I PARADOSSI DELLA MODA di Elena Esposito

Page 1


Cosa si nasconde dietro il mistero della moda: fenomeno della contemporaneità allo stesso tempo banale e inevitabile, marginale e onnipresente, futile e onnipotente? Quali presupposti sociali ha la strana capacità della moda di prendere il transitorio come un vincolante punto di riferimento e di cercare nel cambiamento l’unica forma di stabilità ancora possibile? Perché questa tendenza è nata proprio nei secoli sedicesimo e diciassettesimo? Una delle peculiarità della società moderna è la sua tendenza a prendere qualcosa di transitorio come punto di riferimento stabile e questo pur conoscendone la natura effimera. La moda è, a questo riguardo, esemplare: ciò che è IN non rivendica di essere anche bello, ragionevole e interessante, ma solo ALLA MODA. Capita , nonostante o a causa di ciò, che l’IN diventi presto OUT e non piaccia più. Inoltre nella moda si ha la pretesa di non imitare nessun modello, bensì di affermare la propria individualità sebbene si sappia benissimo che tutti lo fanno allo stesso modo. Ci si comporta come gli altri, al fine di essere diversi e di dimostralo apertamente. Il libro analizza le modalità con cui si è affermata una concezione della moda che non riguarda solo o prevalentemente gli abiti, ma coinvolge, in modo più radicale, le passioni, gli interessi, gli orientamenti filosofici ed estetici. Elena Esposito delinea un’arguta analisi sociologica della moda che risale alle teorie della stratificazione sociale, della semantica temporale, alle forme della contingenza e, non ultimo, al tentativo di guidare la moda attraverso la stilizzazione della conversazione e del buon gusto. Elena Esposito insegna Sociologia della Comunicazione presso l'Università di Modena e Reggio Emilia. Ha studiato sociologia e filosofia a Bologna, Bielefeld e Berlino ed ha insegnato a Urbino e Vienna. Ha pubblicato numerosi saggi sulla teoria dei sistemi sociali, sulla teoria dei media e sulla memoria sociale. ISBN 88-8000-024-1

Biblioteca di Scienze della Comunicazione Elena Esposito I PARADOSSI DELLA MODA Baskerville, Bologna 2004 ISBN 8 8 - 8 0 0 0 -0 2 4 -1

Euro 22,00

9

788880 000242

E C


Baskerville Biblioteca di Scienze della Comunicazione

24


ELENA ESPOSITO

I Paradossi della Moda Originalità e transitorietà nella società moderna

Baskerville


ELENA ESPOSITO

I PARADOSSI

DELLA

MODA

© 2004 Baskerville, BOLOGNA, ITALIA ISBN 88-8000-024-1

Questo volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in alcun modo (digitale, ottico o sonoro) senza il preventivo permesso scritto di tutti i possessori dei relativi diritti ed in primo luogo di Baskerville C. S. Bologna, editrice italiana del libro.

Baskerville è un marchio registrato da Baskerville Centro Studi, Bologna, Italia.

Il volume è composto in caratteri Baskerville e Gill Sans Stampa Litosei, Bologna Stampato in Italia 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 Questo libro è stampato su carta riciclata ecologica di qualità. La carta è inoltre “ACID FREE” e “CHLORINE FREE”, cioè il processo di sbiancamento è stato effettuato senza acidi e senza cloro.

C A T A L O G A Z I O N E

Esposito, Elena I Paradossi della Moda Originalità e transitorietà nella società moderna. B OLOGNA , B ASKER VILLE , 2004. ISBN 88-8000-024-1

Pag. 176; cm 21; Biblioteca di Scienze della Comunicazione 24. Indice, Bibliografia 1. 2. I.

MODA, SOCIETÀ, COMUNICAZIONE, COSTUME E SOCIETÀ MODERNA - Aspetti sociali ESPOSITO, E LENA


Indice

Introduzione

3

Capitolo 1 – La teoria della moda I. II. III. IV.

I paradossi della moda L’ipotesi dell’imitazione dei superiori Teoria della società Teoria dell’osservazione

7 12 16 21

Capitolo 2 – Le forme premoderne I. II. III. IV.

Moda e consuetudine Identità nel tempo Identità sociale Estensione della moda

25 29 34 40

Capitolo 3 – Contingenza epidemica I. II. III. IV.

I modi della contingenza Il barocco e le apparenze Deviazione e artificio Il controllo della contingenza

43 46 51 54

Capitolo 4 – Singolarità dell’individuo I. II. III. IV.

L’intrasparenza Il declino dell’imitazione I dilemmi dell’originalità Finzione e autenticità

61 65 69 74

Capitolo 5 – Singolarità del presente I. II. III. IV.

L’irruzione del nuovo Incostanza e fortuna La storicizzazione del tempo L’attualità del cambiamento

85 89 93 96 1


ELENA ESPOSITO

Capitolo 6 – Il mito della conversazione I. II. III. IV. V.

Conversazione ed etichetta Interazione verticale e interazione orizzontale L’arte di piacere Intrasparenza e sincerità L’honnête homme e il dandy

101 104 109 118 122

Capitolo 7 – La moda moderna I. II. III. IV.

Le trasformazioni dell’interazione La gestione della differenza Contingenza ed apparenza L’alleanza tra contingenza sociale e contingenza temporale V. Frivolezza della moda VI. Il ruolo dei mass media VII. Funzione della moda per la società VIII. Operazionalizzazione del caso

138 142 147 152 156

Bibliografia

159

2

127 130 134


Introduzione

La moda, nella sua banalità, è un fenomeno misterioso. Ne sappiamo pochissimo e non siamo in grado di prevederla né di neutralizzarla – ciononostante non abbiamo dubbi sulla sua frivolezza e sul fatto che si tratti di una manifestazione superficiale, a cui non dare troppo peso. Una banalità misteriosa, quindi: la prima aporia che si incontra nell’affrontare un aspetto della vita sociale che produce una cascata di paradossi ad ogni stadio della sua analisi. Nella moda si realizza una forma di imitazione nell’intento di affermare la propria individualità; si ricerca l’originalità facendo come gli altri; si prende come riferimento stabile la pura transitorietà; si accetta un vincolo solo perché cambia. E poi la moda si impone a tutti, che la seguano o meno, e dilaga in tutti gli ambiti della società: dalla scienza all’educazione, dalla politica all’arte – ma nondimeno viene considerata un fenomeno marginale, da non prendere troppo sul serio. Ciò che vale veramente, si pensa ancora oggi, non risente delle mode. Anche la teoria non le dedica troppa attenzione e nei casi in cui comunque si rivolge ad essa tende a sottolineare l’irrazionalità del fenomeno: gli orientamenti della moda non seguono l’utilità né propriamente i criteri dell’estetica, anzi l’effetto di moda si produce spesso proprio opponendosi apertamente a ciò che è bello o pra3


ELENA ESPOSITO

tico – per cui da un lato tacchi vertiginosi e tendenze stravaganti, e dall’altro moda di strada o ricerca della sgradevolezza. Anche la naturalezza e la spontaneità (“casual”), in queste condizioni, diventano atteggiamenti riflessi e quindi sottoposti alla moda (“carefully careless”), tanto irrazionali quanto l’irrazionalità manifestata come tale. La marginalità della moda nella semantica, però, non c’è sempre stata – e neanche la moda nel senso che qui ci interessa c’è sempre stata. In quanto ricerca della novità e dell’originalità, la moda è un fenomeno tipicamente moderno, che è emerso gradualmente a partire dal XVI secolo, attirando allora molta attenzione. Non veniva considerata un aspetto secondario, ma si ribadivano al contrario la sua potenza e la sua diffusione: la moda era la regina della vita sociale, la dea delle apparenze che regolava tutto e alla quale non ci si poteva sottrarre – un potere inafferrabile che si sovrapponeva anche alla morale e alla tradizione, alla virtù e alla devozione, rivelando drammaticamente la dissoluzione dell’ordine tradizionale: l’ordine sociale ma anche l’ordine del mondo al quale le strutture sociali erano allora agganciate. Nello sviluppo delle forme della modernità, a quell’ordine univoco si è gradualmente sostituita una complessa gestione non arbitraria delle apparenze – un equilibrio instabile e diversificato, fondato sull’osservazione di secondo ordine: non quindi sul mondo e su un suo ordine preesistente, ma sull’osservazione del mondo e degli altri osservatori. La stabilità, ormai, non è un presupposto, ma il risultato di una forma raffinata di connessione tra diverse instabilità – la necessità è il risultato del rapporto tra contingenze. Proprio questa combinazione tra contingenza e non arbitrarietà potrebbe essere vista come il tratto qualificante della modernità – ed è senz’altro il tratto qualificante della moda. La moda cambia di continuo, ma finché vale non si può cambiare; non ha un motivo, ma non consente di sottrarsi; è e deve essere contingente, ma riesce in questo a fungere da criterio di orientamento – che ci si adegui o meno ad essa. La moda, questa è l’ipotesi, fonda il suo potere su una complessa e raffinata combinazione tra dif4


INTRODUZIONE

ferenti contingenze: la contingenza sociale per cui ciascuno vuole essere originale (ed in questo è uguale a tutti gli altri) e la contingenza temporale per cui ogni presente appare come nuovo e diverso (sul presupposto di un passato che consente di coglierlo come tale). Come l’evoluzione della semantica sia arrivata nel corso di un paio di secoli a realizzare un equilibrio complesso e instabile fra queste diverse contingenze sarà l’oggetto di questo studio. I paradossi della moda, allora, non rivelano la sua inconsistenza e la pochezza del fenomeno, ma sono al contrario proprio l’indice di questa raffinata forma di produzione della necessità dal caso, che non ha bisogno di alcun presupposto sul piano materiale. Su questo piano quindi le sue forme non possono che apparire paradossali, perché se si cercano delle determinazioni univoche non si sarà mai in grado di spiegare il suo modo di operare. La moda, per svolgere la sua funzione, deve essere implicitamente paradossale – quindi indeterminabile e quindi misteriosa: un mistero che, come tutti gli autentici misteri, si protegge con l’apparenza della banalità. Ringrazio la Fondazione Alexander von Humboldt per aver finanziato un soggiorno presso l’Università di Bielefeld (D) nell’estate 2002, durante il quale è stata completata la raccolta di materiali per questo lavoro.

5


Capitolo 1 La teoria della moda

I. I paradossi della moda Qualsiasi tentativo di descrizione o di analisi della moda si trova a confrontarsi in primo luogo con il suo carattere contraddittorio, e questo su due piani che si intrecciano: a livello sociale e a livello temporale. La moda è innanzitutto promessa e ricerca di individuazione: l’individuo – lo dicono tutti – segue la moda per affermare e mostrare la propria particolarità, e lo fa orientandosi ad una tendenza comune. L’individuo, cioè, fa come gli altri per essere diverso. Così, sostiene Simmel, la moda combina l’orientamento ad un esempio con il bisogno di distinzione, e tende nello stesso tempo a fondere il singolo con l’universale e a ricercare la differenziazione individuale1. Si tratta cioè di una dif1. Cfr. Simmel 1905. Le citazioni si potrebbero moltiplicare. Così ad esempio: la moda è “générateur d’un mimétisme susceptible de faire sa place aux individualismes”(Godard de Donville 1978, p. 30); la moda esige l’invenzione e impone l’uniformità (Goblot 1967, p. 149 ed. it.); il paradosso della moda sta nel fatto che tutti cercano nello stesso tempo di essere simili e di essere dissimili (Mallarmè, cit. in Flügel 1974, p. 75); le mode offrono un’occasione alla gente per essere diversa pur restando la stessa, di esprimere se stessa senza tuttavia dissociarsi dal proprio gruppo (Katz/Schanck 1938, p. 101); le trasformazioni della moda seguono due regole: rispetto del costume preesistente e tendenza a non rispettarlo (König 1971, p. 54 ed. it.).

7


ELENA ESPOSITO

ficilmente conciliabile “produzione sociale di differenze”2. Questo fenomeno già di per sé sorprendente presenta poi un curioso aspetto normativo. La ricerca di singolarità, e quindi di spontaneità, appare come un obbligo. Lo rileva la definizione ormai standard fornita da Steinmetz: “la moda è il cambiamento periodico di stile di carattere più o meno costrittivo”3, e lo confermano gli autori successivi. La ricerca di devianza espressa dalla moda è praticamente obbligatoria4, al punto di diventare una sorta di “costrizione di relatività”5. Alla moda, di fatto, è quasi impossibile sottrarsi: anche chi rifugge dalla moda si riferisce ad essa, e implicitamente ne riconosce la forza. Essere intenzionalmente fuori moda vuol dire imitare lo stesso esempio sociale, per quanto in negativo6. Lo sosteneva già La Bruyére: “Il y a autant de faiblesse à fuir la mode qu’à l’affecter”7. Anzi, la potenza e la pervasività della moda sono tali che si è spostato l’onere della prova: è chi non si adegua che si fa notare8. Ci si chiede infatti inevitabilmente quali motivi portino a deviare dalla tendenza generale nella ricerca dell’individualità, e

2. Cfr. Ragone 1976a, p. 45. 3. “die Mode ist der periodische Stilwechsel von mehr oder weniger zwingendem Charakter”: Steinmetz 1935, p. 150. 4. Cfr. König 1971, cap. IV. 5. Baudrillard 1970, p. 100. 6. Cfr. Simmel 1905, p. 40 ed. it. Un opuscolo del 1622, riportato da Godard de Donville 1978, pp. 354-260, deride la “Négligence” come ultima tendenza della moda e apoteosi della sua potenza: l’atteggiamento naturale che si oppone all’artificio è il trionfo dell’artificiosità. “Tout se neglige icy bas, Pas un ne si accomode, Negligeons tout ces debats C’est la vraye bien séance, Et pour parler à la Mode Vivons à la Négligence”. 7. La Bruyére 1688b, XIII. 11. 8. Luhmann 1986, p. 654. Cfr. anche Vischer 1879, p. 78: “lieber mit allen frech, als auffällig durch abweichen von dem, was alle tragen!” (meglio essere sfacciati insieme agli altri che dare nell‘occhio perché si devia da ciò che portano tutti).

8


LA TEORIA DELLA MODA

raramente la risposta è favorevole a chi devia. Nel XVII secolo, periodo di acuta e tormentata consapevolezza della diffusione della moda, la deviazione appariva come un dissenso e un pericolo: la reazione era il ridicolo. La moda tendeva ad identificarsi con la socialità in generale, e il rifiuto equivaleva ad una sorta di disprezzo per gli interlocutori, per vanità o per semplice mancanza di regole, e come tale andava punito9. Anche se la moda costituisce indubbiamente una forma di pazzia, non è possibile sottrarvisi, perché si finisce solo per essere pazzi diversamente10 – e allora, come sostiene Kant, “è sempre meglio essere un pazzo alla moda che un pazzo fuori moda”11. I paradossi della moda si moltiplicano poi sul piano temporale. Possiamo partire ancora da Simmel, che osserva nella moda la tendenza a cercare nel cambiamento la sua forma di permanenza, offrendo una variabilità che serve per far emergere l’unica stabilità ancora possibile12. Anche questo era noto già nel Seicento: all’inizio del secolo affermare l’incostanza della moda era una banalità, e Grenaille parte da questa constatazione per descrivere il fenomeno nel suo complesso: la moda è uno di quei soggetti “qui changent toujours, qui n’ont point d’arrest que dans l’incostance, et qui ne sont jamais les mêmes pour estre tousjours autres qu’ils n’estoivent auparavant”13. La moda, nella sua costante produzione di novità, ricerca in realtà una forma di stabilità, e rivela in questo

9. L’argomento si trova già nel Galateo (Della Casa 1558, VII, 17), ed è diffuso nel Seicento. In una conferenza del 1666, citata in Godard de Donville 1978, p. 182, si afferma ad esempio che non essere alla moda vuol dire “se vouloir faire remarquer entre les autres par des choses qui n’apportent point de reccomandation (…) temoignage d’un homme bizarre et dereglé”. 10. Il ragionamento di Pascal 1670, n.31: “Les hommes sont si nécessairement fous que ce serait être fou par un autre tour de folie de n’être pas fou”. Ma già Graciàn 1647, n.133: “Meglio pazzo con gli altri che saggio da solo”. 11. “Besser ist aber doch immer, ein Narr in der Mode als ein Narr außer der Mode zu sein”: Kant 1798, §68. 12. Simmel 1905, p. 44 ed. it. Anche Chanel d’altra parte sosteneva che la moda è fatta per passare di moda. 13. Cfr. Grenaille 1642, p. 101.

9


ELENA ESPOSITO

uno dei suoi tratti più enigmatici: una sorta di “istituzionalizzazione dell’effimero”14 in cui il cambiamento continuo diventa l’unica costante. Nei termini di Baudelaire: il segreto della moda è “estrarre l’eterno dall’effimero”15. In quanto “transitorietà pianificata” riesce a ricavare proprio dalla fuggevolezza una sua specifica forza di convinzione16. Non può sorprendere, in un fenomeno così carico di contraddizioni, una peculiare sensibilità riflessiva: se rivolta a se stessa o realizzata pienamente, la moda tende ad annullarsi. Questa inclinazione suicida è implicita nelle sue premesse: la ricerca di novità e di distinzione, e in generale la ricerca di devianza, non reggono alla loro diffusione. Nel momento in cui diventa normale, la devianza perde la sua natura e può mantenere la propria identità solo estremizzandosi. La moda arriva così a produrre delle esagerazioni sempre più strane, che non riescono ugualmente a sorprendere: “On ne devrai s’étonner que de pouvoir encore s’étonner”17, soprattutto quando ci si aspetta di venir sorpresi di continuo. Principalmente per effetto dei mass media, la moda tende alla massima estensione, ma se la raggiungesse annienterebbe se stessa: nel momento in cui la totalità di un gruppo si sottoponesse ai dettami della moda, essa non riuscirebbe più a soddisfare il bisogno di distinzione che la contraddistingue. E la moda non riesce nemmeno a sopportare un’osservanza troppo rigida: le persone strettamente alla moda appaiono di volta in volta relativamente uniformi18. “L’uomo o la donna perfetti sono delle nullità”19 e la moda stessa impone di introdurre qualche difetto: la perfezione della moda richiede una

14. Cfr. Lipowetsky 1987; Mac Iver e Page 1962, p. 108. 15. Baudelaire 1976, p. 288 ed. it. 16. “eingeplante Vergänglichkeit”: Luhmann 1989b, p. 256. 17. La Rochefoucauld 1965a, 384. Cfr. anche Luhmann 1997, p. 651. 18. Tutto l’argomento si trova in Simmel 1905. Cfr. anche König 1971, Cap. XIV. 19. Balzac 1830-1833, p. 56 ed. it. Ma anche Calvin Klein: “Chi appare troppo interessato alla moda non è in sintonia con i tempi” citato in Davis 1992, Cap. VIII.

10


LA TEORIA DELLA MODA

sua parziale negazione, cioè la propria imperfezione. Non solo: la moda produce inevitabilmente il proprio parassita, l’“anti-moda” che si contrappone ai suoi dettami, e vive proprio della negazione: tendenze hippy, punk, rasta, skinhead, ecc.20 E il suo problema, ancora una volta, non sta nella difficoltà a imporsi e a raggiungere il successo, ma al contrario nel suo eccesso di potere, che tende a inglobare anche il suo contrario e rende sempre più problematico trovare un opposto a cui contrapporsi: la moda di strada e le tendenze casual rendono costantemente “di moda” le varie forme di negazione della moda, e fanno diventare via via più improbabile la ricerca di distinzione. A tutto questo si aggiunge un tratto di apparente irrazionalità, che è sempre stato oggetto delle critiche alla moda21. Una moda ragionevole è ben poco attraente, se non in particolari condizioni altamente riflessive. La moda appare casuale: le sue forme non hanno mai una ragione che corrisponde a finalità pratiche, estetiche o altro – se privilegia uno stile comodo (casual) non è per la comodità in quanto tale, ma per una precisa scelta che deve essere segnalata, altrimenti non è riconoscibile in quanto moda (e il risultato è di solito tutt’altro che comodo o ragionevole: si usano ad esempio macchine fuoristrada, dispendiose e molto poco confortevoli, nel traffico cittadino)22. Quella che sembra frivolezza è in realtà un’esigenza profonda della moda, che Simmel chiama “astrattezza”23: la necessità di autonomizzarsi da criteri di altro genere e indicare che ci si muove su un piano in cui non contano le cose ma l’osservazione delle cose. Criteri di tipo economico, tecnologico e anche la ricerca del bello non servono a spiegare gli orientamenti della moda, il cui unico motivo, come osservava Madame de

20. Cfr. Lipowetsky 1987; Davis 1992, cap. VIII. 21. Cfr. Schnierer 1995. 22. L’argomento si trova già in Veblen 1899, p. 115, in riferimento alle motivazioni del consumo: nei casi concreti è spesso molto difficile distinguere tra utilità e spreco, perché lo stesso spreco diventa uno scopo – e ha quindi una sua utilità. Veblen si riferiva notoriamente alla sua categoria di consumo dimostrativo. 23. Simmel 1905, p. 32 ed. it.

11


ELENA ESPOSITO

Sévigné, è riflessivo e quindi tautologico: “Enfine, c’est la mode”24. Questa vuotezza è sempre stata uno degli aspetti più irritanti dell’orientamento alla moda e uno dei motivi di preoccupazione per la sua diffusione, che sembrava soppiantare l’interesse per ciò che è buono o bello, e in generale la ricerca della perfezione, con un’inspiegabile attrazione per ciò che è semplicemente nuovo o diverso25. Che la contrapposizione tra moda e ragione sia mal posta, peraltro, lo sapeva già Baldassarre Castiglione. “…non ci ha luogo il disputare quale delle due usanze sia migliore, ma convienci ubidire non alla buona, ma alla moderna usanza” perché bisogna comportarsi “non come la ragione, ma come l’usanza vuole che tu faccia; e non come si soleva o si doveva fare, ma come si fa”26. La diffusione della moda aggiunge solo la consapevolezza che moda e ragione non sono soltanto contrapposte, ma radicalmente incompatibili: in un dialogo tra moda e ragione dell’inizio del XIX secolo la prima rifiuta di ascoltare la seconda, perché sostiene che se si avvicinassero sarebbero perdute entrambe27. II. L’ipotesi dell’imitazione dei superiori Di fronte ad un fenomeno così contraddittorio ed evidentemente complesso, che cosa ha da offrire la ricerca sociologica? La teoria classica sull’argomento, detta teoria del “trickle-down”, risale al XVIII secolo ed è stata formulata

24. Madame de Sèvigné 1626-1696, Lettera del 3 gennaio 1689. 25. La Bruyère 1688a, XIII: “Une chose folle et qui découvre bien notre petitesse, c’est l’assujettissement aux modes quand on l’étend à ce qui concerne le goût, le vivre, la santé et la conscience” (1) “La curiosité n’est pas un goût pour ce qui est bon ou ce qui est beau, mais pour ce qui est rare, unique, pour ce qu’on a et ce que les autre n’ont point. Ce n’est pas un attachement à ce qui est parfait, mais à ce qui est couru, à ce qui est à la mode. Ce n’est pas un amusement, mais une passion”(2). 26. Castiglione 1528, XVI, 37 e 38. 27. “Dialogue entre la Mode et la Raison”, La Mode, 20 Maggio 1807, pp. 222-223 citato in Kleinert 2001, p. 446.

12


LA TEORIA DELLA MODA

la prima volta da Christian Garve28: si basa sull’ipotesi che la moda si fondi sull’orientamento allo strato dominante della società, i cui comportamenti, atteggiamenti e modi di vestire diventano un modello per gli strati inferiori. Il cambiamento della moda sarebbe dovuto al fatto che questi atteggiamenti, una volta estesi verso il basso, perdono il loro valore distintivo e vengono abbandonati dalle classi elevate, che adottano tendenze differenti – che poi a loro volta verranno imitate, e così via. Kant parla di una “tendenza naturale” degli uomini a imitare persone significative, la cui legge sarebbe appunto la moda29. Questa impostazione, che si ritrova in Herbert Spencer e soprattutto in Simmel, ha dominato le ricerche in questo campo: le mode, si sostiene, sarebbero sempre mode di classe. Solo di recente è stata sottoposta a intense critiche30. L’obiezione di fondo si basa sulla constatazione che la moda in senso proprio è nata e si è diffusa a partire dal XVI secolo: proprio quindi nel momento in cui la stratificazione della società, e con essa il prestigio e il valore vincolante delle classi elevate, cominciava a declinare. Non solo: finché la struttura per classi è rimasta intatta, l’imitazione non era nemmeno consentita, e quindi la moda non poteva svilupparsi. L’imitazione degli strati elevati, se e quando avviene, conferma la dissoluzione o almeno l’indebolimento dell’organizzazione gerarchica della società – che peraltro sarebbe proprio il fattore che motiva l’imitazione dal basso verso l’alto. In questa situazione piuttosto intricata può essere utile andare a vedere le tendenze e l’efficacia della legislazione suntuaria, che in qualche forma è sempre esistita31, ma solo a partire dal XIII secolo ha espresso precise normative che distinguono tra i vari ceti32. Il tenta28. Cfr. Garve 1792. 29. Cfr.Kant 1789, § 68. 30. Cfr. ad esempio König 1971, cap. X; Lipowetsky 1987, cap. 1; Davis 1992, cap. IV. Ma già in Vischer 1879, p. 62 si legge: “Die Mode ist nivellierend, Völker wie Individuen eingleichend” (la moda è livellatrice, e rende uguali sia i popoli che gli individui). 31. La Lex Oppia del 215 a.C. proibiva alle donne determinate vesti ed ornamenti. 32. Cfr. Muzzarelli 1996.

13


ELENA ESPOSITO

tivo di disciplinare vesti ed ornamenti, ed in generale il mondo delle apparenze, è apparso importante soprattutto nel periodo che va dal XIII al XVI secolo – periodo in cui la semantica si orientava ancora al quadro medievale di un ordine globale che regola il cosmo dai livelli più elevati fino ai particolari, per cui alterare le apparenze corrispondeva ad intaccare tale ordine e la sua legittimità – e questa tendenza doveva essere sanzionata. Evidentemente questa esigenza è stata avvertita proprio nel periodo in cui tale ordine ha cominciato a vacillare, e l’ambiguità della legislazione suntuaria riflette l’ambiguità di questa condizione. Le norme in materia formulavano infatti dei divieti specifici e dettagliati per tutti gli strati della società, ribadendo così l’ordine gerarchico e le connesse prerogative. Mentre però nei periodi precedenti le leggi suntuarie riguardavano solo le classi inferiori e avevano semplicemente la forma di divieti, a partire dal Quattrocento consentono implicitamente a tutti l’accesso a ornamenti e vesti ricercate, e si limitano a distinguerne il tipo a seconda delle classi. Dal momento poi che il divieto si vanificava con il pagamento di una multa di cui veniva anche indicato l’importo, si consentiva implicitamente la trasgressione, o almeno se ne riconosceva la possibilità. L’ordine gerarchico, come è noto, ha come prima garanzia di stabilità la sua natura indiscutibile e la mancanza di alternative; questa disposizione, che tende a preservarlo, mette in luce invece proprio la sua imminente dissoluzione. Montaigne ne è ben consapevole, quando sostiene che le leggi suntuarie raggiungono il risultato opposto a quello che si prefiggono: dire che solo i principi possono mangiare certi cibi o portare certi materiali vuol dire aumentare l’attrattiva per queste cose e il desiderio di averle. La legge dovrebbe invece vietare queste cose a tutti tranne ai giocolieri e alle cortigiane, e allora funzionerebbe33 – ma allora rinuncerebbe definitivamente ad una regolazione gerarchica delle apparenze (e presumibilmente anche del resto). Nel periodo della diffusione della moda, a partire dal Seicento, gli editti suntuari venivano applicati blanda33. Montaigne 1580-1588, I.XLIII: “Delle leggi suntuarie”.

14


LA TEORIA DELLA MODA

mente, poco rispettati e dimenticati rapidamente34, e di fatto vengono abbandonati nel corso del XVIII secolo. La moda segnala appunto che la distinzione sociale ha assunto ormai altre forme, sganciate dalla stratificazione e orientate piuttosto alla ricerca del nuovo35. Il prestigio non si basa sull’origine ma sulla misteriosa pretesa di originalità, che pone requisiti ben differenti36. Con questo non si vuol certo negare la persistenza di differenze di classe: gli studi ormai classici di Bourdieu mostrano notoriamente il legame degli orientamenti di gusto con la classe sociale di appartenenza37. Ma non è questo che orienta la moda e che può servire a spiegarla. Già nel Settecento, secondo le descrizioni dei Goncourt38, quando ancora vesti ed ornamenti distinguevano univocamente gran dame, “donne di rango”, borghesi e cortigiane, la moda moltiplicava i riferimenti all’attualità, e quindi alla novità (nastri alla Cagliostro, alla “passaggio del Reno”, alla “rinoceronte” o alla “cometa” – comparsi allora a Parigi). Soprattutto, però, iniziavano a comparire le mode rustiche: cappelli “alla lattaia”, “alla pastorella”, abiti “alla contadina”, che iniziano la tendenza della “moda dal basso” che contraddice definitivamente la teoria del trickle-down. Le oggi diffusissime tendenze casual, sportive, dei taglialegna o dei marinai, mostrano che la moda ormai non va affatto dall’alto verso il basso e ricerca invece distinzioni molto più sottili, che hanno presumibilmente a che fare con l’adozione contingente di forme che vengono sentite come consolidate dalla tradizione (e quindi non contingenti) o con il rifiuto artificiale dell’artificio. Come afferma Balzac “nella nostra società le differenze sono scomparse: restano solo le sfumature”39.

34. Godard de Donville 1978, Annexe I, pp. 205ss. 35. Cfr. Luhmann 1997, p. 654. 36. Cfr. Vischer 1879, p. 63: il carattere moderno è che l’abbigliamento in sé non deve già dare delle informazioni – solo l’uomo che ci sta dentro può esprimere la sua personalità, e il suo modo di apparire (atteggiamento, forme, parole e azioni) non deve esprimere nient’altro che sé stesso. 37. Cfr. Bourdieu 1979. 38. Cfr. Goncourt 1862, cap. 8. 39. Balzac 1830-1833, p. 18 ed. it.

15


ELENA ESPOSITO

L’eleganza moderna rifugge dal lusso, molto più semplice e spesso anche meno dispendioso, e si orienta ad una “perfetta uguaglianza” in cui ci si fa notare più per uno studiato rifiuto dell’esibizione che per l’ostentazione40. III. Teoria della società Ancora una volta la moda sembra essere caratterizzata più dai suoi paradossi che da determinazioni positive – più dall’ambiguità che da indicazioni univoche. L’impressione allora è che serva una teoria che accolga e valorizzi i paradossi, che non li tratti solo come “errori” o imprecisioni da eliminare, ma che colga il loro ruolo nel funzionamento della moda. I paradossi, infatti, stanno alla base della misteriosa potenza e pervasività della moda, e possono servire a spiegarla. Sono la sua forza, non la sua debolezza. Per far questo, però, occorre una teoria che innanzitutto sia in grado di riconoscere una coerenza (in se stessa e nei sui oggetti) anche rinunciando alla coerenza logica, che richiede come è noto la mancanza di contraddizioni, e soprattutto di paradossi. Occorre una forma di coerenza più complessa, che può essere raggiunta solo combinando tra di loro diverse distinzioni, che si integrano e si sostengono reciprocamente in modo sufficientemente complesso da consentire di rinunciare ad un quadro unificante generale. La coerenza, cioè, non dipende da una meta-visione che raccoglie tutte le prospettive in un’unità più elevata (priva di contraddizioni), ma da una molteplicità di soluzioni parziali, o locali, che dipendono circolarmente le une dalle altre in maniera non casuale ma senza un ordine comune. Serve inoltre una teoria sufficientemente complessa per dar conto sia della variabilità che dell’individuazione, della tendenza al dissenso/conformità e del carattere obbligatorio, del riferimento al singolo e del riferimento agli altri. Serve a mio parere una teoria della società che sia in grado di inserire questi aspetti contrad40. Ivi, pp. 38 e 41.

16


LA TEORIA DELLA MODA

dittori, che non possono essere risolti nelle peculiarità dell’individuo, in un quadro generale e in una prospettiva evolutiva. Nelle pagine che seguono tenterò di farlo utilizzando gli strumenti della teoria dei sistemi sociali. Alla sua comparsa e nel XVII secolo, la moda non veniva considerata, come si tende a fare oggi, un fenomeno superficiale e quindi marginale – nel senso della svalutazione dell’ornamento tipica dell’epoca moderna. L’apparenza, allora, non era svincolata dall’essenza delle cose e la superficie non appariva affatto superficiale (trascurabile). La moda, che introduce un’inedita variabilità, l’autonomizzazione delle apparenze e in generale la contingenza del modo di sembrare (e di essere) era in quell’epoca un fenomeno complesso che descriveva un cambiamento profondo della società e del rapporto con il mondo. L’ipotesi da cui parto è che la moda corrisponda nella semantica della società al dissolvimento dell’ontologia collegato con il passaggio alla modernità, e che le sue forme e le sue trasformazioni ne riflettano la complessità e l’articolazione. La teoria dei sistemi, come è noto, riconduce questo passaggio al concorso combinato di due ordini di fattori41, riconducibili da un lato al graduale passaggio dalla stratificazione al primato di una forma di differenziazione orientata alle funzioni42, e dall’altro alla diffusione della stampa, e con essa di una comunicazione scritta anonima, impersonale e definitivamente sganciata dalle forme dell’oralità. Si può dire anche che il risultato è un’inedita astrazione del rapporto tra la società e il suo 41. Cfr. Luhmann 1997. 42. Tutte le società, si sostiene, sono differenziate al loro interno in sistemi parziali, ma questo può avvenire in forme diverse. Si parla di differenziazione stratificata quando i sottosistemi corrispondono a ceti organizzati gerarchicamente, da un vertice (il sovrano) ad una base di lavoratori collocata ad un livello inferiore: il modello è la società medievale. Nella differenziazione funzionale, invece, i sistemi parziali si distinguono per le diverse funzioni alle quali sono orientati: economia, politica, diritto, scienza, educazione, religione, arte e così via. Nessuna funzione è superiore alle altre: alla gerarchia univoca si sostituisce una condizione “eterarchica”, cioè la presenza simultanea di più gerarchie a seconda del sistema preso come riferimento, che “ipostatizza” la propria funzione subordinandole le altre.

17


ELENA ESPOSITO

ambiente, che diventa riflessivo e perde così l’univocità su cui si fondava la tradizionale metafisica ontologica. In altri termini: la società stratificata, pur essendo differenziata al suo interno in diversi strati disposti gerarchicamente, manteneva un vertice e un ordine unico – dall’alto e dal basso si osservavano la stessa società e lo stesso mondo. Ciò che era era e ciò che non era non era, a prescindere dalla prospettiva e dagli interessi dell’osservatore. Per trattare le deviazioni era sufficiente l’idea di errore – che poteva a sua volta essere indagata. Erano diverse le prospettive, ma non gli oggetti considerati. Con la differenziazione funzionale ad ogni prospettiva di osservazione corrisponde invece un mondo differente, e la stessa distinzione sistema/ambiente si moltiplica al suo interno in una molteplicità di differenze non coordinate tra di loro. Il mondo dell’economia non è quello della politica, né quello della scienza né del diritto né dell’educazione, anche se ciascuno di essi ricompare nella prospettiva di ogni altro e anche se la società nel suo complesso li comprende tutti. Alla riflessività della distinzione sistema/ambiente, che moltiplica al proprio interno i sistemi con i relativi ambienti, corrisponde la perdita di univocità del mondo. Ciò che è e non è dipende ormai dalla prospettiva di osservazione, e non solo dal mondo. Mentre in precedenza la semantica era guidata dal primato della dimensione materiale, in epoca moderna il riferimento deve diventare più complesso43. Non basta indicare di che cosa si sta parlando (“questo” contrapposto ad “altro”), ma bisogna anche indicare chi (quale sistema) lo sta osservando, perché altri fanno diversamente. Interviene cioè anche la dimensione sociale, che distingue la prospettiva di Ego da quella di Alter e le

43. Per la distinzione e la descrizione di dimensione materiale, dimensione temporale e dimensione sociale come le tre dimensioni del senso, si veda Luhmann 1984, pp. 112ss. Con primato della dimensione materiale non intendiamo naturalmente che le altre non ci fossero – il senso le comprende inevitabilmente tutte e tre: si parla di qualcosa con qualcuno in un certo momento. Il riferimento qui è solo all’ontologia, o in generale al modo di considerare il mondo: se come collezione di oggetti unitari (universitas rerum) o come insieme di distinzioni.

18


LA TEORIA DELLA MODA

connette riflessivamente. Ego sa che Alter (un Alter specifico o indistinto – “generalizzato”) ha di fronte un mondo differente dal suo, in cui egli stesso compare. Se vuole tentare di controllare o di orientare il modo in cui appare all’altro o agli altri, Ego si scontra rapidamente con il fatto che nel farlo dovrebbe tentare di orientarsi all’osservazione di Alter, che magari fa lo stesso con lui – e che potrebbe accorgersene e tener conto dell’artificio, o potrebbe egli stesso adottare una prospettiva artificiale, che falsa tutti i tentativi di Ego di riferirsi all’esterno. Insomma: una volta abbandonata l’univocità del riferimento alla dimensione materiale, la sua combinazione con le distinzioni sociali non porta ad alcuna forma di stabilità, ma solo ad un’incessante riflessione reciproca delle prospettive le une nelle altre e al loro interno. Una volta abbandonata l’univocità materiale, poi, non ci si può limitare alla complessità sociale, e nulla può opporsi all’introduzione della dimensione temporale. La riflessività si orienta allora alla distinzione prima/dopo, e bisogna indicare quando viene formulata la prospettiva di osservazione in questione. Il mio mondo di oggi non è quello di ieri e so che non sarà quello di domani, ma so anche che il mio modo di vedere il passato dipende dalle mie esperienze di oggi e che in futuro non potrò più recuperare l’autenticità della prospettiva attuale. Il sistema sa cioè che il suo passato presente è diverso dal suo presente passato, che il presente futuro sarà diverso da quello che al momento è il suo futuro e che dipenderà da quello che farà oggi e anche da quello che oggi si aspetta sia il suo futuro. Anche in questo caso la riflessività si moltiplica senza trovare un punto di arresto. Per un lungo periodo la semantica della prima età moderna ha oscillato fra questi rimandi, in un movimento vorticoso fra prospettive che rinviano le une alle altre, in una continua scoperta di circoli e di paradossi, di livelli riflessivi e di connessioni inaspettate: fra il reale e l’apparenza, il sogno e la veglia, l’inganno e la sincerità. Poi si sono stabilizzate una serie di “alleanze” tra la dimensione sociale e la dimensione temporale – delle “simbiosi” specificamente moderne in cui le indeterminatezze su entrambi i piani si sostengono e si neutralizzano 19


ELENA ESPOSITO

reciprocamente44. A partire dalle combinazioni di diverse instabilità si è generata una sorta di stabilità provvisoria e ovviamente paradossale, che funziona per costituire un riferimento che consenta di proseguire la comunicazione, sostituendo in un certo senso la stabilità prima garantita sul piano materiale. La moda – questa è la nostra ipotesi – costituisce una forma di questo tipo, anzi il modello a cui più o meno implicitamente tutte si ispirano. In questo senso si tratta di una soluzione semantica che eredita e riflette la problematica dell’irruzione della contingenza e la necessità di elaborare qualche forma di controllo. E nello stesso tempo, mentre mostra tutta questa incertezza e la riproduce con la sua moltiplicazione di paradossi, la moda illustra una soluzione che, con diverse varianti, può essere adottata in molti campi: senza negarle, vincola l’indeterminatezza nella dimensione sociale all’indeterminatezza nella dimensione temporale e viceversa, neutralizzandole entrambe. Più concretamente: colui che si orienta alla moda può sfuggire al paradosso dell’originalità copiata, dell’aspirazione a distinguersi condivisa con tutti gli altri, perché la moda cambia e impone di inseguire le sue incessanti trasformazioni. Prima ancora che appaia evidente l’uniformità della devianza, allora, la tendenza si è già trasformata e appare ancora nuova, diversa e deviante – fino alla prossima novità. In questo modo l’indeterminatezza sociale ricorre alla dimensione temporale, che però è altrettanto indeterminata e ricorre a sua volta alla socialità per neutralizzare i propri paradossi. Si tratta in questo caso della ricerca di stabilità tramite variazione, della condizione contraddittoria in cui appare vincolante solo ciò che cambia e che si sa che cambia. Chi segue la moda si sottopone consapevolmente a questa tirannia del cambiamento, in cui qualcosa piace non perché sia bello o altrimenti lodevole, ma semplicemente perché è nuovo

44. Cfr. Luhmann 1991, pp-56-57. Luhmann si riferisce qui principalmente alle norme e alla regolamentazione dell’accesso a beni scarsi – forme che limitano rispettivamente la contingenza temporale e quella sociale.

20


LA TEORIA DELLA MODA

– ma lo fa perché lo fanno anche gli altri, e ciascuno lo sa. Nella moda si realizza una forma di “socialità radicale” (Baudrillard)45 in cui la mancanza di fondamenti di ognuno si appoggia a quella degli altri e trova così un surrogato di stabilità46. Sorprendente è comunque che questo funzioni e che rappresenti un meccanismo che, in forme differenti corrispondenti ai rispettivi criteri, si può ritrovare in tutti i sistemi di funzione. Nella scienza non solo per una certa predilezione per temi “di tendenza”, ma anche nell’adozione di forme ipotetiche di verità, che pretendono di valere finché non vengono contraddette da nuove scoperte; nel diritto sarebbe improprio affermare che la positivizzazione corrisponde alla moda, ma anche in questo caso ci si orienta a riferimenti variabili, ai quali si attribuisce valore normativo; l’educazione non si riferisce a valori eterni e nemmeno alla compattezza della formazione (Bildung), ma adotta un modello procedurale flessibile e sensibile alle circostanze; l’economia si orienta alla variabilità delle osservazioni reciproche degli operatori sul mercato; la politica ad un’analoga variabilità nell’assetto della democrazia. Luhmann parla di “formule di legittimazione di ciò che è dato di volta in volta”, guidate appunto dalla moda, che stabilizzano il sistema consentendo nel contempo un’elevata capacità di variazione47. Nell’indagine sulla moda intendiamo prendere in considerazione questo improbabile riconoscimento di entità limitate nel tempo che assumono un ruolo vincolante, studiarne i presupposti e le modalità di funzionamento. IV. Teoria dell’osservazione Soprattutto nelle questioni che riguardano l’ontologia e i suoi equivalenti funzionali, la teoria dei sistemi

45. Cfr. Baudrillard 1976, p. 105 ed. it. 46. Anche in questo caso il fenomeno era noto già nel Seicento: cfr. Figuère 1641, pp. 68-69: “une faute commise par la plus grand nombre, et depuis si longtemps, n’estoit plus faute, mais costume”. 47. Luhmann 1989a, p. 269.

21


ELENA ESPOSITO

tende a ricorrere alla teoria dell’osservazione e alla teoria della distinzione48. La distinzione sistema/ambiente viene allora combinata con quella operazione/osservazione, che consente di distinguere vari ordini di osservazione con una corrispondente complessificazione del rapporto tra il sistema e il suo ambiente, e con il mondo in generale. Entrambe queste distinzioni sono riflessive, nel senso che il sistema è a sua volta ambiente per altri sistemi (nel suo ambiente) e che le osservazioni sono sempre anche operazioni di uno specifico sistema. L’osservazione di secondo ordine, che osserva osservatori, osserva quindi delle specifiche operazioni ed è a sua volta un’operazione che può essere osservata – anche dallo stesso sistema osservante. È data quindi in ogni caso, e per ogni ordine di osservazione, la possibilità di distinguere l’osservazione in questione (che avrà propri oggetti) dall’operazione che in questo modo si realizza (che costituisce un oggetto da osservare). Qualora l’osservazione osservata osservi a sua volta osservazioni, si genera una grande complessità di prospettive e di intrecci di prospettive, dove lo stesso osservatore può osservare ad esempio di essere osservato dall’osservatore che osserva e orientarsi di conseguenza, e può anche osservarsi in questo tentativo. La riflessività delle prospettive, comunque, non è mai casuale e corrisponde a condizioni operative che possono essere indicate – e che ad esempio vengono maneggiate abitual-

48. Riferimenti standard sono von Foerster 1981 e Spencer Brown 1972. Cfr. ad esempio Luhmann 1997, pp. 50ss., e 1990a, pp. 68ss. La teoria dell’osservazione si basa sulla distinzione tra osservazioni di primo ordine (che osservano oggetti) e osservazioni di secondo ordine (che osservano osservatori). Le osservazioni di secondo ordine sono almeno implicitamente riflessive, perché un osservatore che osserva osservatori può sempre, almeno in linea di principio, osservare anche se stesso (in quanto osservatore), introducendo un elemento di circolarità che rende ambigua la distinzione tra soggetto e oggetto e crea gravi difficoltà di ordine epistemologico. Le si gestisce di solito affermando che ogni osservazione è inevitabilmente l’operazione di un sistema, e distinguendo quindi ciò che l’osservazione osserva da ciò che l’osservazione è. Una comunicazione, ad esempio, tratta di uno specifico tema (che viene osservato), ma è nello stesso tempo un dato del mondo (un’emissione vocale, una serie di segni sulla carta). A questo si riferisce la distinzione operazione/osservazione.

22


LA TEORIA DELLA MODA

mente nella prassi dell’interazione fra presenti: si osserva come gli altri osservano e come si viene osservati, supponendo nell’altro un’analoga osservazione. La moda, che è in gran parte indipendente dall’interazione, realizza in modo più astratto un analogo intreccio riflessivo. Il fenomeno della moda non può essere non solo spiegato, ma nemmeno descritto sul piano dell’osservazione di primo ordine: la moda non riguarda gli oggetti o le apparenze, ma il modo di considerarli. Sta in questo la profonda differenza tra l’affermazione di Castiglione che “tutto questo di fuori dà notizia spesso di quel dentro”49, per cui l’apparenza sarebbe l’espressione “autentica” di una corrispondente interiorità, e quella di Baudelaire secondo cui, seguendo la moda, “l’uomo finisce per somigliare a ciò che vorrebbe essere”50 – non quindi a ciò che è, ma al modo in cui si osserva, e non con un’immagine fedele ma solo con una somiglianza che lascia spazio all’indeterminatezza della riflessione. Solo in quest’ultimo caso la gestione dell’apparenza è veramente guidata dalla moda, che non regola direttamente il modo di presentarsi e di comportarsi, ma anche e soprattutto le opinioni sul modo di comportarsi51, opinioni che si costruiscono osservando gli altri e osservando come si viene osservati dagli altri. La moda, quindi, non ha direttamente a che fare con il bello, e nemmeno con il vero o con qualche forma di autenticità, ma va piuttosto collocata sul piano in cui l’osservazione riflessiva ha sostituito il valore di orientamento prima fornito dal riferimento all’unicità del mondo (e quindi anche del vero): il piano specificamente moderno dell’opinione pubblica52. La moda è un fenomeno eminentemente pubblico53, non perché riguarda il modo di apparire agli altri, che è sem-

49. Cfr. Castiglione 1528, L.II.XXVIII. 50. Baudelaire 1981, p. 279. 51. Cfr. Luhmann 1997, p. 654. Nello stesso senso Vinken 1994, p. 10 afferma che: “Mode ist nicht gleich Kleidung. Sie ist vielmehr ein Kommentar in Kleidern über Kleider” (La moda non è immeditamente abbigliamento. È piuttosto un modo di commentare i vestiti con i vestiti). 52. Cfr. Luhmann 1971; Hölscher 1979, pp. 110 ff. 53. Cfr. König 1971, p. 65.

