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BILLY
all’interno rassegne in romagna aprile 2010
rubriche John Woo Mira Nair Takashi Miike in sala Fantastic Mr Fox Vengeance Chloe
RIVISTA CINEMATOGRAFICA ROMAGNOLA
attualità Oscar 2010 Ordet Trilogia del dollaro retropolis Yakuza Brother Black Rain Grosso guaio a Chinatown
edizione
oriente e occidente numero 22 aprile 2010
BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
INDICE FILOROSSO
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filorosso
oriente e occidente
Chissà perché, forse per vendere biglietti a due tipi di pubblico invece che uno solo, il cinema sin dai suoi primi passi ha provato a mettere in contatto le culture descrivendole, il più delle volte, attraverso prevedibili stereotipi e facendole scontrare. Poi l’evoluzione della storia del cinema occidentale ha fatto in modo che l’appaludamento delle capacità creative che ha lasciato via libera ai blockbuster sia stato scosso dall’esempio stilistico di registi provenienti da quelle che gli economisti ecologisti un tempo chiamavano Tigri Asiatiche. Per chi non possiede capacità telepatiche cerco di essere meno denso: gli anni ‘70 ci hanno dato Apocalypse Now e Il Padrino; gli anni ‘80, oltre alle Guerre Stellari sono stati un ritorno al passato perché sembrava di essere arrivati alla fine
FILOROSSO oriente e occidente
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Ordet
Il glorioso bastardo Trilogia del dollaro
Vengeance Chloe
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BORSINO
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Borsino
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Brother
Black Rain
Grosso guaio a Chinatown
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horror politics
Ringu
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ciNERDmatografo 12
Il cowboy dagli occhi a mandorla
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CINELetteratura
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Ran
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in costume
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La danzatrice che uccise la tigre
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I soliti ignoti
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in matita
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malese
Mira Nair
garroyo e i suoi fratelli
THE FILMGAMER
La matrice intermediale
M. Butterfly
CINEMA PRIMITIVO
John Woo 10
Ilario Gradassi
Ragione e sentimento
RUBRICHE Cattivi maestri
RETROPOLIS Yakuza
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Aprile 2010
IN SALA Fantastic Mr Fox
Rassegne in Romagna
sorprendere gli occidentali, a offrire modelli per un’arte che si definiva occidentale, ma sembra un’eccezione (come è un’eccezione il forse ancor più influente Mizoguchi), un monstrum in una storia che ha altri protagonisti. Gli anni ‘90 e l’invasione dell’immaginario orientale, l’arrivo dei John Woo e degli Ang Lee, Mulan e Kung Fu Panda, il periodo d’oro sudcoreano, l’iperproduzione hongkongese, il Miyazaki touch, il vorticoso scambio che ha portato gli occidentali in posizione di inferiorità quantomeno stilistica soprattutto in alcuni generi, horror e fantascienza in primis. To che esce in sala in un mese non estivo e il Far East di Udine ci permetteranno di rifare il punto del doppio sguardo.
