti della dialettica hegeliana: tesi, antitesi, sintesi. Partiamo dalla tesi, esemplificata dalla struttura formale del video. Attraverso di essa, il compagno Placeboing ci illustra la natura profonda del capitalismo. Il montaggio astrae i personaggi dal loro contesto, dalle loro storie, dalla loro psicologia, per ricollocarli in un nuovo ambiente artificiale: attraverso questo sforzo tecnico, tutti sono sottomessi a un nuovo ordine, che li anonimizza e li rende ingranaggi di una macchina. Così alienate, le fasce della società, incarnate dai personaggi, sono mere unità produttive (di groove, in questo caso): perdono la loro unicità e il loro significato. Ogni segmento della società è schiacciato dalla potenza della tecnica, e costretto a danzare alla musica del capitale, come tante piccole marionette. Prima facevano parte di una storia, ora non più: oltre ad alienarli, il montaggio/ capitalismo ha anche schiacciato il loro senso della temporalità in un presente eterno, quello dei mercati, privo di un passato e di un futuro. Questa supremazia dell’inorganico sull’organico, della merce sulla vita, della forma sull’essenza, è il cuore di tenebra del capitalismo. Passiamo all’antitesi, costituita non dalla struttura formale, ma dal contenuto del video. Nonostante le sbarre nere della prigione costituita dal montaggio, i personaggi/classi sociali tentano di esprimere, ognuno a modo suo, le loro idee. Prima di tutto, constatiamo la presenza di molti esseri umani ridotti a meri elementi ritmici: come detto, il proletariato, senza voce e volto, è ridotto a macchina produttiva. Poi troviamo l’avvocato Saul Goodman, la cui insistenza sui valori familiari («My daddy and my mommy…» / «Mio babbo e mia mamma…») rappresenta un comunitarismo di stampo previano-fusariano. Questo è il canto dell’intelligentsia filosofica e degli ultimi scampoli di borghesia illuminata, detentrice di coscienza di classe: coloro che sono attirati dalla bandiera rossa pur non avendone il bisogno materiale. È, tuttavia un lamento inascoltato dalle masse: la piccola borghesia, incarnata da Hank, li sollecita a smettere di frignare («Stop!»). In seguito, l’alta borghesia, quest’ultima portatrice non di coscienza infelice

28

ma di incoscienza felice neoliberista, ci offre la sua prospettiva tramite la bocca di Jesse Pinkman: dice «Bitch» («Troia») a chiunque gli passi davanti, in un tripudio di reificazione del prossimo. In un momento carico di pathos, l’élite articola il suo pensiero in modo più compiuto: «I made you my bitch» («Io vi ho reso la mia troia»). Tuttavia, quando l’aristocrazia finanziaria dà della «troia» Uno spezzone dal telefilm “Breaking Bad” - Reazioni collaterali all’avanguardia rivoluzionaria, incarnata da un Walter White simile a le insurrezioni a venire, sebbene i loro contorLenin anche nei tratti somatici, la reazione ni ideologici siano ancora indefiniti: «Avevo non tarda ad arrivare. Minacciosi, i leninisti un capo, ma ora non l’ho più. Tu non sei neanrispondono «I am the danger» («Io sono il pe- che capace di fare il capo» dice al potere. Quericolo»). Per prima cosa, vogliono recuperare sta è l’antitesi. l’identità che gli è stata sottratta dall’aliena- La sintesi è creata dall’interazione tra analisi zione capitalistica, ed intimano al potere: della situazione sociopolitica odierna (tesi) e «Say my name» («Di’ il mio nome»). Costrin- istanze sociali (antitesi). In Breaking Bad Regono l’élite a riconoscerli, dichiarando il loro mix, la sintesi ci è mostrata non dalle carattenome e, in seguito, proclamano con soddisfa- ristiche formali del video, né dal suo contenuzione la loro prima vittoria culturale: «You’re to, ma dal suo significato culturale nel goddamn right» (traducibile come «Cazzo, è contesto in cui è stato diffuso. Il compagno proprio così» oppure «Sei maledettamente di Placeboing, infatti, ha preso un bene di condestra»). Dopo aver terrorizzato l’élite, l’avan- sumo a pagamento, ovvero il telefilm Breaking guardia leninista si rivolge alla classe picco- Bad, e lo ha trasformato in una canzone gratulo-borghese, esemplificata dal ritorno di itamente fruibile (dal groove incomparabile, Hank. I leninisti li stimolano a sviluppare una aggiungerei). Ha così trasformato una merce coscienza di classe e uscire dall’alienazione e in un bene comune, e l’ha fatto arrivare al dal capitalismo. «Your name is Hank!» («Il tuo pubblico attraverso YouTube. In questo monome è Hank!») e «Listen to me!» («Ascolta- do, la tecnologia del capitale è stata rivoltata mi!») esprimono l’urgenza di questa sollecita- contro il capitale stesso, mostrandoci una zione. Tuttavia, i leninisti vorrebbero che la strategia utile per il rovesciamento dell’ordopiccola borghesia scoprisse la propria vera liberismo planetario. Sbagliava Heidegger identità di classe («Hank»), mentre essa si nell’asserire che «solo un Dio ci può salvare», identifica con l’etichetta che il potere gli ha af- il compagno Placeboing ci intima che anche fibbiato, per lusingarla («A.S.A.C. Schrader», un groove sovversivo potrà farlo. una vuota onorificenza): è un caso plateale di falsa coscienza. Dopo un dialogo in cui l’inco- Il pubblico - Come norma, un nutrito gruppo municabilità tra i due strati sociali si palesa, la di commentatori esprime entusiasmo per l’apiccola borghesia sceglie di rinnegare il co- cume artistico del compagno Placeboing: munismo («Fuck yourself» / «Fottiti») ed è «Geniale», «Capolavoro», «Questa è la cosa trattata con sarcasmo dall’avanguardia prole- migliore che abbia mai visto» e via dicendo. taria. Dopo questo fallimento storico, simbo- Alcuni, portatori di falsa coscienza, si appiatleggiante il 1989, si riscivola nell’anomia rit- tiscono sulle idee delle élite e urlano «BITCH» mica della macchina capitalistica. Il video si in continuazione, a chiunque, facendo proconclude con la presa di coscienza delle nuove prio il punto di vista della cleptocrazia predamasse impoverite e schiacciate dal capitali- toria di cui loro stessi sono le prime vittime. smo assoluto, il cosiddetto “99%”. Mike, infu- Tuttavia, una straripante maggioranza di riato, dice all’élite finanziaria «You are not the spettatori si identifica in Mike e nel suo risveGuy», che si può tradurre in due modi, egual- glio anti-capitalistico. «You are not the Guy» mente cogenti: «Tu non sei più il capo» oppu- dicono le masse ai padroni, scimmie impazzire «Tu non sei più una persona», ovvero il ri- te alla guida di un macchinario soffocante e conoscimento di come il nesso di forza onnicomprensivo che sta cadendo in pezzi. capitalistico spersonalizzi anche le classi dirigenti, e perciò sia una minaccia per l’umanità Massimo Spiga in quanto tale. La frase finale di Mike presagisce


diaridicineclub@gmail.com Teatro

Ora e’ sempre resistenza. Il teatro ai tempi della crisi “Bambole non c’è una lira”, è un abusato aforisma che resuscita un vecchio e fortunato programma televisivo della metà degli anni ’70, che raccontava il mondo dell’avanspettacolo, boccheggiante e sempre alle prese con la scarAlessandro Macis sità di risorse. Aforisma che da Nord a Sud, Isole comprese, aleggia nella contemporaneità delle squattrinate compagnie teatrali, sempre alla ricerca di finanziamenti per allestire gli spettacoli, nella totale indifferenza della miope politica italiana, da oltre quattro lustri anestetizzata da oppiacei surrogati. Sorprendentemente questo mortifero sopore ha sortito l’effetto contrario. Invece di fiaccare la creatività e l’entusiasmo di attori e registi, ha fatto sgorgare nuova linfa e nuovo vigore tra gli operatori. In questo magma caotico un big bang ha dato vita a una costellazione di compagnie teatrali che illumina il profondo vuoto culturale che attanaglia il Paese, claustrofobicamente compresso tra le torri d’avorio del potere, i salotti televisivi e un mondo virtuale. Ed ecco rifiorire, magicamente, quando meno te lo aspetti, un teatro di impegno civile e sociale; un teatro povero, essenziale, che fa i conti con quello che accade quotidianamente. Che si scontra e confronta con il reale: il mondo del lavoro, la disoccupazione, l’immigrazione e l’emigrazione, la mancanza di prospettive per le nuove generazioni, le nuove povertà, l’ambiente e i diritti sociali e civili. Un teatro resistente che “… porta sulla scena non solo il personaggio, ma anche l’uomo e di conseguenza tutto quello che lo riguarda. Il teatro vive da solo, non ha bisogno di nulla e per questo non è necessario far riferimento a un linguaggio particolare. Il linguaggio teatrale è universale. Certo, il teatro può vivere un momento di crisi, non c’è dubbio, ma si riprende”, come ha acutamente evidenziato l’attore e regista Paolo Rossi. Sacrosanta verità, confortata dal fatto che nonostante le difficoltà derivanti dai tagli selvaggi ai contributi per le attività culturali, si moltiplicano le iniziative sociali ed educative promosse dalle compagnie che organizzano, instancabilmente, spettacoli e laboratori per ragazzi e adulti. Universo artistico che ha avuto l’intuizione di uscire dai sacrari canonici, per irradiarsi dal centro verso le periferie, mettendo radici in minuscole sale da cinquanta-cento posti, con minuscoli palcoscenici. Alimentato da un furore inventivo che contagia il pubblico. Economizzando sulle scenografie, sugli abiti di scena, sulle prove, spesso eseguite in abitazioni private per tagliare i costi; e se necessario su stipendi e rimborsi spese. Ne è derivato, sul

