I GRANDI CLASSICI
Ventimila leghe sotto i mari Jules Verne
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E D I Z I O N I
I grandi classici “La Spiga”
Jules Verne Ventimila leghe sotto i mari Riduzione e adattamento a cura di Marcella Papeschi Percorsi di lettura di Moreno Giannattasio Illustrazioni: Barbara Petris © 2014 ELI - La Spiga Edizioni Via Brecce, Loreto tel. 071 750 701 redazione@leggermente.info www.leggermente.info Stampato in Italia presso Tecnostampa - Recanati 14.83.005.0 ISBN 978-88-468-3221-4 Le fotocopie non autorizzate sono illegali. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione totale o parziale così come la sua trasmissione sotto qualsiasi forma o con qualunque mezzo senza previa autorizzazione scritta da parte dell’editore.
Ventimila Leghe sotto i mari Jules Verne
Edizioni “La Spiga�
Sommario Nota introduttiva.......................................................................................................................... 7 Strani eventi.................................................................................................................................9 Il narvalo gigantesco...................................................................................................................12 La partenza...............................................................................................................................15 Ned il fiociniere...........................................................................................................................19 Alla ventura...............................................................................................................................23 A tutto vapore.............................................................................................................................26 Una balena di specie ignota.........................................................................................................31 Mobilis in mobile.......................................................................................................................37 La collera di Ned Land...............................................................................................................43 L’uomo delle acque......................................................................................................................47 Il Nautilus.................................................................................................................................53 Strumenti tecnici.........................................................................................................................57 Un invito scritto..........................................................................................................................60 L’isola di Crespo.........................................................................................................................63 La foresta sommersa....................................................................................................................67 Giorni nel Pacifico......................................................................................................................71 L’isola di Gaboar........................................................................................................................76 L’incontro con i Papua................................................................................................................82 Il mare dei coralli.......................................................................................................................88 L’oceano Indiano........................................................................................................................93 Perle e squali..............................................................................................................................97 Verso il Mediterraneo................................................................................................................104 L’Oceano Atlantico...................................................................................................................110 Atlantide..................................................................................................................................114 Verso il Polo Sud......................................................................................................................117 Errore umano o disgrazia?.........................................................................................................121 I calamari giganti.....................................................................................................................129 Verso la fine.............................................................................................................................136 La catastrofe............................................................................................................................140 Le ultime parole........................................................................................................................143 Conclusione..............................................................................................................................146 APPROFONDIMENTI Incontro immaginario con l’autore...............................................................................................149 Percorsi di lettura......................................................................................................................154 Cammin Facendo......................................................................................................................154 Diventa scrittore........................................................................................................................164 Caffè letterario..........................................................................................................................164
Nota introduttiva Se vuoi compiere un viaggio su un sottomarino, questo è il romanzo che fa per te. Perché mai intraprendere una simile avventura? Perché sotto il mare si apre un mondo sconosciuto, perché il Nautilus ogni tanto emerge e visita luoghi inesplorati, perché all’interno delle pareti di lamiera succedono strane cose che forse tu riuscirai a spiegare. I personaggi di questa storia ti coinvolgeranno fin dalle prime pagine: c ’è uno scienziato curioso e temerario, un servitore fedele e con un buon senso dell’umorismo, un capitano misterioso e temibile, ma anche capace i nobili sentimenti. Non sembra un libro scritto più di un secolo fa, forse perché le avventure se sono narrate in modo avvincente, non hanno età. Jules Verne in questo è un autore speciale, i suoi romanzi non invecchiano e conquistano da sempre i lettori. Prepara i bagagli allora, e buon viaggio!
Il significato delle parole in grassetto si trova nel glossario in fondo al volume. -9-
Capitolo 1
Strani eventi
L’anno 1866 fu caratterizzato da eventi misteriosi. Alcune navi avvistarono in alto mare un oggetto enorme, lungo, a tratti luminescente, più grande e veloce di una balena. I giornali di bordo concordavano sulla velocità incredibile dei suoi movimenti e sulla potenza da cui sembrava animato. Se era un cetaceo, aveva dimensioni maggiori di tutti quelli che la scienza avesse mai descritto fino ad allora: si diceva addirittura che fosse lungo duemila metri e largo mille. Ma vediamo ora, con maggior dettaglio, quali furono i fatti che portarono a supporre dell’esistenza di quella creatura misteriosa. Nel luglio di quell’anno, il capitano Backer della nave a vapore Governor, al largo delle coste australiane, credette di trovarsi di fronte a uno scoglio sconosciuto quando, improvvisamente, due colonne d’acqua s’innalzarono dal suo dorso sibilando per centinaia di metri. Undici giorni dopo, in un punto dell’Atlantico tra gli Stati Uniti e l’Europa, vennero segnalati ancora due avvistamenti e l’esistenza del mostro divenne una certezza. Parlare della creatura misteriosa diventò di moda, se ne discuteva nei bar, per le strade; nei teatri si rappresentavano spettacoli con mostri informi, i giornalisti facevano a gara per chi raccoglieva più notizie e si formarono le fazioni di chi credeva alla sua esistenza e di chi rimaneva scettico.
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Dopo qualche mese la faccenda si ridimensionò, ma l’anno successivo accaddero nuovi fatti. Il 5 marzo 1867 il Moravian, della Montreal Ocean Company, urtò contro un masso che nessuna carta segnalava in quei paraggi. Se la qualità dello scafo non fosse stata ottima, è fuori di dubbio che il bastimento si sarebbe spaccato affondando con tutti i centotrentasette passeggeri che riconduceva in Canada. L’incidente era capitato verso le cinque del mattino quando il giorno baluginava appena. Gli ufficiali di turno si precipitarono immediatamente sul ponte, esaminarono l’oceano con la massima attenzione, ma videro soltanto un forte risucchio a circa seicento metri. Il fatto, gravissimo in sé, sarebbe forse passato nel dimenticatoio come tanti altri, se tre settimane dopo non si fosse riprodotto in condizioni identiche. La nave Scozia si trovava al 15° di longitudine e al 45° di latitudine. Filava con sveltezza e le ruote battevano il mare con regolarità perfetta. Mentre i passeggeri erano riuniti nel salone per il tè del pomeriggio, un urto quasi insensibile si produsse sullo scafo. La collisione era stata così leggera, che nessuno a bordo se ne era accorto, fino a quando i macchinisti lanciarono l’allarme: la nave stava imbarcando acqua. Sulle prime i passeggeri furono colti dal panico, poi il capitano Anderson si affrettò a rassicurarli, il pericolo non poteva essere imminente: lo Scozia, diviso in sette scompartimenti stagni, era assolutamente in grado di affrontare una falla senza conseguenze. Il viaggio continuò e la nave, dopo tre giorni di ritardo. approdò alla meta. Ce n’era abbastanza per scaldare di nuovo l’opinione pubblica. Da quel momento, infatti, tutti gli incidenti marittimi che non si sapeva a chi attribuire, vennero affibbiati al mostro che si prese la responsabilità
Longitudine e latitudine: coordinate geografiche che fanno riferimento all’equatore e al meridiano di Greenwich, utilizzate per localizzare un luogo sul globo terrestre. - 12 -
di tutti i naufragi, il cui numero era purtroppo considerevole, giacchĂŠ le navi a vela o a vapore smarrite per mancanza di notizie ammontavano almeno a duecento. A quel punto fu chiesto categoricamente che i mari fossero una buona volta liberati, a qualunque costo, dal formidabile cetaceo.
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Capitolo 2
Il narvalo gigantesco
Sono professore naturalista presso il Museo di Storia Naturale di Parigi e quando avvenne l’incidente della nave Scozia mi trovavo a New York per consegnare i risultati di un’esplorazione scientifica che avevo svolto nelle terre del Nebraska. Avevo letto e riletto i giornali americani che parlavano del mostro; ormai nessuno più propendeva per la causa dell’isola galleggiante o dello scoglio inaccessibile. Se quello scoglio non aveva una macchina nel ventre, come poteva muoversi così velocemente? Restavano due soluzioni possibili che avevano distinte schiere di sostenitori: da una parte c’erano quelli che affermavano l’esistenza di un mostro dalla forza colossale, dall’altra quelli che sostenevano fosse una nave sottomarina dotata di una forza motrice molto potente. La seconda ipotesi fu definitivamente respinta: non era probabile che un semplice cittadino avesse a sua disposizione un simile congegno metallico; dove e quando l’avrebbe fatto costruire e come avrebbe potuto tenerne nascosta la progettazione? Avevo appena pubblicato in Francia un’opera in due volumi dal titolo: I misteri delle profondità sottomarine e a New York parecchie persone mi avevano fatto l’onore di consultarmi sul fenomeno in questione. Ci avevo riflettuto tenendo conto delle diverse ipotesi e mi ero fatto una precisa idea che avevo pubblicato in un articolo sul New York Herald di cui presento un estratto. - 14 -
… Esaminate una ad una diverse ipotesi, esclusa ogni altra supposizione, bisogna ammettere per forza l’esistenza di un animale marino potentissimo. Le grandi profondità dell’oceano ci sono totalmente sconosciute. Le sonde non hanno ancora potuto arrivarci. Cosa accade in quegli abissi profondi? Quali esseri abitano e possono abitare a dodici o quindici miglia sotto la superficie delle acque? O conosciamo tutte le varietà degli esseri che popolano il nostro pianeta, o non le conosciamo. Se non le conosciamo tutte, se la natura ha ancora dei segreti, allora nulla è più facile che ammettere l’esistenza di pesci o cetacei di specie e di generi nuovi, i quali abitano le viscere inaccessibili alle sonde. Il narvalo volgare, o liocorno di mare, raggiunge spesso una lunghezza di circa diciotto metri. Quintuplicate, decuplicate pure le dimensioni, date al cetaceo una forza proporzionata alla corporatura, aumentatene le armi offensive, e otterrete l’animale desiderato. Un tempo, nelle epoche geologiche, gli animali terrestri, i quadrupedi, i quadrumani, i rettili, gli uccelli, erano costruiti molto grandiosamente: il Creatore li aveva fatti con uno stampo colossale che poi il tempo ha gradualmente ridotto. Perché il mare nelle sue ignote profondità non potrebbe conservare questi enormi campioni di vita preistorica? Comunque stessero le cose, se alcuni ritennero questo un problema puramente scientifico, altri pensarono di liberare l’oceano dal mostro, al
Narvalo volgare: è un grosso cetaceo che può avere il corpo lungo fino a sei metri. Viene detto anche licorno di mare perché è dotato di un lungo corno robustissimo. Per le sue caratteristiche, che lo facevano comparare all’unicorno, è spesso protagonista di antiche leggende o di racconti fantastici. Miglia: purale di miglio: il miglio è un’unità di misura delle lunghezze. Il miglio terrestre corrisponde a 1609 metri, il miglio marino corrisponde a 1852 metri. - 15 -
fine di rendere sicure le comunicazioni transoceaniche. E furono proprio gli Stati Uniti che passarono per primi all’azione. A New York vennero fatti i preparativi per una spedizione destinata a inseguire il narvalo e fu l’Abraham Lincoln, una veloce fregata, a essere prescelta per questa missione con il comandante Farragut che fece aprire gli arsenali per l’armamento della nave. Quando tutto fu pronto, i viveri caricati a bordo, le stive colme di carbone, tre ore prima che l’Abraham Lincoln lasciasse Brooklyn, ricevetti questa lettera: Egregio Signore Aronnax, se volete unirvi alla spedizione dell’Abraham Lincoln, il governo dell’Unione sarà lietissimo che Lei rappresenti la Francia nell’impresa. Il comandante Farragut tiene una cabina a Sua disposizione. Cordialmente vostro G. B. Hobson Segretario di Marina
Fregata: è il nome utilizzato in differenti periodi storici per nominare molti tipi di nave da guerra. - 16 -
Capitolo 3
La partenza
Tre secondi dopo aver letto la lettera dell’onorevole segretario di marina, capivo finalmente che la mia vera vocazione, l’unico scopo della mia vita, era di andare a caccia di quel terribile mostro per liberarne il mondo. Eppure tornavo da un viaggio faticoso, ero stanco e avevo un gran desiderio di riposare. Aspiravo solo a rivedere la patria, gli amici, il mio appartamentino di Parigi, le mie care e preziose collezioni, ma nulla poté trattenermi e così dimenticai tutto: stanchezza, amici, collezioni e accettai l’offerta del governo americano senza riflettere oltre. In fin dei conti – pensai – tutte le strade conducono in Europa, e il liocorno sarà così gentile da condurmi verso le coste francesi. Quella brava bestia dovrà lasciarsi acchiappare nei mari europei, tanto per farmi un favore personale. Voglio portare almeno mezzo metro della sua alabarda d’avorio al Museo di Storia Naturale. Ma, intanto, dovevo cercare il narvalo nel nord dell’Oceano Pacifico: il che, per tornare in Francia, significava prendere giusto la strada opposta. “Consiglio!” gridai a piena voce. Consiglio era il mio domestico. Era specialista espertissimo nelle classificazioni di Storia Naturale e percorreva con acrobatica agilità tutta la scala dei rami, gruppi, classi, sottoclassi, ordini, famiglie, generi, sottogeneri, specie e varietà. Però la sua erudizione si fermava lì. Abilissimo nella teoria della classificazione e poco nella pratica, non avrebbe distinto un capidoglio da una balena. E ciò nonostante era un bravissimo collaboratore. Finora, ossia da dieci - 17 -
anni, Consiglio mi era venuto appresso ovunque mi avesse sballottato la scienza. Non aveva mai fiatato circa la lunghezza o la stanchezza relative a un viaggio, non aveva mai fatto obiezioni a preparare le valigie alla volta di qualunque paese, magari la Cina o il Congo. Veniva di qua e di là, senza dire una parola. Del resto, godeva di una salute splendida che sfidava ogni malanno; muscoli saldi e neppure l’ombra di un cedimento nervoso. Aveva trent’anni e la sua età stava a quella del padrone come quindici sta a venti. Spero scuserete il modo col quale voglio dire che io ne avevo quaranta. “Consiglio!” chiamai con impazienza mentre facevo febbrilmente i preparativi per la partenza. Potevo fare affidamento su quel giovane, non era nemmeno necessario chiedergli se desiderasse accompagnarmi. Stavolta però si trattava di una spedizione rischiosa che poteva prolungarsi all’infinito, dell’inseguimento di una bestiaccia capacissima di affondare una fregata come un guscio di noce. “Consiglio!” gridai ancora. Consiglio apparve. “Il signore ha chiamato?”“Sì, ragazzo mio. Preparati. Fra due ore partiamo.” “Come piacerà al signore” rispose tranquillamente. “Neanche un minuto da perdere, metti in valigia la mia roba da viaggio: camicie, calze, tutto il resto. Ma sbrigati!” “E le collezioni del signore?”“Ce ne occuperemo dopo.” “Come! Gli archiotherium, gli hyracotherium, gli oreodons, gli cheropotamus e le altre carcasse del signore?” “Le custodiranno in quest’albergo dove stiamo soggiornando.”
Archiotherium: mammifero preistorico simile al maiale. Hiracotherium: primo precursore conosciuto del cavallo. Oreodons: ruminante dell’epoca terziaria simile al maiale. Cheropotamus: animale preistorico simile all’ippopotamo. - 18 -
“E il babirussa vivo?” “Lo nutriranno loro, in nostra assenza. Poi darò ordine di spedire tutto in Francia.” “Quindi non torniamo a Parigi?” “Sì. . . certo. . . – replicai evasivamente –“ma… facendo una deviazione.” “La deviazione che piacerà al signore.” “Oh! Roba di poco. Prenderemo una strada meno diretta, ecco tutto.” “Come converrà al signore” rispose con calma. “È una missione gloriosa. . . pericolosa, anche. Non si sa dove si va. Sono bestie che possono fare capricci. Ma andremo ugualmente. Abbiamo un comandante che ha del fegato.” “Farò come vorrà il signore.” “Pensaci bene: si tratta di un viaggio dal quale si potrebbe anche non tornare, te lo dico prima.” “Come piacerà al signore.” Un quarto d’ora dopo le valigie erano pronte. Consiglio le aveva fatte in un batter d’occhio ed ero certo che non mancava nulla, perché quel ragazzo ci sapeva fare con abiti e camicie come con uccelli o mammiferi. L’ascensore ci depositò nel grande vestibolo dell’ammezzato. Scesi i pochi gradini che portavano al pianterreno, pagai il conto alla reception dell’albergo. Diedi ordine di spedire a Parigi animali impagliati e piante secche, aprii un conto per le spese del babirussa e, con Consiglio alle calcagna, mi precipitai in vettura. Il veicolo discese per Broadway verso l’Union Square, fino a Brooklyn, il grande quartiere di New York sulla sinistra dell’East River e in pochi minuti arrivammo alla trentaquattresima banchina presso la quale L’Abraham Lincoln sputava torrenti di fumo nero dalle ciminiere. Corsi a bordo, domandai del comandante Farragut e un marinaio mi
Babirussa: è un parente del cinghiale comune, dotato di quattro zanne ricurve: è una specie rara dell’arcipelago malese. - 19 -
condusse al cospetto di un ufficiale che mi tese la mano. “Il signor Pierre Aronnaz?” chiese. “Per l’appunto – risposi – il comandante Farragut?” “In persona. Benvenuto, professore. La cabina è pronta.” Salutai e mi feci accompagnare in cabina. L’Abraham Lincoln, magnificamente scelto e preparato per la nuova destinazione, era una fregata velocissima, con potenti apparecchi che permettevano di portare la tensione del vapore a sette atmosfere; sotto tale pressione, faceva in media diciotto miglia all’ora: rapidità considerevole, ma insufficiente per stare al passo col gigantesco cetaceo. La sistemazione interna della fregata corrispondeva alle sue qualità nautiche. Fui molto soddisfatto della cabina, situata a poppa, verso il quadrato ufficiali.“Staremo benone” dissi a Consiglio. “Come un paguro nella conchiglia” commentò. Lasciai Consiglio e risalii sul ponte. Il comandante Farragut aveva fatto proprio allora levare le ancore. I macchinisti fecero muovere la ruota d’avviamento, il vapore fischiò, gli stantuffi gemettero, le pale dell’elica batterono e la fregata prese il largo lasciandosi alle spalle le spiagge di Brooklyn.
Quadrato ufficiali: sulle navi del passato era un salone quadrato che si trovava a poppa e sul quale si aprivano le cabine degli ufficiali. - 20 -
Capitolo 4
Ned il fiociniere
Il comandante Farragut era un ottimo marinaio, degno della fregata che comandava. Lui e la nave formavano una cosa sola. Sulla questione del cetaceo non aveva alcun dubbio e non permetteva che a bordo se ne mettesse in forse l’esistenza. O lui avrebbe ucciso il narvalo o il narvalo avrebbe ucciso lui. Quanto agli uomini dell’equipaggio, sorvegliavano il mare con scrupolosa attenzione; non chiedevano che di vedere il liocorno, afferrarlo con la fiocina, issarlo a bordo e farlo a pezzi. Come se non bastasse, il comandante Farragut parlava di una somma di duemila dollari destinata a chiunque, mozzo, marinaio o ufficiale, segnalasse la bestia. Il comandante aveva dotato la nave di apparecchi adatti alla pesca del gigantesco cetaceo; una baleniera non avrebbe potuto essere armata meglio. Avevamo tutti gli strumenti conosciuti, dal rampone da lanciare a mano, alle frecce dentate, fino alle palle esplosive dei fucili di lunga portata. Sul ponte anteriore si allungava un cannone perfezionato che si caricava dalla culatta, con pareti molto spesse e di forma slanciata. Tale prezioso strumento, di origine americana, scaraventava senza scomporsi un proiettile conico di quattro chili a una distanza media di sedici chilometri. Dunque, l’Abraham Lincoln i mezzi di distruzione li possedeva proprio tutti. - 21 -
Ma aveva ancora di meglio: Ned Land, re dei fiocinieri. Ned era canadese, d’una prontezza poco comune e non c’era nessuno che fosse bravo come lui nel suo pericoloso mestiere. Le sue doti erano abilità, sangue freddo, coraggio e furbizia: aveva quarant’anni, era alto, vigoroso e austero e non gli piaceva perdere tempo in chiacchiere, inoltre era molto suscettibile e non amava essere contraddetto. Qual era l’opinione di Ned sulla faccenda del mostro marino? Mi tocca riconoscere che al liocorno non credeva e che era l’unico a bordo che non condividesse l’opinione generale della sua esistenza. Evitava perfino di trattare l’argomento, sul quale tuttavia un giorno decisi di interrogarlo. Seduti a poppa, Ned Land e io chiacchieravamo del più e del meno guardando quel mare misterioso, le cui profondità sono rimaste finora inaccessibili all’occhio umano. Portai spontaneamente il discorso sul liocorno gigante esaminando le diverse possibilità di insuccesso o di riuscita della spedizione. Poi, vedendo che Ned mi lasciava parlare senza sbilanciarsi, puntai dritto al centro della questione. “Ned – chiesi – ma come può non essere convinto dell’esistenza del cetaceo? Ha particolari motivi per essere incredulo fino a questo punto?” Il fiociniere mi guardò, poi si picchiò l’ampia fronte con un gesto della mano che gli era abituale, chiuse gli occhi come per raccogliersi e finalmente disse: “Può darsi, signor Aronnax”. “Eppure Ned, lei, baleniere di professione, abituato ai grossi mammiferi marini, lei, che deve facilmente accettare l’ipotesi di cetacei enormi, ecco lei, in un caso simile, dovrebbe essere l’ultimo a dubitare”. “Si sbaglia, signor professore.
Fiociniere: addetto al lancio della fiocina (arpione terminante con punte di ferro) utilizzata per la cattura dei pesci. - 22 -
Che il popolo creda a comete straordinarie che attraversano lo spazio, all’esistenza di mostri che stanno al centro della terra, passi: ma né astronomi, né geologi, possono ammettere certe fantasie. Ho inseguito molti cetacei, ne ho fiocinati un gran numero, ne ho ammazzati parecchi; però, pur potenti e armati che fossero, né le loro code né i loro mezzi difensivi avrebbero potuto incidere la lamiera di una nave”. “Eppure, Ned, si parla di bastimenti bucati da una parte all’altra dal dente del narvalo”. “Navi di legno, tutt’al più – ribatté il canadese – benché non le abbia mai viste. Ma io, fino a prova contraria, nego che balene, capidogli o liocorni possano produrre un effetto simile”. “Stia a sentire, Ned. . .” “No, signor professore, no. Tutto quello che vuole, ma questo no. Piuttosto un calamaro gigantesco”. “Impossibile Ned. Il calamaro non è altro che un mollusco e il nome stesso dice quanto poco consistenti siano le sue carni. Misurasse anche 1500 metri di lunghezza, il polpo è assolutamente innocuo per navi come la Scozia o l’Abraham Lincoln. Bisogna relegare nel mondo delle fiabe simili ipotesi.” “Allora, signor naturalista – riprese Ned Land con fare sornione – continua ad ammettere l’esistenza d’un grosso cetaceo?” “Sì, Ned e lo ripeto con convinzione. Credo all’esistenza di un mammifero ben costituito, del ramo dei vertebrati, come le balene e i capidogli e i delfini, munito di una difesa cornea estremamente penetrante”. “Hum!”, fece lui, scuotendo il capo come chi non ha voglia di lasciarsi convincere. “Ebbene, caro fiociniere, se vertebrati lunghi parecchie centinaia di metri e grossi in proporzione, si mantengono a quelle profondità e hanno una superficie di milioni di centimetri quadrati, pensate un po’ quale deve essere la resistenza dello scheletro e la potenza dell’organismo, per poter sopportare la pressione di tonnellate e tonnellate d’acqua sopra di loro. - 23 -
“Bisogna che siano fabbricati con lamiera di otto pollici, come le fregate corazzate.” “Proprio così e riflettete dunque cosa può produrre una massa del genere, lanciata con la rapidità di un diretto contro lo scafo di una nave”. “Sì. . . infatti. . . può darsi”, rispose il canadese. “Perciò, l’ho convinta?” “Mi avete convinto di una cosa, signor naturalista ed è che se quella razza di animali esiste, deve proprio essere forte come dice lei”. Ma era, la sua, una risposta che confermava la sua diffidenza, nient’altro. E per quel giorno, preferii smetterla. L’incidente dello Scozia non si poteva negare, la falla esisteva e mi pare che non si potesse dimostrarne l’esistenza meglio di così dal momento che non poteva esserselo fatto da solo. Ora, a parer mio, questo animale apparteneva al ramo dei vertebrati, alla classe dei mammiferi, al gruppo dei pisciformi e infine all’ordine dei cetacei. Quanto alla famiglia, se balena o capidoglio o delfino, quanto al genere e alla specie secondo cui si doveva classificare, la questione sarebbe stata risolta in seguito. Per venirne a capo, bisognava prima studiare quel mostro sconosciuto, per studiarlo era necessario acchiapparlo; per acchiapparlo, si doveva gettargli la fiocina, il che spettava a Ned Land; per fiocinarlo, era necessario vederlo, il che spettava all’equipaggio; per vederlo, bisognava incontrarlo e questo spettava al caso.
Pollici: il pollice è un’unità di misura usato nei paesi anglosassoni che corrisponde a 2,54 centimetri. - 24 -
Capitolo 5
Alla ventura
Il viaggio dell’Abraham Lincoln per qualche tempo non fu caratterizzato da avvenimenti rilevanti. Avevamo oltrepassato le coste americane di sud–est, avevamo superato Capo Horn, indirizzato la rotta verso nord–est e ci trovavamo ormai nelle acque del Pacifico. “Tenete gli occhi aperti” ripetevamo ai marinai. La superficie dell’oceano veniva scrutata continuamente, giorno e notte, e io stesso, pur non essendo così attratto dall’esca del denaro, concedevo solo poche ore al sonno e indifferente al sole e alla pioggia, non lasciavo mai il ponte della nave. Guardavo attentamente il solco spumoso che imbiancava il mare, fin dove l’occhio poteva arrivare e quante volte trasalii, insieme all’equipaggio, quando qualche balena capricciosa levava il suo dorso nero sopra i flutti. Allora dai boccaporti uscivano marinai e ufficiali che con trepidazione seguivano i movimenti del cetaceo che poi spariva rapidamente fra un coro di imprecazioni. Il tempo continuava a essere bello, Ned rimaneva indifferente e si faceva lunghe dormite nella sua cabina, io gli rimproveravo la sua flemma, ma egli rispondeva:“E se anche quell’animale esistesse, che probabilità avremmo di vederlo? Se ci fosse, sarebbe dotato di una prodigiosa forza locomotrice e ormai sarebbe lontano.”
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Io non sapevo cosa rispondere, navigavamo alla cieca Il 20 luglio superammo il tropico del Capricorno, poi passammo l’Equatore. Il comandante Farragut pensava che era meglio starsene in alto mare, allontanandosi dai continenti e dalle isole da cui pareva che l’animale si tenesse sempre lontano, proprio perché a riva non c’era abbastanza acqua per lui. La fregata passò dunque al largo delle isole Paumotu, delle Marchesi, delle Sandwich, tagliò il tropico del Cancro a 132° di longitudine e si diresse verso i mari della Cina. A bordo non si campava più. I cuori battevano all’impazzata. L’intero equipaggio era sovreccitato. Non si mangiava più, non si dormiva più. Venti volte al giorno un errore di calcolo, un’illusione ottica di qualche marinaio in vedetta, provocava intollerabili delusioni e tali emozioni, venti volte ripetute, ci mantenevano in uno stato di esaltazione troppo violento per non lasciar prevedere una futura reazione. Venne dunque la reazione. Gli animi furono colti da scoraggiamento e un nuovo sentimento si produsse a bordo, composto da tre decimi di vergogna contro sette di rabbia. Tutti erano delusi per aver creduto a una chimera e furibondi per tutto il tempo stupidamente sacrificato. Non si poteva prolungare ancora la ricerca. Il 5 novembre scadeva il termine ultimo. Dopo di che il comandante Farragut, fedele alla promessa, avrebbe dovuto dare la rotta a sud–est e abbandonare definitivamente le regioni settentrionali del Pacifico. Quella notte la fregata si trovava al 31° 5’ di latitudine nord e al 136° 42’ di longitudine est. Le terre giapponesi restavano a neppure duecento miglia sottovento. La luna, che era al suo primo quarto, era velata da una folta nuvolaglia e il mare si muoveva tranquillo sotto la ruota di prua. Osservando Consiglio, notai che il bravo figliolo subiva un pochino l’influenza generale. “Via, Consiglio – gli feci – ecco l’ultima occasione per intascare i duemila dollari”. - 26 -
“Il signore mi permetta – rispose – ma io su quel premio non ci ho mai contato”. “Hai ragione. È una faccenda stupida, in fin dei conti, nella quale ci siamo buttati con troppa leggerezza. Quanto tempo perso, quante emozioni inutili! A quest’ora, saremmo già in Francia da sei mesi”. “Nell’appartamentino del signore, nel Museo del signore! Ed io, avrei già classificato i fossili del signore! E il babirussa del signore sarebbe in gabbia e attirerebbe tutti i curiosi della capitale!” “Per l’appunto: e senza contare che, secondo me, ci prenderanno in giro.” “Infatti – replicò tranquillamente – credo proprio che ci prenderanno in giro.” Consiglio non poté finire la sua osservazione che nel silenzio generale si udì una voce. Era Ned Land che gridava: “ACCIDENTI, IN FACCIA A NOI, SOTTOVENTO, C’È QUELLA COSAAAAAA!”
