FILANTROPI DI VENTURA a cura di Giuliana Gemelli

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Baskerville UniPress

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Filàntropi di ventura Rischio, responsabilità, riflessività nell'agire filantropico

a cura di Giuliana Gemelli

Legacy of MISP

LABORATORIO DI RICERCA SULLE FONDAZIONI E LA FILANTROPIA D’IMPRESA

Baskerville


Giuliana Gemelli (a cura di) Filàntropi di ventura © 2004 Baskerville, Bologna, Italia

ISBN 88-8000-505-7

TUTTI I DIRITTI RISERVATI Questo volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in alcun modo (digitale, ottico o sonoro) senza il preventivo permesso scritto di tutti i possessori dei relativi diritti ed in primo luogo di Baskerville c. s. Bologna, editrice italiana del libro. Baskerville è un marchio registrato da Baskerville, Bologna, Italia.

Il volume è composto in caratteri Baskerville e Gill Sans

Stampato in Italia


Ad Antonella e a Giulia perchÊ l’agire filantropico non ha bisogno solo di Cavalieri ma anche di Amazzoni che sappiano gettare il cuore oltre l'ostacolo.

Alle allieve e agli allievi della prima edizione del MISP.


The age of chivalry is not over... No one can lay his head on his pillow at peace with himself, who is not giving some time and substance to diminish the number of those who cannot earn a reasonable income and thus have an opportunity of living a noble life. (A. Marshall The Social Possibility of Chivalry, Address to the Royal Economic Society, London, 1907)


Indice

Introduzione Giuliana Gemelli Valori intrecciati: l’agire filantropico come vettore di cambiamento sociale

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Parte I Tecniche per uno scopo: la venture philanthropy tra impresa e filantropia Jed Emerson, An Essay in Two Parts: Total Foundation Asset Management. Exploring Elements of Engagements Within Philanthropic Practice 23 Laura Bertozzi, Le origini economiche e l’ingegneria finanziaria di una grande opportunità per il terzo settore 47 Emanuele Cassarino, Profit e non profit tra economia e cultura 69 Parte II La collaborazione come sfida strategica: modelli, istituzioni, percorsi Giuliana Gemelli, Ossimori: i vantaggi competitivi della filantropia d’impresa 91 Flaminio Squazzoni, Non profit, capitale sociale e sviluppo economico: il caso della Coastal Enterprise Inc. nell’area del Maine 145 Claudia Rametta, Le nuove frontiere della filantropia: alcune esperienze di “venture philanthropy” nel contesto nord-americano 195 3


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Parte III Le forme dell’Intangibile: l’empowerment tra impresa e società civile Giorgio Vicini, Filantropia come elemento strategico: valutazione dei benefici intangibili e ottica di mercato 219 Girolamo Ramunni L’immagine di sé. Modelli di comunicazione nella Venture Philanthropy 253 Allegati Bibliografia di Siti web

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Gli autori di questo volume

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Introduzione Giuliana Gemelli

Filantropia e impresa: le forme di un archetipo Nel 1821, in un breve scritto inserito in una delle sue opere più famose, Du systéme industriel, Claude-Henri de Saint-Simon iniziava un percorso di revisione e di sostanziale allontanamento dallo scientismo positivistico, posto alla base della sua visione di una società depoliticizzata in cui uno Stato puramente amministrativo ne garantiva lo sviluppo e la poneva al riparo da ogni sorta di conflitto, “innescato quasi sempre dalla politica […] condannata come seminatrice di zizzania”. Il titolo di questa breve nota, Addresse aux philanthropes, indica il ruolo assegnato alla filantropia nel momento del passaggio dal SaintSimon industrialista al Saint-Simon che pone al centro delle forze animatrici del progresso sociale i sentimenti, i bisogni religiosi e l’agire comunicativo: come principi del reciproco relazionarsi degli uomini nello spazio istituzionale e come impulsi alla partecipazione alla vita sociale. Il nucleo della riflessione di Saint-Simon è l’intreccio teorico-pratico che egli identifica con la filantropia, o meglio con l’agire filantropico. Esso è razionale e suscettibile di trattazione scientifica, in quanto attività pratica illuminata dalle scienze sociali ed umane. È impegno scaturito da un patrimonio conoscitivo, oltre che economico e finanziario, in quanto orientato dall’agire 5


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morale. In ultima istanza, l’agire filantropico è anche agire politico capace di influire sui comportamenti intersoggettivi, di orientare le pratiche dell’agire sociale nell’ambito della polis, e di far emergere processi d’intersezione tra i fatti produttivi – che non esauriscono la gamma dei fenomeni sociali – e le altre forme in cui si manifestano le forze generatrici dell’evoluzione delle società nella storia. I motori di questa rinascita di un agire politico orientato dalla ragione e dal sentimento, dalla volontà e dalla riflessività, dalla teoria e dalla pratica, debbono essere secondo Saint-Simon, degli “hommes passionnèes”, dotati di capacità nella gestione dei fatti produttivi, ma animati anche da “forze infrarazionali”, da impulsi energetici rivolti alla produzione delle cellule generatrici del tessuto sociale e da un pragmatismo visionario. Il loro agire è volto a rendere concreta la generalità della visione attraverso il medium della definizione dello scopo e la capacità di assumere il confronto col rischio, senza subirlo come una fatalità esterna, ma come responsabilità derivata dal processo della conoscenza in atto. Una conoscenza che è, dunque, anche corpo a corpo con l’agire sociale. La sintesi di tali capacità sta nel principio del generare suscitando, cioè nell’essere partecipi dei valori, delle passioni, degli ideali che si intendono trasmettere e suscitare negli altri. Il termine suscitare evoca quello latino suscipere che indica l’azione dell’intraprendere, mentre il sostantivo di riferimento, susceptor, significa imprenditore. L’etimologia latina dei termini intraprendere, intrapresa, imprenditore rinvia, dunque, al principio del sostenere responsabilmente quell’azione creativa che è all’origine dei “fatti industriali”. Il significato di suscipere è, più precisamente, quello di “generare riconoscendo”, assumendo cioè la responsabilità non solo dell’atto del generare, ma anche del processo conseguente quell’atto. Un significato traslato del termine susceptio è ricevere, accogliere come azione responsabile. Queste osservazioni etimologiche ci conducono ad una riflessione su un altro elemento che qualifica l’agire filantropico, vale a dire il dono. Il dono è, infatti, un’azione che non può essere dissociata dal principio dell’intraprendere, giacché non si esprime soltanto nell’atto dell’elargire, ma è, innanzitutto, generazione 6


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creativa e responsabile. Ancor meno l’atto del donare si esaurisce nella sua replicabilità – ovvero nella creazione di un’obbligazione a reiterare tale atto, come azione meccanica di “restituzione” – contenendo in sé la capacità di produrre reciprocità. In altre parole, il principio di obbligazione tacita, implicito nel dono, risiede nella capacità di generare creatività responsabile anche in chi riceve: esso è, in definitiva, un atto che potenzialmente trasforma chi riceve in persona capace, a sua volta, di intraprendere, di generare creativamente. Le variabili storiche dell’agire filantropico: una transizione in atto Questo rapido scorrere attraverso reminiscenze filosofiche ed etimologiche non rappresenta un esercizio di stile, ma ha profondamente a che vedere col tema trattato in questa raccolta di saggi. Col pretesto di esplorare i percorsi, gli attori, le esperienze dei modelli e delle pratiche dell’agire filantropico nell’era della new economy e le diverse e talora fortemente contrastanti reazioni che esse suscitano nel dibattito attuale sul ruolo delle fondazioni e delle organizzazioni non profit, il libro cerca di fare il punto, trasversalmente, sui processi evolutivi della filantropia nel contesto della società industriale, nel passaggio dal XX al XXI secolo. Ovviamente, senza pretendere di affrontare il problema in forma sistematica, né esaustiva, bensì rapsodica e per certi versi persino reattiva, come si conviene ad un laboratorio di ricerca dove, di volta in volta, si reagisce agli stimoli ricevuti nel corso dell’esperimento, affrontando ipotesi contrastanti e suscitando nuovi interrogativi. L’intreccio sainsimoniano tra filantropia, sviluppo della società industriale e ridefinizione di un agire “politico” che contiene i principi volontaristici della morale a sostegno del suo stesso operare, nell’interazione tra sfera sociale e sfera economica, assume in questo orizzonte il ruolo di una linea guida archetipica, rispetto alle modalità d’intreccio tra agire filantropico ed agire imprenditoriale: una guida che orienta l’esplorazione delle forme evolutive di tale intreccio nel lungo periodo. 7


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Paradossalmente, all’alba del XX secolo, il rapporto tra filantropia ed impresa, nel processo di adeguamento dei modelli della prima a quelli della seconda, e cioè alle organizzazioni corporate che caratterizzano lo sviluppo del sistema industriale statunitense, si delinea un secondo processo di differenziazione: incorporando il modello del corporate, la filantropia si organizza secondo una connotazione scientifica, dotandosi di istituzioni proprie, le fondazioni (“the incorporated philanthropic foundation transformed long-standing tradition of charity”, scrive Judith Sealander), ed agendo attraverso le forme di un “policy-making” basato su competenze e professionalità specifiche. Il meccanismo del trust e la definizione di forme di governance fondate sul ruolo dei trustees ha costituito la condizione strutturale garante del fatto che il processo di differenziazione funzionale non generasse una disarticolazione dell’agire filantropico rispetto ai modelli evolutivi dell’impresa. Le grandi fondazioni americane – generate da capitali industriali – sono state, in effetti, uno dei vettori di costruzione di quella matrice istituzionale che Olivier Zunz identifica come il principio dinamico che ha posto le basi per l’affermarsi del “secolo americano”. In tale percorso il rapporto tra fondazioni e impresa si è delineato nella forma di un ossimoro che contiene in sé l’aspirazione all’armonizzazione delle contraddizioni che lo hanno originato: da un lato, la ricerca del profitto e la dipendenza del corporate dalla sfera del mercato; dall’altro, le fondazioni che, incorporando i modelli organizzativi del corporate, hanno come ambito di riferimento ideale e pratico il benessere della società e il progresso dell’umanità. E, dunque, in definitiva la realizzazione di una logica combinatoria in cui al progresso tecnologico e produttivo deve corrispondere l’avanzamento sociale, scientifico ed intellettuale per il maggior numero di persone. Si comprende perciò come la filantropia scientifica nel contesto statunitense, sia stata, nel corso del secolo XX, in modo ambivalente ed in un equilibrio instabile tra le sue due anime, uno strumento di giustizia distributiva, un correttivo agli eccessi del capitalismo, e al tempo stesso, un fattore di sostegno al suo sviluppo, nel segno della separatezza, tra l’economico e il sociale, avvalorata scientificamente dalla teoria economi8


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ca dominante. La filantropia, generata dall’impresa, ha cercato di distaccarsene o quantomeno di differenziarsene negli scopi, si è data strutture e forme indipendenti, stabilendo forme di dialogo coi poteri economici e con quelli politici, con orientamenti complessi e talora contraddittori, proprio perché il “policy-making” da essa attuato si è posto in una terra di confine dove necessariamente i valori si intrecciano. Si tratta, in effetti, di un confine caratterizzato da molteplici diramazioni: tra l’agire sociale e l’agire economico, tra il settore pubblico e quello privato, tra gli interessi domestici e le politiche internazionali, tra la ricerca dell’innovazione e la “sicurezza” degli investimenti in settori già consolidati. Tali diramazioni e tali rapporti sono emersi in contesti evolutivi, configurandosi in modo molto diverso, nel tempo e nello spazio sociale ed istituzionale. L’ambivalenza sopra evocata si è riflessa, significativamente, anche nel modo in cui le istituzioni filantropiche sono state rappresentate nel contesto sociale e nel modo in cui il loro agire è stato accolto dall’opinione pubblica. Correttivo e sostegno dello sviluppo capitalistico, esse sono state oggetto di plauso e di sospetto da parte di chi le ha identificate come i gatekeepers del capitale, o di chi le ha viste come i nuclei di progettazione del mutamento politico ed istituzionale, o addirittura come fattori destabilizzanti di quell’ordine. Questa visione contraddittoria ha accomunato l’opinione pubblica ed i governi, i quali, alternativamente, hanno usato le fondazioni come canali di stratificazione delle politiche della sicurezza nazionale, oppure, in specifiche congiunture, ad esempio durante la guerra fredda, le hanno identificate come luoghi di potenziale concertazione “sovversiva”, facendone il bersaglio delle famose commissioni d’inchiesta del maccartismo. L’ambivalenza e il carattere contrastante delle reazioni rispetto all’agire filantropico è una costante evolutiva che non è smentita neppure dai saggi presentati in questo volume. Gli autori sviluppano un proprio punto di vista sulle modalità dell’agire filantropico all’alba del nuovo millennio, con valutazioni tra loro contrastanti, da cui emergono differenti visioni del modo in cui impresa e filantropia proiettano il loro intreccio verso il futuro: 9


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l’impresa – che è il riferimento istituzionale ed esemplificativo del saggio di Giorgio Vicini –; la consulenza e il punto di vista delle tecniche economiche – su cui si orienta Laura Bertozzi –; la ricerca, nelle sue diverse declinazioni disciplinari – la sociologia delle organizzazioni nel saggio di Flaminio Squazzoni, la storia delle istituzioni scientifiche e dei sistemi tecnologici nei contributi di Giuliana Gemelli, Claudia Rametta e Girolamo Ramunni –; l’antropologia e il lavoro sul campo nei paesi terzi – nel saggio di Emanuele Cassarino –; ed infine, ma certamente non da ultimo, il pionieristico intreccio tra ricerca, riflessione teorica e operatività nel settore delle fondazioni e delle organizzazioni non profit che ha caratterizzato l’intensa produttività scientifica e la costruzione di un originale approccio concettuale nel saggio, pubblicato in lingua originale, di Jed Emerson, pioniere indiscusso della problematica dei “blended values” nell’agire filantropico. Agire filantropico e cambiamento sociale Inevitabile destino, quello delle istituzioni dell’agire filantropico che si pongono alle frontiere tra il pensiero e l’azione ed in cui le ipoteche della burocratizzazione, seppure abbiano avuto un loro peso ed un loro potere di attrazione, sia nel continente nord americano, sia in tempi più recenti anche in Europa, non ne hanno intaccato completamente l’identità istituzionale. A ondate ricorrenti, l’archetipo originario descritto da Saint-Simon, in cui l’ossimoro si scioglie in una sintesi di visionario pragmatismo, genera aspirazioni e pressioni di rinnovamento, di rivitalizzazione della vocazione originaria dell’agire filantropico. Luogo di emergenza di visioni infrarazionali che non possono essere ridotte alla dimensione dell’amministrazione delle cose proprio perché attengono all’affermarsi della volontà degli uomini – come principio morale, come ideale regolativo in senso kantiano – le istituzioni della filantropia non sono riducibili ai modelli delle organizzazioni burocratiche in senso weberiano. Un’aspirazione, questa, che, ovviamente, contrasta con l’affermazione di quei modelli nell’organizzazione del10


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l’impresa e non solo dell’impresa nel corso del XX secolo. Essa fa emergere una complessità evolutiva, che in un certo senso costituisce il codice genetico delle fondazioni o che quantomeno, rappresenta uno dei tratti distintivi delle organizzazioni non profit rispetto alle imprese profit. In un bel saggio di recente pubblicazione, un economista di Harvard, Edward L. Gleaser, ha mostrato come la differenziazione tra le imprese profit e quelle non profit risieda proprio nel ruolo degli attori sociali che in esse operano e nel coesistere, all’interno delle stesse istituzioni, di diverse finalità, orientamenti e visioni guidati da aspetti volontaristici, oltre che di diverse forme di operatività. Tale specifica configurazione rende difficile la sedimentazione di gerarchie istituzionali cristallizzate e fa sì che queste istituzioni risultino, di fatto, più permeabili agli effetti del cambiamento sociale. Per questo la storia della filantropia è essenzialmente storia di uomini o meglio di persone che incorporano idee e valori e le mettono in movimento: è un agire istituzionale e processuale che genera in modo inscindibile investimenti e valori e che tende a proiettarsi nelle zone fluide tra comunità, che cercano di trovare canali di comunicazione con la società, ed un mercato che usa i propri canali di comunicazione più per simulare che per costruire e rendere attivi i suoi plus-valori sociali e culturali, sovraccaricandoli talora di enfasi, per avere le mani libere nel soddisfacimento dei propri bisogni primari. Nel corso del XX secolo, col prevalere del modelli tayloristici e con l’affermarsi di modelli di ingegneria sociale, l’agire filantropico ha necessariamente oscillato tra le sue due anime, quella amministrativa e razionalizzante e quella creativa ed infrarazionale. Per di più ha stabilito convergenze e dissidenze con gli apparati del potere economico e politico, ha contribuito a generare nuovi corsi, ma ha anche avvalorato acquiescenze e cercato di evitare il rischio, piuttosto che addomesticarlo ed orientarlo attraverso una responsabilizzazione riflessiva dell’operare: in questo processo la matrice del dono si è per così dire tecnicizzata nelle procedure dell’erogazione e nei meccanismi rituali del rapporto tra donatori e beneficiari. 11


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Il problema che, attraverso itinerari diversi e con interpretazioni talora divergenti, viene affrontato nei saggi che compongono il volume è quello del cambiamento delle forme dell’agire filantropico, in un passaggio epocale contrassegnato da fenomeni di vasta portata: la transizione da un sistema industriale centrato sulla produzione di beni, all’affermazione di un modello di impresa centrata sulla produzione della conoscenza; il passaggio dal prevalere nelle dinamiche istituzionali di forme di rappresentazione del rapporto pubblico-privato, tendenti alla definizione di linee di netta demarcazione, a forme di rappresentazione e di conseguente agire sociale che realizzino il principio dei “blended values” (valori intrecciati), tra l’economico e il sociale; il passaggio da un modello di organizzazione aziendale basato sul corporate, ad un modello di organizzazione che valorizza il principio dell’intrapresa. Questo mette di nuovo al centro del suo operare la capacità di “suscitare” impresa da parte degli individui, piuttosto che la funzione strutturante delle organizzazioni, valorizzando la circolazione orizzontale delle informazioni, rispetto alla gerarchizzazione verticale dei ruoli e delle funzioni. In uno dei saggi che compongono il volume, Girolamo Ramunni ha rilevato la sostanziale continuità del modello dell’agire filantropico rispetto a quello del XX secolo. Nello stesso modo in cui nel passato esso era plasmato sui modelli del corporate oggi esso si basa sulla configurazione e sugli assetti della new economy: il passaggio non cambia le regole del gioco, semplicemente sostituisce all’invisibile discrezione dei donors del passato – filantropi della golden age – la componente individualistica, il protagonismo, addirittura l’aspetto spettacolare dell’agire filantropico che usa gli strumenti tecnologici di internet per produrre ed amplificare l’immagine di sé. In questo processo la filantropia sembrerebbe assumere, regressivamente, le forme del mecenatismo. Tale componente ha radici storiche profonde, non solo nell’età classica ma anche nel periodo medievale e nel Rinascimento, quando, come ha mostrato Edward Gleaser, essa è stata un potente fattore di articolazione tra l’aspirazione delle grandi famiglie nobiliari a rappresentare l’immagine di sé, nelle forme architetturali di prestigiose cappelle pri12


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vate e la capitalizzazione di risorse che, attraverso un sistema di trasferimenti di beni privati (le cappelle appunto) per finanziare beni pubblici (le cattedrali), ha contribuito al consolidamento del potere della Chiesa come istituzione non profit. Il saggio di Ramunni, che vive ed insegna in Francia, si inserisce in modo originale nel dibattito sul crescente ruolo delle fondazioni in Francia, in un contesto che, per ragioni complesse, ha opposto per lunghissimo tempo una sorta di rigetto nei confronti di queste istituzioni, oggi identificate, su opposti versanti, in vettori di innovazione e di svecchiamento– soprattutto a livello del sistema, a dominante pubblica, della ricerca e della formazione – e in minaccia nei confronti dei grandi organismi che hanno retto tali sistemi nel corso del XX secolo. È significativo che oltralpe tenda a prevalere un’interpretazione dei fenomeni emergenti nell’agire filantropico, che qualifica, senza troppe discriminazioni, gli imprenditori più vivaci della new economy, come il prodotto dei modelli evolutivi di Wall Street e del processo di finanziarizzazione del capitalismo industriale, paventando – certo non senza ragioni e argomenti – proprio quell’intensificarsi dell’intreccio tra filantropia ed impresa che Saint-Simon prefigurava, invece, come elemento di rigenerazione sociale e politica. Ciò a partire da considerazioni di natura sociologica che evidenziano la stretta connessione tra l’emergere dei nuovi filantropi e la sostituzione a Wall Street di una nuova élite finanziaria, aggressiva e spregiudicata, priva di radici nelle grandi élite del capitalismo, sovente di bassa estrazione sociale o di recente immigrazione e la cui affermazione dipende dall’acquisizione di diplomi in prestigiose università e business schools americane. È questa nuova élites di finanzieri rampanti che nutre le fila dei nuovi filantropi, spregiudicati avventurieri e profeti autoreferenziali piuttosto che cavalieri di ventura, visionari ed idealisti. In questo orizzonte interpretativo, i nuovi filantropi, applicando al non profit le tecniche finanziarie più sofisticate, svuoterebbero il proprio agire degli aspetti di creatività istituzionale appiattendolo, di fatto, sulle esigenze di consolidamento delle reti della new economy, attraverso il medium della tecnologia di internet (e-philanthropy). È innegabile che, nel com13


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plesso ed instabile universo della filantropia nell’era di internet, questa componente sia presente, ma è anche vero che neppure in passato “la vecchia filantropia” è stata immune da forme speculative e dalla ricerca di coperture, rispetto ad un agire orientato esclusivamente alla ricerca del profitto. Si ricordi come la stessa creazione di una delle più prestigiose fondazioni americane, la Rockefeller Foundation, sia avvenuta a ridosso di un evento drammatico e sanguinoso, l’uccisione da parte della polizia di decine di operai durante uno sciopero, a Ludlow, nel Colorado, presso la Colorado Fuel and Iron Company di John D. Rockefeller. Inversamente, è altrettanto evidente che le istituzioni capaci di consolidarsi e di oltrepassare le fasi più critiche della new economy negli ultimi anni, abbiano acquisito una legittimità che deriva dall’agire in direzione di un impegno evolutivo e responsabilmente orientato nell’ambito della “social entrpreneurship”, riferita alla crescita del territorio di riferimento (“regional stewartship”) e non dalla ricerca della copertura filantropica di transazioni finanziarie. Un saggio pubblicato recentemente negli Stati Uniti mette in relazione lo sviluppo dell’imprenditorialità sociale in specifici ambiti territoriali, in cui tendono a svilupparsi distretti culturali – ad alta densità di partecipazione, sia sul versante delle imprese, sia su quello delle organizzazioni non profit e delle istituzioni pubbliche e private – con la crescita di un’imprenditorialità civica che si ispira direttamente ai valori e agli ideali dei padri fondatori della nazione. Gli autori del saggio individuano, così, una genealogia dei nuovi filantropi che è decisamente l’opposto di quella fatta propria da alcuni studiosi francesi e a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Tenendo conto di queste divergenze interpretative sulle matrici della nuova filantropia che appaiono piuttosto dirompenti e testimoniano della densità e della vivacità del dibattito in corso, è ovvio che il tema vada affrontato cercando di evitare le generalizzazioni, con una casistica ben costruita sotto il profilo metodologico, oltre che attraverso una disanima altrettanto attenta degli elementi che orientano le ricerche in corso su queste tematiche. Un’annotazione tutt’altro che marginale a questo proposito e che, di fatto, dimostra la scorrettezza metodologica 14


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di un approccio basato sul confronto tra vecchia e nuova filantropia, riguarda la complessa articolazione dell’agire filantropico dotato di radici lunghe nel tempo, in rapporto ai processi di adattamento ai contesti evolutivi in cui si trova ad operare. Un esempio illuminante, al riguardo, è offerto dalla gemmazione, dalla operatività di lunghissima data del Family Office dei Rockefeller, di un network operativo che ha la sua diramazione istituzionale, con antenne anche nella costa dell’Ovest, nella Rockefeller Philantrhopy Advisors Inc. (RPA). Esso fornisce una vasta gamma di servizi tesi ad aiutare i nuovi imprenditori dell’agire filantropico a livello internazionale. Un’attività supportata dalla creazione di incubatori ad alta densità progettuale nel settore della “social enterpeneurship”. La rete di collaborazione del RPA comprende, significativamente, gli interpreti più vivaci ed attivi nell’ambito della “social enterpreneurship” e della “venture philanthropy” da Kristin Majeska, della Common Good Ventures a Mario Morino, creatore del Venture Philanthropy Partners, da Randy Newcomb della Golden Gate Community, Inc. a Melinda Tuan del Roberts Enterprise Development Fund. Di questa rete fa parte anche Christine Letts dell’Hauser Center for Nonprofit Organizations che è un attore interstiziale tra il mondo accademico e quello dell’expertise nel settore della “venture philanthropy”, di cui è stata tra i primi a diffondere le problematiche nel mondo accademico e della ricerca sul non profit. Da quanto detto è evidente che il tema della continuità/discontinuità delle forme organizzative e dello scenario di riferimento dell’agire filantropico è un tema complesso, da analizzare con cura ed inserendo ogni singolo caso in un orizzonte di riferimento a carattere marcatamente evolutivo, attraversato da fattori di mutamento in cui il rapporto tra continuità e discontinuità non è segnato da linee di demarcazione rigide, tra nuovo e vecchio, tra innovazione effettiva e simulazione retorica, ma da flussi di ibridazione, da percorsi fluidi, in cui le stesse forme di “cristallizazione” istituzionale, non sono riconducibili a modelli ben definiti. Ma quali sono i fattori di mutamento? È ad un orizzonte macro strutturale e non solo ai micro comporta15


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menti individuali degli attori – analizzati solo attraverso le pagine web o, peggio ancora, desunti da fonti indirette come “Fortune” o “Business Week” – che occorre riferirsi per tratteggiare, senza irrigidirlo in schemi concettuali, inutili e devianti, il mutamento in atto. Nel corso del XX secolo, una volta che le fondazioni hanno incorporato il modello del corporate, i mutamenti organizzativi e di definizione delle pratiche operative si sono delineati prevalentemente all’interno delle fondazioni stesse, o attraverso gli effetti di provvedimenti legislativi e di regolamentazione (si ricordi in particolare il famoso Tax Reform Act che, nel 1969, ha innescato un rapido processo di crescita della pubblicizzazione dell’operare delle fondazioni). Il loro operare come elementi funzionali agli assetti del sistema del corporate, nel senso sopra indicato, ha spinto le fondazioni ad orientarsi verso un modello standardizzato di divisione del lavoro sociale, sia nei confronti delle istituzioni pubbliche – alle quali è, in genere, demandato il compito di dare consistenza ai progetti pilota avviati attraverso i finanziamenti erogati dalle fondazioni – sia nei confronti delle altre organizzazioni non profit. Si è prodotto, così, un effetto di isomorfismo istituzionale che ha identificato il ruolo delle fondazioni con l’attività grant-making, differenziando il loro ruolo di erogatori e decisori da quello delle organizzazioni non profit che sono i beneficiari e gli esecutori, secondo un principio di reciproca settorializzazione delle funzioni, da una parte il dare, dall’altra il fare. In entrambi i casi assistiamo oggi ad un mutamento di grande rilievo: ciò che genera dibattito e trasformazione all’interno delle fondazioni sono, per lo più, fattori esterni, legati non solo alle nuove tecnologie ma anche alla crescita dei fenomeni identitari nei territori di riferimento, a livello delle comunità, delle associazioni, dell’imprenditorialità civica rivolta al sociale, che riconfigura il ruolo e le forme delle organizzazioni non profit e al conseguente intrecciarsi dei valori economici con quelli sociali (come brillantemente illustrato nel saggio di Jed Emerson). Da funzione complementare ed interna alla logica distributiva del sistema capitalistico, l’agire filantropico sta diventando una matrice diffusa in tutto lo spettro delle istituzioni economiche e sociali. Esso assu16


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me, così, il ruolo di vettore di una logica non più soltanto distributiva ma commutativa e, di per se stessa, generatrice di mutamento sociale. Da essa dipende, infatti, la ridefinizione del ruolo degli attori dell’agire filantropico, non solo e non tanto attraverso la valorizzazione degli strumenti di misurazione dell’impatto sociale dei progetti oggetto di finanziamento (secondo il modello della “venture philanthropy”), quanto attraverso la comprensione dei processi che generano valori nel consolidamento delle forme identitarie dei gruppi di cittadini, delle comunità, dei networks che internalizzano le responsabilità di organizzazione dei progetti a livello territoriale (“regional stewartship”); e, in ultimo, attraverso la costruzione di capacità e competenze che alimentano tali processi. Tutto ciò mediante il riferimento a modelli adhocratici di creazione di aggregati operativi, focalizzati su obiettivi e dotati di responsabilità e di competenze progettuali proprie. In questo percorso il rapporto tra fondazioni e organizzazioni non profit risulta profondamente ridisegnato: le prime tendono a sottrarsi dall’identificazione del loro operare col grant-making, le seconde assumo l’orientamento proattivo che implica la circolarità propria dell’agire filantropico tra responsabilità, rischio e riflessività. In questa dimensione, che rafforza l’interdipendenza e la costruzione di partnership a eguaglianza collaborativa tra fondazioni e organizzazioni non profit, nel quadro di una imprenditorialità rivolta al contesto di appartenenza, l’agire filantropico si configura in senso “politico”, nel significato di policies e non di politics. Questo non perché permetta di rafforzare le connessioni tra istituzioni filantropiche e sfera della politica istituzionale (governi, partiti, istituzioni di rappresentanza e di concertazione politica), ma perché opera in modo proattivo, nella costruzione di un mercato sempre meno auto-regolato, aperto alle dimensioni della collaborazione competitiva, tra attori economici di diversa matrice, immettendo nel circuito economico, pubblico e privato, patrimoni conoscitivi ad alta densità di allineamento valoriale. Tali patrimoni incorporano il capitale sociale ed intellettuale accumulato nei decenni precedenti attraverso i processi di networking associativo e la professionalizzazione delle 17


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competenze, a livello dei Consigli di amministrazione degli executives e dello staff delle fondazioni, e quello che deriva dalle esperienze di investimento attuate dai “social entrepreneurs” – definiti da Gregory Dees come coloro che svolgono il ruolo “of change agents in the social sector by creating and sustaining social values and […] pursuing new opportunities to serve a mission”– e dalle organizzazioni non profit; in particolare di quelle che, a livello comunitario, hanno fatto proprio questo orientamento (si v. il caso di studio presentato da Flaminio Squazzoni). Confronto di contesti Benché la differenza di scala e di sviluppo di modelli istituzionali che si rifanno agli orientamenti sopra illustrati, negli Stati Uniti ed in Europa, sia rilevante – sia in termini di ampiezza, sia per la configurazione storica e strutturale che li ha generati – in entrambi i contesti è in atto un processo di rifocalizzazione della attività e del ruolo delle fondazioni. Nel contesto americano l’emergere della “venture philanthropy”, come fattore trainante di questa rifocalizzazione (mediante il ricorso ad una terminologia che circolava già negli anni settanta, quando venne usata per la prima volta da Bill Somerville ma che si è imposta come pratica operativa solo negli anni novanta) è da leggersi, tuttavia, meno come l’effetto del consolidarsi di un nuovo modello di filantropia che come un sintomo evidente e per certi versi enfatizzato – anche attraverso il suo impatto massmedico – di un mutamento più profondo. Anche nel contesto americano questa esigenza di cambiamento non sembra affatto essersi risolta con l’applicazione di tecniche derivate dal “venture management” alle istituzioni della filantropia. A ben vedere, il fenomeno dell’emergere della “venture philanthropy” come proposta di rinnovamento dell’agire filantropico – che ha caratterizzato soprattutto la fine del XX secolo e che oggi sembra lasciare il posto ad approcci meno sofisticati ed aggressivi, ma altrettanto densi di significato e di progettualità, come “l’high engagement philanthropy” – è, insieme, un rivelatore sociale e un 18


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segnale metalinguistico. In esso si consuma il passaggio dalla metafora del corporate come modello di riferimento nella definizione degli assetti istituzionali ed operativi delle fondazioni (con un’accentuazione degli aspetti amministrativi del “policy-making” e una governance che privilegia la gestione verticale delle competenze), al principio della “social enterpreneurship” (come creazione di imprenditorialità diffusa, basata sul networking delle competenze attraverso il ruolo proattivo di attori sociali e la loro articolazione orizzontale nel territorio di riferimento). In Europa questo passaggio si sta appena delineando ed è ancora per molti versi un fenomeno implicito, che si manifesta in modo del tutto discontinuo attraverso il riorientarsi delle pratiche dell’agire filantropico, senza avere ancora né una casistica, né una concettualizzazione. Esso ha le sue radici nei processi di riposizionamento delle politiche del welfare, dal punto di vista della dinamica evolutiva delle istituzioni pubbliche e del loro riposizionarsi rispetto a quelle private, e nella crescita esponenziale, negli ultimi anni, dell’approccio alla responsabilità sociale nel settore delle imprese – in particolare in Italia (si v. il saggio di Giuliana Gemelli). Come stanno reagendo nel nostro paese le fondazioni a queste processi di mutamento in atto? Sul fronte delle fondazioni di origine bancaria va detto che se virtualmente non esistono più alibi nel fare emergere il loro ruolo istituzionale in forma proattiva, considerando che – dopo la sentenza della Corte Costituzionale – sono, a pieno titolo, istituzioni di natura privata, è, comunque, altrettanto evidente che occorrerà un certo lasso di tempo perché la loro cultura organizzativa, le competenze professionali, i modelli di governance si allineino rispetto a questo orientamento. Occorre però aggiungere che anche le fondazioni di più recente creazione, nate per iniziativa di grandi imprese finanziarie o che si propongono come fondazioni di tipo comunitario, a livello locale (e che, dunque non hanno subito gli effetti paralizzanti della lunga vertenza tra governo e fondazioni di origini bancaria), non sembrano affatto configurarsi secondo i modelli della “social entrpreneurship”. Da un lato, infatti, le fondazioni comunitarie tendono a privilegiare, 19


GIULIANA GEMELLI

rispetto ai modelli nord-americani e di altri paesi europei, modelli di governance di tipo verticale ed “amministrativo”, con la riproposizione di comitati permanenti, che agiscono più come organismi di controllo e di rappresentanza di soggetti politici ed istituzionali che come comitati operativi proattivi. D’altro canto, nel settore delle fondazioni di matrice imprenditoriale, e finanziaria, prevale ancora il modello del corporate, con un’attività di grant-making molto tradizionale, caratterizzata da finanziamenti a pioggia, anche se orientati in aree a forte densità di impatto sociale (i paesi africani, ad esempio). Quanto ai settori di progettualità interna alle fondazioni che scelgono il modello misto tra operating e grantmaking e che in Italia sono la maggioranza – cercando in tal modo di dare una risposta alle pressioni del mutamento in atto – prevale, proprio perché l’orizzonte strategico di riferimento rimane quello tradizionale, la scelta di ridurre il proprio coinvolgimento agli aspetti erogativi e finanziari. Vengono così privilegiate, in molti casi, forme di buy-out di programmi già strutturati e definiti nelle loro modalità organizzative e nei loro scopi, sostenuti integralmente dal punto di vista finanziario e che, solo attraverso questo processo di acquisizione, vengono “internalizzati”. Nel primo caso,quello delle fondazioni comunitarie, sulla scorta dei casi presentati nel saggio di Cassarino e delle esperienze condotte in ambito internazionale, ci si chiede se il coinvolgimento delle comunità locali, nel contesto dei paesi terzi, non risulti più incisivo di interventi erogativi disseminati in vari ambiti e su vari progetti, con lo stanziamento di finanziamenti “equilibrati”, cioè ben bilanciati nei programmi di intervento delle fondazioni, secondo il classico approccio del grantmaking. Tale coinvolgimento potrebbe avvenire con la creazione di “community partners in residence” capaci di sostenere dall’interno – coinvolgendo le comunità di riferimento non solo come beneficiari, ma come partners attivi – il lavoro delle fondazioni, supporto dello sviluppo di capacità organizzative finalizzate allo scopo. Nel secondo caso, quello che riguarda le fondazioni d’impresa. ci si chiede quale margine di responsabilizzazione del rischio e, di conseguenza, quale effetto di arric20


INTRODUZIONE

chimento in cultura organizzativa, per le fondazioni stesse, possa venire da esperienze di cui si possiede l’intero pacchetto finanziario ma che non sono realmente internalizzate attraverso strategie di creazione di “equal partnership”, giacché gli attori finanziari, da un lato, e gli operatori sociali dall’altro, restano sostanzialmente estranei gli uni agli altri, eccetto che nella rappresentazione comunicativa ritualizzata dai siti web o dai media, riproponendo, di fatto, la divisione del lavoro tra chi da e chi fa. Infine ci si chiede quali possano essere in Italia gli attrattori per chiamare a raccolta le energie di un’imprenditorialità sociale disseminata e radicata nel nostro territorio nazionale che ha animato nel passato esperienze di proattivismo civico, ad alto potenziale di impatto sul territorio. Esperienze, come quelle condotte da Adriano Olivetti nel Canavese negli anni cinquanta e che egli cercò di proiettare anche nelle regioni del Sud, attraverso il progetto di una Città studi nel Mezzogiorno, archetipo di quei distretti culturali che, negli Stati Uniti agiscono oggi da attrattori di imprenditorialità sociale; un’imprenditorialità che utilizza la cultura come fattore di coesione sociale e civile e come fattore di crescita della competitività economica. Esperienze che hanno, ora, soltanto un potere evocativo, dal punto di vista della loro concreta operatività e della loro replicabilità, ma che costituiscono, nondimeno, dal punto di vista della catena intrecciata dei valori, tra l’economico e il sociale, l’anello mancante cui occorre rifarsi per attivare il processo maieutico di aggregazione di forze che la nostra società civile non ha mai cessato di generare.

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Parte I Tecniche per uno scopo: la venture philanthropy tra impresa e filantropia


Total Foundation Asset Management: Exploring Elements of Engagement Within Philanthropic Practice Jed Emerson

Introduction1 This essay addresses the question of how we should think about foundation assets, how we as foundation staff should work to engage those assets in the creation of value, and how those concerned with fulfilling the true potential of philanthropy should view returns generated as a result of the appropriate allocation of those foundation assets. While it would be easy for some newcomers to conclude that a concern with the creation of value is a new agenda in the foundation community, this would be an obvious mistake. In truth, both philanthropists and those who staff their foundations have long operated in pursuit

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The audience for this paper is primarily senior management of foundations and nonprofit organizations. The paper addresses questions of both foundation asset management and foundation engagement with organizations with which they work. Ideally, the reader has a background in these questions and experience in managing the relationships between those providing philanthropic capital and those receiving it to support the work of the nonprofit sector. Therefore, it is the author’s assumption the reader is familiar with standard terms and jargon of philanthropy, and not in need of basic definitions of words or concepts.

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JED EMERSON

of value maximization. As the trustee of one old-line, east-coast foundation stated a number of years ago, “Good grantmaking has always been about finding the best entrepreneurs and investing your assets wisely in support of their work.� One could not observe the very real contributions made by foundations and those whose efforts they underwrite and notrealize these partnerships have created significant value for our society and world over past decades. What newcomers to the philanthropic dialogue have brought to this pursuit of value has been a fresh perspective, a focus on performance and an awareness that while there is much of which we may be proud, there is great and untapped potential within philanthropy that we have yet to realize. Over recent years, all participants in philanthropy have been able to observe the simultaneous refinement and expansion of the field’s understanding of the resources foundations have to invest and the variety of returns philanthropic institutions may be capable of generating. But many in the sector continue to make the error of focusing solely upon grantmaking as the primary value creation vehicle, despite the reality that the resources foundations are capable of mobilizing in pursuit of their institutional missions are actually much greater than grants alone. Taken together, these resources should be viewed as a portfolio of assets, defined within various asset classes, which when positioned appropriately may significantly advance the goals of the foundation well in excess of what grants alone are able to achieve. The central challenge faced by every foundation is a simple one: How do we ensure our portfolio of assets is most effectively aligned insupport of maximizing the total value we have the potential to create in partnership with our stakeholders? The following essay explores this question in two parts. We begin by expanding our definition of philanthropic assets beyond the historic ones of grants and foundation corpus. We introduce the five types of assets foundations control, present each as its own asset class and argue foundations have the opportunity (indeed, the responsibility!) to invest all these assets in support of their institutional mission. 26


TOTAL FOUNDATION ASSET MANAGEMENT: EXPLORING ELEMENTS OF ENGAGEMENT

The second part of this essay explores the question of how we engage those assets in pursuit of our mission. We identify eight elements of engagement and argue that each element should be viewed as a continuum, consisting of degrees of philanthropic engagement. We argue that all foundations operate in various ways across these elements of engagement and that the central challenge for the foundation community is how to ensure that our true potential for value creation within each element is fully maximized. Finally, we conclude with a brief discussion of the nature of value and argue that foundation asset performance should be viewed as generating blended returns that function at multiple levels. While tracked inseparate forms this Blended Return should be considered in total when assessing the extent to which foundations create value as the outcome of their investment activities. Defining A Portfolio of Philanthropic Assets When grantmakers assess what resources they have available to support their institutional mission, the first type of resource that comes to mind is grants. And, amounting to over $24bb in 1998,2 grant support provided by the foundation community to nonprofit organizations is certainly not an insignificant resource. At the same time, it must be recognized that those dollars represent less than 3% of the funds supporting the work of the nonprofit sector. Nevertheless, foundation actors play a significant role in influencing nonprofit organizations and how successful they become. Countless initiatives have been spawned by foundation seed grants and first round funding which have then gone on to receive expansion and replication support from the public sector – which has then taken many of these concepts to scale, leveraging significant value for the larger society. Indeed, 2 “Money Matters: The Structure, Operation and Challenges of Nonprofit Funding,” Emerson and Carttar, December, 2002. Available through the William and Flora Hewlett Foundation and the Bridgespan Group.

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JED EMERSON

the President’s recent announcement of $15bb in funding for international AIDS work would have been impossible were it not for the millions of dollars the philanthropic community has invested in emerging AIDS research and community intervention/relief efforts over the past two decades. Regardless, if we view the value generated by the foundation community solely as a function of its grantmaking we would sorely underestimate both the potential assets available for use as well as the full value generated by those assets. We must advance a vision of the philanthropic asset base which is inclusive of the grants foundations provide, but cognizant that those grants function together with other assets which may also be brought into use through the activities of the institution. Within this framework of foundation strategy and practice, the successful foundation is viewed not as the one with the most money or largest financial asset base, but rather the foundation that most effectively leverages its total assets in support of its institutional mission and purpose. With that understanding in mind, we may identify the following five philanthropic asset classes: – Grant Assets – Intellectual Assets – Human Assets – Political Assets – Financial Assets. Each of these asset classes represents a complex area of exploration, discussion and strategy. There are a variety of ways in which one could manage and position each type of asset in pursuit of any given foundation’s overall goals – indeed, the majority of the debates documented in the pages of the Chronicle of Philanthropy and Foundation News and Commentary reflect discussions regarding the appropriate allocation of each of these assets – so the following discussion will be a brief overview. The point is simply that foundation trustees and senior management must understand that to manage foundations without the awareness of this total portfolio of philan28


TOTAL FOUNDATION ASSET MANAGEMENT: EXPLORING ELEMENTS OF ENGAGEMENT

thropic assets is to guarantee the institution will under-perform in terms of the potential value to be generated from these assets and the institutions that control them. Grant Assets are the direct cash contributions provided by foundations to nonprofit organizations. These come in many forms and with a variety of terms and conditions. They may be program grants, project grants and general support grants. They may be annual, three year or extended period grants. They may be viewed as charitable gifts and as a form of philanthropic investment. If the general public is aware of foundations at all, grants represent the primary value most “lay people” understand foundations providing within our society and (to our very real detriment) grants remain the primary focus of much of the attention we place upon “philanthropy” within the nonprofit sector as a whole. Intellectual Assets are the product of an institution’s grant making activities and may be built over time as foundation staff engage in more and more grantmaking. For the most part, knowledge of an issue area and the players in any given “space” is held within the brains of foundation staff. This asset is applied in the context of the grantmaking relationship and helps steer the design of programs and strategies the foundation supports through its grants. This Intellectual Asset does not rest solely in the heads of program staff, but for those foundations actively involved in executing knowledge management strategies of various types may be cultivated, increased and disseminated both within the foundation and with outside stakeholders. Some foundations pursue strategies that push this asset into significant use on behalf of grantees and others maintain the asset as an internal resource, but all foundations have some level or degree of Intellectual Assets that under gird their analysis of issues and creation of strategies. And many foundations could do much more to further cultivate this valuable asset. Human Assets consist of the “art” of grantmaking and can significantly affect the amount of value generated by a foundation. If good grantmaking were simply a function of knowing what to do and having the funds to do it, we would not need conferences, associations and consul29


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tants to assist foundation staff in understanding how to “do� effective work within philanthropic organizations. Some of the better grantmakers are people who have a touch for working with others, hearing their needs, seeing new opportunities that practitioners might be missing and then being able to manage a series of relationships in order to massage a process that, with the right resource support, is then able to lead to an outcome that is viewed as a success. Appreciation and stewardship of Human Assets represent much of the intangible nature of what makes for a truly successful investor, whether one functions within the sphere of nonprofits or venture capitalists. Political Assets are those resources foundations leverage beyond their walls to convene stakeholders around an issue, educating both the general public and policy makers with regard to an action agenda, and pursue legal and/or regulatory changes in light of the learnings and experiences of the foundation and its investees. Perhaps one of the more under utilized assets of the foundation community, some foundations have excelled at strategies to convert this asset to real value in support of a larger vision and agenda for change. Many foundations confuse limitations on lobbying and advocacy with restrictions upon the application of political assets, but in truth foundations often exercise this asset by default or with lack of intention and thereby greatly reduce the value Political Assets are capable of generating. For example, the ability to convene thought leaders and practitioners around a given area of common interest is one aspect of how political assets may be managed; as is creating publicity and bringing attention to a cause or promising solution. Political assets simply speak to the capacity of foundations to foster and direct public attention and dialogue around an issue. It may also mean being involved in influencing the development of public policy and regulation as well. Of all the assets available to the modern foundation, Financial Assets are no doubt the least well utilized. The crushing majority of foundations turn over their Financial Assets to professional money managers who then allocate those assets in total and complete absence of any consideration of the institution’s mission, purpose or 30


TOTAL FOUNDATION ASSET MANAGEMENT: EXPLORING ELEMENTS OF ENGAGEMENT

goals. Indeed, many trustees would no doubt be surprised to know that their financial holdings are actively working against the interests of their philanthropic investments. This is especially ridiculous in light of the significant advances made by fund managers and investors creating strategies to maximize both financial and social returns on behalf of long-term, value investors – which one would imagine most foundations would understandthemselves to be. The days of traditional “mission related investing” through the use of screens and other practices are dwarfed by the potential of foundations to engage in targeted community investments, “positive value investing” (which seeks out best in class within traditional industries and in accordance with sound financial management approaches to fund diversification), and the use of shareholder proxies to advance the larger interests of the foundation. Simply put, the reality that less than 5% of most foundations’ assets drive 100% of their institutional mission, while 95% of their assets are managed strictly with regard to financial performance alone represents one of the greatest “under valued” assets of the foundation portfolio. While the total foundation portfolio consists of these five asset classes, the potential value of that portfolio will remain locked up unless the foundation is successful in its management of those assets. Therefore, we now turn to a discussion of considerations related to Total Foundation Asset Management – namely, how foundations might best function as “engaged value investors” and leverage their total assets to maximize both their value creation efforts and the returns generated by philanthropy. The Practice of Total Foundation Asset Management Defining What It Means to be an Engaged Grantmaker The term “engaged grantmaking” appears to be gaining increasing use in the foundation community. As we will see, there are many layers to this issue, but most of the current discussion has focused upon that aspect of “engagement” that speaks to the relationship between 31


JED EMERSON

grantor and grantee. The question of what the appropriate relationship looks like and whether it is appropriate for foundation staff to view themselves as engaged with their grantees, has been debated for many years. Indeed, this author can remember sitting in a meeting with foundation colleagues over a decade ago and being told his monthly meetings with grantees, his efforts to be engaged in the grantee’s process of strategy development and execution, was “professionally inappropriate” since, as funders, we are supposed to be somewhat removed from our grantees and should strive to be objective in our allocation of funds to those in the field. While there may have been a time when the notion of being connected to a grantee would bring frowns from one’s peers, today that attitude has largely changed. The rise of Venture Philanthropy3 in the late-90s, together with the mainstream foundation community’s re-focusing on its long-term debate regarding the appropriate role of foundations within the non-profit sector, has brought an increased awareness of the importance of our reflecting upon the grantor/grantee relationship and various ways in which the value of that relationship may be increased – whether through “engaged grantmaking,” venture philanthropy, strategic philanthropy4 or any number of other frameworks for maximizing the impact of philanthropic practice. Before discussing the specific elements of engaged grantmaking, three general assumptions must be presented: 3 While a concise definition of Venture Philanthropy may bring an extended debate, one may simply say that it is the philanthropic application of venture capital principles and practice. For lengthy discussions regarding its definition and implications, please see this author’s other papers at www.redf.org. 4 This paper explores aspects of engaged grantmaking and the previous footnote references a definition of venture philanthropy. Strategic philanthropy has historically been used to describe the efforts of corporate philanthropy to be framed in support of the corporate goal’s of its sponsor, but more recently has been used to describe any strategic approach to creating long-term value through a philanthropic practice and it is this latter definition that the author refers to in this case.

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TOTAL FOUNDATION ASSET MANAGEMENT: EXPLORING ELEMENTS OF ENGAGEMENT

First, the question of engagement itself is value neutral. Regardless of how one approaches the topic, all grantmakers are engaged with their grantees. Annual foundation reports, evolving funding priorities and the actual allocation of grant dollars to grantees each amount to various types of engagement with nonprofit organizations. The only way a foundation could be “unengaged” would be to completely go out of business, disbursing its corpus and making no allocations – though it could be argued that even that would represent a form of quasi-engagement!5 To debate the appropriate degree and form of engagement is fine. And one could also say the degrees of engagement that are described later in this document are themselves arrayed across a spectrum of value assumptions which are anything but value neutral. However, to pretend that a foundation can exist in the sector and not be engaged in some form or fashion is beyond reason. We are all engaged with our grantees – our engagement is simply a matter of degree6. Second, in light of the reality of our engagement with nonprofits, the central question to be considered is what is the appropriate degree and extent of engagement we as foundations should seek to pursue in relation to our grantees? I would argue that the appropriate level of engagement is a function of the context within which the funder operates and the capacities any given foundation brings to the grantmaking process. This context of grantmaking functions at three levels. First, is within the capacity of the grantmaking organization; second, is with reference to the developmental stage of the grantee organization receiving the foundation’s support; and third, is the developmental stage of the field within which both the grantee and grantor operate. For the purposes of 5 Indeed, one could argue that such a form of engagement is actually one of high efficiency—and therefore to be greatly valued as an effective way to structure a given grantmaking strategy and practice. 6 For further discussion of this point, please see the author’s article, “Mutual Accountability and the Wisdom of Frank Capra,” which appeared in the March/April 2001 issue of Foundation News and Commentary.

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clarity, this paper places primary emphasis on the first contextual level, but does so with real awareness of the importance of the other two levels, within which much of the actual engagement takes place. Not all foundations are equipped to be “fully engaged” grantmakers (as defined later in this document). By extension, not all grantees are prepared to work with grantmakers on a fully engaged basis. Even the most open and strategic grantmaker is bound by the degree to which her portfolio of grantees is open to defining the terms of their relationship as one of “intentional, mutual engagement” versus “philanthropic ATM”. And, depending upon the field of practice or issue area addressed by both grantor and grantee, certain fields or areas of interest may benefit to a greater or lesser degree from high engagement of foundations funding in that area of work. When it comes to the question of what is the appropriate degree and form of engagement, it simply comes down to the fact that various foundations should be more or less engaged at different points in time depending upon the stage of development of funded organizations, field of practice or body of knowledge – and depending upon the foundation’s own ability to add meaningful value to the work of its grantees7. It is important to be crystal clear on this point: We are not arguing that only “good” grantmakers are fully engaged investors in the public good or that “bad” grantmakers are those operating at a level of “low engagement”, but rather that each grantmaker should be engaged to the maximum degree appropriate for their own foundation’s goals, capacities, area of interest and specific portfolio of funded and stakeholder organizations. With these first two assumptions in mind, the third and final assumption we must recognize when discussing the question of “engaged grantmaking” is that the whole

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It should be noted that an excellent area for future research and writing would be an exploration of what specific types of engagement are most effective within which specific contexts of practice.

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point of any philanthropic practice is to have the greatest possible effect – the most significant impact – upon an area of interest or concern. Grant funds are not allocated simply to fulfill a 5% payout requirement, but rather as a means to the end of achieving some social mission or other institutional goal. Therefore, all foundations should seek to maximize to the greatest degree possible the leverage and impact of all assets they may possibly bring to their engagement in the grantmaking relationship. The whole point of being engaged in a grantmaking process is to assist in achieving a goal of social change, and therefore regardless of whether one seeks to be “highly engaged” or “less engaged,” every foundation should seek to maximize to the greatest possible extent the contribution value of its total assets and resources in pursuit of its mission. Engagement is not a “one size fits all” concept, but is a critical determinant of success within the practice of a foundation’s grantmaking and its effort to maximize the impact of its total asset portfolio, as defined below. In sum, it could be said that the purpose of reflecting upon engaged grantmaking practice is more than simply being aware of the dynamics of the grantee/grantor relationship. It is an intentional structuring of that relationship in order to achieve certain goals. What are the primary goals of engaged grantmaking practice? The goals of any individual foundation and the definition of its approach to engaged grantmaking will differ in specifics between and among a host of foundations. There is no single understanding of the goals to be achieved – however the primary and overriding intent for all philanthropic asset management strategies is to maximize the value of its assets that may be used in fulfillment of its institutional mission and purpose. At a broad and generic level, these goals may be initially understood as the following: – Improving the foundation’s effectiveness of providing resources to supported organizations; – Leveraging total foundation and grantee organizational assets more efficiently; – Improving the operating efficiencies of the field within which both the grantee and grantor function in 35


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order to move the field as whole forward to increasing overall impact and effectiveness; – Improving foundation and grantee organizational performance; – Assuring that foundation staff develop better understanding of both the funded organization and the issue(s) it seeks to address; – Achieving mutual accountability between both sets of players in he funding relationship: the grantee and the grantor; – Creating real and meaningful change within a given area of focus or concern. The Eight Elements of Engagement Engaged Grantmaking is more than simply knowing it when one sees it. Engaged Grantmaking is an active choice of intent, approach and practice. There are defined elements by which one may assess whether and to what degree one is practicing engaged grantmaking. The following text explores the question of “how much” of any one element a foundation does – the degree of the engagement – but initially the key point is to identify the core elements of philanthropic engagement itself. While there may be other factors worth considering, at a minimum the following eight elements may be understood as forming the foundation of engaged grantmaking practice: Duration Frequency Consistency Form Intentionality Continuity Agency Breadth An immediate question would be whether this list is prioritized in any way or if these eight elements are best viewed as situational in terms of their importance to 36


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understanding engaged grantmaking. While it would seem obvious that several of the elements are “non-negotiable”8, it would seem apparent that the relative importance of each element will rise and fall within the context of any given foundation’s grantmaking history and environment. We will consider each of these in turn. 1) Duration. At the center of the question of engagement is the issue of the duration of the grantmaking relationship. On a most basic level, duration may be defined as long-term or short-term, however there are several increments of duration worth considering. One time, single grant engagements make up a majority of the grantmaking practices in the nonprofit sector. A smaller number of grantmakers will pursue two to three year funding relationships with grantees. And a lesser number still will pursue grantmaking relationships of three to five to ten years. Obviously, an area demanding further research would be the exploration of exactly what percentages of grants fall into which categories and, more importantly, why grantmakers structure their approaches accordingly. In the absence of such analysis, one could state that the greater the duration, the greater the level of possible engagement over time. 2) Frequency. How often the grantor and grantee interact is a key measure of the degree of engagement between the two. Increments of frequency may be weekly, monthly, quarterly, annually, or project-driven. By project-driven, we mean that meetings are held at various points in time set by the timeline of the project itself. An example of project-driven frequency would be meetings scheduled at the start of the grant, at the end of a planning period, at the launch of a program initiative and at the end of a program initiative. This type of engagement could be viewed as project based. Again, it is important to note that the “best” degree of frequency will shift

8 For example, one would have to have some amount of duration within the grantmaking relationship in order to be “engaged” and the longer that duration, the more time one might have to build the engagement and benefits thereof…

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depending upon the type of grant support being provided and is wholly conditional upon the overall strategic goals of the grantmaking program – there is no right or wrong, but simply a question of what level of frequency will provide the most value to grantee and grantor as both work to achieve their respective programmatic goals. 3) Consistency. In some ways, consistency might be viewed as less an element of engagement than a function of whether the engagement will be successful. A foundation might have all the other elements of engagement to a high degree, and in that sense be viewed as an “engaged grantmaker,” yet it is only if those elements are consistently applied that the foundation could truly be viewed as engaged. Consistency of engagement is critical and necessary if the other elements are to “get traction” within the philanthropic practice. It is for this reason that consistency itself, though something of an outlier, should be viewed as an element of engagement. The consistency with which a foundation engages its grantees is a function of whether all program officers active within a foundation practice elements of engaged grantmaking or whether only some officers do. And, by extension, the degree to which all grantees are so engaged or simply a few grantees are engaged. A foundation within which all program officers operate in a highly engaged manner with all grantees could be viewed as a foundation with a high degree of consistency of grantee engagement. Conversely, a foundation wherein only a few program officers are significantly engaged with a small number of grantees is a foundation with a low degree of engagement9. 4) Form. The form of the engagement has a significant effect upon the degree to which a foundation is 9 It is important to consider whether this consistency is lodged within the foundation as an institution or determined at the level of foundation president, vice-president or program officer. Should individuals within any of these roles change, there is a good chance the consistency of the engagement will change as well unless the foundation itself has institutionalized the practice of intentionally engaging with grantees.

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viewed as practicing engaged grantmaking. Does the foundation simply receive reports from the grantee at pre-defined points in time, or does the foundation actively participate in setting the agenda upon which such reporting might be based and work to assure the grantee’s ability to generate such reports through the development and use of an appropriate MIS infrastructure?10 Does the foundation participate in setting the strategy of the funded organization or respond to the stated priorities and interests of the prospective grantee? Is the organization a proxy for the foundation’s work and interest or does the foundation become actively involved in working with the organization to both set the agenda and develop the strategy? In some ways, the element of “form” may be understood as the degree to which the foundation is actively involved in setting the work plan and organizational agenda, and the degree to which it simply responds to the stated interests and priorities of the prospective grantee. Indeed, form may itself be something of a spectrum along which the foundation creates, refines and tracks the engagement. The form of the engagement also blends into the following element of Intentionality in that how the engagement is managed by both parties may also determine the quality of the engagement. 5) Intentionality. Is the engagement an intentional part of the foundation strategy or an episodic response to grantee funding or other crisis? Is it part of an overall, enunciated strategic planning process and action plan, or does the engagement take place as a result of “problems” with the grant or grantee? Periodically, one reads of a group of foundations coming together to address a crisis encountered by a grantee to which the foundations have all provided support. While in some ways this could be viewed as a high degree of engagement, the engagement in this case is a function of a cri-

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Both the grantee and grantor should have access to and make use of such an infrastructure for information gathering, analysis and dissemination.

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sis episode, not a deliberate effort to maintain a positive, contributing relationship with the funded organization. While being engaged at crisis moments is important, doing so as part of an overall, intentional strategy could be said to be reflective of a higher degree of true engagement. 6) Continuity. Where does the engagement take place in the context of the funding commitment and allocation process? Does all the engagement happen prior to the grant award? While potentially of great benefit to the prospective grantee, such pre-award activities as due diligence (which can be viewed by grantees as a “defensive posture” on the part of the grantmaker to protect their own interests as opposed to protecting the shared interests of both parties) may be a form of engagement, the fact that such engagement may not carry onward and be continual throughout the life of the grant is a reflection of a lower degree of engagement than those foundations that support engagement continually throughout the grant lifetime. By extension, assuring that the goals and expectations stated initially are in fact those by which performance is judged also speaks to the degree of continuity in the grantmaking relationship. 7) Agency. Who is the provider of the “engagement”? If it is a 3rd Party or consultant hired or paid for by the foundation, that decreases the degree of direct engagement the foundation itself maintains with the grantee. This may be completely appropriate and agreed to by all parties involved, however while the foundation could be facilitating a process of learning and growth for a grantee through supporting a consultant, it nevertheless runs the risk of decreasing the degree to which that grantmaker should be viewed as being engaged with a specific nonprofit11. The foundation may be engaged, however it is 11 This is a bit of a delicate point, in that if the foundation facilitates the introduction of an “expert third party” who successfully enables the grantee to move to a higher level of execution, then the grantmaker may come to be viewed as even more engaged since they a) accurately assessed the need for that expertise and b) enabled that connection to be made to the benefit of the grantee.

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engagement via proxy and would therefore place the foundation in a position of “less engaged” on our overall continuum of engaged grantmaking. 8) Breadth. What is the breadth of resource engagement between the grantmaker, grantee and field of interest? What is the array of resources/assets brought into play by the grantmaker to support the work of the grantee and through which the foundation pursues its own institutional mission? As a compliment to the Five Asset Classes already presented, the list of total assets available to many foundations could include the following: – Cash Grants – Concessionary Rate Capital (Program Related Investments or Recoverable Grants) – Mission-related Investing of corpus in alignment with the institutional strategy of both the grantee and grantor organization – Proxy Voting by the Foundation in support of the issues being pursued by the grantee – Provision of organizational development or issue specific expertise to grantees by foundation staff, consultants or advisors – Convening practitioners, policy makers, grantmakers and other players in a defined area of interest in order to build/leverage intellectual capital – Public sharing of foundation specific knowledge and learnings that promise to support the development of the larger field of practice. It is easy to see how this list builds upon our previous discussion of philanthropic asset classes. The more of these assets the foundation makes available to the process of its work with grantees and the field as a whole, the more engaged the foundation could be said to be. The more any given foundation restricts its asset allocation to simply grants or holding meetings ad nauseum, the less engaged it could be said to be. At the same time, there is a question of breadth and depth as well, for a foundation might choose to focus on several of these areas at a high degree of depth and therefore be viewed as extremely engaged in those specific areas of asset allocation and management. 41


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The Continuum of Engagement: A Function of Degrees Having presented the eight elements of engagement, we must now explore the degree to which any given foundation executes at a high, moderate or low level of engagement. Naturally, as soon as one attempts to say what something is and what it isn’t, exceptions immediately arise. While some would argue it is the exception that proves the rule, of greater interest to our particular exploration of foundation engagement is the reality that within the understanding that there are certain fundamental aspects to being engaged, engagement is not a static concept, but rather dynamic in nature, occurring across a number of dimensions and over the course of diverse points in time. Specifically, a foundation may begin in one place with one set of elements of engagement in play, move to another stage of development and depth within that same set of elements, and be in the present time at a stage of development where all eight elements are in motion with a high degree of depth and use within the investment strategy of the foundation. Therefore, it must be recognized that at various stages of a foundation’s own development, or as the funder is executing different types of foundation strategy/practice, the foundation may be placed along multiple continuum for each of the previously presented eight elements of engagement. Having acknowledged that reality, it is the simultaneous and maximal practice of all eight elements of engagement that together are what constitute what could be viewed as “engaged grantmaking”. Succinctly put, the more of each element one executes, the more engaged one could be said to be as a grantmaker12. Therefore, it is helpful for us to track performance along each of these eight continua of engagement. The following chart presents each of the eight elements of engagement, along with a ranking system upon 12 This may be less true with the elements of agency and breadth, but the basic concept plays out across each element of engagement.