psicovisioni
VETRINA
Billy attualità Mio zio Oscar
dell’uso del cinema come opera artistica. Invece gli anni ‘90 vedono una rifioritura sull’onda di modelli stilistici dovuti in gran parte a quattro cinematografie: Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong. È inevitabile perciò parlare di confronto tra Oriente e Occidente, tra musi gialli e cani senz’anima. Sfogliando questo numero di BILLY noterete che la figura di Akira Kurosawa riveste un ruolo centrale in questa vicenda, anche se già le trasposizioni del cattivo Fu Manchu nella cinematografia anglosassone degli anni ‘20 o Giglio infranto di Griffith erano la prova che l’orientale poteva solo fare la parte del cattivo. Ma se andate a leggere la storia del primo film italiano con personaggi dell’est potete accorgervi che qualcosa bolle sotto l’acqua. Kurosawa è il primo orientale a
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Violenza, prostituzione e Bud Spencer 30 La Posta del Capp’tano
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mio zio di DARIO STEFANONI
«Una vittoria, quella della Bigelow, che infrange un diktat silenzioso e prima d’ora mai violato, andando a premiare, per la prima volta nella storia dell’Academy, una donna come miglior regista» C’è mancato poco che la notte degli Oscar 2010 assomigliasse a un coacervo di tensioni coniugali più che a un’inamidata cerimonia di premiazione, considerato che le nomination di miglior film e miglior regista per Avatar e The Hurt Locker hanno costretto i rispettivi registi, James Cameron e Kathryn Bigelow, un tempo marito e moglie, a fronteggiarsi per una posta in palio decisamente più ambìta di una causa di divorzio. Se la bilancia delle previsioni dava per favorito il tonitruante kolossal di Cameron, presentato in pompa magna quale evento (iper)mediatico dell’anno (se non del decennio), e al piccolo film della Bigelow, saggio in forma di actionmovie sull’addiction guerrafondaia, parevano spettare solo i (magri) consensi critici – perlopiù europei – lesinati a partire dalla prima veneziana, i risultati, a sorpresa, si sono presto ribaltati nel loro contrario. The Hurt Locker ha finito per ottenere, secondo una logica all or nothing tipica dell’Academy, ben sei Oscar (film, regia, sceneggiatura originale, montaggio, sonoro, montaggio sonoro), Avatar, d’altro canto, si è dovuto accontentare dei soli riconoscimenti tecnici (scenografia, fotografia − dell’italiano Mauro Fiore − ed effetti speciali). Una scelta inconsueta, ma condivisibile, che sgonfia la Wunderkammer cameroniana per dare la precedenza a un film più dimesso e sofferto, non distante a livello tematico (in fondo, trattano entrambi di un’occupazione militare americana), ma con un grado diverso, se non diametralmente
opposto, di classicità narrativa e retorica visiva. Una vittoria, quella della Bigelow, che infrange un diktat silenzioso e prima d’ora mai violato, andando a premiare, per la prima volta nella storia dell’Academy, una donna come miglior regista, diversi anni dopo le vane nomination di Lina Wertmüller, Jane Campion e Sofia Coppola. Più frequenti sono invece i riconoscimenti tardivi e retroattivi della celebrazione, assegnati a mo’ di Oscar alla carriera, solitamente tesi a gratificare più il lavoro complessivo di un certo attore/ regista che l’effettivo valore del film in questione. Esemplare il caso di Scorsese, dei suoi Oscar come miglior regista e miglior film puntualmente promessi, disattesi, e infine assegnati solamente con il recente The Departed, di certo non l’opera più riuscita e intensa del maestro. Tra i vincitori degli Academy Awards “di compensazione” di quest’anno, è stata la volta di Jeff Bridges, preferito alla disperazione minimale e asciutta di Colin Firth (A single man) ed eletto miglior attore protagonista per il cantautore country di A Crazy Heart (vincitore anche dell’Oscar per la miglior canzone): anche qui il premio è sembrato più un modo di farsi perdonare quelli mancati in passato, per La leggenda del Re Pescatore o Il grande Lebowski. E se Sandra Bullock vince, in modo quantomeno dubbio, come attrice non protagonista (The Blind Side) dopo essere stata per tanti anni l’incontrastata reginetta dei Razzie Awards, il controcanto parodico degli Academy Awards,
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BILLY ATTUALITÀ OSCAR 2010
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o Oscar l’Oscar più meritato del lotto rimane quello ricevuto da Christoph Waltz come miglior attore non protagonista: il talento magnetico (e poliglotta) del suo col. Hans Landa in Inglourious Basterds concorre senza dubbio ai momenti più alti del film di Tarantino, peraltro trascuratissimo dai giurati. Nella categoria del miglior film straniero, invece, tanto Il nastro bianco dell’impeccabile Haneke quanto lo straordinario neopolar di Audiard, Un Prophète, sono stati sorprendentemente scalzati da un inatteso Carneade, il thriller argentino El secreto de sus ojos, per il quale, come per il giapponese Departures lo scorso anno, si confida in un’altrimenti insperata distribuzione italiana. Più prevedibile e istituzionale la
scelta di Up! come miglior film d’animazione, che si aggiudica anche il secondo Oscar italiano (per la migliore colonna sonora di Michael Gioacchino). Cartoon indubbiamente intelligente e prezioso, ma dall’immaginario più conforme, in senso disneyano, rispetto ai compagni di candidatura Coraline e Fantastic Mr. Fox, più dissidenti e personali. Quanto al resto, (giustamente) ignorati i film italiani (Baarìa e il non necessario contentino per il miglior trucco de Il Divo) e molti i nomi che mancano all’appello, da Lasciami entrare a Nel paese delle creature selvagge, tra i quali, e si tratta della nota più dolente, pulsa più di altre l’assenza ingiustificabile di Nemico Pubblico di Mann, uno dei capolavori dell’annata.