Judith Malina, scomparsa a 88 anni a New York. Attrice, artista, intellettuale, regista e attivista nonviolenta e libertaria, co-fondatrice del leggendario Living Theatre

versante dell’occupazione, uno stato di insostenibile precarietà per tutti i professionisti che con i denti e con le unghie lottano ogni giorno per la sopravvivenza, cercando attraverso un “Teatro di Resistenza” di salvaguardare le competenze acquisite in anni di appassionato e appassionante lavoro. In un universo parallelo, sotterraneo come una falda acquifera, artisticamente e umanamente fecondo, muove i suoi passi il teatro amatoriale che trae la sua linfa vitale dallo slancio e l’impegno di tante persone che gli dedicano tempo e energie, dopo una giornata di lavoro o di impegni familiari. Persone che contribuiscono alla crescita culturale e sociale delle comunità in cui vivono. Partendo da questi presupposti è forse necessario, con umiltà, pensare a una ri-fondazione del linguaggio, della grammatica e della sintassi teatrale, per salvaguardarne la sopravvivenza. La crisi che investe il teatro è globale. Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. A circa 7000 km di distanza, New York, Stati Uniti, è emblematico che un’icona della cultura internazionale, del teatro mondiale, Judith Malina, recentemente scomparsa, abbia vissuto gli ultimi anni della sua vita in una casa di riposo per anziani, perché indigente. Stiamo parlando non di un anonimo artista di quint’ordine, ma della fondatrice del mitico Living Theatre. Di una donna militante che attraverso il teatro ha raccontato il mondo dei reietti, degli ultimi. Un’altra America, rispetto agli stereotipati cliché che ci vengono sbattuti in faccia

dalle riviste patinate, razzista, guerrafondaia, ipocrita, bigotta e perbenista. E’ forse necessario, con urgenza, avviare un dibattito serio, non banale; per porre questioni, sollecitare le coscienze, mettendo in primo piano ciò che è l’essenza del Teatro: lo spirito artistico e non un prodotto da supermarket da vendere un tanto al chilo. Aveva visto giusto il grande attore e regista francese Firmin Gérmier, creatore del primo Teatro Nazionale del Popolo, quando sosteneva che « Oggi gli autori drammatici scrivono per i piccoli gruppi intellettuali, per una certa critica, per porre la candidatura all’Académie, non scrivono più per la folla. Sdegnano di fare quello che non hanno sdegnato Eschilo, Shakespeare, Calderon, Molière. E allora la folla, ch’essi affettano di ignorare, li abbandona... [...] La crisi del Teatro non è altro che questo: io credo che essa sarà risolta domani, dall’apparizione di uno scrittore di genio. Quanto ai teatri, si tratta di questioni particolari, relative a questa o quella amministrazione, a questo o a quell’artista drammatico... ». Appoggiarsi sulle spalle possenti di un grande maestro, seguirne i saggi insegnamenti, è un buon punto di partenza.

Alessandro Macis

29


n.

28

Maria Carta, dalla musica al cinema: artista a 360 gradi Di Maria Carta si è detto che è stata la più importante ambasciatrice nel mondo dei suoni e dei canti della tradizione sarda. In effetti quando Maria Carta decide, nel 1958, di trasferirsi a Roma e quindi di intraprendere Giacomo Serreli con l’Accademia di Santa Cecilia, diretta allora da Diego Carpitella, importanti studi e ricerche sul campo sulle espressioni etnomusicali sarde, erano state rare le occasioni che questo patrimonio aveva avuto di esprimersi e proporsi fuori dai confini regionali. Solo con l’avvento sulla scena di Maria Carta la tradizione popolare sarda assume continuità nella sua proposizione fuori dall’isola e soprattutto dignità internazionale. Con Maria Carta i canti della nostra tradizione cominciano realmente a fare il giro del mondo, unitamente alle prime incisioni discografiche della cantante di Siligo, come “Paradiso in re” del 1970, che si avvale di un imprimatur prestigioso come quello di Ennio Morricone. Maria Carta si esibisce all’Olympia di Parigi, nella cattedrale di st. Patrick a New York, in sud America, Germania ed Europa: ovunque proponendosi come interprete autentica e genuina di quell’arcaico patrimonio. Ma al rigore della ricerca filologica affiancherà, con un approccio assolutamente controcorrente e coraggioso, anche l’ambizione di vestire di nuove emozioni quei canti e quelle musiche; c’è in lei la tendenza a non interpretare come sterile reperto museale quelle variegate espressioni della cultura popolare sarda. In questo modo anche il pubblico più giovane riscopre il canto sardo. Diceva Maria Carta:“Nella vita ho imparato che per andare avanti dignitosamente bisogna guardarsi indietro, non dimenticare mai da dove si è venuti, mettendo nella bisaccia tutto quello che troviamo sulla nostra strada. Anche il dolore: lo raccolgo e lo porto appresso senza dimenticare che sta lì, però tutto proiettato verso il futuro, per questo io rielaboro i canti antichi. Un canto quando lo raccolgo è come se fosse chiuso in un archivio, poi quando lo elabori, mettendoci qualcosa di tuo, il dolore, la gioia, è come dargli nuova vita, questo è importante.” E’ un atteggiamento in qualche modo rivoluzionario questo di Maria Carta che le consentirà, senza mai snaturare quei canti, di portarli anche su un palcoscenico leggero e addomesticato come quello della TV, quando, nei primi anni Settanta, parteciperà alla popolare trasmissione “Canzonissima”. Sempre, dunque autentica e rigorosa interprete e portatrice di questa tradizione con un solo perdonabile, veniale cedimento, se cosi vogliamo definirlo; quando nel 1993 asseconderà il capriccio di voler cantare per la prima volta in italiano. La canzone “Le memorie della musica”, scartata al Festival di Sanremo, diventa un po’ il suo epitaffio, l’ultimo messaggio per una come lei che l’italiano aveva scelto, nel 1976, per cantare, in

30

un LP, argomenti di altro tenore, per esprimere la rabbia e l’amarezza de canti politici, di protesta e del lavoro. E quell’anno aveva registrato anche il suo impegno politico con l’elezione a consigliere comunale a Roma con a fianco un giovane Walter Veltroni. Ma Maria Carta resta artista a 360 gradi. Tutt’altro che secondarie sono le sue apparizioni in film e opere teatrali. Non possiamo cosi sottacere le sue interpretazioni ne “Il padrino, parte II” di Francis Ford Coppola, nel 1976, dove è la madre di Vito Corleone, interpretato poi da Robert de Niro; in “La Cecilia” di Jean Louis Comolli, che le vale il primo premio come miglior protagonista assegnato dalla rivista “Elle”, o “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli, dove veste i panni di Marta, dello stesso anno; in “Cadaveri eccellenti” di France-

Maria Carta (1934 - 1994)

sardo. Per questo la Fondazione ha anche voluto istituire un Premio, che ha fatto il suo esordio nel 2003, e promuovere altre iniziative come convegni, conferenze, spettacoli specie tra le comunità di emigrati sardi in Italia e all’estero. Il Premio, che nel 2015 dovrebbe tenersi a Milano, intende dare visibilità a giovani e moderne espressioni della nostra tradizione. Ma ha voluto sottolineare anche il lavoro di artisti ormai consolidati della scena sarda del calibro di Elena Ledda, Luigi Lai, del compianto Andrea Parodi, Rossella Faa, Franca Masu, Piero Marras, solo per citarne alcuni; acquisendo anche un respiro internazionale con l’assegnazione di questo riconoscimento a artisti come Ennio

