LEZIONI DI SOCIOTERAPIA, Leonardo Benvenuti

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Leonardo Benvenuti

Lezioni di Socioterapia La persona media/afferma e media/mente

Baskerville


Leonardo Benvenuti

Lezioni di Socioterapia La persona media/afferma e media/mente

In questo nuovo saggio Benvenuti amplia ed approfondisce i temi del suo precedente Malattie Mediali, introducendo un nuovo significato del termine persona, diverso da quello usuale di maschera: il per-sonare latino (come un risuonare attraverso) viene collegato al suono amplificato della maschera teatrale per arrivare, appunto, ad identificare nel per-sonum un accrescitivo della voce, di ogni voce, inclusa quella una e trina del Dio cristiano. L’uomo è persona nel momento in cui si esprime, non solo attraverso la voce ma anche attraverso tutti i media, nuovi e vecchi, per mezzo dei quali, inoltre, gestisce la mente, come memoria e conoscenza, oppure, assecondando il gioco di parole, produce costrutti mediali non veri (mente). Comunicazionale, poi, è un termine che diviene neologismo socioterapeutico, conseguenza di una sintesi tra comunicazione e relazionale; in questo senso, inoltre, va l’ulteriore nuova definizione sociologica di disagio come «alterazione che avviene all’interno di una persona, intesa come un sistema complesso di comunicazione, riguardante la capacità di comprensione delle informazioni .. rispetto alle quali si verifica una «malformazione del senso» come capacità, a origine sia organica che culturale (mentale), di riduzione e mantenimento della complessità» nelle relazioni con se stessi e/o con altri e/o con l’ambiente. Leonardo Benvenuti insegna Principi e Metodi di Socioterapia e Relazioni Comunicazionali presso la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara; è presidente dell’Associazione Italiana di Socioterapia (A.I.S.T.) e dirige la comunità per tossicodipendenti S.A.T. Casa Gianni, del quartiere San Vitale del Comune di Bologna. Questo testo è la traduzione in lezioni del precedente Malattie Mediali (Baskerville, 2002) ed è inoltre il risultato delle riflessioni e dei contenuti emersi dall’intensa discorsività relazionale che si è instaurata con gli studenti durante le lezioni accademiche (residuo o ritorno all’oralità?). L’immagine in copertina è di Stefano Cerritelli, artista pescarese.

Baskerville Coordinate Leonardo Benvenuti Lezioni di Socioterapia ISBN 978 88 8000 701 2

Euro 21,00


Baskerville Coordinate

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L EO NARDO

B ENVENUT I

Lezioni di Socioterapia La persona media/afferma e media/mente

Baskerville


L eonardo B envenuti

L e z ioni

di

S o c iotera p ia

© 2008 Baskerville, Bologna, Italia ISBN: 978-88-8000-701-2 ISBN10: 88-8000-701-7 Redazione di Francesco Iannuzzi

Questo volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in alcun modo (digitale, ottico o sonoro) senza il preventivo permesso scritto di tutti i possessori dei relativi diritti ed in primo luogo di Baskerville, Bologna, editore italiano del libro. Baskerville è un marchio registrato da Baskerville Centro Studi, Bologna, Italia. Il volume è composto in caratteri Baskerville e Gill Sans Stampa Litosei, Bologna Stampato in Italia 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 Questo libro è stampato su carta riciclata ecologica di qualità. La carta è inoltre “ACID FREE” e “CHLORINE FREE”, cioè il processo di sbiancamento è stato effettuato senza acidi e senza cloro.

C A T A L O G A Z I O N E

Benvenuti, Leonardo, Impatto digitale La persona media/afferma e media/mente B ologna , B askerville , 2008. ISBN 978-88-8000-701-2

Pag. 265; cm 21; Collana Coordinate 2. Indice. 1. SOCIOTERAPIA, DISAGIO, Relazioni sociali 2. MEDIA, COMUNICAZIONE INTERPERSONALE I. BENVENUTI, L eonardo


LEZ ION I DI SOCI OTE RAPI A

Indice

Introduzione

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Lezione II 2.1 I concetti di normalità, di soggetto e di soggettività 2.2 L’autoreferenza 2.3 Lo sviluppo comunicativo e lo sviluppo dell’approccio scientifico all’uomo

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Lezione I 1.1 Socioterapia e metodologia 1.2 Gli aspetti metodologici: leggi, generalizzazioni, complessità

Lezione III 3.1 La rappresentazione (R) 3.2.1 I neuroni specchio: una possibile base neurobiologica per la R 3.2.2 Il sistema motorio 3.2.3 I neuroni specchio e la comprensione 3.3.1 I neuroni specchio e le specificità umane 3.3.2 I neuroni specchio e la comunicazione umana

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Lezione IV 4.1 La disciplina 87 4.2 La parabola della soggettività: dalla nascita della stampa ai nuovi media. 94 4.3 I concetti di ambiente, mondo, realtà, empiria. 98 4.4 La deriva storica dei media. 103 Lezione V 5.1 L’approccio terapeutico della socioterapia 109 5.2 Il rapporto tra terapeuta e utente 121 Lezione VI 6.1 La volontà come caratteristica della soggettività 129 6.2 Fungibilità e identità 136 Lezione VII 7.1 La piramide della comunicazione 145 7.2.1 Persona e personaggio 150 7.2.2 Il personalismo di J.Maritain 153 7.3.1 L’autonomizzazione del simbolico 155 7.3.2 L’approccio socioterapeutico alla persona 159 7.4 La relazione sistema-ambiente 166 7.5 Per una definizione comunicazionale della diade disagio/guarigione 169 Lezione VIII 8.1 Le vie di uscita dalla soggettività 8.2 Simbolico e immaginario 8.3 La società puerocentrica 8.4 La fungibilità dei significati: l’esempio della masturbazione

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Lezione IX 9.1 Le dimensioni filogenetica ed ontogenetica 2 07 9.2.1 L’attore/giudice 215 2


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9.2.2 L’attore/giudice: tipologie di intervento 217 9.3 L’organizzazione topologica della persona 227 Lezione X 10.1 Possibilità, ambiente e realtà: il concetto di possibilità 10.2 Prevenzione e comportamenti fobico/maniacali 10.3 Processi di naturalizzazione e di autonomizzazione del simbolico 10.4 La gestione terapeutica del simbolico 10.5 Alcune definizioni finali

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Lezioni di Socioterapia



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Introduzione

Questo primo ciclo di lezioni è dedicato non solo a tutti coloro che si avvicinano alla nostra materia per studiarla, ma anche a coloro che, curiosi, decidessero di dedicare una parte del loro tempo a quella che da molti puristi della sociologia viene considerata una sorta di eresia, un’originalità forse troppo spinta dal punto di vista disciplinare poiché, tradizionalmente, ritengono che la sociologia dovrebbe servire ad esaminare i grandi temi macro-sociali o, al massimo, alcuni tipi di riflessione micro-sociologica. Con buona pace di tutti costoro, l’ipotesi socioterapeutica parte da una considerazione iniziale: dato che una buona parte della sociologia, come disciplina, fonda le proprie riflessioni e teorie a partire dall’esistente e dai singoli - ad esempio attraverso interviste, colloqui in profondità, ricerche campionarie ecc. - è quanto meno curioso che deleghi ad altri l’applicazione delle medesime (considerazioni finali, riflessioni e teorie) alla società o ad appartenenti ad altre professioni o a singoli. Teorizzare sulla famiglia, o sull’educazione, o sul disagio, o sui media, o su tanti altri campi senza ritenersi in grado di aiutare nemmeno una persona portatrice di forme di disagio rientranti in 7


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tali ambiti mi sembra un’originalità non degna di un sapere che aspiri ad essere disciplina completa. Oltretutto, sembra non essere troppo corretto delegare ad altri il controllo o meglio la conferma empirica dei propri apparati teorici. È sulla base e a partire da tali considerazioni che, ad esempio, è nato uno dei concetti della socioterapia, quello di approccio ecologico al disagio:1 l’idea dalla quale nasce è che vi possa essere un’intera classe di fenomeni riguardante le singole persone che influisce sulle loro vite, rendendo queste ultime poco gradevoli, e la cui origine è difficilmente riferibile ad un semplice malfunzionamento dei loro corpi, quanto piuttosto è imputabile a fattori diversi e la cui risoluzione può essere affrontata con strumenti a origine sociologica, che sono differenti da quelli medici, o farmacologici o anche semplicemente psicologici. In tali casi, ad essere chiamata in causa è, proprio, la persistenza in stati di disagio, dovuti a difficoltà legate a fattori ambientali e/o relazionali, che porta a malfunzionamenti affrontabili con interventi mono o multidisciplinari. La socioterapia cerca, dunque, di capire il perché della genesi di tali stati, spesso difficilmente spiegabili attraverso le teorie in auge. Nasce come utilizzo della sociologia, delle sue teorizzazioni e strumenti per interventi terapeutici: passaggio non facile ed estremamente rischioso nel momento in cui venisse percepito come un’indebita ingerenza in campi teorico-disciplinari che hanno, da sempre, considerato tale dimensione come proprio feudo esclusivo dato che, occorre ricordare, esso è anche fonte di grandi risorse. Le Lezioni di Socioterapia nascono dalla necessità, da un lato, di rendere più accessibile il complesso discorso contenuto nel mio precedente testo, Malattie 1. Cfr. Benvenuti L., Malattie Mediali, Baskerville, Bologna, 2002, p. 295. 8


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Mediali, teorico e di fondazione della disciplina, frutto di una meditazione durata oltre dieci anni e necessariamente tradotta in termini teorici di non facilissima lettura, come ben sa chi lo porta come testo d’esame nel proprio curriculum di studi; dall’altro, di rendere più chiaro e fruibile uno strumento di comprensione di sé o dell’altro, o degli altri per chi desideri approfondire la conoscenza di questo paradigma, peraltro in continua evoluzione, al fine di farlo diventare l’asse portante di un proprio impegno professionale. L’approccio disciplinare socioterapeutico cerca proprio di capire i perché della genesi di alcune situazioni personali che possono essere frutto di condizionamenti e influenze esterne, non spiegabili attraverso le teorie in auge. Faccio un esempio: perché un ragazzo o una ragazza brutti dovrebbero avere problemi? fisicamente non hanno niente, nessuna malattia, il loro corpo è perfettamente funzionante eppure nessuno li vuole: un mio paziente mi diceva “Posso essere amico, compagno, ma non partner, nel momento in cui non sono capace di decodificare l’altro in modo da interessarlo retroagisco su me stesso, sto male, mi intristisco, sono e mi sento fondamentalmente solo.” In termini tecnici si patologizza e a quel punto sì che possono sorgere una serie di altri sintomi: ma se noi andassimo semplicemente a curare il sintomo, cosa cureremmo? Se ci attaccassimo al sintomo, che senso avrebbe l’intervento? Il sintomo mi interessa ma non mi dice nulla finché non sono riuscito ad impostare un percorso che mi permetta di stabilire se sia la macchina-uomo che si è rotta - e allora lo mando dai tecnici giusti - o se sia semplicemente una difficoltà di decodifica di sé o dell’ambiente: allora intervengo cercando di spiegargli chi egli sia, come intervenire sull’esterno, co-costruendo la lettura della sua situazione e il progetto per tentare di uscire dallo stato di disagio. 9


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Il singolo non dovrebbe essere considerato come un individuo isolato ma come un appartenente organico ad un contesto dal quale trarre tutte le risorse per arrivare a dare una forma soddisfacente alla propria identità - a meno di patologie fisiche o psicologiche evidenti per le quali, come già ricordato, si rinvia agli specialisti del caso – ed è soprattutto a questo livello che può incontrare difficoltà nella formazione di tale identità, nel decodificare il proprio ambiente, nel definire il proprio ruolo in esso, nel relazionarsi con gli altri o nella ricerca di un partner, e così via; la stessa tossicodipendenza, in alcuni casi, finisce con l’essere una risposta, sbagliata ma comprensibile, a tali difficoltà …. ed è proprio a questo livello che può intervenire il socioterapeuta. La Socioterapia nasce da più di venticinque anni di lavoro sul campo, di impegno nel comprendere qualcosa di più sui fenomeni umani ed è partita proprio dalle tossicodipendenze - frequentemente indicate come fenomeno ad origine sociale ed altrettanto frequentemente affrontate con strumenti altri, quali quelli farmacologici, psicologici, psicanalitici ecc. che è come se avessero messo in secondo piano, o negato, tale origine – per estendersi poi ad altri campi e, per farlo, ha utilizzato, appunto, strumenti sociologici. Ha iniziato ad operare laddove i fenomeni apparivano come inspiegabili e si è posta come una disciplina che cerca di leggerli da una prospettiva “diversa”. Spesso, quando mi chiedono chi siano i tossicodipendenti rispondo di non saperlo: conosco il singolo tossicodipendente, posso farmi un’idea della tossicodipendenza, a volte i tossicodipendenti hanno comportamenti simili ma, anche qui, il simile non m’interessa, occorre ricordare che per chi ha fame la foto di un panino non sostituisce il panino, nonostante la somiglianza. Le droghe non si usano da sempre, sono presenti da molto tempo. La cocaina è una sintesi dalle foglie 10


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di coca, esattamente come l’eroina è una sintesi di un prodotto del papavero. Abbiamo distrutto intere popolazioni con l’alcol distillato, come oggi sono distrutti con le droghe di sintesi (ma non solo) interi strati delle nostre popolazioni. La psicologia ha affiancato a se stessa la psicologia sociale per riuscire a spiegare certe classi di fenomeni: se si deve intervenire per comprendere le fonti di un problema non solo individuale (o non individuale) significa che, in un qualche modo, si deve usare l’approccio sociologico; nel momento in cui una disciplina mette a disposizione strumenti per potere intervenire, non si eliminano le persone che non dovessero rientrare nella teoria, si limita, si elimina o, meglio, si evolve la teoria. Lo stesso vale per la socioterapia perché non è un dogma, è aperta, se per un qualche motivo dovesse non funzionare allora la si dovrebbe modificare o buttare: l’aderenza alla teoria è importante ma la teoria è uno strumento a disposizione delle persone, dell’ambiente, e non viceversa. Nel momento in cui mi sono trovato a dover affrontare ragazzi con problemi di tossicodipendenza, ho visto che, in tanti casi, quasi tutti gli approcci psicologici, psicanalitici ecc. sembravano non funzionare. Ovvero vi era una fetta di persone per le quali sembravano funzionare, e qui parlo, ad esempio, dei successi della scuola francese – ad esempio con Olivenstein e Bergeret - mentre un’altra fetta di persone sembravano esterne a questo tipo di approccio. Un esempio per tutti: i tossicodipendenti molto spesso dicono bugie, mentono. Per cercare di dare una spiegazione a tale fenomeno mi sono riferito ad una caratteristica che sembra accomunare anche tanti altri giovani e che, in socioterapia, viene presentata sotto l’etichetta del paradosso del mentitore: centinaia di ore di fruizione televisiva, in particolare, e mediale in generale fanno sì che i ragazzi si ritrovino nella si11


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tuazione di persone che hanno a disposizione una serie quasi illimitata di immagini corredate di colonna sonora, di effetti speciali, di quanto escogitato dalla produzione per farle accettare ai consumatori, di rappresentazioni che, spesso, si vanno a scontrare con le nozioni di tipo educativo offerte e/o possedute. Nello scontro tra questi due insiemi di immagini i ragazzi, sovente, si trovano in difficoltà poiché tali immagini sono staccate da ogni riferimento all’ambiente esterno e questo li mette in condizione di potersi comportare come fossero di fronte ad una sorta di televisione che, nel caso ci fossero trasmissioni non gradite, permette di cambiare canale; oppure, nel caso si trovassero di fronte al canale del genitore permette loro di immedesimarsi in lui e/o di pensarla come lui; nel caso in cui fossero con un amico di pensarla come lui; nel caso fossero di fronte ad un insegnante lo stesso. È questa sorta di serie di identificazioni successive che permette loro di potere sposare le affermazioni di chi hanno di fronte, come fossero le proprie, salvo cambiarle nel momento in cui, semplicemente, dovesse cambiare l’interlocutore. È questo che stupisce tanti genitori nel momento in cui apprendono che i figli, che con loro si comportano in una certa maniera, all’esterno, nella banda o nel gruppo, hanno comportamenti diversi o finanche opposti per cui se li ritrovano di fronte come fossero perfetti sconosciuti. Una delle idee base della socioterapia è che alcuni disagi espressi dai singoli possano essere indotti dai cambiamenti comunicativi, secondo una quasi ricorsività legata a quella che, nella nostra disciplina, viene chiamata la “deriva storica dei media”: ad ogni passaggio da un medium dominante ad un altro – occorre ricordare che tali passaggi sono stati effettivamente pochi nella storia dell’umanità, come vedremo nel prosieguo della riflessione - si sono verificate crisi sia collettive che individuali, crisi che, pur manifestando12


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si come casi singoli, finiscono con il risultare incomprensibili se non affrontate in un’ottica più ampia. La successione storica dei media è una sorta di successione di fotografie, per cui si passa da media legati ad oralità prelinguistiche, ai linguaggi, alla scrittura amanuense, alla tipografia e, infine, all’attuale dominio dei neomedia. La deriva in una barca serve a mantenere la direzione, e deriva storica è un modo per spiegare, metaforicamente, la successione dei media, partendo dal presupposto che vi sia un’autonoma linea evolutiva, e non qualcuno o qualcosa che la diriga: i comportamenti che mettiamo in atto in virtù di questa logica evolutiva, possono servire a determinare la direzione dell’evoluzione stessa, direzione che, peraltro, non conosciamo a priori e possiamo solo constatare a posteriori.

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Lezione I: sulla definizione di alcuni concetti utilizzati in Socioterapia

1.1 Socioterapia e metodologia Spesso nel linguaggio di senso comune si parla di metodologia senza sapere esattamente cosa essa sia. Con tale termine si indica una riflessione di secondo livello sulle discipline esistenti e sui criteri che ognuna di esse adopera per organizzare i propri contenuti: ciò permette di capire che raramente si fanno discorsi autenticamente metodologici ma solo discorsi sugli strumenti o, genericamente, sui metodi ma non proprio di metodo. La metodologia è una riflessione che si occupa del modo in cui le teorie, nei vari campi in cui è diviso il sapere scientifico, giustificano i propri asserti: si cerca di capire e di teorizzare sui processi logici che portano le discipline a spiegare certi fenomeni, a giustificare le proprie affermazioni, a considerare una proposizione come accettabile o da rigettare. Solo nel momento in cui si abbia una forte impronta metodologica, si può agire tanto nei settori conosciuti, applicando schemi consolidati come quello positivista, quanto in quelli per i quali non dovessero 15


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esistere né alcun tipo di conoscenza né, ancora e a maggior ragione, teorie consolidate. Una delle tante definizioni possibili del positivismo è che esso sia una teoria metodologica, che ha trovato in Galileo uno dei propri punti ideali di inizio, e in Cartesio il proprio teorico, con tipi di approccio che appaiono caratterizzati dal nuovo medium, la stampa, che si era appena affermato. Ad essere chiamate in causa sono: inearità, sequenzialità, certezza, simmetria tra spiegazione e previsione, replicabilità e intersoggettività nell’accertamento delle prove addotte, loro introduzione in testi stampati che permettano a chiunque di potere intervenire in un dibattito che, nel momento in cui avvenisse tra esperti, proprio per questo diverrebbe scientifico. È sufficiente una prova contraria in qualunque parte del mondo o dell’universo per ridurre o per far crollare la certezza di qualunque affermazione teorica. Dal punto di vista metodologico, dunque, la stampa può essere vista, da chi si avvicina al nostro approccio teorico, come la fonte di uno standard di formazione della conoscenza. In modo analogo occorre pensare all’oralità: così, ad esempio, si può leggere l’evento storico della stregoneria per cui anche la semplice accusa orale di praticarla aveva valore di prova, proprio perché ci si trovava all’interno di una cultura orale. Era la persona accusata a dovere dimostrare la propria innocenza, in quanto l’essere detti faceva scattare una sorta di presunzione, una prova orale, di colpevolezza. Del resto ancora oggi nei piccoli paesi o nei gruppi informali “l’essere parlati alle spalle”, l’essere sulla bocca di tutti è già un possibile stato di accusa da cui doversi difendere, mentre all’interno di una cultura tipografica, positivista, lo stesso valore viene dato solo a ciò che è scritto (presunzione di innocenza rispetto a quanto oralmente detto e non certificato). Un cambiamento importante è stato determinato 16


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proprio dall’entrata del positivismo nel diritto, nella filosofia e nella religione: si può pensare che, rispetto alla religione, il positivismo rappresenti il primo passo verso una teoria non religiosa della vita, verso un laicismo introdotto da quel rivoluzionario “eppur si muove” di galileiana memoria. Fino al Medioevo il nominare Dio o, a seconda i casi, gli dei era scontato, tutto era riferito ad esso, o ad essi; dopo il cinquecento diviene sempre più raro nelle nostre culture, anche se resta in altre quali, ad esempio, i popoli di fede islamica. Nei termini della socioterapia, indubbiamente, si parte da un approccio metodologico positivista, ma si cerca di spiegare anche alcuni fenomeni che sembrano andare al di là di esso: se il mio corpo dovesse stare male, indubbiamente vado dal medico (positivista) e non dallo stregone - anche se oggi stanno aumentando le scelte di tipo diverso – ma se il disagio non è immediatamente riferibile alla dimensione strettamente corporea e riguarda aspetti mentali dovuti ad incapacità di comprensione del proprio ruolo nella società o nella relazione o ad aspetti che non rientrano nelle capacità esplicative del positivismo, allora occorre integrare tale approccio o addirittura andare al di là di esso. Così, ad esempio, essendo noi all’interno di un mutamento culturale introdotto dall’ultimo, in ordine di tempo, cambiamento di standard di formazione della conoscenza, occorrerà ricalibrare tutti i nostri comportamenti e le nostre convinzioni: è quello che chiamo il passaggio ad una cultura post-tipografica. Così, nella pratica quotidiana, molto spesso non sono riuscito a trovare approcci teorici che mi permettessero di intervenire in modo soddisfacente rispetto alla tossicodipendenza: le spiegazioni che di volta in volta venivano date, ad esempio dalla scuola francese sopra ricordata, pur riguardando solo una fetta delle persone con problemi di dipendenza patologica, 17


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finivano comunque per essere importanti ai fini di abbozzi preventivi, proprio perché il modello positivista si basa sulla spiegazione e, simmetricamente, sulla previsione. Spiegare e prevedere: ma come ci si può riuscire per capire la tossicodipendenza? Come si fa a fare prevenzione se non si ha la spiegazione del fenomeno che sia essa stessa simmetricamente utilizzabile in termini previsionali? Il problema metodologico è importantissimo, il salto da fare non è rinnegare il positivismo, che sarebbe banale, ma integrarlo in una teoria più ampia. È vero che nessuno ha la verità in tasca, ma questa non è una giustificazione, una teoria può non essere ancora stata raggiunta, ma questo non vuole dire che essa sia impossibile da costruire: il sentiero che sto tentando di tracciare non riguarda solo la tossicodipendenza, ma riguarda la categoria delle sindromi mediali come malattie della comunicazione che inducono dipendenze mentali e che sono legate, secondo la mia ipotesi, in primo luogo alle difficoltà di comprensione dei cambiamenti comunicativi. Nelle dipendenze patologiche il riferimento finisce con l’essere, di volta in volta, alla droga, potentissima, ad internet, al cibo, all’angoscia, al panico ecc. Perché tutte queste malattie/sindromi? Sull’onda di tanti paesi occidentali, si danno farmaci a tutte le età, anche estremamente precoci: il dubbio è che le nostre società stiano affrontando in termini farmacologici i sintomi dei vari disagi come conseguenza di una sorta di rassegnazione rispetto alle cause, quasi che il prescindere da esse fosse una specie di prezzo da pagare per il nostro modello di sviluppo; un costo apparentemente inevitabile che però ha permesso al positivismo di divenire teorizzazione generale, metodo universale per ogni forma di sapere scientifico e per ogni tipo di organizzazione esistenziale. Il tipo di approccio su cui si basa la socioterapia è quello di riuscire a spiegare il modo in cui utilizzare 18


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non solo il positivismo, ma anche tutto ciò che può servire per il suo superamento, qualora esso si dovesse rivelare non utile. Se a monte non c’è una riflessione teorica, si diventa impotenti di fronte ai disagi, mentre si dovrebbe essere tecnici di tutte le forme della comunicazione: in famiglia, nel lavoro ecc. perché siamo esseri comunicanti anche se è necessario sottolineare che non siamo i soli esseri comunicanti perché uomini, infatti anche primati, balene, api, formiche e tutte le forme viventi hanno propri sistemi di comunicazione. Ci sono specie considerate immortali, come i coccodrilli, che hanno subito pochissime modificazioni dalle epoche preistoriche ad oggi. Secondo voi può un coccodrillo costruire un aereo? Ebbene da socioterapeuta sarei tentato di dire sì poiché, ragionando in termini evolutivi, il coccodrillo può essere considerato come una tappa evolutiva dal brodo primordiale all’uomo: è chiaro che l’evoluzione delle altre specie viventi siamo noi. Metaforicamente, è come se appartenessimo ad una sorta di enorme piramide biologica nella quale, da un certo livello in avanti, il vero strumento distintivo rispetto al non-vivente finisce con l’essere la comunicazione che, unica, permette alla materia vivente di potersi evolvere e riprodurre e per questo usa comunicatori chimici o elettrici o, come fanno gli uomini, comunicatori simbolici. Il nostro cervello è interessante perché ci permette un’evoluzione che non è immediatamente né chimica, né elettrica, pur usandole entrambe, infatti riusciamo a fare, a differenza dei serpenti, dei coccodrilli e degli altri primati, una comunicazione simbolica che diviene rappresentativa, come ha ben messo in mostra Schopenhauer. A seconda delle teorie, o siamo completamente differenti dalle altre specie viventi e quindi ci sentiamo in diritto di distruggerle, oppure ci sentiamo intimamente legati ad esse. La cosa interessante è che abbiamo raggiunto un tipo di organizzazione, 19


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in quanto uomini, che ci ha portato a distruggere l’ambiente, laddove anche le cosiddette culture primitive chiedono scusa se prendono un’animale dalla foresta per mangiare o un pezzo di legno per scaldare quanto hanno preso: noi ragioniamo come se fossimo i proprietari di tutto. Noi cacciamo per divertirci ed è assurdo perché non c’è nessuna altra specie che lo faccia, neppure nell’addestramento dei cuccioli ci si diverte (il gattino con il topo), i fanciulli non giocano ma imparano, poi siamo noi che li trasformiamo in bambini che giocano, ma loro sarebbero serissimi. In natura chi non riesce a diventare autonomo muore, mentre la lupa morde, delicatamente ma con decisione, l’orecchio al lupacchiotto che sbaglia, noi non lo facciamo con i nostri figli per una serie di motivi che ci hanno fatto arrivare all’attuale etichetta di appartenenti ad una società puerocentrica. In socioterapia è necessario tradurre i nostri principi, concetti e insegnamenti nei termini della persona che abbiamo di fronte per aiutarla a diventare autonoma in generale o rispetto al particolare disagio da lei posseduto: è questa la terapia. La dimensione terapeutica è quella di far crescere la persona, metterla in condizione di raggiungere il livello di conoscenze minimo per essere o per imparare ad essere autonoma. Se le droghe non dessero dipendenza non sarebbero un problema, ma per recuperare la libertà, purtroppo, il tossicodipendente deve limitarla, non genericamente ma all’interno di un progetto: - egli non è autonomo perché la sua libertà diventa una parola vuota, infatti mentre l’autonomia potrebbe essere una parola dal significato pieno anche senza libertà, non è vero il contrario. Autonomia vuol dire, nei nostri termini, che una rappresentazione di sé - devo sapere, nel modo più completo possibile, quale sia la mia conoscenza di me stesso e dei miei investimenti affettivi – diviene 20


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la guida delle nostre azioni che dovrebbero, quindi, essere contemporaneamente corrette dal punto di vista cognitivo e da quello affettivo; - il secondo aspetto importante dell’essere autonomo è quello di avere un sistema di rappresentazioni del proprio ambiente il più completo possibile; - terzo punto, la persona dovrebbe raggiungere una forte capacità metodologica perché l’autonomia non si sviluppa solo nei confronti di ciò che si conosce bene: l’autonomia è quella capacità di affrontare le situazioni che non si conoscono, sulla base di un metodo che permetta di costruire conoscenza anche senza avere una base precedente, anche partendo da zero; - quarto punto, la persona dovrebbe essere capace di progettare, e cioè di avere una conoscenza minima delle possibilità di sopravvivenza nell’ambiente, ad esempio come possesso di una capacità contemporaneamente cognitiva ed affettiva su di esso, che le permetta di estenderla anche al futuro o agli ambiti ignoti in modo tale da permetterle, appunto, di utilizzare tutte le risorse potenziali, oltre a quelle disponibili, per la vita o almeno per la sopravvivenza. Nel momento in cui il singolo riuscisse a decodificare se stesso, a capire cosa possa fare e se poi a tali capacità aggiungesse quella di essere in grado di capire l’ambiente, ed, infine, riuscisse a tradurre tutto questo in azioni, allora lo si metterebbe in condizione di essere autonomo. Senza conoscenza non c’è autonomia anche se, la conoscenza, da sola è parziale e ha un valore limitato: lo scienziato nucleare se va sott’acqua rischia di morire a meno che non sia anche un subacqueo. Molti di noi annegano perché si mettono in situazioni delle quali non hanno conoscenza. Molte persone pur sapendo che ci sono referenti specia21


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listici, non ci vanno, vanno dal mago, dall’amica ecc.: poi si lamentano. 1.2 Gli aspetti metodologici: leggi, generalizzazioni, complessità Esaminiamo ora la diade socioterapeuta/portatore di disagio, rappresentata graficamente come segue: socioterapeuta portatore di disagio Innanzitutto occorre che il socioterapeuta ricordi che il portatore di disagio - di uno di quelli di sua competenza - è una persona che è stata acculturata all’interno di un proprio medium dominante. Per questo il suo compito è, innanzitutto, quello di capire quali conoscenze abbia interiorizzato, attraverso quali processi di acculturazione/socializzazione e, inoltre, come organizzi logicamente i propri percetti – e cioè quanto da lui percepito attraverso i sensi - per decidere circa le proprie azioni, i propri comportamenti e idee, rappresentando tali dimensioni, le premesse, le cornici, gli ambiti a partire dai quali occorre iniziare per comprendere ed affrontare i disagi. Il socioterapeuta, dunque, non interviene immediatamente sui contenuti che la persona esprime, che si configurano già all’interno del suo panorama teorico, ma dovrebbe cercare in primo luogo di capire, dal punto di vista metodologico, come essa giustifichi ciò che dice. Per operare in tal senso deve imparare a muoversi anche in assenza di conoscenza, usando l’empatia come strumento: al terapeuta la spiegazione che la persona dà del suo disagio non interessa immediatamente, né deve utilizzare a priori teorie precedenti per spiegare l’evento specifico. Solo una volta che ha capito il percorso mentale che la persona ha seguito, 22


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solo allora si creerà un proprio quadro concettuale su ciò che di volta in volta sta affrontando, utilizzando a questo punto il proprio bagaglio di conoscenze scientifiche, empatizzando sui contenuti: il suo obiettivo principale è far sì che la persona ottenga un aiuto nel costruire gli strumenti per affrontare i propri problemi, che venga messa in condizione di essere autonoma, così come è stato ricordato in precedenza. Esistono teorie la cui valenza è soprattutto a livello empirico, altre per le quali il livello è solo formale. Ma che cos’è una teoria empirica? Per teoria si intende un insieme di proposizioni interconnesse in modo sistematico, contenente almeno una legge o generalizzazione e che, trattandosi di discipline empiriche, sia passibile di conferma o di sconferma empirica. Occorre ricordare che le teorie servono a rendere sistematica la comunicazione; sono uno dei passi fondamentali dell’apprendimento; rendono trasmissibili le conoscenze acquisite, nel nostro caso, empiricamente; servono a costruire scienza, come formalizzazione della conoscenza; contribuiscono alla sopravvivenza di ogni organismo ed alla sua evoluzione grazie ad un affinarsi della capacità di acquisizione di informazioni dall’esterno, evolvendo quella capacità comunicazionale biologica, tipica delle forme viventi, che è la cognizione. Nella definizione introdotta compaiono anche i termini di legge e/o di generalizzazione: essi indicano un processo complesso che serve a ricollegare quanto appreso dalle osservazioni (empiriche) - e che è già stato sottoposto ad un processo di formalizzazione rappresentativa - al particolare caso di fronte al quale ci si possa ritrovare. Nascono attraverso numerosi meccanismi quali, ad esempio, la comparazione che serve ad individuare omogeneità tra due o più elementi empirici, o fenomeni, o situazioni aventi almeno una caratteristica in comune. Un metodo 23


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comparativo può avere a monte una capacità metrica (come capacità di misura matematicamente o aritmeticamente garantita), ma non è storicamente indispensabile. La misurazione, del resto, serve a rendere i fenomeni in analisi paragonabili, con livelli crescenti di certezza in corrispondenza con i livelli di raffinatezza raggiunti, senza che sia essenziale che i fenomeni stessi siano compresenti, essa necessita, inoltre, di processi di astrazione dall’empiria, come costruzione di entità fittizie, risultato di processi di “simbolizzazione”, i quali ultimi daranno, in seguito, la possibilità di creare, appunto, categorie e/o generalizzazioni. La descrizione è alle radici di tale processo ed è un passo conoscitivo fondamentale, la cui importanza è legata alle tappe del processo di trasformazione della conoscenza dal medium orale a quello tipografico. La descrizione è strettamente legata a singoli approcci teorici e permette di distinguere, di individuare i fattori pregnanti dei fenomeni e di differenziarli rispetto a quelli accidentali e, quindi, permette la loro gestione al fine di potere arrivare ad individuare, come ricordato, eventuali aspetti generali. Descrivere significa, dunque, tradurre in termini scritti fenomeni che non sono scritti e questo permette di operare su protocolli (frutto di categorizzazioni) anziché agire direttamente sui fenomeni stessi. Basti pensare che un questionario, forse il primo, fu somministrato in un istituto di sordomuti in Francia alla fine del ‘700, e che serviva, appunto, a tradurre in forma scritta ciò che non poteva essere espresso dagli ospiti in forma verbale come giudizi, opinioni, sentimenti ecc.2 Anche qui è importante il modello metodologico: attraverso la descrizione dei fenomeni e lavorando sui 2. Cfr. Moravia S., La Scienza dell’uomo nel Settecento, Bari, Laterza, 1970, p. 83. Cfr. anche Benvenuti L., “La nascita dell’approccio quantitativo alla conoscenza” , in AA.VV., Argomenti di sociologia, Bologna, Patron Editore, 1977. 24


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protocolli si possono costruire generalizzazioni di tipo induttivo. Una prima distinzione, relativamente importante, riguarda i due termini di generalizzazione e di legge: con il primo si indica un insieme di considerazioni relativamente formalizzato tra gli elementi comuni a una o più descrizioni di un fenomeno; mentre il secondo indica, appunto, il livello più formalizzato ed esteso al maggior numero di casi possibile. Le leggi, poi, sono di due tipi: - deterministiche e cioè tali che le affermazioni in esse contenute hanno una validità assoluta che riguarda ogni oggetto o fenomeno rientrante nel loro dominio: l’esempio tipico è quello della legge di gravità sulla caduta dei gravi nel vuoto che è affermata come universalmente valida. Tali leggi consentono di ripetere le osservazioni sia in ambiente naturale che in ambiente di laboratorio, qualora questo dovesse essere possibile. Permettono, inoltre, la previsione degli sviluppi degli eventi con certezza assoluta, ovvero non ammettono deroghe; - probabilistiche che traggono il loro nome proprio dalla forma statistica contenuta. Il fatto che un certo evento, ad esempio un contagio, abbia una certa probabilità di accadere, ad esempio del 70% o del 30%, spiega ottimamente ogni forma di suo accadimento, sia l’essere contagiati che il non esserlo. Ma questa caratteristica introduce un momento di incertezza sul prossimo caso che si dovesse verificare: a priori nulla si può dire sulla prossima persona che si dovesse incontrare e che potrebbe appartenere sia al gruppo dei contagiati che all’altro. È a livello di previsione, dunque, che si ha la vera divaricazione tra le due forme di generalizzazione scientifica, piuttosto che rispetto alla spiegazione, dato che quest’ultima riguarda avvenimenti già accaduti. Il modello metodologico al quale si è fatto riferi25


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mento è quello simmetrico di Hempel, uno schema che collega previsione e spiegazione e che, pur essendo stato formalizzato alla fine degli anni quaranta, può essere considerato il prototipo del modello di sviluppo dell’approccio scientifico positivistico: se la sua introduzione può essere riferita all’approccio conoscitivo galileiano e alle scienze della natura che da lui hanno preso le mosse, esso si è, poi, esteso a tutti i campi di indagine, inclusi quelli delle scienze umane. Esempio importante di tale applicazione è il concetto di uomo medio - elaborato dal belga Quetelet - un’entità inesistente, fittizia, che però veniva considerata come rappresentativa di un’intera popolazione, essendo caratterizzata da tutti i valori medi calcolati statisticamente a partire da una serie di variabili, riguardanti la popolazione stessa, quali l’altezza, il peso, le abitudini ecc. Come già ricordato, premessa al modello appena introdotto è la descrizione che nasce come caratteristica necessaria per permettere la gestione della mole di informazioni accumulatasi rispetto all’oralità: una scritturazione continua diviene necessaria per gestire una complessità che aveva messo a dura prova le capacità mnemoniche e di trasmissione di conoscenza dell’uomo orale ed amanuense. Il nuovo medium tipografico diviene lo strumento evolutivo capace di permettere all’uomo di gestire tale complessità immagazzinandola negli archivi rappresentati dalle biblioteche e permettendo di trasmetterla, inalterata e omogeneizzata dal carattere tipografico, ad un numero praticamente illimitato di fruitori per mezzo del libro stampato. Quest’ultimo però ha le sue regole: la scritturazione continua introduce l’esigenza di dovere essere essenziali dato che non si può scrivere tutto, e ciò avviene sulla base delle indicazioni fornite dalle regole del metodo cartesiano, sulla base delle quali si riduce il tutto ai suoi elementi essenziali. La descrizio26


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ne di un fenomeno significa che essa diviene sostitutiva del fenomeno stesso che cessa di essere quello che è per venire ridotto, a fini conoscitivi, alla sua dimensione protocollare. La descrizione è un’attività individuale che le regole cartesiane hanno cercato di rendere oggettiva: alle radici di tale passaggio vi è la necessità di fare scomparire proprio l’arbitrarietà di tutti i processi di riduzione, che sono necessari ma che rischiano di rendere la conoscenza cieca, proprio sulla base di un’oggettività che, a quel punto, diverrebbe soltanto presunta. Abbiamo già visto che nel momento in cui una persona descrive qualcosa, individua quelle che lei considera le variabili fondamentali di un fenomeno per mettere da parte quelle che lei ritiene irrilevanti. La descrizione è paragonabile ad un fascio di luce che illumina uno scenario, ne illuminerà solo una parte alla volta rendendo difficile se non impossibile una visione totale che non sia una somma di visioni parziali che, dunque, crea l’illusione della totalità, di avere luce ovunque lei guardi (è l’illusione dell’oggettività). Lo strumento è potente, ma il fenomeno perde completezza per finire con l’essere identificato con ciò che viene descritto. La descrizione diventa la base dello sviluppo delle scienze, perché solo ciò che può essere osservato viene descritto. E viceversa: purtroppo solo ciò che può essere descritto finisce con l’essere osservato. Tutto il resto passa allo stato di indescrivibile o di irrazionale poiché solo sul descritto si può introdurre quel processo di spiegazione/previsione sulla base di leggi, sopra ricordato. La scienza si legittima come tale in quanto parte da alcune considerazioni, le collega a leggi o generalizzazioni per spiegare eventi. La cogenza della deduzione è alle basi di un sistema strutturato, premessa per una approccio positivista che, in quanto tale, non ammette eccezioni. Se io dicessi: «tutti gli uomini sono mortali, e poi scoprissi che un uomo è 27


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immortale allora è la certezza dell’affermazione che verrebbe a cadere». Noi abbiamo strutturato tutta una serie di teorie su questo sistema: a partire da alcuni assiomi costruiamo spiegazioni che utilizziamo anche per effettuare previsioni. Affrontiamo, ora, un ulteriore passaggio metodologico: chi garantisce che, nell’applicare il metodo scientifico e operando una scelta tra caratteristiche essenziali ed accidentali del fenomeno/oggetto di studio e sulla base degli strumenti descrittivi utilizzati, le considerazioni finali raggiunte poggino su una legge? Per questo ci viene in aiuto Montesquieu con il suo Spirito delle leggi: nel momento in cui si arrivasse a determinare una regolarità, in realtà non la si inventerebbe, ma ciò avverrebbe perché essa è già insita nella materia. Allo stesso modo quando facciamo una ricerca sociale, in effetti è come se presupponessimo già l’esistenza di una regolarità. Essere sprovveduti significa che non si utilizzano le conoscenze e le teorie che pur si posseggono: l’essere avveduti, quindi, indica il fatto che la persona proprio perché ha a disposizione strumenti di conoscenza e di previsione li utilizza. È, questo, l’ambito della prevenzione, una prospettiva che, operando anche nel caso in cui vi sia la mancanza di leggi deterministiche, permette di descrivere le probabilità che, ad esempio, un certo evento si verifichi. Possiamo riassumere tutto quanto introdotto nella presente lezione utilizzando ed approfondendo il modello di Hempel di spiegazione-previsione, riassunto nella seguente: C1 , C2 , ......., Cn L1 , L2 , ......., Ln E

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Explanans

Explanandum


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Tale modello è caratterizzato: - dalla presenza di alcune considerazioni iniziali (le C1, C2, ..., Cn) che sono, di fatto, le descrizioni delle condizioni di partenza di quanto deve essere spiegato e della situazione nella quale esso si trova; - da alcune proposizioni generalizzanti e/o leggi (le L1, L2, ..., Ln) che introducono una o più affermazioni generali; - l’evento da spiegare (è la E) o, simmetricamente, quello che deve essere previsto. I primi due passi sono anche chiamati Explanans e cioè appartengono a quella parte del calcolo che serve a spiegare il terzo passo, che proprio per questo è chiamato Explanandum, e cioè ciò che deve essere spiegato. Così se dovessi spiegare il perché ho trovato un oggetto rotto in terra dovrei fare riferimento al perché l’oggetto fosse in condizioni di essere privo di vincoli – e cioè tale da potere cadere a terra – e l’unione con la legge di gravità mi permetterebbe di spiegare egregiamente l’accadimento, e cioè il fatto che si è rotto essendo caduto. Lo scopo della conoscenza, però, non è solo quello di constatare «quanto accaduto»: in termini comunicativi il problema si sposta e diventa quello per cui la persona avrebbe dovuto impostare il proprio comportamento precedente sul fatto che se avesse desiderato che l’accadimento non si fosse verificato, allora si sarebbe dovuto comportare in maniera diversa. È questa capacità preventiva che diviene la caratteristica delle persona accorte. Sono le reciproche relazioni temporali quelle che determinano la differenza tra spiegazione e previsione: nel primo caso l’Explanandum (la E) precede il calcolo (l’evento è già accaduto) e si ricercano sia le considerazioni iniziali che le leggi; nel secondo l’evento deve ancora accadere ma si possono determinare le 29


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altre due componenti dell’Explanans (sono le C e le L). È questo l’ambito della prevenzione: di qui l’importanza del modello e del suo calcolo che è alle radici della costruzione delle teorie scientifiche. Il socioterapeuta, dunque, deve cercare di progettare una soluzione, a partire dalle origini personali e/o collettive di formazione delle idee possedute dal portatore di disagio, mettendosi in un’ottica di analisi delle situazioni a partire dalle loro traduzioni in sistemi di rappresentazioni. Dovrebbe, inoltre, evitare ogni preconcetto, negativo o positivo, nel vagliare sensazioni ed istinti altrui e, al limite, propri. Nello schema di spiegazione prima illustrato si parla di avvenimenti già accaduti e non ha valore immediatamente predittivo anche se, a volte, siamo tentati di farlo e cerchiamo di individuare gli sviluppi futuri sulla base di quelli passati. Questa è la situazione tipica che può portare a convinzioni di onnipotenza: l’effettuare una spiegazione nel passato a partire da quello che si conosce su quanto successivamente accaduto, secondo una figura metodologica che prende il nome di post-visione, può convincere le persone che, se si fossero trovate nei panni degli attori storici, avrebbero potuto agire con maggiore accortezza evitando i loro errori ed ingenuità. È la situazione tipica di chi osserva una partita a carte: assistendo tutti i giocatori si è in grado di spiegare loro gli errori eventualmente commessi - naturalmente, si spera, una volta che la partita sia finita. La capacità di imparare dal passato è una delle componenti principali dell’esperienza, ma bisogna stare attenti a non trascendere da un’esatta valutazione di questa analisi a posteriori. Diverso è dovere decidere nella contingenza - e cioè nell’immediatezza del rapporto con l’altro (o con una situazione complessa) che è, a propria volta, un decisore (o composto da decisori) sul cui comportamento posso avanzare solo 30


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ipotesi delle quali dovrò tenere conto nel prendere la mia di decisione - diverso è il giudicare dall’esterno o il riflettere su quanto accaduto e sulla base della conoscenza di quanto già accaduto. Occorre prestare estrema attenzione agli approcci basati sulla convinzione di potere utilizzare la ricostruzione dei percorsi di vita di una persona (o di un sistema sociale) come mezzo di previsione delle possibili conseguenze dei comportamenti dello stesso (o di tale sistema) perché può portare ad autentici nonsensi rientranti in quello che potrebbe essere definito un approccio di senso comune. Non è infatti detto che la conoscenza completa di tutte le variabili in gioco permetta di indirizzare il corso degli eventi futuri: si possono anche fare previsioni ma, nel caso in cui si avverino, non è detto che si siano verificate per effetto delle nostre capacità previsionali o che non si siano verificate, come nel caso degli esorcismi, per merito dei nostri scongiuri. La previsione non riguarda nulla di reale, sono solo parole qualunque esse siano, mentre la spiegazione riguarda fatti empirici e cioè avvenuti. Allora bisogna avere estrema cautela nella progettazione di un intervento terapeutico. La previsione possibile su questo modello è una mera indicazione: il socioterapeuta dovrebbe essere capace di muoversi anche in assenza di teoria. Le previsioni sono solo un mucchio di parole assolutamente prive di qualunque cogenza sull’ambiente, come dimostrano le mutazioni genetiche: al massimo sono anticipazioni razionali e cioè considerazioni logiche a partire da certe conoscenze iniziali possedute e da certe generalizzazioni costruite, che necessitano di volta in volta di conferme/sconferme empiriche. Il terapeuta, rispetto al disagio di un singolo portatore, dovrebbe riuscire a mettere in atto una serie di contromisure, di meccanismi per far fallire l’eventuale anticipazione razionale negativa per o non gradita al 31


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paziente e viceversa agire per confermarne una gradita, il tutto nell’ottica di un’etica legata a principi morali collettivi e accettati a partire da valori condivisibili. Per tutte queste considerazioni, l’aspirante terapeuta è importante che: possegga una capacità di utilizzo dell’empatia come strumento, oltreché come contenuto; abbia una grossa base metodologica; parli, come ricordato, con la persona senza nessun giudizio-pre o pregiudizio; ricostruisca il percorso logico che ha portato la persona ad elaborare il proprio sistema di rappresentazioni (RR), e cioè a pensare ciò che pensa; tiri fuori, in un secondo momento, la propria conoscenza ed applichi alcuni suoi strumenti per descrivere, per tradurre al meglio possibile quanto osservato in rappresentazioni; e, infine, progetti un percorso di uscita dalla o di non ingresso (preventivo) nella situazione di disagio. Altri concetti utilizzati in socioterapia sono quelli di nozione, intesa sia come risultato di una approccio conoscitivo pre-sistematico sia come forma di conoscenza appartenente a culture storicamente precedenti a quella tipografica (o anche a culture orali contemporanee) e di concetto che può essere definito come il passaggio successivo a quello di nozione, una volta che essa sia stata sistematizzata e sottoposta ad una verifica da parte della collettività scientifica. Spesso quando ci si scontra è perché ci si confronta su nozioni, semplicemente legate al senso comune, e non su concetti. Questi ultimi, una volta coordinati, ci permettono di arrivare ad organizzazioni sistematiche all’interno di teorie che, nel caso siano anche empiriche, possono/devono essere sottoposte a conferma o sconferma empirica. Dal punto di vista terapeutico occorre aggiungere la comprensione del “problema” che affligge la persona per poi progettare il modo in cui essa possa crescere e divenire capace di decodificare ed affrontare il pro32


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prio disagio. La comprensione riguarda entrambi i componenti della diade terapeutica e si intende diretta sia all’individuazione delle rigidità, dei filtri e degli schemi della persona che chiede aiuto, sia al superamento di quelli del terapeuta, che dovrebbero già essere stati affrontati e risolti durante il periodo di tirocinio. Un altro concetto utilizzato nella nostra disciplina è quello di società complessa, ma cos’è la complessità? Noi parliamo di complessità nel momento in cui ci fosse uno scarto tra la situazione e gli strumenti e le capacità di sua decodifica posseduti dalla persona. La socioterapia, quindi, può avere due strategie a propria disposizione: in primo luogo, può servire a tradurre una situazione incomprensibile, e quindi per questo complessa per chi la dovesse affrontare, in una più semplice, più familiare e maggiormente decodificabile per lui; l’altra, che consiste nel fare crescere l’organizzazione interna della persona in modo che la sua capacità di decodifica sia, a propria volta, sufficientemente complessa da essere adeguata a quella esterna. Quest’ultima è, anzi, una delle finalità forti dell’approccio socioterapeutico che dovrebbe non solo aiutare il singolo a fare semplicità ma anche aiutarlo a complessificare la propria organizzazione interna, dotandola di quegli strumenti che rendano lui verso se stesso, i gruppi e l’ambiente di vita maggiormente comprensibili, decodificabili, anche al fine di superare le eventuali situazioni di impasse future. La complessità viene affrontata da Luhmann usando il concetto di senso: la riduzione di complessità avverrebbe attraverso l’introduzione di una serie di proposte, di scelte concepite in modo tale che nel momento in cui se ne dovesse selezionare una per renderla attuale occorrerebbe farlo mantenendo compresenti tutte le altre alternative potenziali. Spesso, oggi, i ragazzi si comportano così: fanno scelte reversibili proprio per potere percorrere, appena possibile, 33


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alcune o molte delle altre concepibili. In socioterapia il concetto di semplicità rappresenta la fine di un processo conoscitivo, di comprensione delle situazioni, non una sua premessa. Se voi foste vissuti ai tempi dell’uomo prelinguistico, non avreste avuto il linguaggio, né altri strumenti che abbiamo oggi. Possiamo dire che nessuno di noi, quali oggi siamo, sarebbe riuscito a sopravvivere in quelle condizioni, la vita nella nostra società moderna non è più complessa di quella che può essere la vita in una giungla o in una foresta, la complessità è un concetto semplice che ci dice che gli strumenti che si posseggono non sono adatti all’ambiente in cui si vive. È, forse, non eccessivamente produttivo dividere le società in semplici o complesse: la differenza tra noi e le persone appartenenti ad una cultura orale è che loro hanno un proprio modo di fare conoscenza molto forte, ma con strumenti limitati di trasmissione di questa conoscenza al di là dei rapporti faccia a faccia, dato che in queste culture la trasmissione della conoscenza è soprattutto orale, o, al massimo, scritta a mano o iconica. Noi abbiamo strumenti completamente diversi che rendono più semplice la decodifica di alcuni aspetti della nostra società, ma che non ci permetterebbero di sopravvivere in ambienti diversi da essa: in una giungla noi faticheremmo a sopravvivere laddove gli indigeni riescono a vivere. Oppure dovremmo preventivamente frequentare corsi di sopravvivenza ad hoc, rendendo, quindi, più semplice la sopravvivenza in essa.

