Introduzione Il terremoto
Le onde sismiche si stanno diffondendo. Faglie improvvise di corruzione si aprono ogni giorno in tutta Italia. È un movimento tellurico che non risparmia nessuno. I quotidiani, loro malgrado, sono diventati un bollettino giudiziario. La polvere sotto il tappeto è diventata una montagna che non si può più nascondere. C’è solo l’imbarazzo della scelta: Lega, Pdl, Pdmenoelle. L’intero arco costituzionale è votato al malaffare e le crepe nel sistema si uniscono. Si prepara un’esplosione. Ormai Craxi non è che un pallido ricordo. Sembra un’eresia, ma se continua così finiremo con il rimpiangerlo: lui intascava caramelle di nascosto, mentre i suoi eredi si approvvigionano direttamente alle casse dello Stato, come fossero slot machine. C’è un deficit di democrazia e un surplus di mazzette. La corruzione è su scala nazionale, una metastasi in cui tutti collaborano al peggio e i più onesti si limitano a fare il palo. Perché il terremoto avviene solo ora, dopo decenni di furto sistematico ai danni dello Stato? La spiegazione è semplice: la corruzione raggiunge i 120 miliardi di euro all’anno e quindi il fiume di denaro a cui attingono i partiti e le lobby si sta prosciugando. E come reagisce l’organismo 7
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malato della partitocrazia alla fine dei soldi? Ovvio, svende il territorio e i nostri diritti di cittadini, travolgendo il Paese con inutili grandi opere. È l’unico modo per rimettere in circolo altro denaro pubblico, l’ultima possibilità per un altro sanguinoso giro di giostra alle spalle dei contribuenti. Ecco perché ogni giorno i quotidiani e i tg sostengono contro ogni logica economica la necessità di nuove autostrade, di nuove gallerie ferroviarie, di nuovi inceneritori. Le grandi opere sono un triangolo. Il primo vertice, il più evidente, è rappresentato dai partiti che le usano a fini di potere, per inserire i loro uomini ai posti di comando. Il secondo è la criminalità organizzata, in particolare la ’ndrangheta che ha il monopolio del movimento terra. Al terzo vertice vi sono le cooperative rosse e bianche, i concessionari che gestiscono ferrovie e autostrade e – più in generale – le imprese di costruzioni che sostengono l’indiscriminata apertura di cantieri perché hanno fame di commissioni pubbliche. Non stupisce che ricoprano di donazioni i partiti, quelli al governo come quelli all’opposizione: una grande opera richiede un grande cantiere, un grande cantiere vuol dire anche vent’anni di lavoro, e nel giro di due decenni gli assetti parlamentari possono cambiare. Ecco perché si deve ungere a destra e a sinistra: se un domani ci si ritrova con un governo di colore opposto a quello che ha visto posare la prima pietra di un grande progetto, non si può rischiare che il flusso di denaro pubblico si arresti all’improvviso. È nel nome di questa santa trinità (politica, impresa e malavita) che l’Italia continua a dirottare risorse vitali in progetti folli, inutili e dispendiosi. Detta così sembra una barzelletta, uno scenario del tutto improbabile. Come è possibile che un intreccio di interessi così palesemente malato, più volte smascherato, non solo non venga combattuto senza tregua ma anzi tenga sotto scacco il nostro futuro? 8
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Credete davvero che non sia possibile? Chiedetelo ai cittadini della Val di Susa, che vengono trattati alla stregua di terroristi per il semplice fatto che vogliono difendere il loro territorio da un insensato progetto di linea ferroviaria a cui hanno sempre detto «No!». Chiedetelo ai milanesi che, come se non bastasse vivere in una delle città più inquinate e cementificate d’Italia, si ritroveranno fra pochi anni schiacciati dall’eredità dell’Expo 2015. Una mattina si sveglieranno circondati da una valanga di palazzoni inservibili, gusci vuoti che saranno serviti solo a riempire le tasche di palazzinari e mafiosi. Chiedetelo ai cittadini di quella fetta di Liguria minacciata dalla Gronda autostradale di Ponente: un progetto che da oltre vent’anni minaccia di inondare d’asfalto l’area del Genovese. E, in generale, chiedetelo alle vostre