“Gesù di Nazareth” regia di Franco Zeffirelli, produzione Italia/GranBretagna, anno 1977

sco Rosi nel 1977, nel “Camorrista” di Tornatore nel 1986 o in “Disamistade” di Gianfranco Cabiddu, ambientato nella sua Sardegna, nel 1988. In teatro è Teresa di Avila, nella Medea, e affianca Giorgio Albertazzi nelle “Memorie di Adriano”. Si era cimentata anche nella poesia con la pubblicazione, nel 1975 di un volume in versi, “Canto rituale”, spaccato della gente della sua Siligo. Dopo la sua morte, avvenuta nel settembre del 1994, c’è stata una sua riscoperta, dopo anni di colpevole disattenzione da

“La Cécilia”regia di Jean-Louis Comolli, produzione Italia/Francia, anno 1975

parte del pubblico e delle istituzioni. Questo grazie soprattutto alla cocciutaggine tutta sarda dei suoi familiari che hanno fortemente voluto l’istituzione di una Fondazione che non solo ne perpetuasse il ricordo, ma fungesse anche come punto di riferimento per gli studiosi e gli appassionati del patrimonio etno musicale

“Cadaveri eccellenti” regia di Francesco produzione Italia/Francia, anno 1975

Rosi,

Morricone, Carla Fracci, Angelo Branduardi, Vinicio Capossela, Giovanna Marini, Lucilla Galeazzi, la greca Savina Yannatou, l’israeliana Noa, la catalana Maria del Mar Bonet, la portoghese Dulce Pontes, a ricercatori come Bernard Lortat Jacob, Valter Colle, poeti come Alda Merini e Franco Loi. E il suo paese natale, Siligo, a una ventina di chilometri da Sassari, ospita anche un museo a lei dedicato dove è possibile ricostruire il suo percorso artistico come cantante, attrice di cinema e teatro, poetessa. Attraverso l’‘esposizione di un gran numero di documenti e memorabilia, l’ascolto di suoi brani, la visione di filmati. Vale la pena, se capitate in Sardegna, di andarlo a visitare. Giacomo Serreli Giornalista cagliaritano lavora presso l’emittente televisiva sarda Videolina. Alla variegata scena musicale isolana ha dedicato la pubblicazione di volumi, saggi e la conduzione di trasmissioni televisive e radiofoniche. E’ responsabile del comitato scientifico della Fondazione Maria Carta di Siligo.


diaridicineclub@gmail.com

Il Premio Cinit al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina Cortometraggi premiati con l’acquisto dei diritti homevideo in Italia C’è un Festival, l’unico “Per alcuni anni – aggiunge Caminiti - ho avuto in Italia e uno dei tre modo di partecipare al Festival e conoscere le in Europa, dedicato splendide persone che lo organizzavano assainteramente all’appro- porando il clima di amicizia e di rispetto che fondimento delle cine- lo caratterizzava grazie all’impegno di Gamatografie, delle real- briella Rigamonti e Manuela Pursumal nella tà e delle culture promozione delle attività del festival per le extra-europee. Orga- scuole e il mondo dell’associazionismo, oltre nizzato e promosso alle decine di simpatici e attivi volontari dall’Associazione COE dell’organizzazione”. Ogni anno, infatti, viene – Centro Orientamen- emanato un bando per ricercare volontari diMichela Manente to Educativo - il Festi- sponibili per la settimana della manifestazioval del Cinema Africa- ne, entrando a far parte dello staff con varie no, d’Asia e America Latina è un consolidato mansioni. Con la nuova formula il premio Cipunto di riferimento per il cinema indipen- nit è giunto alla 14esima edizione. Di seguito dente dei tre continenti. E c’è un premio asse- si forniscono, per chi volesse richiederli (ingnato dal Cinit Cineforum Italiano che pro- fo@cinit.it), i titoli dei corti premiati con le inmuove la distribuzione di corti africani dicazioni necessarie: 2004 “Black Sushi” di D. acquistando i diritti homevideo in Italia, in Blumberg (Sud Africa, 2002); 2005 “Visa, la dimodo da permettere a un maggiore numero ctée” (tit. italiano “Il dettato”) di I. Letaief (Tudi spettatori di vedere queste opere, soprat- nisia, 2004); 2006 “Deweneti” (tit. italiano tutto i giovani delle scuole. Alle sue origini all’inizio degli anni Novanta il premio Cinit era stato istituito per sostenere critici e registi africani che venivano ospitati per alcuni giorni alla Mostra del Cinema di Venezia, con la finalità di creare un evento di incontro e presentare una realtà al pubblico del Festival. “Dal 2004 – specifica il presidente del Cinit Massimo Caminiti – diffondendo con i supporti del momento (prima videocassette e poi dvd) abbiamo indirizzato i nostri sforzi sui corti di registi africani, prevalente- Fotogramma del film vincitore 2014 “Les souliers de l’Aid”: mente giovani. Per ogni edizione del Nader, un bambino di 9 anni sogna un paio di scarpe per poter Festival si sono realizzati dei dvd con correre alla Festa musulmana dell’Aïd due-tre cortometraggi in lingua originale ma sottotitolati, risultato della selezione “Auguri”) di D. Gaye (Senegal, 2006); 2007 di Giurie, oltre la nostra, volte a privilegiare il “Ruse par ruse” (tit. italiano “Chi la fa, l’aspetmondo della scuola e della formazione, come ti”) di M. Rancho (Tunisia, 2006); 2008 “Perla Giuria studenti e la Giuria docenti: questo cussion Kid” di M. Achaour (Marocco, 2007); ha permesso di far conoscere nelle scuole e a 2009 “Ils se sont tus” (tit. italiano “Si sono zitmolti educatori e operatori culturali tante titi”) di K.L. Benaissa (Algeria, 2008); 2010 opere interessanti e significative sull’intercul- “Saint Louis Blues” di D. Gaye (Senegal, 2009); turalità, sui rapporti tra le culture e sull’im- 2011 “Garagouz” (tit. italiano “Il burattinaio”) portanza del dialogo tra i popoli, con temi e di A. Zahzah (Algeria, 2010); 2012 “Lyiza” di argomenti che altrimenti non si sarebbero co- M.C. Dusabejambo (Ruanda, 2011); 2013 “Bobnosciuti”. La giuria del premio Cinit, presie- by” di M.M. Barsaoui (Tunisia, 2012, vincitore duta dal presidente e composta da altri mem- anche al Festival di Giffoni); 2014 “Les souliers bri dell’associazione, si orienta verso opere de l’Aid” (tit. italiano “Le scarpe della festa”) di che presentano storie di profonda umanità, a A. Lassoued (Tunisia, 2013). La 25esima edivolte film di animazione, adatti alle scuole e zione del Festival (www.festivalcinemaafricacon messaggi interculturali. “Il premio Cinit, no.org) si svolge a Milano dal 4 al 10 maggio, assieme agli altri premi – commenta Manuela con un presidente di giuria d’eccezione: il rePursumal, Responsabile settore educazione gista Abderrahmane Sissako (“Timbuktu”), del COE – promuove un cinema di qualità con una vecchia conoscenza del Festival, dove preun occhio rivolto ai giovani. Si è scelto di pre- sentò nel 1991 il suo cortometraggio d’esordio, miare i cortometraggi in quanto risultano più “Le Jeu”, per poi tornare, nel 1994, con “Octofruibili nelle aule scolastiche e anche nei cine- bre” che vinse il premio per il miglior Corto. club. Il tema del dialogo interculturale, inoltre, è fondamentale per l’educazione alla mondialità”. Michela Manente

La musica come mezzo di difesa culturale L'uomo presenta vari livelli di identità. La civiltà di appartenenza è il livello di identificazione più ampio al quale si aderisce. In questo contesto la musica gioca un ruolo importante: essa non vive in una sfera astratta, è fatta dall'uomo, fa parAlexian Santino Spinelli te della sua esistenza, si produce nelle circostanze concrete della vita culturale e sociale, si connette con le altre dimensioni della vita, interagisce con gli altri aspetti della realtà individuale e collettiva. La musica è realizzata, ascoltata o utilizzata per rispondere a molteplici bisogni (e non soltanto a quello del piacere estetico); allo stesso tempo, costituisce un evento che si colloca in una situazione (il concerto, la festa, la preghiera, il relax...), è un "pezzo", per così dire, di un insieme. Non vi è un riconoscimento dell'opera musicale in quanto tale, ma una partecipazione/identificazione. L'autobiografia musicale guida ciascuno nel percorso di scoperta della propria identità mediante la riflessione sulle numerose attività musicali che hanno segnato la sua esistenza: cantare, suonare, comporre, dirigere, ascoltare, parlare e scrivere di musica, ecc. La presenza di musica "viva", offerta da parenti che cantano o suonano in casa o diffusa dai mass media, permette le esperienze più varie e ognuna si colora di tonalità affettive diverse, non solo per le strutture proprie della musica ascoltata, ma anche per il tipo di esperienza che se ne fa e per il contesto nel quale avviene. Al di la della propria identità individuale, possiamo anche scoprire, secondo i vari livelli ai quali troviamo presente la relazione persona/ musica, una identità musicale sociale che riguarda gli aspetti musicali prodotti da una società o da un gruppo etnico al quale si appartiene, e una universale che riguarda le funzioni musicali, i comportamenti, comuni a tutte le culture. L' adesione a questo o quel genere musicale, investito di affetti e valori, può diventare segno di evasione della propria quotidianità così come segno di appartenenza a un gruppo o movimento e quindi manifestazione di una identità sociale. La musica può effettivamente parlare della realtà, ne parla in maniera del tutto particolare, decisamente diversa da quanto si riscontra nel linguaggio comune. La significazione musicale è essenzialmente simbolica, vi è dunque un rapporto motivato fra espressione e senso. Un suono o una serie di suoni ci forniscono una notizia riguardante persone, cose, fatti. Un suono o una sequenza sonora servono per così dire, "da nome proprio", identificano dunque persone, cose o fatti. La musica ha funzione socializzante, segue a pag. successiva

31


n.