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Capitolo 6
A tutto vapore
A quel grido comandante, ufficiali, marinai, mozzi si precipitarono verso il fiociniere; fuochisti e meccanici abbandonarono le caldaie e le macchine. Fu dato il comando d’arresto e la fregata spense i motori continuando a procedere per sola forza d’inerzia. C’era una profonda oscurità e mi domandavo come e che cosa gli occhi del canadese, seppur buonissimi, potessero vedere. Il cuore mi batteva forsennatamente e Ned Land non s’era sbagliato. Tutti infatti, potemmo vedere l’oggetto che egli indicava. A circa quattrocento metri il mare pareva illuminato dal basso verso l’alto. Non era un semplice fenomeno di fosforescenza, non ci si poteva ingannare. Il mostro proiettava verso l’alto il bagliore intenso e inspiegabile di cui avevano parlato altri testimoni. Quell’incredibile irradiazione doveva essere prodotta da una sorgente luminosa potentissima. La luce aveva una forma ovale allungata con al centro una zona più accesa il cui bagliore degradava verso i bordi. “È solo un agglomerato di molecole fosforescenti” commentò un ufficiale. “No, signore” replicai sicuro.“Nessun pesce o mollusco potrebbe produrre una luce simile, questo bagliore è di natura elettrica. Ma ecco, attenzione, si sta muovendo, viene in avanti. . . si sta scagliando contro di noi!” “Macchina indietro!” gridò il comandante Farragut. Marinai e meccanici si precipitarono al timone e ai motori, la fregata - 28 -
si mosse, poi si arrestò e ruotò su se stessa descrivendo un semicerchio. “Timone a dritta!, Macchina avanti!“ gridò il comandante. Furono eseguiti gli ordini e la fregata s’allontanò rapidamente dalla fonte di luce, o meglio, avrebbe dovuto allontanarsi, ma quell’essere soprannaturale si avvicinava ancora a noi con velocità doppia. Eravamo senza fiato. Lo stupore, più ancora della paura, ci faceva stare zitti e immobili. L’animale, come giocando, fece il giro della fregata e l’avvolse nel suo chiarore come in una scia luminosa. Ma ecco che tornava ad allontanarsi, lasciando una scia come una locomotiva a vapore; ma all’improvviso, nuovamente, raggiunse l’Abraham Lincoln. Si fermò di colpo vicinissimo allo scafo, la luce si interruppe per ricomparire dopo qualche secondo al lato opposto della nave. Da un minuto all’altro avrebbe potuto colpirlo e l’urto sarebbe risultato fatale per tutti gli uomini dell’equipaggio. La fregata piegò ancora all’indietro. Praticamente stavamo fuggendo anziché inseguire. Verso mezzanotte la cosa sparì: o meglio, si spense come una grossa lucciola. Era fuggita? Bisognava temerlo più che sperarlo. Si decise comunque di rimandare la caccia alle prime luci dell’alba, ma verso l’una di notte si udì un fischio assordante, come quello di una violenta colonna d’acqua sparata fuori al massimo della pressione. “Ned Land – chiesi al fiociniere – le avete mai sentite fischiare le balene?” “Spesso, signore: ma non di quelle che possono procurarti duemila dollari.” “Ok, avete diritto al premio, ma vorrei sapere, questo rumore non è quello che fanno i cetacei quando buttano l’acqua dal dorso?” “Lo stesso, però molto più forte. Anch’io credo sia un cetaceo e domani all’alba gli dirò io due parole”. “Se è disposto a starvi a sentire” dissi poco convinto. “Che provi ad avvicinarsi e dovrà ascoltarmi per forza!” Restammo in allerta fino al mattino preparandoci al combattimento. - 29 -
Gli attrezzi per la pesca furono disposti lungo i parapetti, furono caricati cannoni in grado di lanciare la fiocina lontano un miglio e vennero preparate le carabine le cui cariche esplosive procurano ferite mortali anche agli animali più coriacei. Ned Land si era messo ad affilare la fiocina, un’arma terribile in mano sua. Alle sei si cominciò a vedere l’alb, e alle prime luci dell’aurora il bagliore elettrico del narvalo si spense. Alle sette l’orizzonte era coperto da una densa foschia mattutina che impediva la vista. Ciò procurò delusione e collera. Raggiunsi l’albero maestro dove già stavano in vedetta alcuni ufficiali. Alle otto la nebbia si dissolse sulle onde e l’orizzonte si schiarì lasciando libera la vista. D’improvviso, come il giorno prima, Ned Land si fece sentire. “Quell’affare, è dietro, a sinistra!” Tutti gli occhi si volsero al punto indicato. Là, a un miglio e mezzo dalla fregata, un lungo corpo nero emergeva almeno per un metro dal pelo dell’acqua. La sua coda, agitata violentemente schiumava l’acqua. Una scia immensa, di un biancore smagliante, segnava il passaggio dell’animale e descriveva una lunga curva. La fregata si accostò al cetaceo. Lo esaminai con attenzione. I precedenti rapporti ne avevano un po’ esagerate le misure, calcolai la sua lunghezza di circa 60 metri. Quanto alla larghezza, non potevo rendermene conto con esattezza, ma, tutto sommato, la bestia mi parve perfettamente proporzionata nelle sue dimensioni. Mentre osservavo quell’essere, due getti d’acqua e vapore uscirono violentemente dagli sfiatatoi e salirono a un’altezza di quaranta metri, il che mi erudì circa il suo apparato di respirazione. Ne conclusi senz’altro che apparteneva al ramo dei vertebrati, classe dei mammiferi, sottoclasse dei monodelfi, gruppo dei pisciformi, ordine
Monodelfi: marsupiali dell’America meridionale. - 30 -
dei cetacei; l’ordine dei cetacei, comprende tre famiglie: le balene, i capidogli, i delfini e in quest’ultimi ci sono i narvali. Gli uomini dell’equipaggio attendevano impazienti gli ordini del capo. Costui, osservato attentamente l’animale, fece chiamare il macchinista. “C’è la pressione sufficiente?” “Sissignore.” “Bene. Forzare i fuochi e a tutto vapore!” Tre urrà seguirono quell’ordine. Era annunciata l’ora della lotta. Dopo qualche istante i due fumaioli della fregata eruttavano torrenti di fumo nero mentre il ponte vibrava sotto il tremito delle caldaie. L’Abraham Lincoln, si gettò verso l’animale. Quello lo lasciò arrivare a un centinaio di metri; poi, senza immergersi, fece velocemente dietro front. L’inseguimento durò circa tre quarti d’ora, senza che la fregata riuscisse a raggiungere il mostro. Il comandante Farragut arrotolava con rabbia il superbo ciuffo di peli che gli crescevano sul mento. “Ned Land!” gridò. Il canadese si fece avanti. “È giunta l’ora di usare le armi, quando saremo a una distanza conveniente attacchiamo col cannone.” Immediatamente venne caricato il cannone di prua e, dopo esser stato puntato, il colpo partì. La palla passò poco sopra al cetaceo, che si trovava a mezzo miglio di distanza. “Un altro colpo, avanti! E cinquecento dollari a chi bucherà quella bestiaccia!” Un vecchio cannoniere dalla barba grigia, mise l’arma in posizione e mirò a lungo. Scoppiò una forte boato, cui si unirono le grida dell’equipaggio. Il proiettile colpì nel segno, toccò la bestia, ma non come tutti si aspettavano; rimbalzò sulla sua superficie e andò a perdersi fra le onde. “Questa poi” fece il cannoniere.“Sta a vedere che quell’animale è corazzato da una lamina d’amianto”. “Maledizione!” urlò il comandante. - 31 -
L’inseguimento continuò fino a notte fonda, poi il buio fece perdere di vista l’animale che ricomparve verso le dieci e cinquanta del mattino a tre miglia dalla fregata. Il narvalo pareva immobile. Forse dormiva, stanco della giornata, lasciandosi cullare dalle onde. Il comandante Farragut pensò bene di approfittare della situazione e impartì gli ordini. L’Abraham Lincoln avanzava con prudenza per non svegliare l’avversario. Non è cosa rara trovare in pieno oceano balene profondamente addormentate che si possono attaccare con successo e Ned Land, il quale ne aveva già fiocinata una durante il sonno, andò a rimettersi al suo posto di combattimento. A bordo non si respirava, sul ponte regnava un profondo silenzio; eravamo a neppure trenta metri dall’animale infuocato, il cui fulgore aumentava, abbagliandoci. Sopra di me, vedevo Ned Land aggrappato con una mano alla corda mentre con l’altra brandiva la terribile fiocina. Sei metri appena lo separavano dall’animale immobile. All’improvviso stese il braccio di scatto e la fiocina partì. Sentii il colpo sordo del ferro che sembrò aver urtato un corpo duro. Subito il chiarore elettrico si spense e due enormi cascate d’acqua s’abbatterono sul ponte scorrendo come un torrente, rovesciando gli uomini e spezzando le zattere. Avvenne un urto spaventoso ed io fui lanciato in aria e mi ritrovai in mare.
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Capitolo 7
Una balena di specie ignota
Venni trascinato alla profondità di circa sei metri. Sono un buon nuotatore e tornai a galla con un paio di energici colpi di tallone. Ero frastornato per quel volo inatteso, ma non avevo sospeso la mia vigilanza. Scrutai nelle tenebre per rintracciare l’Abraham Lincoln. Si erano accorti della mia sparizione? “Aiuto!” gridai, ma gli abiti intrisi d’acqua mi trascinavano a fondo. Ero paralizzato, cominciai a bere, stavo annegando. A un tratto una mano mi afferrò per la giacca, mi sentii riportare a galla, e riuscii a udire queste parole: “Se il signore vuole essere così gentile da appoggiarsi alla mia spalla, nuoterà con più facilità”. Acchiappai il braccio del fedele Consiglio. “Tu, Consiglio!” “Per l’appunto e agli ordini del signore”. “Sei finito in mare? Quell’onda. . . !” “Nessun’onda. Essendo io al servizio del signore, ho ritenuto doveroso seguirla.” Il bravo ragazzo trovava la cosa naturalissima. “E la fregata?” “La fregata. . . credo che il signore farà bene a non contarci.” “Cosa dici mai, Consiglio!” “Dico che mentre mi gettavo in mare, ho sentito i timonieri che diceva- 33 -
no che elica e timone si erano spezzati.” “Spezzati?” “Spezzati dai denti del mostro. “Siamo perduti, Consiglio!” “Forse, – rispose tranquillo – però abbiamo qualche ora davanti a noi e in qualche ora succedono molte cose. Rincuorato dalla sua sicurezza ripresi a nuotare al suo fianco, ma i miei abiti pesavano come il piombo e mi stringevano facendomi faticare al massimo. “Il signore mi permetta di fare un’incisione” disse e infilando un coltello sotto i miei vestiti, li tagliò dall’alto in basso con un rapido gesto e così alleggerito, continuai a nuotare al suo fianco. Ma niente accadeva, la fregata era sempre più lontana. Potevamo forse sperare in qualche altra imbarcazione. Decisi di condividere le nostre forze per non esaurirle simultaneamente: mentre uno di noi, supino, si sarebbe mantenuto a galla con le braccia in croce e le gambe allungate, l’altro avrebbe nuotato spingendolo avanti. Dandoci il cambio ogni dieci minuti avremmo potuto nuotare per alcune ore, forse anche fino all’alba. La collisione tra la fregata e il cetaceo era avvenuta verso le undici di sera, sicché potevamo contare su otto ore di nuoto prima del sorgere del sole. A rigore, dandoci il turno, avremmo potuto farcela; il mare, tranquillo, non ci avrebbe stancato troppo. Ogni tanto provavo a scrutare le tenebre fitte, rotte solo dai riflessi procurati dai nostri stessi movimenti; guardavo le spume d’acqua che si frangevano sulla mia mano, mentre intorno a noi il mare era come chiazzato di macchie livide. Si sarebbe detto che eravamo immersi in un bagno di mercurio. Verso l’una, una grande stanchezza mi colse, le membra si irrigidirono sotto il morso di violenti crampi. Consiglio dovette sostenermi, povero ragazzo, aveva il respiro corto e frequente, capivo che non avrebbe resistito per molto. - 34 -
Gli dissi di lasciarmi andare. “Abbandonare il signore? Non sia mai! Ho intenzione di affogare io, prima di lui.” In quel momento la luna si fece vedere attraverso i contorni di un’enorme nuvola che il vento trascinava verso est. La superficie del mare brillò sotto i raggi e quella luce benedetta riuscì a rianimarci. Tirai su la testa, guardai l’orizzonte e vidi la fregata: era a cinque miglia da noi, un’impercettibile massa scura; altre imbarcazioni, nemmeno una! Volevo gridare, ma dalle labbra disfatte dall’acqua non poté uscire alcun suono. Consiglio provò a articolare qualche parola, e lo sentii ripetere più volte: “Aiuto, aiuto!” Mi parve di udire un grido di risposta o forse era il ronzio del sangue. Restammo immobili, con l’orecchio teso. “Senti?” mormorai. Stavolta, non c’era da sbagliarsi: una voce umana stava rispondendo alla nostra. Era la voce di qualche disgraziato abbandonato in mezzo all’oceano, di qualche altra vittima dello scontro? Oppure una scialuppa della fregata ci chiamava nell’oscurità? Consiglio compì un ultimo sforzo e, appoggiandosi sulla mia spalla, si spinse per metà fuori dall’acqua e poi ricadde esausto. “Cosa hai visto, Consiglio?” “Ho visto… ho visto. . . ma non parliamo. . . conserviamo le forze!” Che diavolo aveva veduto? Non so perché, ma il pensiero del mostro mi attraversò la mente. A fatica Consiglio mi rimorchiava ancora. Alzava il capo ogni tanto, guardava davanti a sé, mandava un richiamo al quale rispondeva una voce sempre più vicina. Io udivo appena, ero al termine delle forze, le dita non tenevano la presa, la bocca si riempiva d’acqua salata, il freddo mi invadeva. Risollevai la testa un’ultima volta, poi sprofondai.
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Proprio in quell’istante fui urtato da una cosa dura, mi aggrappai e sentii che mi tiravano su. Venivo riportato a galla, mandai un grosso respiro e persi i sensi. Tornai in me grazie a certi vigorosi massaggi su tutto il corpo. Riaprii gli occhi. “Consiglio. . . mormorai”. Agli ultimi chiarori della luna intravidi il volto fermo di Consiglio e qualcuno che non mi sarei mai aspettato di ritrovare un quella situazione. “Ned?” “In carne ed ossa, signore: inseguo il mio premio!” “È precipitato in mare per la collisone?” “Sì, signor professore, ma sono stato più fortunato di voi, sono approdato su un’isola galleggiante”. “Un’isola?” “Più che di un’isola si tratta del vostro narvalo gigante”. “Spiegatevi, Ned.” “Ho anche capito perché la fiocina è tornata indietro”. “Perché, Ned?” “Perché quella bestia, signor professore, è fatta di lamiera”. Tastai col piede la piattaforma che ci sorreggeva; evidentemente si trattava di un corpo duro, impenetrabile, e non fatto della materia che costituisce la massa dei grossi mammiferi marini. Quel corpo duro poteva essere una carcassa ossea, simile a quella degli animali preistorici, e così me la sarei cavata classificando il mostro tra i rettili anfibi, come le tartarughe o gli alligatori. E invece no, la groppa nerastra che mi sosteneva era liscia, lucida e a toccarla, mandava una sonorità metallica. Non si poteva più dubitare: l’animale, il mostro, l’essere che aveva sconvolto l’immaginazione dei marinai dei due mondi, era un fenomeno ancora più sbalorditivo, un fenomeno creato dalla mano dell’uomo. La scoperta di un essere favoloso e mitologico non mi avrebbe sorpreso ugualmente, eppure non c’era nient’altro da dire: eravamo sul dorso di - 36 -
una specie di battello sottomarino che aveva la forma di un immenso pesce d’acciaio. “Allora – dissi io – quest’apparecchio deve avere dentro un mezzo di locomozione e un equipaggio.” “Evidentemente” – rispose il fiociniere.“Tuttavia non ha dato alcun segno di vita da quando sono qua. “Non si è mosso?” “No, signor Aronnax. È fermo”. “Però sappiamo che potrebbe contenere un equipaggio e questo vorrebbe dire che siamo salvi. “Uhm…” replicò Ned Land. Quasi a darmi ragione, si udì un ronzio dalla parte posteriore dell’apparecchio, il cui propulsore era evidentemente ad elica, e l’oggetto si mise in moto, prima lentamente, poi con una certa velocità. Ci restò appena il tempo di aggrapparci ad una sporgenza che emergeva di circa ottanta centimetri. Per fortuna, la rapidità non era eccessiva. “Finché naviga orizzontalmente – mormorò Ned Land – niente da dire. Ma se gli piglia il ghiribizzo di immergersi. . . allora siamo finiti”. Diventava a questo punto urgente comunicare con gli esseri, chiunque essi fossero, che stavano all’interno. Cercai un’apertura, uno sportello, un qualunque passaggio: ma le file di bulloni, ben ribattute sulle giunte della lamiera, erano perfettamente sigillate. Bisognava attendere il giorno per pensare al modo di penetrare nel battello sottomarino. Verso le quattro del mattino la velocità di andatura crebbe. Resistevamo con difficoltà al vertiginoso spostamento. Per fortuna Ned mise la mano sopra un grande anello fissato alla parte superiore della lamiera e a quello ci potemmo attaccare. Il giorno spuntò. Le nebbie del mattino ci avvolsero, ma non tardarono a dissolversi. Mi disponevo a un attento esame del guscio che formava nella parte superiore una specie di piattaforma orizzontale, quando lo sentii spro- 37 -
fondare a poco a poco. “Per mille diavoli!” esclamò Ned Land, picchiando col piede la lamiera sonora.“Aprite un po’, naviganti inospitali!” Era difficile farsi sentire in mezzo al battere assordante dell’elica. Grazie al cielo, il movimento di immersione cessò. A un tratto, un chiasso di ferraglie si produsse all’interno. Una placca si sollevò, un uomo apparve, disse strane parole e subito sparì. Alcuni istanti dopo, otto uomini robusti dal viso velato si fecero avanti senza dire parola e ci trascinarono nel loro incredibile mezzo.
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Capitolo 8
Mobilis in mobile
Il rapimento, così inaspettato, era avvenuto in un attimo. Non so cosa provassero gli altri sentendosi infilare in quella prigione galleggiante, ma per conto mio so che un brivido gelido mi percorse la schiena. Con chi avevo a che fare? Con dei pirati forse? Appena lo sportello si chiuse sopra di noi, una profonda oscurità ci avvolse. Gli occhi, ancora abbagliati dalla luce esterna, non videro più nulla e i nostri piedi s’aggrapparono istintivamente ai pioli d’una scala di ferro. Arrivati in fondo, una porta s’aprì e si richiuse alle nostre spalle con un colpo secco. Eravamo soli. Tutto era nero, ma di un nero così totale che dopo alcuni minuti le mie pupille non erano in grado di cogliere nemmeno un’ombra. Ned Land, furioso, non tratteneva la sua rabbia. “Per mille diavoli! Questa gente in quanto a ospitalità è peggio dei barbari! Ci manca solo che siamo capitati in bocca ai cannibali. Non mi stupirebbe, ma vi assicuro che non mi lascerò mangiare tanto facilmente”. “Calmatevi, caro Ned, calmatevi” intervenne tranquillamente Consiglio.“Non perdiamo il controllo, non siamo ancora sul girarrosto!” “Nel girarrosto no; ma nel forno sì. Per fortuna ho il mio coltello e il primo bandito che mi mette le mani addosso. . .” “Tranquillo, Ned – dissi io con fermezza – e non cediamo alla violenza.
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Potrebbero ascoltarci; cerchiamo invece di sapere dove siamo.” Mi misi a camminare nel buio, a tentoni come un cieco senza bastone. Dopo cinque passi incontrai una parete di ferro. Poi, voltandomi, urtai contro una tavola di legno presso cui stavano allineati alcuni sgabelli. Il pavimento di quella prigione era coperto da una stuoia che attutiva il rumore dei passi. I muri, spogli, non avevano tracce né di porte né di finestre. Quanto all’altezza, Ned Land, nonostante la sua statura, non arrivava a toccare il soffitto. Consiglio, facendo un giro in senso opposto, mi incontrò e ritornammo in mezzo alla cabina che era lunga e stretta. Una mezz’ora era già trascorsa senza che la situazione fosse mutata, quando improvvisamente passammo da quel buio totale a una luce violenta. La prigione si rischiarò riempiendosi di una materia luminosa così viva che non riuscivo a sopportarla. Chiusi gli occhi e quando li riaprii, vidi che la luce proveniva da un mezzo globo smerigliato che si trovava nella parte superiore della cabina. “Finalmente la luce”, esclamò il canadese che, col coltello in mano, era rimasto in atteggiamento di combattimento. “Sì – replicai azzardando un paradosso – ma la situazione non è meno buia di prima.” “Il signore abbia pazienza” suggerì l’impassibile Consiglio. L’improvvisa illuminazione mi aveva permesso di esaminare ogni particolare. C’erano una tavola e cinque sgabelli, la porta doveva essere invisibile e chiusa ermeticamente. Nessun rumore giungeva alle nostre orecchie. Tutto pareva morto. Speravo che gli uomini dell’equipaggio non tardassero a mostrarsi. Non mi sbagliavo; infatti a un certo punto si udì un rumore di catenacci, la porta si aprì e comparvero due uomini. Uno piuttosto basso, muscoloso e largo di spalle, capigliatura abbondante e baffi folti, sguardo vivo e penetrante. L’altro, con un’età indefinibile tra i trenta e i cinquananni mi ispirò rispetto - 40 -
dal primo momento e capii che doveva essere il comandante di bordo: alto, fronte larga, naso diritto, bocca nettamente disegnata, denti perfetti, dita allungate aveva un’espressione ferma e nello stesso tempo quieta. Entrambi indossavano berretti di pelo di lontra marina e stivali di pelle di foca; portavano abiti di tessuto leggero che lasciavano ampia libertà di movimenti. L’uomo alto ci esaminò con estrema attenzione, senza dire parola. Poi, rivolgendosi al compagno, gli parlò in una lingua sconosciuta. L’altro rispose tentennando col capo e aggiunse due o tre parole assolutamente incomprensibili, poi sembrò interrogarmi con lo sguardo. Risposi, in buon francese, che non capivo il suo linguaggio. Ci sembrò però, che non comprendesse neanche lui e la situazione diventò imbarazzante. “Il signore potrebbe provare ugualmente a raccontare la nostra storia – mi suggerì Consiglio – forse questi signori ne afferreranno qualche parola”. Incominciai la narrazione delle nostre avventure, articolando chiaramente ogni sillaba, senza tralasciare nemmeno un particolare. Presentai me stesso, così feci con il mio servitore Consiglio, nonché con Ned Land il fiociniere. L’uomo alto mi ascoltò tranquillamente e con attenzione, ma dalla sua espressione non trapelava alcuna forma di comprensione. Quando ebbi finito, non disse nemmeno una parola. “A lei ora – dissi al fiociniere – tocca a lei Ned: provate con l’inglese e cercate di essere più fortunato di me.” Ned non si fece pregare e iniziò il mio stesso racconto. Sicuramente ci mise del suo: si lamentò violentemente d’essere stato intrappolato in quella piattaforma galleggiante, minacciò di perseguire coloro che lo avevano sequestrato, si dimenò, gesticolò e infine, accompagnandosi con gesti espressivi, disse che morivamo di fame. Cosa verissima, ma a cui, in quel momento, non facevo caso. Con nostro grande stupore i nostri visitatori non mossero ciglio.
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Evidentemente non sapevano né il francese, né l’inglese. Imbarazzatissimo, non sapevo più che pesci prendere quando Consiglio propose: “Se il signore mi autorizza, racconterò ogni cosa in tedesco”. “Davvero? Tu sai il tedesco?” esclamai. “Perfettamente” rispose e con voce tranquilla, raccontò per la terza volta le diverse peripezie del viaggio. Ma nonostante il suo parlare composto e il bell’accento, anche questa lingua non ebbe successo. Allora, preso da disperazione, raccolsi i ricordi dei miei passati studi e mi misi a ripetere le nostre avventure in latino. Cicerone si sarebbe tappato le orecchie: comunque non riuscii a cavarmela: nemmeno un cenno di comprensione da parte loro. Fallito anche questo tentativo, gli sconosciuti scambiarono qualche incomprensibile parola e si ritirarono senza neppure rivolgerci uno sguardo. La porta si richiuse. “È un’infamia!” strillò Ned Land.“Si parla in francese, inglese, tedesco, latino e quei farabutti, non hanno nemmeno l’educazione di rispondere!” “Calmatevi, Ned – dissi al fiociniere – la collera non porta a nulla”. “Ma vi rendete conto, signor professore – replicò ancora – che si muore di fame in questa gabbia di ferro?” “Ma… – fece Consiglio, –… si può resistere, resistere ancora per un pezzo.” Mentre continuava a lamentarsi, la porta si aprì. Uno steward entrò portando abiti, giacche e calzoni da naviganti; fatti con una stoffa che non avevo mai visto. Mi affrettai a indossarli e gli altri mi imitarono. Intanto lo steward aveva apparecchiato la tavola per tre. “Si comincia a far sul serio!” disse Consiglio. “Mah… – ribatté astioso il fiociniere – che diavolo ci daranno mai da mangiare? Fegato di tartaruga, filetto di pescecane, bistecca di squalo?” I piatti, riparati da una campana d’argento, furono disposti con ordine - 42 -
al centro della tavola. Ci sedemmo e bevemmo l’acqua fresca e limpida. Consumammo le pietanze, c’erano pesci delicatamente cucinati. Altri cibi, invece, non avrei neppure saputo dire a quale regno, vegetale o animale, potessero appartenere. Quanto al servizio da tavola, era elegante e di buon gusto. Placati i morsi della fame notammo che ogni cucchiaio, forchetta, coltello, piatto, recava la lettera N circondata da un motto, di cui il fac–simile esatto era:
Mobilis in mobile ovvero: mobile nell’elemento mobile.
Il motto andava a pennello per il sottomarino. La lettera N, senza dubbio, doveva essere l’iniziale del nome dell’enigmatico personaggio che comandava il mezzo. Ormai ero tranquillo circa la nostra sorte e mi pareva chiaro che chi ci ospitava non voleva lasciarci morire di fame e di sete.
Mobilis in mobile: mobile nell’elemento mobile. Mobile significa che si muove. L’elemento mobile è il mare, quindi: cosa che si muove nel mare. - 43 -
Il sonno a quel punto si fece sentire. Ned e Consiglio si distesero sul tappeto della cabina e poco dopo erano immersi nel sonno. Quanto a me, troppi pensieri si accumulavano nella mente, troppe immagini si insinuavano tra le palpebre socchiuse. ll mio cervello pian piano si calmò e caddi anch’io in un profondo sonno.
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Capitolo 9
La collera di Ned Land
Quanto sia durato quel sonno non so, ma doveva essere stato lungo, poiché mi sentivo completamente riposato. Mi svegliai per primo. I compagni non si erano ancora mossi. Mi guardai intorno, nulla era mutato ad eccezione della tavola che era stata sparecchiata. Mi sentivo il petto stranamente oppresso. Avevo il respiro corto, l’aria di quella stanza non bastava più ai miei polmoni. Benché la cella fosse ampia, era evidente che avevamo consumato gran parte dell’ossigeno che conteneva. Infatti, ogni uomo consuma in un’ora l’ossigeno di cento litri d’aria, e quell’aria, ormai carica d’anidride carbonica, era diventata irrespirabile. Era urgente rinnovare l’atmosfera della prigione. Come si regolava il capitano in proposito? Otteneva l’aria con mezzi chimici? Si limitava a immagazzinare l’aria sotto l’alta pressione, oppure, procedimento più comodo, più economico e quindi più probabile, portava ogni ventiquattr’ore quel mezzo in superficie come un cetaceo, per rinnovare la provvista di atmosfera? Comunque stessero le cose, ero ormai ridotto a moltiplicare le inspirazioni per assorbire il poco ossigeno che la cabina conteneva, quando, all’improvviso, fui rinfrescato da una corrente d’aria pura profumata di esalazioni saline. Era la brezza del mare, vivificante, salubre. Spalancai la bocca, mentre - 45 -
i polmoni si saturavano di fresche molecole. Quando ebbi assorbito l’aria a pieni polmoni, cercai il condotto dal quale essa proveniva e non tardai a trovarlo. Sopra la porta s’apriva un foro che lasciava passare una fresca colonna d’aria. Ned e Consiglio si svegliarono quasi contemporaneamente sotto l’influsso della benefica aerazione. Si sfregarono gli occhi, stirarono le braccia e balzarono in piedi. “Il signore ha dormito bene?” domandò Consiglio con la solita cortesia. “Benissimo figliolo. E lei mastro Land?” “Profondamente, signor professore. Ma, non so se sbaglio, mi par di respirare una brezza di mare”. Un marinaio non poteva ingannarsi e raccontai quindi al canadese ciò che era successo mentre stava dormendo. “Benone! Soltanto, signor Aronnax, non ho un’idea dell’ora. . . non sarà mica l’ora di mangiare? Sono affamato un’altra volta, abbiamo dormito un sacco”. “Ebbene Ned, aspettiamo – risposi – evidentemente questi sconosciuti non hanno intenzione di farci morire di fame, altrimenti la cena di ieri sarebbe senza senso”. “A meno che non ci ingrassino per poi divorarci” azzardò Ned Land. “Lasci perdere queste idee mastro Land e soprattutto non si arrabbi con loro, non servirebbe a nulla”. Ned a bassa voce continuò: “Professor Aronnax, sia franco: pensa che ci terranno un pezzo in questa scatola di ferro?” “A dire il vero, ne so quanto lei, ma le ripeto: attendiamo, vediamo come vanno le cose e non facciamo niente, visto che non c’è niente da fare.” “No , professore! – esclamò il fiociniere, alzando improvvisamente la voce – bisogna fare qualcosa”. “Certo, ma che cosa?” “Scappare”. “Scappare da una prigione terrestre non è facile, ma da una sottomari- 46 -
na mi pare impossibile”. Ned restò qualche secondo in silenzio, poi riprese: “Possiamo sì andarcene, ma dopo aver buttato fuori carceriere, secondini e guardiani”, “Come, Ned? Pensa sul serio di impadronirsi del sottomarino?” “Certamente.” “È impossibile, loro sono senz’altro più di noi.” “Perché, signore? Potrebbe comunque capitare un’occasione favorevole e non vedo chi potrebbe impedirci di approfittarne.” Era meglio ammettere la proposta, piuttosto che discuterla. Mi contentai quindi di rispondere: “Lasciamo maturare l’occasione, mastro Land e poi si vedrà. Intanto, mi raccomando, trattenga l’impazienza.” Smettemmo di parlare e ognuno si mise a riflettere per conto proprio. Ragionavo sul fatto che il battello doveva avere un equipaggio numeroso per poter essere manovrato e in caso di lotta avremmo avuto la peggio. Quanto alla nostra segregazione in fondo alla cella, non osavo prevedere quanto sarebbe durata. Le speranze nate dopo la visita del comandante di bordo svanivano a poco a poco. Ma insomma, quell’uomo ci avrebbe lasciati morire d’inedia, chiusi nella prigione angusta, in preda a una fame feroce? L’orrendo pensiero mi si ficcò in testa con terribile intensità e, con l’aiuto dell’immaginazione, mi sentii invadere da uno spavento incontrollabile. Consiglio rimaneva calmo. Ned Land invece diventava sempre più nervoso e temevo in un’esplosione di rabbia non appena si fosse trovato di fronte a qualcuno dell’equipaggio. Proprio allora si udì un rumore all’esterno. Risuonarono dei passi, una chiave girò nella toppa, la porta si aprì e comparve lo steward. Prima che io facessi qualsiasi movimento per impedirlo, il canadese si - 47 -
era precipitato sull’uomo, lo aveva messo a terra e lo stringeva alla gola imprecando a piĂš non posso. Lo steward soffocava sotto quella mano possente. Mentre Consiglio cercava di toglierlo dalle grinfie del fiociniere, udimmo le seguenti parole, dette in francese: “Calma, mastro Land. E lei, professore, per favore mi ascolti.