tasche, dalle quali si ruba per finanziare di tutto: da ridicole missioni di parlamentari all’estero per promuovere il consumo di mozzarella nel mondo a improbabili piattaforme web come Italia.it, il patetico nonché defunto portale del turismo nostrano. La classe politica ci chiede sacrifici, eppure è sempre pronta a dilapidare ricchezze immani per progetti che non hanno nessuna utilità per il cittadino. Diciotto miliardi per acquistare centotrentuno cacciabombardieri. Tredici miliardi sprecati ogni anno dalle strutture sanitarie. Quattro miliardi di euro all’anno per tenere in piedi il sistema delle auto blu. Tre miliardi buttati dai comuni per inutili consulenze esterne. Oltre due miliardi risucchiati a ogni tornata elettorale dai partiti attraverso il sistema del finanziamento pubblico. Quasi 300 milioni all’anno per pagare i dipendenti di Montecitorio, un esercito di 1620 lavoratori (falegnami, barbieri, telefonisti...) che naturalmente non comprende i parlamentari: per loro il piatto è assai più ricco. «A ogni 9
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cittadino italiano, il Parlamento (27,15 euro) costa tre volte di più che in Francia (8,11), quasi sette volte più che in Inghilterra (4,18) e dieci volte più che in Spagna (2,14 pro capite)» ha scritto Carlo Bertini sulla «Stampa». E non fatevi ingannare dalle apparenze, non cascate anche voi nella trappola del cosiddetto «governo tecnico». Il rinnovamento della classe politica è ancora un sogno proibito. I nostri cari vecchi scaldapoltrone di partito sono sempre al loro posto, anche se ultimamente preferiscono star nascosti dietro i tecnici. E non fatevi gabbare dai giornali che ogni giorno cantano al miracolo: questo governo di professoroni e professorini, stando a quel che dice una stampa a dir poco compiacente, sembra stia facendo tutto quello che per anni non è stato fatto, trasformandoci in un Paese moderno a colpi di bacchetta magica, come le tre fate della Bella Addormentata. Invece non stanno facendo altro che tener caldo il posto a quella cricca di ladri e incapaci che per ora preferisce restare in ombra, ma che è già pronta a ripresentarsi alle politiche del 2013, magari approfittando del fatto che ci siamo distratti per un po’. Questi spendaccioni compulsivi sono gli stessi che da decenni ci chiedono di stringere la cinghia, di prepararci al peggio, mentre continuano a prosciugare le casse dello Stato attraverso la progettazione di opere pubbliche insulse, in cui il rapporto fra costi e benefici è imbarazzante. Opere deliranti come il ponte sullo Stretto: un incubo che probabilmente sta svanendo all’orizzonte, ma che ci ha terrorizzato (e impoverito) per decenni. O eterne incompiute come la Salerno-Reggio Calabria: più che una strada, una barzelletta da spiaggia che si ripresenta a ogni estate, un tormentone talmente polveroso che al confronto la Macarena è roba fresca. Oppure veri e propri miraggi come l’alta velocità: 10
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una promessa non mantenuta che finora ha accelerato solo il rincaro dei biglietti ferroviari. Noi italiani viviamo nel rischio perenne di precipitare in uno qualunque di un’infinita costellazione di cantieri aperti: le basi americane che, da Vicenza alla Sardegna, si espandono senza permessi, mentre se vogliamo rifare il bagno ci tocca chiamare l’avvocato; i massicci interventi sul trasporto pubblico in città delicatissime come Roma, Firenze e Venezia; i litorali di zone protette strappati alla comunità e svenduti ai privati per cifre irrisorie (mentre al largo si trivella in cerca di un petrolio che non c’è); i rigassificatori e gli inceneritori di Parma, Porto Tolle, Piacenza, Siracusa eccetera. E purtroppo l’elenco non finirebbe qui. Infatti una lista completa toccherebbe qualsiasi piccolo e grande centro del Paese. Ecco perché è ormai ridicolo pensare che quando si affrontano questi temi si stia parlando di «questioni locali». La voracità con cui la classe dirigente divora sistematicamente risorse fa parte di un disegno nazionale, che riguarda tutti noi, e a raccontarne le imprese si disegna una vera e propria storia del malaffare