28

segue da pag. precedente in quanto fa sentire l'individuo come membro di un gruppo, di una comunità. La musica "unisce", come spesso si dice, e si fa portatrice di valori comuni, di una identità collettiva. E' questa la principale funzione degli inni nazionali. Ωelèm Ωelèm è l'inno trasnazionale della popolazione romanì che ed è il canto in cui tutte le comunità romanès di Sinti, Rom, Kalè, Romanichals e Manouches distribuite nei cinque continenti, si riconoscono. In altre parole, le strutture musicali non sono neutre ma rinviano a quegli schemi psicologici profondi, di natura cognitico-emozionale, che costituiscono la matrice dei valori. La musica nella cultura romanì è uno dei mezzi di trasmissione culturale più importanti e permette al Rom di prendere coscienza della propria romanipé, una identità complessa e multiforme. Cantare, danzare, suonare, ascoltar musica aiuta a ricostruire la propria identità. Musicalmente parlando, le ninnananne della prima infanzia, le canzoni e i giochi musicali appresi in famiglia o in seno alla propria comunità, producono una interiorizzazione e appropriazione di un modello melodico, ritmico, armonico, di un certo tipo di stile vocale, di accompagnamento strumentale e quindi la formazione di una vera identità musicale. Le categorie musicali quali ad esempio il senso tonale, il metro, il ritmo, ecc. sono culturali e che culture diverse hanno diversi modi di organizzare le strutture musicali, sviluppando così altre abitudini percettive. Possiamo considerare musica anche le pratiche sociali che utilizzano eventi sonori di diverso tipo e con diverse funzioni , si pensi al buchvibbé dei Rom di antico insediamento in Italia meridionale in cui la serenata d’amore "accompagna" la proposta di fidanzamento. Nel canto romanò si racchiude e si schiude tutto un mondo poichè troviamo nel testo: -la lingua romanì con le sue origini, le sue sfu-

Vincent Von Gogh “Carovana di zingari vicino ad Arles” 1888

mature e le sue acquisizioni; una storia e una narrazione che si traducono in memoria storica del gruppo o della famiglia; -l’etica e la filosofia di vita della comunità di appartenenza; - un'emozione personale legata ad un evento; in sintesi un universo complesso e particolare. La musica rivela, così, un’identità linguistica, sociale e culturale che si autodifende attraverso la sua trasmissione di generazione in generazione. Privi di una cultura letteraria fino a pochi decenni fa, i Rom si esprimono con

straordinaria eleganza attraverso il linguaggio corporeo e il linguaggio musicale. La musica, col suo alto valore formativo e comunicativo, ha svolto nella società romanì, nel corso dei secoli, un ruolo attivo nella difesa, nella conservazione e nella trasmissione della cultura, dell'identità e della lingua romanì, ovvero della romanipé. L’alta presenza di musica nella vita quotidiana di un Rom produce familiarità con i repertori più ascoltati e questa familiarità produce di fatto competenza. Alexian Santino Spinelli

Il Bif&st riscopre Fritz Lang La recente riproposta del film “Metropolis”(1927) in 70 sale italiane ha consentito ad un pubblico più ampio, soprattutto alle nuove generazioni, di conoscere un grande capolavoro del cinema muto realizzato da un Paolo Micalizzi gigante del cinema mondiale come l’austriaco Fritz Lang. Un’opera che ebbe vicissitudini difficili per non aver subito suscitato l’interesse del pubblico, tanto che la società di produzione UFA, che aveva speso oltre 8 milioni di marchi tedeschi, un investimento molto cospicuo della cinematografia di tutti i tempi, finì sull’orlo del fallimento e portò alla rottura dei rapporti tra i vertici della società e il regista, che poi si mise in proprio fondando una casa di produzione e trasferendosi prima a Parigi e poi in America.

32

Il film circolò poi in versione ridotta, essendo andate perse alcune sequenze. L’edizione attuale restaurata dal Laboratorio del “Cinema Ritrovato” di Bologna dopo il ritrovamento in Argentina, nel 2008, di alcune sequenze della durata complessiva di 25 minuti consente oggi di ammirare la spettacolarità del film e di capire l’influenza da esso avuta nel cinema di fantascienza odierno in opere come “Star Wars”, “Blade Runner” e “Guerre stellari”. E’ una delle opere simbolo del cinema espressionista. Si svolge nel ventunesimo secolo nell’avveniristica città di Metropolis dove il proletariato vive e lavora, in condizioni subumane, sottoterra, ma è invitato alla calma e alla rassegnazione da una mite donna, Maria. Uno scienziato, però, costruisce un robot a lei somigliante per portare discordia negli operai, ma li indurrà invece alla rivolta. L’automa poi sarà distrutto e grazie all’amore tra il figlio del dittatore e la donna la pace sociale verrà ripristinata. Nel ruolo di Maria, quella vera e il

Fritz Lang (1890 - 1976) ha contribuito in maniera determinante alla grande affermazione dell’Espressionismo cinematografico, emigrato in USA per sfuggire al nazismo

robot, Brigitte Helm dall’enigmatica bellezza da sfinge. Al film “ Metropolis” Fritz Lang arriva dopo altre esperienze nel cinema espressionista che è stato possibile vedere nella preziosa Retrospettiva, che speriamo possa girare anche in altre città, organizzata da Felice Laudadio e Carlo Di Carlo per il Bif&st( Bari International Film Festival) svoltosi nel capoluogo pugliese dal 21 al 28 marzo u.s., segue a pag. successiva