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Lezione II

2.1 I concetti di normalità, di soggetto e di soggettività Oggi sembra sempre più labile il confine tra ciò che è normale e ciò che è patologico. Spesso la domanda ricorrente è: ma chi è veramente normale? È come se la normalità stesse rivelando un’essenza particolare: quella di essere una costruzione dell’uomo e come tale oggetto di continue ridefinizioni. Ma analizziamo il concetto di normalità, quando nasce e perché. A ben vedere appena nel Medioevo non esistevano né il concetto di massa, né quello di normalità. Si tratta di concetti culturalmente prodotti, figli di una certa concezione dell’uomo che ha portato alla stessa creazione del concetto di individuo – e poi del soggetto come premessa e frutto della divisione sociale del lavoro – e che, di conseguenza, ha avuto il bisogno di condensare, come “controaltare” alle precedenti dimensioni collettive, tutto il resto delle persone in quelle che vengono chiamate massa e socialità. Nel momento in cui la comunicazione orale si amplia a dismisura, nasce il problema di elaborare un 35


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nuovo sistema strumentale di conservazione e gestione delle informazioni: al medium orale subentra quello tipografico più stabile e più veloce in tali funzioni. Come abbiamo visto, alla forma narrativa orale si sostituisce quella descrittiva a stampo tipografico, ma nel momento in cui si dovesse descrivere, ad esempio, un gruppo di persone e si stampasse tale descrizione, la si renderebbe immodificabile ma trasmissibile ad un numero praticamente illimitato di altri: il prossimo gruppo che venisse osservato, in qualunque parte del mondo, potrebbe essere o simile alla descrizione o diverso, potrebbe confermarla o modificarla, facendo nascere così l’astrazione del gruppo di persone. In questo modo si inizia la costruzione di un concetto che ci accompagnerà per tutta la vita, quello di normalità, come letteraria figura fittizia: il normale non esiste, è una finzione, una persona/oggetto/fenomeno virtuale non rintracciabile in nessuno e in niente ma che tuttavia viene considerato l’essenza dell’umanità, pur non rappresentando il singolo essere umano, così come con lo stesso meccanismo si possono definire le essenze dell’equinità o della caninità, che si pongono, per l’uomo, con lo stesso rapporto rispetto al singolo cavallo o al singolo cane. La normalità diventa il paradigma di un certo tipo di società, quella industriale, borghese, che impronta se stessa alla soggettività. La soggettività è quella particolare concezione dell’uomo basata sull’idea che esso nasca come titolare e giudice delle proprie azioni: per l’uomo medioevale la referenza alla divinità era diretta e continua. Egli agiva nell’ottica del “volere di Dio”, “a Dio piacendo” ecc. e i suoi valori erano la somiglianza, l’identificazione con gli altri, la naturalezza e la spontaneità dell’appartenenza al gruppo, tanto che, per lui, la massima punizione finiva con l’essere l’espulsione dal proprio ambiente, come ci ricordano la vita e i rimpianti dell’autore della Divina Commedia: 36


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ebbene, a tale tipo di uomo se ne sostituisce uno autoreferenziale, attore e giudice, convenzionalmente nato uguale rispetto agli altri, ma che, grazie alle proprie facoltà, imposta la propria relazione con essi sulla base della propria capacità di emergere, di vincere però in nome proprio e non della referenza. Ecco il nuovo criterio organizzativo, la nuova filosofia di vita, forse ipocrita: tutti gli uomini nascono uguali (ciò giustificherebbe la loro interscambiabilità) ma le potenzialità di ognuno permetteranno la differenziazione del migliore e/o del peggiore dal resto, del genio rispetto al bruto o all’idiota. Nasce l’idea e il sogno della vittoria individuale, ma per ogni soggetto che vince devono esistere competitori sconfitti, e questo è accettabile solo a patto che vincitori e vinti condividano la stessa logica, che competano per la stessa meta, che condividano la stessa filosofia di vita. La sfida è aperta e la contraddizione di fondo che crea tanta inquietudine e malessere, anche: siamo uguali o differenti e perché, se siamo uguali, passiamo tutta la nostra vita a cercare di differenziarci dagli altri? E come mai, poi, sempre più spesso i nostri ragazzi sembrano sentire forte il richiamo all’omologazione, cercando il senso di un’appartenenza a volte quasi totale, perfino attraverso forme di identificazione per mezzo di vestiti che divengono più vincolanti di divise? Cercheremo di rispondere a questi e agli altri, eventualmente numerosi, interrogativi. Ma procediamo per gradi. L’introduzione del torchio da stampa, pur essendo già in uso in oriente senza che avesse portato a nessuna rivoluzione comunicativa, è stato fonte, in Europa, di forti mutamenti: la stampa a caratteri mobili, secondo l’intuizione mcLuhaniana, rivoluzionò completamente la comunicazione, anche rispetto alla stessa produzione libresca che prima era legata alla stesura amanuense. 37


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La stampa cambia lo standard di formazione e di immagazzinamento dell’informazione, come abbiamo visto più indietro. In parallelo anche l’uomo cambia e si evolve, dando origine, sulla base di un collegamento postulato dalla socioterapia, a quella nuova forma di organizzazione psichica che rappresenta uno stadio dello sviluppo evolutivo della specie e che prende il nome di soggettività, “una forma tarda dell’autocostruzione dell’uomo” secondo la definizione di Luhman. Il soggetto diviene il titolare dell’azione e come tale contrappone una dimensione acquisitiva (essere e divenire in funzione delle qualità dimostrate) ad una ascrittiva (diritti e doveri derivati dalle gerarchie tradizionali, dalla divisione in caste, dal ceto, dall’organizzazione religiosa ecc.), la precedente prospettiva nella quale la persona era assoggettata all’autorità della tradizione. Curiosamente il termine di soggetto passa da una precedente accezione latina negativa ad una positiva: il soggetto, da persona assoggettata, sottomessa, diviene titolare di azione, attore e giudice in proprio. La codifica successiva della titolarità dell’azione da parte dell’attore rappresenta un ulteriore passo evolutivo: in analogia con quanto è successo a livello teatrale, tale codifica introduce un’organizzazione basata sui ruoli. Il concetto di ruolo nasce proprio sul palcoscenico poiché il passaggio dalla commedia dell’arte alla nuova forma recitativa avviene tramite la complicità di un, apparentemente piccolo, artificio: la titolarità della pièce teatrale che prima era di quello che potremmo chiamare il caratterista, il guitto, passa all’autore. Questi codifica lo svolgersi della trama in modo rigido e la trasmette all’attore tramite un “rotulus”, e cioè un rotolo di carta presente sul palcoscenico sul quale erano scritte, le battute da recitare. Rigidamente scritte secondo quanto era stato pensato 38


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dall’autore e diviso in parti pre-definite, come ci ricorda Gallino nel suo Dizionario di Sociologia. Nel momento in cui codifichiamo una parte la facciamo esistere indipendentemente da colui che la interpreta. I ruoli codificano i comportamenti: comincia a strutturarsi la società come insieme di ruoli standardizzati ed interdipendenti. Il ruolo e le aspettative di ruolo diventano la cerniera del rapporto e delle interazioni tra gli individui: sistemi di azione e di comportamenti attribuiti e riconosciuti ad una certa posizione occupata nella stratificazione sociale cercano di eliminare qualsiasi arbitrarietà nelle azioni e le rendono prevedibili, a meno di devianze. Il soggetto, così come descritto, nasce dopo il 1500, dopo il Rinascimento italiano e Cartesio. Il filosofo francese è l’artefice del processo moderno di astrazione. Nel suo “Discorso sul metodo” – che in quanto discorso pur stampato può ancora essere considerato a cavallo tra le due culture, orale e tipografica - egli introduce un procedimento conoscitivo fondamentale che riguarda l’analisi dei fenomeni, a prescindere dalle caratteristiche accidentali, e in funzione delle caratteristiche essenziali degli stessi. Descritte. Su tale processo di astrazione poggerà la possibilità di costruire regole - appunto e come abbiamo visto - di descrizione, di misurazione, di comparazione, di creazione di generalizzazioni come basi per lo sviluppo di teorie scientifiche. È la premessa per l’ideazione di quel sistema grafico di assi – dal cui nome trae il proprio di sistema di assi cartesiani - che permette di illustrare gli andamenti dei fenomeni su di un piano e sulla base di due, tre, quattro variabili al massimo. Astrarre significa, come ricordato, individuare le caratteristiche considerate fondamentali e comuni in persone, cose, fenomeni, esseri viventi ecc. in modo da distinguerle da quelle cosiddetti accidentali, anche se presenti nel singolo. 39


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A seconda dell’ambito di studio, e sulla base di procedure proposte individualmente, ed eventualmente socialmente accettate, si eliminano dal sistema descrittivo gli elementi considerati poco importanti, trascurabili e se ne evidenziamo altri, ma in questo modo si riduce ad esempio “l’uomo” a qualcosa di diverso. Ancora una volta lo si riduce a parole contenute in descrizioni. Punti su di un grafico che fanno giustizia di ogni singolarità e diversità. Astrazioni dai casi singoli per il loro immagazzinamento in casi generali, frutto di una gestione di protocolli indipendenti dalle persone. Il contemporaneo sviluppo dell’aritmetica prima e delle matematiche poi - sull’onda di una omogeneizzazione tipografica dei numeri di una tavola pitagorica che nell’oralità era ritenuta quasi magica - avviene a partire dall’introduzione del concetto di unità, come ente sempre uguale a se stesso, che viene favorito dall’analogia con le pagine dei libri stampati che, proprio a causa del loro modo di produzione, sono assolutamente uguali le une alle altre, almeno quelle che portano lo stesso numero in copie diverse dello stesso libro e a meno di errori umani. Trattare gli uomini sulla base dell’astrazione, vuole anche dire che essi vengono assimilati ad unità, a partire delle loro caratteristiche rese comuni e a seconda dei fini della ricerca, e possono, quindi, essere trattati utilizzando la matematica. Tale semplice procedimento permette di arrivare a rispondere alla domanda iniziale del capitolo, definendo almeno due concetti fondamentali: - quello di normalità, egregiamente rappresentata dall’uomo medio di Quetelet e dai casi rientranti nella parte centrale della curva statistica che, per consuetudine, viene chiamata normale; - e quello di devianza, rappresentabile come deviazione dalla media; come appartenenza ad una del40


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le due code della curva normale, il che permette di individuare due tipi di singolarità: non solo quelle che appartengono alla parte sinistra della curva, e che sono molto al di sotto della media, ma soprattutto quelle che sono all’altro estremo di essa, al di sopra della media, e che vengono legate all’eccesso, ad esempio alla genialità. 2.2 L’autoreferenza Se io volessi spendere 20 milioni di euro lo potrei fare? Se li avessi certo, a patto di non essere su un’isola deserta, o il solo al mondo. Considerando un uomo ricco, come lo può essere il padrone di una grande azienda di informatica o di una grande agenzia di distribuzione, nei termini dell’autoreferenza cosa vuol dire il fatto che una persona possa disporre di imponenti masse di denaro? Vuol dire che lui comunque dovrebbe avere un intero apparato organizzativo sociale a propria disposizione, dovrebbe farsi fare tantissime cose da altri: per dimostrare di essere veramente autoreferente dovrebbe riuscire a bastare a se stesso, dal farsi le scarpe ad un’operazione di appendicite. L’autoreferenza - come proprietà della teoria dei sistemi viventi per cui questi ultimi, in certi momenti o azioni, fanno riferimento solo ad operazioni o ad aspetti interni a sé per la propria sopravvivenza - gode dello stesso statuto di altri concetti sia filosofici, che psicologici o sociologici e cioè di essere pure stipulazioni simboliche, e cioè pensieri linguisticamente prodotti, non riguardanti l’ambiente: il patto sotteso è che tutti condividano lo stesso schema teorico, perché se lo si mettesse in discussione, come nel caso di sovvertimenti radicali di un ordine politico/sociale, si correrebbe il rischio di creare caos, sovversione appunto, o altro rispetto all’organizzazione precedente. 41


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Nel momento in cui tutte le persone dovessero decidere che un leader non sia più tale, in quel momento non avrebbe più potere: non a caso tale momento, spesso, coincide con la nascita di un nuovo leader, forse ancora più autoreferente rispetto a quello che sostituisce. L’autoreferenza, in termini sostanziali, presuppone il fatto che, in quanto costrutto simbolico, si basi sull’accordo del maggior numero di persone possibile, altrimenti non si reggerebbe, così come il valore delle banconote che, una volta che fossero private di riferimenti a ricchezze concrete, direttamente o mediatamente, riacquisterebbero la loro caratteristica di essere soltanto carta, come ben dimostrato in certi periodi storici, o in certi paesi dall’inflazione galoppante. L’autoreferenza diviene un concetto possibile solo all’interno di società basate sull’individualismo – fenomeno che, nei nostri termini, nei momenti di massimo sviluppo prende il nome di soggettività - e cioè su di una concezione della persona intesa come essere capace di un’assoluta indipendenza dai propri simili, di possesso fin dalla nascita del proprio sistema di conoscenze o, comunque, di un’abilità propria, unica e innovativa, di sua esclusiva pertinenza. Concetto assurdo, impensabile in culture che non abbiano un’organizzazione mediale che lo possa permettere: nel momento in cui ciò che si apprende lo si deve a un’altra persona, situazione tipica delle culture orali, una concezione solipsistica dell’uomo diviene impensabile; nel momento in cui la società del libro stampato mette a disposizione delle persone uno strumento formidabile di trasmissione della conoscenza, ma omologante perché indipendente, almeno in apparenza, dal medium umano in quanto prodotto con il torchio, lo strumento principe antesignano delle produzioni a catena. Forte è l’analogia con il Macbeth 42


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di Schakespeare, sconfitto da un uomo partorito non da una donna ma dal ferro: il feroce uomo medievale viene battuto dal nuovo uomo che ritiene di non avere un referente (culturale) umano, una madre, ma solo se stesso, in quanto nato dal metallo, stupenda metafora dello strumento tipografico. Il punto base è questo: un organismo può dichiararsi autoreferente solo a patto di immettersi in un universo interamente rappresentativo perché, comunque e come minimo, ha bisogno di sostanze nutritive dall’esterno e di immettere nell’ambiente i propri rifiuti. Maturana e Varela3 ricordano che la cognizione è lo strumento evolutivo biologico degli esseri viventi e quindi anche dell’uomo, ma la cognizione per l’uomo non è solo capacità biologica, ma è anche culturale: una qualunque affermazione teorica, o di trasmissione di conoscenza, può essere fatta solo grazie all’esistenza di altri che ne hanno costruito le premesse, rispetto ai quali il concepirsi come indipendenti sarebbe assurdo. Nella cultura orale la principale punizione era proprio quella di essere rifiutato dalla collettività; in Africa il problema è dato proprio dalle masse espulse, per i più diversi motivi, dai villaggi che si inurbano in città e che finiscono con l’essere formate da disperati perché non hanno più i tessuti comunitari di origine, tanto è vero che, spesso, le persone cercano di ricreare un contesto simile a quello di provenienza. È possibile che un organismo si concepisca in termini solipsistici? Il solipsista è, di fatto, una persona sola che fa di questa solitudine un tormento e una ragione di vita o, anche, di morte - nella mia esperienza terapeutica può portare a tentativi di suicidio che potremmo definire, seguendo Durkheim, come esempi di tentativi di suicidio anomico - per cui sentendosi assolutamente staccata dal proprio conte3. Maturana, H.; Varela, F. Autopoiesi e cognizione, Marsilio editori, Venezia,1988. 43


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sto può arrivare a decidere anche sulla propria morte come atto di estrema autoaffermazione, facendo diventare tali atti un problema per le nostre società. Il solipsismo, probabilmente, è un concetto che fa riferimento ad un modello di uomo legato alla soggettività, mentre per modelli di altre culture potrebbe avere meno senso, o non averne del tutto. Autoreferenza vuol dire che la persona è contemporaneamente attore e giudice. Il grosso problema di tanti adolescenti, oggi, è che sono autoreferenti perché agiscono e giudicano avendo solo se stessi come referenti: è l’ideologia della giovinezza come stato beato che richiede solo di essere lasciata libera, e che invece lascia i giovani o in balia di se stessi, o preda di coetanei più forti o di adulti più furbi; è un’errata convinzione dovuta, forse, ad un fraintendimento dello stesso termine di educazione la cui etimologia riportata all’origine latina del trarre fuori dalla condizione di natura verso i valori e la buona relazione con gli altri, finisce con l’essere assimilata a quella di possibilità della persona di riuscire ad esprimere se stessa, secondo l’ottica autoreferenziale di cui stiamo parlando. Forse solo le lingue morte possono essere veramente autoreferenti, mentre quelle vive prendono da tutte le parti e per esse vi è la possibilità di costruire nuovi termini non solo a partire da se stesse. La lingua è bella perché è viva, non perché è autoreferente; il linguaggio, pur avendo regole di formazione e di correttezza formale, non dovrebbe essere ingessato nelle proprie regole. Un punto importante nell’internet addiction è l’ebbrezza da nuovi media, l’ebbrezza da onnipotenza: il relazionare attraverso il computer dà l’illusione di avere un tipo di potere enorme, al punto da potersi inventare una (o più) identità per sostituire a piacere la propria, o di poterla plasmare in funzione di come si pensa siano gli interlocutori, o di potersi addirittura 44


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inventare all’interno di una “second life”. Spesso gli informatici sono persone che si ritengono onnipotenti, col computer sembrano non avere bisogno di nulla, col computer sembra sia possibile fabbricare o fare qualsiasi cosa sostituendo molte altre specializzazioni: dalla grafica, alla stampa, al riempire la dispensa ecc. Oggi si assiste ad un cambiamento di standard, lo standard è la persona esperta in computer, se avete una persona che non dovesse intendersene di informatica e dovesse mettersi davanti al computer si sentirebbe quasi deficiente, per lui il linguaggio o comunque l’utilizzo del computer al massimo assomiglierebbero all’utilizzo di una sorta di scatola nera. Il medium in questo caso giustifica se stesso: paradossalmente è la stessa cosa che avviene quando si domanda ad un ragazzo perché si fa, perché usa sostanze? Lui, probabilmente, risponderà dicendo che gli piace e in tale risposta è riprodotta tutta l’autosufficienza di chi, almeno per il momento, non si pone altri problemi. La dipendenza dal computer è assimilabile per molti aspetti a quella dalla droga: nel momento in cui la persona si siede davanti al proprio strumento mette in atto una sorta di rituale, ad esempio dandosi dei tempi di utilizzo ai quali sa già che non terrà fede. Che cos’è la droga? Il problema è analogo a quello che si pone quando ci si ritrova in un vicolo cieco: forse il problema non è dato da quello che ci immaginiamo, non nasce quando ci ritroviamo nel vicolo ma è all’origine. Quando ci si ritrova in un vicolo cieco si è già perso, tranne che non si faccia marcia indietro: ma se non si fa un’analisi del perché ci si è entrati ritornare su se stessi serve a poco, la droga è all’incirca la stessa cosa. Molti di noi, quando affrontano la droga, hanno l’immagine di un enorme vicolo cieco nel quale apparentemente finiscono per confluire tutte le strade, perché la droga può essere interpretata come gestione da parte di una sostanza dell’affettività della 45


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persona dipendente. Se qui avessimo un ragazzo che ne ha fatto uso e vedesse una bustina incomincerebbe ad agitarsi, gli altri intorno a lui scomparirebbero. La droga utilizza la dimensione simbolica di chi è dipendente; un dipendente da internet se non ha un computer in giro non si sente tranquillo; analogamente se ve ne fosse uno e dovesse attendere per usarlo. Il punto interessante è proprio nel legame che si viene a stabilire con la causa della dipendenza che, rispetto ai nuovi media, può apparire quasi come una predisposizione sociale. Se ci si basasse solo sulla persona, sarebbe un errore, si dovrebbe cercare di capire dov’è che si pone quella persona lungo un continuum sociale pre-esistente, perché è chiaro che essa si dispone lungo un continuum che va da zero alla dipendenza completa. In questo modo avremmo almeno un modellino rispetto al quale situarla: una volta stabilito il discorso generale, allora si dovranno cercare le cause interne, i detonatori individuali che portano i singoli a dipendere, e questi sì che possono essere diversi. È chiaro che verso internet le persone adulte e/o anziane hanno qualche difesa in più perché fa parte di un sistema mediale globale del quale hanno visto la nascita; se invece fossero un bambino, o un adolescente, o un giovane a diventare dipendenti da esso, allora sarebbe diverso perché la situazione patologica riguarderebbe organismi che si sono costruiti le proprie organizzazioni completamente all’interno dei neomedia. Quindi rilevante è stabilire dove si situa la persona nel continuum mediale ricordato e quali siano i particolari collegamenti con l’empiria che lo hanno portato a quello stato; è, inoltre, importante conoscere la funzione di un medium o di una sostanza rispetto alla persona che ci sta davanti perché in questo modo, forse, si riesce a capire quale possa essere l’eventuale aspetto affettivo deficitario in essa. Un esempio: se io fossi un venditore ambulante 46


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di martelli e dicessi che schiacciandosi un dito con un mio martello si gode, forse lo proverebbe qualcuno che non si fosse schiacciato mai un dito; la seconda volta, molto probabilmente me lo scaglierebbe contro, nel senso che, a meno di altre patologie in atto di tipo autolesionistico, è probabile che difficilmente si verrebbe ad instaurare un legame affettivo patologico tra la causa dell’eventuale dipendenza (il martello) e la persona. Situazione diversa anche se con punte di analogia nella bulimia, una patologia che serve ad indicare lo stato di una persona che mangia in modo compulsivo e cioè che si fa gestire dall’atto stesso del mangiare indipendentemente dalla qualità del cibo ingurgitato e dunque invece di massacrarsi scacciandosi il dito si massacra corpo, fegato, denti ecc.: non avendo un ritorno immediato dei danni si lascia andare al piacere diretto dato dalle cose che mangia con le quali stabilisce un legame affettivo, che per lei risulta essere sostanzialmente ingestibile. Le persone bulimiche, con vomito autoindotto, possono anche avere il pallino della cucina, ma mangiano per soddisfare un bisogno che non gestiscono e che per questo, consapevoli della loro debolezza, mettono in atto il vomito autoindotto come strumento razionale di controllo della dipendenza affettiva, per cui la contrastano con un meccanismo di svuotamento ritenuto razionale e di controllo per mantenere un determinato stato fisico. È un tipo di meccanismo per noi molto interessante. Il socioterapeuta, in questo caso, deve ideare un percorso di uscita dal disordine alimentare, dato che non è difficile pensare che se la persona fosse stata in grado di costruirlo da sola, non avrebbe bisogno di aiuto. In questo senso l’autoreferenza, divenuta una sorta di gabbia simbolica, viene spesso affrontata rifugiandosi in una sostanza di abuso che diviene una sorta di autocura: si contrappone un’etero-gestione ad una gestione di sé impossibile proprio perché go47


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vernata da un’autoreferenza patologica. 2.3 Lo sviluppo comunicativo e lo sviluppo dell’approccio scientifico all’uomo Abbiamo visto come sia l’evolversi comunicativo a determinare un certo tipo di sviluppo dell’uomo e delle forme organizzative che via via costruisce. Analizziamo tali forme comunicative in dettaglio. Nello sviluppo filologico della specie umana la comunicazione vede, come fase iniziale quella del preverbale; poi nascono l’alfabeto e la scrittura amanuense che per la prima volta rendono “virtuale” la comunicazione, creano cioè simboli, parole i cui significati pur essendo ricollegabili direttamente ai fenomeni si fondano su accordi collettivi di attribuzione di senso. Diversa è la virtualità, scollegata dall’empiria, che, come abbiamo visto, nasce con la tipografia, come modo nuovo di fare conoscenza che influenzerà moltissimo gli uomini e le loro culture. Con la stampa si sviluppano sia un’alfabetizzazione generalizzata, che un nuovo modo di produrre. Essa, infatti, può essere considerata la prima industria moderna caratterizzata: a. dalla produzione in serie; b. dall’introduzione della divisione sociale del lavoro: si introducono i ruoli dell’autore, dell’editore, del tipografo, del distributore, dal libraio e dell’acquirente; c. dalla specializzazione del lettore che diventa consumatore. Dal punto di vista della conoscenza la stampa porta: - alla distinzione tra autore e fruitore; - alla diffusione della conoscenza; - allo sviluppo dell’aritmetica. Per quanto riguarda il “saper far di conto” si può 48


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asserire che neanche i romani sapessero contare, infatti usavano la tecnica della corrispondenza tra gruppi, tanto per intendersi, che è l’analogo del pallottoliere o dell’abaco e che ha un’interessante ma limitata possibilità di utilizzo. La prima aritmetica nasce nella seconda metà del ‘400 a Treviso, come strumento per il commercio e per la quantificazione delle merci. Come ricordato, la possibilità di poter concepire la nozione di unità – elemento base per la costruzione dell’aritmetica prima e della matematica poi - si sviluppa quando l’uomo è in grado di produrre, artificialmente e cioè grazie ad un’invenzione tecnologica (la stampa), oggetti uguali, altrimenti non presenti in natura: un evento, questo, che eserciterà grossa influenza sulla conoscenza precedente, modificando enormemente la sua formazione e il suo immagazzinamento e, di conseguenza, la costruzione delle identità personali, radice delle relazioni tra gli uomini. Nel momento in cui il sapere scopre il concetto di uguale e dà origine a quelle conseguenti organizzazioni culturali, che verranno via via chiamate individualismo, illuminismo, positivismo, cultura borghese ecc. esso diviene anche criterio di socializzazione dei nuovi nati della specie uomo, e in tale forma i bambini vengono addestrati a decodificare l’ambiente circostante secondo le regole: a. dell’uguaglianza alla nascita, che poi diviene disparità in funzione della diversità delle mete raggiunte, spesso indipendentemente dai mezzi impiegati per raggiungerle. È questa la premessa di una sorta di etica del fatto compiuto che sembra esimere da ogni forma di controllo sul modo in cui le eventuali mete (fortune) siano state raggiunte (accumulate); b. del possesso, come principale, se non unica, forma di dimostrazione del raggiungimento degli obiet49


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tivi proposti, in nome di un’autoaffermazione che va al di là di ogni vincolo precedente, ad esempio di ordine morale; c. del confine, come criterio di differenziazione non tanto, o non solo, rispetto all’esterno della propria comunità, ma come confine interno tra sé e gli altri. L’autoaffermazione e, come si è visto, l’autoreferenza divengono gli assi portanti di una relazionalità basata sul soggetto e sulla soggettività, ma che ha alle proprie radici le premesse di quelle che sembrano essere due delle principali cause del disagio moderno, e cioè la solitudine e il solipsismo che, in quanto tali, divengono fattori di infelicità e di ansia proprio perché obbligano la persona, il singolo, a vivere una vita sostanzialmente in solitudine, da solo: lupo che, per giustificare la propria condizione, è costretto ad etichettare gli altri uomini come lupi. Condizione del tutto artificiale legata ad una convinzione, del resto, non vera neppure in natura, trovando tale animale la propria dimensione naturale di vita nel gruppo: la dimensione collettiva è fondamentale anche per il bambino perché è da essa che dipende il suo futuro. Con la stampa parte l’approccio tipografico che crea quel tipo di cultura qui indicato come cultura tipografica, alle cui basi vi sono i libri stampati e le biblioteche come depositi di conoscenza, autentici data base della modernità. Fino a quel momento la società era orale ed usava la memoria ed i libri scritti dagli amanuensi, e dunque non tipografici, come depositi di una conoscenza collettiva comunque mnemonica della quale gli anziani erano i custodi e, dunque, importantissimi. Dal ‘500 in poi cambia il modo di fare conoscenza: l’introduzione dell’aritmetica e della matematica permettono di sviluppare un tipo di approccio che noi, 50


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con terminologia moderna, definiamo scientifico. La conoscenza perde i riferimenti alla divinità per procedere valendosi di spiegazioni che utilizzano concetti quali quelli ricordati di leggi probabilistiche o deterministiche: è quel modello metodologico che solo in seguito, come abbiamo visto, verrà battezzato come nomologico (e cioè basato su leggi) induttivo-deduttivo. Si parte da alcune considerazioni generali, si passa attraverso alcune leggi per spiegare gli eventi. Si imposta il discorso scientifico sulla misurazione dei fenomeni/oggetti che, in effetti, diviene una sorta di misura della nostra capacità di astrazione rispetto al fenomeno/oggetto. Misurare significa far corrispondere numeri ad “oggetti” o a “fenomeni” che numeri non sono: ma per fare ciò vi è la necessità di almeno un’unità di misura coerente con ciò che si deve misurare, altrimenti, al massimo, ci si limita ad enumerare gli eventi ricadenti all’interno di tale fenomeno. Se avessimo richiesto ad un artigiano medioevale un tavolo di due metri per tre, avrebbe fatto fatica a capirci. Avremmo dovuto fare riferimento alle unità di misura del suo luogo di residenza, che, probabilmente sarebbero state diverse dalle nostre. L’artigiano aveva bisogna di vedere, di confrontarsi con uno strumento di misurazione che fosse materiale, non è detto che avesse la capacità di fare un autentico processo di astrazione. Misurare significa capacità: - di tradurre in numero ciò che numero non è; - di slegare il rapporto tra rappresentazione ed empiria; - di astrarre, in modo non generico, un evento dal sostrato (ambiente) secondo la logica della nuova società (tipografica). La stampa spinge verso la specializzazione della conoscenza: essa necessita che tutto ciò che non è scrit51


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to debba essere tradotto in termini scritti per mezzo con quel processo che è chiamato di descrizione. In tal modo si imposta una conoscenza che diventa intersoggettivamente accertabile. Occorre ricordare che nel momento in cui scrivo e descrivo un fenomeno, il fenomeno potrebbe finire con il non esistere piÚ: in molti casi quello che resta è la sua descrizione, il protocollo che lo riguarda, un caso che vede affievolirsi il legame con la sua origine.

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Lezione III

3.1 La Rappresentazione (R) Un concetto cardine della Socioterapia è quello di Rappresentazione: la Rappresentazione (R) è una variabile composta da due sub-variabili, l’immagine (I) e l’investimento affettivo (Inv. Aft.): Rappresentazione (R) =

immagine (I) + investimento affettivo (Inv. Aft.)

L’immagine è tutto ciò che arriva al nostro cervello attraverso gli organi di senso (diremo, seguendo Luhmann, che è funzione di una riduzione sensiva dell’ambiente); l’immagine, tuttavia, da sola non viene memorizzata, per esserlo deve essere investita affettivamente, positivamente o negativamente. Non esistono immagini memorizzate a investimento affettivo neutro o nullo, tanto è vero che nel momento in cui l’investimento affettivo su un’immagine si affievolisce o si annulla, non viene più ricordata: ciò spiegherebbe il 53


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meccanismo fisiologico della rimozione dei ricordi. Il cervello non ha nessun contatto con l’esterno, è una sorta di scatola nera, chiusa e tutto vi arriva attraverso gli organi di senso o viene in lei costruita. Cosa sono le rappresentazioni (RR) e quando le creiamo? Le rappresentazioni sono il frutto di una capacità affettiva innata nell’uomo, come in altri organismi viventi, che permette al feto, fin dalla vita intrauterina e attraverso l’organismo materno, di assimilare informazioni esterne: voci, emozioni della madre, percezioni che cominceranno a far parte del suo ambiente interno. Un bambino non ragiona per immagini, un bambino se ha la una palla e la perde e gliela sostituite con un’altra uguale, spesso non la vuole, per lui non esistono due palle uguali. Per lui la sua palla è quella, l’altra non è detto che gli piaccia perché ha di diverso che non è ancora stata da lui investita affettivamente: nella sua organizzazione psichica le due rappresentazioni sono diverse perché, anche se apparentemente sembrano avere la stessa immagine (I), l’una è già stata investita affettivamente mentre l’altra no, o lo è in misura inferiore. E viceversa: nel momento in cui altre immagini attraggono la sua attenzione sembra essere estremamente distratto, si volge al nuovo oggetto di interesse dimenticando per un momento o definitivamente, quello che aveva investito affettivamente prima. Dato che in lui esiste tale salto tra le due rappresentazioni (RR), questo vuole dire che esse non sono identiche, che non esistono due giochi identici, due entità identiche. Tale fusione tra cognizione ed affettività gli appartiene in quanto (e purché) non si sia ancora completamente integrato in quella che abbiamo chiamata la cultura delle società tipografiche e cioè, come abbiamo in parte visto, di quelle società nelle quali già si pensa nei termini della possibilità di una 54


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separazione – peraltro solo formale (apparente) - tra la I e l’Inv. Aft. della R. L’ipotesi della nostra disciplina è che questo stato sia tipico delle culture tipografiche: per quelle precedenti l’eventualità stessa di concepire un’ipotesi di spaccatura tra le due era impensabile e, forse, è possibile che vi sia un ulteriore cambiamento in quelle post-tipografiche, quali, ad esempio, quelle neo-orali attuali. La dimensione dell’immagine (I) quale prodotto diretto dei sensi, o autoprodotta dal nostro sistema nervoso centrale - in quanto conseguenza di una capacità combinatoria o creativa personale - indica la componente cognitiva della R proprio per questa sua derivazione da un’attività indiretta o diretta del nostro cervello rispetto all’ambiente; quella dell’investimento affettivo (Inv.Aft.) rappresenta la qualità della I, il suo incorniciamento affettivo, la caratteristica che permette il suo distacco rispetto allo sfondo e quindi la sua memorizzazione e/o gestione da parte del cervello stesso. Le due componenti della R sono, come ricordato, indissolubilmente legate tra loro, almeno a livello dell’ambiente e di quella che chiameremo una virtualità di primo livello, e cioè quella originatasi dall’autonomizzazione del simbolico, tipica delle nelle culture tipografiche. Nella mia attività terapeutica rivolta a persone con problemi di dipendenza patologica queste considerazioni sono state estremamente utili e, usandole, ho incominciato a capire qualcosa di più sui tossicodipendenti proprio perché essi non sembrano ragionare a partire da una spaccatura tra l’aspetto affettivo (Inv. Aft.) e la dimensione cognitiva (la I), molto spesso e per tanti di loro una situazione o una sostanza semplicemente o piacciono o non piacciono, indipendentemente da ogni conseguenza prevedibile. Analogamente, gli esploratori di sostanze sono quei ragazzi che le collaudano quasi tutte per cercare quella o quelle che piac55


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ciono loro, e scartano le altre: in tale prospettiva le conseguenze logiche dovute all’assunzione sembrano avere scarso o nullo potere di impedirla e finiscono con il rientrare in una sorta di resto dal valore secondario, come se tutto passasse in secondo piano. Allora cominciai a vedere che i contorni di un problema come quello della tossicodipendenza, che sembravano essere di difficile individuazione da parte di altre discipline, diventavano maggiormente definibili all’interno della nostra, che stava prendendo forma: l’utilizzo di una sostanza sembrava rendere tante persone incapaci di gestire se stesse seguendo un qualunque criterio educativo, o affettivo-relazionale – tipica era l’affermazione del genitore o del/della partner che diceva «perché mi fai questo» - o che semplicemente fosse anche soltanto razionale – «in questo modo ti sei massacrato la vita». Il provare una sostanza o, in tanti casi, addirittura semplicemente l’immaginarla diveniva il detonatore di comportamenti compulsivi, auto ed etero-distruttivi. 3.2.1 I neuroni specchio: una possibile base neurofisiologica per la R Una funzione fondamentale di qualunque approccio terapeutico, soprattutto nel caso del disagio sociale, riguarda il fatto di riuscire ad interpretare quello che l’altro fa o vuole dire. Per progettare un intervento, infatti, occorre riuscire nel compito quasi ermeneutico della comprensione del pensiero e delle sensazioni dell’altro: in questo senso il concetto di rappresentazione risulta fondamentale poiché permette al terapeuta di potere sfruttare le due direzioni individuate dalle sub-variabili della R per potersi avvicinare a quello che l’altro vuole dire e/o alle sensazioni che egli prova e/o alle ragioni dell’azione che 56


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pone in essere, e i due canali sono quelli individuati dalla dimensione cognitiva e da quella affettiva. Un recentissimo testo di Rizzolatti e Sinigaglia ha un titolo emblematico, So quel che fai 4, ed è interessante perché pone un problema molto in assonanza con quanto sopra ricordato. Alle radici della loro riflessione vi è il superamento di una concezione dell’azione basata sul classico schema percezione → cognizione → movimento alla cui radici vi è l’idea che ”le aree motorie della corteccia cerebrale sarebbero destinate a compiti meramente esecutivi, privi di alcuna effettiva valenza percettiva e, meno che mai, cognitiva” 5 mentre vi sarebbero neuroni che si attivano, in alcune aree cerebrali, non in relazione a semplici movimenti ma ad “atti motori finalizzati” quali afferrare, tenere e manipolare e che rispondono selettivamente alle forme e alle dimensioni degli oggetti, sia quando si interagisce con essi sia quando ci si limita ad osservarli.6 Per tali autori un cervello che agisce è: “innanzi tutto un cervello che comprende”… “Questo tipo di comprensione si riflette anche nell’attivazione dei neuroni specchio. Scoperti all’inizio degli anni novanta, essi mostrano che il riconoscimento degli altri, delle loro azioni e perfino delle loro intenzioni dipende, in prima istanza, dal nostro patrimonio motorio. Dagli atti più elementari e naturali, come appunto afferrare del cibo con la mano o con la bocca, a quelli più sofisticati, che richiedono particolari abilità, come l’ese4. Rizzolatti, G.; Sinigaglia, C. So quel che fai, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006. 5. Ivi, p.2. 6. “Questi neuroni appaiono in grado di discriminare l’informazione sensoriale, selezionandola in base alle possibilità d’atto che essa offre, indipendentemente dal fatto che tali possibilità vengano concretamente realizzate o meno” . Ibidem. 57


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guire un passo di danza, una sonata al pianoforte o una pièce teatrale, i neuroni specchio consentono al nostro cervello di correlare i movimenti osservati a quelli propri e di riconoscerne così il significato.”7

Occorre inoltre notare che l’accento viene posto da tali autori non solo sulle azioni ma anche sulle emozioni, una accentuazione importante e, del resto, ben conosciuta da attori e cantanti nel momento in cui devono suscitare negli spettatori certe risposte sentimentali previste nei loro copioni: “Non solo: la nostra stessa possibilità di cogliere le reazioni emotive degli altri è correlata a un determinato insieme di aree caratterizzate da proprietà specchio. Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise: la percezione del dolore o del disgusto altrui attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore o disgusto. Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia il concepire un io senza un noi.”8

Si avrebbero quindi non singoli movimenti ma azioni ed atti motori che permettono di concepire la sparizione di ogni distinzione tra i processi percettivi, motori e quelli cognitivi. Una prima riflessione in termini socioterapeutici permette di rivelare un’accentuata serie di somiglianze di andamento della riflessione teorica tra le due discipline: anche nel nostro approccio, ad esempio, l’uomo si riesce a concepire come distaccato dalla dimensione collettiva solo dopo l’introduzione della stampa, con la soggettività, e solo a livello ipotetico e non pratico. Vorrei partire dalla, a noi già nota, riduzione sensiva dell’ambiente che è una delle premesse per l’intro7. Ivi, pp. 3-4. 8. Ibidem 58


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duzione del concetto di R: è l’investimento affettivo sull’ambiente ciò che permette di individuare quelle sue parti che, tradotte in immagini e una volta incorniciate, appunto affettivamente, entreranno poi a fare parte del sistema di rappresentazioni posseduto dal singolo. Il fatto di immagazzinare rappresentazioni e usarle come mezzi per decodificare ogni nuova immagine diviene una funzione fondamentale: usando, ad esempio, strumenti basati sull’analogia si può fare in modo da attribuire ai prodotti della riduzione sensiva – alle nostre I – un investimento affettivo appartenente alle rappresentazioni (RR) contenute nei repertori personali e usate per decodificare il neo-percepito; e viceversa, per cui l’investimento affettivo della nuova percezione, se non gestito, può gettare nuova luce sulle RR possedute, come ben sa il terapeuta che si dovesse ritrovare a gestire persone con problemi di manie di persecuzione, che rileggono e reinterpretano continuamente il passato in funzione dell’ultima sensazione. Un meccanismo a parte si ha rispetto a riduzioni sensive nuove e prive di corrispondenti interni al singolo: in tal caso evidentemente non si può ricorrere all’analogia ed allora la persona o finisce con il non rilevare il nuovo, oppure si ritrova nelle condizioni di decodificarlo sotto forme diverse - quali, ad esempio, quelle estetiche – oppure di porre in essere un processo di sviluppo euristico per accrescere il proprio patrimonio conoscitivo, per mezzo di una forte base metodologica che lo porti a comprendere il nuovo.9 9. Occorre ricordare che nella nostra disciplina, come già anticipato, due sono le vie di avvicinamento al non noto e cioè quelle legate alle due sottovariabili della R, per cui si può seguire il sentiero della dimensione cognitiva oppure quello della dimensione affettiva, cercando la comprensione del nuovo anche attraverso la semplice attrazione estetica esercitata da un certo ambito conoscitivo. Tale curiosi59


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In questo senso il cervello diviene l’organo corporeo dedicato - proprio in quanto organo isolato – alla gestione di quella che, nella nostra disciplina, è la funzione simbolica. A lui arrivano i prodotti dei sensi (input) in quella che viene chiamata, come più indietro ricordato, un’attività di riduzione (sensiva) di un ambiente che altrimenti non potrebbe arrivargli, meno che mai per mezzo di un devastante ingresso fisico: vedo la matita non perché materialmente la faccio arrivare al mio cervello – evento che lo distruggerebbe – ma perché i miei occhi o il mio tatto vengono sensibilizzati dalla sua visione o dal suo contatto, ed anche, in una certa misura, dal suo gusto per chi è abituato a succhiarla. In questo modo si creano almeno due immagini, una tattile e una visiva, che mi permettono di immagazzinare la matita medesima sotto forma di RR perché l’ho, in una qualche forma, notata e quindi investita affettivamente (la trovo gradevole o sgradevole al tatto; eventualmente al gusto; esteticamente gradevole o sgradevole; banale o tecnologicamente innovativa ecc.) oppure, pur avendola vista o toccata e non avendola investita affettivamente, non la memorizzo neppure e finisce con il restare a fare parte di uno sfondo che, proprio perché considerato non rilevante, transita in maniera effimera nella memoria. È quello che altrove ho chiamato un processo tà, però, non deve essere fine a se stessa ma deve essere supportata da quelle che abbiamo anticipato essere forti capacità metodologiche che ci permettano di costruire conoscenza scientifica anche in regioni sconosciute. Brevemente occorre fare in modo che tutti i nostri passi di ricerca siano accertabili da eventuali altri ricercatori e quindi è necessario: descrivere - oggi usando tutti gli strumenti comunicativi possibili a nostra disposizione - ciò che colpisce i nostri sensi; inserirlo in protocolli di ricerca; fare in modo di arrivare ad un minimo di generalizzazioni (o magari a leggi) che ci permettano di spiegare i fenomeni stessi e/o di arrivare ad anticipazioni rappresentative, e cioè che siano contemporaneamente accettabili dal punto di vista cognitivo e da quello affettivo. 60


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di osserv/azione10 intendendo, con tale terminologia, indicare proprio il fatto che non esiste un processo di osservazione potremmo dire neutro, come pura registrazione di immagini, ma che esso stesso è un’azione che deve essere orientata dal punto di vista teorico altrimenti nulla verrebbe notato. Così è diverso il comportamento di un buon investigatore che, anche se apparentemente sembra non avere notato nulla, comunque si ricorda particolari che possono assumere significato soltanto in seguito – sulla base dell’investimento affettivo dovuto ad un forte legame con la propria professione - e diversa è la situazione dello spettatore che non ricorda nulla di uno sfondo per lui privo di significato. 3.2.2 Il sistema motorio Rizzalatti e Sinigaglia proseguono la loro riflessione sul sistema motorio a partire da “Una tazzina da caffè”:11 per prenderla dobbiamo localizzarla, raggiungerla, afferrarla in modo opportuno ma, soprattutto identificarla e, in tale ultimo processo è “la tazza” che “ci detta un insieme di misure e di modalità di afferramento”.12 Prima di raggiungerla, e anche se apparentemente sembriamo non accorgercene,13 dita 10. Benvenuti, L.; Maccaferri, M. “Dall‘osservazione all‘azione”, in Cipolla, C. (a cura di), Il ciclo metodologico della ricerca sociale, Angeli, Milano, 1998. 11. Rizzolatti, Sinigaglia, op. cit, p.5. 12. Ibidem. 13. Ho scritto apparentemente perché, in effetti, vi sono prese di tipi diversi: così l’operaio addetto alla fabbricazione delle tazzine sa benissimo come prenderle e ha automatizzato le proprie capacità di presa, secondo un meccanismo che vedremo più avanti; diversa è la presa della persona non capace, che allora sarà timorosa ed impacciata per la paura di romperla; diversa ancora è la presa della massaia 61


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e mano si sono già pre-configurate in una presa confrontabile con la parte della tazza che dovremo afferrare e in funzione dello scopo per cui la afferriamo: diverso è se vogliamo riporla dal fatto di prenderla per bere, nel primo caso cercheremo una presa destinata a capovolgerla, nel secondo saremo cauti perché potrebbe scottare. In entrambi i casi saranno le informazioni fornite dagli occhi, dalla cute, dalle articolazioni dei muscoli che permetteranno di raffinare la presa, basti pensare alla differenza di comportamento tra un vedente e un non-vedente per comprendere quanto le informazioni veicolate dai sensi guidino il comportamento stesso e, quindi le aree cerebrali ad esse deputate. La riflessione degli autori prosegue in un’illustrazione specialistica - ma alla portata anche di un lettore euristicamente curioso anche se non specializzato in materia - per dimostrare uno degli assunti base di tutta la loro opera riguardante il fatto che, a partire dai primati, esiste una classe di neuroni che reagisce alla semplice visione di un atto finalizzato compiuto da altri. In questo senso, l’importanza di tale scoperta è legata alla possibilità, del resto contenuta nel titolo dell’opera, di potere interpretare non solo le azioni ma anche le intenzioni altrui.14 I neuroni specchio: - si attivano solo se c’è un’interazione tra l’effettore abile che sa esattamente come prenderla in funzione delle intenzioni possedute in quel momento. 14. “Con grande sorpresa ci si è accorti, infatti, che, soprattutto nella convessità corticale di F5, vi erano neuroni che rispondevano sia quando la scimmia effettuava una determinata azione (per esempio afferrava del cibo) sia quando osservava un altro individuo (lo sperimentatore) compiere un’azione simile. A tali neuroni è stato dato poi il nome di neuroni specchio (mirror neurons).” Rizzolatti, Sinigaglia, op. cit., p. 80. 62


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(mano, bocca) e l’oggetto da parte dello sperimentatore (altro); - restano inattivi nel caso in cui ci si limiti a mimare l’atto in assenza dell’oggetto; - sono indipendenti dalla distanza; - sono funzione della mano (destra o sinistra); - si distinguono tra loro sulla base di atti motori codificati tanto che mentre alcuni di loro reagiscono solo all’osservazione di un singolo atto, altri sono meno selettivi e rispondono solo a più atti motori.15 Il passo successivo a tali considerazioni diviene quello che mette a confronto l’atto motorio, codificato nei neuroni, con quello osservato e che lo attiva: in tale caso si parla di congruenza tra i due, sia in senso stretto (quando vi è un’esatta corrispondenza tra loro) che in senso lato (quando tra i due vi è una gradazione di corrispondenza pur essendo chiaramente connessi).16 Il percorso per arrivare alla comprensione delle intenzioni altrui, fondandola neurobiologicamente, è lungo e passa per una serie di ulteriori precisazioni estremamente importanti. Un primo punto forte riguarda il rapporto che lega le varie aree cerebrali fra loro:17 la “corteccia frontale 15. Cfr., ivi, p. 81. 16. “La maggior parte (85% circa) dei neuroni specchio rispondeva alla vista di atti come l’afferrare cibo con la bocca, il masticarlo o il succhiarlo. Da qui il nome di neuroni ingestivi.” Ivi, pp. 83-85. 17. “Ritorniamo per un momento alle aree frontali. (...) Le aree posteriori ricevono dal lobo parietale una ricca messe di informazioni sensoriali che utilizzano per l’organizzazione e il controllo del movimento, elaborandole attraverso una serie di processi paralleli che vedono ogni circuito coinvolto nell’effettuazione di specifiche trasformazione sensori-motorie.” ... “Alle aree anteriori, invece, giungono scarse informazioni sensoriali, sicché è alquanto improbabile che esse svolgano un ruolo significativo nelle trasformazioni sensorimotorie. D’altro canto, tali aree ricevono informazioni cognitive di 63


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agranulare e la corteccia parietale posteriore”, ricordano gli autori, sono un mosaico di aree, distinte ma fortemente connesse, che lavorano in parallelo per cui il sistema motorio finisce con il non essere considerato “periferico e isolato dal resto delle attività cerebrali” ma contribuisce: “in maniera decisiva a realizzare quelle traduzioni o, meglio, trasformazioni sensori-motorie da cui dipendono l’individuazione, la localizzazione degli oggetti e l’attuazione dei movimenti”.18

3.2.3 I neuroni specchio e la comprensione “È assai verosimile, però, che il loro comportamento” [dei neuroni specchio] “sia una conseguenza dell’organizzazione ‘a catena’ degli atti motori” … “Tenendo conto delle diverse tipologie, i neuroni congruenti in senso lato rappresentano nella scimmia circa il 70% dei neuroni specchio.” … “I gesti possono poi essere ‘gesti transitivi (ossia rivolti verso un oggetto) legati all’ingestione di cibo (solido o liquido)’ oppure ‘atti intransitivi (protrusione labiale)’ che, insieme con altri (per esempio lo schioccare delle labbra o il digrignare dei denti), appartengono al repertorio dei comportamenti comunicativi delle scimmie.”19 Questa riflessione permette agli autori di introdurre una sottocategoria dei neuroni specchio che: ordine superiore, legate alla pianificazione temporale delle azioni o alle motivazioni e ciò rende plausibile l’ipotesi che esse abbiano principalmente funzioni di controllo, determinando in particolare quando e in quali circostanza il movimento selezionato dalle aree posteriori debba tradursi in atto effettivo.” Ivi, pp. 20-21. 18. Ivi, pp. 21-22. 19. Ibidem. 64


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“rispondono all’osservazione di atti compiuti con la bocca ma dotati di una funzione comunicativa” … “Vale la pena di notare come, a differenza degli altri neuroni specchio, i neuroni comunicativi rispondano alla vista di atti intransitivi. Si potrebbe obiettare che tale risposta non riguardi lo stimolo visivo per come esso appare, bensì l’effetto della sua interpretazione da parte della scimmia nei termini di un atto transitivo di tipo ingestivo” … “Atti comunicativi quali lo schioccare delle labbra (lipsmacking) o la protrusione delle stesse sarebbero evoluti da un repertorio di movimenti originariamente associati all’ingerire e legati alla pratica del grooming, ossia alla pulizia e allo spulciamento reciproco della pelliccia. È noto che tra i primati non umani il grooming rappresenti la modalità principale di affiliazione e di coesione sociale” … “Lo schioccare delle labbra in assenza di grooming apparirebbe così come una sorta di ritualizzazione di un atto motorio che trasforma le funzioni comportamentali connesse all’ingerire in funzioni comunicative.”20

Vorrei riprendere il concetto di traduzione, introdotto al paragrafo precedente, che ci permette di ridurre ad un formato comune l’informazione sensoriale e quella motoria, formato “codificato da specifici circuiti parieto frontali” ai quali possono essere collegati “anche certi processi di solito considerati di ordine superiore e attribuiti a sistemi di tipo cognitivo”.21 La codifica del gesto in neuroni specifici permette di comprendere anche le risposte selettive “a stimoli visivi” spiegata dai due autori facendo riferimento al concetto di “affordance” di James J. Gibson per il quale “la percezione visiva di un oggetto comporta l’immediata e automatica selezione delle proprietà intrinseche che ci consentono di interagire con esso.” Queste “non sono solo delle proprietà fisiche” [o geometriche] “astratte, ma incarnano delle opportunità pratiche che l’oggetto, per così dire, offre all’organismo che lo percepisce. Nell’esempio della tazzina le affordance 20. Ivi, pp. 87-90. 21. Ivi, p. 22. 65


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visive offerte al nostro sistema motorio riguardano il manico, il corpo centrale, il bordo superiore, ecc..”22 La compresenza di più affordance tra le quali scegliere nel passaggio all’atto motorio permette di ipotizzare che una certa area – ad esempio, gli autori ricordano la F5 per i primati – possa contenere “una sorta di vocabolario di atti motori le cui parole sarebbero rappresentate da popolazioni di neuroni. Alcune di esse indicano lo scopo generale dell’atto (tenere, afferrare, rompere ecc.); altre la maniera in cui un atto motorio specifico può essere eseguito (presa di precisione, presa con le dita ecc.); altre, infine, la segmentazione temporale dell’atto nei movimenti elementari che lo compongono (apertura della mano, chiusura della mano).”23 Naturalmente l’esistenza di un vocabolario è interessante perché permette di pensare che vi possa essere una sorta di sedimentazione di alcuni atti – o atti motori potenziali24 - tra i quali scegliere per il passaggio all’azione - che possono anche finire con il creare una sorta di ripetitività per quelli usati più di frequente, una sorta di stereotipia, spesso costruita “nell’infanzia”, riguardante “gli atti dotati di maggiore efficacia”. Nei nostri termini potrebbe essere preferibile introdurre il concetto di dizionario - come somma di repertori di sistemi di rappresentazioni ognuno con una propria storia - poiché in socioterapia si parla della R come effetto di una riduzione sensiva dell’ambiente, analoga a quella delle popolazioni di neuroni e delle affordance di cui parlano Rizzolatti e Sinigaglia, ma che ha in sé anche la componente affettiva (Inv. Aft.) 22. Il riferimento è al testo originale del 1979 di Gibson, James J. Un approccio ecologico alla percezione visiva, il Mulino, Bologna, 1999. Cfr., ivi, p. 35. 23. Ivi, p. 45. 24. Ivi, p. 36. 66


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ciò potrebbe, proprio, voler dire che ad ogni prodotto della riduzione sensiva viene accoppiato un incorniciamento di natura affettiva, che è quello che serve a distinguerla da ogni altro procedimento analogo, e che entra in gioco nei processi decisionali e di scelta nel momento in cui, rispetto a più alternative, se ne sceglie una. In quest’ottica a decidere, rispetto ad affordance in competizione, sarebbe la somma di tutte le RR ad esse afferenti secondo un bilancio energetico, che per noi è soprattutto affettivo, a partire da una serie energetica di soglie di attivazione al di sopra delle quali scatta l’azione, mentre viene inibita al di sotto delle stesse. Secondo l’ottica socioterapeutica si può partire dai concetti di: - atti motori potenziali come coincidenti con RR e sistemi di RR, organizzati sulla base dei loro investimenti affettivi crescenti o decrescenti: per questo ogni rappresentazione, in qualunque modo appresa e a partire dal o dai sensi coinvolti, finisce con l’essere un possibile motore d’azione; - affordance che indica, come già ricordato, il fatto che la percezione visiva di un oggetto implichi un’automatica “selezione delle qualità intrinseche” che sono necessarie ai fini dell’interazione con esso, e quindi non solo di quelle “astratte” ma anche dell’insieme delle “opportunità pratiche che l’oggetto offre all’organismo che lo percepisce”: la loro somma è l’equivalente del concetto di insieme di RR, qualunque siano i sensi-sorgente dai quali tale insieme derivi; per arrivare a quelli di: - sensi-sorgente: sono alle radici della riduzione sensiva dell’ambiente e la fonte degli input o immagini (I) che, una volta investiti affettivamente, vanno a 67


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formare le rappresentazioni (R) e i sistemi di rappresentazioni (RR); - affordance-R: deriva dall’analogo concetto di Gibson e riguarda la somma delle opportunità che l’interlocutore offre ai sensi-sorgente dell’attore: è la base per l’interazione, come equivalente del concetto di insiemi dedicati di RR, e, come anticipato in più occasioni e contenendo al proprio interno la variabile affettiva, influisce sull’azione come l’ambito di una sorta di bilancio energetico tra tutte le dimensioni affettive delle RR presenti nell’insieme; - identificazione: è quel processo virtuale che permette alla persona di potere acquisire, a qualunque titolo, un sistema di RR dall’esterno, e che, per essere valido, deve soddisfare non solo un confronto rispetto alla parte cognitiva, ma anche rispetto alla dimensione affettiva (all’incorniciamento affettivo) e viceversa; - opportunità: è un termine che indica le caratteristiche, che contraddistinguono una situazione dal punto di vista mentale o dei sensi-sorgente, percepite come favorevoli dall’attore. Il riferimento è agli atti motori potenziali, anche a quelli dovuti ad ogni forma di attività mentale, suscitati da tale situazione che, per noi, rientrano in quelli che qui sono stati chiamati gli aspetti inclusi nella dimensione rappresentativa delle possibilità di azione (affordance-R). Ricordo, ancora una volta, che a decidere rispetto alle opportunità per l’eventuale passaggio all’azione è, comunque, un bilancio energetico affettivo; - dizionario-R, come analogo in socioterapia del vocabolario d’atti motori potenziali di Rizzolatti e Sinigaglia: contiene tutti i repertori di RR e di sistemi di RR che una persona ha incontrato nella propria vita e, soprattutto, che ha memorizzato, dove la memorizzazione è funzione della quantità di investimento 68


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affettivo posseduta dagli atti, e cioè dalle RR, al momento della loro prima memorizzazione o in funzione di eventuali rinforzi a posteriori. In questo senso, come anticipato, il cancellare dalla memoria la R di un certo atto è legato all’affievolirsi del contenuto affettivo da essa posseduto, affievolirsi dovuto a più fattori quali il superamento di una certa situazione, il passare del tempo, la competizione con RR dotate di maggiore carica affettiva ecc.; - cautela come stato di attesa, fisica o mentale, ai fini dell’espletamento di un’azione in funzione di un’analisi cognitivo-affettiva per analogia sia rispetto alle esperienze e agli atti motori potenziali contenuti nel dizionario-R, sia rispetto alla ricerca di una risposta innovativa; - oggetto: al di là di ogni considerazione su tale termine che porti a ritenerlo come autoevidente (vedi il significato generalissimo che lo fa corrispondere a quello di cosa)25 è uno dei due poli di un atto motorio virtuale nel momento in cui quest’ultimo passa dallo stato di virtualità a quello di atto motorio vero e proprio (come azione effettiva nell’ambito dell’empiria) e viceversa: può essere, infatti, la premessa per la costruzione di una R oppure la sua conseguenza, in questo senso vi può essere sia reperimento ambientale, sia costruzione oggettuale se quanto reperito (scoperto) o quanto costruito sulla base di un’elaborazione mentale (è il caso dell’invenzione) viene, nei nostri termini, aggiunto nel o eseguito a partire dal sistema di RR che la persona, in quanto altro polo 25. Tale termine può essere considerato da più punti di vista e, ad esempio, potrebbe indicare “ciò che viene riconosciuto come tale da ogni singola cultura”; “la conseguenza di un atto conoscitivo culturalmente orientato”; conseguenza di “un’attribuzione di senso”; ecc. Un approfondimento filosofico, comunque, esula dagli intendimenti del presente testo e qui il problema viene posto al solo fine di poterlo utilizzare all’interno dell’approccio socioterapeutico. 69


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della relazione oggettuale, possiede; - vedere con la mano: ogni oggetto, appena definito come polo di un atto virtuale, viene individuato dal pattern di atti motori virtuali che attiva,26 o nei quali viene tradotto; - osservazione dell’oggetto (o osserv/azione)27 viene identificata in funzione della possibilità, sulla base delle teorie possedute, di costruire un sistema di RR passibile di essere inserito nel dizionario-R. Anche in questo caso ad essere chiamato in causa è il sistema di affordance-R della persona rispetto, ad esempio, al senso del tatto (o ad altri sensi, o a più sensi): non a caso nel linguaggio di senso comune si dice che una persona ha un tatto da elefante (in senso non solo metaforico) o che si muove come un elefante in una cristalleria, nel caso in cui essa sia sgarbata, rozza, goffa ecc.; - comprensione è un concetto-cerniera che permette, già nelle intuizioni della neurobiologia,28 di passare, ad esempio, dalla reazione visuo-motoria a quella basata sul significato: essa è, in socioterapia, alle radici del rapporto esistente tra rappresentazione 26. “L’analisi delle trasformazioni visuo-motorie operate dai neuroni di AIP [area intraparietale] e di F5 indica che il vedere che guida la mano è anche, se non soprattutto, un vedere con la mano, rispetto al quale l’oggetto percepito appare immediatamente codificato come insieme determinato d’ipotesi d’azione.” Ivi, p. 49. 27. Cfr. Benvenuti; Maccaferri, op. cit. 28. “In altri termini è come se i neuroni di F5 e di AIP reagissero non al semplice stimolo in quanto tale, alla sua forma, al suo aspetto sensoriale, bensì al significato che esso riveste per il soggetto in azione e reagire a un significato equivale a comprendere.” Rizzolatti; Sinigaglia, op. cit., p.49. Occorre, tuttavia, notare più avanti una certa cautela negli autori rispetto a tale termine, per cui: “Più semplicemente, alludiamo a un’immediata capacità di riconoscere negli eventi motori osservati un determinato tipo d’atto, caratterizzato da una specifica modalità di interazione con gli oggetti, di differenziare tale tipo da altri ed eventualmente di utilizzare una simile informazione per rispondere nel modo più appropriato.” Ivi, p. 96. 70


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e riduzione sensiva dell’ambiente. La mancanza di comprensione rende impossibile la stessa riduzione sensiva (e cioè la costruzione di sistemi di RR) ma non la reazione (riflessa, naturalizzata ecc.) di un corpo ad uno stimolo; - fiducia: contrariamente a quello che si crede, è il credito che diamo a noi stessi: ad essere coinvolti sono almeno due sistemi di RR, uno riguardante il giudizio dell’attore su se stesso; l’altro legato alla convinzione di possedere una capacità di decodifica corretta dell’altro o della situazione-stimolo. Con decodifica corretta si indica una lettura della situazione-stimolo tale da portare l’attore ad agire non in contrasto con quello che ritiene utile a se stesso, ai propri fini, e/o all’altro: in tal caso la persona è portata a pensare di essere in grado di potere comprendere il significato (come qualità anche ad origine istintuale) dell’interazione con l’altro e/o con la situazione-stimolo in modo tale da riuscire a ridurre “nel modo più appropriato”29 la complessità della relazione con l’altro, o con i propri fini rispetto alla situazione-stimolo, o con se stesso; - addestramento, termine che indica una gestione tecnologica del corpo legata ad un artificio educativo (anche autoeducativo) che tende a fare diventare quasi-istintuali solo alcune tra le risposte motorie potenziali, contenute nel dizionario-R, scegliendole sulla base di processi di selezione razionale tradotti in regole tecniche che dovrebbero gestire e garantire passaggi automatici all’azione: è quello che, come vedremo, viene indicato come un processo di naturalizzazione. Dal punto di vista della nostra disciplina il limite di tale concezione è dovuto al fatto che i sistemi educazionali, e quindi anche 29. Ibidem. 71