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which one may begin to assess the relative degree to which one’s foundation practices “high engagement” versus “low engagement.” As was stated in our introductory comments, all foundations are engaged grantmakers, influencing both those in search of funding and those that secure it. The question of greater interest to philanthropy is the degree and extent to which various foundation players execute enunciated strategies of engagement in pursuit of their institutional missions. The following chart may be of assistance in assessing one’s degree of engagement with grantees and the field as a whole. This chart is simply a jumping off point for current discussion. In the future, expanding on the chart, making it more useful for readers to place themselves on it through the creation of a specific question/answer rating system and so on, are all areas worth exploring. For the time being, perhaps the next step for those concerned with philanthropic strategy and practice is a discussion regarding where foundation executives should start in this process and how they might best assess the effectiveness of their engagement. We will leave that for the readers of this paper to explore on their own…

Fig. 1. – Continuums of Connectivity: Eight Elements of Engagement 43


JED EMERSON

Conclusion: A Word About Capital Performance and Blended Returns This essay has presented five asset classes under foundation control and available for pursuing a philanthropic organization’s mission. We then presented eight elements of engagement that speak to the question of how those assets may best be managed within an overall foundation strategy. While a separate paper would be required to fully explore the issue of foundation return on investment, we began this discussion with an affirmation that all foundation’s have a responsibility to maximize the potential value to be generated from philanthropic assets and so must at least briefly address the question of how foundations may best assess the value they create. The challenge of designing a framework capable of capturing the full value created by a single foundation, much less the philanthropic community as a whole, is not to be understated. And yet, there is great promise in our undertaking this challenge. Some would argue foundations cannot function as meaningful agents of social change since they work only through proxy and are not directly engaged in advancing a specific change agenda. The role of foundations, these critics would argue, is simply to make grants in the most efficient and effective manner possible. And within a perspective that views the main role of foundations as vehicles of charitable giving, these critics are correct. However, if one accepts that foundations have available to them an array of assets and can invest those assets through a diverse set of engagements, the measure of a foundation’s worth becomes less a function of its grantmaking prowess than an assessment of the many levels upon which it functions to drive not simply charitable investments into the market, but to act as a player within society – a player in pursuit of a mission to have a positive impact upon our world. In the same way there are five asset classes to be considered when creating philanthropic strategy, there are at least as many levels of capital performance and return to be taken into account. These returns could be thought of as distinct, yet in the composite, are fully blended relative 44


TOTAL FOUNDATION ASSET MANAGEMENT: EXPLORING ELEMENTS OF ENGAGEMENT

to the overall value they represent. They are the returns that when taken together make up the full value of the investing institution and it is this Blended Return that should be the focus of our analysis. At this stage in the field’s development, much of the focus on evaluating foundation effectiveness has centered upon the effectiveness of simply one part of foundation investing – that of grantmaking13 Fewer examples exist of foundation’s assessing the contributed value of total assets, and to this author’s knowledge, no examples exist of foundations working to track the ongoing value creation of their total asset base in order to assess the value of their investing and activities on a more comprehensive, total asset and capital allocation basis (that is to say, asset and capital resources as defined in this paper!!). In the same way many communities are developing “community indicators” to track a host of indices that point toward the relative health of their neighborhoods and regions, and that the Total Social Impact Fund presents a comprehensive framework for investors to begin an assessment of the full value of their personal investing, the foundation community must explore the creation of a Blended Returns Framework capable of assisting it in categorizing, tracking and calculating the various elements of return – both qualitative and quantitative – generated by the effective management of its philanthropic assets. It is only by taking all our assets into consideration and creating the tools necessary to understand our Blended Returns that the philanthropic community will be able to capture the full impact of our collective value proposition and in so doing fulfill the true potential of both our organizations and the innovators we support. 13

There are many reports and some books on foundation evaluation, but the most recent offering is from Global Leaders for Tomorrow (a World Economic Forum affiliate) entitled, “Philanthropy Measures Up.” This report presents three types of evaluation: Results-Oriented (the model being the Roberts Enterprise Development Fund’s SROI Framework), Performance Oriented (the model being New Profit Inc), and Comparative Oriented (the model being the surveys done by the Center for Effective Philanthropy). While these are all good efforts, they each fall short of the type of Blended Return Framework being advocated in this paper.

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Le origini economiche e l’ingegneria finanziaria di una grande opportunità per il terzo settore Laura Bertozzi

1. Le ragioni economiche della “venture philanthropy” Il sistema delle relazioni economiche vede da parecchio tempo l’emergere e il connotarsi di una nuova tipologia di attori oltre a quelli tradizionali, identificabili in istituzioni, imprese e consumatori: si tratta di quelli che genericamente vengono definiti “benefattori”. In passato ed ancora oggi in determinate relazioni, non è del tutto corretto identificarli come entità a parte rispetto agli altri agenti, in quanto i benefattori non svolgono solo questo ruolo all’interno del mercato, ma lo assumono saltuariamente, oppure quale attributo aggiuntivo rispetto alla loro normale essenza. Approfondiremo in seguito questo concetto. Frattanto bisogna evidenziare che la differenza principale tra gli operatori classici e questa atipica figura sta nel tipo di obiettivo perseguito: mentre i primi mirano ad ottenere un vantaggio personale, che può anche tradursi in un risultato positivo per altri attori, ma in via riflessa e non voluta, i cosiddetti “benefattori” agiscono nell’interesse di terzi. Il beneficio ottenuto da terzi soggetti non è una semplice ricaduta involontaria di un’azione, ma il loro scopo principale. L’agente economico, quando opera da benefattore, lo fa per procurare un vantaggio ad un terzo ma 47


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se la sua azione non è mediata da un intermediario esterno, si ha comunque una “commistione” di due volontà interne che possono risultare in conflitto fra di loro, l’una che mira a procurare un vantaggio a se stessa e l’altra che cerca di produrre un beneficio a terzi soggetti e pertanto non è scontato che si arrivi all’optimum per il beneficiario. La mancata tipizzazione e il poco interesse manifestato attorno a questa figura sono dovuti alla sua scarsa e irrilevante presenza fino a quando, recentemente, si sono strutturati gruppi di intermediari professionali che si occupano di filantropia e si è costruito un mercato, che potrà essere parallelo, interno o coincidente rispetto a quello esistente. La strutturazione di questa tipologia di attori è una variabile che sta divenendo influente a livello macroeconomico. È, comunque, improprio parlare di una definita e significativa presenza di filantropi nel mercato fino alla nascita della “venture philanthropy” per due motivi: innanzitutto il ruolo di “benefattore” non è essenziale e permanente, ma è, come appena detto, una condizione temporanea, che si esplicita in un comportamento di uno o dell’altro operatore classico (può rivestire questo ruolo alternativamente sia l’impresa, sia il consumatore, sia lo Stato). Questa parzialità fa sì che, in ogni caso, rimanga prevalente l’obiettivo egoistico dell’attore e quindi non vi sia un’incidenza radicale nei rapporti economici. Inoltre, la mancata organizzazione dei benefattori nel passato, rende il mercato poco o per nulla sensibile alla loro azione a livello globale. Infatti, non è detto che un numero significativo di benefattori agiscano contemporaneamente, con gli stessi contenuti o con un’organica linea d’azione tale da incidere sul sistema economico. Storicamente si è passati dal filantropo isolato, una persona estremamente ricca che decideva di destinare parte delle proprie risorse ad iniziative ad elevato contenuto etico, alla “corporate philanthopy”, che ricalca il modello individuale con la sola differenza che la filantropia è posta in essere da un’impresa, fino ad approdare ad un sistema bottom-up, che, con la tecnica del “venture capital”, è il motore della “venture philanthropy”. Ma 48


LE ORIGINI ECONOMICHE E L’INGEGNERIA FINANZIARIA

prima di giungere a questa forma evoluta di finanza “for non profit” si è passati attraverso le fondazioni “grantmaking”. Questi istituti hanno segnato una tappa fondamentale per la successiva nascita della “venture philanthropy”, poiché hanno prodotto il passaggio dall’individualismo del singolo alla costituzione in forma associativa di più benefattori. Le singole particolarità sono superate poiché la fondazione non è semplicemente la sommatoria di diverse individualità, ma la correlazione fra le stesse nella decisione comune delle iniziative da finanziare. Le fondazioni “grant-making”, tutt’oggi numerose e utili, sono una forma meno complessa e meno efficace rispetto alla “venture philanthropy”, in quanto si limitano all’erogazione monetaria, lasciando al beneficiario il problema, particolarmente complesso, di utilizzare le risorse nel modo migliore. Come vedremo nel prossimo paragrafo la soluzione a tale criticità è stata data dalla “venture philanthropy”. La sua nascita è scaturita dall’esigenza di una larga parte di imprese e soprattutto di consumatori, che hanno inserito nel proprio paniere di beni richiesti anche la solidarietà e hanno richiesto prodotti che soddisfacessero anche questo bisogno. Si può a ragione affermare che, con l’avvento della “venture philanthropy”, si è assistito ad un’evoluzione della filantropia poiché il singolo benefattore pur avendo un obiettivo che coincide con l’obiettivo solidale, poteva non essere in grado di realizzarlo appieno, in quanto non necessariamente aveva le capacità tecniche e la giusta conoscenza delle esigenze socio-ambientali per raggiungere l’obiettivo o perché, semplicemente, il suo obiettivo non era realmente etico. Spesso la decisione dei tempi e delle modalità di elargizione erano frutto della personale considerazione del singolo e, solo in rare circostanze, l’istanza arrivava dall’esterno: anche per questo motivo la provvista di risorse non era pienamente efficace, poiché, la percezione di un disagio sociale o della povertà da parte del filantropo, esterno ad una determinata problematica, poteva non essere corretta. Lo stesso accade con la “corporate philanthropy” in quanto le risorse vengono destinate a nobili cause con 49


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strumenti e modalità tipiche di una finanza rudimentale (elargizioni non controllate e sporadiche, ancorché ingenti) e di una mentalità for profit, quale quella dei boards of directors. L’unica differenza fra il mecenatismo del filantropo e la “corporate philanthropy”, in linea di massima, sta solo nel soggetto che pone in essere l’azione e, pertanto, ha le stesse criticità. Al contrario, la spinta diffusa dal basso, è molto più stabile sia per la quantità di risorse che libera, sia per la continuità delle erogazioni, direttamente proporzionale al numero di agenti coinvolti, sia per la necessaria nascita di organizzazioni che accolgano questa esigenza e la traducano in prodotti strutturati. Grazie a questa esigenza sono nati i “venture philanthropists”, specializzati in investimenti filantropici che, in virtù della loro completa dedizione a questo settore hanno competenze specifiche che riversano nel mercato, riducendone le asimmetrie informative e quindi le distorsioni. 2. Verso la “venture philanthropy” Come già accennato nel precedente paragrafo, una delle pietre miliari della filantropia sono state le “grantmaking foundations”, che hanno permesso il superamento del particolarismo del singolo benefattore, attraverso la concertazione di una pluralità di individui. Questa evoluzione organizzativa è parziale, poiché riguarda solo l’attività di mera erogazione di contributi, per il finanziamento di progetti ideati e realizzati esternamente alla fondazione. Si può parlare di strutturazione della filantropia in seno alle operating foundations, che si occupano direttamente di realizzare i programmi e di erogare i servizi. Nonostante tali fondazioni rappresentino una fase più matura rispetto alla precedente, tuttavia sono ancora interessate da due rilevanti problemi di tipo tecnico-professionale. Si presume, infatti, che chi dirige le fondazioni abbia buone conoscenze economico-finanziarie e può anche avere una qualche percezione del disagio o della problematica da affrontare, ma, senza dubbio, non ha né l’esperienza, né le competenze degli enti non profit che 50


LE ORIGINI ECONOMICHE E L’INGEGNERIA FINANZIARIA

quotidianamente affrontano le situazioni critiche di cui sopra. La lontananza dalla realtà è un gap conoscitivo importante che spesso impedisce di raggiungere il risultato prefissato. Pertanto, la realizzazione di un progetto da parte di una fondazione, se da un lato è più corretto e congruo a livello economico rispetto ad un piano presentato da un’associazione, dall’altro, rischia di essere carente sotto il profilo contenutistico. In secondo luogo, con la gestione diretta dei progetti si rischia anche di depauperare il mercato del non profit, attuando una vera e propria sostituzione delle associazioni e degli enti attivi in taluni ambiti operativi: si tratta di una selezione non naturale, poiché non resta nel mercato l’operatore più efficiente, ma quello che ha maggiori risorse economiche. Non solo si rischia di eliminare enti che specificamente si occupano delle materie in cui si attiva la operating foundation, ma non viene trasferito nulla del know how della fondazione all’intero settore associativo. Per dovere di completezza, indichiamo che un’ulteriore tipologia di fondazioni, interessante in questo ambito, è la community foundation che, oltre all’erogazione dei fondi, si occupa anche della raccolta, che riversa sul territorio locale al quale sono strettamente legate (di cui il nome che le identifica). Bisogna sottolineare, comunque, che la vocazione tipica delle fondazioni e la loro attività è quella del benefattore e le competenze interne sono solo quelle strettamente necessarie alla redazione e valutazione dei progetti. Competenze di profilo non alto, sia dal punto di vista contenutistico, sia tecnico, per il fatto che, comunque non si tratta in investimento in capitale di rischio, ma di dotazione di un fondo. Il grande salto che ha superato questi problemi è stato l’avvento della “venture philanthropy”. 3. Dal “venture capital” alla “venture philanthropy” Si può definire “venture philanthopy” qualsiasi investimento strutturato in capitale di rischio e know how in 51


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imprese ed organizzazioni che abbiano come obiettivo principale quello del raggiungimento del benessere per gli individui e le collettività e quindi cerchino soluzioni alle problematiche socio-economiche, ambientali e politiche. La prima parte della definizione appena fornita coincide con quella di “venture capital” della quale la “venture philanthropy” utilizza le tecniche di investimento ed alcune delle modalità di selezione. Inoltre la tipologia di intermediari coinvolti è simile, se non addirittura coincidente. Già solo dalla lettura immediata delle prime righe di questo paragrafo è facile comprendere la complessità dell’azione di questi organismi che, per poter agire, devono annoverare nei propri organigrammi personale altamente qualificato, sia in ambito finanziario, sia dei contenuti dei progetti non profit. La posta in gioco è molto alta, in quanto la risorsa che viene investita non è una liberalità e nemmeno un prestito, ma capitale di rischio, così come nel “venture capital”. Il denaro non è più una erogazione, ma ora viene visto come investimento e quindi come risorsa che deve produrre un risultato, non necessariamente monetario, in cambio del fabbisogno soddisfatto. Le similitudini con le provviste di capitale di rischio for profit sono riscontrabili nel confronto fra la definizione di “venture philanthropy”, appena esplicitata, e quella di “venture capital” data da Neil Cross, senior executive di 3i, una delle più importanti società attive nel settore, ed ex presidente dell’EVCA (European Venture Capital Association): “la provvista di capitale di rischio, generalmente nella forma di partecipazione azionaria, a società ad alto potenziale di crescita. Inoltre la società di “venture capital” fornisce anche valore aggiunto nella forma di consulenza direzionale e contributo all’interno del programma strategico”. Similmente, “The Bank of England Quaterly Bulletin 1984”, indica il “venture capital” come “un’attività attraverso la quale gli investitori supportano il talento imprenditoriale con strumenti finanziari ed aziendali, al fine di aprire al mercato opportunità ed ottenere capital gains nel lungo periodo”. Riassumendo, le caratteristiche proprie dei due “venture” (“capital” e “philanthropy”) sono: 52


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1] provvista di capitale di rischio; 2] gestione in prima linea (hands-on management); 3] profitti superiori attraverso il capital gain; 4] investimento paziente. A differenza del finanziamento, i capitali del “venture” non hanno garanzia di rimborso e di remunerazione e, a differenza della “corporate philanthropy” e delle altre tipologie di erogazioni delle fondazioni tradizionali, forniscono al beneficiario il valore aggiunto della provvista di know how e dell’immobilizzo delle risorse nel medio termine, nell’intento di creare valore e realizzare un capital gain. Il meccanismo che porta alla provvista di “venture capital”, sia esso filantropico o meno, parte dall’esposizione dell’idea del beneficiario che, come vedremo in seguito, può essere nella fase iniziale del progetto oppure intende promuoverne la crescita. Una volta definita l’idea e determinato il fabbisogno finanziario dell’iniziativa, l’organizzazione identifica l’investitore meglio indicato a soddisfare la sua richiesta. Sulla base dell’istanza rivolta, il capitalista o il filantropo ed il beneficiario redigono il business plan che costituisce la pietra miliare per la selezione del progetto e successivamente il parametro di confronto in fase di valutazione. La corretta stipulazione del piano è condizione necessaria, ancorché non sufficiente perché il finanziamento produca i risultati attesi. La difficoltà maggiore della redazione del piano è la logica prospettica che deve ispirare tutto il business plan, che deve descrivere, fra gli altri, anche la struttura organizzativa dell’organizzazione, le sinergie interne, le abilità dei singoli, lo scenario nel quale si inserisce l’iniziativa, i fruitori della stessa, gli eventuali networks, i punti di forza e di debolezza dell’iniziativa. Oltre alla parte descrittiva, il piano è composto anche da un’essenziale sezione analitica che traduce in entrate ed uscite, costi e ricavi, il progetto descritto. In caso di approvazione del piano, l’organizzazione filantropica provvede a fornire le capacità tecnico-strategiche ed i fondi monetari. Generalmente questi sono erogati in diverse forme, secondo le esigenze del beneficiario: una quota fissa annuale alla quale può aggiunger53


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si un contributo aggiuntivo rimborsabile o meno e l’assistenza tecnica per l’ottenimento di finanziamenti a basso costo (lunghe dilazioni e tasso di remunerazione basso). Il “venture philanthropist”, come il “venture capitalist”, interviene nelle organizzazioni con modalità ed aspettative differenti, secondo la fase di vita del beneficiario e del suo progetto. Possiamo analizzare i diversi tipi di intervento, così come per la forma tradizionale di investimento in capitale di rischio, a seconda del momento progettuale nel quale viene richiesto: 1] seed capital, 2] start-up capital, 3] early stage capital, 4] second round capital, 5] expansion capital. 3.1. Le modalità di intervento Seed capital È l’intervento maggiormente rischioso e quello che richiede il maggior dispendio di risorse, poiché il “venture philanthropist” affianca il beneficiario nel momento proiniziale della sua attività, prima che appunto si dischiuda il seme dell’idea. Non solo il progetto è ancora all’incipit, ma anche la struttura che lo deve realizzare non è ancora stata approntata e le gerarchie, così come la suddivisione dei compiti, non sono ancora perfettamente delineati. Il tasso di rischio non è elevato solo per il fatto che non vi è ancora un vero e proprio “prodotto”, ma anche perché l’unica risorsa utilizzabile è l’ideatore, che può essere più o meno capace di concretizzare il progetto. Le situazioni tipiche sono quelle di progetti nei Paesi in via di sviluppo dove mancano le professionalità ed è impossibile un’azione di foundraising locale, ma bisogna “importare” risorse e creare ex novo una rete di rapporti con Ong ed altri organismi internazionali. Un progetto dalla gestione forse meno ardua, ma sempre annoverabile fra quelli seed, è quello realizzato della HEDF della Roberts Foundation, per il recupero dei senzatetto, attraverso la creazione di piccole iniziative di autoimprenditorialità. 54


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È facile comprendere che il tempo di recupero dell’investimento è lungo e il tasso di remunerazione richiesta è particolarmente elevato, sia a causa del grande rischio che si corre sia per il massiccio apporto di know how e per lo stadio iniziale in cui si trova il progetto. Start up In questa fase l’idea comincia a concretizzarsi ed è necessario finanziare lo sviluppo. Non ci si limita a valutare l’idea, ma le opportunità di realizzazione, la validità del progetto, le individualità e le sinergie della struttura organizzativa. Le risorse umane che il “philanthropist” deve impiegare sono leggermente inferiori e per un periodo di tempo più breve, che, in ogni caso, è lungo per quanto riguarda il disinvestimento. Ci si trova in questa fase generalmente ancora nei Paesi in via di sviluppo, quando localmente o da parte di alcune organizzazioni straniere si sta già avviando la ricostruzione, ma la fase è ancora iniziale. In questa circostanza, come nel seed, il processo di definizione delle strategie, il loro perseguimento e la valutazione finale del progetto sono particolarmente difficili e delicati, poiché vi sono pochi punti di riferimento iniziali e si tratta di situazioni poco tipizzabili, pertanto, anche l’esperienza in casi analoghi è di scarso aiuto. Early stage finance È la provvista di capitale per la crescita: il beneficiario ha già sviluppato l’idea, definito il progetto ed ha già una collocazione definita in un determinato “mercato”. La BVCA (British Venture Capital Association) definisce l’early stage finance tradizionale come “il denaro procacciato ad un’impresa che ha completato il periodo di sviluppo del prodotto e necessita di ulteriori fondi per intraprendere la produzione in serie e la commercializzazione”. Il rischio di insuccesso in questa fase è inferiore rispetto a quelle precedenti, così come sono minori le competenze cui deve provvedere il “venture philanthropist” e quindi è minore il rendimento atteso e anche il tempo di recupero è inferiore. Un esempio di investimento early stage può essere la provvista di fondi e di assistenza finanziaria ad associa55


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zioni che già portano avanti progetti di istruzione e crescita dell’infanzia emarginata. Second round financing È facile che un ente, che ha già beneficiato della “venture philanthropy”, sia propenso a chiedere un ulteriore intervento dell’investitore a valere sul progetto finanziato. I motivi che conducono ad una successiva iniezione di capitali e di know how possono essere positivi o negativi. Le ragioni negative sono riconducibili al presentarsi di voci di costo non previste oppure costi preventivati ma in ammontare inferiore, necessità di strutturare in modo diverso il progetto affinché sia efficace, difficoltà o impossibilità di avvalersi di un network di rapporti sul quale si era fatto affidamento per lo svolgimento di determinate fasi del progetto. Invece, positivamente, è possibile che il “venture philanthropist” sia interpellato nuovamente perché il progetto ha avuto successo e quindi urge una nuova provvista per moltiplicare e consolidare i benefici effetti dell’iniziativa. Expansion capital È molto simile al second round, poiché, anche in questo caso, il beneficiario ha già avuto rapporti col “venture philanthropist” ma, a differenza del caso precedente, richiede risorse per un progetto diverso rispetto a quello che ha già ottenuto “fondi venture”. In genere coloro che ricevono questo tipo di risorse sono organizzazioni già mature e consolidate che, proprio in virtù della loro conoscenza della “venture philanthropy”, hanno acquisito un certo rigore nella redazione del business plan e nella selezione dei loro progetti, oltre che nella loro gestione. L’esperienza già acquisita dal beneficiario rende l’investimento abbastanza sicuro e richiede un’assistenza meno continua da parte del filantropo. Può anche accadere che il beneficiario sia diventato talmente abile da richiedere “development capital” e quindi solo apporto finanziario e non più “venture capital” (vale a dire anche abilità manageriali e tecniche, oltre a capitali). 56


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La “venture philanthropy”, partita dagli Stati Uniti, ha avuto un certo seguito in Europa e sta crescendo anche nelle Nazioni più povere, grazie alle fitte relazioni fra le Ong e le prime fondazioni e la disponibilità di queste ultime a trasferire esperienze in altri Paesi. La tabella successiva evidenzia la sensibile crescita del numero delle fondazioni negli ultimi vent’anni in alcuni stati del Sud del Mondo: Tab. 1 - Aumento delle fondazioni Paese

n. fondazioni nel 1980 Equador 6 Messico 25 Filippine 22 Indonesia 9 Brasile 16 Tailandia 6

n. fondazioni nel 2000 21 74 56 25 31 28

Tipologie di fondazioni private corporate 71% 29% 77% 23% 64% 36% 84% 16% 38,7% 61,3% 70,4% 29,6%

Fonte: Synergos

3.2. Oltre la filantropia tradizionale ed il “venture capital” Si può evincere che con la “venture philanthropy”, il mondo non profit venga ad assomigliare sempre di più a quello del business tradizionale e quindi sia da esso contaminato. Questa considerazione è errata, poiché invece accade, dopo secoli, che solo oggi le due realtà hanno cominciato a dialogare e, da una parte, la filantropia assume i caratteri professionali e tecnici dell’economia di mercato, migliorando l’efficienza, dall’altra gli imprenditori, anche sotto la spinta di questi nuovi interventi significativi nel terzo settore, recepiscono l’importanza di determinati valori e un numero sempre maggiore intraprende la strada della responsabilità sociale. Questa reciproca commistione provoca inevitabilmente un circolo virtuoso, proprio per il fatto che due mondi, che sembravano lontani e paralleli, si sono incontrati e hanno compreso che non si auto-escludono in un sistema economico evoluto. La “venture philanthropy”, nata dal “venture capital” e dai vecchi donors, adatta le tecniche ed i criteri di sele57


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zione tipici dell’economia di mercato al settore sociale, mirando ad ottenere un “profitto di valore etico” oltre a quello monetario. Prendendo spunto da entrambi, li contamina vicendevolmente e le supera. La “venture philanthropy” va oltre il “venture capital”, nella misura in cui nei criteri di selezione e di valutazione dei progetti che finanzia, oltre al fattore economico, inserisce la potenzialità di migliorare gli individui e la comunità. Alla filantropia tradizionale, poi, apporta la tecnica finanziaria evoluta del “venture capital”. Lo scopo che ci si prefigge di raggiungere non è solo il “capital gain”, ma è un “profitto sociale”, valore ulteriore rispetto al denaro. Il processo di valutazione dei risultati ottenuti non confronta solo le risorse impiegate ed i profitti scaturiti in un dato periodo, come nel “venture capital”, ma si interroga sui risultati in modo biunivoco. Infatti, nella “venture philanthropy” il progetto è correttamente valutato solo se si guarda, in egual misura, dalla prospettiva dell’investitore e del beneficiario. Si può parlare di successo solo se le risorse monetarie ed umane erogate dal “philanthropist” sono state remunerate, dopo aver contribuito alla nascita o allo sviluppo di un’iniziativa e se, al contempo, sono stati raggiunti gli obiettivi “programmatici” previsti dalle iniziative finanziate. Solo se il progetto ha sortito esiti positivi per entrambi gli agenti, il “philanthropist” lo valuta positivamente, in quanto, fra le sue aspettative non vi è solo il guadagno economico, ma anche quello dello sviluppo sociale. Si potrebbe obiettare che anche nel “venture capital” è importante il successo dell’iniziativa dell’impresa target ma in questo caso il risultato positivo è un mezzo e non un fine come nella filantropia: infatti, solo se il progetto finanziato va a buon fine, è possibile dismettere la partecipazione e realizzare il profitto ed il capitalista non ha altro interesse comune con l’imprenditore se non il raggiungimento di un utile economico. Invece, la “venture philanthropy” è una forma evoluta del “venture capital” proprio nella misura in cui, attraverso una comunione di intenti fra i soggetti si viene a 58


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costituire una forma di contratto, che è tipico solo in ambito non profit. Se è vero che nel contratto commerciale si incontrano due volontà spesso contrapposte per il raggiungimento di uno scopo comune, nel terzo settore si ha comunione di intenti che rende indubbiamente più saldo il rapporto. Ciò che accomuna i contraenti non profit non è solo il risultato finale a cui intendono pervenire, ma sono anche e soprattutto le stesse motivazioni e l’unità di vedute e quindi di azioni, che fanno del contratto una vera e propria collaborazione. Questo punto di forza fa sì che nella “venture philanthropy” saranno sempre minori i casi di insuccesso rispetto al “venture capital”, perché difficilmente il donor abbandonerà completamente il beneficiario alla fine del progetto e saranno frequenti i casi di second round financing positivi o di expansion capital. 3.3. Gli attori Inevitabilmente, si possono occupare di filantropia solo le organizzazioni dotate di risorse umane e finanziarie di un certo ammontare e di una certa qualità. Per quanto riguarda il capitale umano, l’organigramma deve annoverare esperti in finanza innovativa e in organizzazioni non profit, sia dal punto di vista economico-giuridico, sia sotto il profilo dei contenuti e delle problematiche che questi enti affrontano. Gli esperti finanziari hanno il doppio compito di studiare il business plan del progetto, seguirlo in fieri, valutarne i risultati intermedi e finali e occuparsi del fundraising e dell’amministrazione dei capitali a disposizione della “venture philanthropy firm”. Per poter agevolmente seguire anche solo un piccolo numero di progetti alla volta, è comunque necessario poter contare su un team di persone, altamente qualificate. In particolare lo staff deve essere in grado di: • Valutare correttamente le capacità e le potenzialità dei dirigenti delle organizzazioni e la validità del progetto in relazione al mercato di riferimento; • Selezionare i migliori enti e le migliori sinergie fra gli stessi per portare a termine un determinato progetto e promuovere lo sviluppo del settore; 59


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• Contrattare, vale a dire condurre le trattative per pervenire all’optimum dal punto di vista degli assetti organizzativi e finanziari di progetto e far scaturire il risultato migliore; • Assemblare il pacchetto tecnico-finanziario necessario allo scopo, che sia il più efficiente (minimizzi i costi) e più efficace (produca i risultati migliori in capo al beneficiario finale) possibile; • Fornire consulenza gestionale ordinaria, specialmente dal punto di vista finanziario ed organizzativo. In virtù dell’elevato profilo delle risorse umane richiesto e la necessaria specializzazione in investimenti in capitale di rischio, le organizzazioni di “venture philanthropy” sono spesso o emanazioni di società di “venture capital”, dalle quali traggono risorse ed esperienza, oppure enti che impiegano managers che provengono da quel settore. Il know how che viene trasmesso dalle società di “venture capital” non afferisce solo alle competenze tecniche ed all’esperienza professionale, ma anche alla rete di rapporti esistenti con le istituzioni e le comunità locali e alla capacità di crearne di nuove. Gli enti attivi nella “venture philanthropy”, per la natura del loro oggetto sociale, assumono naturalmente la struttura giuridica della fondazione o, comunque, di un’organizzazione senza scopo di lucro. 4. La “venture philanthropy”: una risorsa non solo per il terzo settore Il terzo settore è ricco di persone volenterose che prestano la propria opera con abnegazione e assoluta dedizione e, per alcune mansioni, sono competenti in materia ambientale, socio-psicologica, ma difettano di nozioni economico-finanziarie. Come abbiamo avuto modo di sottolineare, tali competenze sono indispensabili per molteplici motivi: per poter avviare un’efficace campagna di fundraising, per gestire al meglio le risorse, massimizzando gli introiti ed abbattendo i costi, per partecipare con successo alle gare di appalto di servizi pubblici. Gli enti nella maggior parte dei casi sono sprovvisti di professionalità di questo tipo, per di più non hanno 60


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un’organizzazione strutturata e l’utilizzo delle moderne tecnologie, ove presente, è scarso. Sulla base di questo scenario, si comprende quanto sia positivo l’approccio della “venture philanthropy”, che fornisce assistenza strategica e di competenze oltre ad iniezione di capitali. Ma vediamo nel dettaglio, ulteriori benefici che vengono tratti da questa tipologia di investitori. 4.1. Una peculiarità della “venture philanthropy” è la reciprocità La grande novità della “venture philanthropy”, rispetto ad altre forme di contribuzione al terzo settore, e la sua forza stanno nella sua complessità e nella sua strutturazione, che generano un circolo virtuoso di reciprocità. Nei vari gradi di filantropia, quali, per esempio, quelli enumerati dalla cultura ebraica, è possibile individuare una differente intensità di reciprocità, che è indice di raggiungimento di buoni risultati e “stabilità” degli stessi. Chi fa l’elemosina all’angolo della strada è un filantropo di “primo livello”: filantropo poiché eroga risorse con liberalità per soddisfare un bisogno sociale, ma del grado più basso, dato che non si interessa alla causa che ha condotto in povertà il beneficiario e neppure al quantum del contributo necessario a sanare quella condizione. Pertanto, è presumibile che la sua azione produrrà solo un sollievo momentaneo per il beneficiario, ma non sarà una soluzione al suo problema. Se si salgono i gradi di filantropia fino alle forme più strutturate, si nota come non ci sia mai uno scambio totalmente biunivoco di informazioni e di risorse socioeconomiche tra benefattore e beneficiario fino all’avvento della “venture philanthropy”. Non si può negare che le grant-making foundations investighino attentamente i bisogni delle organizzazioni a cui devolvono il loro patrimonio. La loro attività si limita all’erogazione di denaro e il feedback avviene solo in un momento successivo e non necessariamente il migliore per apportare eventuali correzioni: ad una eventuale successiva richiesta di fondi o al termine di un determinato progetto, la cui esecuzione resta appannaggio del beneficiario. 61


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Le community foundations attivano una maggiore reciprocità, ma la mancata provvista di veri e propri skills in termini di know how e di risorse umane, necessari ad una piena e continua comunicazione, non possono produrre la vera soluzione ai problemi di cui si fa carico un’organizzazione, ma solo dei palliativi più o meno efficaci. Diversamente, nella “venture philanthropy”, la quantità e le modalità di erogazione delle risorse non dipendono in larga misura dalla scelta univoca dell’investitore, ma dalle effettive esigenze dell’organizzazione beneficiaria, determinate in seguito ad uno studio di fattibilità del progetto, che, come ogni buon business plan, dopo aver esplicitato gli SWOT, indica i tempi e gli ammontari necessari oltre ai possibili rientri. Sulla base di quanto emerge dal business plan vengono erogati i fondi e le capacità tecniche necessarie per raggiungere l’obiettivo di progetto. Questo è il primo fattore che indica chiaramente la stretta reciprocità fra l’investitore ed il beneficiario. Inoltre, la comunicazione continua lungo tutta la durata del progetto e lo sviluppo dello stesso in cooperazione, fa della “venture philanthropy” lo strumento che mette pienamente in campo la reciprocità all’interno del terzo settore, con tutti i benefici che questa caratteristica comporta. La “venture philanthropy” avrebbe le potenzialità di attivare anche una sorta di “sovrareciprocità” o “reciprocità moltiplicativa”, qualora subordinasse il contratto con l’organizzazione target all’esternalizzazione dei benefici ottenuti. In questo modo si otterrebbe il coinvolgimento filantropico di terzi, estranei all’originario contratto di “venture philanthropy”, qualora venisse posto come condizione all’erogazione dei fondi un vincolo contrattuale di investimento di risorse o di know how o di entrambi, da parte del beneficiario a favore di terzi soggetti, successivamente al termine o nella fase di maturità del progetto finanziato. Per esempio, si potrebbe inserire nei contratti una clausola che obbliga il beneficiario ad informare e a formare altri enti del terzo settore sulla “venture philanthropy”, tramite brevi e concreti seminari, rivolti al personale di altre organizzazioni o, ancora, a condividere il risultato economico-patrimoniale ottenuto grazie all’intervento del “philanthropist” (mettere a disposizione macchinari, attrezzature, immobili). 62


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La provvista di capitali a fondo perduto e di competenze da parte di intermediari professionisti, e quindi l’intervento di società che cercano un ritorno dall’investimento, è una garanzia non solo per l’erogante, ma anche per l’organizzazione che beneficia della “venture philanthropy” e un ulteriore legame reciproco. Infatti, come è noto, al fine di avere successo socioeconomico-finanziario, l’investitore: 1. eroga risorse in quantità e per un numero di tempo adeguato alla realizzazione del progetto; 2. fornisce conoscenze tecniche specifiche delle quali spesso è sprovvisto il beneficiario, poiché il suo ambito d’intervento non è quello finanziario. Si viene così a creare un rapporto duraturo e reciproco, attraverso la gestione in prima linea del progetto. L’investitore è disposto a mettere a disposizione tempo e risorse ingenti, affinché il progetto vada a buon fine. Una sorta di “sovrareciprocità” si realizza anche quando gli strumenti forniti dall’investitore per la realizzazione del progetto e per la sua valutazione sono utilizzabili dall’organizzazione in altri contesti ovvero quando il piano finanziato è realizzato in partnership: in questo caso vi è una pluralità di enti che se ne può avvalere e ciò non fa altro che migliorare tutto il settore. I progetti che producono un maggiore impatto nel mercato sono senza dubbio quelli realizzati con una struttura “a ragnatela”, vale a dire quelli che coinvolgono organizzazioni attive nello stesso ambito, ma con differenti modalità o in diversi stadi del problema trattato. È il caso di un progetto attivato dagli enti che si occupano di trovare lavoro alle persone in difficoltà di concerto con le organizzazioni impegnate nella disintossicazione ed i centri di assistenza continua post-riabilitazione. Il network fra le organizzazioni crea sinergie che mettono in comune l’apporto del “venture philanthropist” e rendono i risultati condivisibili da tutte le associazioni coinvolte. Proprio l’esperienza dell’investitore e la sua rete di contatti può essere foriera di buone partnerships. 4.1.1. La reciprocità filantropica in pratica: il caso Dml Come poc’anzi espresso a livello puramente teorico, grazie a professionalità, quali quelle dei “venture phi63


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lanthropists”, vengono abbattute le asimmetrie informative ed è possibile colmare il gap esistente fra le esigenze socio-ambientali della cittadinanza, delle quali si fanno spesso portavoce gli enti non profit, e le attività delle imprese. Attraverso questi intermediari è possibile instaurare un vero e proprio dialogo fra le parti, che scaturisce in una proficua collaborazione. Può succedere che le imprese siano edotte sulle istanze della cittadinanza, ma non riescano a soddisfarle a causa di una mancanza di conoscenza del vero profitto, che, nel medio-lungo periodo, passa inevitabilmente da un atteggiamento socialmente responsabile. Il “venture philanthropist”, attraverso la sua opera di accoglimento delle problematiche del terzo settore e di canalizzazione di fondi in modo efficiente, riesce a creare, oltre la comunicazione, una vera e propria sinergia fra imprese e stakeholders, creando un vantaggio per entrambe le parti in gioco. È emblematico il caso di mediazione e di trasferimento di risorse finanziarie delle imprese attuato vent’anni fa da parte di Dana Mitra Lingkungan alle Ong, che si occupavano di ambiente. Nei primi anni ’80, anche in Indonesia cominciava a formarsi un’opinione pubblica sensibile all’inquinamento e la popolazione iniziò a prestare attenzione ai prodotti ed ai processi produttivi delle imprese, che venivano giudicate anche da un punto di vista diverso ed ulteriore rispetto a quello meramente economico, di analisi dei costi-benefici monetari. Le imprese maggiormente sensibili a questa nuova istanza del loro mercato di riferimento cercarono di migliorare la loro immagine, attraverso la donazione di parte dei loro proventi alla causa ambientale. Senza la presenza di un sapiente raccoglitore e canalizzatore di risorse, probabilmente i fondi sarebbero stati dispersi fra molte organizzazioni, alcune capaci ed altre meno, ma senza una rete ed un programma comune. Il risultato, quasi sicuramente, sarebbe stato una minore efficacia dei fondi utilizzati ed anche un minore impatto dell’operazione sull’opinione pubblica, la qual cosa avrebbe indubbiamente scoraggiato le imprese dal reiterare un tale meccanismo di donazione. 64


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Invece, fortunatamente, in Indonesia era attiva la Dml che, grazie ad uno staff di professionisti in grado di selezionare i migliori progetti ambientali e smobilizzare in modo efficiente il denaro, è riuscita a portare avanti importanti progetti per la conservazione ambientale. La serietà e la competenza del board di Dml è stato senz’altro uno dei criteri di scelta di questo fondo da parte delle imprese donatrici, che possono associarsi alla fondazione versando un contributo annuale. Attraverso il pagamento della quota associativa, i membri, siano essi imprese o singoli, possono fregiarsi del titolo di “Amico dell’Ambiente”, che richiama proprio il nome del fondo – Dml infatti significa “Fondo Amici dell’Ambiente” –. Inoltre, è possibile contribuire anche con donazioni per programmi specifici. Motivo di orgoglio della Fondazione è stato quello di essere l’unica a raccogliere i fondi nel mercato locale, fino al 1997, quando si è creato un importante rapporto con la PT Aqua Golden Mississippi, che considerava strategica l’associazione del suo marchio all’idea dell’ecologia. Pertanto ha contribuito alle cause sponsorizzate da Dml con circa 650.000 dollari e ne ha prontamente dato notizia sul sito ufficiale, ricavando enormi benefici in termini di aumento della clientela e di fidelizzazione di quella esistente. Una volta costituito lo staff di professionisti ed analizzati programmi e opportunità, già dal 1996 la Fondazione ha curato particolarmente un aspetto di fondamentale importanza, spesso trascurato da chi si occupa di non profit: la divisione commerciale. Conscia del fatto che la validità delle iniziative non è sufficiente a catalizzare risorse, ma è necessario farle conoscere e consigliare gli investitori, Dml ha occupato quattro dei suoi 18 managers all’accreditamento delle società. Le capacità interne e la strategia della fondazione hanno prodotto eccellenti risultati, tanto è vero che si è passati da una raccolta di circa 1800 dollari nel 1985 a 900.000 dollari nel 1997. Non bisogna considerare Dml un caso di eccellenza solo locale, sia rispetto alla professionalità sia rispetto alla bontà dei progetti realizzati e la prova di tale considerazione è l’esperienza vissuta nel momento della cosiddet65


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ta “crisi delle tigri asiatiche”. Proprio nel 1997 la crisi portò ad un generale impoverimento della nazione e si rischiava di veder sensibilmente ridotti gli introiti della fondazione, con un’inevitabile interruzione di numerosi progetti importanti se non addirittura la chiusura dell’organizzazione. Ciò non è avvenuto proprio grazie all’universale bontà dell’azione di Dml e alla lungimiranza del Direttore Esecutivo che ha cercato ed ottenuto risorse dall’estero: già nel 1998 è riuscito a garantirsi l’assistenza dell’Unido (United Nations Industrial Development Organization) e della Fondazione Toyota. L’attività della Dml, mettendo in comunicazione due ambiti che potrebbero essere considerati, se non antagonisti, quantomeno paralleli, è stata una sinergia nel vero e proprio senso del termine (lavoro comune). I mezzi sono stati messi a disposizione da entrambe le parti (le disponibilità monetarie da parte delle imprese e i contenuti e la loro realizzazione da parte delle Ong), il “venture philanthropist” li ha fatti incontrare ottimizzandone l’utilizzo in termini economico-temporali ed ha prodotto un risultato che soddisfa entrambe le parti anche se con motivazioni diverse. In questo caso infatti, la realizzazione di un progetto cofinanziato da Dml favorisce la conservazione ambientale (obiettivo delle Ong) e migliora l’immagine dell’impresa donatrice nei confronti del suo mercato di riferimento. 4.2. Il rigore scientifico Per il fatto di creare naturalmente uno stretto legame col beneficiario, il “venture philanthropist” ha una necessità cogente di poter valutare correttamente il progetto al quale coopera. Questo bisogno si traduce in opportunità e crescita per il terzo settore, in quanto ha indotto gli investitori ad interrogarsi su quali siano le migliori metodologie di valutazione di un progetto. I risultati di queste ricerche hanno prodotto indici e sistemi di valutazione, il cui utilizzo ha introdotto un rigore sconosciuto nel mondo del non profit. Grazie a tali strumenti, è ora possibile verificare con maggiore puntualità la bontà delle azioni e correggere le distorsioni. 66


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Una delle maggiori difficoltà dei progetti è proprio la quantificazione dei risultati sociali e l’individuazione dei parametri che possano misurarli. Talune fra le più importanti fondazioni di “venture philanthropy” hanno creato sistemi ed indici di valutazione ad hoc: la REDF, per esempio, ha approntato il sistema informativo OASIS, per valutare i progetti coofinanziati e ha calcolato la bontà dei risultati con lo SROI (Social Return on Investment). Questo indice rappresenta l’impatto dei progetti sugli individui che ne beneficiano e sulla comunità con cui le organizzazioni beneficiarie si confrontano. Non essendo argomento di questo breve saggio, non si analizzeranno nel dettaglio né lo SROI né altre possibili metodologie di valutazione, ma è necessario menzionarle per comprendere l’enorme contributo della “venture philanthropy”, non solo quale erogatore di risorse finanziarie e di know how, ma anche di specifiche metodologiche di valutazioni. La “venture philanthropy” importa in ambito non profit anche le tecniche finanziarie ed il rigore scientifico del “venture capital”, rendendo più facile l’individuazione di errori e permettendo il confronto dei progetti. Così, grazie ad una selezione dei programmi più veloce e precisa, vengono incrementate efficienza ed efficacia anche nel terzo settore. L’obiettivo di questi parametri è quello di misurare la finalità ultima propria anche degli operatori commerciali: la creazione di valore. Nel corso della loro vita, tutti gli organismi, for o non profit, attraverso il raggiungimento di determinati obiettivi, mirano a creare valore, vale a dire a generare un meccanismo autopoietico, che consenta loro di continuare ad esistere. La grande novità della “venture philanthropy” sta nel fatto che sottolinea l’importanza della creazione di valore anche per il terzo settore e giunge alla conclusione che questa non è più misurabile con indici quali l’EVA, che considerano solo il valore aggiunto economico per gli shareholders, ma la ampliano, in virtù del gran numero di soggetti che devono beneficiare delle azioni delle organizzazioni e delle esigenze da soddisfare, oltre al bisogno monetario. 67


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Specialmente in ambito non profit, ma anche in un sistema commerciale che contempli la responsabilità sociale delle imprese, si deve valutare un operatore avendo riguardo al valore che crea a vantaggio di tutti gli stakeholders (non solo ai possessori di share), vale a dire di tutti coloro che sono portatori di interessi, non solo economici. Per questo motivo i criteri di valutazione non devono tener conto solo delle grandezze economiche, finanziarie e patrimoniali, ma è necessario che misurino anche l’impatto sociale ed ambientale. Pertanto l’EVA va corretta e completata con misuratori di fattori ambientali, sociali ecc. Così, gli indici ed i margini formulati dalla “venture philanthropy” per il mondo non profit, più completi dal punto di vista soggettivo ed oggettivo, possono essere utilizzati anche per le società commerciali che intendano sposare la responsabilità sociale, conoscendo il pieno valore che creano e valutandole in un’ottica meno parziale di quella meramente economica. Bibliografia essenziale AA.VV., SROI Methodology, REDF, 2001. AIFI, Capitale per lo sviluppo, Milano, Guerini e Associati, 2002. Hall, Alvin D., Getting started in mutual funds, Jhon Wiley & Sons, Inc., 1999. Battacharya-Chiesa, Property information, financial intermediation and research incentives, LSE FIN. Group, 1994. Cotta E., L’innovazione dei sistemi finanziari. Il venture capital, Milano, Giuffrè, 1997. Dulany P.-Winter D., The status of the trends in private philanthropy in the southern hemisphere, Synergos Publications 2001. Mc Kinsey & Company, Effective capacity building in nonprofit organisations, Venture Philanthropy Partners, 2001. Twesky F., An information OASIS, REDF, 2002. Vonk G., Venture Capital beyond boundaries, REDF Driedstar Pubblishing, 2002. Winder D., Scott DuPree A., Parnetti C., Prasad C, Turitz S., Foundation building sourcebook, Synergos Publications, 2000. Zampi V., Proprietà e governo delle imprese, Padova, Cedam, 1995. 68


Profit e non profit tra economia e cultura Emanuele Cassarino

1. Premessa Partendo da esempi tratti da progetti di cooperazione internazionale in Africa, questo contributo illustrerà alcune strategie e metodologie volte ad una ottimizzazione, di lungo termine, degli interventi di cooperazione internazionale. Vedremo come un programma di sviluppo sarà tanto più efficace, quanto più congruente con una logica di investimento capace di trasformare il capitale finanziario in capitale umano, naturale e sociale. Ispirandosi a tale logica, un programma di sviluppo si traduce in un investimento ad alta redditività. Il capitale umano ed eco-sociale, infatti, può riconvertirsi in capitale finanziario. Nel caso di un progetto realizzato in Namibia, ad esempio, la trasformazione di una zona in avanzato stato di desertificazione in vegetable garden1, ha consentito alla popolazione beneficiaria di coprire prima le esigenze di autoconsumo, per destinare eventuali surplus al mercato. Il progetto inoltre ha dato un contributo determinante allo start-up di una impresa di costruzioni e di produzione di materiali edili. 1 Attraverso attività di riforestazione e di predisposizione di impianti di irrigazione.

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Superando una concezione delle organizzazioni for e non profit come appartenenti a due mondi incommensurabili, governati da logiche reciprocamente irriducibili, sarebbe auspicabile che aziende, fondazioni, organizzazioni non profit ed attori istituzionali si cimentassero favorevolmente e sinergicamente nella sperimentazione di formule organizzative innovative che consentissero loro di incidere sulle stesse realtà con modi d’impatto specifici, ma contestualmente interrelati. Affrontare con determinazione il problema dello sviluppo oggi, infatti, richiede la consapevolezza della necessità di ricorrere a tutti gli attori che in qualche modo possono dare un prezioso contributo. L’imporsi all’attenzione del dibattito di tematiche come quelle relative alla Responsabilità Sociale delle Imprese, o di fenomeni quali la “corporate philanthropy” o, più recentemente, la “venture philanthropy2”, sembrano dimostrare quanto sia ormai sentito il problema della qualità dello sviluppo. Ma se per produrre sviluppo, soprattutto sviluppo sostenibile, occorre investire, perché tale investimento possa produrre effetti positivi, l’economia, intesa in senso classico, potrebbe non bastare. L’economia può offrire delle informazioni sulla velocità e la quantità di moto di un vettore di sviluppo, la cui direzione, però, non può essere rilevata senza il ricorso a considerazioni storico-culturali. L’ipotesi sostenuta in questa sede è che la collaborazione tra profit e non profit costituisca un modello euristico rispetto al raggiungimento di obiettivi di sviluppo sostenibile. Tale collaborazione può indurre infatti un mutamento culturale capace di incidere positivamente sulle performance organizzative delle organizzazioni non profit, ma anche di stimolare lo stesso settore for profit a ripensarsi. In regime di risorse scarse, l’intervento di cooperazione internazionale non può sempre essere inteso come un intervento a fondo perduto, perché in tal modo tenderanno a mancare gli incentivi e le motivazioni per impegnarsi in programmi capaci di implementarsi efficiente2 G. Gemelli, Ossimori: le dinamiche del non profit tra Corporate e Venture Philanthropy, www.misp.it, 2003.

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mente ed efficacemente dar luogo a promettenti follow-up. Quello che infatti caratterizza il mondo della cooperazione internazionale, purtroppo, è spesso la “sindrome dell’abbandono”. Quando un singolo progetto arriva alla sua scadenza burocratica, infatti, diventa altissimo il rischio che le attività progettuali non riescano a superare l’interruzione dell’assistenza tecnica e finanziaria esterna. In tali condizioni l’impatto sulle prospettive di sviluppo della popolazione beneficiaria, sarà stato se non nullo, almeno di molto inferiore alle potenzialità. L’esperienza farebbe ritenere che senza una collaborazione tra profit e non profit, sarà molto difficile avviare circuiti positivi capaci di regolare i flussi di competenza e di capitale, cui danno luogo anche i fenomeni migratori, in modo da contenere gli sprechi. Da solo il mondo non profit, infatti, non può invertire nessuno dei tragici trend riguardanti lo sviluppo umano di cui ci possiamo rendere conto leggendo i rapporti Undp. L’analisi che prenderà le mosse da considerazioni relative a casi studio costituiti da progetti di cooperazione internazionale in Kenya e Namibia, ci condurrà a discutere modelli di cooperazione internazionale orientati a porre le condizioni per successivi investimenti, la cui caratteristica precipua è quella di tenere sotto adeguato controllo la variabile rischio, che, specie in un taskenvironment culturalmente altro, è inversamente proporzionale alla conoscenza del contesto specifico. Si tenderà a non disgiungere l’analisi dei singoli casestudies dai più ampi contesti storico-economici cui essi devono il loro carattere di intellegibilità. Allo stesso tempo si mostrerà come un modo di procedere induttivo, capace di uno screening analitico molto attento della dimensione locale, sia il modo più prudente e razionale per muoversi in un contesto in cui la distanza culturale impone una particolare prudenza procedurale. L’interpretazione storicamente fondata del processo di decolonizzazione, inteso come processo storico che stenta ancor’oggi a concludersi, costituisce un punto di partenza epistemologicamente forte per orientarsi nella valutazione dei potenziali contestuali in termini di autosviluppo e per superare la rassegnazione ai destini correnti. 71


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Per “potenziale di autosviluppo” in questa sede si intende l’esito dinamico dell’interazione tra capitale umano e finanziario esterno e capitale umano ed ecosociale locale. Esso può essere interpretato come indice della qualità delle relazioni di cooperazione che si sono stabilite, ma anche, come discuteremo sinteticamente, dell’impatto sulle prospettive di sviluppo del fenomeno migratorio, fenomeno strettamente legato ai destini della cooperazione internazionale, cioè dell’Umanità. 2. Capitale sociale e potenziale di autosviluppo Nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo3”, si può agevolmente rilevare la debolezza strutturale del non profit come settore di iniziative regolate formalmente dal diritto privato. Non a caso tale fenomeno manifesta un’inconfondibile tendenza a diffondersi laddove anche il settore for profit registra le migliori performances. Esso nasce e si consolida nella società civile dei paesi ad alto reddito, che hanno da un po’ superato alti livelli di monetarizzazione delle relazioni sociali, e che quindi “contabilizzano” anche servizi che in altri contesti, vengono svolti secondo modalità tradizionali all’interno delle strutture di parentela/vicinato. Si pensi ad esempio alle necessità di assistenza che riguardano gli anziani. Le azioni solidali che si ispirano al principio della reciprocità, non hanno spesso bisogno di acquisire una veste ed una personalità giuridico-organizzativa, quando rientrano in pratiche consolidate dal punto di vista della tradizione culturale. La solidarietà, infatti, è una caratteristica ancora molto spiccata dei contesti a prevalente connotazione rurale, dove la monetarizzazione della vita sociale non ha ancora raggiunto livelli pervasivi. In tali contesti una famiglia allargata ancora relativamente forte, estende immediatamente le propaggini della propria 3 Definizione convenzionale che nasconde un pregiudizio positivistico in quanto in realtà tutti i paesi e tutti i popoli sono in via di sviluppo, uno sviluppo le cui dinamiche presentano crescenti aspetti di interdipendenza planetaria, senza i quali risulta talvolta impossibile spiegare quelli locali.

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sfera socio-relazionale almeno all’ambito del vicinato e/o del villaggio. Le occasioni di conflitto, che non possono mancare laddove si è ben lontani dalla soddisfazione dei basic needs, sono il più delle volte disinnescate dalle pratiche tradizionali, come quella dell’harambee di cui ci occupiamo in questa sede, che si ispirano al principio di reciprocità. Nonostante la notevole e positiva proliferazione di organizzazioni non profit4, queste restano completamente dipendenti da relazioni privilegiate con personalità legate al livello istituzionale nazionale e/o ai donors internazionali. A livello locale non esistono generalmente grandi margini di manovra per quanto riguarda la pianificazione di iniziative non marginali che siano mirate ad un autosviluppo sostenibile. La dipendenza di tali paesi non potrebbe non manifestarsi anche in questo ambito. Entrambi i progetti di sviluppo da cui in questa sede vengono tratti alcuni spunti di riflessione, si collocano in un contesto rurale in cui le reti di solidarietà e le risorse umane e naturali disponibili, testimoniano l’esistenza di un capitale eco-sociale di straordinaria importanza. Se ben rilevato, interpretato e organizzativamente valorizzato, esso darà luogo, nella combinazione con un appropriato intervento esterno, ad un potenziale di autosviluppo che esprimerà un impatto positivo e verificabile del progetto sulle condizioni di vita della popolazione beneficiaria. Ciò è avvenuto per quanto riguarda i case-study presentati in questa sede, la cui significatività, e per certi versi, paradigmaticità, risiede nel fatto che in essi un livello conoscitivo adeguato ad un’attenta autovalutazione ongoing è stato prodotto da una attività sul campo di ricerca socio-antropologica, secondo la metodologia della Ricerca Azione Partecipata5. Molto brevemente tale metodologia si basa sulla presenza di un livello conoscitivo (ricercatori sul campo) che produce conoscenza utile, o “predevelopment knowledge”, al fine di calibrare meglio il tipo di intervento esterno in corrispondenza con le carat4 Nella maggior parte dei casi, forse, branches di Ong di paesi donors. 5 Per approfondire la conoscenza di tale metodologia si veda D. Volpini, L’Autosviluppo Integrale, Esculapio, Bologna, 1994.

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teristiche e le logiche progettuali del livello azione (la comunità beneficiaria). In contesti dove lo Stato opera in condizioni proibitive, non riuscendo spesso a far fronte nemmeno alle necessità minime, può esistere in compenso una relativa ricchezza relazionale. Si tratta di andarne alla ricerca, ma anche di favorire un processo in cui essa possa emergere in condizioni che rendano praticamente possibile per la comunità locale la negoziazione delle modalità operative di partecipazione, che a ben guardare costituiscono l’anima della cooperazione. Il concetto di harambee ha un suo posto di riguardo nella storia del Kenya moderno e contemporaneo6. Esso fa riferimento a pratiche di self-help7 che non sono appannaggio di singoli o di singole famiglie, ma di network più estesi. In contesti rurali, non ricchi economicamente, tecnologicamente e finanziariamente, ma per nulla poveri dal punto di vista umano ed eco-sociale, le varie forme di solidarietà in-group tendono a resistere più facilmente che nei contesti urbani. In questi ultimi infatti, anche per motivi logistici, tali forme sono troppo spesso destinate a soccombere, in parte o interamente, dinnanzi al peso di relazioni la cui valenza va allontanandosi progressivamente da quello che può essere convenzionalmente considerato “il modello tradizionale”. Per rendere socialmente visibile la concreta disponibilità alla reciprocità di quanti si attestano su elevati livelli di reddito, in Kenya si organizzano dei meeting festosi, riconducibili alla tradizione swahili dell’haramebee, nei quali tutti i presenti fanno delle offerte palesi e proporzionali al proprio livello di reddito. Di solito uno speaker si occupa di rendere nota la cifra donata, magari esaltando con un certo tono della voce una somma particolarmente elevata corrisposta da un grande personaggio locale, che dal suo gesto trae prestigio e leadership. A questo riguardo sembra interessante notare come da 6 Vedi J. A. Widner, The rise of a party-state in Kenya. From harambee to nyayo, University California Press, Los Angeles, 1992. 7 Uno strumento utile ad inquadrare il concetto di “self help” è il rapporto Undp sullo sviluppo umano del 1993, dal titolo “people’s participation”.

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modello di relazione tradizionale, l’harambee sia entrato a far parte a pieno titolo della modernità dello stato postcoloniale. Facendo riferimento alle politiche di sviluppo della nazione sotto la presidenza Kenyatta, Jennifer A. Widner afferma che “the primary element of this strategy was the inauguration of a form of “self help development called harambee (let’s pull together in swahili). Harambee was a innovative strategy for promoting development and for ensuring that at least some projects were consonant with local perceptions of need”. Ed ancora (con particolare dedica ai nostri onorevoli): “At a self help fundraiser, the local member of parliament (MP) was expected to make substantial contribution or gift. Indeed, failure to do so sharply diminished one’s chances of re-election8”. La palesità simbolico-rituale, quasi scenica, della contribuzione, ha una importante funzione generale, che è quella di rinsaldare i vincoli comunitari e la loro tenuta in termini di coesione sociale. La variegata tipologia di azioni solidali che in questa sede denominiamo harambee, può essere spiegata ricorrendo, da una parte alla pratica del volontariato, dall’altra all’idea di lavorare insieme. Tutto ciò nello scenario di una comunità che diventa soggetto, e che contribuisce in natura, in lavoro gratuito, in valuta, allo sforzo tendente al miglioramento delle condizioni di vita (un miglioramento che si fonda appunto sulla capacità di lavorare assieme per il bene di tutti). Il nucleo concettuale che descrive la pratica nota in swahili come harambee, non è specifico delle culture che fanno riferimento a quella lingua. Ciononostante tale nucleo o area concettuale, evocata così sinteticamente dalla parola harambee, si esprime in quelle culture con particolare ricchezza di sfumature semantiche. Anche in Italia e nel cosiddetto mondo occidentale9, i gradienti di solidarietà in-group erano, e qualche volta riescono ancora ad essere, capaci di rigenerare la coesio-

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J. A. Widner, The rise of a party-state in Kenya cit. Il concetto di mondo occidentale, se reificato e non inteso convenzionalmente, è una tipica generalizzazione indebita. 9

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ne del tessuto sociale. Esattamente come avviene con le onp per quanto riguarda contesti ad alto reddito, in Kenya le attività di harambee sono state e continuano ad essere un canale di espressione del protagonismo della società civile. La parola harambee può indicare tanti comportamenti, il cui denominatore comune è l’agire solidale, che equivalgono praticamente alla prestazione a vario titolo da parte di un attore sociale di porzioni marginali del proprio tempo o del proprio reddito. Ma questa prestazione avviene in un contesto in cui gruppo donante e gruppo beneficiario coincidono: la gente partecipa di buona lena alle attività di self-help soltanto se tali attività sono, sia in assoluto sia in quel preciso momento, reputate utili allo sviluppo così come inteso dalla comunità stessa. Per questo motivo è cruciale che la popolazione beneficiaria partecipi, considerando le attività progettuali come attività che la vedono sostanzialmente e non solo formalmente beneficiaria. Soltanto così l’individuo, con la sua identità culturale e con il suo senso di appartenenza alla comunità, può trovare una motivazione per partecipare al meglio delle sue possibilità. Su questo si sono addensati tremendi misunderstanding da parte di quanti, legati ancora ad una logica di progettualità chiavi in mano, credevano che gli “africani fossero pigri”, semplicemente perché non disponevano degli strumenti concettuali per comprenderne orientamenti culturali e comportamentali, per capire cioè che l’entusiasmo della risposta dipende (per la verità non soltanto in Africa…) moltissimo dal tipo domanda, e soprattutto, da come questa viene posta. Poiché infatti nel progetto le previste attività di harambee avevano avuto fasi alterne, sembrava ovvia l’opzione di ricorrere al mercato del lavoro salariato per accelerare l’implementazione dei lavori sul cantiere. Ma il paziente lavoro socio-antropologico ha consentito di ristabilire condizioni ottimali per la partecipazione della comunità beneficiaria. Quando questa vide che le attività di supporto partecipativo al progetto, che erano come abbiamo visto anche di self-help, cioè intese al miglioramento delle condizioni di vita della stessa comunità, potevano procedere secondo modalità definite dalla 76


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comunità stessa, e non da uno straniero10, le attività di harambee cominciarono a procedere a gonfie vele, anche a ritmi di produttività superiori a quelli medi relativi al lavoro salariato. Quando, sia in sede di implementazione sia di valutazione, è la stessa comunità beneficiaria a prendere il mano il progetto, significa che strategie e tattiche volte alla trasformazione del capitale sociale nelle azioni development-oriented rese possibili da un potenziale positivo di autosviluppo, cominciano a dimostrarsi contestualmente appropriate. Poiché le relazioni interne alla controparte locale e alla popolazione beneficiaria sono lungi dall’essere coerenti ed, univoche, esse non possono essere rilevate una volta per tutte ex ante, a meno di non ammettere alti livelli di errore, anche perché esse si modellano sul tipo di intervento esterno. La conoscenza di un territorio e delle culture espresse dai popoli che lo abitano richiede un impegno conoscitivo che deve essere preventivato, predisposto, incentivato, e, soprattutto, spiegato nelle sue ragioni, sia metodologiche che generali, alla popolazione beneficiaria. Di solito ciò accade molto raramente nei progetti di cooperazione internazionale: nonostante le dichiarazioni formali, infatti, esiste ancora in molti casi lo stereotipo, secondo il quale la rilevazione attenta e puntuale del punto di vista locale non rappresenta altro che uno spreco di tempo e risorse. Ciò pone un problema di miglioramento della prestazione organizzativa attraverso la predisposizione di un livello di produzione conoscitiva e di comunicazione che possa funzionare in un contesto di full-immersion culturale11. Se si considera che di solito il management di un progetto di cooperazione è ancor’oggi affidato a chi può vantare competenze scientifico-tecniche, come un ingegnere, ad esempio, il ruolo organizzativo svolto nei progetti discussi in questa sede da personale specializzato in 10

tori.