diaridicineclub@gmail.com segue da pag. precedente Rionero (Pz). XIX Mostra Cinetica 2015: Biagio di Pasquale Scimeca conclude la XIX Esperienze nel cinema avventuroso e polizie- Mostra CinEtica dedicata quest’anno a Vittorio De Sica nel quarantennale della sua sco oppure in tematiche relative alla colpevo- scomparsa lezza umana affrontate in opere come “ I Nibelunghi” (1924) che costituisce una versione monumentale della saga germanica. Nel peIl film di Pasquale Sci- persone che scelgono la solidarietà prima di riodo tedesco Fritz Lang realizza altre opere meca, non è solo un ogni altra visione umana. Il solco è quello di che l’hanno consegnato alla Storia del Cinema: film; è un viaggio che Papa Francesco. Con il vescovo, il regista ha innanzitutto “M,il mostro di Dusseldorff” sconfina nelle profon- intrapreso una sorta di omelia laica, una sim(1931) e “Il testamento del dottor Mabuse”(1933) dità umane e supera le biosi nel segno della umanità e della solidache conclude la fase tedesca dei suoi film e sevette dello scibile. Bia- rietà, nella fede comune per l’uomo nuovo che gio è un uomo vero; ha radici cristiane antiche. “Non volevo fare non pone domande, un film agiografico, né un documentario”, ha semplicemente espri- ribadito Scimeca. La storia di Biagio Conte, il me la propria libertà missionario laico di Palermo, testimonia che esistenziale, insieme “è possibile una vita altra, al servizio degli alArmando Lostaglio al proprio cane che tri, dei più bisognosi”. Una vicenda che semchiamerà Libero. Non fa sconti Biagio, non in- bra irreale eppure è vera. Il pubblico, comdugia in congetture intellettualistiche, non è mosso, ne ha colto l’essenza. La storia di indulgente verso le presunzioni antropocen- Biagio, il missionario laico così popolare in Sitriche. Lui va oltre, ben oltre le categorie men- cilia, forse poco conosciuto nel resto d’Italia, tali, siano esse politiche che religiose. La regia testimonia per il regista de “I Malavoglia” “Metropolis” film muto del 1927 capolavoro di Fritz di Scimeca non si limiLang ta a “pedinare” (secongna anche la separazione dalla moglie Thea do la lezione zavattiniavon Harbou, fino allora sceneggiatrice delle na) e nemmeno sente sue opere. Dopo un breve soggiorno francese più del dovuto di aderiin cui dirige “La leggenda di Liliom”(1933) trat- re a quel cinema di imto dal poema scenico dell’ungherese Ferenc pegno sociale che lo Molnar, Fritz Lang raggiunge gli Stati Uniti aveva caratterizzato in dove dal 1936 al 1957 realizza ben 22 film. La fil- precedenza. Non si mografia hollywoodiana è caratterizzata concede ad eccessive esidall’ossessione di Lang per il senso di colpa, genze estetiche: è una per cui ne scaturisce, con le dovute variazioni, sorta di “metacinema” una lunga serie di opere su un tema unico. Ci quello di Scimeca (ce riferiamo soprattutto a “Furia”( 1936) e “Sono lo dichiara palesemen- “Biagio” un film di Pasquale Scimeca, 2014, (foto di scena di Fabio Riccobono) innocente” del 1937. In America Fritz Lang di- te), spogliandosi della rige anche due western e tre storie antinaziste semplice finzione e vestendo l’abito totaliz- (2010) e di “Placido Rizzotto” (2000) che “è (il più noto è “Anche i boia muoiono” del 1943 zante del protagonista: uomo vero come nella possibile cercare un senso alla vita. Biagio su soggetto di Bertolt Brecht). Ma anche alcuni sua vita, tuttora vissuta per gli altri, nel rispet- Conte, interpretato da un eccellente Marcello noir che hanno come perno l’indagine alla ri- to elevato per la natura. E nella quale vige la Mazzarella, (già presente in altre opere del recerca delle prove: da citare, soprattutto,” La sua forza - in fondo persino fragile - che stra- gista siciliano) è un vero rivoluzionario. Il sodonna del ritratto”(1944), “Dietro la porta chiu- volge questa presunta opulenza fatta di con- gno dunque come rivoluzione e utopia: il tesa”(1948), “Gardenia blu”(1952) e “Il grande cal- sumi e di sprechi, di denaro e potere quali fe- ma del sogno, e dell’arte, come della vita, non do”(1953). Film interpretati da attori di grande ticci di una modernità così friabile e perversa. si fermano all’esistente, ma lo demistificano rilievo come Edward G.Robinson, Joan Ben- Biagio cerca Dio e lo trova: negli ultimi, nelle per cercare e costruire un mondo altro. “Non nett, Richard Conte, Anne Baxter, Glenn Ford, vecchie e nuove povertà. Perché, nel segno del bisogna smettere di sognare … Biagio segue il Gloria Graham che sono una valida testimo- poeta Gesualdo Bufalino, “se Dio esiste, ma suo sogno, e diventa libero. Siamo una società nianza della capacità di Fritz Lang di dirigere chi è; se Dio non esiste, noi chi siamo?”.Oltre che ha smesso di sognare, ma il sogno è rivoattori di grande rilievo. Cosi come si può rile- 600 gli studenti e i cultori di cinema che han- luzione. Gesù, Francesco sono dei rivoluziovare anche nel western romantico “Rancho no preso parte alla proiezione del film insieme nari, la loro vita è arte, rivoluzione”. E il sogno Notorius”(1952) con una mitica Marlene Die- al regista Pasquale Scimeca e alla produttrice inteso come visione altra e utopia è anche eletrich. Verso la fine degli anni ’50 Fritz Lang ri- Linda Di Dio. Promosso dal CineClub “Vitto- mento fondante del cinema di Pasquale Scitorna in Germania dove dirige film avventuro- rio De Sica” (nel ventennale della sua fonda- meca, che per trasmettere l’idea che un monsi come “La tigre di Eschnapur”(1958) e “Il zione), la proposta culturale è stata accolta do altro è possibile utilizza un linguaggio: sepolcro indiano”(1960) concludendo poi la con rilevante entusiasmo dagli studenti, da “come diceva Pasolini, universale: il cinema sua carriera di regista con “Il diabolico dottor oggi, crediamo, alle prese con una più corag- parla anche a chi non sa leggere e scrivere, e Mabuse”(1960) in cui ritorna a quel personag- giosa visione del mondo. Il regista lo ha spie- non solo alla mente, ma al cuore”. Altre opere gio cui aveva dedicato due film nel 1922 e nel gato senza orpelli e i ragazzi hanno saputo in- fondamentali di Scimeca, alcune viste alla 1933. Ma non chiudendo con il cinema, perchè terrogarsi in un interscambio di idee e di Mostra di Venezia: “Rosso Malpelo” (2007); nel 1963, a 73 anni, interpreta se stesso nel film dubbi. Anche il vescovo della Diocesi di Melfi “La passione di Giosuè l’ebreo” (2005);” Gli in“Il disprezzo” di Jean-Luc Godard. Momenti mons. Todisco e il sindaco di Rionero Antonio desiderabili” (2003, con Vincent Gallo); “I bridel cinema di Fritz Lang ricordati al Bif&st Placido hanno voluto confrontarsi insieme al ganti di Zabùt” (1997);” Il giorno di San Sebaanche in un’esposizione (locandine e fotobu- regista con le impressioni e le emozioni che stiano “(1993). Il film di Scimeca conclude la sta) curata da Angelo Amoroso D’Aragona che “Biagio” lascia allo spettatore, in un rinnovato XIX Mostra CinEtica dedicata quest’anno a fa da “memoria storica” per riflettere sull’ope- messaggio di umanità che non vuole indurre Vittorio De Sica nel quarantennale della sua presunzioni di sorta, ma seguendo la via mae- scomparsa. ra di questo genio del cinema. Armando Lostaglio Paolo Micalizzi stra, evangelica e laica, di un mondo fatto di

“Biagio” di Pasquale Scimeca

33


n.

28

Il settimo Congresso nazionale di ArciLesbica A Cagliari Le lesbiche si raccontano in difesa del diritto a vivere il proprio orientamento sessuale anche con la proiezione e la discussione di film indipendenti Dal 27 al 29 marzo 2015 si è svolto a Cagliari nei locali SEARCH (nel Largo Carlo Felice, sotto il Palazzo Civico del Comune) il settimo congresso nazionale di Arcilesbica, una delle più importanti associazioni in difesa del diritto delle Marino Canzoneri persone a vivere il proprio orientamento sessuale in maniera libera e senza alcuna discriminazione. L’associazione è presente in tutto il territorio nazionale e in quasi tutte le regioni e raggruppa 17 circoli di vaGigi Cabras ria entità. Come si evince dal nome stesso dell’associazione l’Arcilesbica fa parte della confederazione Arci di cui fanno parte Arci, Uisp, Arci Gay, Lega Ambiente, Arci Caccia, Arci Pesca, Arci Ragazzi ed altre associazioni nazionali resesi autonome dal tronco principale dell’Arci ma stabilendo con esso un vincolo di confederazione che si sostanzia in progettualità comune, condivisione di campagne di sensibilizzazione su argomenti inerenti i diritti delle persone e soprattutto condivisione di idealità finalizzate alla costruzione di una società più solidale ed

L’interno della sala durante l’incontro (foto di Gigi Cabras)

della Rivoluzione Francese; ma non deve sfuggire l’importanza della presenza della FICC: il cinema e la televisione stanno avendo una importanza notevole nel rappresentare i problemi legati alle scelte sessuali e nell’affermazione dei diritti delle persone alla libertà nelle scelte del proprio orientamento sessuale. A volte privilegiando l’aspetto drammatico del dolore provocato dalla esclusione e dalla emarginazione, a volte sottolineando con leggerezza la normalità dei rapporti fra le persone, anche in presenza di incomprensione e stupidità. Convinti di questo a Cagliari, città in cui non è presente l’Arcilesbica, l’associazione ARC, la neonata associazione Sardegna Queer e la FICC, attraverso il suo Circolo ARCinema, hanno collaborato con le organizzatrici del congresso costruendo una cornice di iniziative e di proiezioni che hanno accolto e accompagnato l’importante appuntamento nazionale. Il progetto, intitolato “Le lesbiche si raccontano. Is lèsbicas contende•si”, ha proposto, nel suo fitto calendario lungo cinque giorni, una serie di appuntamenti sul tema della rappresentazione e auto-rappresentazione delle donne e delle lesbiche: la presentazione del fumetto “Hai mai notato la forma delle mele?” alla presenza dell’autrice Mabel

“Appropriate Behavior” di Desiree Akhavan

inclusiva. La prima giornata di lavori è stata l’unica sessione aperta del congresso ed è stata dedicata alla presentazione alle delegate del documento congressuale, ai saluti delle autorità e delle delegazioni delle associazioni che con Arcilesbica condividono pezzi importanti di attività. Non potevano mancare quindi le presenze di Arci, rappresentata dal Presidente regionale Marino Canzoneri; ARC, con il suo Presidente Carlo Dejana e FICC (Federazione Italiana Circoli del Cinema), con la presenza in sala del suo Segretario regionale Gigi Cabras. Il saluto a nome dell’Arci Nazionale, svolto dal Presidente regionale della Sardegna, si è concentrato soprattutto sulla comune adesione delle due associazioni agli ideali di Libertà, Uguaglianza e Fraternità