23


ELENA ESPOSITO

pre stato oggetto di attenzione e di qualche forma di regolamentazione, ma perché si colloca al livello riflessivo in cui il pubblico non è più una moltiplicazione di prospettive su un mondo univoco (per cui se non si è in cattiva fede l’esteriorità riflette l’interiorità), ma in cui è la stessa osservazione a generare la realtà a cui si fa riferimento. Gli oggetti sono solo per così dire convogliatori di osservazioni, che convergono su di essi per confrontarsi e osservarsi reciprocamente, e di qui si genera la complessità della sfera pubblica in senso moderno54. Il fenomeno della moda, cioè, è relativo all’osservazione (almeno) di secondo ordine. Questo, tra l’altro, è l’aspetto che fonda l’impressione di vacuità e di inautenticità spesso criticate nella moda, come se il riferimento ad altri allontanasse da una corretta attenzione alla propria interiorità e alle proprie aspirazioni: “Nous sommes serviteurs des passions d’autruy, sans le conoistre”55 – ma presumibilmente non si possono avere passioni senza osservarle, e quindi solo al livello del secondo ordine, che implica l’osservazione degli altri. L’impossibilità di una conoscenza effettiva, qui, non è altro che una conseguenza inevitabile della macchia cieca che accompagna inevitabilmente l’osservazione di ordine superiore al primo56. Ma questa riflessività può anche essere sfruttata, trovando nella gestione circolare delle apparenze una forma di autenticità, o almeno un sostituto per essa: “Io mi occupo dei vestiti per non dovermi occupare di me stessa (…) La moda è il proprio contrario: semplicemente che non c’è nulla, proprio quando ci sono tutte le cose possibili. Ma senza di me! (…) È così che ci siamo trovati, perdendoci permanentemente ”57.

54. Ci torneremo nel cap. 7. 55. Fitelieu 1642, p. 11. 56. Sulla macchia cieca cfr. von Foerster 1973; Luhmann 1990a, pp. 85ss. e passim. 57. “Ich beschäftige mich mit Kleidung, damit ich mich nicht mit mir beschäftigen muß (…) Die Mode ist ihr Gegenteil: Daß einfach nichts da ist, indem möglichst viel da ist. Ohne mich! (…) So haben wir uns gefunden, indem wir uns permanent verlieren”: Jelinek 2000, pp. 77-78.

24


Capitolo 2 Le forme premoderne

I. Moda e consuetudine Abbiamo ricondotto la moda alla differenziazione funzionale, all’emergere di una sfera pubblica in conseguenza della stampa e in generale alla diffusione di un modo di osservazione di secondo ordine. Questo implica l’assunto, che va contro l’impostazione di quasi tutte le storie delle moda, che si tratti di un fenomeno tipicamente moderno, e che non la si possa rintracciare in formazioni sociali precedenti. Ovviamente con questo non vogliamo negare, contro ogni evidenza empirica, che un’attenzione all’abbigliamento e al modo di apparire ci sia sempre stata, e nemmeno che le fogge e le abitudini cambiassero col tempo e che lo si sapesse. La formula “l’abito fa l’uomo” risale a Quintiliano1 e Tertulliano, nel De Pallio, tratta proprio dei cambiamenti del costume (riconducendoli alla legge generale del cambiamento che governerebbe tutto l’universo). Ciò non toglie, e lo mostra proprio l’approccio di Tertulliano, che l’orientamento fosse alla stabilità (anche il cambiamento è governato da una legge) e che la novità – fonte e fondamento della legittimazione della moda – 1. “Vestis virum reddit”: Quintiliano, Institutio oratoria, VIII.5.

25


ELENA ESPOSITO

venisse vista come una componente accidentale del gusto. Qualcosa piaceva perché era bello, o veniva ritenuto tale, e se cambiava era perché era intervenuto un fattore (ad esempio il contatto con costumi stranieri o scoperte di nuovi materiali o tecnologie) che introduceva elementi nuovi. Ad un certo punto piacevano semplicemente cose diverse, anch’esse ritenute belle – e non semplicemente “in”. Il cambiamento non veniva ricercato come tale, e la novità, ben lungi dall’essere valorizzata come motivo del piacere, doveva innanzitutto imporsi quale devianza. Doveva cioè essere neutralizzata in quanto novità, e solo allora poteva piacere. Quel che piace, evidentemente, dipende però dal luogo, dagli usi e dalle circostanze, ma riconoscere questa relatività è ben diverso dal riconoscere e accettare il potere della moda. La differenza coincide con quella tra costume (o consuetudine) e moda, come inizia a diventare chiaro proprio nel corso del XVII secolo. La forza della consuetudine è riconosciuta da Castiglione, anche se non ha nulla a che vedere con la ragionevolezza o la ricerca di perfezione2, e Della Casa raccomanda di adeguarsi sempre alle usanze del tempo e del luogo in cui ci si trova, per quanto possano apparire meno “leggiadre” o meno comode di altre3. Consigli di questo tipo si possono trovare anche in Montaigne4 e in quasi tutta la letteratura di corte. Mentre però la moda, come abbiamo visto, implica un riconoscimento e una valorizzazione della singolarità dell’individuo, l’invito a seguire la consuetudine è motivato al contrario proprio dal rifiuto dell’originalità. Voler andare contro la consuetudine “dir si po temeraria presunzione”5, perché può dar l’impressione di disprezzare gli altri e di volerli contraddire, “la qual cosa (cioè il contradire nel costumar con le persone) non si dèe fare”6. Il cortigiano deve fare molta attenzione a

2. Castiglione 1528, L.I.II. 3. Della Casa 1558, VII, 17-18 e passim. 4. Cfr. Montaigne 1580-88, I.XXIII 5. Castiglione 1528, Dedica II. 6. Della Casa 1558, VII, 18.

26


LE FORME PREMODERNE

“non voler essere l’originale”7, dal momento che “La società non sa che farsene dei nostri pensieri”8. Per questo motivo, gli stessi autori che consigliano di attenersi agli usi comuni rifiutano la dipendenza dalla moda, che cambia di continuo e sancisce in questo modo il prevalere dell’incostanza e della leggerezza, oltre alla contraddittorietà di persone che assumono in breve tempo opinioni non solo diverse ma anche contrarie tra di loro9. La Bruyère, notoriamente critico della volubilità e incostanza della moda, raccomanda l’esprit de politesse che segue le usanze e i costumi e cambia a seconda dei luoghi e delle persone10. Si cambia perché cambiano le circostanze – di tempo, di luogo e sociali – e si tende ad adattarsi ad esse, ma non per ricerca del cambiamento stesso; prova ne sia che nelle stesse circostanze ci si comporterebbe ancora nello stesso modo. Nella varietà, i criteri rimangono stabili11. La moda è differente, e come vedremo12 non mira a piacere agli altri e a conformarsi ad essi, ma primariamente a stupire, sulla base di una qualche forma di diversità. La moda non punta all’unità, ma sempre e comunque alla differenza, nel tempo e rispetto agli altri: per questo deve essere nuova e originale, e realizza una forma di riferimento alla dimensione sociale opposta a quella della consuetudine. Questo orienta-

7. Faret 1630, p. 138 ed. it. 8. Montaigne 1580-88, I.XXIII. Cfr. anche Gracián 1647, che raccomanda di “Non eccedere nel mostrarsi originale (…) Il mostrarsi originale serve soltanto a mettersi in mostra con una caratteristica che muove alternativamente gli uni al riso e gli altri all’ira”. 9. Montaigne 1580-88, I.XLIX. 10. La Bruyère 1688b, V.32. 11. Ed è possibile anche formularne le leggi. Per molti secoli la retorica non si è contrapposta alla logica (orientata alla verità) ma la ha affiancata come arte dell’adeguamento alle circostanze – che non negava l’esistenza del vero, ma la “operazionalizzava” in riferimento alle concrete situazioni di comunicazione. Non a caso la retorica ha iniziato il suo declino nella semantica occidentale, dalla posizione prevalente che ha occupato per molti secoli al discredito in epoca moderna, proprio in coincidenza con l’affermarsi dell’orientamento alla moda – che non si riferisce semplicemente alla variabilità delle circostanze, ma alla contingenza in quanto tale. 12. Cfr. cap. 7.

27


ELENA ESPOSITO

mento, in cui quello che piace non ha nulla a che fare con la bellezza e in cui la conformità passa per la devianza, è tipicamente moderno e costituisce la specificità della moda – e la problematicità del fenomeno13. Il richiamo alla consuetudine, come molte altre forme pre-moderne, riconosce la diversità soltanto per ricondurla ad un’unità di fondo. Che i criteri degli uomini varino con le circostanze, non toglie in questa impostazione che esistano il bello, il vero e il giusto, che si potrebbero riconoscere se si potesse superare la limitatezza della prospettiva terrena. La diversità non nega l’unità, anzi la conferma sancendo la distanza incolmabile tra la dimensione umana e quella divina, tra il caos delle apparenze e l’ordine superiore. Nei nostri termini: il primato della dimensione materiale riconduce la molteplicità delle prospettive di osservazione ad un’unità ideale, su cui si fondano l’univocità dei criteri e la stabilità del mondo. Quando c’è dissenso qualcuno sbaglia e il cambiamento è legittimo solo se corrisponde al superamento di un errore – perché nel mondo non c’è nulla di nuovo, ma solo nella prospettiva degli uomini14. Il primato della dimensione materiale, cioè, riducendo all’osservazione di primo ordine ogni ordine di osservazione più elevato,

13. La contrapposizione tra consuetudine e moda richiama sotto molti aspetti la nota distinzione di Gabriel Tarde tra “âges de coutume” e “âges de mode”. Nelle prime prevalgono l’imitazione e il prestigio degli antichi, che si vorrebbero riprodurre; le trasformazioni sono sviluppi di qualcosa di preesistente (il fiore che nasce dal gambo) e corrispondono al bisogno di rivedere e ritrovare ciò che già si conosce. Nelle età della moda, invece, si ricerca la novità, il che richiede invenzione e immaginazione; non si imitano modelli stabili, ma paradossalmente ciò che si presenta come deviante e come diverso, il che produce un circolo ricorsivo guidato della forza crescente dell’opinione pubblica; si dimentica il gambo, e interessa soltanto il fiore. Cfr. Tarde 1921, cap. VII. Per Tarde, peraltro, la moda non è specifica della modernità, ma l’alternanza tra costume e moda (per poi tornare al costume) vale per tutte le società. Tarde riconosce d’altronde che il periodo di orientamento alla moda iniziato con il Rinascimento italiano è particolarmente lungo (pp. 386ss. ed. it.). 14. Un atteggiamento che, come è noto, arriva fino a Hegel: cfr. l’introduzione alle “Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte”, ed. 1927-1940, Bd.17.

28


LE FORME PREMODERNE

garantisce stabilità nella dimensione sociale e nella dimensione temporale15. La diversità dei tempi e la diversità delle persone, naturalmente, ci sono sempre state: si distinguevano il prima dal dopo e una persona dall’altra, sapendo che ogni periodo e ogni uomo hanno le proprie caratteristiche, che li contraddistinguono rispetto agli altri. Questa diversità, però, veniva gestita con distinzioni in un certo senso indifferenti rispetto all’assetto del mondo – distinzioni che potevano essere ricondotte alla dimensione materiale perché non introducevano una diversità per così dire essenziale, ma una molteplicità di generi di “cose”, come le cose passate e future o le varie persone. Nei termini della cibernetica si può parlare di un aumento di complicazione senza crescita di complessità16, oppure con Gotthard Günther di un aumento di variabili senza un corrispondente aumento di valori logici: più termini che devono però comunque essere ricondotti alla binarietà dei due unici valori in gioco17 – positivo e negativo, o vero/falso, bello/brutto, buono/cattivo. La struttura logica rimane la stessa, e le coppie di opposti sostanzialmente equivalenti18. Nei prossimi paragrafi tenteremo di mostrare le configurazioni che ne risultavano nella dimensione temporale (II) e nella dimensione sociale (III). II. Identità nel tempo La dimensione temporale è definita dall’orientamento alla differenza prima/dopo, che può però assumere varie forme. Nella società occidentale fino al tardo Medioevo (e per diversi aspetti anche in seguito), tale differenza è stata inclusa in un una concettualità riferita allo 15. Ed è anche il motivo per cui alla consuetudine manca la potenza riflessiva della moda, che include la propria negazione. 16. Sulla differenza complessità/complicazione si veda ad esempio Atlan 1976, p. 159; 1979, p. 76; Esposito 1991. 17. Cfr.Günther 1979, p. 316; 198o, pp. 173ss. 18. Per questo, tra l’altro, il vero, il bello e il buono tendevano a convergere – secondo la nota formula.

29


ELENA ESPOSITO

spazio, e intesa come passaggio delle unità temporali dal futuro al passato. Il tempo appariva come una sorta di movimento (flusso, processo), che spostava gli oggetti in posizioni diverse del continuum temporale. Sul piano ontologico, governato dalla distinzione essere/non-essere, questo movimento restava inessenziale e non andava a intaccare l’identità di tali oggetti, che era definita altrimenti e in un certo senso precedente al tempo. Una cosa (che era) manteneva la sua identità anche se passava da uno stato di quiete al movimento e viceversa19, e se anche il tempo veniva inteso come una sorta di movimento, l’identità degli oggetti restava inalterata nel loro passaggio dallo stato futuro allo stato passato. Il tempo, in altri termini, non appariva come una dimensione autonoma, ma come un’ulteriore articolazione mondo dell’essere, definita dal primato della dimensione materiale. Ma il movimento può essere colto solo sullo sfondo di qualcosa che rimane fermo; il flusso si contrappone ad una qualche stabilità. Occorre una distinzione che consenta di osservare il tempo. Nella semantica temporale, da Aristotele in poi, si è fatto riferimento alla distinzione tempus/aeternitas, dove il tempus esprime la condizione degli uomini che si confrontano con lo scorrere del tempo, e possono coglierne solo la limitata porzione che (secondo S.Agostino) proviene dall’oscurità del futuro e recede in un’altra oscurità quando il presente diventa passato. È solo la limitatezza dei mortali che impedisce loro di contemplare la totalità del tempo, quale appare invece dalla prospettiva di Dio, il cui tempo è l’eternità, per la quale tutti gli istanti sono sempre presenti. Questo comporta che tutti gli istanti del tempo siano fondamentalmente dati con la stessa univocità degli oggetti, per cui il passato e il futuro esistono in ogni momento come insieme delle cose passate e delle cose future. Il procedere del tempo si limita a spostarne la collocazione dal futuro che cala al passato che cresce, “donec consumptione futuri sit totum preteritum”20.

19. Cfr. Luhmann 1997, p. 1012. 20. Sant’Agostino 396-398, Confessiones, XI.XVII.

30


LE FORME PREMODERNE

Questa concretezza ontologica del tempo ha notevoli conseguenze pratiche. Se il passato è in un certo senso un dato per ogni presente, trovando le forme appropriate è possibile anche modificarlo – ad esempio i peccati possono essere rimessi con la confessione e il pentimento. Lo stesso per il futuro, che può essere determinato nel presente, ad esempio nella forma della profezia. Diversamente alla prognosi, la profezia che non si realizza non perde il suo valore, ma sposta in avanti il suo adempimento, che non per questo diventa meno certo21. Si tratta di forme di gestione del tempo che di fatto lo annullano, perché si basano su determinazioni che non dipendono da esso e non vengono costruite con il suo apporto. E naturalmente, da questo punto di vista, nulla, se non le limitate capacità umane, si opponeva in via di principio alla conoscenza delle cose passate e delle cose future, come di fatto veniva realizzata negli spiragli che la divinazione apriva alla visione dell’eternità (e che si poteva rivolgere tanto al passato quanto al futuro; si trattava in entrambi i casi di fasci di luce nell’oscurità di settori nascosti). Le differenze e la varietà del mondo, quindi, erano in fondo inessenziali e potevano essere ricondotte all’unità della prospettiva divina. Il modello applicato anche nel caso del tempo era quello dell’emanazione, dalle Enneadi di Plotino: un’unità che produce dal suo interno la differenza tra unità e molteplicità. La varietà, allora, deriva in fondo da un’alterazione di una perfezione iniziale, a cui dovrebbe comunque essere ricondotta22, e il dispiegamento del tempo riproduce l’articolazione dell’ontologia. L’unità di fondo è l’origine, in senso materiale prima che in senso temporale: non tanto ciò che sta

21. Cfr. Koselleck 1979, p. 29-30. 22. Cfr. Günther 1967. Secondo Günther le forme di temporalità risultano sempre da una commistione tra elementi emanativi ed elementi evolutivi, a cui vanno ricondotte rispettivamente ripetizione e varietà (espresse nella formalizzazione logica dal numero delle variabili e dal numero dei valori logici disponibili). Un minimo di ripetizione è necessario per avere varietà e viceversa, e con l’aumento di un aspetto cresce la possibile articolazione del secondo. Qui prescindiamo per ora da queste considerazioni.

31


ELENA ESPOSITO

all’inizio, ma soprattutto ciò da cui discendono e a cui vanno ricondotte tutte le distinzioni. Ne deriva che nel corso del tempo non si genera nulla di nuovo: il cambiamento è solo una variazione ignota di una melodia già nota. Anche da questo punto di vista la costituzione del tempo deve essere ricondotta alla limitatezza della condizione umana, a cui non può essere rivelato tutto in una volta. Il corso del tempo è necessario per realizzare un processo di graduale svelamento del vero, che inizialmente è ancora celato e si dispiega progressivamente. La storia del mondo non è allora che una graduale apparizione di ciò che c’era fin dall’inizio: una forma di teofania. Il progresso in questo senso è compatibile con la mancanza di cambiamento: una crescita al proprio interno, che non implica la trasformazione in qualcosa di diverso. Il lavoro degli storici, fino al tardo Medioevo, non era realmente rivolto al tempo, ma costituiva un’ulteriore variante del pensiero metafisico: il cambiamento delle cose veniva valutato sub specie aeternitatis, cioè senza ricercare relazioni causali tra gli eventi, ma nell’intento di assegnare a ciascuno di essi un posto (in senso topologico) nello spazio che va dall’inizio del mondo all’apparizione dell’Anticristo23. L’interesse degli storici non andava allora alla storia intesa come sequenza di particolarità irripetibili; si concentrava invece sugli aspetti esemplari (e in quanto tali astorici), su ciò che nella contingenza dell’evento consentiva di risalire ad una legge generale, che poteva valere anche per altre circostanze e dava accesso ad una verità sempre valida (cioè atemporale)24. In questo quadro, evidentemente, il nuovo costituiva un problema non facile da risolvere. L’impianto ontologico, governato da una rerum veritas, non lasciava spazio 23. Cfr. Spörl 1930, p. 498ss. Il lavoro storico si avvicinava ad una sorta di classificazione, nel senso di una descrizione sistematica che assegnava ad ogni cosa il suo posto, e ricorreva, quando questo non era possibile, a categorie residuali come mostri e degenerazioni. L’atteggiamento rimane fino ai tempi della nomenclatura all’inizio dell’Ottocento. 24. Cfr. von Moos 1988, pp. 503ss.

32


LE FORME PREMODERNE

ad alcuna novità autentica, nemmeno nell’ambito della conoscenza: o si trattava di riportare alla memoria cose trascurate o dimenticate, oppure la novità era semplicemente falsa. Gli antichi, infatti, godevano di un’autorità che ancora una volta non era di tipo cronologico ma di tipo spaziale: erano più vicini alla verità non perché fossero venuti prima ma perché erano più vicini all’unità iniziale. Il processo conoscitivo, da questo punto di vista, andava in direzione opposta al dispiegarsi del tempo: il progresso, semmai, andava all’indietro. Reformatio equivaleva a recreatio o regeneratio25. La novità, allora, poteva solo essere un vizio da condannare, una mancanza di per sé, indipendentemente dal suo contenuto. La novità corrispondeva alla deviazione da ciò che era corretto, cioè ad un disturbo da eliminare, e il concetto aveva un riferimento normativo prima che temporale: le cose che appartenevano cronologicamente alla “nostra aetas” non dovevano per questo necessariamente essere “nuove” – potevano anche essere giuste26. Il baricentro stava anche in questo caso nella dimensione materiale, che privilegiava la conformità e l’uniformità. L’innovatore veniva condannato tra l’altro anche in quanto “singularitatis amator”, rivolto al particolare anziché al generale. Per tutto il Medioevo il nuovo era temuto e disprezzato, come fonte di inutile inquietudine e distrazione dalla verità27. In ciò che era corretto, come nella Bibbia, si riteneva non ci fosse nulla da aggiungere o da modificare. Ancora Montaigne rifiuta la novità, qualsiasi aspetto assuma, in quanto rovinoso sconvolgimento dell’ordine dato, che andrebbe rafforzato e non rinnovato28. Questo rifiuto aveva a che fare senz’altro anche con l’imposta-

25. “Von den Vorfahren ist alles vortrefflich geordnet; nicht neues kann mehr geschaffen werden; ja Gott haßt die Neuerer” (I nostri predecessori hanno ordinato tutto in modo eccellente; non si può più creare niente di nuovo; e Dio infatti odia gli innovatori): Adelmann von Lüttich, fine del XII secolo, citato in Spörl, p. 307. 26. Cfr. Freund 1957, p. 15 27. Cfr. anche Graus 1987. 28. Montaigne 1580-1588, I.XIII; la contrapposizione tra rafforzamento dell’ordine e rinnovamento è diametralmente opposta al moderno atteggiamento riformatore.

33


ELENA ESPOSITO

zione della memoria in epoca premoderna, fondata ancora prevalentemente sulle forme dell’oralità formalizzate nell’ars memoriae e operazionalizzate nella retorica. Il baricentro della memoria era ancora nettamente nella capacità di ricordare e la dimenticanza equivaleva semplicemente a perdita o corruzione; fino all’imporsi di una semantica compiutamente fondata sulla comunicazione scritta (cioè dopo la diffusione della stampa) era impensabile la valorizzazione della dimenticanza che si esprimerà più tardi nel rifiuto della pedanteria e nella ricerca della varietà. Lo si vede chiaramente in S.Agostino, che nel X libro delle Confessioni contrappone la curiositas alla memoria, e per questo la condanna: mentre la memoria si rivolge all’interiorità e mira alla conoscenza (come ricordo) dell’essenza, la curiositas si orienta all’esteriorità ed espone all’eccesso di stimoli delle affezioni del mondo. Chi ricerca la novità, quindi, si distoglie dal ricordo, che è l’unica via per giungere al vero29. III. Identità sociale La dimensione sociale si basa sulla differenza Ego/Alter-Ego, cioè sulla circostanza, fondamento del sociale, per cui ciascuno si confronta con dei partner comunicativi ai quali riconosce, come a se stesso, una propria prospettiva sul mondo – con l’ulteriore implicazione che tale mondo comprende anche l’osservatore di partenza. La dimensione sociale, quindi, ha a che fare con la molteplicità delle prospettive delle diverse persone, e presenta inevitabilmente un qualche grado di riflessività. Il punto cruciale, in questo come negli altri casi, è se tali differenti prospettive osservano da punti di vista diversi un mondo che rimane lo stesso o se osservano ciascuna un proprio mondo, che dipende dalla prospettiva di partenza. Nel primo caso la situazione può e deve essere ricondotta all’unità: un’unità che riconosce la diversità delle prospettive senza concedere una differenza di

29. Confessiones, X.XXXV. Su quest’interpretazione e sull’evoluzione storica della curiositas cfr. Blumenberg 1988.

34


LE FORME PREMODERNE

fondo, in quanto la coerenza del quadro viene garantita dalla stabilità ontologica degli oggetti, che sono quelli che sono indipendentemente dall’osservatore o dagli osservatori. Il problema è la sincerità, propria e altrui, che consente in linea di principio una perfetta trasparenza delle persone e del mondo: di una persona sincera si può scorgere il “fondo del cuore”30. Ancora una volta il primato della dimensione materiale assorbe la contingenza e garantisce la stabilità anche nella dimensione sociale. In linea di principio ci si potrebbe sempre mettere d’accordo, perché esiste una posizione che ha ragione e se qualcuno la detiene dovrebbe riuscire a convincere gli altri. Sono gli ostacoli che si frappongono al suo riconoscimento ad essere contingenti, e non la realtà di per sé. Sembra che in epoca premoderna l’osservazione degli altri fosse guidata da strutture di questo genere, e quindi da una forma di osservazione di primo ordine – che ammetteva evidentemente la molteplicità degli osservatori, i quali potevano essere a loro volta osservati, ma non in quanto centri di osservazione autonomi. L’aumento degli osservatori faceva crescere la complicazione, non la complessità del mondo – la sua articolazione, non la sua contingenza. I soggetti, nella ricostruzione di Gotthard Güther, in un quadro bivalente venivano osservati solo come un tipo specifico di oggetti31. Questo garantiva l’univocità del mondo. Ma che tipo di diversità ne risultava? Non bisogna infatti pensare ad un’uniformità delle persone e del modo di trattarle nelle società premoderne. Tutte le società hanno riconosciuto la particolarità degli individui, ciascuno con un proprio nome, una biografia, aspetto e caratteristiche diverse da quelle degli altri. Anzi, nelle società fondate prevalentemente sull’interazione tra presenti, le caratteristiche del partner avevano un ruolo molto maggiore di quello attuale nell’orientare la comunicazione: la sua reputazione, la sua affidabilità, il suo

30. Cfr. Papàsogli 1991. Questo, tra l’altro, neutralizza la circolarità della doppia contingenza, che si riduce a un problema di precedenza temporale. 31. Cfr. ad esempio Günther 1962.

35


ELENA ESPOSITO

modo di atteggiarsi assumevano una rilevanza e un valore informativo ben più elevati di quanto abbiano nella maggior parte delle nostre comunicazioni32 – che spesso sono anonime e a distanza, e in altri casi (come l’acquisto di un prodotto) sono interazioni guidate da considerazioni (il prezzo) indipendenti dall’interlocutore (il cassiere). La differenza non sta quindi, come erroneamente si potrebbe pensare, nel riconoscimento o meno delle particolarità individuali, ma nella loro attribuzione: all’individuo stesso o a fattori esterni. Mentre oggi l’individualità viene ricondotta all’unicità e alla singolarità della prospettiva di ciascuno, che fonda quindi in se stesso la propria particolarità, le società precedenti non avevano un concetto e nemmeno un posto (topos) per collocare l’idiosincrasia33. La retorica, che costituiva la struttura di fondo della semantica, si interessava ai casi singoli solo in quanto esempi – solo cioè come spunti per possibili generalizzazioni che dal caso in questione andavano a interessare una varietà di altri casi comparabili. La concretezza della singolarità non aveva nessun interesse, proprio nel senso che non se ne poteva trarre alcuna informazione: che cosa si poteva imparare dall’aspetto singolare (e quindi irripetibile) di un caso individuale? Il modello paradigmatico dell’esempio individuale era l’eroe, che costituiva il riferimento per l’ammirazione (non necessariamente per l’emulazione), e che veniva descritto senza nessun accenno di quello che oggi apparirebbe uno scavo psicologico. La struttura del modello era incompatibile con l’introspezione: l’eroe consapevole (o peggio ancora desideroso) di essere un eroe non vale più in quanto tale. L’eroe non doveva riflettere su se stesso e sui propri motivi, e la sua presentazione doveva prescindere da tale riflessione – era definito dal suo comportamento34.

32. Luhmann 1989b fa notare che questo portava anche ad un eccesso di attribuzione alle persone, come si vede nelle streghe e nei maghi. 33. Cfr. Luhmann 1989b, p. 175. 34. Cfr. Trilling 1974, p. 84; Luhmann 1985.

36


LE FORME PREMODERNE

L’individualità del singolo non dipendeva da lui, ma veniva ricondotta alla natura nel senso letterale di individuum come qualcosa di indivisibile35. Ciascuno, quindi, era individuo fin dalla nascita, e le forme dell’individualità dipendevano semmai dalle condizioni di tale nascita. L’individualità di per sé, però, era un dato di fatto che non poteva essere modificato o incrementato. Era sempre già data, e anche per questo non meritava di essere oggetto di particolare attenzione. Chi cercava di distinguersi per la sua unicità peccava di “affection de singularitè”, che appariva come una forma di vanità e di vuota ammirazione di sé36. In questa condizione uniforme di “individualità naturale”, la differenza delle persone dipendeva non da fattori interni (che a questo livello erano appunto uguali per tutti), ma da condizioni esterne come la nascita, la famiglia, la nazione e poi le gesta compiute: tutti fattori che consentivano di localizzarle socialmente e di sapere come comunicare con loro. Se ne ricavavano le qualità morali e le aspettative di comportamento. L’individualità non era, come oggi, qualcosa di oscuro e imprevedibile (per la sua spontaneità, incostanza e intrasparenza) ma piuttosto il fondamento della possibilità di conoscere e prevedere l’interlocutore. E soprattutto l’individualità si otteneva inserendosi in un ordine sociale già dato, e non distinguendosi da esso per le proprie caratteristiche irripetibili. L’individualità si otteneva tramite inclusione nella società, e non tramite esclusione da essa – adattandosi e consentendo la costruzione di aspettative, e non deviando. Stranieri o vagabondi, non avendo una collocazione nella società, non avevano nemmeno un’individualità e questo non consentiva di disporre di alcuna regola di comportamento nei loro confronti. Ma da dove ricavavano questi individui le indicazioni per dirigere il loro comportamento, se non dall’indagine della propria interiorità e dei propri motivi? Da dove

35. Cfr. Luhmann 1889b, p. 175 36. Lo stesso argomento che sul piano temporale, come abbiamo visto sopra, portava a condannare l’innovatore perché “singularitatis cupidus”.

37


ELENA ESPOSITO

traevano aspirazioni e vincoli? Nelle “âges de coutume”, secondo Tarde, prevaleva l’imitazione dei modelli antichi, che fornivano l’orientamento anche per il presente37. Ancora una volta, però, la nozione va intesa in modo differente da quello per noi familiare: l’imitazione non coincideva affatto con uno sterile copiare, e non si contrapponeva alla creatività e all’inventiva. Anzi, l’individualità nel senso presentato sopra si esprimeva soprattutto nell’imitazione – perché si trattava come abbiamo visto di un’individualità rivolta all’esterno, e ricavata anche dal riferimento ai modelli illustri. Imitare, peraltro, non era soltanto copiare senza un contributo proprio, ma rappresentava una forma specifica di creatività, che non coincide evidentemente con la nostra idea di spontaneità e di produzione del nuovo38. Nell’imitazione non si riproduceva esattamente il modello e non ci si confrontava primariamente con l’autore di riferimento, che rappresentava piuttosto un supporto accidentale in direzione di ciò che veramente contava: il tentativo di avvicinarsi alle forme ideali e possibilmente di renderle visibili. Si trattava sempre in fondo di imitazione delle idee, e non di imitazione di qualcuno, e in questo tentativo il contributo individuale era sempre autonomo39. Imitando un autore, di fatto, si imitava la sua imitazione delle idee – in un’impostazione che nello stesso tempo confermava e contraddiceva la teoria platonica della mimesis, punto di partenza di tutta la problematica dell’imitazione. Platone, infatti, rifiutava la mimesis nel senso di quel tipo di imitazione in cui ci si identifica con un altro per la parola o per i gesti, perché questo porterebbe ad assumere una prospettiva estranea, distraendo dall’univocità dell’uomo virtuoso, rivolto esclusivamente alla ricerca della verità40. Per lo stesso motivo condannava la poesia 37. Cfr. Tarde 1921, cap. VII. 38. Cfr. ad esempio Burke 1993, p. 12 introduzione ed. it.; Mortier 1982. 39. Un atteggiamento che notoriamente si ritrova ancora in Pascal 1670, 568: “Ce n’est pas dans Montaigne, mais dans moi que je trouve tout ce que j’y vois”. 40. Repubblica, 393 ff.

38


LE FORME PREMODERNE

imitativa, perché allontana dalla verità e dall’essere41, e ammetteva solo la forma di mimesis che mira a rappresentare la verità del reale, cioè le idee. A partire dal periodo ellenistico la mimesi cambia apparentemente di oggetto: non si rivolge più alla natura ma invece alla riproduzione di alcune opere esemplari da cui si traggono delle regole che orientano il proprio lavoro. Dall’imitazione della natura si passa all’imitazione degli auctores. Lo spostamento di interesse, peraltro, è più apparente che reale, perché l’imitazione della natura, come abbiamo visto, non significava mai riproduzione dei dati così come si presentano direttamente all’esperienza, con la loro mescolanza di alto e di basso, i loro difetti e le loro imperfezioni. L’imitazione era sempre “imitazione che corregge” o imitazione della “bella natura”, che depurava la realtà dagli aspetti fuorvianti e volgeva l’attenzione all’essenziale, aldilà delle apparenze. L’imitazione, quindi, era orientata ad un’ideale di perfezione, non sempre evidente e spesso difficile da cogliere e da raggiungere. In questo arduo percorso, l’individuo poteva servirsi dell’apporto di altri autori, che prima di lui avevano già intrapreso quel tentativo. Anzi, data la loro maggiore vicinanza all’origine nel senso spaziale presentato sopra si poteva ritenere che gli autori antichi avessero già raggiunto la perfezione, e allora l’imitazione si riduceva ad una variazione del loro modello – ma ciò non toglie che l’oggetto di attenzione non fosse comunque l’autore imitato, la cui individualità, come abbiamo visto, non poteva nemmeno essere concettualizzata, ma l’ordine ideale che con il suo aiuto si aspirava ad attingere. Il contributo attivo dell’imitatore era fondamentale: “La bonne imitation est une continuelle invention”42. L’imitatore deve innanzitutto saper scegliere i propri modelli – il che, si sostiene ancora nel Settecento (cioè dopo

41. Repubblica, 597. 42. La citazione, sorprendentemente, è dalla voce “Imitation” delll’Encyclopédie, redatta da Diderot (1765) – a riprova della persistenza dell’idea della creatività dell’imitazione anche dopo il rifiuto, iniziato nel Rinascimento, dell’orientamento agli auctores.

39


ELENA ESPOSITO

l’introduzione dell’idea moderna di individuo), non contraddice l’originalità, ma consente di ampliare l’immaginazione, ispirare il gusto, ed estendere il genio43. L’imitazione è la base della “copia” intesa nel senso latino di abbondanza44 – cioè di una ricca disponibilità di temi e di figure. L’originalità dell’autore non sta quindi nel non avere modelli, ma piuttosto nell’averne molti, perché il suo talento si mostra nella capacità di raccogliere e organizzare la ricchezza di rimandi che ne può ricavare – sempre sulla strada di una migliore chiarificazione della verità di fondo45. Solo chi ha tanti modelli, allora, può diventare egli stesso un modello. “Qui n’imite point (…) ne sera jamais imité”46. Questo, tra l’altro, spiega l’assunto, da Aristotele in poi, che l’imitazione procuri piacere47: l’imitazione dà gioia perché lo spettatore riconosce l’oggetto rappresentato e nel stesso tempo vi coglie il suo aspetto più elevato. L’autore lo accompagna per una strada facilitata verso il riconoscimento di un’essenza difficile da raggiungere. IV. Estensione della moda Dal rifiuto secolare della novità, del cambiamento e della singolarità, si passa nel Seicento ad una “âge de mode” che dura ancora oggi. La parola stessa nasce in quel periodo, quando all’inizio del secolo si inizia a usare il termine femminile “la mode” oltre al maschile “le mode” e il termine “fashion” si sovrappone al vecchio concetto di “Machart”48. Al modo di fare le cose si aggiunge la possibilità di farle alla moda.

43. Cfr. ancora la voce “Imitation” di Diderot. 44. Cfr. Cave 1979. 45. In questo senso può essere intesa anche la famosa affermazione di Pascal 1670, n.575. “Qu’on ne dise pas que je n’ai rien dit de nouveau: la disposition des matières est nouvelle”. 46. Luis Racine, di nuovo alla metà del Settecento, citato in Mortier 1982, p. 61. 47. Aristotele, Poetica, 1448 b 4. 48. Luhmann 1986, p. 653.

40


LE FORME PREMODERNE

Il concetto di moda del Seicento era però ancora un po’ diverso da quello di oggi, soprattutto per la sua estensione. Non era considerato infatti come un fenomeno tutto sommato superficiale e limitato ad un ambito apparentemente secondario come l’abbigliamento, ma veniva usato in un’accezione ampia e drammatizzata, che andava a interessare un sentimento di fugacità e di transitorietà riferito a tutti gli ambiti della vita: “le goût, le vivre, la santé et la conscience”49. La moda indicava che medicine usare, che tipo di carne apprezzare, i sentimenti da provare e il modo di manifestarli, se portare la parrucca, la foggia dell’abito e anche l’atteggiamento nei confronti della religione: “tout se règle par la mode”50. Non solo: anche i criteri, anche le categorie con cui affrontare il mondo (e la moda) risentivano della moda: “Perfino il sapere deve seguire la moda; e dove non è di moda bisogna sapersi fingere ignoranti”51, “Comme la mode fait l’agrément aussi fait-elle la justice”52, e anche “per l’eccellenza c’è una moda”53. Il fatto che in tutti questi ambiti non valessero più delle regole stabili veniva interpretato come un’irruzione della contingenza; si tendeva a equiparare la rinuncia alla stabilità temporale alla rinuncia alle regole in generale. Secondo la semantica orientata alla dimensione materiale che abbiamo visto sopra, infatti, la mancanza di uniformità sociale e temporale corrispondeva direttamente alla mancanza di ordine – perché l’ordine in quella accezione, se esisteva, doveva essere eterno e uguale per tutti. Ma la moda cambia con il tempo e lascia anche uno spazio prima impensabile all’originalità individuale, e questo appare inizialmente come il rifiuto di ogni specie di ordine; in un opuscolo del 1617 dal fatto che “chacun se donne cette authorité de s’habiller comme il lui plait” si trae la conseguenza che “Aujourd’huy tout est confusion, tout est permis à tous”54. Osservare la dimensione mate49. La Bruyère 1688b, XII,1. 50. La Bruyère 1688b, XII,16. 51. Gracián 1647, n.120. 52. Pascal 1670, n.95. 53. Gracián 1647, n.20. 54. Cfr. Godard de Donville 1978, pp. 74-76.

41


ELENA ESPOSITO

riale non è più sufficiente per osservare l’ordine delle cose, che si realizza in un intreccio prima inedito fra le diverse dimensioni del senso. La moda, quindi, acquisiva un’estensione sconfinata, non solo perché riguardava ogni settore della vita e ogni pensiero e sentimento, ma perché interessava anche il modo di regolare la vita e i pensieri. Grenaille, nello scrivere un trattato sulla moda, ambisce ad offrire “une description generale de nostre siecle”, proprio perché il suo carattere fondamentale è dato dalla novità e dal cambiamento55. Anzi, questo carattere scoperto di recente rappresenta presumibilmente una caratteristica del mondo in generale, e quindi la mancanza di ordine non riguarda solo la società, ma va ad assumere connotazioni cosmiche. Per Fitelieu, nello stesso periodo, “tout l’Univers se ressent de la Mode”56, e la tendenza non appare affatto positiva. All’inizio del Seicento era praticamente un luogo comune, accettato diffusamente, rappresentare la moda come una divinità, figlia di Saturno o del cambiamento57 – un’immagine che mantiene a lungo la sua efficacia, e che si ritrova anche in Mallarmé: “La Mode est la déesse des apparences”.

55. Cfr. Grenaille 1642, p. 1. 56. Cfr. Fitelieu 1641, pp. 17-18. 57. Cfr. Godard de Donville 1978, pp. 19 ss., con molti esempi e materiali.

42


Capitolo 3 Contingenza epidemica

I. I modi della contingenza Verso l’inizio del XVII secolo, secondo la nostra ipotesi, la moda irrompe nella semantica europea in connessione con una trasformazione del senso della contingenza, che ne fa apparire per la prima volta la problematicità e il potenziale destabilizzante – che richiederanno soluzioni aggiornate per ritrovare una forma di equilibrio. Non che la contingenza non ci fosse in precedenza: nella teoria modale il senso di ciò che non è né necessario né contingente è stato notoriamente individuato e concettualizzato già nella Grecia antica. Aristotele, si sa, ha affrontato nella famosa trattazione de futuris contingentibus anche la questione della collocazione del contingente all’interno di una semantica bivalente: che valore di verità si deve attribuire ad un enunciato che riguarda fatti futuri, e in quanto tali inconoscibili (ad esempio il verificarsi di una battaglia navale)?1 La risposta costituisce la tipica eccezione che conferma la regola: il valore di tali enunciati deve restare indeterminato – ma non perché si riconosca un’autentica indeterminatezza (incono1. Aristotele, De Interpretatione, 9.

43


ELENA ESPOSITO

scibilità di fondo), ma semplicemente perché è “provvisoriamente” impossibile conoscere il corso degli eventi. Il procedere del tempo, peraltro, provvederà ad eliminare l’indeterminatezza e ad assegnare a ciascun enunciato il relativo valore di verità. L’indeterminatezza, ancora una volta, è una conseguenza della posizione e dei limiti dell’osservatore, ma non è tale in assoluto e non è tale per un osservatore divino, che essendo contemporaneo a tutti i tempi non avrebbe difficoltà a sapere in ogni momento che cosa è vero e che cosa no. Ogni enunciato ed ogni stato di fatto, di conseguenza, è univocamente vero o falso, a prescindere dalla nostra capacità di saperlo e a prescindere dal momento e dalla persona dell’enunciazione. Ancora una volta ritroviamo la riduzione della dimensione sociale e della dimensione temporale alle determinazioni univoche della dimensione materiale. La contingenza, nella prospettiva classica, era sì nota, ma non creava alcuna difficoltà di determinazione e non costituiva un problema. La nozione di moda si origina in questo contesto di teoria modale, ma assume delle connotazioni differenti. Il termine femminile “la mode” viene come abbiamo visto dal maschile “le mode”, cioè dal latino modus, che indica in generale “il modo di essere di qualcosa”2. Essenziale per l’accezione antica e medievale di modus era la caratteristica di accessorietà: si tratta di un modo di essere che fa riferimento a qualcos’altro, il quale funge da assoluto in rapporto alla relatività del modus3. Per questo si può intendere anche come un modo di essere eventualmente mutevole e, nel senso della tarda scolastica, come l’identità di qualcosa che cambia. Il modus non riguarda l’essenza ma determinazioni esteriori come la collocazione nello spazio e nel tempo, che non vanno a interessare la natura dell’essere, né le sue qualità o attributi. La contingenza, o quel che più assomiglia ad essa, non riguarda le qualità primarie, ma solo le qualità se-

2. “die Art und Weise, von etwas zu sein”: cfr. voce “Modus” in Ritter/Gründer 1984. 3. Cfr. S.Tommaso, Summa teologiae, 6,11,90b: “Modus est adjacens rei determinatio”.

44


CONTINGENZA EPIDEMICA

condarie mutevoli, e non ha quindi una sua indipendenza4. Queste determinazioni mutevoli rimandano alle qualità permanenti, alle quali conviene rivolgersi. Mutevoli come i modi sono anche le fogge dell’abbigliamento e le tendenze del comportamento, ai quali dal XVII secolo si applica il termine derivato di “la mode”5. Nella nuova accezione, però, il concetto modale rivela una duplicità da cui deriva l’indeterminabilità che accompagnerà tutta la storia della nozione. La definizione di moda nel Dictionnaire di Furetiére del 1690 oscilla dalla variabilità sociale (“Manieres de vivre bien differentes”, come quelle dei libertini, che “veulent vivre à leur mode”) alla variabilità temporale e spaziale (“tout ce qui change selon les temps et les lieux”). La duplicità e l’ambiguità della moda nel Seicento dipendono in primo luogo dalla confusione tra diversità e cambiamento: diversità delle persone (per cui quando non c’è una norma cogente ciascuno vuole fare “a modo suo”, introducendo proprie varianti al costume) e cambiamento nel tempo (per cui le norme e queste stesse varianti cambiano da un momento all’altro). Nel Seicento non è chiaro se la moda riguardi queste idiosincrasie individuali (la nuova tendenza alla valorizzazione della singolarità) o l’inedita ricerca del cambiamento come fonte di validità e non come variazione accidentale. Probabilmente, come vedremo, le due fonti di variabilità non compaiono per caso nello stesso periodo, e derivano entrambe dalla dissoluzione della compattezza ontologica del cosmo medievale. Nella prima modernità, però, non era ancora stata perfezionata l’alleanza tra dimensione temporale e dimensione sociale che consentirà di controllarle entrambe. La conseguenza è il senso barocco della mancanza assoluta di un ordine del mondo e dei pensieri. L’affinità tra moda e barocco è stata rilevata più volte6, ed in effetti ci sono molti tratti che li accomunano e che inducono a

4. Cfr. Descartes, 1642, I. 56. 5. Cfr. voce “Mode” in Ritter/Gründer 1984. 6. Cfr. Placella Sommella 1984, p. 49; Saisselin 1993; Link-Heer 1998.