Che deve conquistarsi sul campo la fiducia dei suoi interlocu-

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La diversità culturale che possiamo sperimentare nelle nostre città, non ha certo la stessa valenza di quella relativa a condizioni di piena immersione culturale e spesso anche di isolamento.

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development antropology è stato più che rilevante, soprattutto nella selezione delle migliori risorse umane disponibili in loco12, che hanno in modo determinante accresciuto la “produttività” delle quotidiane azioni progettuali. La presenza in entrambi i progetti di personale specializzato in antropologia dello sviluppo ha comportato: 1. Un processo di autovalutazione on-going che ha reso possibile operare scelte vincenti nonostante difficoltà e prospettive tutt’altro che rosee. 2. Una ri-negoziazione e ristrutturazione organizzativa delle relazioni con la controparte locale (che in sede di passaggio delle consegne riceve la titolarità del progetto in rappresentanza della comunità beneficiaria). Da quanto abbiamo illustrato, appare evidente che l’intervento di cooperazione stimolerà meglio l’andamento tendente all’autosviluppo della dinamica endogena (andamento di cui il fenomeno denominato harambee costituisce un importante esempio storico-economico e socio-culturale), se tale dinamica non verrà inibita, ma incentivata ad accumulare capitale sociale e a preservare (che equivale ad accumulare, o almeno a non dissipare) quello naturale. I concetti di capitale sociale e di potenziale di autosviluppo, aiutano a calcolare il livello di contributo, rispettivamente potenziale e reale, che la popolazione beneficiaria o la controparte locale che la rappresenta, può dare concretamente al progetto. Mentre il primo ci dice quanto ci possiamo attendere dalla partecipazione della popolazione beneficiaria, il secondo, fornendo una rappresentazione dinamica delle relazioni che si vengono a stabilire tra essa e la Onp/Ong non locale, ci consentirà di valutare il peso reale della partecipazione al progetto e l’incidenza dell’intervento esterno nell’indurre tale partecipazione. In questo modo, nel confronto tra potenzialità del capitale umano ed eco-socia12 Nel progetto in Namibia, ad esempio, si è proceduto alla selezione dei migliori studenti diplomati presso l’Ogongo College, che hanno lavorato nel progetto come agronomi, ma allo stesso tempo community trainer e facilitators (il fatto che loro conoscessero la lingua, e la cultura dei beneficiari, essendo essi stessi degli Ovambo, ha avuto un impatto molto positivo sulla performance progettuale.

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le ed esiti concreti del potenziale di autosviluppo operante, il processo di valutazione sarà in grado di monitorare su base giornaliera la variabile che esprime la partecipazione al progetto. In altri termini sarà capace di mettere in guardia il management in tempo utile, prima che le relazioni tra agenzia di sviluppo esterna e controparte locale/popolazione beneficiaria, possano degenerare in atteggiamenti non cooperativi che vanno dall’indisponibilità alla partecipazione fino al vero e proprio sabotaggio. Il calcolo e il monitoraggio del contributo espresso dalla popolazione beneficiaria, rappresenta un aspetto molto rilevante in sede di valutazione, poiché grazie ad esso il management della onp esterna potrà proficuamente operare le sue scelte, non rischiando di ignorare dinamiche contestuali sostanzialmente molto rilevanti. Per costruire un acquedotto in Kenya, si può ricorrere ad una organizzazione for profit o ad una non profit: aldilà delle considerazioni relative all’efficienza nella gestione del cantiere, che qualche volta possono dipendere più dalla situazione concreta che dalla natura for o non profit dell’Org stessa, per quanto rigurda l’efficacia questa dipenderà dalla qualità del management e dalla conseguente qualità delle relazioni con la controparte locale. In generale la differenza tra for e non profit può rivelarsi abissale, soprattutto nel caso di una non profit che riesca mobilitare tanto capitale sociale da rendere il contributo, non solo nominale, della controparte locale più che cospicuo. In questo senso la redditività reale di un progetto, in termini di esito verificabile delle potenzialità di sviluppo da esso innescate, può risultare addirittura più elevata rispetto ad un investimento for profit. Finalizzato alla costruzione di un acquedotto di 14 km per servire una popolazione kenyana di circa 10.000 abitanti, il Tach Asis Water Project ha saputo far leva sul contributo della comunità locale beneficiaria che, secondo le modalità tradizionali dell’harambee, ha formato delle squadre per scavare lungo la linea dell’acquedotto. Tali attività di harambee avevano, e generalmente hanno, anche lo scopo di permettere momenti di socializzazione informali, ma comunicativamente salienti, che facilitino 79


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il coordinamento sia all’interno della comunità locale sia nei rapporti con il personale dell’Ong. L’uso delle possibilità offerte dalla tradizione dell’harambee per supportare e coofinanziare a livello locale i progetti resi possibili dal coinvolgimento dei donors internazionali, ha consentito di ottimizzare le scarse risorse destinate allo sviluppo. Il contributo chiesto alla controparte locale, infatti, non è soltanto una questione di budget, come nel caso del contributo nominale, ma riguarda il futuro del progetto stesso. Se infatti la comunità locale avrà dato un contributo cospicuo al progetto, avrà anche provveduto ad assumersi le proprie responsabilità. Il suo ripercuotersi sui tempi di implementazione progettuale, inoltre, è un fattore da non sottovalutare. La ricerca sul campo ha dimostrato anche che non esisteva alternativa credibile a quella di rispettare i ritmi di partecipazione della popolazione locale. Questa infatti voleva avere l’ultima parola nella eventuale accelerazione del suo sforzo partecipativo. E quando tale sforzo cominciò a dispiegarsi pienamente, l’impatto sui tempi di realizzazione e progettuale fu addirittura superiore alle aspettative. La partecipazione attiva di una popolazione rappresentata in modo non distorto da una controparte locale risoluta ad assumersi le proprie responsabilità e ad operare al meglio delle proprie possibilità, può dare luogo a cospicue economie gestionali e/o di scala ed assicurare anche un follow-up minimo. Se le condizioni glielo consentiranno anche in futuro, infatti, la comunità beneficiaria continuerà a mantenere in vita un progetto cui essa stessa ha dato un grande contributo. È questo un fattore decisivo per le sorti di un investimento cooperativo: se la popolazione locale non identifica come proprio il progetto, considerandosi meramente intended and not real beneficiaries, la storia di quel progetto sarà considerata come estranea al contesto geo-culturale. E quando esso arriverà alla sua scadenza burocratica, esso sarà abbandonato come monumento all’incomprensione. Nel caso del progetto in Kenya, invece, la creazione della “water association”, che raccoglieva i rappresentanti della popolazione utente, ha assicurato un servizio duraturo nel tempo e quindi l’efficacia tecnico-logistica, cioè relativa 80


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anche al problema della manutenzione degli impianti, dell’intervento di cooperazione. 3. Cooperazione internazionale e mondo imprenditoriale. Un dialogo difficile ma inevitabile I dati sullo sviluppo umano pubblicati dall’Undp denunciano l’enorme ed inaccettabile livello di povertà che riflette modelli di cooperazione internazionale gravemente inefficaci. Per capire le ragioni concrete di teorie e pratiche fallimentari, bisognerà prendere in considerazione le metodologie di intervento e le teorie dello sviluppo che tali metodologie presupponevano. Soltanto in questo modo si potrà dimostrare, a beneficio di un’opinione pubblica che appare disorientata, e spesso poco ben disposta, che in realtà la cooperazione internazionale è una forma recente di relazione internazionale, è ben lungi dall’aver esaurito la sua ragion d’essere. Il successo sul campo di un progetto di cooperazione è ceteris paribus funzione della qualità della partecipazione da parte della popolazione beneficiaria. Il primo errore di management che spesso si è osservato, è quello di considerare la partecipazione attiva della popolazione beneficiaria come scontata o peggio irrilevante. Se andando a lavorare in un progetto di cooperazione in Africa, ad esempio, ci si aspetta che la gente debba venire a ringraziare (invece di essere subito pronti a presentarsi e a comunicare con quelli che oltre a beneficiari, fino a prova contraria sono o dovrebbero essere i padroni di casa), si commette un errore che si ripercuoterà, in modo dipendente anche dalla capacità di recupero, sul bilancio reale del progetto. La disponibilità a cooperare della popolazione beneficiaria, o anche la disponibilità di un territorio e di un popolo ad accogliere un investimento, anche for profit, non è un dato scontato, ma il risultato di uno sforzo cooperativo umano preventivo, volto a stabilire condizioni di esecuzione dei lavori non proibitive. Tale sforzo, economico ma allo stesso tempo conoscitivo e culturale, non può prescindere dalla messa in campo di adeguati livelli professionali, che possano 81


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produrre una conoscenza grazie alla quale diventa possibile mettere a fuoco, ed eventualmente raggiungere, specifici obiettivi di sviluppo. Le mille scelte concrete di cui si compone un investimento potranno essere, grazie ad essa, effettuate in modo più avveduto, più razionale, contenendo così il rischio legato ad operazioni che si svolgono in un territorio sconosciuto. I fallimenti della cooperazione internazionale non sono isolati né isolabili. Essi si ripercuotono, in tempi ormai relativamente brevi, sull’andamento economico generale a livello nazionale ed internazionale. A causa di una così avanzata interdipendenza, infatti, le opportunità di sviluppo mancate sono tali per tutti gli attori delle relazioni internazionali. Un paese dove la cooperazione, o più spesso la mancanza di vera cooperazione, non ha prodotto sviluppo, è un paese povero in termini di potere d’acquisto, ma anche un paese in meno come mercato di sbocco. La sua povertà va cosi ad impoverire il tenore delle relazioni e degli scambi internazionali. Per un paese ricco di potenzialità come l’Italia, con la sua magnifica posizione geografica, con il suo straordinario patrimonio storico, investire in cooperazione internazionale significa non soltanto contribuire allo sviluppo globale, ma anche supportare, in modo mirato e fortemente strutturato, le aziende italiane, specie quelle medio-piccole, a consorziarsi ed internazionalizzarsi. Le opportunità di investimento, infatti, esistono, ma devono anche essere create attraverso, appunto, politiche di investimento lungimiranti. Quando si parla genericamente di Africa, un continente che appare ancora esotico anche a quanti vivono a un’ora o addirittura mezz’ora di volo, ad esempio, si sente spesso dire che il paese non è economicamente appetibile per investimenti di provenienza internazionale. Così tantissimi paesi vengono collocati, e abbandonati talvolta per decenni, in un ranking nel quale occupano posizioni contrassegnate da aspettative negative. Eppure lo sviluppo vero è quello umano ed è fatto più di presupposti storici che di cifre da interpretare. Quei paesi, infatti, “nascondono” un capitale naturale, sociale ed umano che giustificherebbe aspettative di 82


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redditività positive, o comunque migliori delle attuali. Certamente tale redditività dipende non soltanto da condizioni contestuali ma anche da condizioni metodologiche relative all’intervento del soggetto cooperante e alla conseguente risposta della popolazione beneficiaria. Per individuare, interpretare, e contestualizzare prospettive futuri di cooperazione bisogna partire da una concezione dello sviluppo13 che non sia orientata alla remunerazione di breve termine del capitale né caratterizzata da intenti speculativi, ma che allo stesso tempo preveda anche strumenti di intervento che siano “economically self sustaining”. Il problema dello sviluppo, infatti, non è soltanto una questione quantitativa, di risorse, ma anche qualitativa e metodologica, che riguarda sia le caratteristiche del “project-designing” che le concrete modalità di implementazione progettuale: spesso, infatti, vale molto più a lungo termine ciò che si è realizzato concretamente rispetto a quanto si è speso. Quando la problematica dello sviluppo entra nel merito delle procedure, la promozione di reti formative, volte, anche attravreso la formazione dei formatori, a rendere diponibile quantità adeguate di “pre-development knowledge”, rappresenta un obiettivo strategico assolutamente prioritario. Un miglioramento del clima organizzativo, infatti, specie in contesti dove variabili inattese e talvolta sconosciute non mancano, sarà eventualemnte il prodotto finale di uno impegno conoscitivo e auto-valutativo. Per comprendere in modo scientifico l’impatto prevedibile di un intervento di cooperazione, per condurre, cioè, in modo adeguato un “project appraisal” (valutazione ex-ante), bisogna sviluppare la capacità di interpretazione e di ascolto delle istanze relative al territorio e alla popolazione beneficiaria. Tale capacità può risultare da specifiche caratteristiche del personale espatriato, che in certi casi può seguire un approccio più attento al contesto specifico dell’intervento: ma, di solito, tale capacità deve essere sviluppata attraverso adeguati percorsi formativi, in cui si svilup13 Forse è più agevole definire lo sviluppo anche in negativo, cioè individuare le variabili che certamente non sono developmentoriented.

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pino competenze adeguate ad un processo di apprendimento delle problematiche emergenti dal campo, dal “project-site”, in un’ottica di valutazione on-going che è anche e soprattutto un’autovalutazione. Molto spesso, decodificare on-going le specifiche logiche dinamico-progettuali degli attori coinvolti nell’arena dello sviluppo, si rivela l’operazione più difficile. Da un’attenta valutazione ex-post emerge come molti progetti siano falliti o abbiano rischiato di fallire proprio nella fase di interpretazione delle logiche progettuali su cui si basa l’operatività della risposta della popolazione beneficiaria all’intervento di cooperazione. Interpretare il comportamento dei Nandi del Kenya o degli Ovambo della Namibia, ad esempio, richiede competenze adeguate, di tipo socio-antropologico, esatamente come per capire la natura di un terremoto bisogna servirsi di un geologo. L’osservazione partecipante finalizzata al miglioramento del clima organizzativo, riguarda molto spesso lo stesso personale espatriato, il cui comportamento può, anche se in buona fede, risultare deleterio o comunque dannoso per il successo del progetto. Dinnanzi alla crisi in cui si dibatte oggi la cooperazione internazionale, il mondo imprenditoriale potrebbe fare un passo in avanti, assumendo le responsabilità di chi può disporre delle risorse necessarie e del know how per programmare e realizzare investimenti futuri. La cooperazione internazionale genericamente intesa, infatti, non potrebbe che trarre rinnovata linfa da un coinvolgimento attivo del mondo delle imprese. Si tratterebbe di far dialogare profit e non profit su specifici programmi, ed attravreso procedure organizzative di cross-fertilization14, mirate ad un territorio e/o ad un settore d’intervento specifici. Anche a causa delle difficoltà oggettive che il mondo della cooperazione e del non profit devono affrontare in un contesto mondiale che vede in forte crescita drammatici fenomeni di povertà, il dialogo tra cooperanti ed imprenditori diventa cruciale, soprattutto ai fini di una strategia volta a liberare risorse da destinare ad investimenti non speculativi, in grado di ridare slancio 14

G. Gemelli, Ossimori cit.

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alla capacità di autosviluppo della popolazione beneficiaria. Assumendo una prospettiva di lungo termine, rientra sempre più nell’interesse di entrambi i settori perseguire strategie che possano avere un esito sinergico nel perseguire un modello di sviluppo sostenibile. Il settore non profit deve acquisire modalità organizzative che tengano maggiormente conto del principio di efficienza, mentre il settore for profit deve migliorare la sua capacità di assicurare livelli adeguati di efficacia nel proprio impatto sulle prospettive di sviluppo sostenibile di un territorio e dei popoli che lo abitano. Esiste un denominatore comune a tutte le esperienze che mirano al consolidamento di pratiche di stimolazione reciproca tra profit e non profit, imponendo al primo di aprirsi in modo convincente al sociale e al secondo di gestire la cosiddetta “solidarietà” in modo efficiente ed efficace. Esso coincide con la consapevolezza 1. che interessi economici e valori culturali possono, ed in alcuni casi devono, trovare un vantaggioso terreno di convergenza. 2. che l’impresa socialmente responsabile, grazie ad una crescente consapevolezza del contesto eco-sociale in cui si muove, può acquisire una reputazione, che costituisce un importante fattore competitivo di lungo termine, reputazione che va oltre l’immagine da puro marketing pubblicitario. Tutto ciò richiede una nuova “filosofia operativa”, capace di inviduare le condizioni per la creazione del valore aggiunto, attraverso accordi non solo contrattuali anche consensuali con le controparti locali. Nel discendere di tale filosofia dal mondo delle idee a quello dei fatti, appare sempre più imprescindibile il ruolo della formazione nel perseguimento di strategie e pratiche di sviluppo sostenibile e nell’individuazione di utili terreni di collaborazione tra profit e non profit. Gli investimenti in formazione hanno un ritorno sicuro, se si ha la pazienza di aspettare. Entrando nel merito dei contenuti dell’agire cooperativo, strumenti come il micro-credito possono indurre circuiti virtuosi che hanno un impatto di lungo termine nettamente positivo sulle prospettive di sviluppo della 85


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popolazione beneficiaria. La cooperazione diventa in questi casi un investimento, un investimento che, se valutato alla luce delle esternalità eco-sociali, ha un rendimento non soltanto certo, ma anche alto, se si lavora adeguatamente alla sua valorizzazione. Abbiamo detto che dal processo di mobilitazione delle controparti locali, cioè del capitale eco-sociale disponibile in loco che diventa, se partecipante, valore economico, consentendo al progetto di avere un bilancio reale in termini di efficiacia sitemica superiore addirittura al bilancio formale, dipende in ultima analisi ogni successo possibile in uno sforzo di cooperazione internazionale. La conoscenza approfondita15 di un territorio e di una popolazione, senza la quale non si dà alcuna mobilitazione consensuale possibile, rappresenta un compito troppo oneroso per una for profit. Ma se questa si servisse, ripagandoli in qualche modo, dei servizi erogati da una non profit che conosce bene il territorio, potrebbe pianificare in modo ottimale il proprio eventuale investimento, sicura di non andare ad investire in un ambiente che può rivelarsi ostile soltanto dopo che l’investimento è stato effettuato, e di trovare un capitale umano ed eco-sociale pronto ad accogliere partecipativamente l’investimento esterno. Un modello interessante, sia dal punto di vista del finanziamento delle onp, sia da quello della gestione di rapporti sinergici con queste ultime, è quello della “venture philantropy”. Tale modello prevede un coinvolgimento di alto livello professionale del development fund nel management delle onp in prima linea, può consentire di agire in modo avveduto e meno rischioso, rispetto alla prassi oggi più comune, in cui la onp rendiconta, spesso in modo formalistico, e non pienamente rappresentativo le dinamiche specifiche, anche micro, che si sono succedute sul campo. Esso inoltre si traduce in una maggiore propensione all’investimento nella qualità del management, che la nostra esperienza ha mostrato essere alla base della capacità di mobilitazione della popolazione locale. Tale orientamento caratterizza quei develop15 Che costituisce una delle risorse di cui i flussi migratori sono portatori.

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ment funds che occupandosi dell’assistenza tecnica alle azioni non profit supportate, elevano il livello professionale e quindi sia l’efficienza che l’efficacia delle non profit in prima linea sul fronte della prestazione dei servizi. Esso prevede un accompagnamento della onp durante l’iter di traduzione del grant in effetti concreti. In tale ottica, esistono le condizioni procedurali perché le azioni focalizzate sull’empowerment possano trasformarsi in qualità organizzativa. Poiché la “Venture Philanthropy focuses on building up organizational capacity using multi-year grants”, essa rappresenta un modello innovativo di relazioni tra grant seeker e grant maker, che nel mondo della cooperazione internazionale, attraverso interventi di coofinanziamento pubblico-privato, consente: 1. la produzione in tempo utile di una “pre-development knowledge” che possa mettere nelle condizioni un territorio, ed una popolazione, di cooperare al meglio con un altro territorio, con un’altra popolazione; 2. la possibilità di tenere conto dei tempi di mobilitazione del capitale sociale; 3. la predisposizione di percorsi formativi specifici rispetto alle problematiche emerse dal campo, e alle metodologie di valutazione ed autovalutazione. All’inevitabile dialogo tra profit e non profit nell’ambito delle politiche di cooperazione internazionale, non può che giovare l’eventuale contributo di alcune fondazioni particolarmente sensibili alla problematica dello sviluppo sostenibile e al bisogno formativo che questo comporta. Tale investimento cooperativo deve fondarsi sullo scambio di notizie e di buone prassi sia all’interno del settore non profit, sia tra questo ed il settore for profit. In tale prospettiva le agenzie di sviluppo pubbliche e private possono aprire in modo avveduto la strada ad interventi profit non alieni dal concetto di sviluppo sostenibile. Da quanto abbiamo osservato finora, ci sembra di poter affermare che, se scientificamente posta in essere, avvalendosi, cioè, degli strumenti della formazione16, la 16 Su cui invece si tende troppo spesso a risparmiare, rischiando di arrecare dei danni.

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cooperazione internazionale può creare quelle relazioni che possono costituire per il mondo dell’impresa un incentivo a contribuire alla messa a punto di business plans mirati in progetti volti alla produzione di reddito anche, e cospicuamente, per la comunità locale. 4. Considerazioni conclusive Nonostante il concetto di capitale sociale presenti aspetti di evanescenza semantica, esso può, con ragionevoli margini di errore, essere applicato, all’interno dello specifico task-environment creato da un intervento di cooperazione internazionale (specie se esso riguarda contesti le cui dimensioni sono quelle di un villaggio africano). Il mondo rurale di questo continente, possiede una ricchezza eco-sociale che rischia di essere sprecata se non verranno posti dei limiti ai fenomeni di urbanizzazione selvaggia, che costituiscono un viaggio senza ritorno verso la composizione e l’accrescimento dei flussi migratori17. Tali flussi, tendenzialmente, producono un reddito che rischia sempre più di non coprire il costo dello sradicamento, e dell’abbandono di molte aree rurali ad un livello quasi inesistente di investimenti. Compito di una onp che interviene con strumenti di assistenza tecnica finalizzata allo sviluppo sostenibile della comunità locale, è trasformare quella ricchezza in potenziale positivo di autosviluppo. Quando le campagne vengono abbandonate, o mantenute ad un livello basso o inesistente di investimenti, in seguito ai pull-effect esercitati dalle aree metropolitane, prima locali e poi internazionali, il capitale sociale di una famiglia estesa, viene investito nel progetto migratorio: ciò può, in determinate condizioni, tradursi in una perdita tendenziale di valore di tale capitale sociale, se non si reinveste per rinnovare la fertilità del terreno in cui affondano le community roots. Se infatti il fenomeno migratorio può comportare dei ritorni in reddito cash, 17 A tal riguardo si veda S. Collinson, Le migrazioni internazionali e l’Europa, il Mulino, Bologna, 1994, p. 30.

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tale reddito può non compensare livelli decrescenti per quanto riguarda la qualità della vita. Per finanziare progetti di sviluppo rurale sarebbe utile costituire dei fondi dedicati, e gestiti magari in parte secondo la modalità del “revolving loan program”, in modo da assicurare il criterio di “self sustainability”, se questo serve a rifinanziare altri progetti o il prolungamento degli stessi. Sarebbe auspicabile che tali fondi, gestiti con una competenza di alto livello professionale, ricevessero supporto sia dall’aiuto pubblico allo sviluppo bilaterale e multilaterale, sia da developmet funds la cui mission non esclude il campo della cooperazione internazionale. Se infatti i flussi di competenza, di cui i migranti sono portatori, vengono valorizzati da management pronti a porsi come catalizzatori maleutici, essi costituiscono una risorsa molto importante anche per il mondo imprenditoriale dei paesi di destinazione dei flussi migratori stessi. Con l’emissione di bond a lungo termine da parte di fondi destinati allo sviluppo di aree rurali, infine, si potrebbero, forse, reperire risorse preziose nei flussi di capitale corrispondenti alle rimesse degli immigrati, in modo tale che, parte di queste risorse, siano reinvestite nello sviluppo locale dei paesi da cui prendono origine, flussi migratori.

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Parte II La collaborazione come sfida strategica: modelli, istituzioni, percorsi


Ossimori: i vantaggi competitivi della “filantropia d’impresa”* Giuliana Gemelli Quando provo ad immaginare in quale sembiante il dispotismo apparirà nel mondo, vedo una folla im-mensa di uomini tutti simili, che girano senza posa su se stessi per procurarsi i piaceri minuti e volgari di cui nutrono la propria anima. Ognuno di loro considerato in sé è come estraneo al destino di tutti gli altri, i figli e gli amici più vicini esauriscono per lui l’intera specie umana, e quanto al resto dei concittadini, non li vede: li tocca ma non li sente. E se ancora la famiglia ha qualche significato per lui, è la società a non averne più alcuno. Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique (1840)

1. “Corporate philanthropy”: origini storiche e modelli evolutivi tra Stati Uniti ed Europa Negli Stati Uniti, la pratica della “corporate philanthropy” ha una tradizione di lungo periodo che risale alla fine del XIX secolo, in concomitanza con la costruzione delle grandi ferrovie e l’espansione verso il West. La costruzione di case per gli operai e di servizi di supporto fu il principale scopo di un’azione promossa da grandi imprese come la Kansans Railroad e da associazioni locali come la YMCA (Young Man Christian Association)1. Fino ai primi anni cinquanta del XX secolo, tut-

* La versione preliminare di questo saggio è stata presentata e discussa all’EFC Spring Symposium. The Role of Foundation of Chief Executives, organizzato dall’European Foundation Centre e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Roma il 6-7 Marzo 2003 presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Roma. È in stampa una versione ridotta di questo saggio nella rivista “Queste Istituzioni”. Desidero ringraziare Antonella Cardellicchio e Rosanna Scatamacchia per i loro preziosi commenti nella revisione del paper. 1 Frank W. Blackmar, Kansas: a Cyclopaedia of State History, Embracing Events, Institutions, Industries, Counties, Towns, Prominent Persons Standard Publ. Co., Chicago, 1912, cit. in P. Evangelista, From Corporate Philanthropy to Strategic Corporate Citizenship, Tesi Finale, Master in International Studies in Philanthropy-MISP, Università di Bologna, 2003-2004.

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tavia, questi casi di collaborazione tra imprese ed associazioni non profit furono relativamente poco numerosi. In questo periodo, la “corporate philanthropy” restò, infatti, sostanzialmente confinata ai settori di competenza delle singole imprese e alla logica propria del business, non si espresse, cioè, nella forma di attività rivolte a sostenere le esigenze delle comunità di riferimento. “The rationale – scrive John Yankey, in uno dei primi studi dedicati agli sviluppi della “corporate philanthropy” nel contesto nord-americano – was that management’s primary responsability was to shareholders and to their return on investment2”. Naturalmente non sono mancate le eccezioni, soprattutto nell’ambito del sostegno fornito dai magnati della grande impresa statunitense, John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, George Eastman e altri, allo sviluppo delle organizzazioni non profit, in particolare nel settore dell’assistenza medico-sanitaria e della formazione universitaria, col potente sostegno fornito allo sviluppo delle più prestigiose università, sulla costa dell’Est e dell’Ovest. La filantropia promossa dai grandi industriali americani ha assunto, sin dall’inizio del XX secolo, una connotazione scientifica, fondandosi su modelli organizzativi che si rifacevano a quelli della grande impresa, sulla definizione di programmi a medio-lungo termine, su processi di selezione rigorosa dei beneficiari dei grants, impiegando amministratori dotati di competenze e di professionalità specifiche, e soprattutto dotandosi di un modello istituzionale specifico: le fondazioni private. Benché generate dal patrimonio derivato da un’attività imprenditoriale, queste vanno distinte dalle fondazioni d’impresa, che internalizzano la funzione filantropica mantenendo con l’impresa stessa relazioni di prossimità sociale, organizzativa e gestionale, mentre le fondazioni private di matrice imprenditoriale si basano sul principio del trust, affidano cioè a trustees la gestione del patrimonio e ad amministratori professionisti (execu-

2 John A. Yankey, Corporate Support of Nonprofits organizations. Partnerships across the Sectors, Dwight F. Burlingame e Dennis R. Young, Corporate Philanthropy at the Cross Road, Indiana University Press, Bloomington, 1998, p. 8.

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OSSIMORI: I VANTAGGI COMPETITIVI DELLA FILANTROPIA D’IMPRESA

tives, program officers) la programmazione e la gestione dell’attività erogativa. Inoltre va sottolineato che la filantropia scientifica statunitense, che si è espressa nella creazione di grandi fondazioni private, ha avuto, nel corso del XX secolo, un impatto su scala prevalentemente nazionale ed internazionale. A livello locale e regionale la crescita di forme di collaborazione tra le fondazioni d’impresa e il contesto civile, sociale ed economico in cui le imprese stesse si sono sviluppate, è stata, ad un tempo, un fenomeno più contenuto e più recente3. E questo anche perché accanto alle grandi fondazioni private si sono sviluppate con molto anticipo rispetto all’Europa, le “community foundations”, prevalentemente radicate nelle aree regionali, locali ed urbane. Considerando la diversa scala di crescita del sistema industriale in Europa e il prevalere di modelli di sviluppo capitalistico in cui l’impresa è stato soltanto uno dei punti di riferimento ed in cui sono prevalse forme di concentrazione patrimoniale legate alle grandi famiglie industriali, ovvero tecnostrutture a dominante statuale4, è interessante e per certi versi paradossale osservare il pionieristico sviluppo nel contesto europeo di “fondazioni d’impresa”, con la connotazione specifica di fondazioni votate alla crescita della cittadinanza sociale e culturale del territorio di riferimento e, dunque, alla costruzione di una “corporate citizenship”. La Zeiss Stiftung in Germania, ad esempio, ha rappresentato un’originale articolazione tra impresa, università e governo territoriale. In Italia, nei primi anni cinquanta, Adriano Olivetti, riprendendo il modello della Zeiss, progettò una fondazione che avrebbe dovuto costituire il vettore della circo-

3 B. Googins, The Journey Towards Corporate Citizenship in the United States-Leader or Laggard, The Center for Corporate Citizenship, Boston College, 2002. 4 Si v. al proposito il classico saggio di Alfred D. Chandler jr., Scale and scope: the dynamics of industrial capitalism, Cambridge (Mass.), 1990 e, più recentemente, il volume a cura di M. Orrù, N. Biggart, e G. G. Hamilton, The Economic Organization of East Asian Capitalism, Sage, London, 1997 che sviluppa un interessante approccio analitico di tipo comparativo tra i modelli di sviluppo del capitalismo occidentale e quelli che si sono delineati nel continente asiatico.

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larità tra i valori d’impresa e la crescita della comunità del Canavese. Il progetto della fondazione costituì il suo testamento. Il 18 febbraio del 1960, a pochissimi giorni dalla sua repentina scomparsa, avvenuta il 27 febbraio dello stesso anno, Olivetti aveva, infatti, depositato presso il notaio Carocci5 il progetto di statuto in cui si dichiarava che la Fondazione, creata in memoria del padre Camillo, avrebbe dovuto avere come scopo “lo sviluppo sociale e scientifico del Canavese”; rafforzando il coordinamento tra sviluppo del territorio e relazioni industriali. E questo nella direzione di un maggiore coinvolgimento dei dipendenti nella progettazione di un’imprenditorialità a part entière, rivolta cioè non solo alla crescita del profitto ma delle capacità dei singoli a generare valori sociali e culturali in grado di potenziare la crescita civile delle comunità di riferimento. Il disegno olivettiano di una nuova fondazione d’impresa era volto a realizzare il processo di coordinamento delle molteplici iniziative di organizzazione della cultura e della ricerca in ambito sociale e nella progettazione urbanistica, da lui avviate nel corso degli anni cinquanta6. La matrice di tale disegno risiedeva nella valorizzazione strategica delle competenze come fattori di rigenerazione della dinamica di formazione e selezione delle élites nel nostro paese. Il motore di questo processo avrebbe dovuto essere il diffondersi di una cultura imprenditoriale centrata sull’integrazione verticale, in ambito sociale, ed orizzontale, nella configurazione sociale dell’impresa, della catena del valore, vale a dire di un’imprenditorialità capace di generare non solo ricchezza in termini lucrativi ma in termini culturali, etici e di progettualità a flusso continuo. E questo grazie all’emergere, a tutti i livelli dell’organizzazione dell’impresa di figure istituzionali capaci di internalizzare questo tipo di cultura e di renderla operativa e ripro5 Lettera di Alberto Carocci a Roberto Olivetti del 29 aprile 1960 contenente la bozza di statuto della fondazione datata 18 febbraio 1960 Archivio Storico della Società Olivetti, Ivrea, fondo Roberto Olivetti. 6 Su questo aspetto rimando al mio Progettualità ed organizzazione tra Europa e Stati Uniti: le origini della Fondazione Adriano Olivetti, in “Società e storia”, n. 90, 2000, pp. 757-790.

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duttiva, attivando una matrice istituzionale basata sulla sintesi organizzativa, a carattere evolutivo, tra cultura, territorio e impresa, in sintonia col processo di trasformazione sociale e economica in atto nell’Italia degli anni cinquanta. Sotto questo profilo, la fondazione disegnata da Olivetti doveva avere il compito non solo di valorizzare la collaborazione tra enti pubblici e privati, ma anche, in forma davvero anticipatrice ed innovativa, di espandere e sostenere l’impatto della social entrepreneurship nel processo di trasformazione dei più vasti sistemi in cui essa era incorporata7, favorendo la crescita culturale in termini di competenze, di progettualità innovative e di civile partecipazione dei singoli componenti l’azienda: operai e dirigenti ma anche responsabili dei servizi sociali e del servizio studi dell’impresa, i quali, nell’ottica olivettiana, ne costituivano la struttura organizzativa sullo stesso piano di coloro che operavano nell’ambito dell’apparato produttivo e commerciale. Per ragioni che sarebbe troppo lungo ripercorrere in questa sede e che hanno molto a che vedere con la sorda resistenza delle istituzioni italiane e di una larga parte del mondo industriale ad accettare la visione strategica di Olivetti, fortemente differenziata dal capitalismo familistico e dal suo correlato speculare, l’assistenzialismo statuale quale correttivo alle criticità del sistema (come dimostrano le vicende di “normalizzazione” cui fu sottoposta l’impresa di Ivrea dopo la scomparsa di Adriano8), il percorso d’integrazione tra istituzioni non profit, impresa e società, che scaturiva da tale disegno, ha subito un’interruzione. Tale interruzione, che ha generato un “missing link” nello sviluppo della cultura d’impresa in Italia, è stata inframmezzata da ritorni e reminiscenze, talora spontanee, talaltra “strumentali”, ma sostanzial-

7 A. D. Brown e Ch. Letts, Social Entrepreneurship and Social Transformation: an Explanatory Study, The Hauser Center for Nonprofits Organizations, Harvard University, november 2002, Working paper 15, p. 15. 8 Si veda al proposito il saggio di G. Gemelli e F. Squazzoni, Informatica ed elettronica negli anni Sessanta. Il ruolo di Roberto Olivetti attraverso l’archivio storico della Società Olivetti, in “Le carte e la storia”, n. 1, 2003, pp. 161-178.

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mente incapaci di un reale innesto nella società e nella cultura imprenditoriale del nostro paese. Questa interruzione ha favorito il consolidarsi di una congiuntura politica nettamente sfavorevole alla cultura d’impresa, cui ha fatto riscontro il cristallizzarsi di un “marcato deficit di legittimità morale” dell’impresa che ha contribuito a limitare le potenzialità d’impatto sulla società italiana di “ampie visioni industriali e tecnologiche, atte a tradursi in una politica industriale specificamente mirata ad uno sviluppo di settori chiave dell’economia”9. L’interruzione e la delegittimazione della cultura d’impresa come vettore di cittadinanza civile, morale e scientifica, è durata sino alla fine del secolo scorso, allorquando l’orientamento olivettiano è sembrato riemergere, talora con effetti di ostentazione, talaltra col dichiarato obiettivo di appropriarsi di un’eredità che non era stata reclamata per lungo tempo. Ciò è accaduto, in modo prevalente, sulla scorta della proliferante attrazione esercitata, a partire dalla fine degli anni novanta, dal diffondersi delle tematiche della Responsabilità Sociale nel contesto delle Imprese (RSI) e dell’esigenza di proiettare questo orientamento in un retroterra culturale ed ideale legittimante. Questo processo di captazione di un héritage senza eredi nel mondo dell’impresa italiana lascia aperti alcuni interrogativi di fondo. Ci si chiede se ci troviamo di fronte ad un processo di enantiodromia, cioè, di accelerata corsa all’indietro nel tempo, che rimette in circolo il modello olivettiano, in un contesto consono alla piena attuazione del modus operandi da esso proposto in forma pionieristica e certamente asimmetrica rispetto ai tempi evolutivi della società e soprattutto della organizzazione dell’impresa nell’Italia del secondo dopoguerra; oppure se non si tratti, nella maggior parte dei casi, di captazioni di tipo strumentale. Queste fanno riemergere quel modello non come una matrice culturale, come un lascito ideale in grado di fertilizzare dall’interno l’impresa, ma piuttosto come un fossile marino, che si dota di proiezioni tenta-

9 L. Gallino, Se tre milioni vi sembrano pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Einaudi, Torino, 1998, p. 201. Dello stesso A. si v. inoltre La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003.

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colari le quali rappresentano altrettante “scorciatoie” di accreditamento delle imprese, nel loro tentativo di qualificarsi come istituzioni collegate alla società civile, ma che, lungi dal collocarsi concretamente in un retroterra ideale e progettuale che aveva reso possibile – seppure in via sperimentale e del tutto isolata – quel collegamento, sono volte, piuttosto a realizzare l’ottimizzazione di un plusvalore economico ed in primis finanziario, ammantandolo delle risorse falsamente competitive dei codici etici. In questa situazione di forte ambivalenza emerge un percorso in cui diventa sempre più difficile – se non entrando con rigore nella cultura organizzativa delle singole imprese – distinguere chi pratica effettivamente, a tutti i livelli dell’impresa, la ricerca della catena intrecciata dei valori – tra risorse economiche del mercato e valorizzazione dell’investimento sociale – da chi usa i codici etici come una sorta di maquillage che esternalizza ciò che non è esternalizzabile perché estraneo ad una cultura aziendale che importa valori senza essere, a sua volta, in grado di produrli. Un’ambivalenza che appare connaturata ad un contesto in cui dominano processi di riduzione, per non dire di risoluzione, dell’impresa alle sue componenti finanziarie, rispetto alla crescita dei valori di riferimento dell’agire imprenditoriale come principio di trasformazione centrato sul nodo inscindibile tra efficienza dell’investimento economico e potenziamento intensivo ed estensivo dei valori civili e sociali. Sviluppatosi nell’ambito dei progetti inerenti la riforma del welfare, il dibattito sulla RSI ha favorito in Italia la creazione di una fitta rete di nuclei operativi per la definizione degli standards etici, che si sono rapportati alle già esistenti reti europee (si pensi in particolare all’European Business Network for Social Cohesion che ha portato alla creazione del network CSR Europe), con una conseguente fioritura di siti web dedicati a queste tematiche. Questa espansione appare, nondimeno, in tutta la sua criticità se si considera che la problematica della CSR si è delineata, in Italia, in assenza di un continuum storico consolidato e in un retroterra di cultura imprenditoriale restato a lungo impermeabile alla “social enterpreneurship”, e che, come tale, per orientarsi in un contesto emergente di vincoli etici al profitto economico, tende a 99


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servirsi di strumenti di navigazione forniti dall’esterno (gli standards normativi), mentre dovrebbe essere guidato da finalità ed obiettivi nati all’interno delle imprese, sulla base di culture imprenditoriali assimilate e riflessivamente orientate al loro consolidamento processuale. Il problema che ci poniamo è se in Italia, dopo decenni di sostanziale oblio, sia improvvisamente ri-emersa la forma progettuale di un ossimoro che, proponendo nuove forme di articolazione tra profit e non profit, si stia posizionando nel solco originariamente tracciato da Olivetti, in un contesto che, all’epoca, si configurò come altamente inospitale, proponendo un intreccio tra valori del profitto economico e imprenditorialità dedicata al processo di “incivilimento”; ovvero, se non ci troviamo, invece, di fronte ad un processo in cui prevalgono, ancora una volta, le astuzie del mercato, producendo, sotto l’egida dei codici etici, false osmosi valoriali. L’interrogativo è, dunque, se, in una tale situazione di ambivalenza evolutiva, si ripropongano, di fatto, modelli riduzionistici della complessità sociale. La dinamica della concorrenza si esprime nella crescita di nuovi attori istituzionali che operano nella sfera del mercato, secondo sistemi di valori non riducibili agli obiettivi ed alle modalità della ricerca del profitto, come fine esclusivo dell’agire economico ovvero, al contrario, si manifesta nel contenimento delle potenzialità trasformatrici connesse all’emergere di tali attori e al radicarsi propositivo delle loro aspettative di ruolo queste aspettative integrano, infatti, la logica distributiva – centrata sull’individuazione di correttivi agli eccessi del capitalismo – con quella commutativa, che valorizza il ruolo delle identità comunitarie e societarie come vettori proattivi dei nuovi modelli di un’imprenditorialità “responsabile”. Tale ambivalenza evolutiva, che ostacola il processo di crescita di un mercato sempre più imperfetto e dinamicamente aperto a nuovi attori sociali ed istituzionali, mentre conclama la realizzazione dell’intreccio tra valori economici e valori sociali, si nutre di una duplice ed antagonistica movenza: la simulazione adattiva, nella comunicazione interna ed esterna all’impresa, dell’intreccio sopra evocato e l’intensificazione dei processi di trasformazione finanziaria delle forme organizzative e delle strategie dell’agire imprenditoriale. 100


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Stante la definizione di tale agire enunciata nell’introduzione a questo volume, come attività che, basandosi sul principio della generazione responsabile, contiene in sé anche il principio del dono, come ricezione altrettanto responsabile e, dunque, in grado di generare, a sua volta, innovazione, secondo una catena valoriale che si nutre degli stessi principi, come si coniugano agire imprenditoriale e agire filantropico, in un contesto caratterizzato da una forte incertezza evolutiva? Se si accetta l’approccio concettuale sopra enunciato, l’ossimoro non è il risultato del divenire adattivo – e per molti versi strumentale – di un’impresa che assimila dall’esterno valori non economici, ma è la sua stessa origine: l’impresa, infatti, non è soltanto una modalità dell’agire economico volta al profitto che, per aumentare la propria capacità di generare tale profitto, può, eventualmente, incorporare l’agire filantropico, come risorsa spendibile sul mercato. Quest’ultimo è, al contrario, originariamente fondante rispetto all’agire imprenditoriale in quanto cellula generatrice di attività ad impatto sociale, in quanto fattore di incivilimento attraverso l’investimento e di investimento attraverso la valorizzazione dei benefici che il processo di incivilimento produce per il maggior numero possibile di individui, una volta che costoro hanno superato la soglia storica della produzione di beni materiali destinati alla sopravvivenza e al mantenimento della specie10. Dove risiede, allora, il vantaggio competitivo nella dimensione testé enunciata? Nell’assunzione di regole, di norme e di comportamenti etici a cui conformarsi, ovvero in un modus operandi che crea vincoli basati sulla fiducia? Tale modus operandi configura l’impresa non come un contenitore di norme legittimanti il suo agire, ma come un vettore istituzionale, come una cellula generatrice non di norme codificate ma di un processo normativo, kantianamente inteso come principio regolativo di un’agire che, generando responsabilmente, tende a produrre for-

10 Si v. il saggio di P. Sacco, Prendere la cultura sul serio? Essere competitivi nell’economia post-industriale, in Cultura e Competitività. Per un nuovo agire imprenditoriale, a cura dell’Osservatorio Impresa e Cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2003, pp. 39-63.

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Blended Values in Philanthropy Pure Philanth ropy Social and Econom ic Value Created

Advancing Knowledge Defining exit-strategy Social Benefit

Improving the p erformance of grant recipients Sign aling oth er funders Selecting the best grantees

Pure Business Econom ic Benefit

Grafico elaborato a partire dalle ricerche di T. Emerson e M. Porter.

me di ricezione altrettanto responsabili dei benefici da esso prodotti nel contesto di riferimento. È da questo processo che scaturisce la catena del valore e, con ciò, il riconoscimento reciproco – all’interno dell’impresa e nel sistema di riferimento – dei patrimoni incorporati dal suo agire, patrimoni non riducibili al valore economico dell’impresa, ma che si riferiscono anche alla cultura derivata dal suo essere principalmente un attore istituzionale nella e per la società civile. Un patrimonio che proprio per i motivi enunciati, risulta inalienabile dalla sua matrice e, dunque, non trasferibile quando questa matrice si disintegra nei processi di finanziarizzazione dell’impresa. 2. L’alleanza collaborativa come fattore strategico. Concetti, modelli, esperienze Per fare chiarezza sui percorsi della “filantropia d’impresa”e sui suoi potenziali effetti nella riconfigurazione delle strategie del giving, sia da parte delle imprese, sia da parte delle fondazioni che ambiscono ad agire come imprenditori sociali, è opportuna un’analisi di come essi 102


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si siano andati delineando in contesti che, come quello statunitense, ne hanno visto la crescita e lo sviluppo sostanzialmente senza soluzione di continuità dagli anni cinquanta ad oggi. In effetti, negli Stati Uniti tale percorso, a partire dai grandi pionieri del “corporate giving” degli anni quaranta (Frank Abrams della Standard Oil, Alfred Sloan della General Motors, Arthur Page dell’AT§T), si è sviluppato per tutta la seconda metà del Novecento, entrando, dagli anni novanta, in una fase di riorganizzazione, che ha modificato finalità, organizzazione e cultura della “filantropia d’impresa”. Il primo fattore di cambiamento negli Stati Uniti fu l’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi, intorno alla metà degli anni cinquanta, a seguito di un caso divenuto famoso nella giurisprudenza americana (A. P. Smith Manufacturing Company versus Barlow). Tali provvedimenti stabilirono che le corporations potessero sostenere le charities, anche se questo tipo di sostegno non aveva a che vedere col tipo di prodotti delle imprese, ribadendo il principio che la salvaguardia delle attività delle “voluntary associations” e lo sviluppo dell’iniziativa privata facevano parte della stessa visione: “the freedom of individuals to pursue their own ideas11”. Gli effetti del reaganismo, negli anni ottanta, hanno prodotto un lento ma incisivo processo di crescita della consapevolezza delle imprese nei confronti del “charitable giving”: si è, così, delineata l’esigenza di introdurre elementi di riflessività strategica e ha preso corpo una maggiore attenzione a selezionare ambiti di intervento ad alto potenziale di incisività sui problemi sociali cruciali e di impatto sul lungo periodo. L’accentuazione, da parte delle imprese, di tali orientamenti nei confronti del settore non profit è all’origine del consolidarsi di un insieme di pratiche che, a partire dagli anni novanta, sono state identificate in un ossimoro: la “corporate philanthropy”. Esso ha il suo corrispettivo nel concetto di filantropia d’impresa, luogo di articolazione tra profitto e dono, tra un’agire imprenditoriale che si volge alla 11 J. Shannon, Corporate Contributions Handbook, Jossey-Baas Publishers, San Francisco, 1991, pp. 47-48.

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produzione di benefici sociali e un’attività non profit che si volge a consolidare i propri assetti organizzativi, svincolandosi dal suo essere interamente dipendente da una raccolta fondi destinata ad assicurarne la semplice sopravvivenza. E questo attraverso il potenziamento delle capacità di pianificazione strategica, incluse quelle inerenti gli investimenti economici, nel proprio operare a livello territoriale e delle comunità di appartenenza. Questo processo di allineamento di due aspetti che la teoria economica classica ha considerato irrelati, il principio del profitto legato alla logica impersonale del mercato e quello della comunità legato alla logica solidaristica delle identità e dei gruppi che interagiscono nello spazio sociale, è qualche cosa di diverso sia dalle pratiche di sponsorship, destinate ad alimentare i circuiti di visibilità dell’impresa, sia dall’insieme delle norme che qualificano, dall’esterno, le imprese come vettori di responsabilità sociale, sulla base di standards certificati e destinati, in prima istanza, ad accrescerne la legittimità rispetto ai consumatori e dunque, di nuovo, a privilegiare la dimensione del mercato. Quale è allora l’elemento che qualifica questo ossimoro, come intrinseca assimilazione che unisce logica degli affari ed etica del dono? Il punto focale della filantropia d’impresa, che coniuga armoniosamente ciò che la teoria economica classica aveva separato come antinomia irriducibile12 – salvo ricomporlo, in modo strumentale, nella sfera della contrattazione rivolta a contenere il conflitto tra le parti sociali – è rappresentato dal principio dell’alleanza collaborativa, tra l’impresa, come istituzione garante del patrimonio economico e valoriale di riferimento e le istituzioni non profit, come vettori di radicamento operativo della “catena dei valori intrecciati”, l’economico e il sociale. Il connotato più rilevante non è tanto o, quantomeno,

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Sul ruolo della riflessione sulle forme di imprenditorialità nel non profit come fattori di ripensamento critico dell’economica classica si v. J. Korhonen, The Dominant Economics Paradigm and Corporate Social Responsibility, in “Corporate Social Responsibility and Environmental Management”, n. 6, 2002, pp. 67-80.

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non è soltanto l’adesione ad un insieme di principi etici, standardizzati in norme, ma è l’effetto di un processo di fertilizzazione incrociata. Esso riguarda il sistema dei valori e la crescita di culture organizzative condivise, attraverso un percorso di interconoscenza processuale degli attori istituzionali, in grado di trasformare le forme di collaborazione da una fase transazionale a una reale integrazione delle “mentalità”, delle reti di relazione, della condivisione dei benefici dell’azione comune, dell’equivalenza degli investimenti e delle strutture organizzative dedicate allo sviluppo della partnership. E questo sia nell’ambito del management, sia rispetto all’emergere di nuove forme di leadership, che si qualificano come altrettanti vettori di processi di apprendimento continuo e di innovazione processuale. Le tabelle che seguono, tratte dal saggio di James Austin13 The Collaboration Challenge, illustrano gli effetti di modificazione delle forme di collaborazione dall’approccio filantropico al modello integrativo. Tab. 1 - Relationship stage Philanthropic Transactional Integrative Level of engagement

Low

→→→→→→→ High

Importance to mission

Peripheral

→→→→→→→ Strategic

Magnitude of resources

Small

→→→→→→→ Big

Scope of activities

Narrow

→→→→→→→ Broad

Interaction level

Infrequent

→→→→→→→ Intensive

Managerial complexity

Simple

→→→→→→→ Complex

Strategic value

Modest

→→→→→→→ Major

Fonte: J. Austin, The Collaboration Challenge

Riguardo alle tematiche emergenti in Italia attorno al nodo della Responsabilità Sociale delle Imprese, ciò che è 13

J. Austin, The Collaboration Challenge. How nonprofits and Business Succeed Through Strategic Alliance, Jossey-Bass Publishers, San Francisco, 2000.

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importante rilevare, a partire dal confronto con le esperienze statunitensi degli ultimi venti-venticinque anni, è che nel contesto nord-americano è stato necessario introdurre criteri di valutazione qualitativi, come dimostra la creazione di networks di ricerca, quali ad esempio il Global Compact delle Nazioni Unite, centrati sulla produzione di singoli casi di imprese che praticano la CSR (RSI), rigorosamente vagliati attraverso il sistema della peer review. È evidente, infatti, che, nella pur ricca esperienza statunitense, non tutti i programmi di Responsabilità Sociale delle Imprese hanno dato luogo all’armoniosa articolazione dell’ossimoro che denota in forma strategica la collaborazione tra agire imprenditoriale ed agire filantropico. È chiaro, cioè, che la selettività qualitativa, evidenziata dall’accurata ricostruzione dei singoli casi aziendali, in una prospettiva che includa anche la dimensione storico-evolutiva dell’impresa, è d’obbligo per evidenziare questo passaggio tutt’altro che irrilevante. Si tratta, in definitiva, di contribuire a definire con maggiore chiarezza e “praticità” la differenza tra gli approcci che caratterizzano la CSR (RSI), come insieme di codici etici che definiscono i comportamenti aziendali interni ed esterni, e quelli che sono propri della “corporate philanthropy” (filantropia d’impresa), come partnership strategica. Si tratta di approcci che, sovente, si prestano a confusione e/o sovrapposizioni mentre, pur facendo parte entrambi del contenitore inerente la problematica del ruolo dell’impresa nella società, possono presentare differenziazioni sostanziali, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra le imprese e le istituzioni non profit. Come ha chiaramente rilevato Michael Porter la “Corporate Social Responsibility [...] is not philanthropy. It is just fullfilling the basic conditions of operating as a business within a society [...] mitigating or removing any operational harm that companies do, in particular environmental harm [...] using natural resources in a way that does not deplete them or at least not deplete them unnecessarily”14. Da

14 Michael E. Porter, Corporate Philanthropy: Taking the High Ground, Foundation Strategy Gropu, 2003, www.foundationstrategy.com

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questo punto di vista la CSR (RSI) è più difensiva che proattiva, mentre la “corporate philanthropy” ha come finalità la creazione di valore sociale, non riducibile all’incremento di reputazione per l’impresa, ma spendibile come risorsa collettiva, sulla base dell’assunto che il miglioramento dell’ambiente in cui opera (dal punto di vista non solo delle condizioni materiali, ma dell’educazione, della formazione professionale, delle forme di cittadinanza come partecipazione proattiva) giova simultaneamente alle imprese e alle comunità che fanno parte del loro stesso contesto. Infatti, nel caso della “corporate philanthropy” è all’opera una qualificazione dell’etica non tanto come sistema prescrittivo o come sub-sistema di regole di ottimizzazione gestionale, ma come visione processuale che orienta l’azione verso il potenziamento dell’autonomia degli attori, una visione regolata dalla consapevolezza del limite, incluso quello connesso ai vincoli dell’azione collaborativa. I casi presentati da James Austin nel libro The Collaboration Challenge rivelano che la realizzazione di un’alleanza strategica tra for profit e non profit è un processo molto complesso, che richiede tempo e attivazione, in entrambi i settori, di processi di formazione di personale “dedicato” al rafforzamento della coesione. E questo, sia rispetto ai processi di chiarificazione e consolidamento degli obiettivi, sia rispetto alla congruenza della strategia e del sistema di valori che deve rivelarsi adeguato, non solo a sostenerla, ma anche a promuovere nuovi valori condivisi; valori che agiscano come altrettanti vettori di apprendimento continuo, in una circolarità autopoietica che, in quanto tale, non necessita di input normativi dall’esterno. Tra i casi presentati da Austin, è particolarmente emblematico quello della partnership tra la Timberland, famosissimo marchio di scarpe ed abbigliamento sportivo, e City Year, un’associazione non profit che organizza giovani di diversa provenienza etnica e di diversa estrazione sociale in gruppi di lavoro per una vasta gamma di servizi sociali, soprattutto a livello delle scuole pubbliche e dei centri giovanili. L’esperimento di partnership strategica condotta dal 107


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Presidente della Timberland, Jeffrey Swartz15, dimostra le potenzialità di attecchimento e disseminazione di una “corporate philanthropy” non meramente strumentale ma di tipo processuale e evolutivo. Nel 1989 Swartz ricevette una lettera da City Year nella quale si esponevano in sintesi le ragioni per le quali era impossibile per 50 cittadini di Boston partecipare in maniera attiva alla vita comunitaria, semplicemente perché non possedevano scarpe. La richiesta fu accolta dal Presidente e fu all’origine di una collaborazione che nell’arco di dieci anni si è trasformata in forma esponenziale non solo dal punto di vista dei finanziamenti all’organizzazione non profit ma anche delle forme di progettualità imprenditoriale della Timberland. Alan Khanei, co-fondatore di City Year, non si limitò a ringraziare la Timberland per il dono ricevuto ma sollecitò un incontro con Swartz per spiegargli che il suo compito non poteva limitarsi ad essere il leader di un’impresa di successo dal punto di vista commerciale, ma che le sue attività imprenditoriali avrebbero potuto produrre uno straordinario impatto sociale se avesse unito le sue capacità organizzative a quelle progettuali di City Year. Un piccolo team della Timberland fu affiancato a membri della non profit per lavorare insieme a un gruppo di giovani precedentemente dediti all’uso di sostanze stupefacenti. Da quella prima esperienza, la Timberland è divenuta il principale sostegno di City Year e dei suoi oltre 1000 aderenti che, come volontari, operano a sostegno dell’attività educativa e ricreativa dei gruppi giovanili e delle loro comunità di appartenenza. Negli anni la relazione tra Timberland e City Years è passata dalla logica erogativa – I’ve got boots and you don’t – a vera e propria intrapresa, in grado di suscitare attraverso le forme di una partnership ispirata al principio della reciprocità e non dell’uso strumentale dell’altro, una piena integrazione nella catena del valore, come investimento nella società e per la società – What can we do for each other? –. La con15 Jeffrey Swartz, presidente e chief executive officer della Timberland Company coordina numerose organizzazioni il cui scopo è il rafforzamento della giustizia sociale, tra le quali il Business for Social Responsabilità ed i Combined Jewish Philanthropies of Greater Boston.

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divisione dei progetti ha aiutato la Timberland a sviluppare un percorso in cui l’agire filantropico si è espresso come una funzione integrata a tutti i livelli dell’impresa, generando un altro potenziale di impegno a favore delle comunità di riferimento, che si è progressivamente tradotto in cultura organizzativa. Nel frattempo City Year è stata in grado di acquisire e di affinare le competenze organizzative tipiche di una corporate. La chiave del successo dell’iniziativa promossa dalla Timberland non consiste tanto sulla quantità di finanziamenti erogata quanto sulla disponibilità della società nel mettere a disposizione di City Year le proprie competenze gestionali e condividendo, sul campo, anche attraverso l’ausilio di questi strumenti, le esperienze di City Year. La condivisione dei progetti ha consentito alle due organizzazioni non solo lo scambio delle rispettive best practices ma un’osmosi progettuale che ha prodotto un rafforzamento della partnership operativa attraverso una migliore conoscenza dei rispettivi punti di forza e di debolezza (internalizzazione dei vincoli e controllo riflessivo delle opportunità). Timberland ha stimolato le capacità organizzative di City Year, che ha potuto espandersi su tutto il territorio nazionale; dal canto suo, City Year ha svolto un ruolo centrale nel potenziare le proprie strategie di offerta di servizi per le comunità, con un impegno di circa 20.000 ore lavorative, e il pieno coinvolgimento del personale della Timberland in questa attività. Nella maggior parte dei casi elaborati da Austin, l’alleanza strategica tra business e non profit è naturalmente inscritta nei percorsi e nelle finalità delle istituzioni che decidono di avviare un percorso collaborativi. È il caso, ad esempio, della relazione tra l’American Human Association, che sostiene la causa animalista a livello nazionale, e la Ralsin Purina, che è la più grande produttrice di cibo per animali su scala mondiale. Esse hanno avviato un programma congiunto, “Pets for People”, volto ad incoraggiare le adozioni di animali. In altri casi le finalità dell’alleanza sono meno evidenti o, come nel caso della collaborazione tra The Nature Conservacy and Georgia-Pacifc, le finalità nascono addirittura da una trasformazione collaborativa di un’originaria situazione di contenzioso. 109


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“The former – osserva Austin – wanted to preserve the land untouched, the latter to use it intensively. However, mounting environmental pressures on the forestry industry and growing difficulties for environmentalists in gaining control of ecosystems through land purchases led these organizations to reassess their opposing strategies16”.

Il punto di arrivo della collaborazione è stato l’avvio nel 1994 di una gestione congiunta di un’area forestale in North Carolina. Come illustra la tabella tratta dal libro di Austin (tab. 2), il punto focale del passaggio dall’approccio puramente filantropico alla definizione di un approccio strategico, fondato su processi di collaborazione intersettoriale, si delinea quando l’impresa ridefinisce i propri assetti gestionali in funzione delle nuove forme di operatività nel non profit. Esso ha il suo pieno consolidamento quando l’impresa è in grado di trasmettere questa operatività al proprio personale, come parte rilevante della cultura aziendale, identificandone il ruolo tra le componenti di valutazione dell’impatto aziendale. D’altra parte, dal punto di vista del non profit, il risultato più tangibile è la crescita delle abilità organizzative e degli assetti inerenti la comunicazione interna e esterna, nella direzione di un orientamento in cui la ricerca della stabilizzazione istituzionale e organizzativa costituisce la razionale del fund-raising e non viceversa. Il fund-raising viene internalizzato e costituisce un fattore strategico, non una funzione di tipo estemporaneo legata alle contingenze dell’istituzione. In sostanza, ci troviamo di fronte alla riproposizione in chiave operativa dell’approccio delineato da Alfred D. Chandler Jr., a proposito del rapporto strategia-struttura, in cui è quest’ultima che si adatta all’orientamento strategico, assumendo una configurazione processuale e non viceversa17. È inoltre evidente che queste esperienze generatrici di impatto a livello di mutamento sociale sono nate originariamente nell’ambito di imprese che, seppure 16

J. Austin, The Collaboration Challenge cit., p. 4. Alfred D. Chandler jr., Strategia e struttura: storia della grande impresa americana, F. Angeli, Milano, 1980. 17

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Integrative Partnering mind-set Increased understanding and trust We mentality in place of us versus them

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Fonte: J. Austin, The Collaboration Challenge

Overlapping mission and values Broad scope of activities of strategic significance Shared visioning at top of Relationships a strategic tool organization Shared values Collaboration Generic resource transfer Core competency exchange Projects identified and developed value Un equal exchange of resources More equal exchange at all levels in the organization of resources with leadership support Projects of limited scope and Joint benefit creation risk that demonstrate success Need for value renewal. Shared-equity investments for mutual return Relationship Corporate contact person usually Expanded personal relationships Expanded opportunities management in community affairs or foundations; throughout the organizations for direct employee involvement non profit contact person usually in relationship in development Strong personal connectionat Deep personal relationship across Corporate personnel have minimal leadership level organizations personal connection to cause Emerging infrastructure, Culture of each organization Project progress typically communicated including relationship managers influenced by the other via written status report and communication channels Partner relationship managers Minimal performance expectation Explicite performance expectation. Informal learning Organizational integration in execution, including shared resources Active learning process

Philanthropic Transactional Collaboration Gratefulness and Charity mind-set Syndromes Minimal collaboration in defining activities Separateness Strategic Minimal fit required beyond a shared alignment interest in a particular issue area

Tab. 2 - Collaboration Continuum: Partnership Characteristics

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innovative, non rientrano nell’ambito esclusivo di quelle delle tecnologie informatiche. In tale senso appare evidente che la filantropia d’impresa ad alto potenziale strategico non si identifica in modo assoluto e precipuo con quella generata dalla new economy e che nel corso degli anni novanta è stata prevalentemente etichettata come “venture philanthropy”. Ritorneremo su questo aspetto. Per il momento ciò che preme rilevare sono gli effetti del cambiamento sociale, inteso anche come forza trasformatrice di comportamenti e di mappe mentali, indotto dalla disseminazione di strategie di collaborazione, votate al consolidamento di valori intrecciati (“blended values18”) tra comunità e impresa, come quelle che abbiamo sopra delineato, con l’ausilio di alcuni esempi. 3. Il Ruolo creativo degli Imprenditori Civici Il processo di costruzione strategica delle alleanze collaborative implica, infatti, anche un effetto di allargamento delle cerchie sociali di riferimento e crea le condizioni per un potenziale effetto a catena che rimodella, plasmandolo secondo un nuovo orizzonte valoriale, l’ambiente di riferimento, suscitando aggregazioni “inedite” tra gli attori sociali pubblici e privati, stimolando la crescita di nuovi attori istituzionali nel mondo dell’impresa, come quello delle comunità che agiscono da imprenditori sociali e da vettori di coagulo, in forma maieutica, delle capacità e delle creatività dei singoli cittadini. E così che quelli che un tempo erano soltanto dei laboratori di idee, incapsulati per non dire infeudati, nell’assetto tayloristico di un’impresa e di una società strutturata per comparti, sono in grado di generare il flusso continuo della “società della conoscenza”, il cui motore è il proces18

Su questo tema oltre al saggio pubblicato in questo volume si v. l’abbondante produzione di Jed Emerson ed in particolare i seguenti working papers A Capital Idea: Total Foundation Asset Management and The Unified Investment Strategy e Total Foundation Asset Management: Exploring Elements of Engagements Within Philanthropic Practice. Dello stesso autore si v. New Social Entrepreneurs: The Success, Challenge and Lessons of Non-profit Enterprise Creation, Roberts Foundation, Homeless Economic Development Fund, San Francisco, 1996.