italiano che è alla base dei problemi più gravi della nostra economia. Un lavoro di gruppo che vede la collaborazione di Stato, mafie e capitalismo d’assalto, uniti in un’inarrestabile avanzata che, euro dopo euro, ci ha portati alla bancarotta e che, metro quadro dopo metro quadro, sta inghiottendo il nostro territorio. È la stessa abbuffata suicida che ha trasformato le mani pulite in mani impastate, la certificazione del territorio nella cementificazione del territorio, la mobilità urbana nell’immobilità urbana, l’alta velocità nell’alta voracità. È un festino che va avanti ormai da più di mezzo secolo e che prosciuga risorse con la promessa mai mantenuta di crearne altre, che ha reso la classe politica una congregazione che si 11
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autoalimenta, che ci spinge a venerare il totem delle opere pubbliche, le più grandi e le più inutili che si riescano a immaginare, invece di invitarci a immaginare per il nostro Paese una via diversa allo sviluppo. Come ha spiegato Simone Perotti, scrittore e vero seguace della decrescita, lo sviluppo reale dovrebbe partire innanzitutto dalla salvaguardia del nostro paesaggio, dai borghi abbandonati che vanno recuperati, perché l’edilizia nuova non è possibile, non abbiamo più spazio per (né bisogno di) nuovo cemento. Occorre recuperare l’edilizia vecchia e antica che non chiede altro se non di essere recuperata, cosa che tra parentesi ci permetterebbe di scongiurare le frane e i collassi a cui siamo ormai abituati. Scrive Perotti: «Occorre ripulire questo Paese per renderlo un giardino, ripulire i mari. Solo pulire tutte le coste, tutto il mare, serve a occupare decine di migliaia di persone per tanto tempo, rendendo questo Paese il migliore dove fare turismo, dove fare accoglienza. Serve produrre energia elettrica in maniera diversa, perché le case devono essere alimentate in maniera diversa dall’energia che deriva dalla combustione di idrocarburi, le cose da fare sono tantissime e la cosa grave è che nessuno sta pensando a un programma senza tanti voli filosofici». Ogni giorno sentiamo parlare del debito pubblico, del suo peso enorme sul sistema italiano. Una valanga che rotola a valle e travolge pensioni, diritti acquisiti, posti di lavoro e sta cancellando il futuro di un paio di generazioni. Però non si dice mai apertamente come questo debito sia stato generato e a cosa siano stati destinati i 1900 miliardi accumulati dai vari governi, da Craxi a Berlusconi. E soprattutto chi ha preso questi soldi. La responsabilità del debito viene attribuita alle pensioni, ai dipendenti pubblici, allo Stato sociale: sono sempre loro 12
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gli unici colpevoli e quindi spetta a loro pagare il conto. Il pensionamento posticipato all’infinito e il licenziamento libero, i tagli alla scuola e alla sanità sono il conto che il sistema ci presenta per aver vissuto sopra le nostre possibilità. Intanto, i partiti continuano a indebitarci con investimenti inutili. La presunta modernità del cemento e l’intoccabilità di chi ci governa sono le cause dell’indebitamento italiano. Quanto debito pubblico è dovuto alle cosiddette infrastrutture necessarie per lo sviluppo del Paese? Quanto pesano sulla bilancia i privilegi della classe politica? Quanto ci hanno indebitato le grandi opere pubbliche? Forse la metà. È probabile che senza questi sperperi il nostro debito sarebbe più che gestibile. La corruzione genera il debito pubblico, non è una novità, ma perché devono pagare solo i fessi? La Ue e la Bce ci chiedono riforme che in sostanza sono solo tagli allo Stato sociale, ma nessuno ha mai sentito Trichet o Barroso chiedere il blocco della Tav o di rimandare al mittente quegli inutili cacciabombardieri. Strano... Una storia puntuale di chi ha dilapidato il patrimonio di una nazione è necessaria, indispensabile. Prima di pagare il conto dobbiamo sapere chi ha mangiato a nostre spese e, se possibile, chiedergli indietro i (nostri) soldi, o almeno quelli che sono rimasti. Prima che (oltre ai soldi) finiscano di mangiarsi anche la terra su cui camminiamo. Sì, perché l’Italia è come l’Amazzonia: sta scomparendo. Ogni settimana ettari di verde si trasformano in ettari di cemento. Un prato non è più un prato, ma un business. Ogni giorno appaiono gru, seconde e terze case, immobili mai abitati. Interi quartieri edificati senza necessità, senza inquilini. Il cemento uccide il turismo, toglie posti di lavoro, non li crea. Il cemento è riciclaggio di denaro sporco delle mafie nazionali che investono nel mattone. 13