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Capitolo 10
L’uomo delle acque
Era il comandante di bordo che aveva fatto il suo ingresso nella stanza di lamiera. Ned lasciò la presa. Lo steward, barcollante, uscì a un cenno del comandante che, appoggiato all’angolo della tavola con le braccia incrociate, ci osservava con profonda attenzione. Dopo qualche istante, disse con tono calmo: “Signori, io parlo il francese, l’inglese, il tedesco e il latino. Avrei dunque potuto rispondervi ieri, ma volevo prima conoscervi e riflettere. II vostro modo di raccontare mi ha svelato le caratteristiche della vostra personalità e ho anche imparato i vostri nomi: adesso conosco chi è Pierre Aronnax, professore di storia naturale al Museo di Parigi, Consiglio, suo domestico e Ned Land d’origine canadese, fiociniere a bordo della fregata Abraham Lincoln. Chinai la testa in segno d’assenso. Riprese: “Certamente, signore, ho tardato a farvi una seconda visita per maturare la decisione da prendere verso di voi. Ho esitato assai. Circostanze incresciose vi hanno messo dinanzi a un uomo che ha rotto i ponti con l’umanità. Voi siete venuti a turbarmi l’esistenza.” “Non per nostra scelta” replicai. “Non per vostra scelta?” fece lui, alzando la voce. “Involontariamente l’Abraham Lincoln mi dà la caccia su tutti i mari? Involontariamente avete preso posto a bordo della fregata? - 49 -
Involontariamente, i vostri proiettili hanno colpito lo scafo della mia nave?” “Signore, forse non conosce cosa si dice di lei e degli incidenti causati dal suo sottomarino in America e in Europa. Ma sappiate che inseguendola per i mari del Pacifico, l’Abraham Lincoln credeva di cacciare un potente mostro marino di cui bisognava ad ogni costo liberare l’oceano”. Un lieve sorriso sfiorò le labbra del comandante: “Signor Aronnax – replicò con più calma – oserebbe affermare che la fregata non avrebbe attaccato un sottomarino?” La domanda mi imbarazzò, Il comandante Farragut non avrebbe infatti esitato a distruggere un apparecchio di quel genere, così come un gigantesco narvalo. “Capirà dunque, signore – continuò lo sconosciuto – che ho il diritto di trattarvi da nemico”. Non risposi. Effettivamente non avevo niente da aggiungere. ”Nulla mi obbligava a darvi ospitalità. Avrei potuto lasciarvi sul dorso del mio mezzo immergendomi sott’acqua. Non era mio diritto?” “Era forse il diritto d’un selvaggio, non di un uomo civile”. “Professore – replicò deciso – io non sono quello che lei chiama un uomo civile. Ho chiuso con l’intera società per motivi miei. Quindi non obbedisco alle sue regole e la invito a non invocarle mai davanti a me”. Mentre parlava un lampo di collera e di sdegno gli illuminava gli occhi. Cominciavo a intuire nella sua vita un formidabile passato. Dopo una lunga pausa, il comandante riprese il discorso. “Quindi, ripeto, ho esitato. Ma poi ho deciso che resterete a bordo con me, dato che il destino vi ha condotti qui. Sarete liberi, ma assoggettati alle mie regole. Può darsi che qualche imprevisto mi obblighi a chiudervi in cabina per alcune ore o alcuni giorni. Desiderando non usare mai con voi la violenza, in tal caso conterei su di lei più ancora che sugli altri, per ottenere da voi tutti un’obbedienza passiva. Accettate?” “Accettiamo”, risposi,“soltanto, vorrei porle una sola domanda”. “Mi dica, signore”. - 50 -
“Ha detto che qui saremo liberi?” “Completamente”. “Le chiederò dunque cosa intendete per libertà”. “Quella d’andare, venire nei locali del sottomarino, di vedere, osservare tutto ciò che qui dentro succede”. “Mi scusi, signore, ma questa è la libertà che ha ogni prigioniero di percorrere la propria prigione! Non può bastarci”. “Eppure, bisognerà che vi basti!” “Come? Dovremo rinunciare per sempre alla patria, agli amici, ai parenti?” “Sì, signore. Ma così rinunzierete a sottomettervi alle insopportabili leggi della terra, che gli uomini credono sia libertà”. “Signore – replicai inquietandomi – sta abusando della situazione! È una crudeltà!” “No, è clemenza! Siete miei prigionieri. Potrei immergervi di nuovo negli abissi dell’oceano. Mi avete attaccato voi. Siete venuti a sorprendere un segreto che nessuno al mondo doveva conoscere, il segreto di un’intera esistenza. E credete che vi rimanderò proprio su quella terra dove non si deve sapere più nulla di me?! Mai!” “Cosicché lei ci dà semplicemente la possibilità di scegliere tra la vita e la morte.”“Per l’appunto”. Poi, con tono meno aggressivo, riprese: “E ora, permettetemi di finire quel che ho da dirvi. La conosco, signor Aronnax, so della passione che nutre per gli studi. Troverà tra i libri che uso, il lavoro che ha pubblicato sui fondi del mare. L’ho letto, è stato bravo, ma non sa tutto, non ha visto tutto. Con me viaggerà nel Paese delle Meraviglie. Credo che lo stupore e l’ammirazione diventeranno un’abitudine per il suo spirito e non si stancherà tanto presto delle sorprese che incontrerà. Vedrà cose che nessun uomo ha ancora visto. Mi lasci dire, professore: non rimpiangerà il tempo trascorso con me”. Inutile negarlo: quelle parole mi fecero un grande effetto. Perciò mi - 51 -
limitai a rispondere: “Signore, siamo naufraghi caritatevolmente accolti da voi, e accettiamo le vostre condizioni”. Credevo che qui il comandante tendesse la mano a suggellare il patto, ma non lo fece. “Un’ultima domanda” dissi proprio mentre stava per lasciare la stanza. “Con quale nome debbo chiamarvi?” “Per voi sono il capitano Nemo. Voi e i vostri compagni, siete per me i passeggeri del Nautilus.” Il capitano Nemo chiamò lo steward e gli impartì ordini in quell’idioma straniero che non conoscevo, poi volgendosi al canadese e a Consiglio: “Il pasto vi attende in cabina”. Andammo dietro al capitano Nemo e appena passata la porta attraversammo un corridoio rischiarato elettricamente, simile alla corsia di una nave. Dopo un percorso di una decina di metri, una seconda porta si aprì dinanzi a noi. Entrammo in una sala da pranzo ornata e ammobiliata con gusto severo; alle due estremità vi erano alte credenze di quercia intarsiate d’ebano, con ceramiche, porcellane e cristalli di grande valore. Il capitano Nemo m’indicò il posto assegnatomi per la sontuosa colazione. “Accomodatevi e mangiate, capisco che siete quasi morti di fame”. Il pasto si componeva di vari piatti esclusivamente di mare e di alcune pietanze di natura e provenienza a me ignote. Il capitano mi guardava. “La maggior parte di queste vivande non la conoscete. Tuttavia ve ne potete servire senza timore: sono sane e nutrienti. Io ho rinunziato da un pezzo agli alimenti della terra e sto benone. E anche l’equipaggio, che è robusto, si nutre come me”. “Quindi, sono tutti prodotti del mare?”
Ebano: legno pregiato compatto e scuro di un albero dell’arcipelago malese. - 52 -
“Sì, professore, il mare basta a tutte le mie necessità. A volte getto le reti che poi ritiro cariche da sfondarsi, altre volte mi immergo per la pesca subacquea”. “E questa?” feci io mostrando un piatto dove rimaneva ancora qualche fetta di filetto. “Credete che sia carne, ma è tartaruga di mare. Qua c’è del fegato di delfino, che prendereste per stufato di maiale. Il cuoco è molto bravo ed è specializzato nel conservare i diversi prodotti dell’Oceano. Assaggiate tutto, ma permettetemi di offrirvi marmellata d’anemoni, che non è da meno di quella dei frutti colti dall’albero”. Io, più da curioso che da buongustaio, assaggiavo ogni pietanza, mentre il capitano m’incantava coi suoi inverosimili racconti. “Il mare signor Aronnax, non mi nutre soltanto: mi veste anche. Le stoffe che vi ricoprono sono tessute con bisso di conchiglia, tinte con la porpora e sfumate con i colori violetti che estraggo nel Mediterraneo. I profumi che troverete sulla toeletta della cabina sono prodotti dalla distillazione di piante marine, i materassi sono di morbide alghe dell’oceano, l’inchiostro è il liquido delle seppie o dei calamaretti. Ricevo ogni cosa dal mare e ogni cosa gli renderò un giorno”. “Lo ama molto, il mare, capitano”. “Oh, sì! L’amo. Il mare è tutto: copre i sette decimi del globo. Ha sopra di sé un’aria pura e sana, è il deserto immenso dove l’uomo non è mai solo, perché la vita gli freme accanto. Il mare è il luogo di un’esistenza soprannaturale e prodigiosa, è movimento e amore, è l’in-
Anemone di mare: è un tipo di polipo urticante che vive nei fondali marini abbarbicato alle rocce. Per forme e colori può essere paragonato al fiore da cui prende il nome. Bisso di conchiglia: è una sostanza, prodotta da una particolare conchiglia, costituita da filamenti simili alla seta. Nel passato veniva lavorato per produrre tessuti molto preziosi; attualmente la conchiglia è protetta e a rischio di estinzione. Verne usa il termine anche per indicare la parte molle con cui le conchiglie aderiscono alla roccia.
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finito vivente. Infatti la natura vi si manifesta nei tre regni: minerale, vegetale, animale. È suprema tranquillità, perché non soggiace ai despoti, i quali, sulla sua superficie, possono invece continuare a esercitare iniqui diritti, a battersi, a divorarsi, a distruggersi. Ma in profondità, la loro influenza si estingue e il loro potere scompare. Lì soltanto c’è indipendenza, lì c’è libertà”. Il capitano Nemo tacque all’improvviso, Aveva parlato troppo? Per un momento passeggiò in avanti e indietro, agitatissimo. Poi si calmò, riprese la freddezza consueta e si voltò verso di me: “E ora, professore, se desidera visitare il Nautilus sono ai suoi ordini”.
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Capitolo 11
Il Nautilus
Seguii il capitano in una grande sala, la biblioteca. Su massicce librerie in palissandro nero che occupavano completamente le pareti, vi erano una gran quantità di libri tutti rilegati. Al centro della stanza si trovava un ampio tavolo pieno di fascicoli tra cui molti giornali vecchi; ai lati, larghi divani tappezzati di cuoio marrone, dalle curve morbide e riposanti, erano pronti ad accogliere un comodo lettore. L’armonioso insieme era illuminato dalla luce elettrica propagata da quattro lampade a soffitto. “Capitano, questa è una biblioteca che farebbe onore a più di un palazzo del continente. Mi sorprende trovarla in fondo al mare”. “Dove crede di godere di maggior solitudine e silenzio? Il vostro studio vi offre una pace così assoluta?” “Ci saranno sei o settemila volumi” osservai pieno di ammirazione. “Dodicimila, signor Aronnax. Sono gli unici legami che mi uniscono alla terra. Per me, il mondo è finito il giorno in cui il Nautilus si è immerso per la prima volta sott’acqua. Quel giorno ho acquistato gli ultimi volumi e giornali, e da allora voglio convincermi che l’umanità non ha più pensato né scritto. Si intende, professore, che questi libri sono qui anche per
Palissandro: legname pregiato adoperato per oggetti di lusso. - 55 -
voi e che potrete leggerli anche tutti”. Lo ringraziai e mi avvicinai agli scaffali della biblioteca. Vi erano testi antichi e moderni, ossia tutto ciò che l’umanità ha dato di meglio nella storia, poesia, romanzo e scienza. Ma le scienze dominavano: meccanica, balistica, idrografia, meteorologia, geografia, geologia, insieme a volumi di storia naturale. Dalla data delle ultime pubblicazioni dedussi che erano tre anni che il comandante aveva iniziato l’esistenza sottomarina. “Signore – dissi – la ringrazio d’aver messo questa biblioteca a mia disposizione: ci sono tesori di scienza, ne approfitterò”. In quel momento il capitano Nemo si diresse verso la parete di fondo e aprì una porta: lo seguii e mi trovai in un immenso salotto splendidamente illuminato. Era un vasto quadrilatero ad angoli smussati, al soffitto un lampadario decorato emanava una luce leggera sulle meraviglie raccolte in quella sala. Era una specie di museo: una trentina di quadri d’autore ornavano le pareti: vidi tele di grande valore, fra cui una Madonna di Raffaello e una di Leonardo da Vinci, nonché alcune stupende statue di marmo o bronzo, ricavate dai migliori modelli dell’antichità che si ergevano su piedistalli agli angoli del magnifico museo. Il senso di stupore mi coglieva più che mai. “E questi musiche?” chiesi indicando spartiti di Rossini, Mozart, Beethoven, Haydn. “Sono tutte opere di grandi uomini del passato – disse – ma anch’io io, come loro, sono morto, riposo con loro sotto terra”. Il comandante tacque e parve perdersi in profondi pensieri. Appoggiato col gomito su un prezioso tavolo intarsiato di mosaico, dimenticava la
Balistica: scienza che studia i problemi relativi al moto dei proiettili lanciati dalle armi da fuoco. Idrografia: scienza che studia le acque marine e terrestri. Geologia: scienza che studia il pianeta Terra, la sua composizione e i processi della sua formazione. - 56 -
mia presenza e non mi vedeva più. Rispettai quel raccoglimento e continuai a passare in rassegna le curiosità del salotto. Oltre alle opere d’arte, nella stanza vi era una raccolta di meraviglie tratte dal mondo della natura: vi erano piante, conchiglie e altri reperti dell’oceano. Ma la cosa più sorprendente era un’enorme conchiglia larga circa sei metri che faceva da vasca, al cui centro zampillava una fontanella illuminata. In alcune vetrine alle pareti erano raccolti curiosi campioni di polpi e di spugne, superbe varietà di coralli, alcune delicate stelle di mare, fragili conchiglie bianche del Senegal a doppia valva che un soffio avrebbe mandato all’aria come una bolla di sapone; parecchie varietà dei cosiddetti innaffiatoi di Giava, specie di tubi calcarei dai bordi sinuosi. A parte, in scomparti speciali, si snodavano collane di perle stupende che la luce elettrica colpiva con riflessi di fuoco: perle rosa del Mar Rosso, perle verdi e gialle, azzurre e nere. Alcune erano più grosse di un uovo di piccione, valevano sicuramente di più del tesoro dello scià di Persia. Era impossibile calcolare il valore esatto della collezione. Il capitano Nemo aveva speso milioni per acquistare tutti quei campioni diversi e mi chiedevo a quale fonte attingesse per soddisfare così i propri capricci di collezionista, quando fui interrotto da queste parole: “Esamini pure le mie conchiglie, professore, per me hanno un doppio pregio, in quanto le ho raccolte tutte di mia mano”. “Comprendo capitano, comprendo benissimo la gioia di stare in mezzo a tali ricchezze. Nessun museo d’Europa vanta una simile collezione marina.” “Signor Aronnax, ho detto che a bordo sarebbe stato libero, quindi nessuna parte del Nautilus le è interdetta. Lo visiti pure con calma, ma prima venga a vederela cabina a lei riservata. Bisogna pure che sappiate come starete a bordo”. Seguii il capitano Nemo che mi fece passare nelle corsie della nave. Mi - 57 -
portò alla mia cabina, un’elegante camera, con letto, toletta e diversi altri mobili. Non potei fare a meno di ringraziarlo. “La mia stanza è di fianco a questa” replicò e aprendo una porta, entrai nella sua camera. Aveva un aspetto severo, quasi monacale. Una cuccetta di ferro, un tavolino da lavoro, pochi mobili da toletta, il tutto quasi in penombra. Nessuna comodità: appena lo stretto necessario. Il comandante mi indicò una seggiola. “Accomodatevi”.
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Capitolo 12
Strumenti tecnici
“Ecco – cominciò mostrandomi gli strumenti appesi alle pareti – questi sono gli apparecchi che servono alla navigazione. Indicano la posizione e la direzione esatta del Nautilus. Questo lo conoscete: è il termometro che segna la temperatura interna; ecco il barometro che indica il peso dell’aria e prevede i mutamenti del tempo; l’igrometro segna il livello di umidità dell’atmosfera; lo stormglass, con la sua miscela che si scompone, preannuncia l’avvicinarsi di una tempesta; il sestante, dalla posizione del sole deduce la latitudine; i cronometri, permettono di calcolare la longitudine, e infine le lenti per il giorno e per la notte, servono a scrutare tutti i punti del mare fino all’orizzonte. “E questo quadrante con la lancetta è un manometro?” “Per l’appunto. Messo in comunicazione con l’acqua, della quale indica la pressione esterna, segnala la profondità a cui viaggia il nostro apparecchio. Ma la cosa più prodigiosa qui è l’elettricità e come la produco: tutto si fa con essa. L’elettricità rischiara, riscalda, fa funzionare gli apparecchi. La mia elettricità funziona con delle grosse pile i cui elementi vengono estratti dal mare. Ora però le mostro la parte posteriore della nave” Seguii il capitano e arrivai al centro dello scafo dove una scala di ferro, appoggiata alla parete, conduceva al piano superiore. “Le mostro il mezzo che uso per esplorare l’esterno: il canotto. È un’imbarcazione leggera e funzionale che serve alla passeggiata e alla pesca” e continuò: - 59 -
“Vede questa scala? Conduce a un foro della grandezza di un uomo che corrisponde a un altro foro uguale nel fianco del canotto: attraverso quella doppia apertura, entro nell’imbarcazione, tiro su l’albero, isso la vela, o prendo i remi, e vado a spasso”. Ero meravigliato immaginando il canotto che solitario galleggiava nel mezzo dell’oceano, ma il giro esplorativo non era finito: visitai la sala delle macchine, la dimora dell’equipaggio, vidi la stanza dove alloggiavano Ned e Consiglio e infine visitai la postazione del timoniere che sporgeva nella parte superiore dallo scafo e che era provvisto di lenti per vedere in lontananza. “Dietro questo gabbiotto c’è un potente riflettore elettrico i cui raggi illuminano il mare fino a un miglio” spiegò con un certo orgoglio. “Ora sarà stanco di camminare, torniamo nel salone che ho ancora alcune cose da dirle”. Seguii il capitano, ci sedemmo sul divano, si accese un sigaro e continuò: “Non consce ancora, signor Aronnax, le dimensioni di questa imbarcazione. È un cilindro allungato con le estremità coniche. Ha l’apparenza di un sigaro. La lunghezza è di settanta metri e la larghezza massima è di otto metri. Questo mezzo, con i suoi serbatoi supplementari capaci di tenere cento tonnellate d’acqua, mi permette di calarmi a profondità considerevoli. Quando voglio risalire alla superficie, mi basta togliere l’acqua dai serbatoi.” “È ingegnere, capitano Nemo? Come ha fatto a progettare tutto questo?” “Quando ero un abitante dei continenti terrestri ho studiato a Londra, a Parigi e a New York, ma per costruire il Nautilus ho dovuto operare in gran segreto, ogni pezzo mi è arrivato da un diverso posto del globo e con indirizzo convenzionale. La chiglia è stata forgiata in Francia, l’albero dell’elica a Londra, e così via”. Mi disse che aveva impiantato i laboratori in un’isoletta deserta in mezzo
Chiglia: grossa trave che percorre l’imbarcazione da poppa a prua. - 60 -
all’oceano. Con l’aiuto di valenti operai aveva terminato la costruzione del Nautilus. Finito il lavoro aveva eliminato ogni traccia del passaggio sull’isolotto, che, se avesse potuto, avrebbe fatto saltare in aria. Fissavo lo strano personaggio, tutto questo aveva dell’incredibile. Forse in avvenire avrei avuto delle risposte a tutte le domande che nel mio cervello si sovrapponevano.
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Capitolo 13
Un invito scritto
Il capitano mi salutò e rimasi solo, assorto nei miei pensieri. Sarei mai riuscito a sapere a quale nazione apparteneva lo strano uomo? Quell’odio verso l’umanità chi l’aveva provocato? Chi era realmente costui? Uno squilibrato o un genio? Non potevo ancora pronunziarmi. Quanto a me, pur essendo stato accolto freddamente, venivo ora trattato in maniera ospitale. Ned Land e Consiglio fecero la loro comparsa nel salone e restarono di sasso a vedere quella stanza che raccoglieva tutte quelle meraviglie. “Ma dove siamo – esclamò il canadese – al museo di Quebec?” “Amici cari, siamo bordo del Nautilus e a cinquanta metri sotto il livello del mare” risposi nei panni di un perfetto padrone di casa. Intanto Ned Land, per niente“conchiliologo”, mi chiese di raccontargli tutto quanto avevo scoperto sul capitano: da dove veniva, dove andava, in quali abissi aveva intenzione di trascinarci. Gli dissi tutto quello che sapevo, o meglio, che non sapevo, e gli chiesi cosa avessero osservato a loro volta. “Visto niente, sentito niente; lei signor Aronnax – insisté il canadese – saprebbe dirmi quanti uomini ci sono a bordo: dieci, venti, cinquanta, cento?”
Conchiliologo: studioso ed esperto di conchiglie. - 62 -
“Non lo so proprio, mastro Land” risposi intuendo le intenzioni recondite del fiociniere.“Ma mi dia retta; almeno per ora, lasci andare l’idea d’impadronirsi del Nautilus e di scappare. Stia quieto e cerchiamo di restare allerta e vigili”. Stava pronunciando quelle parole, quando all’improvviso Il lampadario si spense. Rimanemmo muti e immobili chiedendoci quale ulteriore sorpresa ci attendesse, quando una luce rischiarò la sala, ma questa volta proveniente dall’esterno. Attraverso due finestre di cristallo il mare isi faceva vedere in tutta la sua bellezza illuminato da un faro che rischiarava l’oceano per almeno un miglio. Che spettacolo! Che penna ci vorrebbe, per descriverlo! Chi saprebbe dipingere gli effetti di luce, la dolcezza delle progressive sfumature, fino alle zone inferiori e superiori dell’oceano? Inizialmente il mare era deserto, poi forse per l’immobilità del Nautilus, le acque si ripopolarono e i pesci accorsero, numerosissimi, attirati senza dubbio dalla luce e noi potemmo godere dello spettacolo. Riconoscemmo un branco di balisti dal corpo schiacciato, la pelle granulosa, armati di pungiglione sul dorso. In mezzo a loro le razze si muovevano come una vela abbandonata ai venti, comparvero beccacce di mare, murene, lunghi serpenti dagli occhi vivi e la bocca irta di denti e tantissime altre specie. Ned nominava i pesci, Consiglio li classificava, io ero incantato dalla vivacità dei loro movimenti e dalla bellezza delle loro forme. Improvvisamente tornò la luce nel salone. Gli sportelli di lamiera si richiusero, l’affascinante visione scomparve. Mi aspettavo una visita del capitano Nemo, ma inutilmente Ned Land e Consiglio tornarono in cabina; io andai in camera, dove
Balisti: pesci armati di pungiglioni sul dorso. Beccacce di mare: uccello marino dal lungo becco adatto alla pesca e alla cattura dei molluschi. - 63 -
già era pronta la cena consistente in una zuppa di tartaruga delicatissima, triglia di carne bianca, il cui fegato, preparato a parte, era veramente delizioso, e filetti di olocante imperatore, a parer mio preferibile al salmone. Anche il giorno dopo, dell’equipaggio non vedemmo anima viva. Ned e Consiglio rimasero quasi tutto il giorno con me. Si meravigliavano della strana assenza del comandante; era malato, o forse aveva cambiato idea verso di noi? Passarono così cinque giorni senza che la situazione mutasse. il capitano Nemo non si vedeva. Mi ero già rassegnato a farne a meno, quando il 16 novembre, rientrando in camera con Ned e Consiglio, trovai sul tavolo un biglietto. L’aprii con una certa impazienza. Era scritto con calligrafia netta, di tipo gotico che ricordava i caratteri tedeschi. Diceva: Signor professore Aronnax, Il capitano Nemo la invita a una partita di caccia che si terrà domattina nelle foreste dell’isola Crespo. Spero che nulla le impedirà di partecipare e sarò lieto se a lei si uniranno i suoi compagni.
Olocante imperatore: pesce nominato da Verne, ma non classificato scientificamente con quel nome, per cui è difficile identificarlo con una particolare specie. - 64 -
Capitolo 14
L’isola di Crespo
Il giorno seguente, svegliandomi, mi accorsi che il Nautilus era completamente immobile. Mi vestii in fretta e andai in salone. Il capitano Nemo era lì ad attendermi. Si alzò, mi salutò e chiese se accettavamo l’invito. “Certamente – dissi – ma avrei una domanda da farle”. “Fate pure, signor Aronnax, se potrò le risponderò”. “Ebbene, capitano, come mai, pur avendo interrotto ogni rapporto con la terraferma, mi vuole condurre nelle foreste dell’isola di Crespo?” “Professore, le mie foreste non necessitano della luce diretta del sole, non sono frequentate né da tigri, né da leoni, non sono foreste terrestri, ma sottomarine”. “Foreste sottomarine?” esclamai. “Sì, professore”. “E mi offre di andarci?” “Certamente!” “Cacciando?” “Cacciando”. “Col fucile in mano?” “Col fucile in mano”. Il capitano Nemo mi condusse verso la poppa del Nautilus passando davanti alla cabina di Ned e di Consiglio. Li chiamai e mi seguirono. Arrivammo in un locale di fianco alla stanza delle macchine. - 65 -
Una dozzina di scafandri, sospesi alle pareti, attendevano i passeggeri. Erano giacche e calzoni impermeabili dotate di serbatoi d’aria, c’erano poi ingombranti caschi di rame, grosse calzature e una serie di tubi per l’aria. Ned Land, quando li vide, commentò: “Mai e poi mai indosserò quella roba, a meno che non mi costringiate”. “Nessuno la costringerà, mastro Land” disse il capitano. “E Consiglio si arrischia?” riprese il fiociniere. “Io vado ovunque vada il signore” dichiarò. Due uomini dell’equipaggio vennero ad aiutarci a indossare le pesanti tute fatte senza cuciture, di caucciù e preparate in modo da sopportare pressioni considerevoli. Erano armature flessibili e resistenti. Consistevano in giacca e calzoni che terminavano in grosse calzature provviste di pesanti suole di piombo. Il tessuto della giacca era rinforzato da lamine di rame che proteggevano il petto dalla spinta delle acque, lasciando respirare liberamente i polmoni; le maniche finivano a forma di morbido guanto, che non ostacolava i movimenti della mano. Non ci rimaneva che da infilare la testa nella sfera metallica: ma, prima di procedere all’operazione, chiesi al comandante il permesso di esaminare i fucili da usare per la caccia. Un uomo del Nautilus mi presentò un fucile ad aria compressa che nel calcio ospitava i proiettili di fibra di vetro capaci, mediante una molla, di entrare automaticamente nella canna del fucile. La lampada sospesa alla cintola, il fucile in mano ed eccomi pronto per la partenza! “Ma come usciremo dal Nautilus?” chiesi ignaro del metodo di trasferimento all’esterno. “Adesso vedrà” rispose prontamente.
Scafandro: speciale attrezzatura utilizzata per le immersioni subacquee. Caucciù: gomma ricavata dal lattice di alcune piante. - 66 -
Nemo ci condusse in uno spazio di dimensioni ridotte, completamente vuoto. Sentii una porta munita di otturatori chiudersi dietro di noi, mentre un’oscurità totale ci avvolgeva. Dopo pochi istanti mi giunse all’orecchio un fischio acuto. Avvertii una certa sensazione di freddo salirmi dai piedi al petto: evidentemente dall’interno del battello avevano, per mezzo di un rubinetto, dato via libera all’acqua esterna che adesso riempiva rapidamente la camera. Si aprì una seconda porta, nel fianco del Nautilus. Un momento dopo posavamo i piedi sul fondo del mare. E qui ha inizio un’esperienza fantastica che le parole faticano a descrivere. Il capitano Nemo camminava avanti, un suo uomo dell’equipaggio ci seguiva a qualche passo di distanza. Consiglio ed io camminavamo vicini. Non sentivo il peso dello scafandro e la testa, nella sfera massiccia, ballonzolava come una mandorla nel guscio. La luce del sole che illuminava il suolo fino a una decina di metri sotto il livello dell’oceano, mi stupì per la sua potenza. I raggi attraversavano liberamente la massa d’acqua dissolvendo il loro calore. Distinguevo nettamente ogni cosa fino a cento metri di distanza, mentre più in là la visione andava sfumando in tinte delicate. L’acqua che mi circondava sembrava quasi una specie di aria, più densa dell’atmosfera terrestre, ma quasi altrettanto diafana. Sopra, scorgevo la calma superficie del mare. Lo scafo del Nautilus, che si profilava come un lungo scoglio, si allontanava a poco a poco. Aprivo con la mano le cortine liquide che si richiudevano alle mie spalle, e le orme dei passi si cancellavano subito sotto la pressione dell’acqua. Ben presto ravvisai alcune forme, appena accennate in lontananza, che poi divenivano primi piani. Ecco le prime rocce ricoperte di fiori, scogli, conchiglie e polpi tinti ai margini coi sette colori dello spettro solare. Era una meraviglia, una festa per gli occhi. Davanti a quello splendido - 67 -
spettacolo, Consiglio tentava di classificare ogni cosa: zoofiti, molluschi, polipi ed echinodermi, anemoni e cornularie, eccetera, eccetera… Temevo di schiacciare con i miei passi quei magnifici esemplari che si trovano al suolo, ma bisognava pur camminare e così andavamo avanti. Avevamo lasciato il Nautilus da un’ora e mezza circa. Era quasi mezzogiorno, e me ne accorgevo dalla perpendicolarità dei raggi. Poiché ora la profondità diveniva considerevole, la magia dei colori sparì a poco a poco e le sfumature di smeraldo e zaffiro svanirono con sorprendente velocità. Giunti alla profondità di un centinaio di metri scorgevo ancora i raggi del sole, ma debolmente; al chiarore intenso si era sostituito un crepuscolo rossastro, a metà tra il giorno e la notte. Tuttavia ci vedevamo abbastanza per proseguire senza dover accendere le torce. A un tratto il capitano si fermò. Attese che lo raggiungessi e mi mostrò con un gesto alcune masse scure che si intuivano in ombra a breve distanza. È la foresta dell’isola Crespo, pensai e non m’ingannavo.