34

l’impatto concreto che il web può avere nella vita delle persone; la proiezione e la discussione di due film indipendenti, mai proiettati in

Sardegna, per i quali il Circolo ARCinema ha anche realizzato i sottotitoli in italiano: “Appropriate Behiaviour” di Desiree Akhavan (USA) e “Zoe. Misplaced” di Mekelle Mills (Australia). I due film, che nei loro paesi hanno ricevuto un grande successo di pubblico, sono stati scelti per il loro profilo fuori dal circuito mainstream, caratteristica testimoniata dalla diversa prospettiva, libera dai soliti schemi, che le due opere mostrano nel raccontare il tema delle relazioni e della comunità delle donne lesbiche. Il terzo giorno di Congresso le delegate nazionali hanno eletto i nuovi organi che guideranno l’associazione nel prossimo triennio. Marino Canzoneri Presidente regionale ARCI

Gigi Cabras

Segretario Regionale FICC

“Zoe. Misplaced” di Mekelle Mills (Australia)

Morri; la tavola rotonda “Raccontarsi attraverso il web”, a cui hanno partecipato le ragazze de “Le Cose Cambiano”, progetto contro il bullismo, le “BadHole”, videomakers torinesi, “La Donna Sarda”, web magazine sardo al femminile e Marta Magni, contributor per “Wired.it” e “Soft Revolution Zine”, che hanno raccontato le loro esperienze e

Segreteria nazionale ArciLesbica: Lucia Caponera (vicepresidente) - Roma; Franca Chiarello (tesoriera) - Padova ; Flavia Franceschini Milano; Elena Lazzari - Trento ; Stella Pirola - Novara; Elena Toffolo - Treviso; Roberta Vannucci (presidente) - Firenze; Collegio garanti: Claudia Barbarano - Napoli Helen Ibry - Milano Francesca Polo - Milano; Collegio revisore: Elisabetta Marzi - Perugia; Giulia Neri - Perugia Chiara Piccoli - Napoli


diaridicineclub@gmail.com

Tintoretto, il secolo d’oro di Venezia Non è facile restituire Diverso è il discorso riguardante i ritratti, che in un documentario sfilano davanti a noi rapidamente, senza che una figura come quel- su di essi vengano forniti dati precisi. Si scela di Jacopo Robusti, glie accortamente di suggerirne le valenze detto il Tintoretto (1518- umane – legate alla riflessione sulla vecchiaia 1594), artista fra i più – e sociologiche, concernenti lo status dei rapgrandi e discussi di presentati, tutte figure di rilievo della Venezia sempre. Poco amato dell’epoca. Un altro tema sviscerato a dovere è Stefano Macera da Roberto Longhi, tra il legame dell’artista con il mondo popolare e i più influenti critici d’arte del XX secolo, che con le sue iconografie, particolarmente espligli preferiva i più o meno coevi pittori lombar- cito in quelle Ultime cene in cui ci si riallaccia di della realtà, egli appassionò invece Je- ai caratteri propri delle sacre rappresentazioan-Paul Sartre, che gli dedicò un volume (Tin- ni del tempo. Proprio questo aspetto, a nostro toretto, il sequestrato di Venezia) in cui avviso, può in apparenza rendere Tintoretto emergono con nitidezza i legami tra la sua ar- meno prossimo alla sensibilità odierna rispette e la contemporanea realtà sociale venezia- to ad altri artisti del XVI secolo. Per dire, i pitna. Di un dibattito così articolato tiene impli- tori della realtà amati dal Longhi (Savoldo, citamente conto Tintoretto - il secolo d’oro di Moretto, Moroni), erano interni ad un preciso Venezia (1997), video della durata di 45 minu- ambiente sociale, ma sapevano rappresentarti, diretto, con esplicite finalità didattiche, da lo anche in termini “oggettivi”, restituendoci Renato Mazzoli: la conseguenza è, purtroppo, folgoranti brani di realtà fenomenica. Tintoche il ricco testo elaborato per l’occasione da retto è invece totalmente assorbito dal mondo Pierluigi Guardigli viene recitato praticamen- di cui fa parte e profondamente legato a quelle te senza pause, tanto che, in alcuni momenti, forme di religiosità popolare che si affermano si fatica a stargli dietro. Indubbiamente un ec- dopo la Controriforma. Perciò, nelle sue dinacesso, però più comprensibile di quello legato miche composizioni predominano le accenal commento musicale, dovuto a Flipper Mu- sioni visionarie, gli atteggiamenti tumultuosi sic: suoni sintetici che, talora, danno nel trion- di folle di figure oblunghe, nel segno di una fale, mentre in altri casi – per esempio quando drammaticità teatralizzata, ma non per queaccompagnano le cupe immagini della Croci- sto non intimamente sentita dall’artista. Quefissione (1565) – assumono toni di raccolta sti tratti della sua arte, producono un’ambivadrammaticità. Si cerca di rielaborare la tradi- lenza: se, a tutta prima, egli ci appare distante, zione musicale veneta ma esagerato pare il ri- alla fine la sua pittura finisce comunque con lievo acustico e strano il fatto che la musica l’imporsi, mettendo in discussione le nostre non risulti mai in sottofondo. Però, tra le scel- abitudini visive e costringendo alla propria te operate dal regista, ve ne sono alcune che misura anche un documentario a scopo didatcolgono nel segno. Infatti, se vero, come si di- tico come questo. In effetti, quando la videoceva, che la voce fuori campo risulta onnipresente, non si può negare che essa instauri talvolta un felice rapporto con le immagini, a partire dai momenti in cui si percorrono le diverse fasi dell’esistenza del pittore. Ad esempio, alla fine del documentario, mentre si sottolinea che il Tintoretto mai si allontanò dalla sua città natale, il nostro sguardo è catturato da un campo lunghissimo, che ci fa ammirare la chiesa di San Giorgio Maggiore che emerge da una distesa d’acqua: un intelligente modo di evocare l’orizzonte di riferimento dell’artista. Nel rapportarsi ai dipinti, invece, la voce off alterna modalità diverse, in alcuni casi - si pensi alla Presentazione di Maria al Tintoretto, “Presentazione di Maria al Tempio” olio su tela, Tempio (1552) - delineandone con pe- 429x480 cm (1552-56) Venezia, chiesa della Madonna dell’Orto rizia gli aspetti formali e compositivi. Un approccio, questo, che nei documentari camera scorre sui suoi dipinti, o di essi vengosull’arte disturba meno che in quelli su situa- no isolati, con un montaggio serrato, singoli zioni umane o sociali, forse perché le immagi- particolari, approdiamo gradualmente ad una ni, poniamo, di contadini che mietono il gra- constatazione. L’arte del Tintoretto eccede no le avvertiamo come “catturate dalla realtà” qualunque descrizione e, con l’andamento sae di un’evidenza tale da non abbisognare di ettante delle composizioni - ormai fuori dalle sottolineature. Laddove un quadro o una sta- certezze (e dalle gabbie) della prospettiva ritua appartengono al mondo delle rappresen- nascimentale - risulta irriducibile a qualsiasi tazioni e la loro descrizione puntuale, mentre equivalente verbale. Stefano Macera le vediamo, non sempre ci pare pleonastica.

E’uscito il n. 543 di Cineforum Editoriale

L’amore muove Nel corso della definitiva conversazione tra François Truffaut e Alfred Hitchcock viene chiarito in modo inequivocabile come in Notorious la palpitante spy story sia soltanto di facciata mentre il Adriano Piccardi vero soggetto sia la storia d’amore fra Devlin e Alicia. In modo più scanzonato, esplicito e teorico il paradigma è del resto riformulato e stabilito una volta per tutte, nella filmografia di Hitch, con Intrigo internazionale. Nel 1946 Howard Hawks mette in scena la divorante love story tra Vivian e Philip Marlowe, in Il grande sonno, sotto copertura di un magistrale detective movie della cui vicenda è lo stesso regista che tiene a dire di non aver ben chiari tutti gli snodi (e l’esemplarità del film sta proprio, che lo si voglia o no, nel suo essere avvolto in questa insidiosa nebbia narrativa). Il modo in cui due Maestri pensano l’amore e la coppia, però, è diverso, e neppure tanto sottilmente. Lo sguardo hitchockiano è, in fondo, profondamente segnato da una moralità ottocentesca; le peripezie dei suoi protagonisti, in quanto così trasgressive, non sono infine che un percorso a ostacoli lungo una storia di formazione che porta a una ricomposizione istituzionale di ruoli e norme sociali. Hawks ci mostra invece un affair che prende forma nell’esibizione del duetto/duello tra i due amanti come condizione necessaria (sul piano privato e su quello sociale), in cui si rispecchia inequivocabilmente la nascita di una nuova moralità (o immoralità, fate voi – dipende dai presupposti che si adottano) contemporanea fondata sull’incertezza dei ruoli e sulla reversibilità sentimentale sempre possibile. Non si dà come scontata, nel modello hawkskiano, la conferma conclusiva nella stabilità coniugale, e il percorso compiuto dai protagonisti è “di formazione” proprio in quanto li porta ad accettare la loro relazione e la felicità sessuale come dimensione precaria (e per questo ancora più preziosa). L’attualità del punto di vista di Hawks emerge in tutta evidenza nei due film cui è dedicata la sezione Primo piano di questo numero di «Cineforum». Che, in entrambi i casi, raccontano innanzitutto una storia d’amore, intorno alla quale prendono forma e senso l’intreccio e il contesto. Ne conseguono con evidenza geometrica i due piani conclusivi: quello di Vizio di forma, che dichiara senza tergiversare la sua filiazione dal finale di Il grande sonno, ma anche quello di Blackhat, con la coppia che segue a pag. successiva

35


n.