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disciplinari, affinché siano corretti dal punto di vista rappresentativo, lo devono contemporaneamente essere dal punto di vista cognitivo e da quello affettivo; - spazio: è quella porzione dell’ambiente che risulta definita dal sistema di relazioni legato a quanto contenuto nel dizionario-R; - spazio peripersonale, o spazio vicino:30 è un concetto che nasce dal corpo, come strumento di misura per l’esterno, inteso come base per definire lo spazio che lo circonda e che sembra essere indipendente dalle stesse funzioni sensoriali.31 È uno spazio “non rappresentato per sé” ma in dipendenza dall’attività dei circuiti neuronali la cui “funzione primaria” è organizzare sistemi di movimenti che pur essendo legati ad effettori diversi (sensi diversi) “permettono di agire sull’ambiente circostante localizzandone possibili minacce e/o opportunità.”32 La parte più interessante di questa notazione riguarda proprio il fatto che la localizzazione dello stesso oggetto possa essere fatta, ad esempio, da due (o più) circuiti neuronali diversi per cui tali ricostruzioni possono agire reciprocamente come anticipazioni (gli uni rispetto agli altri): di qui la possibilità di concepire più atti motori potenziali, uno per ogni senso coinvolto, in modo tale che una persona utilizzando, ad esempio il tatto, possa percepire l’eventuale minaccia non individuata da un altro 30. “per cui il funzionamento della corteccia parietale risulta organizzata in una serie di circuiti distinti e operanti in parallelo.” Ivi, p. 60. 31. Concetto che mette in crisi quello di mappa spaziale unica: “ La scoperta più sorprendente che riguarda l’area F4 è stata che i campi recettivi visivi della maggior parte dei neuroni bimodali restano ancorati ai rispettivi campi recettivi somatosensoriali e risultano pertanto indipendenti dalla direzione dello sguardo.” Ivi, p. 56. 32. Ivi p. 69. 72


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senso, ad esempio l’occhio. In questo caso la “funzione anticipante” del tatto “garantita dall’estensione tridimensionale” del corrispondente campo recettivo visivo, permette di comprendere la nascita dello spazio peripersonale (o vicino), accanto ad uno spazio lontano; - virtualità: una delle possibili ipotesi sulla sua nascita (a livello dell’empiria e con una netta distinzione rispetto alla sua autonomizzazione legata all’invenzione della stampa) potrebbe individuare proprio nello spazio peripersonale una fonte della sua genesi in collegamento con il fatto che, nei termini socioterapeutici, ogni senso costruisce un proprio sistema parziale di RR dell’esterno - in corrispondenza con un percorso neuronale autonomo - contribuendo, in tal modo, alla nascita di quel sistema di rappresentazioni (globale) di cui abbiamo più volte parlato. Storicamente, si potrebbe ipotizzare che l’attitudine di rappresentarsi tridimensionalmente l’esterno da capacità biologica diviene autentica capacità culturale nel momento in cui la società inventa la prospettiva e, quindi, libera la rappresentazione da uno stretto legame empirico con l’ambiente esterno e di conseguenza dalla forte necessità della contemporaneità e della compresenza dei poli della comunicazione, tipiche delle culture orali. Occorre ricordare che per queste ultime è comunque ancora il corpo il metro di misura: secondo il dettame neurobiologico, oggetti e spazio rimandano sempre e comunque “a una costituzione di carattere pragmatico”;33 - protesi: un effetto stimolante dovuto all’introduzione di uno strumento - ad esempio a livello dei primati non umani l’introduzione di un rastrello per afferrare il cibo - comporta una rimodulazione di vi33. Ivi, p. 74. 73


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cino e lontano per cui stimoli che in un primo tempo erano codificati come lontani, divengono vicini e/o possibili da raggiungere: a cambiare ed ampliarsi sono proprio i confini dello spazio peripersonale e ciò, nella nostra disciplina e in termini rappresentativi, è estremamente significativo. Esempi di protesi sono non solo gli strumenti legati all’evoluzione della comunicazione ma anche tutti quelli inventati dall’uomo per ovviare a limiti, deficienze o menomazioni corporee (che sono fonti di riduzione del movimento nello spazio peripersonale) il cui ulteriore effetto è, spesso, quello di permettere aumenti anche significativi delle prestazioni (performance bioniche) e quindi di tale spazio; - confine: l’ampliamento dello spazio peripersonale dovuto all’introduzione di protesi34 provoca una continua rimodulazione dello spazio – vicino rispetto a lontano – in accordo con quella ricordata al punto precedente. Per noi, in particolare ma non solo, è conseguenza di quella che viene chiamata la dinamica sia storica sia attuale dei sistemi di rappresentazioni in parallelo con la dinamica, non solo storica, dei mezzi di comunicazione di massa: ogni nuovo medium ed ogni sua variazione ci obbligano a ripensare i reciproci rapporti di e con tutti quelli precedenti, rimodulando i loro spazi di azione (di34. “Ma l’aspetto più significativo è che per molti dei neuroni bimodali un aumento della velocità dello stimolo in avvicinamento produce un’espansione in profondità dei loro campi recettivi. Il fatto che l’estensione dei campi recettivi cresca al crescere della velocità dello stimolo fa sì che spesso gli stimoli che si avvicinano con maggiore velocità siano segnalati e localizzati a una distanza maggiore rispetto a quelli che si avvicinano più lentamente. Il vantaggio dal punto di vista dell’attivazione della parata più opportuna è evidente: prima il neurone scarica, prima evoca l’atto motorio da esso codificato e tale anticipazione dell’azione consente di mappare con maggiore efficacia lo spazio, raggiungendo (o evitando) l’opportunità (o il pericolo) in arrivo.” Ivi, pp. 71-72. 74


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namica storica dei confini in parallelo con quella che abbiamo indicato dinamica storica dei media); - gesti transitivi-gesti intransitivi35 è una distinzione che riguarda il fatto che, nel caso dei primi, il gesto sia rivolto ad un oggetto, al cibo ecc. oppure, nel caso dei secondi, che appartenga ad un repertorio comunicativo come, ad esempio, lo schioccare le labbra o digrignare i denti per i primati non umani. Come vedremo nel prosieguo delle riflessioni, nella nostra disciplina ad essere coinvolta da tale distinzione è, rispetto alla transitività, la relazione tra R ed ambiente o, meglio, il legame tra virtualità e dimensione empirica; mentre, rispetto alla intransitività, vi è l’appartenenza del gesto all’ambito sovraindividuale della relazionalità con alter; - neuroni canonici: sono il primo aggancio, a livello cerebrale, con il concetto di R. La distinzione in più tipi è legata al fatto che esperimenti sui primati hanno dimostrato che una gran parte dei neuroni appartenenti all’area F5 ha l’attitudine ad attivarsi durante l’esecuzione di atti motori e che una parte di essi si attiva anche a fronte di stimoli visivi: per essi vi era una chiara congruenza tra proprietà motorie (“per esempio, il tipo di presa codificato”) e selettività visiva (“forma, taglia, orientamento dell’oggetto presentato) ai fini della trasformazione degli stimoli visivi in atti motori, molto importanti per l’interazione; - neuroni specchio: sono la seconda componente fondamentale per la costruzione del legame neurobiologico della R. Essi rispondono sia quando la scimmia deve effettuare un’azione, sia quando ne vedono compiere una simile da un altro, ad esempio lo sperimentatore. Tali neuroni fanno riferimento a classi specializzate rispondenti “all’osservazione di 35. Cfr., ivi, p. 85. 75


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un solo determinato tipo di atto” o, al massimo, “di due o, più raramente, di tre atti motori”36 ; - neuroni specchio comunicativi: all’interno dei neuroni specchio, poi, vi è un’ulteriore specializzazione che riguarda quella parte della loro popolazione capace di rispondere alla vista di atti altrui di tipo intransitivo, prefigurando “un iniziale processo di corticalizzazione di funzioni comunicative non ancora del tutto affrancate dalla loro origine evolutiva, ossia dal legame con azioni transitive quali il portare alla bocca e l’ingerire”.37 Questa specializzazione all’interno dei neuroni specchio risulta essere molto interessante nell’ottica, del tutto comunicazionale, della socioterapia; - fluidità o melodia dell’azione: è un notevole aspetto dell’organizzazione motoria per cui “ogni neurone” che si attiva nell’afferramento è anche “collegato con l’atto motorio successivo, e questo legame facilita la fluida esecuzione dell’atto.”38 Questa caratteristica è importante ed è estendibile al sistema di RR in quanto ogni singola R è collegata alle altre al fine di permettere l’organico passaggio da «potenziali motori d’azione» a fluidi promotori delle stesse. Alle radici di tale fluidità dei movimenti vi è, per la nostra disciplina, il legame tra RR che è funzione, diretta o mediata, della dimensione affettiva. Così la riduzione sensiva dell’atto altrui – per una sua comprensione che permetta l’inserimento della propria azione nella melodia di una condotta di risposta - si può pensare parta dalla congruenza 36. Ivi, p. 81. 37. Ivi, pp. 87-90. È importante ricordare che si è diffusa “tra gli etologi la convinzione che l’imitazione in senso stretto sia prerogativa dell’uomo e (verosimilmente) delle scimmie antropomorfe, ma non di scimmie come i macachi studiati negli esperimenti sopra riportati.” Ivi p.95. 38. Ivi, p. 107. 76


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tra quanto contenuto nell’informazione sensoriale e l’atto potenziale evocato, come repertorio del «dizionario-R» contenuto nella memoria dell’attore: in questo senso si può comprendere sia il comportamento di un genitore che rinuncia al cibo per il figlio sia quello dell’avaro che preferisce accumulare piuttosto che spendere e/o consumare. Per entrambi può valere lo scontro con i loro sistemi di RR che investono affettivamente, rispettivamente, di più sul benessere del figlio o su quello dell’accumulo a scapito di un utilizzo. Incidentalmente si può ipotizzare che l’accumulo a scapito dell’utilizzo sia la caratteristica di un accumulo originario, probabilmente biologicamente determinato in vista di futuri possibili periodi di carestia, che, in situazioni patologicamente prospettiche, possa portare al non utilizzo nell’abbondanza; in secondo luogo, si può mettere in risalto il forte legame tra comprensione e melodia dell’azione personale o altrui, poiché è proprio da tale legame che deriva una certa capacità di interpretazione e di anticipazione dell’azione sia rispetto a se stessi che rispetto all’interlocutore o alle situazioni-stimolo. 3.3.1 I neuroni specchio e le specificità umane. Per Rizzolatti e Sinigaglia la interscambiabilità delle riflessioni fatte tra scimmie, soprattutto antropomorfe, e uomo è indubbia ed è basata sia su studi encefalografici sia di brain imaging,39 anche se, per tali autori, è indubbio che vi siano molte differenze. Le maggiori diversità riguardano il fatto che il sistema cerebrale umano è più esteso e possiede qualità non 39. “soltanto negli ultimi anni, infatti, studi di anatomia comparata hanno mostrato come l’area 44 di Brodmann possa essere considerata l’omologo umano dell’area F5 della scimmia.” Ivi, p.118. 77


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riscontrabili in quello dei primati e, in secondo luogo, al fatto che esso codifica “atti motori transitivi e intransitivi” attivandosi anche quando si mima un’azione. Alle radici di tali neuroni vi è, comunque, come ruolo primario quello della comprensione del significato delle azioni altrui sulla base dell’osservazione e del proprio vocabolario d’atti e della propria conoscenza motoria.40 Nei termini socioterapeutici è importante il fatto di avere esteso all’uomo il vocabolario d’atti motori potenziali – che in socioterapia diviene il suo dizionario-R di atti potenziali riguardante la pluralità dei sistemi di RR coinvolti - e, soprattutto, il fatto che esso riassuma, al proprio interno, sia le catene di atti potenziali che le intenzioni41 che stanno dietro all’azione compiuta: è quella che, nella nostra disciplina, viene chiamata affordance-R in consonanza con il precedente dizionario-R d’atti potenziali. Tale rilievo getta una particolare luce sull’interpretazione delle intenzioni altrui ed è importante per due motivi: - in primo luogo, perché deve fare riflettere il fatto che, spesso, il partire dagli atti dell’osservato non vuole dire interpretare effettivamente le sue intenzioni ma attribuire a lui le proprie, ossia quelle contenute nel proprio dizionario-R e nelle proprie affordance-R;42 40. Cfr. ivi, pp. 121-122. 41. “A questo proposito, vale la pena di notare come l’osservazione del portare alla bocca per bere determinasse un’attivazione del sistema dei neuroni specchio maggiore di quella del prendere per spostare la tazza e mettere in ordine.” Ivi, p. 125. 42. Come si vedrà, questo problema diviene uno di quelli più delicati da affrontare per l’aspirante socioterapeuta, poiché egli deve imparare nel proprio corso d’addestramento a superare tale scoglio poiché per lui è necessario interpretare l’altro non sulla base del proprio dizionario-R ma sulla base di quello del paziente, il che richiede, da parte dell’aspirante socioterapeuta, il possesso di alcuni strumenti particolari tra i quali il più importante è quello dell’empatia. A tale proposito vedi Benvenuti, Malattie Mediali, op. cit. 78


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- in secondo luogo, perché occorre che il socioterapeuta sappia decodificare i codici personali di attivazione degli incorniciamenti affettivi dell’altro, riassunto nei termini di un uso dell’empatia come strumento per il raggiungimento di tale scopo. Nel momento in cui usasse i propri, correrebbe il rischio che corrono i genitori nel momento in cui fanno appello alle proprie esperienze adolescenziali per spiegare una proibizione ai propri figli: semplicemente, in periodi come quello attuale, a forte accelerazione di sviluppo sociale e culturale, correrebbe il rischio di essere etichettato come persona fuori dal tempo, vecchio che si rifà al passato perché non sa interpretare il presente. Riprendendo la nostra riflessione, i due autori ricordati affrontano un tema apparentemente non troppo importante e cioè quello dell’imitazione. Due sono le direttrici utilizzate delle quali la prima riguarda la replicazione di un atto dopo averlo visto fare, ma che appartiene in un qualche modo al proprio vocabolario d’atti; la seconda concerne la capacità di apprendere un nuovo pattern d’azione essendo capace, poi, di riprodurlo nei dettagli. Al di là del fatto che vi sia una teoria dell’imitazione o meno, due sono le questioni di fondo e riguardano il problema della corrispondenza e quello della trasmissione di competenze.43 43. Rispetto al primo problema sembra affermarsi la teoria che “l’azione osservata e quella eseguita debbano condividere il medesimo codice neurale, e che ciò rappresenti il prerequisito dell’imitazione.” Per questo ci si richiama alla nozione ideomotoria ed al principio di compatibilità ideomotoria per cui più un atto percepito assomiglia ad uno presente nel patrimonio motorio dell’osservatore più tende ad indurne l’esecuzione: percezione ed esecuzione delle azioni debbono pertanto possedere uno schema rappresentazionale comune” ... “La scoperta dei neuroni specchio sembra suggerire una possibile riqualificazione del principio di compatibilità ideomotoria: 79


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Rizzolatti e Sinigaglia per dare una risposta alla prima questione - che trova un riscontro proprio nei neuroni specchio che codificano l’azione osservata in termini motori e rendono in tal modo possibile una sua replica - non a caso, si direbbe, fanno riferimento ad uno schema rappresentazionale comune44: quello che differenzia questo richiamo rispetto alla nostra definizione di rappresentazione risiede proprio nella assenza/presenza della dimensione affettiva. È proprio tale, ultima, dimensione che diviene importante nella risposta alla seconda questione sulla trasmissione delle competenze, riguardante nuovi “pattern d’azione”, rispetto alla quale, i due autori ricordano la teoria dell’etologo Byrne che è basata su due passaggi legati ad una segmentazione del ”flusso continuo dei movimenti” in una “stringa di atti” codificata sulla base del proprio “patrimonio motorio” per poi essere tradotta in atti motori propri “nella sequenza più idonea affinché l’azione eseguita rispecchi quella del dimostratore”:45 le due azioni di codifica dell’osservato e di sua conseguente traduzione nei termini di quanto contenuto nel dizionario-R dell’osservatore sono, nella nostra disciplina, impensabili al di fuori di un impiego della dimensione affettiva che viene utilizzata sia nella prima azione di codifica di quanto di innovativo percepito (se non interessasse non lo si lo schema rappresentazionale comune non andrebbe considerato come uno schema astratto, amodale, bensì come un meccanismo di trasformazione diretto delle informazioni visive in atti motori potenziali. Ciò pare confermato da una serie di esperimenti di brain imaging.” Rizzolatti, Sinigaglia, op. cit., pp. 136-137. 44. Cfr. ivi, p. 139. Per il riferimento allo schema rappresentazionale comune vedi la nota precedente. 45. “Appare evidente come la trasformazione dell’informazione visiva in un’opportuna risposta motoria avvenga nel sistema dei neuroni specchio. Più precisamente, i neuroni specchio localizzati nel lobo centrale e nel lobo frontale traducono in termini motori gli atti elementari che caratterizzano l’azione osservata.” Ivi, pp.141-143. 80


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noterebbe neppure), sia nell’azione di traduzione rispetto alle nozioni possedute (sarebbe impensabile il fatto di tradurre un qualche cosa di innovativo che non interessi e che potrebbe addirittura non essere stato neppure rilevato). È l’Inv.Aft. che permette entrambi i passaggi proprio perché alle sue radici c’è il fatto di essere una capacità istintuale di incorniciamento dell’informazione (la I), qualunque essa sia, per arrivare a formare e a gestire RR. Non a caso, si direbbe, nell’uomo, diversamente dalle scimmie, i neuroni specchio coinvolti46 sono in grado di attivarsi rispetto agli atti sia transitivi che intransitivi tenendo conto anche degli “aspetti temporali” di tali atti, il che sembra favorire l’apprendimento via imitazione: ma questo potrebbe voler dire che la riconversione del movimento continuo del dimostratore in una stringa di atti verrebbe a coincidere con una loro gestione nei termini del sistema di RR dell’osservatore. Sarebbe proprio l’utilizzo delle RR e della loro caratteristica di essere possibili motori d’azione a rendere più facile la riproduzione degli atti del dimostratore e quindi l’imitazione, ma questo richiede a monte la presenza di un sistema di controllo sui neuroni specchio: “E questo controllo deve essere duplice: facilitatorio e inibitorio.” … “Diversamente, la vista di un qualunque atto motorio dovrebbe tradursi nella sua replica. Per fortuna non è così.” … “L’esistenza di meccanismi di controllo sul sistema dei neuroni specchio è provata da parecchi dati, soprattutto clinici. Pazienti con estese lesioni al lobo frontale” mostrano “quella che viene chiamata ecoprassia: in questi pazienti vi è una tendenza compulsiva a imitare i gesti altrui, anche rari e bizzarri, e l’imitazione è compiuta immediatamente, quasi fosse un riflesso. Le lesioni del lobo frontale sembrano, dunque, eliminare quel meccanismo di freno che blocca la trasformazione delle azioni potenziali codificate dai circuiti 46. Vedi nota precedente. 81


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parieto-frontali in atti imitativi” 47

Ma se le lesioni al lobo frontale sembrano eliminare il freno alla ripetizione ispirata dai neuroni specchio, ciò potrebbe significare che la caratteristica affettiva inclusa nel nostro concetto di rappresentazione – il cosiddetto incorniciamento affettivo - che in socioterapia viene considerata capacità innata, venga confermata: di fatto i processi educativi, culturalmente orientati, finirebbero con il coincidere con l’orientamento e/o con il conferimento di contenuti a questi meccanismi di controllo (facilitatori o inibitori) che possono essere danneggiati da eventuali lesioni in tale parte del nostro cervello. Non solo ma, forse, potrebbe anche voler dire che in tale area potrebbero avere sede proprio quei meccanismi (affettivi) di gestione dell’orientamento e del riempimento. 3.3.2 I neuroni specchio e la comunicazione umana. Nelle riflessioni dei due autori di riferimento, il passaggio successivo riguarda le “basi neurofisiologiche, oltre che dei vari tipi d’imitazione, delle differenti modalità di comunicazione, consentendo così di delineare un possibile scenario sull’origine del linguaggio umano.”48 Alle radici di tali tipi di comunicazione vi sarebbe quello che essi interrogativamente chiamano “il requisito della parità” tra “mittente e destinatario” che dovrebbero essere legati da una “comune comprensione di ciò che conta” sulla base di una connessione fondata sul fatto che ciò che conta per l’uno non può non contare anche per l’altro, e che per entrambi la 47. Ivi, p. 145. 48. Ivi, p. 147. 82


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“rappresentazione” non possa non essere a “un certo punto la stessa”.49 Per avvalorare tale posizione fanno riferimento, ancora una volta, all’esempio della tazzina da caffé, ma proprio quest’ultimo punto è uno di quelli importanti del nostro approccio: l’esempio della tazzina da caffé vale solo per le culture che la posseggono, che l’hanno ideata o l’hanno appresa, per una cultura esterna ad esse potrebbe essere priva di significato, o, al massimo, momento di nuovo apprendimento. Così, in socioterapia non si parla di “requisito della parità” ma semplicemente di pre-requisito culturale, importante per la stessa formazione delle RR, ma a patto che ci si situi all’interno di ogni singola cultura o in un’ottica di sviluppo della stessa. Noi parliamo di comunanza tra i due poli della comunicazione - come esistenza di un canale di comunicazione tra emittente e ricevente – che diviene condizione necessaria, ad esempio, per l’acculturazione dei nuovi nati che solo così si integrano nel contesto culturale di vita di una comunità, originaria o acquisita che essa sia. A tale proposito, una delle difficoltà che ho incontrato nella mia attività terapeutica, nel caso di bambini adottati anche in tenera età, ha riguardato proprio i problemi insorti in loro non tanto a causa dell’adozione quanto piuttosto per il persistere nei genitori adottivi di quei pregiudizi culturali che, una volta trasmessi ai figli, finivano con il ritorcersi contro ai genitori stessi nel momento in cui divenivano manifesti nei comportamenti dei ragazzi. Così, ad esempio, la ricerca della madre naturale è stata accampata da un ragazzo da me seguito proprio perché tale curiosità era costantemente presente e temuta dai genitori adottivi. Del resto, uno dei limiti più interessanti, oltre che più diffusi, rispetto alla condizione della parità riguarda il meccanismo dell’inganno rivolto ad altri: in tale 49. Ibidem. 83


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caso l’ingannatore, riuscendo a decodificare il sistema di RR dell’ingannando – ovvero il livello di fiducia come credito che lui ripone in se stesso50 - agisce ponendosi su di un piano di apparente parità (se non, furbescamente, di sottomissione), per cui quest’ultimo resta preso e, contemporaneamente, si ritrova disarmato proprio per il fatto di dare per scontato che anche l’altro agisca sul suo stesso piano comunicativo.51 La comunanza, inoltre, come pre-requisito culturale, vale all’interno di un contesto comunicativo che solo in senso lato riguarda la comprensione dei gesti intransitivi (e cioè non riguardanti oggetti e unidirezionali proprio in quanto veicolanti un’intenzione), rispetto ai quali, da questo punto di vista, si può ricordare l’eccezione rappresentata dalla nostra stretta di mano che potrebbe essere considerata proprio come un leggere l’altro non con gli occhi ma con il tatto: la vista, in tale caso, diverrebbe una sorta di complemento a quanto percepito secondo la funzione anticipante del tatto per chi è entrato in quello che abbiamo chiamato lo spazio peripersonale. Naturalmente tale situazione è simmetrica, anche se intransitiva, poiché i gesti dell’uno possono veicolare intenzioni che nulla possono avere in comune con quelle dell’altro. Alle radici della comunicazione umana, infine, 50. Cfr il concetto di fiducia qui a pag. 71. 51. Inoltre, spesso, alle radici delle decisioni dell’ingannando (e che lo fanno cadere nell’inganno) si trovano piccoli calcoli, o piccoli auto-inganni o piccole furbizie (sono più furbo di lui e al momento opportuno sarò io ad ingannarlo; non posso essere ingannato, me ne accorgerei per primo) o semplicemente ingenui moti di generosità (non si può sempre pensare male di tutti; non si può sempre diffidare) che lo portano ad agire non tenendo conto delle proprie cautele preventive che, sovente, vengono fugate nel nome della bontà o delle proprie capacità di decodifica dell’altro o, appunto, della propria furbizia. Tanto è vero che, qualora ci si dovesse cascare, ci si rifugia nella giustificazione che è stato più bravo, più furbo di noi. 84


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vi sarebbero proprio quei continui aggiornamenti, possibili a partire da meccanismi di aggiustamento automatico, che riguardano quello che potremmo chiamare un dialogo, una “conversazione” come ci ricordano Rizzolatti e Sinigaglia, a livello gestuale che ha le sue fondamenta proprio in quella capacità dei neuroni specchio di tradurre nei propri termini l’atto dell’altro, sia esso transitivo o intransitivo.52

52. Forse, a partire dalla tipica relazione materna che dall’indicare dell’infante deve capire la sua intenzione, è “possibile ipotizzare che sia stata la progressiva evoluzione del sistema dei neuroni specchio, originariamente deputato al riconoscimento degli atti transitivi manuali (afferrare, tenere, raggiungere ecc) e orofacciali (mordere, ingerire ecc.), a fornire il substrato neurale necessario per la comparsa delle prime forme di comunicazione interindividuale? E che dal sistema dei neuroni specchio, posto sulla superficie laterale dell’emisfero, sia evoluto il circuito responsabile nell’uomo del controllo e delle produzione del linguaggio verbale, localizzato in una posizione anatomica simile?” ... “Ciò sembra suggerire che le origini del linguaggio andrebbero ricercate, prima ancora che nelle primitive forme di comunicazione vocale, nell’evoluzione di un sistema di comunicazione gestuale controllato dalle aree corticali.” Rizzolati, G.; Sinigallia, C., op. cit., pp. 150-152. 85



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Lezione IV

4.1 La disciplina La riflessione sui neuroni specchio e sul comportamento umano ci permette di compiere un passo in avanti: con il passare del tempo, nella vita dell’infante che cosa succede? Che cosa fa? Cresce. Improvvisamente non fa più i suoi bisogni in continuazione, ma li deve fare ad orari. Comincia per il bambino lo scontro con l’esterno: noi cominciamo ad insegnargli che cosa? Ad essere disciplinato. Ma perché l’infante dovrebbe imparare la disciplina? La disciplina è una gestione tecnologica del corpo, infatti nasce come tecnica militare proprio nel periodo dell’invenzione della stampa: si manifesta come una sorta di meccanismo grazie al quale, ad esempio, come ci ricorda Foucault, il Re Sole mostra la propria potenza poiché le sue truppe erano talmente addestrate che 15.000 uomini si muovevano come fossero uno solo, proprio perché erano estremamente docili agli ordini dei loro comandanti. Tradotto in termini socioterapeutici:

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disciplina = con tale termine si indica l’evoluzione del naturale processo biologico di addestramento delle nuove generazioni di ogni specie alle organizzazioni culturali possedute, che si modifica in conseguenza di quel particolare approccio conoscitivo – nomologico e dunque legato alla simmetria tra spiegazione e previsione scientifica; che, a partire dallo studio scientifico dei comportamenti, permette di rendere le azioni umane prevedibili; che è alle basi degli insegnamenti dell’esercito, delle scuole, degli ospedali, della stessa famiglia ecc. Il socioterapeuta, sovente, deve fare terapia all’interno di organizzazioni disciplinari che cercano di utilizzare lo schema introdotto, rispetto al quale egli dovrebbe avere come principale proprio interesse, appunto, quello di non farsi ingabbiare da tale schema. Spiegazione Comportamento umano Previsione Così, se il primo passo è quello di conoscere l’altro, occorre definire che cosa significhi conoscere “l’altro”. Ad esempio, il problema può nascere nel momento in cui ci si dovesse trovare di fronte a fenomeni apparentemente incomprensibili: in questo caso il primo aspetto che interessa affrontare riguarda come il portatore di un disagio riesca ad intessere le proprie idee. La conoscenza della persona inizia dalla comprensione dei suoi sistemi di giustificazione delle affermazioni. La disciplina, nelle società moderne ed anche in quelle attuali, è servita e serve a trasformare il bambino in soggetto, a fare in modo che egli cominci a comportarsi come se differenziasse le componenti della R, 88


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come se staccasse l’immagine dall’investimento affettivo. Alla nascita il bambino si trova in uno stato di con/ fusione: il mondo dell’infante è tutto ciò su cui investe affettivamente (persone, luoghi, oggetti ecc.), senza alcuna distinzione tra dimensione cognitiva e dimensione affettiva proprio in virtù di quell’organizzazione biologica che abbiamo visto in riferimento ai neuroni specchio. Il bambino, successivamente, comincia a parlare prima, e ad andare a scuola poi, e, dopo l’introduzione della tipografia, impara a leggere e a scrivere le parole: l’integrazione tra le due dimensioni della R sembra diventare evanescente proprio per il forte cambiamento di medium. Precedentemente, nella fase dell’oralità, il bambino si relazionava agli altri attraverso un rapporto faccia a faccia in cui lo stato d’animo dell’interlocutore poteva essere oggetto di valutazione istintuale immediata, mentre comunicava. Con la stampa il rapporto diretto diviene molto più difficile, la parola stampata accentua la spaccatura, del tutto simbolica e mentalmente artificiale, tra l’informazione (l’immagine) e la sua qualità (investimento affettivo) quale essa viene percepita dall’attore: la specializzazione linguistica diviene necessaria proprio perché nel testo stampato non si può trasmettere direttamente la qualità di quanto comunicato, ed ogni sfumatura affettiva finisce con l’avere come unico riscontro la specializzazione terminologica, ovvero il fatto di fare corrispondere ad ogni sfumatura rappresentativa un termine proprio. A livello filogenetico questo passaggio diviene necessario, come più volte ricordato, dopo l’invenzione della stampa nella seconda parte del ‘400. Il parallelo tra la dimensione filogenetica (che riguarda la stirpe) e quella ontogenetica (che riguarda la persona) consente una riflessione molto importante e cioè che la socioterapia permette non soltanto 89


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una visione micro, attraverso la possibilità di decodifica di quanto pensato dal singolo, ma permette anche una visione macro, e cioè può servire per spiegare anche fenomeni generali e per capire se, e in che modo, tali fenomeni abbiano avuto un impatto sulle singole organizzazioni, sulle persone e sulle loro rappresentazioni, e così via. Il macro condiziona il micro e il micro il macro: sono due facce della stessa medaglia o, meglio, sono le due parti di un sistema relazionale circolare ad influenza reciproca. In questo senso la stampa, dopo la sua introduzione, ha determinato enormi cambiamenti nelle persone: - si parte dalle società orali, nelle quali c’erano alcune figure specialistiche - gli amanuensi, il religioso o chi sapesse scrivere – che, in partenza, intervenivano nella stesura del messaggio scritto, per includervi le regole di lettura al fine di trasmettere nel modo più integrale possibile – in termini socioterapeutici, con la maggiore rappresentatività possibile - le emozioni, gli stati d’animo ecc. dell’inviante; all’arrivo ne occorrevano di analoghe per tradurre ed interpretare il testo scritto a favore del ricevente, naturalmente qualora non fosse stato in grado di leggere; - si arriva a quelle tipografiche nelle quali tutto questo diviene superfluo a fronte di una buona padronanza del linguaggio scritto oltreché parlato. Non solo, ma la precedente necessità amanuense di mettere regole di lettura dello scritto forse crea le premesse, nel mondo dell’alfabetizzazione, per il passaggio al romanzo intimista: lo scrivente, direttamente, integra nel testo i propri sentimenti, forse, creando le premesse per quanto è successo in seguito e cioè la nascita stessa dell’autoreferenza. Nel momento in cui le società tipografiche hanno 90


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introdotto la necessità dell’alfabetizzazione di massa allora il fatto di sapere individualmente leggere e scrivere, senza più intermediari e senza che vi fosse l’esigenza di regole personali di lettura, ha aggiunto la specializzazione della lingua, tanto è vero che sono stati costruiti innumerevoli termini nuovi, tanti sinonimi che dovevano permettere di cogliere nel testo stampato tutte le possibili sfumature, tipiche della comunicazione faccia a faccia, legate alle modulazioni della voce, ai toni, all’integrazione con il linguaggio corporeo ecc. Se pensiamo ai significati opposti che è possibile attribuire ai termini appartenenti a quelli che Freud chiama i linguaggi primordiali tipici dell’attività onirica, si può comprendere come alla stessa parola possa corrispondere non solo una certa immagine ma anche quella opposta, il suo contrario. Tale caratteristica, ad esempio, è sopravissuta nei motti di spirito, nelle espressioni ironiche ecc., tutte situazioni nelle quali pur a fronte dello stesso termine, ad esso si possono fare corrispondere significati o accentuazioni opposte. I ragazzi di oggi, spesso, vengono accusati di avere a propria disposizione nella conversazione un numero di termini irrisorio rispetto a chi è abituato a ragionare all’interno di una cultura completamente tipografica, nella quale è necessario, come abbiamo visto, un vocabolario con un minimo di ricchezza e di precisione. Questo, a suo tempo, è successo perché si è spaccato il legame diretto della comunicazione faccia a faccia e, con la stampa, si è introdotta per la prima volta una capacità di autonomizzazione del simbolico – che, ricordo, nei termini della socioterapia vuole dire un distacco del tutto comunicazionale tra la R e il suo referente empirico – che, a propria volta, ha permesso un utilizzo linguisticamente distaccato tra le due componenti della R, l’immagine (la I) e la sua qualità (l’Inv. Aft.), come estrapolazione particolare 91


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del fatto che esse possano essere utilizzate, di volta in volta, privilegiando ora l’una, ora l’altra dimensione. Se si deve parlare di una matita si deve poter dire proprio «matita» e non essere obbligati ad usare una perifrasi quale quella di “oggetto per scrivere facilmente cancellabile”, come potrebbe essere detta nei termini dell’oralità (eventualmente anche mostrando la matita): ma se la si deve illustrare ad una persona che non ci sia di fronte allora occorre cercare di farle arrivare esattamente il messaggio cui si intende alludere, usando il termine appropriato, altrimenti ci si potrebbe perdere nel labirinto delle perifrasi, situazione ben nota a chi si ritrova in stati di disagio dovuti alla senescenza. Tale esigenza è, per altro, presente anche nelle culture orali nel momento in cui la specializzazione linguistica dovesse servire soprattutto per evitare fraintendimenti: così per gli abitanti del deserto ci sono molti termini per indicare la sabbia, perché per loro è importante sapere se la sabbia sia cedevole o no, se sia di un certo tipo anziché di un altro, ma non è detto che tale abbondanza vi sia per tutti gli aspetti, tradotti in termini linguistici, della loro vita. Spesso gli insegnanti dicono che i loro studenti sono regrediti e che commettono errori perché si rivelano, in misura più o meno accentuata, analfabeti. Nella nostra ottica, questo mi ha indotto a pensare che stessimo arrivando ad una sorta di neo-oralità: non a caso l’etichetta di illetterato nasce con la stampa, non prima, perché prima, come abbiamo visto, nessuno sapeva scrivere tranne pochi specialisti mentre era importante il ben parlare, la retorica. Così nessuno oggi vi accuserebbe di essere degli ignoranti perché non sapete riparare tubi e lavandini, l’analogia riguarda il fatto che potreste non essere detti illetterati rispetto all’idraulica perché l’idraulico è (ancora) un mestiere specialistico: nella società della stampa, paradossalmente, l’illetterato è un minorato, è meno uguale degli 92


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altri perché non si sa esprimere in modo tipografico. Rispetto alla carriera scolastica cominciano ad introdursi le prime differenze: i bambini iniziano ad essere diversi in funzione delle capacità di adeguamento agli standard del nuovo medium. Spesso la discriminazione avviene sulla base della provenienza: quelli che venivano dalla campagna pur sapendo eventualmente far nascere un vitello o badare alle bestie, spesso non sapevano esprimersi in modo appropriato, e per questo finivano con l’essere meno uguali degli altri. Oggi la cultura, curiosamente, ha fatto un salto ulteriore. Noi siamo passati nel ‘500 da una cultura orale ad una tipografica, e oggi passiamo, come anticipato, da una cultura tipografica ad una neo-orale. Chiaramente non proprio da oggi, sono processi lunghi, per questo il punto di partenza di quest’ultima evoluzione può essere visto nella crisi del modello meccanico (tipografico) di produzione, un modello che è durato fino all’introduzione dell’elettricità e dei motori da essa derivanti: l’esempio può essere visto anche in una tecnologia come quella del medium cinematografico ,protagonista di un vero e proprio salto che l’ha portato dal movimento meccanico della manovella a quello moderno del motore elettrico e che, inoltre, lo vede corredato di tutti gli apparati elettrico-elettronici dell’attuale strumentazione per l’alta fedeltà sia della ripresa che della registrazione e che si è evoluta fino all’attuale enorme utilizzo della videoripresa. Come tante volte ricordato, il sistema di RR (rappresentazioni) delle culture orali è unito, non scisso, con le due dimensioni difficilmente distinguibili, anche per semplici ragioni analitiche, cosa che invece avviene nelle culture tipografiche. Oggi, infine, questa ultima situazione, egemone per secoli, sembra essere entrata in crisi per sfociare in quelle che chiamiamo le neo-oralità.

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4.2 La parabola della soggettività: dalla nascita della stampa ai nuovi media Un passaggio fondamentale, nello sviluppo comunicativo della specie umana, è quello dall’oralità alla fase tipografica: passaggio travagliato che arriva fino alla scoperta della stampa a caratteri mobili. Come abbiamo visto, prima della stampa il numero di termini di un linguaggio era limitato poiché, come ricordato, gli stessi termini servivano per indicare, ad esempio, un sentimento ed il suo opposto, proprio perché era l’interezza anche affettiva del messaggio che, nel rapporto faccia a faccia, conferiva il significato al detto. La stampa non solo specializza il linguaggio ma differenzia l’autore dal fruitore, crea tipografi, editori, distributori, venditori e consumatori. Prima della stampa c’erano gli amanuensi che, non soltanto appartenevano a un’arte ben definita, ma non interpretavano autonomamente ciò che era stato scritto, infatti nel testo erano riportate le regole di interpretazione, dettate da chi richiedeva la loro opera. Con la stampa, invece, lo stesso libro può essere inviato e letto da migliaia, oggi da milioni, di persone in una sorta di quasi contemporaneità: nasce il romanzo, spesso in appendice ai quotidiani e edito a puntate. C’è una variazione anche nella tipologia narrativa: dal libro epico del periodo precedente in cui venivano esaltate la fede e i santi, oppure le gesta degli eroi, dei re e dei nobili, si passa al romanzo intimista in cui lo scrittore mette se stesso, in quanto individuo, al centro dell’attenzione, come protagonista del romanzo. La nuova concezione dell’uomo, incarnata dalla borghesia in ascesa, diventa la soggettività e uno degli strumenti fondamentali della sua costruzione è proprio il romanzo. A ben vedere fino ai secoli XVII e XVIII non si può dire che esistano una soggettività o una borghesia: 94


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esistevano insiemi di persone che si stavano organizzando; si impostavano e si rinnovavano le conoscenze giuridiche, quelle educative; prendeva corpo la concezione cumulativa della conoscenza con la distinzione tra prospettiva religiosa e prospettiva laica (scienza) ecc. Il singolo si comincia a strutturare in quanto individuo e crea relazioni ad hoc, utilizza il diritto, la conoscenza e la gestione di sé e usa, quali strumenti fondamentali, l’istruzione e la disciplina. La disciplina rende prevedibili le azioni del soggetto, che deve imparare a mettere in atto comportamenti sulla base di progetti che devono servirgli per raggiungere, paradossalmente, l’unico scopo che lui stesso ha scelto: e cioè l’affermazione di sé, pur nei campi più diversi. Eventualmente per raggiungere anche scopi “nobili”. La persona si trasforma in individuo (o soggetto in sé) che agisce come soggetto ma non ha ancora coscienza di esserlo. La prevedibilità permette all’individuo di acquisire conoscenze e strumenti adeguati per affrontare e risolvere specifici problemi; per raggiungere scopi precisi scelti sulla base della propria e, spesso, esclusiva determinazione; per divenire ed essere soggetto per sé e cioè cosciente di esserlo e deciso a costruirsi in quanto tale. Il legame: prevedibilità → addestramento → soggettività è basilare perché così il soggetto è, contemporaneamente, colui che progetta e che si addestra per rendersi esattamente prevedibile purché, naturalmente, anche gli altri lo siano, e cioè a loro volta siano addestrati, prefigurando, quindi, come condizione necessaria, perché il singolo soggetto possa affermarsi, il fatto che la soggettività divenga criterio di organizza95


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zione dell’intera società. DISCIPLINA

↓ PREVISIONE

↓ S E R V E P E R R E N D E R E L’ I D E A U N P R O G E T TO

↓ “ S O G G E T TO ” È CO LU I C H E LO R E A L I Z Z A I N N O M E P R O P R I O

La disciplina è fondata su una conoscenza scientifica del corpo umano. Se si hanno principi non scientifici non si possono fare discorsi di previsione, ma solo di constatazione dei fatti o di speranza nell’ultraterreno o nel magico. Nel momento in cui una persona non riuscisse a gestire una situazione, provando un disagio e si dovesse rivolgere ad un terapeuta, quest’ultimo innanzitutto dovrebbe cercare di capire che tipo di organizzazione della conoscenza la persona possieda, ossia se ragioni da individuo (soggetto in sé), da soggetto (per sé) o, come molti adolescenti di oggi, da “non più soggetto”, e questa è proprio una delle ipotesi evolutive della socioterapia. Si commetterebbe un grosso errore se si agisse come se tutti gli esseri umani fossero soggetti o se si dovessero giudicare sulla base della soggettività, considerata come il massimo sviluppo dell’uomo, anche per coloro che rientrano in essa o che non vi rientrano più. Ad esempio, molte persone appartenenti alle 96


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culture africane non annoverabili nella categoria della soggettività, per cui quando emigrano nei nostri paesi, nello scontro tra culture, o si spaccano o finiscono con il considerarci come puro ambiente da sfruttare, secondo gli ammaestramenti che, del resto, noi stessi abbiamo loro insegnato con il nostro colonialismo. Ricordiamo che nell’epoca precedente all’introduzione della stampa c’era una concezione referenziale della vita e dell’uomo: esisteva un Dio che stabiliva tutto; il singolo aveva come propria naturale prospettiva, a seconda del contesto di vita, la comunità, la tribù o il clan all’interno dei quali svolgeva una propria funzione determinata. La logica era ascrittiva e non legata alle caratteristiche personali che, tuttavia avevano una loro funzione all’interno di alcuni ambiti collettivamente stabiliti ed accettati, quali, ad esempio, quello religioso o militare. Nelle culture pre-orali ed orali non c’è spaccatura tra le due dimensioni della rappresentazione, c’è un simbolico ma è di tipo rappresentativo a propria volta completamente fuso nell’ambiente: spesso il re è anche dio, o comunque ha origine da/o origina una stirpe divina. Mentre nelle culture orali l’organizzazione della collettività si basa, come ricordato, su di una logica ascrittiva, dovuta ad una volontà superiore, in quelle tipografiche la logica diventa acquisitiva, il soggetto afferma: “sono io che agisco”; tutti gli uomini nascono uguali, ma chi è più bravo vince e la divinità sembra entrarci sempre meno e, comunque, con una specie di semplice capacità confirmatoria. A patto che tutti condividano le stesse regole del gioco. La soggettività è una concezione della vita: se prescindessimo da una serie di aspetti, come, ad esempio, la distribuzione ineguale delle risorse materiali, la soggettività non potrebbe imperare. Nel momento in cui il denaro assurge a valore assoluto, ogni uomo finisce con l’essere valutato sulla base di un prezzo. 97


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In una scala di valori creata dalla soggettività, il denaro e il potere, come risorse fondamentali per ogni affermazione personale, sono ai primi posti, a patto che la logica della vittoria e della sconfitta individuale sia condivisa. Ciò comporta un cambiamento sostanziale nella relazionalità sociale e l’anziano finisce con il non essere più importante: c’è il libro che condensa cultura e conoscenza, e che sembra affrancare dal bisogno di ascoltare il saggio, il maestro. La biblioteca diventa un’immensa codificazione rappresentativa del sapere: così l’uomo attraverso la lettura pensa di riuscire a sapere tutto. Questa caratteristica dell’uomo occidentale, che si crede unico artefice di quello che fa, rientra ed è frutto dell’ottica autoreferenziale. L’uomo occidentale diventa attore e giudice, l’interlocutore finisce, spesso, con l’essere ritenuto come non essenziale, un nessuno, ma che ci serve poichè, di fatto, si tratta di una autoreferenzialità del tutto simbolica perché nessun organismo vivente può bastare effettivamente e completamente a se stesso. Per ovviare a tale limite, il soggetto è quindi stato obbligato, per potere realizzare i propri fini, a creare come contraltare al proprio individualismo quella che viene chiamata la “dimensione sociale”; come indicatore della necessità di un legame sovraindividuale; come una sorta di ristrutturazione nei legami e ruoli reciproci dovuta a un’originaria ed imprescindibile dimensione collettiva. 4.3 I concetti di ambiente, mondo, realtà, empiria. Nelle nostre culture, lo sviluppo della soggettività nei singoli avviene durante una lunga fase di addestramento che inizia dal periodo post-natale. Infatti, il bambino, a livello ontogenetico, segue pressappoco il

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medesimo sviluppo della filogenesi:53 in una fase preverbale il bambino apprende dall’esterno informazioni che immagazzina attraverso la mediazione affettiva, ad esempio, della madre o di chi gli vuole bene; nel momento in cui impara a scrivere nell’ambito della cultura tipografica, per il bambino si ha il decollo della dimensione simbolica. Per comprendere tale ultimo passaggio occorre rifarsi ad un modello:

- il punto di partenza è quello che in socioterapia viene chiamato il piano dell’empiria (o livello ambientale): in esso il simbolico, e cioè il sistema di rappresentazioni (RR) posseduto dalla persona, risulta essere assolutamente fuso con quanto empiricamente rilevabile; - rispetto a questo piano si può immaginare di introdurre un semiasse verticale (z) nel quale viene rappresentata la dinamica storica dello sviluppo della 53. L’approfondimento di tali concetti sarà affrontato al paragrafo 9.1. 99


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dimensione simbolica; - il livello z=0 (z0): è l’ambito del bambino che non ha ancora autonomizzato lo stadio formale di comprensione e di trasmissione della conoscenza; è l’ambito dell’oralità con le sue varianti dello sviluppo linguistico e dell’avvicinamento alla dimensione iconica e alla scrittura amanuense; è l’ambito nel quale il simbolico si differenzia dal resto dell’empirico pur restando ad esso collegato poiché la sua autonomizzazione verrà più tardi; è quello di un parallelismo con le culture orali che ancora non hanno introdotto un rapporto con la conoscenza di stampo positivistico; è l’ambito, ad esempio, di una sorta di animismo elementare, alimentato da tante storie assorbite dai cartoni animati che oggi vengono fruiti fin dalla più tenera infanzia; - rispetto a quanto ricordato, l’avvicinamento alla dimensione tipografica introduce una frattura: nel momento in cui si affievolisce il bisogno del tramite umano per ricevere conoscenza, allora si autonomizza un piano, detto il piano delle RR, parallelo a quello dell’empiria ma che si distacca da esso salendo lungo l’asse z fino al livello z1. È il primo livello del simbolico, raffigurabile come un piano interamente costituito da rappresentazioni ognuna delle quali può essere individuata per mezzo delle due dimensioni della R, la I e l’Inv.Aft., che possono essere considerate come autentiche coordinate di ogni singola R e che, pur essendo le componenti indissolubili di essa, tuttavia, all’interno della cultura moderna, vengono trattate come se fossero distinte, anche semplicemente a puri fini analitici; - ogni sistema, individuale o collettivo, viene poi caratterizzato da un particolare insieme di RR, o meglio da quel particolare insieme di RR che lo identifica rispetto ad ogni altro sistema, e che gode 1 00


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della importante caratteristica di dare origine a quella che comunemente viene chiamata la sua realtà: nelle società tipografiche, il sistema di RR (individuale o collettivo) appartiene al piano z1, e la costruzione della sua particolare realtà avviene nel momento in cui tale sistema viene proiettato su z0; - quanto riportato al punto precedente ci permette di definire il concetto di mondo: termine con il quale si indica l’ulteriore insieme di realtà afferenti alla realtà di una stessa persona (o insieme di persone). Ad essere chiamato in causa è, in prima istanza, un sistema individuale di RR; al quale vengono aggiunti tutti quelli di coloro che entrano in relazione con lui; successivamente si passa alle loro proiezioni sul piano dell’empiria: il mondo è dato dall’insieme di tali proiezioni sul piano dell’empiria. Il mondo è, quindi, una partizione del piano dell’empiria riferita o ad un insieme di sistemi di RR presente in esso (saremmo all’interno dell’oralità), o ad una proiezione di un insieme di sistemi di RR afferenti ad uno stesso sistema di RR, individuale o collettivo, presente in z1 (saremmo nell’ambito delle società della stampa); - due, dunque, sono i casi: nel primo, ossia nelle culture orali e nei primissimi stadi di esistenza della persona, sistemi di RR, realtà e mondo sono tutti in z0, all’interno del piano dell’empiria; nel secondo, quello delle culture tipografiche, i vari sistemi di RR saranno in z1, mentre realtà e mondo continueranno ad essere in z0; - l’ambiente è l’insieme di tutti i mondi esistenti o possibili dal punto di vista empirico. È, per definizione, un ente che non ha esterno, almeno per quel che riguarda i singoli ambiti di azione e/o di vita o i singoli contesti culturali; - oggi siamo in un periodo storico successivo a quello tipografico, caratterizzato dai nuovi media. Il pun101


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to successivo riguarda quella che in socioterapia è chiamata una virtualità di secondo livello (o z2) alla quale appartiene l’ambito di autonomizzazione completa del simbolico con le due componenti della R che possono essere concepite e trattate come fossero completamente staccate tra loro: situazione, questa, che retroagisce permettendo di virtualizzare tutti gli stati precedenti; - in z2 possono essere simulati tutti i livelli precedenti e, quindi, rispetto ad esso vengono ridefiniti ambiente e realtà virtuali. In tale piano vi è la possibilità di immaginare il fatto che, al secondo livello di virtualità, le due dimensioni della R possano anche essere usate disgiunte e che vadano a formare due semipiani - contenenti l’uno tutti gli investimenti affettivi, l’altro tutto quanto di cognitivo è stato elaborato (le immagini) - dando corpo a uno dei miti caratterizzanti le società tipografiche. Tale mito, che è ipotizzabile solo a questo livello di autonomizzazione del simbolico riguarda il distacco (possibile, appunto, solo in z2) tra dimensione cognitiva (nomologica, ad esempio, e cioè basata su leggi, deterministiche o probabilistiche che esse siano) e dimensione affettiva (ad esempio quella idiografica e cioè riguardante situazioni o casi singoli), tra scienza ed arte, tra cervello e cuore ecc. che, come vedremo più avanti, andranno a formare quelle che verranno chiamate le province dell’affettività e della cognizione. Questo è l’ambito delle identità virtuali vissute nel web, delle Second Life e di tutto quello che può caratterizzare un navigatore che perda la distinzione tra il vissuto nella navigazione e il vissuto di tutti i giorni, ed anzi si ritrovi a pensare che la sua vera vita sia quella artificiale, mentre l’altra, quella di tutti i giorni, sia una brutta copia della precedente, quasi un ambiente non artificiale da sfuggire. Il bambino, dunque, nel suo sviluppo percorre, 1 02


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anche in modo non lineare, le tappe di cui abbiamo parlato e le diverse virtualità permettono di comprendere anche i vari livelli di introiezione dell’ambiente esterno che caratterizzano la carriera evolutiva della persona (o, in parallelo, di un’organizzazione). Ambiente, mondo, e realtà esterni possono diventare interni proprio perché tradotti in RR, o frutto di proiezioni di RR, e quindi di immagini che vengono introiettate (è il meccanismo dell’incorporazione) per mezzo della componente affettiva: in alcune regioni d’Italia quando la mamma cerca di fare mangiare il proprio piccolo, o cerca di fargli apprendere certe conoscenze, sfrutta se stessa come veicolo affettivo, anche quando lo sgrida “mangia la pappa, a mammà; non fare questo, non fare quello a mammà”; e se non lo dovesse fare quando dovrebbe, permetterebbe, comunque, al piccolo di apprendere, poiché lui usa entrambe le dimensioni della R e, quindi, nel momento in cui, in caso di divergenze o di scontri, dovesse vincere imparerebbe a gestire affettivamente uno o entrambi i genitori. Questo processo, che potremmo chiamare di dinamica personale e/o storica della dimensione simbolica, avviene in parallelo con quella che in socioterapia è chiamata deriva storica dei media. 4.4 La deriva storica dei media Il nostro corpo e i suoi neurotrasmettitori – come sostanze terminali di contatto e di trasmissione dell’informazione dai terminali del sistema sensoriale al sistema nervoso centrale - vengono addestrati in quello che viene genericamente chiamato un percorso istruttivo che è funzione del medium dominante: diversa è l’istruzione in un paese orale, ad esempio del Sud America o dell’Africa, diversa è quella impartita in 103


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una cultura ancora prevalentemente tipografica, ad esempio nordeuropea o nordamericana, nella quale assume quella particolare forma che prende il nome di disciplina come tecnica particolare, appunto, che permette la gestione scientifica del corpo, per farlo diventare corpo docile, cioè disciplinato e quindi prevedibile. Tuttavia, non bisogna confondere il medium con il messaggio anche se il medium è indispensabile per trasmettere e/o registrare il messaggio. Lo stesso vale per il nostro corpo, che, di fatto, diventa il nostro medium. Il medium rende possibile il messaggio, ma il messaggio necessita di un sistema di codifica/ decodifica, al quale, in seguito, occorre addestrare i neofiti e, soprattutto, i nuovi nati: questo permette, forse, di avere almeno un’ipotesi al fine di comprendere il diverso percorso evolutivo, rispetto alle nostre culture, seguito dalle popolazioni di India e Cina che nella neo-oralità sembrano avere ritrovato quella spinta evolutiva a livello culturale che sembravano avere perso, rispetto all’antica auge, nel loro passato post-cinquecentesco. Il sistema di trasmissione delle Rappresentazioni (RR) è il nostro corpo una volta che venga addestrato a codificare, in più maniere e a seconda dei livelli di virtualità posseduti, gli stimoli esterni: il bambino fin dalla nascita percepisce immagini dall’ambiente che trasforma in rappresentazioni, in seguito ad una codifica che è funzione dell’intensità affettiva che, su di esse, viene effettivamente investita. Come abbiamo più volte definito, è proprio quest’ultima variabile quale capacità biologica tipica di ogni essere vivente a permettere la loro memorizzazione nel Sistema Nervoso Centrale (S.N.C.). Le modalità con cui il sistema di rappresentazioni posseduto è stato immagazzinato nell’S.N.C., permettono a quest’ultimo di sviluppare un sempre migliore addestramento rispetto alle novità e cioè riguardo alla capacità di rappresentarsi le 1 04


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nuove esperienze e, quindi, di associare una sensazione positiva o negativa ad ogni nuova immagine o, viceversa, di associare un’immagine ad ogni sensazione, sempre positiva o negativa, provata. Le informazioni provenienti dagli input sensoriali sono entità immateriali, stimoli provenienti dall’ambiente, e tradotti in RR, che entrano a far parte del sistema nervoso centrale ampliando, modificando o aggiungendo sistemi di rappresentazioni; l’istruzione addestrativa (familiare, scolastica, dovuta al gruppo dei pari ecc.) allena i singoli all’uso della dimensione affettiva come strumento di selezione delle immagini, dei prodotti della cognizione e, viceversa, all’uso della dimensione cognitiva come strumento di selezione degli aspetti affettivi. Altre rappresentazioni sono dovute al lavoro di elaborazione interna (interamente simbolica) del S.N.C., la cui organizzazione porta alla realizzazione di costrutti teorici con diversi gradi di formalizzazione. Il socioterapeuta parlando con la persona dovrebbe, dunque, cercare di arrivare a conoscere il suo sistema di RR e i modi della formazione di quest’ultimo; dovrebbe imparare ad agire anche in assenza di conoscenza diretta, sul caso che viene affrontato, a partire da una forte impronta metodologica, per costruire conoscenza su di lui, per aiutarlo terapeuticamente; a livello generale, per fare in modo che la dimensione teorica sulla persona e sulla società sia viva e costantemente capace di evoluzione. Noi dovremmo utilizzare approcci metodologici che ci permettano di arrivare a soluzioni frutto di processi replicabili. In tale ottica è fondamentale pensare ai vari media come ad una successione di protesi che potenziano, via via, i sensi umani: sono quelle che, in precedenza, abbiamo visto contribuire a formare e/o allargare gli spazi peripersonali dei singoli.