Zoofiti: nome dato in passato ad animali marini, che per loro forma erano ritenuti a metà tra il regno vegetale e animale. Echinoderma: organismo marino con lo scheletro composto di parti calcaree. La stella marina appartiene al gruppo degli echinodermi. Cornularia: organismo marino che vive in colonie sui fondali e che produce dei piccoli polipi bianchi, alti circa un centimetro. - 68 -
Capitolo 15
La foresta sommersa
Eravamo arrivati finalmente al margine della foresta. Nemo lo considerava un suo regno. D’altronde, chi sarebbe mai potuto venire a minacciarlo? La foresta era formata da grandi piante arboree e appena penetrati al suo interno, rimasi colpito dalla curiosa disposizione dei rami: nessuna delle piante acquatiche che tappezzavano il suolo, nessuno dei rami si curvava o si stendeva orizzontalmente. Tutti tendevano verso la superficie dell’oceano. Ogni filamento o nastro, per esile che fosse, si ergeva come uno stelo di ferro. Ogni cosa stava immobile e quando la muovevo con la mano, subito riprendeva la posizione primitiva. Era il regno della verticalità. Mi abituai presto a quella stranezza, così come all’oscurità che ci avvolgeva. Notai che tutti quei vegetali, privi di radici, erano attaccati alla terra solo per mezzo di fango; indifferenti alle conchiglie, ai gusci o ai sassi su cui stavano, chiedevano loro non vitalità, ma un semplice punto d’appoggio. La maggior parte di essi, invece delle foglie, aveva delle lamine di forma capricciosa, in una gamma di colori che comprendevano il rosa, il carminio, il verde olivastro, l’ocra, il bruno. Tra i rami, sporgevano cespugli di fiori vivi, e per completare lo spettacolo, i pesci–mosca volavano di ramo in ramo, come un nugolo di colibrì. Rividi molte delle piante già osservate sul Nautilus, ma fresche, e non - 69 -
secche come gli esemplari dell’erbario. Verso l’una il capitano diede il segnale di sosta. Ne fui contento e ci stendemmo sotto una pergola di alghe. Quell’istante di riposo mi sembrò prezioso. Ci mancava solo il piacere della conversazione, ma era impossibile parlare, impossibile rispondere. Accostai soltanto il mio testone di rame a quello di Consiglio e vidi che gli occhi gli brillavano di emozione. I miei occhi, invece, si chiusero presto e piombai in un profondo sonno. Quando mi svegliai, un’apparizione inattesa mi fece balzare in piedi. Poco lontano un mostruoso ragno di mare, alto un metro, mi guardava di traverso, pronto a lanciarsi contro di me. Benché avessi la muta abbastanza spessa, non potei trattenere un gesto d’orrore. Consiglio e il marinaio del Nautilus si erano svegliati proprio allora. Il capitano gli mostrò la bestiaccia e lui subito la abbattè con un colpo ben assestato del calcio del fucile, ed ecco le tremende zampe del mostro torcersi in convulsioni orribili. L’incontro mi fece riflettere sul fatto che forse altri animali, più temibili ancora, si nascondessero nella foresta pronti ad attaccarci e mi chiesi se lo scafandro ci avrebbe protetti. Per il momento decisi di stare allerta. Immaginavo, del resto, che quella fermata segnasse il termine della gita, ma mi sbagliavo: invece di tornare a bordo, il capitano Nemo proseguì l’escursione. La discesa in profondità non era finita, il buio aumentava diventando quasi assoluto; camminavo a tentoni, quando una luce bianca si accese, era il capitano che aveva messo in funzione la torcia. Il comandante continuò ad addentrarsi nel buio della foresta, la cui vegetazione si faceva sempre più rara. Notai che la vita vegetale spariva più in fretta di quella animale. Le alghe avevano già abbandonato il suolo arido, mentre un gran numero di pesci e molluschi vi pullulava ancora. Ogni tanto il capitano Nemo si fermava imbracciando il fucile e poi, dopo qualche istante di osservazione, lo abbassava e riprendeva il cammino. Alla fine, dopo quattro ore circa, una muraglia imponente di rocce altissime - 70 -
con blocchi giganteschi, scogliere enormi di granito, grotte buie, ci si parò davanti. Era la scogliera dell’isola di Crespo. Era la terraferma. Il capitano si arrestò non c’era modo di proseguire. Un suo gesto ci indicò che si tornava indietro. Nemo si mise anche stavolta in testa al gruppo: ora il percorso in salita ci riportava verso la superficie del mare. La luce del sole pian piano riappariva. Fino a quel momento nessun essere marino era stato degno d’un colpo di fucile, quando apparve una magnifica lontra di mare, il solo quadrupede marino. Doveva essere di grande pregio: lunga un metro e mezzo, con la pelle bruna sopra e argentata sotto, costituiva la fonte di una di quelle splendide pellicce tanto apprezzate sui mercati russi e cinesi. La finezza e lucentezza del pelo garantivano a quelle pelli un valore commerciale molto alto. Ammirai lo strano mammifero dalla testa arrotondata e dalle orecchie corte, dagli occhi rotondi, i baffi bianchi simili a quelli del gatto, i piedi palmati e la coda folta. Il compagno del capitano imbracciò il fucile e fece partire il colpo. La bestia cadde, lui la afferrò, se la caricò in spalla e riprendemmo il cammino. Per un’ora la spianata sabbiosa continuò ininterrotta sotto i nostri passi. Mi capitò perfino di sorprendere l’ombra e il volo di grossi uccelli che ci passavano sopra la testa. A tal proposito, fui testimone di un altro episodio di caccia Un uccello dall’ampia apertura d’ali, chiaramente visibile, si avvicinava librandosi in aria. Il compagno del capitano mirò e sparò; l’animale – magnifico esemplare di albatro – cadde fulminato e la caduta lo portò giusto ai piedi dello svelto cacciatore che subito se ne impadronì. Dopo un paio d’ore entrammo in una prateria d’alghe
Albatro: volatile marino con l’apertura alare più ampia fra tutti gli uccelli ( fino a 4 metri) che utilizza le correnti e i venti per effettuare lunghissimi voli . - 71 -
marine difficilissime da attraversare. Non ne potevo più dalla stanchezza e quando intravidi il faro del Nautilus che spezzava l’oscurità, feci un sospiro di sollievo. In una ventina di minuti avremmo dovuto essere a bordo dove avrei respirato a mio agio, poiché ormai l’aria del serbatoio mi sembrava poverissima d’ossigeno. Ma facevo i calcoli senza considerare un’ultima sosta nient’affatto desiderata. Ero rimasto circa venti passi indietro, quand’ecco il capitano Nemo tornare con uno scatto verso di me. Mi fece cenno di gettarmi a terra e così feci insieme a Consiglio e all’altro marinaio. Steso al suolo, proprio sotto un cespuglio d’alghe, alzando il capo, vidi masse enormi passare sopra di noi: era una coppia di pescecani, dalla coda enorme, lo sguardo vitreo e appannato che stillavano materia fosforescente da alcuni fori intorno al muso. Non so se Consiglio si era messo a classificarli: io ne osservavo il ventre argentato e le fauci irte di denti aguzzi sicuramente più come vittima che come naturalista. Per fortuna, i voraci animali ci vedevano male. Passarono senza fermarsi, sfiorandoci con le loro pinne brunastre e così fummo risparmiati per miracolo da quell’esperienza ancora più terribile dell’incontro con una tigre in piena foresta. Mezz’ora dopo, guidati dalla scia luminosa, raggiungevamo il Nautilus. La porta esterna era rimasta aperta e il capitano Nemo la chiuse appena rientrati nella prima stanza. Poi premette un bottone. Udii manovrare le pompe dentro la nave, sentii l’acqua abbassarsi e in pochi istanti la cella fu interamente svuotata. Si aprì la porta interna e passammo nel guardaroba. Tolti a fatica gli abiti da palombaro, spossato, cascante di fame e di sonno, tornai in cabina esausto, ma strabiliato per quella fantastica escursione in fondo al mare.
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Capitolo 16
Giorni nel Pacifico
I giorni passavano e noi scoprivamo nuovi aspetti della vita sul Nautilus. Partecipavamo alla pesca che avveniva calando le reti nella notte. Erano reti a strascico formate da grossi sacchi tenuti semiaperti e trascinati sul fondo dell’oceano per raccoglierne i prodotti. Al mattino una ventina di marinai le tirava a bordo e scaricava sino a mezzo quintale di pesce. Il pescato poi veniva riposto nelle cantine per essere in parte conservato e in parte consumato fresco. Il comandante, nelle settimane che seguirono, fu parco di visite. Consiglio e Land passavano lunghe ore con me, Consiglio narrava all’amico le meraviglie della nostra esperienza in fondo al mare, il canadese ascoltava e, se da una parte rimpiangeva di non averci accompagnato, dall’altra continuava a manifestare rimostranze per il nostro stato di prigionia. Passammo il Tropico del Cancro, navigammo in prossimità delle isole Sandwich e tagliammo l’Equatore. L’oceano non mancava di rivelarci sorprese, come l’immenso branco di calamari, una vera e propria armata, che incontrammo il 9 dicembre: il Nautilus, nonostante la sua velocità, navigò per ore e ore in mezzo a quella tribù. Incontrammo anche relitti di navi colate a picco: spettacolo triste le carcasse affondate, ma ancora più triste era pensare alle vite che vi erano rimaste imprigionate. Il 25 dicembre arrivammo all’arcipelago delle Nuove Ebridi. Ned rim- 73 -
piangeva i festeggiamenti natalizi, ma io cercavo di minimizzare ogni sua forma di protesta. Il primo gennaio 1863 eravamo in rotta verso le coste della Papuasia, quando Consiglio mi raggiunse sulla piattaforma. “Il signore – mi chiese – mi permetterà di augurarle buon anno?” “Eccome no, Consiglio! Accolgo i tuoi auguri come se fossimo a Parigi e ti ringrazio. Vorrei solo sapere cosa intendi per buon anno nelle circostanze in cui siamo: sarà l’anno che segnerà la fine della nostra prigionia, o che aggiungerà nuovi giorni a questo strano viaggio?” “Non saprei proprio. Quel che è certo, è che vedremo ancora cose nuove e che in questi due mesi non abbiamo avuto tempo per annoiarci. Secondo me, un’occasione simile non capiterà più.” “No di certo Consiglio, e che ne dice del nostro strano capitano?” “Il signor Nemo è proprio degno del suo nome latino, nessuno; infatti è come se non esistesse”. “Hai proprio ragione, e degli umori di Ned Land?” “Guardare i pesci e mangiarne tutti i giorni non gli basta. La mancanza di vino, pane e carne non va per nulla a genio a un autentico sassone abituato alle bistecche”. “L’alimentazione non mi preoccupa certo e il regime di bordo mi va benissimo”. “Anche a me, professore, motivo per cui penso di rimanere, tanto quanto mastro Land pensa di scappare. Dunque, se l’anno che comincia non è buono per me, lo sarà invece per lui e viceversa. In questo modo ci sarà sempre qualcuno contento”. Il 4 gennaio, eravamo vicini alle coste della Papuasia. Il capitano Nemo mi comunicò che era sua intenzione raggiungere l’Oceano Indiano attraverso lo stretto di Torres. Lo stretto di Torres che divide la Nuova Olanda dalle grandi isole della Nuova Guinea, è considerato pericoloso tanto per i suoi scogli aguzzi, quanto per i selvaggi che ne abitano i territori. Il Nautilus arrivò dunque davanti al luogo più temibile del globo, quello - 74 -
che i più arditi naviganti osano appena superare in quanto occupato da innumerevoli isole, isolotti e scogli che ne rendono la navigazione quasi impossibile. Effettivamente la situazione era pericolosa, ma il Nautilus pareva scivolare miracolosamente in mezzo agli scogli. Erano le tre di pomeriggio. Le onde si infrangevano sul fianco dello scafo, la marea era quasi al massimo. Il Nautilus distava due miglia circa alla maggiore delle isole. Un improvviso urto mi fece cadere: la nave aveva battuto contro uno scoglio e rimaneva immobile, leggermente inclinata. Quando mi sollevai, vidi sulla piattaforma il capitano e il secondo. Esaminavano la situazione, scambiando poche parole nella loro incomprensibile lingua. Ci eravamo incagliati in uno di quei mari dove le maree sono limitate, cosa poco piacevole per riuscire a liberarsi. “Un problema grave?” chiesi. “No, solo un incidente.” “Che vi obbligherà forse a tornare a essere un abitante delle terre che fuggite?” Mi guardò con aria strana e fece un gesto di diniego. Ce n’era abbastanza per capire che nulla al mondo l’avrebbe obbligato a rimettere piede su un continente. Poi aggiunse: “Caro professor Aronnax, le maree non sono forti nel Pacifico comunque fra dieci giorni ci sarà la luna piena e solleverà tanta acqua quanta ne occorrerà a disincagliare il nostro Nautilus”. Detto ciò, il capitano rientrò nella cabina di comando. “Ebbene, signore?” venne a chiedermi Ned Land dopo che il capitano se ne fu andato. “Ebbene, caro Ned, aspetteremo tranquillamente la marea: sembra che la luna sarà così compiacente da rimetterci a galla”. “Signore, mi dia ascolto: questo pezzo di ferro non navigherà mai più, né sopra né sotto il mare. Ormai è buono per essere venduto a peso. Perciò mi sembra venuto il momento di tagliare la corda”. - 75 -
“Io non la vedo così disperata. Fra dieci giorni ci faremo un’idea esatta delle maree del Pacifico. D’altro canto, mi pare che l’idea di fuggire andrebbe bene se fossimo in vista delle coste dell’Inghilterra o della Provenza, ma nei paraggi della Papuasia è un altra questione”. “Ma non si potrebbe almeno provare a sbarcare?” riprese Ned Land e continuò: “C’è un’isola, e nell’isola ci sono gli alberi, e sotto gli alberi, animali terresti fatti di cotolette e bistecche che addenterei molto volentieri”. “Ned ha ragione – intervenne Consiglio – sono del suo parere, e lei professore non potrebbe chiedere al capitano Nemo il permesso di scendere a terra, tanto per non perdere l’abitudine di calpestare le parti solide del pianeta?” “Potrò domandarglielo, ma lui rifiuterà”. “Ci provi, per piacere, così sapremo cosa pensare del buon carattere del capitano”. Con mio stupore, Nemo accordò il permesso richiesto. Lo fece anzi con premura e garbo, senza neanche esigere la promessa di tornare a bordo. D’altronde una fuga attraverso le terre della Nuova Guinea sarebbe stata pericolosissima e non avrei consigliato a Ned Land di provarci. Meglio rimanere prigionieri del Nautilus che cadere tra le mani degli abitanti della Papuasia. Il giorno dopo il canotto fu preso e calato in mare dall’alto della piattaforma. Due uomini ci aiutarono nell’operazione. I remi erano pronti e alle otto, armati di asce e di fucili elettrici, sbarcammo dal Nautilus. Il mare era abbastanza calmo, una brezza leggera spirava da terra. Consiglio ed io remavamo con vigore. Ned faceva da guida in mezzo ai passaggi stretti. Tutto andava bene e si filava rapidamente. Ned Land non stava più nei panni dalla gioia. Era come un prigioniero evaso di galera e non pensava che prima o poi saremmo dovuti rientrare. “La carne… – continuava a ripetere – mangeremo carne, e che carne… selvaggina autentica! Non ci sarà pane, ma pazienza. Non dico che il pesce sia cattivo, ma non bisogna esagerare e un bel pezzo di - 76 -
cacciagione fresca, arrostito sui carboni ardenti, costituirà una piacevole variante.” “Resta da verificare – dissi io – se queste foreste hanno selvaggina e se in ogni caso essa non sia tale da inseguire a sua volta il cacciatore”. “Bene, signor Aronnax – rispose il canadese che pareva avesse affilato i denti come la lama – mangerei anche lombo di tigre, se nell’isola non ci fossero altri quadrupedi, sta di fatto che qualunque animale incontrerò a due o quattro zampe, con senza piume, lo saluterò con una fucilata”. “Ricominciamo con le imprudenze, mastro Land?” “Non temete, signor Aronnax, e continuate a remare. Tempo neppure venticinque minuti e vi offrirò una pietanza a modo mio”. Alle otto e mezzo del mattino il canotto approdava senza urti su una spiaggia sabbiosa, dopo avere felicemente superato l’anello corallino che circondava l’isola di Gueboroar.
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Capitolo 17
L’isola di Gaboar
Dopo due mesi in cui, come diceva il comandante, eravamo ospiti del Nautilus, toccammo terra e ci incamminammo su un terreno di origine corallina che doveva essere di formazione molto antica. L’isola ospitava una fitta foresta i cui alberi enormi erano legati gli uni agli altri da ghirlande di liane che formavano amache naturali cullate dalla brezza del mare. La vegetazione era lussureggiante: si incontravano mimose, fichi, moltissime palme e sotto la loro volta, orchidee, felci e piante di legumi. Ned vide un albero di cocco, ne staccò qualche frutto e lo ruppe: bevemmo quel latte e con enorme piacere gustammo la polpa che rappresentava per noi un’inaspettata variazione alla dieta a base di pesce. “Mhhhh” disse Ned Land. “Squisito – fece Consiglio – credete che Nemo si opporrebbe, se portassimo a bordo un carico di noci di cocco?” “Certamente no, ma non ne assaggerà nemmeno una” dissi io. “Peggio per lui” commentò Consiglio. “E tanto meglio per noi” replicò Ned. “Un momento, mastro Land” dissi al fiociniere che già si preparava a saccheggiare un altro albero.“Il cocco è molto buono; ma prima di riempirne il canotto, sarebbe meglio verificare se l’isola non produce altro”. “Il signore ha ragione, io propongo di dividere lo spazio della barca in tre parti: una per la frutta, l’altra per i legumi e la terza per la selvaggi- 78 -
na, di cui però non ho visto neanche l’ombra”. “Non bisogna disperare” replicò il canadese. “Continuiamo la nostra escursione – dissi – e teniamo gli occhi ben aperti: l’isola sembra deserta, ma potrebbe esserci qualche individuo meno schizzinoso di noi… riguardo al tipo di cacciagione”. “Si riferisce alla cacciagione umana? Sapete cosa vi dico? Comincio a intuire il fascino dell’antropofagia” disse Ned con un mezzo sorriso. “Ned, ma che dice, lei antropofago?” replicò Consiglio.“Io che dormo con lei in cabina non posso più fidarmi. Stia a vedere che un giorno mi sveglierò mezzo divorato!” “Caro Consiglio, lei mi piace molto, ma non mi piace abbastanza per mangiarla in un boccone”. “Non mi fido – ribatté – ma bisogna assolutamente abbattere della selvaggina per dare soddisfazione a questo cannibale, altrimenti una bella mattina il signore troverà solo i pezzi del suo domestico”. Chiacchierando ci eravamo inoltrati sotto la volta cupa della foresta e per un paio d’ore la percorremmo in lungo e in largo. Trovammo molti vegetali commestibili, fra cui i frutti dell’albero del pane, molto abbondante nell’isola: grossi, rotondi, erano veramente invitanti. Consiglio ne raccolse una dozzina e Ned, che sapeva come si preparavano, li mise sul fuoco dopo averli tagliati a fette. “Vedrà, signore, com’è buono questo pane”. “Specialmente quando se ne è fatto a meno per un pezzo” commentò Consiglio. “Non è neanche più pane, è pasticceria fine. Non ne ha mai mangiati? Ebbene, si prepari a una specialità succulenta”. Dopo alcuni minuti, la parte esposta al fuoco divenne completamente carbonizzata. Dentro si vedeva una pasta bianca, simile a mollica tenera, il cui sapore rammentava quello del carciofo. Debbo riconoscere che era un pane eccellente e lo mangiai molto volentieri. “Purtroppo una pasta così non si può conservare e penso sia inutile farne provviste da portare a bordo” dissi. “Come, signore! Parlate da scienziato: ma io agirò da fornaio. Consiglio, - 79 -
fate una bella raccolta di frutti che prenderemo al ritorno”. “E come li preparerà?” “Fabbricando con la loro polpa una pasta fermentata che durerà senza ammuffire. Quando vorrò usarla, la farò cuocere nella cucina di bordo, e nonostante il sapore un pochino acido, le parrà squisita”. “E ora cosa servirebbe, mastro Land, per completare il pasto?” chiesi. “Occorrerebbe almeno della frutta”. “Cerchiamola allora”. Le ricerche non furono inutili e verso mezzogiorno avevamo fatto grande provvista di banane, manghi e ananas. Alle cinque di sera abbandonammo l’isola con il canotto stracarico di prodotti della terra e mezz’ora dopo arrivammo al Nautilus. Sbarcammo e lasciammo nella dispensa il nostro bottino. L’enorme cilindro di lamiera pareva deserto Non un rumore, non un segno di vita. Trovammo la tavola apparecchiata e ci rassegnammo a mangiare ancora una volta pesce. L’indomani decidemmo di ripartire per l’isola. Il canotto era rimasto accanto al Nautilus dove l’avevamo lasciato. Al sorgere del sole eravamo già fuori e in breve tornammo alla nostra meta. Decidemmo di seguire Ned che aveva gambe lunghe e una gran voglia di trovare qualche preda. Il canadese ci fece risalire la costa verso ovest, attraversammo alcuni letti di torrente ed eccoci in un largo altopiano circondato da una fitta vegetazione. Alcuni Martin Pescatore si aggiravano lungo i corsi d’acqua, ma non si lasciarono avvicinare; forse sapevano cosa c’era da aspettarsi da bipedi della nostra specie e intuii che se anche l’isola non era abitata, degli esseri umani dovevano averla frequentata. Giungemmo quindi ai margini di un bosco animato da voli e canti di moltissimi uccelli. “Sempre e solo uccelli” si lamentò Consiglio. “Ma alcuni sono commestibili” aggiunse Ned - 80 -
“Niente affatto, sono tutti pappagalli”. Sotto il fitto fogliame si agitava infatti un mondo di pappagalli dai colori rosso vivo o delicatamente sfumati in azzurro. Andavano e venivano. Bellissimi tutti, ma poco commestibili. “Amico – replicò Ned Land gravemente – il pappagallo è il fagiano di chi non ha altro da mettere sotto i denti”. Ecco a un tratto alzarsi in volo uccelli stupendi con un volteggiare maestoso e splendidi colori. Li riconobbi immediatamente. “Uccelli del Paradiso!” esclamai. “Ordine dei passeracei. . .” aggiunse Consiglio. “Famiglia delle pernici” specificò Ned Land. “Vorrei che mi catturasse un esemplare, Ned: – dissi io – conto sulla sua bravura”. “Tenterò, signor professore, benché sia più abituato a maneggiare la fiocina che il fucile”. Provò a sparare, ma le probabilità di colpire in volo quei bellissimi uccelli erano poche, tant’è che consumammo una parte delle munizioni. Per il momento dovetti rinunciare al bottino e così riprendemmo il cammino. Verso le undici avevamo superato il primo gruppo di monti che costituisce il centro dell’isola e non avevamo preso alcuna preda. La fame si faceva sentire. Per fortuna e con sua grande sorpresa, Consiglio con un colpo doppio ci assicurò la colazione: un colombo bianco e un piccione selvatico, subito spennati e messi ad arrostire al fuoco. “Adesso, Ned, cos’altro ci manca?” “Selvaggina a quattro zampe, signor Aronnax. I piccioni sono un antipasto, e finché non avrò preso un animale da cotolette, non sarò contento”. Dopo un’ora di marcia, entrammo in un bosco dove trovammo ancora gli Uccelli del Paradiso che si nascondevano fra i rami. Improvvisamente Consiglio, che era andato avanti per primo, con un grido di trionfo mi venne incontro con un magnifico esemplare. - 81 -
“Bravo, Consiglio!” “Il signore è troppo buono”. “Ma no, ragazzo mio. È un colpo da maestro il tuo: prendere vivo uno di questi uccelli e per di più con le mani”. “Se il signore vuole guardarlo da vicino, vedrà che non ho avuto un gran merito”. “E perché?” “Perché è ubriaco fradicio”. “Ubriaco?” “Sì, signore: ubriaco di noci moscate che stava divorando sotto l’albero di quei frutti dove l’ho acciuffato”. “Corpo di mille diavoli!” dissi esaminando la bestia. Consiglio non si ingannava: era in preda agli effetti del succo inebriante, ridotto completamente all’impotenza. Apparteneva alla più bella delle otto specie esistenti: era l’Uccello del Paradiso Grande Smeraldo, uno dei più rari. Misurava trenta centimetri di lunghezza, aveva la testa piccola, gli occhi vicini al becco e colori magnifici: zampe e unghie brune, ali color nocciola sfumate in rosso alle estremità, capo e parte posteriore del collo giallo pallido, la gola verde smeraldo, ventre e petto marrone. Due esili ciuffi piumosi si sollevavano al di sopra della coda, la quale terminava con lunghe leggerissime penne, di una finezza ammirevole, completando così l’uccello stupendo, che gli indigeni poeticamente chiamano Uccello del Sole. Mi augurai di tutto cuore di poter portare a Parigi quello splendido esemplare e farne dono al Jardin des Plantes che non ne possiede neanche uno vivo. “È molto raro?” chiese il fiociniere. “Rarissimo, caro amico, e soprattutto difficile a prendersi vivo. E anche morti, sono uccelli molto apprezzati. Tant’è che c’è chi li fabbrica”.
Jardin des plantes: principale orto botanico della Francia. - 82 -
“Come?” esclamò Consiglio.“Uccelli del Paradiso falsi?” “Certo, durante i monsoni estivi questi animali perdono le bellissime penne della coda, i falsificatori le raccolgono e le applicano a qualche povero pappagalluccio spennato in precedenza; poi verniciano l’uccello e infine spediscono ai musei i prodotti della singolare industria”. I miei desideri erano ormai appagati, in quanto a Ned, fortuna volle che abbattesse un magnifico cinghiale. ll canadese lo pulì, lo tagliò e ne ricavò una mezza dozzina di cotolette da fare ai ferri. Ricominciammo quindi la caccia. Ned e Consiglio esplorando le siepi, scovarono una tribù di canguri che se la diedero a gambe saltellando: ma non abbastanza in fretta da non essere raggiunti. Cinque esemplari furono abbattuti: erano bestie piccole, specie di Canguri – Conigli che abitano generalmente nei cavi degli alberi: di media grossezza, danno la carne migliore. Eravamo proprio soddisfatti della nostra caccia. “Che selvaggina fantastica, soprattutto cotta in stufato! E che provvista, per il Nautilus!” Decidemmo di festeggiare le prede con una cena questa volta completamentre Ned stava addentando un cosciotto di cinghiale, una pietra rotolò ai nostri piedi.
Monsoni: venti stagionali carichi di umidità che spirano dall’Oceano Indiano. - 83 -
Capitolo 18
L’incontro con i Papua
La mia mano restò sospesa a mezz’aria stringendo il cosciotto. Sollevammo lo sguardo e poi fissammo la pietra. “Una pietra non casca dal cielo” mormorò Consiglio. Un secondo sasso venne a confermare la sua osservazione colpendo la mia razione di carne e facendola cadere per terra. Balzammo in piedi col fucile in spalla, pronti a rispondere a qualunque attacco. “Sono scimmie?” domandò Ned. “Sono selvaggi, sono Papua”. “Veloci al canotto!” gridai io e mi misi a correre in direzione del mare. Bisognava infatti battere in ritirata, perché una ventina di indigeni, armati di arco e di fionde, erano sbucati chissà da dove ed erano ormai a un centinaio di metri da noi. Si avvicinavano senza correre, ma continuando a lanciare pietre e frecce. “Ned, non c’è tempo!” urlai al fiociniere che non aveva voluto abbandonare le provviste e, nonostante l’imminenza del pericolo, con il cinghiale da una parte e i canguri dall’altra, cercava di mettere in salvo ogni cosa. In un attimo arrivammo alla spiaggia. Caricare sul canotto armi e bagagli, spingerlo in mare e afferrare i remi, fu questione di un attimo. Non avevamo remato nemmeno per quattrocento metri, quando un
Papua: popolazione della Nuova Guinea che nelle regioni interne, non in contatto con le culture occidentali, conserva antiche usanze e stili di vita ancestrali. - 84 -
centinaio di selvaggi entrò in acqua urlando. Guardai se la loro apparizione attirava qualcuno sulla piattaforma del Nautilus. Niente. L’enorme congegno rimaneva immobile e deserto. Venti minuti dopo salivamo a bordo. Gli sportelli erano aperti. Ormeggiato il canotto, penetrammo all’interno. Scesi in salone e sentimmo dei suoni armoniosi. Il capitano Nemo, chino sull’organo, era immerso in un’esecuzione musicale. “Capitano!” Non sentì. “Capitano!” ripetei toccandolo. Trasalì e si voltò: “Siete voi, professore? Avete fatto buona caccia?” “Sì, capitano, ma disgraziatamente abbiamo rimorchiato una tribù di bipedi la cui vicinanza mi pare poco piacevole”. “Quali bipedi?” “Selvaggi”. “Selvaggi e si meraviglia, professore, di averli trovati mettendo piede a terra? Dove non ce n’è, di selvaggi? “Ma, capitano. . .” “Per conto mio, ne ho incontrati dappertutto”. “Beh, se non volete riceverli a bordo, fareste bene a intervenire”. “State tranquillo professore, non c’è da preoccuparsi”. “Ma sono tanti!” “Quanti ne avete visti?” “Un centinaio, almeno”. “Signor Aronnax – dichiarò rimettendo le mani sui tasti dell’organo – anche se tutti gli indigeni della Papuasia si fossero dati convegno sulla spiaggia, il Nautilus non temerebbe i loro attacchi”. Le sue dita ripresero a correre sulla tastiera. Nemo dimenticò presto la mia presenza, sprofondando in uno stato di - 85 -
estasi che non riuscii più a interrompere. Risalii sulla piattaforma. Era calata la notte, poiché a quella latitudine il sole tramonta in fretta e senza crepuscolo. Vedevo confusamente l’isola Gueboroar, ma numerosi fuochi, accesi sulla riva, indicavano che gli indigeni erano ancora lì. Me ne stetti in silenzio per molte ore: pensavo a quegli individui, ma non li temevo poiché l’imperturbabile fiducia del capitano mi aveva convinto. Pensavo anche alle meraviglie della notte tropicale, alla Francia e alle stelle che l’avrebbero rischiarata. La luna splendeva, la fedele luna che presto avrebbe sollevato le onde per strappare il Nautilus dal letto di coralli. Verso mezzanotte, vedendo tutto quieto, tornai in cabina e mi addormentai. Alle sei del mattino risalii sulla piattaforma: le ultime nebbie si stavano dissolvendo lasciando apparire le coste e le cime sul fondo. Gli indigeni non si erano mossi dalla loro postazione, anzi, erano più numerosi del giorno prima, forse in cinque o seicento. Qualcuno, approfittando della bassa marea, stava avanzando in mare attraverso i coralli e ormai era a meno di quattrocento metri da noi. Li vedevo benissimo: veri Papua, di statura atletica, uomini di rara bellezza, fronte alta e larga, naso grosso ma non schiacciato, denti bianchi. La capigliatura lanosa, tinta di rosso, spiccava sul corpo nero e lucente. Al lobo dell’orecchio pendevano anelli di ossa. Erano quasi tutti nudi. Tra essi potei notare alcune donne, vestite di una gonna di foglie, che andava dalle anche al ginocchio. Alcuni, fra i capi, avevano il collo ornato da una mezzaluna e da collane di vetrame bianco e rosso. Quasi tutti, armati di arco, frecce e scudo, portavano sulla spalla una specie di rete con le pietre rotonde da lanciare. Vidi con timore che aumentavano di numero: forse venivano dalle isole vicine. Fortunatamente non vedevo nemmeno una piroga. Mi raggiunse Consiglio: - 86 -
“Il signore non l’abbia a male, ma a me non paiono così cattivi”. “Si ricordi che sono antropofagi, amico mio”. “Si può essere antropofago e brav’uomo, come si può essere goloso ed onesto. Una cosa non esclude l’altra”. “Va bene, saranno anche onesti, ma io non ci tengo a essere mangiato e starò sul chi va là, visto che il comandante del Nautilus non sembra voler prendere precauzioni. E ora, al lavoro!” Ci mettemmo a pescare, eravamo concentrati nell’attesa di qualche esemplare speciale quando una pietra malauguratamente lanciata da un indigeno venne a spezzare la canna da pesca. Lanciai un urlo. Consiglio si gettò sul mio fucile e mirò a un selvaggio che dondolava la fionda dieci metri più in là. Volevo trattenerlo, ma il colpo partì e ruppe il braccialetto d’amuleti che pendeva dal suo braccio. Intanto da alcuni istanti la situazione era mutata e non ce n’eravamo accorti. Il Nautilus era circondato da una ventina di piroghe intagliate in tronchi d’albero, lunghe, strette, ben studiate per la corsa, equilibrate da un doppio bilanciere di bambù. Le piroghe fluttuavano sulla superficie dell’acqua condotte da abili rematori seminudi. Si accostarono maggiormente al Nautilus e una nuvola di frecce si abbatté su di esso. “Diavolo, grandina!” gridò Consiglio.“E forse si tratta di grandine avvelenata!” “Bisogna avvertire il capitano” dissi rientrando dallo sportello. Scesi nel salone. Non trovai anima viva. Osai allora picchiare alla sua porta. “Immagino abbia dei motivi seri per venirmi a disturbare”. “Serissimi. Le piroghe degli indigeni ci hanno circondati e fra pochi minuti saremo assaliti da parecchie centinaia dei selvaggi. “Ah – fece lui, tranquillamente – sono venuti con le piroghe?”