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Ogni anno cancelliamo 500 chilometri quadrati di suolo.1 Una velocità spaventosa. La Lombardia detiene il record nazionale con 116.000 metri quadrati al giorno, 4800 all’ora, 80 al minuto. Un’accelerazione che non conosce limiti in attesa della devastazione dell’Expo 2015, ironicamente dedicato al tema «Nutrire il pianeta». Dal 1995 al 2009 sono state costruite in Italia quattro milioni di nuove abitazioni. In Liguria tre milioni di metri quadri di territorio se ne sono andati per abitazioni residenziali. Chi torna dopo qualche anno in una qualunque località italiana, da Capo Passero al Brennero, non la riconosce più. Paesaggi millenari sono stati stravolti mentre l’agricoltura scompare. Soprattutto in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Lombardia, dove gli spazi agricoli diminuiscono di 9400 ettari all’anno, mentre nei supermercati compriamo pere cilene e pomodori cinesi. Perdiamo due medie aziende agricole al giorno e stiamo azzerando così un settore che esporta ancora 26 miliardi di euro di prodotti all’anno, pari al 13 per cento del Pil. Le case sono costruite senza necessità, finanziate dalle banche, agevolate dai comuni e rimangono vuote. Il cemento a Roma è avanzato del 12 per cento in quindici anni, 4800 ettari sono stati assorbiti dalla speculazione edilizia, eppure è la città con più case e appartamenti sfitti in Italia. Il turismo è diventato un affare per i costruttori. Un caso da record è la provincia di Olbia-Tempio, cementificata al ritmo di 25 metri quadri per abitante all’anno, sei volte quello già catastrofico della Lombardia. La pianura veneta, una volta granaio d’Europa, è ricoperta di cemento per il 1
La rilevazione della distruzione del territorio italiano è riportata nel Rapporto annuale del Centro di Ricerca sui Consumi del Suolo di Inu, Legambiente e del Politecnico di Milano (http://www.consumosuolo. org/Images/Pubblicazioni/abstract_%20Rapporto%202010.pdf ). 14
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22 per cento e il fondovalle del «virtuoso» Alto Adige per il 28 per cento. La provincia più cementificata d’Italia, dove la vista di un prato equivale a una bestemmia, è quella di Monza-Brianza con il 50 per cento di terreno urbanizzato. Il Nulla avanza e si mangia la realtà. Capannoni, supermercati, aree espositive, autosaloni, seconde e terze case, spazi commerciali, strade asfaltate, palazzine fantasma con le finestre chiuse e cartelli «Vendesi». Il territorio è omologato, banalizzato e unificato in un unico incubo di cemento. Gli ultimi indios siamo noi, la foresta amazzonica è l’Italia. Recita un proverbio indiano: «Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, ci accorgeremo che non si potrà mangiare il denaro». La terra è il vero bene rifugio, non il mattone, eppure in qualsiasi città voi viviate, è sufficiente affacciarsi alla finestra per vedere all’orizzonte una delle tristemente famose grandi opere, l’immancabile mostro di cemento (il più delle volte incompleto e abbandonato) che è costato milioni di euro, ha sfregiato il paesaggio, sottratto risorse a progetti realmente utili, arricchito generazioni di politici e notabili locali (e non solo) senza aver migliorato di una virgola la vostra vita di ogni giorno. E se aguzzaste la vista forse notereste anche un aereo all’orizzonte: con ogni probabilità sarà l’ennesimo volo di Stato, diretto alle Canarie per un’imperdibile conferenza sulla diffusione della bottarga nella cucina continentale. Le sedie ballano, i tavoli si muovono e come in ogni terremoto che si rispetti, la gente scenderà in strada. Loro non si arrenderanno mai. Noi neppure.
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