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Come ci ricorda Strassoldo,54 la comunicazione deriva il proprio significato dal “mettere in comune” ed il primo grande passaggio di questa transizione, di questo distacco dell’uomo dagli altri mammiferi si ha nel momento in cui ai segni presenti o introdotti nel territorio è stato attribuito, da due o più appartenenti alla specie umana, un significato convenzionale ma ripetibile. In quel momento, la capacità cognitiva rispetto all’ambiente da parte dell’uomo ha, probabilmente, iniziato ad assumere le caratteristiche di una cultura: termine con il quale si indica quell’approccio che, dalla condivisione dei significati attribuiti a segni, che così hanno acquistato la capacità di designare contenuti, ha iniziato ad affrontare i problemi della formazione e dell’immagazzinamento delle diadi segni/ contenuti, e cioè dei simboli, nella memoria. In una sorta di piramide rovesciata la socioterapia cerca di illustrare l’espandersi della quantità di informazione veicolata da ogni particolare livello di sviluppo storico dei media:55 nel momento in cui dalla mimica, dalla gestualità, dalla scarnificazione dei corpi o dalla loro modifica, dall’abbigliamento, dalle abitazioni e dai sistemi architettonici ecc. si passa all’introduzione di sistemi iconici, linguistici e scritturali più o meno complessi, la quantità di informazione disponibile cresce esponenzialmente. La piramide si allarga. Curiosamente, e come constatazione a posteriori, nel momento in cui l’accumulo di informazioni ad un certo livello comunicativo rende difficile la propria gestione, si ha uno scatto, un’innovazione che mette a disposizione un nuovo strumento che aumenta l’apertura di ogni successivo livello della piramide ro54. Strassoldo, R. Forma e funzione, Forum, Udine, 2001, p. 49. 55. L’argomento verrà ripreso alla lezione VII, sulle Forme della comunicazione. 1 06


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vesciata. In questo senso, l’invenzione della stampa ha rappresentato un arricchimento per la cultura delle nostre società e un aumento in quantità e in capacità di sua gestione. E così via, come nel caso delle nuove tecnologie della comunicazione.

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Lezione V

5.1 L’approccio terapeutico della socioterapia Rispetto all’approccio psicologico, Allport in un suo commento alle Norme etiche degli psicologi,56 (1959) critica la propria disciplina dicendo che essa, per dotarsi di una struttura organica, positivista, non lavora più sulle persone ma parte da indizi e lavora su patologie, al di là del singolo. Spesso si parte dal primo sintomo riferito dal portatore di disagio per arrivare ad individuare una particolare classificazione di patologia per poi seguirne il protocollo. La persona a quel punto scompare e al suo posto compare il caso teorico, ci si riferisce al protocollo, si applicano meccanicamente i casi generali perdendo di vista i problemi del singolo e, in alcuni casi, il singolo stesso. Questa posizione è importante perché, prima di tutto viene da uno studioso di grande rispetto e poi 56. Allport, G. W. “Universale e particolare nella scienza psicologica”, in Journal of Personality, XXX (1962), trad.it. Caprara, V.; Luccio, R. (a cura di), Teorie della personalità, Bologna, Il Mulino, 1986, p.15.

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perché mette a fuoco quello che è uno dei punti fondamentali di differenziazione della socioterapia nei confronti di altre discipline: il ragionare astraendo dai sintomi vuole dire che si elimina la specificità del portatore di disagio e, soprattutto, la sua dimensione affettiva, al di là del fatto che poi si ritorni a lui. Nel momento in cui si lavora sul sintomo vuole dire che si spacca l’interezza della persona e quindi, nei nostri termini, l’interezza delle RR che la persona ha di se stessa. Vuole dire che ci si limita a prendere in esame le due dimensioni della R come se fossero pura dimensione cognitiva e cioè, nei nostri termini, la I che, dunque, viene usata per arrivare al caso generale: apparentemente si lavora sulle rappresentazioni ma si riduce, e non solo di fatto, la R alla I. Eventualmente, e spesso al massimo, l’altra dimensione verrà presa in considerazione in un secondo momento. In socioterapia fino al primo livello di virtualità la R è inscindibile e cioè contiene al proprio interno entrambe le dimensioni e questo vuole dire che l’intervento terapeutico non può essere fatto astraendo dalla persona: è la teoria che deve essere adattata alla persona, e non viceversa. La riduzione della R alla I risulta spiegabile con quella che, nella nostra disciplina, è chiamata l’autonomizzazione del simbolico: con tale fenomeno si indica il fatto che le scienze, per legittimare la propria scientificità, finiscono per eliminare gli aspetti affettivi individuali, che finiscono per essere considerati marginali, cognitivizzandoli al fine di potere utilizzare tutta la potenza del modello nomologico di spiegazione/previsione, modello già a noi noto. La socioterapia ha affrontato questo schema ed ha proposto una lettura ulteriore di tale modello per superarlo senza rifiutarlo ma ponendo le basi per un tipo di ipotesi che fosse in grado di affrontare anche i casi nei quali tale modello si fosse dimostrato impotente. Ma questo 1 10


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è uno dei temi che affronteremo nel ciclo avanzato di lezioni.57 Il socioterapeuta, invece, opera su RR non scisse, e, per modificare il loro sistema posseduto dal portatore di disagio, può ragionare e pensare di lavorare accentuando il proprio intervento o rispetto alla I o rispetto all’Inv. Aft.: il vantaggio è dato proprio dal fatto che l’accentuare l’una o l’altra dimensione è utile poiché la rimanente viene automaticamente coinvolta. Dal punto di vista terapeutico è rilevante ricordare che si lavora sempre sulla R come entità indivisibile, dato che occorre fare attenzione perché, nelle nostre culture legate al positivismo, può essere forte la tentazione di usare: - solo la dimensione cognitiva, secondo un approccio dei più utilizzati proprio per la sua caratteristica di poter essere impiegato sia sugli aspetti più prettamente cognitivi della vita, ad esempio quelli economici, sia sugli aspetti a prevalenza affettiva, che però, in precedenza, siano stati cognitivizzati ad esempio per mezzo di ricerche su di essi, quali le abitudini relazionali delle persone, dei gruppi o delle popolazioni, le loro abitudini sessuali ecc.; - solo quella affettiva, proprio per la apparente caratteristica di tale dimensione di riuscire a gestire i comportamenti delle persone verso forme estremamente a-sistematiche e, in diverse situazioni, stereotipate: si ha un certo tipo di comportamento perché ci piace, o perché siamo abituati, o ci siamo affezionati, o perché siamo fatti così, o, infine e come troppo spesso si dice quasi fosse un’affermazione di ruolo talmente sclerotizzata da non permettere alcun cambiamento, perché siamo troppo 57. Chi volesse approfondire questo argomento può fare riferimento al capitolo terzo della seconda parte di Benvenuti, Malattie Mediali, op. cit. pp.153-183, nel quale si introduce una lettura a-simmetrica del modello nomologico di spiegazione/previsione. 111


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vecchi per cambiare. È l’ambito dell’arte e della creazione artistica come produzione di eventi unici replicabili ma irripetibili come identici; è l’ambito dei sentimenti e delle manifestazioni sentimentali. Ma è anche l’ambito del disagio e delle patologie legate al fatto di considerare tale dimensione, quella affettiva, come esterna alla ragione e, di fatto, da non gestire pena un suo quasi declassamento. Proprio per questa loro asserita esternalità rispetto alla dimensione cognitiva i comportamenti affettivi finiscono con l’essere caratterizzati da una sorta di immodificabilità razionale e da una cogenza e da una ricorsività per cui, ad esempio, una persona può arrivare a commettere sempre lo stesso tipo di errore proprio perché finisce con il considerarlo come suo tipico, ineludibile, connaturato a sé ecc. Due avvertenze: occorre ricordare che anche se si riuscisse ad ottenere una modifica nel sistema di RR posseduto dalla persona, e dunque probabilmente anche delle sue azioni,58 tale modifica potrebbe entrare in conflitto con quanto precedentemente da lei posseduto, che è comunque dotato di una propria inerzia; in secondo luogo, che l’eventuale presa di coscienza dell’origine di un disagio non agisce automaticamente come antidoto per l’attivazione di comportamenti virtuosi o nella disattivazione di quelli patologici. Ad esempio se venisse messa una bustina di droga sul tavolo e se ci fosse una persona tossicodipendente, per lei cesserebbe di essere importante tutto ciò che le sta intorno. Pur avendo conoscenza di quanto le accade ed anche se la bustina non le salta addosso, essa ha un grosso impatto su di lei: la trappola affettiva la metterebbe a dura prova e, spesso, non le lascerebbe alcuno scampo. Per il suo sistema nervoso centrale non 58. Ricordo che la R è anche un possibile motore di azione. 1 12


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sembra vi siano differenze tra RR a origine interna (ad esempio, la necessità della completezza rappresentativa) e quelle ad origine esterna (ad esempio le fonti della dipendenza): nel momento in cui tutte le informazioni sono immagazzinate nel nostro cervello, ad esempio, diviene difficile distinguere tra sensazioni autoprodotte e quelle determinate dall’assunzione di una sostanza chimica. Puramente e semplicemente vincono quelle ad investimento affettivo più forte: purtroppo la droga è un medium che simula nella persona una risposta unitaria, cognitiva ed affettiva assieme, nettamente più forte rispetto a quelle monodimensionali sovente proposte dalla nostra società. Negli anni ’60, l’utilizzo delle droghe iniziò spesso come fenomeno di protesta e di rifiuto di quello che veniva definito, seguendo il titolo di un testo di Marcuse che allora ebbe molta fortuna, L’uomo a una dimensione. Sull’onda di una serie di autori e di poeti si pensò di ampliare gli stati di coscienza e di creatività. Quelle che erano poste sotto stimolo erano proprio alcune delle componenti più belle ed intriganti della soggettività: il fatto di essere creativi, unici di fronte a tutti gli altri, alla massa. L’autoreferenza diveniva, contemporaneamente, il mito e la tomba della persona proprio perché nel momento in cui la singolarità finiva con l’essere legata all’autorealizzazione (al di fuori di ogni referenza esterna) e diveniva elemento fondante la soggettività (e cioè caratteristica comparativa legata a quanto si riusciva a realizzare rispetto agli altri) allora la condanna per il perdente finiva con l’essere automatica e legata ad un’autovalutazione altrettanto spietata della valutazione riservata agli altri. Ad esempio, il solo antidoto al fatto, assolutamente ineluttabile, che, su dieci competitori ad un posto, uno solo possa vincere è dato dalla possibilità che creatività e unicità possano almeno essere simulate dai perdenti: 113


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il rifugio nella virtualità dei sogni ad occhi aperti (o anche di quelli onirici) diviene, spesso, l’unica loro opportunità di sopravvivenza proprio a causa del vicolo cieco rappresentato dalla condivisione dei principi. Forse questo è uno dei più insidiosi cavalli di Troia dell’alcol o delle droghe. Ma, dal punto di vista sociologico, l’unica constatazione possibile oggi è che nelle società della soggettività, la nostra concezione della cultura e della conoscenza sembrano essere diventate disfunzionali perché il numero dei casi patologici cresce e sembra superare certe soglie minime che, forse, potrebbero anche essere considerate come fisiologiche. Oggi siamo in una situazione di difficoltà perché non siamo più in grado di dare risposte convincenti per i singoli a fronte di fenomeni che non li riguardano in quanto singoli, tra cui l’aumento numerico dei tossicodipendenti e/o delle dipendenze stesse. Ma, dal punto di vista del soggetto, la droga simula la ricomposizione della R spaccata perché la nostra società, basata su competizione ed autoaffermazione, ci porta a vivere o secondo scienza o secondo coscienza, cuore o mente, piacere o dolore ecc. La sostanza finisce con l’apparire come uno strumento comunicazionale, anche se illusorio, per superare questa spaccatura; simula quella dimensione collettiva che è alle basi di una relazionalità che la nostra società sembra capace di garantire solo parzialmente; si diffonde proprio in virtù della superbia di una solitudine che, in nome di una serie infinita di miraggi, condanna le persone al solipsismo. Un’altra caratteristica che differenzia la nostra disciplina rispetto ad altre affini sta nel ruolo del socioterapeuta che è progettuale ed anche, all’occorrenza, direttivo. Noi non aspettiamo che dalla persona esca fuori la conoscenza del proprio disagio perché se una persona ha richiesto l’intervento di uno specialista 1 14


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vuole dire non è in grado di comprendere quello che le sta succedendo; inoltre, anche se ne avesse conoscenza, non è detto che la sua interpretazione sia giusta e, comunque, che abbia gli strumenti per risolvere da sola il problema. Il socioterapeuta, una volta decodificata la situazione, azione tipicamente sua, deve tuttavia continuare il lavoro in comune co-progettando il percorso di uscita dal disagio e, in una situazione in cui vi possano essere due RR o sistemi di RR confliggenti tra loro, si può trovare nella posizione di dover suggerire, anche con una certa fermezza, un percorso piuttosto che un altro, situazione, che, del resto, lo accomuna a tante altre figure professionali, quali quelle dell’ortopedico, o del chirurgo ecc. Chiaramente dopo essersi posto un forte dilemma etico. L’intervento del terapeuta in questo tipo di scelte è necessario, anche se il perché lo vedremo più avanti, quando parleremo dell’organizzazione topologica della persona. Una precisazione, per gli studenti e per coloro che si dovessero avvicinare per la prima volta alla nostra disciplina, riguarda il fatto che essi, di solito, sono abituati ad un tipo di conoscenza che arriva loro in modo unilineare o da un testo scritto o da un referente (ad esempio un docente incapace di coinvolgere) quando trasmettono i contenuti che rientrano in un certo filone teorico. Ora le lezioni di socioterapia sono, spesso, provoca/lezioni e molte volte gli studenti si sentono attaccati, ma ad essere attaccate sono le loro certezze, troppo spesso fragili e/o immotivate; sono gli schemi che vengono da loro utilizzati automaticamente e che rivelano la propria persistenza, al di là della loro stessa validità, solo quando sono messi in discussione. Il concetto di provocazione, alle radici delle provoca/lezioni, è proprio questo: si tratta di uno scontro rispetto a quanto di formale e di rituale appartiene loro, in cui non sono i discenti ad essere attaccati, ma ad es115


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sere messe in discussione sono le concezioni di sé e dell’altro, da loro eventualmente accettate in maniera acritica. Naturalmente (e viceversa), non bisogna infatti scordare che, contemporaneamente, ad essere sottoposte a provocazione sono anche le affermazioni della socioterapia: nel momento in cui non dovessero riuscire a convincere gli interlocutori dovrebbero essere a loro volta sottoposte a revisione, anche radicale, o quantomeno comunicazionale. La nostra disciplina cerca di uscire fuori dalle prassi usuali, di mettere un dubbio sistematico sulle nostre convinzioni, sulle verità presunte, sulle concezioni in auge, anche proprie, e questo può creare confusione e stupore, difficoltà e necessità di continuo aggiornamento. È un percorso, un modo di pensare che all’inizio in molti incontra difficoltà perché è più comodo adagiarsi in schemi teorici che aiutano a sopravvivere, a relazionarsi con gli altri, a muoversi senza dover affrontare ogni esperienza come se fosse sempre la prima volta. Nel momento in cui le persone fossero obbligate a rimettere in discussione tali schemi e a scontrarsi con i propri automatismi e le proprie inerzie, allora, forse, potrebbero nascere piccoli o grandi turbamenti che potrebbero portare o a rifiuti aprioristici o a salutari riflessioni. Quest’ultimo è un caso che potrebbe essere anche estremamente positivo, nel momento in cui diventasse un motore interno di ricerca e di approfondimento che facesse ampliare i sistemi di RR posseduti e le capacità di risposta alle sollecitazioni ambientali. La differenza tra l’approccio socioterapeutico e gli altri è riassumibile nella differenza tra i termini di costruire una risposta – e cioè basarsi su relazioni di ruolo che arrivano ad una diagnosi a partire dalla competenza del detentore del ruolo che, quindi, diviene il protagonista della relazione terapeutica – e ricostruire 1 16


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o meglio co-costruire perché il socioterapeuta non costruisce da solo e, quindi, non si sostituisce all’altro ma parte dalla ricostruzione dei suoi processi mentali, si pone empaticamente dal suo punto di vista e da quello dei suoi sistemi di RR dei quali deve, in primo luogo, comprendere l’iter di formazione. Anche nell’approccio socioterapeutico vi può essere una relazione di ruolo ma, nel momento in cui parlo di ruolo, devo definirlo, devo capire chi attribuisce un ruolo e a chi: il terapeuta a se stesso e/o all’altro; l’altro a se stesso e/o al terapeuta. È la co-gestione delle RR che l’altro ha di sé che lo differenzia dai terapeuti di altri approcci teorici che agiscono direttamente sull’altro sulla base delle proprie teorie, limitandosi, sovente, a registrare quello che l’altro dice. Al di là del tentativo di fare uscire le soluzioni “dall’interno della persona”, il socioterapeuta agisce attivamente nella loro co-progettazione (come ricordato, in alcuni casi può anche impiegare un atteggiamento dirigistico). Mentre altri lavorano sulle persone, nel senso che utilizzano i sintomi riferiti dai pazienti per inserirli in casistiche patologiche determinate, il socioterapeuta deve capire i percorsi che hanno generato quelle condizioni e quelle RR che sembrano non funzionare, sempre a detta dei pazienti. Se interviene per modificare il sistema di RR, incentivando, ad esempio, il livello cognitivo per l’adozione di determinati comportamenti, quest’ultimo sarà comunque ricco di conseguenze poiché si trascinerà dietro anche l’altra dimensione: con lui (in quanto terapeuta e depositario della fiducia del paziente) o da sola (sulla base dei propri investimenti affettivi) la persona apprenderà un modo di gestire poiché, come a più riprese ricordato, comunque solo una R completa viene trasmessa e, dunque, solo una R completa può essere appresa e può retroagire sul sistema di RR posseduto. 117


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Uno strumento fondamentale nell’attività terapeutica è rappresentato dall’ascolto che, sulla base della letteratura scientifica esistente, può essere: - di tipo passivo, come ascolto in silenzio; - di tipo attivo, per cogliere totalmente l’altra persona sia a livello verbale che a quello non verbale. La dinamica è diversa e, spesso, passa per una riformulazione di quello che l’altro ha detto; - di tipo empatico, nel quale l’empatia viene usata in primo luogo come strumento che si affianca ai precedenti e, in questo senso, diviene tipico della socioterapia. Nel momento in cui il socioterapeuta applica un rapporto empatico-strumentale sospende la propria conoscenza (sia come dimensione cognitiva che affettiva); la persona che ha di fronte non deve essere né simpatica, né antipatica, né deve avere sesso. Solo in un secondo momento il rapporto empatico si rivolge anche ai contenuti, in linea con il classico approccio fenomenologico. In breve, quindi, nell’attività terapeutica si dovrebbe: 1. sospendere ogni forma di conoscenza propria, a parte quella tecnico-metodologica; 2. porsi senza pregiudizi; 3. ascoltare ed utilizzare alcune caratteristiche metodologiche per arrivare a capire quello che il paziente vuole dire e, soprattutto, il perché lo dica; 4. cercare di apprendere il modo in cui la persona ragiona: “perché dice questo?”, “come mai?” e soprattutto il modo in cui la persona giustifica i propri asserti; le domande possono essere dirette o meno. Tutto questo rientra in quella che potrebbe essere definita una fase quasi propedeutica all’intervento terapeutico; 5. verificare quanto appreso per mezzo di una serie di domande di controllo poste sia all’interlocutore, che, eventualmente, alla famiglia e a chiunque 1 18


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altro significativo possa rientrare nel suo circolo relazionale; 6. co-progettare con il singolo l’iter di uscita dal disagio sia utilizzando tutte le risorse da lui possedute che tutti gli strumenti e le competenze del proprio approccio, senza timore di entrare in competizione con altri terapeuti di discipline affini con i quali, anzi, si dovrebbero stabilire alleanze sinergiche, poiché ognuno si occupa di aspetti assolutamente diversi anche se complementari della medesima persona; 7. avere un rapporto di consulenza attivo e, al limite e se necessario, un rapporto direttivo negli interventi in funzione della mancanza di strumenti da parte dell’interlocutore. Riassumendo il socioterapeuta dovrebbe: sospendere ogni conoscenza pregressa in quanto fonte possibile di pre/giudizi (o giudizi-pre);

↓ avere in precedenza applicato la riflessione empatica anche a se stesso - “cosa penso?, perché lo penso?” – continuando in un’attività di auto-training in parallelo con una di training con un supervisore, ai fini di una verifica socioterapeutica che gli permetta di innescare un continuo processo di auto-valutazione per evitare di cadere preda di meccanismi di autoreferenza;

↓ ascoltare empaticamente, sia strumentalmente che contenutisticamente il portatore di disagio;

↓ 119


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Utilizzare alcuni strumenti tecnico-metodologici della sociologia (colloquio, intervista, empatia come strumento ecc.) per costruire la propria conoscenza sulla persona;

ricostruire il modo in cui la persona ragiona e giustifica i propri asserti;

verificare quanto appreso attraverso strumenti di conferma diretta, con la persona, ed indiretta, con coloro che fanno parte della sua sfera relazionale e che siano disponibili a collaborare;

utilizzare le proprie conoscenze rientrando nella propria veste di terapeuta per co-progettare il percorso di uscita dal disagio; La postura, l’abbigliamento ecc. possono essere fonte di informazioni come possono non esserlo, in quanto legati sia ad una certa immagine di sé costruita ad arte, che ad un comportamento passivo dovuto a schemi personali o mutuati dall’esterno da cui discende la necessità di una forte cautela nell’analisi degli indizi. Secondo alcuni approcci la persona avrebbe in sé la capacità di elaborare soluzioni al proprio problema. Nella socioterapia è semplicemente una delle possibilità, importante perché, oltretutto, metterebbe la persona in condizioni di potere fare a meno o comunque limitare la necessità di un terapeuta. Occorre, infine, ricordare che l’osservazione59 è 59. Cfr. Benvenuti, L.; Maccaferri, M. “Dall’osservazione all’azione”, in Cipolla, C. (a cura di), Il ciclo metodologico della ricerca sociale, Franco 1 20


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già un’azione e, in quanto tale, non è neutra ma è già lettura dell’ambiente teoricamente orientata. Il continuo confronto con il portatore di disagio, permette di orientare la sua e la propria lettura dei fenomeni in vista della co-elaborazione di una soluzione. 5.2 Il rapporto tra terapeuta ed utente La relazione terapeutica per essere tale deve avvenire tra un esperto ed una persona che richieda il suo intervento. Tale relazione - soprattutto nella vita quotidiana, nella socialità e cioè in ambiti nei quali spesso le persone ritengono di avere competenza ben al di là della loro effettiva preparazione e, comunque, in presenza di forti coinvolgimenti affettivi a volte estremamente limitanti – richiede, ad ogni modo, quello che abbiamo chiamato un rapporto educativo e di crescita. Relazione che, sovente, è profondamente asimmetrica e si deve confrontare con una caterva di consiglieri che vanno dal familiare, al parente, all’amico, al vicino, alla persona incontrata casualmente, ad un internet male utilizzato ecc. Ora, il terapeuta non dovrebbe mai rinunciare alla propria funzione specialistica, esattamente come il paziente dovrebbe scegliere con oculatezza il proprio referente terapeutico. Uno dei maggiori fattori limitanti la relazione terapeutica è quella che Meyrowitz chiama “la conoscenza del retroscena”:60 termini con i quali indica il fatto che il ragazzo o l’adolescente, a causa di un consumo mediale intenso, irriverente, onnicomprensivo, finisce con il conoscere (tra gli altri) i processi decisionali, i limiti e le debolezze delle figure adulte, in generale, e Angeli, Milano 60. Meyrowitz, J. Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna, 1993, p.111. 121


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di terapeuti, genitori, manager ecc., in particolare. In altre parole anche gli interventi terapeutici, come gli insegnamenti, i rimproveri genitoriali ecc. vengono anticipati dai vari telefilm, sceneggiati ecc. e questo porta all’incresciosissima situazione per cui qualunque intervento può essere vissuto dall’adolescente come un qualche cosa di già visto, di prevedibile e, in quanto tale, di poco incisivo per non dire ad effetto quasi nullo o addirittura ad effetto boomerang. Di qui la necessità anche per la socioterapia, nel momento in cui il suo approccio dovesse diventare patrimonio di senso comune, di una capacità di rinnovamento dei propri principi ad una velocità superiore a quella della sua diffusione nell’opinione pubblica: per questo l’imprevedibilità della risposta può essere l’arma vincente della relazione terapeutica, mentre la banalizzazione o l’utilizzo a scopo ricreativo di certi concetti, se da un canto decretano il successo di una teoria, dall’altro hanno l’inconveniente di provocare anche l’obsolescenza, spesso anche in forma estremamente rapida, della stessa. Naturalmente anche la ricerca di risposte nuove, in funzione della singolarità dei portatori di disagio che via via il terapeuta si trova ad affrontare, non deve diventare rito, schema astratto di comportamento, perché anche la prevedibilità è uno strumento che può avere una funzione rispetto alla persona. Una distinzione importante riguarda il fatto che se si dovessero utilizzare schemi prevedibili ciò non dovrebbe in alcun modo coincidere con il fatto di essere prevedibili: la prevedibilità del terapeuta c’è nel momento in cui ci fossero premesse, modelli di ragionamento e/o riferimenti a teorie accettate o emergenti che lui stesso, nel proprio operare, dovesse considerare eccessivamente vincolanti. L’esperienza e la professionalità sono indubbiamente fattori di garanzia degli interventi, ma esse non 1 22


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si devono ridurre a mere anticipazioni razionali del prevedibile a partire da ciò che si conosce sul caso singolo e sulla base delle generalizzazioni empiriche dovute a quanto sperimentato nel passato, ma possono essere una sorgente di difficoltà o di impedimento nel caso di situazioni nuove e/o non prevedibili. Anche in questo caso occorre fare attenzione perché il parlare di anticipazione razionale è insufficiente e soffre delle stesse problematiche che ho cercato di porre in rilievo rispetto alla conoscenza dell’era tipografica: l’anticipazione può soltanto essere o rappresentativa, in caso contrario è parziale e limitata. Ciò significa che, per essere completa, la capacità di anticipare deve riguardare contemporaneamente anche l’altra dimensione che qui, ad esempio, è quella affettiva: è solo l’unione delle due dimensioni che è alle radici del fondamento della professionalità e dell’esperienza. Semplicemente ci si può avvicinare ad ipotesi sul futuro per uno dei due sentieri disponibili (cognitivo o affettivo) ma, nelle mie considerazioni, esso dovrà essere visto anche nella prospettiva dell’altro (affettivo o cognitivo), per questo, forse, potrà trascinarselo dietro: così posso percepire un’anticipazione logica, e invece di essere soddisfatto della mia capacità intuitiva, dovrò cercare di accorgermi anche di eventuali stonature affettive, discontinuità che solo in un secondo momento riuscirò a mettere a fuoco e a integrare, completando l’ottica rappresentativa. Il parlare di anticipazione, poi, permette di comprendere il meccanismo di formazione della stessa esperienza: essa non vincola assolutamente il futuro del singolo caso di fronte al quale ci si troviamo; essa permette di avere a disposizione un’ipotesi sul futuro da collegare ad eventuali casistiche possedute alle quali attingere nel momento in cui si dovessero prendere decisioni immediate e alle quali fare riferimento qualora il numero delle coincidenze tra i casi del 123


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passato e quelli presenti dovesse essere alto, sempre, tuttavia, pronti a prescindere da quanto conosciuto nel momento in cui si dovesse rivelare inadeguato. Un fattore estremamente importante è anche quello legato alla particolare situazione alla quale appartiene il caso che ci si dovesse trovare di fronte. È proprio la singolarità di ogni situazione che rappresenta il fattore del quale è necessario tenere conto ogni volta che ci si accinge ad intervenire con un portatore di disagio e che rende impensabile qualunque ipotesi di adattamento della persona alla previsione, che sia o meno legata ad un’anticipazione più o meno rappresentativa (e cioè razionale e affettiva). Nel caso di situazioni che facciano riferimento ai programmi di uscita dalle dipendenze patologiche, poi, è importante comprendere che i ragazzi, e le persone con tali tipi di problemi, possano percepire il terapeuta o l’operatore di comunità come l’unico ostacolo tra loro e la causa della loro stessa dipendenza: in questo senso, troppo spesso, loro hanno anche una forte esperienza dei servizi ed una loro capacità di anticipazione razionale e nel momento in cui si dovessero accorgere che il terapeuta segue uno o più schemi potrebbero anticiparlo e quindi rendere vano o controproducente il suo intervento. Tuttavia, occorre ricordare che è l’operatore che non deve avere uno schema rigido rispetto a ciò che pensa o che dice in merito perché, in qualunque momento, deve essere in grado, per non essere prevedibile, di mettere da parte gli schemi posseduti - soprattutto se essi si dovessero dimostrare inadeguati sia rispetto alla persona o alla situazione presente, sia rispetto alla prossima che dovesse incontrare - per agire in funzione dello stato di salute effettivamente posseduto dal portatore di disagio. Il terapeuta dovrebbe, inoltre, ricordare che il ragionare nei termini della spiegazione/previsione 1 24


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è tipico delle nostre società e che può non appartenere al prossimo utente che dovesse incontrare, che potrebbe appartenere a culture diverse, potrebbe, ad esempio, non essere laico ed avere come proprio referente la divinità, secondo il costume di tante altre culture presenti sul nostro pianeta, oltre che in larghi strati della nostra. Lo schema simmetrico di approccio alla vita ha un’importante caratteristica aggiuntiva, dovuta al fatto che il ragionare sempre e comunque nei termini di un’esasperata proiezione sul futuro, o se si preferisce nei termini di un’esasperata prevenzione, può diventare, come vedremo, un fattore di patologia personale: nel momento in cui si arrivasse a ritenere che tutto ciò che può essere previsto debba essere oggetto di prevenzione, questo può diventare una terribile sorgente di disagio. Il futuro può essere percepito, come minaccioso e può portare alcune persone o a desiderare la morte, vista come il luogo della fine dell’ansia, della preoccupazione per il domani ecc. oppure a nevrotizzarsi in abissi di impotenza, non potendo intervenire in termini preventivi rispetto a tutto. I farmaci, spesso, agiscono solo sul sintomo, mentre il problema di fondo resta. Riprendendo il discorso sugli interventi rispetto ad alcune situazioni di disagio, ad esempio infantile, il terapeuta (o l’operatore) occorre che si ricordi che il bambino nel momento in cui cresce e fa le sue esperienze, deve essere accompagnato; occorre insegnare ai genitori ad agire in modo integrato, ad esserci, il che vuole dire non soltanto che devono essere presenti almeno a turno, ma che è necessaria la qualità dell’esserci. Chiaramente la qualità del rapporto non deve essere un alibi, se contrapposta alla quantità di tempo passata con il minore, perché la qualità, a meno di casi particolari, trova la propria verifica in risultati che per loro natura non possono essere programmati: di 125


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qui l’importanza del tempo di presenza con i minori. La funzione educativa, poi, non deve essere annegata in un discorso generalizzato che riguardi tutto, deve avere una chiarezza in chi educa perché possa essere percepita con chiarezza da chi deve essere educato. Nelle culture orali il gioco aveva ed ha una sua destinazione forte per fare crescere persone piccole che però hanno comunque una loro capacità e, spesso, una loro funzione nell’ambito della comunità. Il piccolo non entra in una situazione di gioco, ma in una situazione in cui c’è anche un’attività gradevole: non ci dovrebbe essere frattura fra i due stati. Per chi lavorava in agricoltura non avevano senso le ferie: quando non si dovevano fare le attività regolate direttamente dalla natura occorreva lo stesso essere lì, per fare altre attività apparentemente collaterali ma altrettanto necessarie al punto che anche il dolore personale finiva con il non avere un senso in sé ma doveva essere subordinato alle esigenze del campo o degli animali da allevare. Del resto per il momento gioioso c’erano le feste e i tempi a ciò collettivamente designati. Questo non toglie che occorra insegnare che il legame con il bambino debba essere a base affettiva, anche se oggi, in molte situazioni, sembra che l’importante non sia amare i figli, ma soltanto mostrare che li si ama e fare apparire che sono al centro della vita familiare: quello che determina il comportamento dei singoli è quel terribile pubblico interno – come fronte di un palcoscenico interiore popolato dai miti di autoaffermazione soggettiva, di competizione contro tutti e come parametro di ogni referenza valoriale – che, proprio perché non è gestito da chi lo possiede, può essere estremamente esigente. In fatto di apparenza. Che, concretamente, al massimo finisce con il convalidare solo l’autoreferenza del genitore a costo della felicità dei figli. I quali lo capiscono e nel momento in cui riescono a gestire istintivamente la dimensione 1 26


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affettiva e autoreferente del genitore, sulla base delle già ricordate conoscenze di retroscena apprese attraverso centinaia di ore di consumo televisivo, finiscono con il sentirsi onnipotenti. Se, inoltre, nel cosiddetto gioco dei ruoli imparano che possono ricoprire il ruolo degli adulti, allora loro con i loro gruppi diventano macchine da guerra, insiemi di bambini/adulti senza età, estremamente longevi (adolescenza prolungata) e dalla incredibile forza distruttrice. Lo stesso vale per i regali, i giochi ecc. che, da avvenimenti che dovrebbero rendere felici, nel momento in cui diventassero avvenimenti usuali e sostitutivi della profondità della relazione, finiscono con il non provocare più stati di benessere ma, con un cambiamento di prospettiva al quale oggi si assiste con sempre maggior frequenza, semplice piacere momentaneo legato all’apertura dei pacchi, allo scartocciamento del regalo per poi ignorarlo come contenuto, in quanto già previsto, relegandolo poi in un angolo. Il giocattolo, almeno, dovrebbe essere usato se non addirittura costruito.

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Lezione VI

6.1 La volontà come caratteristica della soggettività Affrontiamo ora un argomento che ci ha accompagnato per larga parte del nostro percorso e cioè la soggettività, che come caratteristica personale risulta molto interessante: che cosa significa essere attore e giudice delle proprie azioni? Perché, almeno in teoria, per compiere un’azione dovremmo avere bisogno della volontà? Un atto è corretto quando lo si compie in una condizione di conoscenza, e quindi quando si riescono a decodificare le situazioni che rientrano già nelle nostre capacità di conoscenza. Ma se io non ho conoscenza di un certo ambito fenomenico, perché dovrei esercitare la volontà per affrontarlo, sovente, non conoscendo neppure la logica della sua organizzazione? Quando scatta la volontà? Forse in situazioni diverse da quelle legate a semplici atti conoscitivi. Per la socioterapia, la volontà è la capacità di agire sulla base di un uso parziale della R (scelta parziale) in modo tale che ad essere motore d’azione possa essere, per via diretta o indiretta, il solo investimento affettivo (Inv. Aft.): in tale senso vale sia la scelta 129


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operata a favore di una soluzione che non sia supportata dalla dimensione cognitiva, e quindi che si basi esclusivamente su stime affettive; sia quelle che, pur operando in modo apparentemente cognitivo, e cioè tali da sembrare di essere prese prescindendo da ogni investimento affettivo, sono, in effetti, scelte indirettamente affettive poiché si basano su di un approccio affettivo alla dimensione cognitiva. A guidare l’azione quindi sarebbero considerazioni, direttamente o indirettamente, affettive, e il loro limite sarebbe proprio quello di avvenire in un regime di spaccatura (anche se solo presunta, come abbiamo visto) della R, perdendo di vista quella che dovrebbe essere una caratteristica base dell’azione medesima, e cioè il fatto di essere rappresentativa, e dunque guidata contemporaneamente da entrambe le dimensioni. Il criterio di scelta, che rende la volontà distruttiva per la collettività, è l’autoreferenza, propria o altrui, oppure la referenza passiva, ad esempio verso valori laici e/o a principi religiosi mediati da altre persone, che rende la scelta cieca (fanatismo); oppure quella mediata dai propri comodi, dal proprio piacere che la rende sorda. Occorre prestare attenzione al fatto che, nel momento in cui non si esercitano le proprie capacità di giudizio, si può cadere preda di architetture altrui o proprie che, spesso, nulla hanno a che fare con l’eventuale asserito possesso di quei principi valoriali e/o religiosi sopra ricordati. Due avvertenze riguardanti il fatto che: - possa non risultare corretto anche l’utilizzo in successione delle due dimensioni: è il caso in cui si dovesse prendere una decisione di azione in funzione di una considerazione razionalmente corretta per poi farla seguire da un’azione importante dal punto di vista affettivo (o viceversa) perché la seconda correrebbe il rischio di essere una sorta di riparazione della prima, come quando si sgrida qualcuno 1 30


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in malo modo e poi si cerca di rimediare essendo affettuosi a posteriori, a puro titolo riparatorio; oppure quando si ha un rozzo scatto di gelosia e poi si domanda scusa cercando di riconquistare l’altro; - un’azione eticamente corretta non è tale in astratto ma deve anche essere opportuna: ad esempio di fronte a una persona scorretta, potrebbe non essere opportuna un’azione solo in astratto eticamente corretta, anche perchè potrebbe rientrare in suoi calcoli preventivamente scorretti. Questa avvertenza permette di salvaguardare, comunque, l’autonomia decisionale della persona, in funzione di obiettivi di lungo periodo: naturalmente la considerazione etica si trasferisce anche alla valutazione sull’opportunità dell’atto. Il definire la volontà come qualcosa che si confronta con l’irrazionalità è limitante e parzialmente valido. Nei termini della socioterapia l’atto di volontà serve ad una persona per violare, affettivamente (per via diretta) o logicamente (per via indiretta), una teoria o una organizzazione collettiva alle quali lei comunque crede (o credeva) o nelle quali comunque confida (o confidava) logicamente o affettivamente: il parallelismo tra questi ultimi due termini (logicamente/affettivamente) con i precedenti (crede/confida) è importante61 per comprendere l’essenza della volontà come possibile sorgente di atti dettati da un calcolo di convenienza, direttamente o indirettamente affettiva, che, tuttavia, potrebbe non essere sempre tendenzialmente scorretto od opportunistico come nel caso in cui, ad esempio, una persona si dovesse convertire a principi diversi da quelli suoi tradizionali - riconosciuti solo in un secondo momento come negativi o errati - allora la volontà potrebbe servirle per andare contro ad una 61. Logicamente-credere e affettivamente-confidare. 131


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persistenza affettiva di questi ultimi. Anche qui il concetto di rappresentazione diviene fondamentale: il desiderio - che è un forte motore d’azione per il raggiungimento di mete agognate - in collegamento con la nascita della soggettività crea una miscela esplosiva e la volontà, come accentuazione affettiva dell’intenzione soggettiva ad agire, introduce una nuova accezione per un desiderio che passa allo status di compagno e/o di erede nuovo e ribelle della soggettività, la cui aleatorietà richiede, per essere gestita, solo l’addestramento ad un auto-governo disciplinare. Il percorso è: EVOLUZIONE COMUNICAZIONALE STORICO-CULTURALE → SOGGETTIVITÀ → DESIDERIO → VOLONTÀ → DISCIPLINA Le società occidentali per organizzarsi sui propri principi di razionalità (dalla nascita del positivismo in poi) hanno bisogno di addestrare gli uomini per rendere prevedibili i loro comportamenti; ciò significa che, in teoria, i singoli individui dovrebbero comportarsi logicamente secondo quanto previsto dalla soggettività, in quanto teoria organizzata sulla base dello schema nomologico. Rendere la persona prevedibile significa però, di fatto, annullare il soggetto come titolare di azione, visto che non sarebbe più lui l’ideatore dell’azione, ma si dovrebbe comportare come è stato addestrato (razionalmente) a fare: curiosamente sembrerebbe che l’unico spazio di libertà nei propri comportamenti riconosciuto al soggetto sia quello che si manifesta sotto forma di atti di volontà come manifestazioni affettive non automatiche - e cioè non razionali e/o non disciplinate – che, appunto, rendono la persona un soggetto che però, in assenza di genialità, si ritrova semplicemente e troppo spesso ad essere soltanto capriccioso e alla continua ricerca, sovente in modo 1 32


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quasi-maniacale, di spazi di auto-affermazione anche semplicemente legati alla bizzarria. Oggi, l’enorme diffusione delle dipendenze patologiche, quali ad esempio l’assunzione di droghe, il gioco patologico, i disordini alimentari ecc. mette in crisi la soggettività in quanto teoria di organizzazione sociale perché coloro che si ritrovano ad essere dipendenti sono non immediatamente prevedibili per il più ampio sistema sociale che così, retroattivamente e proprio per la numerosità crescente dei casi, inizia a vedere svanire la propria tranquillità, come rifugio nella certezza della propria razionalità. Nella gestione di tale forma di razionalità – che, tuttavia, si propone come “la razionalità” tout court, contemporaneamente premessa e conseguenza della soggettività – diviene fondamentale la volontà che è proprio quella forma di gestione dell’azione che permette all’azione stessa, circolarmente, di rientrare (o meno) in tale razionalità, in funzione delle decisioni del singolo. Il massimo della discrezionalità si esercita proprio in questa scelta, definita “razionale sulla base della volontà soggettiva”, tra virtuosità o viziosità del circolo decisionale, dove: - con virtuosità si vuole indicare l’aderenza logica a principi e valori soggettivi individualmente determinati e solo in seguito, dal punto di vista storico, collettivamente accettati; - e con viziosità un calcolo, ancora una volta a referenza esclusivamente personale, ma che risulta essere scorretto sulla base di quei principi (pur professati) perché, pur essendo teso ad esclusivo vantaggio dell’attore (o dei suoi amici o sostenitori) lo fa con dolo, incurante di poter procurare e, al limite, decidendo di procurare un danno ai diritti di altri attori, della società o dell’ambiente. Storicamente parlando, questa è un’evoluzione 133


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non da poco per le nostre società e il nostro compito, in quanto sociologi, è quello di capire come la società si evolva: noi tutti con la somma delle nostre azioni ci muoviamo come società e, contemporaneamente la formiamo in quanto società. Le culture occidentali post-cinquecentesche, a partire dall’introduzione di una serie di strumenti tecnici, hanno fatto in modo che l’uomo superasse la logica ascrittiva dell’oralità - e cioè basata su diritti derivanti dall’appartenenza ad una casta, ad un ceto, ad una tribù, a una famiglia ecc. - e passasse alla logica acquisitiva della soggettività, per cui si nasce uguali e si ottiene sulla base dei propri meriti. Ma i meriti sono settoriali, l’individuo-soggetto sa benissimo di non potersi arrogare il diritto di invadere l’universalità altrui – anche se a volte lo tenta – dovendo rispettare l’altrui soggettività, ma, nella hobbesiana logica dell’homo homini lupus finisce con il sentirsi obbligato a rispettare solo coloro che, a propria volta, sono capaci di farsi rispettare: di qui la traduzione della somma di tali aspetti in una socialità che prevede per l’uomo uno sviluppo per poli di aggregazione, appunto, all’interno dei quali egli possa essere acclamato per i suoi valori e abilità o vituperato per la loro assenza. È quella che potremmo chiamare una virtualizzazione del conflitto come sostituto della “guerra di tutti contro tutti”,62 o della socialità come sostituto della dimensione collettiva I letterati, ad esempio, non lavorando più al servizio esclusivo dei nobili e degli ecclesiastici per glorificare le loro gesta e/o le tradizioni religiose, dovettero, storicamente, iniziare a guadagnarsi da vivere vendendo i propri scritti (ad esempio romanzi), utilizzando biografie e/o autobiografie che divennero modello per i lettori; similmente ingegneri ed architetti divennero 62. È il “Bellum omnium contra omnes” di Thomas Hobbes. 1 34


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gli esecutori dei desideri abitativi delle nuove individualità; e così via. Nel momento in cui la soggettività si afferma ufficialmente, dalla rivoluzione francese in poi, e afferma, grazie all’attività dei gruppi cosiddetti progressisti o rivoluzionari, i principi della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, l’uomo diventa soggetto a pieno titolo e comincia a sviluppare fino in fondo la teoria della soggettività per mezzo dei romanzi intimisti, autobiografie ecc. per arrivare, come già ricordato, a quella che in socioterapia viene chiamata soggettività per sé, rispetto alla soggettività in sé tipica del periodo precedente. Ma nel momento di massimo sviluppo dei principi della borghesia, verso la fine dell’800, si cominciarono anche ad intravedere i germi della sua crisi e, forse, del suo superamento: così vengono letti nella nostra disciplina, ad esempio, i disagi individuati dalla psicoanalisi. All’epoca ad essere in crisi è, soprattutto “la donna” che, in quanto madre, deve sacrificare se stessa e la propria soggettività per permettere ai propri figli di diventare soggetti a pieno titolo: essa si spacca, ancora prima dell’uomo, non riuscendo a reggere l’impatto con il cambiamento culturale indotto dalla stampa e dovendo sopportare il carico della famiglia borghese come culla di nuovi soggetti. Freud elabora una teoria nuova rispetto alle precedenti, che si basa sull’inconscio, per spiegare il manifestarsi di fenomeni di “malessere” che continuano ad aumentare in un tipo di società, quella ottocentesca, che si ritiene in grado, a partire dalla propria razionalità, di potere eliminare ogni problema, ogni ristrettezza economica, ogni afflizione dell’umanità ecc. Stranamente una cultura che rappresenta se stessa come il massimo della razionalità si vede costretta a riconoscere che un certo numero dei comportamenti dei propri membri vengono determinati da un’istanza 135


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non in linea con la propria razionalità, e che quindi passa allo status di conseguenza inconscia. Tutto questo viene interpretato, in socioterapia, come la spia di una soggettività che comincia a mostrare incrinature, a non funzionare più in maniera ottimale a svelare i propri limiti. In continuità con allora, questa relativamente lunga sopravvivenza a se stessa della soggettività si manifesta nel nostro paese, a partire dagli anni ’60, anche con l’apparire delle droghe, soprattutto quelle di sintesi, e con il maturare di una rappresentazione di se stessa come di una società in crisi, che perde pregnanza. 6.2 Fungibilità ed identità In socioterapia, con fungibilità si indica la qualità del virtuale di poter assumere, una volta autonomizzatisi dall’empirico, qualunque significato in relazione ai contesti rispetto ai quali dovesse entrare in rapporto. In questo senso l’origine della virtualità è riferibile al segno che, se analizzato a livello comunicazionale, appare comunque dotato di una propria plasticità – ad esempio quella della proiezione cinematografica che, in effetti, si riduce alla proiezione di una serie di chiaro-scuri e luci colorate su di uno sfondo bianco, o quella grafica dei cartoni animati come successione di disegni, oggi digitalizzata, che assumono forme fluidamente diverse per adeguarsi all’evolvere della storia – anche in funzione dei possibili cambiamenti delle prospettive di contesto: SEGNO → CONTESTO → SIGNIFICATO → SIMBOLO

Il segno, in quanto tale è una traccia nell’ambiente, ad esempio un’impronta nella neve, un panorama ecc.; tale traccia si trasforma in simbolo nel momento 1 36


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in cui viene inserita in un contesto di significato, altrimenti resta elemento irrilevante di uno sfondo. Il parlare di significato e/o di sua modifica, poi, indica la fase terminale di un processo di formazione e di riempimento delle rappresentazioni, che avviene a partire da contesti organizzati anteriori (precedenti sistemi di RR, sistemi culturali, teorie ecc.). Al di fuori del piano dell’empiria quando si utilizzano simboli per costruire RR da consumare o da comunicare, si corrono rischi, come quando, ad esempio, ci si possono attribuire caratteristiche altrui o si possono sostituire rappresentazioni proprie con altre - è l’ambito dell’imitazione e dei neuroni specchio63 - che, a loro volta, mantengono una delle caratteristiche base e cioè il fatto di potere essere possibili motori di azione, e in tale veste retroagire influenzando a loro volta i comportamenti. Un esempio tipico è quello dei bambini (ma non solo di essi poiché lo stesso discorso vale anche per adulti che non si sanno difendere) che quando fruiscono della televisione indiscriminatamente, senza la protezione di adulti capaci di aiutarli, corrono un grosso pericolo: avendo apparentemente a disposizione milioni di informazioni provenienti da un universo simbolico sganciato dal loro contatto diretto (dalla loro esperienza empirica), quei bambini corrono il pericolo di assumere tali RR come proprie. Si parla di RR e non di semplici immagini o investimenti affettivi, poiché quanto trasmesso, nei nostri termini, di fatto è esso stesso un insieme di autentiche rappresentazioni, funzione di team di progettazione costituiti da registi, da produttori e da attori che le interpretano, da costumisti che le abbelliscono, da inviati che le scelgono, da testi che le riempiono di contenuti e di emozioni, da effetti speciali e così via. Sia che si tratti di assunzione di investimenti affet63. Vedi sopra, Lezione III. 137


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tivi altrui su immagini proprie, che di attribuzione dei propri investimenti affettivi ad immagini altrui, comunque il pericolo diviene quello che tali rappresentazioni assunte dall’esterno possano essere utilizzate, ad esempio dal bambino, in maniera fungibile alla pari con quelle che lui sperimenta nel suo vivere quotidiano, con il rischio che possano divenire possibili motori di azioni alternative rispetto a quelle insegnate dai propri referenti culturali. È come se il bambino percepisse il proprio ambiente educativo come un semplice canale in più di un gigantesco televisore rispetto al quale fosse semplice agire nel senso dello zapping: la difficoltà diventa quella di riuscire a distinguere gli stimoli in funzione delle fonti. Ogni cosa viene annegata in una virtualità che rende «il tutto» ugualmente possibile, anche se fattualmente impossibile; oppure impossibile, anche se empiricamente possibile. È la situazione di una fungibilità - che può essere sia parziale, cognitiva (simbolica) o affettiva, sia integrale (rappresentativa), se totale e funzione di entrambe le componenti - che riguarda rappresentazioni, o parti di esse, che sembrano prescindere da qualunque rapporto con l’ambiente e che, una volta autonomizzate dall’empirico, come più sopra ricordato, diventano assolutamente interscambiabili. Se la persona finisce con l’avere comportamenti paradossali, altalenanti in funzione degli interlocutori o delle situazioni, cambiamenti dell’umore apparentemente incomprensibili perché privi di motivazioni evidenti, allora si può ipotizzare che vi possa essere un problema di fungibilità, simbolica, affettiva o rappresentativa. È come se all’interno della sua mente fossero compresenti una serie di organizzazioni simboliche, di storie ognuna diversa dall’altra ma tutte ugualmente accessibili a caso (random) in funzione di un’assonanza logica o affettiva o di entrambe: per la persona l’accesso è sulla base di collegamenti interni dotati di 1 38


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una loro logica che, però, può portare a conclusioni o ad azioni non comprensibili per l’osservatore. Lo stesso effetto può essere riferito ai consumatori di prodotti mediali, soprattutto se adolescenti, nel caso di una fruizione smisurata di tali prodotti per cui i collegamenti tra i vari argomenti o le varie affermazioni, nei fatti, spesso non appartengono loro, ma sono dovuti alla casualità della fruizione televisiva o dei videogames oppure ne sono la semplice conseguenza: di qui la necessità per il terapeuta di cercare di capire, prima di tutto e anche se sovente in maniera approssimativa, a quali fonti le persone facciano risalire le proprie nozioni, le proprie azioni o le proprie non-azioni. Quello della fungibilità è un fattore importante perché agisce a livello di rappresentazioni che sono i mattoni per la costruzione dell’identità che, in socioterapia, viene così definita: identità = un sistema di rappresentazioni: - sedimentato nel tempo e dotato di una propria organizzazione e sistematicità; - che è duttile ma dotato di una propria stabilità: - che riguarda la persona in modo tale da permetterle di riconoscersi al di là dei cambiamenti che si dovessero verificare nel tempo e/o nello spazio e/o nella persona stessa, purché tali cambiamenti non superino certe soglie di tolleranza che le appartengono in quanto sistema vivente. Tale definizione, nata per i singoli, può essere estesa alle comunità, ai paesi, ai sistemi sociali, alle nazioni, alle etnie ecc. e si potrebbe dire che, ai fini di quella che può essere chiamata l’identità comunitaria, sociale, nazionale ecc. la caratteristica aggiuntiva necessaria può/deve essere quella dei meccanismi di trasmis139


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sione delle singole identità ai nuovi componenti, ai nuovi nati ecc. In questo senso diventano importanti sia i sistemi di immagazzinamento delle caratteristiche (memoria personale, collettiva, nazionale, sociale ecc.), sia i supporti tecnologici posti a disposizione di tale esigenza, sia il medium dominante. La personalità, di conseguenza, può essere pensata, sempre dal punto di vista della nostra disciplina, come una sorta di schema dotato di una propria rigidità, un’etichetta, un’intelaiatura logica tratta dai comportamenti passati, o impiantata attraverso l’addestramento, come conseguenza di una tecnologia (la disciplina) che permette di rendere anticipabili, con una certa dose di certezza, i comportamenti futuri. Quindi, mentre l’identità è un sistema di rappresentazioni che ci mette in condizione di poterci riconoscere nel cambiamento e di muoverci in ambienti differenti o in tempi differenti; la personalità è una cristallizzazione dell’identità, una forma particolare di organizzazione schematica, tipica ad esempio delle società della soggettività, che impronta la mente sulla base di quadri concettuali abbastanza rigidi (assunti con l’educazione, autocostruiti ecc.), ricorrenti e tali da potere permettere con buona approssimazione il loro riconoscimento e/o una discreta previsione rispetto ai comportamenti futuri improntati ad essa. L’interiorizzazione di questi schemi avviene attraverso l’addestramento disciplinare che mette i singoli in condizione di fare propri, come più volte ricordato, comportamenti previsti proprio perché organizzati in modo prevedibile: assunzione, per certi versi, importante purché alle persone non sfugga di mano la loro gestione, procurando ancora una volta quello che verrà definito un disagio comunicazionale. Il concetto di soglia, poi, è rilevante dato che permette di comprendere e di individuare le ragioni di 1 40


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numerosi stati di disagio. Ogni persona, poi e come più volte ricordato, viene concepita nella nostra disciplina come un sistema di RR, le cui qualità specifiche possono essere riassunte in una serie di caratteristiche che vanno: - dal fatto che il nostro sistema nervoso centrale possa essere concepito come un organo isolato rispetto all’ambiente; - al fatto che l’ambiente esterno venga tradotto, tramite i sensi, in ambiente interno, e cioè proprio in quel sistema di RR di cui abbiamo più sopra parlato, al quale devono essere aggiunte le RR autonomamente create o elaborate dalla persona stessa; - al fatto che il corpo, nella propria interezza di insieme di organi comprendente anche l’S.N.C., debba essere considerato come il contenitore del sistema di RR, incluse le RR di sé e quelle riguardanti la pelle come confine tra ambiente interno ed ambiente esterno e fonte, per il tatto, di quello spazio peripersonale sopra ricordato; - al fatto che la mente sia quella funzione organizzativa dell’S.N.C. dedicata alla gestione delle RR, tale che tra di essa ed il resto del sistema corporeo intercorrono relazioni così strette che le influenze finiscono con l’essere reciproche e profonde a tal punto da dare origine a quei malesseri relazionali (rispetto a se stessi o agli altri) che sono alle basi stesse della definizione di disagio, che vedremo più avanti; - alla ulteriore considerazione che tale forma organizzativa del corpo (la mente) possa portare la persona a pensare, idealisticamente, che l’ambiente esterno possa arrivare a coincidere con il proprio ambiente interno, probabile conseguenza del fatto che per espandere la propria conoscenza su quello esterno lo debba, in una qualche maniera, tradurre 141


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e cioè rappresentare, in modo da farlo diventare interno. Alle radici di tale procedimento vi è quello che abbiamo chiamato il processo di riduzione sensiva dell’ambiente, un processo riguardante il fatto che quanto comunicato all’S.N.C. per mezzo dei sensi, di cui ogni corpo è dotato, rientri all’interno del sistema di RR da lui posseduto, andando così a formare quello che è stato, appunto, chiamato ambiente interno. La situazione sin qui delineata può essere portatrice di alcune possibili pericolosità, dovute: - sia a quel fenomeno chiamato, in socioterapia, di autonomizzazione del simbolico; - sia alla nascita della soggettività in sé trasformatasi in soggettività per sé nel momento della presa di coscienza del proprio stato evolutivo, delle proprie potenzialità e, dunque, della propria forza; - sia ad un automatismo legato alla esigenza che per conoscere quanto contenuto nell’ambiente occorra rappresentarlo e simmetricamente solo il rappresentato finisca con l’esistere per persone la cui soggettività si fosse idealisticamente posta come assoluto: è come se per l’S.N.C. di una persona potesse esistere solo ciò che esso, nella sua condizione di organo isolato, ha immagazzinato o è in grado di costruire rappresentativamente, convinzione che sta, probabilmente, alle radici di ogni sorta di idealismo estremo, quale, ad esempio, quello dei concetti di volontà e di rappresentazione in Schopenhauer; - al fatto che, naturalmente, quando si parla di ambiente esterno si intende indicare tutta la filiera che va, per il singolo, dalla realtà, al mondo, all’ambiente medesimo, secondo le definizioni date in socioterapia; 1 42


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- al fatto che le soglie di tolleranza del sistema debbano essere intese come la quantitĂ massima di rappresentazioni che possono essere modificate contemporaneamente senza che il sistema stesso perda la sua identitĂ , come capacitĂ di riconoscimento del sistema di RR considerato come proprio.