28

segue da pag. precedente avanza, nell’aeroporto, dapprima in mezzo ai volti sfocati degli altri viaggiatori e poi svanendo fuori fuoco a sua volta, denunciando, in questa soluzione formale che si aggiunge al valore emblematico del luogo, la transitorietà cui è votata. Resta il fatto che non si dà azione, investigazione, né la ricerca di sapere a esse congiunta, senza accompagnarsi a quella modalità trascendente di conoscenza che è – già nel racconto mitologico – insita nel rapporto amoroso. Figura dalla forza verosimilmente inesauribile, anche (e forse ancora di più) dal momento in cui abbiamo imparato ad accettarne il carattere ossimorico. L’amore, comunque, muove. Adriano Piccardi

Andrea Pesoli, Nicola Rossello, Federico Pe- Poetiche droni, Tullio Masoni/Io sono Mateusz - Noi e la Giulia - The Repairman Patria - Suite francese - Mortdecai - La scelta 43 BOOK MAESTRANZE Federica Villa/Una premessa. Il tic e la fabbrica 52 Luca Piacentini/Non sono come voialtri, io 54 Deborah Toschi/Lavoro e alienazione in Il maestro di Vigevano 61 Lorenzo Rossi/Riempire un vuoto 68 PERCORSI Federico Pedroni/Focus Hawking & Co. 74 BERLINALE 2015 Simone Emiliani/Concorso 78 Massimo Causo/Panorama 82 Roberto Manassero/Forum 85 LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato 88 LIBRI a cura di Alessandra Mallamo 95

Morte del Partigiano

www.cineforum-fic.com rivista.cineforum.it info dal lunedì al venerdì - 9.30 /13.30 - tel. 035.361361 - abbonamenti@cineforum.it

SOMMARIO EDITORIALE Adriano Piccardi/L’amore muove 1 PRIMOPIANO BLACKHAT Pier Maria Bocchi/Tempus fugit 5 Anton Giulio Mancino/Miami Device 8 Giacomo Calzoni/In direzione ostinata e contraria 12 PRIMOPIANO VIZIO DI FORMA Giancarlo Mancini/Un labirinto sugli anni sessanta 16 Gloria Zerbinati/What a Wonderful World This Would Be 19 Anton Giulio Mancino/Vintage detective 22 I FILM Bruno Fornara/Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson 26 Stefano Guerini Rocco/Foxcatcher – Una storia americana di Bennett Miller 29 Pierpaolo Loffreda/Timbuktu di Abderrahmane Sissako 33 Roberto Chiesi/Il segreto del suo volto di Christian Petzold 36 Elisa Baldini/Maraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani 40 Paola Brunetta, Edoardo Zaccagnini, Giampiero Frasca,

36

“Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” di Roy Andersson

“Foxcatcher - Una storia americana” Bennett Miller

“Il segreto del suo volto di Christian Petzold”

Dorme nei suoi capelli, vegetali fili che il sole e il vento scioglieranno vivi all’alba: una buia sventagliata di mitra lo sferzò tra capo e collo come brusca manata di un amico: così cadde supino, per voltarsi a riconoscerlo e a scambiare il colpo. Non sentì allontanarsi per la riva i passi dei fucilatori, dopo che gli diedero un calcio per saluto gridandogli: «Carogna!», e dentro il fiume scaricarono l’arma e un po’ più avanti graffiarono rabbiosamente il ponte di bombe a mano: troppo poco a dare, anche se così complice od assente, che la notte straripi di terrore per un sol sparo secco. Dorme, dorme lungo disteso, stretto il gonfio collo nella sciarpa di sangue larga e morbida sempre più gelida; e il lungo cappotto indurito di brina è il suo sepolcro. E la sua patria è l’erba.

Corrado Govoni


diaridicineclub@gmail.com Ricorrenze

Orson Welles. “Genio e Sregolatezza” Ricordo di un grande Maestro del cinema mondiale, a 100 anni dalla nascita e a trent’anni dalla scomparsa Dalla celebre trasmissione radiofonica “La guerra dei mondi” all’ultimo, incompiuto film “The Other Sid of the Wind”. La sera del 30 ottobre 1938, la vigilia di Halloween (e la data non è certo casuaNino Genovese le), la stazione radiofonica statunitense della CBS decide di mandare in onda un radiodramma, affidato al giovane attore emergente (aveva solo 23 anni) Orson Welles, che sceglie un romanzo di fantascienza del 1897 del suo quasi omonimo H. G. Wells, dal titolo “La guerra dei mondi”, incentrato sull’invasione della terra da parte dei marziani. Per dare vivacità all’adattamento e tenere desta l’attenzione, Orson Welles, con geniale intuizione, decide di impostare la trasmissione come se si trattasse di un normale programma musicale, interrotto, di tanto in tanto, da un falso notiziario radio che annuncia l’invasione degli alieni e le sue drammatiche conseguenze. Infatti, i vari interventi dello speaker, che, sempre più spesso, in un’escalation ben studiata, interrompono bruscamente le musiche eseguite da una grande Orchestra, prima comunicano che sono state rilevate diverse esplosioni di gas incandescente sul pianeta Marte; poi che si è verificata una scossa di forte intensità in un raggio di 20 miglia da Princeton; quindi, riferisce, addirittura, l’atterraggio di un’astronave, presso una fattoria del New Jersey, da cui vengono fuori dei terribili mostri, che uccidono un cronista e poi, con un raggio di luce, bruciano diversi altri uomini; infine, diversi silenzi radio, con qualche concitata e confusa cronaca, e un’apparente cessazione delle trasmissioni. A questo punto, si crea il panico: nonostante gli avvisi trasmessi prima, dopo (e anche durante) il programma, moltissimi radioascoltatori non si rendono conto – forza e potenza dei mass-media! – che si tratta di Orson Welles una finzione; migliaia di persone si riversano nelle strade, si segnalano numerosi ingorghi nelle principali arterie di molte città degli Stati Uniti, le Chiese si riempiono di gente che prega, le linee di comunicazione si sovraccaricano fino al collasso. Si è trattato sicuramente della più grande

e clamorosa beffa mediatica del Novecento! A proposito della quale, il suo autore ha avuto occasione di dichiarare: «Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario sono finito ad Hollywood». Infatti, la RKO gli offre un vantaggioso contratto per la realizzazione di tre film. Nasce, così, un capolavoro, uno dei film più importanti in assoluto di tutta la storia del cinema mondiale: “Citizen Kane” [Cittadino Kane], noto in Italia come “Quarto potere”, girato nel 1941, che, ispirato alla figura del grande magnate della stampa W. R. Hearst, scandaglia le dinamiche della conquista del potere e del suo mantenimento, attraverso soluzioni linguistiche e stilistiche molto originali ed innovative; il secon-

Orson Welles nella caricatura di Luigi Zara

do film, che gira per la RKO, è il tormentato ed incompreso “L’Orgoglio degli Amberson”, interessante ed efficace saga familiare, purtroppo rimaneggiato dalla Produzione. Prima di tale film, nel 1938, aveva girato qualche sequenza di “Too Much Johnson”, con Joseph Cotten, la cui unica copia sembrava fosse andata perduta nell’incendio della sua villa di Madrid, nel 1970, ma di cui, in un magazzino di Pordenone, è stata ritrovata, il 7 agosto 2013, una copia-lavoro, presentata il 9 ottobre 2013 alle “Giornate del Cinema Muto” di Pordenone (dove abbiamo avuto il piacere di vederla in anteprima mondiale), e un altro film – “The Green Goddess” - andato perduto. Quindi, dopo il divorzio dalla prima moglie Virginia Nicholson e dopo la relazione con l’attrice messicana Dolores Del Rio (sua partner in “Terrore sul Mar Nero”), gira “La Signora di Shangai” (1946), accanto alla grande “diva” Rita Haywort (quella di “Gilda”, per intenderci), con cui si era sposato nel 1943.