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so di capacitazione degli individui, come persone in grado di integrare l’intera gamma dei loro ambiti di appartenenza, etnica, religiosa, professionale, amatoriale, di competenze e di affinità culturali ed intellettuali. L’integrazione verticale dei distretti industriali tende ad integrare attraverso la logica generativa della complessità, come principio di evoluzione autopoietica, l’integrazione a doppia matrice dei distretti culturali, in cui l’innovazione non è solo il prodotto dell’immissione in un determinato territorio di tecnologie capaci di incrementare i profitti delle singole imprese ma è il risultato del modo in cui quelle tecnologie permetto di valorizzare e di aggregare in sintesi progettuali inedite patrimoni culturali ed ideali, tradizioni di “saper fare” già esistenti, fertilizzando simultaneamente punti diversi dello stesso humus territoriale, ma non necessariamente locale, come illustra evocativamente il caso del Canavese nell’era olivettiana, territorio di riferimento di un’esperienza a part entièr tutt’altro che locale. Questa traiettoria di tipo verticale, che valorizza l’integrazione tra tradizione come innesto del passato e tecnologie come legacy del presente, sembra particolarmente confacente al contesto italiano, dotato di uno spessore storico di tradizione civica ad alta densità e per converso da una scarsa valorizzazione della medesima nel consolidamento delle istituzioni economiche politiche e sociali. Al contrario, il contesto nord-americano è prevalentemente caratterizzato da processi di integrazione di tipo orizzontale, fortemente segnati da matrici di tipo istituzionale, in cui il distretto culturale nasce dall’integrazione tra imprese di successo nel settore delle nuove tecnologie della comunicazione e comparti culturali ed artistici fortemente innovativi sia dal punto di vista tecnologico, sia dal punto di vista della creatività progettuale. È il caso della Samsung e del ruolo che ha avuto nel sostenere la creazione del Center for Performing Arts di Austin. La Samsung ha invitato gli altri colossi dell’high tech con impianti nell’area ad unirsi in uno sforzo organizzativo oltre che finanziario sulla base “di una semplice constatazione: la crescita culturale del sistema locale migliora la qualità della vita e quindi permette di offrire sul mercato del lavoro un pacchetto di benefici non

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monetari altamente competitivo [...] crea un ambiente stimolante ed aperto alla ricezione del nuovo [...] consolida il legame con la comunità locale e favorisce l’insorgere di forme complesse ed articolate tra gli attori del sistema economico19”.

Va tuttavia rilevato sul tracciato di una recente pubblicazione dal titolo evocativo, Civic Revolutionaires20, che anche nel contesto nord-americano si fa strada un orientamento tendente a valorizzare il ruolo del contesto storico-sociale come fattore decisivo nella crescita dei processi di incivilimento dei contesti regionali. Nel caso di Austin, ad esempio, gli autori sottolineano la predisposizione dell’area regionale al fenomeno evolutivo sopra descritto sin dagli anni ottanta del XX secolo col decollo del programma “Creating an Opportunity Economy”. “The plan made the case that whereas attraction with growing information industry clusters would be important, homegrown enterpreneurship would ultimately determine the level of Austin’s success21”. L’obiettivo non è stato sin dall’inizio quello di creare nuove organizzazione ma di connettere in modo innovativo e stimolante, per tutti gli attori coinvolti, quelle esistenti, facendo leva sulla presenza di imprenditori civici, animati da un pragmatismo visionario e dalla perseveranza nel perseguirne gli obiettivi, motivati a promuovere esperimenti di integrazione tra interessi economici, sostenibilità ambientale e equità sociale, dinamici nei processi decisionali e dotati di una forte capacità di leadership rispetto agli altri interlocutori istituzionali. “The key – osservano i curatori del volume – is the sharing of tacit knowledge through interactive processes, based on trust, willingess to share, and exchange over time. Networks are in effect, markets with memory22”. Essi rilevano inoltre il valore evocativo rispetto alla di crescita del proattivismo comunitario a

19 P. L. Sacco, L’arte fa bene alla competitività, in “Il Sole 24 ore”, 23 novembre 2003. 20 D. Henton, J. Melville, K. Walesh, Civic Revolutionaires. Igniting the Passion for Change in America’s Communities, Jossey-Bass Publishers, San Francisco, 2003. 21 Ivi, pp. 104-105. 22 Ivi, p. 136.

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livello regionale (creative communities) degli ultimi decenni, esercitato dal richiamo alle origini storiche della cultura civica americana, come insieme di principi regolativi dell’agire sociale, dunque, non solo come sistema integrato di principi che hanno orientato la Costituzione americana ma anche come “blueprint for action on launch a new nation23”. È interessante osservare come in questo radicamento nell’innovazione, i curatori del libro individuino l’inscindibilità del nesso tra lo spirito innovativo dell’impresa e lo spirito dell’iniziativa comunitaria, identificati come “the two great American traditions24”. Significativamente, gli autori individuano la forza motrice di questo processo nella presenza di una leadership di imprenditori civici dotati di capacità maieutiche rispetto alla valorizzazione delle risorse umane e valoriali del territorio di riferimento. La casistica presentata sull’intero territorio nazionale è di grande rilievo sia in senso quantitativo, sia in senso qualitativo e rivela la diffusione di matrici di governance orizzontale e flessibile in rapporto ai processi evolutivi che caratterizzano i bisogni delle comunità di riferimento, con un investimento strategico soprattutto sui fattori che sono alla base dei processi di incivilimento: le condizioni di vita negli agglomerati urbani (“the good life is in the details25”), l’educazione di base, la formazione continua, la partecipazione creativa di chi lavora ai propri universi di riferimento, nell’impresa, nella comunità e soprattutto nelle loro reti di intersezione, come fattori di accrescimento delle potenzialità innovative dei distretti culturali. Il modus operandi non è più centrato sulla selezione di progetti pilota, a cui si affida, spesso più per un atto di fede che per una reale valutazione della loro concreta efficacia, il compito di realizzare mutamenti di scala e il cui ruolo basilare è, in sostanza, più quello di costituire degli attrattori di fondi che quello di essere gli agenti del cambiamento sociale. Il focus nel contesto strategico dei civic revolutionaires è, piuttosto sull’attivazione di processi di “regional stewart23

Ivi, p. 17. Ivi, p. 208. 25 E. J. Jr., Community Works. The Revival of Civil Society, Brookings Institution, Washington D.C., 1998, p. 143. 24

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ship which empasises commitment to place rather than an issue, an integrated approach to issues and solutions and the development of broad coalitions sharing a regional vision26”. Da questo punto di vista, vi sono sostanziali punti di contatto tra il contesto nord-americano e quello europeo, dove stanno rapidamente emergendo distretti culturali, che si basano sulla collaborazione progettuale tra imprese, organizzazioni non profit e amministrazioni pubbliche a livello regionale e locale e che rispondono ad una doppia sfida rispetto ai processi di cambiamento sociale. Questa è connessa non solo all’integrazione settoriale ma anche all’integrazione innovativa tra una tradizione ricevuta dal passato e incapsulata nel patrimonio delle singole comunità – come lascito generazionale dell’imprenditorialità radicata nel territorio – e un’innovazione tecnologica e della comunicazione sociale e culturale che si è imposta a livello globale. Dobbiamo osservare, tuttavia, che il delinearsi di tale processo può agire in modo del tutto contraddittorio, azzerando quella cultura sulla base di isomorfismi comportamentali indotti dalla logica del mercato, che privilegia le strategie di attrazione di nuove imprenditorialità basate sui bassi costi, ovvero, al contrario, rivitalizzandola come patrimonio che genera investimenti e che favorisce “a more sophisticated blend of quality support for homegrown enterpreneurship, retention and expansion of existing small and medium-sized firms and attraction of firms that fit within the region’s economic strenght and contribute to higher income and living standards27”. Da questo processo inerente la costruzione di una sfera del mercato a matrice evolutiva e complessa, antropologicamente orientata alla configurazione del territorio, dipende in larga misura il rafforzamento dei processi di identificazione comunitaria, cioè la crescita di quella cultura dell’appartenenza che è una componente essenziale del processo di incivilimento, come maieutica del divenire delle società contemporanee.

26

K. Foster, Regionalism on Purpose, Lincon Land Institute, Cambridge, 2001, p. 26. 27 D. Henton, J. Melville, K. Walesh, Civic Revolutionaires cit., p. 98.

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Nel contesto italiano, in un ambito territoriale etichettato da Robert Putnam come un’area a basso profilo dal punto di vista della cultura civica e della imprenditorialità ad essa connessa28, un laboratorio interessante in questa direzione è quello realizzato a Sorrento da Alessandro Fiorentino con la creazione del suo Museobottega della Tarsialignea. Esso è, in modo circolare, un nuovo modello di museo per l’artigianato artistico, un’area di produzione di un design ad alto potenziale innovativo, anche dal punto di vista delle tecnologie, un laboratorio di formazione ad ampio spettro tecnico e culturale per nuove generazioni di progettisti del “saper fare” attraverso la tecnica dell’intarsio. Tale modello è in grado di trasformare una cultura destinata alla riproduzione e all’esportazione di souvenirs del tutto stereotipati, in un’impresa in grado di trasformare in prodotto artistico focalizzato su una specifica materia prima, il legno intarsiato, le suggestioni provenienti dalle più disparate culture su scala mondiale, creando un comparto imprenditoriale che si alimenta in una circolarità sinergica delle tecniche ricevute dal passato, delle tecnologie comunicative e della creatività indotta dalle contaminazioni interculturali del presente. Tutto questo a vantaggio di una comunità locale che cresce in responsabilità e consapevolezza delle proprie forme di identità e di appartenenza e che è in grado di generare una ricchezza non meramente lucrativa, in un contesto, in cui domina ancora, a livello delle mentalità collettive, la ricerca di un’occupazione fine a se stessa. In entrambi i casi, e con particolare incisività in contesti dove la cultura artistica e del “saper fare” ha profondità archetipiche di grande rilievo, ciò che fa emergere la criticità positiva dell’ossimoro è l’effetto di crescita di un ambiente di relazioni e di interazioni che non si limitano alle transazioni monetarie ma comportano anche una transazione di valori morali e lo sviluppo di benefici 28 Robert D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, A. Mondadori, Milano, 1993. 29 Sul concetto di “benefici intangibili” e sulle sue applicazioni si v. John R. M. Hand (Editor), e Baruch Lev (a cura di) Intangible Assets, Oxford University Press, Oxford, 2003.

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intangibili29. Se questi vengono effettivamente prodotti ed equamente condivisi dai partners, sono in grado di cementare “lo status e quindi l’ethos di comunità30”, rimettendo in circolo la tradizione, da molti dimenticata, dell’antropologia giuridica di inizio secolo. Tale tradizione valorizza gli apporti delle consuetudini del comportamento etico comunitario per definire i principi della giustizia distributiva, trasformandola da fattore meccanicistico di mera redistribuzione in principio di giustizia sociale commutativa, in relazione alla definizione di modalità di investimento che tengano conto dei vincoli morali e non solo di quelli contrattuali e che risulta quindi in grado di agire da fattore di crescita della cittadinanza morale, sociale e culturale e non meramente economica. In un saggio di recente pubblicazione Kathleen MacCarthy31 ha magistralmente mostrato come la filantropia statunitense sia nata da un processo di duplice e circolare accumulazione, di ordine ideale e morale e di ordine economico, in virtù della necessità, per le comunità religiose, prevalentemente di matrice protestante, di produrre il proprio capitale di risorse economiche volte a realizzare il miglioramento delle condizioni materiali, morali, attraverso strategie di investimento in cui la realizzazione del profitto non risultasse fine a se stessa ma avvenisse attraverso la disseminazione dei valori religiosi e di attiva partecipazione alla crescita etica e civile delle comunità, secondo un principio di intersecazione dei valori che troviamo all’opera, con connotazioni e finalità del tutto specifiche, anche in altre tradizioni religiose. Consideriamo, ad esempio, la tradizione ebraica nella quale il più alto livello di donazione tra gli otto indicati dalla tsedegah (giustizia equilibratrice) è quello che comporta la partecipazione e la collaborazione col povero affinché questi non sia più tale e ciò a vantaggio di tutta la comunità, che sarà a sua volta liberata dal vincolo imposto dalla povertà del singolo.

30

G. Sapelli, ENRON e oltre, in “Equilibri”, n. 2, 2003, pp. 89-123. K. MacCarthy, American Creed. Philanthropy and the Rise of Civil Society (1700-1865), Chicago University Press, Chicago, 2003. 31

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Ora, la lezione che ci viene da queste riserve di capitale intellettuale e sociale, tradotto in azione come espressione di una giustizia redistributiva, è che la filantropia che sviluppa forme di collaborazione intersettoriale, deve favorire e non ridurre la competizione sociale. Essa infatti stimola la crescita delle capacità inerenti lo sviluppo di quella che potremmo definire una “benevolenza interessata”, volta cioè all’ottimizzazione dei suoi investimenti, a beneficio di cerchie sociali sempre più ampie e che quindi non ha più nulla a che vedere col concetto tradizionale di charity, intesa come “azione unidirezionale”, priva di reciprocità, al quale alcuni autori sembrano ancora legare il principio dell’agire filantropico32. La “benevolenza interessata” è, al contrario, fondata su un principio di reciprocità volto a produrre effetti di “equal partnership”. E questo mediante la partecipazione di competenze funzionali, che emergono non come principio di rafforzamento di vincoli burocratici o di logiche di pura assistenza, ma in forma articolata e differenziata, nella direzione di un processo di internalizzazione delle istanze collaborative. Un processo in cui tali competenze ed istanze collaborative possono essere in grado di agire anche da correttivi dei pericoli connessi con l’addensamento delle reti sociali di impresa. Esse, cioè, possono potenziare, attraverso il vincolo etico sopra evocato, basato sul principio dell’autonomia della responsabilità decisionale e strategica, la capacità di ascolto delle imprese verso le istanze pluralistiche degli stakeholders, limitando gli effetti delle concentrazione di connivenze che tendono a chiudere le cerchie sociali anziché ad alimentare la crescita delle forme di reciprocità tra settore profit e settore non profit. Michael Porter e Mark Kramer sottolineano il ruolo che la “corporate philanthropy” può avere nel “massimizzare il valore della filantropia”, stimolando le reazioni del contesto imprenditoriale di riferimento attraverso la produzione di valori sociali aggiunti che vanno a bene-

32 Si v. al proposito V. Melandri e S. Zamagni, Il finanziamento del non-profit in Italia fra intervento pubblico, filantropia e reciprocità, per una via italiana al Fund-risinf, in “Economia e management”, n. 1, 2001.

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ficio non solo della produzione legata al mercato ma di tutti gli attori in essa coinvolti dal punto di vista dei benefici sociali (condizioni di vita materiali, salute, partecipazione e cittadinanza, creatività imprenditoriale dei singoli). Gli autori sottolineano tuttavia che: “the context-focused philanthropy will require a far more rigorous approach than is prevalent today: It will mean tightly integrating the management of philanthropy with other company activities. Rather than delegating philanthropy entirely to a public relations department or the staff of a corporate foundation, the CEO must lead the entire management team through a disciplined process to identify and implement a corporate giving strategy focused on improving context33”.

Ciò implica la crescita di strategie di collaborazione anche in senso orizzontale, cioè uno sforzo di coordinamento e di collaborazione con le istituzioni filantropiche esistenti. Questo deve essere necessariamente fondato su un’assoluta chiarezza delle finalità e sulla trasparenza delle procedure e soprattutto sulla capacità di selezionare progetti in grado di garantire il maggiore potenziale di ritorno sociale degli investimenti, fornendo loro gli opportuni sostegni e sperimentando in collaborazione le strategie più adeguate per risolvere i problemi sociali di maggiore criticità, in modo da incrementare le capacità di relazione e il goodwill di tutti i “portatori di interesse”, non solo nella sfera del mercato ma in quella delle comunità di riferimento. In sintesi si tratta di passare da una filantropia indifferente al suo ambito di investimento ad una filantropia strategicamente orientata alla costruzione di reti integrate di benefici, materiali ed immateriali, secondo un approccio che retroagisce sulla stessa configurazione dell’impresa, sulla sua logistica e di conseguenza sulla sua cultura organizzativa e, non da ultimo, sulle sue capacità di relazionarsi al contesto in modo proattivo rispetto ai processi di cambiamento sociale; e, dunque, secondo 33

Michel E. Porter and Mark R. Kramerr, The Competitive Advantage of Corporate Philanthropy, in “Harvard Business Review”, december 2002, pp. 67-68.

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un modello di competitività che non si rivolge solo al mercato e alla sfera del profitto ma a quella delle crescita dei processi di incivilimento. 4. Non Profit e capital market: una rifocalizzazione strategica della filantropia È in tale ambito di riferimento concettuale ed operativo che, nell’ultimo decennio del XX secolo, la filantropia ha compiuto un mutamento di orizzonte. Tale mutamento ha trovato il suo fulcro nel concetto di “investimento”. Ciò è avvenuto inizialmente, sull’onda del rapido successo delle imprese legate alla new economy, attraverso il trasferimento nell’ambito del non profit del modello e delle tecniche del “venture capital”, con un effetto di tecnicizzazione dell’agire filantropico che ha suscitato innumerevoli reazioni, non sempre positive. Ne è scaturita una sorta di querelle tra i (presunti) antichi e i (presunti) moderni che ha rischiato di mettere in ombra il vero mutamento in atto. Questo non è tanto legato alla tecnicizzazione della filantropia e alla sua assimilazione alla new economy, ma all’ampliamento del concetto e della pratica dell’investimento secondo un piano strategico che integra il principio della complessità e, dunque, gli effetti retroattivi di un’agire imprenditoriale in grado di “suscitare” (dalla radice latina del termine intraprendere, suscipere), in un nodo a dinamica circolare, valori economici e valori sociali. Jed Emerson ha efficacemente mostrato come il concetto di investimento così inteso abbia una sua specifica connotazione e correlazione col capital market e non solo nel settore del business ma anche in quello del non profit: “Historically – scrive Emerson – discussion of funding in the non profit sector, have touched primarily on grants, annual fundraising campaign [...] Only recently have these discussions evolved toward a realization that the resources supporting the work of non profit sector are more than simply a variety of charitable fundraising efforts, but actually form a distinct capital market [...] Dollars used to support community and other non profit activities, while ‘charitable’ are still capital investments of precious resources. As such it is critical that these investments be

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managed with the same strategic thinking and due diligence one would apply in the for profit financial services and investment communities34”. Non Profit Capital Market

Venture Philanthropy

Venture Capital

Social Benefit: intangible

Commercial Benefit: tangible Traditional Philanthropy: charitable

Traditional Capital: business

Fonte: J. Emerson, The US N on Profit Capital Market

Autore di numerosi saggi sulla “social entrepreneurship”35, Emerson è tra i pionieri di una nuova visione dell’agire filantropico che è stata definita “venture philanthropy”, con un evidente riferimento ai modelli del “venture capital”, ma che a ben vedere rappresenta meno il risultato dell’applicazione di un insieme di tecniche finanziarie al settore non profit, di quanto non sia il risultato della penetrazione e della diffusione di una visione della filantropia d’impresa centrata sul principio dell’“equal partnership”, con un elemento aggiuntivo di grande impatto nell’integrazione tra agire imprenditoriale e agire filantropico: la concettualizzazione teorica e la definizione delle modalità pratiche che identificano l’investimento come azione circolare di ritorno degli aspetti economici sugli effetti sociali e viceversa. Questo 34

J. Emerson, The US Non Profit Capital Market: An introductory Overview of Developmental Stages, Ivestors and Funding Instruments Robets Enterprise Development Fund Foundation. 35 Si veda in particolare, Strategic Tools for Social Entrepreneurs: Eenhancing the Performance of your Enterprising Nonprofit, Wilsey, New York, 2002.

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aspetto ha avuto effetti importanti anche sulla dinamica istituzionale delle fondazioni che rappresentano un settore specifico nel grande contenitore del non profit, nonché una delle forze motrici dell’agire filantropico. Nel caso delle fondazioni di grandi dimensioni, organizzazioni dotate di piani strategici a lungo termine, di una governance e di competenze definite nel quadro di un assetto manageriale, l’intreccio tra logica dell’impresa e agire filantropico costituisce un elemento ben consolidato da oltre un secolo, in particolare nel contesto nord-americano. La maggior parte delle grandi fondazioni derivano da un capitale industriale, che attraverso il principio del trust ha generato organizzazioni da esso indipendenti, ma che hanno incorporato attraverso il principio della filantropia scientifica la logica dell’impresa. Da questo punto di vista non vi sarebbe alcuna sostanziale variazione rispetto al passato, in particolare per quanto riguarda il contesto nord-americano, dove la filantropia scientifica si è profondamente radicata nel corso del secolo scorso, generando effetti di imitazione adattiva non solo a livello delle grandi fondazioni, ma anche in istituzioni di dimensioni organizzative e dotate di patrimoni più contenuti. In realtà, la logica secondo cui hanno operato le grandi fondazioni ha agito, in modo solo parzialmente consapevole, in sintonia con la separatezza dei fattori economici e sociali ratificata dal paradigma dell’economia classica, cercando di preservare in modo sempre più incisivo e visibile il principio dell’agire filantropico da quello dell’investimento economico, delegato all’impresa e al mondo degli affari. È un dato di fatto che l’erogazione di finanziamenti delle fondazioni, anche quelle dotate di rilevanti endowments, si è basata sul principio del seed money, con grants limitati nel tempo, rinnovabili solo in particolari casi, ed orientati a stabilire relazioni durative tra i beneficiari e le istituzioni pubbliche, le università, i centri di ricerca, secondo procedimenti sostanzialmente standardizzati che miravano ad evitare vincoli di dipendenza tra la fondazione erogatrice ed i suoi stessi beneficiari. L’introduzione della variabile dell’investimento come fattore strategico dell’agire filantropico e l’individuazione della partnership tra erogatori e beneficiari, come vettore operativo di tale processo, modifica profondamente il modus 123


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operandi delle fondazioni che tendono ad articolare maggiormente la funzione di grant-makers nel loro proporsi come promotori di development funds per il non profit, la cui finalità non è il processo lineare di erogazione e di conseguente valutazione del grant erogato, ma è il principio del “capacity building”, l’autonomizzazione organizzativa, oltre che economica del benficiario, in rapporto al sistema di valori, alla cultura ai problemi di rilevanza sociale del contesto di riferimento. In un documento redatto dal Morino Institute, uno dei pionieri di questa transizione organizzativa ed istituzionale, si sottolinea che “capacity enables an organization to become more than the sum of its programs, by giving it the intelligence and support it needs to modify existing programs, meet unmet needs and drop ineffective products and services36”. Questo tipo di approccio ha, dunque, effetti di ricontestualizzazione dei comportamenti mentali e delle strategie operative degli attori sociali ed istituzionali dell’agire filantropico perché comporta l’assunzione simultanea di tre modalità operative, quella connessa alla responsabilità del rischio, quella connessa alla responsabilità della decisione, in particolare rispetto alle dinamiche dell’exit strategy, quella connessa alle responsabilità della riflessione retroattiva dell’intero percorso, rispetto alla cultura organizzativa e alle dinamiche del cambiamento sociale delle istituzioni di riferimento. È interessante osservare che se la riflessione teorica che ha accompagnato e, per certi versi, stimolato l’emergere di varianti significative rispetto ai tradizionali orientamenti della filantropia, si è delineata originariamente nella costa dell’Est, e in particolare nell’ambito dei centri di ricerca che fanno capo all’Università di Harvard, trovando un forte punto di risonanza anche oltre Oceano, dopo la pubblicazione del saggio di Christine Letts e collaboratori, nell’emergere delle tematiche e nel dibattito sulla “venture philanthropy”37, la loro sperimentazione innovativa, soprattutto nel corso degli anni novanta, si 36

Venture Philanthropy. Landscape and expectations, Morino Institute, 2000, p. 6. 37 Virtuous capital: What Foundations Can Learn. From Venture Capital, in “Harvard Business Review”, april 1997.

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è delineata dal punto di vista operativo, soprattutto – seppure non esclusivamente, come dimostrano alcuni dei saggi pubblicati in questo volume – nella costa dell’Ovest. In particolare nell’area ad alto potenziale di trasformazione tecnologica della Silicon Valley che, secondo alcuni studiosi dei processi di intensificazione dei processi creativi nell’impresa e nel suoi contesti di riferimento, rappresenta una delle aree a più alta densità progettuale per quanto riguarda l’emergere di creative communities38. Uno dei primi casi di studio di “venture philanthropy”, elaborati sulla costa dell’Ovest, nel quadro della collaborazione di Jed Emerson con la Stanford Graduate School of Business, è stato quello della Roberts Foundation, una fondazione a carattere familiare che opera a San Francisco dal 1986. A partire dagli anni novanta essa ha avviato una serie di programmi basati sul principio dei development funds. Il primo esperimento, denominato “The Homeless Economic Development Fund” e avviato nel 1990, ha avuto come finalità di sostenere “una varietà di sforzi da parte delle organizzazioni non profit per espandere le opportunità economiche per i senza tetto”. Il successo di questo programma ha spinto la fondazione ad orientarsi sistematicamente verso una strategia centrata su “social purposes enterprises” mentre attuava un’exit strategy rispetto al programma per i senzatetto che, in questo percorso, assume retroattivamente il ruolo di matrice rispetto al processo di ridefinizione della mission e dell’assetto organizzativo della fondazione Roberts stessa. Dalla seconda metà degli anni novanta questa ha assunto la denominazione di Roberts Enterprise Development Fund, valorizzando in forma strategica e con un’ampia gamma di progetti a livello delle comunità locali, gli elementi di innovazione e di potenziale discontinuità rispetto alla filantropia tradizionale, prodotti dal programma HEDF. Il primo aspetto rilevante è il supera38 The Creative Community Leveraging Creativity and Cultural Participation for Silicon Valley Economic and Civic Future, Center for Collaborative Economics, Working Paper, february 2001; J. Seely Brown e P. Duguid, The Social Life of Information, Harvard Business School Press, 2000.

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mento dell’opinione corrente che il non profit non è in grado né di darsi una dimensione organizzativa capace di produrre autosostenibilità nel medio-lungo periodo, né di generare “marked-based enterprises while simultaneusly providing employment [...] for formerly unemploied individuals”. Questo mutamento di orizzonte rispetto alla sfera del mercato ha delle implicazioni anche sul versante delle forme di transazione tra grant-seekers e grantmakers. Dal un lato, infatti, implica un rapporto di inversione tra la concentrazione sugli obiettivi di fundraising – come unica forma di sopravvivenza delle istituzioni non profit – e gli obiettivi di autorganizzazione e di valorizzazione della sfera del capital market, come forma di sostenibilità a carattere evolutivo e imprenditoriale, in una sorta di rivisitazione del vecchio adagio secondo il quale chi soffre la fame non va sfamato coi pesci ma insegnandogli a pescare. Un rivisitazione che implica, tuttavia, un ulteriore passaggio e cioè la necessità per il grant-seeker non solo di saper pescare ma di saperlo fare in modo innovativo e competitivo, a beneficio sia di chi ha investito (“tangible benefit”), sia della qualità della vita, delle relazioni sociali e della crescita della cittadinanza sociale e culturale dell’intera comunità (“intangible benefit”). Sul versante dei grant-makers questa inversione di prospettiva implica il fatto che l’attività delle fondazioni come erogatori di fondi non è più solo di sostegno a progetti ma di investimento su programmi a medio e lungo termine. Tale attività si concentra, cioè, meno sul grantmaking che sul core funding. Questo spostamento comporta innanzitutto la necessità per la fondazione di impegnarsi nel medio-lungo periodo (“high engagement philanthropy”) in modo strategico, gestendo il rischio anziché cercando di evitarlo, attraverso l’omologazione degli standards valutativi e l’applicazione esclusiva di pratiche del seed money, volte a realizzare la presa a carico dei progetti pilota promossi dalle fondazioni da parte di altre istituzioni, pubbliche e private. Comporta soprattutto la priorità di incidere sull’ottimizzazione del “capacity building” delle istituzioni non profit, stabilendo un sistema di relazioni interne, a crescente impatto organizzativo, tra chi eroga il finanziamento e chi lo riceve. Certo va detto che non tutti gli esperimenti condotti secondo gli 126


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orientamenti sopra enunciati hanno avuto successo. Uno dei casi di mancato successo nel passaggio da un approccio filantropico tradizionale al modello della “venture philanthropy”, segnalato dal Morino Institute, riguarda lo scollamento nell’attività del Pfizer Community Development Fund tra l’Urban Development Fund, che costituiva il core funding del programma, e le finalità dell’impresa, centrate su aspetti farmaceutici e sanitari. Il development fund in pratica è stato investito in aree di cui la fondazione non possedeva un’expertise adeguata, cioè di cui mancava un’adeguata conoscenza delle forme sociali, istituzionali e della cultura antropologica di riferimento, con la conseguente impossibilità di mobilitare capitali e risorse umane conformi allo scopo e una crescente impossibilità di operare un’adeguata gestione del rischio. Ciò non significa affatto che le fondazioni d’impresa debbano investire solo nei contesti dove sono localizzati i loro stabilimenti di produzione, al contrario. Ciò che risulta imprescindibile è la conoscenza profonda, consapevole e responsabilmente orientata del contesto e, dunque, da parte degli attori della filantropia d’impresa, una preliminare, accurata esplorazione dei bisogni della comunità di riferimento e, di conseguenza, l’attuazione di una strategia di costruzione di una partnership, equamente delineata sin dall’inizio, con le istituzioni del non profit, le comunità, i gruppi di cittadinanza attiva sul territorio in cui si intende operare. La percentuale di fallimenti nel passaggio dalla filantropia tradizionale alla filantropia ad alto potenziale di coinvolgimento nell’agire filantropico e nelle sue conseguenze di impatto sociale e ambientale, spiega il numero relativamente contenuto di fondazioni impegnate principalmente in questa direzione e la presenza piuttosto consistente di casi ibridi, di fondazioni che mantengono cioè i due assetti, quello meramente erogativo e quello proattivo. Oggi le più importanti fondazioni americane che operano secondo la logica della “high engagement philanthropy”, utilizzando tecniche di “venture philanthropy” nella misurazione dei risultati, sono poco meno di una cinquantina. Di esse, secondo una stima realizzata dall’Intek di Milano – che ha avviato una delle prime iniziative di “venture philanthropy” con la creazione della 127


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Fondazione Dinamo –, il 67% hanno realizzato investimenti della durata media di 3/6 anni. Dal punto di vista dello staff interno la tendenza generale è verso la crescita del numero delle persone coinvolte nell’assistenza manageriale ai programmi. Nel 2002, sempre secondo le stime dell’Intek, questi programmi hanno mobilizzato un capitale pari a $400 milioni di dollari, con finalità orientate prevalentemente nel settore dell’educazione e della formazione (programmi di ottimizzazione dell’educazione pubblica), riduzione della povertà, creazione delle potenzialità di impiego per disabili, ex carcerati, senzatetto, emigrati, creazione di incubatori di social entrepreneurship. Particolarmente interessante è il “Rubicon Program” che ha realizzato, tra le sue numerose iniziative, un sistema integrato di prodotti per panetteria e pasticceria di qualità, attraverso un’organizzazione che impiega e, al tempo stesso, crea servizi per le popolazioni a rischio dell’area di Richmond, in California. Altrettanto dinamica è l’esperienza del Center for Collaborative Economics di San José che ha potenziato lo sviluppo di esperimenti di “venture philanthropy” nel contesto delle community foundations, incrementando la collaborazione e le strategie di active learning dei potenziali attori di filantropia proattiva di quell’area. Un dato significativo è che la maggior parte delle organizzazioni che hanno fatto propria la logica della “venture philanthropy” sono state create a cavallo del millennio. Tra il 1999 e il 2001 ne sono state create ben 29. I pionieri della “venture philanthropy” tra la fine degli anni ottanta e gli anni novanta sono stati, oltre alla già citata Roberts Foundation, il Morino Institute on Venture Philanthropy (che insieme alla Roberts rappresenta anche uno dei più attivi centri di documentazione in questo ambito con un’ampia casistica), la Robin Hood Foundation, la Tiger Foundation e la SVP Seattle. Nel maggio del 2000 quest’ultima in collaborazione col Seattle Social Enterprise Consortium ha creato the First Seattle Social Investor’s Forum, il cui scopo non è solo di fornire capacità e strumenti cost-effective per le organizzazioni non profit ma di diffondere le progettualità più innovative in modo simultaneo tra un grande numero di istituzioni filantropiche e di fondazioni limitando così il tempo e i costi dei processi di erogazio128


OSSIMORI: I VANTAGGI COMPETITIVI DELLA FILANTROPIA D’IMPRESA

ne, i finanziamenti non coordinati e accelerando invece la creazione di networks di servizi e il processo di valorizzazione degli assets. Un aspetto significativo della crescita esponenziale della “venture philanthropy” in un arco di tempo molto breve, è che essa sembra configurarsi come effetto di una transizione generazionale connessa con l’emergere di un nuovo habitus mentale tra i donors che hanno accumulato ingenti capitali nella rapida accelerazione e espansione dei mercati finanziari connessi allo sviluppo delle alte tecnologie e dell’informatica39. Una generazione di donors che in molti casi ha meno di quarant’anni e che non vuole limitare la propria attività di filantropi a firmare assegni, ma desidera entrare nel vivo dei programmi e della misurazione del loro impatto, tangibile ed intangibile, mettendo alla prova la propria capacità di selezionarli, evidenziando, al di là dei tradizionali sistemi di “application-and-evaluation”, da un lato la densità qualitativa della dedizione allo scopo e la determinazione nel raggiungerlo dei proponenti e internalizzando, dall’altro, la componente del rischio anziché cercare di limitarne gli effetti. In tal modo l’attività di grant-making non si limita all’erogazione, ma, come si diceva, implica un allargamento di reti, di cerchie sociali in forma strategica e collaborativa. L’obiettivo è di assicurare il trasferimento conoscitivo, nella direzione del non profit, degli strumenti operativi più innovativi del “capital venture” (pianificazione strategica e finanziaria, analisi del posizionamento, monitoraggio delle performances) attuando, ad un tempo, un processo di ricapitalizzazione delle risorse antropologiche e dell’expertise sociale e organizzativa creata dal delinearsi di cerchie allargate. Il corollario di questo orientamento strategico è la predisposizione “adattiva” di modalità di uscita dell’investimento che non siano semplicemente connesse all’aspettativa che le istituzioni pubbliche e statali possano farsi carico di progetti pilota (il seed money, come garanzia di successo e limitazione del rischio) ma che siano strategicamente connes-

39 K. Philips, Wealth and Democracy. A Political History of the Amercan Rich, ??ed.??, New York, 2002.

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se alla sostenibilità e all’autonomia organizzativa dell’istituzione oggetto del finanziamento, costituendo così una riserva potenziale di ulteriori iniziative imprenditoriali e aumentando, in termini di valore aggiunto per l’intera comunità, gli effetti prodotti dal consolidamento di “equal partnership”. In sostanza, come ha brillantemente mostrato Jed Emerson, si tratta di orientare gli effetti di transazione creati dallo sviluppo di capitali sociali verso un effetto di scala più ampio che determini la crescita di processi di interactive social capital, in grado di integrare non solo il rapporto tra “for profit capital and non profit capital”, nel rapporto col contesto di riferimento ma anche le comunità identitarie di tale contesto, le istituzione pubbliche, le diverse componenti della società civile, generando un processo autopoietico di selezione delle forme organizzative più consone all’aggregazione collaborativa dei diversi attori40. Quanto abbiamo sinora argomentato fa emergere una serie di problemi connessi al modo improprio, o quantomeno riduttivo, con cui è stato impostato il dibattito tra gli antichi e i moderni nell’ambito delle modalità e delle strategie dell’agire filantropico. Il quesito dominante nel dibattito in corso è il seguente: la “venture philanthropy” è una nuova pratica dell’agire filantropico che contiene in sé un nuovo principio di competitività basata sulla cultura della solidarietà sociale e che, pur agendo nella sfera del “mercato libero”, smantella dall’interno la logica del capitalismo “hands in hands” 41, proteso a difendere i propri interessi e i propri appetiti di conquista delle quote di mercato? Oppure si tratta di una semplice tecnica finanziaria che si applica al sociale ma che non snatura la logica della “vecchia filantropia” e che, anzi. si impone come una matrice perfettamente

40 J. Emerson, The Blended Value Proposition. Maximizing Value in Pursuit of Multiple Returns, Paper presented at the 2nd Annual London Business School Corporate Social Responsibility and Social Enterprise Conference. www.lbs-csrclub.net%2FJed_Emerson.pdf. 41 Il riferimento è al saggio di R. Rajan L. Zingales, Saving Capitalism from Capitalists, Unleashing the Power of Financial Markets to Create Wealth and Spread Opportunities, Crown Publ. 2003.

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consona rispetto al sistema capitalistico all’alba del XXI secolo, costituendone, per molti aspetti, il completamento? E questo con una rinnovata enfasi sulle individualità creative e con una marcata tendenza a sostituire all’anonimato dei filantropi della golden age dell’inizio del secolo scorso, il protagonismo, ritualizzato da internet, di nuovi robber barons che cavalcano la tigre della filantropia per amplificare l’immagine di sé. Tra le molte voci che si levano per sottolineare la portata innovativa e dirompente del non profit capital marke ve ne sono, significativamente, altre, altrettanto autorevoli, che denunciano gli aspetti di “protagonismo” e di strumentalizzazione retorica dei linguaggi e delle tassonomie della “venture philanthropy”. È questo il caso di Peter Frumkin, docente e ricercatore dell’Hauser Center di Harvard, che interpreta il passaggio dalla filantropia tradizionale alla “venture philanthropy” più come un effetto retorico che come un mutamento di paradigma, in sostanza come una forma di sovrapposizione terminologica a pratiche sostanzialmente immutate (si v. la tab. 5). Sulla stessa linea, con un’argomentazione più tecnica, si pone anche Michel Kramer, il quale sottolinea la dissonanza della trasposizione delle tecniche del “venture capital” nel contesto del non profit42. Il dibattito ha, in modo evidente seppure spesso non dichiarato, una componente di natura politica, visto che nel suo saggio Inside Venture Philanthropy, Frumkin rileva come il linguaggio della “venture philanthropy” sia stato largamente utilizzato nella campagna elettorale dei democratici nel 1992 nella messa a punto dei loro programmi. Il problema a nostro avviso non va colto a livello delle definizioni e delle tecniche di riferimento ma delle pratiche che derivano da atteggiamenti e configurazioni mentali e che determinano l’emergere e il consolidarsi di un modus operandi nel passaggio dalla filantropia d’im-

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M. Kramer, Venture Capital and Philanthropy: A Bad Fit Center for Efective Philanthropy, http://www.effectivephilanthropy.com/publications/founder_articles.htm.

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presa, che genera attraverso la creazione di partnerships, cambiamento sociale nel contesto di riferimento, ad un’imprenditorialità filantropica che fa proprie ed estende queste pratiche nel contesto delle comunità di riferimento (“regional stewartship”), internalizzando il principio dell’investimento e del ritorno del medesimo sotto forma di benefici sociali allargati a un territorio e non limitati alla dimensione esclusiva delle imprese profit e non profit coinvolte nel progetto di partenership. Uno spostamento che implica una disseminazione strategica (cross-fertilization) in quanto non coinvolge solo l’impresa in senso stretto, ma diversi attori sociali e istituzionali, le fondazioni, le comunità, le organizzazioni non profit, i laboratori di ricerca che fanno propria la logica imprenditoriale, nella sua accezione originaria di generazione responsabile (suscipere). Tale spostamento e tale convergenza sono in grado di creare effetti circolari di condivisione di pratiche, contribuendo alla sedimentazione di un habitus che traduce l’ossimoro originario (profit versus non profit) in reti di collaborazione-competitiva tra attori coinvolti nei processi generati dall’agire filantropico, come agire connaturato alle dimensioni organizzative e alle finalità dell’intraprendere nella società e per la società.

Tab. 5 Venture Philanthropy Term

Translation

Investment

Grant

Investor

Donor

Social Return

Impact

Performance Mesurement

Evaluation

Benchmarking

Standard Setting

Due Diligence

Grant Review Process

Consultative Engagement

Technical Assistance

Investment Portafolio

Grant List

Fonte: P. Frumkin, Inside Venture Philanthropy, Working Papers Hauser Center, Harvard University ad Kennedy School for Government

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5. Il contesto italiano: opportunità e vincoli nello sviluppo di un agire filantropico ad alto potenziale di investimento e di impatto sociale Come si sta delineando questo tipo di percorso in Europa e in particolare in Italia, dove lo sviluppo delle organizzazioni non profit è stato caratterizzato da una rilevante accelerazione negli ultimi quindici anni? Sarebbe scorretto e del tutto incongruo aspettarsi che questo tipo di approccio attecchisca rapidamente nel nostro paese, innanzitutto in rapporto alla diversa configurazione e ai diversi modelli evolutivi del contesto economico, produttivo e socio-istituzionale rispetto al modello statunitense. Si tratta innanzitutto di capire se in Italia, dove prevalgono le media e piccola impresa e dove la risoluzione delle criticità sociali, comprese quelle inerenti l’impresa, e in particolare la grande impresa, è stata tradizionalmente demandata alle istituzioni pubbliche, sia effettivamente possibile attivare una mobilizzazione di capitali e di risorse strategiche e organizzative in direzione dello sviluppo del non profit capital market. In secondo luogo, si tratta di comprendere se le organizzazioni non profit e, in specifico, le fondazioni posseggono la cultura organizzativa e la mentalità adeguata a questo tipo di approccio, considerando il prevalere di orientamenti che fanno da ostacolo all’emergere dei fattori di mutamento sopra esposti. Come ha rilevato Gildo Pomentale, amministratore delegato di Dinamo – una delle prime fondazioni che in Italia hanno raccolto le sfide della “venture philanthropy” – il problema non emerge soltanto a livello della resistenza nel mondo profit e in quello non profit nei confronti della applicazione delle tecniche di misurazione dell’impatto sociale, derivate dal modello della “venture capital”, ma riguarda più in generale il ruolo e il tipo d’impatto che un agire filantropico ad alto potenziale di investimento sociale nel senso sopra indicato, può avere nel nostro paese. La concorrenza all’interno del mondo del non profit – sostiene Gildo Pomentale – fatica a staccarsi dalla logica del “è più bravo quello che raccoglie più fondi” e a premiare gli attori che sanno dimostrare la superiorità delle loro pratiche e, così facendo, sono capaci di investi133


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menti strategici. Insomma il non profit è scarsamente disposto ad uscire dalla logica della beneficenza, che si misura solo quantitativamente, per assumere quella di una operatività misurabile qualitativamente. Queste resistenze accrescono, retroattivamente, la persistenza di una filantropia che preferisce elargire piuttosto che impegnarsi, commisurando il rischio non soltanto rispetto all’efficacia e al successo delle elargizioni, nel breve periodo, ma in relazione alla responsabilità e alla riflessività rispetto alle azioni intraprese, nel lungo periodo, in primis, in rapporto all’agire organizzativo degli attori proponenti, nelle dinamiche di cambiamento sociale, economico ed ambientale di un particolare contesto e non semplicemente di adeguamento dei beneficiari agli orientamenti di chi ha erogato il finanziamento. Se osserviamo il problema dal punto di vista delle fondazioni di origine bancaria, emerge, significativamente, secondo una valutazione condotta dall’ACRI che “la struttura organizzativa dell’ente proponente figura all’ultimo posto tra i criteri individuati nella selezione delle richieste di contributo.”

Fonte: A. Del Castello, Evoluzione storico-istituzionale delle fondazioni bancarie, lezione tenuta al Master in International Studies in Philanthropy, presso l’Università di Bologna, il 12 febbraio 2003, www.misp.it.

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Nel caso italiano sono certamente da evidenziare, tra le “opportunità”, fattori come la rapida crescita della divaricazione tra fonti di finanziamento privato e fonti di finanziamento prevalentemente pubblico, in cui secondo una recente stima dell’ISTAT le prime rappresenterebbero l’87,1% del totale e le seconde solo il 12,9%; in particolare, il crescente impegno delle aziende italiane ad investire in progetti sociali con importi che nel 65% dei casi superano, secondo una stima dell’Intek, i 50.000 euro per anno e soprattutto il fatto che l’82% delle aziende riceve proposte di finanziamento direttamente da enti ed associazioni. Restano seriamente aperti una serie di problemi che riguardano innanzitutto la modalità effettiva della erogazione di tali fondi, cioè il fatto che le aziende entrino o meno in un circuito di costruzione di “equal partnership”, sviluppando i fattori strategici da cui tale costruzione dipende e che il principio di internalizzazione della partnership tra profit e non profit comporta, in un contesto, peraltro, ancora fortemente segnato dal rapportarsi delle criticità sociali non alla crescita propositiva delle visioni strategiche dell’impresa, ma al sostegno e al soccorso delle istituzioni pubbliche. In secondo luogo va analizzato il modo di operare delle fondazioni, in particolare quelle di origine bancaria che, seppure con alcune eccezioni di rilievo, adottano un comportamento del tutto consono all’idea di una filantropia scarsamente proattiva e, di conseguenza, scarsamente votata al principio di reciprocità. Una filantropia che tende a convalidare, nella pratica, un principio teorico, privo di relazionalità evolutiva, che erroneamente identifica tout court filantropia e assistenzialismo. Con una metafora, ispirata al Medioevo, definirei tale atteggiamento come la “pratica della feritoia”. Una minuscola finestra dalla torre erogatrice dei grants si apre e rovescia sul grant-seeker un sacco contenente monete d’oro. Il beneficiato non ha il tempo di volgere lo sguardo verso il generoso benefattore che la feritoia si è giù richiusa, per riaprirsi soltanto al momento della richiesta del rendiconto, senza che alcun evento comunicativo tra le due parti sia realmente intervenuto. Si tratta ovviamente di una estremizzazione, che presenta, fortunatamente, numerose e crescenti eccezioni, ma che serve tuttavia ad illustrare il prevalere di una 135


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cultura della distanza comunicativa tra le fondazioni e chi riceve i finanziamenti. Tale carenza comunicativa è particolarmente densa di conseguenze quando i grantseekers sono le istituzioni non profit, in quanto limita le possibilità di un intervento mirato al rafforzamento delle abilità organizzative e gestionali di tali istituzioni e tende a rafforzare la logica dell’appiattimento delle richieste, sulla base dell’adeguamento alle richieste del donatore. In queste condizioni stenta a svilupparsi una progettualità strategica che, educando i partners alla collaborazione, rafforzi le loro culture organizzative e la capacità degli attori di produrre “reazioni” nel contesto di riferimento, suscitando l’interesse di altri attori proattivi, sia nell’ambito dell’impresa, sia in quello delle istituzioni pubbliche, sia in quello della società civile nel suo complesso. Un problema di grande rilievo è, dunque, quello di educare alla cultura comunicativa lo staff e soprattutto gli executives delle fondazioni, abituati ad attività di selezione, erogazione e valutazione dei finanziamenti, secondo protocolli talora molto standardizzati ma raramente indotti a porsi problemi di leadership nella gestione dei programmi, di ricerca e definizione di development funds per la loro piena realizzazione, di mutamento organizzativo delle istituzioni coinvolte, di sviluppo di strategie di collaborazione tra partners diversi, di produzione a flusso continuo di dati, di monitoraggio delle performances, in forma processuale e non solo attraverso rendiconti finali. Aspetti di criticità nello sviluppo di un agire filantropico ad altro potenziale di investimento sociale non mancano neppure nel continente nord-americano. Da molte parti si è sostenuto che la crisi della new economy ha comportato una crisi, per alcuni esiziale dello slancio innovativo della “venture philanthropy” sul modello inaugurato dagli imprenditori della Silicon Valley. Figuriamoci, dunque, se questo approccio può avere un futuro in un paese come l’Italia in cui le fondazioni, soprattutto quelle di origine bancaria, nonostante la risoluzione delle vicende legislative che ha finalmente sancito la loro natura di istituzioni private, continuano a privilegiare una politica dell’intervento per settori, a caratte136


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re eminentemente locale, nella maggior parte dei casi poco propenso alla creazione di networks ispirati al principio della “regional stewartship”. Una politica di intervento che resta ben assestata nelle articolazioni con enti pubblici di varia natura e che è poco incline a sviluppare un proattivismo ispirato alle strategie del rischio innovativo, innanzitutto perché responsabilmente assunto. Eppure, come ci hanno ricordato autori classici come Putnam, l’Italia è storicamente il paese in cui la società civile si è sviluppata secondo le forme di una cittadinanza partecipativa, animata nei periodi di massimo splendore della nostra storia, anche dalle Casse di Risparmio, che, alle origini, sono state artefici di un pro-attivismo municipale di grande impatto sociale e non solo economico, attivando reti di collaborazione intersettoriale tra le élites cittadine e con la partecipazione delle “forme elementari” di aggregazione sociale e comunitaria (le associazioni professionali e di mestiere, le confraternite, le società di mutuo soccorso) e certo, non da ultimo, le famiglie, in particolare le famiglie imprenditoriali. Il problema se il modello della “venture philanthropy” sia risolutivo rispetto alla crescita di un agire filantropico che integri rischio, responsabilità e riflessività, e se esso possa o meno attecchire nel nostro paese, rischia tuttavia di essere mal posto. Non si tratta infatti di stabile se la “venture philanthropy” sia o meno in crisi nelle aree in cui è emersa come fenomeno di vero o presunto cambiamento del ruolo sociale dell’agire filantropico. Si tratta di capire, al di là del dibattito sulla applicabilità delle tecniche del “venture capital” all’agire filantropico, se gli orientamenti che sottendono tale approccio, tendano o meno a generare un “habitus forming force”, una matrice generatrice di comportamenti che mettano in relazione l’agire filantropico con la logica imprenditoriale e al tempo stesso siano in grado di fertilizzarla, nell’intreccio di valori che, a loro volta, definiscono delle pratiche in cui sono contenuti i tre principi sopra evocati: il rischio della scelta, la responsabilità dell’operare, la riflessività sull’operato. 137


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6. Agire filantropico e Creatività Comunitaria: Alcune Considerazioni Finali È interessante osservare come il processo di decantazione e di ripensamento critico rispetto all’iniziale slancio propulsivo della “venture philanthropy” nel contesto nord-americano, non sia connesso tanto al radicalizzarsi, in forme di crescente protagonismo, del ruolo degli individui (i nuovi filantropi di Wall Sreet) che ne sono stati i protagonisti, attraverso i fasti e le crisi della new economy, ma ad un processo di spersonalizzazione, connesso alla forte penetrazione del principio dell’agire filantropico proattivo nell’ambito delle fondazioni e delle associazioni di fondazioni di tipo comunitario. Le “Community Ventures” infatti hanno come obiettivo prioritario l’irrobustimento della capacità di azione delle organizzazioni non profit, delle associazioni di cittadinanza attiva, dei comitati adhocratici – a carattere temporaneo e sperimentale – che nascono attorno ad esse per creare reti di competenze finalizzate alla risoluzione dei problemi di maggiore rilevanza sociale per le comunità. E questo non attraverso erogazioni di denaro che provengono da un solo donatore, ma attraverso una strategia di mobilitazione di investitori i cui fondi vengono direzionati “not in the Next Big Think, but in small business which could create jobs in low income communities, which offer their employees good wages and the skills to develop their own wealth”, producendo, dunque, quello che Bud Calligan ha definito a “double bottom line approach, looking for both financial and social pay-off 43”. Si tratta a ben vedere, seppure sotto un profilo più evocativo che effettuale, date le mutate condizioni del contesto storico e organizzativo, di un orientamento non molto dissimile da quello che aveva animato l’impresa olivettiana nel Canavese, negli anni del Secondo dopoguerra. L’interrogativo inerente le potenzialità di sviluppo di una nuova filantropia orientata all’irrobu-

43

P. Delevett, Capitalist Venture out with Charity, in “Mercury News”, 23 aprile, 2003. http://www.siliconvalley.com/mld/siliconvalley/business/columnists/peter_delevett/

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stimento e non solo al sostentamento in termini di pura sopravvivenza del settore non profit riguarda, dunque, non solo le forme di organizzazione dell’impresa nel nostro paese ma anche la loro cultura organizzativa e, in primis, la cultura organizzativa di quelle istituzioni ibride – nate, cioè, in contesti spuri, come gli enti statali, le opere pie, gli istituti di credito – che rappresentano, oggi, una parte non esigua del variegato panorama delle fondazioni in Italia. Una cultura che non possedendo i canali di trasmissione di un’eredità storica, restata incapsulata in esperimenti isolati, o, come nel caso Olivetti, oggetto di interventi di “normalizzazione” nell’ambito dei modelli dominanti nella grande impresa familiare e delle sue cerchie sociali ed istituzionali, risulta “prensile”. E questo soprattutto rispetto alle scorciatoie offerte dalla certificazione della Responsabilità Sociale d’Impresa: strumento di legittimazione o per meglio dire di reputazione e di visibilità, fattore di contenimento degli abusi economici, ambientali e sociali ma certamente vettore di limitato impatto nella realizzazione di un cambiamento sociale, in cui, come sottolinea Kramer, “everybody wins”. A partire da quanto abbiamo argomentato, è nostra convinzione che la filantropia d’impresa ad alto potenziale di impegno sociale (“high engagement philanthropy”), non possa avere in Italia alcuna possibilità di disseminazione se non agendo al di fuori dei canali predisposti dalla standardizzazione dei codici etici della RSI e chiamando, invece, a raccolta quanti nel mondo delle organizzazioni profit e non profit condividono, sulla base della individuazione del ruolo dell’impresa come fattore istituzionale costitutivo dell’agire economico, sociale e ambientale – nella e per la società civile – un modus operandi che si basa, alla radice, su matrici prodotte non da codici etici ma da comportamenti e da una visione olistica dell’agire imprenditoriale. Perché tale modus operandi si affermi come cultura organizzativa è assolutamente necessario incidere su fattori strategici, come la formazione di una nuove professionalità nel settore della filantropia e del non profit. L’educazione alla collaborazione intersettoriale degli executives delle fondazioni e dei donors nel settore privato e del139


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l’impresa, così come la formazione degli operatori del non profit e di coloro che nelle istituzioni pubbliche hanno il compito di interagire con gli attori di una filantropia proattiva, è uno dei vettori di un cambiamento che non può certo basarsi solo sull’applicazione di tecniche economico-finanziarie sofisticate. Il rischio è, infatti, che quelle tecniche vengano applicate nel vuoto prodotto dall’assenza di matrici culturali e di una visione strategicamente orientata all’incivilimento del contesto e non solo all’efficienza erogativa. Ciò che appare impellente è l’attivazione di gruppi di lavoro a cui collaborino program officers delle fondazioni, ricercatori, imprenditori e consulenti per la produzione di casi d’impresa, selettivamente orientati a definire, non solo quante e quali aziende rispettano gli standards etici, ma che evidenzino i processi di formazione di una cultura della “benevolenza civile e sociale, organizzata e orientata allo scopo” condivisa dalle aziende, dalle fondazioni e dalle associazioni non profit. In un siffatta logica anche il modello di governance delle fondazioni e più in generale delle organizzazioni non profit tende a subire processi di adattamento agli orientamenti di un agire filantropico proattivo, sostituendo alle gerarchie organizzative derivate dal modello amministrativo, modelli più consoni ad un meccanismo decisionale di tipo orizzontale44. È interessante osservare che il modello di governance a carattere “amministrativo” – verticistico e centrato sul ruolo del segretario generale, orientato al controllo più che alla progettualità e al coordinamento delle forze attive a livello territoriale attraverso il volontariato e le associazioni dei cittadini – tende a prevalere, nel nostro paese, anche nell’ambito delle fon-

44 Su questo aspetto rimando al mio Vincoli e oppurtunità del cambiamento organizzativo: la governance delle Fondazioni tra strategia e struttura, relazione presentata all’Università di Salerno in occasione delle celebrazioni del Decennale della Facoltà di Scienze Politiche. Si veda in part. M. Golenski, Best Practice in Board Governance: implememntig Changes that Make a Difference, Grand Valley State University, september 2002 e Edward L. Glaeser, The Governance of non-profit organizations, Chicago University Press, Chicago, 2003.

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dazioni comunitarie45, presenti in Italia dalla fine degli anni novanta del secolo scorso. Rispetto a questo modello di governance, l’apporto di dinamismo evolutivo prodotto dall’introduzione, ormai generalizzata, dello strumento del bilancio sociale risulta sottodeterminata nel generare processi di crescita di interattività sociale e istituzionale sul modello della “regional stewartship” sopra enunciato. Su una territorialità creativa e interattiva sembra prevalere un modello localistico, che rischia di lasciare ampi margini di controllo a gruppi di interesse politico ed economico. Perché strumenti di innovazione gestionale come il bilancio sociale, identificato come lo strumento che alimenta e sostiene i principi della trasparenza e della accountability, assumano una funzione strategica è necessaria, innanzitutto, una rifocalizzazione che realizzi il passaggio da una interpretazione che individua il bilancio sociale essenzialmente come rendicontazione etico-sociale – volta ad allargare “la prospettiva delle comunicazioni sociali dalle relazioni tra impresa azionisti alle relazioni tra l’impresa e i suoi molteplici stakeholder46” – ad una visione che ne privilegi la dimensione organizzativa. Essa deve essere volta non solo a potenziare i meccanismi di reputazione esterna e interna delle fondazioni ma anche a fare emergere il loro ruolo di promotrici di nuove capacità progettuali, internalizzando la dimensione del rischio come fattore strategico. Solo da questo mutamento di traiettoria, che sposta l’at45 Si paragoni la governance delle fondazioni comunitarie proposta dal network Filantropia comunitaria promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde (La Fondazione della Comunità locale, Quaderni operativi, La struttura, p. 2) con quelli delle Fondazioni di Comunità nel continente Nord-americano. In Italia la governance è a struttura verticistica caratterizzata da una complessa articolazione di comitati permanenti, negli Stati Uniti e in Canada, la governance è di tipo orizzontale, basata su comitati ad hoc, dotati di un forte potenziale di dinamismo e di flessibilità evolutiva) 46 Progetto Q-Res: la qualità della responsabilità etico-sociale d’impresa. Linee-guida per il management, Liuc Paper s. 95, Serie etica, diritto ed economia, ottobre 2001, pp. 15-16.

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tenzione dai criteri di formulazione e di argomentazione del documento di bilancio sociale, alla sua natura di strumento di definizione di valori e di missioni socialmente condivise, dotandole di strumenti organizzativi a rapido circuito di assimilazione ed ottimizzazione47, è possibile fare emergere i nuovi orientamenti di un “agire filantropico orientato strategicamente allo scopo”, non solo attraverso i progetti ma in relazione ai contesti. Un agire ad alto potenziale di impegno sociale (“high engagement philanthropy”) deve essere in grado di sostenere i beneficiari nella definizione dei propri obiettivi, nella loro realizzazione e nella loro gestione, secondo un piano maieutico che ne rafforzi nel medio periodo gli assetti organizzativi e nel lungo periodo i caratteri distintivi, in termini di identità culturale e progettuale. In questo passaggio lo strumento di una governance adeguata agli scopi e in grado di stimolare la crescita di netowrks dotati di memoria rispetto al territorio di appartenenza e di connessioni dinamiche con le comunità di riferimento, è di assoluto rilievo. Solo in tal modo vengono poste le condizioni per il raggiungimento del massimo risultato in termini di impatto sociale e si attua una catena dei valori sociali, economici e ambientali che, in quanto generatrice di investimenti che, a loro volta contengono tali valori, è in grado di trasformarli, retroattivamente, in matrici del cambiamento sociale. Queste considerazioni ci portano ad una valutazione conclusiva che sintetizza quanto argomentato in queste pagine. All’alba del XXI secolo le fondazioni non sono più soltanto semplici veicoli di giustizia distributiva, correttivi caritatevoli agli eccessi della società capitalistica, ma si qualificano come investitori nella creazione della catena del valore. Tale asserzione rinvia al nodo cruciale del problema da noi affrontato. Il ruolo competitivo della filantropia d’impresa – di una filantropia che fa sua la capacità di suscitare cambiamento sociale propria dello

47 Si v. al proposito A. Hinna, Il bilancio di missione da strumento di misurazione a leva di governo dell’organizzazione in M. Crescenzi (a cura di), Manager & Management Non Profit. La sfida etica, Edizioni Asvi, Roma, 2002

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OSSIMORI: I VANTAGGI COMPETITIVI DELLA FILANTROPIA D’IMPRESA

spirito dell’intraprendere e che non è, dunque, una funzione riconducibile esclusivamente alle “aziende” industriali e finanziarie, ma un fattore pervasivo nell’agire sociale – dipende dal modo in cui il capitale sociale – cioè l’insieme delle configurazioni, come i networks, le norme e le relazioni basate sulla fiducia che nelle organizzazioni sociali, facilitano il coordinamento e la cooperazione volte alla realizzazione di catene di reciprocità e di mutuo beneficio48 – si coniuga e si articola nella complessità del sistema sociale. Il valore aggiunto della filantropia d’impresa, i cui assets non dipendono dunque esclusivamente dalla configurazione dell’impresa e che, così intesa, è qualcosa di diverso dalla “corporate philanthropy”, sviluppatasi in correlazione ai modelli del capitalismo statunitense nel corso del XX secolo, può manifestarsi pienamente solo quando le forme auto-organizzative della società favorisco il passaggio da un agire sociale ispirato esclusivamente ad una giustizia distributiva, ad un agire sociale che stimola la crescita della giustizia commutativa, generatrice di valori e di processi identitari e partecipativi. Un percorso che in Italia, stante l’atteggiamento prevalentemente autoreferenziale delle istituzioni private che dichiarano di praticare i percorsi della responsabilità sociale, da un lato, e il permanere dei sistemi di delega della criticità sociale alle politiche della mano pubblica, appare tutt’altro che scontato49.

48 J. Coleman, Foundations of Social Theory, Harvard University Press, Cambridge, 1990; R. Putnam, The Prosperous Community: Social Capital and Public Life, in “The American Prospect”, vol. 13, spring 1993, pp. 13-45 e inoltre R. Putnam Bowling alone: the collapse and revival of American community, Simon & Schuster, New York, 2000. Per una rifocalizzazione di queste tematiche nel contesto del dibattito sulla configurazione dei Social Capital Markets si v. J. Emerson The Nature of Returns: A social Capital Markets Inquiry into Elements of Investment and The Blended Value Proposition, in “Social Enterprise Series”, n. 17, HBS, Boston Ma. 49 Si v. al proposito il graffiante articolo di F. Maggio, Quei banchieri così autoreferenziali, in “Vita. Etica e Finanza”, 14 novembre 2003.