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Lezione VII

7.1. La piramide della comunicazione Le capacità comunicazionali dell’uomo nascono prima di quelle linguistiche, anche se la qualità della comunicazione all’inizio è relativamente bassa. Che cos’è che aumenta con l’evoluzione della specie e che, quindi, l’uomo attuale ha di incommensurabilmente più ampio rispetto all’uomo preistorico? la quantità di informazione veicolata. Il primo si esprimeva con una gamma ristretta di possibilità. Man mano che aumentavano le competenze comunicative aumentavano la possibilità di esprimersi, tanto è vero che, in seguito, si è passati al linguaggio e poi alla scrittura e, infine alla comunicazione digitale.64 Nel momento in cui si è limitata - per mezzo della stampa e dell’alfabetizzazione generalizzata - la necessità del tramite umano nell’apprendimento dei con64. Occorre ricordare che, a livello dello sviluppo ontogenetico, tale percorso evolutivo è percorribile anche all’incontrario dai singoli, secondo quel fenomeno che prende il nome di analfabetismo di ritorno. 145


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tenuti e si è pensato di potere prescindere da un maestro e da una controparte, in quel momento si sono potute assumere informazioni sulla base dei testi stampati e si è avuta la possibilità di incrementare, apparentemente in modo autonomo dall’altro, il proprio sapere. Quindi quella che aumenta è la capacità di comunicare, a partire dalle capacità personali di lettura e di memorizzazione. Si ha, dunque, che la capacità di comunicare che ha l’uomo tipografico (il soggetto) è molto superiore a quella dei suoi predecessori. Se si dovesse spiegare un telefonino ad un uomo di una civiltà orale è probabile che per lui all’inizio l’unico paragone possibile sarebbe quello della magia - anche se, in un secondo momento, gli può riuscire relativamente facile da usare in quanto strumento neo-orale. È il ridimensionamento della necessità del medium umano che permette la nascita della soggettività, tanto è vero che, in socioterapia, viene collegata alla tipografia e alla stampa in quanto, rispettivamente, stadio evolutivo della comunicazione e suo strumento. Si parla, inoltre, di un ulteriore, successivo cambiamento mediale quando si allude alle società neo-orali per ciò che riguarda le società dominate dalle attuali forme della comunicazione. La borghesia nasce con la società della stampa, con propri pregi, difetti e disagi. Noi adesso saremmo in una fase di passaggio dalla tipografia alla neo-oralità ed è a questo livello che si pongono alcuni tipi di disagio. Il nuovo approccio socioterapeutico non deve essere visto come in competizione con le teorie precedenti e con quanto da loro validato, ma dovrà cercare di spiegare ciò che non rientra nelle loro capacità esplicative. Per comprendere questo approccio evolutivo, occorre ricordare che se con la specializzazione linguistica aumenta la quantità di comunicazione da gestire, è con gli ulteriori sviluppi della scrittura e della tipografia che aumenta a dismisura la quantità di comunica1 46


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zione a disposizione. Oggi con i nuovi media si ha una crescita esponenziale di tale capacità e, attualmente, gestiamo una quantità di informazioni impensabile anche semplicemente rispetto a qualche decennio fa. È per questo che si può immaginare un andamento a piramide, quale è teorizzato in socioterapia. Quantità di prodotti comunicazionali nelle diverse società

pre-linguistiche orali della scrittura della tipografia dei neomedia

Man mano che l’uomo impara a gestire quantità maggiori di informazioni e arriva a concepire quelle staccate dal rapporto faccia a faccia, allora nasce l’ipotesi e la possibilità della soggettività: io divento un soggetto, e cioè il titolare di un’azione che non riconosce come controparte altro che i testi stampati o la propria capacità di costruzione di informazioni. “Io produco, io costruisco, io invento, io scrivo ecc.” sono tutte pretese che nelle società orali non esistevano: la referenza (religiosa o ai valori) di allora sembra essere stata sostituita dal moderno diritto di copyright e dalle citazioni. Questo è estremamente importante se lo si pensa rapportato allo sviluppo della specie, ma lo si può immaginare anche a livello dello sviluppo ontogenetico della persona, con i suoi vari gradi evolutivi, dalla pri147


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missima infanzia alla terza e/o quarta età. Le premesse di tale sviluppo le possiamo vedere fin dagli inizi della storia infantile: apparentemente, alla nascita i bambini sembrano incapaci di comunicare, ma, viceversa, sono dotati di un’innata capacità di comunicazione affettiva che è ben conosciuta dalle mamme. Dalle prime applicazioni di tale capacità alle immagini che giungono dall’esterno nascono le prime forme rappresentative del neonato e poi, via via che il tempo passa, l’intero sistema di RR dell’infante e dell’adulto. L’origine affettiva della conoscenza e la sua intima fusione con il momento cognitivo – almeno finché non si verifica la possibilità di una concezione legata al distacco tipografico tra le due dimensioni - è rinvenibile anche nelle difficoltà di distinzione, o, spesso, nella sua completa mancanza che caratterizza il bambino nel momento in cui desidera qualche cosa che non ha: il non possesso spesso coincide con una disperazione senza fine, la rappresentazione della cosa desiderata non è spaccata in due parti, ciò che desidera è contemporaneamente investito cognitivamente ed affettivamente. Analogamente, l’uomo nella sua evoluzione segue questa scala, prima vive in una fase pre-orale, poi passa a quella linguistica pre-scrittura, in seguito a quella basata sulla scrittura scolare, poi a quella tipografica e, infine, a quella neo-orale. Affrontiamo, ora, un esempio di rappresentazione: amare od odiare il fatto di guidare un’auto. Se ricordate, con rappresentazione si indica qualunque immagine che sia stata caricata affettivamente, per cui, nella nostra mente, non esistono immagini che non abbiano tale carica, e abbiamo già visto che cosa significhi parlare del piano delle RR, delle loro dimensioni da utilizzare come coordinate e del fatto che esse possano essere con-fuse, di autonomizzazione del simboli1 48


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co, di ambiente, realtà, mondo e così via.65 Usando il solo registro cognitivo non riusciremmo a capire il perché si possa amare od odiare la guida: potremmo dire, utilizzando una terminologia mcLhaniana, che il medium auto “è caldo” o “è freddo” rispetto alla persona. Analogamente per la relazione con alter (l’altro): nel momento in cui il singolo fosse capace di avere idee e intelligenza, ma non dovesse riuscire a costruire un legame affettivo con un/una partner, che significato potrebbe avere? Forse potrebbe volere dire che nella sua vita ha privilegiato soprattutto una delle due dimensioni della R. Tante persone arrivano da un terapeuta dicendo “sto male!”: che cosa potrebbe volere dire “sto male!”? Ad esempio “Ho tanto amore da dare e non so a chi darlo”. Allora si dovrebbe andare ad indagare sulla loro dimensione affettiva, sulle loro rappresentazioni: nel momento in cui si fossero rifugiati nell’assolutizzazione delle proprie dimensioni cognitive, ad esempio dedicandosi, interamente o sostitutivamente, allo studio, ad un lavoro, ad un hobby ecc. potrebbero essere divenute incapaci di attirare affettivamente gli altri. Detto in altri termini: nel momento in cui il singolo dovesse avere investito affettivamente su una R di se stesso dedicata agli aspetti cognitivi (studio, lavoro ecc.), in quel momento il sorgere del problema potrebbe essere legato al fatto di avere integralmente virtualizzato la R di sé in quanto partner affettivo. Ma se fosse giusto perché dovrebbe star male? Forse non solo per una serie di ragioni che possono andare dalla disistima di sé, alla paura dell’altro, alla timidezza ecc. ma anche perché nella R di sé posseduta ha finito con il privilegiare una sola delle dimensioni (quella cognitiva) tentando di eliminare l’altra, operazione impossibile, per cui sovente 65. Per approfondire tali concetti si rimanda al terzo paragrafo della quarta lezione. 149


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scatta la virtualizzazione e cioè quel comportamento neurobiologico, che abbiamo già affrontato, legato ai neuroni specchio: tale procedura, che è utile in numerose situazioni, finisce con il penalizzarlo perché vuole dire che sarà portato ad improntare le proprie azioni ad una simulazione sulla base di modelli esterni - comunque appresi per via amicale, neo-mediale, letteraria, di gruppo ecc. – nella cui esecuzione dimostrerà quei limiti che finiscono con l’essere trasmessi agli altri e che finiranno con l’allontanare gli eventuali interlocutori possibili, che rimangono perplessi a causa delle sensazioni percepite, spesso, anche solo a livello istintuale. Situazione per certi versi analoga per coloro che avessero privilegiato la dimensione affettiva con conseguente virtualizzazione di quella cognitiva: solo così si può spiegare la situazione di chi si innamora un numero esagerato di volte delle persone sbagliate, spesso estremamente simili l’una all’altra, e comunque accomunate dal fatto che gli attori stessi non imparano, non apprendono dalle esperienze negative precedenti proprio perché l’avere privilegiato un modello di legame affettivo a-cognitivo - secondo modelli molto in voga nelle nostre culture che tendono ad escludere tale influenza - li lascia scoperti rispetto a tale ultima dimensione. 7.2.1 Persona e personaggio Parlando dal punto di vista del singolo, cosa si vuole indicare con tali due termini? Dobbiamo stare sempre molto attenti a delimitare bene il campo di analisi di cui ci occupiamo: un conto è se si parla del rapporto singolo/ambiente, per cui è il rilievo esterno quello che viene considerato; un conto è se si parla dal punto di vista interno al singolo. Non è detto che i due livelli coincidano anche se possono avere molti 1 50


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punti di contatto, di qui la necessità di differenziare l’analisi, ricordando che nella relazionalità terapeutica si deve avere anche la capacità di tradurre i nostri concetti in nozioni di senso comune, per favorire fin dall’inizio il rapporto con l’eventuale portatore di disagio. In socioterapia, normalmente, persona è il termine usato per indicare una coincidenza tra il modo in cui il singolo rappresenta se stesso internamente e quello che mostra all’esterno; mentre con personaggio si indica il prodotto virtuale della divaricazione tra i due sistemi di RR con particolare riferimento a quello esterno, che diviene modello artificiale – autocostruito oppure appreso per via amicale, o dal gruppo di riferimento, o per via mediale ecc. un cui esempio significativo è costituito dai modelli di comportamento che alcuni appartenenti alla malavita organizzata hanno tratto dal film “Il Padrino” di Francis F. Coppola – del singolo in funzione di una propria recita non solo verso l’esterno ma anche verso se stessi. Nel momento in cui la R che un singolo ha di se stesso non fosse scissa, a quel punto, si potrebbe pensare che persona e personaggio siano coincidenti, con comportamenti contemporaneamente cognitivi ed affettivi. È la posizione di coloro che agiscono nella più completa e profonda spontaneità, o che appartengono a culture orali e, forse, anche neo-orali. Diverso è se una persona dovesse appartenere ad una cultura scissa. Da questo punto di vista potremmo avere singoli che sono completamente spostati o sul versante affettivo, e questo ci permette di comprendere perché gli appartenenti a tale tipo di cultura possano essere attratti dai personaggi affettivi, quali quelli delle telenovele, immedesimandosi in essi; o sul versante cognitivo, finendo con l’essere intellettuali puri, che sposano la dimensione cognitiva e su tale base improntano la propria vita e si organizzano a 151


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partire da essa: in entrambi i casi diventano, appunto, personaggi dei quale poi, spesso, finiscono con l’esserne, a propria volta, vittime. Occorre ricordare che, nel momento in cui ci si dovesse strutturare mentalmente in una certa maniera, potrebbe poi divenire estremamente difficile cambiare, proprio perché, di fronte al fatto di dovere cambiare vita, ambiente ecc. ci si può rifugiare o trovare trincerati dietro a schemi passati, che godono di un’accettazione automatica dovuta alla caratteristica dell’essere noti, anche se in certi casi possono essere superati e non più validi. È questo che permette di comprendere il perché un singolo possa sopravvivere a se stesso. A livello ontogenetico con persona si indica quella parte di noi istintiva o istintuale, nella quale la I e l’Inv. Aft. sono solidali; del resto occorre ricordare che anche nell’essere più artefatto, soprattutto in situazioni limite, escono fuori dimensioni, comportamenti istintuali. Persona e personaggio sono due forme organizzative comprensibili rispetto a quelli che vedremo essere i vari settori dell’organizzazione topologica del singolo: in una parte di essi si può rinvenire la situazione di fusione, in altri quella di spaccatura. Nell’uomo occidentale (nel soggetto) i settori formalmente legati alla prima sono molto ristretti, quelli legati alla seconda molto estesi. Un’avvertenza nell’uso e nell’attribuzione di tali termini riguarda il fatto di non usarli indiscriminatamente, come schemi rigidi, poiché non è detto che ciò che si dovesse rivelare appropriato per una persona lo sia anche per un’altra, oppure che ciò che si dovesse rivelare appropriato per un certo periodo della vita si debba rivelare giusto per altri periodi. In generale, occorre stare molti attenti per evitare che, aprioristicamente, una teoria o uno schema validi per un singolo vengano estesi ad altri o a periodi diversi 1 52


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della vita della stessa persona: tali concezioni devono essere rifiutate perché non deve assolutamente accadere che esse possano, eventualmente, essere fatte risalire all’influenza dei terapeuti. 7.2.2 Il personalismo di Maritain Per arrivare a definire il concetto di persona, andando per gradi, vorrei riferirmi a Maritain che, con il suo personalismo di stampo tomistico, cerca di coniugare una serie di fattori estremamente interessanti. Così, ad esempio egli: 66 - parte dalla distinzione tra individuo e persona o piuttosto tra individualità e personalità; - pone la domanda: “la società è per ciascuno di noi, o ciascuno di noi è per la società? La parrocchia è per il parrocchiano o il parrocchiano per la parrocchia?”:67 il tutto riconducibile in una riflessione riguardante il legame tra ciascuno di noi e la società; - ricorda gli errori dell’individualismo con le sue deviazioni totalitarie; - pone in risalto l’idea di un Dio bene comune, separato dall’universo;68 - rammenta la superiorità dell’intelletto speculativo 66. Maritain, J. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia, 1973, p.7. 67. Ivi, p.10. 68. “l’importanza che San Tommaso dà costantemente alla considerazione dell’ordine intrinseco e del «bene comune» del cosmo, prima di tutto per stabilire, contro il necessarismo greco-arabo, l’esistenza della Provvidenza divina, ...” che diviene una sorta di premessa per la concezione per cui “Ogni sostanza intellettuale è fatta: 1° per Dio, bene comune separato dall’universo, 2° per la perfezione dell’ordine dell’universo (...), e per essa stessa, vale a dire per l’azione (immanente e spirituale) per mezzo della quale si completa e compie il suo destino.” Ivi, p.11. 153


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su quello pratico69 per cui il secondo “dirige” verso se stessi e gli altri, mentre il primo “dirige” verso il fine della contemplazione ed unisce l’uomo alle cose divine: da tale differenziazione segue una considerazione accessoria riguardante la superiorità della vita contemplativa sulla vita politica; - distingue tra individuo/individualità e persona/ personalità, con la prima coppia riferita alla materialità, la seconda alla spiritualità;70 - per lui, poi, individualità e personalità sono “due aspetti metafisici dell’essere umano” … “con la loro fisionomia ontologica propria” non sono “due cose separate. Non c’è in me una realtà, che si chiami il mio individuo e un’altra realtà che si chiami la mia persona”;71 - fondamentale, infine, è il richiamo all’amicizia (amicizia civile),72 al bene comune73 e, soprattutto 69. “E il bene e il fine dell’intelletto speculativo sono di per sé superiori al bene e al fine dell’intelletto pratico, superiori quindi ad ogni bene comune creato, per eminente che sia, perché l’oggetto più elevato dell’intelletto pratico è un bene comune da realizzare. ( ...) la beatitudine più perfetta consiste nell’intelletto speculativo.” Ivi, pp.15-16. 70. “un polo materiale, che non concerne, in realtà, la persona vera e propria, ma piuttosto l’ombra della personalità o ciò che noi chiamiamo, nello stretto senso della parola, l’individualità; e un polo spirituale, che concerne la personalità vera e propria.” ... “È al polo materiale, e all’individuo divenuto il centro di tutto, che si riferisce il detto di Pascal: è al polo spirituale, al contrario, e alla persona, fonte di libertà e di bontà, che si riferisce il detto di San Tommaso I due riferimenti riguardano rispettivamente: una frase per cui Pascal dice che l’io è odioso. Ma San Tommaso insegna che l’uomo il quale ama Dio deve anche amare se stesso per Dio, deve amare di un amore di carità la sua anima e il suo corpo.” Ivi, p. 20. 71. Ivi, p. 26. 72. “Potremmo anche dire che la società, la sua vita, la sua pace, non possono sussistere senza l’amicizia (amicizia civile), che è la forza animatrice della società”. Ivi. p. 46. 73. Ibidem. 1 54


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all’amore.74 Vorrei, inoltre, ricordare, per affrontarla in seguito, una frase di Pascal citata da Maritain, che recita “l’io è odioso”, e che lui etichetta come “luogo comune della letteratura pascaliana” pur tentando di integrarla nel proprio pensiero.75 Infine, un punto interessante riguarda la funzione della materia definita come la radice ontologica, in linea sempre con il pensiero di San Tommaso, ciò che individua in funzione della «materia assegnata» e che distingue un atomo, una molecola, una pianta, un animale, il singolo uomo.76 7.3.1 L’autonomizzazione del simbolico Il secondo passo che affronteremo riguarda una delle considerazioni base dell’approccio socioterapeutico, più e più volte ricordata: lo sconvolgimento portato dall’introduzione della stampa nella cultura occidentale e mondiale. Le ragioni del rilievo dato a tale evoluzione comunicativa risiedono nella caratteristica di riuscire a porre il produttore di comunicazione di fronte al proprio prodotto, come merce, autonomizzandolo al punto che esso retroagisce individuando il proprio autore: l’importanza di tale passaggio è fondamentale poiché l’autonomia del prodotto richiede la sua imputazione non più secondo la tradizione generica della referenza a un’autorità legata al passato, 74. “Perché la giustizia e il diritto (...) riguardano come tali la personalità, e trasformano in una relazione tra due ‘tutti’ - il ‘tutto’ della persona individuale e il ‘tutto’ sociale ciò che altrimenti sarebbe soltanto una pura subordinazione della parte al ‘tutto’; e l’amore, assumendo volontariamente ciò che sarebbe servitù, lo trasfigura in libertà e in libero dono.” Ivi, p. 48. 75. Vedi la nota n. 70. 76. Cfr. ivi, p. 22 155


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tipica delle culture orali, ma secondo la nuova necessità dell’individuazione a partire dall’artefice. Il prodotto mediale retroagisce modificando il modo stesso in cui l’uomo crea la propria conoscenza dalla quale deriva, stricto sensu, anche la sua organizzazione interna: la relazione circolare, teorizzata da Hannerz, tra società e persona vede quest’ultima nascere all’interno di un certo contesto culturale, essendo quindi da esso determinata ma, contemporaneamente, teorizza la possibilità di una retroazione della persona rispetto alla società stessa con una propria capacità specifica di sua modifica.77 La stampa e la conseguente cultura tipografica sono le cause di un cambiamento che porta dall’uomo orale medioevale e rinascimentale a quello tipografico, a propria volta evolutivamente ipotizzabile come forma precedente a quella legata ai nuovi media: per la nostra disciplina, individuo e soggetto nascono come conseguenza organizzativa del precedente passaggio evolutivo. La tradizione viene sostituita dal riferimento bibliografico. La relazione con gli altri uomini finisce con l’essere un confronto basato sull’attribuzione di paternità rispetto alla quantità di simbolico autonomizzato nel prodotto: è quello che normalmente viene fatto rientrare nei diritti di copyright, che solo a un giudizio superficiale possono apparire come diritti puramente economici. Alle radici di tale cambiamento vi sono le caratteristiche del prodotto tipografico che: - in quanto merce, finisce con il godere di una vita propria rispetto al produttore: per questo vi è la necessità della certezza della sua attribuzione; - alla precedente organizzazione/divisione collettiva del lavoro fa seguire la durkheimiana divisio77. Cfr. Hannerz, U. La complessità culturale, il Mulino, Bologna, 1998, p. 5 e segg. 1 56


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ne del lavoro sociale: la produzione libraria crea tutta la filiera professionale legata alla ideazione, produzione, distribuzione, commercializzazione e consumo del prodotto librario, con conseguente pre-configurazione della moderna organizzazione in ruoli; 78 - permette la distribuzione planetaria di un prodotto sempre uguale a se stesso; - introduce il moderno concetto di uguaglianza a partire dal fatto che, a livello storico, per la prima volta si possono concepire due prodotti umani identici: due pagine a stampa, infatti, sono identiche, a meno di errori di stampa e cioè umani e purché abbiano lo stesso numero progressivo di pagina; - il prodotto intellettuale si può contrapporre al proprio produttore, può essere alienato, in una parola si autonomizza da esso; - diventa uno standard comunicativo non solo di trasmissione della conoscenza ma anche di sua formazione: dal momento della sua introduzione le scienze e, soprattutto, la matematica conoscono un periodo di vertiginoso sviluppo. Autonomizzazione del simbolico, secondo quanto già introdotto, vuole dire che nella società tipografica cambia la stessa capacità di progettazione: il simbolico cessa di essere, come nelle culture pre-tipografiche, un settore separato seppure appartenente all’ambito 78. Dal punto di vista nostro sarebbe forse meglio parlare di divisione sociale del lavoro, con una notazione diversa rispetto a quella classica durkheimiana proprio perché la differenza rispetto al periodo pre-tipografico non risiede tanto nel fatto che i vari tipi di lavoro vengano divisi tra gli appartenenti ad una comunità, quanto piuttosto per il fatto che la divisione venga fatta in modo verticale per cui le singole persone perdono di vista la completezza, direi artigianale, del proprio lavoro: a differenziare le due definizioni è proprio la parcellizzazione e la perdita culturale subita dalle persone addette ai vari stadi della produzione di uno stesso bene, e non solo culturale. 157


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dell’empiria, ma è come se emigrasse lungo una nuova ordinata – l’ordinata, appunto, del simbolico – spostandosi su di un piano parallelo a quello dell’empiria rispetto alla quale non si richiede più un collegamento continuo, ma solamente legami significativi e sistematici, ma comunque sporadici che allentano il legame con l’empiria stessa.79 È come se cessasse una necessità e si aprisse uno spazio quasi sconfinato all’ideazione umana: lo spazio della prospettiva e di un barocco che si afferma in parallelo con la postulazione colombiana dell’esistenza di terre al di là delle colonne d’Ercole e con la scoperta delle Americhe che fanno improvvisamente divenire il mondo sferico. Le conseguenze di quanto sopra illustrato sulla nozione di persona sono profondissime, per cui essa: - si amplia a partire dal termine strettamente legato all’esigenza di potenziamento del suono nelle culture orali della latinità: etimologicamente deriva dal latino per sonum che indicava una caratteristica della maschera lignea che veniva sì usata per contraddistinguere gli interpreti teatrali ma che aveva l’ulteriore funzione di potenziare la voce, per la forma a cono dell’apertura destinata a consentire la comunicazione con l’esterno della maschera stessa. Tale caratteristica permette di pensare ad un nuovo significato della stessa definizione di Dio non più come persona (maschera) una e trina ma come rinforzata voce ultraterrena, appunto una e trina, conseguenza di una sorta di selettiva capacità comunicativa del verbo divino; - tramite il distacco da un legame diretto con la dimensione corporea del singolo (per sonum) arriva ad indicare per mezzo della parte il tutto e cioè a partire dalla bocca, la maschera prima e, poi, l’intero interprete (l’attore), non più soltanto te79. Riprendo qui i concetti già introdotti nel paragrafo 4.3. 1 58


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atrale; - si ricicla nella sua nuova accezione di personalità (o struttura di personalità) che, nelle società della stampa, specializza il proprio significato legandolo alla soggettività: tutto sommato, secondo un’avvertenza luhmanniana, una forma organizzativa recente dell’uomo tipografico; - il termine finisce con l’indicare l’astrazione dell’uomo che permette a quest’ultimo di concepirsi, nel procedere storico, anche come individuo e come soggetto o nelle ulteriori forme organizzative che dovessero affermarsi nelle società neo-orali. 7.3.2 L’approccio socioterapeutico alla persona La nostra riflessione, che è completamente comunicazionale, parte dalla successione storica delle definizioni di persona, per puntualizzare l’importanza e l’influenza del cambiamento mediale: ebbene se all’inizio vi era l’integralità della cultura orale della latinità, che trovava nell’accrescimento sonoro della voce la propria origine, in seguito si è passati ad una quasi identificazione del termine di persona con quello di individuo. La divisione sociale del lavoro, tipica delle culture orali, si tramuta, come già ricordato, in istanza tecnica e cioè nella durkheimiana divisione del lavoro sociale, nella merce e cioè in una “forma generalizzata di organizzazione sociale nata da un tecno approccio segmentato e unilineare introdotto dalla stampa”:80 come appare da questa citazione il cam80. Quella che nasce è una “forma generalizzata di organizzazione sociale nata da un tecnoapproccio segmentato e unilineare introdotto dalla stampa che, a livello dei singoli, ha come corrispettivo individuale la disciplina come tecnologia scientifica per la creazione di corpi docili. Se l’individualità è già la conseguenza di un’organizzazione tassonomica della conoscenza - essendo, infatti, l’individuo, 159


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biamento è sostanziale, l’introduzione dell’approccio scientifico alle cui radici vi è la descrizione, come premessa per una scritturazione generalizzata di tutto quanto riguarda la conoscenza nelle nostre società in vista di una sua traduzione in termini tipografici, è la premessa per alcuni cambiamenti culturali forti: - la rappresentazione dell’uomo si parcellizza nella traduzione unilineare e, per necessità mediale, segmentata del medium tipografico; - l’introduzione di procedimenti basati sulla causalità scientifica, seguendo Bergson, richiede a monte il tempo frammentato e composito dei multipli unitari sui quali si basa il calcolo della durata mediante l’utilizzo delle moderne tecniche orologiere; - la persona si trasforma nell’in-dividuus, il non ulteriormente divisibile delle tassonomie post-cinquecentesche, al di sotto del quale si perderebbe la qualità classificatoria; - la società medesima si trasforma in un multiplo di individui, e cioè multiplo di forme non ulteriormente divisibili: il singolo, nel momento in cui entra in conflitto con i criteri ascrittivi che caratterizzavano la precedente società orale, cerca di affrancarsi da essi attraverso un inizio di diversa conoscenza (o coscienza) di sé per mezzo, come ricordato in precedenza, delle grandi biografie e dei romanzi intimisti; per definizione, uno dei tanti organismi occupanti lo stesso livello classificatorio all’interno di una tassonomia illuministica essa non è ancora soggettività poiché le manca ancora quella coscienza di sé che unica le permetterebbe di passare dallo stadio dell’individualità, in sé, alla soggettività per sé (...) lo studio scientifico del corpo, la creazione di generalizzazioni e la sua immissione all’interno di un procedimento causale portano a quella che, seguendo il pensiero di Foucault, potremmo definire come l’immagine dell’uomo postcinquecentesco, simultaneamente oggetto di analisi scientifiche e soggetto artefice del suo destino. Benvenuti, Malattie Mediali, op. cit., p. 21. 1 60


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- è il periodo dell’affermarsi di quello che abbiamo chiamato l’individualismo o la soggettività in sé; - tale fase di presa di coscienza porta al capovolgimento dell’accezione stessa del termine di soggetto che perde il significato originale (subjectus)81 per divenire l’indicatore del nuovo stato: è la soggettività per sé caratterizzata dalla coscienza di sé; - con l’introduzione della socialità si compie la lunga fase di ricucitura dei frammenti dell’uomo della cultura tipografica, del soggetto, alla ricerca di un sostituto della perduta integralità dell’oralità, della precedente dimensione collettiva. Il passo teorico successivo è legato al fatto di rendere visibili proprio i passaggi precedenti, trovandoci, oggi, nel pieno di un’ulteriore evoluzione verso uno stadio neo-mediale della comunicazione. I malesseri della nostra società sono quelli che mi hanno guidato alla riflessione precedente: nel momento in cui, in quanto terapeuta, mi sono trovato ad affrontare certi fenomeni rientranti all’interno di quelli che sono indicati come i disagi della nostra società - quali la tossicodipendenza, le crisi di panico, il disagio giovanile, le difficoltà intra ed inter-generazionali, l’anoressia ecc. - e, contemporaneamente, mi sono trovato di fronte ai limiti degli approcci tradizionali di aiuto alla persona, ho iniziato a seguire approcci diversi, quali quelli legati alla dimensione sociologica di definizione dei disagi medesimi e, conseguentemente, ad usare tecniche e metodi ad origine sociologica per affrontarli. Due esempi di tali necessità, soprattutto teoriche, sono forniti dal pensiero di Maritain, più sopra incontrato, e da quello di Bergson: - rispetto al primo sono importanti le difficoltà ricordate riguardo sia all’individualismo, del quale 81. Parcere subjectis et debellare superbos 161


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ricorda le deviazioni totalitarie; sia le difficoltà di relazione tra l’istituzione ed il singolo; sia la superiorità della contemplazione rispetto alla politica; sia la doppia dicotomia individuo/individualità, persona/personalità tra le quali, tuttavia, non vi dovrebbe essere contraddizione; sia, infine, il richiamo ad un’entità apparentemente inusuale nella riflessione teorica e cioè il richiamo all’amicizia, al bene comune e all’amore; - rispetto a Bergson, poi, vi è l’introduzione di un collegamento apparentemente di difficile integrazione quale quello di durata nei confronti della consapevolezza di sé. Importante è il richiamo alla durata: un concetto estremamente forte con il quale Bergson cerca di ricostruire in modo non più frammentario la coscienza.82 La contrapposizione diviene estremamente pregnante: coscienza contro stati di coscienza, come stati del mondo esterno, dello spazio.83 La differenza potrebbe es82. Cfr. Bergson, H. “Sulla molteplicità degli stati di coscienza. L’idea di durata”, in Bergson, H Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina ed., Milano, 2002, p. 60. 83. Rispetto alle oscillazioni pendolari: “Grazie al ricordo del loro insieme che la nostra coscienza ha organizzato, esse si conservano per poi allinearsi: insomma, noi creiamo per loro una quarta dimensione dello spazio, che chiamiamo il tempo omogeneo, e che permette al movimento pendolare, sebbene si produca sempre nello stesso luogo, di giustapporsi indefinitamente a se stesso. - Ecco, infatti, che cosa scopriamo ora provando a stabilire quale ruolo spetti esattamente al reale e quale invece all’immaginario, all’interno di questo processo poco complesso. C’è uno spazio reale, senza durata, ma in cui certi fenomeni appaiono e scompaiono simultaneamente ai nostri stati di coscienza. C’è una durata reale, i cui momenti eterogenei si compenetrano, ma ciascun momento della quale può essere avvicinato ad uno stato contemporaneo del mondo esterno e, per effetto di questo avvicinamento, separato dagli altri momenti. Dal confronto di queste due realtà si genera una rappresentazione simbolica della durata, ricavata dallo spazio. La durata assume così la forma illusoria di un mezzo omogeneo, e il collegamento fra questi due termini lo spazio e la durata è la simultaneità, che si potrebbe 1 62


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sere letta come uno scontro tra integralità e frammentazione. Si può riflettere, ad esempio, sul cosa differenzi i sessanta battiti scanditi dall’orologio in un minuto dal singolo battito: - nel momento in cui li si considerasse nello spazio si avrebbe come presenza soltanto quella dell’ultimo battito scandito, poiché i precedenti non esisterebbero più ed i futuri non esistono ancora; - nel momento in cui si introducesse la coscienza si introdurrebbe un’ulteriore dimensione che permetterebbe, al di là della simultaneità, la compresenza del passato accanto al presente.84 E forse di ipotizzare anche sul futuro. Quello che appare dalle riflessioni appena ricordate potrebbe essere letto come un’esigenza di integralità: la coscienza, con i suoi stati, diverrebbe l’esplicitazione della fase fondante la conoscenza – ricordo ancora la coscienza come parola composta dal cum, intensivo, e dal scire, sapere – della persona. È profonda l’analogia con Maritain e con il suo personalismo, come pensiero forte che cerca di superare sia la frammentazione dell’individualismo, con le sue deviazioni, sia il materialismo dell’intelletto pratico, pur essendo la materia necessaria poiché senza di essa non esisterebbe la persona: aspetti, tutti, che comunque devono, prima o poi, confrontarsi con una dimensione contemplativa esterna e separata. Il tempo e lo spazio misurabili od omogenei divengono i termini di una dicotomia che li vede contrapposti ai precedenti tempo e spazio mitici dell’oralità, definire come l’intersezione tra il tempo e lo spazio.” Ivi, p. 72. 84. Vedi nota precedente. 163


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distrutti dalla frammentazione tipografica e ridotti ad individualità e a collazioni di individualità, e, per estensione, di soggettività. Individualità e soggettività che, dopo essere stati per quasi quattro secoli i motori di un progresso folgorante, sono divenuti oggetto, a propria volta, di dubbi e di necessità di un loro superamento: a riaffiorare è la necessità di una concezione sovra-individualistica e di un’alleanza tra le persone. Tradotto in termini sociologici il dilemma si pone tra concezione frammentata della coscienza e/o suo ritorno a un’unitarietà mitica ovvero, in diretto collegamento con l’oralità della latinità, tra conoscenza forte o suo spezzettamento.85 La riflessione socioterapeutica inizia qui. Il punto importante è dato dal doppio cambiamento comunicazionale che, prima, ha portato dall’accentuazione integrale della relazionalità interpersonale dell’oralità, ad una sua concezione frammentata a stampo tipografico e, in seguito, all’ulteriore cambiamento attuale legato ai nuovi media. L’ultimo avvicendamento ha modificato la situazione precedente: quel tipo di sviluppo individualistico, oggi, sembra essere in stallo ed una serie di avvisaglie sembrano mostrare che sia in atto un ulteriore cambiamento legato al ritorno di un bisogno di integralità. Proprio a causa di tali considerazioni ho riletto il concetto di rappresentazione (R) che, per nostra definizione, è un’entità indissolubile delle due componenti che, uniche, permettono ad un sistema organico di funzionare nella propria attività simbolica di traduzione mentale degli input ambientali, di elaborazione degli stimoli, di scelta delle risposte e di attivazione 85. Interessante l’esempio riportato da Bergson per spiegare l’esigenza di questo passaggio: l’esempio è quello delle combinazioni chimiche per cui “sembra che il tutto presenti, per se stesso, una forma e delle qualità che non appartenevano a nessuno degli atomi elementari.” Ivi, p. 62. 1 64


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dell’azione. È l’investimento affettivo - o incorniciamento affettivo o imprinting - il primo motore che permette ad un organismo appena nato di iniziare la propria vita e cioè di immagazzinare le prime immagini selezionate dai sensi, per iniziare a formare e ad accrescere la propria conoscenza: nei termini della socioterapia la propria coscienza. Reinterpretando Bergson, sulla base della nostra disciplina, la distinzione tra spazio e tempo frammentati e durata, o, se si preferisce, tra stati della coscienza e coscienza, potrebbe essere letta sulla base delle due dimensioni della rappresentazione: - lo spazio verrebbe a coincidere con la I, l’immagine, poiché l’ultima oscillazione del pendolo è l’unica percepibile, le passate essendo non più e le future non ancora esistenti; - la durata è affettività; è ciò che permette alla coscienza di esistere; è l’accumulo di conoscenza, al di là del fatto che un fenomeno possa essere effimero; è sua appercezione, come chiara distinzione dall’oggetto, e cioè sua lettura e mantenimento affettivo (sia positivo che negativo), e quindi, è distinzione tra ciò che è affettivamente debole, e, dunque, facile da dimenticare, e ciò che colpisce ed è affettivamente forte, e, dunque, più difficile da scordare. Reinterpretando le indicazioni di Maritain, il sostrato organico, la materia, sarebbe la “radice ontologica” che permette di comprendere sia l’individualità, come astrazione operata nel passaggio dalle società dell’oralità a quelle tipografiche, sia i nuovi dubbi su di essa, in relazione all’ulteriore evoluzione mediale verificatasi. La socioterapia nasce proprio dall’analisi delle nuove forme di disagio che solo a prezzo di enormi riduzioni e sforzi teorici possono essere fatte rientrare nei vecchi canoni codificati dalle discipline classiche. 165


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Oggi, in particolare e come più volte posto in rilievo, molti disagi sembrano non essere più imputabili direttamente alla persona, ma a quelle sue forme evolutive specifiche, rappresentate da un’individualità e da una soggettività in condizioni di correre il rischio di essere sul punto, forse, di sopravvivere a se stesse. 7.4. La relazione sistema/ambiente Con il termine di sistema indichiamo qualsiasi «forma totale organizzata», empirica o linguistica, singolare o collettiva, riguardante sia l’ambiente (ad es. il sistema solare) che la virtualità (ad es. la coscienza collettiva). SISTEMA → ORGANIZZAZIONE Nel momento in cui un sistema è un sistema vivente esso entrerà in relazione sia con se stesso (relazione autodiretta o riflessiva), sia con altri sistemi viventi, sia con il proprio ambiente sulla base di processi di aggiustamento che si configurano come autentici processi cognitivi, messi in opera ai fini di un mantenimento della propria organizzazione (autopoiesi). Per questo in socioterapia si parla di meccanismi legati a sistemi di RR che operano sulla base di entrambe le dimensioni della R: il singolo processo cognitivo è alle radici dell’immagine (la nostra I), mentre la valutazione di utilità al mantenimento, o al detrimento, della propria organizzazione va a costituire una delle numerose sfaccettature di quella che chiamiamo la cornice affettiva (il nostro Inv.Aft.) riguardante, appunto, quel processo cognitivo. Affrontiamo, ora, la definizione del concetto di ambiente, termine con il quale si indica tutto ciò che, nel1 66


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la percezione di un sistema vivente, singolare (dell’attore) o collettivo, venga ritenuto come non avente un esterno. È una totalità (o sistema globale rappresentato così come entra nel sistema di RR posseduto) che è funzione dello spazio entro il quale un sistema opera. Nel caso di un sistema vivente umano (persona) tale concetto è fortemente legato a quello di deriva storica dei media: nel momento in cui la successione storica dei mezzi di comunicazione di massa pone a sua disposizione altrettante protesi - che consentano di ampliare quello spazio che, per analogia, potremmo chiamare spazio peripersonale esteso – parallelamente si evolve il concetto di ambiente: AMBIENTE

tutto ciò che, nella percezione di un sistema vivente umano (osservatore), non ha esterno; è funzione delle protesi via via poste a disposizione dalla deriva storica dei media.

L’oggetto d’analisi, dunque, può essere un qualunque sistema, ad esempio quello costituito dalla relazione società-individuo rispetto alla quale nascono almeno due classiche domande: cosa s’intende per ambiente interno all’individuo? Quando l’individuo può essere ambiente per il sistema sociale? Ora, nei termini della socioterapia, se per ambiente interno si indica il sistema di rappresentazioni frutto della riduzione sensiva dell’ambiente oppure autoprodotto dall’attività mentale, allora è proprio l’introduzione del concetto di R che permette di comprendere il perché l’individuo possa essere ambiente per il sistema: è lui che contiene le RR che riguardano un sistema (che come anticipato sono frutto della riduzione sensiva dell’ambiente), al quale può, contemporaneamente, appartenere. Non solo ma, parlando di individui, ci si pone già all’interno di una società 167


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appartenente ad una particolare forma evolutiva che ha fatto della soggettività la propria forma organizzatrice e che, quindi, impronta se stessa a tale concezione dell’uomo: in questo senso essa finisce con l’essere, contemporaneamente, interno della persona (nel momento in cui l’uomo è individuo o soggetto) ed ispiratrice del suo esterno (nel momento in cui impronta il sistema alla propria ideologia). In quest’ultimo caso ci si trova di fronte a quello che viene chiamato, con una connotazione linguistica, un sistema sociale, che può anche essere dotato di una propria organizzazione strutturale:86 termini che servono per indicare un’entità empirico-gestionale la cui funzione è quella di reintrodurre la dimensione collettiva, tipica della vita delle culture orali, nelle società dell’individualismo e della soggettività. È così che una serie di concetti aggregati finisce con l’acquistare un proprio significato all’interno di una relazionalità intesa come flusso comunicazionale, per cui: - il termine ruolo, indica la traduzione linguistica di comportamenti analizzati scientificamente e poi codificati in insiemi di RR che richiedono all’uomo l’attuazione di una serie predeterminata di atti e di aspettative di atti che dovrebbero divenire vincolanti, i primi, e pretese, i secondi. Del resto l’analogia forte è rinvenibile nel rapporto che lega 86. Luciano Gallino nel suo dizionario definisce il Sistema Sociale come il “Complesso di posizioni o ruoli, occupati o svolti da soggetti individuali o collettivi i quali interagiscono mediante comportamenti, azioni, attività di natura specifica (economica, politica, educativa, religiosa, sportiva, ecc.), nel quadro di norme regolative e di altri tipi di vincolo che limitano la varietà degli atti consentiti a ciascun soggetto nei confronti degli altri. La trama dei rapporti e delle relazioni relativamente stabili, indipendenti dalle identità degli individui o collettività coinvolti nel Sistema Sociale a un dato momento, che derivano da tali norme, costituiscono la struttura del sistema ( ...).” Gallino, L. Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 1978, p. 607. 1 68


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copione teatrale e attore; - quello di autopoiesi, indica la capacità da parte di un sistema vivente di porre in essere comportamenti autoriproduttivi a partire, ad esempio e per l’uomo, da formulazioni rappresentative e cioè appartenenti ad un approccio linguistico già orientato affettivamente; - quello di morfostasi, indica la capacità di un sistema vivente di non modificare il proprio equilibrio anche in presenza di perturbazioni esterne. In questo senso in una persona87 sia la comprensione dello stimolo, che può avere la più varia natura, sia l’elaborazione della risposta, a parte pochi ambiti a dominio istintuale, risultano essere soprattutto legati a processi di natura linguistica - resi a propria volta più o meno automatici - che interpretano, e cioè traducono terminologicamente entrambi (stimolo e risposta) al fine di arrivare all’attuazione della risposta, come esecuzione di un comando neuronale, appunto, a origine linguistica; - quello di morfogenesi, connota un processo analogo a quello precedente il cui scopo non è semplicemente reattivo, per mantenere una particolare forma organizzativa a fronte di perturbazioni, ma che è anche innovativo a partire dalle conoscenze acquisite, possedute o, appunto, create ex novo. 7.5 Per una definizione comunicazionale della diade disagio/guarigione Prendiamo, come occasione di riflessione, il concetto di disagio, a partire da quanto più volte ricordato, e cioè la nascita e l’evoluzione della soggettività con le sue, per allora, nuove forme di sviluppo per arrivare al suo attuale periodo di, ipotizzabile, obso87. Che, ricordo, è un sistema vivente gestito ed orientato da sistemi di RR. 169


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lescenza personale o collettiva: cerchiamo di capire come un organismo possa entrare in uno stato di o avere un disagio. Una prima forma per provare disagio è quella che coinvolge direttamente organi o parti del corpo, ad esempio il fatto di essere monchi, con le eventuali limitazioni dovute al fatto di essere portatori di handicap e le conseguenti eventuali ricadute negative a livello delle rappresentazioni di sé. Gli altri tipi di disagio che sorgente hanno? Per la socioterapia, tutte le altre forme di disagio da lei affrontate, riguardano le dimensioni mediatamente psichiche e cioè relazionali, estetiche o mentali, non riferibili a fattori immediatamente organici pur essendovi, con questi ultimi, una mutua, strettissima influenza: il tutto, poi, può comportare anche difficoltà a livello della psiche. La nostra disciplina si occupa di quelle patologie che sono legate alle rappresentazioni e ai sistemi di rappresentazioni di una persona che non si trova bene in un certo ambiente perché ha un’organizzazione interna che gli manda messaggi insoddisfacenti.88 Al centro dell’interesse di tale disciplina vi è il sistema organizzato di RR della persona e la relazione che lo lega all’ambiente: in questo senso si può arrivare ad una nuova definizione comunicazionale di disagio per cui: DISAGIO → alterazione che avviene all’interno di una persona, intesa come un sistema complesso di co88. Un punto di cautela riguarda i motivi per i quali una persona possa trovare soddisfacente/insoddisfacente una situazione e, infatti, il passaggio successivo ad una simile dichiarazione riguarda la valutazione in termini etici, morali del motivo della soddisfazione/insoddisfazione poiché ci si può soddisfare vessando persone o andando in montagna ... : evidentemente le due situazioni sono moralmente ed eticamente diverse.

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municazione, riguardante la capacità di comprensione delle informazioni - interpretate come sorpresa,89 come novità comunicative a origine sia interna che esterna - rispetto alle quali si verifica una malformazione del senso come capacità, a origine sia organica che culturale (mentale), di riduzione e mantenimento della complessità.

Tre, quindi, le componenti del concetto di disagio che vanno dalla concezione della persona come sistema complesso di comunicazione; all’informazione che, seguendo il pensiero di Luhmann, viene concepita come novità comunicativa che può riguardare sia un nuovo e sorprendente messaggio proveniente dall’interno del corpo (ad esempio un dolore riguardante un improvviso bruciore di stomaco, un mal di testa inatteso ecc.) o dall’esterno (ad esempio una nuova interpretazione di un fenomeno sociale); al concetto di senso da intendersi come capacità di ridurre (e cioè di rendere più semplice) una situazione o una nozione complessa avendo, tuttavia, l’altrettanto importante “capacità” di mantenerla (e cioè di non perdere l’entità della portata conoscitiva della situazione complessa): tale concetto diviene più semplice e comprensibile nel momento in cui si introduce il concetto di rappresentazione, per cui la complessità si riduce poiché si costruiscono rappresentazioni sempre più adeguate - sia dal punto di vista cognitivo che da quello affettivo – alla comprensione della situazione o all’intervento o all’azione; e la si mantiene perché si possono immagazzinare quante si voglia rappresentazioni nella memoria, anche se non hanno dato origine ad alcuna azione. Il disagio si ha nel momento 89. “L’informazione è quindi sempre (in modo anche minimo) legata alla sorpresa.” Habermas, J.; Luhmann, N., Teoria della società o tecnologia sociale?, Etas Libri, Milano, 1973. 171


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in cui l’incapacità di ridurre la complessità (è quella che qui viene chiamata la malformazione del senso) impedisce al singolo di comprendere la propria situazione e/o di progettare una risposta, provocando in lui un’alterazione dovuta al fatto di sentirsi preda di una sensazione di forte difficoltà, fino all’impotenza. L’utilizzo delle rappresentazioni costruite e memorizzate, inoltre, va ad implementare gli archivi, o repertori, e cioè elenchi di motori di azioni possibili, più o meno organizzate (dizionario-R). Riprendendo il concetto di malformazione del senso, occorre ricordare che esso è fondamentale per comprendere la definizione della nozione di disagio: un portatore di handicap in carrozzella percepirà la propria deambulazione come estremamente complessa in presenza di barriere architettoniche e la principale diminuzione possibile sarà legata al loro abbattimento, una misura che riduce la complessità pur mantenendola come repertorio all’interno della sua mente. Analogamente, una qualunque malattia provocherà un aumento della complessità per colui che dovesse averla e solo farmaci studiati ad hoc sulla base di teorie scientifiche (sempre composte di RR) potranno alleviare il suo disagio. Situazione simile per colui che dovesse soffrire, ad esempio, di crisi di panico: per lui affrontare l’esterno diviene difficile ed estremamente complesso, in coincidenza con la paura che possano scattare tali crisi; sarà sempre in ascolto di se stesso e dei propri stati d’animo, sempre sul chi vive, innescando meccanismi di circolo vizioso che non faranno altro che attivare l’ansia nel dubbio che essa possa arrivare e proprio per questo possono finire con l’alimentarla. La malformazione del senso, inoltre, può dare origine a disagi organici, che possono portare anche alla morte, o a disagi culturali, che possono portare a disfunzioni mentali gravi. 1 72


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Questo ci permette di avanzare la definizione di: GUARIGIONE → stato della persona conseguenza di un’accettazione fisica o mentale di un rimedio. Approfondendo quanto già introdotto, numerosi sono gli aspetti coinvolti nella diade disagio/guarigione riguardanti la persona, quali il fatto di: - pensarla come un sistema complesso di comunicazione: termini con i quali si vuole mettere in risalto la società in quanto prodotto comunicazionale (singolare e/o collettivo) di quella che, nella nostra disciplina, viene definita la necessità biologica della relazione; - considerare che essa possa subire alterazioni nella capacità di comprensione di se stesso e/o dell’esterno, e cioè rispetto alla capacità di operare una riduzione sensiva dei corrispondenti ambienti interni/esterni, e che essa sia strettamente legata all’informazione definita sia come novità comunicativa, sia all’interno del succedersi storico dei vari media: - appartenere ad una società conseguenza di costruzioni comunicazionali, dovute ad interazioni tra creature della stessa specie (uomo, nel nostro caso) mediate dalla comunicazione pre-verbale prima, e, in seguito, dal linguaggio, secondo la grande lezione di George Hebert Mead; - scontrarsi successivamente con l’informazione, come comunicazione sorprendente perché nuova, che deve essere decodificata, altrimenti aumenta le difficoltà per il singolo contribuendo ad innalzare la percezione di se stessa e/o dell’esterno nei termini della complessità. Uno stato che può essere alleggerito solo nel momento in cui venisse affrontato in termini conoscitivi: tutto questo rappre173


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senta per la persona quel processo, già incontrato, che prende il nome di riduzione e contemporaneo mantenimento della complessità; - arrivare ad un possibile non superamento dello scontro con l’informazione con una conseguente malformazione nel senso che può, a propria volta, essere definita come una premessa per lo svolgimento dell’azione: ad essere chiamata in causa è l’organizzazione rappresentativa dell’esperire vivente nella quale si scontrano rigidità e capacità innovative che impediscono/favoriscono il raggiungimento di un modello soddisfacente, dal punto di vista della comprensione di un certo fenomeno, ai fini dell’ideazione ed eventuale esecuzione dell’azione di risposta. Il singolo, inoltre, è conseguenza delle generazioni precedenti e premessa per le prossime: conseguenza perché, secondo gli insegnamenti dell’antropologia, ognuno di noi nasce all’interno di una cultura e di una società; premessa affinché ognuno di noi abbia la possibilità di intervenire su tale cultura e su tale società, a seconda delle proprie capacità. Importante è il passaggio di contenuti dai genitori ai figli, per mezzo di insegnamenti da intendere come tecniche intergenerazionali (ma possono essere anche intragenerazionali) per velocizzare l’apprendimento da parte delle nuove generazioni (o dei nuovi adepti) della riduzione sensiva dell’ambiente che altrimenti obbligherebbe ogni singolo a ripercorrere integralmente i passi evolutivi già realizzati dai propri predecessori per arrivare concretizzare quello che può essere definito un biologico adeguamento alla collettività. Le lunghe riflessioni riportate nella presente lezione possono terminare riprendendo la frase ricordata di Pascal «l’io è odioso» che, forse, acquista un signi1 74


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ficato diverso dall’essere un semplice luogo comune: si potrebbe pensare che il grande pensatore francese, vissuto proprio nella prima metà del XVII secolo (muore nel 1662), avesse semplicemente percepito la portata distruttrice dell’individualismo rispetto alla cultura collettiva precedente e che quindi potesse avere inquietudini rispetto ad esso. Forte l’analogia con il dubbio amletico che potrebbe essere interpretato facendo riferimento all’essere come l’essenza della precedente cultura orale, a quel tempo ancora forte, per cui il non essere avrebbe potuto indicare, rispetto alla persona, il nuovo modello comunicazionale a stampo meccanico (tipografico) che si andava allora affermando.

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Lezione VIII

8.1 Le vie di uscita dalla soggettività Soggettività e socialità – quest’ultima come ambito di recupero di quella dimensione collettiva negata nel momento di nascita dell’individualità – divengono i poli culturali di uno sviluppo che, oggi, provoca nelle persone almeno tre tipi diversi di risposte: Le risposte alla soggettività: Accettazione/condivisione Le vie possibili rispetto alla soggettività

Rifiuto che porta a situazioni particolari quali quelle di: dropout, barboni, hippy, alcolizzati, tossicodipendenti ecc.