The Hurt Locker di Kathryn Bigelow
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BILLY RÉPORTAGE ORDET
ordet: di
MARCO BERARDI
«se il cinema ci ha sempre proposto la parola come strumento espressivo per i personaggi, in questo capolavoro sono senza dubbio i personaggi a essere i burattini dell’unica vera protagonista, appunto l’onnipotente Parola»
Occasione persa quella di lunedì 14 marzo al Cinema Saffi di Forlì quando Loretta Guerrini Verga e Angelo Papi hanno introdotto la visione di Ordet e hanno presentato il loro volume sulla resa dell’opera. Tenendo un registro eccessivamente alto hanno reso impervia la visione ai volenterosi digiuni richiamati dalla notorietà del film, caposaldo del cinema esistenzialista, sulla scia di Kierkegaard e allo stesso livello del più celebrato Ingmar Bergman. Il film è tratto da un’opera teatrale di Kaj Munk, pastore protestante assassinato dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale. Il cineasta danese è qui avulso dalla problematizzazione dei personaggi, dai particolarismi spazio-temporali. Queste tematiche sono marginali rispetto alla riflessione sulla catalizzazione che la Fede opera sull’esistenza. La crisi mistica e i contrasti teologici della famiglia Borgen, protagonista della vicenda, vengono appianati dalla tragica morte di parto di Anna, moglie di uno dei tre figli Borgen. Il contatto diretto con l’assoluto (potremmo parlare di Dio, così come della morte) è la soluzione alla lotta ideologica, la
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la prossima volta con sentimento medicina per rinsavire dalla follia. La cerniera tra ordinario e trascendente è appunto la parola (materializzazione della fede) che permette il fluire della vita, la resurrezione, non solo fisica come ce la presenta Dreyer, ma soprattutto ideologica. Se il cinema ci ha sempre proposto la parola come strumento espressivo per i personaggi, in questo capolavoro sono senza dubbio i personaggi a essere i burattini dell’unica vera protagonista, appunto l’onnipotente Parola. Leone d’Oro a Venezia nel 1955, una delle più riuscite fatiche di Dreyer, è il manifesto dell’ultimo suo periodo di attività. Se in un altro capolavoro del 1928, La passione di Giovanna D’Arco, la magnifica Renée Falconetti ci ha regalato un’interpretazione così perfetta senza che ci fosse bisogno del sonoro, quasi trent’anni dopo avviene quella “redenzione” del verbo, così come dell’animo umano. Già la cinematografia svedese aveva proposto un adattamento dell’opera teatrale con Gustav Molander nel 1943, ma la versione di Dreyer è senza dubbio la più brillante e riuscita. Ordet è un gioiello, metafisico e senza tempo.