Piroga: imbarcazione in legno simile alla canoa. - 87 -
“Appunto”. “Ebbene, basta chiudere gli sportelli”. Premette un bottone elettrico e trasmise l’ ordine all’equipaggio “Ecco fatto – disse – gli sportelli sono chiusi”. “Non avrete mica paura – aggiunse – che quei signori sfondino le pareti che i proiettili della vostra fregata non sono riusciti a scalfire?” “No, capitano, ma c’è ancora un pericolo”. “Quale?” “Domani, quando bisognerà riaprire gli sportelli, per cambiare l’aria al Nautilus, i Papua occuperanno la piattaforma”. “E vengano pure. Non c’è ragione di proibirglielo. In fondo sono dei poveri diavoli e non voglio che la nostra visita all’isola Gueboroar costi la vita neanche a uno di quei disgraziati”. Stavo per ritirarmi, quando il capitano Nemo mi trattenne e mi invitò a sedermi accanto a lui. M’interrogò con interesse circa le nostre escursioni a terra e le nostre cacce. Poi la conversazione toccò argomenti diversi e il capitano si mostrò più amabile. “Domani – aggiunse alzandosi – il Nautilus navigherà e lascerà lo stretto di Torres”. Dopo queste parole, pronunciate velocemente, il capitano s’inchinò e lasciò la stanza. Me ne tornai in camera. Rimasi solo, mi coricai, ma dormii malissimo; sentivo il chiasso dei selvaggi che calpestavano la piattaforma, mandando grida assordanti. Così trascorse la notte, senza che l’equipaggio si scuotesse dall’inerzia abituale. Si preoccupavano dei cannibali, tanto quanto i soldati di un fortino blindato si preoccuperebbero delle formiche che corressero sulla blindatura. Alle due e trentacinque, il capitano comparve. “Siamo in partenza. Ho dato ordine di aprire gli sportelli”. “E i Papua?” “I Papua?” replicò alzando appena le spalle. “Non verranno dentro?” “E come?” - 88 -
“Dagli sportelli che avete fatto aprire”. “Signor Aronnax – mi rispose tranquillamente – non si entra mica così facilmente attraverso gli sportelli del Nautilus, neanche quando sono aperti”. Lo guardai. “Non capite?”“Niente affatto”.“Ebbene, venite, a vedere”. Mi voltai verso la scala centrale dove Ned Land e Consiglio, incuriositi, guardavano alcuni uomini dell’equipaggio che aprivano gli sportelli, mentre grida spaventose risonavano al di fuori. I controsportelli si abbassarono esternamente. Facce orribili comparvero. Ma il primo indigeno che mise la mano sulla rampa della scala fu gettato all’indietro da non so quale forza invisibile e scappò, mandando grida forsennate e sgambettando furiosamente. Dieci dei suoi compagni lo seguirono ed ebbero l’identica sorte. Non si trattava in realtà di una rampa, bensì di un cavo metallico, carico dell’elettricità di bordo. Chiunque lo toccava riceveva una scossa formidabile, che sarebbe stata mortale se il capitano avesse dato libero corso a tutta la corrente degli apparecchi. I Papua batterono la ritirata, terrorizzati. Proprio allora il Nautilus, sollevato dalle ultime onde del flusso, lasciò il letto di corallo. L’elica batté le acque con maestosa lentezza, poi la velocità aumentò gradatamente e la nave, correndo sulla superficie dell’oceano, abbandonò sana e salva il pericoloso passaggio dello Stretto di Torres.
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Capitolo 19
Il mare dei coralli
II giorno seguente, il 10 gennaio, il Nautilus riprese il suo viaggio con velocità sostenuta. L’elica girava così in fretta che non potevo né seguire i suoi giri, né contarli. Navigavamo verso ovest e dopo aver doppiato Capo Wessel, puntammo più a sud verso l’Oceano Indiano. Dove ci stava conducendo il capitano? Avremmo risalito le coste dell’Asia? Saremmo tornati verso l’Europa? Avremmo doppiato il capo di Buona Speranza e poi Capo Horn, spingendoci verso il polo antartico? Difficile prevedere le sue mosse, solo i fatti ce lo avrebbero svelato. In quel periodo il comandante passava il suo tempo studiando e effettuando esperimenti sulle temperature delle acque ai diversi livelli di profondità. Navigavamo spingendoci fino a 10. 000 metri sotto il livello delle acque e il risultato di quelle esperienze fu che il mare presenta una temperatura fissa di quattro gradi e mezzo, senza diminuirla né aumentarla risalendo. Il 16 gennaio il sottomarino si fermò appena sotto la superficie del mare e gli apparecchi elettrici furono spenti. Dai portelli vetrati del salone penetrava un debolissimo chiarore dovuto al cielo coperto di nuvole, i pesci erano ombre appena disegnate e lo scafo dondolava in balia delle correnti. Pensammo che l’equipaggio fosse occupato a riparare qualche guasto, fi- 90 -
no a quando fummo testimoni di un’esperienza davvero indimenticabile. Da un momento all’altro ci trovammo immersi in un mare di luci: per un attimo credemmo che il riflettore fosse stato acceso, invece capimmo che si trattava di un fatto nuovo e inaspettato. Stavamo navigando in mezzo a una materia fluorescente gelatinosa procurata da migliaia di microscopici animaletti luminosi il cui scintillio cresceva nello strisciare contro l’involucro metallico dell’apparecchio. La massa luminosa cresceva e si muoveva come colate di piombo fuso in una fornace ardente. C’erano un vigore e un movimento insolito che giungeva da quella infinità di lucciole gelatinose dotate di minuscoli tentacoli filiformi. La loro luminosità veniva raddoppiata dai bagliori delle meduse e il nostro stupore aumentò quando vedemmo creature marine giocare in mezzo a quel fuoco che non brucia. Erano fantastici pesci vela lunghi tre metri, simili ai pesci spada, ma con una pinna sul dorso alta più di un metro. Con la loro pinna urtavano contro il vetro procurando un sordo e inquietante colpo, ma a quella profondità il Nautilus non accusava l’urto e si dondolava placidamente in mezzo alle acque tranquille. Consiglio osservava e classificava ogni cosa che vedeva, pesci o molluschi che fossero, e quella meraviglia non so quanto tempo si protrasse. Riprendemmo la navigazione e il viaggio continuò tranquillo: furono giorni di studio e osservazione, quell’esistenza ci sembrava facile e naturale, non immaginavamo più che ci fosse un’altra vita al di fuori di quelle acque.
Materia flurescente gelatinosa: materia luminosa visibile soprattutto di notte che viene prodotta da alcuni tipi di plancton, costituito da microrganismi animali e vegetali. La luminosità si crea se il plancton viene in qualche modo stimolato o disturbato. Pesce vela: pesce di grandi dimensioni, così chiamato per la pinna dorsale che lo fa emergere dalla superficie marina e che da lontano lo fa assomigliare a una vela. - 91 -
Era mattino e mi trovavo nel salone intento a ordinare le mie carte quando il capitano aprì la porta rivolgendomi un saluto quasi impercettibile. Guardai il suo volto e i suoi occhi mi parvero arrossati come se non vedessero sonno da molte ore. Mi venne incontro e mi chiese se oltre a essere scienziato fossi anche medico. “Certo, signore – dissi – prima di entrare nel Museo, ho esercitato la professione per molti anni”. La mia risposta evidentemente aveva soddisfatto il capitano, ma non sapendo dove volesse arrivare, aspettai nuove domande che non tardarono ad arrivare. “Acconsentirebbe di prestare le sue cure a uno dei miei uomini?” “C’è un malato a bordo?” Annuì e dai suoi occhi capii che si trattava di una cosa seria. “Andiamo, sono pronto a seguirla” dissi. Il capitano mi condusse a poppa e mi fece entrare in una cabina. Sopra un letto giaceva un uomo sulla quarantina. Era ferito, la sua testa era fasciata da bende insanguinate: respirava lentamente, il suo polso era intermittente e le estremità del corpo erano fredde. “Cosa gli è successo?” domandai. Esitò a rispondere: “Un urto del Nautilus ha spezzato una leva della macchina che l’ha colpito al capo.” Lo osservai e diedi un’occhiata alla ferita, scossi la testa, non c’erano speranze. Dissi al capitano che niente avrebbe salvato quell’uomo. La mano del capitano si contrasse e alcune lacrime spuntarono nei suoi occhi che non credevo capaci di piangere. “Signor Aronnax, può ritirarsi adesso” mi disse. Quella notte dormi male e nei miei sogni si presentò una melodia funebre, tristissima e lontana. L’indomani mattina salii sul ponte: il capitano appena mi vide mi chiese se volevo fare un’escursione sottomarina con i miei compagni. La richiesta mi sembrò strana in quella circostanza, ma acconsentii e - 92 -
così fecero Consiglio e il canadese. Erano le otto del mattino e in mezz’ora avevamo indossato gli scafandri e ci eravamo muniti degli apparecchi per l’illuminazione e la respirazione. La doppia porta fu aperta e con il capitano e una una dozzina di uomini dell’equipaggio, scendemmo a circa dieci metri di profondità. Qui non c’era sabbia e neppure alghe, ma solo coralli. Eravamo nel regno dei coralli, in una selva di intricate braccia da cui si dipartivano rami ricchi di fiori stellati bianchi. La luce produceva splendidi effetti giocando in mezzo a tutto quel chiarore. Se la mia mano si accostava a un fiore, la colonia entrava in allarme, le bianche corolle rientravano nei loro astucci rossi e il cespuglio si trasformava in un ammasso pietroso. Man mano che scendevamo in profondità, notai anche meravigliosi rami di corallo rosa. Dopo due ore di cammino avevamo raggiunto una profondità di trecento metri, il limite massimo in cui il corallo comincia a formarsi. Non potevamo comunicarci le sensazioni, eravamo imprigionati in quella maschera di metallo e di vetro e non c’era possibilità di parlare. A un tratto il capitano Nemo si fermò e noi facemmo altrettanto. Nel mezzo della radura, sopra un piedistallo, sorgeva una croce di corallo che stendeva verso l’esterno le sue lunghe braccia che sembravano di sangue pietrificato. Voltandomi vidi che alcuni dei suoi uomini avevano formato un semicerchio e fra questi quattro di loro, che ci avevano raggiunto, avevano appoggiato sul fondo un ingombrante cassone dalla forma allungata . A un cenno del capitano uno dei suoi uomini avanzò e cominciò a scavare una fossa ai piedi dalla croce. Capii subito che quella cassa conteneva il marinaio che avevo visitato il giorno prima e che Nemo e i suoi uomini lo erano venuti a seppellire. La fossa lentamente veniva scavata ed io sentivo risuonare, sul suolo calcareo, il ferro del piccone. Gli uomini si accostarono, presero il corpo che era avvolto in un tessuto di bisso bianco e lo calarono nella tomba marina. Il capitano Nemo, con le braccia incrociate sul petto e i suoi - 93 -
marinai si inginocchiarono in atto di preghiera. Anche noi ci inchinammo composti. La fossa fu coperta. Il capitano e i suoi si rialzarono, si avvicinarono alla tomba e stesero la mano in gesto di addio. Il corteo funebre riprese la strada verso il Nautilus procedendo in salita tra gli arbusti di corallo, Riapparvero le luci di bordo che ci guidarono fino al sottomarino. All’una eravamo di ritorno. Appena mi fui cambiato d’abito, salii sulla piattaforma e mi lasciai andare a pensieri tutt’altro che sereni . Il capitano Nemo mi raggiunse. Mi alzai: “Come avevo previsto quell’uomo non ce l’ha fatta”. “Sì, signor Aronnax e adesso riposa nel cimitero di corallo” e nascondendo il volto nelle mani contratte, il comandante cercò invano di trattenere un singhiozzo. Poi aggiunse: “È il nostro tranquillo cimitero, qualche centinaio di metri sotto il livello del mare”. “I vostri morti, almeno, vi dormono in pace, capitano, lontani dal tiro dei pescecani”. “Sì – replicò egli gravemente – lontano dai pescecani e dagli uomini”.
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Capitolo 20
L’oceano Indiano
Qui comincia la seconda parte di questo viaggio sotto il mare. La prima si è chiusa con la scena del cimitero di corallo, una scena che mi ha profondamente commosso: il mare era il luogo dove il capitano svolgeva la sua vita e lo stesso mare sarebbe stata la sua tomba, scavata nel più impenetrabile degli abissi dove nessun essere vivente, pesce o uomo che fosse, sarebbe mai arrivato a turbarne la quiete. Quanto a me, raccoglievo le interpretazioni dei miei compagni di viaggio sullo strano protagonista della nostra avventura. Consiglio, bravo giovanotto, insisteva nel vedere nel comandante uno di quegli scienziati che pagano l’indifferenza dell’umanità con il disprezzo. Era per lui un genio incompreso che, stanco dei disinganni della terra, aveva voluto rifugiarsi in quel mondo inaccessibile dove le sue inclinazioni si potessero esprimere liberamente. Ned non aveva rinunziato alla speranza di recuperare la sua libertà e sicuramente avrebbe approfittato della prima occasione per fuggire. Io, da parte mia, mi rendevo conto che era impossibile lasciare il Nautilus; eravamo prigionieri, mascherati con il nome di ospiti. Cominciavo inoltre a tessere un’altra ipotesi, meno confortante: il capitano non solo cercava di sfuggire agli uomini con il suo formidabile apparecchio, ma forse aveva in programma qualche terribile vendetta verso l’umanità. Era solo un’intuizione, niente mi era chiaro e potrò solo limitarmi a scrivere sotto la dettatura degli avvenimenti. - 95 -
Riprendemmo la navigazione facendo rotta verso ovest e solcando le acque dell’Oceano Indiano, acque così trasparenti da dare le vertigini a chi le guarda. Il 28 gennaio lo scafo ritornò in superficie e ad ovest ci trovammo a una distanza di otto miglia da una costa verdeggiante. Eravamo di fronte all’isola di Ceylon, una perla all’orecchio della penisola indiana. Stavo osservando le carte, quando comparvero il capitano Nemo e il suo secondo. “L’isola di Ceylon – disse – è celebre per la pesca delle perle; le piacerebbe signor Aronnax, partecipare a questa esperienza?” “Certamente capitano – risposi – devo confessarle che non sono molto informato sulle modalità con cui avviene questo tipo di pesca”. “Professore – mi disse Nemo – le perle si pescano nel golfo del Bengala, nel mare delle Indie, in quelli della Cina e del Giappone, dell’America del Sud, nel golfo di Panama e in quello di California, ma i risultati migliori si ottengono a Ceylon. In primavera i pescatori si radunano nel golfo di Manaar e per trenta giorni i loro trecento battelli si dedicano a questo redditizio sfruttamento delle acque marine. Adesso è presto, ma qualche barca la troveremo lo stesso. Ogni battello ha dieci rematori e dieci pescatori. Questi ultimi, divisi in due gruppi, si immergono alternativamente e scendono alla profondità di dodici metri tenendo tra i piedi una pietra legata al battello per mezzo di una corda.” “È un metodo un po’ primitivo: credo che lo scafandro, così come voi lo utilizzate, sarebbe prezioso”. “Sì, perché quei poveracci non possono mica rimanere troppo tempo sott’acqua. Si racconta di un raccoglitore di perle che riusciva a starci cinque minuti senza venire a galla: ma io ci credo poco. So di qualcuno che arriva fino a cinquantasette secondi e i più abili fino a ottantasette. Però sono rari e una volta tornati a bordo i disgraziati buttano dal naso e dalle orecchie acqua sporca di sangue. Ritengo che la media del tempo che i pescatori riescono a stare sotto sia di trenta secondi, durante i quali si affannano a raccogliere in una reticella tutte le ostriche che - 96 -
possono. E di solito costoro non vivono a lungo: la vista si indebolisce, gli occhi si ulcerano, si formano piaghe per tutto il corpo e spesso sono perfino colpiti da apoplessia in fondo al mare.” “È proprio un brutto mestiere che serve solo a soddisfare i capricci della moda. Ma dica capitano: quante ostriche può pescare un battello in un giorno?” “Da quaranta a cinquantamila circa”. “Li pagano abbastanza, almeno?” “Direi proprio di no. Guadagnano circa un dollaro alla settimana. Ricevono un compenso per ogni ostrica con la perla, ma ne raccolgono tante senza niente”. “Un soldo, accidenti! Quei poveracci non fanno altro che arricchire i loro padroni. È inaudito!” “A proposito, signor Aronnax: non ha mica paura dei pescecani?” Tacqui, la domanda non mi era per niente piaciuta. “Allora?” insisté. “Confesso, capitano, che non sono ancora molto in confidenza con quella razza di pesci”. “Noi ci abbiamo fatto l’abitudine e col tempo succederà anche a lei. Siamo armati, del resto”. Detto questo, il capitano Nemo se ne andò. Quanto a me, mi passai una mano sulla fronte, mi sentivo accaldato. “Riflettiamo – pensai – cacciare tartarughe è un conto, ma esplorare il fondo dei mari, quando si è quasi sicuri di trovarci gli squali, è un altro paio di maniche! So benissimo che in certi paesi, nelle isole Andamane per esempio, gli indigeni non ci mettono mica tanto ad attaccare i pescecani con un pugnale in mano e un laccio nell’altra: ma io so anche che in molti ci lasciano la pelle.” Mi vedevo davanti quelle bestie e le loro enormi mascelle con parecchie file di denti, capacissime di fare un uomo in pezzi. Sentivo perfino un certo dolore ai reni. Consiglio non vorrà venire di sicuro – pensai – e questo mi servirà da pretesto per non accompagnare il capitano. Però Ned Land forse accetterà. Il rischio, per quanto grande, è sempre un’attrattiva per il suo carattere battagliero. - 97 -
Proprio in quel momento entrarono Consiglio e il canadese con un’aria tranquilla e perfino allegra. Non sapevano quello che li aspettava. “Perbacco, signore – mi disse Ned Land – il capitano ci ha fatto una proposta interessante”. “Già sapete?” “Se lei è d’accordo – riferì Consiglio – il comandante ci ha invitato a visitare domani le riserve di perle di Ceylon. L’ha fatto con bei modi, si è comportato da vero gentiluomo”. Ned aggiunse: “Mi intendo di balene, di perle però non so niente”. “Per il poeta la perla è una lacrima del mare” feci io cercando di concentrarmi su aspetti ameni della questione e continuai: “Per gli orientali è una goccia di rugiada solidificata, per i naturalisti è una secrezione malaticcia prodotta da alcuni bivalvi. Molti bivalvi possono produrre perle, anche il dattero di mare, ma il mollusco considerato produttore per eccellenza è l’ostrica che è lo scrigno dove loro si annidano. Le perle sono da secoli oggetti preziosi il cui valore dipende dalla grossezza, dalla forma e dal colore.” “Certo – disse Ned – se potessimo portare a terra una perla da migliaia di euro, i nostri racconti acquisterebbero in autenticità e valore; ma mi dica professore, Nemo non le ha detto altro?” Raccontai così del pericolo degli squali. Alla fine Ned aveva gli occhi che gli brillavano: “Non crediate che io abbia paura: un fiociniere di professione come me! È il mio mestiere e io me la rido di loro!” “E tu Consiglio cosa ne pensi?” chiesi io. “Sarò schietto col signore: se il signore affronterà i pescecani, non vedo perché il suo fedele domestico non debba affrontarli con lui”.
Dattero di mare: mollusco bivalve dalla forma allungata e sottile. - 98 -
Capitolo 21
Perle e squali
Quella notte dormii male, gli squali popolarono i miei sogni. L’indomani, alle quattro del mattino, fui svegliato da uno dei marinai che il capitano Nemo aveva messo al mio servizio. Mi alzai, mi vestii in fretta e andai nel salone. Il capitano mi aspettava. “Signor Aronnax, è pronto a partire?” “Sono pronto”. “Mi segua”. “E i miei compagni?” “Ci stanno aspettando”. “Non ci mettiamo gli scafandri?” “Ancora no. Ho fatto preparare il canotto; sopra c’è tutto quello che ci serve per la nostra immersione”. Il capitano Nemo mi condusse verso la scala centrale i cui gradini portavano alla piattaforma. Ned e Consiglio erano già lì, pronti per la gita di piacere che stava per iniziare. Fuori era ancora buio. Masse di nubi coprivano il cielo, lasciando scorgere appena qualche stella. Il capitano Nemo, Consiglio, Ned Land e io prendemmo posto nella parte posteriore del canotto; il timoniere si mise alla barra, gli altri quattro calarono i remi e ci allontanammo dalla nave. Alle sei si fece giorno all’improvviso, con quella sveltezza propria delle - 99 -
regioni tropicali che non conoscono né aurora né crepuscolo. I raggi solari squarciarono la cortina di nuvole ammassate sull’orizzonte orientale e il sole si levò rapido. Vidi distintamente la terra con qualche albero sparso qua e là. A un cenno del capitano l’ancora fu gettata; la catena compì un breve percorso, perché il fondo era a un metro circa in uno dei punti più bassi del banco di ostriche. Con l’aiuto dei marinai cominciai a indossare lo scafandro. Il capitano Nemo e i miei due compagni si vestirono anche loro. Nessuno degli uomini del Nautilus ci avrebbe accompagnati nella nostra gita. “Non portiamo le luci per illuminare il fondo?” chiesi io. “Sarebbero inutili – rispose il capitano – non andiamo a grandi profondità e i raggi solari basteranno a rischiararci la via. Il riverbero inoltre potrebbe inopinatamente attirare qualche pericoloso abitante locale”. Mentre Nemo pronunciava queste parole, mi voltai verso Consiglio e Ned Land: ma i due amici avevano già inserito il capo nella calotta metallica e non potevano né sentire né rispondere. Mi restava un’ultima domanda da fare al capitano. “E le nostre armi, i nostri fucili?” “Fucili? Per farne che cosa? I vostri montanari non attaccano forse l’orso col pugnale e l’acciaio non è meglio del piombo? Ecco per lei una lama tagliente. La metta alla cintura e partiamo”. Guardai i miei compagni. Erano armati come noi e per di più Ned Land brandiva un’enorme fiocina che aveva messo nell’imbarcazione prima di lasciare il Nautilus. Poi, seguendo l’esempio del comandante, mi lasciai infilare sulla testa la pesante sfera di rame e i serbatoi ad aria furono messi in azione. Un istante dopo ci immergemmo e posammo il piede sulla sabbia. Il capitano fece un segno con la mano e lo seguimmo. Il sole illuminava le acque. Anche le minime cose erano visibili. Dopo dieci minuti eravamo scesi a cinque metri dove il fondo quasi si appiattiva. I brutti pensieri si dileguarono. Tornai meravigliosamente calmo. - 100 -
La facilità dei movimenti mi aumentava la fiducia. Verso le sette arrivammo finalmente al banco dove le ostriche perlifere si riproducevano a milioni. I molluschi aderivano alla roccia attaccati col bisso bruno che impediva loro di muoversi. La loro conchiglia era di forma arrotondata e aveva le valve quasi uguali tra loro, spesse e rugose esternamente. Alcune a strati, solcate da righe verdastre che si irradiavano dall’alto, erano quelle delle ostriche giovani. Altre, dalla superficie ruvida e nera, avevano almeno dieci anni ed erano larghe anche quindici centimetri. Ma non potevamo fermarci. Bisognava seguire il capitano che pareva dirigersi attraverso sentieri noti solo a lui. A un tratto ci si aprì davanti una vasta grotta nella quale i raggi solari si spegnevano con digradazioni successive, in una vaga trasparenza. Il capitano Nemo vi penetrò e noi dietro di lui. Gli occhi si abituarono presto alle tenebre. Dopo aver disceso una china ripidissima, mettemmo i piedi sul fondo d’una specie di buca circolare. Là il capitano si fermò e ci indicò con la mano un oggetto che non avevo ancor visto. Era un’ostrica di straordinarie dimensioni, una sorta di acquasantiera gigantesca, una vasca della larghezza di oltre due metri, cioè più grande di quella che ornava il salone del Nautilus. Mi avvicinai al fenomenale mollusco. Aderiva col bisso a un scoglio piatto e lì si sviluppava. Calcolai che il suo peso doveva essere circa di trecento chili. Un’ostrica simile racchiude quindici chili di carne e ci vorrebbe lo stomaco di un gigante per poterne ingerire una razione. Il capitano Nemo, evidentemente, conosceva già l’esistenza di quella bivalva; non era la prima volta che la visitava e pensavo che conducendoci in quel luogo voleva soltanto mostrarci una curiosità naturale.
Bivalva: conchiglia composta da due parti (valve) che aderiscono fra loro. - 101 -
Mi sbagliavo, perché egli aveva invece dei motivi particolari per farci vedere il mollusco. Le due valve erano semi–aperte. Il capitano si accostò e introdusse il pugnale tra le due conchiglie, affinché non si richiudessero; poi sollevò con la mano il corpo membranoso e frangiato ai bordi che costituiva il mantello dell’animale. E nel mezzo vidi una perla, grossa come una noce di cocco; la forma sferica, la limpidezza perfetta, la luce ammirevole, ne facevano un gioiello d’inestimabile valore. Spinto dalla curiosità, stesi la mano per afferrarla, pesarla, palparla, ma il capitano mi fermò, ritirò il pugnale con rapida mossa e lasciò che le due valve si richiudessero in fretta. Allora capii il suo scopo. Lasciando la perla custodita nel suo sito, le permetteva di crescere ancora; ogni anno la secrezione del mollusco aggiungeva nuovi strati concentrici di materia. Solo il capitano conosceva la grotta dove maturava quel magnifico frutto della natura e lui solo lo coltivava, diciamo così, per trasportarlo un giorno nel suo prezioso museo. La visita all’opulente ostrica era finita. Il capitano Nemo lasciò la grotta e risalimmo in mezzo alle acque chiare non ancora turbate dal lavoro dei pescatori. Dieci minuti dopo il comandante si fermò all’improvviso; credetti a una sosta per un po’ di riposo. Con un gesto ci ordinò di rannicchiarci accanto a lui in fondo a un’ampia grotta. La sua mano si diresse verso un determinato punto e a cinque metri di distanza, apparve un’ombra. L’immagine dei pescecani mi balenò nella mente, ma m’ingannavo: era un uomo, un pescatore, un povero diavolo, di certo. Scorgevo il fondo del suo canotto, poco sopra la sua testa. S’immergeva e risaliva in continuazione. Una pietra al piede, che gli serviva a scendere più rapidamente, lo collegava con una corda al battello e quella era tutta la sua attrezzatura. Arrivato al suolo, a cinque metri circa di profondità, si metteva in ginocchio e riempiva la borsa di ostriche raccattate a casaccio, poi risaliva, - 102 -
vuotava la borsa e ricominciava l’operazione. A un tratto, mentre l’indiano era inginocchiato, lo vidi trasalire in un gesto di spavento, rialzarsi e prendere lo slancio per tornare a galla. Un’ombra gigantesca si profilava sopra di lui: era un grosso pescecane che avanzava in diagonale con gli occhi in fiamme e le mascelle spalancate. Mi fermai inorridito incapace di fare un solo movimento. La bestia, con un vigoroso colpo di pinna, fece per buttarsi sull’indiano il quale, con un balzo, sfuggì alla sua presa, ma non riuscì a evitare l’urto della coda. La scena era durata appena qualche secondo. Lo squalo tornò e, girandosi sulla schiena, stava per avventarsi sul pescatore, quando il capitano Nemo, pugnale alla mano, andò dritto verso il mostro, pronto a una lotta corpo a corpo. La bestia si accorse del nuovo avversario proprio mentre stava per azzannare il malcapitato e si rimise a pancia in giù, rivolgendosi a lui. Mi pare ancora di vedere le mosse del capitano: ripiegato su se stesso, attendeva il formidabile squalo con sangue freddo e quando quello gli si precipitò sopra, evitò lo scontro, gli si gettò di lato e con una sveltezza incredibile gli infisse il pugnale nel ventre. Ma non era finita lì. Cominciò un combattimento terribile, il pescecane ruggiva addirittura, mentre il sangue gli usciva a fiotti e il mare si tingeva di rosso. Io non vedevo più nulla, fino al momento in cui vidi Nemo che, aggrappato a una delle pinne dell’animale, iniziò a crivellare di pugnalate il ventre del nemico senza riuscire a ferirlo mortalmente. Lo squalo, dibattendosi, agitava furibondo la massa delle acque e il risucchio minacciava di rovesciarmi. Avrei voluto correre in soccorso del capitano, ma non potevo muovermi, ero terrorizzato. Guardavo inebetito. Vedevo modificarsi le fasi della lotta. Il comandante cadde a terra, travolto dall’enorme massa che gli gravava sopra. Poi le mascelle del pescecane si aprirono smisuratamente e il capitano sarebbe stato spacciato se, rapido come il lampo, Ned Land non si fosse preci- 103 -
pitato sul pescecane stesso, colpendolo con la punta della sua fiocina. Lo squalo iniziò a divincolarsi con furore. Ned aveva colto nel segno. Il mostro rantolava, ferito al cuore, tra spasimi raccapriccianti. Il capitano, si girò subito verso l’indiano, tagliò la corda che lo legava alla pietra, lo prese fra le braccia e, con un gran colpo di tallone risalì in superficie. Lo seguimmo e, salvi per miracolo, raggiungemmo la barca del pescatore. La prima preoccupazione del capitano Nemo fu di richiamare alla vita il disgraziato. Non sapevo se ci sarebbe riuscito. Speravo di sì, perché la sua immersione non era stata lunga, ma la coda del pescecane poteva averlo colpito a morte. Per fortuna, sotto i vigorosi massaggi di Consiglio e di Nemo, a poco a poco rinvenne e aprì gli occhi. Che sorpresa e che spavento, dovette provare vedendo quattro grosse teste di rame chine su di lui! E soprattutto, chissà cosa pensò quando il capitano estrasse da un contenitore un gruzzolo di perle e glielo mise in mano. Il dono fu accettato dall’uomo con mano tremante. A un cenno del capitano tornammo in acqua e in breve raggiungemmo il canotto. Una volta imbarcati, ciascuno di noi si sbarazzò della pesante corazza di rame, aiutato dai marinai. La prima parola del capitano Nemo fu per il canadese. “Grazie, mastro Land”. Un lieve sorriso sfiorò le labbra del comandante. Qualche minuto più tardi, incontrammo il cadavere del pescecane che galleggiava. Dal color nero dell’estremità delle pinne, riconobbi il terribile melanottero del mare indiano, della specie dei pescecani veri e propri. Era lungo circa 8 metri, e la bocca enorme occupava un terzo del corpo. Dalle sei file di denti, disposte a triangolo isoscele sulla mascella superiore, si capiva che era adulto. Consiglio lo guardava con interesse esclusivamente scientifico e sono certo che lo classificava nella classe dei cartilaginei, ordine a branchie - 104 -
fisse, famiglia dei selaci, genere degli squali. Mentre consideravo quella massa inerte, una dozzina di pescecani apparve a un tratto intorno all’imbarcazione; senza curarsi di noi, si buttarono sul cadavere, e se ne litigarono i pezzi. Alle otto e mezzo eravamo di ritorno a bordo del Nautilus. Mi misi a riflettere, due cose risultavano chiare: l’audacia senza pari del capitan Nemo e il suo agire generoso per un essere umano. Quando gli svelai i miei pensieri, mi rispose con tono leggermente commosso: “Quell’indiano, professore, appartiene al mondo degli oppressi. Ed io, a quel paese appartengo, e apparterrò fino all’ultimo respiro”.
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Capitolo 22
Verso il Mediterraneo
Il mese di febbraio trascorse navigando senza sosta. Dopo aver superato l’Isola di Ceylon, passammo il mare di Oman ed entrammo nel Mar Rosso. Furono giorni di tranquillità in cui passavamo ore in osservazione delle specie appartenenti a quelle acque coralline. Ci chiedevamo quando avremmo fatto marcia indietro per uscire da quel mare chiuso e un bel giorno il capitano ci comunicò che saremmo presto approdati nel Mar Mediterraneo. “Come – chiesi io – torniamo indietro, facciamo il giro dell’Africa, doppiamo il Capo di Buona Speranza, risaliamo, imbocchiamo lo stretto di Gibilterra, e tutto questo in pochi giorni?” “E chi le dice che faremo il giro dell’Africa, signor professore?” “A meno che il Nautilus non navighi in terraferma, o non passi sopra l’istmo di Suez”.“Oppure sotto, signor Aronnax”.“Come, esisterebbe un passaggio?” “Sì, esiste un passaggio sotterraneo che ho chiamato Tunnel Arabico” “Ma questo istmo non è composto di sabbie mobili?”