Obsolescenza verso una nuova organizzazione della persona

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Nelle società contemporanee, si assiste a movimenti che, più o meno esplicitamente, risultano caratterizzati da una sorta di polarizzazione tra accettazione acritica e messa in discussione istintuale e/o generazionale della soggettività, e tale atteggiamento sembra crescere notevolmente. Due sono le linee di analisi possibile: - seguendo Durkheim, occorre prestare attenzione all’aumento dei casi di rifiuto della soggettività, spesso più istintuale che progettato: nel momento in cui dovesse superare i limiti fisiologici che un certo sistema è in grado di tollerare potrebbe provocare un collasso del sistema stesso; - un problema per certi versi analogo potrebbe essere determinato da un aumento delle situazioni non spiegabili rispetto alla soggettività, come corpus teorico, occorre infatti ricordare che per le società della soggettività, quest’ultima è anche un criterio organizzativo, uno standard di riferimento per cui è morale ciò che va a favore del suo criterio ordinatore (la soggettività stessa), è immorale o amorale ciò che è contro o sfavorevole ad esso. Con la stampa si ha l’autonomizzazione del sistema di RR e le nostre costruzioni mentali e culturali, perdendo la necessità di un immediato riscontro empirico, diventano interamente virtuali. Nell’oralità (al livello al livello zero della virtualità), come tante volte ricordato, c’è ancora con-fusione, le Rappresentazioni non sono ancora differenziate nelle loro componenti, l’arte non era separata, il museo pubblico e la galleria d’arte non erano ancora stati creati come corpi autoreferenti e staccati; concepibili sono il luogo di culto, il castello, i luoghi collettivi o abitativi che devono essere integralmente accettabili e da ogni punto di vista, dimensione estetica naturalmente inclusa. 1 78


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Prospettiva e stampa diventano i pilastri di una progettazione che permette di raffigurare le tre dimensioni su di un piano, di progettare, di rappresentare edifici o corpi umani o sue parti, analogamente a quanto fa Leonardo da Vinci che concepisce simbolicamente prima di realizzare i propri progetti, avviando l’uso dell’astrazione scientifica, anche se si tratta di un virtuale ancora molto vicino all’empiria, al punto che nelle sue rappresentazioni è difficile riuscire a distinguere esattamente tra le due. Nel momento in cui nasce il piano simbolico autonomizzato, da quel momento in poi una mole crescente di lavoro non si svolgerà più a livello empirico, ma si svolgerà sulle rappresentazioni riguardanti i fenomeni: si esce dal virtuale di livello zero e si entra progressivamente in quello di primo livello. Nella nuova prospettiva, quando spunta un’innovazione o nasce una nuova teoria sembra perdersi completamente la dimensione collettiva: è lo scienziato, il soggetto che la costruisce; è lui che proietta la sua teoria sull’ambiente e, in tal modo, costruisce una realtà – quello che in socioterapia viene chiamato anche un ambiente dedicato - e cioè una partizione nell’ambito dell’empiria, conseguenza e proiezione di un’organizzazione simbolica. Se si ha bisogno di ferro, si organizza un processo produttivo nell’ambiente e si setaccia il terreno, lasciandolo quasi sempre degradato, per tirar fuori quello che serve. In questo modo si modifica, in maniera progressivamente sempre più profonda, radicale e distruttiva, l’ambiente stesso. I processi ideativi vengono organizzati in termini sempre più simbolici, occorre ricordare che nel ‘500 e nel ’600 l’aritmetica e la matematica esplodono in tutto il loro vigore.90 Si ragiona in primo luogo a livel90. A tale proposito vedi anche Benvenuti “La nascita dell’approccio quantitativo alla conoscenza” in Benvenuti, L.; Piazzi, G.; Roversi, A., Argomenti di sociologia, Patron Editore, 1977. 179


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lo di una virtualità che, solo in seguito, viene connessa all’ambiente con una serie di collegamenti, detti anche fili di connessione tra teorico ed empirico, che permettono di costruire le varie realtà (o ambienti dedicati) che modificano l’ambiente, in alcuni casi in modo radicale e, in tanti altri, in modo terribilmente distruttivo. La realtà del muratore è molto differente da quella dell’ingegnere: il primo, probabilmente, non sa nulla di teoria delle costruzioni, il secondo, forse, non riesce a mettere due mattoni uno sull’altro. In socioterapia, la realtà è la percezione di ciò che è stato elaborato nel piano del simbolico (o piano delle RR) e che, poi, viene proiettato sull’ambiente: dal simbolico autonomizzato si progetta sulla base di RR dalle componenti distinte, ma non scindibili, mentre quelle dell’oralità erano con-fuse - e cioè senza distinzione tra I e Inv.Aft. - ed ancora immerse nell’empiria. Le proiezioni, tuttavia, pur potendo provenire dalle stesse organizzazioni teoriche, sono legate ai singoli ideatori: è questo che riesce a spiegare perché possiamo avere il concetto di realtà come ente teoricamente intersoggettivo mentre, di fatto, può non essere necessariamente condiviso e può quindi, essere frutto di visioni singole. Infatti la realtà che abbiamo noi, come società occidentali, può diventare intersoggettivamente accettabile solo se conseguenza di insiemi di RR da noi stessi condivisi che, una volta proiettati sull’ambiente, diano origine a riscontri simili in quanto convenzionalmente preaccettati. Ciò, naturalmente, non è, o non dovrebbe essere, vincolante per le altre culture, a meno di relazioni basate su di rapporti squilibrati di forza. Dunque, se ci sono più persone che condividono lo stesso approccio culturale, e cioè nel nostro caso la soggettività, allora le loro proiezioni sull’ambiente pur essendo diverse, correranno il rischio di essere simili, e a volte molto simili: ma se la soggettività fos1 80


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se in crisi, e cioè sopravvivesse a se stessa diventando ideologia, allora la persona che agisce potrebbe non essere più un soggetto, o esserlo solo in parte. Questa considerazione permette, forse, di comprendere la posizione di tante persone, giovani e non più giovani, che in nome di un rifiuto o di una contestazione finiscono, ad esempio, con il non dare più significato ad un tipo di lavoro quale quello sedimentato nelle nostre società. Il singolo potrebbe finire con il non capire perché dovrebbe lavorare senza un vero interesse, stancarsi (non a caso il lavorare viene indicato con il termine di faticare, in alcune regioni del sud del nostro paese) e, infine, andare in pensione e morire: potrebbe decidere di vivere facendo il furbo ed approfittando di tutte le opportunità offerte dalle società di appartenenza, senza essere disponibile a condividerne i costi; oppure decidere di vivere ai margini di essa rinunciando a certi vantaggi personali per fare il vagabondo, il dropout. La realtà di un vagabondo è diversa da quella nostra personale: tra le nostre possibilità teoriche (mondo) c’è anche quella di essere vagabondi, ma è una possibilità per alcuni del tutto teorica (resta all’interno del simbolico). Ad esempio al piano del simbolico appartengono tutti i giochi come le varie lotterie legate ad estrazioni, al calcio o ai grattaevinci ecc.: per la sola persona che vince (o per le poche) c’è un filo che collega le potenzialità del sogno all’ambiente, per gli altri milioni, che hanno concorso, tale collegamento resterà un’illusione. Per questi ultimi il filo, in effetti, è inesistente, perché ci sono pochissime probabilità, su milioni, di vincere e cambiare la propria vita. Dove si situa l’arte? Abbiamo visto come inizialmente a livello z0 vi sia una con-fusione tra le due subvariabili della R - un piano che ha tra le proprie caratteristiche anche quella riguardante il fatto di essere completamente immerso nell’empiria – sub-variabili 181


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che noi differenziamo solo per ragioni analitiche, ebbene la dimensione estetica è intimamente legata ad ogni aspetto della vita e viene soffusa in ogni suo aspetto. Verrebbe quasi alla mente un paragone biologico con il polipo che sembra decorare la propria tana con conchiglie ed oggetti vari; o con le splendide livree che caratterizzano tanti organismi del nostro pianeta. Dopo il distacco tipografico, la situazione si rimescola e uno dei motivi per cui nelle nostre culture le persone possono stare male può, proprio, essere dovuto al fatto che noi agiamo come se fossimo in una situazione di separazione tra I e Inv. Aft.: lo stare male mentale - in massima parte e a meno che non venga gestito all’interno di particolari filosofie di vita o di deviazioni – implica uno stare male anche fisico, e viceversa. Tuttavia la scienza o la conoscenza moderne si comportano come se, a livello del simbolico autonomizzato (virtualità del primo ordine), questo tipo di spaccatura fosse vero, e ciò significa che si utilizzerà o solo razionalità scientifica (scienza della natura o scienze nomotetiche), che privilegia la dimensione cognitiva, o solo affettività (scienze idiografiche o il mondo di tutte le varie arti), per spiegare il benessere o il malessere. Si costruiscono ambiti di conoscenza che sembrano prescindere dall’unità tra I e Inv. Aft.: se si agisce in situazione di separazione, si agisce come se le rappresentazioni fossero collassate o sulla I o sull’Inv.Aft. Quando, ad esempio, contrapponiamo le scienze della cultura a quelle della natura commettiamo un grosso errore perché un quadro è un prodotto cognitivo esattamente come lo è una teoria matematica e, viceversa, un matematico investe in modo fortemente affettivo sulla proprie teorie, anche se troppo spesso le trasmette dando l’impressione di un’assenza di affettività. 1 82


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In concreto nell’ambiente ci si muove in un’altra maniera, se ad esempio andiamo ad abitare in una casa tecnologicamente perfetta ma orribile, ci abitiamo male; analogamente, ci si può chiedere perché rispetto a molte case popolari non si interviene con progettazioni particolari che, forse, con un aumento di spesa relativamente piccolo, potrebbero diventare più gradevoli rispetto a quanto non siano in effetti, mentre lo diventano solo se vengono modificate e fatte proprie da chi ci abita: perché? Proprio perché la tecnologia non è neutra, e questo, nei nostri termini, vuole dire che non è vero che sia an-affettiva, mentre è, invece, estremamente affettiva, anche se a valenza negativa, nel caso in cui fosse sgradevole. I mobili antichi, ad esempio, soprattutto quelli rimasti, erano, per allora, sia belli che funzionali, al di là della patina data loro dal passare del tempo, esattamente come molti mobili attuali di pregio che sono concepiti belli e funzionali. Un passaggio importante è quello della proiezione: il reale è, comunque e sempre, una costruzione del singolo, proiezione della particolare forma organizzativa da lui posseduta (e di cui lui subisce le conseguenze per primo, dovute al particolare tipo di organizzazione che lo impronta). Tant’è vero che l’attuale società della soggettività sembra privilegiare la riduzione di tutto ai puri termini economicistici, a fronte di una crisi quasi generalizzata di tutte le altre forme referenziali possibili, quali i valori, la fede, la giustizia ecc. Lo spirito imprenditoriale delle nostre società, ad esempio, che è conseguenza della soggettività, localmente (o sempre più globalmente) ne diviene la premessa e cioè più di una realtà, che sfocia in una modalità totalizzante di lettura dell’esterno e dell’ambiente. Altra caratteristica delle rappresentazioni, da non scordare, riguarda il fatto che, nelle nostre culture, esse sono, appunto, rappresentazioni (RR) e cioè non hanno nessun legame diretto con l’ambiente, siamo 183


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noi a creare i legami. Se una persona sta male perché si vede brutta, cosa vuol dire? In un’altra cultura una donna grassa è il massimo, nella nostra no, o lo è per relativamente pochi. Il corpo non ha nessun tipo di problema, ma se la rappresentazione della persona è grasso=brutto allora sarà spinta a fare una dieta, più o meno, terrificante: potrebbe diventare anoressica ed anche morire. Perché? Perché le RR, potendo essere possibili motori d’azione, possono finire, appunto con l’esserlo, dando il via ad azioni conseguenti. La socioterapia deve andare a pescare lì: se una persona prova un disagio di fronte al proprio corpo, significa che in qualche forma e in qualche maniera è in difficoltà con il sistema di RR che lo riguarda e se intervenissimo solo sul sintomo, e non sul suo sistema di RR, il disagio, come stato alterato di una persona, essendo fungibile nelle forme in cui si manifesta, correrebbe il rischio di spostarsi semplicemente su di un altro aspetto della vita. È solo una modifica delle RR che può portare ad una modifica dei comportamenti, anche se tale scopo può essere raggiunto in diverse maniere, ad esempio utilizzando l’addestramento disciplinare, ad accentuazione mentale o corporea. Quest’ultimo approccio - pur essendo solo apparentemente parziale, vista l’indissolubilità della R, per cui l’agire sull’una coinvolge automaticamente l’altra – deve, tuttavia, essere utilizzato con cautela perché dà risultati spesso scarsi o controproducenti se applicato a situazioni non scisse: persone appartenenti a culture diverse, non aventi al proprio interno schemi disciplinari, di solito riescono solo ad assoggettarsi ma non a capire il discorso disciplinare; oppure possono ribellarsi, fino alla morte; oppure ancora possono decidere di lasciarsi morire per non essere obbligate a situazioni che sono al di fuori della loro cultura e quindi dalla loro stessa capacità di comprensione automatica, come ci insegnano 1 84


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storicamente le esperienze di tanti popoli che si sono scontrati con il colonialismo. Del resto, i limiti dell’approccio disciplinare alla vita vengono posti in rilievo da tutta una serie di conflitti che si creano anche nelle persone appartenenti alle nostre culture quali, ad esempio, quelli che vengono analizzati dalla psicoanalisi. Tale teoria, dal punto di vista della socioterapia, è importante perché, comunque, mostra l’esistenza di disagi che vengono da noi interpretati come conseguenza dell’opposizione posta dai corpi alla pervasività di un’organizzazione simbolica ad accentuazione cognitiva quale quella a stampo disciplinare. Strano destino quello degli uomini delle nostre civiltà che, per larga parte della loro vita, sono immersi nella soggettività, in una virtualità che finisce con il pervadere ogni atteggiamento, facendoli sentire comunque artefici della propria esistenza, o colpevoli della non realizzazione delle loro potenzialità e questo fino alla vecchiaia. Nel momento in cui il passare del tempo presenta il conto solo allora, spesso, la persona si accorge di avere un corpo; solo allora si accorge di avere vissuto in una virtualità che lo ha reso incapace di affrontare la decadenza fisica alla quale dovrebbe essere in grado di contrapporre uno stato di conoscenza e di saggezza tali da permettergli di mantenere un ruolo e una funzione all’interno del proprio contesto, virtualmente immerso nel simbolico di primo livello, solo allora, più o meno improvvisamente, il soggetto vecchio si accorge di avere un corpo, un corpo non più giovane, un’onnipotenza spuntata che lo porta a vivere l’ultima parte della propria vita come fosse una non-vita, a rifugiarsi in una cura ossessiva di sé e della propria salute: troppo spesso nelle nostre culture gli anziani finiscono per parlare solo della propria salute e, al massimo, mostrano interesse per le malattie altrui, ma sempre in rapporto alle proprie. 185


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Sulla base della nostra cultura giovanilistica si finisce con il considerare l’anzianità come una malattia, uno stato di inferiorità più o meno accentuato nel quale il decadimento della vita mentale sembra essere ineluttabile e viene sostituito da un rifugio/recupero di fisicità, da fissazioni in termini simbolico/sostanziali sul corpo: si parla soltanto dei propri e degli altrui malanni, malattie ecc.; si parla di chi non c’è più, dei morti come fossero viventi, facendoli diventare mitici e fonte di ogni stato affettivo, positivo o negativo. L’anziano finisce, sovente, con il tornare ad uno stato comunicativo legato all’oralità, secondo quel fenomeno che viene chiamato nelle nostre culture dell’analfabetismo di ritorno. La cura ossessiva di sé sembra sostituire la soggettività per sé (sul piano simbolico), per cui non si avrebbero più certi tipi di comportamento perché non ci si deve più affermare come soggetti. L’anziano, risorsa preziosa delle culture orali, si trasforma nel vecchio delle nostre culture, e cioè nella persona superata, secondo lo schema della soggettività, proprio nel momento in cui non ragiona più secondo lo schema dell’affermazione di sé. Nelle culture orali l’anziano è depositario di cultura, e suo dispensatore. È un saggio. Non è altro da sé e la sua morte non provoca solo un dolore affettivo per una mancanza, ma è un impoverimento di tutta la comunità. L’anziano, nel momento in cui viene considerato e si sente superato, esce dalla soggettività attiva mostrandone, a livello personale, i limiti esattamente come una parte delle nuove leve - i giovani – praticando una diffidenza crescente ne mostrano la crisi a livello culturale e generazionale.

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8.2 Simbolico e immaginario Un passaggio importante può servire per comprendere quelle che possono essere considerate autentiche transizioni culturali sia nella vita del singolo che nelle situazioni intergenerazionali. La domanda alla base di queste transizioni – riscontrabili, dalla nascita all’anzianità, in almeno tre/quattro periodi nella vita delle persone appartenenti alle nostre società – riguarda proprio la nostra cultura e in particolare quel fenomeno che, all’inizio, coinvolge la virtualità di primo e di secondo livello e che abbiamo chiamato dell’autonomizzazione del simbolico, un fenomeno che finisce con l’essere il fattore determinante di tutta una serie di sviluppi successivi. Occorre partire dal segno, come traccia ambientale, che deve essere interpretato e al quale occorre dare un significato e cioè deve essere inserito all’interno di uno o più sistemi teorici di riferimento (teoria/e), rispetto ai quali, soltanto, assume un significato. Il simbolico, quindi, nasce dalla mentalizzazione di tale traccia e dal suo inserimento in un universo di significato che può riguardare una dimensione prelinguistica, oppure essere tradotto in termini linguistici. La riflessione successiva riguarda il legame tra simbolico e rappresentazione (R): a tale scopo occorre rifarsi a quanto già introdotto rispetto alla cognizione come processo biologico che, unico, permette ad un organismo di vivere e di rapportarsi con il proprio ambiente, per farlo diventare ambiente interno (è quel fenomeno che viene chiamato di introiezione), al fine di porre in essere meccanismi di retroazione destinati, appunto, a permettere di nutrirsi e di perpetuare la vita stessa. In caso di insuccesso, infatti, per l’organismo ci potrebbero essere disagio e/o morte. Alle radici della retroazione vi è la costruzione di 187


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RR: nel momento in cui mi rappresento l’ambiente e lo faccio divenire ambiente interno, posso elaborare la risposta. È per questo che, in socioterapia, la R è un possibile motore di azione: il che vuole dire che nel momento in cui investo affettivamente sull’immagine, dovuta alla riduzione sensiva, decido anche sulla sua natura rispetto alla mia sopravvivenza/benessere/ disagio, e quindi cerco di scegliere la migliore combinazione possibile di risposte (ancora una possibilità di scelta, rispetto all’azione, a partire da un bilancio sulla base della dimensione affettiva e, dunque, a seconda dell’appetibilità di quanto ridotto sensivamente) da dare a tale situazione. Nella retroazione, poi, l’insieme delle RR possedute diviene anche l’ambito di scelta tra i possibili motori di azioni rispetto alla singola situazione o al singolo insieme di circostanze.91 Alle radici della R, quindi, vi è il fatto che essa sia contemporaneamente una modalità di formazione della conoscenza e la premessa per il suo utilizzo in un certo ambiente, ai fini di un agire in modo rappresentativamente razionale rispetto allo scopo: il che significa che dovrebbe essere rappresentativamente congruente e cioè congruente sia rispetto alla dimensione cognitiva che rispetto a quella affettiva. In tal senso, è l’ambito dell’intervento terapeutico che dovrebbe agire, appunto, sulle RR sia rispetto ai criteri di loro formazione, come ambito dell’inserimento in un universo di significato, che del loro utilizzo, come criterio empirico, di direzione dell’azione pragmatica, eticamente corretto. 91. È necessario distinguere tale concetto da quello, molto simile, di motore di azione possibile: quest’ultimo si dovrebbe già configurare all’interno di una valutazione rispetto ai valori - religiosi o laici - che, unici, permettono di scegliere tra i possibili motori quelli che siano moralmente ed eticamente ammissibili al di là di ogni valutazione legata all’autoreferenza. Questo vuole dire che tutto ciò che risulta possibile a partire dall’autoreferenza deve essere sottoposto ad un giudizio etico sulla base di una referenza ai valori. 1 88


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A titolo esemplificativo una situazione pregnante potrebbe essere quella di un’impronta nella neve: ai fini della sopravvivenza è importante sapere se essa sia di esseri umani o animali, di un orso affamato o di un umano in difficoltà; o di una specie quasi estinta ecc. A una persona poco o per nulla esperta essa, probabilmente, finirebbe con il fare semplicemente parte di un esterno a scarso rilievo; per il cacciatore o per l’esperto di tracce o per un soccorritore, al contrario, finirebbe con l’avere un forte significato proprio perché essi la interpretano sulla base delle proprie conoscenze; per un etologo, infine, essa potrebbe rivelare l’esistenza di un animale prezioso per la conservazione della sua specie. L’analisi delle tracce e la loro interpretazione - come processo per la definizione di tutti i possibili sistemi di RR in merito - è diversa dal processo decisionale che porta a scegliere un percorso di intervento piuttosto che un altro, come scelta tra i diversi sistemi di RR come motori d’azione possibili.92 In questo esempio, traccia e simbolo sono fortemente interrelati, solidali al punto da essere non facilmente distinguibili: questa è una caratteristica di tutta la conoscenza precedente all’introduzione della stampa. In essa e per essa, costruzione e trasmissione sono intimamente legate, al punto che anche il libro amanuense può difficilmente prescindere dal tramite umano. Situazione completamente diversa con-e-dopo la stampa. Segno e simbolo si autonomizzano l’uno dall’altro. La semplicità del domandare nel rapporto viso a viso o del premettere le regole (amanuensi) di interpretazione di quanto scritto, viene sostituita dalla specializzazione del linguaggio e dall’ermeneutica letteraria, come disciplina ad hoc, destinata alla de92. Vedi nota precedente. 189


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codifica dei messaggi tipografici, per cui la scoperta del significato diviene un’attività autonoma. Quanto scritto finisce con l’assumere una vita indipendente rispetto allo scrittore, ed anzi gli si può contrapporre proprio in virtù della specializzazione del fruitore. Lo scritto tipografico ad ogni lettura diversa è come se rinnovasse la propria caratteristica segnica in virtù della singolarità dell’esperienza posseduta da chi legge, che è differente da quella di ogni altro lettore-consumatore, o di una possibile evoluzione storica delle consapevolezze in una stessa persona. Nasce il critico, come figura esperta, nella lettura specialistica di uno o di pochi prodotti che vanno da settori singoli della produzione tipografica ad ogni altro frutto nei diversi campi di esercizio del lavoro intellettuale: pittura, scultura, cinema ecc. Il simbolico, quindi, viene definito dalla nostra disciplina a partire da un’organizzazione teorica e solo all’interno di essa. L’immaginario è qualunque prodotto mentale svincolato dall’inserimento in un ambito teorico determinato, che non sia l’immaginario medesimo. A livello di senso comune in quest’ultimo caso si parla di dimensione simbolica ma il collegamento è con la fantasia, con l’assenza di sistematicità rispetto a tutto ciò che è esterno allo stesso ambito fantastico, con un interno che si presenta come coerente ma privo di riscontri empirici che non siano di pura somiglianza, caratteristica questa introdotta per rendere più verosimile la costruzione immaginaria ma che, di sicuro, non la rende più aderente all’empiria. Un richiamo immediato è alla categoria simile del mitico. In socioterapia tra i due termini (immaginario e mitico) vi è una differenza comunicazionale ancor prima che culturale: la dimensione immaginaria pura 1 90


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appartiene a sistemi comunicativi non legati alle definizioni contenutistiche e sistematiche delle discipline nate dopo la stampa. Le precisioni (tipografiche) delle categorie del tempo e dello spazio intervengono come freno per tutto ciò che può essere immaginato, anche se, contemporaneamente, agiscono come stimolatori nei vasti piani delle virtualità di primo e – come si è in parte visto qui e si può vedere in Malattie Mediali - di secondo livello. La dimensione mitica è diversa, mantiene comunque un vincolo con l’empiria: le combinazioni possibili sembrano essere legate alla contaminazione di concetti che hanno un’origine completamente empirico-ambientale. La torre di Babele, il tappeto volante, l’ippogrifo, gli dei dell’Olimpo ecc. sembrano essere estensioni di rappresentazioni che mantengono un forte legame con quanto esperito nella vita di tutti i giorni. I comportamenti degli dei finiscono con l’avere comunque un qualche cosa di fortemente umano, così come alcuni tipi di ricompense post mortem. 8.3 La società puerocentrica Cosa vuol dire società puerocentrica? Che cos’è un bambino? Perché si dovrebbe considerare quasi un mistero quella che è, biologicamente, una persona agli inizi della vita? Per la nostra cultura, un bambino è una potenzialità. In passato - nel nostro passato come in quello di altre culture improntate soprattutto all’oralità - questo non è sempre stato vero e se l’avere bambini era considerato un dono di Dio e il non averne finiva con l’essere un indicatore dell’opposto, tuttavia era facile incontrare famiglie che avevano avuto sette/otto figli di cui ne sopravvivevano solo alcuni. Con la mentalità d’oggi ci si potrebbe chiedere come potessero un padre e una madre sopportare la morte 191


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di tanti figli. Del resto nell’epoca attuale ci si è abituati a quella sterilità delle coppie che, una volta, era considerata una manifestazione dello sfavore divino. Allora i bambini erano importantissimi ma fungibili, sostituibili, mentre la morte di un anziano era una tragedia: con lui finiva una parte della storia di una comunità. Oggi se muore un bambino è una tragedia, mentre se muore un anziano tutto sembra ridursi ad un problema meramente affettivo. Perché è successo questo cambiamento di concezione? Nella società puerocentrica93 la gioventù diventa un valore in sé, spesso si sente dire “il bambino deve essere libero di esprimere se stesso”, ma che cosa vuol dire? Il bambino, come anticipato, di per sé è una potenzialità, non ha conoscenza, anche se può avere un discreto istinto, tuttavia, deve ancora imparare le cose prioritarie della 93. Il termine di puerocentrismo viene coniato ai primi del ‘900 all’interno di quella corrente di pensiero pedagogico che prende il nome di attivismo , europeo e americano, e sorge come movimento di messa in discussione dei precedenti principi dovuti alle rigidità dell’approccio disciplinare classico estremamente adultocentrico ed autoritario: Dewey e, in Italia, Montessori iniziano a teorizzare un approccio educativo incentrato sul bambino e sull’autoeducazione. In seguito tale termine diviene di dominio comune e impronta di sé le nostre società facendolo diventare un principio educativo generale, al di là del momento puramente pedagogico, le cui influenze possono essere considerate tuttora molto forti. Dopo le critiche della fine degli anni ‘60, si passa ad un nuovo tipo di approccio incentrato sul concetto di formazione che, nei nostri termini, ricomprende al proprio interno sia la dimensione cognitiva dell’istruzione che quella maggiormente affettiva della relazionalità intergenerazionale. In socioterapia il termine di educare assume un significato particolare rispetto a quello etimologico che rivolge l’attenzione al tirare fuori (e-ducare che proviene da e-ducere) le buone inclinazioni e contrastare quelle cattive: si tratta di non dare per scontati i contenuti (buoni o cattivi) come fossero già presenti fin dalla nascita nella persona mentre, nei nostri termini, l’unica cosa presente è la capacità affettiva e la relazionalità intergenerazionale dovrebbe fare apprendere, riempire - indurre (in-ducere) - la nuova persona con contenuti rappresentativi, e cioè cognitivi ed affettivi insieme. 1 92


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vita, ad esempio, come non farsi prendere in giro da persone che possano avere scopi perversi. La gioventù come valore in sé non ha molto senso: il bambino deve imparare, il fatto che sia potenzialità non vuol dire niente, un panino potenziale non mi sazia, semplicemente non esiste in quanto tale. Può essere tutto e nulla. L’adulto deve insegnare e non deve abdicare al proprio ruolo, tuttavia nella nostra società questo troppo spesso avviene, perché? C’è un meccanismo importante: la società si evolve velocemente, nello spazio che intercorre tra ciò che il genitore ha imparato andando a scuola (istruzione media) e la conoscenza posseduta dal figlio, spesso, c’è un abisso: la conoscenza va avanti e lui, in tante situazioni, resta indietro mentre il bambino va a scuola e apprende la conoscenza di oggi, non quella di venti o trenta anni fa, nel momento in cui va a casa vede la televisione, sta al computer, ha migliaia di occasioni di crescita mentre il genitore, di solito, può pensare solo al lavoro e alla famiglia. L’adulto invecchia mentre il ragazzo cresce, impara e rispetto ai genitori si crea uno scarto che questi ultimi fanno fatica a recuperare, per cui finiscono con il restare indietro. Una delle caratteristiche della società puerocentrica è quella che vede i genitori come possibili figure depotenziate a causa della velocità dei cambiamenti: di qui il bisogno di figure specialistiche di supporto, la cui necessità è direttamente proporzionale all’indebolimento della R che il genitore ha di se stesso, debolezza che, spesso, egli cerca di celare attraverso una presunta disattenzione, secondo quanto mi è stato espresso dal familiare di un ragazzo che ho seguito: “mio figlio aveva un problema che non riuscivo ad affrontare, e questo era la dimostrazione di un mio fallimento, per cui finché non è stato estremamente evidente, fino a quando è stato possibile ho fatto finta di niente, al di là della mia 193


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inquietudine, che era comunque presente”. Il bambino è oggetto di un alto investimento affettivo sia da parte dei genitori che degli adulti in genere, ed è questo che lo rende affettivamente forte; conosce il genitore e spesso capovolge la logica causale da lui posseduta, per cui dalla relazione causaeffetto passa a quella asimmetrica che ho chiamato di effetto-causa: per ottenere un certo comportamento usa istintivamente gli effetti per manipolare le cause e gestisce il genitore mettendo in atto un meccanismo logico stupendo, ad esempio fa i capricci perché in questo modo accentra l’attenzione su di sé e, in un certo senso, lo ricatta perché gli lasci fare quello che più gli piace; volendo ottenere che il genitore si comporti in un certo modo ragiona sugli effetti, mentre i genitori ragionano sulle cause; il bambino, nei fatti, quando riesce a vincere, utilizza, ma non subisce la logica positivista. Nella società puerocentrica troppo spesso i bambini vincono, e cioè gestiscono i genitori. E, forse, in tal modo perdono. Una delle domande che molto spesso mi vengono poste riguarda il perché ci possa essere un attacco al corpo del bambino. Forse ci sono parecchie analogie con il tipo di attacco al corpo che molte donne subiscono: la donna ha acquistato potere rispetto all’uomo e l’unico strumento che alcuni finiscono con il trovare è un attacco al suo corpo, attacco che dovrebbe servire a riaffermare la propria forza. L’analogia, probabilmente, potrebbe valere anche per il bambino: il fatto che sia seduttivo e utilizzi la dimensione affettiva per la gestione degli adulti può suscitare una risposta altrettanto affettiva, anche se di tipo distruttivo. Il potere seduce e nello schema di molti offensori, anche se poco più che coetanei e soprattutto se introversi, vi può essere l’attrazione/attacco al potere del bambino, del resto mediaticamente estremamente pervasivo, semplicemente anche a seguito dell’enor1 94


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me esposizione pubblicitaria, naturalmente accanto ad altre motivazioni da individuare di volta in volta. 8.4 La fungibilità dei significati: l’esempio della masturbazione La distinzione simbolico/immaginario permette di avanzare ipotesi di risposta a domande quali quelle riguardanti la masturbazione e l’auto-stimolazione degli organi sessuali adolescenziali e infantili. Rispetto a comportamenti simili o assimilabili, quali quello di un bambino che esplora se stesso o l’altro/a, oppure un bambino che si tocca traendone godimento, le differenze possono essere a monte negli insegnamenti ricevuti. È chiaro che se, nelle culture di appartenenza, il tipo di insegnamento ricevuto è stato non aperto e non chiaro rispetto alla sessualità, allora nel momento in cui il bambino si confronta con l’amichetto/a ci può essere curiosità e tale curiosità può finire con l’essere ammantata di significati particolari; o di significati rituali e segreti, da trasmettere in una quasi clandestinità da contrapporre ad adulti che sanno tutto ma che si constata che non lo trasmettono, non comprendendone il perché; oppure può essere vissuta come un’esperienza intima, personale ed isolante, anch’essa funzione della relazione intergenerazionale subita. La difficoltà non sta nel distinguere tra ciò che è indotto o ciò che è innato, poiché quasi tutto è indotto dal tipo di educazione ricevuto: bambini con un’educazione “non scissa”, come quella ricordata da Margaret Mead presso i popoli polinesiani, non hanno curiosità rispetto al corpo e alle sue funzioni perché già sanno come sono loro e gli altri e conoscono tutte le situazioni e le relazioni biologiche elementari: dall’espletamento delle funzioni evacuative, che avvengono in comune sulla spiaggia, a quelle le195


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gate alla riproduzione, che si svolgono con estrema naturalezza.94 Diversamente l’esplorazione c’è quando un bambino deve scoprire qualcosa che non gli è stata rivelata prima, e che, soprattutto, non gli è stata mostrata come naturale: è importante ricordare che in quest’ultimo caso il possesso o meno di certe conoscenze può diventare anche fattore di superiorità/ inferiorità all’interno del gruppo adolescenziale. Un ulteriore problema riguarda il sistema di RR che il bambino sta costruendo: se di esso fa parte un certo tipo di immagini e quindi di investimenti affettivi sul corpo proprio o altrui e sulle sue funzioni, dov’è il problema? La situazione particolare è dovuta al legame tra questi sistemi di RR e il sistema educativo. Trenta/quaranta anni fa nelle nostre culture, era relativamente normale che un adolescente non avesse ancora avuto rapporti, né che avesse visto anche semplicemente seni femminili nudi, oltre ad altre parti intime femminili o maschili, ed è intuibile che, nel momento della scoperta, molte informazioni venissero lette sotto la luce di una certa morbosità. Oggi, proprio a causa dei costumi moderni e dei nuovi media quali televisione, internet o, specialmente, i videofonini, tutto risulta essere rimescolato: la morbosità sembra riguardare chi produce il messaggio e il fruitore l’assorbe nel proprio sistema di RR a causa di quanto veicolato dai singoli media, confermando così una delle profezie mcLuhaniane. Di qui una certa spaventosa naturalezza che sembrano possedere gli adolescenti di fronte a comportamenti lesivi di sé, dell’altro o dell’esterno, animato o inanimato che esso sia: esempi ne siano il bullismo e il vandalismo, le piccole o grandi stragi nelle scuole o nei campus americani ecc. Ma cosa succede nel bambino o nell’adolescente 94. In merito cfr. Benvenuti, L., Malattie mediali, op. cit., p.30. 1 96


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nelle nostre culture? Quale tipo di legame affettivo predomina nei periodi pre-puberi e puberi? Proviamo a partire dal legame affettivo che lega il singolo, bambino o adolescente, al genitore ed in particolare, ad esempio, alla madre, la persona con la quale agli inizi, di solito, si rapporta maggiormente: qual è la direzione dell’investimento affettivo che lo lega ad essa? L’investimento affettivo, apparentemente, è diretto dal figlio alla madre (o ai genitori) che a propria (a loro) volta è (sono) incentrata (incentrati) sul figlio: nei fatti diventa una lettura di sé negli occhi della madre (dei genitori) ed il figlio decodifica se stesso in funzione di questo rapporto. I genitori, in generale ma soprattutto la madre, comunicano al figlio quello che pensano di lui. Il figlio nel momento in cui investe affettivamente su di loro ha come ritorno l’immagine che loro (o lei in particolare) hanno di lui: in questo potrebbero essere rinvenute le origini, nella nostra cultura, dell’autoreferenza, costruttiva o distruttiva che essa sia, nel senso che se è vero che il figlio vede riflessa nelle espressioni del genitore l’immagine che quest’ultimo ha di lui, tuttavia è altrettanto vero che la interpreta alla propria maniera. Un’errore tipico è quando di fronte ad uno “sgorbio” disegnato da un bambino, il genitore esclama “bellissimo”, in questo modo trucca la situazione, confondendo, spesso, il “significativo” con il “bello”. Occorre ricordare che, mentre può essere significativo anche un brutto disegno esso, tuttavia, non deve essere etichettato come bello o addirittura superlativo, commettendo un errore grossolano proprio per il fatto che il bambino ha occhi ed orecchi per vedere le proprie cose e per udire i commenti altrui. Spesso, facendo questi errori, facciamo diventare i bambini narcisisti ed autoreferenti perché non diamo loro criteri per riuscire a giudicare ciò che fanno o per non accettare menzogne su se stessi: la conseguenza può 197


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essere quella di ragazzi che finiscono con l’autoingannarsi semplicemente accettando la versione che più piace loro, a partire dallo stato d’animo del singolo momento, per cui la lettura del mondo e/o di se stessi può finire con l’essere bianca o nera, positiva o negativa, euforica o disperata in funzione degli stati d’animo momentanei. Importantissimo, poi, nel rapporto con i genitori è quello tra la madre e il figlio, proprio per il particolare rapporto che si instaura tra loro, ai fini della costruzione di una rappresentazione (R) di sé: il rimando dell’immagine da parte della madre, se è un rimando acritico o, comunque, non equilibrato, può contribuire alla costruzione nel bambino di una rappresentazione di sé perversa, non importa se autoreferenziale o auto-distruttiva. Questa R di sé può portare, ad esempio, ad un bambino viziato, falsamente estroverso che si pone costantemente al centro dell’attenzione per cui tutto quello che fa deve andare bene oppure al suo opposto e cioè un bambino timoroso di tutto ed introverso. La chiusura si può attivare nel momento in cui il confronto con l’esterno e con gli altri gli rimanda una rappresentazione diversa: il trauma dello scontro tra rappresentazioni (RR) può essere estremamente devastante per il bambino, portandolo o a implodere, e cioè ad una chiusura apparentemente autoreferenziale che, di fatto, nasconde il timore per l’esterno; oppure ad una situazione di costante necessità di conferme e rinforzi altrui, che rendono le relazioni possibili solo a patto di adesioni acritiche a quanto da lui pensato, oppure creduto/temuto. Nello stesso senso patologico, inoltre, può agire lo scambio dei ruoli con i genitori: facendo la parte dell’adulto/genitore il bambino si addestra e soprattutto addestra i genitori, acquistando potere su di essi, facendo fare loro tutto ciò che vuole, anche se apparentemente solo all’interno della situazione ludi1 98


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ca. Per il bambino il gioco è reale, sta costruendo se stesso e sta elaborando il proprio sistema di RR, che poi utilizzerà per leggere e giudicare, sulla base della RR possedute, sia i propri genitori che gli altri adulti. Il bambino, così, prende potere e rende possibile la stessa propria autoreferenza. Cosa succede nel frattempo? Cosa percepisce dalla televisione e/o negli altri media? Migliaia di RR differenti. Sono RR di tipo diverso: tanti padri e madri non rispettati o che prendono in giro se stessi o che sono presi in giro e che, in tal modo, alimentano in lui dubbi sui propri. Il bambino vede sia genitori da palcoscenico che da retroscena: quando viene sgridato sa già cosa c’è dietro, ha già un’idea sul come il genitore potrebbe comportarsi. Nel momento in cui ciò dovesse accadere esattamente come lo aveva previsto, come lo aveva visto fare nei prodotti mediali, questo finisce con il dargli maggior potere permettendogli, in tale modo, di iniziare appunto la propria scalata all’autoreferenza. Dal punto di vista affettivo cosa succede? Legge se stesso negli occhi ammirati della madre, del padre o di chi gli vuole bene o a cui vuole bene e, rispecchiando il proprio ruolo nei film, telefilm e vari prodotti mediali, collauda la propria forza nei giochi per cui, alla fine, si ritrova contornato da una situazione affettiva incentrata su di lui. Da cosa trae godimento? Soprattutto dal rapporto con il genitore maggiormente affettivo, di solito la madre considerata fin dalla nascita quasi come parte del proprio corpo. Ad un certo punto il bambino matura sessualmente nella pubertà e, almeno in teoria, l’affetto della famiglia non dovrebbe bastargli più. Qual è il problema che si pone in quel momento? C’è una modifica interessante: instaura rapporti con gli amici basati ancora una volta sulla R di sé, appiccica loro un investimento affettivo legato a quello che prova in quel momento, 199


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per cui, a seconda del rimando, alcuni gli sono simpatici, altri antipatici; alcuni gli piacciono altri no; alcuni li accetta altri li rifiuta. Un bambino disadattato può finire con il restare da solo, ad esempio, nell’esaltazione dell’autoreferenza e/o nel baratro dell’autoisolamento. In questo modo, nelle nostre culture, un bambino si sta costruendo come soggetto (10-12 anni), la cui maturazione sessuale introduce ad una forma particolare di masturbazione. Perché, da cosa trae piacere? Dalla propria immagine, dalla R di sé: si sente onnipotente! I bambini, onnipotenti in casa, spesso, stanno bene fuori casa solo se, nel contatto con l’esterno, riescono a trasmettere la propria potenza, altrimenti si ritraggono: il rischio che si corre nel momento in cui escono dalla protezione familiare è che si pongano o come vincenti, con forti possibilità di delusione, o come rinunciatari o, addirittura, come perdenti. Con la maturazione sessuale, il ragazzo si scopre non più autosufficiente dal punto di vista affettivo (è come se vi fosse una limitazione alla propria autoreferenza). In teoria dovrebbe imparare a decentrare l’investimento affettivo e la masturbazione dovrebbe avere tale funzione: lo spostare, almeno inizialmente, l’attenzione su di una fantasia non autoriferita, dovrebbe servire a decentrare l’investimento affettivo da sé all’esterno, verso un o una partner possibile. L’importanza della masturbazione sta in questo passaggio dall’autoreferenza (come schema autocentrato e narcisista) ad una situazione di decentramento affettivo. Molti ragazzini, ad esempio, non si lavano proprio per la paura della perdita, come manifestazione del proposito di non rinunciare ad alcuna parte di sé. Il rapporto sessuale può finire con l’essere percepito o come la tomba dell’autoreferenza, in quanto il soddisfacimento è connesso all’altro da sé, oppure dicotomicamente è possibile che venga legato ad una 2 00


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propria esaltazione nel dominio sull’altro o, viceversa, nella completa soggezione a lui. Nel momento in cui il passaggio di uscita dall’autoreferenza non dovesse avvenire e la masturbazione si dovesse protrarre come pura riaffermazione di una pratica pre-adolescenziale, allora potrebbe nascere un problema perché, appunto, la persona si potrebbe perdere nella pura ripetizione di quella che, da necessaria fase di passaggio, si trasforma in pratica contraddittoria (ricerca/rifiuto) o in compulsivo tentativo di agire come se tale fase potesse essere ignorata. Nelle nostre società, caratterizzate da una soggettività estrema, il fine ultimo della sessualità potrebbe anche essere riferito ad un suo uso strumentale, tendente alla ricostruzione di quella dimensione sovraindividuale e a vocazione collettiva, chiamata socialità familiare, che, unica, permette ai soggetti di potere avere una dimensione relazionale profonda e non asservita ad uno scopo per arrivare, almeno, alla solidarietà a livello e a dimensione della famiglia nucleare. Sociologicamente parlando, si potrebbe dire che il dilemma si pone nel momento in cui si dovesse perdere di vista la funzione strumentale-solidaristica della sessualità per farla diventare un fine in sé: nelle società dell’autonomizzazione del simbolico il passaggio della sessualità da strumento a fine è resa plausibile solo a partire dalla presunzione di una spaccatura del sistema di RR dell’individuo e nell’oscenità della sessualizzazione pubblicitaria di ogni prodotto, corpo incluso, nell’attuale approccio prostitutivo come base per una posticcia vendita di merci. Anche in questo caso ad essere venduto è il sesso, mentre il prodotto diviene un accessorio assolutamente fungibile: “In molti casi, la nostra iconografia erotica e pornografica, tutta questa panoplia di seni, di natiche, di sessi, non ha altro senso al di fuori di questo: espri201


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mere l’obiettività inutile delle cose. La nudità serve ormai solo come tentativo disperato per sottolineare l’esistenza di qualche cosa. Il culo ormai è solo un effetto speciale. Il sesso è ormai un rituale della trasparenza. Un tempo lo si doveva nascondere, oggi è il sesso che serve a nascondere quel poco di realtà – e anch’esso è partecipe, ovviamente, di questa passione disincantata. Da dove deriva allora la fascinazione di queste immagini?” 95 Ad essere persa di vista, da parte del singolo, è la necessità dell’integralità tra cognitivo e affettivo: ci si muove convinti di essere all’interno di un’ottica simbolica e cioè legata a una sessualità intesa come visione funzionale globale di sé nell’ambiente, mentre si agisce in un ambito del tutto immaginario, nel quale qualunque costruzione mentale ha semplicemente se stessa come referente, come premessa compulsiva che non teme alcuna smentita dall’empirico. Con fungibilità dei significati si indica proprio quella caratteristica per cui a uno stesso significante, oggetto o funzione quale quella corporea di natiche e seni, vengono attribuiti più significati diversi, ad esempio la vendita di questo o di quel prodotto, tutti fra loro sostituibili, a seconda delle varie situazioni personali, culturali, ambientali.96 È tale fungibilità che permet95. Baudrillard, J.: L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 21. 96. Ora, accanto alla fungibilità dei significati se ne può individuare un’altra, quella dei significanti che fa riferimento ad un fenomeno ancora più profondo e molto importante nella spiegazione dei comportamenti maniacali: uno stesso significato viene attribuito a significanti diversi, per cui se nella persona si è instaurata una di tali situazioni a nulla servirà il fatto di farle vedere la disomogeneità dei fenomeni che lei chiama in causa per giustificare il proprio stato poiché essa li interpreterà sempre e costantemente a senso unico. Per lei la fungibilità delle premesse è non dubitabile e chiunque si frapponga tra lei e le sue convinzioni corre il rischio di diventare, nella migliore delle ipotesi, una persona che non comprende o, nel2 02


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te, come ricordato, quella trasformazione da mezzo a fine della sessualità, che da funzione familistica a stampo riproduttivo e relazionale (come ci rammentano le scoperte dell’antropologia strutturale di LéviStrauss) si trasforma in fine per l’autoaffermazione nella relazione: l’esempio tipico di tale fenomeno può essere rinvenuto in alcune mode recenti riguardanti l’abbigliamento e l’esposizione di parti anche estremamente intime del corpo, soprattutto femminile ma non solo. Così per la masturbazione che viene legata ad un automatismo mentale di autosoddisfacimento erotico - quello che, spesso e con una tipica sagacia di senso comune, viene definito una masturbazione mentale e l’atto masturbatorio perde la propria connotazione di strumento per il decentramento dell’interesse affettivo da sé all’altro, tipico della relazionalità a scopo riproduttivo. A livello collettivo, il ripiegamento su se stessi diviene l’indicatore di una incapacità personale: la dicotomia, tipica dell’autoreferenza, tra vincente e sconfitto finisce con il perdere pregnanza a favore della semplice coppia opportunistica vincente/gregario – tipica, ad esempio, della relazionalità nelle bande e nei gruppi giovanili - nella quale il gregariato agisce come scorciatoia per apparire comunque vincenti, anche se solo in via vicaria, ovvero, semplicemente, come conseguenza dell’azione dello schierarsi dalla parte del vincente, situazione tipica questa, ad esempio, del bullismo passivo diverso e contrapposto a quello attivo del leader o del capobanda. Riprendendo la distinzione tra simbolico ed immaginario si può cercare di interpretare la situazione di una patologia della sessualità che, a partire dalla logila peggiore, addirittura un nemico. Questa situazione è tipica dei comportamenti di chi soffre di manie, ad esempio e come vedremo al paragrafo 10.2., quella di persecuzione. 203


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ca riproduttiva, subisce una doppia trasformazione: - il fatto che, da strumento per la relazionalità, sia divenuta fine in sé, significa che si è passati dal simbolico del suo utilizzo funzionale, alla dimensione immaginaria dell’essere diventata fine in sé e per sé, agita in modo unidimensionale (ad esempio, cognitivo, per raggiungere il massimo del profitto) e al di fuori da ogni completezza rappresentativa (cognitivo-affettiva); - anche se agita in modo unidimensionale, essa comunque deve fare i conti con il fatto che la R è inscindibile e il richiamo alla completezza rappresentativa permette di comprendere il perché della portata patologica dell’approccio sessuale spaccato (scisso o schizo) che fa accumulare nella persona le cariche affettive non soddisfatte: in questo caso, il fatto che la persona si patologizzi può essere letto come un forte richiamo alla naturalità e, quindi, come una sorta di indicatore della necessità di un ponte per un riaggancio con l’ambiente, per un ritorno alla sfera di un simbolico inteso secondo la nostra accezione. È esperienza di ogni giorno quella di un utilizzo parziale – e cioè al di fuori di un’integralità rappresentativa - della dimensione affettiva. Così l’esempio già ricordato del sesso usato in modo pervasivo come puro fattore di persuasione pubblicitaria. Così la sessualizzazione di ogni aspetto della nostra società, rinvenibile ad ogni livello, che, unita alla estrema gregarizzazione di tutti coloro che non possono affermare se stessi come soggetti (e cioè come persone che riescono nella vita), la fanno divenire fattore omologante rispetto ai rapporti interpersonali. Così per persone che si patologizzano nell’incapacità di soddisfare la necessità di riuscire a scaricare, in 2 04


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qualche modo, le cariche affettive insoddisfatte. Così per altre persone che dovessero scegliere l’aggregazione in gruppi: una scelta che può finire con l’essere estremamente pericolosa nel momento in cui, tali gruppi, anziché agire all’interno di valori e principi condivisi e condivisibili, dovessero decidere di muoversi a livello di autonomia dell’immaginario (ad es. le bande delinquenziali), ritrovandosi a rispondere solo a se stessi delle proprie azioni, al di là, appunto, di ogni principio, di ogni etica e di ogni morale.

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LEZIONE IX

9.1 Le dimensioni filogenetica ed ontogenetica Nelle nostre riflessioni sulla persona, poi, si può introdurre un ulteriore livello di analisi, riguardante la distinzione tra le dimensioni filogenetica e ontogenetica. Rispetto al singolo cosa succede? Innanzi tutto, la sua evoluzione inizia con la nascita e si svolge lungo un percorso di vita che prende il nome di ontogenesi: ora tale percorso sembra seguire tappe analoghe a quelle della specie, in quella che viene chiamata filogenesi. Abbiamo visto che il bambino quando nasce è potenzialità, e che è la dimensione affettiva a metterlo in condizioni di far scattare il primo apprendimento: motore principale è la madre proprio nel momento in cui dà al bambino determinate informazioni, le condisce con se stessa, in quanto portatrice di Inv. Aft., e, quindi, permette al bambino di memorizzarle attraverso la dimensione affettiva. Come introdotto, la capacità biologica è una capacità affettiva generica: nel momento in cui questa capacità viene applicata 207


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a un’informazione, a un’immagine di provenienza sensiva o di produzione interna, in quel momento si costruiscono le prime RR, ancora abbastanza generiche ed è soltanto nella reiterazione che si ha l’apprendimento. Se al bambino date un gioco e lui lo butta dalla culla, sta sperimentando, la mamma alla terza, quarta, decima volta che lo butta giù dirà e con voce ad alterazione crescente: “non lo buttare” e lui dal messaggio vocale dovrebbe capire che non lo dovrebbe fare, anche se in quel modo sta imparando. Il neonato si trova ancora in uno stadio pre-orale, non parla, non capisce ciò che gli viene detto, capisce il tono della voce, l’espressione del viso: si potrebbe parlare di una sorta di rapporto empatico peri-personale (contenutistico), in analogia con quello spazio peripersonale che abbiamo già incontrato. La madre di fronte all’infante capisce anche dai gridolini, dal tipo di pianto o dagli atteggiamenti cosa vuole e risponde ai suoi messaggi. Il bambino comincia a costruirsi un parco di RR che sono immagini caricate affettivamente ma ancora indifferenziate, tanto è vero che anche se viene sgridato per il suo bene, “non devi mangiare troppa cioccolata!”, non lo capisce per intero e reagisce solo alla parte affettiva del messaggio: “perché?” chiede. Se gli spiegate che gli viene male alla pancia, è probabile che non gliene importi molto, deve ancora costruirsi un meccanismo previsionale, l’unica previsione che può fare è che se contravviene a quanto gli si dice possa essere sculacciato, altrimenti il bambino non ha paura di quello che, ancora, non capisce cognitivamente e sta sperimentando affettivamente tutto: proprio per questo mette in atto una serie di meccanismi affettivi di fascinazione dell’adulto al fine di riuscire a catturarlo in modo che gli permetta di fare anche quello che, inizialmente, gli era stato proibito. L’indifferenziazione rappresentativa in cui è im2 08


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merso, non essendosi ancora alfabetizzato, significa che non ha ancora incontrato la spaccatura tra dimensione affettiva e dimensione cognitiva. Ad un certo punto del suo sviluppo, quando gli si insegna a differenziare la dimensione simbolica, spesso, si inizia dalle fasi più precoci della comunicazione quali i disegni infantili: sovente, come più volte mi hanno ricordato diversi pazienti e come già anticipato, il bambino resta sorpreso perché la madre può etichettare come bellissimo qualcosa che per lui è non ancora rilevante. Nel momento in cui, nelle nostre culture, impara a ragionare in termini individuali e/o sociali, s’immette all’interno di un’organizzazione simbolica basata sulla spaccatura (che, ricordo ancora, è solo presunta) della rappresentazione: impara a leggere, a scrivere e ad ascoltare favole da chi già è all’interno di una cultura tipografica, nella quale si agisce come se vigesse quella scissione, ed infatti la maggior parte delle favole oggi narrate appartengono e servono a riprodurre una cultura individualistica. Il bambino a questo punto si trova all’interno di un conflitto forte: tra la sua dimensione pre-orale/ orale e quella tipografica che dagli adulti viene data per automatica e che gli viene insegnata dalla nascita per fare in modo, appunto, che diventi un soggetto (è la funzione/finzione dell’addestramento). Nel momento in cui addestriamo il bambino ad essere soggetto, lo costruiamo e lo facciamo entrare in conflitto con la propria dimensione pre-soggettiva. Da ciò, probabilmente, nascono molti problemi infantili: lo scontro tra le due culture può fare entrare il bambino in un conflitto interno e la schizofrenia è anche dissociazione. Approfondendo tale punto, cerchiamo di capire cosa può volere dire, in particolare per un nuovo nato, ritrovarsi al primo livello di autonomizzazione 209


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del simbolico, e cioè nel piano delle RR. 97 Nelle società orali non c’è un unico paradigma scientifico che pretenda di improntare tutto, c’è possibilità di scelta: in questo senso, al limite, c’è il dettato divino che, se non dovesse funzionare, tutt’al più obbligherebbe alla ricerca dell’offesa arrecata alla divinità medesima oppure, quale ultimo rimedio, ad un eventuale, estremo cambiamento del dio di riferimento. Noi abbiamo creato un paradigma, quello di normalità,98 rispetto al quale tutto quello che se ne discosta è non normale. Se non esistesse questo paradigma, come nelle società orali per alcune delle quali anche in un pezzo di legno vi può essere un dio, quale sarebbe il problema? Oggi la spiegazione scientifica degli eventi, sempre seguendo il modello hempelliano, è conseguenza dell’approccio individuale alla conoscenza, per cui è scientifico ciò che, in senso lato, è frutto di un particolare processo di osservazione; ciò che il singolo vede e che, però, deve essere riportato in maniera tale che qualunque altro singolo, in qualunque parte del mondo, possa essere in grado di osservarlo in modo analogo: è per questo che si dice che la conoscenza deve essere intersoggettivamente accertabile. Il problema del bambino è che lui deve subire il trauma del passaggio da una cultura orale ad una tipografica “tu sei cattiva, non mi dai le caramelle”: lo schema di debolezza della madre è lasciargliele prendere e così il bambino diventa ingestibile, perché? Comunque in molti approcci di senso comune il fatto che diventi ingestibile è un’evenienza tutto sommato accettabile, al massimo diverrà un soggetto che, spes97. Cfr. qui la lezione 4.3. 98. Cfr. a proposito della nascita dei concetti di devianza e di normalità, Benvenuti, L., “Devianza e mass media”, in AA.VV., Disadattamento sociale: teoria e ricerca, Milano, Angeli, 1983. 2 10


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so, è per definizione indisciplinato; il problema nasce nel momento in cui dovesse scontrarsi con una delle organizzazioni strutturali (soggettive) del padre o della madre (o con entrambe) o della società, perché allora corre il rischio di spaccarsi. Il bambino, perché in tanti casi si spacca? Perché a fronte di una compresenza di queste due culture, nel caso non accettasse di diventare soggetto e sulla base della simmetria postulata dallo schema nomologico, il suo sarebbe un futuro predestinato: i non appartenenti a questa cultura sono (o erano), appunto, cattivi soggetti, oppure soggetti indisciplinato, oppure, infine, non-soggetti. La non riuscita del processo di addestramento alla soggettività nel bambino può essere dovuta alla debolezza dei soggetti socializzanti e/o alla pluralità e concorrenza tra la moltitudine delle agenzie di socializzazione. Oppure, più semplicemente, al fatto che si sta transitando verso una diversa forma organizzativa della persona, secondo una delle ipotesi principali della socioterapia, la cui definizione sarà l’oggetto di lavoro per la nostra disciplina nei prossimi anni. La soggettività come paradigma andava bene finché era progressista, in termini evolutivi la soggettività ed il soggetto erano il frutto di una modifica in termini tecnologici della gestione delle informazioni, della comunicazione e della relazione. Ricordo che una primissima modifica era stata indotta dalla nascita del linguaggio, una seconda dall’introduzione dell’alfabeto (con le società amanuensi, fino alla fine del medioevo), poi, a partire dalle grandi capacità tecnologiche del medioevo, con la stampa nasce il soggetto quale ultimo, per allora, stadio dell’evoluzione dell’uomo. Nascono in questi anni gli imperi coloniali, la scienza moderna e le professioni. Nel ‘700 sarebbe stato illogico non diventare soggetto, sarebbe stato regressivo. Tutto sommato fino agli anni ’60 si era ancora all’interno della cultura della soggettività, nel 211


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senso, ad esempio, che chi si laureava aveva una sua connotazione, quasi una predestinazione ad un certo tipo di vita. Il ’68, come fenomeno sociale, potrebbe essere visto come l’evento spettacolare della nuova situazione comunicazionale, un attacco, un rifiuto della precedente ed apparentemente ineluttabile predestinazione alla soggettività: c’è la crisi, si rende visibile una modifica nella gestione dell’informazione che ha prodotto grossi cambiamenti (è l’affermarsi dei nuovi-media). La vecchia linearità, l’uomo ad una sola dimensione di Marcuse, era quella che portava ad un destino spaccato in due parti, si poteva essere o ingegnere o artista o alternativamente l’uno o l’altro, difficilmente entrambi: il ’68 rappresenta la critica alla vita ad una dimensione. Nel ’68 si può pensare che la società post-soggettiva per la prima volta sia diventata visibile, le droghe all’inizio vengono pensate come strumenti di ampliamento delle conoscenze: fantasia al potere. A questo periodo è succeduta una “restaurazione” proprio perché mancava ancora una teorizzazione della nuova situazione che fosse in grado di agire come teoria per sé. Oggi, non a caso, il livello di devianza delle nostre società supera i livelli di guardia e ciò, forse, sta ad indicare la crisi e forse la fine di una particolare forma di progresso legata alla storia della soggettività. Il bambino di per sé è un’organizzazione, nel momento in cui, oggi, lo dovessimo strutturare da soggetto, in quel momento introdurremmo un fattore di crisi, tant’è vero che il bambino potrebbe non aver voglia di stare 5 ore a scuola, 4 ore seduto a studiare ecc. Oggi quel tipo di studio è entrato in competizione, ad esempio, con la televisione o con il computer che come strumenti di socializzazione sono molto rapidi, molto veloci e, a loro volta, entrano immediatamente in competizione con la struttura di obbligo che è alle 2 12


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radici dello schema disciplinare: “si deve differire il piacere per imparare” mentre al cinema, alla televisione e al computer si vedono film e programmi che spiegano la vita in tempo reale e, praticamente, senza dovere differire nulla. Da questo punto di vista dagli anni ’70 in poi, la droga e, in genere, il consumo di sostanze psicoattive finiscono con il simulare almeno una risposta all’esigenza di superare ogni approccio unilineare perché sono sostanze che coinvolgono più sensi. Nel momento in cui nasce il presunto legame tra droga e creatività, con sostanze quali marijuana e LSD usate, appunto, per esplorare la creatività o per vivere nuovi stati di coscienza: in quel momento sembra divenire importante la simulazione dell’unione tra dimensione cognitiva e dimensione emotiva (affettiva), il fatto che poi esse spacchino il corpo nella dipendenza non sembra importare a molti consumatori. Alcune forme di malattie mentali, o sindromi mentali, potrebbero essere interpretate come la parti appariscenti di un qualcosa che è culturalmente o socialmente determinato, dovuto proprio alla spaccatura tra I ed Inv. Aft., che, tuttavia, occorre ricordare, è solo presunta. Il bambino è all’interno di questo scontro, cosa vuol dire questo scontro? Cosa significa viverlo al proprio interno? Il bambino deve imparare a comportarsi come se la dimensione cognitiva fosse staccata da quella affettiva: troppo spesso, anzi, quello che deve fare e quello che desidera fare entrano in conflitto tra loro. Con la disciplina gli viene insegnato che c’è un momento per l’apprendimento e uno per il divertimento perché se in classe fa chiasso non apprende; curiosamente, però, oggi succede che gli si lascia far chiasso lo stesso; si utilizza il medesimo schema logico capovolto e questo non ha senso! Spesso si dice ai bambini che debbono crescere liberi, ma, come abbiamo visto, così finiscono con il pensare di 213


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essere onnipotenti, proprio perché gestiscono affettivamente gli stessi genitori. Li si lascia soli di fonte alla vita e questo li rende ingestibili, o meglio irrazionali secondo i criteri della soggettività. Prima bisognerebbe scontrarsi con il bambino per fargli capire le cose, altrimenti, l’adulto finisce con il non adempiere alla propria funzione educativa: ma, propedeuticamente, è l’adulto che dovrebbe comprendere il rivolgimento che lui stesso sta vivendo, anche se a un’età diversa. Così, in molte famiglie che ho seguito, soprattutto se provenienti da alcune parti del nostro paese nelle quali si è dissolta la vecchia organizzazione familiare paternalistica, i bambini sono diventati ingestibili: in uno schema di libertà l’unico referente che hanno è il gruppo, purtroppo spesso deviante, che però non ammette devianze rispetto alle proprie regole (prevedendo lo scontro anche fisico in caso di non loro rispetto), regole che, spesso, sono paradossalmente assimilabili a quelle dell’oralità. Il parallelismo tra la dimensione ontogenetica e quella filogenetica non potrebbe essere più accentuato: nel momento in cui lo sviluppo del bambino subisce un processo di socializzazione sembra riassumere in sé tutti i passaggi culturali della società in cui è nato, e si passa dal bambino pre-orale alla nascita, a quello ultra-medializzato di oggi, seguendo più o meno esattamente quello che è accaduto a livello filogenetico. Come una volta la trasmissione della funzione educativa avveniva dai genitori ai figli perché c’erano reti relazionali non troppo estese e tempi di sviluppo relativamente lenti, oggi sembra essere sempre più necessaria l’introduzione di un nuovo approccio teorico (vedi, ad esempio, il passaggio al nuovo concetto di «formazione»99 da tradurre anche in termini sociote99. Vedi precedente nota n. 93. 2 14