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BILLY ATTUALITÀ ENZO G. CASTELLARI AL CINEMA SARTI
il glorioso bastardo Andrea Bruni sa cogliere al volo le occasioni. Così quando i giovani del PD gli hanno chiesto come occupare il cinema Sarti di Faenza di sera dopo che nel pomeriggio Rosy Bindi avrebbe aperto la campagna elettorale regionale e comunale, memore di due straordinarie epifanie in quel di Catania e Reggio Emilia, ha messo in piedi una vera e propria maratona bastarda con ospite eccezionale Enzo G. Castellari. Il regista romano ha presentato e poi commentato prima il suo Quel maledetto treno blindato (1978) poi Inglourious Basterds (2009) di Quentin Tarantino che segue la traccia del primo film e in cui Girolami si produce in un cameo. L’insieme della serata ha soddisfatto ogni palato oltre ogni previsione. Il primo film, oramai leggendario e proposto nella versione in dvd prodotta per il mercato tedesco, narra l’odissea di un gruppo di disertori che stanno per essere fucilati dalle forze alleate; sfuggono fortuitamente all’esecuzione e vengono scambiati dai partigiani francesi per un commando destinato a una missione suicida: recuperare l’innesto di una V2, i terribili razzi con cui colpire dallo spazio gli avversari. Sembrerebbe un monotono film di guerra anni ‘70 se non fosse per le abili capacità del regista,
l’abnegazione e l’inventiva dell’esperto di effetti speciali spagnolo Emilio Ruiz Del Rio e una legge che impedì l’uso di armi da fuoco durante le riprese promulgata all’improvviso dal governo italiano. L’ultimo quarto del film diventa così una inusuale danza della morte tra coltelli e micce che saltano per simulare colpi a segno dando quella particolare identità alla pellicola che colpì il pubblico in particolare straniero. Castellari, tra le due pellicole, si è rivelato un perfetto narratore della sua storia cinematografica, probabilmente lubrificato da una serie di incontri col pubblico che lo ha rilanciato grazie all’omaggio tarantiniano, dispensando a piene mani gustosi aneddoti: dai figli di Brad Pitt e Angelina Jolie che considerano Inglourius Basterds (il titolo con cui Quel maledetto treno blindato è stato distribuito nei paesi anglosassoni) all’apparizione sul set a Berlino con Tarantino che ferma tutto per omaggiarlo, a quando fu assoldato per interpretare Benito Mussolini nella serie tv statunitense Venti di guerra. E mentre si ragionava sul tempo passato troppo velocemente e sull’impossibilità di fare domande per l’imperioso procedere del tempo la visione di Bastardi senza gloria nella copia blu-ray apriva nuove possibilità ai modi di proiettare i film. Con la speranza che Bruni,
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di
ILARIO GRADASSI perfetto anfitrione della serata, sappia cogliere presto altre occasioni per mostrarci altre gemme del maestro romano.