Tunnel Arabico: ora detto Canale di Suez; è il canale artificiale situato in Egitto che permette la navigazione dall’Europa all’Asia senza circumnavigare l’Africa. Jules Verne ha iniziato a scrivere Ventimila leghe sotto i mari nel 1969, proprio l’anno in cui avveniva la demolizione dell’ultimo diaframma di terreno che ostacolava la navigazione nello stretto.
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“Fino a una certa profondità, poi ci sono rocce altissime”. “E come avete scoperto il passaggio?” “Ragionando, signor professore. Avevo osservato, in precedenti viaggi, che il mar Rosso e il Mediterraneo avevano un alto numero di pesci di specie assolutamente identiche. Se esisteva la corrente, questa andava dal Mar Rosso al Mediterraneo per la differenza dei livelli delle acque. A questo scopo pescai nel mare di Suez una gran quantità di pesci e passai nella loro coda un anello di rame e li rigettai in mare. Alcuni mesi dopo ripescavo nel mare della Siria gli stessi pesci con l’anello sulla coda. Per avere conferma, col Nautilus, lo scorso anno ho provato ad avventurarmi alla ricerca del passaggio e l’ho trovato, e fra poco anche lei, signor professore, passerà attraverso il mio tunnel arabico”. Il passaggio lo vidi il giorno dopo direttamente dalla gabbia del pilota. Nemo mi ci condusse attraverso la scala centrale. Era una cabina di due metri per lato. Nel mezzo, una ruota ingranata sul cordame del timone, serviva da volante. Quattro sportelli di vetro, incassati nelle pareti, consentivano di guardare in tutte le direzioni. Il gabbiotto era scuro, ma gli occhi si abituarono presto al buio e vidi il pilota che teneva le mani appoggiate sui quarti della ruota. Alle ventidue e un quarto il capitano prese lui stesso la barra. Una galleria larga, nera e profonda si apriva davanti a noi. Il Nautilus si infilò con sicurezza e un rumore insolito si udì contro i suoi fianchi; erano le acque del Mar Rosso, trascinate dalla pendenza verso il Mediterraneo. Il Nautilus seguiva quella specie di torrente, rapido come una freccia. Il cuore mi palpitava e lo comprimevo con la mano. Alle ventidue e trentacinque, il capitano Nemo abbandonò la ruota del timone, e si volse verso di me: “Il Mediterraneo” disse. In meno di venti minuti il Nautilus, trascinato dalla corrente, aveva superato l’istmo di Suez. - 107 -
Il giorno seguente, il 12 febbraio, al sorgere del sole tornammo a galla. Andai sulla piattaforma. A tre miglia verso sud si intravedeva Pelusio, città egiziana sul Mediterraneo. Un torrente ci aveva portati da un mare all’altro. Ned e Consiglio mi raggiunsero. I due inseparabili compagni avevano dormito tranquillamente, senza affatto curarsi delle prodezze del Nautilus. “Ebbene, signor naturalista – domandò il canadese, in tono leggermente canzonatorio – e questo Mediterraneo?” “Ci stiamo navigando sopra, caro Ned”. “Cosa?” fece Consiglio. “Non ci credo” commentò il fiociniere. “E avete torto, mastro Land. Quella costa bassa che s’incurva a sud, è la costa egiziana”. “Raccontatelo a qualcun altro” ribatté. “Dal momento che il signore lo afferma – gli disse Consiglio – dobbiamo credergli”. “Il capitano Nemo mi ha fatto gli onori di stare con lui nella gabbia del timoniere mentre dirigeva il Nautilus attraverso il passaggio”. “Avete sentito Ned? Cosa avete da dirci?” “Quel che ho da dire è semplicissimo. Siamo in Europa e prima che i capricci del comandante ci trascinino in fondo ai mari polari o ci portino in Oceania, chiedo di lasciare il Nautilus”. Confesso che quelle discussioni col canadese mi imbarazzavano sempre. Non volevo in alcun modo ostacolare la libertà dei miei compagni e tuttavia non avevo alcun desiderio di piantare in asso il capitano. Grazie a lui, al suo apparecchio, completavo di giorno in giorno i miei studi sulle profondità marine. Avrei ritrovato un’occasione simile per osservare le meraviglie dell’oceano? No, di certo! Non potevo quindi abbandonare il Nautilus prima di terminare il giro esplorativo. “Ned, rispondetemi sinceramente. Si annoia a bordo? Le dispiace che il destino l’abbia messo nelle mani del capitano Nemo?” - 108 -
Il canadese rimase qualche istante senza rispondere. Poi, incrociando le braccia: “Francamente – disse – il viaggio in fondo ai mari non mi dispiace. Ma, perché sia fatto, bisogna anche che finisca, questa è la mia opinione”. “Finirà, Ned”. “Dove e quando?” “Dove, non so. Quando, non posso dirlo ancora, credo che finirà quando i mari non avranno più niente da insegnarci. Tutto quello che comincia deve per forza terminare, in questo mondo”. “Io la penso come il signore – dichiarò Consiglio – ed è molto probabile che, dopo aver compiuto il giro dei mari, il comandante ci lasci andare”. “Andare? – esclamò il canadese – Con una scarica di legnate, intende?” “Non esageriamo, Mastro Land. Non abbiamo da temer nulla dal capitano, però non condivido nemmeno le idee di Consiglio. Siamo in possesso dei segreti del Nautilus e non credo che il suo comandante desideri che noi riportiamo sulla terraferma quanto abbiamo vissuto qui.” “Ma allora, che cosa spera?” “Che si presentino circostanze favorevoli in un prossimo futuro.” “Già! E in futuro dove saremo, se non le spiace, signor naturalista?” “Forse qui, forse là. Il Nautilus va in fretta. Attraversa gli oceani come una rondine attraversa l’aria”. “Signor Aronnax, i suoi ragionamenti mancano di fondamenta. Lei parla al futuro: … saremo qua, saremo là… io parlo al presente: siamo qua ora e bisogna approfittarne”. La logica di Ned Land era stringente e mi sentivo vinto. Non sapevo più quali argomenti tirar fuori. “Signore – riprese – supponiamo, per assurdo, che il capitano Nemo le offra oggi stesso la libertà. Accetterebbe?” “Non so”. “E l’amico Consiglio, che ne pensa?” “L’amico Consiglio – replicò tranquillamente – non ha niente da dire. Come il padrone, e come il compagno Ned, è celibe, né moglie né - 109 -
genitori, né figli che lo aspettino in patria. Però non vorrei essere io a determinare la scelta finale, quindi mi astengo da qualsiasi opinione”. In fondo, il canadese doveva essere contento di non averlo contro. “Allora, signore, giacché Consiglio non esiste, discutiamo noi due, mi ha sentito? Che cosa risponde?” Evidentemente, bisognava rispondere. Le strategie mi ripugnavano. “Caro Ned, ecco la risposta. Ha ragione lei e i miei argomenti non reggono davanti ai suoi. Prudenza vuole che approfittiamo della prima occasione per lasciare il Nautilus. “Bene, signor Aronnax, questo è parlare sensato”. “Un’osservazione soltanto, una sola. Bisogna che l’occasione sia giusta, perché se va a rotoli, il capitano Nemo non ce lo perdonerà”. “Certamente, l’occasione sarà assolutamente favorevole”. “Posso chiederle, Ned, che cosa intendete per assolutamente favorevole?” “Sarebbe quella che, in una notte buia, condurrebbe il Nautilus a poca distanza da una costa europea”. “E tenterebbe di salvarsi a nuoto?” “Sì, se fossimo abbastanza vicini alla riva, altrimenti cercherei di impadronirmi del canotto”. “Bene, Ned. Cerchi l’occasione, ma non dimentichi che un insuccesso ci rovinerebbe”. “Non lo dimenticherò, signore, anche se in realtà temo che Nemo, soprattutto adesso, ci terrà d’occhio”. La conversazione terminò in quel modo. Debbo dire che i fatti vennero a confermare le mie previsioni. Il capitano Nemo il più delle volte si tenne lontano dalle coste e il Nautilus navigò sempre in profondità. Il giorno seguente successe un evento che non riuscii a spiegare. Mentre osservavo dal vetro del salone i pesci fiore, dai colori cangianti,
Pesci Fiore: pesce nominato da Verne, ma non classificato a livello scientifico con quel nome, per cui è difficile identificarlo con una particolare specie. - 110 -
fra il rosa e il rubino acceso, nel mezzo delle acque apparve un nuotatore che portava alla cintura una borsa di cuoio. Nuotava vigorosamente, spariva ogni tanto per andare a respirare alla superficie e si rituffava subito. Mi volsi al capitano Nemo, gridando: “Un uomo! Un naufrago! Bisogna salvarlo a ogni costo!”. Il capitano non rispose e si avvicinò al vetro. L’individuo ci guardava col viso attaccato allo sportello. Con mio grande stupore, il comandante gli fece un cenno. Il pescatore gli rispose con la mano, risalì immediatamente a galla, e non tornò più. “Non si preoccupi – disse il capitano – è Nicola, soprannominato il Pesce, conosciutissimo in tutte le Cicladi. Un immersionista coraggioso, l’acqua è il suo elemento e ci vive più che sulla terra andando a nuoto da un’isola all’altra, fino a Creta.” “Lo conosce, capitano?” “Perché no, signor Aronnax?” Detto ciò, si avvicinò a un armadio posto accanto allo sportello sinistro del salone, senza preoccuparsi della mia presenza lo aprì con una chiave che portava sul panciotto e al suo interno comparvero un gran numero di lingotti. Erano lingotti d’oro. Guardavo. Il capitano Nemo ne prese una parte e li inserì ordinatamente in uno scrigno. Lo scrigno fu chiuso, poi il comandante tracciò sul coperchio un indirizzo a caratteri che dovevano appartenere al greco moderno, suonò un campanello e quattro uomini comparvero, ritirarono lo scrigno e lasciarono la stanza. Volgendosi a me, il capitano Nemo domandò: “Diceva, professore?” “Non dicevo niente, capitano”. “Allora, mi permetta di darle la buonanotte” e detto ciò, lasciò il salone. Tornai in camera perplesso e incuriosito, come è facile immaginare. Tentai invano di dormire. Da dove venivano quei lingotti, a chi erano destinati? E quell’uomo chi era? - 111 -
Capitolo 23
L’Oceano Atlantico
Di quel Mediterraneo vedemmo solo orizzonti lontani. Neppure il capitano ci fece più visita. Dopo due giorni, al levare del sole, avevamo passato lo stretto di Gibilterra ed eravamo nell’Atlantico: mare importante, solcato dalle navi di tutte le nazioni. Il Nautilus aveva preso il largo e risalì alla superficie. Alla distanza di dodici miglia appariva all’orizzonte il capo di Saint Vincent, punta sud ovest della penisola iberica. Soffiava un forte vento, il mare era grosso e agitato e scuoteva il Nautilus, tanto che era quasi impossibile stare sulla piattaforma, spazzata continuamente da grosse ondate. Riscendemmo e Ned mi seguì in cabina. Chiuse la porta, sedette e mi guardò in silenzio. Iniziai io a parlare. “Caro Ned, non avete proprio niente da rimproverarvi, lasciare il Nautilus era veramente un’impresa impossibile.” Ned mi guardò fissamente: “Stasera” disse. Mi alzai di scatto. Ned continuò: “Eravamo d’accordo di aspettare l’occasione, ora l’occasione c’è. Questa sera saremo a poche miglia dalla costa spagnola, la notte è senza luna e il vento soffia dal largo”. - 112 -
Tacevo e il canadese continuò: “Ho la sua parola, signor Aronnax e conto su lei”. Siccome continuavo a tacere, il canadese si alzò, mi venne vicino e continuò: “Il capitano sarà nella sua cabina, forse dormirà. Né i meccanici, né gli uomini di bordo ci possono vedere. Consiglio ed io raggiungeremo la scala centrale. Lei, signor professore, resterà in biblioteca aspettando il mio segnale. I remi, l’albero e la vela sono nel canotto. Sono riuscito perfino a prendere qualche provvista. Mi sono procurato una chiave inglese, per svitare i dadi che legano il canotto alla chiglia del Nautilus. Tutto è pronto. A questa sera”. Stava per andarsene, lo trattenni: “Il mare è cattivo”. “Lo so, ma si deve rischiare. La libertà bisogna guadagnarsela. D’altra parte, l’imbarcazione è solida e poche miglia col vento favorevole non sono impossibili. Se tutto va bene, tra dieci o undici ore sbarcheremo in qualche punto della terraferma; altrimenti, saremo morti. Dunque, con l’aiuto di Dio, a questa sera”. Ned si ritirò, lasciandomi alquanto sbalordito. Avevo immaginato che avrei avuto tempo per riflettere, ma quel canadese, mica me lo permetteva. Che gli avrei potuto dire in fin dei conti? Aveva ragione. Era arrivata l’occasione. Rimasi in camera. Volevo evitare il capitano, per nascondergli l’emozione che mi dominava. Provavo un insopportabile malessere. Le ore erano troppo lunghe e non passavano mai. La colazione mi fu servita in camera, come al solito. Mangiai male, ero troppo preoccupato. Lasciai la tavola alle sette. Centoventi minuti – calcolai – mi separavano dal momento in cui avrei dovuto raggiungere Ned Land. Ero sempre più agitato, il polso mi batteva violentemente, non riuscivo a stare fermo; andavo e venivo, sperando di calmarmi. Volli tornare nel salone un’ultima volta. Passai nei corridoi, giunsi al mu- 113 -
seo dove avevo passato tante ore. Guardai tutte quelle ricchezze e quei tesori, come un uomo alla vigilia di un eterno esilio che parte per non tornare più. Stavo per abbandonare per sempre le meraviglie naturali quando, percorrendo il salone, arrivai vicino alla porta della camera del capitano. Era socchiusa. Indietreggiai. Se il capitano Nemo era in camera sua, poteva vedermi. Tuttavia, non udendo alcun rumore, finii per accostarmi. La stanza era vuota. Tornai in camera. Mi vestii: stivali da marinaio, berretto di lontra, casacca di bisso foderata di pelle di foca. Ero pronto. Aspettavo. Il silenzio profondo che regnava a bordo era turbato soltanto dai fremiti dell’elica. Ascoltavo, tendevo l’orecchio. Avrei sentito, tutto a un tratto, uno scoppio di voci che mi avrebbe fatto capire che Ned Land era stato scoperto nei suoi tentativi di evasione? Un’inquietudine mortale mi invase. Cercai inutilmente di riprendere il mio sangue freddo. Alle nove meno qualche minuto, misi l’orecchio alla porta del capitano. Nessun rumore. Lasciai la mia camera e tornai nel salone, che era in penombra. Mi accostai alla porta che conduceva alla scala centrale. Attendevo il segnale di Ned Land.Proprio allora i fremiti dell’elica diminuirono sensibilmente e poi cessarono del tutto. Il silenzio era turbato solo dai battiti del mio cuore. Tutto a un tratto si udì un lieve urto. Capii che il Nautilus si era fermato in fondo all’oceano. Il segnale del canadese non arrivava. Avevo voglia di raggiungere Ned Land, per esortarlo a rimandare il tentativo. In quel momento la porta del salone si aprì e apparve il capitano Nemo. Mi vide, non parve dare importanza al mio abbigliamento e senza preamboli disse: “Ah! Professore – disse in tono amabile – la cercavo. Conosce la storia della Spagna?” - 114 -
“Ebbene – riprese il capitano – ha sentito la mia domanda? Conosce fatti e storia della Spagna?” Restai muto, tanto mi aveva colto di sorpresa. “Ecco, i sapienti, che non sanno. . . E allora, si segga. Le racconterò qualcosa”. Si mise comodo su un divano e io presi posto accanto a lui, nella penombra. “Professore, mi ascolti bene. Le interesserà, da un lato, perché risolverà dei quesiti che certo non avrebbe potuto risolvere altrimenti”. “Vi sto a sentire, capitano» rispose, non sapendo dove volesse andare a mirare e chiedendomi se il fatto era in rapporto coi nostri progetti di fuga. “Se non le rincresce, risalirò al 1702”. Iniziò a raccontare di sovrani spagnoli e sovrani francesi, parlò di questioni di successioni reali, di flotte e combattimenti via mare. Parlò e parlò mentre il tempo passava e giunse così a raccontare una vicenda di galeoni spagnoli carichi di monete d’oro naufragati in quei mari. Mi disse che i suoi marinai avevano raccolto gioielli e lingotti trovati nei forzieri abbandonati sul fondo del mare, disse che i tesori marini erano di chi li ritrovava. Io tacevo e lui vedendo il mio silenzio disse: “Scommetto che sta pensando a cosa mi servono queste ricchezze. Chi le dice che non ne faccia buon uso? Crede che io non conosca l’esistenza di esseri che soffrano, di razze oppresse, di infelici da soccorrere, di vittime da vendicare?” Non mi diede tempo di fiatare, perché si alzo e lasciò la stanza con passo svelto.
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Capitolo 24
Atlantide
Il giorno seguente, il 19 febbraio, il canadese entrò nella mia camera. Aveva l’aria delusa. “Ebbene Ned, ieri la sorte ci si è messa contro”. “Ho visto che il capitano l’ha trattenuta, la stavo aspettando, era tutto pronto”. “Mi spiace, forse doveva andare così” dissi io lasciando trapelare una evidente rassegnazione. “Non è finita qui. È solo come un colpo di fiocina andato a vuoto. Riusciremo un’altra volta, se occorre questa sera stessa”. “Qual è la direzione del Nautilus?” chiesi. Non c’era da rallegrarsi molto: la rotta girava a sud–ovest. Voltavamo le spalle all’Europa. Andammo sulla piattaforma . Più nessuna terra in vista: nient’altro che il mare immenso, solo qualche vela all’orizzonte, senza dubbio di quelle che vanno a cercare fino a capo San Rocco i venti favorevoli per poi doppiare il capo di Buona Speranza. Il tempo era brutto. Si preparava una burrasca. Ned, furibondo, cercava di scrutare l’orizzonte coperto. Sperava ancora
Atlantide: isola leggendaria il cui mito è menzionato per la prima volta dagli antichi greci. Si riteneva che fosse la sede di una grande potenza navale. - 116 -
che, dietro tanta nebbia, ci fosse la terra sospirata. La speranza di Ned scemò di giorno in giorno, il sottomarino si teneva lontanissimo dalle coste e continuava nel suo viaggio che ora aveva come direzione il Capo di Buona Speranza, la punta estrema dell’Africa. In quei giorni vissi un’esperienza indimenticabile: un’immersione notturna che il capitano propose a me solo, in una tranquilla notte stellata. La prima cosa che rese particolare quell’esperienza, fu la presenza sotto il mare di una luce fissa, lontana, una luce rossastra che guidava i nostri passi. Una luce che rischiarava il paesaggio sempre più, man mano che proseguivamo nel cammino. Era un’irradiazione elettrica o andavamo incontro a uno strano fenomeno naturale? Ma la sorpresa non riguardava solo la luce, perché il fondale a un certo punto aveva preso a salire e ben presto il paesaggio rivelò che stavamo inerpicandoci su un monte. Un monte vero e proprio con una foresta sommersa, ma non una foresta di alghe e coralli, ma di alberi veri, tronchi immensi senza foglie, alcuni che si stagliavano verso l’alto, altri riversi a terra. Io camminavo e nonostante lo scafandro, la calotta di rame e le scarpe di metallo, mi arrampicavo su pendii ripidi con la leggerezza di un camoscio. Lasciammo la foresta alle nostre spalle e proseguimmo verso il picco, ecco che la luce rossa ebbe la sua spiegazione: si trattava di lava, lava incandescente che rischiarava come un’immensa fiaccola fino ai confini estremi dell’orizzonte. Ma dov’eravamo? La mia sorpresa poi fu indescrivibile quando, oltre a un pendio, vidi quello che ancora oggi ricordo come uno spettacolo indimenticabile. Vidi una città diroccata, in rovina, completamente distrutta, con i resti di un acquedotto gigante, bastioni antichissimi, vie deserte, una Pompei sepolta sotto le acque. Prima la luce, poi la lava e ora una citta sommersa? Ma cos’era tutto questo? - 117 -
Volevo saperlo a tutti i costi, avrei voluto strappare la sfera di rame che mi imprigionava la testa e parlare, ma il capitano Nemo tornò verso di me e mi fermò con un gesto, poi raccogliendo un pezzo di pietra lavica, si avvicinò a una roccia di basalto nero e tracciò queste parole: “ATLANTIDE la città sommersa”.
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Capitolo 25
Verso il Polo Sud
Il giorno dopo mi svegliai tardissimo, le fatiche della notte mi avevano prolungato il sonno fino ad oltre le undici. Consiglio entrò nella mia camera. “Caro Consiglio, non puoi immaginare dove sono stato stanotte”. ”Nel sonno capitano? Ha sognato qualche nuova avventura?” “Ho visitato Atlantide, il continente scomparso.” Consiglio non conosceva nulla a riguardo e così gli raccontai della mitica isola abitata dal popolo degli Atlantidi che in un solo giorno e in una sola notte, nei tempi antichi, a causa di cataclismi naturali, era sprofondata nell’Oceano. Ho visto la città , è qua sotto, Atlantide non è una leggenda caro Consiglio.” Gli descrissi l’escursione notturna in tutti i particolari e Consiglio apparve dispiaciuto di non aver partecipato a quella passeggiata così esclusiva. Lo salutai e presi a guardare le carte. La direzione del Nautilus non era stata modificata. Il Capitano Nemo manteneva la rotta verso sud. Dove ci stava portando? Eravamo lontani dalle coste, i timori di Ned Land erano dunque fondati: in quei mari sconfinati era impossibile tentare di lasciare lo scafo, bisognava sottomettersi al volere di Nemo. Cominciai però a pensare che quello che non saremmo riusciti a otte- 119 -
nere con l’astuzia, magari l’avremmo ottenuto con la persuasione: finito il viaggio avremmo potuto chiedere al capitano di rimetterci in libertà offrendogli la certezza che non avremmo rivelato a nessuno al mondo della sua esistenza. Come avrebbe reagito a questa richiesta? Affrontare quell’argomento avrebbe potuto suscitare i suoi sospetti e nuocere ad altri eventuali progetti? Mi interrogavo su tutti questi problemi e benché non sono un tipo da scoraggiarmi tanto facilmente, comprendevo che le probabilità di rivedere i miei simili diminuivano di giorno in giorno, soprattutto ora che il Nautilus correva verso il sud dell’Atlantico. Il 14 marzo vidi alcuni blocchi di ghiaccio galleggianti, erano lastre contro cui si andavano a infrangere le onde. All’orizzonte, a sud, si estendeva una striscia bianca che abbagliava e che i balenieri inglesi chiamano iceberg e che solitamente annuncia la presenza di un più grande banco di ghiaccio, il pack. Infatti apparvero ben presto massi più considerevoli: alcuni blocchi presentavano venature verdi, altri si lasciavano penetrare dalla luce come enormi ametiste. Più scendevamo verso sud, più quelle isole galleggianti aumentavano di numero e grandezza, gli uccelli polari vi nidificavano a migliaia; alcuni, scambiando il Nautilus per il cadavere di una balena, venivano a posarvisi sopra e picchiettavano col becco il ferro che risuonava con forza. Durante la navigazione Nemo stava sulla piattaforma, dirigeva il Nautilus con abilità evitando l’urto con quei massi alti anche ottanta metri. L’orizzonte in certi momenti sembrava totalmente chiuso, ma il capitano cercando con cura, riusciva a trovare qualche stretta apertura sapendo però che poteva chiudersi dietro di lui. La temperatura era molto bassa, eravamo però ben coperti con pellicce di foca, l’interno del Nautilus invece era ben riscaldato. Il 16 marzo tagliammo il circolo polare antartico, il ghiaccio ci circondava da ogni parte, ma Nemo avanzava sempre. - 120 -
A un certo punto la banchisa ci sbarrò completamente la strada. Quell’ostacolo non poteva arrestare il capitano che anzi si scagliò contro il blocco di ghiaccio con una incredibile violenza. Il Nautilus riuscì a penetrare in quella massa come un cuneo producendo un sinistro e forte scricchiolio, i frantumi di ghiaccio scagliati in alto ricaddero intorno a noi come grandine.Finalmente la porta del salone si aprì. Comparve il capitano Nemo. “Il mare è libero!” annunciò. Raggiunsi velocemente la piattaforma. Sì, il mare era libero, solo alcuni massi di ghiaccio galleggiavano qua e là. Il termometro segnava tre gradi sopra zero. “Siamo al Polo?” chiesi al capitano. “Lo capiremo domani a mezzogiorno. Domani è il 21 marzo, giorno dell’equinozio. Se il disco del sole sarà tagliato a metà dall’orizzonte, significa che ci troviamo al Polo Sud. Intanto le consiglio di approfittarne, potrebbe scendere con me su quell’approdo che vede a sud.” Infatti a duecento metri da noi, c’era un isolotto. Gli girammo intorno, la sua circonferenza non misurava più di otto chilometri. A nord era separato con un canale da una terra vasta, di cui non si vedeva il confine. Poiché il fondale era roccioso, decidemmo di andarci con un canotto. Con noi vennero il capitano e due uomini dell’equipaggio. Sbarcammo, eravamo molto probabilmente sul suolo polare. Il terreno era formato da tufo rossiccio coperto di scorie laviche e pietra pomice. Non si poteva mettere in dubbio la sua origine vulcanica, la vegetazione era molto scarsa, costituita prevalentemente di licheni. Ma dove la vita fioriva di più, era nell’aria dove volavano migliaia di uccelli di diverse specie che ci assordavano col le loro strida. Vedemmo tantissimi pinguini appollaiati sulle rocce che ci guardavano passare senza paura.
Banchisa: massa di ghiaccio galleggiante dello spessore superiore ai tre metri. - 121 -
Quando si muovevano erano goffi e pesanti, in acqua invece erano assai agili. Il tempo era nuvoloso e nebbioso; a un certo punto si mise a nevicare e decidemmo di tornare a bordo del Nautilus. La tempesta durò fino al giorno dopo, era impossibile stare sulla piattaforma, dal salone sentivo le grida delle procellarie e degli albatri che folleggiavano in mezzo alla tormenta. L’indomani la neve non cadeva più ma il freddo era pungente. La nebbia si diradò e così tornammo sull’isolotto sbarcando in un altro tratto di costa. Questa volta incontrammo dei grandi mammiferi dagli occhi dolci, erano foche che non avendo ai avuto contatti con l’uomo non fuggivano, ma sembravano guardarci con simpatia. Formavano gruppi divisi di maschi e femmine, mentre padri vegliavano sulla famiglia, la femmine allattavano i piccoli. Avevano occhi vellutati e limpidi e atteggiamenti graziosi che mi portarono a riflettere sulla giusta scelta degli antichi greci di trasformarli in tritoni e sirene. Alle nove il capitano Nemo ci disse della sua intenzione a dirigersi verso la parte più alta dell’isola, che voleva utilizzare come osservatorio. Lo seguimmo, ci vollero due ore per raggiungere la vetta. Di lassù i nostri sguardi abbracciavano una vasta distesa di mare, sopra di noi un cielo pallido senza nebbie, a nord il disco del sole già tagliato dalla linea dell’orizzonte. A mezzogiorno il sole era perfettamente tagliato al centro. Era un mezzo sole luminosissimo e dorato. “Siamo al Polo Sud” annunciò in tono solenne il capitano e così dicendo estrasse dal suo zaino una bandiera nera che portava una N d’oro ricamata sulla stoffa: “Addio sole, sparisci pure adesso, lascia che una notte lunga sei mesi stenda la sua ombra su questo mio nuovo dominio”.
Procellaria: uccello marino che nidifica sulle scogliere e che vola sfiorando le onde. Tritoni: figure mitologiche che rappresentavano i flutti del mare. Erano rappresentati con la testa umana, il corpo di cavallo e la coda di delfino. - 122 -
Capitolo 26
Errore umano o disgrazia?
Il giorno 22 marzo alle sei del mattino cominciarono i preparativi per la partenza. Il freddo era rigido: il termometro segnava dodici gradi sotto zero e il vento col suo fischio ci mordeva le carni. Le costellazioni brillavano e allo zenit splendeva la magnifica Croce del Sud, la stella polare delle regioni antartiche. Numerose lastre ancora trasparenti annunciavano la formazione di nuovo ghiaccio. Il Nautilus iniziò a immergersi e il viaggio riprese sotto l’immensa volta dei banchi di ghiaccio. Alle tre del mattino fui risvegliato da un urto tremendo. Fui sbalzato dalla cuccetta nel mezzo della cabina. Mi sollevai e tenendomi alle pareti raggiunsi il salone. I mobili erano rovesciati, i quadri, prima in verticale, ora giacevano senza peso sulla parete divenuta orizzontale. Sentivo voci concitate dei marinai e del capitano. Volevo cercare di raggiungerli quando comparvero nella stanza Consiglio e Ned Land. “Che diavolo è successo?” chiesi gridando. “Volevamo saperlo da lei professore” disse Ned. “Dobbiamo trovare il capitano, io non lo so, ma lui senz’altro, ci potrà dare una spiegazione.”