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rapeutici) che permetta di capire fenomeni apparentemente oscuri a livello ontogenetico, ma che divengono comprensibili se riferiti al livello filogenetico. 9.2.1 L’attore/giudice I bambini, sin dalla primissima infanzia, sono bravi a riconoscere istintivamente chi si muove sulla base della spaccatura tra cognitivo e affettivo, in particolare quando si tratta dei propri genitori ai quali fanno pagare duramente ogni forma di incongruenza: in questi ultimi, dunque, dovrebbe essere assente ogni correttezza solo formale, cognitiva o affettiva, ma ve ne dovrebbe essere una sostanziale, integrale e cioè attenta ad entrambe le componenti, contemporaneamente. Anche l’insegnante, oltre al genitore, dovrebbe agire sulla base dell’unità di R: “dare qualcosa di cognitivo significa condirlo affettivamente” e, viceversa, significa far capire che se il bambino sbaglia, sbaglia sia dal punto di vista cognitivo che affettivo, quindi bisognerebbe agire nella (con-)fusione tra le due subvariabili. Il vero problema, oggi, è una diffusa pratica educativa in cui il bambino viene “allevato”, contemporaneamente come “attore” e “giudice” (soprattutto affettivo) nei confronti delle azioni proprie (non fare qualcosa che non ti piace) e di quelle altrui (se non ti piace non lo faccio): nei nostri termini agire nella con-fusione significa fargli amare certi principi, certi valori ed anche l’etica come capacità di valutare l’aderenza di ciò che s’intende attuare rispetto ad una referenza ai valori, laici o religiosi che essi siano. L’attore, dunque, dovrebbe dare spazio a un non giudice interno nel senso che a guidare il giudizio sulle proprie e sulle altrui azioni dovrebbero essere soprattutto va215


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lutazioni di accettabilità nella referenza ai valori professati e di congruenza agli stessi. Oltre a ciò, occorre che si impratichisca nella contemporanea valutazione di opportunità dell’azione, indifferentemente dal fatto che il fare o il non fare vengano sanzionati oppure no. Un’accentuazione fondamentale, inoltre, riguarda il passaggio alla formazione di un attore che sia capace di formulare giudizi che si rapportino ai valori in modo integrale, senza che sia il solo gradimento (o meno) ad influire sull’atteggiamento della persona. Prendiamo il caso concreto di un’azione che sia giusta dal punto di vista etico e quindi tale da dover essere realizzata dal singolo: ebbene, perché la persona dovrebbe potersi permettere di dare un giudizio crociato su tale atto e cioè tale da permetterle di decidere di farlo perché, a proprio avviso, gradito, anche se cognitivamente scorretto, oppure non farlo perché sgradito, anche se cognitivamente corretto? Evidentemente non dovrebbe poterselo permettere, la relazione ai valori, che è integrale (riguarda entrambe le dimensioni), dovrebbe mettere chiunque in condizioni di fare ciò che è eticamente giusto, indipendentemente dal fatto che l’azione possa non essere in linea con quello che lui, in modo autoreferenziale e/o opportunistico, dovesse ritenere non gradevole: a dovere prevalere dovrebbe essere l’amore per il giusto piuttosto che l’amore per la propria pigrizia ed improntitudine. Analoghe considerazioni riguardano il caso simmetrico. In tali situazioni, l’attività di intervento del terapeuta sull’attore/giudice si incentra, proprio, nel favorire le capacità di riacquisto dell’integralità, come capacità di gestione di sé non scissa, il che può avvenire utilizzando la R, e cioè, a seconda dei casi, accentuando la dimensione cognitiva o quella affettiva, affinché la persona che chiede aiuto possa modificare, riequilibrandolo, il proprio sistema di RR rispetto ai valori. 2 16


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Così, ad esempio, occorre pensare che, in molti casi, il tossicodipendente è il prototipo di una patologia che riguarda l’attore/giudice nel senso che in assenza di referenza ai principi e di capacità di subordinazione dell’agire ad essi, la persona si ritrova a mettere in atto azioni che, spesso, violano gli stessi principi in cui crede ma rispetto ai quali si ritrova disarmato proprio perché la sua dimensione affettiva viene gestita dalla dipendenza ed è questo che lo porta a violare quei principi: nello scontro a vincere è quello a maggiore carica affettiva e l’azione diviene la conseguenza di tale scontro. L’attore isolato della soggettività e dell’autoreferenza, può divenire un semplice burattino nelle mani della dipendenza. Per questo occorre stare attenti quando al tossicodipendente si dà un farmaco sostitutivo perché si utilizza solo la dimensione cognitiva che per lui può non essere sufficiente per cui, in tale caso, probabilmente finirà comunque con il cercare sostanze che gli simulino l’unione tra le due variabili: il fatto che una sostanza che causa dipendenza possa simulare un ruolo, una funzione dipende, naturalmente, dal tipo di legame che la persona stessa ha con quella, o con quell’insieme di sostanze. 9.2.2 L’attore/giudice: tipologie di intervento Il concetto di attore/giudice permette di comprendere alcune situazioni tipiche dei singoli appartenenti alla nostra cultura, sia rispetto ai momenti di sviluppo che a quelli di crisi, uno dei quali, ad esempio, è stato affrontato alla fine del paragrafo precedente. Cercheremo, ora, di inserire tale concetto all’interno della nostra riflessione, con un’avvertenza: nel momento in cui si dovesse intervenire con persone appartenenti a culture integrali - come nelle culture orali o in quelle 217


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infantili, in quanto stati di stretta fusione, o con/fusione delle dimensioni della R – allora il terapeuta deve tenere conto che si tratta di situazioni in alcuni casi del tutto interne al piano dell’empiria (z0) e, quindi, occorre tenga conto che alcuni automatismi di disagio e di rifiuto possano essere conseguenza del fatto che persone integrali possano, in precedenza, essere state trattate come se fossero spaccate, ad esempionell’impiego in lavori alienanti o nell’insegnamento anaffettivo di alcuni comportamenti (quali alcuni tipi di addestramento a regole anche familiari) o di alcune materie (quali la matematica malintesa) o in quello a-cognitivo di altre (quali l’arte, una vita gestita dal cuore come sinonimo di una errata concezione dell’istintività ecc.). Altre forme di disagio possono essere riferibili all’autonomizzazione del simbolico: un conto è quando si agisce al livello di z0, un conto è quando ci si trova di fronte a situazioni legate ad altri piani quali z1, o piano delle RR, o dell’ancora più distante z2, o della virtualità di secondo livello:100 quest’ultimo, in particolare, ha l’importante caratteristica, di cui già si è parlato, di apparire come libero dal vincolo dell’inscindibilità tra la I e l’Inv. Aft. Tale proprietà è dovuta al fatto che la virtualità di secondo livello ha come referente quella di primo livello e non direttamente l’empiria, ed è questo che permette di concepire un ambiente, un mondo e una realtà del tutto virtuali rispetto ai quali le due componenti della R possono agire come autonome e, cioè, tali da non essere vincolate dal legame diretto con l’empiria. Tale convinzione di mobilità diventa importante, ad esempio, di fronte a un’intera categoria di comportamenti patologici (fobici, scissi ecc.), come vedremo. Riassumendo il punto di partenza è legato all’ipo100. Ricordo che i vari livelli di virtualità sono definiti al precedente paragrafo 4.3. 2 18


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tesi che z2 possa essere concepito come un ente formato da due semipiani uno completamente affettivo, l’altro cognitivo e tale ipotesi nasce dal fatto che: - mentre z1 rispetto a z0 ha un vincolo forte dovuto all’inscindibilità delle due dimensioni della R, in quanto legate all’empiria, il che, dunque, rende possibile il pensarle come autentiche coordinate di tipo cartesiano caratterizzanti tutti i punti di tale piano; - nel passaggio alla virtualità di secondo livello il vincolo empirico, divenuto vicario, decade e le due dimensioni finiscono con il risultare trattabili come divise. Tale secondo passaggio è dovuto al fatto che la lontananza dall’empiria permette alla persona di trattarle come se si staccassero l’una dall’altra, è come se esplodessero ed emigrassero tutte per collegarsi a quelle del proprio tipo in una sorta di avvitamento che le porti, a seconda della loro natura, a situare l’Inv. Aft. nel semipiano affettivo e la I in quello cognitivo: questo, naturalmente non impedisce che esse possano essere vicine di fatto facendo riferimento alla stessa R, ma permette di comprendere anche perché più immagini, e cioè più cognizioni (più I), possano avere lo stesso investimento affettivo o province di affettività, oppure la stessa immagine possa avere più incorniciamenti affettivi (più Inv. Aft.) o province di cognizione. Sono proprio queste ultime caratteristiche che permettono di pensare che tale emigrazione in z2 – che, ricordo, ha comunque come referente la virtualità autonomizzatasi di z1 – verso uno stesso semipiano, ad esempio affettivo, possa finire con lo sclerotizzare alcune proprie aree in limitate forme affettive, a cui corrispondono zone più ampie di immagini o province di affettività: uno o pochi investimenti affettivi finiscono con il corrispondere ad un insieme più o meno 219


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ampio di cognizioni autonomizzatesi rispetto a quelle appartenenti all’enorme gamma di rappresentazioni contenute in z1. Queste considerazioni permettono di avanzare un’ipotesi in merito alla spiegazione del perché di alcuni comportamenti maniacali: nel momento in cui il singolo dovesse attribuire a un’intera classe di dimensioni cognitive - in quanto collegabili in z1 sulla base di un qualunque criterio - la medesima caratteristica affettiva, creando, proprio per questo, nel semipiano cognitivo una sua partizione o provincia di affettività, allora potrebbe divenire relativamente comprensibile il perché di atteggiamenti che, anche alla luce di una semplice riflessione razionale, potrebbero apparire come incomprensibili. Prendiamo, ad esempio, il caso di una fobia degli insetti di una persona che, pur non ricordandone l’esordio perché troppo piccola, pensava che alle radici di tale comportamento vi fosse la salvaguardia di un infante dai possibili pericoli rappresentati da tali creature. Nel prosieguo dei colloqui si arrivò a capire che, per essa: - l’inizio era comunque rappresentato da un atteggiamento motivato; - che l’insegnamento del genitore era condivisibile e, probabilmente, era avvenuto a seguito di un evento traumatico, ad esempio in seguito al morso di uno di tali insetti o anche semplicemente rispetto ad una banale puntura di una zanzara, o nel caso di un tentativo di suo evitamento; - che poteva essere visto come rientrante all’interno della gestione di un addestramento preventivo all’evitamento di situazioni potenzialmente pericolose, atteggiamento che difficilmente si potrebbe considerare come errato. Nel prosieguo degli incontri convenimmo, con la persona, che l’insegnamento pur essendo corretto, 2 20


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poteva riguardare, almeno nel nostro paese, al massimo solo alcuni tipi di insetti; che di fronte a un’ipotesi di partenza condivisibile, può succedere di ritrovarsi di fronte a comportamenti irrazionali e palesemente assurdi, quali quello di reagire in modo inconsulto di fronte a qualunque piccolo essere volante, anche minuscolo. Cerchiamo, dunque, di capire il perché tutto questo possa accadere, a partire dall’esempio riportato: - in primo luogo vi è l’impatto con un evento traumatico, che può anche semplicemente essere conseguenza di una drammatizzazione comunicazionale di un’informazione addestrativa, un evento che viene trasformato in rappresentazioni (RR), a propria volta introdotte in un universo di significato per fare in modo che possano essere comprese fino in fondo e sulla base di tutte le loro dimensioni possibili, nell’esempio il mondo degli insetti; - usando l’abitudine e l’automaticità dell’approccio positivista appreso fin dalla più tenera infanzia, si cerca di costruire una teoria, anche se per i nostri scopi è sufficiente il senso comune, che riesca a spiegare quanto successo; - sulla base della simmetria si creano le premesse per comprendere ed introdurre una serie di regole che permettano di sfuggire nel futuro alla possibilità di tali accadimenti; - si improntano le azioni attuali a un’ottica che impedisca l’accadimento delle possibilità indesiderate, in una prospettiva che è già di prevenzione; - in modo analogo, poi, si dovrebbe cercare di agevolare gli accadimenti di quelle desiderate. Riprendiamo l’esempio della fobia per gli insetti: c’è un primo impatto traumatico con un insetto particolare o generico, e poco importa che esso avvenga veramente o che il trauma sia conseguenza di una pre221


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parazione narrativa, troppo cruda, operata da un genitore o da un adulto o da una qualunque agenzia di socializzazione che abbiano l’intenzione di addestrare l’infante o la persona; l’episodio vero o presunto viene inserito in un modello di spiegazione di stampo più o meno scientifico; in seguito si informa/addestra il singolo in modo tale da prepararlo a non correre il rischio di essere morso o punto di nuovo. Nei termini della nostra disciplina il percorso può essere immesso nel sistema di piani paralleli di autonomizzazione del simbolico: il ragno o l’insetto appartengono al livello empirico (z0); la spiegazione, più o meno scientifica, al piano delle RR (z1) e, il cui livello affettivo viene determinato dal tipo di impatto emotivo impresso alle proprie parole dalla sorgente della spiegazione; a questo punto si ha la costruzione della patologia con il passaggio al discorso preventivo. Ma cosa significa fare prevenzione? Nei termini della conoscenza scientifica, significa operare secondo lo schema hempelliano, in z1, per impedire che un certo evento indesiderato accada, ad esempio riguardante gli insetti, sempre a partire dalle considerazioni iniziali e delle generalizzazioni o leggi. Ebbene un’ipotesi sulla nascita della patologia potrebbe riguardare il fatto che noi oggi siamo abituati ad operare al secondo livello di astrazione, per cui è come se , pur partendo dal piano z1 delle RR, operassimo un’ulteriore astrazione in z2 creando una provincia di affettività fortemente connotata in funzione del tipo di spiegazione che viene data: nel caso in cui si restasse in z1, essa sarebbe improntata alla scientificità e questo permetterebbe al singolo di avvicinarsi con curiosità e sete di conoscenza al prossimo ragno o insetto incontrato; nel caso in cui essa fosse improntata alla paura generica, come sostituto di una qualunque prospettiva conoscitiva (euristica), allora l’infante o la persona potrebbero divenire preda di una sorta di 2 22


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automatismo che rende dominante il meccanismo affettivo loro insegnato: la trappola della provincia di affettività scatta nel momento in cui ad ogni nuovo ragno o insetto che dovessero entrare nel raggio di percezione del singolo e alle loro immagini venissero automaticamente attribuiti gli investimenti affettivi incamerati nei primi contatti rappresentativi o comunicazionali. Non solo, ma poiché si tratta di RR, a fare scattare il sentimento negativo è sufficiente il sospetto che vi possano essere ragni o insetti: in assenza di una sorgente empirica, la paura si trasforma in aspettativa di paura, in ansia indeterminata, che proprio per tale caratteristica si generalizza; la provincia di affettività fa il resto secondo un meccanismo estremamente semplice, che è quello del contagio come conseguenza della fungibilità simbolica, per cui l’ansia viene trasmessa a tutte le immagini di organismi e di situazioni possibili, questo la trasforma in fobia come assegnazione indistinta, ai messaggi provenienti da fonti appartenenti all’ambiente - che vengono rese simili dalla nostra azione di lettura – di immagini che vengono incasellate in categorie legate al pericolo, passo che le porta ad un automatico rifiuto generalizzato e, proprio per questo, di difficile gestione, se non del tutto ingestibili, per la persona. L’accomunare, nell’investimento affettivo negativo verso alcuni, tutti gli insetti di una certa categoria, anche se dovessero avere dimensioni insignificanti, spesso, sembra incredibile e irrazionale per un osservatore esterno che non agisca in una provincia di affettività. Di fronte alla presenza di insetti, o addirittura alla semplice possibilità che essi vi siano, la persona può arrivare a mostrare comportamenti di paura più o meno controllata oppure autentici stati di angoscia o di panico (parossismo) nel momento in cui dovesse arrivare alla convinzione che, pur non essendo evidente la loro presenza, essi siano comunque presenti ovunque: nel simbolico autonomizzato 223


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la presenza potenziale ha la stessa natura di quella rappresentata. Lo stato parossistico, spesso, si può raggiungere anche semplicemente a fronte della possibilità che vi possa essere una presenza. Ricordo che la paura come stato provocato dalla presenza del pericolo diviene angoscia nel momento in cui tale stato, pur non essendo accertato, diviene comunque possibile o anche semplicemente temuto: nel momento in cui ci fosse tale convinzione, l’evoluzione sarebbe quella che porta dalla paura all’angoscia e, infine, al panico. Un simbolico non inquadrato e non frenato dall’empirico può non avere limiti. Per questo il giusto insegnamento dell’educatore o del terapeuta dovrebbe essere teso a suscitare, nella persona, una reazione di gestione di quanto elaborato a livello virtuale rispetto alle risposte riguardanti eventuali analoghe situazioni future, altrimenti una volta che venisse staccato dalle concrete situazioni pericolose, correrebbe il rischio di diventare, appunto, un comportamento non gestito. Alle radici di tale trasformazione vi potrebbero essere sia qualità specifiche comunicazionali legate ad effettive situazioni ambientali (ad esempio, collegate al medium di riferimento), sia, più semplicemente, peculiarità dovute ai sistemi di RR introiettati dal singolo: l’attribuzione affettiva subita o temuta, nel momento in cui non vi fosse un forte addestramento al suo controllo, potrebbe correre il rischio di divenire automatismo la cui gestione potrebbe finire con lo sfuggire dal controllo della persona, divenendo meccanismo di ripetizione privo delle caratteristiche giustificative dei primi episodi. Dal timore, divenuto meccanismo logico per fare simmetricamente intervenire una prevenzione sul futuro, si passa ad un comportamento generale e generalizzato, il cui detonatore diviene pura ripetizione: la memoria corre ad una bambina la cui visione della 2 24


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mela avvelenata della favola a cartoni animati di Biancaneve e i sette nani, diviene rifiuto ossessivo per tutte le mele ed in particolare per quelle rosse. Anche qui due livelli di lettura: in primo luogo vi è l’intenzione del gruppo di realizzazione del cartone animato che, probabilmente, ha voluto dare una visione estetica della mela rappresentandola al meglio possibile, ed infatti è bella, rossa anche se il rosso si manifesta in dissolvenza incrociata, dopo avere rappresentato con un teschio la morte e quindi la pericolosità del frutto stesso per la sua immersione in una pozione avvelenata; in secondo luogo vi è l’interpretazione della bambina che, ingannata dall’immagine estetica, si ritrova a generalizzare l’uguaglianza mela rossa = pericolo che lei trasforma in mela = pericolo estendendola a qualunque situazione possibile futura, ad ogni mela che si dovesse trovare di fronte, in particolare quelle rosse. Questo tipo di riflessione permette di avanzare un’ipotesi anche su altre sindromi, ad esempio, rispetto a chi ha problemi legati a tutte le situazioni maniacali, più o meno gravi, ai disagi dissociativi, alle fobie verso alcune tipologie di esterno, alla virtualità del compagno con cui il disagiato dialoga in assenza di interlocutori ecc.: tutti divengono meno oscuri in z2. Il fatto di avere concepito tale piano come suddiviso in due semipiani, uno affettivo e l’altro cognitivo, permette di comprendere il precedente caso della bambina: dalla situazione particolare della mela di Biancaneve, e siamo in z1, l’ipotesi è che nel momento in cui la bimba l’avesse virtualizzata per la seconda volta, per gli insegnamenti avuti che la portano ad apprendere dai singoli casi per generalizzarli a fini preventivi, e l’avesse proiettata nel futuro, avrebbe compiuto un’operazione che ci permetterebbe di capire il perché la somma di una sensazione corretta - anche se indotta da un cartone animato che viene percepito 225


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come empiria e quindi riferito a torto a z0 - più un’accortezza tipica delle culture della simmetria possano portare a situazioni apparentemente ingestibili e per questo, anche se in tal caso in minima parte, patologiche. Riprendendo la riflessione sui due semipiani, qualora quello affettivo venisse caratterizzato in tutto o in parte da una attribuzione sentimentale dal punto di vista affettivo (sono quelle che ho chiamato le province di affettività), ad esempio negativa, allora quest’ultima si potrebbe estendere ad ognuna delle componenti cognitive (tutte o parte) dell’altro semipiano in una qualche maniera riferibili a quelle già etichettate da tale punto di vista. Non solo ma, essendosi allentato per il singolo il legame con l’ambiente, e in particolare con la sua realtà personale, le possibilità di un’autogestione dei conseguenti stati di difficoltà, dovuti al trattamento delle dimensioni delle RR come scisse, diverrebbe estremamente ridotta, dovendo, per essere compresa e gestita appieno, essere affrontata in z2. Per molte persone il disagio riguarda un simbolico non direttamente legato all’ambiente: caso ne siano le forme gravi di melanconia di persone che in apparenza hanno tutto ma non sanno perché debbano vivere, casi la cui situazione si rivela estremamente complessa da decodificare; il loro malessere è virtuale e se dovessimo cercare soluzioni empiriche ci potremmo trovare di fronte a sottovalutazioni e a rifiuti apparentemente incomprensibili di tutto quanto è in loro possesso. I bisogni del singolo non appartengono a tale livello di comunicazione; la scontatezza con cui sottovalutano quanto loro appartiene o sono a loro disposizione sono tipici di una lettura fatta da chi appartiene alle società del benessere e dell’opulenza. È questa situazione che può scatenare, nel singolo, reazioni incomprensibili a livello dell’emotività di senso comune, ad esempio con fenomeni di depressione e 2 26


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di autopatologizzazione spesso intervallati a forsennati attacchi e accessi di furore alle cose o alla società, apparentemente del tutto immotivati. 9.3 L’organizzazione topologica della persona Cosa significa “organizzazione topologica”? Indica un modo quasi grafico per rappresentare l’agire mentale della persona, come fosse una sorta di studio geografico delle sue forme culturali, organizzative, motivazionali ecc. Per questo il singolo viene rappresentato come fosse un recipiente: che cos’è che differenzia una persona da un altra? Il contenuto del recipiente e cioè la sua storia. La famiglia, il lavoro, gli amici, il tempo libero, le conoscenze ecc., costituiscono il Sé, che, quindi, è tutto il nostro passato nella nostra singolarità: la nostra vita pur potendo anche assomigliare a quella di qualcun altro avrà pur sempre qualche caratteristica del tutto personale.

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Questa regionalizzazione del Sé è basata sulle RR, e sui loro sistemi, che si ripartiscono nelle varie aree e che determinano, sulla base della somma degli investimenti affettivi, le dominanze relative e quindi le rispettive capacità di influenzare le azioni. Ogni area, poi, si accresce sulla base dei nuovi input le cui caratteristiche cognitivo/affettive vengono determinate dalle dominanti dell’area stessa. La nascita o, meglio, la definizione del Sé inizia a cavallo della nascita, con l’attivarsi della capacità biologica originale del corpo di operare una progressiva introiezione dell’ambiente mediante attribuzione affettiva agli input cognitivi che arrivano in conseguenza della progressiva riduzione sensiva dell’ambiente. La seconda componente dell’organizzazione topologica è l’Io. L’Io è un’istanza logica, frutto dell’approccio addestrativo, figlia dei processi formativi, che è originata dalle particolari condizioni ambientali nelle quali il singolo uomo nasce e si trova ad operare. È estremamente plastica e funzione dell’ambiente in cui il nuovo organismo deve vivere, del quale assimila sia le condizioni minime localmente favorenti la vita, sia la razionalità, biologica e culturale, che diviene meccanismo logico di sopravvivenza e di sviluppo, agendo contemporaneamente come strumento di decodifica dell’esterno guidato dal Sé, di arricchimento di quest’ultimo e, successivamente ed in seguito alle sue elaborazioni, di esecuzione dei comandi da esso provenienti. Ad esempio: “se intendessi comprarmi una maglia”, apparentemente ho due possibilità mentre, di fatto, ne ho almeno una in più: a. ho i soldi; b. non li ho; c. potrei averla in altre maniere, quali farmela regalare ecc., oppure prenderla senza pagare; 2 28


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Dunque: - se avessi i soldi, il mio Io mi potrebbe informare che è sufficiente pagarla e prenderla; - se non li avessi l’Io potrebbe continuare ad informarmi dicendomi che non li ho e, dunque, non posso averla, a meno che non segua altre vie, oppure potrebbe anche trovarsi di fronte al comando che uscisse dal Sé “voglio quella maglia e potrei prenderla senza pagare”. In questo caso il vero scontro avverrebbe all’interno del Sé tra le due aree regionali riguardanti da una parte il desiderio dell’indumento – e quindi con tutte le ragioni per un possibile acquisto che vanno da un’esigenza dovuta a carenze vestiarie, al desiderio di essere alla moda, o al puro e semplice desiderio di possesso – dall’altra il legame con i principi morali e normativi posseduti: nel momento in cui il desiderio fosse più forte dei principi, o anche semplicemente nell’attenuarsi di questi ultimi, soprattutto nei periodi di transizione a nuove forme del diritto, a vincere potrebbe essere il primo, perseguito a tutti i costi. Quindi l’organizzazione del comando e/o la sua razionalizzazione possono riguardare anche aspetti devianti quali, ad esempio, il furto. È il bilancio energetico del Sé che decide se prendere una cosa e se il furto, anche se non dovesse fare parte del proprio passato, possa rientrare nel sistema di RR attualmente possibili, allora la persona, in caso di impossibilità dovuta a risorse insufficienti, potrebbe decidere di prenderla comunque: in tale caso il compito dell’Io si ridurrebbe a quello di fare in modo che ciò avvenga nella maniera più logica possibile. Se, invece, del Sé facesse parte una R a forte investimento affettivo (Inv. Aft.) riguardante l’onestà, allora lo scontro tra le due istanze - tra amore per il diritto e il furto o l’opportu229


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nismo - verrebbe risolto dall’Io sulla base del sistema di RR contenente il maggiore investimento affettivo. Per capire correttamente la ragione, del tutto analitica, dell’introduzione dell’organizzazione topologica della persona occorre partire dall’infante e dalla sua attività di fondazione della propria identità attraverso la costruzione del proprio sistema di RR. Essendo una potenzialità, egli può essere letto rispetto a tutto il ventaglio di mete possibili nella nostra società per capire quale o quali di esse possano divenire attuali, e cioè possano concretamente essere realizzate. Ora il sistema di RR si forma dal momento in cui le prime immagini - dovute alla riduzione sensiva dell’ambiente - vengono caricate affettivamente e vanno a formare le prime RR che vengono memorizzate dall’infante: proprio queste RR vanno a finire in quella sorta di recipiente metaforico che è stata chiamata Sé. Come già introdotto, è il Sé che permette le varie singolarità, proprio perché anche di fronte ad uno stesso stimolo gli investimenti affettivi sono comunque personali, appartengono a sistemi differenti e quindi finiscono con il differenziare gli stessi uomini. È sufficiente pensare alle diversità che, nonostante le eventuali somiglianze anche forti, caratterizzano due o più gemelli: le differenze finiscono con l’essere collegate proprio alla qualità e alla quantità degli investimenti affettivi, che divengono anche un possibile criterio classificatorio all’interno del Sé. In tal senso, ad esempio, si può pensare che le RR si raggruppino in sistemi sia seguendo un criterio per settori di interesse, strettamente collegato, quindi, alla dimensione cognitiva (la I) che uno collegato alla qualità e/o intensità dell’investimento affettivo (l’Inv. Aft.), senza scordare che ogni criterio di classificazione è del tutto personale. Tale tipo di impostazione, poi, permette di approfondire meglio anche alcuni altri concetti della nostra 2 30


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disciplina quale quello di realtà, che per la socioterapia, è legato alla proiezione del sistema di RR posseduto dal singolo sull’ambiente: in questo senso la realtà perderebbe quell’aura di oggettività che spesso le viene attribuita, soprattutto nel frasario di senso comune. Essa risulterebbe intimamente collegata ai sistemi di decodifica dell’ambiente e, soprattutto all’intensità degli investimenti affettivi effettivamente impegnati dal singolo. Questo permette di avanzare anche un’ipotesi sull’influenza della deriva storica dei media sullo stesso concetto di realtà: nel passaggio dall’approccio medioevale a quello tipografico diviene concepibile la nascita di un’ulteriore concezione della stessa; nel momento in cui l’autonomizzazione del simbolico porta alle conseguenti forme evolutive anche il sapere da collettivo diviene individuale – di qui, ad esempio, l’ipotesi che possa tornare collettivo in una società dominata dai nuovi media. La necessità delle società attuali di tradurre l’oggettività in momento intersoggettivamente accertabile mostra le difficoltà delle nostre culture di fronte alle necessità della comunicazione: nel momento in cui abbiamo spaccato nell’individualismo la precedente completezza collettiva, in quel momento abbiamo costruito il soggetto come meravigliosa macchina per lo sviluppo di una conoscenza che, tuttavia, aveva in sé i germi di una spaccatura tra scienze idiografiche e scienze nomotetiche, tra dimensione regolata da leggi e la dimensione individuale, del caso singolo, artistico o affettivo. Ora, con i nuovi media, ci si ritrova nella situazione per cui ritorna ipotizzabile il superamento di una cultura basata sull’asserita spaccatura (tipografica) tra le componenti cognitive e quelle affettive: questo potrebbe volere dire, anche, il superamento dell’attribuzione individuale della conoscenza, dell’esperienza e della vita, per un ritorno, forse e ripeto forse, a una 231


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dimensione non individualista della cognizione e questo potrebbe anche rendere il relativismo culturale un concetto superato: una nuova forma della coscienza collettiva potrebbe presupporre anche la possibilità di una nuova forma di conoscenza collettiva. In tale ottica, l’Io diviene un’istanza logica di connessione tra il Sé del singolo, e quindi tra il suo sistema nervoso centrale (S.N.C.) che è un organo separato dall’esterno, e l’ambiente: egli gestisce tutti gli input sensoriali e li legge sulla base dei sistemi di RR contenuti nel Sé, e, simmetricamente, elabora, sempre sulla base di quanto contenuto nel Sé, gli output dovuti al lavoro dell’S.N.C. che portano all’effettuazione dell’azione, sempre sulla base di una sorta di bilancio energetico per cui vince il comando proveniente dal sottosistema di RR a maggiore investimento affettivo. Lo schema topologico, poi, ci mette in condizione di rappresentare i possibili sistemi e sottosistemi di RR contenuti nel Sé e le loro reciproche relazioni. Così, ad esempio, nel momento in cui la droga - il cui legame con la persona è prevalentemente affettivo – o qualunque altro fattore patologizzante entrano in un organismo creano una situazione di dipendenza: nei nostri termini, questo vuole dire che le RR legate ai loro effetti, nel momento in entrano nel Sé formano una propria regione a forte valenza affettiva e a forte capacità espansiva che va a comprimere tutti gli altri sottosistemi di RR riguardanti i restanti aspetti della vita, per cui, in conclusione, la persona finisce per vivere prevalentemente, o solo, in funzione di azioni dettate da quel sottosistema. L’introduzione dell’organizzazione topologica, dunque, si configura essa stessa come traduzione grafica di sistemi di RR, introdotta per rendere immediatamente comprensibile il tipo di dinamiche mentali poste in atto dal singolo di fronte ad una serie di aspetti codificati (e cioè tradotti in RR) della propria 2 32


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vita, rispetto ai quali, ad esempio, nella nostra cultura si possono mettere in atto comportamenti più o meno cognitivi oppure più o meno affettivi, per questo occorre ricordare che: - in ognuno dei sottosistemi, delle regioni del Sé riguardanti la vita della persona ci sono RR; - le funzioni dell’Io sono quelle di codificare gli stimoli provenienti dall’esterno e di tradurre in azioni gli impulsi provenienti dall’interno: occorre ricordare, che, nel momento in cui l’Io origina le azioni, l’energia la prende dall’affettività, che diviene il vero motore di esse, per cui le RR, in quanto depositarie degli investimenti affettivi, divengono possibili fonti di azioni, di qui il fatto di considerarle come autentici motori rappresentazionali di azione. L’istanza logica (l’Io) serve, in particolare e come introdotto, a tradurre gli impulsi interni in azioni. Nel momento in cui, ad esempio, la persona desiderasse uscire da uno stato di dipendenza perché ci dovrebbe essere bisogno di un operatore esterno? Perché è colui che dovrebbe aiutarlo a valutare quali degli output uscenti dal Sé (intesi, questi ultimi, come la pluralità dei comandi che arrivano all’Io dai sottosistemi presenti nel Sé) debbano essere attuati oppure no. Quando arrivano due comandi, quello che è più forte affettivamente vince, è un calcolo quasi energetico al quale, se negativo, si potrebbe opporre solo un Io fortemente addestrato nei propri legami (affettivi) con principi morali ed etici effettivamente saldi: è questo l’ambito ed il prodotto dell’istruzione in quanto processo collettivo di acculturazione (ad esempio di socializzazione) dei nuovi nati. Così, ritornando all’esempio sopra ricordato, nel momento in cui la forza rappresentativa della droga, sempre nei termini dell’entità della dimensione affet233


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tiva posseduta, dovesse superare l’intensità di quella dei valori e dei principi, singolarmente e collettivamente condivisi, appartenenti al singolo, ebbene ciò vorrebbe dire che, in quel momento, lui da solo non avrebbe la capacità di uscire dalla dipendenza. Ci vuole un evento esterno che spacchi quel tipo di sudditanza. All’Io non resterebbe altro che razionalizzare ogni tipo di decisione: da quella di arrendersi alla dipendenza; a quella di affidarsi ad un ente esterno specializzato che lo aiuti; a quella di decidere di fare da solo. Nel momento in cui la presa della dipendenza non fosse particolarmente forte, inferiore comunque alla forza posseduta per la gestione di sé in base a principi condivisibili, solo allora potrebbe accadere che ci riesca da solo. Ma questo, forse e se ci fosse stato, avrebbe dovuto renderlo capace di restare lontano dalla dipendenza fin dall’inizio. L’Io è l’istanza che organizza il piano per eseguire logicamente e al meglio gli impulsi uscenti dal Sé. Il punto base è proprio questo: il fatto che io, rispetto a certe regole che fanno parte del Sé, abbia un comportamento opportunistico o addirittura deviante, vuol dire una cosa molto semplice, vuol dire che il singolo nel momento in cui razionalizza che il suo è un comportamento desiderato ma illecito, in quel momento lo giustifica: l’inconscio diventa un artificio della società della soggettività - e da lei socialmente accettato - usato dall’Io a posteriori per permettere ad alcune parti del Sé forti dal punto di vista affettivo di fare quello che a loro pare.101 Nel momento in cui si intendesse scusare un comportamento, altrimenti individualmente e socialmente non ammissibile, sarebbe estremamente semplice utilizzare l’inconscio come artificio giustificativo: il magma energetico dell’Es potrebbe finire con il coin101. Per approfondire tale argomento cfr. Benvenuti, L., Malattie mediali, op. cit., pp.234-250. 2 34


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cidere con l’autocentrismo, con l’egoismo e l’autoreferenza della soggettività. L’inconscio potrebbe essere concepito come lo strumento cognitivo che l’Io della soggettività utilizza per giustificare l’autonomia del singolo perfino rispetto ai valori da lui stesso ritenuti positivi: il soggetto, in quanto autoreferente e quindi contemporaneamente attore e giudice, non vuole neppure sottostare a quanto lui stesso dovesse ritenere logico e/o giusto. In nome della propria autonomia ricorre ad un simbolico autonomizzatosi per potere fare quello che gli piace e/o non fare quello che gli è sgradito: al di là di ogni principio, nelle società della soggettività, l’autonomia egoistica, l’autocentrismo e l’autoreferenza devono essere massimi. L’Io, quindi, finisce con l’essere un’istanza logica strettamente legata alla cultura di appartenenza del singolo. Perché ci dovrebbe essere bisogno dell’inconscio, ad esempio per le donne borghesi? Esse, in quanto parte socialmente più fragile, a causa della repressione sessuale e delle limitazioni dovute al genere di appartenenza (femminile) che venivano tradotte in un continuo scontro con se stesse, erano obbligate a risolvere i conflitti, soprattutto secondo il modello freudiano, nella isteria da conversione. In una società caratterizzata da tale repressione sessuale non si riusciva ad ammettere che una donna timorata di dio, moglie devota e madre premurosa potesse desiderare di avere relazioni al di fuori degli ambiti ammessi. Si ricorreva così all’inconscio, per questo altrove definito come artificio,102 per spiegare comportamenti altrimenti socialmente inaccettabili. La donna borghese, e non solo quella educata in collegio, doveva essere disciplinata per cui la giustificazione di un comportamento non ammesso - che fosse stato agito (donna 102. Vedi nota precedente. 235


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sessualmente libera o prostituta) o non agito (isteria) – veniva relegata nell’inconscio. Enorme la differenza, ad esempio, rispetto all’epoca attuale nella quale l’esorcizzazione della sessualità sembra manifestarsi, secondo quanto ricordato da Baudrillard, soprattutto per via mediale, attraverso una particolare sua sterilizzazione: l’eccesso di immagini erotiche trasmesso per mezzo di ogni medium possibile finisce per neutralizzare, a livello simbolico, lo stesso desiderio.

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LEZIONE X

10.1 Possibilità, ambiente e realtà: il concetto di possibilità Un primo punto importante, nell’approccio alla persona, è evitare i pregiudizi (anche quelli scientifici) del terapeuta e mettere in campo sia una lettura personalizzata del caso, sia l’intero ventaglio delle interpretazioni e delle soluzioni teoricamente ipotizzabili, o possibilità. Che cos’è una possibilità? Da un punto di vista interamente simbolico, è un motore rappresentazionale,103 sovente presente nella persona insieme ad altri - diversamente non ci sarebbero possibilità ma percorsi obbligati - e riguardante ipotesi d’azioni future. Nel caso di più possibilità, esse, per essere tali, devono: - partire da una stessa analisi situazionale (altrimenti ci si troverebbe all’interno di corpi teorici diversi); 103. Ricordo che RR e sistemi di RR sono potenziali motori d’azione, quelli che in socioterapia sono chiamati anche motori rappresentazionali. 237


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- riguardare, come introdotto, il futuro; - superare l’opinione di senso comune legata alla convinzione che l’operare una scelta a favore di una di esse comporti, automaticamente, la perdita di tutte le altre.104 Occorre tenere presente, inoltre, che nel momento in cui si dovesse usare il termine di possibilità rispetto a situazioni o fatti riguardanti il passato sarebbe meglio parlare di alternative: per questo nella nostra disciplina si preferisce parlare non di decisioni passate possibili, nel senso che rispetto alle possibilità che la persona aveva - e che riguardavano il futuro di allora - essa ha già operato una scelta, ma di alternative allora disponibili. L’analisi del passato, poi, permette al terapeuta di capire non tanto le possibilità della persona, evento difficilmente accertabile dopo, ma il perché, tra le tante alternative definibili, ha scelto proprio quella; è necessario, inoltre, che egli inquadri il tutto in quella che è una condizione precisa e cioè il fatto di essere all’interno di una situazione completamente irreversibile, almeno dal punto di vista temporale. Importante, poi, è per entrambi – terapeuta e paziente - quanto effettivamente accaduto poiché può servire come verifica a posteriori proprio dei criteri di scelta utilizzati e dunque delle capacità previsionali allora possedute dalla persona. La comprensione di queste ultime permette, inoltre, di distinguere, tra i vari sistemi alternativi di RR compresenti nel singolo, quelli che sono rimasti a livello di organizzazioni simboliche da quelli che sono stati posti in essere, dato 104. L’approccio specialistico della sociologia si distacca in modo deciso, come vedremo più avanti, proprio rispetto a quest’ultimo punto di senso comune nel momento in cui introduce il concetto luhmanniano di senso come riduzione e contemporaneo mantenimento della complessità . 2 38


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che, i due gruppi, sono intrinsecamente diversi poiché i primi appartengono interamente al piano simbolico, mentre i secondi sono hanno dato origine ad azioni che sono empiricamente valutabili. L’effettuazione dell’azione, infine, è funzione di un ulteriore intervento destinato a relegare tutte le possibilità non scelte a livello di RR potenziali, a favore di quella o di quelle realizzate (poste in essere): ancora una volta, a venire chiamati in causa sono gli investimenti affettivi contenuti nelle RR, e/o nei sistemi di RR, che - in quello che abbiamo chiamato come una sorta di bilancio energetico - influiscono, e/o confluiscono, nel determinare la decisione, favorendo quelli a maggiore carica affettiva, deprimendo e/o evitando quelli a carica minore. Questo nostro approccio permettere di dare un significato anche ad uno dei concetti più densi del pensiero di Luhmann, quello di senso,105 al fine di rendere comprensibile come si possa ridurre la complessità mantenendola, o effettuare una scelta tenendo compresenti tutte le altre possibilità non praticate: l’approccio, ad esempio, è diverso da quello strettamente pragmatico che tende ad occuparsi semplicemente di quanto posto in essere, relegando, spesso, al rango di opinione non scientifica ogni forma di pensiero che esuli da quanto concretamente accertabile. Quello che, nei termini del senso comune, potrebbe sembrare difficilmente spiegabile, è il fatto che si possa ridurre la complessità pur mantenendola o operare una scelta tenendo compresenti tutte le altre possibili e ciò, pur sembrando empiricamente non praticabile, 105. Il senso non è un evento selettivo, ma una relazione selettiva tra il sistema e il mondo, sebbene anche così non sia adeguatamente caratterizzato. Piuttosto la vera particolarità dell’elaborazione sensiva dell’esperienza vissuta sta nel rendere contemporaneamente possibili riduzione e mantenimento della complessità. In N. Luhmann, op. cit., p.21. 239


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lo diviene a livello simbolico: tutte le possibilità - prima della loro attuazione e viste dal punto della nostra mente - sono RR o sistemi di RR e, dunque, potenzialmente possono sia dare il via ad azioni, sia essere immagazzinate nella memoria come fonti esperienziali possibili, in vista di eventuali impieghi futuri.106 Il discorso luhmanniano diviene estremamente pregnante e comprensibile se si resta a livello delle rappresentazioni, livello nel quale sopravvivono tutte le organizzazioni simboliche possedute dalla persona,107 anche quelle che potrebbero non arrivare mai al livello dell’empiria ma che, indubbiamente, appartengono a z1, e cioè al primo livello di virtualità o del simbolico. Un certo tipo di disagio comunicazionale nasce proprio nel momento in cui la persona dovesse confondere il livello delle RR con quello dell’empiria e, quindi, con ciò che comunemente viene chiamato realtà.108 Il fraintendimento è dovuto al fatto che, mettendo tutte le possibilità sullo stesso piano e, in particolare, assimilando quelle non scelte a quelle scelte (come se fossero tutte ugualmente legate all’empiria) si può 106. L’esempio dell’asino affamato di fronte a due mucchi di paglia vale solo se usato in senso metaforico poiché dubito che l’animale avrebbe perplessità: per lui la dimensione simbolica è completamente immersa nell’empiria per cui, molto probabilmente, si mangerebbe semplicemente prima l’uno e poi l’altro, in funzione della fame posseduta. 107. Il riferimento qui è alla distinzione tra le RR possibili, le realizzabili e le realizzate: le possibili sono quelle che una persona può costruire a livello simbolico, ad esempio superman non esiste ma è stato creato nei fumetti o negli effetti speciali cinematografici; le realizzabili sono quelle che hanno comunque una portata empirica, qualora si decidesse di attuarle; le realizzate sono quelle che sono state attuate empiricamente. 108. È importante distinguere tra il significato attribuito a tale termine dal senso comune e quello specialistico della nostra disciplina. 2 40


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creare nel singolo una pericolosa fonte di disagio che lo può condannare: - o all’insoddisfazione continua dovuta ad una sorta di ingordigia dalla quale può essere preso proprio per il fatto che una o poche possibilità siano state soddisfatte, per cui è come se qualcuno gli impedisse di realizzare tutte le altre; - o all’impotenza e al rimpianto per tutte le occasioni perse, in particolare in coincidenza con il confronto con quanto realizzato da altri, soprattutto se coetanei: situazione, questa, possibile proprio perché a livello simbolico nulla vieta di immaginarsi al loro posto (è la fungibilità simbolica tipica dei livelli, z1 e z2, da questo punto di vista assolutamente diversi da quello empirico z0) e quindi di considerare loro semplicemente fortunati perché “se fossi stato al loro posto … chissà cosa avrei fatto”. 10.2 Prevenzione e comportamenti fobico/maniacali. Il percorso che va dalle possibilità, come preambolo alle situazioni di ingordigia, di insoddisfazione o di stallo, unite alla logica della prevenzione è importante per avanzare un’ipotesi socioterapeutica riguardante, nelle nostre società della soggettività, i comportamenti fobico/maniacali: uno dei fenomeni più insidiosi ed interessanti della nostra cultura. La premessa è rappresentata dalle caratteristiche di tale classe di disagi che possono essere riassunte in una serie di punti estremamente sintetici, che vanno: dalla presenza di comportamenti caratterizzati da manifestazioni di una paura che potrebbe essere riconosciuta soprattutto come immotivata, al di là delle forme più o meno accese, nelle quali si dovesse manifestare, e rispetto ad una o a più fonti; al fatto che possa essere legata non solo alla presenza di tali 241


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fonti ma anche semplicemente al sospetto che esse vi possano essere. Queste due sensazioni, legate alla presenza effettiva o di semplice possibilità, scatenano agitazione ed ansia che possono avere come sbocco veri attacchi di panico, premesse di forti difficoltà nell’affrontare le situazioni; difficoltà che possono sfociare in rifiuti manifesti o in comportamenti di evitamento incontrollato che, a loro volta, possono portare ad autentiche fughe; le interferenze con le normali attività dell’esistenza, poi, possono finire con l’essere pesanti e tali da compromettere per periodi di tempo più o meno lunghi la stessa qualità, personale e/o sociale, della vita quotidiana, e non solo relazionale. Tale breve e veloce quadro è utile se riferito alle conseguenze di queste sindromi, ma può essere maggiormente utile se diviene premessa per la ricerca delle ragioni sui perché essa s’instauri. Secondo la nostra ipotesi, il punto di partenza è la prevenzione come caratteristica, a fondamento metodologico, augurabile, giusta e tipica del patrimonio occidentale di conoscenze positive, alle cui radici vi è sia il problema della gestione della società sia, e soprattutto, l’esigenza di riuscire ad ideare comportamenti che permettano di evitare le situazioni patologiche e potenzialmente traumatiche della nostra esistenza o, simmetricamente, di riuscire a realizzare quelle augurabili. Tuttavia, occorre prestare la massima attenzione anche agli eventuali effetti negativi che la generalizzazione di tale approccio può avere introdotto. Per mettere a fuoco tali ultimi effetti si parte dal modello nomologico di spiegazione/previsione, e, specialmente, dalla sua caratteristica di simmetria in base alla quale una spiegazione risulta essere accettabile nel momento in cui permette di prevedere un fenomeno. In altri termini e ragionando rispetto alla prevenzione, ciò vuole dire che un comportamento preventi2 42


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vo per essere corretto dovrebbe riuscire ad esorcizzare il prevedibile nel momento in cui esso dovesse essere non-desiderabile: si dovrebbero, quindi, prendere tutte le cautele possibili per negare l’indesiderato o eliminare tutte le condizioni che potrebbero impedire quanto desiderato.109 Un ulteriore aspetto della prevenzione è legato al fatto che essa, per essere efficace, non possa essere parziale: pur avendo a bordo scialuppe di salvataggio in buono stato ciò non autorizza ad andare per mare qualora ci fosse la previsione di un maremoto. Essa, dunque, per essere efficace dovrebbe essere globale: una sorta di filosofia di vita legata strettamente alle capacità della persona di leggere e, quindi, di decodificare l’ambiente. Ma con il concetto di capacità si introduce una caratteristica importante legata, appunto, al fatto che la rappresentazione che una persona (p) ha di se stessa, R(p)p, non sia un impedimento ma un veicolo di mediazione rispetto ad ogni sua lettura dell’esterno, R(esterno)p. Così, ad esempio, in molti casi di insicuri da me seguiti, le persone hanno escogitato una serie di meccanismi di apparente contra109. Questo differenzia notevolmente il procedere scientifico delle nostre culture rispetto a quelle orali precedenti per le quali l’aspetto del divieto sul futuro, dovuto a conoscenze pregresse, era legato a prescrizioni normative sovente a carattere religioso che possono essere ricomprese nel termine di tabù: “Termine di origine polinesiana, entrato nel linguaggio dell’antropologia. Indica un atto che è proibito; la violazione di un tabù è punibile con sanzioni soprannaturali. Riguarda soprattutto gruppi etnici non alfabetizzati, ma se ne riconoscono anche forme persistenti nella nostra civiltà. Si tratta di norme negative che generalmente proibiscono comportamenti diversi in diverse popolazioni. Ha tuttavia carattere praticamente universale la proibizione di rapporti sessuali fra persone unite da parentela (tabù dell’incesto). Generalmente gli atti proibiti non sono pericolosi per l’individuo e la società ed esprimono soprattutto, come mostrano le ricerche antropologiche, effetti di emozioni terrifiche rispetto a poteri soprannaturali e mal conosciuti.” Dalla Volta, A., Dizionario di Psicologia, Giunti-Barbera, Firenze, 1974, p.739. 243


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sto alla propria insicurezza, meccanismi che possono andare da una chiusura autoreferenziale, con il risultato di sospettare di tutto e di tutti,110 ad una sorta di logorrea, a partire dalla quale esse finiscono con il raccontare a chiunque dovessero incontrare dubbi o parti della propria vita più o meno estese per richiedere pareri e consigli che, spesso, finiscono per fare assomigliare il loro sviluppo ad una specie di rotta navale assolutamente non lineare ma piena di andamenti spezzettati, di ripiegamenti, di salti e di disorientamenti che non faranno altro che accrescere la sfiducia in se stessi. La sfiducia, dunque, si alimenta a partire da due grandi ambiti di dubbio (o di pseudo-certezze) - quelli cognitivi e quelli affettivi - che vengono usati l’uno per cercare di limitare i danni dovuti alla paura di non gestibilità dell’altro: - nel primo caso, la debolezza cognitiva può essere affrontata: a) massimizzando e/o irrigidendo la dimensione affettiva sia in senso negativo, con una completa sfiducia nelle proprie capacità - ed allora una sostanza può diventare il punto di appoggio/ compensazione dei propri limiti – sia positivo ver110. Una variante particolare dovuta all’insicurezza è quella che, in socioterapia viene chiamata la sindrome di Crono (o tempo): è il Khronos dei Greci o il Saturno dei Romani che inghiottiva i propri figli, essendogli stato pronosticato che uno di loro (che sarebbe stato Giove) lo avrebbe cacciato dal trono. Due considerazioni, a partire dal mito: a) nella nostra disciplina, in analogia con l’operazione freudiana del narcisismo, trae il proprio nome da una particolare forma di mania di persecuzione, legata alla paura e al sospetto di essere insidiati dai propri figli, naturali o culturali, dai propri allievi e in genere dai propri successori; b) il fatto che Crono ingoi i figli coincide con una concezione orale del tempo come consegna agli dei del futuro, laddove nelle società tipografiche e post-tipografica il futuro viene affrontato con l’approccio scientifico e preventivo: paradossalmente in queste ultime è il passato o meglio la sua interpretazione ad essere affidata agli dei ovvero ad una referenza più o meno scientifica e alle capacità interpretative del professionista specializzato. 2 44


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so se stessi e cioè rifugiandosi sotto a un’etichetta convenzionale, un ruolo (didattico, organizzativo, amministrativo, scientifico o relazionale, ricercato o auto-attribuito ecc.) - e allora vi può essere un trincerarsi dietro a una posizione di ruolo legata ad un’organizzazione, formale o informale; b) oppure scegliendo la strada di un’opposizione più o meno radicale ad ogni forma di organizzazione incontrata: questa, ad esempio, è una tipica posizione giovanile nel momento in cui il singolo si dovesse accorgere che dicendo sempre di no viene, sovente, considerato vivace ed intelligente: c) oppure, facendo assumere all’espressivo un ruolo, quasi mitico, di toccasana per ogni situazione di malessere - “il cuore ha sempre ragione” - per cui esso diviene una sorta di valvola di sfogo che porta ad un rifiuto di tutto quanto possa rientrare in ambito cognitivo, soprattutto se proveniente dall’interno, e questa posizione diviene la vera sorgente di una sorta di impotenza, di una specie di incapacità a risolvere i propri problemi, anche i più semplici, per cui si arriva a rifuggire da ogni forma di responsabilità fino ad arrivare a rinchiudersi in uno stato para-infantile e/o para-adolescenziale con una permanenza o un ritorno alla famiglia, quasi una regressione a uno stato di non-responsabilità o di scarico completo di responsabilità, con una negazione parziale o totale dell’autoreferenza: la logica è quella del ricatto affettivo verso una famiglia ritenuta come obbligata all’assistenza di una persona che, nei fatti, può sia mettere in atto una strategia opportunistica, sia pensare di essere cognitivamente inadeguata; - nel secondo caso la debolezza affettiva viene affrontata massimizzando e/o irrigidendo la dimensione cognitiva: di qui il privilegio dato all’ortodossia, ad un minimalismo che va contro ad ogni allar245


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gamento dovuto alle intuizioni ed a collegamenti affettivi illuminanti ecc. Il pericolo viene percepito in un’affettività vista come sempre trionfante e che, proprio per questo, viene ritenuta come difficilmente gestibile, se non ingestibile, e, dunque, necessitante di uno stretto controllo ossessivo e continuo: è l’ambito del passaggio da comportamenti logici e cauti a quelli agiti sulla base di forti ritualismi. La ripetizione perde la propria funzione, tipicamente orale, di strumento utile per mandare a memoria conoscenze e, in entrambi i casi appena ricordati, diviene fine a se stessa. Anche l’ulteriore, corretta e necessariamente sistematica, funzione di controllo e di preoccupazione preventiva, a fronte di possibili pericoli e/o difficoltà, viene subordinata al fatto di divenire meccanismo autonomo, automatismo di cui sfugge la gestione.Tale autentica deviazione può finire con l’assumere l’unica funzione compulsiva di fornire un’apparente attività di ricerca di soluzioni e/o di rassicurazioni, a fronte di stati generici o addirittura indefiniti di pericolo che trasformano la naturale paura111 di eventi traumatizzanti in: - paura generica, dovuta ad un progressivo affievolirsi del legame con una fonte specifica; - ansia (persecutoria, realizzativa, acquisitiva, creativa, di salvamento ecc.)112 come ulteriore evoluzione 111. Da intendersi come meccanismo istintivo di coagulo di tutte le risorse e le energie di un corpo ai fini di un loro utilizzo nel caso di dubbi riguardanti il modo, preventivo o difensivo, in cui una situazione possa evolvere nel caso si tema o uno sviluppo negativo o, simmetricamente, che non accada un’evoluzione sperata. 112. Ansia: “Esperienza psichica di profonda e minacciosa insicurezza nel presente e per il prossimo futuro, sentimento di una minaccia radicale al proprio essere o identità, ovvero della possibilità di un im2 46


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della paura che finisce con il trasformare il meccanismo preventivo in un autentico automatismo la cui gestione può finire con lo sfuggire al controllo della persona, perdendo le proprie caratteristiche di strumento per divenire stato mentale permanente; stato mentale indifferenziato di allerta anche nel caso della sparizione dei referenti minacciosi; stato strumentale che diviene fine, in analogia con la ben nota patologia delle organizzazioni burocratiche (Roberto Michels): nel momento in cui si innesca tale meccanismo e l’ansia non dovesse trovare uno sbocco soddisfacente allora si può trasformare in angoscia; - angoscia che è essa stessa un meccanismo dotato di una propria automaticità che può innescare quello che viene definito un circolo vizioso mentale come caricamento di malessere a sbocco oppressivo, a origine interna e/o ambientale. Sulla base delle mie esperienze, tale stato è accompagnato da manifestazioni anche corporee di disagio che vengono collegate agli apparati più fragili posseduti, quali sudorazioni anomale, secchezza delle fauci, sensazioni di costrizione al torace, alla laringe, difficoltà all’apparato motorio ecc. È importante porre in rilievo il processo di metamorfosi che ha fatto sì che la paura da meccanismo di protezione verso l’esterno si sia trasformata in autominente e totale annullamento di sé. A differenza della paura, l’ansia è un sentimento che non si riferisce alle possibili azioni di altre persone od oggetti, bensì alle proprie eventuali capacità di reazione dinnanzi a una situazione che provoca la paura. È uno degli stati psichici più sgradevoli e paralizzanti che l’essere umano conosca.” Gallino, L., Dizionario di sociologia, U.T.E.T., Torino, 1978, p. 28. Rispetto alla definizione di Gallino ho preferito spaccare tale concetto attribuendo l’ultimo stato all’angoscia vera e propria piuttosto che all’ansia che si configura maggiormente come uno stato di all’erta generalizzato, in assenza di una causa evidente. 247