45


ELENA ESPOSITO

pensare a qualche forma di parentela: la legittimità della pura apparenza, sganciata dal suo rapporto con l’essere, l’interesse per il cambiamento e la variazione, per l’ornamento e l’artificio, oltre naturalmente alla vicinanza ai paradossi. Ciononostante moda e barocco non coincidono e fanno capo a impostazioni semantiche differenti. Gli stessi tratti che li accomunano vengono intesi in maniera significativamente diversa, che vale la pena di indagare più a fondo. Per far emergere la raffinata (e normativa) gestione delle apparenze tipica della moda occorreva presumibilmente passare per un’epoca di autonomizzazione incontrollata delle apparenze, che segnasse e per così dire metabolizzasse il distacco con l’impostazione della retorica e della semantica classica. La nostra ipotesi è che il periodo barocco abbia rappresentato questo tipo di epoca, che ha consentito poi di passare alla normalizzazione della contingenza caratteristica della società moderna (sul piano temporale e sul piano sociale). Le caratteristiche della semantica barocca discendono dalla dissoluzione dell’impianto compatto dell’ontologia e dall’irruzione della contingenza nella dimensione sociale e in quella temporale, che si intrecciano in forme variamente articolate. Anziché sostenersi e vincolarsi reciprocamente nelle alleanze che vedremo nel periodo successivo, però, i due livelli di contingenza si rimandano a vicenda e si rispecchiano l’uno nell’altro, in una continua oscillazione che risulta impossibile da controllare. Il predominio delle apparenze si presenta allora come predominio del disordine e della sregolatezza, che sembra possibile superare solo recuperando qualche forma di necessarietà. La moda, invece, realizzerà una soluzione diversa – un controllo contingente della contingenza. II. Il barocco e le apparenze Il barocco è un’epoca di paradossi e di instabilità, che si rivela tale già al tentativo di darne una definizione. È notoriamente molto difficile definire il barocco, e questo proprio perché ogni determinazione implica il proprio opposto – scivolando così essa stessa nel para46


CONTINGENZA EPIDEMICA

dosso7: è rifiuto regolamentato delle regole, tendenza naturale all’artificio, imitazione della spontaneità, tecnica dell’improvvisazione, serissima frivolezza, stabilizzazione della transitorietà. È anche estremamente controverso stabilirne il lasso temporale: c’è chi lo colloca nella seconda metà del Cinquecento, chi dal 1520 al 1650, chi dal 1580 al 1670. Queste difficoltà, per quanto rilevanti, per fortuna non ci riguardano: quel che qui ci interessa è soltanto isolare i tratti di quella che ci sembra essere una tipica semantica di transizione verso le soluzioni che si stabilizzeranno nella modernità, di cui la moda ci sembra essere la rappresentante. Nella prospettiva della teoria della società i problemi di periodizzazione si riconducono al cambiamento delle strutture della società e in primo luogo della sua forma di differenziazione primaria, con la possibilità di variazioni anche notevoli nei diversi sistemi parziali8. Ma quali sono i tratti del barocco che ci interessano in riferimento alla nostra questione della moda? In primo luogo, lo abbiamo già anticipato, una sorta di ebbrezza (in positivo e in negativo) per la nuova libertà che risulta dalla rottura della relazione classica tra apparenza e realtà. Le apparenze, in precedenza, erano intese semplicemente come un’espressione della sostanza e l’inganno sorgeva solo quando ci si appropriava di apparenze non corrispondenti alla realtà sottostante – ma non nella mancanza di tale realtà. La possibilità di un puro gioco di rimandi tra apparenze sorge solo nella prima modernità, senza disponibilità di forme semantiche che potessero governarlo e limitarlo9. Di qui, per tutta l’età barocca, una sperimentazione in qualche modo selvaggia

7. Cfr. Schulz-Buschhaus 1985, con vari esempi; Warnke 1972; Panofsky 1924; Hocke 1977. Questa difficoltà include anche la distinzione terminologica tra barocco e manierismo, in cui non ci addentriamo. 8. Cfr. il contributo di Luhmann alla discussione del gruppo “Poetik und Ermeneutik” sulle difficoltà concettuali della definizione di soglie tra le epoche: Luhmann 1987. 9. Cfr. ad esempio Gracián 1647, n.99: “Le cose non si considerano per quel che sono, ma per quel che appaiono (…). Non basta aver ragione se l’apparenza lascia intravedere la malizia”.

47


ELENA ESPOSITO

delle possibilità di combinazione della mera apparenza, che può dare l’impressione di superficialità. In realtà questa sperimentazione nasconde una consapevolezza tragica della perdita di un riferimento stabile. Barocco e manierismo ricercano stranezze e impossibilità, prodigi e forme innaturali: si moltiplicano le “grottesche”, le figure mostruose e quelle risultanti da miscugli tra esseri umani, animali e piante, o anche immagini ingannevoli prodotte con l’accostamento di oggetti diversi (frutta, ortaggi, animali, libri o altro, sul modello di Arcimboldo). Si indagano apparenze alle quali non può e non deve corrispondere alcuna realtà, come nel caso delle anamorfosi o prospettive distorte e dei trompel’oeil. Si iniziano a distinguere, nelle opere d’arte, la composizione (legata alle buone proporzioni) dalla mera decorazione, che diventa un’aggiunta inessenziale (nel senso classico di modus), con una certa indipendenza dall’essenza dell’oggetto. Di qui anche l’“epidemia ornamentale”10 che si diffonde nell’età barocca: un gioco folle con le forme in cui tutto può essere paragonato con tutto e associato ad ogni altra cosa, senza rispetto per alcuna regola se non quelle superficiali della combinazione della apparenze. L’epidemia ornamentale si associa non a caso alla “paradoxia epidemica”11 che dilaga nello stesso periodo: il barocco privilegia enigmi e paradossi, forme irrisolvibili che manifestano l’autonomia dell’intelletto e della fantasia rispetto alla corrispondenza con il reale. Come i mostri, anche i paradossi, “prodigi della verità”12, manifestano un’impossibilità in forma plausibile: sembrano come quelli corrispondere ad una realtà effettiva ed essere enunciati dotati di significato, mentre rimandano solo a se stessi in una inarrestabile oscillazione di apparenza in apparenza – non possono essere veri né falsi, e restano mere espressioni verbali – o enigmi. La loro rilevanza non va cercata nel rapporto con la realtà, ma nel rapporto con l’ascoltatore. 10. Hocke 1977, p. 340 ed. it. 11. Cfr. Colie 1966. 12. Cfr. Graciàn 1648, XXIII. Graciàn, però, mette in guardia anche da un uso eccessivo dei paradossi, come vedremo tra poco.

48


CONTINGENZA EPIDEMICA

In questo girotondo di inganni non può sorprendere il fascino per il travestimento tipico del barocco: un uso delle maschere che non presupponeva più le distinzioni di ceto dei periodi precedenti, e non rimandava ancora necessariamente all’intenzione esplicita di nascondere i propri reali sentimenti (individuali) – il motivo per cui l’Illuminismo rifiuterà le maschere. Nell’Astrée, ad esempio, che è ancora governata dai criteri della nobiltà, a cui si rivolge e di cui tratta, il travestimento e l’inganno diventano però oggetto di riflessione – mostrando che l’identità delle persone sta diventando in parte indipendente dalla collocazione di status: si avverte che l’identità può essere simulata13. Si scopre la convenzionalità (e quindi la contingenza) dell’abbigliamento, senza che fossero ancora disponibili regole per governarla. Anche il mascheramento era allora una sorta di sperimentazione, per verificare e mostrare come fosse facile scambiare un’identità con un’altra, fino a constatare che il vero volto era esso stesso una maschera (o funzionava come una maschera) e non si capiva più quale fosse l’identità autentica. A volte il travestimento rivela la verità: è solo mascherandosi che si diventa se stessi, perché l’uso della maschera libera la vera natura del mascherato o perché svela i veri rapporti tra gli individui. Esemplare anche a questo proposito è il teatro di Shakespeare, sempre giocato sulla precarietà e il dubbio: nella Comedy of Errors (II,2) uno dei due Antiphobus lamenta: “… I am to myself disguised”14; in The Winter Tale, ciò che sembra diventa ciò che è – e moltissimi altri esempi. Al disotto della maschera, allora, c’è solo un’altra maschera, e il tentativo di smascheramento si ripercuote su chi lo vuole compiere, smascherando a sua volta il suo inganno: come avviene in Don Chisciotte con un continuo gioco di apparenze, che non porta alla fine alla rivelazione della verità, ma solo alla riflessività dell’inganno15. Tutti i volti sono

13. Cfr. Elias 1969, cap. IV. 14. Sul tema della maschera, anche nel Settecento, cfr. Outram 2000; Rousset 1954; Castle 1986. 15. Cfr. Celati 1975, cap. 3.

49


ELENA ESPOSITO

maschere, come la realtà si rivela essere un sogno – che non rimanda però alla realtà, ma trova in se stesso la sua identità: “la vida es sueño, y los sueños sueños son”16. La pazzia di Don Chisciotte si mostra essere più saggia della presunta razionalità degli individui savi, perché tutti sono pazzi: un altro tipico motivo seicentesco che va a confluire nella diffusa immagine del mondo rovesciato e del mondo come teatro17. Si tratta di topoi antichi, che vengono riproposti modificando però il loro significato. Il motivo del mondo come teatro veniva usato in precedenza come una metafora: il mondo è “come” un teatro, mentre in epoca barocca assume la connotazione molto più radicale di un’identità: il mondo è teatro, e allora non c’è nulla al di fuori della rappresentazione. Anche il motivo del mondo alla rovescia si trasforma e si radicalizza, rispetto all’antico rovesciamento carnevalesco che confermava in negativo la stabilità dell’ordine dato. Il rovesciamento barocco si rovescia continuamente su se stesso e non dispone di un “dritto” con il quale confrontarsi. Il travestimento barocco in effetti non è solo mascheramento ma autentica metamorfosi, che a partire dalle apparenze va a interessare la natura delle persone – non ci si è ancora sganciati del tutto dall’idea di un’inerenza di essere e apparire, solo che il baricentro si è spostato dal primo al secondo aspetto della distinzione: non è la natura a determinare l’apparenza, ma il gioco di apparenze a costituire la vera natura delle persone e delle cose. Nei “ballet de cour” della fine del XVI e dell’inizio del XVII secolo, il motivo centrale è proprio la metamorfosi, alla quale presiede Circe18. Il mondo appare in continuo cambiamento, e le persone che si muovono in esso sono simbolizzate da Proteo, che ottiene la sua realtà in una costante trasformazione. Proteo esiste nel movimento, nel diventare sempre diverso da quello che è: la sua natura è una successione di apparenze.

16. Cfr. il monologo di Sigismundo in Calderón de la Barca ed.2000, atto II. 17. Cfr. Warnke 1972, cap. 4 18. Cfr. Rousset 1954, cap. I.

50


CONTINGENZA EPIDEMICA

Interviene in questo la dimensione temporale, che si tradurrà nell’altro aspetto caratteristico del barocco: l’enfasi sul flusso e il cambiamento, l’incostanza e la transitorietà delle cose. La liberazione delle apparenze dilaga incontrollata nella dimensione sociale con la riflessività delle identità e la pervasività dell’inganno, e nella dimensione temporale nel nuovo valore essenziale del cambiamento. Nell’Astrée (I,1) si legge “niente è costante, tranne l’incostanza durevole nel suo stesso mutare”. Per tutto il XVI secolo si ripete, in svariate modulazioni, un unico motivo: “le temps s’n va, le temps s’en va”19. A partire da Montaigne l’incostanza viene presentata non solo come un dato del mondo, ma anche e soprattutto come la condizione antropologica dell’uomo, agitato costantemente “dal vento dei casi” e incapace di trovare in se stesso un’identità stabile20. III. Deviazione e artificio Il riferimento alla natura e alla realtà, in questo gioco di apparenze diventate autonome, può dare poche indicazioni. La stessa verità non serve come criterio (e i paradossi sono infatti indipendenti da essa). Graciàn, anzi, le suggerisce, per essere creduta, di vestirsi con i panni dell’inganno, di usare i suoi ornamenti e stratagemmi, altrimenti non susciterà alcun interesse (“non c’è pietanza più scipita in questi sciagurati tempi della Verità nuda e cruda”21). Anche la natura, con i suoi “errori” che ven19. Cfr. ad esempio Ronsard 1555, II, p. 814. Cfr. con molto materiale, Dubois 1977. 20. Montaigne 1580-1588, II.I: “Dell’incostanza delle nostre azioni”. Il motivo persiste notoriamente per tutto il Seicento, fino a Pascal 1670, n.58: “Condition de l’homme: inconstance, ennui, inquiétude” e a La Bruyère 1688b, XI,6: “Un homme inégal (…) est à chaque moment ce qu’il n’etait point, et il va être bientôt ce qu’il n’a jamais été: il se succède à lui même”. 21. Graciàn 1648, LV. Cfr. anche Tesauro 1670, p. 491: “Talche io conchiudo, l’unica loda delle Argutezze, consiste nel saper ben mentire”. La verità, infatti “è pericolosa”, e per questo diviene necessario l’artificio: Graciàn 1647, n.210. “Non c’è cosa che richieda cautela più che la verità, dirla è come farsi un salasso al cuore”: ivi, n.181.

51


ELENA ESPOSITO

gono ormai scoperti e riconosciuti, deve essere superata e la “naturalità” non è più un pregio22. Bisogna invece riferirsi alle idee ed orientarsi ad eventi contemplati solo nella “fantasia”23. Già Michelangelo afferma: “Si pinge col cervello, non con la mano”24. Si sostituisce alla mimesi il ruolo centrale dell’ingenium25. L’imitazione, allora, non può più essere lo scopo dell’arte, e viene vigorosamente rifiutata. Ciò che si può trarre (imitare) dalla realtà sono semmai le eccezioni e i suoi tratti illogici – quelli cioè che negano l’ordine e la regolarità delle cose. Con l’imitazione della natura cade anche il prestigio delle regole che l’avevano guidata, e si sviluppa un atteggiamento contrario alle norme tramandate, che rifiuta l’armonia, l’ordine, la conferma delle convenzioni. Le regole, semmai, vengono usate per stravolgerne il significato e produrre forme paradossali come nell’anamorfosi. La deviazione viene, ancora una volta paradossalmente, innalzata a programma26. All’uniformità della natura si sostituisce la multiformità dell’ingegno del singolo e si ricerca per la prima volta uno stile individuale; all’imitazione si sostituisce la singolarità – come si può leggere in un’iscrizione nel “bosco sacro” di Bomarzo, “che sol se stesso e null’altro somiglia”27. Il prevedibile esito, su cui si concentreranno le successive critiche di barocco e manierismo, sarà un eccesso di originalità che tende a scivolare nell’automatismo28. È dal rifiuto dell’imitazione che dipende, secondo l’ipotesi di Hathaway29, la valorizzazione del meraviglioso (mirabile) nel Rinascimento italiano. L’artista non deve imitare la natura ma semmai l’attività di Dio, che la ha creata: non deve allora ricercare la riproduzione di

22. “Rido di coloro che ritengono buona ogni cosa naturale”: G.B. Armenini, De veri precetti della pittura, Ravenna, 1587, cit. in Hocke 1977, p. 61. 23. Cfr.Panofsky 1924. 24. Citato in Hocke 1977, p. 22-23. 25. Cfr. Vuilleumier 1999. 26. Luhmann 1995e, p. 411 27. Cit. in Hocke 1977, p. 155. 28. Cfr. Link-Heer 1986. 29. Cfr. Hathaway 1968.

52


CONTINGENZA EPIDEMICA

forme note, ma aspirare a creare qualcosa di nuovo. E la novità si rivela perché genera stupore e meraviglia. Di qui tra l’altro la predilezione per lo straordinario, il deviante e l’inatteso, anche e soprattutto nei casi in cui non è possibile in natura30. L’aristotelismo padovano della seconda metà del Cinquecento riprende e sviluppa la teorizzazione del meraviglioso nella Poetica31, che collega la vocazione della poesia al meraviglioso con la famosa predilezione per il verosimile (per quanto impossibile) rispetto al possibile incredibile. Il distacco dalla natura si mostra al meglio con la produzione di forme palesemente innaturali, e quindi con una predilezione per l’artificio, spinto all’estremo32. Già Castiglione, sotto molti aspetti precursore della sensibilità derivante dal superamento del privilegio della dimensione materiale, loda ciò che è “dolce e artificioso” e sostiene che tutto diventa più bello “dicendo di ogni cosa il contrario”. Raccomanda allora di conferire alla parola un po’ di “acutezza recondita”33 – raccomandazione che verrà poi raccolta e sviluppata dal più famoso teorico dell’acutezza. Graciàn teorizza infatti la perfezione dell’artificio, a cui le arti sono destinate. L’autentica acutezza si fonda proprio sull’artificio, e non sulla perspicacia, perché quest’ultima cerca la verità ed è utile, mentre l’arte cerca soltanto la bellezza, ed è piacevole34. Sul distacco dal vincolo alla verità, e quindi alla realtà e alla natura, deriva la superiorità del concetto, che non aspira a confermare i riferimenti e l’ordine dato, ma consiste piuttosto nel “rispondere tutto al contrario di ciò che ci si aspetterebbe”35. L’ingegno, quindi, deve conoscere le aspetta-

30. Si vedano ad esempio le affermazioni di Ludovico Castelvetro citate in Hathaway 1968, p. 55ss., secondo cui l’essenza della poesia è il meraviglioso, proprio perché evade dalle condizioni del probabile. 31. Cfr. Aristotele, Poetica, 51b e 60a. 32. “Nature hath made one World, and Art another. In brief, all things are artificial, for Nature ist the Art of God”: Sir Thomas Browne 1653, p. 18. 33. Castiglione 1528, I.XXX. 34. Cfr. Graciàn 1648, II e III. 35. Ivi, XXXIX

53


ELENA ESPOSITO

tive comuni, non per confermarle ma per deluderle in maniera mirata, e per questo deve essere “anfibio, con quel suo stare sempre sui due versanti dell’accordo e del disaccordo”36. L’artificio e l’irrealtà a cui punta la sensibilità barocca e concettista, allora, non sono semplicemente un inganno più o meno raffinato, che cattura il ricevente a sua insaputa. L’effetto di meraviglia si ottiene solo se l’artificio viene mostrato e riconosciuto come tale, ed è questa consapevolezza che produce l’ammirazione. Non si ammira la perfezione della natura, ma la prestazione dell’autore che si coalizza con il ricevente rendendolo partecipe dell’inganno (riconosciuto), e questo piace non come conferma dell’ordine, ma come una sorta di deviazione coordinata tra i partecipanti: “La machina mundi viene copiata come machinatio”37. Il senso dell’artificio inizia a sostituire la complicità tra gli osservatori alla stabilità del mondo, cioè un riferimento alla dimensione sociale all’esclusività via via più vacillante del riferimento alla dimensione materiale. IV. Il controllo della contingenza Sorpresa, deviazione, artificio, inganno, paradosso: la semantica barocca sembrerebbe il dominio incontrollato della contingenza, proprio allora scoperta con un senso acuto di sconcerto e una sorta di esaltazione. Ma si tratta di un periodo di transizione, che non ha ancora individuato le soluzioni che diventeranno caratteristiche della modernità, e questo si rivela da un lato in una libertà di sperimentazione della contingenza del tutto inedita, che non si ritroverà nemmeno nelle epoche successive. L’esplorazione barocca dei paradossi e dell’illimitata combinazione delle forme costituisce uno degli elementi 36. Ivi, LIX. La categoria di “anfibietà” compare in molti altri punti del testo, e si presenta come una delle caratteristiche fondamentali dell’ingegno. Cfr. anche Gracián 1647, n.134: “divenga regola fondamentale del vivere l’arte di crearsi doppie le circostanze del bene e dell’utile”. 37. Luhmann 1995e, p. 427.

54


CONTINGENZA EPIDEMICA

di fascino che sottendono il recente ritorno di interesse per il periodo. Dall’altro lato, però, la transitorietà di quella semantica si mostra nel fatto che la contingenza, per quanto manifestata, non viene accettata in quanto tale, ma viene comunque avvertita come una sorta di patologia. Lo stesso gusto per la deviazione presuppone la riconoscibilità di un ordine da cui si devia – altrimenti la deviazione dà poco gusto. La contingenza diventata autonoma non è però indipendente, e non si può evitare un riferimento cosmico – solo che il cosmo viene ormai concepito come il regno dei contrari e dei contrasti. Sta in questo l’intima contraddittorietà del XVII secolo, come la mostra la riflessione di La Bruyère, che si interessa con rara acutezza di tutto ciò che indica cambiamento, movimento e differenza, ma sempre con l’intento di ribadire la necessità di un ordine38. Mostra la sua dissoluzione per rianimarne la nostalgia. Ed in effetti tutta la produzione del periodo manifesta sì la contingenza, ma sempre controllata da una forma di necessarietà, da un riferimento stabile aldilà del transitorio. Già per Vasari la licenza degli artisti originali come Michelangelo deve comunque essere filtrata dalla competenza tecnica, trasmessa da un insieme di norme e di indicazioni per l’agire, che possono essere insegnate e devono essere apprese in un rigido periodo di tirocinio. La deviazione è ammessa a condizione di “non fare confusione o guastare l’ordine”39. Si possono anche trasgredire le regole, ad esempio la dottrina delle proporzioni, ma bisogna in primo luogo conoscerle40. Le regole di tutta l’età classica erano formalizzate in primo luogo nella retorica, e non sorprende che la “ribellione” barocca mirasse innanzitutto ad integrarne le prescrizioni con una sorta di “pararetorica” che consentisse di considerare anche ciò che in precedenza non poteva essere formalizzato: il singolare e particolare, il caso

38. Cfr. Schulz-Buschhaus 1989, p. 189. 39. Cfr. Vasari 1550-1568, vol.4, p. 9. 40. “Le misure (…) è cosa necessaria a sapere, ma considerar si dee, che non sempre fa luogo l’osservarle”: Raffaele Borghini, Il Riposo, Firenze 1594, p. 150, cit.in Panofsky 1924.

55


ELENA ESPOSITO

individuale non generalizzabile. Lo mostra ad esempio la gamma di immagini usate, che non si limita al repertorio di immagini tramandate e cariche di associazioni, ma inizia a a rappresentare oggetti inediti come utensili da cucina, ortaggi, parti del corpo. Anche in questo è esemplare quello che viene da molti considerato come una sorta di manifesto della semantica barocca: il Trattato dell’acutezza di Graciàn. Qui viene presentato il tentativo di sviluppare una “art de la pointe”41: una vera e propria tecnica (secondo il senso classico di “ars”) dell’acutezza e dello spirito, che andrebbe a integrare la retorica classica che dà indicazioni soprattutto per la mimesis, e che non prende in considerazione la singolarità42. La tecnica oratoria classica, in effetti, si rivolge ad un pubblico indeterminato e tende alla persuasione, tenendo conto delle caratteristiche generali dell’uomo e non della particolarità dell’individuo e delle circostanze. La tecnica dell’acutezza, invece, è rivolta piuttosto all’interazione personalizzata e ristretta e mira alla seduzione, in una nuova forma di socialità in cui si inizia a valorizzare la peculiarità del singolo e si aspira a piacere, più che a produrre degli effetti43. Ma Graciàn si riferisce comunque al modello classico della retorica, e in particolare ai capitoli della Retorica di Aristotele sui motti di spirito e agli scritti di Cicerone sulla facetia44, insieme a molti altri testi antichi, come quelli di Marziale, Seneca, Tacito, Plinio. La sua arte, afferma, non contraddice la retorica, delle cui figure si serve, ma la sviluppa in un modo che in precedenza non era possibile. Si dedica infatti all’ingegno o all’acutezza, le cui sottigliezze non

41. Cfr. Vuilleumier 1999. 42. Blanco 1992 parla infatti addirittura di una “rhétorique de la pointe”, che costituirebbe una versione rinnovata della sofistica. La vicinanza al modello classico è peraltro evidente nella composizione del libro, che si presenta (proprio come i trattati classici di retorica) come una classificazione sistematica delle varie specie di acutezza, con esempi molto dettagliati di tutti i generi. 43. Come vedremo nel cap. 6, la teoria di Graciàn costituirà anche un riferimento per l’arte tipicamente moderna della conversazione. Si parla infatti anche di “art de l’esprit”. 44. Cfr. Aristotele, Retorica, III, 10 e Cicerone, De Oratore, II libro.

56


CONTINGENZA EPIDEMICA

venivano trattate appositamente nella retorica, ma vi comparivano piuttosto come “orfanelle che venivano affidate all’eloquenza, perché non si conosceva la loro vera madre”45. L’imitazione suppliva allora all’arte, ma con risultati insoddisfacenti, perché consentiva scarsa varietà46. Non a caso: la semantica tradizionale, lo abbiamo visto, mirava appunto alla conformità e all’ordine, mentre la nuova sensibilità dell’epoca di Graciàn iniziava a valorizzare la deviazione e il cambiamento – perché, sostiene sempre Graciàn, la varietà è la “gran madre della bellezza”, ma per ottenerla occorre un’arte, come ogni artificio richiede una guida47. Riconoscimento della singolarità e del transitorio, allora, non vuol dire confusione o caos, anche se ci si serve di forme devianti e mostruose, ci si allontana dalla natura e si punta all’artificio. Occorre però una tecnica che si rivolga appositamente alle sottigliezze dell’ingegno, conferendo loro dignità di concetto48. La differenza fra un concetto e “una figura retorica nuda e cruda” sta essenzialmente nel fatto che venga considerata “una qualche circostanza peregrina”49, come una caratteristica specifica dell’ascoltatore o del parlante, qualche fatto che lo coinvolge di persona, o comunque un’occasione particolare. Anche quando ci si serve di massime, ad esempio, esse devono essere “non generali, ma specifiche, tali cioè che ad esse si ricorre nel commentare una qualsiasi peregrina contingenza”50. La tecnica dell’acutezza, quindi, si fonda su un riferimento alle circostanze, all’occasione, al kairós, che si presenta sempre in modo differente51. Si cerca una tecnica di sistema-

45. Graciàn 1648, “Al lettore”, p. 29. Cfr. anche Tesauro 1670, p. 2: “Gli autori antichi, che sapevano comporre argutamente, non sapevano cosa fosse l’argutezza”. 46. Gràcian 1648, I,32 47. Ivi, II,34. 48. Ivi, L. 49. Ivi, XIV. Il riferimento alle circostanze è frequentissimo nel libro, ad esempio in XI, XVIII, XXIII, XXXIV. 50. Ivi, XXIX. 51. Cfr. Perniola 1986.

57


ELENA ESPOSITO

tizzazione del mutevole, che insegni a gestire la singolarità. E in questo, nonostante l’evidente vicinanza al paradosso, i paradossi devono essere usati con estrema parsimonia perché, in quanto opinioni esasperate, possono servire solo in rare occasioni a coinvolgere e a sedurre l’ascoltatore52, e questo è lo scopo dell’arte in questione. La meraviglia e l’effetto contano se colpiscono l’interlocutore, e non in astratto. La sottigliezza deve indovinare e sfruttare (e a volte anche inventarsi) le intenzioni e i motivi dell’interlocutore, traendo lo spunto dal calcolo altrui53. La forza e l’ingenuità della semantica barocca si colgono anche in questo modo irriflesso di trattare la riflessività: una prima considerazione della dimensione sociale e un riconoscimento della singolarità, che non hanno però ancora sperimentato l’intrasparenza degli individui, per se stessi prima ancora che per gli interlocutori. Per questo anche in Graciàn compare spesso il topos della “finestrella sul petto” attraverso la quale si potrebbe vedere che cosa ciascuno tiene nascosto e se ne potrebbe leggere il cuore54. La libertà e la varietà barocca dipendono anche da questo: le indicazioni che vengono fornite non possono essere “incasellate in precetti”, perché l’artificio varia sempre e si realizza in forme connesse alle occasioni55. Ciononostante esiste una regola, che mette ordine in tutta la molteplicità delle deviazioni: “la vera regola è saper rompere le regole a tempo e luogo accomodandosi al costume corrente”56 – perché il riferimento alla dimensione sociale viene visto ancora come un appiglio che offre una stabilità transitoria: i costumi cambiano, ma finché valgono vengono condivisi da tutti e costituiscono un riferimento comune, da cui partire per non far scivolare

52. Cfr. Graciàn 1648, XXIII. 53. Ivi. XXVI. Vedremo più avanti come si tratti di un primo riconoscimento operativo della doppia contingenza, che non viene però riflessa. Questo porterebbe alla paralisi di dover riconoscere che l’interlocutore sta forse effettuando lo stesso calcolo. 54. Ivi, XXVIII. 55. Ivi, XLV. 56. Marino, citato in Rousset 1954, p. 97.

58


CONTINGENZA EPIDEMICA

nell’indeterminato il gioco ormai libero delle apparenze. Per questo conviene coalizzarsi in una forma di socialità che garantisca il piacere di tutti e lasci spazio senza frizioni alla singolarità delle circostanze – il riguardo per gli altri che verrà operazionalizzato nell’arte della conversazione.

59



Capitolo 4 Singolarità dell’individuo

I. L’intrasparenza Tra il XVI e il XVII secolo, quindi, la stabilità ontologica della semantica inizia ad essere intaccata dall’insinuarsi della contingenza, che rompe il rapporto di inerenza tra apparenza e realtà e produce una molteplicità di forme nuove senza offrire strumenti altrettanto nuovi per governarle. Ma come si esprimeva questa perdita di efficacia del riferimento privilegiato alla dimensione materiale? Che cosa stava succedendo nella dimensione sociale e in quella temporale per dare l’impressione che le forme spazializzate della tradizione non fossero più sufficienti, e che qualcosa sfuggisse incontrollato alla loro presa? In questo capitolo e nel prossimo prenderemo in esame rispettivamente le trasformazioni della semantica dell’individualità e della concettualizzazione del tempo, nell’intento di mostrare come su entrambi i piani si stessero delineando delle tendenze che non potevano più essere inserite nelle forme dell’osservazione di primo ordine. La dimensione sociale e quella temporale assumono contemporaneamente una loro autonomia, producendo innanzitutto l’impressione di sconcerto e di dissoluzione di ogni riferimento stabile, ma consentendo in seguito la stabilizzazione delle forme moderne di gestione della contingenza. 61


ELENA ESPOSITO

Già nel corso del Rinascimento era aumentato moltissimo l’interesse per l’individuo, come segnalano la popolarità e il rilevante aumento delle forme artistiche riferite a persone singole, come la biografia e il ritratto1. L’interesse per la persona individuale non corrispondeva però necessariamente all’interesse per i suoi aspetti di unicità2, ma segnalava in primo luogo una sorta di indebolimento delle forme classiche dell’inclusione via generalizzazione, cioè riferita a tratti esterni legati alla classe. Non che gli elementi riferiti alla stratificazione sociale venissero messi in dubbio: le forme caratteristiche delle classi elevate, come il comportamento rilassato e nel contempo controllato, l’eleganza presentata con naturalezza, la generosità apparentemente senza calcolo e così via, venivano ancora apprezzate, ma ci si iniziava a rendere conto che non erano più necessarie nel progressivo imporsi di orientamenti legati alla funzione. Eleganza e gradevolezza di comportamento erano ammirate, ma non garantivano più il successo in campo economico e politico, dove venivano richieste piuttosto competenze specifiche che non si potevano acquisire in modo innato tramite la socializzazione, ma richiedevano un apprendimento apposito. Richiedevano un’educazione mirata e venivano attribuite alle capacità dell’individuo, che suscitavano appunto un nuovo interesse. L’individualità, che in precedenza discendeva solo dalla natura, richiedeva ora una serie di processi che dovevano essere attivati intenzionalmente, perché in qualche misura si opponevano al corso naturale. L’individualità doveva essere costruita per strade che si allontanavano via via dalla generalità in direzione di una nuova valorizzazione della particolarità, finché si arriverà a sostenere che “niente somiglia all’uomo meno che un uomo”3.

1. Cfr. Enenkel et al.1998. 2. In questo senso, e non perché si rivolge al singolo, Montaigne segna una rottura: ritrae se stesso senza intenti di generalizzazione e non nasconde che si tratta di un soggetto che, secondo le categorie correnti, appare “futile e vano”: cfr. Montaigne 1580-1588, “Al lettore” e III.VIII 3. Cfr. Balzac 1830-1833, p. 26.

62


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

Innanzitutto, però, si avverte una nuova problematicità del rapporto tra generale e particolare – uno dei molti casi in cui un’unità (il generale che raccoglieva e realizzava in sé la singolarità – modello emanativo) si risolve in una differenza (la nuova autonomia del particolare rispetto ad una generalità a cui non si intende rinunciare). Ci si deve confrontare ora con i due lati di una distinzione e con i loro rapporti reciproci: che relazioni ci sono tra il particolare e il generale? Si può ancora pensare che il primo si realizzi nel secondo, o viceversa? O l’irriducibilità dei due lati impone di confrontarsi con la distinzione in quanto tale? La retorica, come osserva Graciàn, su questo offre poco aiuto. Si può pensare che le antitesi e i paradossi caratteristici del XVII secolo siano una risposta a questi inediti interrogativi, o piuttosto segnalino la consapevolezza del problema. I dilemmi tra interno ed esterno, apparenza e realtà, superficie e profondità, sarebbero allora altrettanti tentativi di confrontarsi con la nuova contrapposizione tra la generalità di principi validi sempre e per tutti e una particolarità che si rivela via via più autonoma. Il problema appare in primo luogo come questione della sincerità, che sorge come problema tra il Cinquecento e il Seicento4: prima il termine veniva usato semplicemente per indicare purezza o sanità, e solo allora inizia ad significare assenza di dissimulazione e di inganno. La sincerità diventa un riferimento irrinunciabile ma irraggiungibile, perché non si può mai essere sicuri della sincerità degli altri, non si può comunque dire di essere sinceri senza suscitare il sospetto del contrario, e non la si può raggiungere nemmeno rispetto a se stessi. In effetti il senso moderno di sincerità è rivolto tanto alla mancanza di inganno nei confronti degli altri quanto a quella nei confronti di stessi. Il particolare sfugge ad ogni tentativo di controllo. L’interiorità diventa per la prima volta inafferrabile e misteriosa, e attira per questo l’attenzione. Si può cercare di delineare un catalogo di “caratteri” tipici dell’uomo, ma si scopre nello stesso che non si esau-

4. Cfr. Trilling 1974, pp. 11ss.

63


ELENA ESPOSITO

risce così la complessità della persona (il dilemma di La Bruyère). Il Seicento, che come vedremo ampiamente scopre l’esteriorità della conversazione nei salotti e valorizza l’esprit, è nel contempo il secolo che si confronta con l’interiorità e i suoi problemi e indaga i misteri del cuore (“coeur”). La contrapposizione esprit/coeur, che rappresenta una sorta di topos per tutta la letteratura del periodo, può essere letta proprio come una formulazione della difficile distinzione tra generale e particolare, visti come due lati irriducibili. Per Pascal l’ordine del cuore e l’ordine dell’esprit sono diversi e devono essere mantenuti distinti, pena il ridicolo5. Il problema è che se dello spirito si può parlare e ci si può confrontare con altri, l’ordine del cuore si rivela inconoscibile e segnala una nuova dimensione di intrasparenza – tanto più oscura quanto più aumentano le conoscenze e la consapevolezza: “Tous ceux qui conaissent leur esprit ne connaissent pas leur coeur”6. È la questione del “fond du coeur”, oscuro e misterioso, che compare in tutto il secolo negli ambienti più diversi7: nella mistica, negli autori di PortRoyal8, in Gràcian9, nei moralisti. Ciò che sfugge nell’interiorità è proprio la dimensione più autentica e immediata, che si rivela intrinsecamente irraggiungibile. “S’il y a un amour pur et exempt du mélange de nos autres passions, c’est celui qui est caché au fond du coeur, et que

5. Pascal, 1670, n.329: “Le coeur a son ordre, l’esprit a le sien, qui est par principe et démonstration. Le coeur en a un autre. On ne prouve pas qu’on doit être aimé en exposant les causes de l’amour, cela serait ridicule”. 6. La Rochefoucault 1665a, 103. Cfr. anche Bonaventure d’Argonne 1691, n.2: “Le coeur de l’homme est une grande énigme que les plus habils gens du monde n’ont point encore expliquée”. 7. Cfr., con ricchezza di esempi, Papàsogli 1991. Cfr. anche Corsi 1994. 8. Cfr. Nicole 1682: non si arriva mai alla conoscenza perfetta del fondo del cuore. 9. Cfr. Gracián 1647 n.3: non bisogna lasciar giungere nessuno al fondo di sé: “Giocare a gioco scoperto non procura né utile né piacere. Se uno non scopre subito le proprie carte, lascia gli altri in sospeso (…) In tal modo ci si circonda di mistero, e quello stesso arcano provoca l’altrui venerazione”.

64


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

nous ignorons nous-mêmes”10. È questo in fondo il tema de La Princesse de Clèves, il cui successo e l’intensità del dibattito che lo accompagnano confermano la diffusione del problema dell’indipendenza delle passioni dalla conoscenza e anche dalla volontà. L’uomo moderno aperto all’osservazione di secondo ordine e quindi al confronto con la singolarità degli altri, scopre la propria singolarità e diventa irraggiungibile a se stesso – proprio nella sua essenza. Si indovina l’immediatezza, vero patrimonio del singolo, ma nello stesso tempo la si scopre inaccessibile. II. Il declino dell’imitazione Se questo è il problema, evidentemente le regole consolidate dell’imitazione non sono più adeguate per trovare una risposta – nello stesso tempo in cui, in conseguenza dell’ormai estesa diffusione della stampa, la disponibilità di materiali sta cessando di essere una difficoltà. L’abbondanza, fine e criterio della produzione retorica, perde progressivamente di valore e cambia di significato: prima ricchezza di riferimenti, “copia” passa a significare sterile riproduzione di un modello – l’accezione negativa del copiare che conserviamo ancora oggi. L’imitazione, prima condizione della creatività, viene ad indicare il suo contrario: chi copia non è creativo. La discussione, avviata nell’Italia del XVI secolo11, non negava inizialmente il valore e il prestigio della tradizione, ma iniziava a porre questioni non considerate prima: l’essenza della poesia, ad esempio, che consente di riconoscerla e di valutarla, sta nell’imitazione o nel verso? Un trattato sull’apicultura in versi deve essere ritenuto poesia? Ma allora cosa dire dell’Iliade, che si basa sull’imitazione ma è espressa in prosa? L’alternativa, discussa ancora in riferimento principalmente alla teoria aristotelica dell’imitazione, inizia a minare le fondamenta di tale tradizione – atteggiamento caratteristico del Seicento, ancora ancorato ai modelli classici e alla struttura della stra10. La Rochefoucauld 1665a, n.69. 11. Cfr. Hathaway 1968, 45ss.; Hathaway 1972.

65


ELENA ESPOSITO

tificazione ma confrontato in tutti i campi con spunti che sfuggono alla sua presa. Una volta scoperta, oscuramente e confusamente, la dimensione dell’interiorità e dell’autoreferenza, la mera eteroreferenza appare insufficiente, e con essa quindi la pura imitazione. Si richiede un ruolo più evidente dell’autoreferenza, ad esempio valorizzando la maniera differente di usare materiali impiegati anche altrove. Non si rifiuta ancora del tutto l’imitazione, ma le si richiede una nuova modulazione e indipendenza. Già Castiglione nega l’imitazione, ma lo fa curiosamente prendendo a modello gli antichi (che per lui comprendevano i greci e i romani, ma anche Petrarca e Boccaccio), che a suo parere non imitavano12: bisognerebbe quindi imitare la loro non-imitazione. Si realizza così un precario equilibrio tra creatività (di cui si avverte l’esigenza) e restrizione (a cui non si riesce a rinunciare): l’imitazione doveva essere creativa, ma la creatività doveva essere incanalata in direzioni prestabilite13. Questo atteggiamento sfocerà nel Settecento in una riformulazione dell’eteroreferenza per cui l’imitazione della natura è consentita, mentre si svaluta l’imitazione delle opere, perché la prima lascerebbe spazio all’espressione della personalità dell’autore (la particolarità), mentre la seconda tenderebbe a riassorbirla nella generalità del modello. Il rifiuto dell’orientamento a modelli esemplari non contraddice in questa interpretazione l’ammirazione per gli antichi e il tentativo di emularli, perché, come sosterrà Edward Young (non per primo ma con grande risonanza) non bisogna imitare le opere, ma imitare gli autori (Omero): usare lo stesso metodo per raggiungere la capacità di creare opere così grandi. Se ne ricava la massima paradossale per cui “The less we copy the renowned ancients, we shall resemble them the more”14. In queste prime formulazioni, la ricerca dell’originalità si richiamava ancora alla natura, cioè aveva bisogno di un’eteroreferenza: per questo, nel famoso interrogativo di Young: “Born originals,

12. Cfr. Castiglione 1528, L.I e.XXXIIIss. 13. Cfr. Burke 1993, Introduzione ed. it., p. 12. 14. Young 1759, p. 555.

66


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

how comes it to pass that we die copies?”15, l’originalità è ricondotta alla nascita, cioè all’esteriorità, e il suo opposto non è ancora l’interiorità come dimensione autonoma, ma un’altra forma di esteriorità, dovuta alla società16. L’originalità è ancora un presupposto, non un risultato. La ricerca della creatività in questa accezione non contraddice l’orientamento a criteri, perché se la personalità si esprime nel rivolgersi alla natura e la natura non è mai arbitraria, anche in questo bisogna imparare le regole: “Lern hence for ancient rules a just esteem; To Copy Nature is to copy them”17. Progressivamente, però, le componenti autoreferenziali diventano più evidenti, nel controllo della persona nei confronti di se stessa (che come vedremo si sposta dalle prescrizioni dell’etichetta ad una nuova capacità di autoregolazione), e soprattutto nella relazione tra particolare e generale. Mentre prima si tendeva a ricondurre il diverso all’uguale, il particolare al generale, dalla seconda metà del Seicento si inizia a sottolineare la diversità in quanto tale e semmai a ricondurre ad essa la rimanente generalità: l’individuo è diverso da tutti gli altri, ma questo vale per tutti gli individui18. L’unicità e l’inconfrontabilità del singolo, che erano in precedenza componenti per così dire accidentali, iniziano ad essere valorizzate in quanto tali, e non soltanto sul piano pratico dei rapporti tra le persone o soltanto in vista di una possibile generalizzazione. L’individuo non interessa soltanto come eroe o come caso esemplare, ma inizia ad essere preso in considerazione della sua normalità – perché questo è l’aspetto che ha in comune con gli altri: la tipicità passa ora per l’idiosincrasia. La diversità è uguale per tutti. Il presupposto, evidentemente, è che il riferimento – quello da cui si ricavano i criteri e si ottiene una qualche forma di stabilità – passa dall’esterno all’interno. Di fronte al vacillare del riferimento materiale, che aveva

15. Ivi, p. 561. 16. Cfr. Trilling 1974, p. 93. 17. Pope 1711, I, pp. 223-4. 18. Cfr. Luhmann 1989b, p. 182s.

67


ELENA ESPOSITO

consentito di ricavare dal mondo orientamenti ed indicazioni, e che ora si dissolve nell’oscillazione incontrollata dei lati delle distinzioni (sincerità/inganno, realtà/apparenza, autenticità/vanità, naturalezza/artificio), si tende a ripiegare verso l’interno e quindi verso la riflessività. Non è più il singolo a dipendere dal mondo, da cui ricava la propria identità come oggetto tra gli altri, ma è il mondo a dipendere per così dire dal singolo: perché ciascuno, in quanto individuo, è caratterizzato da un proprio rapporto con il mondo – anzi, è proprio da questa indipendenza dal mondo che ricava la propria identità. L’individuo si definisce appunto tramite un particolare rapporto con il mondo: “È il mondo, visto da un determinato punto”19. La costruzione dell’individualità offre una nuova soluzione al dilemma del rapporto tra particolare e generale: “L’individuo è il mondo nella particolarità dell’io”20 – la forma particolare della generalità. Ma quale stabilità si può ricavare da questa frammentazione e moltiplicazione dei riferimenti? In che modo il dissolvimento dell’univocità del mondo può ancora generare dei criteri? Tramite l’auto-osservazione21. L’individuo non è tale semplicemente perché ha una sua prospettiva, ma perché se ne rende conto, cioè osserva la propria osservazione. Altrimenti come potrebbe riconoscere l’individualità degli altri? L’apparente dispersione del mondo in una molteplicità incontrollata perde il suo aspetto di assoluta arbitrarietà se la si riconnette di volta in volta ad una specifica prospettiva. Come in Graciàn, dal richiamo ad una “peregrina contingenza” si può ottenere una limitazione dell’arbitrio. Si deve allora riconoscere la capacità degli individui di ricostruire le cose in maniera specifica, che non può essere ricondotta a nient’altro che a se stessi, cioè riconoscere la dipendenza del mondo dal singolo – per sé e per gli altri. Ma il mondo ottiene nuovamente una qualche forma di ordine solo per l’osservatore che se ne rende conto, che cioè os-

19. “Es ist die Welt, gesehen von einem Punkte aus”: ivi, p. 214. 20. “Das Individuum ist die Welt im besonderem Ich”: ivi, p. 207. 21. Cfr. Luhmann 1992; 1995e, p. 153.

68


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

serva se stesso osservante. Il perduto punto fermo da cui valutare il turbinio delle apparenze si ottiene rivolgendosi a se stessi. Il problema in questo spostamento, però, è che la stabilità non può più coincidere con la necessità. La contingenza si controlla non negandola in un’unità di fondo ma moltiplicandola in una pluralità di differenze. Il sé che si osserva non scopre l’identità, ma l’idiosincrasia giustificata come tale – la condizione per cui ciascuno è diverso dagli altri e si identifica in questa diversità. Ciascuno è unico e reclama questa unicità (la curiosa pretesa di autorealizzazione), che non può essere messa in discussione senza mettere in questione tutta la costruzione da cui come abbiamo visto si ricava la nuova forma di gestione della contingenza – tramite la contingenza. Ciascuno, quindi, la deve riconoscere anche agli altri, e pretende un riconoscimento per la propria identità (o per la difficoltà di trovarla). Il problema è allora che la riflessione rende disponibile una nuova forma di riferimento, ma non consente mai di raggiungere un terreno solido, e soprattutto non consente di disporre di un punto di vista generalizzabile. Non si ottiene un’identità, ma una molteplicità di identità differenti, da cui ci si può attendere solo l’imprevedibilità – degli altri e di se stessi. Il “fondo del cuore” rimane imperscrutabile – ma diventa il riferimento a cui ora ci si rivolge. III. I dilemmi dell’originalità Nella descrizione di Pascal, l’uomo moderno è dipendente proprio nel (o dal) suo desiderio di essere indipendente22. L’identità si fonda ora sulla sua unicità, che si traduce nella nuova problematica dell’originalità – una riformulazione dell’annosa questione del rapporto tra particolare e generale, che sembra nascondere le difficoltà ma non riesce realmente a liberarsene. Queste ri-

22. Pascal 1670, n.113: “Description de l’homme: Dépendance, désir d’indépendance, besoins”.

69


ELENA ESPOSITO

compaiono più o meno latenti nei vari paradossi dell’originalità. Da un lato, infatti, l’originalità in senso stretto è una sorta di contraddizione performativa: se la si intende come assoluta mancanza di influenze e di condizionamenti, si dovrebbe tradurre nel rifiuto di ogni precedente, in una forma di creazione dal nulla. Ma a parte l’incompatibilità con un livello di complessità più che minimo, questa forma di originalità sarebbe del tutto impercettibile e incomprensibile, in quanto non potrebbe essere confrontata con nulla. Se è questo il fine, niente si oppone alla constatazione piuttosto malinconica di La Bruyère, per cui tutto è già stato detto, e di fatto ogni opera non è altro che la riproduzione imperfetta di un modello23. Si potrebbe pensare di ricorrere alla spontaneità, definendo il vero originale come colui che è in grado di procedere senza regole perché “crea a partire da se stesso”24. Questa è la strada che verrà presa nell’esaltazione romantica del genio, ma neanche così si evitano i paradossi: in primo luogo quello implicito nell’ambiguità della prescrizione, da Edward Young in poi, di coltivare una sensibilità propria – la spontaneità imposta come regola. All’acuta sensibilità della prima modernità per i circoli riflessivi e il contrasto tra sincerità e comunicazione non poteva certo sfuggire la contraddizione tra la pretesa di essere indipendenti dall’osservazione (propria e altrui: quindi spontanei) e la necessità di mostrare questa condizione. Hamann parla di “imitazione all’inverso”25. Come si può rendere osservabile che non ci si fa influenzare dall’osservazione? Se però l’aspirazione all’origina-

23. “Tout est dit, et l’on vient trop tard depuis plus de sept mille ans qu’il y a des hommes et qui pensent. Sur ce qui concerne les moeurs, le plus beau et le meilleur est enlevé; l’on ne fait que glaner après les ancients et les habiles d’entre les modernes”: La Bruyère 1688b, n.1. 24. “Er schöpfet aus sich selbst”: Lessing 1766; per questo il “Mustergeist”(spirito modello) “ist sich Schul’ und Bücher. Was ihn bewegt, bewegt; was ihm gefällt, gefällt” (è per sé la scuola e i libri. Ciò che lo commuove commuove; ciò che gli piace piace). 25. Hamann 1821-25, II, pp. 173ss.