Orson Welles sul set de “La ricotta” di Pier Paolo Pasolini

Welles (anche per motivi di sopravvivenza) è anche attore in molti film; poi dirige, in Europa, una serie di riscritture per il cinema di Shakespeare, da “Macbeth” a “Othello” (girato in Italia e in Marocco) e un “Don Quijote” rimasto incompleto; quindi, rientrato negli Stati Uniti, dirige e interpreta, nel 1958, “L’infernale Quinlan”, considerato uno dei suoi capolavori; ma la sua vita inquieta e avventurosa lo riporta di nuovo in Europa, dove gira, tra l’altro, “Falstaff” e “F come falso”; in Italia (dove ebbe due grandi amori, Lea Padovani e Paola Mori, che diviene la sua terza moglie), compare come attore, accanto a Totò, nel rarissimo film del 1953, “L’uomo, la bestia, la virtù”, tratto da Luigi Pirandello e diretto da Steno; gira perfino “Caroselli” e fa pure il “verso” a se stesso, nel ruolo del regista della crocifissione, nello stupendo episodio “La ricotta” Pier Pasolini, inserito nel film RoGoPaG. Naturalmente, vi sono tanti altri ruoli di attore (ad esempio, quello magistrale ne “Il terzo uomo”, 1949, di Carol Reed) e tanti altri film. Ma quando muore, a Hollywood, per un attacco cardiaco, il 10 ottobre 1985, all’età di settant’anni, essendo nato a Kenosha, il 6 maggio 1915, Welles – che nel cinema fu regista, attore, sceneggiatore, produttore, costumista, scenografo, addetto alle luci, ma lavorò anche alla radio e in teatro, perfino come illusionista – ci ha lasciato, è vero, una serie di film “maledetti” e incompiuti (come “Il Mercante di Venezia”, “It’s all True”, “Don Quijote” e – soprattutto - “The Other Sid of the Wind” [L’altro lato del vento], che ora la figlia Rebecca, l’ultima compagna Oja Kodar, Peter Bogdanovich ed altri suoi estimatori stanno tentano di completare; ma ci ha lasciato anche “Quarto potere”, altri capolavori, stupende interpretazioni e la sua grande genialità, che – a 100 anni dalla nascita e a 30 dalla scomparsa – ci sembra giusto e doveroso ricordare. Nino Genovese

37


n.328 Abbiamo ricevuto Diari di Cineclub

Il neo di Francesco di Roberto Sardelli

Anno IV

Kurumuny editore, pag. 203, 14,00 euro, ISBN: 978-8898773-30-5

“Nello spostamento di Bergoglio da Vescovo di Buenos Aires a Vescovo della chiesa che è in Roma, molti hanno salutato con soddisfazione l’evento destinato a cambiare l’asse portante della chiesa dall’eurocentrismo e dal curialismo romano verso nuove realtà sociali, storiche e religiose. È un po’ come avvenne ai primordi della chiesa quando si decise di spostare il suo asse portante da Gerusalemme a Roma. La decisione non fu indolore e provocò lacerazioni costose e incomprensioni: si trattava di compiere un’operazione di “incarnazione”, in una nuova realtà e cultura, del messaggio inquietante dell’“ebreo marginale”. Fin dal primo momento di quella sera del 2013 don Sardelli ne restò impressionato, soprattutto quando il nuovo vescovo Francesco rivendicò l’essere stato eletto non tanto “papa” quanto, e prima di tutto, “vescovo” di un particolare “territorio” (diocesi) della chiesa. La precisazione non era di poco conto soprattutto se teniamo presente che all’annuncio pomposo del cardinale dalla loggia basilicale habemus papam, l’interessato, schernendosi, si faceva avanti precisando che il conclave aveva “nominato un nuovo vescovo per la chiesa che è in Roma”. L’annotazione ci fece subito capire che le cose da quel momento in poi potevano cambiare e che nuove realtà, raggelate nel silenzio, sarebbero state convocate per iniziare a scrivere una “pagina nuova” non solo per la storia della chiesa romana, ma anche per tessere relazioni nuove tra i popoli e le realtà socio-culturali considerate nemiche semplicemente perché non conformi. Era la fine del monocolore curiale. Ora tutto doveva essere rimodellaDon Roberto Sardelli to: non si cominciava dal summus pontifex, ma dal dialogo il più corale possibile per riportare alla luce una ricchezza e per aprire prospettive nuove fino allora tenute in salamoia. Tutto doveva essere rimodellato e liberato da incrostazioni e superfetazione. Il vescovo Francesco, in seguito, ne avrebbe enumerate ben quindici! “Il Neo di Francesco”, nasce da questa particolare percezione degli eventi che si andavano delineando di giorno in giorno, forse con un carico di novità eccessivo. Il cantiere veniva aperto, e di lavoro arretrato ce n’era tanto e per tutti. Con la nomina di Francesco veniva aperta una pagina la cui scrittura poteva e doveva essere collettiva. Lo scrittore della nuova pagina non sarebbe stato più unico. Al “ragazzino” nessuno più poteva impedire di gridare che “il re è nudo”. Aprendo il sinodo dei vescovi, Francesco, con tono grave e imperioso avrebbe detto: “Parlate chiaro. Nessuno può dire: questo non si può dire!”. È di questa voce che il libro vuole essere eco. Nulla di più. Come è nello stile dell’autore, don Sardelli non separa mai l’esperienza diretta e personale che ha vissuto in prima persona con i baraccati e ammalati terminali, dagli eventi ecclesiali, sociali e storici in cui si è trovato coinvolto e dalla riflessione teorica. Per lui, la prassi è una continua révision de vie in cui teoria e prassi si interrogano, ci provocano e ci interpellano non solo individualmente, ma anche come comunità e come istituzioni. L’uso della metafora del neo, aperto a ogni possibilità, racchiude questa speranza e questa ambiguità. Il neo è come un sasso lanciato nel lago. Se le onde che ne conseguono verranno accolte si salperà verso un mare aperto, altrimenti si areneranno sulla riva. Il libro è un interrogativo argomentato che non prevede facili soluzioni miracolistiche o radicali condanne, ma partecipazione attiva dove ciascuno si rende responsabile delle sue parole e del suo agire.

Periodico indipendente di cultura e informazione cinematografica Responsabile Angelo Tantaro Via dei Fulvi 47 – 00174 Roma a.tnt@libero.it

Comitato di Consulenza e Rappresentanza

Cecilia Mangini, Giulia Zoppi, Luciana Castellina, Enzo Natta, Citto Maselli, Marco Asunis

n. 28 - maggio 2015

a questo numero ha collaborato in redazione Maria Caprasecca la pagina di facebook è curata da Patrizia Masala Edicola virtuale dove trovare tutti i numeri: www.cineclubromafedic.it La testata è stata realizzata da Alessandro Scillitani Grafica e impaginazione Angelo Tantaro La responsabilità dei testi è imputabile esclusivamente agli autori.

I nostri fondi neri:

Il periodico è on line e tutti i collaboratori sono volontari. Il costo è zero e viene distribuito gratuitamente. Manda una mail a diaridicineclub@gmail.com per richiedere l’abbonamento gratuito on line. Edicole virtuali (elenco aggiornato a questo numero) dove poter leggere e/o scaricare il file in formato PDF www.cineclubromafedic.it www.ficc.it www.cinit.it www.fedic.it www.cineclubsassari.com www.umanitaria.ci.it blog.libero.it/Apuliacinema www.ilquadraro.it www.cgsweb.it www.sardiniafilmfestival.it www.arciiglesias.it www.associazioneculturalejanas.com www.youtube.com/user/JanasTV1 www.babelfilmfestival.com www.lacinetecasarda.it www.retecinemabasilicata.it/blog www.tysm.org www.cinemafedic.it www.moviementu.it www.giornaledellisola.it www.lifeafteroil.org www.storiadeifilm.it www.passaggidautore.it www.cineclubalphaville.it www.consequenze.org www.educinema.it www.cinematerritorio.wordpress.com www.retecinemaindipendente.wordpress.com www.alambicco.org www.centofiori.de www.sentieriselvaggi.it www-pane-rose.it www.circolozavattini.it www.aamod.it/links www.ilpareredellingegnere.it f Diari di Cineclub www.sardegnaeventi24.it www.bencast.it www.gravinacittaaperta.it www.ilclub35mm.com www.suurbanacollegno.it www.anac-autori.it www.officinavialibera.it www.asinc.it www.usnexpo.it www.monserratoteca.it www.officinakreativa.org www.prolocosangiovannivaldarno.it www.cineclubgenova.net/

diaridicineclub@gmail.com diaridicineclub@gmail.com


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.