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matismo interno a gestione progressivamente sempre più difficoltosa: paura generalizzata prima, ansia e angoscia poi, il cui sbocco finisce con il caratterizzare gli stati di disagio fobico. L’ipotesi socioterapeutica è che alle radici di tali sindromi vi possa essere un percorso involutivo che porti ad una degenerazione affettiva conseguenza della frammistione fra la R - che è appunto conoscenza attuale affettivamente improntata - e la prevenzione come processo di anticipazione razionale a partire proprio dal sistema rappresentativo posseduto. Come introdotto, i principali punti di sviluppo dell’argomentazione riguardano: - la soggettività, come stadio attuale dell’evoluzione organizzativa dell’uomo, essa stessa in via di ulteriore mutazione; - l’approccio scientifico positivista alla conoscenza dell’ambiente e del corpo; - l’autonomizzazione del simbolico, in z1; - la R, con le sue due componenti agite nella cultura tipografica in modo apparentemente distaccato; - il fatto che la R sia un possibile motore d’azione; - il fatto che la percezione di un evento come pericoloso, in z0, sia strettamente legata ad una sua traduzione in rappresentazioni, in z1,113 che, in quanto tali, proiettate su di un futuro più o meno immediato facciano scattare nella persona la sensazione di paura, come meccanismo di coagulo di tutte le capacità ed energie fisiche e mentali disponibili; - la necessità che l’impiego di risorse e capacità avvenga sulle basi di un sistema rappresentativo (cultura, esperienza, professionalità ecc.) in grado di organizzarle e di indirizzarle per cercare di supera113. Ricordo che nelle culture orali la situazione è radicalmente diversa non essendosi ancora autonomizzato il piano delle RR, per cui la risposta al pericolo avviene sulla base di una paura diretta e non legata ad una traduzione dell’evento nel piano autonomizzato. 2 48


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re quel pericolo iniziale; - tutte queste considerazioni diventano altrettante premesse per la nascita della disciplina, le cui ragioni storiche, come abbiamo visto,114 sono dovute all’esigenza di un addestramento preventivo, scientificamente impostato, che si configuri sia come organizzazione tesa all’ampliamento della gamma delle risposte in possesso del singolo, sulla base delle conoscenze a disposizione; sia come crescita delle abilità di attuazione di quanto contenuto nel dizionario-R dei repertori di rappresentazioni posseduti, sulla base delle situazioni passate, e/o appresi e ampliati per merito dall’attività stessa di addestramento. Il fatto determinante è che, oltre ad un ampliamento della gamma, il meccanismo addestrativo permette una riduzione dei tempi di risposta attraverso un processo di loro naturalizzazione, secondo un meccanismo che vedremo più avanti; - l’approccio addestrativo/preventivo, poi, diviene il modello organizzativo generale delle nostre società, il che se da un canto porta ad un innalzamento complessivo delle nostre condizioni di vita (prevenzione delle malattie, dai pericoli, ecc.), d’altro canto porta ad un affievolirsi del legame della paura rispetto ad una specifica fonte, con il passaggio ad una situazione di sua indeterminazione, per cui essa perde le caratteristiche strumentali ed immediate per divenire stato permanente e generalizzato, fine in sé, secondo la già ricordata patologia tipica delle forme organizzative burocratiche moderne, per cui la disciplina da strumento addestrativo scientifico può divenire, nella patologia, puro rituale di risposta affettiva: è la cessazione dello stato di pericolo originario che non porta ad 114. Vedi la lezione IV. 249


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una cessazione del sistema di allarme nato dall’interiorizzazione dello schema preventivo che, dunque, viene decapitato del legame diretto con z0; - l’abbandono del legame diretto con z0, con una forte attenuazione della percezione della relazione con la fonte della I, porta, di fatto, alla necessità di gestione del relativo Inv. Aft.: l’incorniciamento affettivo è una delle componenti fondamentali dell’anticipazione rappresentazionale della prevenzione; - il distacco da z0, diviene la premessa per un ulteriore processo di virtualizzazione che può portare alla creazione di una provincia di affettività in z2; - provincia di affettività che porta ad assimilare per somiglianza un’intera gamma di I allo stesso incorniciamento affettivo che, ricordo, è nato legato ad una situazione di pericolo; - lo stato di allerta contagiando interi settori cognitivi, può portare la persona dalla paura a stati di smarrimento, prima, di ansia e/o di angoscia poi che possono portare a manifestazioni di panico ed eventualmente di furore: queste due ultime tipologie di risposta sono legate, in particolare, l’una ad una situazione di inadeguatezza e/o di incapacità di messa a fuoco delle cause; l’altra al fatto che un comportamento inconsulto possa servire o ad esorcizzare l’eventuale situazione percepita dall’attore di propria impotenza assoluta (ad esempio a picchiare i pugni contro il muro, ad atti di autolesionismo ecc.), oppure a spaventare l’eventuale aggressore - in virtù dei danni abnormi che quest’ultimo potrebbe temere di subire da una vittima che reagisca in modo incontrollato. Ma le RR nel momento in cui, essendosi già autonomizzate, vengono agganciate ad un meccanismo automatico - perché naturalizzato come quello che 2 50


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è alle radici dell’addestramento disciplinare moderno - divengono le premesse per ogni processo che: a) debba essere aperto ad ogni evenienza possibile; b) proprio per questo, si ritrovi ad essere decapitato della principale delle proprie premesse, e cioè la percezione della presenza di uno o più pericoli del tutto attuali; c) si trasformi in automatismo acefalo per affrontare situazioni indeterminate che richiamino risposte dal passato personale (a livello ontogenetico: la ripetizione delle fasi orali di sviluppo) o della stirpe (a livello filogenetico: la coazione a ripetere delle società della stampa). I passi successivi sono conseguenti e permettono di capire sia il passaggio all’ansia che quello all’angoscia, stati nei quali la risposta compulsiva, poco importa se ritualizzazione cognitiva e/o manifestazione di panico affettiva, forniscono comunque al singolo una parvenza di soluzione, uno stato di movimento che, in sé, configura una forma, a priori né utile né dannosa, ma paradossale di intervento. È a questo punto che, a partire dalle mie esperienze terapeutiche e sulla base dei casi seguiti, scatta il comportamento fobico/maniacale: la persona, che sia un soggetto autoreferente a pieno titolo oppure che sia in formazione, sembra percepire a livello istintivo che la situazione non risulta da lei controllabile, che non riesce a codificarla, per cui si pone di fronte a quello che le sta succedendo cercando, comunque, di ritrovare un sistema giustificativo che le permetta, di affrontarla e di sopravvivere. I meccanismi coinvolti sono interamente riferibili a quanto contenuto nel nostro approccio teorico ed in particolare alle dimensioni comunicazionali della soggettività, del simbolico, degli automatismi, dell’autoinganno, della fungibilità simbolica, ecc., e la strada per la patologia è legata ad un percorso che parte dalla dimensione originaria della paura biologica del 251


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singolo; passa per un sentiero mentale che avrebbe quale unico scopo quello di rassicurarlo rispetto ad ogni stato ritenuto fonte di pericolo con la trasformazione radicale della paura naturale in paura preventiva; un passaggio, questo, che dovrebbe avvenire utilizzando l’approccio scientifico, in mancanza del quale, per motivi d’età o culturali o, soprattutto, per eccesso di investimento affettivo non soddisfatto, si può finire con lo scadere in una paura indifferenziata verso tutto e tutti ed è a questo punto che scatta la transizione all’ansia e, in seguito, all’angoscia come atteggiamenti generali verso situazioni ritenute a gestione difficile o nulla, con conseguente difficoltà e/o sfiducia verso se stessi. La crisi di fiducia collegata all’autoreferenza fa sì che la sfiducia divenga generalizzata e, per superarla, la persona/soggetto (potenziale o attuale) utilizza il meccanismo dell’angoscia verso qualcosa o qualcuno,115 come male minore rispetto a situazioni esterne o interne ritenute più pericolose e, comunque, superiori alle proprie capacità di affrontarle. Si tratta comunque di una sorta di autoinganno: un meccanismo ben conosciuto in socioterapia per cui la persona prima fa affermazioni false che finge di condividere, ma alle quali, alla fine, lei stessa decide di credere, perdendo, solo apparentemente, di vista la loro origine fallace dato che, comunque, quell’origine resta ben presente in lei. Il costo di questo meccanismo può essere una crisi di panico che finisce con l’essere dietro l’angolo, come logica conseguenza 115. La risposta maniacale o fobica diverrebbe una sorta di disagio autoprovocato, frutto di un artificio che serve per esorcizzare e rassicurare la persona poiché, essendo diretto verso obiettivi privi di legami, soprattutto logici, con la situazione ed essendo, spesso, estremamente futile, in molti casi viene per questo ritenuto meno temibile. Probabilmente, poiché di difficile accertamento, e in ogni caso definibile solo a posteriori. 2 52


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dell’impotenza frutto della coscienza che si tratta comunque di un autoinganno. L’esorcizzazione dell’impotenza, affettiva o cognitiva che essa sia, passa anche dalla costruzione di tutta una serie di rituali di vario tipo che vengono posti in essere sull’una dimensione per cercare di controllare l’altra debole. Così, in molte persone con problemi sessuali ho visto attivare cerimoniali stretti di gestione degli spazi fisici che presiedono al riposo, quali, ad esempio, la messa in ordine della propria stanza da letto in modo ossessivo; l’attenzione eccessiva a misure di sicurezza estremamente irrealistiche; oppure il creare particolari rituali nella conoscenza delle persone, soprattutto verso quelle potenzialmente desiderabili; esattamente come in altri casi si assiste ad una sistematica progettazione della relazione sull’onda dell’imitazione di modelli amicali o di natura mediale facendo riferimento, ad esempio, a cantanti alla moda, ad attori, a campioni dello sport ecc - ben al di là di quella che abbiamo visto essere una funzione legata ai neuroni specchio comunicativi – che, in seguito, viene resa estremamente ripetitiva, proprio perché la ripetizione finisce con l’avere una funzione di rassicurazione, di liberazione dall’impotenza, in quanto comunque permette il rifugio in un agire anche se di tipo acefalo; in una ripetizione, riesumata dall’oralità, nel tentativo di esorcizzare, in un qualche modo, il timore di un’incapacità di azione. La persona utilizza la plasticità del simbolico (è quella che in socioterapia viene chiamata fungibilità simbolica) per operare una sostituzione tra la causa, non conosciuta (o non ammessa) dell’angoscia ed una costruita e conosciuta che, paradossalmente, finisce con l’essere spesso la più banale incontrata, proprio perché quanto più lo è tanto maggiore è la speranza, ad esempio, che la dimensione cognitiva possa riprenderne il possesso: ad essere al centro dell’attenzione, 253


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di volta in volta, sono elementi culturalmente e affettivamente determinati e cioè i roditori, gli spazi aperti, quelli chiusi, i ragni, le falene, le siringhe, l’AIDS ecc. Sono proprio l’incongruenza e la sproporzione tra pretesto e reazione ad ingenerare la speranza di un rientro del controllo della situazione nelle facoltà del singolo, ma è proprio la constatazione di tale incapacità a scatenare la reazione del corpo. La crisi di panico finisce con l’assurgere allo status di scelta logica da parte di un soggetto autoreferente che si trova a dovere affrontare un forte limite alla propria onnipotenza per mezzo: a. o dell’irrigidimento dei comportamenti nella dimensione di un’ortodossia rituale intesa come barriera contro ogni allargamento dovuto a intuizioni e a collegamenti affettivi spontanei, cui, comunque, dovrebbero seguire stabilizzazioni cognitive. In tale caso a divenire fonte di spavento finirebbero con l’essere tutte le novità non direttamente collegabili alla certezza delle conoscenze possedute116 o delle conoscenze normali – in analogia con la terminologia di Thomas Khun – ed inoltre, ogni volo scientificamente rivoluzionario, a favore della ricerca degli sviluppi deduttivi e scontati del noto; b. o, viceversa, il rifugio in espressivismi spinti - riassumibili, ad esempio, nel rifiuto di comprendere che la portata di pericolosità di un nostro insetto è quasi uguale a zero – a scapito di qualunque spazio concesso alla dimensione cognitiva, fragile proprio perché collegata ad una incapacità personale di au116. Sintomatico, a tale proposito, il caso di una persona da me seguita per la quale diveniva fonte di sofferenza e di impotenza l’affrontare percorsi stradali da lei non conosciuti: questo la obbligava a richiedere sempre la presenza accanto a sé, a piedi o in auto, di un familiare o di un amico in assenza dei quali si rifiutava di affrontare qualunque tipo di percorso stradale, soprattutto se nuovo, con conseguenti gravi limitazioni alla propria vita di relazione. 2 54


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tonoma gestione di tale aspetto. Per capire la funzione delle crisi di panico occorre fare riferimento ad un meccanismo assolutamente biologico, quale quello del furore: quando un organismo si ritrova a dovere affrontare una situazione di attacco che non riesce a gestire cognitivamente e neppure a decodificare affettivamente, l’ultima risorsa finisce con l’essere il furore che, come ricordato, finisce con il coincidere con una detonazione incontrollata di tutte le forze corporee possedute, in un’esplosione che dovrebbe fare riflettere, e forse desistere, qualunque aggressore proprio in considerazione dei possibili danni che gli potrebbero derivare nel caso di un attacco ad un corpo non-controllato. Per questo la crisi di panico, lungi dall’essere un comportamento assurdo, finisce con l’essere una risposta strettamente legata ad una logica di sopravvivenza, conseguenza di un meccanismo biologico estremamente importante che vede nel furore l’ultima risorsa per cercare di gestire logicamente (a partire da una situazione di impotenza implosiva interna che trova, comunque, uno sfogo nell’esplosione esterna) una dimensione cognitivo/ affettiva ritenuta altrimenti ingestibile. Riassumendo, ad essere coinvolte sono le risposte delle persone che finiscono con il partire da una sorta di vertigine legata all’universo delle possibilità; costruiscono se stesse come autoreferenti ed onnipotenti; transitano per un approccio legato ossessivamente alla prevenzione; si ritrovano in situazioni d’ansia a causa di un’incapacità anticipatoria di comprensione e/o di decodifica di sé e/o dell’ambiente; nella convinzione di tale impossibilità sublimano le loro difficoltà nell’angoscia; alla quale tuttavia cercano di dare una risposta in comportamenti fini a se stessi, ossessivi e/o fobici, una sorta di rifugio in movimenti paradossali nella forma o nelle ragioni giustificative 255


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ma che comunque simulano un’apparenza d’azione e quindi di gestione delle situazioni; al persistere di tali stati è possibile che scattino le crisi di panico come risposte furiose ma logiche, in quanto conseguenza esterna di fronte alla scoperta di un limite posto alla convinzione-necessità di onnipotenza da parte di una soggettività autoreferente. Nel momento in cui si riuscisse a fare crescere la persona culturalmente e la si mettesse in condizione di potere leggere se stessa al di fuori di un ambiente virtuale (al di là della soggettività) allora, forse, la si potrebbe mettere in grado di affrontare e ridurre le proprie crisi di panico; di raggiungere una propria complessità rappresentativa interna adeguata a quella degli ambienti (interni ed esterni) nei quali si dovesse ritrovare a vivere. 10.3 Processi di naturalizzazione e di autonomizzazione del simbolico Che cos’è il processo di naturalizzazione? È un processo molto interessante, figlio di ogni forma addestrativa, in particolare, per quello che ci riguarda, di quella forma che prende il nome di disciplina. La persona è caratterizzata da un’organizzazione interna (dal punto di vista metodologico) basata sulla con/fusione tra le due dimensioni della R e che è alle origini di ogni reazione di tipo istintuale. A cosa servono l’addestramento e la disciplina? Servono a rendere quasi naturali o quasi istintuali alcuni atteggiamenti che invece sono conseguenza dell’addestramento stesso: il militare in pensione mette in atto comportamenti che per lui sono quasi istintuali ma non naturali, sono appresi, e rispetto ai quali si è instaurato quel processo di quasi istintualizzazione che fa sì che il singolo riduca al minimo e, al limite, pressoché a zero lo spazio della riflessione tra lo stimolo 2 56


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e la risposta. Nel momento in cui tale spazio fosse troppo lungo, questo significherebbe che l’addestramento non ha funzionato bene o non è stato sufficiente. Si può avere un comportamento quasi istintuale anche rispetto ad una dimensione appresa (dipende dal grado di introiezione), per cui, ad esempio, in alcuni miei interventi di terapia familiare ho potuto constatare che il padre graduato militare aveva talmente interiorizzato (istintualizzato) il comportamento appreso da finire con il riprodurlo anche in famiglia. La frattura può essere lì: il comportamento degli appartenenti all’esercito, che è quello di persone disciplinate e cioè spaccate rispetto alla dimensione affettiva (il comandante, ad esempio e in via teorica, dovrebbe dare solo ordini e, sovente, non si dovrebbe neppure mischiare con la truppa) non può essere riportato tale e quale nelle famiglie, pena il rischio di forti stati di disagio per queste ultime. Rispetto alla situazione interna al singolo e a quella esterna o relazionale (proiezione del singolo sull’ambiente) la distinzione è importante perché si può esportare all’esterno un proprio schema interno o viceversa. Un altro esempio di tale situazione potrebbe essere quello, purtroppo molto frequente, di chi essendosi completamente improntato ad uno schema professionale e lavorativo, dovesse perderlo perché va in pensione, per cui finisce con il sentirsi smarrito perché aveva un’immagine di sé che era, fondamentalmente, un’immagine professionale: “io valgo perché ricopro un certo ruolo, al quale ho dedicato tutto me stesso e tutta la mia vita” … “nel momento in cui mi ritrovo senza il mio lavoro (ruolo) finisco con il non valere”. Queste sono parole che mostrano una difficoltà, relativamente frequente nelle nostre società, che riguarda la gestione del rapporto singolo/ambiente al di fuori del ruolo ed è una situazione molto 257


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faticosa da affrontare, in termini terapeutici. In un certo senso occorre mettere in atto almeno due processi integrati che vanno da un ridimensionamento del ruolo posseduto per tanti anni, all’aiuto alla ricostruzione e alla valorizzazione di una propria organizzazione non più rigida (ruolo) ma che si dovrebbe evolvere ed adattare all’età posseduta. Per questo occorre che l’aspirante terapeuta ricordi che è necessaria un’esatta individuazione dei confini del proprio lavoro; una precisa descrizione dell’ambiente in cui si sta per muovere, evitando accuratamente ciò che non c’entra: spesso non descriviamo ma facciamo affermazioni che partono da nostre convinzioni personali, giudizi che diventano sentenze rispetto a chi abbiamo di fronte; ricordare che stiamo parlando di singoli e che, quindi, è la conoscenza professionale che deve essere adattata ad essi. Il singolo quanti ambienti ha? Come minimo, un ambiente interno ed uno esterno: se ci si riferisce all’ambiente interno bisogna rapportarlo alla sua organizzazione topologica per capire in che modo siano organizzate le sub-aree del Sé. A questo punto occorre riuscire a definire il percorso per mezzo del quale la persona ha formato il proprio sistema di RR, ricordo che a questo livello stiamo prescindendo dai contenuti, che verranno affrontati in seguito, ma ci stiamo riferendo: agli aspetti metodologici e cioè al come sia arrivata a certe conclusioni; a quale sia la qualità, affettiva o cognitiva, delle RR che hanno concorso alla formazione dei suoi contenuti; alla possibilità di individuare quali di esse siano istintuali e cioè tali per cui le loro componenti siano confuse (ambito delle reazioni e dei comportamenti istintuali) e quali altre siano quasi istintuali e, in particolare, quali di queste ultime provengano da addestramenti scissi. Tale ultimo passo è fondamentale: nel momento in cui si riuscissero a capire i processi di naturalizzazione, in quel 2 58


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momento, li si dovrebbe trattare in maniera diversa dagli altri, cercando, ad esempio, la chiave per rimettere la persona in condizione di riavere nelle proprie mani la gestione di quegli schemi, spaccando proprio la frequente convinzione che essi siano biologici e quindi immodificabili in quanto naturali. Occorre, inoltre, ricordare che se le dimensioni istintuali sono caratteristiche della specie, spesso non sono neppure troppo facili da definire con il semplice riferimento biologico perché anch’esse, in seguito, si confrontano con modelli addestrativi che, comunque, cercano di introdurre possibilità di gestione. Così, ad esempio, occorre ricordare che anche l’amore è, seguendo Durkheim, un fatto sociale, un fatto culturale, una forma naturalizzata rispetto alla biologica dimensione affettiva, come propensione alla continuazione della specie, che, nel momento i cui è nata la soggettività, è stata coinvolta come schema di organizzazione/gestione del singolo: “sei tu che vuoi una persona particolare, a partire dalle tue convinzioni e sentimenti”. È un criterio che spacca la precedente referenza dell’oralità che è quella particolare ottica educativa nella quale si abituava un bambino ad istintualizzare comportamenti integrali dovuti, nei nostri termini, appunto a trattamenti non scissi: in tali culture a decidere sul futuro relazionale della persona sono, spesso, il padre, o la famiglia, o la tradizione, o il gruppo ecc.. Il soggetto, invece, è autoreferente, ha un proprio criterio di valutazione ed è contemporaneamente giudice ed attore anche su principi e valori. Nelle società teocratiche tale situazione non esiste: se la fede dice certe cose è così. Nelle culture a forte impronta legata all’oralità o stai bene o stai male: se non stai bene il riferimento spesso è a entità superiori offese e da placare e, nel caso in cui non ci si dovesse riuscire, al limite ci si 259


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lascia morire, come è successo a tanti appartenenti alle culture amerindie sotto la dominazione spagnola. Così in una coppia mista da me seguita, lui italiano lei sudamericana e figura dominante e dirompente: all’inizio del rapporto lei era entusiasta e lui in una certa maniera si adattava al modo in cui lei affrontava la vita. In seguito lui ha iniziato a consumare sostanze per cui la situazione si è capovolta e lei si è rassegnata con un atteggiamento quasi fatalistico: prima tutto positivo, poi tutto negativo, con una forte incapacità di rilevare i miglioramenti del compagno e di dare una prospettiva alla vita in comune. Negli ambiti interni al singolo, dove c’è con-fusione tra le componenti della RR, egli agirà da persona; negli altri agirà in funzione della particolare forma evolutiva che sta vivendo. Rispetto a comportamenti istintuali questi possono essere ereditati, ma possono anche subire modifiche, con l’addestramento, per effetto di dimensioni culturali acquisite sovrapponendo ad essi comportamenti appresi al fine di poterli gestire, anche semplicemente, ad esempio, per imparare a gestire la paura. Nella pratica socioterapeutica ci si troverà di fronte a singoli che, nelle nostre culture, saranno molto probabilmente individui/soggetti, oppure a persone orali, o, infine, neo-orali: rispetto ad ognuna di tali tipologie sarà necessario tarare gli interventi. Se di fronte ci trovassimo un soggetto, dovremmo capire il rapporto che ha con il suo ambiente interno, e cioè con la sua particolare organizzazione topologica, e così via. Un’ulteriore attenzione deve essere prestata al fatto che noi stiamo parlando di teoria, di RR, non di organismi: la natura simbolica (linguistica) non deve essere confusa con l’organismo del singolo. La R non è un’entità empirica, è una modalità comunicazionale di funzionamento, è una nostra stipulazione anali2 60


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tica. Quando si parla con i ragazzi tossicodipendenti l’errore che spesso si fa è dare credito a ciò che dicono e ciò che narrano, come fossero entità pratiche: in verità non è così, esse appartengono, comunque, alla loro organizzazione simbolica. Nelle nostre culture è necessario distinguere la dimensione comunicazionale dal corpo. L’identità è, comunque, una stipulazione comunicazionale e relazionale, che nella nostra cultura assume forma linguistica. Ad esempio una cosa è che ci venga un’idea e poi si agisca, diversa è una risposta istintuale dovuta ad una sensazione corporea. La cosa importante da questo punto di vista è capire che l’ambiente interno è dato dall’insieme delle RR che la persona ha (sia quelle integrali che le altre) e che la vanno a formare in quanto sistema comunicazionale. 10.4 La gestione terapeutica del simbolico Ambiente e mondo interno sono sistemi di RR che, autonomizzati o meno, scissi o meno, entrano a far parte del sistema simbolico dell’uomo: forte la differenza rispetto agli altri esseri viventi superiori, quali i primati non umani. Questi ultimi, pur avendo una certa competenza rappresentativa - esempi ne siano le tecniche di caccia possedute o le spesso sofisticate organizzazioni sociali - non sembrano avere una capacità di differenziazione dei sistemi simbolici, anche semplicemente a livello del piano dell’empiria (z0), per cui è difficilmente pensabile che un fenomeno venga giudicato, ad esempio, come puramente estetico: probabilmente, un altro essere vivente o una cosa non sono belli o brutti ma sono interessanti o meno per la sopravvivenza, anche se nulla vieta che la vicinanza e la frequentazione dell’uomo riescano a fare 261


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nascere comportamenti che possano assomigliare a tale capacità, come ad esempio per gli animali da laboratorio o quelli da spettacolo. Nell’uomo un meccanismo diverso, probabilmente, è scattato nel momento in cui la dimensione estetica si è autonomizzata dalla pura e semplice lotta per l’esistenza, o da una necessità mimetica, o da un’attrazione istintuale e ha iniziato i primi esempi di comunicazione iconica e ha dato il via a quello che in socioterapia viene chiamato un primo stadio della deriva storica (o preistorica) delle forme di comunicazione. Proprio tenendo conto di tale deriva occorre capire, per ogni singolo, cosa voglia dire che in parte esso sia organizzato nei termini della spaccatura delle dimensioni della R, in parte no. Il nostro cervello è isolato dall’ambiente per cui tutte le RR e i sistemi di RR da lui posseduti, godono della caratteristica di essere simbolico indipendentemente dalla loro origine, esterna o interna, che essa sia. La principale differenza è dovuta al fatto di essere conseguenza di stimoli dovuti ai nostri sensi, oppure autoprodotta: sia l’ambiente interno che quello esterno vengono rappresentati, dal nostro sistema nervoso centrale, per il quale, dunque, sono comunque rappresentazioni e perciò possono essere oggetto di interscambiabilità, di fungibilità. È questa labilità del confine che può permettere di avanzare un’ipotesi socioterapeutica sull’origine dei comportamenti psicotici che potrebbero essere conseguenza dalle difficoltà del confine di origine tra i due ambienti, arrivando a considerare ambedue semplicemente come appartenenti all’ambiente interno. Nel depresso o nello psicotico potrebbe succedere che si dissolva, più o meno completamente, la barriera tra pensiero e proiezioni del pensiero (realtà): nel momento in cui tutto divenisse interno per il nostro cervello, tutto sarebbe collegato alle RR in suo posses2 62


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so (ricordo che il S.N.C. non ha contatti diretti con l’esterno, ma solo mediati dai sensi). L’unica vera differenza è data dalla sorgente. Forse per iniziare ad avere un abbozzo esplicativo di cosa sia una psicosi, occorre andare in z2: in tali stati, l’apparente ricomposizione della R a seguito, di una sensazione (o Inv. Aft.) del singolo, si potrebbe pensare avvenga in una provincia di affettività ma contrariamente a quello che succede negli stati maniacali nei quali si fa riferimento ad un’intera gamma di immagini esterne - il riferimento potrebbe essere a un’immagine autoprodotta. Il confine tra interno ed esterno è una stipulazione del cervello stesso che, nel momento in cui dovesse abortire, potrebbe far ritrovare la persona in uno stato di disagio. Se la realtà dovesse staccarsi dal piano dell’empiria (che è il piano di proiezione sull’ambiente), allora essa stessa diverrebbe virtuale (realtà virtuale): essendo il cervello isolato e, dunque, accadendo tutto al suo interno, il rischio di virtualità totale, soprattutto dopo l’autonomizzazione del simbolico, risulta essere indubbiamente alto, tenendo anche conto che per l’ambiente noi siamo semplicemente una delle tante forme viventi, nonostante tutti i nostri sforzi di considerarci importanti. Nel caso dello psicotico, il problema potrebbe non risiedere nelle difficoltà di differenziazione tra ambiente interno/ambiente esterno ma tra i due sistemi di RR che stanno al suo interno, nel suo cervello: condividendo la stessa natura, quello che a lui sembra interno può diventare esterno a seguito dell’attenuazione o, addirittura, della sparizione della capacità di definizione del confine tra sistemi simbolici. Per questo quando si parla di ambiente interno e/o di ambiente esterno si parla per alcune persone di concetti dal senso estremamente sfumato se non del tutto assente: l’essere sbilanciati su uno dei due tipi di 263


L E ONA R D O B E NVENUTI

ambiente diventa un’affermazione priva di significato perché, in tali casi - tipici della nostra cultura - tutto deve essere rapportato alle province di cognizione, in z2, nelle quali le componenti delle RR possono essere considerate in modo scisso, come abbiamo visto. Tali scissioni, frutto della disciplina post-cinquecentesca, portano ad una gestione di sé che richiede soprattutto il differimento della scarica: nel momento in cui la reprimo dove va a finire quella dimensione affettiva? Finché c’è spazio, si crea nel singolo una massa affettiva da impiegare per il raggiungimento di mete definite dal proprio progetto di vita, ad esempio dalla soggettività. Tuttavia, nel momento in cui essa dovesse superare un certo livello critico tipico di ogni singolo, potrebbe succedere che in lui si venisse a creare una massa affettiva interna mobile (angoscia repressa) che solo nel momento in cui dovesse essere scaricata lo potrebbe liberare del tutto: il problema è che tale massa è mobile e può essere attaccata ad una qualunque immagine o sistema di immagini che si dovessero materializzare, inducendo, appunto e a seconda dei livelli di intensità raggiunti, reazioni nevrotiche o psicotiche. Occorre, inoltre, ricordare un’importante avvertenza: ogni singolo è diverso, per cui per ognuno bisogna capire la particolare configurazione dei suoi sistemi di RR. Concludendo l’abbozzo esplicativo socioterapeutico si potrebbe dire che mentre per le fobie il referente interno sembrerebbe riguardare le province dell’affettività, per le psicosi, e in misura più attenuata per le nevrosi, il referente sembrerebbe essere legato alle province di cognizione.

2 64


LEZ ION I DI SOCI OTE RAPI A

10.5 Alcune definizioni finali Ricordiamo, infine, alcune definizioni incontrate nel corso della nostra riflessione: Costrutto teorico è un sistema di RR, organizzato in modo sistematico, contenete almeno una generalizzazione e che, per quel che riguarda le nostre discipline, si deve confrontare con l’empiria. Occorre ricordare, comunque, che un costrutto teorico, anche se strutturale, non è di per sé vincolante ma lo diviene o per motivi morali, o religiosi o perché si appoggia ad un sistema che monopolizza la gestione sociale della forza. Organizzazione qualunque forma di gestione delle situazioni o dei comportamenti caratterizzata dall’applicazione di uno o più criteri sistematici; Identità

si caratterizza per il fatto di essere, per la persona, un sistema di RR organizzato secondo criteri aperti e fluidi;

Struttura

qualunque forma di gestione delle situazioni o dei comportamenti caratterizzata dall’applicazione di criteri rigidi, solidamente connessi tra di loro e con norme evolutive abbastanza vincolate: in questo senso la personalità si manifesta come un’organizzazione strutturale, con legami forti tra le sue parti, improntata ad una forma educativa disciplinare basata su di un approccio dovuto alla conoscenza scientifica del corpo, e, infine, che può essere definita come una conseguenza, storicamente recente, dell’evoluzione umana. 265



B Ba s ker v ille

Centro studi e casa editrice Fondata a Bologna nel 1986

I libri Baskerville possono essere acquistati nelle migliori librerie o via internet all'indirizzo www.baskerville.it. Librerie, biblioteche o istituzioni possono effettuare acquisti via fax (051 232323), via email (libri@baskerville.it) oppure nel sito web (www.baskerville.it) indicando i titoli dei volumi richiesti, la quantità , l’esatta ragione sociale di fatturazione, P. Iva, Cod. Fiscale e indirizzo a cui devono essere spediti. I libri vengono venduti alllo sconto abituale, con fattura e con pagamento in contrassegno.

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Baskerville Biblioteca di scienze della comunicazione

1. Stewart Brand MEdia lab - Il Futuro della comunicazione Viaggio nei segreti del famoso laboratorio del M.I.T. di Boston in cui si inventano i nuovi media. La realtà virtuale, il giornale personalizzato, l’ipertesto, la televisione intelligente, il cinema tridimensionale, il computer parlante sono tutti progetti ed esperimenti ai quali lavora il laboratorio del M.I.T. di Boston. Stewart Brand offre uno sguardo sul futuro della comunicazione e dei media. ISBN 88-8000-000-4 2. Derrick de Kerckhove Brainframes - mente,tecnologia, mercato Come le tecnologie della comunicazione trasformano la mente umana. La televisione, il computer e le banche dati sono per noi realtà quotidiane perfettamente naturali. Tuttavia l’utilizzo delle tecnologie della comunicazione implica inscindibili risvolti psicologici e psichici sull’uomo. Il libro descrive quanto sia importante avere coscienza della connessione fra tecnologia e psicologia. ISBN 88-8000-001-2 3. Daniel Dayan, Elihu Katz le grandi cerimonie dei media La Storia in diretta. La trasmissione in diretta di eventi “storici” costituisce un nuovo genere televisivo e al tempo stesso rappresenta il momento di massima celebrazione della comunicazione di massa. Le grandi cerimonie dei media creano immagini televisive dotate di potere reale, capaci di agire sul comportamento sociale. ISBN 88-8000-300-3 4. Kevin Robbins e Antonia Torchi (a cura di) GEOGRAFIE DEI MEDIA Globalismo, localizzazione e identità culturale. Il volume è un’analisi della natura degli spazi audiovisivi e del rapporto fra televisione e territorio. La geografia è intesa come prospettiva teorica per riflettere sulle trasformazioni contemporanee nell’industria e nella cultura dei media. ISBN 88-8000-302-X 5. Joshua Meyrowitz Oltre il senso del luogo L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale. La radio, il telefono, la televisione, il fax hanno cancellato le distanze annullando lo spazio fisico e allo stesso modo anche la nostra mappa delle relazioni spaziali si è modificata in seguito all’avvento delle nuove tecnologie. Oggetto dell’analisi di Meyrowitz è il modo in cui questi cambiamenti modificano la società. Nel 1986 quest’opera ha vinto il premio della Broadcast Education Association come miglior testo sulla comunicazione e la stampa internazionale ha paragonato l’importanza del lavoro di Meyrowitz alle ricerche di Marshall McLuhan. ISBN 88-8000-306-2


6. Giuseppe Richeri la TV che conta Televisione come impresa. Le imprese televisive sono oggi ad un punto di svolta. Come reagisce l’impresa televisiva privata e pubblica di fronte ai primi segni di crisi delle fonti economiche tradizionali quali la pubblicità e il canone? A questa e ad altre domande risponde Giuseppe Richeri, studioso internazionale di economia dei media. ISBN 88-8000-301-1 7. Bruce Cumings Guerra e televisione Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra. L’autore analizza il ruolo decisivo e il grande potere che la televisione ha nella progettazione, nella pianifi- cazione e nella presentazione delle guerre. I molteplici aspetti dei conflitti vengono filtrati, adattati e poi venduti al pubblico televisivo mondiale con precisi obiettivi strategico-militari. ISBN 88-8000-002-0 8. Howard Rheingold La realtà virtuale I mondi artificiali generati dal computer e il loro potere di trasformare la società. L’autore descrive la nuova rivoluzionaria tecnologia che crea mondi generati dal computer completi di sensazioni tattili e motorie e indaga sull’impatto che essa ha su tutto ciò che ci circonda. E’ un’analisi accurata di una tecnologia agli inizi del suo sviluppo, ma con grandi potenzialità applicative.. ISBN 88-8000-003-9 9. I. Miles, H. Rush. K. Turner, J. Bessant IT - Information Technology Orizzonti ed implicazioni sociali delle nuove tecnologie dell’informazione. Come si stanno evolvendo l’industria informatica, le telecomunicazioni, i sistemi di automazione della produzione, i servizi pubblici, la comunicazione personale, gli elettrodomestici? Il libro traccia le linee di questa evoluzione e ne sottolinea l’influenza sul nostro stile di vita individuale, familiare e sociale. ISBN 88-8000-004-7 10. Marco Guidi La sconfitta dei media Ruolo, responsabilità ed effetti dei media nella guerra della ex-Jugoslavia. In che modo televisioni e giornali italiani ci stanno raccontando la guerra nella ex-Jugoslavia? Perché, dopo il Golfo, questa guerra pare fatta apposta per vincere le frustrazioni della stampa? L’autore, inviato di guerra del “Messaggero” e storico di formazione, affronta tali temi con l’occhio critico del giornalista e con la capacità di analisi e di approfondimento propria dello studioso. ISBN 88-8000-005-5


11. Fred Davis Moda, cultura, identità La moda è un sistema complesso di simboli, come un linguaggio, che parla di noi e della nostra identità. Cosa dicono i nostri abiti su chi siamo o su chi pensiamo di essere? Come comunichiamo messaggi sulla nostra identità? Il desiderio di essere alla moda è universale o è tipico della nostra cultura occidentale? Queste sono alcune delle domande alle quali Fred Davis risponde analizzando ciò che noi facciamo attraverso i nostri abiti e ciò che essi possono fare di noi. ISBN 88-8000-006-3 12. George Landow Ipertesto - il futuro della scrittura La convergenza tra teoria letteraria e tecnologia informatica. Il processo di elaborazione elettronica del testo costituisce un’innovazione tecnologica talmente importante che ci costringerà a riformulare i nostri concetti di lettura e di scrittura, stravolgerà il ruolo dell’autore e lo schema lineare della pagina a stampa: il lettore potrà scegliere gli itinerari su cui operare e pensare o leggere in modo non sequenziale. ISBN 88-8000-007-1 13. Pier Luigi Capucci (a cura di) il corpo tecnologico L’influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà. Oggi gli strumenti tecnologici coinvolgono tutti i settori della nostra esistenza e il corpo nella sua totalità è investito direttamente da questo processo. Quali sono i suoi cambiamenti? Quale lettura dare del rapporto fra corpo e tecnologia? Il libro contiene interventi di Antinucci, De Kerckhove, Capucci, Maldonado, Moravec, Parisi, Pryor, Stelarc, Varela, Virilio. ISBN 88-8000-008-X 14. Gianluca Nicoletti Ectoplasmi Tipi umani nell’universo TV. Partendo dall’analisi dei “luoghi” dell’attuale TV vengono esaminate le categorie di personaggi che la popolano: coloro che hanno avuto il privilegio dell’iniziazione televisiva, gli sfiorati, i lambiti, poi i maestri illustri e alcuni imperituri presi in esame non come identità, ma come archetipi (Sgarbi, Funari, Costanzo). ISBN 88-8000-009-8 15. Patrice Flichy Storia della comunicazione moderna Sfera pubblica e dimensione privata. Quest’opera è un’attenta ed esauriente storia della comunicazione. Dal telegrafo fino al telefono portatile come si è formata la nostra società di comunicazione? L’autore ne traccia un’analisi che integra elementi di storia sociale e tecnologica per presentare la genesi dei grandi sistemi di comunicazione. ISBN 88-8000-304-6


16. Carlo Sorrentino I percorsi della notizia La stampa quotidiana in Italia tra politica e mercato. Sorrentino traccia una dettagliata storia sociale della stampa quotidiana italiana per trovare le ragioni delle principali peculiarità: dalla forte politicizzazione alla diffusione a carattere regionale, all’elitismo. L’autore analizza le trasformazioni degli ultimi vent’anni, quando per la prima volta in Italia nasce un mercato dell’informazione e si modificano le dorme della concorrenza tra i quotidiani e fra questi e i nuovi media, in particolare la televisione. ISBN 88-8000-305-4 17. Lucio Picci LA SFERA TELEMATICA Come le reti trasformano la società La diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione sta rivoluzionando la nostra vita e le organizzazioni che, sempre più, diventano delocalizzate e virtuali. Cambia l’ambiente in cui viviamo e con esso le persone, confrontate da un nuovo insieme di aspettative e di opportunità. ISBN 88-8000-010-1 18. Antonio Pilati e Giuseppe Richeri LA FABBRICA DELLE IDEE Economia dei media in Italia Il libro delinea le articolazioni dell’economia della conoscenza e situa al suo interno l’industria della comunicazione, analizza il sistema dei media rivolti al largo pubblico, determina le dimensioni economiche della comunicazione e descrive il ruolo della comunicazione di marketing. Nella seconda parte analizza i vari segmenti che compongono l’industria dell’audiovisivo: televisione, cinema, musica, audiovisivi d’uso familiare. Nella terza parte affronta lo studio dell’industria editoriale; quotidiani, libri, editoria elettronica, le prospettive di sviluppo che assumono i consumi e gli introiti dei media dell’indistria della comunicazione nell’epoca della convegenza tra i media. Il volume presenta inoltre, per la prima volta raccolti in modo sistematico e dettagliato, i dati principali sull’industria italiana della comunicazione dall’86 ad oggi. ISBN 88-8000-307-0 19. Paola Bonora (a cura di) COMCITIES Geografie della comunicazione La comunicazione intesse la trama connettiva delle nuove relazioni, crea nuovi significati e immagini, nuovi spazi, un nuovo modello di società che si identifica nella marea multimediale incarnata da internet, agorà e mercato, paese delle meraviglie e dello sperdimento, iper-reale, u-topico, a-sensoriale, privo di confini, etici, logici, emozionali. Una rappresentazione del mondo mutevolissima, che toglie senso al mondo precedente senza dargliene uno nuovo se non una sfuggente complessità. Un pianeta sempre più piccolo, ma sempre più diseguale. ISBN 88-8000-308-9


20. Enrico Menduni (a cura di) LA RADIO Percorsi e territori di un medium mobile e interattivo La radio vive una terza e fortunata giovinezza della sua lunga vita. È stato il primo mass medium personale e mobile, ha lasciato i salotti delle case (in cui ha lasciato ben piazzata la più giovane sorella televisiva) per andare per le vie del mondo sotto forma di transistor, di autoradio, di walkman; si è miniaturizzata come apparato mentre cresceva a dismisura la sua funzione di medium delle identità e della connessione, di strumento di informazione in tempo reale e di contenitore soffice dell’oralità e dell’intimità. ISBN 88-8000-012-8 21. Stephen Graham e Simon Marvin CITTÀ E COMUNICAZIONE Spazi elettronici e nodi urbani Per un po’ di anni ci siamo illusi che lo sviluppo della comunicazione annullasse la distanza e rendesse quindi indifferente la localizzazione. Una speranza che si è subito smorzata di fronte al dilatarsi degli agglomerati e al diffondersi degli effetti perversi della metropolizzazione. Il libro raccoglie e confronta tutta la letteratura internazionale prodotta nell’ambito delle scienze del territorio sulla correlazione tra fenomeno urbano e cambiamento comunicazionale. La gamma di questioni affrontate è ampia e corposa e nulla o quasi nulla viene trascurato, sia sul versante delle opportunità che su quello dei rischi. Un modo scientifico per smontare i miti che hanno accompagnato l’esplosione delle comunicazioni a lunga distanza e proporre la ridefinizione dei paradigmi geografici e urbanistici attraverso cui analizzare e progettare la città. ISBN 88-8000-309-7 22. Leonardo Benvenuti MALATTIE MEDIALI Elementi di socioterapia L’ipotesi della socioterapia è che non vi sia un concetto astratto di disagio ma che si debba fare riferimento ad una serie di ambiti, alcuni dei quali sono intimamente legati a quella che l’autore ha definito la deriva storica dei media: il succedersi di media via via dominanti che crea periodi iniziali di disagio in relazione dell’obsolescenza di quello precedente e nella fase di consolidamento di quello successivo. Così è stato, nel passaggio dalla cultura orale a quella tipografica, per il vagabondaggio, il brigantaggio e l’alcolismo. ISBN 88-8000-011-x 23. Michelantonio Lo Russo PAROLE COME PIETRE La comunicazione del rischio Le informazioni concernenti i rischi non sono come le altre. Il loro statuto particolarissimo è legittimato dal fatto che, appunto, ci riguardano tutti ... I destinatari di tali messaggi formano un nuovo tipo di sfera pubblica, la sfera pubblica mediata. Una sfera pubblica aperta e globale, che fa a meno della compresenza dei diversi attori in un’unica dimensione spazio-temporale. La mediatezza di questo tipo di sfera pubblica, distinta dall’ambito economico e politico, si basa sull’importante presupposto del dialogo e quindi dell’azione a distanza. ISBN 88-8000-023-3


24. Elena Esposito I PARADOSSI DELLA MODA Originalità e transitorietà nella società moderna Una delle peculiarità della società moderna è la sua tendenza a prendere qualcosa di transitorio come punto di riferimento stabile e questo pur conoscendone la natura effimera. La moda è, a questo riguardo, esemplare: ciò che è IN non rivendica di essere anche bello, ragionevole e interessante, ma solo ALLA MODA. Capita, nonostante o a causa di ciò, che l’IN diventi presto OUT e non piaccia più. Inoltre nella moda si ha la pretesa di non imitare nessun modello, bensì di affermare la propria individualità sebbene si sappia benissimo che tutti lo fanno allo stesso modo. Ci si comporta come gli altri, al fine di essere diversi e di dimostralo apertamente. Il libro analizza le modalità con cui si è affermata una concezione della moda che non riguarda solo o prevalentemente gli abiti, ma coinvolge, in modo più radicale, le passioni, gli interessi, gli orientamenti filosofici ed estetici. ISBN 88-8000-024-1 25. Daniele Perra IMPATTO DIGITALE Dall'immagine elaborata all'immagine partecipata: il computer nell'arte contemporanea L’elaboratore elettronico è entrato appieno nel mondo dell’arte contemporanea e siamo di fronte a un nuovo sistema rappresentativo. L’immagine sintetica non è più passivamente osservata, ma invasa, toccata, modificata, manipolata. All’estetica della rappresentazione si aggiunge l’estetica dell’interazione, della partecipazione, in cui l’immagine diviene l’anello di un processo creativo articolato, la visione si fa esperienza e dà vita a problematiche legate a nuove modalità percettive e cognitive. Dalle prime immagini digitali statiche alla costruzione di ambienti tridimensionali, fino alle animazioni computerizzate, si è passati alla creazione di scenari artificiali immersivi, scaturiti da processi articolati e modelli di simulazione complessi. L’elaboratore, quindi, non rappresenta più un’evoluta “protesi” dello sguardo, ma uno strumento complesso per una diversa morfologia della rappresentazione. ISBN 88-8000-025-x


Baskerville Coordinate

1. Paola Bonora ORFANA E CLAUDICANTE L’Emilia “post-comunista” e l’eclissi del modello territoriale Cosa succede in Emilia? Sembra saltato il compromesso che aveva garantito la pace sociale e fornito la base a un’economia di successo. Un accordo tra i diversi attori governato nell’intero dopoguerra dai “comunisti”, che qui avevano concretizzato l’immaginario del socialismo realizzato. Concordia sociale, eccellenti performance economiche, salvaguardia dei centri storici, alto rendimento istituzionale: l’icona dell’Emilia-rossa-coesa-efficiente era solida, acclarata e riconosciuta anche dagli avversari. Granitica e autorevole. Un dispositivo semiotico che ha coperto lo sgretolarsi degli ideali su cui era costruita l’identità e lo scioglimento delle reti delle appartenenze su cui la distrettualizzazione e lo sviluppo poggiavano. Nascondeva contraddizioni: tra la simbologia socialista e i reali orientamenti prima keynesiani e poi liberisti, tra gli iniziali slanci militanti e il conservatorismo implicito ad una società opulenta, tra la fermezza regolativa e il disordine progettuale dell’ultimo ventennio. Finita insomma l’epoca del “partito di lotta e di governo”, l’economia sociale di mercato perde l’anima socialista accentuando quella mercantile. Una parabola incarnata dalla cooperazione. Ma il rischio è quello che il sistema locale, assieme alle bandiere e alle solidarietà, perda anche la coerenza territoriale che derivava da un progetto progressista e dalla determinazione etica con cui era stato attuato. ISBN 88-8000-400-9


Baskerville UniPress

1. Paola Bonora (a cura di) SLoT - quaderno 1 Appunti, discussioni, bibliografie del gruppo di ricerca SLoT (Sistemi Territoriali Locali) sul ruolo dei sistemi locali nei processi di sviluppo territoriale. Contributi di: Giuseppe Dematteis, Francesca Governa, Egidio Dansero, Carlo Salone, Vincenzo Guarrasi, Paola Bonora, Unità locale dell’Università di Firenze, Lida Viganoni e Rosario Sommella, Sergio Ventriglia, Ugo Rossi. ISBN 88-8000-500-6 2. Giuliana Gemelli e Flaminio Squazzoni (a cura di) NEHS / Nessi Istituzioni, mappe cognitive e culture del progetto tra ingegneria e scienze umane. Contributi di: Marisa Bertoldini, Giuliana Gemelli, Kenneth Keniston, Giovan Francesco Lanzara, Enrico Lorenzini, Vittorio Marchis, Guido Nardi, Girolamo Ramunni, Flaminio Squazzoni, Pasquale Ventrice, Alessandra Zanelli. ISBN 88-8000-501-4 3. Cristiana Rossignolo e Caterina Simonetta Imarisio (a cura di) SLoT - quaderno 3 Una geografia dei luoghi per lo sviluppo locale Approcci metodologici e studi di caso. Contributi di: Marco Bagliani, Angelo Besana, Federica Corrado, Egidio Dansero, Giuseppe Dematteis, Raffaella Dispenza, Fiorenzo Ferlaino, Francesco Gastaldi, Cristiano Giorda, Oscar Maroni, Carmela Ricciardi, Cristina Rossignolo, Carlo Salone, Marco Santangelo, Caterina Simonetta Imarisio. ISBN 88-8000-502-2 4. Paola Bonora e Angela Giardini SLoT - quaderno 4

Orfana e claudicante

L’Emilia “post-comunista” e l’eclissi del modello territoriale ISBN 88-8000-503-0 (RISTAMPATO NELLA COLLANA COORDINATE) 5. Rosario Sommella e Lida Vigagnoni (a cura di) SLoT - quaderno 5

Territori e progetti nel Mezzogiorno

Casi di studio per lo sviluppo locale Contributi di: Ornella Albolino, Fabio Amato, Aldo di Mola, Luigi Longo, Mirella Loda, Maria Gabriella Rienzo, Ugo Rossi, Rosario Sommella, Luigi Stanzione, Sergio Ventriglia,, Lida Vigagnoni ISBN 88-8000-504-9 6. Rosario Sommella e Lida Vigagnoni (a cura di) FILANTROPI DI VENTURA

Rischio, responsabilità, riflessività nell'agire filantropico

Contributi di: Jed Emerson, Laura Bertozzi, Emanuele Cassarino, Giuliana Gemelli, Flaminio Squazzoni, Claudia Rametta, Giorgio Vicini, Girolamo Ramunni ISBN 88-8000-505-7


7. Giuliana Gemelli (a cura di) FONDAZIONI UNIVERSITARIE

Radici storiche e configurazioni istituzionali

Contributi di: Benjamin Scheller, Christopher D. McKenna, Jon S. Dellandrea, Joe McKenna, Matthias Schumann, Bruno van Dyk, Joseph Tsonope, Giovanni Maria Riccio, Flora Radano, Giuseppe Cappiello, Enrico Bellezza, Francesco Florian, Alessandro Hinna, Marco Demarie, Pier Luigi Sacco. ISBN 88-8000-506-5 8. Patrizia Adamoli e Maurizio Marinelli (a cura di) COMUNICAZIONE MEDIA E SOCIETÀ

Premio Baskerville Mauro Wolf 2004

I testi raccolti in questo volume sono i primi sette saggi selezionati dal comitato scientifico del Premio Baskerville “Mauro Wolf”, dedicato alla memoria di Mauro Wolf, professore all’Istituto di Scienza delle Comunicazione dell’Università di Bologna e fondatore della Biblioteca di Scienze della Comunicazione di Baskerville, che ha diretto fino alla sua prematura scomparsa nel 1996. Il premio è riservato a saggi o ricerche di studenti, ricercatori, operatori della comunicazione e dell’informazione che hanno per tema la comunicazione, i media e l’informazione con riferimento particolare al loro effetto sulla società, nelle sue espressioni culturali, economiche e politiche. ISBN 88-8000-507-3 9. Giuliana Gemelli (a cura di) RELIGIONS AND PHILANTHROPY

Global Issues in Historical Perspective

Contributi di: Giuliana Gemelli, Valerio Marchetti, Brij Maharaj, Giovanni Ceccarelli, Soma Hewa, Gioia Perugia Sztulman, Suraiya Faroqui, Maria Giuseppina Muzzarelli, Netice Yildiz, Brigitte Piquard, Benjamin Gidron, Yael Elon, Deby Babis, Daniela Modonesi, Bartolomeo Pietromarchi ISBN 88-8000-508-1


Baskerville Collana Blu

1. Pier Vittorio Tondelli Biglietti agli amici Questo di Tondelli è un viaggio lirico verso mete talvolta quotidiane, quasi sempre irraggiungibili. Un errare che percorre il desiderio di scoprire se stessi, identificandosi negli altri o leggendo il paesaggio, che attraversa carezzevoli filosofie orientali e non disdegna di soffermarvisi, attratto e confortato dalle dolci parole di un poetacantante. ISBN 88-8000-900-1 2. Gianni Celati LA FARSA DEI TRE CLANDESTINI E’ lecito sognare? o meglio: chi di noi non ha mai desiderato, e non solo da bambino, di far rivivere un’avventura a qualche grande eroe dello schermo? Bene, Gianni Celati ha catturato questa opportunità e ce la offre sotto forma di una tanto deliziosa, quanto purtroppo irrealizzabile sceneggiatura per un film dei fratelli Marx. ISBN 88-8000-901-x 3. Fernando Pessoa Nove POESIE DI ÀLVARO DE CAMPOS E SETTE POESIE ORTONIME A cura di Antonio Tabucchi Alto, elegante, con monocolo, capelli neri con riga da una parte, l’anglofilo ingegnere Alvaro de Campos, laureatosi a Glasgow e dandy ozioso a Lisbona, è, fra i personaggi fittizi di Pessoa, colui che più ebbe una vita reale. (Dall’introduzione di Antonio Tabucchi) ISBN 88-8000-902-8 4. Georges Perec TENTATIVO DI ESAURIRE UN LUOGO PARIGINO La vita, intesa come irripetibile avventura, è per Perec un gioco. Un gioco al quale partecipa, però, con la stessa creatività ed impegno dei bambini. Il suo catalogare non è né critico, né lezioso, è al di sopra delle parti: si diverte ad osservare, ad annotare, ma con distacco, senza farsi condizionare dall’essenza delle cose. ISBN 88-8000-903-6 5. Orson Welles LA GUERRA DEI MONDI

Prefazione di Fernanda Pivano e una nota di Mauro Wolf

Quando la trasmissione andò in onda, diventando uno dei momenti più famosi della produzione di Welles, si verificò un fenomeno straordinario di schizofrenia collettiva. Un annunciatore anonimo interruppe la trasmissione con la notizia che i marziani erano sbarcati nel New Jersey; milioni di ascoltatori credettero che fosse giunta la fine del mondo ... ISBN 88-8000-904-4


6. Eiryo Waga (eteronimo di Raul Ruiz) TUTTE LE NUVOLE SONO OROLOGI Che uno scrittore giapponese si interessi ad un tema essenziale dell’epistemologia contemporanea (il saggio Delle nuvole e degli orologi di K. Popper) ha già dello stupefacente; ma che poi si diverta a giocare con i concetti trasfigurandoli in una fantasia onirica, (...) mi ha semplicemente incantato. (Dalla presentazione di Raul Ruiz) ISBN 88-8000-905-2 7. Astro Teller Exegesis Edgar è un agente intelligente: un software per cercare e raccogliere informazioni in internet. Un giorno Edgar, inspiegabilmente, supera la soglia tra la creazione tecnologica e l’esistenza autonoma ed inizia la sua navigazione indipendente alla ricerca della conoscenza e della libertà. Exegesis è in parte un tecno-triller e in parte una storia d’amore: l’intrigante percorso di una intelligenza artificiale che gradualmente scopre poteri e limiti di una natura cosciente ma non umana. ISBN 88-8000-906-0


Baskerville B.art

1. Umberto Palestini (a cura di ) SULLA STRADA Fotografie, saggi e riflessioni su arte e spazio pubblico in occasione di un intervento di pubblic art a Teramo, dove i lavori di giovani artisti figurativi hanno trasformato un chilometro di spazi per affissioni (6x3 metri) in un suggestiva galleria d’arte contemporanea a cielo aperto. ISBN 88-8000-888-9 2. Silvia Camerini (a cura di) LE FESTE MUSICALI Saggi, interventi, testimonianze, fotografie e documenti su una delle più innovative esperienze italiane di organizzazione di eventi teatrali e musicali. Le Feste Musicali, che hanno avuto luogo a Bologna dal 1967 grazie alla volontà e all’iniziativa del loro direttore Tito Gotti, sono state ispirazione ed esempio, negli anni successivi, per altri eventi simili in Italia e in Europa e sono tutt’oggi un modello di riferimento culturale e organizzativo per la valorizzazione della tradizione musicale e teatrale. ISBN 88-8000-889-7 2. Oderso Rubini e Massimo Simonini (a cura di) ALLA RICERCA DEL SILENZIO PERDUTO - Il TRENO DI CAGE Racconto per immagini, suoni e filmati originali dell'evento che John Cage ha creato a Bologna nell'estate del 1978. Il volume contiene testi critici e fotografie oltre a tre CD e un DVD con le registrazioni originali del Treno di Cage. L’evento bolognese è rimasto nella memoria di tutti coloro che vi hanno partecipato e l’eco che questo treno preparato del compositore americano ha lasciato si è trasmessa nel tempo. Questo raro documento contiene testi critici sull’evento in italiano e inglese, le registrazioni audio con l’elaborazione dei tre viaggi del treno e materiali filmati fino ad ora inediti e raccolti per la prima volta in questo libro. ISBN 978 88 8000 890 3



Finito di stampare per conto di Baskerville, Bologna, [ www.baskerville.it ] nel mese di giugno 2008 presso la tipografia LitoSei Rastignano, Bologna

Š 2008 Baskerville, Bologna Tutti i diritti riservati All right reserved


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