70


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

lità diventa visibile, il primo risultato è il ridicolo, e l’effetto negativo si ripercuote a cascata su tutta la comunicazione (la tipica efficacia “catastrofica” dei paradossi): “quand l’originalité naturelle est gâtée par la pretention à l’originalité, le lecteur ne jouit pas complètement même de ce qui est vrai”26. L’unicità, inoltre, che si scopre nella riflessione ed è una tipica categoria di secondo ordine, sembra annullarsi proprio nella riflessione. Nei termini di Pascal: “A mesure qu’on a plus d’esprit on trouve qu’il y a plus d’hommes originaux”27 – che allora in questo si assomigliano tra di loro. Il soggetto autoriferito scopre e valorizza la sua unicità e non vuole essere come gli altri – ma scopre nel contempo che questa è anche la loro ambizione; anzi, più raffina la sua riflessione più aumenta il numero degli aspiranti originali, fino a constatare che il modello più generale che c’è è proprio la distinzione del proprio sé da ogni altro28. Niente è tanto diffuso (e quindi tanto poco originale) quanto il desiderio di essere originali. Il paradosso del rifiuto dell’imitazione sta nell’essere anch’esso un principio copiato: “Poter essere diversi (altri) significa allora proprio: poter essere come gli altri”29 – perché è il solo orientamento condiviso da tutti gli individui unici, idiosincratici e autoriferiti, ma anche perché la diversità si coglie e si determina solo in riferimento agli altri, dai quali appunto si vorrebbe deviare. Nell’isolamento non si può essere diversi, e la stessa questione non ha senso. Il rifiuto dell’imitazione non annulla, ma trasforma il significato della copia: non si pro-

26. Afferma ancora Madame de Stäel 1967, cap. XXVIII. 27. Pascal 1670, n.669. 28. Una consapevolezza che rimarrà anche nell’esaltazione romantica del genio. Schlegel 1846 afferma che l’artista deve creare in maniera propria e originale, ma che nel contempo questa originalità appartiene in linea di principio a tutti gli uomini. Così anche Schelling, 1859, Bd.5, p. 447: “Je origineller, desto universeller”(Quanto più originale, tanto più universale). 29. “Anders sein können heißt dann eben: so sein können wie ein anderer”: Luhmann 1989b, p. 221. Vale anche l’inverso, come osserva Montesquieu 1758, VII: siccome tutti vogliono farsi notare, non si nota più nessuno.

71


ELENA ESPOSITO

ducono più oggetti-copia o opere copiate da quelle di altri, perché questo contraddice la nuova aspirazione all’autonomia. La copia, ora, è l’uomo stesso che è uguale agli altri proprio nella sua aspirazione ad essere unico: la nuova figura dell’“homme-copie”30 – il rompicapo che accompagna come un’ombra tutta la discussione moderna sull’individualità. Il vero originale, che non copia nessuno, poi, si dovrebbe riconoscere proprio per il fatto che diventa egli stesso un modello per gli altri, cioè perché viene copiato. Solo in questo modo si può distinguere l’accezione positiva di originalità dalla semplice stravaganza; bisogna essere originali, ma non bisogna essere un originale31. Ne era ben consapevole anche Edward Young, che nella sua appassionata difesa dell’originalità nota peraltro che “nothing is more easy then to write originally wrong”32. Non bastano la stranezza o la mera incomprensibilità, perché in pratica la “vera” originalità si misura nella ricezione degli altri, e quindi nella capacità di fungere da modello. Un “originale senza copie” rasenta il ridicolo o si riduce ad una figura come il nipote di Rameau nella descrizione di Diderot – che può avere dei momenti di talento e di certo ha una propria singolarità, ma non verrà imitato da nessuno, anche perché “Rien ne dissemble plus de lui que lui même”33. L’opera del genio è nello stesso tempo creazione originale e modello; deve essere indipendente dalle regole, ma deve essa stessa diventare esemplare. Che cosa hanno in comune questi diversi paradossi? E cosa se ne può ricavare sulla questione dell’originalità? Si tratta sempre di casi in cui il tentativo di riferirsi alla singolarità fa emergere un irrinunciabile riferimento agli altri. Si tratta di forme in cui si rivela la natura “spuria” della categoria di individuo e di individualità, che tenta di riformulare il rapporto tra particolare e generale nella forma di un’alternativa, in cui anziché per il lato della generalità si opta per l’aspetto particolare (e in questo sta

30. A partire da Stendhal 1822, Fragments divers, n.105. 31. Cfr. Goblot 1925, p. 148 (ed.1967). 32. Young 1759, p. 567. 33. Diderot 1821, p. 30 ed.1967.

72


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

la novità). Di qui la ricerca di indipendenza, la valorizzazione dell’interiorità, l’aspirazione all’unicità. La complessità della semantica moderna, che si segnala in generale nell’osservazione di secondo ordine, sta però nel passaggio dal riferimento all’unità al riferimento alla distinzione, che non si compie cambiando lato all’interno di una distinzione che rimane binaria. La binarietà, infatti, funzionava finché non veniva percepita, e quindi non si poneva il problema della valorizzazione dell’altro lato: finché cioè, come abbiamo visto ampiamente, il particolare si risolveva nel generale – e non per una scelta, ma per una sorta di necessità. Se questa naturalezza viene messa in discussione, la soluzione non può essere trovata spostandosi sul lato opposto – nonostante la comprensibile ebbrezza che si genera quando per la prima volta si percepisce l’alternativa. La mera possibilità della scelta, che si genera dal dubbio, introduce la contingenza, che non si risolve in nessuna costruzione binaria: lo dimostra l’insorgere più o meno latente dei paradossi in ogni tentativo di questo genere. Così anche per la figura dell’individualità, che se viene intesa come semplice opzione per la particolarità si esautora da sola. L’individuale, “parassita” della differenza tra particolare e generale, rimanda contemporaneamente a entrambi i lati: impone cioè l’osservazione della distinzione stessa. L’autoriferimento che ci sta dietro si accompagna sempre, nella dimensione sociale, alla sua forma specifica di eteroreferenza: una qualche modalità di riferimento agli altri. E si è avvertito ben presto che il tentativo di sfuggire alla contingenza condanna in questo modo all’intrasparenza: “Nous cherchons notre bonheur hors de nous-même, et dans l’opinion des hommes, que nous connaissons flatteurs, peu sincères, sans équité, pleins d’envie, de caprices et de préventions. Quel bizarrerie!”34. Il dilemma della relazione tra particolare e generale si esprime così nella sua forma moderna nel problematicissimo rapporto tra individuo e società, visto spesso come una contrapposizione: l’individuo sarebbe tanto più indivi-

34. La Bruyère 1688b, XI.76. Qualche secolo più tardi, Barbey d’Aurevilly 1845 dichiarerà: “Je me voieais vu”.

73


ELENA ESPOSITO

duale quanto meno si riferisce agli altri35. L’identità della persona, che si trovava prima nei riferimenti sociali, cioè all’esterno, deve ormai essere ricercata nell’indipendenza da essi. Ne discende tra l’altro una ristrutturazione della combinazione tra conformità e devianza. Mentre nelle società tradizionali il deviante confermava comunque la regola (in negativo ma anche in positivo, come nel caso dell’eroe), l’aspirazione all’originalità per tutti trasforma la devianza in una regola – quella con il più altro livello di conformità. Dall’oscillazione tra divieto e obbligo di copiare non si riesce ad uscire, perché anche il rifiuto di copiare è diventato una forma copiata. La soluzione, puramente pragmatica, sta in una forma di operazionalizzazione della macchia cieca che si traduce in una “cospirazione del silenzio”36, in cui ciascuno sostiene la pretesa di originalità degli altri – senza indagare sui motivi e consentendo anche forme in cui non crede o non capisce, e anche quando crede diversamente. Dagli altri, in fondo, ci si aspetta la devianza e si è pronti ad accettarla – aspettandosi lo stesso da loro. Si produce in moltissimi campi anche una “poétique de la déviation”37 che recupera in forma estetizzante gli orientamenti e i criteri che vengono esclusi dagli imperativi dei sistemi di funzione: al livello dell’individuo si valorizzano la “scoperta della lentezza” (anche come slow-food) e l’ostentata lontananza delle nuove tendenze (ad esempio il rifiuto di usare il computer o il telefono cellulare), un atteggiamento carefully careless, la provocazione e la stilizzazione della follia (dire di una persona che è un po’ pazza equivale ormai a un complimento38). IV. Finzione e autenticità La socialità dal XVII secolo in poi non si esauriva nell’interazione ma includeva anche la comunicazione a di35. Anche questo pensiero c’era già in Edward Young, che si chiedeva “Who knows whether Shakspeare (sic) might not have thought less, if he had read more?”: Young 1759, p. 574 36. “Konspiration des Schweigens”: Luhmann 1985, p. 99. 37. Mortier 1982, p. 203. 38. Cfr. ad esempio Trilling 1974, pp. 168ss.

74


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

stanza: l’orientamento al sociale mediato dalla stampa. La nuova problematicità del rapporto tra individuo e società, allora, si rifletteva anche in un rapporto ambiguo nei confronti dei testi a stampa. Per Pascal l’autore di un libro non è un uomo nel senso pieno del termine, e assume una connotazione negativa39: c’è l’idea di un resto irriducibile che non si trasmette dall’uomo all’autore, che si ritroverà anche in Rousseau: “C’est ici de mon portrait qu’il s’agit e non pas d’un livre”40. Per Young la stampa porta a rendere i pensieri vecchi e obsoleti41. Ma, soprattutto, la lettura di testi narrativi rende inautentici, fa perdere il senso del reale e delle cose, falsa il rapporto con gli altri ed anche con se stessi: una sindrome che in Don Chisciotte manteneva ancora aspetti indeterminati, mentre ai tempi di Madame Bovary ha già deviato nettamente verso la negatività e la lontananza da un sano rapporto con il mondo (soprattutto con il mondo sociale). Nello stesso tempo e negli stessi autori, però, la narrativa ha anche delle connotazioni positive e viene in qualche modo valorizzata. È sempre Edward Young a includere il suo famoso pamphlet sulla composizione originale in una “lettera all’autore di Sir Charles Grandison”, cioè proprio a quel Samuel Richardson che era diventato il riferimento esemplare per una nuova forma di fiction, e al quale anche Diderot aveva rivolto il suo elogio. Qual’era allora il rapporto dell’originalità con la fiction? Si trattava solo di perdita di autenticità, che spostava l’attenzione verso un ambito falso e ingannevole, o si poteva pensare anche ad una funzione positiva di “sollievo dalle preoccupazioni e restrizioni della vita”? Un’indeterminatezza anch’essa evidente in Young, che usa in maniera equivalente i termini “original” e “composition”, indicando con quest’ultimo i “blessings” di un “lettered recess” dalle preoccupazioni del reale42.

39. “Quand on voit le style naturel, on est tout étonné et ravi, car on s’attendait de voir un auteur, et on trouve un homme”: Pascal 1670, n. 554. 40. Rousseau 1959-1969, I, p. 154. 41. Young 1759, p. 552. 42. Ivi, p. 550.

75


ELENA ESPOSITO

Presumibilmente queste differenze di valutazione hanno a che fare con differenti usi della stampa, ed in particolare con la nuova forma del cosiddetto romanzo borghese43. La fiction nel senso inaugurato allora potrebbe essere vista come l’ultimo esito della lunga avventura dell’imitazione. Nel Settecento l’imitazione della natura viene definitivamente abbandonata con l’adozione di una forma radicalmente nuova: la rappresentazione di un ordine dichiaratamente fittizio, ma proprio in quanto tale realistico. La finzione non ricorre al fantastico, alla collocazione nel passato o in mondi lontani, ma narra vicende contemporanee, locali e del tutto simili a quelle che potrebbero accadere al lettore, in cui la connotazione fittizia ha il compito di consentire di superare l’intrasparenza dell’osservazione. Lo abbiamo visto: nella nuova forma dell’individualità l’osservatore è intrasparente per gli altri e per se stesso, e non si possono conoscere i suoi pensieri “autentici” senza far emergere il tarlo del dubbio e dell’inganno. Nel romanzo invece, proprio per la finzione dell’autore onnisciente, questo vincolo viene superato e viene consentita l’osservazione dei motivi e delle intenzioni – con una tale libertà che il lettore può arrivare ad osservare anche la macchia cieca dei personaggi rappresentati, vedere ciò che non vedono e non possono vedere, e “saperla più lunga” di loro. Ma questo, naturalmente, funziona solo con la protezione della finzione, che deve essere esplicita per tutte le parti coinvolte44. L’osservatore reale è ormai intrasparente. La “deviazione” per la finzione, allora, in questa forma non significa irrilevanza e mancanza di effetti per

43. La specifica forma di finzione che si realizza nella fiction non è poi limitata ai libri, ma si ritrova in forme di intrattenimento diverse come il teatro (moderno) e oggi soprattutto il cinema. In quanto segue ci riferiremo principalmente al romanzo in quanto il distacco dall’interazione consentito dalla forma scritta costituisce il presupposto per l’astrazione della semantica a cui faremo riferimento – che poi però può naturalmente esprimersi anche per altre vie. 44. Anche per questo la forma della favola, che lascia nel vago la questione del rapporto con il reale (e non a caso narra vicende fantastiche) e non richiede al lettore una piena consapevolezza dell’artificialità della finzione, nella società moderna viene riservata ai bambini.

76


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

il mondo reale, ma significa che questa efficacia riguarda ora il piano dell’osservazione, e non quello degli oggetti – impone l’abbandono del semplice riferimento alla dimensione materiale e una nuova combinazione con la dimensione sociale (nella figura dell’autore). Per avere delle ripercussioni sugli uomini e sulla società, la narrazione non ha più bisogno di ricorrere a utopie o ucronie, cioè mondi alternativi nello spazio o nel tempo (ampliamenti paradossali – che non esistono – della dimensione materiale) ma può riferirsi esplicitamente all’unico mondo reale, mentre quello che non esiste (è finto) è invece l’osservatore. Il romanzo moderno non imita il mondo, ma l’esperienza degli uomini rispetto al mondo. La distinzione realtà/finzione viene osservata per la prima volta in quanto differenza, senza collocarsi univocamente né da un lato né dall’altro: il romanzo tratta in modo fittizio del mondo reale e manifesta la realtà della finzione. Per questo il lettore, che deve essere in grado di orientarsi alla distinzione, può trarre dalla lettura delle indicazioni per il suo rapporto con la realtà. La finzione, infatti, consente di collocarsi nella prospettiva di un altro osservatore e di condividere le sue esperienze, che potrebbero essere le proprie (per questo è necessario il realismo della narrazione). Il romanzo, cioè, attiva l’autoesperienza del lettore45, in un’operalizzazione del distacco dall’immedesimazione che segna il definitivo superamento delle forme della retorica. Già Pascal non leggeva Montaigne per conoscere il mondo o per indagare la prospettiva di Montaigne, ma per indagare la propria prospettiva46, ed infatti gli Essais non hanno più nulla a che vedere con la rappresentazione di un modello esemplare, ma presentano un personaggio – non come oggetto di imitazione più o meno imperfetta, ma come stimolo per arricchire la propria riflessione47. Chi legge un romanzo, allora, condivide l’osservazione dei personaggi proprio a partire dalla consapevo-

45. Cfr. Luhmann 1995e, p. 283. 46. Cfr. Pascal 1670, n.568. 47. Sul passaggio dalla rappresentazione retorica degli exempla alla costituzione dei personaggi cfr. Hampton 1990.

77


ELENA ESPOSITO

lezza che potrebbe essere la propria – ma che non la è. L’effetto della lettura non è l’immedesimazione per cui poi si agisce e si pensa come il personaggio seguito, ma eventualmente proprio il contrario, per cui avendo fatto esperienza di una prospettiva differente ci si conferma nel proprio orientamento – o anche no. L’effetto della lettura, cioè, è in primo luogo l’aumento della complessità dell’osservazione – complessità proprio nel senso tecnico di numero e diversità delle possibilità prese in considerazione48. Il mondo del lettore di romanzi comprende più osservazioni e più diverse tra di loro, e la sua si definisce con il confronto con una molteplicità di possibilità alternative. Anche per questo Don Chisciotte, come è stato detto molte volte, rappresenta una sorta di soglia dalla forma antica a quella moderna della narrazione: il protagonista, che cerca di realizzare concretamente la realtà di cui ha letto, non mette in pratica il distacco dell’osservazione di secondo ordine – la quale è però richiesta al lettore del libro (anche se con qualche incertezza circolare). La finzione non è più parte del reale, ma diventa il suo orizzonte, e proprio per questo il reale può diventare orizzonte della finzione49 – come lati opposti di un’unica distinzione. Ed è su questo piano che la finzione può cambiare il mondo – passando per il progetto di mondo dell’osservatore, che è poi l’unica nozione di mondo ancora praticabile. In un mondo ormai sdoppiato nella distinzione realtà/finzione, l’originalità dell’osservatore50 non si costituisce come identità (con tutti i paradossi che abbiamo visto), ma nella biforcazione tra imitazione ed autenticità – sperimentata in primo luogo nella pratica della finzione. Il lettore si confronta con i personaggi della fiction e non è tenuto ad imitarli: anzi, proprio nella contrapposizione rispetto alla possibilità di identificarsi con essi, l’individuo scopre e rafforza la propria autenticità. Trova la propria identità passando di continuo da un lato all’al-

48. Cfr.Luhmann 1975. 49. Quasi una citazione da Jauß 1983, p. 430. 50. Anche di quello che non legge romanzi – la complessità della semantica prescinde dalle esperienze particolari del singolo.

78


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

tro della distinzione imitazione/autenticità51. L’originalità, in questa forma, è del tutto compatibile con l’inevitabile rimando alla prospettiva altrui – e all’osservazione di come gli altri ci osservano – perché non si realizza nell’isolamento, ma in un continuo confronto tra l’uniformità e la diversità, fra l’identificazione in una prospettiva che potrebbe essere la propria e il distacco in cui si riconosce la propria specificità. Ognuno conduce un’esistenza copiata52, ma questa mancanza di indipendenza che per La Rochefoucauld costituiva una mancanza, da superare nell’autenticità di chi si orientasse a valori autentici53, diventa nella semantica moderna una condizione inevitabile e il presupposto per poter riflettere sulla propria identità ed anche per poter sperimentare le passioni. Nessuno si innamora ingenuamente, e si è innamorati dell’amore molto prima di incontrare la persona a cui rivolgere la passione. Nell’amore per l’altro si scopre anche se stessi, ma non lo si potrebbe fare senza essere usciti da sé sperimentando un’osservazione esterna – fittizia. La consapevolezza dell’originalità presuppone il passaggio per la finzione. L’autenticità non è testardaggine. La fiction moderna può essere vista anche come il punto finale del lungo processo che porta al definitivo distacco del verosimile dal vero. La nozione classica di verosimile era stata ripresa nel Cinquecento italiano, e aveva subito anch’essa un cambiamento di significato. La fonte rimaneva Aristotele54, con la sua attribuzione al poeta del compito di dire non tanto il vero (le cose avvenute) ma il possibile (le cose che possono avvenire). La poesia mira al meraviglioso, che è gradevole e deve essere ricercato, ma può essere spesso diverso dal vero. Naturalmente non si tratta semplicemente di dire il falso, ma bisogna imparare a “dire il falso come si deve”, e la grandezza di Omero sta anche nell’aver insegnato come que-

51. Cfr. Luhmann 195a, p. 114ss. 52. Cfr. Luhmann 1982, p. 55. 53. “Il y a des gens (non tutti: E.E.) qui n’auraient jamais ètè amoureux s’ils n’avaient entendu parler de l’amour”: La Rochefoucauld 1665a, n.136. 54. Cfr. Poetica, 51bss.

79


ELENA ESPOSITO

sto si faccia55. Non è il falso in quanto tale a risultare affascinante, ma il verosimile, che spesso si allontana dal vero perché “è verosimile che accada qualcosa contro la verosimiglianza”56. Conviene allora preferire l’impossibile verosimile al possibile incredibile, e non evitare tanto il falso quanto l’illogico57. Ed è per questo che la poesia è più importante della storia: perché la storia si occupa dei particolari, spesso contingenti e inquinati da circostanze accidentali, mentre la poesia si rivolge agli universali58. Il verosimile è spesso più vero del vero (storico). Questa concezione corrisponde a quella che da un’ottica moderna appare come mancanza di distinzione tra finzione e realtà, e che ha caratterizzato la tradizione europea fino almeno al tardo medioevo59. Fatti storici e invenzioni si mescolavano in tutte le produzioni letterarie, sia nella storiografia (che riportava anche voci e dicerie, storie vere e storie inventate: si pensi solo ad Erodoto) che nella poesia: ancora Dante, nella Divina Commedia mescola nelle sue serie di esempi dei vari peccati figure come Tristano e Cleopatra, Didone e Paride, personaggi dell’Eneide e figure storiche o mitologiche. Questi miscugli per noi spesso implausibili si sorreggevano sulla distinzione allora indiscussa tra due generi di verità: la verità storica e la verità morale, che riguarda i principi universali di ciò che dovrebbe essere e produce forme ideali e paradigmatiche60. Per questo la poesia, che si rivolge alla seconda forma di verità, può essere falsa e vera nello stesso tempo: “falsa rispetto alla storia, ma vera per quel che riguarda la somiglianza al vero”61. 55. Ivi, 60a. 56. Ivi, 61b. 57. Ivi, 60a. 58. Ivi, 51b. 59. Lo sostiene ad esempio Jauß 1983. Sul ruolo della realtà storica rispetto alla finzione e all’edificazione, cfr. Nelson 1973. Bisogna osservare anche che spesso era difficile tracciare la distinzione tra i generi, perché mancavano i segni convenzionali con cui oggi distinguiamo abitualmente la finzione dalla non-fiction: stile, presentazione editoriale, collocazione sugli scaffali e simili. 60. Cfr. Davis 1983, p. 32. 61. Cfr. Agnolo Segni, Ragionamento sopra le cose pertinenti alla poetica, Firenze 1581, p. 17, citato in Hathaway 1968, p. 51.

80


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

Come la nozione di verità, anche l’idea di falso era differenziata e articolata al suo interno. Il criterio per definirla non era semplicemente la corrispondenza (o non corrispondenza) ai fatti, perché, come sosteneva S.Agostino, non tutto quello che si finge è una bugia: lo è solo se si finge qualcosa che non significa nulla. Se la finzione è legata a qualche significato, non è una bugia ma una “figura del vero”62: l’ontologia era alleata con la retorica. Il criterio di verità era legato all’assenza di contraddizioni: il che, di fronte agli aspetti enigmatici della realtà e alla mancanza di coerenza degli eventi storici, consentiva una certa indipendenza dai fatti e consentiva di sostenere che la finzione, se coerente e orientata a principi morali, poteva essere più vera della realtà. Alla fine del XVI secolo, Sir Philip Sidney poteva ancora affermare che “virtual truth is often less veracious then moral truth”63. La distinzione tra finzione e bugia era tutt’altro che chiara, e anche per questo era difficile legittimare la finzione pura e dichiarata, che correva sempre il rischio di venire squalificata come semplice menzogna. Secondo Blumenberg, tutta la tradizione della teoria poetica dell’antichità si può intendere come “un confronto con l’antico principio che i poeti mentono”64. La difesa delle favole ricorreva di solito a qualche aspetto allegorico o intenzione edificante65: un principio che veniva accettato tanto più facilmente in quanto sostenuto anche dalla della speciale posizione dei testi canonici delle Scritture, che valevano in modo indiscusso quale verità di riferimento, ma spesso contrastavano con la registrazione dei fatti storici66.

62. Cfr. S.Agostino, cit. in Nelson 1973, p. 14. 63. Citato in Davis 1983, p. 68. 64. “Auseinandersetzung mit dem antiken Satz, daß die Dicher lügen”: Blumenberg 1964, p. 9. 65. Cfr. Minnis 1988. 66. Nelson 1973, pp. 28ss. osserva la circostanza curiosa per cui in tutto il Medioevo, nonostante il ruolo subordinato della verità storica, tutte le narrazioni, per quanto fantasiose, si preoccupano di insistere sull’autenticità della vicenda narrata. Si sostiene che non si tratta di un’invenzione, e si chiama a testimone un qualche antico testo, divenuto poi irreperibile o qualche testimone oculare come l’arcive-

81


ELENA ESPOSITO

Un altro criterio, piuttosto paradossale ma non per questo meno efficace, consentiva di difendere le favole affermando che dicono la verità proprio perché non pretendono di essere collegate ad eventi reali, e non possono quindi ingannare nessuno: l’argomento usato da Apollonio a favore delle favole di Esopo. Una bugia dichiarata non sarebbe più tale, almeno dal punto di vista dei suoi effetti sociali. Anche questo ragionamento aveva una lunga tradizione: già Luciano, nel II secolo, afferma che nella sua Storia vera ha “presentato in modo persuasivo e veritiero ogni sorta di menzogne”67: “Scrivo dunque intorno a cose che né vidi né provai né appresi da altri, e inoltre di cose che non esistono affatto, e che non possono assolutamente esistere. Perciò occorre che i miei lettori non ci credano per nulla”68. Ma tutti mentono, anche coloro che si professano filosofi, solo che pensano che gli altri non se ne accorgano. Il “tipo di menzogna” praticato da Luciano è molto più onesto, “giacché in questo solo sarò veritiero, dicendo che mento”69. Molti secoli dopo, Sir Philip Sidney affermerà: “Now, for the poet, he nothing affirmeth, and therefore never lieth”70. Nell’età moderna, peraltro, il richiamo alla prospettiva dell’osservatore (che non verrebbe ingannato) ha un significato molto differente, che dà all’argomento un’efficacia diversa da un mero artificio sofistico. La finzione è giustificata, al punto di poter creare autonomamente una sua propria realtà71, perché l’esplicitazione dell’inganno è il fine stesso della narrazione72. La finzione non

scovo Turpino per le saghe carolingie. La spiegazione di Nelson è che mancava una categoria legittima di letteratura in cui inserire la fiction, e si ricorreva allora all’unica forma narrativa disponibile in ambito profano: appunto il resoconto storico. 67. Luciano, Storia vera, I,2 – in un’evidente ripresa della sofistica. 68. Ivi, I,4. È curioso il parallelismo tra questa affermazione e la formula rituale con cui i romanzi moderni dichiarano che “ogni riferimento a cose o persone effettivamente esistenti è puramente casuale”. 69. Ivi, I.4. 70. Sidney 1595. 71. La “factual fiction” di Davis 1983. 72. La palesazione dell’artificio iniziata con il concettismo.

82


SINGOLARITÀ DELL’INDIVIDUO

mira ad illudere nessuno, ma ad attivare il distacco che consente all’osservatore, passando per la realtà inventata, di tornare su di sé e sulla propria realtà reale. Il distacco, quindi, è il presupposto per accedere alla fiction, e spiega molte sue caratteristiche intensamente studiate, come la distinzione tra “showing” e “telling”, la scomparsa dell’autore, l’ironia, e in generale il rifiuto di tutte le “impurità retoriche” che portavano ad usare tecniche orientate alla persuasione via coinvolgimento, e non al distacco73. La finzione delle fiction non è finzione della realtà, ma “finzione della realtà delle realtà”, al fine non di ingannare ma di raggiungere un “ampliamento dell’ambito di ciò che è possibile per gli uomini”74. A questo livello di osservazione di secondo ordine, si rovescia l’attribuzione classica e la verosimiglianza non viene più riferita all’idealità del dover essere ma alla realtà della vita quotidiana75 – e non si pretende nemmeno che il verosimile corrisponda al vero: la fiction è realistica proprio in quanto dichiaratamente inventata. Potrebbe essere vera, ma non la è. In fondo è su questo che si basa l’Elogio di Richardson di Diderot, che esprime la nuova mentalità del XVIII secolo: l’illusione provocata dalle finzioni fantastiche è solo momentanea e passeggera, mentre quella prodotta al romanzo è molto più persistente, perché trattando di cose reali va a incidere sul modo in cui si considererà il mondo. La vita viene identificata con il drame, e cambia la sua realtà (ovviamente al livello dell’osservazione): “J’oserai dire que souvent l’histoire est un mauvais roman; et que le roman, comme tu [Richardson] l’as fait, est une bonne histoire”76.

73. Cfr. ad esempio Booth 1961. 74. “Fiktion der Realität von Realitäten” e “Erweiterung des Bereichs des Menschenmöglichen”: Blumenberg 1964, p. 27. 75. Cfr. Krauss 1964, in riferimento a Crébillon fils. 76 Diderot 1762, pp. 39-40.

83



Capitolo 5 Singolarità del presente

I. L’irruzione del nuovo Nella dimensione sociale abbiamo seguito la progressiva autonomizzazione dell’individualità, intesa come una nuova forma per trattare la differenza tra generale e particolare. Se vale la tesi della graduale dissoluzione della priorità della dimensione materiale, via via meno capace di riassorbire la singolarità in principi generali, ci dobbiamo ora porre la questione di come appare l’autonomia del particolare nella dimensione temporale. Come si presenta una singolarità irriducibile nell’ambito del tempo, cioè in riferimento alla distinzione prima/dopo? Come si rivela la perdita di efficacia della distinzione tra eternità e tempo, dove il primo si risolveva nella seconda1? E come si può intendere un tempo autonomo dal riferimento spazializzato al movimento? Dal Rinascimento in poi, la società occidentale si deve confrontare con l’irruzione difficilmente controllabile del nuovo, che compare in tutti i campi e risulta sempre più difficile neutralizzare e svalutare come variazione

1. Secondo la famosa definizione platonica del tempo come “immagine mobile dell’eternità”: cfr. Timeo, 37ss.

85


ELENA ESPOSITO

apparente ed inessenziale2. Il nuovo, soprendente ed inaspettato, si presenta come un’anomalia che non può essere spiegata con le categorie disponibili, e non può quindi essere ricondotta a forme già note – rappresenta cioè proprio l’autonomia del particolare nella dimensione temporale. Sembra che la sorpresa debba essere presa come tale e assuma una propria funzione. Provoca stupore e attira l’attenzione, ma non più per imprimersi nella memoria e favorire la conservazione dei contenuti – secondo i precetti della mnemotecnica che raccomandava a tal fine di usare immagini inaspettate o commoventi. La memorizzazione passa ormai per altre strade e viene delegata ai testi scritti, mentre l’organizzazione del ricordo si affida al metodo e all’organizzazione dei rimandi3. La sorpresa viene ora ricercata semplicemente perché piace, secondo la recente scoperta che la novità provoca piacere e viene apprezzata in quanto tale. La particolarità si basa sulla devianza, e su questo si fonda in epoca barocca la ricerca del “meraviglioso”, che stupisce e provoca ammirazione proprio perché è inedito, mai visto prima, e fondamentalmente inspiegabile con i criteri noti: appunto perché è nuovo. E questo, cioè la devianza, l’irritazione, l’indipendenza dall’ordine dato – tutte cose che in precedenza provocavano fastidio e si cercava di neutralizzare – viene ora apprezzato4. Si scopre nel XVII secolo che la tradizionale svalutazione della novità come fastidio ed eccezione non vale più e si tende a preferire il nuovo rispetto al vecchio – un atteggiamento che può essere spiegato come reazione alla constatazione della crescente difficoltà di inquadrare il nuovo nei riferimenti disponibili, cioè nelle categorie ricavate dalla dimensione materiale, che si diffonde in tutti i campi in maniera incontrollata5. Di fronte al dis2. Cfr. Luhmann, 1997, pp. 997ss.; 1989b, pp. 201ss. 3. Questo punto è stato trattato più estesamente in Esposito 2002, pp. 237ss. 4. Cfr. Luhmann 1995e, p. 325. 5. Già nel secolo precedente Machiavelli, ad esempio, osserva che i suoi tempi sono caratterizzati dalla “variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuori di ogni umana coniettura”: Machiavelli 1513, p. 78.

86


SINGOLARITÀ DEL PRESENTE

solvimento dei criteri, che lascia privi di un orientamento affidabile, si tende allora a rivolgersi al cambiamento e ad apprezzarlo in quanto tale: si produce un’“ipertrofia semantica della variazione” che porta a screditare automaticamente la stabilità e ad assegnare alla novità di per sé una connotazione positiva6: almeno in questo la sorpresa non coglie impreparati. Non solo allora la novità piace, ma “il n’ya proprement que ce qui est nouveau qui plaise à nos yeux”7, perché “On peut observer que c’est la nouveauté qui fait estimer ces choses, et non pas leur dignité naturelle”8, e “si finisce per apprezzare di più una mediocrità nuova fiammante che un’eccellenza già conosciuta e alla quale si è abituati”9 – una condizione ben difficile da spiegare, se non ricorrendo in maniera piuttosto problematica ai familiari riferimenti teologici, che sostenevano peraltro proprio il quadro ontologico da cui si è costretti ad allontanarsi. Grenaille afferma che è stato Dio stesso a volere che ci piacesse il cambiamento, perché il principio di tutte le cose è l’incostanza, che regola tutte la variazioni dell’universo, anche al livello dell’eternità. Il cambiamento, allora, collega Dio (“Principe transformateur”) al mondo come varietà10. Questo principio, naturalmente, non poteva convincere, perché cercava di ritrovare una stabilità proprio minando il fondamento della stabilità: la costanza dei principi al livello dell’eternità. Segnala comunque la consapevolezza della difficoltà, che impone di andare oltre all’orientamento alla dimensione materiale – al tentativo di spiegare il nuovo a partire da una costanza di fondo e di conciliarlo con il passato. La novità non annienta il passato, senza il quale non potrebbe nemmeno essere colta in quanto novità, ma nello stesso tempo lo nega: lo supera e lo conserva ad un tempo11 – un’ambiguità di fondo che non può essere risolta senza passare ad un au-

6. Luhmann 1997, p. 472; 1995e, p. 377. 7. Grenaille 1642, p. 130. 8. Ivi, p. 7 9. Cfr. Gracián 1647, n.269. 10. Cfr. Grenaille 1642, p. 2 e p. 104. 11. Cfr. Günther 1970.

87


ELENA ESPOSITO

tentico riconoscimento delle forme autonome della temporalità. La novità non si riferisce allora al mondo, non è un dato delle cose che a un certo punto compare. La descrizione di qualcosa come nuovo dipende piuttosto dal rapporto di un sistema con se stesso e segnala una trasformazione della sua struttura: riconoscendo le discontinuità ci si libera dalla necessità di ricondurre al passato i dati che si presentano e si guadagna la possibilità di riorganizzare i collegamenti tra le operazioni in maniera compatibile con una complessità molto più elevata12. Si riconfigura il rapporto tra ridondanza e variazione in un modo che consente molta più varietà – che condurrà poi anche ad un rilevante aumento della ridondanza (come vedremo, il passato viene ricordato e studiato con una puntigliosità prima ignota). L’orientamento della semantica passa dalla retorica alla temporalizzazione: dal passato inteso come raccolta di esempi (essenzialmente atemporali) alla consapevolezza della discontinuità. Koselleck descrive come dalla storia, prima magistra vitae, si possa ormai imparare solo che non si può imparare dalla storia, cioè che il presente si realizza sempre in forma inaspettata13. Non è la storia in quanto tale che insegna, ma l’osservazione della storia, che si viene a conoscere indagando il passato. Dallo studio non si ricavano degli esempi, che ormai non servono a niente, ma delle indicazioni sul modo di prepararsi ad affrontare le situazioni: non si impara a prevedere, ma a trattare l’imprevedibile. Dalla fine del Settecento si rinuncia a pensare al corso delle cose come una storia organizzata da Dio, e si rinuncia con questo anche ad ogni istanza extrastorica14: la storia non è destino, che si realizza indipendentemente dal fatto di essere conosciuto dagli uomini, ma è un processo guidato da forze immanenti, tra cui in primo luogo l’atteggiamento degli uomini nei confronti della storia – che possono pianificare, progettare, prevedere. La storia in questo senso si realizza soltanto al livello dell’osservazione di secondo or-

12. Luhmann 1987, p. 320. 13. Cfr., con molto materiale, Koselleck 1979, pp. 38-66. 14. Ivi, p. 143 e p. 263ss.

88


SINGOLARITÀ DEL PRESENTE

dine: è tale solo se viene conosciuta, e questa conoscenza modifica il corso stesso della storia. In questa situazione circolare e riflessiva naturalmente gli esempi non servono a niente, perché anche la stessa cosa, se si presentasse di nuovo quando è attesa, sarebbe diversa. L’unicità storica è irripetibile, cioè letteralmente senza precedenti15. I paralleli comparativi, sul modello di Plutarco, perdono il loro senso quando le epoche non sono più comparabili. Se non è la costanza ma il cambiamento a governare il corso delle cose bisogna prepararsi a rivalutare costantemente il presente man mano che si presenta, in una flessibilità che consente pressocché nello stesso tempo la famosa affermazione di Perrault “c’est nous qui sommes les Anciens” e la massima di La Bruyère “Nous, qui sommes si modernes, serons anciens dans quelque siècles” – una contraddizione materiale che si risolve senza problemi riconoscendo la diversità e la riflessività dei tempi. II. Incostanza e fortuna La valorizzazione del nuovo, però, fornisce un criterio estremamente debole, che consente solo di affermare che il nuovo piace, ma non dice né come si produce la novità né come distinguere novità “buone” da novità “cattive”, novità feconde da novità inutili – l’equivalente sul piano temporale della distinzione tra originalità e semplice stravaganza. Piace il “nuovo in quanto tale”, ma questo dice ancora troppo poco su come trattarlo e che cosa farsene. In questo modo si annulla il precedente orientamento alla costanza, sostituendolo solo con il criterionon criterio della novità. Ed in effetti questa predilezione per la sorpresa e il cambiamento, cioè proprio per “la partie perissable des choses”16 può apparire inspiegabile.

15. Cfr. von Moos 1988, p. 521. 16. Valery 1960, p. 19 – un deperimento già ben noto nel Seicento: “la novità dura poco (…). Il plauso tributato al nuovo si muterà nella noia con cui si guarda al vecchio” (Gracián 1647, n.269).

89


ELENA ESPOSITO

La reazione, a partire dal Rinascimento, è stata in primo luogo un senso di sconcerto che ha portato a drammatizzare la problematica del tempo, a partire dalla constatazione che il tempus sembra seguire sempre più di frequente una logica che non può essere ricondotta all’eternità17. Già nel tardo Medioevo si iniziano a constatare dei cambiamenti che non possono essere inseriti nel quadro della storia sacra e si avverte che nulla nel mondo è realmente stabile e permane nello stesso stato18. E in epoca barocca, come abbiamo visto19, si diffonde un interesse per il tempo e le sue forme enigmatiche, per la trasformazione e il cambiamento. Il presente, prima luogo della stabilità e della concretezza, appare fuggevole e incostante, e produce un senso di insicurezza e di variabilità di tutte le cose – in primo luogo degli uomini e delle loro azioni. L’incostanza viene descritta da Montaigne come la condizione antropologica di fondo: gli uomini sono portati a cambiare di continuo seguendo le inclinazioni del loro desiderio in direzioni sempre differenti, facendosi trascinare dal “vento delle occasioni”. I loro pensieri e i loro desideri non dipendono dai contenuti (dimensione materiale) ma dal momento in cui si producono (dimensione temporale), e gli uomini mutano come camaleonti – non sono altro “che ondeggiamento e incostanza”20. Considerazioni analoghe si trovano poi di continuo negli scritti dei moralisti21. Questa volubilità, naturalmente, è tanto più grave in quanto ad essa si aggiunge la consapevolezza riflessiva, e una sorta di incertezza di secondo ordine: “Non soltanto io sono agitato dal vento dei casi, secondo la sua direzione, ma

17. Cfr. Luhmann 1997, p. 1000. 18. Cfr. Graus 1987, p. 156. 19. Cfr. §3.II 20. Montaigne 1580-1588, II.I 21. Ad esempio in La Bruyère 1688b, XI.147: “Les hommes n’ont poit de caractères, ou s’il en ont, c’est celui de n’en avoir aucun qui soit suivi, qui ne se démente point, et ou il soient reconnaissables”, per cui nello stesso soggetto appaiono “Inquiétude d’esprit, inégalité d’humeur, inconstance de coeur, incertude de conduite” (X.4) o anche in Diderot 1875-1879, II, p. 373: “nous sommes nous, toujours nous, et pas une minute les mêmes”.

90


SINGOLARITÀ DEL PRESENTE

per di più io ho agito e mi travaglio per l’instabilità della mia situazione”22. Il XVII secolo è ossessionato dal problema dell’incostanza e del carattere mutevole delle cose, soprattutto perché ci si rende conto che la prudentia non è più sufficiente per controllare l’imprevedibilità del tempo. Come deve essere interpretata la sostituzione realizzata dalla semantica del Rinascimento dalla tradizionale distinzione fortuna/virtù a quella fortuna/prudentia23? La prudentia, intesa da Cicerone in poi in senso molto affine alla morale24 aveva efficacia in un mondo governato da una necessità di fondo, di origine divina. E siccome Dio coincide con la virtù, la prudenza è per sua natura vicina alla virtù. Per questo, secondo la famosa interpretazione di Boezio25, Dio si servirebbe della fortuna per convincere gli uomini della vanità delle apparenze nella vita terrena. Anche la fortuna non sarebbe che un’apparenza, mentre la vera natura del mondo sarebbe sempre ordinata. Se questo ordine viene messo in dubbio, come abbiamo visto accadere sempre più di frequente avvicinandosi alla modernità, la prudenza traballante si separa dalla morale, che si vuole mantenere salda26, e diventa l’antonimo della fortuna. Man mano che cala l’efficacia della prudenza, di conseguenza, aumenta la potenza della fortuna. E la fortuna diventa in effetti il tema e la questione centrale del Rinascimento, mentre il termine cambia il suo significato27: mentre nel mondo classico Fortuna costituiva una divinità in qualche modo secondaria, ora diventa una delle principali, se non addirittura la princi-

22. Montaigne 1580-1588, II.I 23. Su questo punto e in generale sulla semantica della fortuna nel Rinascimento si veda Santoro 1967. 24. Cicerone, De inventione, II, 53,160: “La prudenza è la conoscenza di ciò che è buono, di ciò che è cattivo e di ciò che non è né buono né cattivo. Le sue parti sono memoria, intelligenza e previsione”. 25. Cfr. De consolatione philosophiae. 26. E diventa a sua volta una divinità aggressiva e combattiva, che tende ad imporsi ed è sottoposta alla volontà: cfr. Reichert 1985, p. 33s. 27. Cfr. Doren 1922, p. 100; Reichert 1985, p. 21.

91


ELENA ESPOSITO

pale. Si separa dall’idea di un destino severo e implacabile (la fortuna con la ruota, che porta in alto per poi far precipitare inesorabilmente in basso), e si trasforma in una divinità vicina agli uomini, che governa un caso al quale ci si può avvicinare (e che si può influenzare) con il proprio comportamento. La fortuna è vicina al volere e alle azioni umane, e ne può tenere conto. Anzi, la fortuna si riferisce alla singolarità e alla particolarità, ed è questo che la rende affine al mondo degli uomini: particolarità delle persone, perché fa riferimento alle vicende dei singoli e non solo al destino dell’umanità in generale o del sovrano come suo rappresentante, e particolarità delle circostanze, perché passa da una morale fissa e normativa alla capacità di adattarsi alle situazioni mutevoli28. Il campo d’azione della fortuna è tanto più ampio quanto più sembra indebolirsi la necessità delle cose – o in altri termini: la fortuna diventa tanto più rilevante quanto più l’ordine del cosmo e della società appare instabile e mutevole, cioè contingente. Il caso diventa un’opportunità e si inizia a tentare di calcolarlo e di controllarlo29. Per governare la fortuna bisogna saper cogliere le occasioni, gli istanti che compaiono, fuggono e non si ripresentano30.