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Non profit, capitale sociale e sviluppo economico: Il caso della Coastal Enterprise Inc., nell’area del Maine* Flaminio Squazzoni

1. Introduzione Il saggio intende presentare un’indagine sul ruolo delle community development corporations (d’ora in poi CDCs) come vettori di consolidamento della “venture philanthropy”. Le CDCs rappresentano una forma innovativa di soggettività sociale e un nuovo strumento di espressione della progettualità in campo sociale. Esse possono infatti funzionare come architetture di mediazione, integrazione, sintesi e apprendimento tra logiche e modus operandi del corporate business e meccanismi sociali tipici dell’universo del non profit, divenendo vettori di espressione ed amplificazione della “civic entrepreneurship” emergente dalle comunità locali e giungendo ad internalizzare rilevanti funzioni di “policy making”, usualmente ricoperte da istituzioni politiche più tradizionali (si veda Henton, Melville, Walesh 2004). Grazie alla loro posizione interstiziale, all’intrec-

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Il presente saggio è maturato all’interno di un progetto di ricerca su “Nonprofit, capitale sociale e sviluppo locale” finanziato dalla Fondazione Cariplo e sviluppato all’interno del Dipartimento di Studi sociali dell’Università degli Studi di Brescia nel 2002-2003. Il team di ricerca del dipartimento è composto da Giancarlo Provasi (coordinatore), Marco Belfanti, Lorenzo Bordogna, Sergio Onger, Giangiacomo

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cio tra forme associative della comunità locale e istituzioni della società globale, esse possono costituire importanti vettori di catalizzazione e istituzionalizzazione delle potenzialità trasformatrici contenute nella “venture philanthropy” e diventare sempre più luoghi di produzione di nuove forme di sperimentazione e progettualità sociale, capaci di superare le pratiche, la visione disciplinare e la divisione del lavoro che rimangono a ricordarci l’eredità della modernità. Il saggio è organizzato in questo modo: nel secondo paragrafo viene presentata una breve descrizione del contesto nel quale le CDCs, intese come soggetti portatori di una cultura progettuale non convenzionale, sono via via emerse; il terzo paragrafo presenta un’analisi delle CDCs secondo varie prospettive, da quella del loro rapporto con le comunità di riferimento a quella dei meccanismi di base che le caratterizzano in senso organizzativo, sino all’analisi della loro “localizzazione”, all’intreccio fra business, associazionismo e istituzioni legate al dono; nel quarto paragrafo viene presentato uno studio di caso che ruota attorno alla Coastal Enterprise, Inc., una CDC attiva dal 1977 nell’area del Maine, soprattutto con progetti legati all’industria della pesca; nel paragrafo conclusivo, vengono tracciate le fila del saggio, soprattutto sul tema delle CDCs come vettori potenziali di istituzionalizzazione della “venture philanthropy”. Bravo, Marco Castellani, Anna Codini e dal sottoscritto. Sono debitore a tutti i membri del team per le numerose discussioni che abbiamo avuto nel corso dell’ultimo anno, discussioni che ci hanno aiutato a organizzare il lavoro, a focalizzare sugli obiettivi della ricerca e che hanno notevolmente arricchito il mio lavoro di ricerca. Sono inoltre debitore a diversi soggetti che hanno contribuito a condividere informazioni, discutere su alcuni temi rilevanti per la ricerca e, in realtà, a rendere possibile questa stessa ricerca. Mi preme ricordare, innanzitutto, John McNight, Jody Kretzmann e il team dell’ABCD Institute della Northwestern University, Evanston, Chicago, composto anche da Deborah Puntenney e Sarah Dobrowolski. Per la ricostruzione del caso descritto nel corso del saggio, desidero ringraziare Elizabeth Sheehan, project director della Coastal Enterprises, Inc. e responsabile del “Maine Fisheries Project”. Ringrazio, inoltre, Giuliana Gemelli, il team del Master in International Studies in Philanthropy di Bologna e gli studenti stessi del master per le preziose discussioni avute sui contenuti di questo saggio. Chiaramente, l’autore è da considerare come il solo responsabile dei contenuti del saggio. Dipartimento di Studi Sociali Università degli Studi di Brescia squazzon@eco.unibs.it.

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2. Il contesto: comunità “proattive”, partnership progettuali e polifonia degli attori dello sviluppo Negli ultimi decenni, lo sviluppo locale a livello di comunità è divenuto oggetto di dibattiti, ricerche e iniziative politiche, sia negli Stati Uniti, sia che a livello internazionale (Babacan e Gopalkrishnan, 2001; Leeming 2002). Di fronte alla crisi del Welfare State e degli approcci standard di politica economica, basati principalmente su strumenti di ingegneria istituzionale top-down e outside-in e su politiche tradizionali di incentivazione sui fattori, gli strumenti di policy per lo sviluppo tendono via via a trasferirsi a livello regionale e locale, dando priorità assoluta ad attori locali, espressione di differenti settori e a specifiche attività di progettazione congiunta fra di essi (Kretzmann e Green 1997). Il livello delle attività di “policy making” tende sempre più a slittare dalle tradizionali istituzioni aggregate a vario livello sino alle comunità locali in varie forme e secondo una nuova polifonia di attori (Emerson 1996; Jeggings 2002; Mathie e Cunnigham 2002). Lo slittamento istituzionale sembra delineare una risposta adattiva generalizzata rispetto ad una fase di restrizione delle risorse statuali e alla necessità di articolare nuove vie per la produzione di beni pubblici e servizi sociali, con una riappropriazione di spazi di agency per attori non convenzionali, espressione diretta del sostrato di “civicness” che sostanzia le comunità (Moore e Puntenney 1998; Poole, Ferguson, Di Nitto, Schwab 2002). L’insieme di risposte abbastanza coerenti alla crisi della “statualità” come organo di erogazione di risorse e produzione di servizi sociali sembra essere contestuale alla crescente necessità di produrre beni e servizi sociali a forte contenuto specifico e differenziato e, quindi, alla necessità di ridurre l’impersonalità e le asimmetrie informative che caratterizzano l’azione di produzione di servizi pubblici da parte delle istituzioni statuali (Weisbrod 1997) e di rispondere a casi generali di fallimento della mano pubblica e del mercato nello sfruttamento e nell’amplificazione di risorse e capabilities di imprenditoria sociale locale (Mcnight e Kretzmann 1993). Si è da più parti iniziato a ragionare intorno al nuovo “community paradigm” dello sviluppo economico e all’idea di “proactive communities”, viste non più come “development takers” ma come “development makers”, sia in conte147


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sto americano sia a livello internazionale (Norris 2001a, 2001b; Robinson 1995; McCall 2003). L’approccio allo sviluppo comunitario che sta maturando negli ultimi anni, più che le tradizionali idee di policy di stampo keynesiano, ricorda l’idea hirschmaniana di sviluppo economico, secondo cui “lo sviluppo non dipende tanto dal trovare combinazioni ottime di risorse e di fattori produttivi dati, quanto dal richiamare e dall’arruolare per lo sviluppo risorse e capacità nascoste, disperse o mal utilizzate” (Hirschman A.O., 1958, p. 6) e l’idea di Sen (1999) sull’importanza della agency e delle capabilities locali come vettori di creatività sociale e di sviluppo e come indice di “ben-essere” delle comunità (Jasek-Risdahl 2001). Lo slittamento dei centri di policy verso il basso ha contribuito a complicare il quadro degli attori coinvolti nei progetti di sviluppo, dando importanza primaria a soggetti quali le CDCs, le fondazioni e le diverse organizzazioni non profit attive sul territorio a livello locale, contribuendo inoltre a rendere più dinamica e mutevole l’architettura di sostegno alle attività di progettazione dello sviluppo (Reed 1999; Silverman 2001). Tramite questa nuova polifonia di attori, sono emerse nuove capacità di agency a livello locale e, contestualmente, nuove forme e nuove possibilità di auto-organizzazione e commitment della società civile nelle pratiche di conseguimento di obiettivi collettivi (McNight 1995; 2003; Katz 1997). Grazie a questa polifonia di attori, le fasi di disegno dei progetti di sviluppo locale hanno potuto beneficiare di strutture a partnership fra attori di natura differente, quali istituzioni pubbliche, fondazioni non profit, imprese, associazioni civiche e CDCs (Sarason e Lorentz 1998). Piattaforme di partnership fra attori differenti, dotati di risorse, vision e capabilities varie, dimostrano di poter risolvere meglio alcuni problemi, considerati troppo complessi per poter essere risolti attraverso un’ottica di strategia settoriale (Bradshaw 2000). Inoltre, all’interno di queste piattaforme si possono generare meccanismi di “mutual benefit” che aumentano la tendenza e la capacità degli attori coinvolti nell’internalizzare le best practices e le specialità maturate su diversi terreni (Sagawa e Sega 2000), “capturing the most productive styles of working” (Blaxter, Farnell e Watts 2003), innescando spesso meccanismi catalitici e di moltiplicazio148


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ne delle esternalità positive, derivanti dalla mobilitazione di assetti di risorse integrate e complementari (Austin 2000; Desai e Margenthaler 1994; Duenˇes L. et al. 2001; Samii, Van Wassenhove e Bhattacharya 2002). Sul fronte del “corporate business”, le trasformazioni significative aperte da questi meccanismi di “mutual benefit” sono relative all’aumento del commitment e della responsabilizzazione diretta dell’impresa come soggetto sociale, con la tendenza a trasferire ed esternalizzare a terzi conoscenze, stili di lavoro, capitale umano, tecnologie manageriali, la disponibilità a fare dell’investimento filantropico un vettore strategico interno alle logiche d’impresa e la riqualificazione delle esperienze di imprenditorialità sociale comunitaria come fonte di arricchimento per il business, perché luogo di produzione di capitale reputazionale, sociale ed intellettuale rilevante per l’impresa (Porter e Kramer 1999; 2002; Hemphill 1999; Hess, Rogovsky, Dunfee 2001; Larson 2002; Kosminsky 1997). Sul fronte delle fondazioni, le trasformazioni significative sono relative alla fuoriuscita dalle logiche tradizionali della donazione filantropica e all’inveramento di logiche di partnership, progettualità diretta, “high commitment”, localizzazione dinamica e bi-direzionalità nella relazione tra donatore e ricevente (Austin 2000; Community Wealth Ventures, Inc. 2002; James Irvine Foundation 2003). Sul fronte delle associazioni comunitarie, attori quali le CDCs, in una posizione di “frontline” tra associazionismo comunitario e istituzioni a vasto raggio (Ferguson e Dickens 1999), costituiscono sempre più la via per la produzione di capitale sociale, la mobilitazione diretta delle comunità (Ashman, Brown, Zwick 1998), la capitalizzazione di investimenti filantropici e la realizzazione di progettualità sociali in forme congiunte, giungendo a costituire, in sostanza, una via di consolidamento di pratiche progettuali multi-settoriali particolarmente innovative (Arsenault 1998). Vale la pena di sottolineare, in sostanza, come queste nuove traiettorie dello sviluppo stiano contribuendo a porre al centro dell’arena pubblica attori quali le fondazioni, le imprese e le organizzazioni comunitarie, consolidando, in qualità di proprietà emergenti all’interno di questa arena, un circuito virtuoso tra “strategic corporate philanthropy”, “high commitment grant-making foundations” e 149


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attori sociali dell’universo del non profit, quali le CDCs. E questo, in un intreccio orientato dall’istituzionalizzazione di pratiche di “venture philanthropy”, finalizzate alla ricerca e alla sperimentazione di forme progettuali innovative che ri-segmentano e al contempo trasformano i meccanismi moderni della divisione settoriale del lavoro e le logiche disciplinari dello sviluppo (Emerson 2003; Reis, Clohesy 2001). L’approccio multi-settoriale e le partnership progettuali diventano elemento imprescindibile al fine di amplificare le capacità di risposta e di innovazione delle comunità di fronte alla soluzione di problemi complessi, intrecciati e caratterizzati da forti caratteristiche al tempo stesso globali e locali, economiche e sociali (Scott 2002; Reis, Clohesy 2001). 3. Le CDCs: strumenti di agency e di empowerment comunitario e vettori di consolidamento della “venture philanthropy” All’interno delle nuove traiettorie dello sviluppo, rispetto a meccanismi istituzionali più tradizionali di allocazione delle risorse, quali quelli di natura pubblico- statuale e quelli basati sul settore privatistico di mercato, organismi quali le CDCs ricoprono sempre più un ruolo fondamentale di mediazione e integrazione tra istanze di agency a livello della società civile e una pluralità di attori istituzionali, quali imprese, fondazioni e istituzioni pubbliche (Mendel 2003). Pur sulla base di una tradizione di sviluppo di lungo periodo1, esse rappresentano forme di espressione di “nuove soggettività sociali” (Ferrucci 2001), strettamente legate al tessuto

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Vidal (1997) ricostruisce il profilo storico di sviluppo delle CDCs, a partire dalla fase generale di decollo che coincide con l’emergere di importanti istituzioni finanziarie di intermediazione come la Enterprise Foundation, la Local Initiatives Support Corporation e la Neighborhood Reinvestment Corporation negli anni 1979-1981 e i mutamenti di contesto socioeconomico, filantropico e politico che ne hanno favorito la diffusione.

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relazionale che sostanzia la società civile, ma al contempo orientate al tessuto istituzionale che caratterizza le società moderne. Nel nuovo contesto filantropico di “high commitment”, dove si assiste ad un significativo slittamento dell’azione filantropica dall’approccio “generalista” a quello “specifico”, dal grant-making all’investimento progettuale, dal semplice finanziamento alla costruzione di capacità organizzative e manageriali (Emerson 1996; 2003), così come nell’universo di pratiche legate alla progettualità sociale, le CDCs sembrano trovarsi sempre più poste in una zona di vantaggio competitivo crescente, rispetto a forme organizzative più tradizionali e rispetto al contesto di pochi decenni fa (Brewerton, Callahan, Gobert 1978; Von Hoffman 2001). Si tratta di un vantaggio relativo alla loro capacità di produrre beni collettivi di natura prevalentemente relazionale, rafforzare il capitale sociale di una comunità (Ashman, Brown, Zwick 1998), attivare esternalità positive ed effetti moltiplicatori sul tessuto sociale ed economico delle comunità, gestire problemi collettivi di natura complessa attraverso il sostegno a forme dirette di agency ed empowerment locale (Eisen 1994; Fawcett et al.1995; Laverak 2001) e creare connessioni tra l’universo della filantropia e dell’investimento pubblico e la progettualità manageriale e strategica “community problem-oriented” di diversa estrazione, sia for profit che non profit. Le CDCs stanno avendo un ruolo significativo nell’istituzionalizzazione della “venture philanthropy” come meccanismo di generazione, razionalizzazione ed allocazione di risorse di varia natura (finanziarie, umane, tecnologiche, sociali), connettendo “best practices”, emerse sul terreno manageriale proprio del business, a logiche di imprenditoria sociale emergente a vario livello (organizzazioni non profit, associazioni civiche, fondazioni) (Phillips 2000). Attraverso dinamiche di partnership progettuale tra CDCs, fondazioni private e comunitarie e imprese, si sono aperte reti ibride, dense di nuove risorse simboliche e materiali capaci di innescare “generative relationships”, innervate da una fertilizzazione incrociata e continua fra pratiche, linguaggi e visioni differenti 151


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caratterizzate dalla capacità di mobilitare e connettere risorse economiche e sociali per lo sviluppo (Austin 2000; Jegen 1998). Per diverse ragioni, le CDCs costituiscono, quindi, risorse sempre più fondamentali sia per le fondazioni sia per le imprese. Innanzitutto, esse hanno un lungo e profondo radicamento nelle comunità di riferimento, con capacità di mobilitazione e attivazione di risorse partecipative, conoscenza delle problematiche comunitarie, capacità di individuazione-selezione di progetti, riduzione delle asimmetrie informative che caratterizzano il legame tra donatori e riceventi e capacità inclusive di tipo relazionale rispetto a un vasto raggio di attori. In questo senso, esse dimostrano una capacità significativa di individuare e sostenere investimenti filantropici di tipo strategico, consentendo agli attori coinvolti dal lato della donazione di avvantaggiarsi della capacità delle CDCs di identificare, selezionare e attivare progetti su concreti bisogni delle comunità, consentire il trasferimento, la circolazione e la produttività di risorse di diversa natura (finanziarie, umane, know-how, technicalities, tecnologie), pubblicizzare direttamente le attività di donazione, radicare gli attori nel tessuto sociale delle comunità di riferimento. In secondo luogo, esse hanno la possibilità di generare economie di scala e scopo rispetto a progetti d’investimento comunitario, con l’offerta di servizi e infrastrutture collettive, amplificando un circuito di esternalità positive rispetto alla natura dei progetti e alle risorse del contesto, consentendo forme di progettualità di lungo periodo, a vario livello e favorendo meccanismi di auto-sostentamento, replicazione, empowerment e capacity building degli attori comunitari (Phillips 2000; Jegen 1998)2. Infine, esse, sulla base di capitale reputazionale costruito nel tempo grazie al radicamento comunitario, consentono di produrre una delle risorse più delicate nella fase di traduzione degli investimenti in progetti finalizzati alla produzione di bene pubblici a forte valenza rela2 Vale la pena inoltre di ricordare come il legame con le CDCs sia una via attraverso la quale le charitable foundations e le fondazioni bancarie di natura commerciale possono avvantaggiarsi del Community Reinvestment Act.

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zionale: il capitale sociale nelle sue varie forme e un circuito positivo di mutualità delle aspettative fiduciarie che rende possibile ridurre i classici dilemmi dell’azione collettiva (Ashman, Brown, Zwick 1998; Mutti 1998). In sostanza, esse costituiscono il veicolo più efficace per istituzionalizzare e rendere produttive forme di collaborazione progettuale finalizzate alla produzione di beni pubblici a valenza relazionale, anche in assenza di gradi rilevanti di capitale istituzionale formale (ruoli, procedure per l’allocazione di risorse e standard generali di fissazione delle pratiche, divisione strutturata del lavoro e così via) (Dhesi 2000). Se si getta uno sguardo allo spettro organizzativo del non profit locale di stampo comunitario, si intravede un caleidoscopio morfologico che va dalle cosiddette “neighbourhood associations”, o “grassroots associations”, espressione diretta dell’associazionismo comunitario, sino alle CDCs, viste come “frontline organizations” che si muovono al confine tra associazionismo locale e istituzioni a vasto raggio (Ferguson e Dickens 1999). Come è stato descritto da Smith (1999a e 1999b), le “grassroots associations” possono essere classificate come associazioni locali, autonome, a base di membership volontaria, in forma di gruppazioni di individui che si impegnano in attività altruistiche, senza dar luogo a una divisione del lavoro secondo strutture funzionali (p. 443). Esse sono caratterizzate da fattori quali: piccola dimensione, struttura semplice, forte autonomia, intensità relazionale, coesione rispetto ai valori e ai fini, membership paritetica, meccanismi di condivisione delle esperienze, tendenza alla reciprocità, alta pressione verso il cambiamento, motivazioni identitarie di partecipazione, diversità e molteplicità dei “beni prodotti”. Una volta che un gruppo di base si sia spontaneamente formato, le “grassroots associations” implicano l’attivazione di meccanismi selettivi di tipo orizzontale e la prevalenza data al comune background sociale degli individui, forme di continuità e aumento nella frequenza di interazioni “faccia a faccia” e nella mobilitazione di risorse comunitarie, rafforzamento dell’intensità relazionale, rafforzamento della solidarietà e della coesione fra individui coinvolti, produzione di risorse diversifica153


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te di supporto ai membri, sviluppo di una “visione condivisa” della realtà, sviluppo di incentivi alla partecipazione, circuito di obiettivi diversificati via via da conseguire e così via (p. 451). Se questo tipo di associazioni si caratterizza per la natura volontaria e spontanea del loro emergere all’interno della società civile, quasi esse fossero un segno della fluttuazione della effervescenza vitale delle società stesse, per la dimensione poco strutturata del fenomeno organizzativo e per la relativa specificità del bene collettivo prodotto (risoluzione di problemi collettivi a base comunitaria ristretta), le CDCs rappresentano una forma organizzativa più strutturata, elaborata, duratura e a vasto raggio d’azione. Esse assumono spesso la forma di imprese non profit e di istituzioni finanziarie locali, sono dotate di elaborate strutture di fund-raising, perseguono specifiche finalità di sviluppo comunitario, hanno capacità di sviluppare una cultura project-oriented a vasto respiro e una rete istituzionale di supporto caratterizzata da risorse di varietà e ridondanza3. Attualmente, nel contesto nordamericano si contano circa 4000 CDCs. Dal 1995 al 1998, esse sono cresciute del 50% in termini di numeri, hanno promosso sino a 40 iniziative legislative ed si calcola che in media abbiano allargato la loro base di membership circa del 15% (si veda Snow 2001, pp. 80-85). Diversamente dalle imprese for profit, esse hanno una struttura di governance direttamente allargata ai rappresentanti delle istanze comunitarie e volutamente incastrata nel contesto sociale comunitario, perseguono una visione di lungo periodo dello sviluppo e si caratterizzano per la disponibilità a impegnarsi in progetti ad alto 3 In questo senso, vale la pena di ricordare l’impatto positivo che l’iniziativa federale del National Congress for Community Economic Development ha avuto sul successo delle CDCs sia in termini di riconoscimento istituzionale che in termini di erogazione e allocazione di risorse finanziarie. A livello di politiche federali, l’idea è quella di sostenere le CDCs attive sul territorio attraverso supporti allo sviluppo di programmi di investimento nella costruzione di abitazioni per disagiati, supporti a istituzioni creditizie orientate all’investimento finanziario a livello comunitario, investimenti diretti in progetti di sviluppo economico, investimenti in aree rurali, supporti legati alla riforma del welfare, agevolazioni fiscali diretti alle CDCs ed investimenti in infrastrutture di trasporto (Snow 2001).

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rischio in assenza di “sicuri” ritorni, innescano volontariamente un circuito di potenziali esternalità positive sul contesto e su altri attori, non sono condizionate dalla difesa della natura proprietaria del bene prodotto e giocano un ruolo di intermediazione sociale e di sintesi che è finalizzato alla produzione di beni pubblici, di stampo prevalentemente relazionale e al rafforzamento del capitale sociale delle comunità. Come le imprese for profit, esse fanno riferimento a un composito mercato di capitali di rischio, operano continuamente attraverso la definizione di partnership progettuali a vasto raggio, spesso costruite volta per volta, usano la reputazione come fonte di attrazione di investimento sul mercato, gestiscono i progetti secondo una prospettiva manageriale, valutano i progetti in termini di efficienza dei risultati e capitalizzazione delle risorse, sviluppano una capacità di auto-osservazione decisamente moderna (bilanci, marketing, report, pubblicizzazione delle attività, ecc.). Diversamente dagli istituti statuali tradizionali, le CDCs hanno un profilo indipendente e privato, sviluppano attività finalizzate al radicamento e al commitment diretto ed esclusivo sul territorio comunitario, riducono alcune aporie connaturate al tradizionale principio della “delega” nel processo decisionale- politico, grazie a principi decisionali di tipo partecipativo su base volontaristica e comunitaria, sono organizzate secondo processi selettivi aperti e dinamici, sviluppano processi decisionali dal basso, attraverso il coinvolgimento diretto degli individui e il decentramento della responsabilità, sono concepite dagli attori stessi come espressione della loro “civicness” e, per questo, si trovano pienamente immerse in un fitto tessuto con associazioni del primo tipo (“neighbourhood” e “grassroots association”). Inoltre, esse stanno su un mercato dei capitali che dipende prevalentemente dall’accumulazione di capitale reputazionale, sono sottoposte a controllo diretto e possibilità di sanzione ed exit da parte dei finanziatori, gestiscono un ciclo di produzione di beni pubblici, di natura squisitamente relazionale, sviluppano progetti via via controllabili e valutabili da parte dei soggetti coinvolti (Hughey, Speer e Peterson 1999; Pagani 2001). Come gli istituti statuali tradizionali, esse perseguono finalità pubbliche e di svilup155


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po e assumono ruoli diretti di “policy makers”, senza ricadere nel dilemma delle asimmetrie informative che caratterizza la produzione di beni e servizi sociali per mano pubblica (generalità e omogeneità vs. specificità e differenziazione del bene). Se si pensa al contesto americano, alle tendenze connaturate alla riforma dello stato sociale, al decentramento delle politiche dello sviluppo e ai principi di sussidiarietà che caratterizzano sempre più i principi di allocazione delle risorse a livello sociale, si può comprendere l’ampliamento dello spazio di agency di questi organismi e l’emergere del loro ruolo di local, player, sempre più strategici nei processi di sviluppo locale, soprattutto per processi di mobilitazione e gestione delle risorse comunitarie, in vista di progetti di sviluppo locale. Come risulta evidente dallo studio di caso descritto di seguito, il ruolo delle CDCs si connette anche alla loro capacità di sviluppare forme organizzative particolarmente appropriate al fine di mobilitare risorse e assetti relazionali che sono originariamente maturati all’interno di altri settori o che hanno finalità originarie estremamente eterogenee (Usnick, Shove, Gissy 1997), grazie al loro ruolo prevalentemente di intermediazione, connaturato al rafforzamento di capitale sociale, nelle comunità di riferimento e all’incentivazione di forme di azione collettiva. Inoltre, l’importanza delle CDCs deriva dal fatto che esse integrano principi di funzionamento tipico delle imprese di business, oltre che, in realtà, la loro tipica attitudine imprenditoriale, come l’uso dinamico di mercati di finanziamento del capitale di rischio e l’incorporazione di strumenti project-management, marketing e valutazione (Jegen 1998), con principi tipicamente non profit come l’intreccio tra staff e volontari, la definizione di progetti a valenza sociale di lungo periodo e caratterizzati da un approccio integrato di tipo multi-settoriale, la focalizzazione su “multiple constituencies” come vettori strategici d’azione (Drucker 1992), l’attenzione alla produzione e riproduzione di risorse strategiche, quali capitale sociale e fiducia collettiva nelle comunità di riferimento, ovvero quello specifico intreccio tra assets tangibili (capitali, beni, servizi, trasferimento tecnologico) e 156


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intangibili (aspettative fiduciarie positive, tendenza alla collaborazione, obbligazioni reciproche) che innerva ogni processo di sviluppo (Hand e Baruch 2003). 4. Studio di caso: la Coastal Enterprise, Inc. nell’area del Maine Numerosi sarebbero i possibili studi di caso sul ruolo delle CDCs come vettori di progettualità e sperimentazione e strumenti di consolidamento di forme strategiche di “venture philanthropy”, soprattutto nel contesto nordamericano (si vedano, ad esempio, alcuni casi descritti in Henton, Melville, Walesh 2004, pp. 137 ss.). La scelta è stata quella di presentare un caso di CDC capace di produrre beni pubblici non residuali, a forte valenza relazionale e localizzata in contesti economici complessi e relativamente avanzati. La finalità è quella di dimostrare come il ruolo delle CDCs non risulti limitato alla produzione di beni e servizi sociali in contesti dove risulti naturale il fallimento e l’exit di meccanismi di regolazione istituzionale più tradizionali (stato e mercato). Contesti che, nell’imperante visione tradizionale delle letteratura europea sul non profit, sono luogo tradizionale di elezione per l’azione di organismi non profit, come nel caso della produzione di beni pubblici legati a servizi socioassistenziali. La scelta è ricaduta sul caso della Coastal Enterprise Inc. (d’ora in poi Cei), soprattutto per la storia, il radicamento comunitario, il capitale reputazionale e l’importanza che questa CDC ha assunto nelle dinamiche di risposta a una crisi industriale in un’area evoluta come quella del Maine. 4.1 La Cei: background e profilo storico La Cei è una CDC attiva nel Maine in forma di organizzazione non profit, 501 (c) 3, sin dal 1977, con una forte impronta “mission driven”, costruita attorno a valori di riferimento quali quelli di “justice, diversity, entrepreneurship, collaboration with partners and stakeholders, customer service, professional development, 157


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employee participation in the workplace, and the health of communities” (CEI 2002b, 9). Come si legge sin dal suo originario “statement of purpose”, la sua mission ruota attorno a un set di attività interrelate e orientate a sostenere forme di progettualità socioeconomica relativa all’area del Maine, quali: “promuovere lo sviluppo, la crescita e la proprietà delle imprese dell’area per i residenti [...] e raggiungere il fine attraverso una serie di obiettivi come i seguenti: sviluppare l’organizzazione come un sistema decentrato controllato direttamente dalla comunità, focalizzarsi sul rilancio dello small business, grazie al supporto della comunità e a legami intersettoriali; reperire e fornire assistenza tecnica e finanziaria alle imprese dell’area nelle fasi di start-up ed espansione, mantenendo obiettivi di proprietà e controllo locale, identificare e sfruttare altre fonti di finanziamento che si rivelino necessarie per la sostenibilità dei progetti, quali fonti provenienti da investitori privati, agenzie governative, fondazioni pubbliche e banche commerciali” (CEI 2002b, p. 6).

Sin dalle fasi iniziali di start-up, le sue fonti di finanziamento dimostrano una natura di “public-private partnership”, con finanziamenti derivanti da due Community Action Agencies, una serie di “faith-based organizations”, tra cui la United Methodist Church, l’American Baptist Churches, la Heifer International e la US Conference of Catholic Bishops e la circolazione di capitali di conoscenze, technicalities e capitale umano, in termini di formazione e capacità manageriali fondamentali per la strutturazione dell’organizzazione che arrivano all’inizio prevalentemente dal settore pubblico. Inoltre, sin dall’inizio la struttura di governance della Cei si basa sul modello di membership bilanciata, con diritti di elezione del board e rappresentanza allargata a soggetti quali banchieri, imprenditori, agricoltori e rappresentanze di comunità low-income tutti attivi nell’area di riferimento (Maine). Dal punto di vista dell’attuale profilo organizzativo, la Cei consta di un staff di 92 persone di estrazione eterogenea, suddivise in otto aree: General Mangement/ Administration, Housing, Finance, Cei Ventures, Inc., Cei Community Ventures, Inc., Technical Assistance, 158


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Training and Education, Policy and Research, Targeted Opportunities. Il “board of director” è formato da 15 rappresentanti con differenti background ed esperienze settoriali. Si tratta di soggetti provenienti dal mondo finanziario e d’impresa, dal settore pubblico, e di soggetti rappresentanti delle comunità del Maine. Oltre al board vi sono tre “standing committees”, nelle aree Executive, Investment, e Finance and Evaluation (2002a). La Cei ha sedi sparse in tutto il Maine, con “community-based offices” in quasi tutti i maggiori centri della regione che lavorano a stretto contatto con la sede principale a Wiscasset ed ha recentemente organizzato un “Practitioners Working Group on Community-Based Economic Development” in modo da connettere risorse e far circolare “best practices” fra CDCs in aree economiche in forte transizione quali Polonia, Ungheria, Slovacchia e Albania. Le attività di partnership progettuale della Cei configurano una rete polifonica di attori che copre numerose istituzioni finanziarie di diversa natura e operanti a diverso livello, da quello comunitario a quello federale, imprese, organizzazioni non profit a base religiosa, agenzie governative a vario livello ed associazioni, quali il National Congress for Community Economic Development, un’associazione che comprende più di 1000 CDCs, la Local Initiative Support Corporation, un’istituzione di intermediazione che fornisce supporto finanziario e tecnico a diverse CDCs e la National Community Capital Association, un’associazione che sviluppa attività di formazione rivolta alle CDCs (si veda tab. 2). Le attività principali della Cei nell’area del Maine sono legate alla creazione di nuove opportunità per lo sviluppo dell’industria locale del pesce, attraverso iniziative di creazione di nuovi prodotti e nuovi mercati sostenute da attività di ricerca legate alle risorse marine e alla sostenibilità ambientale del business dell’area. Nella fase iniziale, durante gli ultimi anni settanta del secolo scorso, l’azione della Cei si muove sul terreno della mobilitazione di risorse sia di natura pubblica che privata in vista di progetti di sostegno allo small business e all’irrobustimento del mercato del lavoro dell’area. Una delle prime iniziative è la creazione dell’Aquacultu159


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re Development Workshop, con la finalità di tradurre in prodotti i risultati di alcune ricerche realizzate dal Laboratorio Marino dell’Università del Maine (Ira C. Darling Center di Damariscotta). Il progetto si basa su una visione integrata dell’industria del pesce capace di considerare tutte le fasi fondamentali del processo industriale del settore come un processo sinergico a base locale e comunitaria, visione che continuerà poi a caratterizzare l’approccio della CDC alle problematiche di sviluppo industriale dell’area. Nel progetto sono coinvolte istituzioni private e pubbliche e rappresentanti del business in forma di partnership progettuale. In supporto al progetto, la Cei realizza ricerche e proiezioni di lungo periodo sull’andamento del settore e sull’impatto dell’innovazione legata all’acquacultura, in termini di benefici economici sul business dell’area e di occupazione e ricadute sociali, capaci di costituire un set di informazioni rilevanti per differenti investitori, da diverse banche locali, a fondazioni sino a investitori privati. L’iniziativa dell’ADW inoltre costituisce un volano per la creazione della Maine Aquaculture Association, una delle maggiori trade association attive nel Maine ancora oggi. L’importanza dell’iniziativa risiede nel fatto che l’industria dell’acquacultura prende piede e si sviluppa nel Maine proprio grazie a un set di iniziative di investimento tecnologico, ricerca applicata e formazione guidate proprio dalla Cei e da diversi partner all’interno del progetto ADW, grazie anche all’interazione progettuale con alcuni pionieri di questo business quali, ad esempio, Doug Hammil. Un’altra delle prime iniziative è la creazione nel 1979 della BoothBay Region Fish and Cold Storage, Inc., un’organizzazione a base comunitaria attiva nella difesa della tradizione dell’industria della pesca contro le pressioni allo sviluppo del business turistico. Al centro delle iniziative, c’è Dennis Rice, un famoso pescatore di BoothBay Harbor, oltre che influente “community leader”, il quale diventa poi anche manager dell’organizzazione. Le iniziative prevedono finanziamenti e sostegni a progetti, esempio, legati alla ricostruzione e ammodernamento dei porti e il miglioramento delle attrezzature delle imprese del settore e tutto ciò che può costituire un incentivo al rafforzamento della tradizione della pesca 160


NON PROFIT, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO ECONOMICO

nell’area, con un investimento iniziale di 300.000 dollari. L’idea, sostenuta peraltro dalla Ford Foundation, frutta un corposo finanziamento da parte dell’Office of Economic Development Program della Community Services Administration. Il successo dell’iniziativa conferma agli occhi della Cei la necessità di rispondere alle sfide economiche che impattano l’industria dell’area attraverso strategie progettuale sinergiche caratterizzate da un “multifaceted approach that includes investing in valueadded production capacity, market opportunities, infrastructure, and policy development” (CEI 2002b, p. 14). Contestualmente alla precedente iniziativa, la Cei decide di investire nella Penobscot Bay Fish and Cold Storage, Inc., una cooperativa di pescatori dell’isola di Vinalhaven (1.200 abitanti), guidata da Bronson Clark e Spencer Fuller e composta da residenti e pescatori. L’organizzazione nasce con l’obiettivo di collaborare per la costruzione di un sistema integrato di congelamento e stoccaggio del pesce che ha avuto un forte impatto sull’economia dell’isola e sulle possibilità di coordinamento più efficiente degli attori attivi nel business locale. Sul fronte del marketing e dei legami con il mercato, la Cei offre sostegno a una “start-up export company”, la Resource Trading Company, che raccoglie e tratta alcune specie di pesce, promuove e vende il prodotto sui mercati internazionali, favorisce il coordinamento fra produttori attivi nel business dell’area. Sin da questi primi progetti, la Cei persegue partnership, legami e iniziative che non si configurano come semplice investimento finanziario, ma piuttosto come un circuito di capitali di diversa natura, risorse umane, capitale sociale, conoscenze manageriali e tecnologiche. Durante gli anni ottanta, la Cei accresce i propri investimenti in progetti di sostegno alle piccole imprese e di ampliamento del mercato del lavoro locale. Molti investimenti sono orientati allo sviluppo di strumenti di valutazione della professionalità, formazione on-the-job, reinserimento nel mercato del lavoro, facilitazioni e supporto per lo small business. Su questo terreno, l’esempio migliore è la creazione del “The Small Business Finance and Employment Project” in partnership con la Ford Foundation. Con l’obiettivo di ridurre il gap tra esigenze 161


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di sviluppo economico e traiettorie di generazione ed accumulazione di capitale umano, viene così costituito il cosiddetto “Employment Training Agreement” (ETAG), una sorta di contratto sociale tra imprese del settore e Cei, dentro cui la Cei ha svolto un ruolo di connettore tra problematiche relative al business locale, formazione di capitale umano, servizi sociali e “welfare agencies”. Su questo terreno, la Cei sviluppa importanti indagini di natura retrospettiva e prospettica sulle dinamiche di convergenza- scollamento tra esigenze del business e traiettorie professionali degli individui operanti nel settore. Nel quadro dell’Etag, la Cei firma più di 200 accordi che hanno impatto su oltre 3.500 individui in cerca di lavoro o aventi un basso profilo professionale e sulla crescita dimensionale di diverse imprese, tra cui la Soleras Ldt. A Biddeford, la Pioneer Plastics ad Auburn e la Taction a Waldoboro. Come segnalato dalla Cei: “under the ETAG, CEI facilitates the development of a relationship between business owners and local employment training, social services, and welfare agencies. The ETAG captures the firm’s employment projections and basic information about the projected jobs. By signing the agreement, businesses commit to hiring clients of various service providers and the providers agree to work with the businesses to refer clients to openings. This free recruitment program also helped broker government wage subsidy and other benefits for the employer as well as the employee. Well-known Maine companies such as Moss Inc. and Tom’s of Maine were among the early ETAG ventures in which CEI invested. The CEO’s of those companies, Marilyn Moss Rockfeller and Tom and Kate Chappell, are stellar examples of one of Maine’s valuable assets-entrepreneurs committed to the state and to community benefits” (CEI 2002b, p. 19).

Nei primi anni ’90, l’esperienza dell’Etag, divenuta peraltro una sorta di “best practice” trasferita in altri contesti dalla Ford Foundation Funding Initiative, porta ad un’importante iniziativa legislativa, chiamata “Job Opportunities for Low-Income Invididuals”, un grant program di sostegno alle CDCs attive su progetti comunitari all’intreccio tra business, mercato del lavoro e formazione. Sempre sul terreno del sostegno allo small business, nella seconda metà degli anni ottanta, la Cei crea un “Enterprise Fund” per piccole imprese self-employment 162


NON PROFIT, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO ECONOMICO

(meno di 5 dipendenti), con offerta di servizi di assistenza tecnica e finanziaria (fondi di 25.000 $ massimo) e vincoli in termini di qualità e ricadute del business sull’area locale. Un esempio è la Maine Cottage Forniture di Peter e Carol Bass, un’impresa legata all’arredamento, divenuta poi impresa ad alto profitto, impatto e visibilità (40 dipendenti). L’assistenza tecnica e finanziaria offerta dalla Cei è bilanciata con l’interiorizzazione di vincoli d’impresa relativi all’utilizzo di una rete di fornitori locali, materie prime e prodotti dell’artigianato locale, materiali e pratiche sostenibili a livello ambientale. Un’altra iniziativa è la creazione dello “Small Business Development Center” per le piccole imprese dell’area, le quali costituiscono il 98% della struttura industriale del settore. Esso ha sede principale all’University of Southern Maine, 7 filiali e 15 uffici satellite nell’area. Nel 1998 sono stati organizzati più di 1000 meeting con 450 imprese dell’area e vari progetti di assistenza e supporto, rivolti principalmente al business re-engineering e all’assistenza finanziaria. A fianco di queste iniziative, legate al tessuto industriale, alla fine degli anni ottanta, la Cei si impegna sempre più anche sul fronte dell’investimento comunitario di tipo squisitamente sociale, con diverse iniziative legati a progetti di “child care development” ed “affordable housing”. Sul primo fronte, nel 1988 viene creato il “Child Care Development Project”, grazie al patrocinio e il sostegno di Shelby Miller della Ford Foundation e a Lee Parker del Family Focus, capace di veicolare finanziamenti per più di 15 milioni di dollari a 136 famiglie e “center-based child care providers” nell’area del Maine, raggiungendo più di 2300 bambini e sviluppando diverse iniziative. Sul secondo fronte, viene creato il “Genesis Fund”, un’organizzazione non profit orientata alla mobilitazione di finanziamenti e capabilities provenienti da istituzioni religiose su specifici progetti comunitari, quali il “Ward Brook Affordable Housing Project” a Wiscasset. Nel 1992, la Cei riceve un corposo finanziamento dalla Ford Foundation per rinforzare i propri internal assets e diviene il primo SBA Microloan Intermediary nell’area del Maine, mentre nel 1994 viene riconosciuta come la prima “Community Development Financial Insti163


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tution” nel Maine e inizia a sviluppare diversi “research and policy department” sul territorio. Durante gli anni novanta, soprattutto grazie al sostegno della Ford Foundation, la Cei ha visto crescere il suo asset di capitali del 700%, raggiungendo un valore di 7.5 milioni di dollari e il suo staff si è quadruplicato. Insieme ad altre istituzioni di finanziamento, quali KeyBank, Fleet, Banknorth Group e fondazioni quali la Sandy River Charitable Foundation, la Vermont Community Foundation, la Maine Employers Mutual Insurance Corporation, la National Cooperative Bank e la Calvert Social Investment Foundation, il sostegno della Ford Foundation, calcolabile in investimenti per 10 milioni di dollari per un periodo di più di dieci anni, diviene fondamentale per la realizzazione del primo “venture capital fund”, conosciuto come Coastal Ventures Limited Partnership e per le altre iniziative chiamate Coastal Ventires II LLC e Cei Community Ventures Fund LLC con finalità legate allo sviluppo del business nell’area del Maine e una capitalizzazione complessiva nel 2003 di 35 milioni di dollari. Le linee strategiche di espansione organizzativa sono concentrate su 5 punti: a) fornire assistenza tecnica alle imprese dell’area; b) lavorare a livello statale e federale per attirare risorse per lo sviluppo delle comunità locali; c) radicarsi maggiormente sul territorio aprendo più sedi, uffici e filiali nel Maine; d) continuare sul terreno dello sviluppo sostenibile attraverso attività di R&D e sostegno alle implementazioni industriali; e) rafforzare l’autonomia dell’organizzazione in termini di asset. Tutti i punti delle attività della Cei, si basano su principi quali: “place-based development”, centralità della ricerca e dello sviluppo, coinvolgimento e collaborazione tra attori di diversi settori su progetti specifici, importanza delle attività di gestione e misurazione dell’impatto dei progetti; centralità dell’intreccio tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale; la mobilitazione, canalizzazione ed ottimizzazione delle capacità trasformative di capitali, finanziari, umani, sociali, intesi come risorse strategiche. Su questo terreno, la strategia della Cei continua anche negli anni novanta ad essere riassunta dall’idea che: 164


NON PROFIT, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO ECONOMICO

“we seek growth not for growth’s sake but to increase the transforming power of capital to provide access to health, education, housing, food, and basic necessities. Capital must be constantly channelled to produce a social good. Ensuring that private capital markets are directed to the people and places most in need; ensuring that capital is invested in a way that is compatible with the environment; ensuring a beneficial use of funds to build liveable and sustainable human settlements: these are the challenges that call to us” (CEI 2002b, 36).

È in questo contesto di creazione di capitale reputazionale e radicamento territoriale di lungo periodo che la Cei può giocare un ruolo strategico nelle capacità di risposta del sistema industriale del Maine alla crisi che via via lo colpisce specie a partire dalla metà degli anni novanta, grazie a una serie di iniziative note come “Maine Fisheries Project”. Tab. 1 - Profilo della Cei, aggiornato all’anno 2002 (2002a, p. 1). Staff 92 persone Progetti di finanziamento in corso 571 Capitale gestito 107 milioni di dollari Numero di imprese finanziate 1.310 Dollari investiti in finanziamenti 108 milioni Posti di lavoro creati e mantenuti 15.000 Unità abitative costruite 526 Numero di imprese e individui in rapporto 15.000 di consulenza

Graf. 1 - Distribuzione delle risorse su aree di programmi della Cei nell’anno 2002 (2002a, p. 8).

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Istituzioni religiose e intermediari

American Baptist Churches USA, Damariscotta Baptist Church, Episcopal Church, National Council of Churches Domestic Working Group on Hunger and Poverty, Second Congregational Church, NewCastle Sisters of Charity of Iowa, Sisters of Charity of St. Elizabeth, Society of Mary, St. Andrew’s Episcopal Church, Damariscotta St. Phillip’s Episcopal Church, Wiscasset United Church of Christ Bath, United Presbyterian Foundation, Unitarian Universalist Church, Veatch Foundation, US Catholic Conference of Bishops, Campaign for Human Development

Fondazioni private

Aid to Artisans, Inc., Anonymous, American Express Foundation, American Express Philanthropic, Aspen Institute, The Betterment Fund, The Bingham Program, Francis Hollis Brain Foundation, Calvert Social Investment Foundation, Carpathian Foundation, Charles Stewart Mott Foundation, Citizens’ Housing and Planning Association, Inc., Community Development Venture Capital Alliance, Corporation for Enterprise Development, Jessie B. Cox Charitable Trust, Davis Conservation Fund, Joel D. Davis & Associates, Education Netowork of Maine, Dwight D. Eisenhower Foundation, Empower Lewinston, Fannie Mae, Fannie Mae

166 Androscoggin Savings Bank, Bangor Savings Bank, Banknorth Group, Inc., Bath Iron Works (A General Dynamics Company), Bath Savings Institution, L. L. Bean, Camden National Bank, Central Maine Power Company, Coastal Economic Development Corporation, Community Concepts, Inc., Damariscotta Bank & Trust Company, First Federal Savings & Loan Association, First National Bank of Damariscotta, Fleet Bank, Gardiner Savings Institution, Hannafond Brothers, KeyBank N. A., Maine Community Reinvestment Corporation, Maine Housing Investment Fund, Peoples Heritage Bank, Private Individuals, Tom’s of Maine, Shaw’s

Imprese, banche e individui

Partnership su progetti con investitori istituzionali, fondi “community venture funds”, “coastal venture funds” Androscoggin Savings Bank, Anonymous, Banknorth Group, Inc., Bar Harbor, Banking & Trust Company, Bath Savings Institution, The Betterment Fund, Calvert Social Investment Foundation, CEI Finance Authority of Maine, First National Bank of Damariscotta, Fleet Development Ventures, Ford Foundation, Gorham Savings Banks, Kennethbunk Savings Bank, Key Bank N.A., Key Community Development Corporation, La Fetra Revocable Trust, Maine Employers Mutual Insurance Company, NCB Development Corporation, Jessie Smith Noyes Foundation, John D. and Catherine T. McArthur Foundation, MBNA American Bank N. A.,

Fonti governative a livello locale, statale e federale

City of Auburn, Maine, City of Bangor, Maine, City of Bath, Maine, City of Clyde, Kansas, City of Lewinston, Maine, City of Portland, Maine, City of Rockland, Maine, Corporation for National and Community Services, Finance Authority of Maine, Four Directions Development Corporation, Hancock County Planning Commission, Lincoln County Commissioners, Lincoln County Economic Development Office, Maine Department of Agriculture, Food, and Rural Resources, Maine Department of Behavioral and Developmental Services, Maine Department of Economic and Community Development, Maine Department of Education, Maine Bureau of Vocational Education,

Tab. 2. Fonti differenziate di finanziamento e soggetti in partnership nei progetti Cei (CEI 2002b, p. 40), ovvero uno spettro che va dalle donazioni tradizionali a partnership strategiche con differenti attori e “venture funds”. FLAMINIO SQUAZZONI


Foundation, Federal Home Loan Bank of Boston, Ford Foundation, Franklin Research & Development Corporation, Genesis Community Loan Fund, Georges River Estuary, Gulf of Maine Council on the Marine Environment, Heifer International, F. B. Heron Foundation, Housing Partnership Network, Institute of International Education, Institute for Social and Economic Development, Island Institute, W. K. Kellog Foundation, Stephen and Tabitha King Foundation, Lilly Endowment, Inc., Local Initiatives Support Corporation, John D. and Catherine T. MacArthur Foundation, Maine Centers for Women, Work and Communities, Maine Community Foundation,

Fondazioni private

Istituzioni religiose e intermediari

Supermarkets, Inc., UNUMProvident Corporation, Union Trust Bank, US Trust Corporation, Verizon Foundation

Imprese, banche e individui

Maine Deparment of Energy, Maine Department of Environmental Protection Maine Department of Human Services, Maine Department of Labor, Twelve County Private Industry Council, Maine Deparment of Marine Resources, Maine Department of Transportation, Maine Science and Technology Foundation, Maine State Housing Authority, Maine State Planning Office, Coastal Program, Maine Commission for Community Services, Maine Technical College System, NOAA Fisheries Saltonstall Kennedy Grant Program, Tanana Chiefs Conference, Inc., Treasure Coast Regional Planning Commission, Town of

Fonti governative a livello locale, statale e federale

National Community Capital Association, Ocean National Bank, Peoples Heritage Bank, Pepperel Trust Company, Sandy River Charitable Foundation, Kennebec Savings Bank, US Small Business Administration, The Vermont Community Foundation

Partnership su progetti con investitori istituzionali, fondi “community venture funds”, “coastal venture funds”

segue:Tab. 2. Fonti differenziate di finanziamento e soggetti in partnership nei progetti Cei (CEI 2002b, p. 40), ovvero uno spettro che va dalle donazioni tradizionali a partnership strategiche con differenti attori e “venture funds”.

NON PROFIT, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO ECONOMICO

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Maine Fishing Industry Development Center, Maine Women’s Fund, John Merck Fund, National Center for Appropriate Technology, National Community Capital Association, National Congress for Community Economic Development, National Cooperative Bank, National Equity Fund, National Fish and Wildlife Foundation, National Network of Sector Practitioners, National Rural Funders Collaborative, New England Housing Network, People’s Regional Opportunity Program, Rockfeller Foundation, Sandy River Charitable Foundation, Smith Richardson Foundation, Surdna Foundation, United Way of Mid Coast Maine, Wiscasset Female Charitable Trust

Fondazioni private

Istituzioni religiose e intermediari

Imprese, banche e individui

168 Boothbay, Maine, US Agency for International Development, US Department of Agriculture, Rural Development, US Department of Commerce, Economic Development Administration, US Deparment of Health and Human Services, Child Care Bureau, Office of Community Services, Office of Refugee Resettlment, US Department of Housing and Urban Development, US Department of Labor Employment and Training Administration, US Environmental Protection Agency, US Gulf of Maine Association, US Small Business Administration, US Deparment of Treasury, Community Development Financial Institutions Fund, University of Maine

Fonti governative a livello locale, statale e federale

Partnership su progetti con investitori istituzionali, fondi “community venture funds”, “coastal venture funds”

segue:Tab. 2. Fonti differenziate di finanziamento e soggetti in partnership nei progetti Cei (CEI 2002b, p. 40), ovvero uno spettro che va dalle donazioni tradizionali a partnership strategiche con differenti attori e “venture funds”. FLAMINIO SQUAZZONI


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4.2. La crisi dell’industria della pesca nell’area del Maine come spinta al “Maine Fisheries Project” Il Maine Fisheries Project consiste in una serie di iniziative che vengono promosse a partire dal 1994, col fine di rivitalizzare l’industria della pesca nell’area del Maine. Nei primi anni ’90 del secolo scorso, infatti, l’industria del Maine subisce una crisi, i cui effetti sono percepiti dalla maggior parte dei 26.000 lavoratori del settore sotto forma di forte riduzione dei prezzi dei prodotti, drastica contrazione della domanda, crisi dell’intero settore industriale, incertezza sostanziale nelle aspettative di adattamento dell’industria dell’area agli effetti della globalizzazione, effetto di “sovracapitalizzazione” del sistema industriale causato dalle politiche di incentivazione del governo federale che dagli anni ’80 hanno positivo impatto solamente sul commercio ad alto tonnellaggio tipico delle imprese dell’area della Southern New Englang4. Vale la pena sottolineare come l’industria della pesca generi ritorni economici altissimi e sia la prima e principale fonte di occupazione ed economia per buona parte delle comunità dell’area (si veda tab. 3). Tab. 3 - Dati sull’industria della pesca nell’area del Maine aggiornati al 2003 (Fonte CEI Documento 1). Stima del valore del business 777 milioni di dollari della pesca in generale nell’area del Maine all’anno Valore del pescato nel 2000 328.8 milioni di dollari Media del peso del pescato ogni anno nell’area 256.8 milioni di libbre Valori comparati con altre aree Nel 2000-2003 l’industria della pesca del Maine è al primo posto nel ranking relativo alle aree del Northeast per quota di pescato e valore aggiunto. Portland è al terzo posto nel ranking del Northeast e al nono posto a livello nazionale Posti di lavoro legati al settore commerciale 26.000 posti di lavoro Specie pescate 70 Numero di licenze nel 2000 18.000 Stima dei pescatori a tempo pieno 6000 Stima dei pescatori part-time 4300 Valore della pesca dell’aragosta nel 1999 184.6 milioni di dollari 4 Sui problemi di regolazione del settore, management della risorsa in ottica comunitaria e partecipativa e protezione ambientale nell’area del Maine, si vedano: Acheson, Stockwell, Wilson (2000); Kerney 1999; McCay e Jentoft (1996).

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Sin dai primi anni ’90, appare chiaro a tutti gli osservatori e gli attori attivi nel settore che la fase di profonda crisi dell’area sintetizzi un insieme di problemi altamente interrelati: problemi di sostenibilità dei processi economici di sfruttamento della risorsa, crescita della competizione con altre aree del settore, debolezza progettuale degli attori economici coinvolti nell’industria, bisogni di investimenti infrastrutturali nelle comunità, necessità di una collaborazione progettuale sul terreno dell’innovazione di prodotto e processo, taglio dei costi, economie nei processi, impatto delle nuove regolazioni del settore sulle comunità e sul mercato del lavoro, necessità di conoscenze scientifiche più accurate e così via (Snow 2001, pp. 16 ss.; Dickstein, Branscob, Piotti, Sheenan 2002, pp. 11ss). 4.3. Il “Maine Fisheries Project” e il ruolo della Cei La reazione alla crisi ha come protagonista centrale la Cei, in una dinamica di continuità rispetto al ruolo proattivo giocato dalla CDC in passato. Gli scopi della Cei sono sin dall’origine, infatti, quelli di promuovere e realizzare investimenti in small businesses, assicurare assistenza tecnica e finanziaria alle imprese locali operanti nel settore, promuovere l’occupazione, diffondere nella comunità i benefici economici derivanti dall’industria, sviluppare progetti di ricerca finalizzati alla scoperta di nuovi prodotti e all’implementazione di nuove tecnologie di gestione del processo industriale, rafforzare le connessioni tra ricerca scientifica e applicazioni industriali e assicurare lo sviluppo e la riproducibilità delle risorse naturali legate alla pesca nell’area del Maine. Per realizzare questi obiettivi, la Cei può beneficiare dell’accumulo di risorse reputazionali e di capitale sociale in forma di network variegato di attori e risorse e di capacità di mobilitazione di risorse locali, grazie ai forti contatti con l’universo associativo e imprenditoriale dell’area. Inoltre, essa può beneficiare di una notevole vitalità e maturità finanziaria e di una serie innovativa di strumenti legati primariamente all’uso crescente di un efficace “venture capital model” che consente di finanziare i progetti e di generalizzare a livello comunitario un 170


NON PROFIT, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO ECONOMICO

approccio manageriale alla gestione dei progetti (Jegen 1998). In sostanza, il “Maine Fisheries Project” può essere descritto come: “uno sforzo a più livelli per ricostruire l’industria del pesce nel Maine attraverso forme di sviluppo sostenibile. Si tratta di una strategia industriale che connette finanziamento e supporto manageriale rivolti allo small business dell’area in modo da allargare lo sviluppo di mercato, lavorando a nuovi prodotti, aprendo nuovi sbocchi commerciali, rafforzando le attività di produzione locale e creando anche nuovi luoghi di mercato per la vendita e l’acquisto del pesce” (Snow 2001, p. 15).

L’obiettivo dichiarato del “Fisheries Project” è: “rafforzare lo sviluppo sostenibile dell’industria della pesca nel Maine e delle comunità di pescatori, realizzando investimenti, istituendo progetti, politiche di sostegno e supporto alle imprese legate alla pesca capaci di generare lavori di qualità, aumentare il valore della risorsa, rafforzare l’infrastruttura marina, migliorare la gestione della risorsa, ridurre e riciclare i rifiuti” (CEI Documento 3).

L’azione della Cei si basa sull’attivazione e lo sfruttamento di diversi assets comunitari da mobilitare, intrecciare e rendere complementari (McNight e Kretzman 1993). In primo luogo, una moltitudine di individui attivi nel settore e business leader dell’area, che si rivelano pronti a partecipare a progetti in ruoli di membri di “volunteer boards”, con forte responsabilizzazione nella gestione dei progetti stessi, oltre a diversi rappresentanti del settore della pesca, lavoratori, famiglie di pescatori e imprese locali che mostrano interesse a partecipare a progetti per il rilancio dell’economia dell’area. In secondo luogo, uno stock di risorse interne alla CDC in termini di staff, conoscenze e capacità manageriali, accumulate nel corso del tempo grazie alle reti istituzionali dell’organizzazione. Inoltre, una serie di trade associations e business networks che la Cei riesce a coinvolgere in rilevanti progetti di ridefinizione del mercato, individuazione di nuovi prodotti e investimenti tecnologici. Infine, 171


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una rilevante massa di risorse finanziarie sia interne alla Cei che interne al suo network e alla comunità stessa. In più, la Cei innesca una rete di connessioni tra assets interni alla comunità e risorse esterne. Si tratta, in primo luogo, di consulenti e ricercatori pronti a supportare la strategia di individuazione di nuove nicchie di mercato e nuovi prodotti integrati all’obiettivo di individuare e seguire tracciati di sostenibilità ambientale per l’industria di riferimento. Questo è il compito soprattutto di istituzioni regolative della transazioni e delle partnership fra attori, quali il “FISHTAG” (descritto di seguito), create al fine di favorire la connessione tra informazioni e dati legati al business e informazioni e dati legati alle indagini sulla sostenibilità ambientale delle attività industriali, attraverso una serie di protocolli d’accordo legati al finanziamento e ai progetti. Altre risorse al confine tra comunità e società allargata sono numerose reti di finanziamenti che creano un ponte tra risorse interne ed esterne, attivate grazie alla forte capacità di fundraising e di connessione tra fondi istituzionali di natura generale, sia legati alle reti della politica (ad esempio, US Department of Health and Human Services) che alle reti della filantropia (ad esempio, Ford Foundation e istituzioni ecclesiastiche o di natura sociale) e finanziamenti locali, derivanti principalmente da business e attori pubblici locali, che la Cei stessa dimostra di avere. Le finalità dei progetti di ricerca perseguite dalla Cei, sono l’analisi di potenziali nicchie di mercato, nuove segmentazioni del mercato e nuovi prodotti, l’analisi degli impatti economici dello sfruttamento della risorsa marina e delle potenziali innovazioni di processo da introdurre, l’analisi e lo sviluppo di programmi di formazione per giovani, donne e lavoratori nell’area del Maine che consentano di ridurre il mismatch tra nuove competenze richieste dall’evoluzione dei mercati e competenze acquisite dagli individui, l’analisi della normativa e degli aspetti legislativi relativi all’industria della pesca, lo sviluppo di studi e analisi su porti, dotazione di infrastrutture e problemi di traffico (Sheenan e Cowperthwaite 2002) e, infine, una serie di studi macro di area, votati al reperimento di fondi di finanziamento e alla misurazione dell’impatto dei progetti, oltre che al 172


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consolidamento di una capacità di visione integrata e sistemica da parte degli attori coinvolti nei progetti stessi (CEI Documento 3). Sul terreno della ricerca e dell’implementazione industriale, l’obiettivo del progetto è triplice: “promuovere mercati per prodotti locali e specie non tradizionali; identificare opportunità per ridurre, trasformare e/o aumentare il valore degli scarti e del non-utilizzato e sviluppare gli aspetti biotech dell’industria marina attraverso imprese specializzate”. Attraverso progetti di coinvolgimento di differenti attori della comunità e la strutturazione di partnership con associazioni di business, istituzioni pubbliche, community foundation, organizzazioni di sviluppo economico, ristoranti e produttori locali, organizzazioni non profit operanti sul territorio, sotto l’egida del “Maine Fisheries Project”, si sono realizzati importanti progetti di R&D e di marketing con forte impatto sul settore, sul mercato e sul business comunitario (Dickstein, Branscomb, Piotti, Sheenan 2002, pp. 1415)5: a) il “Cape Shark Project”, ovvero un progetto di ricerca, fattibilità, produzione, standardizzazione e commercializzazione di un nuovo prodotto nel mercato locale, lo “spinarolo”, ora chiamato “cape shark”, con corsi di aggiornamento e iniziative di marketing rivolte a ristoranti e consumatori, realizzato in partnership con alcune imprese locali, ristoranti e associazioni di business, tra cui la Maine Gillnetters Association, la Maine Lobstermen Association, la Downeast Draggers Association; b) il “Live Fish Project”, ovvero uno studio del legame tra risorse marine e sviluppo di alcuni prodotti di mercato, realizzato in partnership con alcune associazioni di pescatori, il Whashington County Technical College, il Sunrise Community Development Council e la Maine Gillnetters Association; 5 Le policies della Cei in tema di R&D sono legate al tentativo di coniugare responsabilità ambientale e logiche di business del settore. I punti sono i seguenti: 1) identificare gli effetti degli sprechi legati alla risorsa marina; 2) contribuire alla diffusione di approcci hightech nel settore; 3) promuovere prodotti locale e specie non tradizionali.

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c) il “Promoting Local Markets for Gulf of Maine Resources”, ovvero un progetto di marketing applicato ai prodotti locali associato a diversi festival e iniziative culturali organizzate nella regione; d) la “Casco Bay Seafood Processors Survey” e il “Mincing Haddock Wastes”, ovvero una serie di ricerche sugli sprechi nei processi industriali del settore a vari livelli nell’area della Casco Bay e su come tradurre gli sprechi in opportunità associate all’innovazione tecnologica di processo e alla migliore conoscenza di elementi fondamentali da estrarre dalla risorsa; si tratta di ricerche che via via sono state tradotte in applicazioni industriali, grazie all’implementazione di tecnologie innovative per il trattamento del pesce e alla realizzazione e al marketing di sotto-prodotti della risorsa; il progetto è stato realizzato grazie alla partnership con il Center for Applied Regional Studies, la Nova Seafood’s Processor e un’impresa del settore6. 4.4. Il Fishtag Il FISHTAG è nato nel 1999 e consiste in una serie di attività di supporto alle imprese attive nel settore della pesca nell’area del Maine, all’intersezione tra ricerca scientifica sulla sostenibilità ambientale delle risorse marine e forme di rilancio e irrobustimento del business nel settore. In sostanza, esso è uno strumento per sviluppare una serie di progetti a cavallo tra logiche dell’innovazione d’impresa e dinamiche di gestione della sostenibilità ambientale e dell’impatto comunitario dell’industria, che viene implementato sotto forma di un

6 I punti del programma della Cei in merito alla tema dello sviluppo economico sostenibile sono: 1) partecipazione attiva a ricerche e confronti a livello nazionale e internazionale in tema di pratiche di sviluppo economico sostenibile; 2) creazione di ricerche su nuove fonti energetiche marine; 3) interventi al fine di incoraggiare processi di conservazione dell’energia; 4) investimenti in progetti R&D per lo sviluppo di tecnologie a fini di valutazione della sostenibilità dei progetti di innovazione finanziati e di diffusione di best practices (Fonte CEI).