Zenit: punto dell’emisfero celeste sopra la testa dell’osservatore. - 123 -
Uscimmo dal salone e dopo pochi passi lo incontrammo che osservava la bussola e il manometro. “Un errore di navigazione capitano?” “Una grande sfortuna voluta dalla sorte.” “È grave?” chiese Ned. “Forse”. “Si è arenato il Nautilus?” insistei. “Un enorme masso di ghiaccio, grande come una montagna, si è capovolto. Succede quando la base degli iceberg è corrosa da acque più calde, il loro centro di gravità cambia e si rivoltano. Il masso ha urtato contro il Nautilus, si è infilato sotto lo scafo e lo ha risollevato come sul palmo di una mano. Noi adesso giaciamo sopra di esso piegati sul fianco. “E adesso?” chiese Consiglio. “Adesso aspettiamo che la salita verso l’alto si arresti, allora riusciremo a sollevarci e ci raddrizzeremo”. Il Nautilus era imprigionato in un’autentica galleria di ghiaccio, larga circa venti metri e tutta piena d’acqua. Era però possibile trovare l’uscita da una parte o dall’altra del tunnel. Le lampade del soffitto erano state spente, eppure il salone splendeva, perché il forte riverbero delle pareti di ghiaccio ci rimandava con violenza la luce del fanale esterno. Non so descriverne l’effetto sui grandi blocchi dalle forme capricciose dei quali ogni angolo, ogni spigolo e sfaccettatura restituiva uno scintillio diverso, secondo la venatura dei ghiacci. “Corpo di mille diavoli! È magnifico. Mi spiace di doverlo ammettere, ma non ho mai visto niente di simile” esclamò Ned. Aveva ragione, era fantastico, ma all’improvviso, un grido di Consiglio ci fece voltare: Cosa succede?” “Il signore chiuda gli occhi e non guardi” disse premendosi le mani sulle palpebre. Sono abbagliato, accecato!” Diressi lo sguardo verso il vetro e compresi ciò che era successo. Il Nautilus si era messo in moto e tutti i tranquilli riflessi dei muraglioni di - 124 -
ghiaccio s’erano trasformati in raggi sfolgoranti. Quasi come un presagio proprio in quel momento un urto si verificò sulla poppa del Nautilus che cominciò ad arretrare sensibilmente. “Torniamo indietro?” chiese Consiglio. “Sì – replicai – si vede che da questa parte la galleria è senza uscita.” “E allora. . . ?” “Allora, la manovra è molto semplice. Ritorneremo indietro e usciremo a sud. Ecco tutto”. Alle otto e venticinque si verificò un secondo urto. Impallidii. Afferrai la mano di Consiglio. Ci interrogammo con lo sguardo e In quel momento il capitano entrò nel salone. Gli andai incontro. “La via è sbarrata a sud?” “Sì, professore. Rovesciandosi, l’iceberg ha chiuso l’uscita.” “Siamo bloccati?” “Sì. Intorno al Nautilus c’è un muro di ghiaccio. Siamo prigionieri della banchisa”. Il canadese sferrò un pugno sul tavolo. Consiglio taceva. Io guardavo il capitano che aveva incrociato le braccia; il suo viso aveva ripreso l’abituale impassibilità. Il capitano prese la parola: “Signori, si prospettano due modi per morire” disse con l’aria di un professore di matematica che fa una dimostrazione agli allievi. “Il primo, è di morire schiacciati. Il secondo, è di morire asfissiati. Non parlo della possibilità di morire di fame, perché le provviste del Nautilus dureranno certamente più di noi. Occupiamoci dunque delle probabilità di schiacciamento o di asfissia.” “Quanto all’asfissia, capitano – risposi – non c’è da temerla, perché i serbatoi sono pieni”. “Giustissimo, ma ci daranno soltanto due giorni d’aria. Sono già trentasei ore che siamo sott’acqua e l’atmosfera avrebbe bisogno di essere rinnovata. Tra quarantott’ore, la riserva sarà esaurita.” “Ebbene, capitano, liberiamoci in tempo”. - 125 -
“ Ci ho già pensato, proveremo a spaccare il blocco di ghiaccio.” “Da quale parte?” “Lo verificheremo con la sonda. I miei uomini attaccheranno l’iceberg sulla parete meno spessa”. Qualche minuto dopo, vedevamo una dozzina di uomini dell’equipaggio mettere piede sul banco di ghiaccio. Il lavoro venne subito iniziato. Invece di scavare tutt’intorno, il capitano Nemo fece disegnare un grande foro. Poi, gli uomini intaccarono simultaneamente in diversi punti la sua circonferenza. Ben presto il piccone attaccò vigorosamente la materia compatta e grossi blocchi cominciarono a staccarsi dalla massa di ghiaccio. Dopo due ore di lavoro energico, i ragazzi furono sostituiti da nuove mani ai quali ci unimmo anche noi tre. L’acqua, nonostante lo scafandro, mi sembrò particolarmente fredda, ma mi riscaldai presto maneggiando il piccone. Quando mi fermai per prendere un po’ di cibo e di riposo, trovai una differenza notevole tra l’aria respirata con le bombole e l’atmosfera del Nautilus, già carica di acido carbonico. L’aria non era stata cambiata da quarantott’ore e noi, in dodici ore, avevamo tolto appena una piccola fetta del masso ghiacciato. Ammettendo che uguale lavoro si potesse compiere ogni dodici ore, ci sarebbero volute ancora cinque notti e quattro giorni per condurre a termine l’impresa. “Cinque notti e quattro giorni – dissi ai compagni – e abbiamo aria nei serbatoi per due giorni soltanto”. “Senza contare – aggiunse Ned – che una volta usciti da questa dannata prigione, saremo sempre imprigionati sotto la banchisa e senza comunicazioni possibili con l’atmosfera”. Riflessione giusta. Chi poteva prevedere il tempo necessario alla liberazione? L’asfissia ci avrebbe soffocati prima che il Nautilus potesse tornare a galla? La situazione appariva terribile. Il giorno dopo, durante la nuova immersione notai che i muraglioni laterali si riavvicinavano a poco a poco. Le zone d’acqua lontane dalla - 126 -
fossa, non riscaldate dal lavoro degli uomini e dal movimento degli arnesi, tendevano a solidificarsi. Come impedire quella solidificazione del liquido, che ci avrebbe presto stritolato nella sua morsa? Quel giorno, per parecchie ore, adoperai il piccone con tenacia. Il lavoro mi sosteneva. Del resto, lavorare significava lasciare il Nautilus, respirare direttamente l’aria pura fornita dagli apparecchi e abbandonare l’atmosfera interna impoverita e viziata. Il giorno dopo ripresi a picconare. Le pareti laterali e la superficie inferiore della banchisa si ispessivano visibilmente. Era chiaro che si sarebbero ricongiunte prima che il Nautilus fosse riuscito a liberarsi. Per un momento fui colto dalla disperazione, il piccone quasi mi cadeva di mano. A che scopo insistere, se dovevo finire soffocato, schiacciato dall’acqua che diventava pietra? Mi pareva di essere tra le mascelle di un mostro che si avvicinava inesorabilmente. Proprio allora il capitano Nemo che dirigeva ogni cosa e lavorava lui stesso, mi passò accanto. Lo toccai con la mano, gli indicai le pareti della prigione. La muraglia di tribordo si era avvicinata almeno di quattro metri alla chiglia. Egli comprese e mi fece cenno di seguirlo. Rientrammo a bordo. Mi tolsi lo scafandro e lo accompagnai in salone. “Signor Aronnax, bisogna trovare qualche nuovo rimedio, altrimenti resteremo sepolti fra questi pareti di ghiaccio. Non solo le pareti laterali si ricongiungono, ma anche davanti e dietro si stanno avvicinando.” “Per quanto tempo l’aria dei serbatoi ci consentirà di respirare?“ chiesi. Il capitano mi guardò e scosse la testa. “Dopodomani i serbatoi saranno vuoti”. Mi vennero i sudori freddi. Eppure, la risposta non doveva sorprendermi: il 22 marzo ci eravamo immersi sotto le acque libere del polo; eravamo al 26. Da cinque giorni, campavamo sulle riserve di bordo. Intanto il capitano Nemo rifletteva, silenzioso e immobile. - 127 -
Doveva essergli venuta qualche idea; alla fine a mezza voce disse: “L’acqua bollente”. “L’acqua bollente?” chiesi. “Sì, professore. Siamo chiusi in uno spazio relativamente ristretto. Dei getti d’acqua bollente, iniettati ininterrottamente dalle pompe del Nautilus, forse potrebbero elevare la temperatura e ritardare il congelamento”. “Bisogna provare” replicai risoluto. “Proviamo, professore.” Fuori il termometro segnava sette gradi sotto zero. Il comandante mi condusse nelle cucine dove funzionavano grandi apparecchi distillatori, che, con l’evaporazione, fornivano l’acqua potabile. Furono caricati d’acqua e messi sul fuoco. In pochi minuti l’acqua arrivò a cento gradi e fu avviata alle pompe, mentre dell’altra veniva a sostituirla. Tre ore dopo il ghiaccio esterno smise di aumentare di dimensioni. Non saremo morti stritolati dai ghiacci. L’indomani, sei metri di ghiaccio erano stati tolti dall’alveolo. Ne rimanevano quattro soltanto, il che significava quarantotto ore di lavoro. Non si poteva più rinnovare l’aria dentro il Nautilus. Una pesantezza intollerabile mi opprimeva. Verso le tre del pomeriggio quel senso d’angoscia divenne violento. Gli sbadigli mi slogavano le mascelle. I polmoni ansavano, cercando il fluido indispensabile alla respirazione che si andava rarefacendo. Un torpore mortale mi invase, stavo disteso e quasi senza conoscenza. Consiglio, nonostante soffrisse degli stessi sintomi, non mi lasciava un momento. Mi prendeva la mano, mi incoraggiava e lo udivo mormorare: “Se solo potessi non respirare per lasciare più aria al signore!”. A sentirlo parlare a quel modo, mi venivano le lacrime agli occhi. Data la situazione intollerabile per tutti all’interno, con quanta gioia e sollecitudine ci mettevamo gli scafandri quando veniva il nostro turno di lavoro! I picconi risonavano sulla crosta gelata. L’aria vitale giungeva ai polmoni e si respirava, si respirava! - 128 -
Tuttavia nessuno prolungava al di là del dovuto il lavoro subacqueo. Finita la propria parte, ciascuno passava al compagno ansante il serbatoio che doveva donargli la vita. Il capitano Nemo dava l’esempio e si sottoponeva per primo a quella severa disciplina. Venuta l’ora, cedeva l’apparecchio a un altro e rientrava nell’aria viziata di bordo, sempre calmo, senza debolezze e lamentele. Quel giorno, il consueto lavoro fu compiuto con più vigore ancora. Due metri soli restavano da togliere. Due metri soli ci separavano dal mare aperto. II giorno dopo avevo il respiro sempre più oppresso. Ai dolori di capo si univano le vertigini che mi stordivano e mi rendevano come ubriaco. I miei compagni erano nelle stesse condizioni. Qualche uomo dell’equipaggio rantolava. Era il sesto giorno di prigionia. Nonostante i ronzii che mi riempivano la testa, poco dopo sentii dei fremiti sotto lo scafo. Il ghiaccio scricchiolò con uno strano fracasso, simile a quello della carta che si lacera e il Nautilus si abbassò. “Passiamo!” mi sussurrò Consiglio all’orecchio. Non potei rispondere. Gli strinsi la mano. All’improvviso il Nautilus, trascinato dal peso precipitò sott’acqua come un proiettile cadendo nel vuoto. Allora tutta la forza elettrica venne comunicata alle pompe e dopo qualche minuto la nostra caduta fu frenata; anzi, il manometro indicò un movimento ascensionale. Eravamo liberi dalla galleria e navigavamo sotto la banchisa, ma quanto doveva durare quella navigazione fino al mare libero? Ancora un giorno? Sarei morto prima. Steso su un divano della biblioteca, soffocavo. Avevo il viso violaceo, le labbra bluastre. Non ci vedevo più, non ci sentivo più. Mi era svanita dalla mente la nozione del tempo. Non potevo più contrarre i muscoli. Non saprei dire quante ore trascorsero così. Ebbi però coscienza che l’agonia cominciava. Capii che stavo per morire. - 129 -
A un tratto tornai in me. Qualche folata d’aria mi entrava nei polmoni. Eravamo tornati a galla? Avevamo superato la banchisa? No: erano Ned e Consiglio che si sacrificavano per salvarmi. Un poco d’aria appena rimaneva ancora in fondo a un apparecchio; invece di respirarla, l’avevano serbata per me, e mentre loro soffocavano, me la offrivano goccia a goccia. Volli respingere l’apparecchio, ma mi tennero ferme le mani, e per alcuni istanti respirai più forte che potevo. Gettai gli occhi all’orologio. Erano le undici del mattino. Dov’era il capitano Nemo? Aveva ceduto? I suoi compagni erano morti con lui? In quel momento il manometro indicò che eravamo solo a sette metri dalla superficie. Una semplice lastra di ghiaccio ci separava dall’atmosfera. Non si poteva spezzarla? Sentii infatti che il Nautilus assumeva una posizione obliqua, abbassando la parte posteriore e rialzando lo sperone. Poi, spinto dall’elica , attaccò la lastra di ghiaccio da sotto, come un ariete. Lo frangeva a poco a poco, si tirava indietro, si buttava a gran forza contro il lastrone che si spaccava: e infine, trasportato da un supremo slancio, si gettò sulla superficie ghiacciata che schiacciò col suo peso. Aperto lo sportello, l’aria purissima entrò a fiotti da tutte le parti.
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Capitolo 27
I calamari giganti
Mi ritrovai sulla piattaforma, non so come. Forse mi ci aveva portato il canadese. Finalmente respiravo a pieni polmoni senza timore di fare indigestione, come chi si trova a nutrirsi dopo un lungo digiuno. “Come è buono l’ossigeno – esclamava Consiglio – il signore non abbia timore di respirare, ce ne è per tutti”. Ned Land non parlava, ma spalancava le mascelle in modo da spaventare un pescecane. In breve riacquistammo le forze e quando ci guardammo intorno, notammo che eravamo soli sulla piattaforma. Le prime parole furono di ringraziamento ai miei compagni: prolungando la mia ossigenazione mi avevano salvato la vita. “Che merito abbiamo mai avuto? Lei è importante per noi, signore” diceva Consiglio. “Amici miei, ormai sono in credito e resterò legato a voi per sempre”. “E io ne approfitterò” disse Ned Land, quindi riprese: “Ho il diritto di portarla con me quando lascerò questo infernale
Calamaro gigante: è una specie di calamaro che vive lungo le coste del Nord America che può arrivare a pesare più di settanta chili; è una specie timida non aggressiva verso l’uomo, ma dai fortissimi tentacoli in grado di catturare anche piccoli squali .Per le sue dimensioni ha alimentato leggende sulle piovre e i mostri marini.
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Nautilus, speriamo il più presto possibile”. “A proposito – chiese Consiglio – stiamo andando dalla parte buona?” “Credo di sì – risposi – perché andiamo dalla parte del sole e qui il sole è a nord”. “Bisogna vedere se andiamo verso le coste dell’America del Sud, o nel Pacifico, lontano da ogni continente” replicò dubbioso Ned Land. Di lì a poco avemmo la risposta, infatti il 31 marzo, alle sette di sera, eravamo nei paraggi di capo Horn, la punta dell’America del Sud e l’indomani, quando il Nautilus risalì alla superficie, scorgemmo ad ovest una costa, la Terra del Fuoco, chiamata così dai primi naviganti che avevano viste nuvole di fumo innalzarsi dalle capanne indigene. ll Nautilus, rientrato sott’acqua, costeggiò procedendo rapidissimo su quei fondali ricchi e lussureggianti. Ammirai numerose meduse, le più belle del genere, a forma di ombrello, rigate da strisce rosso bruno, altre da cui sfuggivano con grazia frastagli a larghe foglie dal colore rosso rubino. Il capitano intanto non si faceva vedere. L’andamento veloce si mantenne per alcuni giorni. Superammo l’Equatore e ci avvicinammo alle coste della Guayana francese fino ad arrivare nei dintorni della foce del Rio delle Amazzoni, dove l’equipaggio del Nautilus si poté dedicare alla pesca, ma dopo tutto quella costa, ecco che il Nautilus riprendeva il largo. Per alcuni giorni si allontanò costantemente dalla costa americana e apparve evidente che il capitano non voleva attraversare né il Golfo del Messico, né il mare delle Antille, per restare lontano da ogni approdo. Il 1861 aprile scorgemmo le coste della Martinica e di Guadalupe, ma restando a dovuta distanza. In pieno Oceano alla fuga non c’era nemmeno da pensarci; ormai erano sei mesi che eravamo prigionieri del Nautilus, avevamo percorso diciassettemila leghe e secondo quello che diceva Ned Land, non c’era alcuna speranza che la nostra condizione potesse modificarsi. Oltretutto il capitano da un pezzo era diventato più cupo, più solitario; sembrava volesse evitarmi e capii che non era il momento di affrontare - 132 -
il discorso della nostra liberazione. Ma un terribile evento mi distolse da questi pensieri. Era mattino inoltrato quando Ned Land, attraverso le vetrate del salone, mi fece notare uno strano movimento fra le alghe del fondo. “Devono esserci caverne di calamari, non mi meraviglierei se ne vedessimo comparire uno gigantesco” osservai. “Intendete i calamari giganti?” domandò Ned.“Non mi dite che credete all’esistenza di quei mostri?” “Ne abbiamo testimonianze, purtroppo” dissi io. “E quali?” “Ecco. Nel 1861, a nordest di Tenerife, l’equipaggio dell’Alecton vide un gigantesco calamaro che nuotava nella sua scia. Il comandante Bouguer si accostò all’animale, lo affrontò a colpi di fucile senza gran successo, perché le pallottole attraversavano quelle carni molli come una gelatina senza consistenza. Dopo molti tentativi, l’equipaggio riuscì a passare un nodo scorsoio intorno al corpo del mollusco. Il nodo scivolò fino alle pinne caudali e lì si fermò. Allora si cercò di issare a bordo il mostro, ma il suo peso era tale che, sotto la trazione della corda, il corpo si staccò dalla coda e sparì sott’acqua”. “Mi sembra che questa testimonianza possa bastare.” “Un fatto incontestabile, carissimo Ned e riconosciuto dagli scienziati che proposero di chiamarlo il calamaro di Bouguer”. “Misurava, per caso, sei metri circa?”, interruppe Consiglio “Precisamente”, risposi. “E possedeva otto tentacoli che si agitavano come una nidiata di serpenti?” “Precisamente.” Gli occhi, sporgenti sulla testa, erano enormi?” “Sì, Consiglio.” “E la bocca, sembrava il becco di un pappagallo? “Infatti, Consiglio”. “Ebbene, quello che sto vedendo io se non è il calamaro di Bouguer, è - 133 -
certamente è uno dei suoi fratelli” concluse Consiglio. Ned Land si precipitò verso il vetro. “Che bestia spaventosa!” gridò. Mi avvicinai alla vetrata e non potei reprimere un moto di repulsione. Davanti ai miei occhi si agitava un orribile mostro, un calamaro di colossali dimensioni almeno lungo otto metri. Camminava con estrema rapidità tenendosi al passo con il Nautilus. Guardava con occhi fissi, verdastri. Le sue otto braccia, si torcevano come la capigliatura delle furie. Si vedevano tutte le duecentocinquanta ventose disposte sulla parte interna dei tentacoli sotto forma di capsule semisferiche. La bocca del mostro come quella di un pappagallo si apriva e si chiudeva verticalmente. Che capriccio della natura! Un becco d’uccello in un mollusco! Il corpo formava una massa carnosa che doveva pesare da venti a venticinque chilogrammi e aveva un colore che mutava con rapidità estrema secondo l’irritazione dell’animale, passando dal grigio livido al bruno rossiccio. Che cosa rendeva nervoso quel mollusco? Senza dubbio temeva il Nautilus, più grande di lui e sul quale le sue braccia succhiatrici o le sue mandibole non avevano presa. Io non volevo perdere l’occasione di studiare accuratamente quel campione di cefalopodo. Vinsi l’orrore che il suo aspetto mi ispirava e, prendendo una matita, cominciai a disegnarlo. “Forse è lo stesso dell’Alecton”, disse Consiglio. “No – rispose il canadese – perché questo è intero e l’altro aveva perso la coda” “Le braccia e la coda di questi animali si riproducono” replicai. “E se non è questo – fece Ned Land – sarà uno di quelli”.
Cefalopodo: ordine dei molluschi a cui appartengono i polpi e i calamari. - 134 -
Infatti altri calamari apparivano dal vetro di tribordo. Ne contai sette che accompagnavano il Nautilus e sentivo lo stridore dei becchi sulla chiglia. Continuai il mio lavoro. I mostri si mantenevano nella nostra scia con tale precisione, che parevano immobili. A un tratto il Nautilus dopo un secco urto si fermò. “Ci siamo incagliati?” domandai. Il Nautilus non andava avanti. L’elica non batteva più le onde. Trascorse un minuto. Il capitano Nemo, seguito dal secondo, entrò nel salone. Non lo vedevo da un po’ di tempo. Mi parve cupo. Senza parlarci, forse senza vederci, andò allo sportello, guardò i calamari e disse qualche parola al secondo. Costui uscì. Ben presto gli sportelli si richiusero. Il soffitto si illuminò. Mi volsi al capitano. “Un’interessante collezione di calamari” dissi fingendo un tono disinvolto. “Infatti, signor naturalista e li combatteremo corpo a corpo”. Lo guardai. Credevo di non aver capito bene. “Corpo a corpo?” “Sì, professore. L’elica è ferma. Penso che le mandibole cornee di uno di queste bestie si siano cacciate in mezzo, il che ci impedisce di proseguire.” “E cosa volete fare?” “Risalire a galla e massacrare questi parassiti”. “Impresa complicata…” “Infatti. Le pale elettriche non possono nulla contro le carni molli, dove non trovano resistenza sufficiente per scoppiare. Ma noi attaccheremo con l’ascia”. “E col rampone signore – disse il canadese – se non rifiuta il mio aiuto”. “Lo accetto, mastro Land”. “Vi accompagneremo” aggiunsi io e seguendo il capitano Nemo raggiungemmo la scala centrale. Là, una decina di uomini erano pronti all’offensiva. Consiglio e io prendemmo un paio di asce, Ned Land afferrò il rampone. - 135 -
Il Nautilus era tornato a galla. Uno dei marinai, sugli ultimi scalini, svitò i bulloni dello sportello, ma appena tolti i dadi, lo sportello si sollevò con estrema violenza attratto dalle ventose del braccio di un calamaro. In un attimo una di quelle braccia si insinuò scivolando come una serpe attraverso l’apertura e venti altre si agitarono al di sopra. Con un colpo d’ascia il capitano Nemo troncò il tentacolo che scivolò sui gradini divincolandosi. Nel momento in cui ci pigiavamo gli uni sugli altri per raggiungere la piattaforma, altre due braccia, frustando l’aria, si abbatterono sul marinaio che stava davanti al capitano e l’alzarono con irresistibile violenza. Il comandante gettò un grido e si lanciò fuori, mentre noi ci precipitavamo dietro di lui. Che scena: il disgraziato, afferrato dal tentacolo stava in bilico per aria, alla mercé dei capricci dell’enorme proboscide. Rantolava, soffocava, gridava. Per tutta la vita, risentirò quelle urla strazianti. L’infelice era perduto. Chi poteva liberarlo dalla stretta tremenda? Il capitano Nemo si era precipitato sul calamaro e con un colpo d’ascia gli aveva staccato un altro braccio. L’equipaggio tutto si batteva a colpi d’ascia. Il canadese, Consiglio ed io affondavamo le nostre armi sulle masse carnose. Un violento odore di muschio impregnava l’atmosfera. Era orribile. Sette tentacoli su otto erano stati tagliati. Uno solo, brandendo la vittima come una piuma, si torceva per aria. Ma quando il capitano e il secondo si gettarono su quello, l’animale lanciò una colonna di liquido nero, secrezionato da una borsa che aveva sotto l’addome. Ne fummo accecati. Quando la nube si dissipò, il calamaro era scomparso e con lui anche lo sfortunato marinaio. Ci prese allora un’ira sorda contro quei mostri. Non ci tenevamo più. Dieci o dodici calamari avevano invaso la piattaforma del Nautilus, e noi colpivamo all’impazzata in mezzo ai tronconi di serpenti che sussultavano in un fiotto di sangue e inchiostro nero. Pareva che i tentacoli vischiosi rinascessero come le teste dell’idra. Il - 136 -
rampone di Ned Land ad ogni colpo si immergeva negli occhi glauchi dei calamari e li squarciava. Ma l’audace compagno fu rovesciato all’improvviso dai tentacoli di un mostro che non aveva potuto evitare. Non so come il cuore non mi si sia spezzato dall’emozione e dall’orrore! Il becco formidabile del calamaro si era spalancato su Ned Land. Il disgraziato stava per esser tagliato in due. Mi precipitai in suo soccorso, ma il capitano mi aveva prevenuto: la sua ascia sparì tra le mandibole enormi e, salvo per miracolo, il canadese nel risollevarsi, cacciò tutt’intero il rampone nel triplice cuore del calamaro. “Avevo diritto alla rivincita!” disse il capitano Nemo al fiociniere. Ned s’inchinò, senza rispondere. Il combattimento era durato un quarto d’ora. I mostri vinti, mutilati, colpiti a morte, finalmente liberarono il campo e sparirono sott’acqua. Il comandante, rosso di sangue, immobile vicino al fanale, guardava il mare che aveva ingoiato il suo compagno e grosse lacrime gli scendevano dagli occhi.
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Capitolo 28
Verso la fine
Il dolore del capitano fu immenso, dal nostro arrivo a bordo era il secondo compagno che perdeva e questa volta vittima di una fine orrenda, senza nemmeno la possibilità dell’ultimo riposo nel Mare dei Coralli. Rientrò nella sua camera e per un po’ non lo vedemmo più. Per qualche giorno il Nautilus sembrò vagare a casaccio, poi il primo maggio riprese la sua rotta verso il nord, navigando sotto la spinta della Corrente del Golfo, il più grande fiume che scorre sotto il mare, dalle acque tiepide tanto salutari per i paesi che possono godere della sua carezza. Stavo guardando le cartine nautiche quando incontrai Ned nel salone. “Signore – mi disse – è ora che la finiamo”. “Cosa vuole fare, Ned?” “Torno alla mia idea: bisogna parlare al capitano. Se penso che fra qualche giorno il Nautilus si troverà nei pressi della baia di Terranova, dove sfocia il San Lorenzo, il fiume di Quebec, la mia città natale, l’ira mi sale alla testa e mi si rizzano i capelli”. “Incontro di rado il capitano, ultimamente mi sembra che sfugga” risposi pensando che forse quello non era il momento opportuno per parlargli. “Motivo in più per andarlo a cercare” disse e mi lasciò senza aggiungere altro. Decisi di raggiungere la camera di Nemo, picchiai alla porta ma non sentii risposta. Picchiai un’altra volta, girai la maniglia, la porta si aprì e io entrai. - 138 -
Nemo era curvo allo scrittoio. Mi accostai, lui sollevò il capo, aggrottò le sopracciglia. “Lei qui, cosa vuole?” “Parlarle capitano.” “Sono occupato, sto lavorando”. “Signore – dissi freddamente – devo parlarle di una cosa che non consente rinvii”. “Sono, io invece, che voglio mostrarvi qualcosa” disse e mi indicò un manoscritto aperto sul tavolo. “Ecco le mie memorie, scritte in molte lingue. Le chiuderò in uno scrigno galleggiante. L’ultimo di noi che sopravviverà a bordo del Nautilus le getterà in mare, perché vadano dove le porteranno le onde.” “Capitano – risposi – non posso che lodare il pensiero che la fa agire così, ma non è un bene che il frutto della vostra esistenza e dei vostri studi vada perduto in questo modo. Il mezzo che ha pensato mi sembra poco sicuro, vuole che tutto vada perso? Ho invece una proposta da farle. Affidi a me e ai miei compagni il suo manoscritto, lo porteremo a terra e lo consegneremo a chi vuole lei e quando lo desidera. Faremo questo , naturalmente, se ci restituirà la libertà”. “La libertà” esclamò il capitano alzandosi in piedi. “Si signore. Da oggi sono sette mesi che siamo a bordo del sottomarino, mi domando se è sua intenzione trattenerci per sempre.” “Certamente, signor Aronnax, e le risponderò ancota quello che vi ho detto sette mesi fa: chi entra nel Nautilus non deve più lasciarlo.” “Ma è schiavitù questa, e comunque anche lo schiavo ha diritto prima o poi di tornare in libertà” dissi alzando la voce. “La chiami come vuole, ma non ho niente da risponderle, le sue sono parole perse”. Capii che era meglio ritirarmi anche perché dentro di me si era creata una violenta rabbia che non volevo concretizzare in alcun gesto; così lasciai la sua stanza e da quel giorno i nostri rapporti diventarono gelidi. Riferii ai nostri compagni la nostra conversazione. - 139 -
Fu Ned, come al solito, a commentare l’accaduto: “Adesso sappiamo che da quell’uomo non possiamo aspettarci nulla, a niente è servita l’unione che sembravamo aver conquistato nel superare le ultime difficoltà. Questo significa che ce ne andremo senza il suo consenso” disse e mi lasciò senza permettermi di fiatare. Ci stavamo avvicinando alle coste degli Stati Uniti, eravamo a poche miglia da Long Island, nei pressi dei canali di New York. Riuscivamo a vedere il profilo della costa, quando scoppiò una tempesta. Prima iniziò il vento a soffiare con forza, poi il mare si ruppe in onde sempre più grandi. Il capitano non volle far immergere il Nautilus e mi invitò a piazzarmi con lui sulla piattaforma. Lo scafo superava cavalloni giganteschi rovesciandosi ora su un fianco, ora su un altro. Le onde misuravano fino a quindici metri d’altezza e più le acque erano profonde, più crescevano di volume e di potenza. Nel tardo pomeriggio cadde una pioggia torrenziale che non placò la collera del vento, anzi, sembrava alimentala. Il capitano si era legato alla vita e resisteva alla forza della tempesta. Io restavo sdraiato legato a mia volta e ancorato con le braccia alla balaustra di ferro della piattaforma. Quando calò la notte e il cielo si riempì di lampi di fuoco, strisciando sul ventre raggiunsi lo sportello e mi calai all’interno, Nemo invece resistette ancora finché verso mezzanotte si ritirò all’interno. La tempesta ci aveva spinti verso est e la speranza di fuggire per raggiungere le coste di New York si era infranta. Ned si rinchiuse nella sua solitudine e Nemo continuava con il suo ostinato silenzio. Il15 giugno eravamo all’estremità del banco meridionale di Terranova, una piattaforma caratterizzata da acque poco profonde. Prodotto da detriti organici originati dalla morte di pesci, zoofiti e molluschi il banco presenta fondali irti e irregolari per la quantità di massi traportati dallo scioglimento dei ghiacci e offre a pescatori e visitatori una grande quantità di specie marine. - 140 -
Fra queste i merluzzi che a migliaia popolano quei mari. Proprio su questi Consiglio mi interrogò: “Merluzzi… credevo che fossero piatti come le sogliole”. “Ingenuo – esclamai– solo al mercato i merluzzi si presentano sventrati e distesi, nell’acqua invece sono pesci fusiformi come le triglie e perfettamente conformati per la corsa”. “Sono tantissimi” osservò. “E sarebbero ancora di più se a limitarne il numero non ci fossero gli uomini e i pesci scorpione. Sai quante uova può produrre un merluzzo?” “Voglio esagerare… cinquecentomila…” “Undici milioni, amico mio.” “Undici milioni? Non ci voglio credere, a meno che non mi metta a contarle ad una ad una.” “Non finiresti mai caro Consiglio, ma intanto sappi che fortunatamente francesi, inglesi, americani e danesi ne consumano in grandissime quantità. “Voglio però fare un osservazione” – disse dopo una breve pausa. “Se tutte le uova si schiudessero basterebbero quattro merluzzi ad alimentare tutta la popolazione di Inghilterra, America e Norvegia.”