28. La “qualità dei tempi” di Machiavelli, con cui bisogna cercare il “riscontro”: Machiavelli 1513, pp. 79-80. 29. Cfr. Haug 1998a, p. 157. 30. Anche occasione è un tipico termine di Machiavelli, in cui si rivela però che la concezione del Cinquecento, anche se comincia a problematizzare la contingenza e l’incertezza, resta in fondo ancorata all’ontologia classica – in questo caso alla distinzione tempus/aeternitas. Machiavelli scrive: “Et veramente chi fosse tanto savio che conoscesse i tempi e l’ordine delle cose, et accomodassisi a quelle, harebbe sempre buona fortuna, o egli si guarderebbe sempre dalla trista, et verrebbe a essere vero che il savio comandasse alle stelle et a’ fati”: Machiavelli 1961, p. 231 – cioè: l’ordine degli eventi è già scritto, e chi fosse tanto saggio (virtù) da poterlo conoscere sarebbe al riparo dai capricci della fortuna. Nel capitolo “Dell’Occasione” degli Scritti letterari, Machiavelli personifica l’occasione come una figura femminile con le ali ai piedi che passa rapidamente, con tutti i capelli raccolti nella parte anteriore del capo. Chi non afferra in tempo questo ciuffo non avrà più modo di trattenerla. Questa rappresentazione riproduce esattamente l’iconografia classica di kairós, lo spiraglio aperto agli uomini per coordinarsi con la necessità eterna: cfr. Trédé 1992, Levi

92


SINGOLARITÀ DEL PRESENTE

III. La storicizzazione del tempo La semantica temporale si stabilizza nel XVIII secolo, quando si produce una sorta di paradossale abitudine all’innovazione, coadiuvata anche dalla diffusione di forme di comunicazione a stampa che cominciano a delineare l’autonomia di una comunicazione di massa. I mass media sono rivolti in primo luogo alla produzione del nuovo, sotto forma di notizie (news), ma anche di intrattenimento (divertimento, che deve sempre essere variato). La regolarità nella diffusione (e nella stessa produzione) delle notizie31, con appositi apparati, addetti, strutture, implica una corrispondente regolarità delle aspettative – cioè il fatto che ci si attenda la produzione del nuovo e della sorpresa. Questo naturalmente incide sul rapporto con il tempo ed inizia a conferire una struttura a quella che si era presentata come una mera dissoluzione delle forme consolidate. L’autorità che crea legittimità si sposta dal richiamo al passato al riferimento al processo storico stesso: tutto ha il suo tempo e il suo luogo e deve essere preso in considerazione in questa prospettiva. La temporalizzazione si impone progressivamente in tutti gli ambiti32, finché il tempo stesso viene concepito storicamente: anche la creazione, si inizia a pensare, non si è compiuta tutta in una volta, ma si realizza progressivamente e in modo continuo, ordinando le sue operazioni in successione33. L’ideale di perfezione viene storicizzato e diventa “perfectionnement”: la via storica alla perfezione34. Allontanan1923. Ciononostante molti autori rinascimentali avvertono l’inefficacia di regole fisse e consigliano la discrezione e la capacità di distinguere persone, tempi e circostanze: su questa letteratura si veda Santoro 1967. All’orientamento alla contingenza manca però ancora la riflessività dell’orientamento al rischio. 31. Si veda a questo proposito la teoria del newsmaking: Cfr. Gans 1979; Altheide 1976; Altheide-Snow 1979. Su tutta la questione del rapporto tra novità e mass media cfr. Luhmann 1995a, pp. 44ss., 53ss. 32. Cfr. ad esempio Lepenies 1977. 33. Cfr., su tutta la questione della temporalizzazione in prospettiva sociologica, Luhmann 1980b e sulla trasformazione del senso della storia in prospettiva storica, Koselleck 1979, pp. 17-37. 34. Cfr. Koselleck 2000, p. 137.

93


ELENA ESPOSITO

dosi dal riferimento normativo all’eternità aumenta la disponibilità a riconoscere entità limitate nel tempo, la cui varietà e transitorietà non vengono viste necessariamente come difetti (il vincolo alla dimensione subordinata del tempus). Si studiano e si analizzano a pieno titolo delle circostanze che hanno un inizio e una fine, e lo si sa – come le congiunture economiche, le trasformazioni politiche, la variazione degli stili in ambito artistico. Proprio nell’estetica appare con particolare evidenza il passaggio del riferimento ad un bello assoluto e universale all’idea di un bello relativo e occasionale, riferito semmai più al futuro che al passato: il bello di Stendhal come “promessa della felicità”35. La valutazione del bello viene inquadrata nello stile in senso moderno, che è un concetto per indicare qualcosa che è nello stesso tempo determinante e mutevole36. Ancora una volta la contrapposizione è alla retorica, che individuava negli stili altrettanti registri di realizzazione delle opere, anch’essi organizzati gerarchicamente e in contemporanea: magnifico, sublime, mediocre, umile. La nozione storicizzata di stile distingue invece delle epoche, e si riferisce quindi a differenze temporali piuttosto che materiali. Questo spostamento di accenti porta a delineare dei nuovi orientamenti in quella varietas temporum che inizialmente era stata vista solo come indice di decadenza e di allontanamento dalla perfezione. Accanto alla classificazione materiale che si riallacciava alla distinzione aeternitas/tempus e che portava a individuare “tipi” diversi di cose (come ad esempio i tipi diversi del tempo divino e del tempo terreno), emerge progressivamente una classificazione temporale secondo epoche e periodi, per cui le stesse cose possono essere diverse in tempi differenti37. Solo in queste condizioni il tempo può produrre veramente qualcosa di nuovo e non è solo riproduzione della memoria – e sono dati i presupposti per il pensiero evolutivo38. 35. Citato in Baudelaire 1981, p. 280, dove si trova anche la teorizzazione del bello relativo. 36. Cfr. Luhmann 1995e, p. 641 e 1986. 37. Cfr. Luhmann 1995d, p. 78. 38. Cfr. von Foerster e Günther 1967.

94


SINGOLARITÀ DEL PRESENTE

Cambia allora il ruolo del passato, che per la prima volta acquista caratteri autenticamente temporali – con la conseguenza innanzitutto di separarsi con chiarezza dal presente. Nella semantica degli esempi e degli auctores da imitare, il passato si confondeva praticamente con il presente, ed era separato da questo più da considerazioni morali che da considerazioni temporali: ciò che era valido era sempre presente. In epoca moderna, invece, il passato diventa un riferimento autonomo che può essere preso in considerazione come tale, ammirato o rifiutato, ma comunque confrontato con il presente come qualcosa di distinto. Solo allora può essere “inventata” la tradizione39: quando i costumi e le abitudini perdono la loro cogenza e naturalezza, e iniziano a venire messi in discussione. La tradizione indica la continuità che nonostante tutto permane, almeno per un certo tempo – indica invarianza quando ormai la variazione è la regola. Si tratta in effetti anche in questo caso di un concetto moderno, sviluppato proprio in contrapposizione alle forme tramandate dalla retorica e alla memoria intesa come continuità40. Inizia a delinearsi il ruolo positivo della discontinuità, che richiede una corrispondente capacità di dimenticare. Dalla necessità emergono la contingenza e la molteplicità dei possibili. Se il passato è separato dal presente, però, può essere interessante osservarlo e studiarlo proprio da questo punto di vista – un interesse incrementato anche in questo caso dalla diffusione della stampa, che sgancia la presentazione di un evento dal momento e dal contesto in cui si è realizzato e rende possibile riattualizzarlo in altri presenti – anzi rende possibile la presentazione simultanea di più passati in un unico presente, creando problemi di orientamento che stimolano un’indagine più approfondita41. Ed in effetti dalla fine del Cinquecento 39. Cfr. Hobsbawm 1983. 40. Sulla storia del concetto di tradizione in Occidente si veda Wiedenhofer 1991. 41. Cfr. Luhmann 1986, p. 641. Questo porta tra l’altro all’interesse per la cronometria, fino alla costruzione di un tempo unitario ed astratto per tutto il mondo e per tutte le epoche, che garantisca la collocazione nel tempo di ogni evento senza ricorso a determinazioni

95


ELENA ESPOSITO

appaiono molti scritti sulla maniera di trattare la storia e in generale si osserva una crescita della curiosità storica e dell’interesse per i suoi metodi42 – inizialmente soprattutto alla ricerca di una via d’uscita dal caos che sembrava regnare. Questo porta ad un’autonomizzazione della prospettiva storica da altre discipline, come la filologia, la cosmologia, la teologia con cui si era confusa fino ad allora, e alla ricerca di idee e di criteri specificamente storici (diversamente da nozioni come il caso, la provvidenza o il miracolo). Si iniziano a richiedere garanzie di autenticità che distinguano gli eventi storici da vicende favolose o miracolose, e che non dipendano da istanze extrastoriche – e possano quindi anche evolversi e progredire esse stesse. Il resoconto degli eventi si sovrappone, proprio nel nuovo interesse per il metodo e per i criteri, all’osservazione degli eventi, e da questo si genera la trasformazione che Koselleck43 ha studiato per il campo semantico tedesco nel passaggio dal termine “Historie”, che poteva anche essere usato al plurale e valeva essenzialmente come esempio, al singolare collettivo “Geschichte”, che è unica e comprende tutti gli eventi e tutti i protagonisti perché non dipende da essi o dal suo oggetto specifico, ed è aperta verso il futuro. La “Geschichte an sich” diventa un oggetto di studio autonomo. IV. L’attualità del cambiamento Se tutto cambia nel tempo, anche il tempo, l’unica possibile stabilità può essere ricercata nel cambiamento stesso e nel momento in cui si realizza: paradossalmente nel presente, che è nello stesso tempo attualità e cambiamento (cioè apertura al possibile) – contingenza allo stato puro. Il presente è quindi da un lato l’unico tempo “reale”: tutto ciò che avviene avviene nel presente e deve

materiali, con un riferimento convenzionale che consente di estenderlo all’infinito sia all’indietro (avanti Cristo) che in avanti (dopo Cristo): cfr. Wilcox 1987. 42. Su questa tendenza si veda, con molto materiale, Dubois 1967. 43. Cfr. Koselleck 1979, pp. 38ss, 263ss.

96


SINGOLARITÀ DEL PRESENTE

essere riferito ad esso – anche il ricordo e la previsione, il rimpianto e la speranza. D’altro lato il presente passa e si annulla immediatamente, lasciando posto ad un altro presente che sarà diverso. L’unica possibile stabilità deve allora essere ricercata nella modificabilità e la variabilità diventa la condizione per poter realizzare un ordine. L’essere si separa dalla durata, l’esistenza dalla perseveranza44, mentre quelle che erano classicamente le determinazioni accidentali diventano il riferimento fondamentale – le caratteristiche che rientravano nel modus, e qualificavano quelli che erano indicati in maniera svalutativa come i modi variabili dell’essere45. È nel “modo”, ormai, che bisogna ricercare l’identità – o nella forma derivata della moda, come vedremo in seguito. Questo rovesciamento dei rapporti tra stabilità e variazione conduce ad una ristrutturazione complessiva del tempo. Il passato, lo abbiamo visto, perde il suo valore di riferimento, e per compensare questa mancanza ci si rivolge al futuro: mentre prima ci si volgeva all’indietro e si cercavano indicazioni nel passato, si tende ora a proiettarsi in avanti e ad interpretare il presente in funzione di ciò che si pensa di poter attendere. Più che risultare dal passato, il presente prepara l’avvenire. In questo spostamento, però, entrambi gli aspetti del tempo cambiano di significato. Il ruolo del passato, che è noto, non sta nell’assicurare continuità (identità) nel tempo, ma nel costruire il presupposto per un futuro che si sa sarà diverso da esso. Il futuro, che è ignoto per la sua natura, perché di esso si sa solo che sarà diverso da quello che ci si aspetta (e per questo è “aperto”), produce e riproduce incertezza, e con ciò l’oscillazione tra speranza e timore, tra progetti e delusioni. Nella costituzione complessiva del tempo, allora, il passato introduce ridondanza e il futuro varietà46 – riproducendole di continuo, perché quando il futuro diventa passato ed è conosciuto, produce nel contempo un nuovo futuro anch’esso ignoto. Sicurezza (di ciò che è stato) e insicurezza (di ciò che sarà)

44. Luhmann 1980b, p. 270 e 2000b, p. 56. 45. Cfr. sopra §3.I. 46. Cfr. Luhmann 1997, p. 106.

97


ELENA ESPOSITO

si generano e si trasformano in ogni presente, ma è l’insicurezza ad attirare attenzione ed energie: il passato viene interpretato in funzione della preparazione del futuro, e non più per neutralizzarlo in un presupposto di continuità. La stessa pianificazione, contrariamente alle intenzioni, conferma questo orientamento: è solo nel futuro, conoscendo i risultati dei propri sforzi, che si capirà veramente quello che si è fatto – il significato del presente rimanda al futuro di cui sarà il passato. In questa costruzione riflessiva, il tempo nel suo complesso si riproduce in ogni presente: perché aggiunge qualcosa al passato e lo cambia, e perché rende possibile un futuro che prima non era possibile47. “In prospettiva storica, ogni tempo è un tempo di transizione”48. La trasformazione della semantica temporale, quindi, non corrisponde ad un semplice ribaltamento di preferenze, dalla priorità del passato a quella del futuro, ma presenta più radicalmente la stessa struttura che abbiamo preso in esame nella dimensione sociale: il passaggio da un orientamento all’identità dell’uno o dell’altro ambito del tempo alla differenza che lo costituisce – appunto la distinzione passato/futuro in quanto contrapposizione tra i due lati senza alcuna stabilità presupposta, invece di coppie come al di qua/aldilà che si potevano risolvere nell’unità (materiale) dell’universitas rerum. Il risultato è comunque una singolarità, rappresentata in questo caso dal presente come evento senza durata, che scompare nel momento in cui si presenta ed è definito proprio dall’attualità del cambiamento: il punto di scansione tra un passato che non c’è più e un futuro che non c’è ancora, che saranno comunque diversi – per questo si tratta necessariamente di una pura differenza e di un istante senza durata. E per questo ogni presente è inevitabilmente produzione del nuovo, cioè della singolarità irriducibile da cui siamo partiti, dell’elemento dirompente in cui si cristallizza l’incompatibilità con l’antica semantica della stabilità. Il presente non è soltanto

47. Cfr. Luhmann 1980b, p. 290. 48. “(J)ede Zeit ist, historisch gesehen, eine Übergangszeit”: Graus 1987, p. 163.

98


SINGOLARITÀ DEL PRESENTE

diverso dal passato, ma anche da ciò che ci si aspettava – non è soltanto differente, ma è nuovo – sul piano dell’osservazione di secondo ordine che non osserva solo le cose, ma anche e soprattutto il modo in cui vengono osservate, valutate, attese. L’unicità del presente non è allora soltanto una particolarità accanto ad altre (quelle degli altri presenti), ma un’autentica singolarità che impone di riformulare in ogni presente la stessa distinzione tra particolare e generale. In questo sta la modernità della temporalizzazione e la sua affinità con la “scoperta” della singolarità dell’individuo. Come l’individuo poi si definisce tramite l’autoreferenza (con relativa eteroreferenza), che gli dà la possibilità di trovare nel rapporto con se stesso (che rimane) la connessione tra i suoi continui cambiamenti e le sue diversità, così il presente in quanto novità si definisce nella rinuncia a riferimenti esterni e nella nuova autonomia della dimensione temporale. Lo schema ontologico della tradizione, espressione del primato della dimensione materiale, viene sostituito da uno schema temporale che si insinua in ogni recesso ed in ogni aspetto della semantica – giustificando in qualche misura la drammatizzazione del tempo del Rinascimento e del barocco49. Le metafore spaziali vengono sostituite da metafore temporali: la vecchia idea che ogni cosa avesse un posto giusto si trasforma nell’attenzione alla collocazione rispetto al tempo. La preoccupazione di stampo stratificato di non essere nel posto o nel ruolo sbagliato si trasforma nella preoccupazione di non restare indietro (o di non andare troppo avanti) – una costruzione molto più complessa perché riferita ad un ordine in continuo cambiamento in cui futuro dipende dal presente in cui ci si preoccupa di esso. Il tempo stesso acquisisce una qualità storica, per cui ad esempio la scansione temporale viene riferita ai secoli, a quali si attribuisce un loro senso: un “genius saeculi” che incide sull’interpretazione delle cose e degli eventi.

49. Una volta concluso il processo, alla fine del XVIII secolo, i concetti che avevano originariamente un significato spaziale hanno acquisito un significato temporale: cfr. Koselleck 2000, p. 303.

99


ELENA ESPOSITO

Per questo ad esempio si può produrre una forma circolare come l’avanguardia, che si definisce proprio per la sua collocazione temporale: pretende di essere più avanti rispetto al proprio presente, e in questo modo potrebbe intervenire su di esso per preparare il futuro. Anche la verità cambia con il tempo, e per questo ogni affermazione deve essere corredata di un riferimento che la connetta al momento in cui viene emessa: “everything said is said in a present”. Il presupposto è evidentemente la trasformazione nella costituzione delle identità di cui abbiamo parlato sopra, che viene praticata ma raramente riconosciuta: la stabilità tramite variazione si realizza in primo luogo nel tempo, rinunciando a identità fisse che precedono il tempo a favore di identità variabili costruite nel tempo e tramite il tempo, cioè generate nel presente per vincolarlo e connettere il futuro con il passato – ad esempio gli individui autoriferiti di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Più concretamente, la nuova autonomia della dimensione temporale si esprime anche nell’organizzazione del mondo e delle scelte: l’orientamento rispetto al tempo condiziona le preferenze di valore e le rilevanze materiali. Si decide che cosa fare a seconda del tempo disponibile, ad esempio non cominciando qualcosa di importante a ridosso di un appuntamento, o anche scegliendo il tema su cui lavorare a partire dal tempo che richiede (perché altrimenti non si hanno finanziamenti, non si può organizzare la carriera o altro)50. È spesso il tempo a vincolare se stesso, più che fattori esterni (o in combinazione con essi): l’identità degli individui è definita nella società moderna più dalla carriera che dall’origine, da quello che si è diventati più che da quello che si è, ed è la carriera a decidere che cosa a un certo punto non si può più fare – dopo una certa età e una certa esperienza è difficile per un ingegnere diventare uno psicologo, se non con notevoli rinunce; e quando ci si sposa in età matura il matrimonio ha un altro significato e altre conseguenze che da giovani.

50. Cfr. Luhmann 2002, p. 216.

100


Capitolo 6 Il mito della conversazione

I. Conversazione ed etichetta Secondo le analisi presentate fin qui, la società della prima età moderna si trova esposta ad una nuova contingenza, proprio nel senso di singolarità irriducibile perché nulla vincola la sua possibilità di essere diversa, sia nella dimensione sociale che nella dimensione temporale. La conseguenza, naturalmente, è un effetto di disorientamento anche sul piano materiale. I primi tentativi di governare lo sconcerto che ne risulta ricorrono alla dimensione sociale, ancora governata dal rango e quindi dal presupposto di un ordine dato, nel tentativo di recuperare, coniugando le nuove distinzioni sociali con le determinazioni materiali, una forma di ordine – più complesso ma non per questo ingovernabile1. Ci si rivolge allora alla forma di socialità che, rispecchiando le distinzioni consolidate, era più familiare e sembrava poter ammettere l’aumento della contingenza ma nel contempo governarlo: ci si rivolge all’interazione tra presenti, sotto-

1. Un indice di questo spostamento può essere visto nel fatto che in quel periodo il baricentro della semantica passa dall’ontologia al linguaggio: dal riferimento a ciò che c’è a quello a ciò che si dice: cfr. Luhmann 1995d, p. 95.

101


ELENA ESPOSITO

ponendola però ad una nuova cura per renderla capace di reggere una maggiore complessità. La parola chiave diventa conversazione, intesa in senso più ampio di quello oggi corrente, e diverso anche dalla “conversatio” latina: indicava lo “stare insieme” in senso lato, e non solamente il colloquio; includeva le relazioni sociali e la compagnia di persone, quindi riunioni e ricevimenti oltre alla conversazione nella nostra accezione ristretta2. Nonostante i richiami alle fonti classiche, l’orientamento è significativamente diverso. Si riprendono il precetto ciceroniano della neglegentia diligens e gli studi sul sermo communis in quanto distinto dai discorsi pubblici3, o il modello dell’urbanitas di Quintiliano4. Quello che importa, però, sono delle trattazioni molto selettive sull’“arte di parlare” in circoli ristretti e per svago, distinta dall’eloquenza rivolta ad un pubblico ampio. Le competenze richieste sono diverse, come mostra anche il fatto che i sofisti, notoriamente maestri nella retorica elaborata e costruita, erano molto meno brillanti nei dialoghi, nei quali imponevano il divieto di interrompere e fare domande – mentre Socrate era abilissimo. La tradizione retorica, quindi, veniva riconsiderata da un’ottica molto selettiva, alla ricerca di una nuova “retorica della conversazione”5 centrata sulla categoria di convenientia: capacità di tener conto della situazione, del momento, del luogo, delle caratteristiche delle persone che ascoltano. Nei nostri termini: si riconsidera la tradizione retorica dal punto di vista di una nuova accentuata attenzione alla contingenza e agli strumenti per trattarla. Si ricercano le regole della conversazione, ma nel farlo ci si allontana sempre più, quasi inavvertitamente, da quelli che erano stati fino allora i precetti dell’unico ambito di interazione veramente curato: le norme dell’etichetta. La reazione, peraltro, non è l’abbandono ma

2. Cfr. Fumaroli 1994, p. 163; Burke 1993, pp. 25ss. ed.it, con varie indicazioni bibliografiche. 3. Cicerone, De officiis, I, 37. 4. Institutio oratoriae, VI, 3. Cfr. anche Bury 1993. 5. L’espressione si trova in Fumaroli 1994, p. 152.

102


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

l’irrigidimento di quei precetti: un raffinamento e una minuziosità sempre più spinti, fino ad arrivare al momento in cui tutto il cerimoniale viene avvertito solo come un onere gravoso. L’etichetta costituisce una forma di involuzione dell’interazione6, perché tratta la dimensione sociale senza riflettere su di essa – senza vedere l’altro come un alter ego e neutralizzando la doppia contingenza. Il senso dell’etichetta stava essenzialmente nell’esprimere e nel rappresentare i rapporti di rango. Nella sua fase non irrigidita mostrava ancora una certa flessibilità, che consentiva un’osservazione dei rapporti reciproci tra le persone. Ogni sfumatura, cenno, piccola deviazione dall’uso, per quanto apparentemente futile, aveva un significato e rivelava lo stato e il mutamento dell’intreccio delle relazioni: chi godeva di favore e chi veniva sfavorito, le intenzioni e i progetti – senza però nessuno scavo psicologico e nessun interesse per quella che noi consideriamo l’interiorità dell’individuo. Non interessavano i pensieri e le preoccupazioni del singolo, ma solo il valore di posizione nel gioco mutevole dei rapporti gerarchici e di potere, ed era questo che si osservava osservando le persone7. L’interazione regolata dall’etichetta era soltanto quella asimmetrica tra governanti e sottoposti, nelle sue varie articolazioni e ai suoi vari livelli, accanto alla quale inizia però a delinearsi una forma di interazione simmetrica e apparentemente gratuita, rivolta non alla competizione e al tentativo di prevaricare (come nei casi trattati dalla retorica classica) ma piuttosto da un nuovo desiderio di piacere e dalla ricerca della piacevolezza. Man mano che l’interesse e il fulcro della dimensione sociale si spostano verso questa nuova forma, l’etichetta appare sempre più vuota e nel XVIII secolo la si percepisce ormai solo come un peso.

6. Cfr. Luhmann 1980a, p. 93ss. 7. Questi aspetti sono esaminati in dettaglio in Elias 1969, Cap. III. Si veda anche la descrizione del famoso lever di Luigi XIV in Taine 1876, libro secondo.

103


ELENA ESPOSITO

II. Interazione verticale e interazione orizzontale Il Cortegiano, testo notissimo e di grande influenza, rappresenta in un certo senso il punto di transizione tra l’etichetta e la successiva letteratura sulle “belle maniere”. Si tratta infatti di un libro ancora molto legato alla tradizione retorica, di cui riprende la struttura e le forme: è costellato di riferimenti agli auctores antichi e a classici come Dante, Petrarca, Boccaccio; si orienta al sistema topico dei “loci” da cui trarre insegnamenti; non distingue la conversazione “gratuita” dalle comunicazioni che hanno una funzione per la società nel suo complesso, e discetta quindi sui grandi temi dell’amore e della virtù, sulla forma di governo e sul modo di ben governare; più che spiegare le nozioni trattate, fornisce istruzioni tramite esempi8. In Castiglione si vede con particolare chiarezza la continuità tra la tradizione retorica classica e la trattatistica sul comportamento9, che da molti punti di vista se ne può considerare l’erede in una società che dispone della stampa e in cui la pervasività della comunicazione a distanza esautora il precedente privilegio della “scienza del parlare”. Quando si tratta dell’interazione, però, si ha ancora a che fare con il parlare, ma cambiano i problemi. Accanto all’interazione verticale tra gli uomini di corte e il principe, inizia ad emergere una altra modalità di interazione orizzontale tra pari con il nome specifico di conversazione10 – anche se formalmente in Castiglione la legittimità della seconda è ancora subordinata alla prima. Il primo scopo del cortigiano è infatti quello di compiacere il principe, ed è in quest’ottica che vengono inizialmente formulate quelle che diventeranno poi le norme della conversazione in generale: deve parlare di cose gradite al signore, cercare di conoscere ciò che gli piace ed 8. Un atteggiamento che si trova anche in un autore per molti aspetti ben più moderno come Montaigne, quando tratta della “scienza del garbo”: cfr. Montaigne 1580-1588, I, XII. 9. Cfr. Pons 1999. 10. Per Castiglione il termine conversazione implica una certa parità, per cui è impreciso usarlo nelle comunicazioni tra il signore e il servitore: Cfr. Castiglione 1528, L.II. XVIII.

104


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

adattarsi, essere amabile e di buon umore, non presuntuoso, modesto e non ostinato, non imporsi ed osservare discretamente i tempi11. Quando poi si rivolge alla “Conversazione coi pari o poco diseguali”12, Castiglione non dice nulla, salvo poi tornarvi in seguito, parlando di come intrattenersi con gli amici: e qui formula la regola “rarissima”, per cui “la mediocrità sia più laudevole che la eccellenzia”13. In questo ambito, infatti, conta soprattutto apparire modesti e accomodanti, divertire e intrattenere gli altri, e conviene “governarsi sempre con una certa onesta mediocrità”14. Se nel Cortegiano l’interazione asimmetrica o verticale rimane primaria e costituisce l’oggetto ultimo di interesse della trattazione, già nel Galateo la situazione è molto cambiata. Anche se il testo di Della Casa è estremamente dotto e ricco di rimandi alla pedagogia antica e alla tradizione classica e retorica, e anche se il Cortegiano è presente attraverso molti echi e riferimenti, il vero problema qui non è il rapporto con il principe ma le relazioni tra pari. Il piano verticale non è negato esplicitamente, ma non interessa più di tanto, come non interessano le “cerimonie” dell’interazione gerarchica15. Qui l’attenzione è rivolta esplicitamente alle “maniere” che regolano la conversazione circolare su un piano orizzontale. E questo incide profondamente anche sulla forma del testo, molto più sciolta e discorsiva, meno idealizzante e più aderente alla realtà. Il Galateo non è una raccolta di esempi, ma in linea con le tendenze del tempo delinea quello che si può chiamare un metodo, che insegna non mostrando dei modelli da imitare ma trasmettendo dei criteri che orientano l’agire in società. Mentre Castiglione vuole ancora costruire il “perfetto cortigiano”16, il Galateo illustra già quello che diventerà il modello dell’honnête homme17. Nella trasformazione che 11. Ivi, L.II.XVIII e XVIII. 12. Ivi, L.II.XXV. 13. Ivi, L.II.XXXI. 14. Ivi, L.II.XLI. 15. Cfr. Della Casa 1558, XIV.33ss. 16. Castiglione 1528, L.I.XII. 17. Cfr. Santoro 1967, pp. 441ss.

105


ELENA ESPOSITO

porta alla trattatistica sulle maniere, la retorica perde l’aspetto agonistico che ne faceva una competizione in cui ci si voleva imporre agli altri, e tutto il lato di preparazione, di costruzione, di evidente artificio. La conversazione si svolge tra partner che cercano reciprocamente di compiacersi e di non imporsi, e punta ad apparire imprevedibile, improvvisata, spontanea. La “retorica della conversazione” secondo Fumaroli, si riduce all’espressione felice, alla rapidità, alla chiarezza, alla vivacità18 – a quelli che prima venivano considerati strumenti secondari, e che ora diventano il fine. Nel Seicento il crescente interesse per il tema della conversazione è testimoniato dalla proliferazione di testi sulle belle maniere, che pur riferendosi alla letteratura cortese italiana, si producono soprattutto in ambito francese. Il baricentro si è ormai spostato verso lo scambio simmetrico tra partner alla pari, che non mirano ad ottenere dei risultati acquisendo le grazie dei potenti, ma godono dell’interazione in quanto tale. Non conta allora la capacità di persuasione, ma solo l’ineffabile abilità che verrà descritta nella nuova categoria di esprit. L’interazione viene presentata ostentatamente come un gioco, che in quanto tale ha le sue forme e il suo stile, ma esclusivamente interni e sganciati dalla ricchezza e dal potere. Anzi, l’ostentazione e ogni tentativo di far valere nella conversazione crediti acquisiti altrove vengono ormai bollati come irrimediabilmente ineleganti. La massima sanzione è il ridicolo, anch’esso del tutto indipendente da criteri morali o contenutistici esterni alla conversazione. L’immagine della corte cambia radicalmente rispetto all’idealizzazione che si ritrovava ancora in Castiglione. Ormai è del tutto negativa: luogo di intrighi e di apparenza, di adulazione e di vuoti rituali19, a cui si contrappongono la città e la circolazione nella cerchie borghesi, in cui – si dice – regna la libertà e viene offerta a ciascuno

18. Cfr. Fumaroli 1994, pp. 153-4. 19. Lo si vede con chiarezza nel cap. VII di La Bruyère 1688b: “De la Cour”.

106


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

l’opportunità di farsi conoscere per i propri meriti20. È a questo tipo di interazione che si ritiene che si debbano rivolgere ora le riflessioni dei moralisti. Méré arriva a separare corte e “grand monde”, affermando che coloro che appartengono alla prima pensano a torto di far parte del secondo. Il grand monde è un “mondo universale” che raccoglie tutti coloro che, sull’intero globo, hanno sviluppato gli stessi gusti e gli stessi criteri – che li portano anche a rifiutare unanimemente alcune cose che la corte approva (ad esempio le mode)21. Si sviluppa il tipo sociale della conversazione, che supera anche il Galateo in quanto rinuncia alla pretesa di fornire delle regole fisse. L’unico precetto, afferma Faret, è quello di “accomodarsi all’interlocutore e alle circostanze”22. Questo principio, in realtà, valeva anche per Della Casa23, ma con una significativa differenza: secondo il modello della retorica classica, da Aristotele in poi, egli si orienta sì ai tratti di umore e di sensibilità dell’interlocutore, ma seguendo dei modelli standard di ciò che “procura diletto” o offende, lusinga o infastidisce. Non c’è ancora nessuno scavo psicologico né la preoccupazione di dare spazio alla singolarità degli individui: ci si orienta ad una figura generale dell’uomo e delle sue passioni. Nei testi francesi sulla conversazione le stesse regole della letteratura cortese assumono una sfumatura diversa: la raccomandazione classica di non parlare troppo, di saper ascoltare e di non imporre principi di fondo ha qui il significato di garantire agli altri lo spazio e la libertà per determinare da sé il proprio comportamento. L’incontro con gli altri ha ora lo scopo principale di consentire a ciascuno di sviluppare la propria diversità – non quindi di adattarsi, o di farlo solo nei limiti che consentono agli altri di esercitare la medesima libertà di non adattamento. Lo spazio della conversazione è lo spazio in

20. Cfr. Dufresny 1699, amusement XI. 21. Cfr. Mèré 1677, pp. 11ss. 22. Cfr. Faret 1630, pp. 71-2. 23. “conviensi fare dell’altrui voglia suo piacere”: Della Casa 1558, IX.22.

107


ELENA ESPOSITO

cui si forma e si realizza la singolarità, sostenuta e confermata da un’analoga singolarità degli interlocutori24. Se l’etichetta era la conferma dell’ordine di rango, la conversazione è il riconoscimento della contingenza sociale – la doppia contingenza in cui la singolarità si produce nel confronto con un’analoga singolarità altrettanto impenetrabile25. Anche per questo si deve rifiutare ogni contenuto prestabilito, e ci si orienta alla volatilità della battuta estemporanea, del “mot”, di quella “pointe” che per Gracián era il fondamento dell’acutezza. Tutta la teoria dell’acutezza, infatti, viene ripresa, e i testi di Gracián diventano un riferimento standard per la letteratura seicentesca sulla maniere. La valorizzazione e l’esaltazione della conversazione tipiche del Seicento, però, rivelano un rapporto complesso con la tradizione. Si cura e si ricerca la frivolezza26 – stilizzando nella gratuità del comportamento una contraddittoria difesa dell’ordine stratificato: l’ultimo ordine allora pensabile e ancora disponibile. Nel periodo in cui l’interazione negli strati elevati inizia a perdere visibilmente la sua funzione di fulcro e di motore della società nel suo complesso, e gli orientamenti di fondo si stanno spostando verso i criteri dei sistemi di funzione, la stilizzazione della conversazione, proprio con il suo rifiuto delle strutture gerarchiche, diventa il rifugio in cui far valere le qualità residue che contraddistinguevano la nobiltà. Nel momento in cui a queste qualità veniva sottratta la funzione sociale, la valorizzazione della gratuità diventa l’ultimo modo per mantenere la distinzione. La frivolezza diventa – per un poco – l’estremo rifugio dalla banalità27. Non sorprende che questo atteggiamento rivolto al più classico “cambiare per far restare le cose come prima” abbia un rapporto contraddittorio anche con la stampa. La diffusione della comunicazione a distanza, 24. Cfr. Luhmann 1980a. 25. Per il concetto di doppia contingenza si veda Luhmann 1984, cap. 3. 26. Che per Della Casa era un’accusa da cui difendersi, e lui lo fa sostenendo trattarsi invece di una virtù, “o cosa molto a virtù somigliante”: Della Casa 1558, I.7. 27. Cfr. Luhmann 1982, p. 53, n.4.

108


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

come abbiamo visto, favorisce di per sé l’autonomia dell’osservazione. La distanza si traduce facilmente in distacco e si rivela un potenziale destabilizzante. I manuali sulla conversazione, ovviamente, sono ormai diffusi a stampa, ma mantengono la curiosa pretesa di fornire per iscritto dei modelli di comportamento orale, sancendone nel contempo la superiorità28. Di per sé la lettura non viene raccomandata né valorizzata. Il vero piacere si ricava non dalla lettura ma dalla conversazione, che già per Montaigne è “Il più fecondo e naturale esercizio del nostro spirito. (…) Lo studio dei libri è un’azione languente e debole che non infiamma: laddove la conversazione insegna e nello stesso tempo esercita”29. L’uomo brillante non deve mai parlare come un libro – per essere in grado di farlo, però, deve aver letto molto. Riconoscendo le tendenze del tempo, l’aristocrazia della prima modernità tenta di convogliarle in una direzione che mantenga, in forma rivista, una sua posizione privilegiata – e lo fa ripiegando sulla conversazione: l’unica forma di comunicazione in cui si può ancora far valere la specificità della persona – il contesto egualitario che serve a far emergere le differenze. III. L’arte di piacere Nel momento in cui le funzioni fondamentali per la società non vengono più svolte negli incontri tra gli appartenenti allo strato elevato, all’interazione viene sottratta quasi provocatoriamente ogni funzione, e la si stilizza nella conversazione che ha come unico scopo la socievolezza fine a se stessa. Già nel Cortegiano si esaltava la piacevolezza dello stare insieme, il “maraviglioso piacere” che se ne ricava, la “dolcezza” che deriva da una

28. “Il me semble que l’on dit les choses encore plus finement qu’on ne peut les écrire”: La Bruyère 1988b, V.78. 29. Montaigne 1580-1588, III.VIII: “Dell’arte di conversare”. Cfr. Madame de Sévigné 1972-1978, lettera a Madame de Grignan, 15.1.1690: bisogna praticare la conversazione con i giovani, perché è un insegnamento più utile di qualsiasi lettura.

109


ELENA ESPOSITO

“amata e cara compagnia”30 – una lode che si ripete quasi inalterata pressoché in tutti i trattati sulla conversazione, con un’uniformità e un calore tanto accentuati da non poter non suscitare il sospetto31. Nel Settecento era un luogo comune che Parigi fosse il posto al mondo in cui il gusto della conversazione era più diffuso e più raffinato, diventando un bisogno condiviso da tutti, che procurava la massima felicità: riferimento standard era De l’Allemagne di Mme de Staël32 – e ancora nella seconda metà dell’Ottocento Taine descrive la compagnia di gente cortese nei salotti del secolo precedente come un “piacere perfetto”33. Curiosamente, peraltro, questo piacere non dipendeva da qualche caratteristica che poteva essere indicata, ma si generava in maniera riflessiva dal procurare piacere a qualcuno, che a sua volta ne ricavava un analogo piacere. Nei termini di La Bruyère: “Il me semble que l’esprit de politesse est une certaine attention à faire que par nos paroles et par nos manières les autres soient content de nous et d’eux mêmes”34. L’“art de plaire” non indicava direttamente come procurarsi piacere, ma come piacere agli altri, e questa diventa la forma di perfezione (contestuale e contingente) ancora disponibile, che prende il posto degli ideali e delle indicazioni della morale. Il fine, come osserva Figuére, “n’est jamais de plaire à la vertu que de plaire à tout le monde”35. Questo era indicato come scopo della conversazione senza scopo (frivola) – come sostiene Méré36: nella conversazione non si

30. Cfr. Castiglione 1528, L.I.IV e V. 31. Cfr. fra tantissimi Montaigne 1580-1588, III.VIII: la conversazione è “la pratica più dolce che di alcun’altra azione della nostra vita”. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Sull’idealizzazione del “piacere della parola” e della conversazione come “condizione di armonia e di benessere capace di trascendere il peso della realtà “cfr. Craveri 2001, pp. 455ss. 32. Madame de Staël 1967, vol.I, cap. XI, “De l’esprit de conversation”. 33. Taine 1876, libro II. 34. La Bruyère 1688b, V.32. 35. Figuère 1641, p. 30. 36. Cfr. Méré 1677, p. 103.

110


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

pensa che a divertirsi e a rendere felici gli interlocutori, e questo è lo scopo. Ma perché quest’esaltazione in fondo acritica della piacevolezza dello stare insieme, tanto ribadita da sembrare un valore (che notoriamente si difende anche e soprattutto in condizioni controfattuali) piuttosto che una constatazione neutrale? Si doveva fare in modo che, in mancanza dei valori tradizionali, la piacevolezza della conversazione diventasse un valore primario, tanto vuoto da non entrare in concorrenza con quelli che ormai erano diventati i riferimenti autonomi dei sistemi di funzione. Il piacere di stare insieme, allora, non dipendeva dalla ricchezza né dal potere politico, o dalla cultura o dall’abilità artistica, ma costituiva un valore di per sé, sufficientemente forte da consentire la rinuncia a tutti gli altri orientamenti. Aldilà di ogni altra considerazione, lo scopo della vita sociale37 si ricercava e si trovava nella conversazione, e chi mostrava la maggiore abilità in questo ambito poteva ancora rivendicare un ruolo e una funzione primaria – almeno in quanto persona38. Questo ruolo, nonostante la pretesa egualitaria della conversazione nei salotti – anzi grazie ad essa – restava saldamente nelle mani dell’aristocrazia, perché i criteri apparentemente universali che governavano la pratica della conversazione di fatto riconoscevano il suo privilegio. Ribadendo la posizione superiore dell’aristocrazia e quindi un certo ordine nei rapporti sociali, peraltro, si garantiva anche un simulacro di ordine nella contingenza sociale. Se guardiamo come veniva regolata la conversazione, infatti, possiamo notare una suggestiva ambiguità: le regole del comportamento in società venivano enunciate e discusse, ma nello stesso tempo smentite. Si formulavano le regole per poi ribadire che in realtà non ci sono regole a cui attenersi con sicurezza.

37. La felicità, che Luhmann 1980a, p. 141, indica come la prima forma di inclusione della società moderna. 38. Secondo Craveri 2001, p. 11, l’ideale della conversazione è l’ultimo che abbia consentito alla nobiltà francese dell’Antico Regime di erigersi ancora una volta a emblema e modello di tutta la società.

111


ELENA ESPOSITO

A partire dalle formulazioni di Castiglione, tutti i trattati sulle maniere enunciano una serie di principi da seguire nella conversazione – con una sorprendente uniformità fra i diversi autori. I consigli sono sempre gli stessi: non bisogna cercare di imporre le proprie opinioni ma essere arrendevoli a quelle altrui, soprattutto se poco rilevanti – “Percioché la vittoria in si fatti casi torna in danno”39. Non bisogna “invaghirsi di se stessi”, cercando di apparire intelligenti e saggi, dare consigli, parlare troppo o troppo poco, togliere i ragionamenti di bocca agli altri, perché “la gente ama la libertà, di cui ci priva chi ci vuol fare da maestro”40. E per lo stesso motivo bisogna star sempre attenti a non urtare nessuno, usare parole gentili, modeste e dolci, evitare enfasi e dogmatismo, assumere su di sé le colpe degli altri (“io non seppi” anziché “voi non m’intendete”), evitare di sottolineare bugie, errori o incertezze. Le stesse raccomandazioni si ritrovano pressoché identiche in tutti i testi successivi41, con la sola differenza che l’attenzione si sposta a volte su un piano di secondo ordine, in cui si riflette sulla reciproca intrasparenza degli interlocutori: La Bruyère dà per scontato che il punto della conversazione è solo l’autopresentazione reciproca, per cui ad esempio si racconta una vicenda non tanto per informare gli altri quanto per avere il merito di dirla. La vecchia massima di lasciar parlare gli altri viene associata all’idea che conviene farlo perché in questo modo si ottiene il vantaggio di avere informazioni su di loro (che a questo punto evidentemente appaiono necessarie, e carenti)42. “L’esprit de la conversation consiste bien moins à en montrer beaucoup qu’à en faire trouver aux autres: celui qui sort de votre entretien content de soi et de son esprit, l’est de vous parfaitement”43.

39. Della Casa 1588, XVIII, 45. 40. Ibidem. 41. Cfr. ad esempio Faret 1630, pp. 65ss.; Gracián 1647, n.148; La Rochefoucauld 1665a, n.IV; Mèrè 1677. 42. Cfr. La Bruyère 1688b, V 43. Ivi, 16.

112


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

Il senso della conversazione, ormai è chiaro, sta nell’offrire un luogo in cui la nuova singolarità degli individui si possa sviluppare, e questo avviene rispecchiandosi nella prospettiva degli altri partecipanti alla conversazione. Ci si osserva osservando come si viene osservati – cioè si costruisce la propria singolarità in rapporto all’analoga singolarità degli altri; si conferma il proprio esprit consentendo agli altri di trovare il loro. Questa costellazione, evidentemente paradossale, viene operazionalizzata nei principi della conversazione, rivolti tutti a rendere disponibile agli interlocutori la “libertà” di esprimersi e di realizzarsi (lasciar spazio all’altro, non parlare troppo, non contraddire) – e questo, data l’ormai evidente idiosincrasia di tutti, vieta ogni ricorso a contenuti e a opinioni forti (bisogna infatti evitare il dogmatismo e l’enfasi). In questa neutralizzazione reciproca sembra generarsi l’unico possibile spazio in cui è ancora possibile riconoscere e praticare la propria identità – il che, come si sottolinea ossessivamente, procura piacere, dolcezza e gioia. O, nei nostri termini: il ricorso alla dimensione sociale consente di supplire al dissolvimento del riferimento alla dimensione materiale nel garantire un’identità sociale agli individui. Anche per questo non bisogna parlare di nulla, se non come pretesto per costruire una relazione. Evidentemente, però, questa soluzione è minata da un paradosso di fondo: fornisce stabilità al prezzo della vuotezza e dell’incongruenza di trovare se stessi soltanto nel ricorso ad altri. Come abbiamo visto44, l’originalità si trova soltanto nell’essere come gli altri. Nel XVII e nel XVIII secolo, però, il paradosso veniva neutralizzato ricorrendo come abbiamo visto a quel residuo di stabilità ontologica che era ancora disponibile, per quanto rivisto e alleggerito: il riflesso ancora persistente della stratificazione sulle singole persone. I principi della conversazione, infatti, cioè l’operazionalizzazione della contingenza sociale, non venivano legittimati tramite la contingenza, ma ancora tramite la necessità, quello che non si poteva cambiare e su cui non si poteva intervenire: l’ori44. § 4.III.

113


ELENA ESPOSITO

gine dei singoli. Per questo, non appena formulati i precetti della conversazione, ci si affrettava a ribadire che non erano delle regole, e che quindi non potevano essere insegnate e apprese da chiunque senza ulteriori specificazioni45. L’“arte della conversazione” non è una tecnica, per il semplice motivo che chi la conosce non la può insegnare perché non la ha mai imparata46. Se c’è una regola sotto i principi della conversazione, infatti, è quella ancora una volta paradossale della naturalezza. Dalla famosa “sprezzatura” del Cortegiano in poi, si ribadisce che la cosa maggiormente da evitare è l’affettazione, e per questo bisogna mostrare sempre di fare quel che si fa senza fatica e quasi senza pensarci. Il vero criterio distintivo è una certa “grazia naturale” che non può essere insegnata, che appare come negligenza e quasi come naivetè, “l’ornamento degli stessi ornamenti”47 – una grazia che appartiene per nascita agli esponenti delle classi elevate, e che gli altri devono sforzarsi di apprendere con fatica e con attenzione48. Ma l’impresa rimane sempre inane, perché lo sforzo per non sforzarsi, l’artificio della naturalezza, la fatica della grazia sono tanto vani quanto la spontaneità introdotta come norma49. Apparentemente, quindi, le regole-non regole della conversazione presuppongono una situazione egualitaria, un’interazione orizzontale in cui ciascuno costruisce la propria identità nel corso della comunicazione. Di fatto, però, le regole del comportamento hanno uno statuto ambiguo: devono valere per tutti, ma servono per distinguere una classe, che le possiede per nascita50. Evidentemente questa affermazione contemporanea di egualitarismo e distinzione non era facile da sostenere, e i trattati sul comportamento la discutono con un certo 45. Cfr. Della Casa 1558, XXV; Faret 1630, p. 71; La Bruyère 1688b,V, 32. 46. L’argomento è di Castiglione 1528, L.I.XXV. 47. Gracián 1647, n.127. 48. Cfr. Castiglione 1528, L.I.XXVIs.; Faret 1630, pp. 30ss.; Mère 1677, p. 106. 49. La Bruyère 1688b, XII,34.; La Rochefoucauld 1665a, n.134. 50. Cfr. Revel 1993.

114


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

imbarazzo, ma senza mai negarla. Anche in questo caso il dibattito sulla necessità di una nascita nobile si può trovare già in Castiglione, che lascia apparentemente la questione aperta, pur sostenendo che il nobile parte molto avvantaggiato, se non altro perché gli altri hanno a priori una buona opinione di lui51. Faret, poi, dichiarerà con chiarezza che una nascita nobile è necessaria per partecipare al “grande commercio del mondo”, pur non essendo sufficiente. I vantaggi che derivano da un’origine elevata, infatti, sono tanto consistenti che difficilmente chi ne sia sprovvisto potrà compensarli, ma questo non esonera dalla cultura e dall’impegno52. Per questo, sostiene Mérè, occorrono sia la nascita che l’educazione, perché la natura deve dare il suo contributo e l’arte deve completare l’opera fino a raggiungere l’eccellenza53. Di qui risulta la nozione complessa di honnêteté, e con essa la figura dell’honnête homme che nella prima metà del Seicento prende il posto di quella di cortigiano, alla quale nello stesso tempo si contrappone. E curiosamente, mentre la descrizione delle caratteristiche del cortigiano rimaneva essenzialmente immune da considerazioni di classe (che potevano essere date per scontate), la teorizzazione dell’honnêteté ha bisogno di sottolineare costantemente i privilegi della buona nascita – perché di fatto tutta l’argomentazione sembra smentirli. Richiedere al nobile educazione e cultura per poter essere pienamente tale, significa infatti aprire una breccia non più recuperabile nel quadro ontologico che ne sosteneva lo statuto privilegiato (ci si richiamava infatti alla natura). Ma un nobile non educato, allora, che cos’è? E in questa zona grigia sottratta all’ordine stratificato non si possono inserire anche altre figure, come l’intellettuale e l’artista, che compensano con meriti particolari il difetto di nascita? Una volta che si è stabilita una complementarietà tra meriti innati e meriti acquisiti, si apre la porta ad una contingenza difficilmente controllabile.