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meccanismo di regolazione istituzionale delle transazioni e degli accordi fra attori (ricercatori, imprenditori, consumatori e così via). Esso è volto a perseguire principi di collaborazione progettuale a tutto campo fra gli stessi e finalizzato alla produzione di una serie di beni pubblici di stampo relazionale, quali conoscenza scientifica, modelli organizzativi moderni e trasferimento tecnologico. Gli obiettivi concreti del progetto sono legati allo sviluppo di iniziative di supporto alle attività di diversificazione delle imprese del settore, alla produzione di dati biologici per la gestione della risorse marine e la partecipazione delle imprese alla ricerca scientifica in tema di risorse marine, attraverso la collaborazione diretta fra ricercatori e imprenditori, volta alla produzione di conoscenza come bene pubblico, all’internalizzazione di modelli di comportamento informati e “socially responsible”, da parte delle imprese, ed al sostegno all’apprendimento delle logiche e delle esigenze del business, da parte dei ricercatori. Oltre a questi obiettivi, vi sono una serie di iniziative legate al supporto delle attività di riduzione dello sfruttamento e degli sprechi legati alla risorse marina e al sostegno alle imprese attive nel settore dell’acqua-cultura, al fine di contribuire alla generazione di dati scientifici in modo da sviluppare progetti di salvaguardia dell’ecosistema e di sicurezza pubblica. Questo set di obiettivi è perseguito attraverso una serie di accordi e di partnership tra attori pubblici, privati e comunitari che si basa sull’accettazione da parte degli attori privati di un ruolo di “ricercatori attivi”, disposti a raccogliere e condividere rilevanti informazioni sull’ambiente marino e a partecipare a progetti di R&D e sull’impegno da parte della Cei nel fornire sostegno, assistenza e risultati delle ricerche a tutti gli attori coinvolti e alla comunità di riferimento in generale (CEI, Documento 2). L’accordo si basa su di un protocollo di partenariato che muove da una serie di mutue aspettative di tipo collaborativo, da cui dipendono qualità dei finanziamenti e realizzazione di progetti. Da parte degli attori coinvolti, le aspettative sono quelle della scelta di una ricerca, la disponibilità e l’impegno 175


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per le attività di raccolta dati, il costante monitoraggio dei progressi e la disponibilità di tempo per ottemperare a queste attività. Per quanto riguarda la Cei, vi è l’offerta di alcuni servizi di assistenza tecnica, finanziaria e di ricerca. Il progetto nel suo insieme è cresciuto del 53% nel corso del periodo 1999-2003 per un totale di 32 progetti in corso, ha generato un volume di finanziamenti pari a 2.6 milioni di dollari (più un totale di 3.8 milioni derivanti da investimenti e indebitamento), ha creato 95 nuovi posti di lavoro ed ha coinvolto 70 persone, tra pescatori e rappresentanti del settore attivi in diversi progetti di ricerca (si veda tab. 5). Si calcola che i progetti di ricerca abbiamo avuto non solo un forte impatto sull’area ma anche un effetto di ritorno degli investimenti. I progetti ancora in corso sono 13, mentre 19 sono già stati terminati al giugno del 2003. 8 progetti hanno generato dati ambientali che sono stati direttamente incorporati come vettori per la gestione delle imprese del settore. Si tratta di ricerche su varie tipologie di pesce che hanno prodotto dati su problemi biologici, di habitat, oceanografici, ecologici, valutazione della risorsa, analisi di specie ed esperimenti su nuovi prodotti (si veda graf. 2). I ricercatori coinvolti nei progetti sono 31 e provengono dal Maine Department of Marine Resources, dall’University of Maine-School of Marine Sciences, dal Gulf of Maine Aquarium, dall’Island Institute, dalla Gulf of Maine Loabster Foundation, dalla National Oceanic and Atmospheric Administration, dal Bigelow Laboratory of Rhode Island, dal Maine Sea Grant Program e dalla Suffolk University. Dei 32 progetti, 4 hanno avuto un focus su problemi relativi al risparmio energetico e alla riduzione degli sprechi nel settore della pesca. Sul fronte dell’individuazione di nuovi prodotti, grazie alle scoperte ottenute dalle ricerche, 5 progetti hanno prodotto delle “Industry Best Management Practices” che sono divenute riferimenti per le imprese operanti nel settore e nelle varie segmentazioni del mercato, legato allo sfruttamento della risorsa marina (CEI 2003). L’elemento significativo è che, grazie alla collaborazione diretta tra ricercatori, imprese del settore e pescatori, si è arrivati a produrre dati sugli sprechi, sul 176


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riciclo, sull’efficienza energetica e sulla qualità dei materiali usati nel settore, i quali sono divenuti un set di vincoli e opportunità direttamente incorporato dalle imprese nelle loro decisioni manageriali e di sviluppo e nelle loro pratiche quotidiane. A titolo di esempio, citiamo: a) il progetto “Herring” che ha consentito la valutazione dei processi di riproduzione delle aringhe e dello stock del pesce nel suo complesso nell’area del golfo del Maine, attraverso l’applicazione di un sistema di rilevazione acustiche, supportato da alcuni computer in grado di registrare dati su biomassa e densità e altre proxy. Le informazioni sono state usate dalle imprese e hanno generato un supporto informativo per lo sviluppo di attività di management più riflessive sul fronte del legame tra business, sfruttamento e riproducibilità della risorsa; b) il progetto “Loabster” che ha consentito di realizzare un giornale di bordo aggiornato sull’andamento del mercato delle aragoste e della risorsa stessa, usando specifiche scale temporali e spaziali di trattamento dell’informazione. Sono state catalogate e messe a disposizione differenti informazioni relative al pesce, in modo da razionalizzare le aree di sfruttamento, l’attività dei porti, i tempi di consumo e le attività delle imprese; c) il progetto “Spinney Creek Shellfish”, il quale ha coinvolto alcuni ricercatori del Maine Technology Institute, e che ha consentito di realizzare un’indagine di laboratorio sull’impatto di un batterio presente nelle ostriche, il Vibrio vulnificus, al fine di studiarne i meccanismi diffusivi, le cause dell’insorgenza e i possibili effetti della sua epurazione o riduzione; d) il progetto “Mussel” che ha consentito di generare dati e informazioni sulla storia, sulle dinamiche riproduttive e migratorie del granchio reale, in modo da supportare specifiche iniziative di regolazione dello sfruttamento e di riproduzione della risorsa. Per comprendere il successo dei progetti descritti in precedenza, è possibile utilizzare la metafora dei “community markets”, utilizzata dai membri della Cei in uno studio di caso sui progetti a cavallo tra ambiente, econo177


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mia e società nelle comunità del Maine e sul ruolo della Cei: “le nostre iniziative settoriali che hanno avuto più successo sono state quelle nelle quali abbiamo sostenuto imprenditori capaci di identificare opportunità di mercato […] l’identificazione di strategie di sviluppo richiede la capacità di guardare alle opportunità di business in una nuova prospettiva, come quella dei “mercati comunitari”. Pochi piccoli imprenditori hanno il tempo e le conoscenze per fare una cosa di questo tipo. Allo stesso tempo, l’identificazione di alternative pragmatiche d’azione richiede una comprensione a vasto raggio degli spazi di possibilità all’interno di un sistema industriale. I generalisti che percepiscono alcune delle opportunità sostenibili hanno bisogno delle technicalities e della pragmatica proprie degli specialisti che hanno i piedi dentro l’industria stessa. [...] Una strategia richiede una prospettiva più olistica rispetto alle logiche di uno specifico e singolo settore industriale e richiede la conoscenza dei legami e delle potenziali sinergie che emergono all’interno di una specifica comunità, come illustra il concetto di ‘community market’ (Dickstein, Branscomb, Piotti, Sheenan, 2002, pp. 29-30).

Il concetto di “community market” rende l’idea dell’intreccio fra fattori e dimensioni attive nel processo di azione collettiva che caratterizza le partnership perseguite dalla Cei: “le iniziative a livello di settore implicano una varietà di partner sia del settore privato che pubblico. Tutti i progetti CEI coinvolgono attivamente soggetti del settore industriale, statale-pubblico e comunitari e, in qualche caso, anche partner accademici nelle fasi iniziali così come nella fasi di identificazione dei progetti. Spesso, è necessario costruire nuove connessioni e istituzioni. I nostri partner riescono a portarci più direttamente sul terreno dei problemi e delle opportunità locali. Noi impariamo altri punti di vista che sono critici per la nostra comprensione e per la capacità di abbracciare tutte le dimensioni del problema della sostenibilità. Inoltre, possiamo migliorare la nostra capacità di valutare, intraprendere e pianificare. Si tratta di un duplice processo: fornire educazione alla comunità e ricevere al contempo educazione dalla comunità, guadagnando in questo modo membership” (p. 30).

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Graf. 2 - La composizione settoriale delle iniziative legate al progetto “FISHTAG” (CEI Documento 2)

Tab. 4 - Profilo del progetto FISHTAG nel quadro dei progetti Cei sul settore della pesca nel quinquennio 1999-2003 (CEI Documento 2). Anno Numero di progetti finanziati 1999 6 2000 22 2001 16 2002 14 2003 8 Totale 66

Ammontare del finanziamento in $ 295.000 1.799.000 1.272.000 724.000 359.000 4.449.000

Numero di FISHTAG 4 12 6 6 6 34

Numero di nuovi posti di lavoro 45 235 168 29 14 491

Attraverso questo approccio, dalla crisi del 1994, attraverso una serie di processi percepiti come vincoli e ostacoli, emergono delle nuove opportunità sfruttate grazie ad un set di soluzioni innovative, l’individuazione di nuove vie per sostenere il settore e il coinvolgimento di tutti gli attori attivi nel settore, oltre che la diffusione di nuove pratiche organizzative e nuovi attitudini collaborative fra soggetti diversi per interessi, background e campi di specializzazione. Fra i risultati più evidenti, si possono annoverare: una migliore targetizzazione delle risorse finanziarie, dovuta alla crescita della conoscenza delle dinamiche e dei meccanismi di base del settore, resa possibile dalla collaborazione tra operatori e ricercatori; una conoscenza più accurata delle dinamiche ambientali e della risorsa che ha potuto tradursi in una riduzione dell’incertezza e dei rischi tipici di un’intrapresa economica legata a una risorsa naturale e comune, come quella marina7; una migliore 179


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sincronia tra attività integrate, sia di tipo comunitario che di business, attraverso la progettazione incrementale di cambiamenti “step-by-step” che ha consentito di sfruttare al meglio le potenzialità innovative interne alle comunità; una più solida collaborazione inter-settoriale, tra ricerca, business e comunità, che ha generato l’individuazione di nuove soluzioni relative al mercato e al prodotto e la capacità di concretizzarle in soluzioni praticabili e sostenibili; l’attenzione alle dinamiche ambientali e un più dettagliato studio della risorsa che hanno consentito di far emergere nuovi prodotti ed aumentare il valore economico dei processi di sfruttamento, consentendo di implementare nuove soluzioni di mercato ad alto valore aggiunto; l’emergere di conoscenze, asset relazionali e dinamiche di collaborazione progettuale che si sono tradotte in migliori capacità manageriali, da parte delle imprese nel progettare il loro business sul lungo periodo, in un contesto di fiducia e aspettative di rilancio, focalizzando le strategie industriali sull’innovazione piuttosto che sulle risposte di breve periodo e sul puro adattamento. Come si vede dalla tab. 5, l’impatto di questa serie di progetti sull’area del Maine è consistente, sia a livello di dinamiche del mercato del lavoro che a livello di start-up, ristrutturazioni ed espansioni a livello di business nel settore. In conclusione del caso, vale la pena di segnalare come la Cei abbia innescato una progettualità trasversale, innovativa, capace di coinvolgere gli attori comunitari interessati, capace di sostenere forme di agency ed empowerment a livello comunitario orientate alla ricerca di soluzioni innovative a problematiche critiche, ma come, al contempo, essa abbia saputo rafforzare i suoi asset (si vedano graff. 3, 4 e 5), il suo capitale reputazionale, il suo capitale sociale e il suo commitment locale, giocando un ruolo intermediatorio fra attori non meramente “neutro”, ma piuttosto innervato da capacità di trasferire e mettere in circolo nuove pratiche, nuovi strumenti e nuove metodologie manageriali. Le innovazioni prodotte dai progetti si sono per lo più tradotte in mag7

Incertezza sostanziale e complessa catena dei rischi sono fenomeni tipici di ogni sistema industriale complesso, come quello della pesca. Si veda Parri 2002.

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Tab. 5 - Impatto della Cei e del Maine Fisheries Project sul settore della pesca nell’area del Maine (Fonte CEI Documento 2) Ammontare finanziamenti della CEI 31.5 milioni di dollari nel quadro del “Maine Fisheries Project” Numero di finanziamenti a imprese del settore 133 Impatto sul mercato del lavoro del 1.115 occupazioni full time e “Maine Fisheries Project” 224 occupazioni part-time Media del salario per ora per le nuove 10 dollari all’ora, occupazioni esclusi benefit Utilizzi dei finanziamenti da parte delle imprese 39 start-up 36 ristrutturazioni 58 progetti di espansione

Graf. 3 - Crescita della Cei in termini di assets dal 1980 al 2002 (CEI 2002b). A partire dal 1990 la dinamica di crescita si è fatta più incisiva, grazie soprattutto alle scelte strategiche di investimento sulla Cei realizzate dalla Ford Foundation, con una crescita media degli assets al 18.5% annuo. Il rapporto tra net assets e assets totali è circa del 50%, con un rapporto “debt:equity”di 1 a 1.

giore capacità organizzative, manageriali, tecnologiche, imprenditoriali da parte degli attori coinvolti, in sostanza, in un circuito di “capacity building” a vasto respiro. Le istituzioni di finanziamento, infine, hanno trovato un 181


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attore, quale la Cei, capace di allocare risorse in modo socialmente produttivo su terreni altamente rischiosi (problemi complessi di non sicura soluzione), generare ritorni, innescare impatti sociali significativi e, al contempo, consolidare le sue capacità organizzative, rafforzandosi come fondamentale interlocutore per lo sviluppo di efficaci progetti di sviluppo nell’area. Graf. 4 - Rapporto e valore dei finanziamenti Cei (CEI 2002b). Nel 2002, il valore dei finanziamenti Cei sui progetti nell’area del Maine è stato all’incirca di 450 milioni di dollari, di cui 110 direttamente impegnati dalla CDC, mentre il resto attratti da altre fonti di finanziamento misto pubblico- privato (si veda anche grafico 5).

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Graf. 5 - Capitale totale gestito dalla Cei (CEI 2002b). Oltre a capitali interni la Cei gestisce capitali attraverso la Maine Community Reivestment Corporation, un consorzio di 14 banche e un portfolio di capitali obbligazionari SBA 504, per un totale al 2002 di 107 milioni di dollari.

5. Conclusioni Il caso della Cei rappresenta sicuramente un caso eccellente e di alto profilo nel campo delle CDCs, soprattutto se comparato per struttura organizzativa, per ampiezza e profonditĂ delle iniziative progettuali, per livello di finanziamento, con il livello medio delle CDCs (staff di 6-7 persone full-time, 19 in totale, finanziamenti annui notevolmente inferiori a quelli della Cei, concentrazione prevalente su problematiche locali quali quelle 183


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legate al “low-income housing”) (Von Hoffman 2001; Vidal 1997). Il caso presentato dimostra, in primo luogo, l’efficacia del ritorno delle CDCs sui complessi terreni della progettualità socioeconomica, dopo la lunga fase di ritiro da questa fondamentale arena, vissuta dalle CDCs nei decenni precedenti agli anni novanta (sotto il motto “housing first” e quindi su terreni progettuali meno rischiosi) (Von Hoffman 2001; Vidal 1997). Inoltre, esso illustra la disponibilità di strumenti e pratiche innovative che è possibile utilizzare, sul terreno della progettualità socioeconomica a tutto campo, per perseguire finalità intrecciate di produttività del capitale investito, nelle sue varie forme (Jegen 1998; Van Hauken 2002), ritorni sociali in termini di “community building” e consolidamento delle capacità di agency ed empowerment degli attori locali (Lenzi 1992; Sullivan 1998)8. Come chiarito da un membro di rilievo della Cei, nel 1998, questo intreccio diventa fondamentale per la complessità stessa degli obiettivi che una CDC viene a porsi, in qualità di organizzazione finalizzata allo sviluppo comunitario e posta in una posizione di intermediazione strategica tra globale e locale e tra differenti universi di pratiche e valori. Si tratta di obiettivi innervati da una mission fondamentale, quale il perseguimento di una “double bottom-line”, “a marriage between financial returns and social returns” (Jegen 1998, p. 188). Come segnala il caso della Cei, la strategia per accoppiare esigenza di capitalizzazione delle risorse e finalità sociali nella produzione di beni pubblici, a forte valenza relazionale, non può essere semplicemente quella di una

8 Su questo terreno vale la pena di ricordare l’intreccio positivo tra CDCs e Community Foundation, attori filantropici caratterizzati da significative diversità rispetto alle fondazioni più tradizionali, sia quelle corporate che quelle di natura familiare o individuale (quali la molteplicità dei donors, la specificità geografica dei servizi prodotti e le natura “public” che le vincola al “public support test” e alla dimostrazione della molteplicità dei donors) maggiori possibilità di controllo pubblico). Esse sono recentemente cresciute del 50% nel periodo 1988-1998, con 1.53 bilioni di dollari in grants nel 1998 e circa 25 bilioni di dollari in market value e hanno dimostrato una buona capacità nell’adottare modelli di venture (Carman 2001).

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ricerca di meccanismi ottimi di allocazione delle risorse, ma piuttosto quella dell’investimento ad alto rischio, il cui successo dipende dalla creazione di sinergie fra attori differenti, dalla sperimentazione di intrecci produttivi fra logiche d’azione e pratiche differenziate, dalla produzione di capitale sociale e risorse di fiducia, dal coinvolgimento di risorse sociali a tutto campo, insomma da beni scarsi, delicati e complessi. La produzione di questi beni può realizzarsi solamente grazie al trasferimento e alla messa in circolo di risorse differenziate ed integrate (denaro, capabilities, competenze, capacità organizzative, saperi tecnologici, e così via). Esse devono risultare siano capaci di produrre forti esternalità sui vettori strategici, sugli attori, sulle aree d’azione e di trovare meccanismi produttivi di complementarità sul terreno, passo dopo passo, attraverso processi di crescita di conoscenze, scoperta e utilizzo di metodologie appropriate, sviluppo di capacità organizzative, emergenza di effetti moltiplicatori e di consolidamento delle capacità degli attori, in sostanza attraverso la creazione di spazi concreti di agency ed empowerment degli attori, la cui appropriatezza possa essere concretamente valutabile e, quindi, divenire oggetto di capitalizzazione e consolidamento. La vicenda della Cei testimonia, infine, l’utilità di perseguire pratiche di “venture” sul terreno della progettazione socioeconomica di stampo comunitario o regionale e su obiettivi altamente rischiosi e complessi, perché di natura integrata e collettiva. In questo senso, la vicenda della Cei richiama le idee di “civic entrepreneurship” e “regional stewardship” descritte da Henton, Melville e Walesh (2004, pp. 209 ss.). Laddove i meccanismi di base dell’agire imprenditoriale sui terreni della progettazione socioeconomica, come forma di “risk taking”, in ambienti complessi, sono l’attraversamento dei confini tracciati dalla tradizionale divisione settoriale del lavoro, un approccio di tipo integrato a 360 gradi, risulta capace di coniugare aspetti economici, sociali e ambientali nella risoluzione di problemi complessi, la capacità di “coalition building”, per favorire risorse complementari, finalizzate al cambiamento, il radicamento locale della vision e un approccio metodologico di tipo manageriale alla gestione dei processi di sviluppo. 185


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L’adozione di pratiche di “venture” consente alle CDCs di inserirsi in un interstizio strategico dal punto di vista ecologico-organizzativo, ovvero in un luogo mobile e fluido di fertilizzazione tra esigenze di capitalizzazione delle risorse dedicate ad investimenti filantropici ed esigenze di sviluppare progetti concreti e partecipativi che incontrino bisogni, esigenze e passioni civiche degli attori comunitari e sappiano mobilitare risorse non utilizzate di imprenditorialità e produrre capitale sociale e meccanismi di empowerment e sostenibilità a livello sociale. Si tratta invero di un terreno progettuale delicato, innovativo ed importante. Richiamando il senso di un interessante studio di caso su diverse CDCs americane, tra cui spicca anche la Cei, realizzato da Waddell, si tratta di un terreno caratterizzato da forti capacità trasformazionali nella risposta alle sfide che impattano le comunità e da una componente di scommessa sul futuro. Come sottolineato da Waddell, “social guided venture capital organizations have a very difficult task. They are trying to manoeuvre in an industry which is central to our economic system, and essentially reform it” (Waddell 1995, p. 337).

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Le nuove frontiere della filantropia: alcune esperienze di “venture philanthropy” nel contesto nord-americano Claudia Rametta

Il Morino Institute I mutamenti intercorsi nel non profit, e nella filantropia che lo supporta, sono il risultato di molteplici fattori e hanno dato luogo ad altrettante modalità di intervento. Tra queste, l’espressione probabilmente più interessante è rappresentata dalla “venture philanthropy”, strettamente connessa allo sviluppo della new economy, alle tematiche della globalizzazione e all’accelerato sviluppo delle nuove tecnologie di internet. Queste hanno costituito il medium attraverso il quale la “venture philanthropy” si è espressa. Internet ne ha costituito il tessuto connettivo che ha consentito l’incontro e la combinazione dei saperi e favorito la diffusione di informazioni e di reti di consulenza a supporto dei nuovi attori che si orientano verso un modello di agire filantropico ad alto potenziale di impegno sociale. Tra le innovazioni introdotte nell’ambito della filantropia, sin dall’inizio degli anni novanta, a partire dalle esperienze maturate nell’ambito della new economy, il Morino Institute rappresenta uno dei percorsi pionieristici di eccellenza. L’ondata di fusioni e di acquisizioni che ha connotato gli ultimi decenni del secolo scorso non soltanto ci ha consegnato nuovi assetti economici e ridefinito il concetto stes195


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so di finanza, ma ha anche liberato risorse umane di altissimo profilo. Alcuni attori che hanno accumulato risorse e competenze nel settore profit hanno trasfuso le conoscenze acquisite in ambito imprenditoriale nella sperimentazione di percorsi di creatività istituzionale nell’ambito del non profit, rispetto alle quali il concetto stesso e l’operare di una fondazione non viene messo in relazione esclusivamente alla disponibilità di adeguate risorse finanziarie, ma si basa sulla condivisione tra chi eroga il finanziamento e chi lo riceve, sulla base del principio che ogni progetto deve contenere la visione e il sistema di valori e di obiettivi che orientano il processo erogativo, e questo non solo in termini di scopi ma di operatività organizzativa. La Morino Foundation, dalla cui attività è, in seguito, scaturito il progetto di attivazione del Morino Institute, è stata eretta nella piena consapevolezza di queste istanze e, attualmente, rappresenta un’entità non profit che finanzia individui ed organizzazioni allo scopo di implementare le conoscenze delle e per le comunità di riferimento. Il principale beneficiario della sua attività è il Morino Institute, sito a Reston in Virginia, la cui mission è di aiutare la collettività ad individuare le opportunità rese disponibili da quella che Mario Morino ha definito “l’Età della Conoscenza”. Mario Morino scelse nel 1992 di dedicare il patrimonio conoscitivo accumulato nelle due precedenti decadi nell’ambito delle nuove tecnologie1 per creare una struttura destinata a ricoprire un ruolo di rilievo nella diffusione di nuove strategie filantropiche. L’intuizione di maggiore spessore fu quella di offrire un supporto alle entità non profit giocando un ruolo da lui stesso descritto come “attivismo passivo”, ovvero di erogazione di

1 Mario Morino è stato il co-fondatore di una delle più grandi imprese di software a livello mondiale la Legent Corporation (ora parte della Computer Associated International Inc:.) Come egli stesso racconta in una lunga nota autobiografica che è anche la ricostruzione del suo percorso di “instituione builder” pubblicata sul sito dell’istituto (M. Morino, The Genesis of the Morino Foundation, The Morino Institute 1995. http://www.morino.org/) molti dei partners e dei collaboratori e dell’impresa, condividendo appieno la sua visione, lo hanno sostenuto attivamente nel passaggio e nel trasferimento dei

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grants che simultaneamente garantissero le risorse finanziarie e manageriali necessarie all’attuazione dei progetti selezionati. La “passività” consisteva nel trasferire esperienza, assistenza e risorse senza detenere il controllo del progetto. Le sinergie prodotte dalla vocazione a stabilire rapporti di mutua e paritetica partecipazione hanno promosso le condizioni per l’attuazione di soluzioni destinate ad avere un impatto rilevante nel contesto del non profit statunitense. Il nuovo approccio, capace di fondere armoniosamente le competenze tecniche e finanziarie necessarie per l’individuazione di progetti innovativi e radicati, rispetto alle motivazioni e alla visione dei promotori, ha creato i presupposti per la diffusione di operazioni difficilmente attuabili attraverso impostazioni di tipo tradizionale. La Fondazione Morino è stata in grado di agire come attrattore e ha suscitato molte tra le esperienze più significative del settore non profit. La Echoing Green Foundation di New York, istituzione che offre fellowships per programmi di pubblica utilità, ha avuto una decisa influenza sulla definizione della visione della Morino: ne ha ereditato la vocazione ad investire sugli individui che ha ritenuto dotati di profonde motivazioni e che fermamente credono nella loro volontà di promuovere il benessere della comunità. Il tema ricorrente di tutti i programmi finanziati dal Morino è l’apprendimento. L’educazione e lo sviluppo della conoscenza rappresentano le uniche possibilità per superare le avversità e l’obiettivo della fondazione è di favorirne la diffusione, affinché la maggior parte degli individui disponga degli strumenti per la consapevole e

modelli del suo agire imprenditoriale nell’ambito di un agire filantropico che ha richiesto, all’inizio, un intenso accumulo di conoscenze ed un’attenta esplorazione dei contesti di riferimento. A ciò si è aggiunta significativamente una strategia di ascolto delle esperienze compiute da altri attori, nel mondo dell’impresa delle fondazioni comunitarie, nelle organizzazioni non-profit che Morino definisce come “Discovery process”: un laboratorio attivo che ha preceduto la creazione dei network di riferimento dell’istituto e al tempo stesso ne ha orientato l’organizzazione.

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libera scelta del proprio futuro professionale e sviluppi una piena ed effettiva “cittadinanza”. Le nuove conquiste dell’“Età della Conoscenza” hanno reso disponibili nuove forme di comunicazione e una delle prime indagini condotte dalla Morino è stata quella di verificare i rischi e le opportunità offerte da Internet e dalle nuove tecnologie per promuovere l’avanzamento sociale e il consolidamento dei processi di costruzione identitaria nelle comunità di riferimento. La dotazione della fondazione è stata inizialmente un pacchetto azionario del valore di 4.8 milioni di dollari. Per garantire continuità alla istituzione, Morino ha disposto un’adeguata pianificazione del proprio patrimonio. Nel 1993 cominciarono ad essere studiate le condizioni per la costituzione dell’Istituto destinato a svolgere la funzione di braccio operativo della Fondazione. Le fasi preliminari furono interamente dedicate all’incontro con banchieri, istituzioni religiose, agenzie governative, gruppi di attivisti, al fine di promuoverne la futura attività. Tra i primi incontri di rilievo, Morino ricorda quello con le autorità accademiche della sua Alma Mater, la Case Western Riserve University di Cleveland nell’Ohio. In quell’occasione fu discussa con l’allora Rettore dell’Università Kaye Gapen la possibilità di facilitare l’accesso alla biblioteca attraverso l’utilizzazione delle nuove soluzioni rese disponibili dalle più moderne innovazioni tecnologiche. Entrambi furono concordi nel valutare l’importanza della socializzazione alla quale dava luogo la possibilità di incontro insita nella frequentazione di uno spazio comune. In altri termini, Morino e il Rettore condivisero la piena consapevolezza che la tecnologia rappresentava un mezzo e non un fine. Successivamente un nuovo progetto evidenziò le straordinarie interazioni tra ampliamento della conoscenza e sviluppo società: lo studio condotto dall’università sulla Cleveland Free-Net, portò alla attivazione di una rete che consentiva agli abitanti della città di comunicare tramite posta elettronica e di ottenere tramite computer informazioni di supporto ai malati e ai loro familiari. Ciò che inizialmente attrasse l’attenzione di Morino fu un progetto sperimentale, promosso dal centro per l’Alzheimer dell’Ospedale Univer198


LE NUOVE FRONTIERE DELLA FILANTROPIA

sitario di Cleveland congiuntamente all’Alzheimer’s Association, che metteva in relazione le famiglie degli ammalati, aiutandole, anche psicologicamente, ad affrontare la drammatica realtà. Altri incontri furono ugualmente determinanti nel stabilire il percorso che avrebbe in seguito intrapreso l’Istituto: un network di comunicazione interattiva, finalizzato a trasformare le istituzioni e a ridefinire le comunità. Le potenzialità insite nelle nuove tecnologie potevano mutare il modo in cui le persone si influenzavano reciprocamente, non offrire il mero accesso all’informazione, ma concentrare i tempi necessari all’apprendimento e alla ricerca, svelare nuovi orizzonti offrendo l’accesso alla speranza. L’attività dell’Istituto si è sviluppata lungo quattro direttrici, finalizzate ad incoraggiare nuove forme di imprenditorialità; favorire la diffusione di una più matura ed efficace filantropia; colmare il divario sociale; rendere accessibile l’uso dei sistemi informatici e una piena consapevolezza del potenziale di Internet e degli effetti prodotti dai nuovi assetti economici sulla società. Fin dalla sua creazione, la Fondazione, preposta alla raccolta e alla gestione dei fondi e l’Istituto, che applica il know how prodotto dalle iniziative della Fondazione, hanno promosso l’accesso all’informazione e alla conoscenza necessaria all’applicazione degli strumenti di comunicazione interattiva con l’intendimento di fungere da catalizzatori del cambiamento. Tutte le iniziative intraprese in funzione dello sviluppo economico, sanitario, educativo e civico sono state poste in essere per promuovere modificazioni sociali di lungo periodo. Le strategie sono volte all’identificazione delle istituzioni più idonee all’applicazione dei progetti, ma anche all’incubazione di nuove organizzazioni capaci di produrre le modificazioni sistemiche sperate. A questo proposito, l’approccio basato sulle metodologie applicative della “venture philanthropy” si è rivelato uno strumento fondamentale, in quanto esso ha posto grande enfasi sulla “building capacity” per promuovere una più articolata offerta di servizi, aumentando contestualmente il numero di coloro che ne possono trarre beneficio. La “venture philanthropy” consente all’orga199


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nizzazione che la applica di concentrarsi sulla mission e favorisce la rendicontabilità dei risultati sociali ottenuti. L’investimento diviene funzionale alla costruzione di entità altamente efficienti, capaci di perseguire gli obiettivi e di raggiungere sostenibilità finanziaria attraverso soluzioni che non dipendono dalla semplice redistribuzione di ricchezza connessa alle tradizionali erogazioni. Il modello di investimento strategico delineato è stato inizialmente utilizzato per la realizzazione del Youth Development Collaborative Pilot, condotto in partership con quattro communities del Distretto di Columbia. Prima applicazione di “venture philanthropy” intrapresa dal Morino Institute, il Pilot ha investito 2.5 milioni di dollari per consentire alle quattro organizzazioni selezionate di dotarsi delle tecnologie necessarie e di sviluppare il potenziale umano attraverso la guida di un team di esperti del settori educativo e informatico. Il valore del progetto, indirizzato ai ragazzi provenienti da famiglie a basso reddito riposa sul duplice risultato ottenuto: l’acquisizione di nuove competenze e la crescita di autostima e di più alta confidenza nelle proprie capacità, da parte dei giovani che vi hanno partecipato. Il Morino Institute ha sin dall’inizio bilanciato le iniziative a più ampio respiro con attività di base, spesso suggerite dalle istituzioni che hanno stabilito parterships con l’organizzazione. Le singole iniziative potevano essere complementari ai progetti più ambiziosi, ma anche creare opportunità di accrescere il patrimonio di informazioni a favore dell’Istituto. Dall’accumulazione di conoscenza sedimentata nel corso degli anni, il Morino Institute, insieme alla Community Foundation of the National Capital Region e alla Community Wealth Venture, ha tratto le indicazioni per procedere alla costituzione della “Venture Philanthropy Partners”. Fin dalla sua fondazione, la nuova organizzazione, inizialmente guidata da Mario Morino, Raoul FernandezProxicom e da Mark Warner-Columbia Capital, ha deciso di rendere costantemente visibile la propria attività attraverso la divulgazione dei risultati ottenuti. L’attività del Venture Philanthropy Partners (VPP) riposa sui contributi di quattro partners strategici: il 200


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Morino Institute, la Community Foundation for the National Capital Region, la Community Wealth Ventures, la Mckinsey & Company. Il Morino Institute ha sostenuto il costo totale della ricerca che ha portato all’istituzione del VPP nel giugno 2000, e si è altresì impegnato a sostenerne tutti i costi di gestione fino a marzo 2003. Attualmente, continua a supportare i professionisti dell’istituto che svolgono la loro attività a favore del Vpp. La decisione del Morino Institute di precedere alla creazione del VPP rappresenta un passaggio fondamentale nell’attività dell’organizzazione: l’esperienza accumulata dal 1994 ha consentito di operare la trasformazione dell’istituzione, da struttura non profit di supporto a organizzazione capace di stringere alleanze operative con altre organizzazioni, al fine di promuovere la costruzione di una rete di fondi in grado di catalizzare enormi risorse inespresse a favore del settore non profit. La Community Foundation for the National Capital Region raccoglie fondi destinati alle organizzazioni non profit. La sua mission è quella di innalzare la qualità della vita nell’area metropolitana di Washington. Il ruolo del Vpp, inquadrato come pubblica “charity non profit”, è quello di supportare la Community Foundation e si inserisce nella volontà del VPP di essere parte integrante dell’ecosistema filantropico della regione. L’apporto della Community Foundation è imprescindibile per una profonda conoscenza delle problematiche dell’ambiente di riferimento. Al fine di procedere ad un costante scambio informativo, il VPP e la Community Foundation hanno deciso di condividere gli stessi uffici a Washington. Il comune intento è quello di coinvolgere sempre più numerosi imprenditori e uomini d’affari, in qualità di donatori e di attivisti delle due organizzazioni a favore dei bambini delle famiglie più disagiate del distretto. La Community Wealth Ventures (CWV) è un’agenzia di consulenza il cui ruolo consiste nel rendere le attività a favore del settore non profit maggiormente indipendenti e capaci di generare reddito attraverso le opportunità offerte dalla “venture philanthropy” e dalla collaborazione con aziende profit. La mission della CWV è quella di incoraggiare le non profit e le aziende private alla 201


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realizzazione di un comune programma, inteso alla realizzazione di disegni capaci di implementare nuove strategie di intervento a favore delle attività in ambito sociale. Il CWV è stato creato nel 1997 come entità profit ausiliaria della Share our Strength, tra le associazioni leader nell’ambito della lotta alla fame e alla povertà. Nel 1998, il Morino Institute ha deciso di valutare insieme al CWV la possibilità di stabilire un fondo sociale destinato alla creazione di risorse da destinarsi al supporto di organizzazioni a base comunitaria, finalizzate alla crescita di organizzazioni non profit. Il CWV ed il Share our Strength sono state entrambe create da Bill Shore. L’esperienza di Shore, di Mulhair e di Morino, che hanno condivisa l’opinione circa la necessità di adoperarsi a favore dell’istituzione di un fondo in grado di rafforzare e di espandere l’impatto delle strutture comunitarie di base, è stata alla base dell’istituzione del VPP. La McKinsey & Company è una delle più note ed accreditate società di consulenza manageriale a livello internazionale. Dopo lunghi anni dedicati al supporto delle aziende profit, alle quali ha assicurato la propria consulenza secondo linee guida che hanno posto alla base della propria attività una elevata capacità “problem solving” e le conoscenze e le competenze all’avanguardia del settore, la McKinsey ha deciso di istituire una divisione – il Nonprofit Practice – espressamente dedicata allo sviluppo del terzo settore. I nuovi imprenditori sociali Imprenditorialità e non profit sembrano termini inconciliabili. Le non profit tradizionalmente sono attive in ambiti prevalentemente caritatevoli ed i costi necessari per supportare la loro mission sono considerati tangenziali rispetto al vero significato della loro azione. Sono presenti migliaia di organizzazioni impegnate a colmare le deficienze del sistema, alcune dispongono di patrimoni multi-milionari, altre conducono la loro battaglia disponendo di uno staff estremamente ridotto, ma non per questo di minore utilità. Le loro iniziative spaziano dall’assistenza ai malati e agli anziani alla distribuzione 202


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del cibo ai bisognosi, dal potenziamento dei sistemi educativi al riavvicinamento dei ragazzi che hanno abbandonato le loro famiglia ai luoghi di origine, dall’inserimento delle categorie svantaggiate nel mondo del lavoro alla cura e protezione del patrimonio artistico e ambientale, solo per citare alcuni esempi. La generazione di risorse economiche da parte di queste imprese impegnate a promuovere cambiamenti sociali è una novità di straordinario significato, il cui sviluppo non avrebbe quasi sicuramente avuto luogo senza la disponibilità di nuovi approcci quali la “venture philanthropy”. Molte non profit, anche di piccole dimensioni, stanno cominciando a capire di possedere molto più talento e competenze di quanto non sospettassero. Soprattutto, hanno iniziato a capire che creano beni e servizi che hanno un valore di mercato e lo stanno, correttamente, utilizzando a loro vantaggio e, in modo, crescente e consapevole a vantaggio delle comunità di riferimento. Questa consapevolezza è particolarmente importante in tempi di crescenti difficoltà economiche. La capacità di produrre risorse autonome è vitale per continuare a erogare servizi essenziali per il benessere collettivo, in un periodo in cui i patrimoni delle fondazioni stanno vivendo alterne fortune, ma anche per sottrarsi ai sempre possibili cambiamenti dei trends filantropici. Inevitabilmente, dopo gli attacchi dell’11 settembre, molti donatori hanno concentrato i propri sforzi a favore delle vittime del terrorismo e, a causa delle pesanti conseguenze economiche che si sono accompagnate ai drammatici avvenimenti, molte imprese hanno diminuito le loro erogazioni a favore delle organizzazioni non profit. L’insperata crescita dell’imprenditoria sociale è dunque il risultato di tempi difficili, ulteriormente aggravati dalla destinazione di sempre maggiori investimenti statali intesi a supportare gli attuali impegni nel settore militare. Nei momenti di più elevata prosperità, le divisioni interne di un Paese – razzismo, povertà, malattie, criminalità – rappresentano una sfida al comune senso di giustizia, ma quando si prospettano scenari internazionali e interni inquietanti, quelle realtà possono innescare una 203


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miscela esplosiva. I leaders delle organizzazioni del terzo settore sono, dunque, chiamati a rispondere con maggiore efficienza e efficacia a quelle problematiche e necessitano di tutti gli strumenti disponibili per potere adeguatamente rispondere alle accresciute necessità. Devono in primo luogo produrre elementi per orientare differentemente gli investimenti. Il paradosso consiste nel fatto che mentre i problemi ai quali tentano di dare una risposta sono a lungo termine, la cultura diffusa scoraggia quel tipo di impegno da parte della maggior parte degli investitori. Indubbiamente la complessità delle situazioni che urgono una soluzione accompagna l’uomo fin dalle origini. La povertà ne rappresenta l’esempio più emblematico e anche qualora correttivi fossero disponibili, essi risultano spesso troppo onerosi per le organizzazioni, sia in termini di risorse umane, sia in termini di budgets. A ciò si aggiunge l’enfasi di una certa stampa sulle modalità di gestione che accomunano le organizzazioni che effettivamente utilizzano i finanziamenti ricevuti per perseguire finalità autoreferenziali, a quelle che ritengono, invece. che un investimento efficace e di impatto non autoreferenziale debba basarsi sui principi della trasparenza e della verificabilità, rispetto ad una fattiva attività. Per queste ragioni la produzione interna, almeno di una parte dei fondi necessari alla realizzazione dei progetti, rende i leaders delle non profit più liberi, rispetto ai condizionamenti esercitati dal controllo dei media e agli umori di un giornalismo che spia, con occhio allenato, alla ricerca degli “scandali”. Il sostegno offerto dalla “venture philanthropy” viene percepito come un fattore fondamentale per favorire questo cambiamento. Molte storie di successo continuano ad essere raccontate e a rappresentare un traguardo per chiunque decida di percorrere la via dell’imprenditoria sociale, da quella della fama raggiunta dalle panetterie Greyston, ai contratti stipulati tra la Pioneer Human Services’ cafés con la Boeing. L’imprenditore Ben Cohen, produttore di gelati, e Bernie Glassman, fondatore della Greyston, studiarono durante un incontro le modalità attraverso le quali il primo avrebbe potuto supportare la mission della non profit. 204


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Da questo colloquio informale – come recita la saga – è sorta una delle più importanti e significative esperienze di venture. Sono stati necessari cinque anni prima che la Greyston fosse in grado di offrire i prodotti richiesti. L’elemento di maggiore importanza per il successo di un’impresa è che il servizio offerto o il bene prodotto siano necessari al mercato. Il bisogno che si soddisfa può essere già presente o essere creato attraverso operazioni di marketing, ma qualsiasi imprenditore deve essere consapevole delle richieste del fruitore del suo prodotto. Nel caso della Greyston, l’impresa ha inizialmente creato un mercato per i suoi prodotti da forno tramite le sue relazioni con la Ben & Jerry’s, poi, successivamente, ha esteso la rete di distribuzione, includendo ristoranti e altre imprese. La fase preliminare del progetto è stata destinata alla messa a punto di uno specifico prodotto che doveva rispondere agli standard qualitativi richiesti. Lo staff ha impiegato due anni per sviluppare il tipo di biscotto rispondente alla richiesta e disposto le procedure operative per soddisfare l’acquirente. Attualmente è l’unico fornitore di brownie della Ben & Jerry’s. La Greyton persegue il duplice ruolo di produttrice di prodotti di alta qualità e di non profit impegnata a garantire un effettivo reinserimento di persone marginalizzate. La mission della organizzazione non è quella di impiegare persone per la produzione di biscotti, ma quella di produrre biscotti per impiegare persone, ma a queste sono richieste puntualità, precisione e performance uguali a quelle di una qualsiasi impresa. Il raggiungimento della missione sociale non annulla le esigenze di mantenere alti gli standards qualitativi e la competitività rispetto ai prodotti di mercato. Un ulteriore, significativo, esempio di auto, sostenibilità è quello delle Pioneer Fellowship House. Quando il fondatore Jack Dalton decise nel 1963 di aprire una residenza per alcolisti richiese ai suoi ospiti di pagare 25 dollari a settimana, di adempiere alle pulizie e di presenziare alla riunioni serali. Dalle sei iniziali la struttura possiede attualmente oltre 450 unità residenziali. La filosofia della Pioneer è molto semplice, ma estremamente educativa: non è possibile insegnare alle persone in difficoltà a diventare indipendenti quando chi lo insegna non lo è 205


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in prima persona. Attualmente, l’organizzazione raggiunge il 99.6 % dei 55 milioni di dollari annualmente necessari al suo mantenimento. Le industrie Pioneer, attualmente parte dell’Enterprise Group of Pioneer Human Services, sono sorte nel 1966 e impiegano, tra gli altri svantaggiati, ex alcolisti e ex tossicodipendenti. La compagnia ha anche attuato un programma correzionale che opera a livello sia statale, sia federale. Molti tra gli assistiti sono inseriti nelle industrie del gruppo e aiutati a trovare un’abitazione nel momento in cui sono pronti a rientrare nelle comunità di origine. Le organizzazioni che intendono perseguire questi obiettivi si trovano a vivere in una sorta di territorio di confine, tra il mondo for profit e le strutture non profit tradizionali. Condividendo entrambe le culture, esse abitano un universo dai contorni incerti, privo delle sicurezze che guidano l’operato delle organizzazioni ormai accreditate. Lo stesso sistema di tassazione al quale sono sottoposte registra questa ambiguità, cui si accompagna la diffidenza di quanti non dispongono degli strumenti necessari per comprenderne l’operato. Dare corso ad una attività di venture comporta inoltre un processo di auto valutazione e di apprendimento da parte dell’organizzazione che intende applicarne i principi che richiede un grande impegno e la vocazione ad assumere rischi. Non è sufficiente applicare i criteri che abitualmente accompagnano una ricerca di mercato per stabilire se quel servizio o quel prodotto possono ricevere una risposta positiva dal mercato. È necessario sottoporre la struttura interessata ad una analisi preventiva che ne determini la capacità di sostenere i futuri impegni. Un esempio significativo è rappresentato dalla Nation’s Capital Child and Family Development (NCCFD). L’organizzazione, che ha sede a Washington, produceva 500.000 pasti all’anno per i bambini. Gli analisti chiamati a valutare l’organizzazione hanno stabilito che con quel tipo di attrezzatura era possibile soddisfare richieste per 1.200.000 coperti. Vi era pertanto l’opportunità di ottenere un ritorno economico, vendendo la produzione eccedente le necessità connesse all’espletamento della mission della struttura e di finanziare con il ricavato l’intera operazione. 206


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Gli aspetti connessi alla misurazione dell’impatto analizzati dal punto di vista degli “intangible effects” vengono analizzati nel contributo di Giorgio Vicini, in questo volume, è tuttavia possibile anticipare che poche non profit sono adeguatamente informate delle possibilità offerte dall’applicazione di indici adeguati. Per molti versi, questa carenza è connessa alla poca disponibilità di fondi da destinare ai processi valutativi e si scontra con le aspettative di molti investitori che chiedono garanzie prima di destinare le loro donazioni a operazioni di venture. Purtroppo, se una struttura non dispone dei mezzi per crescere, difficilmente li possiede per procedere ad una corretta, spesso complessa e onerosa misurazione. La venture comporta l’assunzione di rischio, spesso non più elevato di quello che deriva da forme di fund-raising tradizionali. Il focus deve comunque essere sul lungo periodo e sovente l’investimento concesso richiede parecchi anni prima di palesare tutte le sue potenzialità. La domanda più frequente è se ricavi finanziari aprono la strada verso la sostenibilità, oppure se rappresentano un mezzo per diversificare le entrate di una non profit. Probabilmente sono vere entrambe le opzioni in quanto i guadagni permettono il logico supporto alla crescita complessiva e conducono alla sostenibilità. Il successo della venture dipende dalla condivisione di alcuni principi. Devono essere estremamente chiare le responsabilità e l’autorità all’interno della struttura. Le decisioni devono essere assunte con estrema rapidità, ma molte non profit lamentano spesso irrisolti conflitti di competenze; l’ambiente esterno deve essere favorevole, esattamente come deve esserlo per qualsiasi attività for profit; mentre la conduzione delle imprese è normalmente affidata ad un pool ristretto di managers, spesso il team che si occupa della venture entra in rotta di collisione con i membri del board della organizzazione originaria. Affinché il nuovo corso risulti vincente occorre che tutta la struttura sia orientata al nuovo orientamento; all’inizio dell’applicazione del nuovo progetto, la liquidità è molto più rilevante del profitto. Numerose venture sono fallite perché è stata posta poca attenzione alle risorse necessarie ad avviare il processo di sostenibilità. La letteratura dimostra 207


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che virtualmente qualsiasi attività attraversa un periodo di passività prima di cominciare a produrre profitti, il denaro necessario per superare la fase iniziale è quindi un elemento imprescindibile per il successo. La tendenza generale da parte delle non profit è di attribuire ad un membro dello staff la responsabilità dei nuovi progetti, ma molte di esse realizzano, entro tempi rapidi, che l’efficacia non può prescindere dalla esperienza e dalla piena e appassionata condivisione delle istanze che sono alla base della venture stessa. Le organizzazioni non profit che scelgono l’approccio della “venture philanthropy” rappresentano generalmente un gruppo a sé, in termini di missione e di servizi erogati. La maggior parte è impegnata nell’offerta di prestazioni a favore della popolazione più a rischio, seguono le attività volte allo sviluppo economico della comunità e quelle a favore dei bambini e della gioventù. Un’indagine promossa dalla Community Wealth2 ha rilevato che l’80% delle iniziative di venture sono scelte da organizzazioni presenti sul mercato da almeno nove anni. Solo il 4% tra quelle attive da meno di tre anni ha intrapreso progetti di venture a dimostrazione che la venture non è inizialmente considerata tra le possibili opzioni dalle strutture nascenti. Il report ha anche evidenziato che la venture non esclude le organizzazioni di modesta dimensione: un terzo delle non profit opera con un budget inferiore al milione di dollari ed un altro terzo dispone di risorse che vanno da uno a cinque milioni di dollari. Circa la metà, il 46%, è a base comunitaria, il 38% opera a livello regionale e solo il 14% è attiva su tutto il territorio nazionale. Approssimativamente il 46% delle organizzazioni conduce progetti di venture multipli. Il dato indica che una volta avviata una venture, l’organizzazione ne apprezza la validità e la estende ad altri progetti. L’80% delle non profit investigate ha dichiarato che le imprese avviate sono connesse o in linea con la mission originaria. 2

www.Morino.org.

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LE NUOVE FRONTIERE DELLA FILANTROPIA

Le entrate lorde sono strettamente connesse alla dimensione dell’organizzazione madre. Le più piccole, con budget operativo inferiore al milione di dollari, generano un reddito lordo di circa 167.000 dollari all’anno. Per quelle che dispongono di risorse tra il milione e i cinque milioni di dollari, la stima è di circa 600.000 dollari. Il 25% raggiunge, o supera, i cinque milioni di dollari. Il 69% delle venture raggiunge un profitto o il pareggio. L’utile di esercizio viene raggiunto dopo circa due anni e mezzo di pareggi. Mentre l’iniziale capitale, necessario per una venture, si aggira intorno ai 200.000 dollari, il livello degli investimenti necessari può variare sensibilmente. L’89% delle ventures è condotta da un dipartimento o da una divisione interna all’organizzazione madre e solo una su dieci utilizza per il proprio start-up la collaborazione di corporate, joint ventures o di altre strutture. Le organizzazioni non profit interessate ad avviare imprese sociali crede che la pianificazione e la ricerca siamo fondamentali. Metà delle strutture analizzate conduce studi di fattibilità, ricerche di mercato e analisi finanziarie prima di lanciare una venture. Anche quelle che si limitano a ricerche minimali ritengono che una più dettagliata pianificazione sia imprescindibile per il successo delle iniziative intraprese. Ciò che accomuna gli imprenditori sociali è la consapevolezza di creare nuova cultura e che questa aiuta la non profit ad attrarre e a conservare uno staff di qualità, a potenziare la rete di donatori e a raggiungere una più elevata autonomia. Le alleanze strategiche tra corporate e non profit La possibilità di esprimere le proprie capacità imprenditoriali anche all’interno di organizzazioni non profit sta attraendo abilità insperate nel settore, favorendo la diffusione di una nuova cultura manageriale e della mobilità tra imprese e non profit. Le imprese e le non profit possono cooperare in molti modi e combinare le rispettive risorse attraverso la 209


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formazione di alleanze strategiche. Le aziende sono infatti in grado di offrire loro assistenza tecnica, di rafforzare il management, di offrire volontari preparati, di diffondere la conoscenza del loro operato attraverso campagne di comunicazione congiunte o raccolte di fondi ad hoc, di supportarne i programmi e di migliorarne le strutture. Le non profit che intendono raggiungere un più elevato impatto dovrebbero considerare le partnerships con le imprese come una sorgente di talenti, di tecnologia e di innovazione di vitale importanza. Molti leaders delle organizzazioni non profit sono, per lo più, inclini a pensare alle aziende come a possibili finanziatrici di specifici progetti, ma la sola donazione filantropica priva la non profit del contributo più rilevante che può derivare da una alleanza strategica. Questa si verifica nel momento in cui una compagnia sceglie di utilizzare tutte le sue abilità a favore di una causa sociale. Si tratta di una relazione di non facile attuazione in quanto comporta un legame a lungo termine, una elevata visibilità e un complesso reciproco impegno di gestione sia da parte dell’impresa, sia da parte della non profit. Quando queste condizioni si verificano, come l’esperienza della Save the Children suggerisce, la sinergia imprime un’accelerazione al processo di sviluppo della organizzazione non profit altrimenti impossibile. La Save the Children, in cooperazione con l’Interpublic’s McCann-Erickson ha promosso una campagna di comunicazione, a favore dei bambini svantaggiati. Da questa sono derivati aiuti, come quello offerto dalla Scholastic, Inc., leader nella pubblicazione di libri per ragazzi, che ha deciso di mettere a disposizione migliaia di pubblicazioni per i bambini che altrimenti non avrebbero avuto accesso alla lettura. La Mott ha messo a disposizione una grande quantità dei suoi prodotti alimentari; la ClearVision Optical ha condotto uno screening gratuito della vista dei bambini e supportato i costi degli occhiali prescritti. La Save the Children ha anche concesso l’uso del suo logo per la produzione di differenti prodotti. Oltre a garantire entrate economiche, questa politica aumenta la visibilità della non profit e, con essa, le donazioni e le col210


LE NUOVE FRONTIERE DELLA FILANTROPIA

laborazioni di altre corporates. Le imprese coinvolte hanno anche messo a disposizione dell’organizzazione volontari qualificati oltre raddoppiare le offerte dei propri dipendenti. Venture Philanthropy Partners L’annuale report pubblicato on-line dalla VPVP rappresenta una preziosa risorsa per tutti coloro i quali intendono approfondire la conoscenza del settore attraverso le esperienze delle strutture coinvolte nei progetti di avanzamento della filantropia. Un lungo cammino è stato intrapreso dalle prime esperienze di “venture philanthropy” e l’esperienza maturata se da un lato ha parzialmente ridimensionato l’entusiasmo dei primissimi tempi, dall’altro ha avuto l’altissimo merito di creare i presupposti per una più consapevole e moderna concezione della filantropia. Il termine “venture philanthropy” ha indubbiamente avuto, negli ultimissimi anni, una vasta risonanza nel settore finanziario, filantropico e non profit, ma, nonostante alcune delle sue peculiarità siano pressoché costanti e facilmente individuabili, non vi è mai stata una piena e comune condivisione rispetto al suo significato denotativo. Alcune organizzazioni continuano a farvi riferimento enfatizzando o sfumando alcune delle sue caratteristiche, altre, per ragioni di carattere filosofico o per ragioni di rigorosa analisi delle forme di discrepanza tra il modello della venture nell’ambito delle attività imprenditoriali e le modalità con cui viene trasferito nel non profit, hanno rigettato il termine, pur avendone adottato i principi. Questa pluralità di approcci, espressione della ricchezza del confronto ancora in corso, ha indotto la Venture Philanthropy Partners a preferire “high engagement grantmaking” per descrivere le modalità attraverso le quali si esprime l’innovazione in ambito filantropico. Il rapporto 2003 rappresenta una insostituibile risorsa per comprenderne gli sviluppi, soprattutto dopo la svolta segnata dai drammatici accadimenti dell’11 settembre. Il Governo ha da allora concentrato l’attenzione e destinato la maggior parte delle risorse alla sicurezza del paese e 211


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l’impegno dei grant-makers è aumentato come probabilmente mai si era verificato in passato. Contestualmente alla sfavorevole congiuntura economica è cresciuta anche la consapevolezza che le organizzazioni non profit devono essere supportate non solo se fanno la cosa giusta, ma se la fanno nel modo più adeguato e risolutivo. L’emergenza ha prodotto una significativa evoluzione dell’“high engagement grantmaking” e reso necessaria la condivisione delle esperienze di coloro i quali hanno scelto di dedicarvi le loro energie. A questo proposito, risultano di grande interesse le testimonianze3 di alcuni tra gli interpreti di quello che Jed Emerson e Paul Shoemaker hanno definito “ecosistema filantropico4”. La Eugene and Agnes E.Meyer Foundation5 è da sei anni impegnata nella attivazione di programmi “get engaged”. Secondo Julie L. Rogers6, Presidente della Fondazione, ciò che spinge a questa scelta dipende dalla necessità di ripensare il ruolo delle organizzazioni filantropiche nel loro complesso. Si tratta di riformularne le precedenti impostazioni, di riorientarne le missions e di sviluppare relazioni differenti con le non profit finanziate. Questo presuppone la piena comprensione del ruolo

3 Tutte le testimonianze riportate sono state tratte dal sito del Morino Institute. 4 www.morino.org alla sezione “Essays on High-Engagement Grantmaking”. 5 La Meyer Foundation accorda annualmente oltre 6 milioni di dollari alle organizzazioni non profit dell’area metropolitana di Washington, DC, che svolgono attività nell’ambito della salute, dell’educazione, della giustizia e dell’arte. Inoltre, la fondazione amministra il Nonprofit Sector Advancement Fund finalizzato allo sviluppo del comparto non profit. 6 Julie L. Rogers è stata tra i fondatori della Washington Regional Association of Grandmakers, del Washington AIDS Partership e della Community Development Support Collaborative, creata in collaborazione con Fannie Mae Foundation. Membro del Consiglio d’Amministrazione e Vicepresidente del Forum of Regional Associations of Grantmakers, ha fatto parte del board del Foundation Center ed è stata membro del Council on Foundation. È tra i direttori e parte del comitato esecutivo del Greater Washington Board of Trade e del Federal City Council. Inoltre, è presente nel Consiglio del DC College Access Program, del Venture Philanthropy Partners e della Langley School di McLean in Virginia.

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LE NUOVE FRONTIERE DELLA FILANTROPIA

che queste ultime giocano nella impresa anche se si è soltanto all’inizio della elaborazione teoretica, necessaria alla comprensione degli elementi che consentono ad una non profit di esprimere i più elevati livelli di efficacia. Ciò significa adottare una visione olistica delle organizzazioni sovvenzionate e condividere l’assunto che l’efficacia dei programmi non può prescindere dalla capacità organizzativa. Per questo il legame che si stabilisce tra colui che offre e colui che riceve deve essere una condivisione a lungo termine, attraversare differenti cicli, ivi compresi quelli in cui i brillanti risultati ottenuti possono essere pesantemente rimessi in discussione. La vera sfida per la filantropia è rappresentata dalla piena consapevolezza che l’isolamento può distruggere anche l’organizzazione a più alta capitalizzazione e che l’efficacia degli altri dipende, anche e soprattutto, dalla capacità di sviluppare la propria. Le organizzazioni filantropiche devono essere le prime ad interrogarsi sul loro operato e impegnarsi a verificare quanto il loro apporto abbia influito sulla comunità e sulle non profit sovvenzionate. Per la Fondazione Meyer partecipare alla “engagement philanthropy” significa intervenire in una vasta gamma di attività che spaziano dall’assistenza manageriale, al conferimento di prestiti ai circuit riders tecnologici. Il fine è di stabilire sempre migliori relazioni, non soltanto con i propri partners non profit, ma anche, e soprattutto, con la comunità. La mission della Fondazione è di incoraggiare il benessere di tutti gli abitanti dell’area di Washington ed il raggiungimento dell’obiettivo riposa sulla identificazione dei migliori leaders delle non profit ai quali affidare gli investimenti strategici necessari al rafforzamento delle organizzazioni di terzo settore presenti nella regione, sulla promozione della loro influenza attraverso la definizione di partnerships e sulla offerta di consulenza a donatori altri che intendano effettuare effettivi investimenti caritatevoli nell’area. Si tratta di un approccio dinamico che risponde pienamente alle più evolute forme attraverso le quali si sta dirigendo la filantropia del nuovo millennio. Un altro elemento di grande rilevanza è rappresentato dalla assoluta certezza che grandi progetti richiedono la partecipa213


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zione di una pluralità di attori. A questo proposito, molte operazioni sono state condotte in collaborazione con la Fannie Mae Foundation e con altre istituzioni. Rilevante è stata inoltre l’intesa stabilita con la Venture Philanthropy Partners per le possibilità di condivisione delle esperienze che questa offre. In sintesi, è possibile una crescita dell’intera comunità civile solo se la “conoscenza” non rappresenta più il potere per eccellenza, qualcosa di cui si dispone per mantenere l’esclusivo controllo, ma assume la forma dell’investimento sul futuro dell’intera collettività. Eric Schwarz7 ha contribuito in maniera significativa a chiarire le ragioni per le quali molte persone, pur essendo perfettamente in linea con le istanze della “venture philanthropy” – programmi a lungo termine legati ai risultati e uniti ad un’assistenza non esclusivamente finanziaria –, non accettino il simbolismo che l’accompagna. A suo avviso, ciò è dipeso dal fatto che l’idea di “venture philanthropy” è stata associata all’idea che il settore profit fosse migliore di quello non profit, gestito da persone di buona volontà, ma incapaci di affrontare con rigore e serietà le problematiche sociali. In realtà, la “venture philanthropy” è la più adatta ad assecondare i sogni e le visioni degli operatori del terzo settore e ad aiutarli nella edificazione di strutture capaci di trasformarli in realtà. È inimmaginabile che tali obiettivi possano essere raggiunti attraverso la filantropia tradizionale e, a questo proposito, l’esperienza della Citizen School è certamente emblematica. L’iniziativa è sorta in quanto i suoi ideatori hanno ritenuto che il dopo scuola rappresentasse una

7 Eric Schwarz è presidente e tra i soci fondatori della Citizen School. L’organizzazione, nata a Boston nel 1995, è sorta al fine di offrire un nuovo modello di doposcuola ai ragazzi e per studiare attività alternative durante il periodo estivo. Il successo dell’iniziativa è stato tale che attualmente la Citizen School è considerata all’avanguardia da numerose istituzioni incluse la American Business Collaborative, la Bentos Foundations’Connect For Kids Campaign, il Council of Chief State School Officers, Demos, la Mott Foundation ed il National Institute for Out of School Time.

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straordinaria opportunità per migliorare l’educazione dei ragazzi e, tramite essa, rafforzare l’intera comunità. Per oltre due anni i membri della Citizen School hanno lavorato in team con la New Profit Inc.(NPI) e con la Edna McConnell Clark Foundation (EMCF) per pianificare il loro lavoro e l’esperienza si è rivelata vincente. Nell’arco di diciotto mesi è stato infatti possibile non soltanto raddoppiare le dimensioni della struttura originaria, ma anche iniziare a replicarla a livello nazionale. Il fattore più significativo scaturito dalla venture è che l’organizzazione ha raggiunto un livello di autonomia tale da consentirle di continuare la sua espansione e ottenere risultati sempre più apprezzabili. Attraverso l’ausilio dei partners, la Citizen School ha potuto fruire della consulenza di esperti nell’ambito della valutazione, della tecnologia e della gestione delle risorse umane e finanziarie. Molte delle idee sulle quali si basa l’approccio della “venture philanthropy” – il conferimento di un numero limitato, ma più cospicuo di grants, il supporto protratto nel tempo, il focus sull’organizzazione e non sul singolo progetto – stanno stimolando altre organizzazioni filantropiche ad adottarne la filosofia. È il caso della Boston Foundation, la più antica istituzione dell’area, ma anche di numerose altre strutture, comprese le “corporate foundations” che, ironia della sorte, sono state le più lente ad accogliere i nuovi sviluppi della filantropia. Un importante contributo della NPI e della EMCF è stato inoltre quello di aiutare la Citizen School a sviluppare relazioni con le agenzie governative, creando le condizioni affinché l’affidabilità ed i risultati ottenuti fossero visibili e potessero stimolare finanziamenti pubblici alla loro e ad altre analoghe strutture. Paul Schoemaker8, nel delineare le ragioni dell’importanza della “venture philanthropy”, ha suggerito un interessante confronto con il paradosso della chimica: il cambiamento ed il disordine possono essere all’origine di un nuovo ordine e del progresso che ne consegue. Dal 8 Paul Shoemaker è il direttore esecutivo del Social Venture Partners. Durante gli anni ottanta è stato product manager della Nestlè USA. Successivamente ha fatto parte del management della Microsoft Corporation.