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Capitolo 29
La catastrofe
Il percorso si era spinto verso est e avevamo superato le coste irlandesi e proseguivamo vero sud. Il Nautilus si manteneva sulla superficie quando il primo di giugno udimmo una forte detonazione. Salimmo sulla piattaforma e chiesi cosa fosse quel boato. Nemo rispose. “Un colpo di cannone, professore”. Mi indicò l’orizzonte e vidi una nave. Chiesi a Ned se capiva di che cosa si trattasse. “Dall’altezza degli alberi direi che è una nave da guerra”. “Che male vuoi che ci faccia, al massimo ci immergiamo sott’acqua” commentai. Per un quarto d’ora continuammo a fissare il bastimento che si avvicinava e notammo che era munito di speroni: era un due ponti corazzato. “Signore – disse Ned – non appena quello ci passa vicino io mi tuffo e lo raggiungo.” Stavo per rispondere quando un fumo bianco apparve a prua del vascello e pochi secondi dopo un corpo pesante cadde di fianco al Nautilus. “Quelli ci bombardano – disse Ned – sono proprio brave persone”. Ci misi un po’ a mettere in ordine i miei pensieri, poi mi balenò in mente un’ipotesi: quella nave ci attaccava deliberatamente, come noi, un anno prima avevamo attaccato il Nautilus credendolo un narvalo gigante. La nave continuava ad avvicinarsi e iniziarono a piovere proiettili che - 142 -
rimbalzavano sull’acqua e andavano a perdersi in profondità. Per il momento nessuno ci aveva colpito. Fu lì che il canadese disse: “Dobbiamo cercare di tirarci fuori da questo impaccio, facciamo dei segni e dimostriamo che siamo dei galantuomini”. Prese quindi il fazzoletto per agitarlo in aria, ma non appena sollevato il braccio, la presa di ferro del capitano Nemo gli arrestò il movimento e fece cadere il pezzo di tela sul ponte. “Miserabile – gridò – vuole essere colpito prima che noi distruggiamo loro?” L’aspetto del capitano era più terribile del tono della sua voce. Il suo volto era diventato pallido, i suoi occhi avevano le pupille contratte come quelle di un’aquila, la voce era un ruggito quando gridò: “Nave maledetta, tu non sai chi sono io, io ti distruggerò” e così dicendo piantò una bandiera nera in cima alla piattaforma. “Voi scendete” ordinò perentorio. “Signore – chiesi – vuole assalire quella nave?” “Lo farò, perché loro vogliono la guerra”. “Ma ci deve essere un errore, possiamo provare a comunicare con l’equipaggio” provai a dire io. “Comunicare? So io cosa significa comunicare” e rivolgendosi alla sagoma del bastimento che si avvicinava: “Continuate pure con i vostri proiettili, io sono l’oppresso e voi gli oppressori, tutto il mio odio è contro di voi, finirete speronati dal mio Nautilus, avete le ore contate”. Si rivolse ancora a noi che eravamo impietriti sulla piattaforma. “Cosa aspettate, siete ancora qui? Andatevene immediatamente”. Scesi con Ned e Consiglio e questa volta fui io a parlare. “Compagni, prepariamoci alla fuga, ce ne andremo prestissimo, cominciate a raccogliere le vostre cose da caricare sul gommone di salvataggio.” Scese la notte e non riuscivo a chiudere occhio. Alle tre del mattino salii sulla piattaforma, Nemo era ancora lì, le luci del bastimento erano spente e tutt’intorno era silenzioso. - 143 -
Alle prime luci dell’alba il Nautilus rallentò e Nemo diede ordine di immersione. “Ci siamo – dissi a Ned e Consiglio – che Iddio ci protegga, alla fuga penseremo dopo, per adesso speriamo di salvare la pelle”. Era il 2 giugno, ci spostammo in biblioteca per parlare senza essere uditi e Il fischio ben noto ci comunicò che l’acqua stava entrando nei serbatoi del Nautilus. Capimmo che l’attacco sarebbe avvenuto sotto il livello del mare. Intanto la velocità del Nautilus era aumentata, evidentemente stava prendendo lo slancio. Tutta la mia ossatura fremeva. D’un tratto udimmo un colpo sordo e io lanciai un grido. Lo sperone d’acciaio era penetrato nella chiglia del vascello passandoci attraverso come un ago al di là della tela. Non potei più resistere, smarrito corsi fuori dalla biblioteca e raggiunsi il capitano che muto guardava dallo sportello di vetro. Vidi il vascello che colava a picco e la massa degli uomini di bordo che si agitavano sul ponte come topi in gabbia. Alcuni cercavano di arrampicarsi sugli alberi, altri si contorcevano sott’acqua. Era uno spettacolo tragico che mi lasciava senza respiro, tanto che a tratti dovevo distogliere lo sguardo. Improvvisamente un’esplosione a bordo del vascello distrusse ogni cosa e i resti della nave colarono a picco come risucchiati, sprofondando nell’abisso. Mi voltai verso il capitano. Il giustiziere guardò senza muovere un solo muscolo del viso fino a quando nave e uomini sparirono alla vista, poi lasciò il salone e si diresse verso la sua stanza senza chiudere la porta. Lo seguii. Vidi che mandava uno sguardo a una foto appesa alla parete dove erano ritratti una donna e due bambini. Si inginocchiò di fronte a loro e scoppiò in singhiozzi.
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Capitolo 30
Le ultime parole
Gli sportelli furono chiusi. All’interno del Nautilus il silenzio era totale. Raggiunsi la mia stanza. Provavo per il capitano Nemo un orrore mai provato prima. Qualsiasi torto avesse subito non era giustificabile una reazione di quel tipo. Ero atterrito da quello che avevo visto, avevo addosso un senso di angoscia che mi confondeva. Riuscii a calmarmi e andai nel salone a consultare le carte. Il Nautilus stava avanzando a velocità elevata. Non capivo dove stessimo andando. In quello stato di spaesamento passai alcuni giorni, incontravo Ned e Consiglio di rado e non ci rivolgevamo parola. La prigionia stava avendo la meglio sui nostri animi e in più si aggiungeva la consapevolezza di essere in balia di un individuo imprevedibile e pericoloso. In quel periodo la velocità non diminuì mai. Non un uomo dell’equipaggio si mostrò a noi, il Nautilus restava ostinatamente sott’acqua e quando risaliva per fare il pieno d’aria , gli sportelli si aprivano e si richiudevano automaticamente. Una mattina, ormai non sapevo più dire quale, mentre dormivo d’un sonno pesante, vidi Ned curvo su di me e lo sentii dire a voce bassa: “Fuggiamo”. Mi alzai di scatto: “Quando?” “La prossima notte, non c’è alcuna sorveglianza in questi giorni”. - 145 -
“Ma ha qualche vaga idea di dove siamo?” “Ho visto delle terre a est, circa a venti miglia”. “Che terre sono?” “Non so, mi basta che sia terra e non mare”. “Va bene Ned, fuggiremo a costo di essere inghiottiti dalle onde”. “Professore, il mare è grosso e il vento è forte, ma con il canotto del Nautilus dovremmo farcela e se saremo catturati, mi farò uccidere”. “Moriremo insieme caro Ned” dissi e non aggiunsi altro. Ormai era deciso. Il canadese mi istruì sugli ultimi particolari. Saremmo partiti con il primo buio prima che fosse comparsa la luna. Il canadese mi lasciò e io salii sulla piattaforma dove a stento riuscivo a tenermi in piedi per la potenza delle onde. A est una fitta bruma lasciava intuire la terra; dovevamo fuggire, ormai non avremmo più rimandato. Ridiscesi nella biblioteca, gettai un ultimo sguardo alle ricchezze che mi circondavano, volevo fotografare con la mente ogni cosa perché sapevo che in ogni modo tutto ciò nel giro di poche ore sarebbe per me scomparso. Quando riuscii a ritrovare la calma, mi tornò davanti agli occhi tutto quello che avevo vissuto in quei mesi di prigionia, le battute di caccia sottomarine, i selvaggi della Papuasia, i pescatori di perle, la morsa dei ghiacci, e infine lo speronamento del vascello. Mi chiesi dove fosse Nemo e sperai vivamente di non incontrarlo. Non avrei voluto incrociare i suoi occhi. Vedevo davanti a me la sua figura assumere proporzioni immense: il genio dei mari, il vendicatore delle acque… , chiusi gli occhi, non volevo più pensare. In quel momento sentii gli accordi dell’organo, un lamento dell’anima di un individuo che vuole spezzare ogni legame col mondo. Il suono veniva dal salone e io quella stanza l’avrei dovuta attraversare per fuggire. L’avrei incontrato per l’ultima volta. Erano scoccate le dieci di sera ed era arrivato il momento di raggiungere i miei compagni. Aprii la porta del salone con precauzione, avanzai rasente alle pareti. - 146 -
Per attraversarlo mi trascinai sul tappeto evitando ogni fruscio e ci vollero cinque minuti fino a quando riuscii a arrivare alla porta di fondo del salone . Stavo per uscire quando un sospiro del capitano mi fece trasalire, udii poi dei singhiozzi e lo sentii mormorare: “Dio onnipotente, basta, basta!” Mi precipitai fuori, arrivai al canotto: “Forza andiamo” dissi ai due amici che stavano aspettandomi. Il canadese iniziò a svitare le viti che trattenevano l’imbarcazione al sottomarino, quando sentimmo delle urla. “Ci hanno scoperti, prepariamoci a morire” gridò Ned. Sentimmo poi altre grida e fra queste riconoscemmo una parola più volte ripetuta: maelstrom, maelstrom! Il maelstrom. Non avremmo potuto udire vocabolo più terrificante. Il maelstrom, il gorgo maledetto che si forma nelle maree a largo delle coste norvegesi e che inghiotte ogni cosa, il gorgo fatale. Nessuno sopravvive se ci capita in mezzo. Il Nautilus, involontariamente, o adesso penso, volontariamente, ci era finito in mezzo. Giravamo su noi stessi a una velocità terrificante. Eravamo in preda a tremendi capogiri e ad un terrore indescrivibile che però non ci impedì di salire sulla lancia di salvataggio e di restare attaccati ad essa per tentare di sopravvivere. Eravamo sballottati di qua e di là fino a quando uno scricchiolio non fece allentare definitivamente i bulloni e il canotto, strappato dal ventre del Nautilus, venne lanciato come una fionda in mezzo al turbine.
Maelstrom: è un fenomeno simile a un gorgo causato dalla marea lungo le coste della Norvegia: produce onde veloci e vorticose che rendono pericolosa la navigazione alle piccole imbarcazioni. - 147 -
Conclusione
Ed ecco la conclusione di questo viaggio sotto il mare. Ciò che accadde quella notte, come il canotto scampò al formidabile risucchio del maelstrom, come Ned Land, Consiglio e io uscimmo dal gorgo, proprio non saprei dirlo. Quando tornai in me, ero sdraiato nella capanna di un pescatore delle isole Loffoten a ovest delle coste norvegesi. I miei compagni, sani e salvi, mi stavano vicino e mi tenevano la mano. Poiché i mezzi di comunicazione tra la Norvegia settentrionale e il sud sono rari, ancora adesso stiamo aspettando il passaggio del battello a vapore, che due volte al mese passa di qui da Capo Nord. Questa brava gente che ci ha raccolti, ha udito la narrazione delle mie avventure. Non so se mi hanno creduto. Poco importa. Quello che ora posso affermare è il mio diritto a parlare dei mari sotto i quali, in meno di dieci mesi, ho superato ventimila leghe e che mi hanno fatto assistere a tanti spettacoli ed esperienze indimenticabili. Che ne è stato del Nautilus? Ha resistito alla stretta del maelstrom? Il capitano Nemo è ancora vivo? Continua sotto l’oceano le sue spaventose rappresaglie, o si è fermato davanti a quell’ultima ecatombe? Le onde recheranno un giorno il manoscritto che racchiude tutta la storia della sua vita? Saprò mai il nome di quell’uomo? La nave scomparsa ci dirà, insieme alla nazionalità sua, anche quella del capitano Nemo? Lo spero. Spero inoltre che il potente sottomarino abbia vinto la furia del gorgo e che abbia resistito là dove tanti bastimenti sono andati a fondo. - 148 -
Se così è, se il capitano Nemo abita sempre l’oceano, sua patria adottiva, possa l’odio calmarsi in quel cuore selvaggio e che la contemplazione di tante meraviglie spenga in lui lo spirito di vendetta. Alla domanda della Bibbia “Chi potrà mai sondare le profondità dell’abisso?” due uomini fra tutti hanno ora il diritto di rispondere: il capitano Nemo ed io.
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Approfondimenti
Incontro immaginario con l’autore Incontriamo Jules Verne, uno dei più raccogliere personalmente, per grandi scrittori dell’Ottocento, che farle una collana. ancora entusiasma ragazzi e adulti con i suoi avvincenti romanzi di avventure. Ma come era riuscito a imbarcarsi? Jules Vernes , lei che ha trat- Un pomeriggio in piazza avevo tato il tema del viaggio in incontrato un ragazzo della mia chiave fantastica, era apetà che faceva il marinaio e che passionato di viaggi? si lamentava del suo imminente Eccome se mi piaceva viaggiare: viaggio. Allora gli ho proposto di il primo viaggio l’ho fatto di nasostituirmi a lui e mi sono presenscosto dai miei genitori imbarcan- tato con falso nome alla partenza. domi come mozzo su una nave La nave partiva dalla Loira, il fiuin partenza per le Indie. Avevo me vicino a casa mia, a Nantes, undici anni, mio padre è venuto a per poi proseguire nell’oceano prendermi al primo scalo. Atlantico. Beh, molto intraprendente come ragazzo! Effettivamente, e pensi che quello era un viaggio che volevo fare per amore. Avevo una bellissima cugina ed ero innamorato follemente di lei. Avevo studiato in geografia che nel mare delle Indie si trovavano fantastici coralli e allora avevo pensato di andarli a
Come hanno reagito i suoi genitori? Mia madre quando mi ha rivisto ha pianto come una fontana Mio padre era arrabbiatissimo e sì che ero così contento di vederlo! Quel capitano non mi trattava molto bene, volevo raccontargli tutto e non mi ha permesso di aprir bocca.
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Che futuro voleva suo padre per lei? Non certo farmi fare il marinaio, voleva diventassi avvocato e mi ha fatto studiare fino alla laurea, anche se a me quel campo di studi non è mai piaciuto. I suoi studi quindi non le sono serviti a niente? Non è stato proprio così: inizialmente mi sono serviti per guadagnarmi da vivere Dopo il matrimonio ho fatto l’agente in borsa, dove una laurea era necessaria. Come ha preso la decisione di fare lo scrittore? Mi è sempre piaciuto scrivere. Da piccolo scrivevo dei poemetti che recitavo in famiglia, poi quando ero all’università, a Parigi, scrivevo qualche cosa per un teatro locale. Ma come ho già detto, per mantenermi inizialmente dovevo fare altro.
Quando è riuscito a dedicarsi completamente al mestiere di scrittore? Avevo trentacinque anni, ho conosciuto un libraio di Parigi che aveva una piccola casa editrice, si chiamava Jules Hetzel. Gli avevo portato un manoscritto sui palloni areostatici, le mongolfiere. Mi interessavano da un punto di vista tecnico, ma non avevo trovato nessun editore disposto a pubblicarlo. Bene: Jules ha visto in quel saggio la base per un romanzo. Mi ha chiesto di riscriverlo inserendoci una trama e così ho fatto. È stato pubblicato nel 1863, nello stesso anno in cui Nadar, un fotografo di fama, aveva avuto un incidente con la sua mongolfiera. Questo fatto, insieme alla curiosità per il volo che l’essere umano ha sempre avuto, hanno contribuito al successo del lavoro. Due anni dopo poi ho scritto Viaggio al Centro della Terra e dalla Terra alla Luna: tutti e due i romanzi hanno avuto un gran successo e da allora ho iniziato a vivere con il solo lavoro di scrittore.
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Ma passiamo adesso al suo romanzo più famoso, Ventimila leghe sotto i mari. Quando è nata l’idea di scriverlo? Il mare è sempre stato la mia passione, ho viaggiato nell’Europa del Nord, ho amato molto le sue coste come quelle della Scozia e della Scandinavia. Nel 1867 ho affrontato con mio fratello la grande attraversata in mare verso gli Stati Uniti. Nel ’70 ho partecipato come guardiacoste alla guerra franco-prussiana, ho anche avuto un mio battello quando abitavo all’estuario della Somme, e andavo su e giù per il canale della Manica. Certo non ho fatto mai viaggi con un sottomarino, con il corpo intendo. Intende dire che con la fantasia sì? Si, con la fantasia ho visto cose che nessun uomo della mia epoca aveva mai visto. Forse non immaginavo che ai tempi vostri, giovani lettori del 2000, certi viaggi si sarebbero trasformati in realtà.
Nel romanzo le descrizioni di ambenti, situazioni e personaggi sembrano reali. Come a potuto costruire pagine così verosimili? Ho sempre letto molto, a scuola non ero un alunno modello, ma amavo scienze e geografia. Sono riuscito a utilizzare le mie conoscenze in trame avventurose che al pubblico piacciono molto . La vita è complicata, bisogna trovare il modo di far sognare la gente. A chi consiglierebbe di leggere il suo romanzo? Sicuramente ai giovani. Mi piacerebbe che imparassero ad amare il mare, ma non solo, anche tutte le creature che lo abitano, i segreti che nasconde, le storie che lo hanno attraversato. Ma il capitano Nemo non pensa che possa essere un esempio negativo per un giovane lettore? Non penso questo: innanzitutto Nemo amava la natura e la rispettava. Amava anche l’umanità, ma solo di un certo tipo, infatti
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ospita i personaggi che entrano nel suo sottomarino quando avrebbe potuto lasciarli annegare in mezzo al mare. Certo, la sua decisione di allontanarsi dal mondo lo porta anche a compiere fatti deplorevoli, ma questa storia può essere letta anche in modo allegorico. Cosa intende con “allegoricoâ€? dott. Verne? Vuole che io le spieghi il significato profondo della mia opera? Ma allora svelerei proprio tutto, e che cosa lascerei da scoprire ai miei giovani lettori?
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Percorsi di lettura Cammin Facendo Strani eventi scombussolano la vita dei mari del 1866. Cosa viene avvistato? • Un veliero di pirati • Un oggetto enorme a tratti luminescente • Un pesce volante di razza ignota • Un gigantesco branco di meduse Chi racconta la storia? • La voce dell’autore Jules Verne • Il capitano Nemo • Lo studioso Aronnax • Abramo Lincoln La storia è narrata in quale persona? • Terza persona dal punto di vista di Aronnax • Prima persona • Seconda persona • Terza persona dal punto di vista dell’autore A che cosa si riferisce l’autore quando nomina Consiglio? • All’esperto di carte nautiche dell’Abraham Lincoln • Al domestico di Aronnax • Al direttore del giornale locale • Al marinaio del Nautilus
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Che lavoro fa Aronnax? • Il giornalista • Il professore e ricercatore • Il marinaio • Il cacciatore di balene Metti in ordine temporale i seguenti fatti, numerandoli da 1 a 4. • Pierre Aronnax sale sul Nautilus • Il capitano Nemo salva un pescatore di perle • Il Nautilus viene attaccato da alcuni indigeni • Ned Land il fiociniere crede che la misteriosa creatura sia un cala maro gigante Quando si trovano sull’Abraham Lincoln chi è il primo a scorgere lo strano oggetto? • Aronnax • Consiglio • Il comandante della Abraham Lincoln • Ned Land Come i protagonisti riescono a salire sul sottomarino? • Vengono sbalzati in mare e soccorsi dal Nautilus che li vuole salvare • Catturano il Nautilus e salgono per esplorarlo • Stanno per affogare, ma il Nautilus per caso li salva emergendo d alle acque • Il capitano Nemo decide di farli salire perché si sente solo
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In che lingua parlano gli uomini dell’equipaggio del Nautilus? • In inglese • Intedesco • In una lingua sconosciuta • In latino Qual è il motto del Nautilus, scritto intorno alla N su ogni oggetto del sottomarino? • Mobilis in mobile • Nobilis in mobile • Mobilis in immobile • Immobilis in mobile Che aspetto ha l’arredamento della sala da pranzo del Nautilus, fatto dì mobili in ebano e quercia, con ceramiche e cristalli di gran pregio? • Disordinato e sciatto • Severo ed elegante • Stravagante • Alla moda Che cosa rappresenta il mare per il capitano Nemo? • Il posto ideale per fuggire dal genere umano • Una massa d’acqua brulicante • Un luogo per effettuare lunghe nuotate • Un luogo come tutti gli altri
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Quali testi predominano nella biblioteca di Nemo? • Testi a carattere astronomico • Testi di musicologia • Testi a carattere scientifico • Testi di lingue antiche Quando Nemo, Aronnax e compagni escono per una battuta di caccia sottomarina, succedono molti fatti. Sapresti indicare i tre eventi che ti hanno colpito di più? Durante la caccia nella foresta dell’isola di Crespo, Aronnax subisce una minaccia dal mare. Di cosa si tratta? • Una lontra di mare si avvicina • Una coppia di pescecani si avvicina • Degli strani uccelli si tuffano in profondità e lo scambiano per un pesce • Un ragno di mare lo guarda in malo modo II Nautilus si incaglia sulla scogliera dell’isola di Gaboar. Come decidono di provvedere al contrattempo Nemo e il suo equipaggio? • Costruiscono un enorme argano col legno dell’isola per liberare lo scafo • Attendono che passi una nave in modo da farsi trainare • Abbandonano il sottomarino al suo destino e si rifugiano sull’isola • Decidono di aspettare l’alta marea e liberarsi con la forza del mare
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Che intenzioni hanno i Papua dell’isola quando scorgono Aronnax e i suoi compagni intenti a mangiare la carne cacciata sulla terraferma? • Li accolgono e offrono loro dei doni rituali • Stanno alla larga osservandoli con diffidenza • Li attaccano con archi e fionde e li inseguono in mare fino al Nautilus • Fuggono impauriti dalle armi da fuoco Nel mare dei coralli Aronnax assiste a uno strano evento che colpisce molto la sensibilità del ricercatore e svela il lato buono del capitano Nemo. Di che si tratta? • Viene sepolto un membro dell’equipaggio, morto a causa delle feri te riportate da un attacco di squali • Viene celebrato il funerale di un marinaio, caduto a causa di un incidente in sala macchine • Viene raccolto un gran quantitativo di corallo da rivendere sulla terraferma • Vengono nascoste strane casse dal contenuto misterioso Perché il capitano Nemo non raccoglie l’enorme perla che si trova nell’ostrica nascosta nella grotta sottomarina? • Perché vuole farla raccogliere ad Aronnax • Perché solo lui ne conosce l’esistenza e vuole farla crescere ancora di più • Perché gli piace mostrarla al resto dell’equipaggio • Perché non saprebbe che farsene dì una perla enorme quando ha già tutto ciò che gli occorre
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Perché il capitano Nemo rischia la propria vita per salvare dai pescecani il giovane cercatore di perle, mentre lascia morire interi equipaggi delle navi che vanno alla sua ricerca e si scontrano col Nautilus? • Perché il giovane cercatore gli sta simpatico • Perché il giovane rappresenta i non civilizzati e Nemo odia le socie tà industrializzate • Perché il giovane è un oppresso e Nemo difende e aiuta gli oppressi dalla società • Perché Nemo è lunatico e agisce sempre secondo l’umore del momento Spiega con parole tue come il Nautilus riesce a giungere dall’Oceano Indiano al Mar Mediterraneo senza circumnavigare l’intera Africa. Ned Land progetta continuamente di fuggire e riguadagnare la libertà sulla terraferma. Che cosa gli fa sempre rimandare il momento della fuga? • Il fatto che Aronnax pare non. voler lasciare la vita sottomarina • Il debito di riconoscenza verso Nemo che lo ha salvato dal naufra gio in mare nel loro primo incontro • Il fatto che la vita a bordo del sommergibile comincia a piacergli • Il fatto che il Nautilus si mantiene troppo distante dalla costa Una volta giunti nell’Atlantico succedono diversi fatti. Riordinali in ordine cronologico. • Nemo mostra le rovine di Atlantide ad Aronnax • Nemo racconta ad Aronnax la storia della Spagna • Aronnax e compagni non riescono a fuggire a causa del mare in tempesta • Nemo rivela ad Aronnax l’uso delle ricchezze che trova in fondo al mare - 161 -
Dopo aver visto Atlantide, il Nautilus prende la rotta verso il Polo Sud. Che incidente ha luogo in quelle terre sperdute? • Il Nautilus rimane imprigionato sotto i ghiacci troppo spessi per farlo riemergere • Il Nautilus rimane imprigionato nel ghiaccio a causa del ribalta mento di un iceberg • Il Nautilus perde il motore e viaggia alla deriva senza meta • Ned Land aggredisce e ferisce il capitano Nemo in un tentativo di fuga L’equipaggio rimane bloccato dentro il Nautilus che non può proseguire il suo viaggio, imprigionato sotto i ghiacci. Qual è il rischio maggiore? • Rimanere senza acqua dolce e morire di sete • Rimanere senza cibo e morire di fame • Impazzire per l’impossibilità di uscire • Rimanere senza ossigeno e morire soffocati L’equipaggio del Nautilus deve affrontare un’altra emergenza. Quale? • Nemo non ha più voglia di proseguire e preferisce morire tra i ghiacci • Una spedizione militare li sta raggiungendo per abbatterli • Il ghiaccio si stringe sempre di più e c’è il rìschio che stritoli il Nautilus • Qualcuno ha rubato tutte le provviste Aronnax sta per cedere morendo per mancanza di aria. Come fa a resistere fino a quando il Nautilus riesce a liberarsi e a tornare all’aria aperta? • Consiglio divide con lui la propria riserva di ossigeno • Ned divide con lui la propria riserva di ossigeno • Sia Ned che Consiglio rinunciano a turno al proprio ossigeno per darlo all’amico • Aronnax trova una bombola d’ossigeno dimenticata e ne fa uso - 162 -
Aronnax per dire di aver quarantanni afferma che i trent’anni di Consiglio stanno alla sua età come quindici sta a venti. Di che procedimento matematico si tratta? • Equivalenza • Comparazione • Percentuale • Proporzione Ned il fiociniere era molto suscettibile. Trova tra le parole seguenti il corretto sinonimo. • Tollerante • Attaccabrighe • Saggio • Permaloso Prigionieri nel sottomarino, i protagonisti temono di dover morire d’inedia. Che cosa significa? • Morire per mancanza di ossigeno • Morire per la stanchezza • Morire di fame • Morire per mancanza di luce Arronax giudica una crudeltà rimanere chiusi nel sottomarino, ma il capitano afferma invece che si tratta di clemenza. Trova il sinonimo tra i seguenti. • Severità • Generosità • Preghiera • Punizione
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Il capitano Nemo dice che il mare non soggiace ai despoti. Che cosa intende dire? • Che il mare ha bisogno di riposo dalle attività degli uomini • Che il mare ha una natura libera e non si può comandare • Che al mare non fanno dispiacere i despoti • Che il mare ama i comandanti più audaci Quando il Nautilus si incaglia tra gli scogli, Aronnax dice che per aspettare la marea bisogna attendere che la luna sarà così compiacente da rimetterci a galla. Cosa intende? • Che ci vuole un cielo limpido notturno per poter vedere come disin cagliarsi • Che l’alta marea c’è solo di notte • Che le maree dipendono dal ciclo lunare • Che il Nautilus si muove con l’energia lunare I raccoglitori di perle di Ceylon rischiano molto ad immergersi in acqua continuamente in apnea. Alcuni di loro sono perfino colpiti da apoplessia. Di che cosa si tratta? • Emorragia polmonare • Si tratta di un pesce predatore che vive in quelle acque • Infarto • Mancanza di ossigeno Quando Aronnax e i suoi compagni si immergono per cercare le perle, non usano luci artificiali, perché il riverbero potrebbe inopinatamente attirare qualche pericoloso abitante locale. Che cosa significa? • Chela luce può attirare gli squali • Che il riflesso può rivelare in maniera inopportuna la loro presenza ad altri uomini - 164 -
• Che la luce sicuramente attirerà pericoli • Che non c’è nulla di cui preoccuparsi e si può fare senza luce artificiale Mentre l’equipaggio del Nautilus è imprigionato dentro un iceberg, Aronnax è colpito da un torpore mortale. Di cosa si tratta? • Di un violento dolore al petto • Di un urto di una parte del motore del Nautilus che si è staccata • Di una sensazione di freddo raggelante • Di una specie di stanchezza estrema Verso la fine del suo viaggio l’equipaggio del Nautilus avverte una forte detonazione. Trova fra i seguenti il sinonimo corretto. • Abbassamento di rumore • Musica di una sola nota • Esplosione • Rumore misterioso
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Diventa scrittore Secondo te, che fine hanno fatto il capitano Nemo e il suo Nautilus? Prova a inventare con la fantasia un altro episodio di avventura sottomarina da aggiungere a questa storia incredibile. Scrivi un testo sul tuo quaderno. Se potessi davvero andare tu di persona a bordo del Nautilus, che cosa ti piacerebbe andare a visitare? Scrivi un testo sul tuo quaderno.
Caffè letterario Che cosa ne pensi di questo romanzo? Esprimi il tuo giudizio (scegliendo la/le categoria/e che meglio lo esprime/ esprimono). • Qual è il personaggio che ti è piaciuto di più e per quale motivo? • Mi è piaciuto moltissimo • Una lettura insolita e piacevole • Sbadiglio, che noia! • Nonio consiglierei al peggio nemico Raccontare questa storia dal punto di vista del capitano Nemo potrebbe essere più o meno interessante? Perché?
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Altre collane I grandi classici Giovanni Boccaccio Decameron a cura di Alessandro Mazzaferro Amori, duelli, magie. L’epica medievale a cura di Alberto Cristofori Mary Shelley Frankenstein o il moderno Prometeo a cura di Marco Giuliani Bram Stoker Dracula a cura dì Maria Catia Sampaolesi Alessandro Mazzaferro La storia di Odisseo Frances H. Burnett II giardino segreto a cura di Anna Pellizzi Maristella Maggi Enea, un eroe venuto da lontano Dante Alighieri La Divina Commedia a cura di Alberto Cristofori Alessandro Manzoni I Promessi Sposi a cura di Alberto Cristofori Miguel de Cervantes Don Chisciotte a cura di Moreno Giannattasio William Shakespeare Tragedie e commedie a cura di Alberto Cristofori
Emilio Salgari Sandokan a cura di Moreno Giannattasio Jack London II richiamo della foresta a cura di Fabiana Sarcuno Jules Verne Ventimila leghe sotto i mari a cura di Marcella Papeschi Mark Twain Le avventure di Tom Sawyer a cura di Marco Giuliani
Racconti d’autore
Ora e poi Giorgio Di Vita Onde. Uomini in viaggio alla ricerca di mondi migliori Giorgio Di Vita Alya e Dirar Maristella Maggi Quando si aprirono le porte Elisabetta Colonnesi Serena Galligani Storia di Zhang Carmen Scarpelli Il bullo innamorato
Charles Dickens Canto di Natale a cura di Anna Pellizzi
Fabiana Sarcuno Diario di Edo. Un adolescente in tempesta
Robert L. Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyli e mister Hyde a cura di Anna Pellizzi
Non solo lettere
Giovanni Verga Rosso Malpelo a cura di Moreno Giannattasio
Alberto Cristofori Viva Verdi
Jerome K. Jerome Storie di fantasmi per il dopocena a cura di Anna Pellizzi Oscar Wilde II fantasma di Canterville a cura di Anna Pellizzi Arthur C. Doyle Le avventure di Sherlock Holmes a cura di Maria Catia Sampaolesi
Marina Carpineti Un occhio nello spazio
Paolo Ercolini Il valzer del bosco Marcella Papeschi - Sergio Azzolari 1848 Uno straordinario viaggio nella storia Lara Corvatta Una missione speciale Andrea Sòcrati L’uovo cosmico. Alle origini dell’arte occidentale
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Invito alla lettura
Ventimila leghe sotto i mari
Nel libro: • Glossario dei principali termini scientifici • Incontro immaginario con l’autore • Attività di comprensione ispirate alla metolodia Invalsi • Caffè letterario
LeggerMENTE è la nuova collana di narrativa per la scuola secondaria. Il suo obiettivo principale è offrire ai ragazzi libri classici o inediti, storie di attualità o di fantasia, per riscoprire pagina dopo pagina il piacere della lettura www.leggermente.info
€ 7,70 - 171 -
Jules Verne Ventimila leghe sotto i mari
I personaggi di questa storia ti coinvolgeranno fin dalle prime pagine: ci sono uno scienziato curioso e temerario, un servitore fedele e con un buon senso dell’umorismo, un capitano misterioso e terribili, ma anche capace di nobili sentimenti.
I GRANDI CLASSICI -
Se vuoi compiere un viaggio a bordo di un sottomarino, questo è il romanzo che fa per te. Perchè mai intraprendere una simile avventura? Perchè sotto il mare si apre un mondo sconosciuto, perchè il Nautilus ogni tanto emerge e visita luoghi inesplorati, perchè all’interno delle pareti di lamiera succedono strane cose che forse tu riuscirai a spiegare. Il viaggio del Nautilus è un’esperienza incredibile e avvincente, che trascina il lettore sul fondo del mare, alla scoperta di luoghi inesplorati e delle meraviglie della natura.