51. Castiglione 1528, L.I.XIVss. 52. Cfr. Faret 1630, pp. 17-21 53. Mèrè 1700, p. 70.

115


ELENA ESPOSITO

In questa situazione di mancanza di criteri univoci, si ricorre al “criterio privo di criteri” del buon gusto54. Naturalmente l’idea di gusto era sempre esistita, ma riferita anch’essa primariamente alla dimensione materiale: “gustus” era legato a “sapor”, e se de gustibus non si doveva discutere, non era per un riferimento alla contingenza dei giudizi soggettivi, ma semplicemente per via della diversità per così dire naturale delle persone, anch’essa irriflessa e per nulla problematica. La situazione cambia nella seconda metà del Seicento, quando la nozione viene astratta e riferita alla dimensione sociale, per cui il gusto in senso moderno informa sulla persona che lo prova molto più che sulle caratteristiche dell’oggetto55. Anzi, il gusto diventa una nozione complessa e sfaccettata: nello stesso tempo soggettivo e oggettivo, affettivo e razionale, aleatorio e normativo. Il giudizio sul valore dell’oggetto è nello stesso tempo l’indice del valore di colui che lo formula56. Non sorprende quindi che una nozione di questo genere non possa essere definita, come viene continuamente ribadito. Ma quest’impossibilità di definizione non comporta assolutamente che il gusto non sia univoco e che non lo si possa discutere – anzi, nel presentarne l’evanescenza si sottolinea immancabilmente che esiste un gusto “giusto”57. Lo si coglie peraltro soprattutto in negativo, per il fatto che si riconosce benissimo e concordemente il cattivo gusto. È evidente quindi, afferma La Rochefoucauld, che esistono un solo gusto giusto e molti gusti sbagliati58. Non solo: per Méré “le bon goust se fonde toûjours sur des raisons tres solides; mais le plus souvent sans raisonner”59. Il gusto con-

54. Cfr.Luhmann 1995e, p. 388. 55. Per l’evoluzione del gusto si veda Schümmer/Stierle 1974 e Frackowiak 1994. 56. Cfr. Sermain 1999, p. 881. 57. Cfr. ad esempio La Bruyère 1688b, 10: “Il ya a dans l’art un point de perfection comme de bonté ou de maturité dans la nature. Celui qui le sent et qui l’aime à le goût parfait; celui qui ne le sent pas, et qui aime au decà ou au delà, a le goût défectueux. Il y a donc un bon et un mauvais goût, et l’on dispute des goûts avec fondement”. 58. La Rochefoucauld 1665b, “Des goûts”, n.X. 59. Méré 1677, p. 129.

116


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

sente di valutare le cose in modo spontaneo, senza servirsi di nessuna regola e addirittura senza riflettere; non può essere definito ma non ha bisogno di definizione, perché coloro che lo possiedono lo applicano in maniera naturale. Il gusto, infatti, è un dato primario e il privilegio di una élite60, e per questo non può mai essere confuso con il gusto comune, che deriva dall’imitazione e dallo sforzo di coloro che non dispongono della facoltà naturale di giudicare correttamente: la massa dei non nobili. Il gusto, quindi, viene a confluire con l’honnêteté: l’honnête homme ha buon gusto e per riconoscere il buon gusto ci si deve riferire al giudizio degli honnêtes hommes, che lo mettono in pratica e lo raffinano nella conversazione. Il buon gusto, cioè, diventa l’appiglio che consente di sottrarre all’arbitrarietà la costituzione riflessiva dell’identità degli individui e di mantenere il riferimento all’ordine stratificato. Ciascuno costituisce la sua identità nell’interazione vuota e nell’osservarsi osservato dagli altri, ma esistono ugualmente dei criteri che consentono di distinguere e di discriminare i risultati che ne derivano, e di orientare il proprio comportamento. Il buon gusto, per quanto ineffabile, viene riconosciuto unanimemente e può così funzionare da pseudo-criterio61. In altri termini: attraverso il gusto l’individuo riflette la propria identità, e per questo gli attribuisce tanta importanza ed è così sensibile al riguardo: “Notre amourpropre souffre plus inpatiemment la condamnation de

60. Cfr. Condillac, 1746, I.II, §103. Si tratta in fondo della stessa idea di Bourdieu 1979, che riformula il gusto come habitus e ne fa l’indice dell’appartenenza di classe. Nella modernità però, questi criteri interattivi non possono essere estesi alla società nel suo complesso. La separazione tra la sfera interattiva e la comunicazione impersonale significa anche che il gusto non è il criterio che “organizza la percezione del mondo sociale”: solo semmai delle persone. 61. Cfr. Craveri 2001, p. 284s.: l’“uomo di gusto” seguiva spontaneamente e con assoluta fiducia le proprie sensazioni, ma nel farlo non intendeva assolutamente affermare la propria diversità e non voleva distinguersi. La sua aspirazione era infatti quella di sentirsi in armonia con i valori etici ed estetici del suo mondo (e quindi con gli altri appartenenti): “Nulla, dunque, di meno arbitrario delle sue scelte”.

117


ELENA ESPOSITO

nos goûts che de nos opinions”62, e non solo: “On renonce plus aisément à son intérêt qu’à son goût”63 – perché interessi ed opinioni riguardano ormai l’ambito e i criteri dei sistemi di funzione, a cui l’aristocratico della prima modenità deve partecipare ma in cui non si identifica. La costituzione dell’identità personale (degli honnêtes hommes) avviene nella conversazione, che è guidata dalle regole del buon gusto, in cui i nobili fungono da riferimento – tanto più indiscutibile in quanto indefinibile. La struttura stratificata, di conseguenza, rimane l’ordine a cui si orienta la contingenza, la limita e la governa. IV. Intrasparenza e sincerità Il punto debole di questa costruzione, fondata su regole che non si possono formulare e concetti che non si possono definire, è naturalmente l’autoreferenza, che si pone già nel XVII secolo come questione dell’autenticità e della connessa sincerità – eredità irrisolta dell’epoca barocca64. L’honnête homme infatti, nella descrizione standard di Mèrè, è tale solo se è trasparente, cioè non si interessa della propria honnêtetè e si preoccupa solo di essere gradevole. Il mistero dell’honnêtetè non sopporta di essere presentato come un mistero – come fanno le dame preziose che vogliono suggerire di avere qualcosa da celare65. Il vero honnête homme infatti lo è tanto, se non più, in privato che in pubblico66 – chi è davvero onesto non si preoccupa di apparire tale. Si pone così il pro-

62. La Rochefoucauld 1665a, n.13. 63. Ivi, n.390. 64. Questo è il tema di Armance di Stendhal. Octave, il protagonista, è intelligente, nobile, bello, “odioso agli uomini volgari” – cioè il potenziale prototipo dell’honnête homme. Soffre però dell’incomunicabilità dovuta alla fondamentale intrasparenza degli individui, in particolare l’incomunicabilità della sincerità che renderà irrealizzabile il suo amore con Armance. Per questo la conversazione nei salotti gli appare grottesca e insopportabile. 65. Méré 1700, pp. 79-80. 66. Ivi, p. 93.

118


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

blema di distinguere la vera dalla falsa honnêtetè, che ripropone la tipica questione seicentesca dell’amour-propre (Nicole): l’honnêtetè deve essere ricercata per se stessa e non per soddisfare l’amor proprio – quindi non deve affatto essere ricercata. Come si può allora riconoscerla? Il primo criterio, ancora una volta circolare, sta nella gradevolezza: le nostre azioni sono oneste solo quando appaiono gradevoli alle persone che “sanno giudicare” – e al contrario l’onestà è falsa quando questo non si verifica67. Le persone oneste sono quindi quelle il cui comportamento appare gradevole alle persone oneste – poco più che una tautologia, se non ci si potesse appigliare al fatto che la vera honnêtetè è universale, in tutte le corti come nel deserto68. Esiste quindi per così dire una legge necessaria dell’honnêtetè al disotto di tutte le contingenze e di tutti i capricci della fortuna, che non dipende dai tempi né dalle opinioni degli altri (anche se tutti gli honnêtes hommes concorderebbero nel loro giudizio). In questo l’honnêtetè è radicalmente diversa dalla moda e si oppone ad essa – ad esempio non ammette la stravaganza e la follia, anche se è noto che non c’è nulla di così irragionevole da non poter essere imposto dall’abitudine. I criteri dell’honnêtetè consentono però di non immischiarsi in queste cose, per cui non si è alla moda né contro la moda, ma indifferenti ai suoi criteri69. L’honnête homme non si fa notare per la singolarità, che sorprende e quindi dispiace70. L’honnêteté è come la devozione, ed infatti le due seguono le stesse strade e si sostengono l’un l’altra71. Anche la devozione è estranea alle oscillazioni della moda: un altro tipico tema del Seicento, trattato particolarmente da La Bruyère. La virtù (strettamente legata alla devozione)

67. Ivi, p. 94. 68. “Le changement des lieux, la revolution du temps, ni la difference de coûtumes ne leur ôtent presque rien: c’est de bon or, qui vaut toûjours son prix, et les modes sont, à l’égard de l’honnêtetè, ce que le coin des Souverains est pour l’or, je veux dire peu de chose”: Ivi, 93-94. 69. Ivi, p. 100. 70. Ivi, p. 154. 71. Ivi, p. 101.

119


ELENA ESPOSITO

basta a se stessa e rimane tale, che sia alla moda o meno72, ed è sempre apprezzata dalle persone oneste. Proprio per questo, presumibilmente, un pensatore interessato in primo luogo alla virtù, come appunto La Bruyère, dedica tante pagine e tanta attenzione alla moda, che sembra ribaltare le priorità assoggettando anche la devozione ai suoi capricci, e rendendo mutevole ciò che per sua natura dovrebbe restare stabile73. Se il criterio del valore è la stabilità, non sorprende il parallelo, diventato rapidamente un topos, tra moda e morte: entrambe infatti, sono “figlie della Caducità e nemiche della memoria”, ed entrambe mirano “a disfare e rimutare di continuo le cose di quaggiù”74. Il gusto per il rinnovamento equivale ancora alla decadenza, e per questo bisogna cercare di contrastarlo il più possibile. Ciò che questi autori non colgono, però, è che la moda non è solo instabilità, ma annuncia e rappresenta una nuova forma di stabilità. L’opposizione devoto/libertino intesa come stabilità/instabilità non è equilibrata perché contrappone due livelli di riflessività differenti. Il secondo lato ha una potenza riflessiva maggiore, che gli consente di inglobare anche il primo. Il devoto contrapposto al libertino, presentato quindi come un lato di un’alternativa, non è più un devoto, ma semmai un devoto alla moda – cioè anch’egli libertino75. Quando la virtù diventa “vertu à la mode”, come argomenta Figuére, 72. La Bruyère 1688b, XII, 5. Cfr. anche ad esempio M.me de Sablé 1678: “Le vrai mérite ne dépend poit du temps ni de la mode “(n.2); “Ce n’est ni une grande louange, ni un grand blâme quand on dit qu’un esprit est ou n’est plus à la mode. S’il est un fois tel qu’il doit être, il est toujours come il doit être” (n.45). 73. Cfr. La Bruyère 1688b, XII, 16ss. – in particolare 19: “Les couleurs sont préparées, et la toile est toute prête; mais comment le fixer, cet homme inquiet, léger, inconstant, qui change de mille et mille figures? Je le peins dévot, et je crois l’avoir attrapé; mail il m’échappe, et deja il est libertin. Qu’il demeure du moins dans cette mauvaise situation, et je saurai le prendre dans un point de déréglement de coeur et d’esprit où il sera reconnaissable; mais la mode presse, il est dévot”. 74. Leopardi 1824. Cfr. anche ad esempio Benjamin 1982, Passagen B: Mode. 75. “Adraste était se corrumpu et si libertin, qu’il lui a été moins difficile de suivre la mode e se faire dévot; il lui eût coûté davantage d’être homme de bien”: La Bruyère 1688b, XI, 147.

120


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

si trasforma nell’arte di vivere in società ed è guidata in primo luogo alla capacità di adattarsi agli altri e alle circostanze76. Sotto l’egida della moda la sua stabilità si trasforma nella valorizzazione della flessibilità, e tutti i criteri si capovolgono: la vanità e il desiderio di mettersi in vista (l’esaltazione dell’amor proprio) ricorrono più facilmente alla fedeltà alla tradizione (che è diventata ormai una trasgressione) che alle novità della moda77. Lo stesso concetto di “libertino” ha subito un’evoluzione e tra il XV e il XVIII secolo ha acquisito un altro significato78, che risulta anche da un legame con l’aristotelismo padovano del XVI secolo79. Nel 1544 Calvino ha usato il termine per indicare una setta religiosa che non accetta come indiscutibile la parola di Dio e tende alla curiosità senza vincoli e all’arbitrio. La condanna dell’eresia associa componenti religiose e morali, che si raccolgono nella diffusa formula “libertini e epicurei e atei”. Dal XVII secolo il carattere irreligioso diventa via via meno essenziale, mentre si impone l’idea di un eccesso di libertà in generale, e principalmente nei costumi80. È questo il libertino che si oppone al devoto, ne è consapevole e lo mostra; il modello è il Don Giovanni di Molière, la cui colpa non è solo di non seguire la morale e di avere delle amanti, ma anche di cambiarle continuamente, in un’irrequietezza che non deriva solo da un’esigenza interna, ma dal bisogno di esporsi allo sguardo altrui. Mentre la devozione dell’honnête homme è tutta interiore, il libertinaggio è pubblico e vive dell’essere osservato. Nello stesso periodo, però, il termine libertino attenua la sua connotazione negativa, e viene spesso accostato all’“esprit fort”: l’uomo liberato dai pregiudizi, che rifiuta di accettare acriticamente le opinioni traman-

76. Cfr. Figuère 1641, p. 30. 77. “Il y a souvent moins de vanitè à suivre les modes receuës qu’à se tenir aux anciennes”: Du Boscq, L’Honneste Femme, 1632, cit. in Godard de Donville 1978, p. 195. 78. Una ricostruzione storica, con molto materiale, si può trovare in Schneider 1970. 79. E quindi ancora una volta con le origini della sensibilità barocca. 80. Cfr. Godard de Donville 1989, p. 27.

121


ELENA ESPOSITO

date. Nei salotti, poi, il termine passa ad indicare un atteggiamento mondano e giocoso, che si contrappone all’ortodossia e tende all’“extravagance”: una stranezza e originalità che inizia ad essere apprezzata, un “excès de libertè” che viene stilizzato come particolarità, in particolare dalla nobiltà in crisi di identità. L’atteggiamento libertino tende ad esprimere un disprezzo per la massa e per la pedante normalità borghese, a cui ci si oppone rivolgendosi orgogliosamente all’interiorità e alla singolarità. Il rifiuto dell’ordinarietà viene stilizzato come straordinarietà e la stravaganza valorizzata come spontaneità, immediatezza, imprevedibità: “Je suis tellement libertine quand j’écris – scrive Madame de Sévigné – que le premier tour que je prends règne tout du long de ma lettre”81. Quella stessa naturalezza e spontaneità che nell’honnêteté indicano trasparenza e mancanza di auto-osservazione, stabilità e gradevolezza verso gli interlocutori, nel caso del libertino stanno per l’autoreferenza e la singolarità, il cambiamento e l’imprevedibilità. L’honnête homme è trasparente perché non ha nulla da nascondere; il libertino è intrasparente perché non può fare altrimenti – la stessa spontaneità glielo impone. L’intrasparenza sta diventando la condizione dell’interazione tra individui autoriferiti, e la sua gestione la condizione per l’unica forma di trasparenza ancora possibile. V. L’honnête homme e il dandy La distinzione piuttosto sfumata tra honnêtetè e devozione da una parte e l’atteggiamento libertino dall’altra, che consentiva ancora il passaggio tra i due lati, sfocerà nel XIX secolo nella contrapposizione molto più esplicita e marcata tra il modello dell’honnête homme e la nuova figura stilizzata ed estremizzata del dandy – una tipica figura di transizione. Se il devoto poteva diventare libertino e viceversa, con grande afflizione dei moralisti, tra l’honnête homme e il dandy non c’è mediazione possibile: anzi, i due modelli si contrappongono in modo tal81. M.me de Sévigné 1626-1696, t.II, p. 436.

122


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

mente netto da diventare l’uno la negazione dell’altro – e in questa radicalità segnano il commiato da una determinata forma di socialità82. L’honnête homme non si riferisce mai a se stesso, e non si singolarizza: “Le moi est haïssable”83, sostiene Pascal. Egli si definisce al contrario nel riflesso dell’osservazione altrui nella pratica della conversazione. Ciononostante la sua honnêteté si fonda sull’interiorità, sul suo essere vero e spontaneo che lo qualifica come uomo di gusto e gli fornisce un orientamento universale e stabile. Il dandy, invece, afferma la propria singolarità facendosi notare per la stravaganza e imponendosi agli altri. Il rifiuto dell’amor proprio si è trasformato in un narcisismo dichiarato ed ostentato, indice di un nuovo livello di riflessività dell’auto-osservazione. L’atteggiamento del dandy, però, è pura esteriorità e non esprime una sua natura interiore e autentica. Cambia infatti con le mode e con le circostanze, a cui lui si adegua come al primo criterio di riferimento: il suo tempo non è l’eternità, ma kairós sempre mutevole e fuggitivo. L’honnête homme, quindi, non dipende dagli altri perché è uguale a loro – o almeno sa di condividere con gli interlocutori rilevanti gli stessi criteri e gli stessi valori84. Proprio per questo può conformarsi ad essi e cercare di compiacerli, mostrandosi gradevole e conciliante ed orientandosi alla loro prospettiva – senza con questo rinunciare alla propria. Il suo massimo timore è il ridicolo: indice di un fallito coordinamento tra l’osservazione degli altri e la sua osservazione della loro osservazione. Il dandy, al contrario, coltiva e valorizza la differenza: si vuole diverso dagli altri e diverso dall’immagine che gli altri si possono essere fatti di lui. Risulta allora spesso sgradevole e fastidioso, ostentando distanza e a volte anche disprezzo nei confronti degli altri e dei loro criteri, e coltivando apertamente la devianza. Nella conversazione, l’abbiamo 82. Per la presentazione e il commento della figura del dandy si vedano Barbey d’Aurevilly 1845 e, in una prospettiva critica, Coblence 1988 e i saggi raccolti in Montandon 1993a. 83. Pascal 1670, n.494. 84. Si tratta dell’ultima forma di costituzione di identità tramite integrazione.

123


ELENA ESPOSITO

visto, la massima preoccupazione è piacere; il dandy, invece, non vuole piacere ma sorprendere85. Non vuole essere gradevole, ma nuovo, e in questo unico. Rischia il ridicolo con disinvoltura. In questa sua singolarità e differenza, però, egli dipende dagli altri in maniera molto più essenziale di ogni altra figura precedente: “Je me voyais vu”86, dichiara Barbey d’Aurevilly. La sua identità e la sua particolarità si costituiscono solo nel confronto con la prospettiva degli altri, dalla quale devia. Si tratta di pura esteriorità, senza un’autenticità di fondo a cui fare riferimento. Ha bisogno degli altri per affermare la sua indipendenza, e per questo non può piacere: li deve affascinare, deve colpire la loro attenzione e quindi riflettersi nella loro osservazione, ma non integrandosi. Nella provocazione manifesta la propria autonomia. In questa esaltazione dell’esteriorità, evidentemente, l’estetica del dandy è del tutto indipendente dai contenuti o da valori stabili. Fermarsi agli abiti o alle apparenze sarebbe fraintendere la portata del fenomeno, che si colloca completamente al livello dell’osservazione di secondo ordine. L’abito (o i guanti, o le opinioni, o la battuta sagace) è solo il pretesto per presentare la propria osservazione87. E ovviamente, in questa esasperata singolarità, il dandy non può attenersi a regole fisse e condivise dagli altri. Il dandy si fa da sé le sue regole, che sono regole mobili e puntano ad esprimere le “leggi del capriccio”88. Non è che si rifiutino le regole in quanto tali, ma si rifiuta ogni regola determinata89 – o più specificamente: in quanto atteggiamento nato dalla contrapposizione all’honnêteté e al suo assunto dell’esistenza di regole universali e fisse, per quanto indefinibili, il dandysmo fa una regola del mero ri85. “Comme tous le Dandys, il (Brummel) amait encore mieux étonner que plaire”, Barbey d’Aurevilly 1845, p. 124. 86. Citato in Coblence 1993. 87. Il dandysmo non è solo art de la mise, ma tutto un modo di essere, fatto non di contenuti ma interamente di nuances. “Ce n’est pas un habit qui marche tout seul! au contraire! c’est une certaine manière de le porter qui crée le Dandysme”: Barbey d’Aurevilly 1845, p. 99. 88. Barbey d’Aurevilly 1843 e 1845, p. 109. 89. “Le dandysme, que est une institution en dehors des lois, a des lois rigoreuses auxquelles sont strictement soumis tous ses subjets”: Baudelaire 1981, capitolo IX: “Le Dandy”.

124


IL MITO DELLA CONVERSAZIONE

fiuto della regola, e in questo modo la riconosce ancora, per quanto in negativo90. Ha solo una regola vuota, che si riduce alla pura necessità della regola. Più che paradossale, il dandysmo è contraddittorio, e in questo sta la fragilità che ne rivela il carattere transitorio. La stilizzazione della provocazione perde ogni presa quando viene ripetuta – quando ci si può aspettare la sorpresa, che si svuota da sola. Come tutte le provocazioni, il dandysmo si riduce a un gesto, che vale soprattutto per marcare il distacco da un atteggiamento o da un complesso semantico, che proprio nella negazione viene in qualche modo rispettato: una sorta di “onore delle armi” nei confronti di una semantica, che una volta superata rende obsoleta anche la provocazione che si opponeva ad essa. Negando l’honnêtetè, ultimo tentativo di controllare la contingenza con il riferimento ad una qualche forma di necessità (che deve peraltro ormai rimanere inespressa, come regola valida ma non definibile), il dandysmo è molto più vicino ad essa che a forme semantiche che stavano ormai delineandosi e consolidandosi e che rifiuteranno nello stesso tempo la stabilità e la sua negazione, la conformità e l’ostentata devianza. Si intravede già la possibilità di una nuova forma di conformità che è nello stesso tempo devianza, di stabilità tramite variazione91: cioè di soluzioni semantiche che “rifiutano” le opposizioni della prima modernità in quanto tali e non si limitano a negarne un lato, collocandosi così ad un livello di riflessività più elevato. Ormai, nella prima metà dell’Ottocento, la moda si era consolidata, diffondendo un atteggiamento molto più complesso sia del tentativo di salvare un residuo di ontologia che della petulante stravaganza del dandysmo. Dalla contesa tra honnêteté e libertinismo, tra stabilità e cambiamento, tra imitazione ed originalità, la moda si è sviluppata come unità di ciascuna delle differenze in questione, realizzando una soluzione molto più potente che dovremo ora prendere in esame con attenzione. 90. “Le Dandysme (…) se joue de la régle et pourtant la respecte encore”: Barbey d’Aurevilly 1845, p. 101. Sul rappporto del dandysmo con le regole anche Coblence 1993. 91. Gotthard Günther parla di operazioni transgiunzionali e di rejection values: cfr. ad esempio Günther 1962.

125



Capitolo 7 La moda moderna

I. Le trasformazioni dell’interazione La stilizzazione ed esaltazione della conversazione, nelle sue varie forme, rimane vincolata all’interazione tra presenti ed esprime comunque il tentativo di recuperare un ordine della società a partire da questa forma specifica di comunicazione – che è poi quella nota e teorizzata fin dall’antichità, quando le possibilità di comunicazione a distanza o non esistevano o venivano usate per aumentare l’efficienza nell’interazione tra presenti. Il tentativo di fondare un ordine generale a partire dalla regolamentazione delle relazioni tra individui rappresenta in fondo un’ultima espressione della ricerca di un equilibrio e di una coerenza tra particolare e generale. Ma, come abbiamo visto nei capitoli 4 e 5, tra i due lati dell’opposizione si era ormai inserita la dimensione irriducibile della singolarità. Questo vale anche per le pratiche dell’interazione: mentre ci si concentrava sulle sue forme e variazioni, si stava già imponendo una trasformazione della struttura sociale che avrebbe modificato radicalmente le premesse del rapporto tra comunicazione in presenza e comunicazione in assenza. Il presupposto, lo abbiamo già visto, era la diffusione della stampa e con essa l’autonomia della comunicazione a distanza, che ha sviluppato forme proprie non riconducibili alla situazione orale in cui gli 127


ELENA ESPOSITO

interlocutori si vedono e si ascoltano. Ma questa trasformazione di per sé poteva anche essere riassorbita nelle strutture dalla società stratificata, che nella forma della conversazione riconosce e presuppone la pratica della lettura. La svolta irriducibile avviene su un altro piano, che porterà al definitivo distacco dalla forme della tradizione: il passaggio alla priorità della differenziazione funzionale al livello della società nel suo complesso. Differenziazione funzionale, infatti, vuol dire che vari ambiti della società (almeno economia, politica, diritto, educazione, mass media, religione, arte, scienza) hanno sviluppato una propria autonomia per cui dispongono di criteri interni che dirigono le operazioni, che sono in gran parte indipendenti dalle persone dei partecipanti alla comunicazione. La redditività di un’operazione economica, la legalità di un’azione, il risultato di un esperimento sono uguali per tutti, a prescindere dalla nascita, dalla gradevolezza e dall’abilità interattiva. Anche i nobili devono far rendere i loro capitali, studiare e attenersi alle leggi. Queste condizioni operative, prima e più profondamente del “risentimento egualitario”1 diffuso nella semantica, portano non tanto alla negazione, che a nessuno interessa, quanto al dissolvimento del senso e della pratica della conversazione settecentesca, che si fondava intrinsecamente sul residuo stratificato espresso nel privilegio del buon gusto, della naturalezza, della grazia2. Molto prima della democrazia come ideologia, si impone la democratizzazione come sganciamento della semantica dai privilegi innati. Se questi vengono a mancare, peraltro, si dissolve tutta la costruzione della gradevolezza, della perfetta felicità di stare insieme, che aveva sostenuto la conversazione nei salotti – tanto forte da non essere intaccata nemmeno dall’apertura ai 1. Cfr. Fumaroli 1994, p. 198 ed. it. 2. Cfr. Stendhal 1827, p. 26 ed. it. (Premessa): “Nel 1760 occorrevano grazia, spirito, scarsa suscettibilità e poco onore, come diceva il reggente, per entrare nelle grazie del padrone e della padrona. Occorrono economia, lavoro tenace, solidità e mancanza di ogni illusione, per trarre profitto dalla macchina a vapore. Questa è la differenza tra il secolo che terminò nel 1789 e quello che iniziò verso il 1815”.

128


LA MODA MODERNA

borghesi. Se però l’organizzazione generale della semantica dissolve anche gli ultimi privilegi dell’aristocrazia, è come se di fatto si fosse tutti borghesi, e in questo caso non si può realizzare la conversazione, ma al massimo la discussione. Sopravvivono nei salotti forme di interazione rancorose e risentite come quelle descritte da Proust, in cui l’affermazione della propria identità non passa tanto per il reciproco riconoscimento di quella altrui, ma piuttosto per la negazione e la competizione. Ci si può incontrare e si possono sfruttare in varie forme i vantaggi riflessivi del potersi vedere e ascoltare, ma si rompe irrimediabilmente la fragile costruzione, la reciproca riflessività guidata da valori, che aveva sorretto teoria e pratica della conversazione3. Non che l’interazione venga a mancare: al contrario. Oggi sicuramente ciascuno ha la possibilità (e spesso l’obbligo) di partecipare a molte più interazioni e molto più diversificate. Ma quello che era almeno idealmente un modello unico in cui si riconoscevano in gradi differenti tutti gli incontri tra individui, si è differenziato in due forme distinte. Da un lato, già con Rousseau quello che era il modello della civilitè cede il posto alla forma dell’intimità, cioè alle nuove onerose e particolarmente improbabili comunicazioni personali intensive, in cui ciascun partecipante pretende di valere proprio nell’unicità della sua irripetibile individualità. La vuotezza della conversazione, i cui contenuti erano solo un’occasione per l’autopresentazione, si estremizza nelle comunicazioni tra amici e soprattutto in quelle guidate dall’amore: ognuno si aspetta che all’altro interessi il suo progetto di mondo in quanto tale, perché è suo, e che questa sia la condizione di rilevanza, e si aspetta anche di essere confermato nella sua unicità4. Ognuno cioè pretende il riconoscimento della sua unicità senza l’appoggio di un comune apparato di valori: una pretesa paradossale soste-

3. O rimane solo in costruzioni dichiaratamente controfattuali come la situazione comunicativa ideale di Habermas, fondata non a caso sul ricorso a valori che si suppone siano condivisi – altrimenti non sta in piedi. 4. Cfr. soprattutto Luhmann 1982, pp. 13 ss., pp. 24ss.

129


ELENA ESPOSITO

nuta solo dalla disponibilità complementare ad assumere lo stesso ruolo nei confronti dell’idiosincrasia dell’altro. Si tratta evidentemente di una costruzione molto fragile e molto onerosa, come mostrano le crescenti difficoltà e resistenze delle relazioni familiari, e che naturalmente può essere sostenuta solo nei confronti di pochissime persone – un numero molto minore di quello dei partecipanti ad un salotto. E la felicità, se rimane un’ambizione, è molto più aleatoria e problematica: sarebbe implausibile riproporre per le interazioni intime, fonte inesauribile di problemi, nevrosi e frustrazioni, l’esaltazione indiscussa e pacifica della perfetta felicità assicurata dalla conversazione settecentesca. In tutti gli altri casi, e in maniera più o meno graduata, vale l’altra forma dell’interazione moderna: l’interazione impersonale in cui si comunica senza conoscere il partner e senza doverlo conoscere, unicamente sulla base di una prestazione reciproca. La possibilità di non saper nulla dell’interlocutore è evidentemente un grandissimo esonero, impensabile nelle forme societarie precedenti. L’affidabilità della controparte non dipende dalle sue caratteristiche e neppure dalla natura (neanche per la via indiretta dell’origine), ma da strutture sociali che prescindono dalle caratteristiche singolari degli individui che partecipano. È questa la forma che eredita l’efficacia sociale dell’interazione negli strati elevati, in cui si decidevano i grandi orientamenti della società – un compito ora delegato ai sistemi di funzione ed assolto in parte anche da interazioni che, proprio perché impersonali, possono mantenere nello stesso tempo la vuotezza dell’interazione tra individui intrasparenti e l’efficacia relativamente ad una funzione: se dico al commesso (che non conosco e non ho bisogno di conoscere) che voglio comprare un prodotto, si realizza un’operazione economica – ma moltissime operazioni dello stesso sistema prescindono dall’interazione. II. La gestione della differenza Se la conversazione, secondo la nostra ipotesi, ha rappresentato l’ultimo tentativo di mantenere un riferimento stabile di fronte al dilagare della contingenza, realizzando 130


LA MODA MODERNA

una sorta di coalizione tra dimensione sociale e dimensione materiale, con il dissolversi della funzione e della plausibilità sociale della conversazione viene a mancare anche questa barriera, e la contingenza si diffonde senza freni. Ormai ogni affermazione di criteri assoluti viene riferita a colui che li afferma, sulla base della premessa che altri possono non condividerli – cioè si dà per scontata la loro contingenza. E i vincoli valgono solo se sono “autovincoli”, se cioè è l’individuo stesso che ha scelto di sottoporvisi – altrimenti devono essere legittimati, il che ancora una volta implica la possibilità di optare diversamente5. Insomma, la società moderna in tutti i campi si confronta con lo stimolo e la sfida delle possibilità alternative, cioè presenta di fatto una curiosa tendenza ad autonegarsi, che si esprime in primo luogo nella dimensione temporale6. Come indica lo stesso termine “Neuzeit” (letteralmente “tempo nuovo”: l’espressione tedesca per “modernità”), l’identità viene ricercata nel tempo: non però come continuità, ma piuttosto come rottura rispetto al passato, da cui ci si differenzia per la diversità – la novità. L’identità – ogni identità – si costituisce allora non attraverso l’identificazione (con modelli, valori, tradizioni), ma attraverso “disidentificazione”, cioè la differenza rispetto a ciò che è dato: il passato. “Che lo vogliamo o meno, non siamo più quelli che eravamo, e non saremo più quelli che siamo”7, e proprio in questo, nella diversità, troviamo la nostra identità: diversità dal passato, nei confronti del quale siamo nuovi, e dal futuro, che sarà nuovo rispetto a noi8. Il presente, come semplice 5. Cfr. Luhmann 2000b, p. 270 e p. 292. 6. Lo sostiene ad esempio Le Goff 1977-1982. 7. “Ob wir es wollen oder nicht: wir sind nicht mehr, was wir waren, und wir werden nicht mehr sein, was wir sind”: Luhmann 1992, p. 15. Cfr. anche W.von Humboldt, cit. in Gumbrecht 1978, p. 196: “Sie (die Menschen der Antike) waren bloß, was sie waren. Wir wissen noch, was wir sind, und blicken darüber hinaus” (loro, gli uomini dell‘antichità, erano soltanto quello che erano. Noi sappiamo anche quello che siamo, e guardiamo oltre). 8. Questa consapevolezza, che c’è già in La Bruyére 1688a, “Introduzione”, si trova ancora in Edward Young, 1759, p. 570: “… moderns, by the longevity of their labours, might one day become ancients themselves”.

131


ELENA ESPOSITO

attualità del cambiamento, dura troppo poco per poter essere oggetto di studio e poter insegnare qualcosa: sparisce allora la storia del presente come genere, e rimane solo il suo resoconto, affidato ai giornalisti. La stessa estremizzazione della differenza si ritrova nella dimensione sociale, in cui si dissolve la stabilità che si basava sul riferimento al gusto, o meglio al buon gusto indefinibile ed innato (cioè aristocratico) e il gusto con i connessi criteri diventa un problema individuale a tutti i livelli della società. Il gusto rimane inafferrabile, in quanto l’intrasparenza del mistero (materiale) si trasforma nell’altrettanto impenetrabile intrasparenza (sociale) della black box della coscienza individuale. Gli orientamenti del gusto, però, possono essere osservati: non più come “buon gusto” univoco, fondato su qualche forma di necessità, ma come tendenza contingente confrontabile con altre, che raccoglie e dirige le idiosincrasie individuali. Sul piano temporale la transitorietà, sul piano sociale il confronto: in entrambe le dimensioni la modernità si stilizza come pura differenza, traduzione della contingenza che domina la dimensione materiale. Il problema di queste formule è che valgono solo per una descrizione esterna, e non sono in grado di guidare l’operatività del sistema. Lo abbiamo già visto: la novità può essere un valore ma non è un programma, come neppure l’originalità, l’autenticità o la diversità. Occorre qualcosa che traduca l’orientamento alla differenza in indicazioni operative – e che evidentemente deve esistere, dal momento che la modernità affronta la contingenza in modo molto più strutturato di quanto non fosse accaduto nel periodo barocco, che ne ha sperimentato la diffusione incontrollata. Secondo la teoria dei sistemi sociali, questo deve essere attribuito in primo luogo alle strutture dei sistemi di funzione. Abbiamo già parlato dell’autonomia dei diversi ambiti di funzione come caratteristica chiave della modernità. Economia, diritto, politica, mass media, scienza, ma anche l’arte e l’educazione, si orientano ciascuno a criteri e a priorità proprie, per cui nulla garantisce che una scelta opportuna politicamente sia utile per l’economia, o che le preferenze dei mass media siano adeguate per la scienza o per l’arte – e se questo si verifica, è solo 132


LA MODA MODERNA

per caso. Il fatto stesso che il problema dei rapporti e delle contaminazioni tra i vari ambiti venga posto e dibattuto con grande vigore – sotto titoli come manipolazione, banalizzazione, corruzione, giustizialismo e altri – dimostra che il coordinamento non è affatto scontato. Non lo è innanzitutto perché non ci si può riferire a dati incontrovertibili e validi per tutti, che come abbiamo visto abbondantemente possono collocarsi soltanto nella dimensione materiale. Per i sistemi di funzione autonomi, però, questa labilità dei riferimenti non è tanto un problema quanto piuttosto la condizione necessaria per la loro differenziazione. Se i sistemi parziali devono essere liberi di determinare i propri criteri sulla base di considerazioni soltanto interne, è evidente che hanno bisogno di una contingenza materiale molto più elevata – cioè proprio dell’orientamento alla differenza che abbiamo visto fin qui. Come spesso accade, peraltro, sul piano operativo il problema si pone solo insieme alla sua soluzione. Per le operazioni dei sistemi parziali, infatti, la contingenza non è un problema perché ciascuno di essi dispone di strutture sufficientemente forti per guidare efficacemente il proseguimento della comunicazione. I prezzi e i loro andamenti sul mercato sono normalmente sufficienti per decidere se e che cosa comprare, e sono in ogni caso ciò a cui si rivolge l’attenzione in economia – anche se sono contingenti, mutevoli, e senza un riscontro “oggettivo” (il presunto prezzo “giusto”). Leggi e regolamenti dirigono l’operato del diritto, che funziona anche come diritto positivo – o se non funziona non è per la sua mancanza di agganci a leggi “naturali”. I mass media, è ormai noto, non sono certo una finestra sul mondo né sono guidati dalla ricerca di oggettività9 – ma giornali e telegiornali, palinsesti e progetti editoriali dispongono di criteri ben chiari per determinare che cosa deve essere ritenuto interessante (o “notiziabile”) o meno. Anche la scienza, si sa, è guidata dalle proprie teorie e dai propri metodi e non dagli oggetti, che di per sé non parlano. L’epistemologia può tormentarsi per questo, ma la prassi scientifica procede di solito abbastanza agevolmente. 9. Il che, naturalmente, non ha nulla a che fare con la manipolazione, che è un problema diverso.

133


ELENA ESPOSITO

Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ciò che qui ci interessa, però, è soltanto osservare come delle procedure contingenti producano in ciascun caso un efficace controllo dell’arbitrarietà – che non ha bisogno a quanto pare di alcuna necessità sottostante. La contingenza è e rimane un problema soltanto per l’osservatore: per il sociologo come noi ora, ma anche appunto per l’epistemologo oppure per il teorico del diritto o per il critico dei mass media o d’arte. Quando ci si chiede che cosa guida la guida delle operazioni, che cosa motiva programmi che si automotivano (e per fortuna lo si fa raramente), ci si scontra inevitabilmente con il paradosso della necessità cercata – lontano parente dei paradossi della spontaneità imposta, dell’originalità generale, della stabilità provvisoria che abbiamo incontrato ed esaminato più volte. La nostra ipotesi è che ad un primo livello, solo moderatamente riflessivo, tutti questi potenziali paradossi vengano sottratti alla vista e per così dire neutralizzati proprio dall’orientamento alla moda. III. Contingenza ed apparenza Parlare della moda come soluzione dei problemi della contingenza può di primo acchito apparire sorprendente, anche semplicemente per motivi cronologici. Cultura, piena storicizzazione e perdita della funzione sociale della conversazione sono tutti fenomeni che emergono a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Sostenere che la moda costituisce la neutralizzazione dell’arbitrio della contingenza che ne risulta vuol dire quindi collocare anch’essa nello stesso periodo. Ma la moda, evidentemente, c’era anche prima: lo abbiamo visto ampiamente nei capitoli precedenti. Il punto è che nella forma che qui ci interessa anche la moda è il risultato di una trasformazione che si è compiuta dal XVII al XIX secolo, ed è in quest’ultima forma che costituisce anch’essa un fenomeno tipicamente moderno10.

10. O forse, come ipotizza Nietzsche 1986, II Band, p. 215: “Mode und modern”, il lato oscuro della modernità.

134


LA MODA MODERNA

È vero che la nozione di moda è comparsa nel XVII secolo, ma si trattava allora essenzialmente di moda di corte, fatta dal Re e poi dalla nobiltà, ed era ancora in primo luogo ostentazione, rappresentazione di magnificenza e conferma della stratificazione sociale, che diventava necessario ribadire proprio perché non appariva più indiscutibile. In questo contesto orientato alla stabilità la moda introduce però un elemento di varietà, di attenzione all’apparire come tale, che attira coerentemente molte critiche e condanne da parte dei pensatori dell’epoca. Abbiamo già visto che cosa ne pensassero La Bruyére o La Rochefoucauld, ancora orientati alla differenza aeternitas/tempus e alla conseguente svalutazione di ciò che è fuggevole nei confronti dell’eterno. Anche Pascal rifiuta nello stesso tempo (e per gli stessi motivi) concettismo, libertinismo e moda11. La moda equivaleva per Fitelieu ad un pernicioso “Principe de l’Artifice”12: una specie di follia generale e diabolica che sostituisce l’apparenza all’essere. La natura umana, infatti, secondo Fitelieu è nella sua essenza immagine di Dio; chi altera la propria apparenza, quindi, altera la propria natura e si allontana dal suo vero essere. L’uomo diventa immagine della moda e non più di Dio. Essere e apparire sono ancora legati e le variazioni dell’apparenza sono vere e proprie metamorfosi: alterando l’apparenza si modifica la propria natura. Queste posizioni arroccate sono senz’altro anche estremizzazioni che reagiscono alle esagerazioni del barocco. Come abbiamo visto, però, al disordine sociale si oppone la nuova figura dell’honnêteté, che stabilisce una forma di conformità sociale più flessibile e potenzialmente aperta, e qui curiosamente la moda cambia di connotazione. Non ha più una valenza negativa: anzi, i teorici delle buone maniere consigliano concordemente di attenersi ad essa e di rispettarne i precetti. Ma la prospettiva è cambiata: l’orientamento è ormai passato dai valori stabili nella dimensione materiale all’armonizzazione con gli altri (aristocratici) nella dimensione sociale. Il principio di fondo, quindi, non è ricercare la ve-

11. Cfr. Blanco 1992, p. 626. 12. Cfr. Fitelieu 1641.

135


ELENA ESPOSITO

rità ma la gradevolezza: cercare di piacere agli altri ed adattarsi a loro e alle circostanze. E la moda, appunto, si basa sulla ricerca dell’approvazione dei contemporanei – una moda che ha ormai abbandonato le stravaganze e le esagerazioni della corte e si orienta alle “bienséances”: diventa un insieme di modi ragionevoli e adottati concordemente dalle “genti oneste”, che così si riconoscono e si confermano reciprocamente. Una moda siffatta aspira a piacere e non a stupire, a confermare e non a sorprendere (o almeno non in un modo che possa disturbare), e cambia solo per poter mantenere la propria funzione distintiva13. La moda si avvicina alla cura della apparenze, che non deve essere trascurata perché indice di rispetto e considerazione per gli altri. Questo tipo di moda, è chiaro, non poteva conciliarsi con l’atteggiamento provocatorio dei dandy, che puntavano invece alla sgradevolezza, alla sorpresa, all’affermazione anche arrogante della propria individualità. Ma è piuttosto dalla loro impostazione, alleggerita delle ingenuità polemiche e degli estremismi, che si genera quella che diventerà la forma moderna della moda. Si tratta infatti per la prima volta di un tentativo di vincolare circolarmente la labilità del tempo all’incertezza sociale e viceversa, ottenendo così una sorta di controllo contingente della contingenza: il dandy, diversamente dall’honnête homme, può permettersi di essere sgradevole perché non mira a piacere, bensì a sorprendere: “compensa” cioè con la novità la rinuncia al consenso nella dimensione sociale. Il dandy, poi, può permettersi di sorprendere, cioè di infrangere le regole e le aspettative, perché se ne assume l’onere nella stilizzazione della propria individualità: come originale e stravagante, costituisce l’eccezione che conferma la regola, e non solleva quindi problemi di ristabilizzazione – fornendo nello stesso tempo la necessaria varietà. Il dandysmo, quindi, anticipa la moda in quanto realizza come essa una simbiosi tra dimensione sociale e dimensione temporale, che riesce a compensare la perdita di univocità dei riferimenti alla dimensione materiale. La debolezza di questa soluzione, lo abbiamo già accennato, 13. Qui avrebbe in parte ragione la teoria del trickle-down.

136


LA MODA MODERNA

sta però nella sua non-generalizzabilità: la rinuncia all’armonia tra generale e particolare deve ricorrere all’individualità in accezione negativa, alla stranezza e alla stravaganza, confermando in questo la necessità della regola: recuperando cioè un elemento non contingente nel gioco delle contingenze. Per questo, presumibilmente, il dandy rifiuta la moda, e pretende di farla, non di attenervisi: gli altri potranno seguirla, ma lui si pone al disopra dell’imitazione – sottoponendosi senza rendersene conto al pesantissimo onere del rifiuto programmatico della moda, quando nel contempo la si riconosce: perché anche rifiutare di seguire la moda, lo sappiamo, vuol dire orientarsi alla moda, ma senza accettarne le indicazioni. Per gli orientamenti in negativo, allora, si deve ricorrere solo alle proprie risorse, sapendo nello stesso tempo di attirare l’osservazione e l’attenzione di tutti gli altri: un’impresa inane, sotto il peso della quale tutti i dandy “classici”, da Brummel a Wilde, sono naufragati. La moda, al contrario, adotta la stessa forma di alleanza tra dimensione temporale e dimensione sociale, senza scaricare sull’individuo l’onere di sostenerla: anzi, diventerà il modo di consentirgli di ricercare la propria originalità senza doversi preoccupare troppo della paradossalità di un tale tentativo (in una semantica che impone a tutti la stessa ambizione)14. Non solo: la moda diventerà la forma capace di rendere “virtuosa” la transitorietà e l’instabilità dei tempi: perché solo ciò che cambia, in una società irrequieta, può valere da riferimento, come appunto le mode e i loro orientamenti. Nei termini di Valery: “le mode sono una medicina che dovrebbe compensare su scala collettiva gli effetti funesti della dimenticanza. Quanto più un tempo è effimero, tanto più è orientato alla moda”15.