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mutamento, dalla differente combinazione degli elementi possono sorgere migliori strutture. La comunità dei filantropi dovrebbe accettare questa teoria scientifica e conseguentemente osservare le nuove iniziative promosse dalla “venture philanthropy” con l’attenzione che queste meritano. Essa ha contribuito a dilatare i precedenti confini e posto all’ordine del giorno interrogativi importanti, ha spostato l’attenzione sulla necessità di comprendere pienamente la mission di chi riceve fondi e, al contempo, ha indotto le non profit al confronto con chi le finanzia. La “venture philanthropy” offre competenze desunte dal business e abilità nell’ambito organizzativo, non desidera intervenire nella definizione della missione e dei programmi sociali della non profit. La determinazione dei rispettivi ambiti di competenza, la chiara delimitazione delle aree di interazione è alla base di una corretta, ma soprattutto onesta collaborazione tra le due strutture e la non profit deve potere uscire da una partnership che non la soddisfa. La venture non rappresenta l’unico possibile approccio e talvolta altre forme di collaborazione possono risultare più adatte a soddisfare particolari esigenze. Come ha suggerito Hildy J. Simmons9, donare è il compito più difficile in quanto l’utilizzo delle risorse concesse non può essere mai disgiunto dall’efficacia del loro utilizzo. A suo avviso, l’accettazione condivisa di questo assunto ha consentito di abbandonare la diatriba tra i sostenitori della “nuova” filantropia e gli esponenti più tradizionali a favore del più ampio concetto di “highengagement”. Ha inoltre spostato l’attenzione sulla “capacity building” e sulla misurazione e stabilito che non esiste un unico cammino percorribile per attuare programmi di successo in ambito filantropico.

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Hildy J. Simmons è alla guida del Global Foundations Group del J.P.Morgan Chase. Sovrintende ai programmi grantmaking di 45 fondazioni che, nel 2001, hanno complessivamente conferito oltre 140 milioni di dollari al settore non profit. È inoltre membro dei Boards della Taconic Foundation e del Lewis T. Preston Education Program for Girls.

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LE NUOVE FRONTIERE DELLA FILANTROPIA

Le erogazioni, per quanto significative, sono comunque insufficienti e non tutte le sfide possono essere raccolte. La filantropia investe in capitale umano, ma in analogia con quanto si verifica in ambito finanziario, l’investitore accorto deve possedere una chiara visione delle problematiche che affronterà, soprattutto in termini di rischio, in maniera tale da bilanciare la risorse e massimizzare il ritorno sull’investimento a medio e a lungo termine. Ne consegue che l’impiego delle risorse deve avvenire nella piena consapevolezza delle opportunità offerte che può derivare soltanto da una preventiva ricerca di mercato, finalizzata alla selezione delle non profit che maggiormente rispondono ai requisiti necessari al raggiungimento dello scopo prefisso. Solo attraverso la piena consapevolezza di quanto si sta realizzando si può talvolta identificare un’area d’intervento “dimenticata”, colmando un gap importante. Molto spesso un’analisi accorta è in grado di identificare possibili attori già attivi, ma la cui efficacia è penalizzata dalla carente struttura operativa, dall’area geografica periferica o dall’inadeguatezza delle risorse. Talvolta la disponibilità di informazioni può risultare più preziosa di una nuova fonte di finanziamento e sovente il donatore dispone di un potenziale che, se debitamente utilizzato, può produrre un effetto moltiplicatore delle erogazioni che ha reso disponibili. La Simmons ha ricordato durante la sua intervista che se la condivisione della conoscenza può essere illuminante e di enorme aiuto, l’applicazione di una buona idea è molto più complessa della sua ideazione. Quando si supportano uomini e non semplicemente programmi è necessario sapere che le migliori idee sono destinate a rimanere tali finché le persone non le trasformano in realtà. Un leader, per quanto illuminato, non può attivare programmi senza capitale umano e questo rappresenta la risorsa più importante in qualsiasi organizzazione. La disponibilità all’interno del proprio organico di personale altamente qualificato rappresenta la condizione necessaria per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo e, per queste motivazioni, il “venture capital” non privilegia un aspetto specifico della compagnia nella quale investe. L’“equity investment” presuppone infatti che siano valu217


CLAUDIA RAMETTA

tate contestualmente le capacità manageriali, la posizione della compagnia nel mercato, l’ambiente all’interno del quale essa opera e le strategie che attua per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. L’investitore deve essere pienamente consapevole dei costi finanziari e umani di un progetto, ma non sorprende che le organizzazioni non profit spesso evitino di considerarli per timore che l’inevitabile lievitazione dei budgets allontani i donatori che, troppo spesso sono maggiormente attratti dalle novità, piuttosto che dalla continuativa sovvenzione dello stesso progetto, soprattutto se, apparentemente, esso sembra necessitare di risorse maggiori rispetto ad analoghe iniziative di altre organizzazioni. Rincorrere finanziamenti per lanciare nuovi progetti quando quelli in corso non sono stati perfezionati rappresenta uno spreco di risorse ed impedisce all’organizzazione l’attivazione di un sistema capace di affrontare adeguatamente anche le future scelte. La maggiore sfida per i finanziatori, le non profit e gli esperti è quindi quella di spostare l’attenzione sulla solidità delle strutture operative favorendone il consolidamento.

I siti web dai quali sono state tratte le informazioni necessarie alla redazione di questo saggio sono riportati nell’appendice bibliografica del volume.

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Parte III Le forme dell’Intangibile: l’empowerment tra impresa e società civile


Le forme dell’intangibile: attori ed organizzazioni Giorgio Vicini

Filantropia come elemento strategico: valutazione dei benefici intangibili e ottica di mercato 1. Introduzione È da oltre vent’anni che la passione e l’interesse per le iniziative di impegno sociale si sono fatte strada nelle imprese. In Italia la “corporate philanthropy” è stata, per così dire, scoperta dalle imprese con un po’ di ritardo, ma le società hanno saputo colmare il ritardo riuscendo a distinguersi nelle iniziative volte alla salvaguardia dell’ambiente, al recupero di patrimoni artistici, al sostegno umanitario, alla lotta a gravi malattie, al finanziamento di programmi di solidarietà. Ad oggi il fenomeno è in forte crescita: da indagini recenti, infatti, emerge che quasi un’azienda su due, nel nostro Paese, risulta essere impegnata concretamente in attività di carattere sociale. I responsabili aziendali, infatti, si sono resi conto dell’importanza di contribuire alla crescita del territorio all’interno del quale si opera: a tale scopo, si è iniziato a L’autore ringrazia Piergiorgio Viaconzi per la collaborazione alla redazione di questo saggio.

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GIORGIO VICINI

mettere a disposizione del “cause related marketing” risorse economiche e know how interni. In sintesi, la filantropia sta acquisendo all’interno dell’impresa un ruolo sempre più strategico, ponendosi, insieme all’attività economica, legale ed etica, al vertice della piramide di responsabilità1. Le attività aziendali a scopo sociale stanno sempre più formando, congiuntamente al patrimonio di conoscenze dell’impresa, l’insieme delle attività intangibili cui la Società fa affidamento per essere maggiormente competitiva nel mercato globale. La determinazione e l’inclusione in bilancio di tali attività sta diventando un’operazione sempre più importante, un valore al quale l’impresa non può più rinunciare nella valorizzazione del proprio patrimonio tangibile ed intangibile. 2. Quali raccomandazioni per la valutazione degli “intangibile” Il valore di un’impresa dipende sempre meno dai suoi asset tradizionali e sempre più dai suoi asset intangibili. Un’impresa può oggi definirsi ricca, dinamica e competitiva non tanto quando possiede ingenti risorse economiche e finanziarie, ma soprattutto quando dispone di un elevato “patrimonio intellettuale”, considerato nell’accezione più ampia del termine. Gli asset intangibili rappresentano, quindi, il patrimonio di conoscenze di un’organizzazione. Nel significato più ampio di conoscenza, però, questo patrimonio racchiude non solo il know how delle persone impiegate in azienda, ma anche quello proprio dell’impresa, strettamente legato al suo sistema organizzativo, così come tutte quelle informazio1

Questo capitolo è stato scritto negli ultimi mesi del 2003, nei giorni di diffusione delle informazioni relative alla vicenda Parmalat. Probabilmente questa vicenda – che coinvolge il sistema economico nazionale ed internazionale – potrebbe indurre l’autore a rivalutare e riconsiderare parte di quanto espresso nel presente capitolo. Data la parziale informazione e il susseguirsi vertiginoso delle notizie, si è preferito non toccare tali argomenti, rimandandoli ad una trattazione di dettaglio successiva.

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LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

ni derivate dalle relazioni interne, che delineano la cosiddetta “cultura aziendale”. Non solo. Gli asset intangibili comprendono anche tutte quelle relazioni esterne, che delineano i contorni della reputazione dell’azienda nel mercato. Viene incluso in questa categoria il sistema di relazioni economiche, non a fini di lucro, poste in essere dalle imprese nelle comunità in cui operano: la “venture philanthropy”, ovvero la trasposizione in chiave non profit di tecniche e modalità di investimento applicate nel mondo della “venture capital”. Lo stesso marketing filantropico si sta ritagliando sempre più una posizione di rilievo nel contesto aziendale. Tale tipo di marketing, infatti, permette di differenziare la Società dai propri concorrenti ed integra i vantaggi economici delle iniziative in essere alla possibilità di aiutare la comunità attraverso attività filantropiche ad ampio spettro. I vantaggi esterni dell’utilizzo della “corporate philanthropy” come strategia di marketing, infatti, sono molti e si riferiscono ad una migliore immagine aziendale, una migliore visibilità sia a livello locale, sia in ambito internazionale, alla possibilità di stimolare le proprie vendite e di aumentare le proprie quote di mercato, sino ad una fidelizzazione più accentuata della propria clientela. In sintesi, le attività a carattere sociale delle imprese permettono un forte ritorno d’immagine presso le comunità nelle quali si opera, facendo coesistere esigenze di miglioramento economico delle Società stesse con aspetti di carattere solidaristico e di aiuto diretto delle fasce più deboli della collettività. Riprendendo il discorso relativo alle attività intangibili poste in essere dalle aziende, è da sottolineare che nell’economia attuale tali attività si stanno ritagliando un ruolo sempre maggiore. Non a caso, la quota di capitale “tangibile” sul totale del patrimonio delle Società americane è scesa dal 65% al 46,5% nel periodo compreso tra il 1929 ed il 1990, mentre, di converso, la quota di capitale “intangibile” è salita nello stesso periodo dal 35% al 54% (tab. 1). Nel merito, le imprese non hanno ridotto il loro stock di capitale totale (che anzi continua a crescere: il rapporto tra capitale e Pil, infatti è salito dal 10,8% del 1948 al 12,6% del 1990), quanto piuttosto hanno trasferito le proprie risorse verso le attività intangibili. 223


GIORGIO VICINI

Tab. 1 – Stock di capitale e rapporto tra capitale e PIL negli USA tra il 1929 ed il 1990 1929 Percentuale di stock totale di capitale Capitale tangibile 65,1 Capitale intangibile 34,9 Rapporto tra Capitale e PIL Capitale tangibile/PIL 7,4 Capitale intangibile/PIL 4,0 Capitale totale/PIL 11,4

1948

1973

1990

57,8 42,2

50,2 49,8

46,5 53,5

6,3 4,6 10,8

5,4 5,3 10,7

5,9 6,7 12,6

Fonte: OECD, 1996

La Figura 1 mette a confronto gli investimenti in attività tangibili rispetto a quelle intangibili nei paesi Oecd, in termini di tassi di crescita medi annui nel periodo compreso tra il 1985 ed il 1995. Rispetto agli Stati Uniti, l’Europa possiede più alti tassi di crescita medi annui negli investimenti, mentre l’economia americana conserva una maggiore proporzione di investimenti intangibili rispetto a quelli tangibili. In Europa, in particolare, i Paesi scandinavi mostrano più alti tassi di crescita degli investimenti negli asset intangibili rispetto agli altri paesi investigati. Il caso della Finlandia è emblematico, in quanto mostra tassi di crescita negativi del capitale fisico e per converso il più elevato tasso di crescita degli investimenti intangibili delle economie sviluppate. In questo contesto, sono sempre più numerose le aziende impegnate nello sviluppo di strumenti in grado di definire, gestire, monitorare, valutare e comunicare l’importanza assunta da questo patrimonio di risorse non tangibili nel processo di creazione di valore. Per una Società, infatti, è di fondamentale importanza stimare quali siano gli impatti delle “attività sociali” (e non solo) sul valore del proprio patrimonio, poste in essere in un determinato arco temporale.

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LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

Fig. 1 – Investimenti in attività tangibili ed intangibili come percentuale del PIL, 1985-1995

Fonte: Vickery, 2000

In questo contesto, sono sempre più numerose le aziende impegnate nello sviluppo di strumenti in grado di definire, gestire, monitorare, valutare e comunicare l’importanza assunta da questo patrimonio di risorse non tangibili nel processo di creazione di valore. Per una Società, infatti, è di fondamentale importanza stimare quali siano gli impatti delle “attività sociali” (e non solo) sul valore del proprio patrimonio, poste in essere in un determinato arco temporale. La necessità di valutare in termini non soltanto economico-finanziari la crescente rilevanza degli asset intangibili, ha destato l’interesse delle principali istituzioni economiche in campo internazionale, circa la possibilità di regolamentare la materia. Istituzioni, enti privati e studiosi stanno lavorando per cercare di individuare nuove metodologie di monitoraggio e contabilizzazione a supporto della valutazione, misurazione, gestione e comunicazione interna ed esterna di tutte le attività intangibili promosse dalle imprese. Il fine è quello di adeguare i principi di redazione dei bilanci alle mutate esigenze delle Società: i bilanci statici o di “stampo garantistico”, cioè, sempre secondo gli esperti, dovrebbero lasciare il posto a strumenti maggiormente idonei a fornire una rappresentazione dinamica dell’impresa moderna. 225


GIORGIO VICINI

La questione della valutazione degli “intangible asset” delle imprese ha acquisito negli anni un’importanza sempre maggiore, fondamentalmente per tre motivi: in primo luogo, la costante crescita del rapporto tra il valore di mercato delle aziende quotate ed il valore delle stesse desumibile dai libri contabili; in seconda istanza, la difficoltà riscontrata dagli analisti finanziari nell’elaborazione di “target price” realistici, soprattutto per quanto riguarda le aziende quotate; infine, come è già stato accennato in precedenza, il peso crescente delle risorse intangibili in possesso delle Società, risorse utili alla creazione di vantaggi competitivi duraturi. I tradizionali approcci economico-finanziari appaiono oggi inadatti a comprendere le nuove dinamiche di creazione del valore societario. Il valore delle imprese, infatti, attualmente non può essere scisso dall’insieme di conoscenze e di relazioni dell’impresa con il territorio in cui opera. Il problema si propone al momento dell’effettiva stesura del bilancio, ma in realtà nasce a monte, quando all’azienda è chiesto di valutare, nella maniera più aderente alla realtà, le proprie attività in campo sociale. Il bilancio redatto tenuti in considerazione tutti quegli aspetti descritti in precedenza, dovrebbe mettere in evidenza tutti i flussi di generazione di valore e gli eventuali nessi causali tra gli indicatori che permettono di comprendere il reale stato di salute e la capacità competitiva dell’impresa. 3. Metodologie di valutazione degli intangible La costruzione di metodologie per la valutazione del capitale intangibile (come i principi contabili redatti dallo Iasb) ha incontrato nella realtà il limite rappresentato dalla difficoltà di misurare in termini economici alcuni asset intangibili. Questa difficoltà ha messo in evidenza la necessità di utilizzare, accanto ai tradizionali criteri economico-finanziari usati per tutte le attività tangibili, degli indicatori di performance capaci di monitorare e quantificare l’apporto degli intangible nel potenziale complessivo dell’organizzazione societaria. Nelle moderne strutture aziendali che sviluppano il loro business con un 226


LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

approccio “knowledge-oriented” (cioè quelle imprese che esaltano l’apporto delle persone in quanto generatrici di conoscenze e quindi di strutture di valore), ad esempio, l’impiego di indici dinamici permette di valutare il processo di generazione di ricchezza, non soltanto in termini di profitti generati dal cosiddetto “patrimonio umano, organizzativo e relazionale”, ma anche in termini di potenziale di redditività del patrimonio stesso. In questo senso, gli strumenti a disposizione dei sistemi di “knowledge management” fungono da supporto nella gestione delle informazioni necessarie alla costruzione degli indicatori di performance. Tra le varie ipotesi proposte, quella che riscontra maggiori consensi riguarda la pubblicazione di un nuovo strumento di contabilizzazione accanto al bilancio di esercizio, vale a dire il Bilancio del Capitale Intellettuale e il Bilancio del Capitale Sociale, i quali svolgono la funzione di evidenziare aspetti diversi da quelli economici e finanziari, tradizionalmente presi in considerazione e di comunicare, internamente ed esternamente all’azienda, tali risultati. La redazione dei due bilanci, a prescindere dai diversi approcci utilizzati nella valutazione degli intangible, pone in risalto informazioni fondamentali sulla consistenza del patrimonio intangibile dell’azienda, sulla dinamicità delle attività aziendali, sugli obiettivi della Società, sulle strategie attuate per la conservazione e l’accrescimento di tale patrimonio e sul rispetto e i risultati delle strategie stesse. In una visione unitaria di esposizione della qualità e dell’efficienza dell’operato aziendale, i due rendiconti si propongono finalità precise e differenti tra loro. Il Bilancio del Capitale Intellettuale ha, infatti, l’intento di sottolineare le tendenze temporali nei processi di costruzione e alimentazione degli asset intellettuali, mostrando la capacità dell’impresa di generare valore in prospettiva. L’obiettivo del Bilancio del Capitale Sociale, invece, è di evidenziare il senso di responsabilità etica, il patrimonio di valori, le azioni e le strategie messe in atto nella creazione di lavoro e ricchezza, rivelando le ricadute che questi fattori hanno sul contesto economico, sociale ed ambientale in cui agisce l’organizzazione. 227


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I due reports hanno una doppia valenza informativa, interna ed esterna. Da un punto di vista interno all’azienda, oltre alla funzione di monitoraggio delle strategie intraprese, i bilanci espongono al personale che vi lavora la capacità dell’impegno aziendale nella valorizzazione del capitale umano e relazionale: attività di formazione, qualità del management, efficienza dei sistemi gestionali, attenzione e risposta alle aspettative degli stakeholder, rispetto dell’ambiente di lavoro, tutela del territorio, e così via. Da un punto di vista esterno, la funzione informativa è diversa, data l’eterogeneità dei destinatari dei reports: il bilancio del capitale intellettuale mostra, infatti, il suo valore comunicativo soprattutto nei confronti delle altre imprese, degli azionisti e dei potenziali investitori; il bilancio del capitale sociale, invece, si rivolge a tutta la collettività ed è di forte impatto nelle relazioni con le istituzioni statali e parastatali, confermando un operato oculato e responsabile. La mancanza di criteri standardizzati per la valutazione dei due Capitali, quello Intellettuale e quello Sociale, rende la redazione dei due Bilanci chiaramente non vincolante, anche se è in aumento il numero delle società che decidono di pubblicare volontariamente i due rendiconti. In sintesi, le turbolenze dei mercati internazionali hanno portato alla luce la necessità, per le aziende, di trarre massimo vantaggio da tutte le risorse a propria disposizione e, in tal senso, è diventata di tutta evidenza l’importanza di gestire e mettere a frutto la potenzialità insita nel proprio capitale intangibile. Allo stesso modo, la riscontrata divergenza tra book value e valore di mercato ha enfatizzato la rilevanza degli asset intangibili nella capacità di generare ricchezza. Questa situazione ha condotto alla ricerca di strumenti in grado di gestire, monitorare e portare a bilancio l’apporto del patrimonio intangibile nella creazione di valore aziendale. Nel tentativo di misurare tale apporto, i tradizionali strumenti di accounting si sono rivelati insufficienti a comprendere tutta la potenzialità insita negli intangible stessi ed è stato necessario costruire nuovi sistemi e nuove metodologie. Tra i modelli proposti, sono 228


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particolarmente degni di attenzione quelli che utilizzano, accanto a misuratori economici e finanziari, indicatori di performance capaci di esprimere la dinamicità e il potere di creare valore futuro del patrimonio intangibile. Il problema di fondo è che allo stato attuale sono poche le Società che hanno redatto dei bilanci nei quali viene quantificato l’apporto degli “intangible assest”. La prima azienda al mondo che ha pubblicato un vero e proprio bilancio del capitale intellettuale è stata Skandia, Società scandinava di assicurazioni operante a livello internazionale. Il caso Skandia è stato a lungo studiato sia nelle Università, sia dagli organismi internazionali di Accounting. Attraverso la pubblicazione dell’Intellectual Capital Report, la Società Scandinava ha incredibilmente aumentato la propria notorietà e, cosa più importante, ha avuto delle eccezionali performance azionarie. Infatti, dal 1995, anno in cui è stato presentato agli analisti ed agli investitori il proprio bilancio del capitale intellettuale, al 2001 Skandia ha ottenuto una performance azionaria alla Borsa di Stoccolma pari al 78,2% contro un andamento medio dell’indice del 6,5%. Il caso Skandia ha, quindi, aperto la strada al tema della valutazione del capitale intellettuale ai fini della creazione di valore. I principali passi in avanti compiuti in questa direzione dalle autorità contabili internazionali possono essere così riassunti: – Dal 1997 la SEC (Security Exchange Commission) dichiara che sono necessarie nuove forme di “reporting” che tengano in considerazione il valore degli “intangible assets”. – Nel 1998 l’IFAC (International Federation of Accountants) ha realizzato un documento contenente i principali approcci di valutazione del capitale intellettuale che si stanno affermando a livello internazionale (pronunciamenti di associazioni contabili, studi accademici, casi aziendali, “best practices”). – Il Danish Trade and Industry Development Council, in collaborazione con la Copenhagen Business School, ha realizzato nel 1997 e nel 2000 uno studio che include diversi casi di pubblicazione di “Intellectual Capital Report”. Il Progetto “Intellectual Capital Accounts” ha lo scopo di aiutare le imprese danesi nella transizione da 229


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un’economia “industriale” all’economia “della conoscenza”. – Nel 1998 è stato istituito un progetto di ricerca chiamato MERITUM (Measuring Intangibles to Understand and Improve Innovation Management) a cui partecipano attivamente sei nazioni europee (Finlandia, Francia, Danimarca, Norvegia, Svezia e Spagna), con l’obiettivo di produrre linee guida per l’identificazione e la misurazione degli assets. – Nell’ottobre del 1999 il ministero degli Affari Economici olandese, preoccupato della crescita del “market to book ratio” delle imprese olandesi, ha commissionato uno studio istituzionale sugli attuali metodi di valutazione del Capitale Intellettuale. – Nel 2000 l’Unione Europea, in coerenza con il progetto Meritum, ha costituito un gruppo di studio denominato “High Level Expert Group” con il compito di analizzare le “best practice” correnti ed arrivare alla stesura di un White Paper in materia di valutazione del capitale intellettuale. – Nel maggio 2001 il Department of Trade and Industry inglese ha pubblicato un documento “Creating value from your intangible assets” in cui approfondisce il tema della creazione di valore attraverso la gestione e la comunicazione degli “intangible assets” ed invita le imprese inglesi a valutare il proprio capitale intellettuale. – A partire dall’anno 2001 le imprese danesi quotate in Borsa operanti in settori “knowledge intensive” devono redigere un Intellectual Capital Statement. Negli ultimi anni è aumentato in maniera considerevole il numero delle imprese che hanno deciso di valutare volontariamente il proprio capitale intellettuale ed utilizzarlo come strumento gestionale per migliorare i processi decisionali e manageriali e come strumento di comunicazione finanziaria. Dal canto suo l’Unione Europea ha deciso di adottare provvedimenti per rafforzare la comparabilità dei bilanci redatti dalle Società, in particolare per quanto riguarda le Società quotate, ossia quelle i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati. Tuttavia, la stessa Unione Europea ha stabilito di non emanare distinti principi contabili (la qual cosa avrebbe solo aumentato la 230


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confusione degli esperti del settore), ma di recepire i principi già internazionalmente riconosciuti, quali sono i documenti emanati dallo IASC, organismo che recentemente ha assunto la denominazione di IASB (International Accounting Standards Board). Questi principi sono stati scelti in alternativa ai principi contabili statunitensi, gli US GAAP, giudicati, per alcuni aspetti, con una caratterizzazione meno internazionale degli IAS (gli Ias sono i principi emanati dallo Iasb). A partire dal 1° gennaio 2005, quindi, ogni Società quotata dovrà redigere i propri bilanci conformemente ai principi contabili Ias, ma già con il 2004 gli stessi bilanci dovranno essere predisposti in modo tale da recepire le nuove direttive. Come già accennato sopra, la motivazione principale che ha portato l’Unione Europea a muoversi verso la direzione di un modello unico di contabilità è il miglioramento della comparabilità dell’informazione finanziaria pubblicata dalle società i cui titoli sono negoziati in mercati pubblici. Esistono, comunque, altri intenti che stanno alla base della direttiva comunitaria: essa, infatti, si propone di migliore il funzionamento del mercato interno; costituire dei principi che abbiano la caratteristica di essere effettivamente globali; raggiungere la convergenza dei principi contabili attualmente utilizzati a livello internazionale, con l’obiettivo finale di conseguire un insieme unico di principi contabili su scala mondiale; aumentare la trasparenza e la comparabilità; accrescere il funzionamento efficiente, sotto il profilo operativo e dei costi, dei mercati dei capitali; aumentare la tutela degli investitori, in modo da mantenere inalterata la fiducia degli investitori; rafforzare la libertà di movimento dei capitali nel mercato interno; contribuire a mettere le imprese comunitarie nelle condizioni di competere ad armi pari per l’allocazione delle risorse finanziarie disponibili nei mercati comunitari dei capitali, nonché in quelli mondiali; rendere possibile la realizzazione di operazioni transfrontaliere; ottenere, da parte delle imprese, l’ammissione alla quotazione in qualsiasi Borsa mondiale. Per risolvere il problema della valutazione contabile delle attività intangibili, lo IASB ha predisposto una direttiva ad hoc. Lo IAS 38 è, infatti, quel documento nel qua231


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le si stabiliscono i criteri per l’identificazione degli “intangible asset” e la relativa modalità di calcolo. Tale documento definisce in modo univoco il concetto di “intangible asset”: esso viene identificato come un’attività non monetaria, priva di consistenza fisica, utilizzata nella produzione o nella fornitura di merci o servizi, o destinata ad essere affittata ad altri o utilizzata dall’impresa per scopi amministrativi. In sintesi, i quattro requisiti base da soddisfare affinché una attività venga definita intangibile sono la non monetarietà, l’identificabilità, l’assenza di consistenza fisica e l’utilizzazione nell’attività produttiva o nella fornitura di beni o servizi, per essere affittata a terzi o per fini amministrativi (quest’ultimo requisito è, però, in corso di revisione). Oltre ai requisiti sopra esposti, gli “intangible asset” devono soddisfarne anche un altro, non meno importante: un’attività intangibile viene definita contabilizzabile se e solo se il suo costo può essere identificato. Occorre non confondere i due tipi di identificabilità esposti: in precedenza, infatti, si trattava dell’identificabilità dell’attività intangibile in sé, ora, invece, si parla dell’identificabilità del suo costo. Il soddisfacimento di tale requisito è fondamentale, in quanto molti degli intangible ritenuti importanti da impresa e stakeholder potrebbero rimanere fuori dal bilancio qualora non fosse possibile assegnare loro un costo. Quindi, anche se un’attività intangibile dovesse rappresentare una grossa risorsa per l’impresa, non potrà concorrere al miglioramento della valutazione complessiva della Società nel momento in cui non sia possibile stabilirne il costo. Risulta di fondamentale importanza il concetto per cui affinché un “intangible asset” possa essere rilevato in bilancio debba garantire benefici economici futuri (intesi anche come risparmi di costo): un concetto strategico per una Società, in quanto anche iniziative di carattere più propriamente solidaristico possono soddisfare tale caratteristica. In sostanza, non soltanto le opere dell’ingegno promettono ritorni economici diluiti nel tempo, ma anche le attività filantropiche possono garantire ricadute economiche in seno alla Società. Sempre secondo lo IAS 38, dal punto di vista della contabilizzazione, l’“intangible asset” deve essere iscrit232


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to in bilancio al suo costo. In particolare, il costo può non corrispondere necessariamente all’acquisto effettuato in contanti o al costo di produzione; si distingue, infatti, tra: – acquisizione in una fusione, nel qual caso il costo è basato sul valore corrente dell’attività al momento dell’acquisto; – acquisizione mediante contributi pubblici, nel qual caso l’impresa è libera di scegliere se contabilizzare inizialmente il bene al valore corrente o a quello nominale complessivo di tutte le spese affrontate per fare funzionare il bene; – acquisizione tramite scambio con strumenti finanziari rappresentativi del patrimonio, ed in questo caso il costo corrisponde al valore corrente dello strumento finanziario. Maggiori difficoltà si incontrano nel momento in cui si cerca di stabilire il valore di un’attività “intagibile” prodotta direttamente all’interno dell’impresa, in quanto può risultare complicato capire se l’attività in questione possa generare benefici economici futuri ed in quale misura, oltre, naturalmente, definirne il costo in maniera corretta. Secondo lo IAS 38 le attività intangibili generate internamente devono essere divise in due categorie (se l’“intangible asset” non rientrasse in una delle due categorie, verrebbe inserito nella prima by default). La prima categoria corrisponde alla fase di ricerca: in questo caso si presuppone che la ricerca non necessariamente possa offrire ritorni economici futuri. La seconda categoria, invece, corrisponde alla fase di sviluppo: in questo caso le attività immateriali dovranno soddisfare le seguenti condizioni: possibilità tecnica di completare l’attività, in modo da poterla vendere o utilizzare internamente; capacità di utilizzare l’attività o di venderla; possibilità di verificare il modo in cui l’attività produrrà benefici economici futuri; possibilità tecnica finanziaria di portare a termine il progetto e venderlo o utilizzarlo; possibilità di quantificare il costo dell’attività. L’adozione di principi contabili che permettano di valutare gli asset intangibili rappresenterà una rivoluzione nel settore della redazione del bilancio. I principi guida che stanno alla base di tale rivoluzione insistono sulla 233


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necessità di cambiare alcune delle prerogative del vecchio metodo di redazione. Il problema per una Società sarà quello di partire da una valutazione interna (in termini economici e non solo) delle proprie attività intangibili, per poi essere in grado di estrapolare quei dati utili per la valutazione in bilancio. Lo scopo è quello di dare un taglio con la staticità dei bilanci attuali: tali bilanci, infatti, svolgono esclusivamente la funzione di rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria ed il risultato economico dell’esercizio, con lo scopo principale di fornire un’informazione di tipo garantista ai terzi. Le linee guida proposte dagli esperti per incorporare nel bilancio i dati relativi agli intangible pongono l’accento sull’esigenza di abbandonare il concetto di prudenza, il criterio del costo previsto per l’iscrizione delle attività, nonché il criterio di distribuzione degli utili solo se effettivamente realizzati. Il nuovo metodo di contabilizzazione dovrebbe svilupparsi intorno al concetto di “reddito prodotto”, che può essere a sua volta influenzato da ricavi o proventi non realizzati, dovuti all’impiego di valori correnti per la valutazione delle attività. In sostanza, si deve arrivare ad adottare il metodo di misurazione delle attività secondo il loro valore equo (fair value): al criterio del costo storico dovrebbe sostituirsi quello del corrispettivo al quale un bene può essere scambiato tra soggetti consapevoli e disponibili ad una transazione equa. In realtà si tratta sia di un approccio mentale sia operativo effettivamente nuovo, che dovrà essere incorporato nelle metodologie contabili di valutazione delle attività. Dal costo storico, infatti, si passa a quello corrente equo, dagli utili effettivamente realizzati a quelli “sperati” o latenti, dal reddito distribuibile a quello prodotto. L’adozione del principio del fair value presenta dei vantaggi, ma anche alcuni punti critici. Tra i pregi si può citare il fatto che seguendo tale metodologia di contabilizzazione il bilancio riflette i valori correnti dell’attività di impresa; inoltre, la metodica utilizzata fa concorrere al risultato di esercizio proventi ed oneri di competenza; infine, viene presentata una situazione che esprime valori reali. 234


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Tra i punti critici dell’adozione del fair value si può annoverare il fatto dell’abbandono di un parametro certo (vale a dire il costo) per un parametro più incerto, a volte poco documentato o documentabile; inoltre, la metodologia concorre a determinare risultati di esercizio maggiormente altalenanti e, pertanto, volatili; infine, il fair value richiede sistemi di valutazione affidabili ed un’adeguata informativa. Altri due aspetti devono essere tenuti in considerazione. Il primo riguarda il possibile aumento del valore di una Società, come conseguenza dell’utilizzo del criterio del fair value: di questo aspetto ne potrebbero beneficiare in special modo gli azionisti, nel caso, ad esempio, di cessione delle attività aziendali. In secondo luogo, l’eventuale minaccia di una maggiore tassazione come conseguenza di un utile più alto. A tale proposito, però, i principi contabili internazionali prevedono due ipotesi di redazione del bilancio, vale a dire la possibile doppia valutazione, civilistica e fiscale, oppure un’unica valutazione, valida anche ai fini fiscali. La prima ipotesi di contabilizzazione è, a prima vista, quella che meglio si adatta al caso di un mercato al rialzo. Dato per scontato che si possa utilizzare la doppia valutazione, rimane comunque il problema pratico di un aumentato onere amministrativo e contabile in seno alla Società. Si pensi, ad esempio, alla gestione della fiscalità differita, in presenza di un numero notevole di transazioni: un aiuto potrà venire da nuovi programmi software che permettano una doppia contabilità, ma, in ogni caso, è l’uomo che avrà l’onere di gestirli. La seconda soluzione proposta dagli esperti internazionali in materia di contabilità è più semplice ed immediata, ma in caso di mercati al rialzo comporta il pagamento di utili, anche ai fini della tassazione; nel caso di mercati al ribasso, invece, non dovrebbero sussistere problemi. Per risolvere il problema di una maggiore tassazione, quindi, la migliore metodologia di redazione da utilizzare dovrebbe fare appello alla prima ipotesi. Applicando la seconda ipotesi, infatti, si rischia il pagamento di imposte relative a plusvalori di realizzo non immediato. 235


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La contabilizzazione degli “intangible assets” secondo i tradizionali sistemi contabili pone alcuni problemi che riducono la visibilità dell’attività imprenditoriale. L’informazione di bilancio, ad esempio, tende ad avere un ruolo sempre meno rilevante nelle decisioni di investimento. Inoltre, l’andamento dei prezzi di borsa è sempre meno correlato alle principali grandezze di bilancio: il rapporto “price/book value”, infatti, tende ad assumere valori sempre maggiori e manifesta una variabilità sempre più elevata, in quanto il patrimonio netto di bilancio esprime, solo tendenzialmente, il valore dell’impresa. Infine, la capacità del bilancio di essere strumento di informazione per gli investitori tende sempre più a ridursi. Come accennato in precedenza, la Commissione Europea ha preferito l’adozione dei principi contabili IAS anziché quelli americani, in quanto questi ultimi sono stati giudicati meno “internazionali” dei primi. I criteri di contabilizzazione degli intangible secondo i principi americani e internazionali (Ias) presentano, infatti, differenze sostanziali. Per quanto riguarda gli intangible generati internamente, secondo i principi americani, questi non possono essere capitalizzati; esistono “industry standard” che consentono in limitati casi la capitalizzazione di alcuni costi. Secondo i principi internazionali, invece, queste attività in linea di principio non possono essere capitalizzate; possono essere, invece, capitalizzate le spese di ricerca e sviluppo, esclusivamente nella fase di sviluppo. Per quanto concerne gli intangible acquisiti aventi vita limitata, secondo i principi americani essi vanno iscritti in bilancio al fair value; la valutazione deve ovviamente tenere in considerazione il periodo di vita utile residuo. Secondo i principi internazionali, invece, questi intangible sono iscrivibili a bilancio al costo o al fair value; il valore iscritto deve corrispondere al periodo di vita utile (fino ad un massimo di 20 anni). Infine, per quanto riguarda gli intangible acquisiti aventi vita indefinita, secondo i principi contabili americani, essi vanno iscritti in bilancio al fair value; tali principi non ne prevedono l’ammortamento. Lo IAS 38, invece, non prevede che gli intangible abbiano vita indefinita. 236


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4. Metodologie di valutazione degli “intangible assets” come beni non di mercato Le diverse modalità attraverso le quali vengono attribuiti dei valori a quelle attività non materiali o che non possiedono un mercato tradizionale (come possono essere i beni non di mercato) suggeriscono l’opportunità di metodi di valutazione differenti. In tal senso, metodi valutativi non convenzionali possono essere presi in considerazione, accanto a quelli tradizionali descritti in precedenza. Vengono prese ora in considerazione due metodologie di valutazione diverse: l’approccio della produzione e l’approccio dell’utilità. Prima può essere considerato come una metodologia di valutazione dal lato dell’offerta, mentre la seconda rappresenta un criterio di valutazione dal lato della domanda. I due metodi si differenziano da quelli precedenti, in quanto questi ultimi sono desunti dall’analisi contabile, mentre i due nuovi approcci provengono da teorie di politica economica. Per semplificazione, si parlerà di progetti la cui implementazione causa un costo ambientale, ma la stessa analisi può essere estesa ad un progetto che ha ricadute sociali sul territorio nel quale l’impresa opera. Approccio della produzione In un’analisi costi-benefici, il beneficio netto di un progetto che comporta un costo ambientale (o sociale) può essere scritto come: NB=(B–C) – EB, dove NB è il beneficio netto, B il beneficio derivante dallo sviluppo del progetto, C è il costo dello sviluppo del progetto (escludendo il costo ambientale) e EB è il costo ambientale del progetto, misurato come benefici a cui si rinuncia, derivanti dalla diminuzione nella quantità o nella qualità delle risorse ambientali. Secondo tale approccio, esistono tre metodologie per contabilizzare i costi derivanti da attività ambientali: il primo metodo (detto della “dose/reazione”) determina i benefici ambientali a cui si rinuncia, attraverso la diminuzione risultante nel valore dell’output dell’econo237


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mia; il secondo metodo (del costo opportunità) implica il calcolo del costo della prevenzione del danno ambientale, per mezzo della modifica del programma o addirittura impedendo il progetto di sviluppo proposto; il terzo metodo (del costo preventivo) comporta il calcolo del costo di prevenire o mitigare il danno ambientale nel caso in cui il progetto venga realizzato. – Il primo metodo stima il valore del progetto attraverso la misurazione del contributo della risorsa ambientale alla realizzazione dell’output delle imprese che fanno affidamento su tale risorsa per la produzione di beni o servizi. Ad esempio, un’impresa combina risorse ambientali di una data qualità con beni capitali e lavoro, per produrre un output, quale può essere un servizio di turismo. La funzione di produzione combina, quindi, il capitale naturale nella forma di qualità dell’acqua (Q1) e, ad esempio, della scogliera (Q2), con capitale (K), lavoro (L) ed altri input acquistati (I) per produrre l’output (X). La funzione può essere scritta nel modo seguente X = f(K,L,I, Q1, Q2). L’effetto di un cambiamento in Q1 o in Q2 è allora stimato dalla grandezza dell’impatto che tale cambiamento ha su X e dal beneficio o dal costo di quell’impatto calcolato nel mercato del bene X. Ad esempio, per valutare l’impatto di un piano di sviluppo agricolo su una terra adiacente ad una scogliera e ad una zona di pesca, all’analista occorrerebbe configurare la relazione fisica tra una “dose” di inquinamento e il deterioramento nella qualità dell’acqua ed il loro conseguente impatto sullo stock di pesce e sulla qualità della scogliera. La relazione dovrebbe stimare la risposta produttiva degli utilizzatori della riserva di pesca e calcolare la riduzione nel valore netto della pesca. In maniera analoga, occorrerebbe misurare il valore perso o guadagnato dall’industria turistica basata sull’attrattività della scogliera, come risultato dei cambiamenti nella qualità della scogliera stessa, rispetto ai cambiamenti in altri livelli di input, come il capitale prodotto dall’agricoltura, gli input di materiali ed il lavoro. Questo approccio è direttamente applicabile alle risorse ambientali che hanno un uso diretto nel mercato, come il turismo e la pesca. Non può essere utilizzato per stimare valori che non hanno uso. 238


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– Il metodo del costo opportunità è spesso utilizzato quando non è fattibile la valutazione dei costi o dei benefici ambientali di un progetto o di una politica. Un metodo per implementare questo approccio è calcolare il costo opportunità di prevenire o limitare il danno ambientale, non intraprendendo o modificando il progetto proposto. Il metodo del costo opportunità lascia al giudizio del decisore valutare se e in che misura il valore di una politica di miglioramento ambientale è paragonabile al costo opportunità associato. In un’analisi limite, l’analista rovescia la questione, calcolando quale valore minimo di benefici ambientali associati è necessario per giustificare la scelta di una particolare opzione. Se il decisore valuta i benefici ambientali dovuti al miglioramento della qualità dell’acqua almeno uguali a questo ammontare, l’opzione può essere selezionata. – Il metodo del costo preventivo per la misurazione del danno ambientale assume che il valore della risorsa ambientale è uguale al costo di prevenire o mitigare il danno ambientale stesso, oppure di rimpiazzare o ripristinare l’attività ambientale, o, infine, di riallocare l’attività ambientale. Ad esempio, quando la qualità di un servizio ambientale scade, le famiglie reagiscono per prevenire o mitigarne gli effetti. Se la qualità dell’acqua potabile di casa peggiora, le famiglie spenderanno dei soldi per un sistema di filtraggio dell’acqua o per l’acquisto di bottiglie di acqua minerale. Se il rumore dovuto al traffico della strada sottostante aumenta, le famiglie decidono di installare doppi vetri o in alternativa possono decidere di trasferirsi. Il costo di misure preventive che le famiglie volontariamente sostengono fornisce una stima minima del costo sociale del deterioramento della qualità ambientale. – Infine, il metodo del costo di sostituzione implica la valutazione del costo di ripristino o rimpiazzo dell’ambiente degradato al livello precedente al danno; ad esempio, il costo di ripristino della vegetazione persa, delle foreste, o per la pulizia della scogliera è a volte impiegato per stimare i danni nei processi legali. Un problema direttamente collegato all’utilizzo di tale metodo è la possibile sovrastima del costo associato ai danni ambientali. 239


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Approccio dell’utilità Nel caso di beni di cui non sia possibile quantificare il valore di mercato, non risulta possibile neppure osservare una relazione tra prezzo e quantità domandata. Nonostante possa essere assunto che la curva di domanda per l’uso di un tale bene esista, l’ammontare pagato per il suo utilizzo è zero. In questo caso il surplus dei consumatori è dato dall’intero ammontare della loro disponibilità a pagare. È per questa ragione che il beneficio netto di un’attività ambientale è spesso eguagliato alla disponibilità a pagare, poiché, in assenza di un prezzo, il surplus dei consumatori è, come detto, uguale alla disponibilità a pagare degli stessi. Il cambiamento del surplus dei consumatori causato dall’utilizzo di una risorsa ambientale (relativo ad un progetto che migliora la qualità della risorsa stessa) è dato dall’ammontare massimo di denaro che la società è disposta a pagare per ottenere tale cambiamento favorevole, piuttosto che farne a meno. Una politica che migliori la qualità di una risorsa è ragionevole che faccia aumentare la domanda dei consumatori per quella risorsa, modificando in tal modo il surplus dei consumatori. Esistono essenzialmente due metodi di valutazione dell’utilità: il metodo della preferenza rivelata e il metodo della preferenza espressa. Il primo utilizza le analisi del comportamento dei consumatori, come rivelate in mercati attuali o surrogati, mentre il secondo impiega strumenti di indagine per costruire mercati ipotetici nei quali gli indagati esprimono le loro preferenze. – Per analizzare il metodo della preferenza rivelata occorre analizzare il comportamento degli individui in mercati surrogati. Un esempio di mercato surrogato è quello associato alle “spese di viaggio”. Seguendo tale metodologia, si osserva la somma che gli individui spendono nei viaggi e in altri costi associati per andare e tornare in luoghi dove le persone svolgono attività non di mercato (come ad esempio il viaggio di andata e ritorno per andare a pescare in un lago). Raccogliendo queste informazioni (vale a dire le informazioni relative alla distanza del viaggio, al tempo perso, e altri costi associati, come la frequenza dei viaggi per andare a pescare) da 240


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differenti gruppi di appassionati che vanno a pesca in zone differenti, è possibile costruire la curva di domanda totale. Poiché gli individui devono utilizzare il sito per rivelare la loro preferenza, ne segue che questo metodo non riesce a misurare il valore delle attività non impiegate. – L’analisi del metodo della preferenza espressa tenta di utilizzare indagini o altri strumenti (come gruppi di indagine) per costringere i consumatori ad esprimere il loro punto di vista sui valori relativi all’utilizzo o meno di un bene, sulla base della rivelazione delle loro preferenze in mercati ipotetici attraverso il meccanismo di prezzo. Il metodo della preferenza espressa più comunemente utilizzato è il metodo della valutazione contingente, che utilizza indagini per chiedere direttamente alle persone quanto sarebbero disposte a pagare per un cambiamento nella qualità o quantità di una risorsa ambientale. Il risultato è poi esteso al totale della popolazione. Questo metodo è, in linea di principio, un metodo relativamente semplice, sebbene allo stato dell’arte l’applicazione può risultare complessa. Il metodo può, infatti, essere influenzato dal fatto che le risposte provengono da una scelta ipotetica e non da una scelta reale; dal fatto che le persone che rispondono all’indagine possono credere che le loro risposte (cioè le loro disponibilità a pagare) possano essere utilizzate per incrementi futuri nel prezzo del bene offerto; dal modo in cui l’informazione è presentata (questo può influenzare le risposte degli individui); dal fatto, infine, che gli individui possano offrire la stessa disponibilità a pagare per una singola “componente” dell’attività ambientale, così che in seguito sia estendibile a tutto il sistema. Molte di queste situazioni possono essere vietate o quantomeno limitate, sebbene il dibattito relativo alla capacità degli individui di esprimere preferenze sui beni ambientali ed altri beni e servizi per i quali non esita un prezzo di mercato nello stesso modo dei beni privati è ancora aperto. Uno dei maggiori vantaggi del metodo della valutazione contingente è che riesce a stimare sia il valore di “beni d’uso” che quello di “beni non d’uso” e può essere applicato a quasi qualsiasi situazione. 241


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La criticità dei metodi proposti dall’analisi costibenefici per la valutazione di attività ambientali ha condotto alcuni economisti a proporre approcci totalmente differenti. Il metodo della determinazione del valore deliberativo, ad esempio, tratta il processo di deduzione del valore come un fattore importante nel determinare la validità dell’informazione acquisita dall’indagine. A differenza dei metodi tradizionali descritti in precedenza, le valutazioni degli individui sono trattate come determinate in maniera endogena ed adattabili, essendo determinate come parte di un’attività continua all’interno dello stesso processo decisionale In una struttura di determinazione del valore deliberativo, la deduzione del valore non avviene indipendentemente dal processo decisionale, ma forma parte di questo. Ad esempio, le giurie cittadine possono essere formate per deliberare su materie di politica pubblica, come l’uso e gestione di risorse ambientali. Queste giurie includeranno esperti con conoscenze scientifiche, come economisti che portano all’interno della giuria le loro esperienze sulle valutazioni non di mercato e studi costi-benefici (secondo una terminologia molto in voga, il loro “background”). La giuria deve deliberare sulle migliori azioni o interventi che le autorità responsabili per la gestione delle risorse ambientali dovranno in seguito adottare: tale giudizio non potrà, quindi, prescindere dall’esperienza che ogni analista porta con sé. Questo metodo può essere utilizzato per pronunciarsi su una valutazione o per prendere una determinata decisione. Un approccio simile al precedente è l’analisi multicriteri, dove a ciascuno dei gruppi di stakeholder rilevanti è richiesto stimare o classificare criteri di performance alternativi: la classifica che verrà stilata dipenderà dalle loro preferenze e dai vincoli loro imposti. Mettendo da parte le metodologie sviluppate per la valutazione e la contabilizzazione delle attività intangibili delle imprese, si cerca ora di sintetizzare alcuni dei progetti di “corporate philanthropy” posti in essere da un campione di Società operanti sia a livello internazionale, ma anche esclusivamente nel nostro Paese. 242


LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

A tale proposito occorre precisare che sono molte le iniziative a sfondo sociale che caratterizzano l’attività delle imprese, tanto da rendere difficile una loro classificazione ed analisi accurata. 5. Alcuni casi ed esempi di filantropia e di valutazione degli intangibile Lasciando da parte le metodologie sviluppate per la valutazione e la contabilizzazione delle attività intangibili delle imprese, cerchiamo ora di sintetizzare alcuni dei progetti di “corporate philanthropy” posti in essere da un campione di Società operanti a livello internazionale, piuttosto che esclusivamente nel nostro Paese. A tale proposito occorre precisare che sono molte le iniziative a sfondo sociale che caratterizzano l’attività delle imprese, tanto da rendere difficile una loro classificazione ed analisi accurata. L’impegno concreto delle aziende in campo sociale si concretizza sempre più spesso attraverso lo strumento delle fondazioni, enti il cui scopo primario è il soddisfacimento di bisogni specifici della comunità; ancora molte, però, sono le Società che preferiscono donare direttamente parte dei loro utili alla realizzazione di progetti di carattere filantropico. La questione che sta alla base del ragionamento è che non necessariamente devono essere solo gli azionisti a finanziare i progetti umanitari: il privato, infatti, una volta riscosso il dividendo, non ha l’obbligo morale di fare il filantropo e di destinare parte del proprio guadagno ad un’associazione. Questa rimane una scelta individuale, non imponibile dall’alto. Per l’azienda, invece, può (e per alcuni commentatori deve) nascere il dovere etico di destinare una parte dei propri profitti alla comunità in cui questi sono stati realizzati. Non è solo dovere etico, ma si tratta di una vera e propria strategia d’impresa: il denaro destinato per scopi filantropici può essere visto da un’azienda non più esclusivamente come un’erogazione a fini morali, ma come una risorsa immessa nel contesto in cui la Società stessa fa business. 243


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C’è anche un vantaggio fiscale per gli interventi di filantropia delle imprese: gli investimenti nelle fondazioni, infatti, siano esse indipendenti o costituite direttamente dalle Società stesse, così come le erogazioni liberali ed i contributi alle associazioni assistenziali, possono essere portati in deduzione fino ad un tetto del 2% sul reddito di impresa. Un’opportunità in più in seno alle imprese per poter integrare le proprie attività con il tessuto sociale nel quale si opera. Una delle ultime fondazioni nate in Italia nel corso del 2003 è Unidea-Unicredit Foundation, creata da Unicredito per gestire una serie di progetti soprattutto nel campo della sanità nei Paesi in via di sviluppo ed in Italia per il recupero della marginalità sociale. Per Unicredito la realizzazione di queste iniziative ha un ritorno strategico: trasmettere un sistema forte di valori ai collaboratori e ai dipendenti e, di conseguenza, ai clienti della banca. Il management della Società ha di recente accolto una richiesta che veniva direttamente dalla società civile, vale a dire la rinuncia al business dei traffici di armamenti. Gli investitori etici, infatti, potenzialmente una buona parte della popolazione correntista, non intendono investire i propri risparmi a favore di imprese che finanziano la guerra, la produzione ed il commercio di armi e di materiale bellico. In sostanza, Unicredito, in seguito alla campagna contro il finanziamento ed il commercio delle armi denominata “Banche armate” promossa da Nigrizia, Pax Christi e Missione. In occasione del Giubileo, ha adottato un codice di comportamento etico di disimpegno da tale attività. Il management della Società ha così deciso di rinunciare ad una fonte d’entrata strategica (quasi 55 milioni di euro nel 2001), ma nel contempo la sua iniziativa è stata elogiata dalla clientela e dalle associazioni di consumatori: la pubblicità riflessa che ne è derivata può spiegare almeno in parte la forte crescita della raccolta diretta, intesa come depositi (conti correnti, depositi a risparmio e certificati di deposito) e obbligazioni, rispetto agli andamenti medi degli ultimi periodi. Il valore intangibile di una politica improntata al rispetto di un valore etico comunemente accettato dalla comunità, si è trasformato in un ritorno di 244


LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

immagine positivo, che a sua volta ha influenzato il business di impresa. Il progetto principe nel quale Unicredito è impegnata, come progetto finanziato e sostenuto, rimane, comunque, D.R.E.A.M. (Drug Perources Enhancement against AIDS in Mozambique), il programma pensato e gestito dalla Comunità di Sant’Egidio e finanziato dalla Fondazione per la cura dell’AIDS in Mozambico. Il programma, che rispetto agli standard europei ha costi straordinariamente bassi, si sviluppa con una filosofia ed un approccio originali ed innovativi. Con questo progetto, infatti, la Comunità di Sant’Egidio opera a stretto contatto con il governo ed il personale sanitario locale, di modo che sia stato possibile avviare un meccanismo di responsabilizzazione delle autorità e dell’intero sistema sanitario del Paese africano. Il progetto D.R.E.A.M. è risultato efficace, non solo dal punto di vista dei risultati terapeutici, ma anche della sostenibilità economica, tecnica, di personale e risorse umane. I risultati non si sono fatti attendere: già nel 2002, infatti, con netto anticipo su altri progetti nel continente africano, è stato possibile iniziare a curare le prime persone malate di AIDS e far nascere i primi bambini sani da genitori malati. Il ritorno dell’iniziativa è sicuramente rilevante in termini di effetto sulle comunità locali anche se risulta ancora difficile da valutare l’effetto intangibile per il soggetto erogatore. Per le attività a sfondo filantropico, la multinazionale della telefonia Vodafone opera attraverso alcune fondazioni da lei istituite. Le somme donate e gestite da tali fondazioni vengono prefigurate dai vertici dell’azienda come veri e propri investimenti capaci di portare un ritorno di valore per il tessuto sociale. Nel nostro Paese, la Società ha costituito alla fine del 2002 la Fondazione Vodafone Italia. La strategia della Società non è tanto quella di fare filantropia per farsi pubblicità: la fondazione, infatti, rappresenta una leva della responsabilità sociale di impresa ed è sicuramente centrale per quelle attività che possono aumentare la reputazione dell’azienda, sempre e solo attraverso un vero lavoro di supporto sociale. 245


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Nel 2003 gli interventi della Fondazione Vodafone si sono concentrati, in particolar modo, nell’area dei minori poveri e nel recupero delle riserve idriche. Anche per Vodafone è fondamentale trasmettere un sistema di valori condivisi alla propria clientela e per converso alla comunità in genere. Vanno in questa direzione tutte quelle iniziative sociali proposte dall’azienda a supporto di emergenze a livello nazionale ed internazionale. Attraverso l’ormai famoso invio di un sms, il cliente Vodafone può donare una somma prefissata per scopi umanitari: “Telethon”, “Giornata mondiale contro l’AIDS”, “Lotta contro i tumori”, “Un aiuto subito” a favore delle popolazioni colpite dal sisma in Molise e dell’alluvione nel Nord Italia del 2002, sono solo alcune delle numerose iniziative di solidarietà che la Società ha voluto proporre alla clientela per stabilire un insieme di valori condivisi. La multinazionale del petrolio Shell è fortemente impegnata nello sviluppo delle comunità nelle quali opera. La Nigeria è il Paese che maggiormente ha beneficiato degli aiuti economici della Compagnia: oltre allo stanziamento di 48 milioni di dollari imposti dal Governo nigeriano ai partner della joint-venture operante nel Delta del Niger e di cui Shell fa parte, la Società ha donato altri 67 milioni di dollari per finanziare il completamento di 280 progetti finalizzati allo sviluppo delle comunità. È da rimarcare che l’approccio seguito da Shell per lo sviluppo delle comunità locali vuole abbandonare la prassi di offrire pagamenti in denaro contante (che alcune comunità richiedono espressamente al posto dei progetti di sviluppo), mentre è proteso a migliorare la qualità complessiva dei progetti. La sfida della Società è proprio quella di rimanere “sordi” alle richieste quotidiane di aiuti monetari e di concentrare gli sforzi nella realizzazione di progetti specifici. Per i responsabili della compagnia petrolifera, le comunità locali devono poter trarre vantaggi concreti dal petrolio e dal gas naturale estratti dal loro territorio. Allo stesso tempo, la Società deve poter beneficiare di una popolazione locale che sia professionalmente preparata per il tipo di business di Shell. La politica della compagnia, infatti, è quella di assumere la maggior parte dei dipendenti (in media circa il 90%) direttamente in loco: assume, così, importanza fonda246


LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

mentale sviluppare le attività imprenditoriali potendo beneficiare di una manodopera già formata e che viva in villaggi e comunità in condizioni più vicine a quelle che si possono trovare nei paesi sviluppati. La mancanza di adeguate infrastrutture che permettano un’efficace mobilità delle persone è un altro dei problemi cui Shell cerca di ovviare: da una parte, infatti, la carenza di strade è un fattore che inibisce lo sviluppo socio-economico della comunità, dall’altra, la compagnia deve poter contare su vie di comunicazione efficienti. Per questo motivo, Shell ha investito diversi milioni di dollari in piani di sviluppo quinquennali che contribuiranno al miglioramento della situazione viaria della regione. Anche in questo caso, l’attività filantropica della Società è indirettamente correlata al business d’impresa. La società farmaceutica Aventis è impegnata attivamente nella diffusione di medicinali nelle zone più svantaggiate del pianeta. La Società, infatti, ha messo a punto negli anni un approccio mirato alla cura di quelle malattie che maggiormente flagellano i paesi meno sviluppati e non solo. La possibilità di unire la ricerca farmaceutica della Società a tutte quelle attività di carattere sociale, è un’opportunità di cui l’impresa è consapevole e nella quale investe tempo e risorse. Non solo è possibile scambiare informazioni di carattere scientifico con altre Società ed Istituzioni impegnate in determinati progetti sociali, ma tali attività rendono più efficace la ricerca finalizzata alla sperimentazione. In sintesi, la filantropia funge da stimolo per migliorare la qualità e la quantità di informazione scientifica che forma il background di una Società farmaceutica. Si tratta di una vera e propria occasione per massimizzare gli obiettivi dell’impresa, attraverso la valorizzazione di quelle attività intangibili che indirettamente stimolano la crescita del valore aziendale. Aventis Pasteur è uno dei più grandi programmi di ricerca al mondo del vaccino dell’AIDS. Nel 2002 questo programma di ricerca ha collaborato con la Fondation Mérieux (fondata nel 1967 allo scopo di stimolare ed indirizzare la ricerca a livello mondiale per la cura della malattia) per il testaggio di un nuovo vaccino. Nel 2003 Aventis ha iniziato la somministrazione di tale vaccino profilattico in Tailandia. 247


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La Società svolge attività filantropiche nei paesi più svantaggiati, ma anche in realtà ricche e ad alto tenore di vita. In Francia, ad esempio, Aventis ha stanziato dei fondi a favore della Maison des Cancérologues de France (MCF) per combattere le malattie tumorali. Oltre alla donazione diretta, Aventis collabora con questa associazione attraverso lo scambio di conoscenze acquisite durante la propria attività di ricerca. Negli Stati Uniti, invece, nel dicembre 2002, Aventis, in collaborazione con l’American Pharmaceutical Association Foundation, ha realizzato un progetto volto a combattere i danni che il diabete provoca sui lavoratori americani. Il programma si propone di educare e motivare i lavoratori con diabete di modo che possano convivere più serenamente con tale malattia. Ma è nelle regioni più disagiate del pianeta ed in quelle nelle quali la Società opera, che l’azione umanitaria di Aventis si fa maggiormente sentire. La Società, ad esempio, è impegnata nella lotta contro la dengue, nota anche come febbre emorragica. Tale malattia è particolarmente diffusa in America Latina, Asia, Africa ed in alcune zone dei Carabi e del Pacifico. Aventis Pasteur sta sviluppando, in collaborazione con altri istituti di ricerca vaccini sempre più efficaci (anche a livello di vaccini pediatrici) da utilizzare in quei paesi dove la febbre emorragica assume forma endemica. Aventis è anche impegnata nella cura della meningite e della poliomielite. Per quanto riguarda la meningite, nel 2002 la Società ha donato 25.000 vaccini al WHO per il programma di cura nel Burkina Faso. Per la cura della poliomielite, Aventis ha donato, sempre nel corso del 2002, 30 milioni di vaccini al Global Polio Eradication Initative, all’interno di un programma che mira ad immunizzare tutti i bambini sotto i 16 anni di età che vivono nei Paesi dell’Africa Occidentale. Dash è stata la prima Società, nel 1987, a proporre ai clienti italiani una iniziativa di carattere filantropico. Attraverso le varie campagne “Missione Bontà” fino ad oggi realizzate in Italia ed in Africa, Dash e la sua clientela hanno destinato svariati milioni di euro in progetti umanitari in collaborazione con numerose organizzazioni non profit, quali Unicef, Azione Aiuto, Associazione Bambino In Ospedale (ABIO) e molte altre associazioni 248


LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

di volontariato. Le iniziative intraprese hanno portato a risultati apprezzabili, quali la realizzazione di una città studio in Kenya in collaborazione con i Padri Comboniani, un progetto sanitario in Etiopia con Azione Aiuto, un progetto di scolarizzazione per i bambini dell’Angola con Unicef, sale di accoglienza e sale gioco negli ospedali italiani in collaborazione con ABIO. Attraverso le campagne “Missione Bontà”, il marchio Dash (e con esso la Società capofila Procter & Gamble) intende contribuire alla diffusione della cultura dell’infanzia, che pone al primo posto la difesa dei diritti dei bambini. La Società ritiene che, per intraprendere una causa a sfondo sociale, un marchio deve necessariamente essere credibile, apprezzato ed affidabile: nel corso degli anni Dash è riuscita a conoscere i suoi consumatori, instaurando con essi un vero e proprio rapporto di fiducia. Il marchio “Missione Bontà” è oggi visto dall’opinione pubblica come un valido e competente interlocutore, che propone processi educativi e orienta verso i temi della solidarietà. La Società è convinta, infatti, che i clienti siano sempre più attenti ai temi della responsabilità sociale delle aziende: in particolare, secondo le informazioni in possesso di Dash, il 73% dei consumatori italiani ritiene che la “corporate social responsibility” sia un elemento determinante nella valutazione di un’impresa e dei suoi prodotti. La filosofia che caratterizza Procter & Gamble è proprio la consapevolezza del ruolo sociale che il marchio Dash ricopre, oggi, nel settore del non profit: la volontà di tenere in considerazione i desideri dei consumatori diventa parte della politica strategica dell’azienda. 5. Conclusioni Le attività intangibili si stanno ritagliando sempre più un ruolo strategico all’interno dell’impresa. La necessità di valutare la crescente rilevanza di tali attività, ha stimolato il lavoro di numerose istituzioni economiche in campo nazionale ed internazionale. Ad oggi, però, non esistono ancora criteri di valutazione comunemente accettati. Una spinta decisiva verso una uniformità di valutazione degli intangible a livello europeo è venuta dalla stes249


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sa Unione Europea, che ha imposto alle Società quotate, a partire dal 1° gennaio 2005, di redigere i bilanci conformemente ai principi contabili IAS. All’interno di tali principi, il documento Ias 38 fornirà gli elementi strutturali attraverso cui valutare in maniera coerente e standardizzata le attività intangibili delle imprese. Le difficoltà riscontrate nella costruzione di metodologie di valutazione degli “intangible assets” hanno messo in evidenza la necessità di utilizzare, accanto ai tradizionali criteri economico-finanziari, delle metodologie derivate dalla politica economica. Le attività filantropiche poste in essere dalle imprese, infatti, possono essere considerate come attività non materiali, o che comunque non possiedono un mercato tradizionale, come appunto i beni non di mercato. Metodi di valutazione provenienti dall’analisi economica e non direttamente dalla contabilità possono meglio aiutare a determinare il valore delle politiche aziendali che hanno una ricaduta sociale sul territorio nel quale l’impresa opera. Il dovere etico delle imprese di finanziare progetti con finalità sociali spiega solo una parte della strategia seguita dall’azienda nella massimizzazione dei propri benefici: le somme devolute per ragioni sociali, infatti, non rappresentano solo un’erogazione a fini morali, ma un investimento vero e proprio nel contesto nel quale la Società stessa fa business. L’impresa, ma soprattutto l’imprenditore, ha identificato il valore, alle volte tangibile alle volte intangibile, delle proprie azioni di responsabilità sociale sul territorio. Non riuscire a quantificarne, se non marginalmente ed indirettamente, i benefici non significa non comprendere che il valore reale è, in primis, per l’impresa per la quale e in nome della quale si agisce, e non solo per i diretti beneficiari dell’azione intrapresa. Bibliografia Bianchi P., Labory S. (2002), The Economics of Intangibles, Università degli Studi di Ferrara, in “Quaderni del Dipartimento” n. 16/2002. Bicciato F. (2000), Finanza etica e impresa sociale. I valori come fattori competitivi, il Mulino, Bologna. 250


LE FORME DELL’INTANGIBILE: ATTORI ED ORGANIZZATORI

Brown R., Campbell H. (2003), Valuation of non-marketed goods, cap.12 in Benefit-Cost Analysis. Financial and Economic Appraisal using Spreadsheets, Cambridge University Press. Emerson J.(2000), The Nature of Returns: A Social Capital Markets Inquiry into Elements of Investment and the Blended Value Proposition. Harvard Business School Working Paper. Frumkin P. (2002), Inside Venture Philanthropy, Thomas B. Forham Foundation, http://www.newameria.net/index.cfm. Guatri L., Bini M. (2002), Così si valutano i veri intangibili, in “Il Sole 24 Ore”. Iannucci M. (2003), Il bilancio con regole internazionali, in “Italia Oggi”. Kjell H. K. (1999), Accounting for Intangible Assets: The Informational Relevance of Deferred Charges”. Foundation for Research in Economics and Business Administration, 5045 Bergen, Norway. Manes V. (2002), Ora il venture philanthropy, in “Il Sole 24 Ore”. OECD (1996), Employment and Growth in the Knowledge-Based Economy, OECD, Paris. Vickery G. (2000), Accounting for Intangibles: Issues and Prospects, cap. 4 in Competitiveness and the Value of Intangible Assets, eds. Buigues P., Jacquemin A., Marchipont J-F., Edwar Elgar, Northampton, MA. Vitali Roscini F., Vinzia M. A. (2003), Fair Value. Rappresentazione contabile e valutazioni finanziarie secondo gli Ias, in “Il Sole 24 Ore”. Le notizie relative agli esempi di filantropia e di valutazione degli intangible sono state tratte dai seguenti indirizzi Internet: http://www.aventis-foundation.org/ http://www.clubsocialis.it/ http://www.dash.it/it_IT/home/index.shtml http://www.fondazionevodafone.it/ http://www.shell.com/home/Framework?siteId=home http://www.unicredito.it/ita/ambsoc/impegno_sociale/

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L’immagine di sé Modelli di comunicazione nella Venture philanthropy Girolamo Ramunni*

La “venture philanthropy”: una novità radicale ? I protagonisti della “venture philanthropy” non perdono occasione per evidenziare la frattura profonda che li separa dalla “vecchia” filantropia, quella nata e sviluppatasi negli Stati Uniti tra fine Ottocento ed inizio Novecento. Ogni circostanza è buona per ripetere, nelle innumerevoli pagine del web, la fondamentale differenza tra il proprio modo d’agire e quello degli altri filantropi. Un altro elemento che connota l’immagine offerta dalla nuova filantropia è quella di essere in sintonia con i tempi moderni. Perciò, il web e le riviste elettroniche costituiscono lo strumento di comunicazione per eccellenza usato dai filantropi della nuova generazione per promuovere la propria immagine. L’uso quasi esclusivo delle tecniche dell’informazione s’inscrive in una volontà di distinzione: la generazione dei filantropi che si riconoscono nella venture s’identifica in una mutazione radicale del sistema tecnologico ed economico. Le tecnologie nate con la diffusione capillare dell’informatica nella società non sono solo un mezzo per diffondere la nuova

* Institut des sciences de l’Homme. 14, avenue Berthelot 69007 Lyon. E-mail: Girolamo.Ramunni@cnrs-dir.fr

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concezione della filantropia, ma il loro uso indica che essa è profondamente strutturata dalla società tecnologica. I protagonisti di questo modo d’intendere la filantropia rivendicano con fierezza i propri successi nel campo delle tecnologie dell’informazione più recenti. Bisogna però fare attenzione al fatto che: i nuovi filantropi non rivendicano soltanto la tecnica delle macchine, ma la tecnica del management e dell’investimento. Sono le tecniche del campo delle scienze sociali ad essere presentate come il carattere distintivo del loro agire. Non vogliono essere tecnocrati, ma utilizzatori delle tecniche recenti, capaci di catalizzare il successo nell’ambito delle imprese legate alla tecnologia dell’informazione, e all’informatica. In altri termini, i nuovi filantropi si presentano come “i missionari” delle tecniche di investimento e di management più innovative. Lo storico che vede scorrere sul web una tale profusione di siti e di pagine si domanda immediatamente se, la pretesa novità, possa superare l’esame di un’analisi del progetto generale che anima un approccio alla filantropia nato alcuni anni fa. È indispensabile pertanto chiedersi, quali siano i punti presenti nelle diverse iniziative assunte da quanti si autoriconoscono nella nuova filantropia, e se tali elementi comuni a tutti i progetti permettono di caratterizzare un modo di fare filantropia, radicalmente diverso da quella nata un secolo fa. In altri termini, si tratta di comprendere le ambizioni di coloro i quali si autodefiniscono la nuova generazione di filantropi, intesa dagli stessi attori in analogia con le generazioni tecnologiche, in particolar modo creando un parallelo con le generazioni dei computer, o se, come le generazioni dei computer, si tratta di un’idea nata nei centri di comunicazione e che nasconde un altro tipo di realtà1. La pretesa nuova generazione fa parte 1 Le numerose storie dell’informatica usano (e abusano) della nozione di generazione come criterio per periodizzare la storia dello sviluppo dei calcolatori elettronici. L’idea di generazione ha avuto un tal successo da essere adottata anche in altri campi della tecnica. Oggi sembra che tutto possa essere distinto in periodi che corrispondono a generazioni. Ora, la nozione di generazione è nata nei servizi di comunicazione di IBM, alla fine degli anni cinquanta. In un momento di “crisi”: si trattava di mascherare l’insuccesso nella concezione di una nuova struttura di un calcolatore particolarmente performante. Tale nozione ha avuto successo presso il pubblico e soprattutto nel

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L’IMMAGINE DI SÈ. MODELLI DI COMUNICAZIONE NELLA VENTURE PHILANTHROPY

dell’idea di volersi distinguere ad ogni costo o corrisponde ad una certa realtà? Per rispondere a tale domanda, è necessario soffermarsi sulla comunicazione, sulla definizione che danno di sé i nuovi filantropi, sulle analisi e talvolta sulle immagini usate per autodefinirsi. Che cosa rivela tale nuovo modo di comunicare? Perché si insiste tanto sulla volontà di essere in sintonia con la nuova economia? Perché si vuole mostrare ad ogni costo che è in atto un cambiamento nel modo di fare filantropia? Si tratta di una volontà di cambiare tutto perché niente cambi, per utilizzare una celebre immagine del Gattopardo? Cosa rivendicano i nuovi filantropi La rivendicazione di una radicale diversità rispetto alla filantropia “classica” è giustificata dai nuovi filantropi con l’abbandono di vecchi schemi d’intervento, quali l’elaborazione di programmi, affidati a program officers, per la loro messa in pratica attraverso grants, contratti di ricerca. I “vecchi” filantropi sono criticati perché, una volta costituita la loro fondazione, essi si disinteressavano dell’azione. Il donatore si limitava ad affidare a “luogotenenti” l’attuazione del progetto che l’aveva condotto a donare. Al contrario, i nuovi filantropi sono coinvolti, in mercato dei calcolatori, sino ad esser ripresa, alla metà degli anni sessanta, per indicare una nuova strategia commerciale da parte dell’IBM. È nata così la nozione di terza generazione e i Giapponesi hanno battezzato come quinta generazione il loro progetto di calcolatore, mai costruito. Oggi molti adottano a-criticamente la nozione di generazione. Se ne trovano di tutti i tipi e si va fino alla sesta o settima generazione per i computer. Certo, volendo essere indulgenti, si potrebbe dire che con la nozione di generazione è l’idea di cambiamento che si vuole mettere in luce, a discapito delle continuità. Quello che rende perplessi è la mancanza di giustificazione che è attribuita a tali periodizzazioni. Gli storici devono adottare tale nozione? Oppure i loro criteri di periodizzazione devono essere diversi da quelli dei centri di comunicazione delle imprese? Per una critica di tale nozione si veda il mio La Physique du calcul. Histoire de l’ordinateur, Hachette, Paris, 1989. Ci si può chiedere in linea di principio se l’adozione di nuova generazione per caratterizzare la nuova filantropia non risenta dell’influenza di tale definizione acritica dell’innovazione nell’ambito dell’industria informatica.