14. Cfr. Stenhdal 1827, p. 178 ed. it.: la signora de Malivert “cominciava a dover ammettere che i pregi del figlio erano troppo singolari, e dunque troppo poco simili ai pregi più normali, per non aver bisogno di essere sostenuti dall’influenza onnipotente della moda”. 15. “Mode sind ein Medikament, das die verhängnisvollen Wirkungen des Vergessens, im kollektiven Maßstab, kompensieren soll. Je kurzlebiger eine Zeit, desto mehr ist sie an der Mode ausgerichtet”, citato in Benjamin 1982, p. 128.

137


ELENA ESPOSITO

IV. L’alleanza tra contingenza sociale e contingenza temporale La varietà e la specificità dei tempi, è chiaro, erano note da sempre, e – come abbiamo visto – il richiamo al costume, all’opportunità e alle circostanze tentavano di tenerne conto e di trarne le conseguenze. La preferenza moderna per il nuovo, peraltro, non è solo valorizzazione della relatività dei tempi, ma più radicalmente della loro contingenza: il baricentro non sta più nella dimensione materiale, per cui la novità si misurava a seconda della vicinanza ai valori riconosciuti (e la devianza significava allontanamento), ma autenticamente nella dimensione temporale, come sorpresa. Il problema, lo abbiamo visto, sta nel fatto che l’orientamento al mero cambiamento è vuoto: il distacco dal passato implica coerentemente il rifiuto degli orientamenti preesistenti, e sfocia nella mancanza di criteri. Resta solo il nuovo per il nuovo, il cambiamento in quanto tale, senza nessuna indicazione su come realizzarlo e su come valutarlo. Questa posizione instabile e vuota presenta però un vantaggio da non sottovalutare se si fa entrare in gioco la dimensione sociale: il nuovo è comunque deviante e per questo non c’è bisogno, per chi vuole rivendicare la sua unicità e diversità, di comportarsi in maniera deviante nei suoi confronti16. Chi si orienta alla devianza è di per sé deviante – almeno ad un primo livello. Di qui l’irresistibile capacità inclusiva della moda, che coinvolge sia chi la segue sia chi la rifiuta. Chi si orienta alla novità devia – chi devia dalla novità, cioè dalla deviazione, devia a sua volta, e quindi la conferma. La manovra, semplice ma efficace, su cui si fonda il potere della moda sta nel sostituire continuità/discontinuità a conformità/devianza, cioè nel combinare una distinzione sociale con una distinzione temporale. Crea nel tempo le sue determinazioni, deviando costantemente da ciò che valeva in precedenza, e proprio in questo modo raggiunge un’elevata conformità17. Ottiene così, tra l’altro, una notevole libertà

16. Cfr. Luhmann 1989b, p. 164. 17. Cfr. Luhmann 1989b, pp. 202 e 231. Il paradosso sottostante era già stato espresso, ma non approfondito, in Sombart 1902, dove la

138


LA MODA MODERNA

dalla dimensione materiale, cioè dai contenuti, che valgono sempre meno in quanto tali e sempre più come occasioni per distinzioni temporali e sociali: nella moda si può osare quasi tutto, con un’altissima tolleranza per la stravaganza e l’azzardo – perché tanto si sa che cambia. Il “contenuto” è proprio la variabilità18, che da qualità secondaria (un modus nell’accezione classica19) diventa il punto centrale: la caducità nella moda non è occasionale e più o meno deprecabile, ma è pianificata fin dall’inizio e componente essenziale del suo senso – è ciò che consente di affermare la propria unicità (deviante) conformandosi ai suoi orientamenti. La moda convince proprio perché è transitoria20, e in questo consiste per Hegel la sua evanescente razionalità: “nel fatto che essa esercita sulle cose temporali il diritto di cambiarle di continuo”21. La variabilità e la vuotezza del nuovo in quanto tale, quindi, si giustificano per la loro capacità di assorbire e per così dire neutralizzare l’aspirazione alla singolarità dell’individuo – offrendo un posto a quel terzo escluso che aveva fatto implodere nella modernità la distinzione classica tra particolare e generale (nella dimensione sociale). La diversità individuale si cerca e si trova nella novità della moda. Anche nella dimensione sociale, però, emerge una corrispondente vuotezza. Seguire la moda è l’unica (ultima?) forma di imitazione ancora disponibile in una società che esalta l’originalità. Quella che classicamente era l’imitazione degli auctores del passato, però, si è trasformata in una paradossale imitazione dei contemporanei22, ai quali ci si orienta per essere diversi. Non si moda viene definita in base a due caratteristiche fondamentali: l’unificazione della forma dei bisogni che essa realizza (cioè perdita di differenziazione), e la variabilità che la compensa. 18. Cfr. ad esempio Kant 1789, §68. 19. Cfr. §3.I. 20. Luhmann 1989b, p. 256 parla di “Überzeugungskraft des Vorübergehendes” (forza di convinzione del transitorio). 21. “Daß sie über das Zeitliche das Recht, es immer von Neuem zu verändern, ausübt”: Hegel 1927-1940, Bd.17, p. 245; Bd.13, p. 415; Bd.18, p. 165. 22. Cfr. Lipowetsky 1987, cap. I. Spencer 1967, vol.I, pp. 10431048 parla di transizione dall’imitazione reverenziale all’imitazione emulativa.

139


ELENA ESPOSITO

imita quindi la loro forma, ma la loro diversità – che evidentemente non può essere imitata senza dissolversi. È questo il paradosso dell’“homme-copie”: la “falsa mimesi”23 che nasconde l’aspirazione, secondo Balzac, a “non far nulla come gli altri, pur sembrando far tutto come loro”24. Di qui l’aporia della moda, notata da molti come contrasto irresolubile tra il desiderio di essere uguali e di essere diversi, o forse di essere diversi proprio come tutti gli altri25. Di qui però anche il senso della sua vuotezza, per cui nell’imitare non si imita nulla, se non l’imitazione in quanto tale. Per questo, come si è osservato da sempre, la moda è “principio d’artificio”: perché la natura e la naturalezza la vincolerebbero a dati preesistenti e a contenuti “pieni”, mentre l’artificio manifestato come tale cancella se stesso e genera una forma di naturalezza di livello più elevato – o una naturalezza di secondo ordine. Lo si era notato già nel Seicento26, osservando che la “négligence” è la massima forma di artificio – una consapevolezza diventata oggi così scontata come la forma del casual o del “carefully careless”. La stessa distinzione tra essere e apparenza perde qui di senso, come già nella semantica barocca: si osservava lì che la verità, per essere riconosciuta, deve mascherarsi27, e nella moda, analogamente, l’abbigliamento più stravagante non è una maschera, anche se è indubbiamente costruito e artificioso28 – come pure l’abbigliamento più semplice e funzionale non è di per sé naturale, ma semmai la messa in scena della naturalezza. Dietro la maschera ci dovrebbe essere il vero volto: un’identità precedente al travestimento ed indipendente da esso. Il senso della moda, invece, sta nel creare l’identità

23. “falsche Mimesis”, espressione di Adorno 1951, p. 150, riferita alla moda e alla sua ricerca del nuovo. 24. Balzac 1830-1833, p. 10 ed. it. 25. Si vedano i riferimenti nella nota 1, cap. I. 26. Cfr. l’opuscolo del 1622, La Nouvelle Mode de la Cour, ou le Courtisan à la Négligence et à l’Occasion, ripubblicato in Godard de Donville 1978, pp. 254-260. 27. Cfr. supra § 3.II e 3.III. 28. Sulla differenza tra moda e maschera cfr. Baudrillard 1976, cap. III.

140


LA MODA MODERNA

al livello del secondo ordine, dove la differenza tra maschera e originale perde di senso. Ciò che si osserva nella moda è l’osservazione manifestata con un atteggiamento, un abito, una preferenza – non l’abito o l’atteggiamento. Per questo dietro la maschera non c’è niente – se non l’abito in quanto tale, che di per sé non dice nulla. Il fenomeno della moda si colloca interamente sul piano dell’osservazione di secondo ordine. La novità, in quanto intrinseca devianza, neutralizza come abbiamo visto il paradosso dell’originalità via imitazione, della devianza via conformità – per questo la moda deve cambiare di continuo29. Di converso, però, la vuotezza dell’imitazione deviante neutralizza con un’analoga manovra il paradosso della dimensione temporale: l’incongrua condizione per cui ci si vincola solo a ciò che cambia e perché cambia – la variazione come forma di stabilità. La moda, lo abbiamo visto, vincola tutti, che la seguano o meno, che la accettino o la rifiutino programmaticamente – almeno sul piano comunicativo. In prospettiva sociologica, infatti, non conta tanto l’eventualità ipotetica di una completa indifferenza di un individuo nei confronti della moda: egli e il suo comportamento verranno comunque interpretati dagli altri nella prospettiva delle tendenze di moda, e quindi osservati come osservazioni. Alla moda non si sfugge – il che peraltro significa anche che la variabilità può contare su una sua forma derivata di stabilità: la stabilità sociale prende il posto della stabilità temporale. Si può contare sul cambiamento perché si sa che anche gli altri lo fanno e continueranno a farlo anche quando sarà cambiato. La variabilità offre una sua forma di sicurezza che di fatto vincola la contingenza: seguendo (o non seguendo) la moda si sa che anche gli altri si orientano ad essa, e quindi anche i riferimenti in negativo ne tengono conto, e la vuotezza dei contenuti sul piano materiale non costituisce un problema, perché cambiano, e tutti lo sanno.

29. Un argomento simile si trova in Veblen 1899, p. 147 tr.ted.: la causa della pulsione della moda alla novità è che l’insensatezza delle prescrizioni di moda è così evidente che diventa presto insopportabile e si cerca una via d’uscita in una nuova moda.

141


ELENA ESPOSITO

Ma nel fare come gli altri, di nuovo, non si rinuncia alla propria diversità, perché non si imita qualcosa di determinato, ma solo la novità, cioè l’aspirazione alla devianza. In questo modo, tramite una connessione circolare di rimandi, si realizza quell’alleanza tra dimensione sociale e dimensione temporale che consente di disporre di orientamenti senza poter contare su nessuna forma di necessità – di eliminare l’arbitrio senza rinunciare alla contingenza. La contingenza sociale si aggancia alla contingenza temporale, ed in questo modo vincola efficacemente la contingenza materiale: la moda ci offre un orientamento non necessario rispetto al quale prendere posizione, senza annullare la devianza né il cambiamento. Non c’è bisogno di chiedersi se i pantaloni a zampa di elefante sono belli o se la predilezione per determinate direzioni di ricerca è vera o se un certo modo di dire è corretto – la stessa domanda, nell’ambito della moda, sarebbe fuori luogo. La distinzione in/out caratteristica della moda si sovrappone a tutte le altre distinzioni senza per questo esautorarle. Realizza per così dire una pre-selezione che consente di esercitare la selezioni successive. Anche in questo aveva ragione La Bruyére: “tout se règle par la mode”30 – ma anche se le distinzioni della moda si applicano a tutto, come vedremo non tutte le distinzioni sono guidate dalla moda. V. Frivolezza della moda La moda, secondo l’analisi presentata fin qui, diventa nella modernità una forma potente e molto pervasiva, legata direttamente alla diffusione della contingenza e ai problemi di indecidibilità che ne risultano. Questa considerazione ci porta però ancora una volta ad affrontare una curiosa aporia della moda: proprio quando da forma secondaria subordinata alla struttura della stratificazione la moda diventa una forma primaria e onnipresente, il suo valore nella semantica e la sua estensione si 30. La Bruyère 1688b, XIII,16.

142


LA MODA MODERNA

riducono drasticamente. Nel Seicento era la dea della apparenze, la follia alla quale non ci si può sottrarre, la regina del mondo sociale, e governava le scelte nei costumi, nella morale, nel modo di parlare, nella teoria, oltre che nell’abbigliamento e nelle abitudini; dalla seconda metà del XIX secolo diventa un tema frivolo e circoscritto, limitato agli abiti e riservato prevalentemente alle donne. La teoria in gran parte se ne disinteressa: proprio mentre si moltiplicano gli scritti sulla temporalizzazione e sull’individualismo, con le loro innumerevoli conseguenze, la moda – che li gestisce e li operazionalizza – attira ben poca attenzione. Chi se ne occupa prende in esame di solito solo i vestiti e il modo di presentare il proprio corpo (pettinature, gioielli, accessori di vario genere) – e questo è anche il tema dei pochi libri e delle moltissime riviste sul tema. Ma soprattutto la moda, che nel Settecento coinvolgeva nello stesso modo entrambi i sessi, sia per quel che riguarda l’abbigliamento che gli aspetti teorici o morali, sembra dall’Ottocento in poi avere un rapporto privilegiato con le donne31 – alle quali ad esempio si rivolgono la grande maggioranza delle pubblicazioni e anche la pubblicità. Perché? Come si spiegano queste restrizioni apparentemente incongrue? E c’è un’aggravante: nonostante la sua connotazione frivola e la sua collocazione secondaria che non sembra meritare una seria riflessione (se non di carattere economico o organizzativo), la moda nella sua accezione ristretta limitata all’abbigliamento trova sempre più spazio nella comunicazione. Giornali e telegiornali riferiscono regolarmente sulle sfilate di moda e le tendenze in corso, stilisti e modelle godono di un prestigio e di un interesse prima impensabili, si è elaborata anche una sorta di estetica della creazione di moda, con proprie ricerche e addirittura (paradossalmente) appositi musei. Aldilà della contraddizione di un museo della transitorietà32, in generale la tendenza sembra andare verso una curiosa onnipresenza della marginalità (che non perde per questo il suo carattere secondario).

31. Lo osserva ad esempio Baudrillard 1976, p. 110 ed. it. 32. O delle mode “classiche”: i tailleurs di Chanel.

143


ELENA ESPOSITO

Perché, quindi, nel periodo di “maturità” della moda la si restringe all’abbigliamento? Bisogna considerare che tutte le riflessioni sulla moda, comprese quelle dei dandy, erano riferite ad una situazione di interazione tra presenti. L’effetto e la potenza della moda si osservavano a partire dal modo di presentarsi agli altri, nella difficile situazione circolare in cui già si sapeva che questa presentazione, in mancanza di criteri fissi, deve orientarsi al modo in cui si suppone che gli altri ci osservino – una circolarità criticata come avviamo visto lamentando che in questo orientamento ci si sottopone alle passioni degli altri, che tra l’altro sono anche sconosciute, anziché alla virtù. L’identità dell’individuo si costruiva essenzialmente nell’interazione, rispecchiandosi nell’osservazione degli altri. A partire almeno alla metà del XIX secolo le cose sono gradualmente cambiate: l’interazione è competente solo per la definizione della parte personalissima dell’identità dell’individuo, a cui si affiancano componenti ricavate sia da rapporti di ruolo sia, e soprattutto, determinazioni ottenute nella comunicazione a distanza. Lo abbiamo visto trattando della fiction nel cap. 4 e lo vedremo più dettagliatamente più avanti: l’identità e l’auto-osservazione dell’individuo moderno si costituiscono essenzialmente nella biforcazione tra imitazione ed autenticità, che si sperimenta in primo luogo nel confronto con i personaggi realisticamente fittizi del romanzo. Questa identità e questa riflessione vengono poi naturalmente trasportate nella comunicazione con persone presenti, ma non trovano lì la loro origine e le loro condizioni di possibilità. La semantica della moda, però, nata in riferimento all’interazione, è rimasta vincolata ad essa e continua ad essere riferita al modo di apparire di fronte a persone che si vedono e si sentono reciprocamente. Per cui l’abbigliamento, la pettinatura, gli accessori: tutti elementi che convogliano per via percettiva una serie di informazioni sull’interlocutore, sulla sua auto-osservazione e sul modo in cui vorrebbe essere osservato dagli altri33. L’in-

33. Cfr. Veblen 1899, p. 141, e naturalmente gli studi di Goffman: ad esempio Goffman 1959.

144


LA MODA MODERNA

dividuo, ormai intrasparente e definito in quanto tale, mette in scena nell’abbigliamento e nel modo di presentarsi un’illusione di trasparenza, su cui si concentrano i discorsi correnti sulla moda. Per questo, forse, la curiosa onnipresenza della moda, la centralità della marginalità: in condizioni in cui l’intrasparenza diventa sempre più un problema, la stilizzazione dell’abbigliamento sembra neutralizzarla con la promessa di osservabilità immediata, che riesce a restare plausibile solo diventando sempre più improbabile e sfaccettata – e, come ormai sappiamo, cambiando di continuo. Come dire: sviando l’attenzione sulla cura ossessiva per i particolari e sul loro frenetico cambiamento, la moda nell’abbigliamento riesce a evitare di confrontarsi con l’opacità di fondo – con il fatto che osservando i vestiti non si osserva altro che un’osservazione, e nessun dato34. In una società dominata dall’osservazione di secondo ordine, l’interesse per l’abbigliamento sembra offrire un’oasi di osservazione (sociale) di primo ordine. Le modelle ne sono in qualche modo il simbolo – come se l’interesse rivolto ad esse, senza nessuna problematicità e contingenza, costituisse un sollievo dai tormenti dell’individualità. Nemmeno le star del cinema possono fornirlo nella stessa misura. E per questo, semplificando drasticamente, la moda viene circoscritta ad abbigliamento e fenomeni affini. Ma perché il rapporto privilegiato con le donne? È evidente che, nel senso definito in questo lavoro, la moda come gestione della contingenza riguarda tutti gli individui senza distinzione di genere. Ed in effetti è solo la moda ristretta all’abbigliamento e al modo di presentarsi che si rivolge prevalentemente al sesso femminile – cioè la moda limitata all’interazione. Interviene qui la complessa questione della definizione dell’identità di genere. Senza addentrarmi nelle difficili questioni connesse, vor34. In rari casi l’attenzione degli stilisti si sposta proprio su questo aspetto, e la moda diventa manifestazione dell’intrasparenza dell’osservazione – una comunicazione che si avvicina alle forme dell’arte, intesa come sperimentazione nell’ambito del possibile: da questo punto di vista si può comprendere anche la valorizzazione artistica delle forme della moda – non però in quanto tali, ma come riflessione sul paradosso della moda.

145


ELENA ESPOSITO

rei limitarmi a richiamare la constatazione generalmente condivisa – per quanto con differenti valutazioni – di un legame particolarmente forte delle donne con la componente della fisicità e con il corpo in generale35. In prospettiva sociologica si potrebbe ipotizzare una maggiore propensione femminile a definire la propria identità sul piano dell’osservazione di secondo ordine: non tanto partire da ciò che si è per orientare come si viene osservati, quanto piuttosto definire ciò che si è a partire dall’osservazione di come si viene osservati. Ed è principalmente nell’interazione che il modo in cui appare agli altri si offre all’osservazione dell’individuo – ma nell’interazione non si può mai prescindere dalla percezione, intesa in primo luogo come percezione del proprio corpo (da parte degli altri). In altri termini: l’osservazione riflessiva è sempre sfuggente, e passa per il riferimento alla prospettiva altrui (per osservarmi devo osservare come vengo osservato). Non viene osservato solo il corpo, ma la presentazione percettiva dei partecipanti non può mai essere ignorata nell’interazione: non solo nel senso della bellezza e dell’eleganza, ma dell’atteggiamento, del modo di comportarsi e di tutte le componenti che indirettamente offrono delle informazioni sulla persona dall’interlocutore. È questo che gli altri osservano e che si osserva per osservare la loro osservazione. Di qui l’attenzione prevalentemente femminile per l’aspetto e la presentazione del proprio corpo (abbigliamento compreso), in cui la natura è un risultato e non la premessa: l’immagine e la percezione del proprio corpo risultano dall’osservazione dell’osservazione, e non da una presunta fisicità originaria36. L’osservazione di secondo ordine, allora, non arriva in un secondo tempo, ma è il punto di partenza per la costruzione e la verifica (femminile) della propria identità – una costruzione tipicamente moderna, come tutto ciò che coinvolge l’osservazione di secondo ordine, come moderno è anche il particolare legame della moda con il pubblico femminile.

35. Cfr., con ulteriori indicazioni bibliografiche, Esposito 1994. 36. Non sono a conoscenza di testi che trattino specificamente questo aspetto. Cfr. però Schlegel 1799.

146


LA MODA MODERNA

Questa tendenziale propensione per l’osservazione di secondo ordine e per una costruzione di identità riflessiva spiegherebbe alcuni aspetti di remissività tipicamente femminile che, aldilà e a prescindere dai rapporti di potere, si sono tradotti generalmente in posizioni svantaggiate. Spiegherebbe però anche perché in condizioni in cui, come nei tempi più recenti, l’osservazione di secondo ordine diventa sempre più necessaria anche in ambiti che prima ne erano quasi immuni, la moda si diffonde progressivamente nel pubblico maschile: una tendenza ormai considerata indubbia. Ma l’abbigliamento diventa allora solo l’elemento percepibile di una costruzione di identità molto più complessa. L’attenzione per l’abbigliamento, cioè, diventa una sorta di riconoscimento dell’intrasparenza: il modo di presentarsi deve essere inteso come un accenno all’inconoscibilità della persona, per chi la sa cogliere – la devianza via conformità che abbiamo individuato come tratto fondamentale della moda e che è indipendente dal sesso. Si può concludere allora che la presentazione della moda nei mass media e nei discorsi correnti, la moda onnipresente riferita ai vestiti in maniera non problematica, è più la negazione che la manifestazione della forma moderna della moda. L’attenzione per l’abbigliamento inteso come illusione di osservazione di primo ordine non esprime la reale complessità del fenomeno della moda. VI. Il ruolo dei mass media La moda, si dovrebbe dire, non si trova tanto nei discorsi o nei servizi sulla moda, ma è presupposta, in quanto primato dell’osservazione di secondo ordine, nell’impostazione e nel funzionamento della semantica moderna – soprattutto quando si parla d’altro. Naturalmente da un punto di vista sociologico non è molto facile sostenere che la moda si realizza quando non si parla di moda, ed occorre qualche parola di spiegazione. La moda, lo abbiamo visto ampiamente, è stata intesa qui come operazionalizzazione dei paradossi della contingenza, che funziona ricavando degli orientamenti dall’intrasparenza che rimane presupposta. Ma l’osserva147


ELENA ESPOSITO

zione di secondo ordine, come ben sanno i teorici della distinzione, può sempre essere osservata anche come osservazione di primo ordine, e i discorsi sulla moda riferita all’abbigliamento e all’illusione di trasparenza realizzano appunto questo genere di osservazione. Come promette una pubblicità diffusa, “devient ce que tu es”37. Si tratta però comunque di osservazione di secondo ordine, con tutta la connessa circolarità e auto-instabilizzazione, che si rivelano nella necessità più volte discussa di cambiare di continuo e di cercare una insostenibile distinzione di massa – fenomeni che al livello dell’osservazione di primo ordine (e anche della moda nel senso corrente) non possono essere spiegati. Chi si orienta ad una determinata moda la trova semplicemente bella, senza riflettere su fatto peraltro ben noto che poco prima non sarebbe affatto piaciuta e che fra poco non piacerà più38. Questa consapevolezza distruggerebbe tutta la costruzione della moda-abbigliamento, che se riflette sulla propria circolarità lo può fare soltanto annullandone il potenziale destabilizzante – per cui la moda di strada viene venduta a caro prezzo e la stessa presentazione della contingenza appare come un “must”. La forza della moda, lo abbiamo visto, sta nella sua fortissima capacità di inglobare il contrario. Ma cosa succede invece su un piano di secondo ordine? È qui che secondo noi si realizza la gestione contingente della contingenza, cioè quella che abbiamo individuato come funzione fondamentale della moda, di solito senza venire osservata in quanto tale; tutte le forme di de-paradossizzazione, peraltro, procedono normalmente in maniera inavvertita. L’illusione di trasparenza è vincolata all’interazione tra presenti – di qui l’abbiglia-

37. Si potrebbe recuperare qui la tesi di Packard 1957, cap. V, secondo la quale i consumatori nei prodotti non cercano altro che la propria immagine. Packard cita lo slogan Buick: “vi dà il senso di essere l’uomo che siete”. 38. Cfr. ad esempio Veblen 1899, p. 116 tr.ted.: “Ben volentieri e di solito in tutta onestà troviamo belle proprio le cose che di volta in volta sono alla moda”, anche se sappiamo che fra qualche anno non ci sembreranno più tali.

148


LA MODA MODERNA

mento. La moda in senso moderno presuppone invece l’autonomizzazione dall’interazione – e per questo è legata in particolare alle comunicazioni dei mass media. Finché funziona l’orientamento al gusto, residuo di stratificazione e vincolo non contingente, la moda come abbiamo visto non può ancora realizzarsi. Finché c’è gusto, quindi, non c’è moda – in altri termini: nella forma moderna non è il gusto a dirigere la moda (come nella semantica dell’honnêtetè), ma è la moda a creare il gusto39. Nella società differenziata per funzioni, nessuno e nessuna classe può pretendere di avere il monopolio degli orientamenti di gusto (il buon gusto) e di fatto tutti devono crearsi un gusto a partire dalle indicazioni contingenti che la società fornisce. Queste indicazioni si ricavano prevalentemente dai mass media. Secondo Luhmann la funzione latente della pubblicità consiste “nel fornire gusto alla gente priva di gusto”40, e senza gusto oggi sono tutti. Gli orientamenti per discriminare che cosa va e non va – nel modo di apparire ma anche negli interessi, nelle preferenze, nella stilizzazione della propria identità – si ricavano allora prevalentemente dalle informazioni fornite dai mass media. Questo coinvolge la pubblicità, che presenta dei modelli di persone e di interazione, ma anche e ad un livello più profondo tutto il settore dell’intrattenimento. Come abbiamo visto sopra41, la fiction nel XVIII secolo inaugura un ambito tipicamente moderno di finzione realistica, di realtà palesemente non reale da cui si ricavano le indicazioni per strutturare l’auto-osservazione, in senso positivo o negativo. Non si tratta infatti di imitazione pedissequa, ma di un nuovo, anch’esso tipicamente moderno, orientamento alla differenza tra imitazione ed autenticità, in rapporto alla quale ogni individuo costruisce la (consistente) porzione non interattiva della propria identità. Dalla fiction la funzione si è poi estesa a tutto il settore

39. Cfr. anche Sapir 1935: la moda non si accorda tanto al gusto quanto si sostituisce ad esso. 40. “Leute ohne Geschmack mit Gechmack zu versorgen”: Luhmann 1995a, p. 89. 41. Cfr. § 4.IV.

149


ELENA ESPOSITO

dell’intrattenimento, che offre in generale delle possibilità di osservazione di secondo ordine rispetto alle quali delineare la propria auto-osservazione. Anche le notizie, con una prevalenza dell’eteroreferenza, forniscono delle indicazioni su ciò che gli altri sanno e che suppone li interessi. Si può dire allora, nel nostro senso, che i mass media – tramite evidentemente il loro contributo alla costituzione della sfera pubblica – forniscono all’individuo gli orientamenti della moda nel senso di tendenze generali della semantica, alle quali può conformarsi o dalle quali può dissentire. In entrambi i casi egli dispone però di un riferimento, di un punto di partenza rispetto al quale compiere le proprie scelte, che sono autonome proprio in quanto rimangono contingenti – la normatività del gusto non lo consentiva42. L’opinione pubblica di per sé è neutrale: fa sapere solo quello che gli altri sanno, non cosa ne pensano – una neutralità fondamentale per la sua funzione43. La moda introduce invece delle tendenze, anch’esse senza obbligo di consenso, che sono però orientate nel senso delle preferenze. La moda indica cioè quello che si può supporre gli altri scelgano e che in generale piace, senza con questo imporre una scelta conforme – se non nel senso della più astratta conformità della devianza. Ciascuno può benissimo scegliere diversamente, ma sa se non altro da dove partire. È qui, secondo la nostra ipotesi, che si deve collocare la funzione più profonda della moda: quell’alleanza tra dimensione sociale e dimensione temporale di cui abbiamo parlato, che si realizza in gran parte in modo indipendente dall’interazione. Il rapporto dei mass media con la dimensione materiale è del tutto contingente: ben lungi dall’essere una finestra sulla realtà, essi costruiscono piuttosto una propria realtà secondo

42. In questo consiste la curiosa forza para-normativa della moda, che non pretende di valere nonostante la violazione, ma proprio nella negazione. 43. Per approfondimenti cfr. Luhmann 1990b.

150


LA MODA MODERNA

criteri autonomi, che si ricavano dall’orientamento congiunto alla novità (dimensione temporale) e a quello che gli spettatori-lettori sanno (dimensione sociale) – una costruzione che si può ricavare proprio dal senso di informazione44, che non è un dato del mondo ma una novità per qualcuno. Esiste quindi uno stretto legame tra la forma sociale della moda e le strutture e l’evoluzione del sistema dei mass media. Sotto Luigi XIII non c’era ancora letteratura sulla moda45, ed in effetti si trattava ancora di una forma rivolta esclusivamente all’interazione: per sapere che cosa “andava” o meno bisognava partecipare agli incontri alla Corte o intorno ad essa, e di converso la conoscenza delle tendenze di moda serviva a contraddistinguere coloro che avevano accesso a tali incontri. Al di fuori di queste cerchie, la diffusione della moda e dei suoi cambiamenti nell’ambito dell’abbigliamento veniva affidata ad un surrogato di interazione: il famoso manichino di rue Saint-Honorè e altri simili in giro per l’Europa46. Le nuove tendenze venivano fatte vedere addosso al manichino, e per vederle bisognava andarci, cioè essere presenti. I giornali di moda compaiono nella seconda metà del XVIII secolo47, cioè nel periodo in cui la moda astrae in parte dall’interazione: come abbiamo visto, la competenza conversazionale, se presupponeva una nascita elevata, richiedeva anche ampie letture. La competenza interattiva non si ricavava più ormai solo dall’interazione. In seguito poi i rapporti di priorità si invertono e in tutti i campi la dipendenza dall’opinione pubblica sostituisce la dipendenza da coloro che si incontrano nell’interazione48. Anche la moda diventa allora un puro fenomeno di osservazione riflessiva.

44. Per la teoria dei sistemi sociali il codice, cioè la distinzione fondamentale, del sistema dei mass media è appunto informazione/non-informazione: Cfr. Luhmann 1995a, cap. 3. 45. Cfr. Godard de Donville 1978, p. 11. 46. Cfr. Goncourt 1862, cap. 8. 47. Cfr. Kleinert 2001; Schwarz 1982, pp. 74ss. 48. Cfr. Luhmann 2000a, p. 278.

151


ELENA ESPOSITO

VII. Funzione della moda per la società Qual è allora, in conclusione, il ruolo della moda al livello della società moderna nel suo complesso?49 Colpisce innanzitutto la sua ubiquità: non c’è ambito della vita sociale che ne sia immune, nemmeno i grandi e più astratti sistemi di funzione come l’economia, la scienza, la politica o l’arte, e a maggior ragione la si ritrova in settori più legati all’interazione come l’educazione o la sfera familiare. E in tutti questi ambiti si ripropone la “marginalità fondamentale” della moda: la si trova ovunque ma assolve la propria funzione solo se non viene troppo osservata – mantenendo così la sua collocazione marginale. Un’attenzione più puntuale e una valorizzazione esplicita svelerebbero l’intreccio di paradossi su cui si fonda, e ne annullerebbero l’efficacia. L’effetto della moda si ritrova intanto ad un livello indiretto come diffusione della legittimità di ciò che è dato di volta in volta, cioè di forme che valgono nonostante il fatto che siano limitate nel tempo, anzi proprio grazie ad esso: dal diritto positivo (che vige finché non viene cambiato) al carattere ipotetico delle verità scientifiche (che valgono finché non vengono confutate), all’orientamento al mercato o alla democrazia, la cui flessibilità verrebbe annullata dalla stabilità temporale. Anche l’amore vale “in eterno” a partire dalla premessa che potrebbe anche finire e che viene verificato (e confermato) di nuovo in ogni presente. Le leggi o le affermazioni scientifiche, ovviamente, non si fondano direttamente sulla moda e si appoggiano in ogni caso ai meccanismi per nulla arbitrari dei diversi sistemi di funzione. Che però questi meccanismi possano presupporre una semantica che sia in grado di attribuire legittimità e una sorprendente forma di stabilità a forme che non garantiscono alcuna permanenza può essere

49. In questo paragrafo vengono esposte una serie di considerazioni riferite alla teoria della società. Si tratta di un paragrafo particolarmente tecnico, che si richiama prevalentemente alla teoria presentata ad esempio in Luhmann 1997.

152


LA MODA MODERNA

considerato anche un effetto della gestione della contingenza garantita dalla moda. In maniera più diretta (per quanto non più esplicita) la moda interviene anche ad un altro livello sulle operazioni dei sistemi di funzione. Contrariamente a quanto è stato proposto da altri50, nella nostra analisi la moda non deve essere considerata un mezzo di comunicazione generalizzato simbolicamente perché non ha la funzione di aumentare la probabilità dell’accettazione della comunicazione. Può succedere, ma può anche avvenire il contrario, e la moda di per sé è indifferente al fatto che una comunicazione riferita ad essa venga accettata o meno: la sua forma funziona in quanto differenza, ed è questa che deve essere osservata. La moda, inoltre, sarebbe distrutta se si dovesse fondare su una consapevole connessione tra condizioni di selezione della comunicazione proposta e motivazione ad accettarla51: pretendere che una forma venga accettata perché colui che la propone sa che è di moda saboterebbe sia l’operazionalizzazione della devianza che l’effetto di novità, cioè tutta la sua efficacia. Per noi, poi, la moda non è nemmeno un sistema di funzione autonomo – se non altro perché non dispone di operazioni proprie ma si aggancia sempre ad altre comunicazioni: non è la moda ad essere di moda, ma di volta in volta un qualche contenuto. Non mi sembra soddisfacente nemmeno parlare della moda come di una seconda codificazione, ad esempio del sistema dell’arte (plausibile candidato per la vicinanza colloquiale con la distinzione bello/brutto). La seconda codificazione è una specie di post-codificazione, che presuppone un primo codice a cui agganciarsi in quanto elaborazione successiva, ad esempio la proprietà per il denaro o il potere per il diritto: la moda, invece, sembra funzionare piuttosto come una pre-codificazione o una meta-codificazione, che interviene prima dell’applicazione di un codice e deve operare in maniera inav-

50. Cfr. Schwarz 1982; Bohn 2000. 51. Per le condizioni tecniche del funzionamento dei mezzi di comunicazione generalizzati simbolicamente, presupposto di tutto quanto viene detto qui, cfr. ad esempio Luhmann 1997, §§ 4.IX-4.XII.

153


ELENA ESPOSITO

vertita. Si potrebbe pensare ad un lontano parallelo con lo stile come metaprogrammazione del sistema dell’arte, che non si sovrappone ai programmi del sistema né si sostituisce ad essi52: lo stile non indica come si deve realizzare o osservare un’opera d’arte – il che annullerebbe l’orientamento al codice, la chiusura e quindi l’identità del sistema. Lo stile indica però una forma rispetto alla quale le operazioni possono conformarsi o deviare, e a partire dalla quale si possono mettere all’opera i programmi del sistema. La moda sembra funzionare in maniera analoga al livello del codice dei sistemi. Non è certo l’orientamento alla distinzione in/out a determinare che cosa ha dei collegamenti nell’ambito dell’economia, della politica, della scienza, della stessa arte ecc. – anzi, se si nota che una determinata scelta è guidata dalla moda si tende di per sé a rifiutarla: essa non avrà quindi seguito nel sistema in questione. Non si sviluppa una ricerca scientifica o un’operazione economica perché è di moda, ma evidentemente perché sembra condurre a incrementi di conoscenze o di profitti. Il codice di riferimento rimane e deve rimanere esclusivamente quello del rispettivo sistema di funzione. La pre-codificazione opera in modo più sottile e non esplicito. Un sistema chiuso può intervenire solo sulle proprie operazioni, e non ha alcun accesso diretto all’ambiente né alle condizioni ambientali da cui dipende la sua attivazione. Un sistema, cioè, non può mai controllare o trattare il caso, ma solo apprestare le strutture che gli consentiranno (se ne è in grado) di coglierlo e di utilizzarlo quando si presenta. Perché si scelgono certi temi di ricerca, certe linee di investimento, certe tendenze espressive, certi orientamenti artistici? Il sistema in questione non lo può spiegare, mentre può spiegare il destino che tali scelte subiscono al suo interno: se saranno proficue o meno, se convoglieranno altre operazioni o no, lo decidono solo i criteri della scienza o dell’economia o dell’arte. La moda, però, come forma di gestione e operazionalizzazione della contingenza, può essere il modo in cui al livello della società si tratta e si fa 52. Cfr. Luhmann 1995e, pp. 338ss.

154


LA MODA MODERNA

lavorare il caso – sottraendolo all’arbitrio senza con questo vincolarne la contingenza53. L’orientamento e lo stimolo iniziale delle operazioni dei sistemi potrebbero allora essere attribuiti alla moda, che – in quanto forma sociale che si occupa della continuità del discontinuo, della conformità della devianza e in genere della normalità dell’eccezione – è in grado di operazionalizzare l’imprevedibilità del caso. La moda, allora, non è un fenomeno individuale, legato alle preferenze e alle propensioni del singolo. Anzi, se si prendono in considerazione l’individuo e i suoi dilemmi, la moda non risolve nessun problema, se non quello essenzialmente sociale della partecipazione alla comunicazione: per capire chi si è e come costruire la propria identità la moda non offre alcun aiuto, ma semmai aumenta la complessità dei fattori da considerare. Per capire il senso della moda conviene far riferimento al livello sociale, su cui si colloca e su cui lavora – come mostra il fatto che non si tratta, nell’accezione qui trattata, di una costante antropologica, ma di un fenomeno che sorge ad un determinato stadio dell’evoluzione della società e della complessità della comunicazione – nella fase in cui si rompe l’armonia tra particolare e generale e si presenta in tutta la sua problematicità il terzo escluso della distinzione: la singolarità come intrasparenza e autentica contingenza. La moda, questa l’ipotesi, è la forma complessa e contraddittoria con cui la società gestisce a tutti i livelli l’intrasparenza della singolarità: dell’individuo e della sua sincerità, della specificità del presente, ma anche delle singole operazioni dei sistemi e dei motivi che le hanno avviate. È la moda a privilegiare in ogni fase determinati orientamenti e determinate scelte, ma questi diventano irrilevanti per il sistema, che elabora le operazioni con le proprie categorie – ma non potrebbe costituire al suo interno le motivazioni per selezionarle ed attivarle.

53. Cfr. anche Vischer 1879, pp. 66ss., che riconduce la contraddittorietà della moda all’antinomia della non libertà nell’esercizio dell’arbitrio.

155


ELENA ESPOSITO

VIII. Operazionalizzazione del caso Torniamo per concludere alla nozione classica di imitazione come orientamento ad un modello – un orientamento che non doveva però essere pedissequa riproduzione (nel qual caso si parlava già di plagio, in accezione negativa54), ma per così dire l’indicazione di una direzione sulla quale avviare la propria imperfetta ricerca della perfezione. L’orientamento al modello, quindi, non era semplice moltiplicazione di un’identità immutabile, ma riconosceva la particolarità – che come abbiamo visto nella semantica classica era ben nota sia nella dimensione temporale che nella dimensione sociale. Si riconosceva quindi la differenza particolare/generale (e quelle affini come transitorio/eterno o perfetto/imperfetto), ma la si risolveva nell’identità della differenza stessa. L’imitazione aspirava all’identificazione – non tanto con il modello quanto con la perfezione di cui esso indicava la direzione. Si può dire quindi che l’imitazione nel senso classico aveva la funzione di orientare le operazioni del sistema della società – orientamento nel senso spazializzato di uno schema topologico che forniva alla comunicazione una via da seguire e un motivo per intraprenderla. I loci, infatti, contenevano sia i materiali che gli argomenti e le connessioni logiche tra di essi: si pensava muovendosi per luoghi comuni. Qualche secolo dopo questa nozione di imitazione si è ormai dissolta – la si considererebbe sterile ripetizione e mancanza di creatività. I modelli però non sono spariti e nell’accezione profondamente rinnovata di modelli alla moda55 svolgono una funzione analoga in una semantica molto differente. Il modello non deve essere imitato ma deve essere utilizzato come riferimento per costruire una propria variante originale. Nel seguire la moda, cioè, non si aspira alla perfezione ma si cerca piuttosto di sviluppare una propria forma di imperfezione, in cui quel che conta non è tanto il contenuto (appunto im-

54. Cfr. Carruthers 1990, pp. 218ss. 55. Sia i modelli di abiti che i personaggi dei romanzi e dei film o le tendenze in voga.

156


LA MODA MODERNA

perfetto) quanto piuttosto il fatto che sia proprio e la ricerca con cui lo si insegue. Nel seguire la moda, lo abbiamo visto, si afferma la propria originalità e non ci si identifica con il modello, ma lo si usa come spunto per costituire un’identità tramite disidentificazione. La differenza particolare/generale e i suoi derivati vengono in questo caso trattati in quanto differenze, la cui unità è la forma sfuggente e paradossale dell’individualità (o del presente o della novità). La funzione dei modelli moderni, però, rimane largamente la stessa dell’orientamento classico agli auctores e agli esempi: fornire un orientamento che metta in moto le operazioni del sistema. Nella difficile condizione in cui l’orientamento può essere solo una differenza e nessun contenuto, la funzione dei modelli (e della moda) diventa quella di fornire un riferimento da cui deviare in maniera controllata, cioè di incorporare il caso nel sistema – un caso programmato e strutturato, ma non per questo meno contingente. La gestione del transitorio può allora generare anche appositi ruoli e organizzazioni, può produrre profitti, mestieri e dare origine anche a “istituzioni del rimpianto” come i musei. La moda può diventare una forma sociale riconosciuta e osservata addirittura in maniera ossessiva, ma rimane frivola, vuota e in sostanza irrazionale – altrimenti perderebbe il suo aggancio con il caso. Per questo la riflessione sulla moda fa emergere sempre nuovi paradossi in tutte le dimensioni del senso – quelli che sono stati riconosciuti e spesso lamentati da tutte le ricerche che si sono rivolte ad essa56. I paradossi, però, non sono un difetto della moda, che si dovrebbe eliminare e che segnala che si tratta di una forma marginale e frivola – o meglio: è sì marginale e frivola, ma perché queste caratteristiche sono necessarie per l’assolvimento della sua funzione, come pure i suoi tratti paradossali. La società moderna, riflessiva e autologica, è fondata sui paradossi e non può avere come fondamento che forme esse stesse paradossali e vuote: in ultima analisi solo il caso, da cui si generano le uniche forme di necessità compatibili con una complessità inde56. Cfr. in particolare Vischer 1879.

157


ELENA ESPOSITO

terminata. La moda le mette in moto e le fa funzionare, anche se poi non può dar conto del loro senso e delle loro conseguenze (affidate come sappiamo ai vari sistemi di funzione). Il caso non si può governare e non si può prevedere, anche se con la crescita di complessità un sistema può essere dotato di forme sempre più capaci di usarlo e, nei termini della cibernetica classica, trasformarlo a sua volta in struttura. La moda nella società moderna è una delle forme più diffuse per avviare questa strutturazione.

158


Bibliografia

Theodor Wiesengrund Adorno 1951, Minima moralia, Ed. Suhrkamp, Frankfurt a.M. David L. Altheide 1976, Creating Reality. How TV News Distorts Events, Sage, Beverly Hills-London. David L. Altheide e Robert P. Snow 1979, Media Logic, Sage, Beverly Hills-London. Henri Atlan 1976, Entre le cristal et la fumée, Seuil, Paris. 1985, “Complessità, disordine e autocreazione del significato”, in G.Bocchi-M.Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985, pp. 158-178. Honoré de Balzac 1830-1833, Pathologie de la vie sociale: Traité de la vie élégante, Théorie de la démarche, Traité des excitants modernes (tr.it. Patologia della vita sociale. Trattato della vita elegante, Teoria dell’andatura, Trattato degli eccitanti moderni, Bollati Boringhieri, Torino, 1992). Jules Barbey d’Aurevilly 1845, Du dandysme et de George Brummel, éd. présentée et annotée par Marie-Christine Natta, Plein Chant, Bassac, 1989. 1843, “De l’élégance”, texte publié dans Le Moniteur de la Mode le 20 avril, ora in Barbey d’Aurevilly 1845 (ed.1989), p. 197-201. 159


ELENA ESPOSITO

Charles Baudelaire 1981, “Il pittore della vita moderna”, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, pp. 278-313. Jean Baudrillard 1970, La société de consommation, Denoel, Paris, pp. 100-109; tr.it. “Differenziazione e società di crescita”, in G.Ragone (a cura di), Sociologia dei fenomeni di moda, Angeli, Milano, 1976, pp. 166-173. 1976, L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris (tr.it. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1984). Walter Benjamin 1982, Das Passagen-Werk, Herausgegeben von Rolf Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a.M. Mercedes Blanco 1992, Les Rhéthoriques de la Pointe. Baltasar Gracián et le Conceptisme en Europe, Slatkine, Genève. Hans Blumenberg 1964, “Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans” in H.R. Jauß (Hrsg.), Nachahmung und Illusion. Poetik und Hermeneutik I, Fink, München, 1964, pp. 9-27. 1988, “Der Prozeß der theoretischen Neugierde”, in Ders., Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2. Auflage, pp. 263-528. Boethius 524, De consolatione philosophiae, ed. Rizzoli, Milano, 1981. Cornelia Bohn 2000, “Kleidung als Kommunikationsmedium”, in Soziale Systeme, 1/6, pp. 111-137. Bonaventure d’Argonne 1691, L’Èducation. Maximes er Réflexions de Monsieur de Moncade, Maurry, Rouen, ora in Lafond 1992, pp. 91-98. Wayne C. Booth, 1961, The Rhetoric of Fiction, The University of Chicago Press, Chicago and London. Pierre Bourdieu 1979, La distinction. Critique sociale du jugement, Minuit, Paris (tr.it.La distinzione, Bologna, 1984). 160


LA TEORIA DELLA MODA

Silvia Bovenschen 1986 (Hrsg.), Die Listen der Mode, Suhrkamp, Frankfurt a.M. Sir Thomas Browne 1635, Religio Medici, ed. F.L.Huntley, New York, 1951. Jean de La Bruyère 1688a, Les Caractères de Théophraste, in Lafond 1992, pp. 659-692. 1688b, Les Caractères ou les moeurs de ce siècle, in Lafond 1992, pp. 693-968. Peter Burke 1993, “The Art of Conversation in Early Modern Europe”, in The Art of Conversation, Cambridge, Polity Press, pp. 1-33 (tr.it. “L’arte del conversare nell’Europa moderna”, in L’arte della conversazione, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 19-60). Emmanuel Bury 1993, “Savoir-vivre ou savoir parler. Les ambiguités du modèle cicéronien de l’honnêteté”, in A. Montandon (éd.), L’honnête homme et le dandy, Narr, Tübingen, 1993, pp. 19-34. Pedro Calderòn de la Barca 2000, La vida es sueño, ed. Castalia, Madrid. Mary J. Carruthers 1990, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge U.P., Cambridge. Baldassarre (Baldesar) Castiglione 1528, Il Cortegiano, ed. De Agostini, Novara, 1968. Terry Castle 1986, Masquerade and Civilization. The Carnivalesque in EighteenthCentury English Culture and Fiction, Methuen, London. Terence Cave 1979, The Cornucopian Text. Problems of Writing in the French Renaissance, Oxford U.P., Oxford (ed. 1986). Gianni Celati 1975 (19862), Finzioni occidentali, Einaudi, Torino. François Coblence 1988, Le dandysme, obligation d’incertitude, P.U.F., Paris. 161


ELENA ESPOSITO

1993, “Le dandysme et la règle”, in A. Montandon (éd.), L’honnête homme et le dandy, Narr, Tübingen, 1993, pp. 169-177. Rosalie L. Colie 1966, Paradoxia Epidemica. The Renaissance Tradition of Paradox, Princeton U.P., Princeton (N.J.). Condillac 1746, Essai sur l’origine des connissances humaines, ed. Galilée, Auvers-sur-Oise, 1978. Giancarlo Corsi 1994, “Le fond du cour. Il ruolo della doppia contingenza nella costruzione della realtà”, in Scheda 2001. Ecologia antropica, VI, 15, pp. 27-42. Benedetta Craveri 2001, La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano. Fred Davis 1992, Fashion, Culture and Identity, University of Chicago Press, Chicago (tr.it. Moda. Cultura, identità, linguaggio, Baskerville, Bologna, 1993). Lennard J. Davis 1983, Factual Fictions. The Origins of the English Novel, Columbia University Press, New York. Giovanni Della Casa 1558, Galateo, ed. Einaudi, Torino, 1994. René Descartes 1642, Principia Philosophiae, ed. it. I principi della filosofia, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 1986. Denis Diderot 1762, “Eloge de Richardson”, in Journal etranger, Gennaio. 1821, Le Neveu de Rameau, Brière, Paris (ed. Garnier-Flammarion, Paris, 1967). 1875-1879, Œuvres complètes, Garnier, Paris. A.Doren 1922-1923, “Fortuna im Mittelalter und in der Renaissance”, Vorträge der Bibliothek Warburg, I. Teil, pp. 71-143. 162


LA TEORIA DELLA MODA

Claude-Gilbert Dubois 1977, La Conception de l’Histoire en France au XVIe Siècle (15601610), Nizet, Paris. Dufresny 1699, Amusements serieux et comiques, in Lafond 1992, pp. 993ss. Faret 1630, L’Honnête homme ou l’Art de plaire à la cour, (tr.it. L’arte di piacere alla corte, tradotta dal Conte Alberto Caprara, Bologna, 1662). Norbert Elias 1969, Die höfische Gesellschaft, Luchterhand, Darmstadt und Neuwied (tr.it. La società di corte, Il Mulino, Bologna, 1980). Karl Enenkel, Betsy de Jong-Crane, Peter Liebregts 1998 (eds.), Modelling the Individual. Biography and Portrait in the Renaissance, Rodopi, Amsterdam-Atlanta. Elena Esposito 1991, “La ‘complessità’. Una proposta di definizione”, Iride, n. 6-7, pp. 147-159. 1994, “Osservazione di secondo ordine e riferimento al corpo (femminile?)”, in M.Forcina, A.Prontera, P.Vergine (a cura di), Filosofia donne filosofie, Milella, Bari, pp. 89-106. 2002, Soziales Vergessen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. Figuière 1641, La Vertu à la Mode, Estienne David, Aix-en-Provence. Fitelieu 1642, La Contre-Mode, Louys de Heuqueville, Paris. John Carl Flügel 1974, Psicologia dell’abbigliamento, Angeli, Milano, anche in G.Ragone (a cura di), Sociologia dei fenomeni di moda, Angeli, Milano, 1976, pp. 69-83. Heinz von Foerster 1973, “On Constructing a Reality”, in W.F.E.Preiser (Ed.), Environmental Design Research, Vol. 2, Dodwen, Hutchinson & Ross, Stroudsburg, pp. 35-46; anche in Von Foerster 1981, pp. 287-311 (tr.it. “Sulla costruzione di una realtà”, pp. 207-233). 163


ELENA ESPOSITO

1981, Observing Systems, Intersystems Publications, Seaside (Cal.) (tr. it. Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma, 1988). Ute Frackowiak 1994, Der gute Geschmack. Studien zur Entwicklung des Geschmacksbegriffs, Fink, München. Walter Freund 1957, Modernus und andere Zeitbegriffe des Mittelalters, Böhlau, Köln/Graz. Marc Fumaroli 1994, Trois institutions littéraires, Gallimard, Paris (tr.it. Il salotto, l’accademia, la lingua. Tre istituzioni letterarie, Adelphi, Milano, 2001). Herbert J. Gans 1979, Deciding What’s News, Random House, New York. Christian Garve 1792, Versuche über verschiedene Gegenstände aus der Moral, der Litteratur und dem gesellschaftlichen Leben, I. Teil, Korn, Breslau, Nachdr. in Gesammelte Werke, Hildesheim, 1985. E. Goblot 1967, La barriere et le niveau, PUF, Paris, pp. 41-50 (1. Ed.1925); it. “I fenomeni di moda nelle società borghesi”, in G.Ragone (a cura di), Sociologia dei fenomeni di moda, Angeli, Milano, 1976, pp. 143-150. Louise Godard de Donville 1978, Signification de la mode sous Louis XIII, Aix-en-Provence. 1989, Le Libertin des origines à 1665: un produit des apologètes, Biblio, Paris-Seattle-Tübingen. Erving Goffman 1959, The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday, New York (tr.it. La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969). Edmond e Jules de Goncourt 1862, La Femme au dix-huitième siècle (tr.it., La donna nel Settecento, Feltrinelli, Milano, 1983). 164


LA TEORIA DELLA MODA

Baltasar Gracián 1647, Oraculo Manual y arte de Prudencia (tr.it. Oracolo manuale e arte di prudenza, TEA, Milano, 1991). 1648, Agudeza y arte de ingenio, Nogues, Huesca (tr.it. L’Acutezza e l’Arte dell’Ingegno, Aesthetica, Palermo, 1986). František Graus 1987, “Epochenbewußtsein im Spätmittelalter und Probleme der Periodisierung”, in R.Herzog e R.Koselleck (Hrsg.), Epochenschwelle und Epochenbewußtsein, Fink, München, 1987, pp. 131-156. François de Grenaille 1642, La Mode, ou caractère de la Religion, de la Vie, de la Conversation, de la Solitude, des Compliments, des Habits et du Style du Temps, Gasse, Paris. Hans Ulrich Gumbrecht 1978, voce “Modernität, Moderne”, in Otto Brunner, Werner Conze, Reinhart Koselleck (Hrsg.), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch sozialen Sprache in Deutschland, Klett-Cotta, Stuttgart, Band. 4, pp. 93-131. Gotthard Günther 1962, “Cybernetic Ontology and Transjunctional Operations”, Self-Organizing Systems 1962, pp. 313-392, anche in Günther 1976, pp. 249-328. 1967, “Logik, Zeit, Emanation und Evolution”, Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes Nordrhein-Westfalen, Heft 136, pp. 7-47, anche in Ders., Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol.3, Meiner, Hamburg, 1980, pp. 95-135. 1970, “Die historische Kategorie des Neuen”, in W.R.Beyer (Hrsg.), Hegel-Jahrbuch 1970, Anton Hain, Meisenheim am Glan, pp. 34-61, anche in Ders., Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol.3, Meiner, Hamburg, 1980, pp. 183-210. 1976, Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol.1, Meiner, Hamburg. 1979, Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol.2, Meiner, Hamburg. 1980, Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol.3, Meiner, Hamburg. 165


ELENA ESPOSITO

Gotthard Günther, Heinz von Foerster 1967, “The Logical Structure of Evolution and Emanation”, Annuals of the New York Academy of Sciences, 138, pp. 874-891. Johann-Georg Hamann 1821-25, Schriften, Reiner, Berlin. Timothy Hampton 1990, Writing from History. The Rhetoric of Exemplarity in Renaissance Literature, Cornell U.P., Ithaca and London. Baxter Hathaway 1968, Marvels and Commonplaces. Renaissance Literary Criticism, Random House, New York. 1972 (or.1962), The Age of Criticism: The Late Renaissance in Italy, Greenwood Press, Westport (Connecticut). Walter Haug 1998a, “Kontingenz als Spiel und das Spiel mit der Kontingenz. Zufall, literarisch, im Mittelalter und in der frühen Neuzeit”, in G.v. Graevenitz e O.Marquand (Hrsg.), Kontingenz. Poetik und Hermeneutik XVII, Fink, München, 1998, pp. 151-172. 1998b, “Montaigne oder die dritte Lösung des Kontingenzproblems”, in G.v. Graevenitz e O.Marquand (Hrsg.), Kontingenz. Poetik und Hermeneutik XVII, Fink, München, 1998, pp. 285-290. Georg Wilhelm Fiedrich Hegel 1927-1940, Sämtliche Werke, Ed. H.Glockner, Stuttgart. Eric Hobsbawm 1983, “Introduction: Inventing Traditions”, in Eric Hobsbawm e Terence Ranger (Eds.) The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge (GB), 1983, pp. 1-14. Gustav René Hocke 1977, Die Welt als Labyrinth. Manier und Manie in der europäischen Kunst, Rowohlt, Hamburg (tr.it. Il mondo come labirinto. Maniera e mania nell’arte europea. Dal 1520 al 1650 e nel mondo d’oggi, Theoria, Roma-Napoli, 1989). Lucian Hölscher 1979, Öffentlichkeit und Geheimnis. Eine begriffsgeschichtliche Untersuchung zur Entstehung der Öffentlichkeit in der frühen Neuzeit, Klett-Cotta, Stuttgart. 166


LA TEORIA DELLA MODA

R.M.MacIver e C.H.Page, 1962, Society. An Introductory Analysis, Holt, Rinehart and Winston, New York, pp. 181-188; it. “La moda e il costume”, in G.Ragone (a cura di), Sociologia dei fenomeni di moda, Angeli, Milano, 1976, pp. 104-113. Hans Robert Jauß 1964 (Hrsg.), Nachahmung und Illusion. Poetik und Hermeneutik I, Fink, München. 1970, Literaturgeschichte als Provokation, Suhrkamp, Frankfurt a.M. (tr.it. Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino, 1999). 1983, “Zur historischen Genese der Scheidung von Fiktion und Realität” in D.Henrich e W.Iser (Hrsg.), Funktionen des Fiktiven, Fink, München, 1983, pp. 423-431. Elfriede Jelinek 2000, “Die Mode – keine Spur”, Figurationen. Gender Literatur Kunst, Böhlau, Köln, n. 2/2000, pp. 77-78. Immanuel Kant 1798, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in Werkausgabe, Bd.XII, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1988. D.Katz e R.L.Schanck 1938, Social Psychology, Wiley and Sons, New York, it. “I costumi e le mode”, pp. 13-34, in G.Ragone (a cura di), Sociologia dei fenomeni di moda, Angeli, Milano, 1976, pp. 92-104. Annemarie Kleinert 2001, Le “Journal des Dames et des Modes” ou la conquête de l’Europe féminine, Thorbecke, Stuttgart. René König, 1971, Macht und Reiz der Mode, Econ, Düsseldorf-Wien. 1988, Menscheit auf dem Laufsteg. Die Mode im Zivilisationsprozeß, Ullstein, Frankfurt a.M.-Berlin. Reinhart Koselleck 1979, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000, Zeitschichten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. Werner Krauss 1964, “Zur französischen Romantheorie des 18. Jahrhunderts” 167


ELENA ESPOSITO

in H.R. Jauß (Hrsg.), Nachahmung und Illusion. Poetik und Hermeneutik I, Fink, München, 1964, pp. 60-71. Jean Lafond 1992 (a cura di), Moralistes du XVIIe Siècle, Laffont, Paris. 1992a, “Préface” in Lafond 1992. Jacques Le Goff 1977-1982, Storia e memoria, Einaudi, Torino. Giacomo Leopardi 1824, “Dialogo della moda e della morte”, in Operette morali, ed. Fabbri, Milano, 1973. Wolf Lepenies 1977, “Das Ende der Naturgeschichte und der Beginn der Moderne. Verzeitlichung und Enthistorisierung in der Wissenschaftsgeschichte des 18. und 19. Jahrhunderts”, in R. Koselleck (Hrsg.), Studien zum Beginn der modernen Welt, Klett-Cotta, Stuttgart, 1977, pp. 317-351. Gotthold Ephraim Lessing 1766, Laokoon oder über die Grenzen der Malerei und Poesie, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a.M., 1990, Bd.5/2. Doro Levi 1923, “Il kairós attraverso la letteratura greca”, Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Serie V, 32, 1923, pp. 260-281. Ursula Link-Heer 1986, “Maniera. Überlegungen zur Konkurrenz von Manier und Stil (Vasari, Diderot, Goethe)” in H.U. Gumbrecht/K.L.Pfeiffer (Hrsg.), Stil. Geschichte und Funktionen eines kulturwissenschaftlichen Diskurselements, Suhrkamp, Frankfurt a.M., pp. 93-114. 1998, “Die Mode im Museum oder Manier und Stil (mit einem Blick auf Versace)”, in G.Lehnert (Hrsg.), Mode, Weiblichkeit und Modernität, Ebersbach, Dortmund, 1998, pp. 140-164. Gilles Lipowetsky 1987, L’empire de l’éphémère. La mode et son destin dans les sociétés modernes, Gallimard, Paris (tr.it. L’impero dell’effimero, Garzanti, Milano, 1989). 168


LA TEORIA DELLA MODA

Niklas Luhmann 1971, “Öffentliche Meinung”, in Politische Planung. Aufsätze zur Soziologie von Politik und Verwaltung, Westdeutscher, Opladen, pp. 9-34. 1975, “Komplexität”, in Soziologische Aufklärung 2, Westdeutscher, Opladen, pp. 204-220. 1980, Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, vol. 1, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980a, “Interaktion in Oberschichten: Zur Transformation ihrer Semantik im 17. und 18. Jahrhundert”, in Luhmann 1980, pp. 72-161. 1980b, “Temporalisierung von Komplexität: Zur Semantik neuzeitlicher Zeitbegriffe”, in Luhmann 1980, pp. 235-300. 1982, Liebe als Passion: Zur Codierung von Intimität, Suhrkamp, Frankfurt a.M. (tr.it Amore come passione, Laterza, RomaBari, 1985). 1984, Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. (tr.it Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1990). 1985, “Die Autopoiesis des Bewußtseins”, Soziale Welt, 36, pp. 402-446; anche in Alois Hahn/Volker Kapp (Hrsg.), Selbstthematisierung und Selbstzeugnis: Bekenntnis und Geständnis, Frankfurt a.M., 1987, pp. 25-94. 1986, “Das Kunstwerk und die Selbstreproduktion der Kunst”, in Hans Ulrich Gumbrecht/Karl Ludwig Pfeiffer (Hrsg.), Stil: Geschichten und Funktionen eines Kulturwissenschaftlichen Diskurselements, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986, pp. 620-672. 1987, “Paradigmawechsel in der Systemtheorie: Ein Paradigma für Fortschritt?” in: Reinhart Herzog-Reinhart Koselleck (Hrsg.), Epochenschwelle und Epochenbewußtsein, Poetik und Hermeneutik XII, Fink, München 1987, pp. 305-322. 1989a, “Die Ausdifferenzierung der Religion”, in Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, vol.3, Suhrkamp, Frankfurt a.M, pp. 259357. 1989b, “Individuum, Individualität, Individualismus”, in Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, vol.3, Suhrkamp, Frankfurt a.M., pp. 149-258. 1990a, Die Wissenschaft der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1990b, “Gesellschaftliche Komplexität und öffentliche Meinung”, in Soziologische Aufklärung 5. Konstruktivistische Perspektiven, Westdeutscher Verlag, Opladen, pp. 170-182. 169


ELENA ESPOSITO

1991, Soziologie des Risikos, de Gruyter, Berlin-New York. 1992, “Das Moderne der modernen Gesellschaft”, in Beobachtungen der Moderne, Westdeutscher Verlag, Opladen, pp. 11-49. 1995a, Die Realität der Massenmedien, Westdeutscher, Opladen. 1995b, Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, vol.4, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995c, “Kultur als historischer Begriff”, in Luhmann 1995b, pp. 31-54. 1995d, “Die Behandlung von Irritationen: Abweichung oder Neuheit?”, in Luhmann 1995b, pp. 55-100. 1995e, Die Kunst der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, Die Gesellschaft der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000a, Die Politik der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000b, Die Religion der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2002, Einführung in die Systemtheorie, Carl-Auer-Systeme, Heidelberg. Niccolò Machiavelli 1513, Il Principe, in Tutte le opere, a cura di Francesco Flora e Carlo Cordié, Mondadori, Milano, 1968, pp. 3-84. 1961, Lettere, a cura di F.Gaeta, Milano. Antoine Gombauld Chevalier de Méré 1930, Œuvres complètes, texte établi et prèsenté par Charles H. Boudhors, Roches, Paris. 1677, Discours “De la Conversation”, Tome II, p. 97-132. 1700, Œuvres poshumes – Discours Premier, “De la vraïe Honnêteté”, Tome III, p. 69-84. – Discours II, “Suite de la vraïe Honnêteté”, Tome III, p. 85-102. – Discours V, “Le Commerce du Monde”, Tome III, p. 139-156. – Discours VI, “Suite du Commerce du Monde ”, Tome III, p. 157-174. A.J. Minnis 19882, Medieval Theory of Authorship. Scholastic Literary Attitudes in the Later Middle Ages, Scolar Press, Aldershot. Michel de Montaigne 1580-1588, Essais (tr. it. Saggi, a cura di Virginio Enrico, Mondadori, Milano, 1986). Alain Montandon 1993a (éd.), L’honnête homme et le dandy, Narr, Tübingen. 170


LA TEORIA DELLA MODA

1993b, “L’Honnête Homme et le Dandy” in Montandon 1993a, pp. 223-262. Charles Louis de Secondat de Montesquieu 1758, De l’esprit des lois, ed. Gallimard, Paris, 1995. Peter von Moos 1988, Geschichte als Topik. Das rhetorische Exemplum von der Antike zur Neuzeit in die historiae im “Policraticus” Johanns von Salisbury, Olms, Hildesheim-Zürich-New York. Roland Mortier 1982, L’originalité. Une nouvelle catégorie esthétique au siècle des lumières, Droz, Genève. Maria Giuseppina Muzzarelli 1996, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Paravia, Torino. William Nelson 1973, Fact or Fiction. The Dilemma of the Renaissance Storyteller, Harvard U.P., Cambridge (Mass.). Pierre Nicole 1682, “Traitè de la connaissance de soi-mesme”, in Essais de morale, Paris, vol.III, pp. 1-145. Friedrich Nietzsche 1886, Menschliches, Allzumenschliches, Fritzsch, Leipzig, 1886. Dorinda Outram 2000, “Masks, Truth, and Nostalgia: Enlightenment Problems and our Responses”, Figurationen. Gender Literatur Kunst, Böhlau, Köln, n. 2/2000, pp. 93-107. Vance Packard 1957, The Hidden Persuaders, McKay, New York (tr.it. I persuasori occulti, Einaudi, Torino, 1958). Erwin Panofsky 1924, Idea. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie, Teubner, Lipzig-Berlin (tr.it. Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze, 1966). 171


ELENA ESPOSITO

Benedetta Papàsogli 1991, Il “fondo del cuore”. Figure dello spazio interiore nel Seicento francese, Editrice libreria goliardica, Pisa. Blaise Pascal 1670, Pensées, in Lafond 1992, pp. 321-604. Mario Perniola 1986, “Presentazione” in Gracián 1648, pp. 9-21. Paola Placella Sommella 1984, La Mode au XVII Siècle, d’apres la “Correspondance” de Madame de Sévigné, Leiner, Paris/Seattle/Tübingen. Alain Pons 1999, “La rhétorique des manières au XVIe siècle en Italie”, in M.Fumaroli (a cura di), Historie de la rhétorique dans l’Europe moderne (1450-1950), P.U.F., Paris, pp. 411-430. Alexander Pope 1711, An Essay on Criticism, Lewis, London. Gerardo Ragone 1976 (a cura di), Sociologia dei fenomeni di moda, Angeli, Milano 1976a, “Introduzione”, in 1976, pp. 9-46. Klaus Reichert 1985, Fortuna oder die Beständigkeit des Wechsels, Suhrkamp, Frankfurt a.M. Jacques Revel 1993, “Gli «usi» delle buone maniere”, in Philippe Ariès e Georges Duby (a cura di), La vita privata. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Mondadori, Milano, pp. 125-160. Joachim Ritter e Karl Fried Gründer 1984 (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Schwabe, Basel/Stuttgart. La Rochefoucauld 1665a, Réflexions ou sentences et maximes morales, in Lafond 1992, pp. 134-193. 1665b, Réflexions diverses, in Lafond 1992, pp. 197ss. 172


LA TEORIA DELLA MODA

Pierre de Ronsard 1555, Continuation des Amours, in Oeuvres complètes, Ed. G. Cohen, La Pléiade, Paris, 1950. Jean Jacques Rousseau 1959-1969, Oeuvres complètes, Gallimard, La Pléiade, Paris. Jean Rousset 1954, La littèrature de l’âge baroque en France. Circé et le paon, Corti, Paris (tr.it. La letteratura dell’età barocca in Francia. Circe e il pavone, Il Mulino, Bologna, 1985). Madame de Sablé 1678, Maximes, in Lafond 1992, pp. 246-255. Rémy Saisselin 1993, “De l’honnête homme au dandy – ou d’une esthétique de l’imitation à une esthétique de l’expression”, in A. Montandon (éd.), L’honnête homme et le dandy, Narr, Tübingen, 1993, pp. 9-17. Mario Santoro 1967, Fortuna, ragione e prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento, Liguori, Napoli. Eduard Sapir 1935, Encyclopoedia of the Social Sciences, Collier-Macmillan, vol.VI, pp. 139-144 (tr.it. “Che cos’è la moda”, in G.Ragone (a cura di), Sociologia dei fenomeni di moda, Angeli, Milano, 1976, pp. 47-57). Fiedrich Wilhelm Schelling 1859, Philosophie der Kunst, ed. Darmstadt 1980. Friedrich Schlegel 1799, Lucinde, tr.it. Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1985 1846, Philosophische Vorlesungen aus den Jahren 1804-1806, hrsg. von C.J.H. Windischmann, Weber, Bonn. Gerhard Schneider 1970, Der Libertin. Zur Geistes und Sozialgeschichte des Bürgertums im 16. Und 17. Jahrhundert, Metzler, Stuttgart. Thomas Schnierer 1995, “Die (Ir-)Rationalität der Mode und ihre theoretische Bewältigung”, Soziale Welt, 46, 2, pp. 223-239. 173


ELENA ESPOSITO

F. Schümmer e K. Stierle 1984, voce “Geschmack” in J.Ritter/K.Gründer, 1984, Bd. 3, pp. 444-456. Ulrich Schulz-Buschhaus 1985, “Gattungsmischung-Gattungskombination-Gattungsnivellierung. Überlegungen zum Gebrauch des literarischen Epochenbegriff ‘Barock’”, in H.U.Gumbrecht-U.LinkHeer (Hrsg.), Epochenschwelle und Epochenstruktur im Diskurs der Literatur- und Sprachtheorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1985, pp. 213-233. 1989, “La Bruyère und die Historizität der Moral – Bemerkungen zu De la Mode 16”, Romanistische Zeitschrift für Literaturgeschichte, 1/2, 13, 1989, pp. 179-191. Udo H.A. Schwarz 1982, Das Modische. Zur Struktur sozialen Wandels der Moderne, Duncker & Humbolt, Berlin. Jean-Paul Sermain 1999, “Le code du bon gôut (1725-1750) ”, in M.Fumaroli (a cura di), Historie de la rhétorique dans l’Europe moderne (14501950), P.U.F., Paris, pp. 879-943. Madame de Sévigné 1626-1696, Lettres, ed. Geráld-Gailly, Gallimard, Paris, 19551957. Sir Philip Sidney 1595, The Defence of Poesie, Ponsonby, London. Georg Simmel 1905, Die Mode, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Klinkhardt, Leipzig, 1911 (tr.it. La moda e altri saggi di cultura filosofica, Longanesi, Milano, 1985). Werner Sombart, 1902, Wirtschaft und Mode. Ein Beitrag zur Theorie der modernen Bedarfsgestaltung, Bergmann, Wiesbaden, pp. 1-23 ora in S. Bovenschen (Hrsg.), Die Listen der Mode, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986, pp. 80-105. Herbert Spencer 1967, Principii di sociologia, Utet, Torino. 174


LA TEORIA DELLA MODA

George Spencer Brown 1972, Laws of Form, Julian Press, New York (1969, Allen & Unwin, London). Johannes Spörl 1930, “Das Alte und das Neue im Mittelalter. Studien zum Problem des mittelalterlichen Fortschrittsbewußtseins”, Historisches Jahrbuch, 50, 1930, pp. 297-341 e 498-524. Sebald Rudolf Steinmetz 1935, “Die Mode”, in Gesammelte kleinere Schriften zur Ethnologie und Soziologie, 3, Noordhoff, Gröningen, pp. 146-237. Madame de Staël 1967, De l’Allemagne, Garnier-Flammarion, Paris. Stendhal 1822, De l’amour (tr.it. L’amore, Mondadori, Milano, 1990) 1827, Armance, tr.it. in Romanzi e racconti, vol.I, I Meridiani, Mondadori, 1996. Hippolyte Taine 1876, Les Origines de la France contemporaine. L’Ancien régime (tr.it. Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, Adelphi, Milano, 1986). Gabriel Tarde 1921, Les Lois de l’Imitation. Étude sociologique, Alcan, Paris. Emanuele Tesauro 1670, Il cannocchiale aristotelico, Zavatta, Torino (Hrsg. von August Buck, Gehlen, Bad Homburg-Berlin-Zürich, 1968). Monique Trédé 1992, KAIROS. L’a-propos et l’occasion. Le mot e la notion d’Homère à la fin du IVe siècle avant J.-C., Klincksieck, s.l. Lionel Trilling 1974, Sincerity and Autenticity, Oxford University Press, London. Paul Valery 1960, “Choses tues”, in Tel quel, vol.1, nrf. Giorgio Vasari 1550, ed. ampliata 1568, Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori, Giunti, Firenze. 175


ELENA ESPOSITO

Thorstein Veblen, 1899, The Theory of the Leisure Class, ed. Kelley, New York 1965, tr.ted. capp. 6 e 7 in S. Bovenschen (Hrsg.), Die Listen der Mode, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986, pp. 106-155. Barbara Vinken 1994, “Dekonstruktive Mode”, Frauen Kunst Wissenschaft, 17, 1994, pp. 10-13. Friedrich Theodor Vischer 1879, Mode und Zynismus. Beiträge zur Kenntnis unserer Kulturformen und Sittenbegriffe, Wittwer, Stuttgart, pp. 3-46 ora in S. Bovenschen (Hrsg.), Die Listen der Mode, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986, pp. 33-79. Florence Vuilleumier 1999, “Les conceptismes”, in M.Fumaroli (a cura di), Historie de la rhétorique dans l’Europe moderne (1450-1950), P.U.F., Paris, pp. 517-538. Frank J. Warnke 1972, Versions of Baroque. European Literature in the Seventeenth Century, Yale U.P., New Haven-London. Siegfried Wiedenhofer 1991, “Erinnerte Tradition und tradierte Erinnerung im Humanismus und Reformation”, in A.Assmann/D.Harth (Hrsg.), Mnemosyne. Formen und Funktionen der kulturellen Erinnerung, Frankfurt a.M, 1991, pp. 305-318. Donald T. Wilcox 1987, The Measure of Times past. Pre-newtonian Chronologies and The Rhetoric of Relative Time, The University of Chicago Press, Chicago and London. Edward Young 1759, Conjectures on Original Composition. In a Letter to the Author of Sir Charles Grandison, citato da, The Complete Works. Poetry and Prose, London, 1854, ristampa Olms, Hildesheim, 1968, Bd.2, pp. 547-586.

176



Baskerville è un centro studi e una casa editrice. Maggiori informazioni sulle attività del centro e sui volumi pubblicati, compresa la possibilità di ordinarli direttamente via internet, possono essere ottenute all’indirizzo www.baskerville.it, oppure inviando un messaggio di posta elettronica a info@baskerville.it. Baskerville Via S. Stefano 10 - CP 113 Bologna 40125 (Italia). Tel. e fax: (+39) 051 232323.


Biblioteca di Scienze della Comunicazione Baskerville Strumenti 1.

Stewart Brand MEDIA LAB IL FUTURO DELLA COMUNICAZIONE

Viaggio nei segreti del famoso laboratorio del M.I.T. di Boston in cui si inventano i nuovi media. La realtà virtuale, il giornale personalizzato, l'ipertesto, la televisione intelligente, il cinema tridimensionale, il computer parlante sono tutti progetti ed esperimenti ai quali lavora il laboratorio del M.I.T. di Boston. Stewart Brand offre uno sguardo sul futuro della comunicazione e dei media.

ISBN 88-8000-000-4

2.

Derrick de Kerckhove BRAINFRAMES - MENTE,TECNOLOGIA, MERCATO Come le tecnologie della comunicazione trasformano la mente umana. La televisione, il computer e le banche dati sono per noi realtà quotidiane perfettamente naturali. Tuttavia l'utilizzo delle tecnologie della comunicazione implica inscindibili risvolti psicologici e psichici sull'uomo. Il libro descrive quanto sia importante avere coscienza della connessione fra tecnologia e psicologia. ISBN 88-8000-001-2

3.

Bruce Cumings GUERRA E TELEVISIONE Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra. L'autore analizza il ruolo decisivo e il grande potere che la televisione ha nella progettazione, nella pianifi- cazione e nella presentazione delle guerre. I molteplici aspetti dei conflitti vengono filtrati, adattati e poi venduti al pubblico televisivo mondiale con precisi obiettivi strategico-militari. ISBN 88-8000-002-0

4.

Howard Rheingold LA REALTÀ VIRTUALE I mondi artificiali generati dal computer e il loro potere di trasformare la società. L'autore descrive la nuova rivoluzionaria tecnologia che crea mondi generati dal computer completi di sensazioni tattili e motorie e indaga sull'impatto che essa ha su tutto ciò che ci circonda. E' un'analisi accurata di una tecnologia agli inizi del suo sviluppo, ma con grandi potenzialità applicative.. ISBN 88-8000-003-9

5.

I. Miles, H. Rush. K. Turner, J. Bessant IT - INFORMATION TECHNOLOGY Orizzonti ed implicazioni sociali delle nuove tecnologie dell’informazione. Come si stanno evolvendo l'industria informatica, le telecomunicazioni, i sistemi di automazione della produzione, i servizi pubblici, la comunicazione personale, gli elettrodomestici? Il libro traccia le linee di questa evoluzione e ne sottolinea l'influenza sul nostro stile di vita individuale, familiare e sociale. ISBN 88-8000-004-7

6.

Marco Guidi LA SCONFITTA DEI MEDIA Ruolo, responsabilità ed effetti dei media nella guerra della ex-Jugoslavia. In che modo televisioni e giornali italiani ci stanno raccontando la guerra nella ex-Jugoslavia? Perché, dopo il Golfo, questa guerra pare fatta apposta per vincere le frustrazioni della stampa? L'autore, inviato di guerra del "Messaggero" e storico di formazione, affronta tali temi con l'occhio critico del giornalista e con la capacità di analisi e di approfondimento propria dello studioso. ISBN 88-8000-005-5


7.

Fred Davis MODA, CULTURA, IDENTITÀ La moda è un sistema complesso di simboli, come un linguaggio, che parla di noi e della nostra identità. Cosa dicono i nostri abiti su chi siamo o su chi pensiamo di essere? Come comunichiamo messaggi sulla nostra identità? Il desiderio di essere alla moda è universale o è tipico della nostra cultura occidentale? Queste sono alcune delle domande alle quali Fred Davis risponde analizzando ciò che noi facciamo attraverso i nostri abiti e ciò che essi possono fare di noi. ISBN 88-8000-006-3

8.

George Landow IPERTESTO IL FUTURO DELLA SCRITTURA La convergenza tra teoria letteraria e tecnologia informatica. Il processo di elaborazione elettronica del testo costituisce un'innovazione tecnologica talmente importante che ci costringerà a riformulare i nostri concetti di lettura e di scrittura, stravolgerà il ruolo dell'autore e lo schema lineare della pagina a stampa: il lettore potrà scegliere gli itinerari su cui operare e pensare o leggere in modo non sequenziale. ISBN 88-8000-007-1

9.

Pier Luigi Capucci (a cura di) IL CORPO TECNOLOGICO L’influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà. Oggi gli strumenti tecnologici coinvolgono tutti i settori della nostra esistenza e il corpo nella sua totalità è investito direttamente da questo processo. Quali sono i suoi cambiamenti? Quale lettura dare del rapporto fra corpo e tecnologia? Il libro contiene interventi di Antinucci, De Kerckhove, Capucci, Maldonado, Moravec, Parisi, Pryor, Stelarc, Varela, Virilio. ISBN 88-8000-008-X

10.

Gianluca Nicoletti ECTOPLASMI Tipi umani nell’universo TV. Partendo dall'analisi dei "luoghi" dell'attuale TV vengono esaminate le categorie di personaggi che la popolano: coloro che hanno avuto il privilegio dell'iniziazione televisiva, gli sfiorati, i lambiti, poi i maestri illustri e alcuni imperituri presi in esame non come identità, ma come archetipi (Sgarbi, Funari, Costanzo). ISBN 88-8000-009-8

11.

Lucio Picci LA SFERA TELEMATICA Come le reti trasformano la società La diffusione delle nuove tecnologie dell'informazione sta rivoluzionando la nostra vita e le organizzazioni che, sempre più, diventano delocalizzate e virtuali. Cambia l'ambiente in cui viviamo e con esso le persone, confrontate da un nuovo insieme di aspettative e di opportunità. ISBN 88-8000-010-1

12.

Leonardo Benvenuti MALATTIE MEDIALI Elementi di socioterapia L’ipotesi della socioterapia è che non vi sia un concetto astratto di disagio ma che si debba fare riferimento ad una serie di ambiti, alcuni dei quali sono intimamente legati a quella che l’autore ha definito la deriva storica dei media: il succedersi di media via via dominanti che crea periodi iniziali di disagio in relazione dell’obsolescenza di quello precedente e nella fase di consolidamento di quello successivo. Così è stato, nel passaggio dalla cultura orale a quella tipografica, per il vagabondaggio, il brigantaggio e l’alcolismo. ISBN 88-8000-011-X


13.

Enrico Menduni (a cura di) LA RADIO Percorsi e territori di un medium mobile e interattivo La radio vive una terza e fortunata giovinezza della sua lunga vita. È stato il primo mass medium personale e mobile, ha lasciato i salotti delle case (in cui ha lasciato ben piazzata la più giovane sorella televisiva) per andare per le vie del mondo sotto forma di transistor, di autoradio, di walkman; si è miniaturizzata come apparato mentre cresceva a dismisura la sua funzione di medium delle identità e della connessione, di strumento di informazione in tempo reale e di contenitore soffice dell’oralità e dell’intimità. ISBN 88-8000-012-8


Biblioteca di Scienze della Comunicazione Baskerville Saggi Collana fondata da Mauro Wolf 1.

Daniel Dayan, Elihu Katz LE GRANDI CERIMONIE DEI MEDIA La Storia in diretta. La trasmissione in diretta di eventi "storici" costituisce un nuovo genere televisivo e al tempo stesso rappresenta il momento di massima celebrazione della comunicazione di massa. Le grandi cerimonie dei media creano immagini televisive dotate di potere reale, capaci di agire sul comportamento sociale. ISBN 88-8000-300-3

2.

Giuseppe Richeri LA TV CHE CONTA Televisione come impresa. Le imprese televisive sono oggi ad un punto di svolta. Come reagisce l'impresa televisiva privata e pubblica di fronte ai primi segni di crisi delle fonti economiche tradizionali quali la pubblicità e il canone? A questa e ad altre domande risponde Giuseppe Richeri, studioso internazionale di economia dei media. ISBN 88-8000-301-1

3.

Kevin Robbins e Antonia Torchi (a cura di) GEOGRAFIE DEI MEDIA Globalismo, localizzazione e identità culturale. Il volume è un'analisi della natura degli spazi audiovisivi e del rapporto fra televisione e territorio. La geografia è intesa come prospettiva teorica per riflettere sulle trasformazioni contemporanee nell'industria e nella cultura dei media. ISBN 88-8000-302-X

4.

Joshua Meyrowitz OLTRE IL SENSO DEL LUOGO L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale. La radio, il telefono, la televisione, il fax hanno cancellato le distanze annullando lo spazio fisico e allo stesso modo anche la nostra mappa delle relazioni spaziali si è modificata in seguito all'avvento delle nuove tecnologie. Oggetto dell'analisi di Meyrowitz è il modo in cui questi cambiamenti modificano la società. Nel 1986 quest'opera ha vinto il premio della Broadcast Education Association come miglior testo sulla comunicazione e la stampa internazionale ha paragonato l'importanza del lavoro di Meyrowitz alle ricerche di Marshall McLuhan. ISBN 88-8000-306-2

5.

Patrice Flichy STORIA DELLA COMUNICAZIONE MODERNA Sfera pubblica e dimensione privata. Quest'opera è un'attenta ed esauriente storia della comunicazione. Dal telegrafo fino al telefono portatile come si è formata la nostra società di comunicazione? L'autore ne traccia un'analisi che integra elementi di storia sociale e tecnologica per presentare la genesi dei grandi sistemi di comunicazione. ISBN 88-8000-304-6

6.

Carlo Sorrentino I PERCORSI DELLA NOTIZIA La stampa quotidiana in Italia tra politica e mercato. Sorrentino traccia una dettagliata storia sociale della stampa quotidiana italiana per trovare le ragioni delle principali peculiarità: dalla forte politicizzazione alla diffusione a carattere regionale, all'elitismo. L'autore analizza le trasformazioni degli ultimi vent'anni, quando per la prima volta in Italia nasce un mercato dell'informazione e si modificano le dorme della concorrenza tra i quotidiani e fra questi e i nuovi media, in particolare la televisione. ISBN 88-8000-305-4


7.

Antonio Pilati e Giuseppe Richeri LA FABBRICA DELLE IDEE Economia dei media in Italia Il libro delinea le articolazioni dell’economia della conoscenza e situa al suo interno l’industria della comunicazione, analizza il sistema dei media rivolti al largo pubblico, determina le dimensioni economiche della comunicazione e descrive il ruolo della comunicazione di marketing. Nella seconda parte analizza i vari segmenti che compongono l’industria dell’audiovisivo: televisione, cinema, musica, audiovisivi d’uso familiare. Nella terza parte affronta lo studio dell’industria editoriale; quotidiani, libri, editoria elettronica, le prospettive di sviluppo che assumono i consumi e gli introiti dei media dell’indistria della comunicazione nell’epoca della convegenza tra i media. Il volume presenta inoltre, per la prima volta raccolti in modo sistematico e dettagliato, i dati principali sull’industria italiana della comunicazione dall’86 ad oggi. ISBN 88-8000-307-0

8.

Paola Bonora (a cura di) COMCITIES Geografie della comunicazione La comunicazione intesse la trama connettiva delle nuove relazioni, crea nuovi significati e immagini, nuovi spazi, un nuovo modello di società che si identifica nella marea multimediale incarnata da internet, agorà e mercato, paese delle meraviglie e dello sperdimento, iper-reale, u-topico, a-sensoriale, privo di confini, etici, logici, emozionali. Una rappresentazione del mondo mutevolissima, che toglie senso al mondo precedente senza dargliene uno nuovo se non una sfuggente complessità. Un pianeta sempre più piccolo, ma sempre più diseguale. ISBN 88-8000-308-9

9.

Stephen Graham e Simon Marvin CITTÀ E COMUNICAZIONE Spazi elettronici e nodi urbani Per un po’ di anni ci siamo illusi che lo sviluppo della comunicazione annullasse la distanza e rendesse quindi indifferente la localizzazione. Una speranza che si è subito smorzata di fronte al dilatarsi degli agglomerati e al diffondersi degli effetti perversi della metropolizzazione. Il libro raccoglie e confronta tutta la letteratura internazionale prodotta nell’ambito delle scienze del territorio sulla correlazione tra fenomeno urbano e cambiamento comunicazionale. La gamma di questioni affrontate è ampia e corposa e nulla o quasi nulla viene trascurato, sia sul versante delle opportunità che su quello dei rischi. Un modo scientifico per smontare i miti che hanno accompagnato l’esplosione delle comunicazioni a lunga distanza e proporre la ridefinizione dei paradigmi geografici e urbanistici attraverso cui analizzare e progettare la città. ISBN 88-8000-309-7


Baskerville UniPress 1.

Paola Bonora (a cura di) SLoT - quaderno 1 Appunti, discussioni, bibliografie del gruppo di ricerca SLoT (Sistemi Territoriali Locali) sul ruolo dei sistemi locali nei processi di sviluppo territoriale. Contributi di: Giuseppe Dematteis, Francesca Governa, Egidio Dansero, Carlo Salone, Vincenzo Guarrasi, Paola Bonora, Unità locale dell’Università di Firenze, Lida Viganoni e Rosario Sommella, Sergio Ventriglia, Ugo Rossi. ISBN 88-8000-500-6

2.

Giuliana Gemelli e Flaminio Squazzoni (a cura di) NEHS / Nessi Istituzioni, mappe cognitive e culture del progetto tra ingegneria e scienze umane. Contributi di: Marisa Bertoldini, Giuliana Gemelli, Kenneth Keniston, Giovan Francesco Lanzara, Enrico Lorenzini, Vittorio Marchis, Guido Nardi, Girolamo Ramunni, Flaminio Squazzoni, Pasquale Ventrice, Alessandra Zanelli. ISBN 88-8000-501-4

3.

Cristiana Rossignolo e Caterina Simonetta Imarisio (a cura di) SLoT - quaderno 3 Una geografia dei luoghi per lo sviluppo locale Approcci metodologici e studi di caso. Contributi di: Marco Bagliani, Angelo Besana, Federica Corrado, Egidio Dansero, Giuseppe Dematteis, Raffaella Dispenza, Fiorenzo Ferlaino, Francesco Gastaldi, Cristiano Giorda, Oscar Maroni, Carmela Ricciardi, Cristina Rossignolo, Carlo Salone, Marco Santangelo, Caterina Simonetta Imarisio. ISBN 88-8000-502-2

4.

Paola Bonora e Angela Giardini SLoT - quaderno 4 Orfana e claudicante L’Emilia “post-comunista” e l’eclissi del modello territoriale. ISBN 88-8000-503-0


Baskerville Collana Blu 1.

Pier Vittorio Tondelli BIGLIETTI AGLI AMICI Questo di Tondelli è un viaggio lirico verso mete talvolta quotidiane, quasi sempre irraggiungibili. Un errare che percorre il desiderio di scoprire se stessi, identificandosi negli altri o leggendo il paesaggio, che attraversa carezzevoli filosofie orientali e non disdegna di soffermarvisi, attratto e confortato dalle dolci parole di un poeta-cantante. ISBN 88-8000-900-1

2.

Gianni Celati LA FARSA DEI TRE CLANDESTINI E' lecito sognare? o meglio: chi di noi non ha mai desiderato, e non solo da bambino, di far rivivere un'avventura a qualche grande eroe dello schermo? Bene, Gianni Celati ha catturato questa opportunità e ce la offre sotto forma di una tanto deliziosa, quanto purtroppo irrealizzabile sceneggiatura per un film dei fratelli Marx. ISBN 88-8000-901-X

3.

Fernando Pessoa NOVE POESIE DI ÀLVARO DE CAMPOS E SETTE POESIE ORTONIME A cura di Antonio Tabucchi Alto, elegante, con monocolo, capelli neri con riga da una parte, l'anglofilo ingegnere Alvaro de Campos, laureatosi a Glasgow e dandy ozioso a Lisbona, è, fra i personaggi fittizi di Pessoa, colui che più ebbe una vita reale. (Dall'introduzione di Antonio Tabucchi) ISBN 88-8000-902-8

4.

Georges Perec TENTATIVO DI ESAURIRE UN LUOGO PARIGINO La vita, intesa come irripetibile avventura, è per Perec un gioco. Un gioco al quale partecipa, però, con la stessa creatività ed impegno dei bambini. Il suo catalogare non è né critico, né lezioso, è al di sopra delle parti: si diverte ad osservare, ad annotare, ma con distacco, senza farsi condizionare dall'essenza delle cose. ISBN 88-8000-903-6

5.

Orson Welles LA GUERRA DEI MONDI Prefazione di Fernanda Pivano e una nota di Mauro Wolf Quando la trasmissione andò in onda, diventando uno dei momenti più famosi della produzione di Welles, si verificò un fenomeno straordinario di schizofrenia collettiva. Un annunciatore anonimo interruppe la trasmissione con la notizia che i marziani erano sbarcati nel New Jersey; milioni di ascoltatori credettero che fosse giunta la fine del mondo ... ISBN 88-8000-904-4

6.

Eiryo Waga (eteronimo di Raul Ruiz) TUTTE LE NUVOLE SONO OROLOGI Che uno scrittore giapponese si interessi ad un tema essenziale dell'epistemologia contemporanea (il saggio Delle nuvole e degli orologi di K. Popper) ha già dello stupefacente; ma che poi si diverta a giocare con i concetti trasfigurandoli in una fantasia onirica, (...) mi ha semplicemente incantato. (Dalla presentazione di Raul Ruiz) ISBN 88-8000-905-2

7.

Astro Teller EXEGESIS Edgar è un agente intelligente: un software per cercare e raccogliere informazioni in internet. Un giorno Edgar, inspiegabilmente, supera la soglia tra la creazione tecnologica e l'esistenza autonoma ed inizia la sua navigazione indipendente alla ricerca della conoscenza e della libertà. Exegesis è in parte un tecno-triller e in parte una storia d'amore: l'intrigante percorso di una intelligenza artificiale che gradualmente scopre poteri e limiti di una natura cosciente ma non umana. ISBN 88-8000-906-0





FINITO DI STAMPARE 2004

NEL MESE DI MAGGIO

PER CONTO DELLA CASA EDITRICE

BASKERVILLE CS WWW.BASKERVILLE.IT

(VIA S. STEFANO 10 - CP 113, 40125 BOLOGNA, ITALIA) PRESSO LE OFFICINE GRAFICHE

LITOSEI SRL (RASTIGNANO, BOLOGNA, ITALIA)

FOTOCOMPOSIZIONE ASLAY SRL (RASTIGNANO, BOLOGNA, ITALIA)

Stampato in Italia





Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.