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prima persona, in un’opera per la risoluzione dei problemi appartenenti a quella che viene comunemente definita la società civile. Si tratta di un punto capitale. “Philanthropy has always been a part of American culture” dichiara Amy Domini2, e aggiunge “Fueled by the booming economy, this new model forges a strong link between the private and nonprofit sectors. Venture philanthropy seeks to combine principles of venture capital investment with traditional grant making. Utilizing venture tactics [...] calls for a new relationship between the fonder and the not-for-profit organization.” I “vecchi” filantropi donavano in funzione di quella che pensavano essere una delle priorità per una società che, in linea di principio, avrebbe dovuto trarre beneficio dai profitti dell’industrializzazione; non a caso, i campi d’intervento dei filantropi spaziavano dall’arte alla ricerca, dalle scuole ai nuovi laboratori. Per i nuovi filantropi, il punto comune è la risposta che vogliono dare alla domanda che si manifesta nella società civile. Si tratta, come sostiene Peter Frumkin, di occuparsi dei problemi della salute, non attraverso programmi di ricerca, ma creando strutture che si occupino dei malati, dell’infanzia, della protezione dell’ambiente o dello sviluppo “della comunità”3. Tale visione è troppo semplificante, giacché non tiene conto della diversità delle “vecchie” fondazioni e riduce la loro azione ad un solo modo d’intervento. In tale visione riduzionista si tenta di minimizzare la partecipazione dei “vecchi” filantropi all’attività delle istituzioni che hanno creato, incluse le fondazioni che portano il loro nome. Certo, la nozione di comunità, come quella di società civile, sono ampiamente usate e meriterebbero, entrambe, una discussione approfondita, in quanto rappresen2 Amy Domini è stata una delle stockbroker di successo che ha creato e diretto il Domini 400 Social Index Fund. Domini è considerata una delle autorità nel campo degli investimenti sociali. Per maggiori informazioni si veda Socially Responsible Investing, http://www.pbs.org/net/ moneyshow/cover/051801.htlm. 3 P. Frumkin, Inside Venture Philanthropy, http://www.newamerica.net/index.cfm. pg= article&pubID=701.

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L’IMMAGINE DI SÈ. MODELLI DI COMUNICAZIONE NELLA VENTURE PHILANTHROPY

tano nozioni ricche dal punto di vista filosofico, politico e ideologico. La polisemia di tali termini, ben riscontrabile nell’uso fattone dai nuovi filantropi, meriterebbe uno studio a parte, anche se i due termini sono usati sempre più per indicare l’attenzione dovuta a tutto ciò che si esprime nella società4. Resta un punto fondamentale, implicito nelle varie prese di posizione: dichiarandosi attenti alla società civile e ai suoi problemi, i nuovi filantropi chiedono che la società dia loro fiducia, fiducia in ciò che essi propongono5. La discrezione nell’azione compiuta non è la caratteristica peculiare dei nuovi filantropi. Al contrario, si tratta di rendere tangibili, quindi evidenti, i risultati. Si potrebbe ironizzare su tale volontà di essere ben visibili, giacché la loro presenza sul web potrebbe essere giudicata sproporzionata rispetto al loro peso reale nel sistema complesso di fondazioni; basti pensare che le fondazioni che si richiamano esplicitamente al modello venture sono soltanto 42, su un totale di circa 50.000 fondazioni o asso-

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Per quanto riguarda questo saggio, la nozione di comunità o di società civile è assunta nel suo significato più semplice, cioè di attenzione al locale, a tutto ciò che è organizzato al livello della città o della provincia in cui il nuovo filantropo vive. La maniera un po’ superficiale con cui è trattata nelle pagine web dei nuovi filantropi la questione della società civile tende a far dimenticare la lunga tradizione filosofica. Basti ricordare che dobbiamo a Hegel la definizione di uno spazio sociale chiamato società civile, che s’identificava con lo spazio in cui si svolgeva il dibattito etico. È interessante notare come oggi siano probabilmente gli avversari del processo di globalizzazione ad aver ripreso la definizione di Hegel. Ma essi si oppongono alla società globale a cui dicono di essere favorevoli i nuovi filantropi. Ci si può chiedere se, il riferimento alla società civile dei nuovi filantropi, non sia altro che una forma di mimetismo per nascondere strategie di diversa natura. Ritornerò su questo punto alla fine del saggio. Si può dire la stessa cosa per l’idea di comunità, di comunitarismo. Jean de Maillard analizza il rapporto tra la crisi dello stato sociale e lo sviluppo delle tendenze comunitaristiche nella società. Si veda al riguardo il suo Le marché fait sa loi. De l’usage du crime par la mondialisation, Mille et une nuits, Paris, 2001, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2002. 5 Per un’analisi del rapporto tra l’idea di fiducia e la nozione di società civile si veda M. Cuillerai, Le capitalisme vertueux. Mondialisation et confiance, Payot, Paris, 2002. Si tratta di una nozione importante per comprendere il funzionamento della finanza nelle società capitaliste.

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ciazioni sul modello delle charities censite negli Stati Uniti6. Il loro riferimento sono le imprese, le nuove imprese nate nella società dell’informatica, non l’organizzazione delle charities o delle vecchie fondazioni. L’adozione dei metodi delle imprese dovrebbe permettere alla venture di assistere le associazioni o i gruppi che agiscono sul piano sociale perché la loro azione sia la più ampia ed efficace possibile. Soprattutto perché essa sia visibile. In altri termini si vogliono risultati da presentare agli investitori, da sottoporre al Consiglio d’amministrazione. Per questo è indispensabile trovare degli indicatori del successo raggiunto con l’azione intrapresa. Come in un investimento sul modello del “capital venture”, è indispensabile sapere come ci si posiziona rispetto alle aspettative di coloro che investono. Il rischio sul piano finanziario è parte integrante nella decisione di finanziare le nuove imprese. Tale modello è all’opposto di quello della “vecchia” filantropia che si basa sul capitale, donato alla fondazione, che costituisce la risorsa stabile se fatto fruttificare con prudenza. La ricerca di capitali è uno degli aspetti dell’impresa di costituzione delle “venture foundations”. Quindi ricerca di partners pronti a investire su tale o tal altro progetto, per assicurare a coloro che ricevono i finanziamenti un sostegno costante nel tempo e il più ampio possibile. È il successo arriso alla nuova e-economy, l’economia nata dall’introduzione di internet nella gestione delle imprese che costituisce il modello cui ispirarsi. È l’epoca dell’estensione rapida e del successo dell’economia dei servizi, di cui il sociale è solo un aspetto. È il modello delle imprese che creano portali per internet (Internet service provider), delle aziende dot.com, dell’industria elettronica, civile e militare, che ha fatto la ricchezza americana. È il successo, limitato in realtà, di quel progetto vantato dai trentenni della Silicon Valley i quali “predicevano che molti dinosauri della vecchia economia sarebbero da considerare 6

I dati sono ricavati da uno studio commissionato dalla Venture Philanthropy Partners, una fondazione basata in Washington D.C. Venture Philanthropy Embraces Key Strategies of Venture Capitalists, in “Research Penn” 21 maggio 2003; http://www.upenn.edu/researchchatpenn/article.

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finiti, e le strutture gerarchiche del management storia passata. I consulenti affermavano con sicurezza che le regole del gioco competitivo erano ormai radicalmente mutate7.” È il nuovo gruppo d’imprese nate dai rapporti tra università, industrie e “venture capital”. La retorica sviluppata dai nuovi filantropi non fa che riprendere i temi dell’e-economy. Essa insiste molto sull’attenzione particolare da accordare al momento in cui viene effettuato il primo investimento; il momento cruciale è infatti quello della scelta del campo in cui investire. Importante, da questo punto di vista, è il carattere locale dell’investimento. Solo tale scelta può assicurare il più largo impatto sulla società, mentre al livello nazionale o internazionale è il web che assicura l’impatto. Sono infatti numerosi i siti che parlano di “venture philantropy”; ce ne sono negli Stati Uniti – in stragrande maggioranza – ma anche in Canada e in Gran Bretagna. Un punto nodale, ampiamente rivendicato, è che il nuovo modo di fare si fondi su un cambiamento radicale del rapporto donatore/beneficiario. Sempre secondo Frumkin, il primo dato è che il committente si impegna in prima persona per apportare quelle competenze che non sono possedute dal beneficiario. In numerosissimi documenti si insiste molto su tale nuovo atteggiamento che fa sì che il committente non si limiti solo a donare, ma si investa in prima persona; meglio, egli dona non solo denaro ma anche la propria competenza a chi ne è beneficiario. Non c’è generosità, come nel modello del donatore anonimo. Al contrario, il donatore cerca esplicitamente l’autosoddisfazione, il compiacimento rispetto al suo stesso operare. “L’impegno forte nella filantropia è un’attività sociale che soddisfa il desiderio di molti giovani ricchi di cercare il senso della propria esistenza al di fuori delle loro attività industriali, al di fuori del loro business”, scrive Frumkin. Per i giovani imprenditori si tratta di cercare soddisfazioni nel mostrare come le loro conoscenze possono rivelarsi efficienti – prima ancora

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A. Turner, Just Capital. The Liberal Economy, Macmillan, London, 2001, trad. it. Just Capital. Critica del capitalismo globale, Laterza, RomaBari, 2002.

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che efficaci – nella soluzione di problemi che riguardano il sociale. Alla base di ogni fondazione c’è una storia personale di successo. Così sui siti web ci sono tante storie di folgorazioni sulla strada di Damasco, concernenti l’economia sociale che hanno condotto il filantropo a occuparsi di problemi inerenti il sociale. Per porre in rilievo il cambiamento, i termini usati per definire l’azione sono diversi da quelli abituali. Al posto di grant si usa investimento, al posto di donatore si fa ricorso al termine imprenditore/investitore; si preferisce parlare di ritorno sulla società piuttosto che di impatto, e si abbandona la nozione di valutazione per quella di misura di efficacia. Si parla inoltre di benchmaking, di due diligence, di impegno come consulente e di portafoglio d’investimento, al posto rispettivamente di standard setting, revisione dei grants, di assistenza tecnica e di lista di grants. Non si tratta di un piccolo cambiamento, ma dell’adozione di nuove metafore. Ora, si sa, le metafore sono una maniera di comunicare che si pone più sul piano dell’intuizione che della dimostrazione logica; tali cambiamenti sono dei segnali inviati al più gran numero possibile di cittadini, di lettori del web. Infatti l’utilizzazione di tali termini non è neutra e fa parte del messaggio, dell’immagine che si vuole veicolare. Cambiare il linguaggio è anche un modo per sottolineare la creazione di una nuova fase della filantropia. Non è da sottovalutare il ruolo nella nuova economia degli avvocati, tramite indispensabile tra coloro che portano dei progetti e coloro che detengono i capitali. I sensali della nuova economia (matchmakers), come vengono chiamati correntemente, appartengono a quella ristretta comunità del villaggio della Silicon Valley e permettono di creare dei legami. Il passo decisivo di chi vuole avere successo è di farsi ammettere in una comunità d’imprenditori, in cui tutti si conoscono, i cui legami sono costruiti sull’idea che bisogna prendere dei rischi, abbandonare i formalismi e qualsiasi struttura gerarchica. Reagire alla fine dell’idea di progresso Edward Skloot parla apertamente di “Second Gilder Society”; la prima corrisponde al periodo della nascita della 260


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prima ondata di istituzioni filantropiche, come la Rockefeller, la Carnegie o la Ford. All’inizio del Novecento, la filantropia era basata sui magnati dell’industria pesante. Oggi i grandi protagonisti della nuova filantropia vengono dal mondo dell’informatica. Sono localizzati a Seattle, nella Silicon Valley e la Silicon Alley. Sono partiti con un capitale iniziale che sembra scandalosamente ridicolo confrontato ai profitti realizzati in pochissimo tempo. Soprattutto il successo sul piano degli affari non è il solo orizzonte in cui si situano, e il rischio di perdere tutto, anche più di quello messo all’inizio, fa parte delle prospettive comunemente accettate. È piuttosto il piacere di giocare con la tecnica, con nuovi oggetti o nuove metodologie, con i nuovi strumenti o con i nuovi prodotti8. Si è nell’epoca della società post-industriale, in quella in cui non si crede più al welfare state ma alla privatizzazione, alla commercializzazione e alla competizione; tutto ciò sta “profondamente modificando i rapporti tra non-profit, for-profit and public sector” dice Skloot9. L’appartenenza a questo modo di fare impresa di riuscire negli affari, è rivendicato dai nuovi filantropi. Essi si sentono, o almeno si presentato, come i protagonisti della società nata dallo sviluppo prodigioso dell’informatica. Numerose conferenze, seminari, interventi in riunioni professionali, costituiscono il complemento della presenza massiccia sul web. Ciò non deve stupire perché una delle azioni svolte dai nuovi filantropi è la raccolta del capitale. Mario Morino, uno dei leader della nuova filantropia, ha costruito un discorso ben strutturato: un nucleo centrale serve a descrivere gli obiettivi della “venture philanthropy”; gli esempi che servono a illustrare il suo discorso sono adattati al pubblico. Il nucleo è abbastanza semplice nella sua struttura essenziale. Tutto parte dalla constatazione che si vive una situazione di crisi: si rischia di creare una classe permanente di poveri. Finita quindi l’ideologia del progresso si 8 “La retraite c’est l’ennui (it’s boring). J’aime la technologie, j’aime travailler. Même si je ne gagnais rien, je ferais ça” dice Steve Kirsch all’antropologo Marc Abélès che lo intervista sull’attività della sua fondazione. M. Abélès, Les Nouveaux riches. Un ethnologue dans la Silicon Valley, Odile Jacob, Paris, 2002. 9 E. Skloot, The Promise of Venture Philanthropy, http://www.surdna.org/venture.htlm

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riconosce che lo sviluppo tecnologico rischia di creare dei “laissés pour compte”. Le organizzazioni non profit rischiano di diventare così delle strutture permanenti; si tratta quindi di cooperare alla loro organizzazione perché esse lavorino nel modo più efficace possibile. Se ci si ferma a questi elementi, si ha l’impressione che i nuovi filantropi adottino una posizione critica nei confronti della società che ha fatto la loro fortuna. Sarebbe però un errore pensare che i nuovi filantropi siano i nuovi critici della società tecnico-industriale, come è accaduto nel ‘68 o post-sessantotto, quando gli scienziati sociali sviluppavano i temi della critica radicale al sistema di ricerca e della scienza in quanto strumento dello sviluppo industriale. La situazione è profondamente diversa, in quanto i nuovi filantropi criticano il sistema delle charities, perché non adottano i metodi e le tecniche della nuova economia. Dal loro punto di vista, la sola possibilità di superare le contraddizioni create dallo sviluppo rapido della nuova economia consiste nel servirsi di tali tecniche. Il divario nei metodi di gestione tra la società civile e la nuova economia è la causa delle tensioni che si manifestano e che rischiano di mettere in crisi il funzionamento della società; tale divario è creatore di asimmetrie. Ristabilire la simmetria, vale a dire l’adozione degli stessi metodi, diventa così la sola soluzione possibile. Le nuove tecniche di investimento e di gestione hanno dimostrato la loro efficacia nella new economy; si tratta di un fatto oggettivo, quindi indiscutibile per i nuovi filantropi. È la sola risposta alla nuova situazione creatasi con la riduzione dei fondi provenienti dallo Stato, federale o locale. La soluzione alla fine del welfare è la creazione di organizzazioni auto-sufficienti, che non dipendano più dall’annuale raccolta di fondi. Si tratta in altri termini di professionalizzare la filantropia adottando i metodi della New Economy10. Da qui la definizione che Morino ripropone costantemente nei suoi inter10 Non è semplice definire la New Economy. L’Oecd nota in un recente rapporto che la nuova economia resta “an elusive concept which means different things to different people.” (Oecd, Is There a New Economy, First Report on the Oecd Growth Project, Paris, 2000. Il solo elemento comune a tutte le definizioni è il legame stretto con le tecniche dell’informazione e della comunicazione. “The notion of a ‘New Economy’ is closely tied to the effects of technological progress,

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venti: “We define venture philanthropy as the process of adapting strategic investement management practices to the nonprofit sector to build organizations able to generate high social rates of return on their investement11.” L’analogia con il sistema industriale viene sottolineata con particolare enfasi dal fondatore del Morino Institute. Come la società dell’informatica non ha soppiantato il vecchio sistema industriale, così la nuova filantropia non sanziona la fine della “vecchia filantropia”, ma si rivolge ad un altro campo di azione: “institutions that provide a social service and that could deliver that service much more effectively and with far greater value with a strategic investment that helps build a stronger organization12.” L’analogia con il nuovo sistema industriale diventa perfetta: come l’informatica ha trasformato le regole dell’economia, così la venture dovrà trasformare la filantropia. In un’altra conferenza, Morino insiste sulla necessità di un’azione per colmare il gap creato dalla nuova tecnologia dell’informazione tra i cittadini dei paesi sviluppati. In tale ambito si tratta di trasformare delle associazioni, come quella del Digital Divide13, nate per diminuire il gap, in strumenti di trasformazione della società in modo da dare ai “people living in our lowest-income

particularly associated with ICT (Information and Communication Technology).” Sempre secondo l’Oecd, il secondo elemento essenziale per definire la New Economy è “[the] organisational change and efficiency use of the network aspects of ICT. The explosive rise in Internet access is one. The rise in electronic commerce […] is another.” Si aggiunge il terzo elemento il “venture capital” che serve a finanziare delle start-up. È interessante notare che si ritrovano, nel rapporto dell’Ocde, gli elementi presenti nelle definizioni dei nuovi filantropi; segno che la volontà di distinzione con la vecchia filantropia, sulla base della mutazione del sistema tecnico-economico porta automaticamente a prendere in prestito la koiné della nuova economia. 11 M. Morino, Venture Philanthropy: Building Philanthropic Capacity in the National Capital Region, conferenza del 27 giugno 2000, http://www.morino.org/advan_sp_cap.asp. 12 Ivi. 13 Anche nel capitolo Ricadute sulla società delle nuove tecnologie non facciamo che ritrovare gli elementi del rapporto Oecd. In particolare, si veda, il Digital divide come uno dei problemi maggiori della società dell’informatica.

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areas the chance to improve their lives14.” Lo schema retorico è sempre lo stesso: innanzitutto si fa una sorta di auto-critica. Certo, le nuove tecnologie, inserite in aree in cui ci sono grosse disparità, accentuano tali differenze mentre, in principio, avrebbero dovuto apportare un progresso all’insieme della società. Ciò è la conseguenza di una non-presa in considerazione di tutte le potenzialità della tecnica; si tratta di capire come la tecnica possa diventare la leva essenziale per il progresso sociale. L’immagine adottata per spiegare tale situazione sfiora l’evidenza: non basta installare un computer in una classe per cambiare la mentalità degli utilizzatori. Bisogna abituare gli utilizzatori a scoprirne le potenzialità per ottenere gli obiettivi cercati e voluti. “The application of technology can enable quantum change with enough of an impact to break the status quo15.” Riprendendo un’idea dominante negli anni sessanta, Morino afferma che la tecnica è un oggetto neutro; è il suo uso, lo scopo che le viene assegnato a farne qualcosa di diverso. Il passo successivo è di proporre il nucleo della “venture philanthropy”: management e investimenti, come sola soluzione d’avvenire. “Technology cannot overcome management problems or replace clear missions.” Per rendere evidente tale passaggio, Morino si serve dell’analogia con altre iniziative, con altre missioni nazionali che appartengono alla cultura americana di investimento nel sociale. Bisogna creare un Digital Peace Corps “to serve lower-income urban and rural areas in the United-States”, come le missioni del Peace Corps’ degli anni sessanta si proponevano di “empower people around the world to improve their lives [...]” Così al modello industriale americano si aggiunge il modello d’intervento nazionale. Si rivendica con fierezza un modello globale nazionale: “the American way of giving”. La conclusione è semplice, lineare, limpida: le associazioni hanno avuto il grande merito d’individuare i punti di frattura nel grande progetto che voleva assicurare il benessere tramite le nuove tecnologie; bisogna trasfor14 M. Morino, Policy &Philanthropy: Keys to Closing the Digital Divide, conferenza del 30 ottobre 2000, http://www.morino.org/ adva_sp_div.asp. 15 Ivi.

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mare tali associazioni in strutture organizzate secondo gli ultimi metodi di successo. “We must provide a venue in which social entrepreneurs and change agents who are applying technology to improve social outcomes can come together, learn from one another, exchange experiences, codify and continually improve their knowledge and create a web of mutual support16.” Gli universitari hanno fatto la loro parte nella nascita della nuova filantropia. Un articolo è comunemente identificato come quello dirimente, per il suo ruolo maieutico: “Virtuous Capital: What Foundations Can Learn from Venture Capitalists”17. Gli autori insistono su sei punti che hanno differenzato la “venture philanthropy”: a) il rischio fa parte della strategia voluta e non è evitato come nelle fondazioni classiche; b) gli indicatori servono a misurare l’efficacia su tempi lunghi, mentre le fondazioni tradizionali si limitavano ai tempi brevi; c) lo stretto legame che si stabilisce tra investitori e finanziati; d) si fanno degli investimenti limitati ma ben scelti; e) il partenariato che si crea si stabilisce su parecchi anni; f) una strategia di uscita (exit strategy) è pensata già al momento degli investimenti. Viene generalmente riconosciuto agli autori il merito di aver dimostrato il cambiamento in atto; il loro articolo è costruito sul parallelo esistente tra i metodi della nuova economia del “venture capital” e quelli della “venture philanthropy”. Certo se non sono all’origine, sono loro che hanno fatto percepire chiaramente che qualcosa di nuovo stava producendosi che avrebbe cambiato radicalmente il modo di fare filantropia. L’articolo del 1997 non passò inosservato e provocò reazioni contrastanti in seno al mondo della filantropia. Altri universitari sono intervenuti nel dibattito, meno entusiasti della novità che rappresenta la nuova filantropia. Per esempio Mark R. Kramer, fondatore del Center for Effective Philanthropy (Cam16

Ivi. C. Letts, W. Ryan e A. Grossman, Virtuous Capital: What Foundations Cabn Learn from Venture Capitalists, in “Harvard Business Review”, marzo-aprile 1997. L’intero numero della rivista è stato dedicato alla filantropia. 17

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bridge, Mass.) ha scritto nel Chronicle of Philanthropy del 2 maggio 2002 che la novità della nuova filantropia è lo scoppiettio (sizzle) continuo d’informazioni, non il contenuto. È piuttosto l’eco pubblica che i nuovi filantropi hanno saputo dare a un campo già in crescita, a costituire la novità18. I dibattiti sollevati dall’articolo del 1997 non hanno fatto altro che dare risalto ai nuovi filantropi. Il risultato è stato che le istituzioni e le persone interessate alla venture si sono dovuti schierare. I fautori della nuova filantropia accentuarono gli aspetti che fanno pensare a una transizione radicale, a un cambiamento profondo. Anche le università si sono schierate e, soprattutto le università californiane come Stanford o Berkeley, sono state contagiate dal virus nato nella Silicon Valley. Potevano tali università che si presentano come i luoghi che preparano le élites della nuova generazione restare nel quadro concettuale della “vecchia filantropia”? La fierezza di essere nuovi filantropi Recentemente un rapporto McKinsey ha fatto il punto sulla nuova filantropia. Si ritrovano praticamente gli elementi che sono stati già elencati. Quello che colpisce invece è il tono generale: il punto di vista messo in risalto è la fierezza di appartenere al mondo della nuova filantropia. Come per i nuovi capitalisti, il mondo della “venture philanthropy” è un mondo cui arride il successo. Si tratta in sostanza di un manifesto che rivendica con fierezza, quindi con soddisfazione, la nuova maniera di intervenire nei problemi della società civile. Il rapporto è costruito consacrando ogni capitolo a un caso esemplare. Attraverso delle storie di 18 La critica diventa più radicale quando si passa ai nuovi metodi di investimento. “Young entrepreneurs became our heroes, and we hailed a new breed of ‘social entrepreneurs to bring the magic of this success to charities and foundations. As it turned out, it was a market bubble that made these people look good, and few were really the geniuses they appeared to be”. Citato in Reinforcing Basic Principles, Wharton Communications, in http://www.upenn.edu/researcatpenn/article.

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individui si creano i modelli, i miti, i riferimenti e si alimentano i sogni di coloro che non ne fanno parte, come i giornali che parlano dei divi dello spettacolo. Ognuna delle storie ha una morale: mostrare l’efficacia ottenuta, adottando tale o tal altro metodo ispirato alla nuova economia. La rivendicazione dell’efficacia delle tecniche nate con l’industria dell’informatica sembra contrastare con le analisi sviluppate negli anni precedenti, in cui la tecnica sembrava essere la causa dei “mali” della società; i nuovi filantropi rivendicano i vantaggi di servirsene per raggiungere in modo più efficace gli scopi. “The objective of any nonprofit should be to achieve the maximum social impact, not just to have some social impact19.” Rivendicando l’importanza della società industriale, della rivoluzione dovuta all’informatica, del cambiamento che trasforma un piccolo investimento in una moltiplicazione spettacolare dei guadagni, si rivendica il fatto che “influenced by corporate models, many non-profits have adopted the standard ‘mission, vision, goals’ structure in articulating the big-picture objectives of their enterprises [...] Nonprofit need to spend time and effort evaluating and articulating their aspirations.” Al volontariato viene aggiunta la nozione di strategia, come solo strumento efficace per raggiungere gli obiettivi. L’importanza della valutazione di tutto il processo, dalla definizione degli obiettivi alla misura dell’impatto sociale, è sottolineata dal peso dato alla definizione di indicatori. Tutte le varie azioni, il modo di procedere, il ritorno sugli investimenti, tutto deve essere quantificato. La visione sistemica dei processi, una politica delle risorse umane, il ricorso ad esperti esterni riconosciuti, diventano i passaggi obbligati per professionalizzare il sistema. L’ultimo punto è l’invito a sganciarsi da una prospettiva a breve per assumere, con nettezza, una prospettiva a lungo termine. Il che

19 Effective Capacity Building in Nonprofit Organizations, rapporto preparato da McKinsey &Company, agosto 2001.

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significa assicurare un finanziamento stabile, il solo a poter rafforzare tale prospettiva20. Tutti questi aspetti, rapidamente indicati, dimostrano come alla base della nuova filantropia, vi sia la fierezza della riuscita sul piano industriale, la rivendicazione del valore dei mezzi costruiti nella nuova società industriale. Fierezza di essere stati, o di esserlo ancora, i protagonisti della nuova società industriale, che si traduce nei miti che pullulano sui grandi successi, in particolare il mito del garage come luogo magico della riuscita, mito che permette di suggerire che nessuno è escluso per principio, ma anche strumento per sottolineare che tutto può trasformarsi: basta inventare degli strumenti adatti21. Come analizzare un fenomeno che si vuole nuovo secondo la presentazione che danno di se stessi, coloro che si autodefiniscono come membri della nuova filantropia? Quale chiave di lettura può permettere di capire meglio questo fenomeno così recente? Alla base della filantropia, il dono L’antropologo Marc Abélès ha consacrato un libro ai nuovi filantropi22. La sua chiave di lettura si basa sul cele20

La Società MacKinsey & Company è stata nei suoi rapporti sempre favorevole alle promesse della nuova economia. Sostenendo la rivoluzione del net con una “assenza di dubbio intellettuale” ha sostenuto che le nuove tecnologie “contano per il 51% del Pil e che […] la produttività può raddoppiare.” in A. Turner, Just Capital cit., p. 63. Si capisce bene che la difesa dei nuovi filantropi fa parte della difesa della nuova società dell’informazione. 21 Non è la prima volta che la società industriale crea dei miti per indicare che nessuno è escluso dal “nuovo mondo industriale”. È il caso della Francia durante la Terza Repubblica. Nel momento in cui nascevano e assumevano una crescente importanza i laboratori industriali, il mito dell’inventore geniale ha costituito il tema per eccellenza per indicare che nessuno doveva sentirsi escluso dalla dinamica del nuovo mondo industriale. Qualche volta, come nei casi di Marcel Deprez o di Zenobe Gramme, si trovano ingegneri e universitari che, nelle coulisses del teatro delle nuove macchine, azionano i fili, senza uscire allo scoperto. Per soddisfare la voglia d’inventare di molti bricoleurs isolati, il concorso Lepine, in Francia, distribuisce ogni anno premi e medaglie. 22 M. Abélès, Les Nouveaux riches cit.

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bre saggio di Marcel Mauss sul dono23. La questione del dono è un tema importante dell’antropologia e della sociologia d’Oltralpe. Il dibattito conduce essenzialmente alla definizione di Mauss del dono come “fatto sociale globalizzante”, in quanto si ritrova, nel gesto di donare, l’insieme delle dimensioni della vita sociale. Recentemente ancora, Marcel Henaff ha pubblicato un lavoro importante sulla filosofia del dono, rifacendo una storia che risale alla filosofia greca24. Certo, l’importanza del dono come fatto antropologico è la sua presenza in tutte le culture e civiltà. Si tratta di un invariante del vivere in società dell’uomo, una maniera onnipresente su cui si basa il riconoscimento dell’altro. Per Henaff, il cui obiettivo è di salvaguardare la distinzione tra beni commerciabili e dono, “l’esprit du don, ce ne sera pas de faire la charité, ce sera d’abord de travailler à rétablir les conditions objectives de la reconnaissance réciproque, bref, ce sera oeuvrer à assurer la justice. Mais ce sera toujours le faire dans une optique de lien paritaire et de solidarité chaleureuse. C’est bien à ce niveau que la marchandisation généralisée à laquelle nous assistons fait problème25.” Per Henaff, la fine del dono significherebbe la sparizione di aspetti essenziali del vivere insieme. La mercificazione di tutto quanto faceva parte dell’ambito del dono diventa un impoverimento di tutto ciò che permette di riconoscere la dignità dell’altro in quanto altro. Nel dono è la questione dell’alterità che le società mettono in gioco. L’analisi di Henaff può essere applicata al caso della nuova filantropia: la partecipazione diretta dei nuovi filantropi alle strutture delle venture sarebbe in qualche modo l’espressione di quel legame che si tende a creare tra il mondo degli esclusi, o di coloro che subiscono i 23

M. Mauss, Essai sur le don, in Sociologie et anthropologie, Puf, Paris,

1950.

24 M. Henaff, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Le Seuil, Paris, 2002. 25 De la philosophie à l’anthropologie. Comment interpréter le don ? Entretien avec Marcel Haneff, in “Esprit”, febbraio 2002. L’intero dossier consacrato da Esprit alla questione del dono è estremamente interessante. È impossibile riassumere nell’ambito di questo contributo la ricchezza degli spunti in esso contenuti.

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contraccolpi della nuova economia, e i capitani del nuovo sistema. C’è una scommessa sul futuro. La restituzione, elemento essenziale del donare, nel caso che qui interessa, coincide con la dimostrazione che le regole della nuova economia sono efficaci. È il mettere a disposizione nuovi metodi che costituisce l’essenza del dono. Sono qui riprese analisi “classiche” di alcuni autori che hanno avuto recentemente un certo successo, semplice eco di cose sentite un po’ dappertutto, o volontà esplicita di rifarsi a delle analisi ben precise? È difficile offrire una risposta. Certo, in molte delle affermazioni sembra riecheggiare l’analisi di Trust di Francis Fukuyama, nella quale si sottolinea la forte correlazione tra “acteurs globalisés hyperpuissants, les trust ou groupements d’intérêts, et la confiance (trust) comme moteur général de la croissance et de la santé de l’investissement [...]. Le schéma classique de l’individualisme utilitariste, sur lequel s’asseyait le dynamisme de l’économie de marché, laisse désormais la place à une solidarité sociale diversement vécue, mais fondamentale à la mise en ouevre des critères récents de création de valeur.” È così che M. Cuillerai riassume l’essenziale del libro di Fukuyama26. In altri termini, l’analisi di Fukuyama rappresenterebbe la constatazione di quanto sostenuto dai protagonisti della nuova economia, applicato alla nuova filantropia. Un altro modo di esprimere lo stesso concetto è di affermare che comunitarismo ed individualismo sono le due facce del XXI secolo. È un Giano bifronte che sarà l’immagine dell’uomo del secolo appena nato. Abélès parte dall’ipotesi che il dono, sotto forma di filantropia, sia uno dei caratteri distintivi della cultura americana. Non resta allora all’antropologo che osservare la permanenza oltre il cambiamento. Il dare è riconosciuto esplicitamente dal fatto che esso si traduce in riduzioni fiscali. Così il dono diventa un elemento essenziale della vita economica della nazione. La restituzione, aspetto fondamentale del donare, coincide con il prestigio associato al nome del donatore, che si manifesta con il metter in valore, in vari modi, il nome di colui che dà. La 26

M. Cuillerai, Le Capitalisme vertueux cit.

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frontiera tra la filantropia e il mecenatismo è tenue. L’originalità del sistema di dono sviluppato negli Stati Uniti è la razionalità associata al dono. Per questo i filantropi americani si distinguono ad ogni occasione possibile dalle charities, dalla beneficenza. Per le charities si tratta di sovvenire rapidamente alle situazioni di svantaggio, nella filantropia si cerca di eliminarne le cause, sapendo con cognizione di causa che si tratta di agire in tempi più o meno lunghi. Da questa angolatura, la nuova filantropia non appare molto diversa da quella classica. Si differenzia invece profondamente dalle forme di mecenatismo, perché gli obiettivi di ritorno sociale rappresentano uno dei caratteri distintivi. L’espressione “ritorno sociale sugli investimenti” non fa che esprimere tale differenza. Essere un imprenditore dotato di uno spirito comunitario (community minded entrepreneur), è l’espressione attuale della definizione classica di creazione di legami attraverso il dono. Vista sotto l’aspetto del recupero di una dimensione etica, la nuova filantropia sarebbe nata dalla riscoperta, sotto abiti nuovi, dell’importanza del dono come strumento di creazione di legami sociali forti. L’investimento sul piano locale sarebbe quasi la condizione necessaria perché lo spirito del dono si manifesti pienamente. Se c’è un certo interesse per i nuovi filantropi, la ragione, dice Abélès, è che si tratta di una via originale all’economia della solidarietà e può interessare coloro che si domandano se un aggiornamento delle politiche sociali rappresenti un passaggio necessario anche per le economie del Vecchio Continente. Tutto ciò manifesta il progetto di conformarsi a delle regole etiche, precisa Abélès; e segnala una onnipresenza, nel nuovo capitalismo, di una domanda di eticità, nata dalla crisi dell’idea di progresso, della crisi dell’idea di automaticità tra industrializzazione, preponderanza del sistema tecnico-scientifico e avanzamento sociale. “Ainsi se créent des liens forts et un esprit d’entreprise peut émerger, fondé sur des valeurs éthiques et plus seulement sur la participation à des activités techniques communes. On ne s’étonnera pas alors que des firmes encouragent leurs employés à des actions bénévoles ou que ces derniers contribuent de leurs propres deniers au 271


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renforcement de la communauté27.” È anche l’opinione di Thomas J. Donaldson, professore di diritto a Wharton: “venture philanthropy is part of a broader trend of making social, ethical and other do-good goals part of investement decision-making.” Una volta data tale definizione della nuova filantropia, Donaldson cerca di esprimere qual è l’obiettivo perseguito a lungo termine, qual è il cambiamento in nuce nel nuovo modo di investire negli obiettivi di società. “There is a growing sophistication about how being ethically responsible doesn’t just mean not doing unethical things; it means helping our remarkable system of capitalism create the best by playing a role at all points in market transactions28.” Si tratta di dimostrare che si può essere capitalisti, far dei profitti e investire nel sociale; e che si può essere fieri di essere protagonisti di una nuova economia i benefici della quale possono estendersi ad altri campi dell’azione. Si potrebbe affermare che si tratta di una tecnicizzazione di campi sempre più numerosi dell’agire sociale. In altri termini, è una presa di controllo della tecnica sulla società. Un nuovo passo verso il dominio della tecnica “La specificité de notre civilisation est d’être une civilisation de l’efficience”, scrive Bertrand de Jouvenel nel 196129. E prosegue un po’ più in là: “C’est dans le procédé efficace que notre civilisation excelle. C’est par là qu’on peut la situer tellement au-dessus des autres qu’il y a différence de nature. Et il y a différence de nature surtout en ceci que cette efficacité progresse continuellement: il y a dans notre civilisation “révolution permanente des procédés.” Se si adotta questa griglia di lettura per la nuova filantropia, allora si deve riconoscere che essa non fa che realizzare una fase ulteriore del pro27

M. Abélès, La nouvelle philanthropie américaine et l’esprit du capitalisme, in “Esprit”, febbraio 2002. 28 Venture Philanthropy Enbraces cit. 29 B. de Jouvenel, Orientation de l’efficience, testo riprodotto in Arcadie. Essai sur le mieux-vivre, Sedeis, Paris, 1968. Il saggio è stato ristampato nel 2002.

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cesso di espansione della società tecnica che caratterizza il modello evolutivo delle società contemporanee. La tecnica, come gli storici e i filosofi hanno mostrato, trae la sua forza di trasformazione dal suo inserirsi capillarmente nel sistema produttivo. Così cambia anche la società, che si adatta continuamente alle nuove possibilità offerte dalla tecnica. La tecnica, strumento per eccellenza della modernità, invade tutti i campi dell’attività umana. Il suo modo di intervenire è di annullare, trasformando in nuovi progetti, tutto quello che sembra mettere in crisi la sua razionalità, come l’esistenza di sacche in cui l’agire sfugge alla metodologia essenziale della tecnica di eliminare l’incertezza con la realizzazione di progetti. Il progetto, infatti, è un modo per mettersi al riparo dall’imprevisto, almeno nell’ambizione perseguita da coloro che fanno della tecnicizzazione lo strumento per costruire un modo di vivere in sociétà. Risolvere le tensioni che si manifestano nella società, adottando soluzioni d’urgenza, limitate al presente, all’immediato, equivale ad accettare che nuove situazioni, impreviste, possano presentarsi e mettere in crisi l’equilibrio che si pensa di aver stabilito. Il futuro può così apparire come un luogo di apertura all’imprevisto, dove la tecnica funziona sulla prevedibilità descritta nel progetto. Di fronte alle diversità che si creano nella società a causa dei cambiamenti indotti dalla tecnica, il ricorrere alla tecnica diventa il modo ancora più immediato di controllare quello che sembra sfuggire nella diversità, nel non-prevedibile, nel marginale o nel rifiuto. Così le virtù associate alle nuove forme d’investimento, di gestione, di management non sono altro che un appropriarsi del progetto di inglobare anche la filantropia in un’unica maniera di vedere e di costruire il futuro, di controllare quello che sembra sfuggire all’utopia della nuova società basata sull’informatica. Quello che sembrerebbe nella società del nuovo sistema tecnico-industriale lo specchio del suo limite, diventa l’occasione per mostrare l’efficacia dei propri metodi per investire anche quello che appare come una sorpresa, come un risultato non voluto della sua diffusione nella società. Si può dire che la nuova filantropia non è altro che l’adeguamento – inevitabile? – alle nuove strutture dell’economia, intesa come tecnica di gestione 273


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delle nuove tecnologie? In altri termini la novità apparente non è altro che l’evoluzione normale a partire dalla rivoluzione tecnologica del sistema tecnico-industriale legato all’informatica. È tale rivoluzione che è il motore del cambiamento. Si tratta di un aggiustamento del sistema, per capirne l’importanza e l’estensione, è necessario guardare alla spinta trasformativa nata alla fine dell’ultima guerra mondiale. In altri termini, se vogliamo capire cosa accada nel mondo della filantropia, essenzialmente della filantropia americana, bisogna domandarsi cosa è cambiato o sta cambiando nel sistema della tecnica. Con tale griglia di lettura, viene sminuito il valore del dono, della gratuità, per inserire la filantropia in quel grande progetto di trasformazione della società che è veicolato dall’innovazione tecnologica. Così, la specificità americana non sarebbe altro che il constatare che quanto accade ora negli Stati Uniti è già accaduto altrove, nei tempi passati. La tecnicizzazione del dono è una maniera di assorbire il timore del cambiamento, passaggio inevitabile quando si assume con fierezza il ruolo di protagonisti del cambiamento. È, altresì, diffondere l’idea che di fronte all’inquietudine esiste il rimedio della razionalizzazione. Qui si situa il punto in comune di tale analisi, fondata sulla natura della tecnica, con quella di Abélès: la filantropia non è altro che il dono razionalizzato. Razionalizzato si, ma con lo strumento della tecnica che si è rivelato efficace. In altri termini, quello che è importante è il conformarsi alla dinamica della tecnica. La filantropia, anche la “vecchia” filantropia, non sarebbe altro che l’espressione dell’invasione sempre più capillare della tecnica. Non a caso essa nasce quando il mondo si avvia al dominio dell’industria e della tecnica americana. Il programma dei nuovi filantropi è di ritrovare l’armonia, grazie alla tecnica che ne fa un proprio obiettivo, tra un mondo sociale che ha difficoltà a seguire le evoluzioni rapide del sistema tecnico-industriale e lo stesso mondo che le provoca. Se non è più proponibile, perché non più sostenibile, la fiducia nel progresso che poneva la società in un’attesa in un cambiamento di cui non si poteva dubitare, non è stata abbandonata, anzi è rinforzata la prospettiva che solo nella tecnica si potrà trovare la soluzione alle contraddizioni che si creano – tempora274


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neamente, sperano i nuovi filantropi – a causa della potenza trasformatrice delle nuove tecnologie. La congiunzione tra le nuove tecnologie dell’informatica e le nuove tecniche dell’economia sembra destinata ad estendere, con un successo sperato ma non garantito, la razionalità che è loro propria. Fare della tecnica, gestionale o delle nuove macchine, lo strumento essenziale della risoluzione dei problemi sociali può condurre a una situazione paradossale: dimenticare le esclusioni operate dal progresso della tecnica, dimenticare il passato per concentrarsi su un presente negato perché trasformabile grazie alla tecnica30. Nei testi dei nuovi filantropi c’è un rimprovero, mai esplicito, ma percettibile, a una lettura attenta, rivolto a coloro che si trovano di fatto marginalizzati dal nuovo sistema. I marginali sarebbero coloro che non si adeguano alla razionalità della tecnica dominante. Non c’è alternativa possibile. La tecnica, giudicata virtuosa in quanto tecnica, spinge all’adozione di una soluzione unica, quindi all’eliminazione di soluzioni diverse. La nuova filantropia non fa altro che cercare di dimostrare che non esistono altre alternative a quelle che, avendone riscontrato il successo nell’industria informatica, dovrebbero essere estese a tutti gli altri campi, compresa l’organizzazione sociale. Un pensiero riduzionista si instaura di fatto: non vengono mai analizzati quali siano stati gli altri parametri che hanno decretato il successo della Net economia. In particolare non si esamina il ruolo degli investimenti che sfuggono alle regole che vogliono proporci come panacee; basti pensare agli investimenti militari. In altri termini, far riferimento soltanto 30 Il problema della tecnica, nella storia del mondo occidentale, è uno dei temi principali della scuola del nichilismo italiana. Si pensi a E. Severino ed ai filosofi che si riconoscono nelle problematiche del nichilismo. L’importanza della loro lettura filosofica della storia occidentale è il fare della tecnica il perno dell’interpretazione del pensiero occidentale. È importante notare che, come dice Severino nella prefazione della riedizione nel 2002 del suo Téchne (Rizzoli, Milano), “Una teoria non prevale sulle altre perché sia vera, ma perché ha una maggiore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti dell’uomo. Anche le teorie sono forme pratiche, cioè sono forme tecniche […] Filosofia contemporanea, scienza e tecnica formano l’unità in cui consiste la tecnica del nostro tempo.”

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a quello che sembra convenire ai nuovi filantropi, può essere letto come un tentativo di occultare le altre ragioni del successo e non porre la domanda di fondo: se tali altri parametri sono altrettanto indispensabili al successo dell’azione sociale31. La nuova filantropia una forma di spettacolo della soci età industriale Così, se si adotta il punto di vista di Abélès – quello del primato della tecnica – è la continuità che si mette in valore. E se si volesse, invece, cercare il punto di rottura, anche se i nuovi filantropi sono incapaci di formularlo, come accade spesso ai protagonisti del cambiamento? “La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo si riferisce specularmente e, dunque, trova la sua finalità in se stesso32”, scriveva G. Debord all’inizio degli anni sessanta, dando corpo a una delle critiche più radicali della società industriale contemporanea. Uno dei fondatori dell’Internazionale Situazionista33 usava l’idea di società dello spettacolo non per criticare la sociétà dominata dalle immagini, il mondo della comunicazione tramite le immagini, ma per porre l’ac31 Non è necessario riassumere in questo saggio i numerosi lavori degli storici che hanno mostrato l’importanza nella storia dell’informatica degli investimenti militari. Ci si può chiedere infatti se l’accelerazione che si è riscontrata non è altro che il risultato della competizione, messa in atto nel periodo della Guerra Fredda. Dopotutto la competizione elettronica non era, forse, un modo di condurre una guerra senza battaglie? 32 G. Debord, La società dello spettacolo. Commentari sulla società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 2002. 33 L’Internazionale Situazionista nacque nel luglio del 1957 a Cosio d’Arroscia, paese dell’entroterra ligure; erano presenti oltre a Guy Debord, Gianfranco Sanguinetti, Melanotte, Pinot-Gallizio, rappresentanti del gruppo Cobra (Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam), del movimento per un Bauhaus Imaginista, del Comitato Psico-Geografico di Londra. Per maggiori dettagli si veda la Nota Biografica di Pino Corrias in G. Debord, La società dello spettacolo cit.

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cento sull’irrealismo fondamentale che caratterizza le nostre società che si vogliono realiste, il dilagare di uno scambio simbolico che contraddistingue le nostre società. Riprendendo l’idea di Debord, Jacques Ellul, uno dei più attenti osservatori dell’influenza del sistema tecnologico nelle società contemporanea, afferma: “Mais comment ne pas voir que s’il y a société du spectacle c’est à cause de, grâce à, en vue de la technicisation. C’est le moyen technique qui permet cette globalisation du spectacle34.” Se si adottano le griglie di lettura proposte da Debord e da Ellul, dobbiamo chiederci quanto le idee dei nuovi filantropi siano irreali e il perché di tale atteggiamento. In altri termini, dobbiamo chiederci se la nuova filantropia non sia altro che l’estensione delle tecniche di gestione della finanza, e cosa ci dica l’analisi del carattere spettacolista che è stata fatta della società tecnica. L’insistenza sui nuovi metodi d’investimento, sulle nuove forme di management scientificamente applicate, l’uso del web o il coinvolgimento in prima persona nelle azioni intraprese, non sono altro che la manifestazione di una società che trova nella fierezza di appartenere a tal o tal altro gruppo, a tal o tal altro movimento. Il suo principio di identificazione Oggi, tutti sono pride di qualche cosa. Perché non di aver fatto tanti soldi con un investimento minimo all’inizio? Una società dello spettacolo fa della fierezza di essere vincente il punto essenziale di tutto il discorso. La fierezza fa parte della società dello spettacolo, in quanto si gioca qui una strana partita, almeno nel significato che Debord attribuisce alla società dello spettacolo. Possiamo dire, infatti, che la fierezza serve a

34 Citato in J.-L. Porquet, Jacques Ellul, l’homme qui avait presque tout prévu, Le Cherche midi, Paris, 2003. Ellul ha scritto tre libri sulla tecnica e ha ispirato molti analisti della società dominata dalla tecnica, in Europa come negli Stati Uniti. Dal 1954, data di pubblicazione di La Technique ou l’enjeu du siècle, al Système technicien (1977), fino a Le bluff technologique (1988) Ellul è probabilmente uno dei pensatori contemporanei ad aver evitato con maggiore cura un’analisi della tecnica facendo leva su un solo criterio e ad aver messo in luce la complessa interazione di molti parametri.

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sostituirsi alla realtà di una competizione che non esclude la violenza che caratterizza il mondo del successo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, per raggiungere i risultati cercati, per realizzare il cambiamento sociale. Il mito del garage, dell’officina, della scatola degli attrezzi e del carattere virtuoso dei metodi da manuale fa parte di questo orizzonte. Il mito della riuscita nasconde tutto il fondo di bottega, ricco di crisi degli investimenti, di crisi industriali, di investimenti non solo nell’industria civile, ma soprattutto in quella militare, e una competizione senza freni. In ogni caso il discorso un po’ irenico del valore delle nuove metodologie al servizio della società sembra essere l’aspetto irreale di quello che si scopre quando si guarda la realtà quotidiana della costruzione del successo. Dimenticate le bolle speculative, dimenticate le crisi dei golden boys, dimenticate le crisi finanziare che hanno condotto il G11 a rivedere i regolamenti bancari e i mezzi di lotta contro le frodi, costituisce l’irrealtà della nuova filantropia. In altri termini la virtuosità della nuova filantropia si basa anche sulla rimozione dalla memoria di tutto quello che rende reale la nuova economia, delle difficoltà, delle crisi che ne hanno segnato la storia. I nuovi filantropi stanno giocando una carta importante per il futuro stesso dell’immagine della società tecnico-scientifica: se nell’ambito della filantropia il loro progetto si rivelerà inefficace o poco efficace, essi avranno dato prova dell’irrealtà del loro discorso. Ci saranno allora dei luoghi della società che sfuggiranno al dominio della tecnica. Indirettamente, sarà fornita la dimostrazione che la soluzione non risiede nell’adottare dappertutto gli stessi metodi. Altre strategie sarebbero così da inventare; la diversità sarebbe la regola al posto del sistema simile per tutti. Avrebbero così ragione coloro che si oppongono alla globalizzazione; l’unicità di metodo sarebbe allora da abbandonare in favore della diversità, probabilmente delle soluzioni locali. Sarà venuto il momento di aggiustare il/i progetti? Secondo quali criteri? Per questi motivi è interessante seguire quello che succede dell’ambito della “venture philanthropy”.

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Gli autori di questo volume

Laura Bertozzi, dottore commercialista. Laureata in economia e commercio con una tesi sperimentale sul “venture capital”, svolta con la collaborazione dell’Ufficio Merchant Banking del MPS; si è successivamente abilitata e svolge la libera professione occupandosi prevalentemente di agevolazioni comunitarie, progettazione finanziaria e finanza etica. Su queste tematiche scrive articoli e risposte ai quesiti dei lettori per Terzo Settore, rivista del “Sole24Ore”, e tiene docenze a master di alcune università italiane. Emanuele Cassarino, ricercatore e consulente in progetti di cooperazione internazionale di carattere socio-antropologico e applicato, ha studiato i problemi dell’immigrazione, dello sviluppo economico e della cooperazione internazionale, con particolare attenzione all’Africa. È professore a contratto presso l’Università degli studi di Bologna. Tra le sue recenti pubblicazioni: Il valore aggiunto della diversità culturale, in Il nemico di casa: diversità culturale e conflitto politico, a cura di L. D’Ascia, Edizioni Pendragon, Bologna, 1999. Jed Emerson è Lecturer in Business alla Stanford Business School e Senior Fellow alla William and Flora Hewlett Foundation e alla


David and Lucile Packard Foundation. È stato Direttore fondatore del Roberts Enterprise Development Fund, San Francisco, CA. Le sue ricerche, tese a sviluppare la riflessione e l’elaborazione della casistica inerente la massimizzazione dei “blended values” nelle imprese profit e non profit, sono state presentate in prestigiose istituzioni internazionali come il World Economic Forum e la London Business School. Le sue numerose pubblicazioni – su temi correlati al “Social Return on Investment”, alla “venture philanthropy” ed alla “social enterprenurship” – sono accessibili anche su internet al sito www.blendedvalue.org. Giuliana Gemelli insegna Storia delle istituzioni culturali e scientifiche all’Università degli studi di Bologna. È direttore del Master in International Studies in Philanthropy-MISP. Ha pubblicato diversi lavori sulla storia delle fondazioni negli Stati Uniti e in Europa, fra cui: American foundations and large-scale research: construction and tranfer of knowledge, CLUEB, Bologna, 2001; G. Gemelli-R. MacLeod (a cura di), American Foundations in Europe. Grant Giving Policies, Cultural Diplomacy and Transatlantic Relations, 1920-1980, Peter Lang, Bussels, 2003; G. Gemelli-R. MacLeod (a cura di), American Foundations in Europe. The Role of the program Officers in Historical Perspective, special issue of “Minerva”, vol.XLI, 2003, n. 2. È membro dell’International Society for the Third Sector e del Comitato direttivo della Fondazione Adriano Olivetti. Claudia Rametta ha conseguito la laurea in Storia moderna presso l’Università degli studi di Bologna nell’a.a. 2001-02 e ottenuto il Diploma del Master in International Studies in PhilanthropyMISP nell’a.a. 2003 (Università degli studi di Bologna). Il contributo presentato in questa sede, costituisce uno dei capitoli della sua Tesi di Master. Dal 1981 al 1996 ha maturato esperienze professionali nel settore del marketing internazionale, con attività prevalentemente svolta in Giappone e nella ex Unione Sovietica. Girolamo Ramunni, è professore di storia della scienza e della tecnica, all’Università di Lyon 2, e redattore capo de “La Revue pour l’histoire du CNRS”. Dirige il programma nazionale del ministero del290


la Ricerca Cultures e techniques dans le developpement durable. È consigliere scientifico del Musée du Temps (Besançon), del Musée des Confluences (Lyon) e del Museo nazionale della Tecnica del Conservatoire National des Arts et Metiers. Ha pubblicato molti studi sulla storia della politica scientifica, dell’informatica e dei cambiamenti nell’organizzazione industriale in relazione a temi ambientali. Ha pubblicato in italiano con V. Gallotta-G. Gemelli, Isole senza arcipelago. Imprenditori scientifici, reti e istituzioni tra Otto e Novecento, Palomar, Bari, 2003. Flaminio Squazzoni insegna Sociologia dell’organizzazione e ICT e nuove forme di organizzazione all’Università di Brescia. Laureato in storia all’Università di Milano nel 1998, dottore di ricerca in Sociologia economica presso il Dipartimento di Studi sociali dell’Università di Brescia nel 2001, ha insegnato Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Bergamo nel 2002 e 2003. Membro del Comitato scientifico del Network of Engineering and Human Sciences ha curato, con Giuliana Gemelli, NEHS/Nessi. Istituzioni, mappe cognitive e culture del progetto tra ingegneria e scienze umane (Baskerville, Bologna, 2003), e pubblicato diversi saggi su modelli socio-economici di simulazione ad agenti, organizzazioni complesse e distretti industriali. Giorgio Vicini, economista, si è laureato all’Università degli studi di Torino con il prof. Domenico Siniscalco e si occupa, da oltre dieci anni, di energia e economia dell’ambiente in Europa e in Italia con particolare riferimento al settore “oil & gas”. Consulente in materia di sostenibilità ed etica economica, con particolare riguardo alla governance degli aspetti ambientali nelle imprese ed alla specializzazione nel settore energetico, lavora, dal 1994, alla Fondazione Eni Enrico Mattei.

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