«Castellari, tra le due pellicole, si è rivelato un perfetto narratore della sua storia cinematografica, probabilmente lubrificato da una serie di incontri col pubblico che lo ha rilanciato grazie all’omaggio tarantiniano»
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BILLY ATTUALITÀ LA TRILOGIA DEL DOLLARO
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«I suoi difetti, sono qualità. Gli intoppi distributivi, indici di valore. Le critiche negative, sintomi di incomprensione. Le battute più surreali, sentenze proverbiali»
Quali sono i requisiti necessari per trasformare un film in un oggetto di culto? Umberto Eco non ha dubbi. Come per l’amore con l’A maiuscola, l’aspetto fisico vale davvero poco. Ciò che conta è l’anomalia, il difetto, l’imperfezione. Quel certo non so che unico e inafferrabile che fa scattare la scintilla e la tiene viva per sempre. Immune dai segni del tempo – tanto da richiedere giusto un ritocchino superficiale – e sconnessa al punto da poter quasi ergersi a simbolo dell’intera categoria del cult, la celebre Trilogia del Dollaro, partorita dal maestro Leone tra il ’64 e il ‘66, rispetta il paradigma alla lettera. I suoi difetti, sono qualità. Gli intoppi distributivi, indici di valore. Le critiche negative, sintomi di incomprensione. Le
battute più surreali, sentenze proverbiali. Fratelli di sangue separati alla nascita ma presto pronti a convivere, Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo infrangono, una dietro l’altra, le sacre leggi della perfezione filmica. Un po’ mélo e un po’ samurai, un po’ commedia dell’arte e un po’ film d’autore europeo, quei polverosi e sporchi quattrocento minuti di girato – nati come B movies gonfi di ignoti caratteristi italiani e squattrinate meteore americane – ribaltano come un calzino il più classico dei generi cinematografici, dando vita al più redditizio filone italiano (lo spaghetti western, appunto) e prefigurando una rivoluzione che giusto il ’68 sarà in grado di
eguagliare. Per comprendere a pieno cosa questo contenitore di miti, leggende – chi scrive continua a credere che Clint abbia due sole espressioni: col cappello e senza – suoni e volti abbia significato per la sonnacchiosa produzione popolare degli anni ‘60, basterebbe dare un’occhiata a quel che c’era prima. Godersi l’antico splendore delle pellicole, vedendole e rivedendole negli impeccabili restauri curati dalla Cineteca di Bologna (prossimi appuntamenti al Cinema Saffi di Forlì: Per qualche dollaro in più, 10/5; Il buono, il brutto, il cattivo, 31/5). E, last but not least, digitare “per un”, “per quel” e “il buono” nel miglior motore di ricerca … Sergio, la mira e il cuore. Come Ramon. Meglio di lui.
trilogia del dollaro
di
BARBARA DE CARO
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87’ 2009 WES ANDERSON «C’era una volta … Un re! – Diranno subito i miei piccoli lettori. – No, ragazzi, avete sbagliato» e se pensate al solito pezzo di legno collodiano, siete ancora più lontani. Archiviati i drammi di Margot Tenenbaum e acquistati i diritti del suo Dahl preferito, Wes Anderson riunisce il team di Steve Zissou per salpare alla volta della propria personale favola. Rispolverando una vecchia copia de La Repubblica di Platone e pogando al ritmo di Anarchy in the UK – dopo aver festeggiato l’arrivo degli “anta” con succo di mela e film di Starevich – dimostra che maturità non sempre rima con seriosità. Ché se tutti gli animali sono uguali, i migliori sono quelli un po’ diversi. Ché se le abitudini sono dure a morire – cito Norman Bates, ma penso ai fidi Bill Murray e Jason Schwartzman – la voglia di rischiare lo è ancora meno. Animato in stop motion ma impreziosito da caratteri tutt’altro che zuccherosi, Fantastic Mr. Fox è, dunque, molto più di un filmetto per ragazzi. Dalla dialettica natura/cultura al totale rispetto per le minoranze, dalla critica all’avidità umana alla tagliente indagine sulla famiglia moderna, risponde al millenario dubbio sulla pecora e il leone, fungendo nel contempo da ennesimo sintomo di un trauma indimenticato e indelebile come
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recensioni dei film in uscita in Italia nell’Aprile 2010
fantastic
in sala
RECENSIONI IN SALA
mr fox
quello del 9/11. Senso di colpa, desiderio di rivalsa e accettazione di se stessi, in uno spazio-tempo a misura di volpe nel quale persino il Lupo decide di stare dalla parte dei “buoni”. Per una volta, senza pelo né vizio… Barbara De Caro
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RECENSIONI IN SALA
108’ 2009 JOHNNIE TO
questo periodo di crisi post land over. L’ultima fatica di Johnnie To (che considerata la sua prolificità rimarrà tale ancora per poco) è un noir ambientato nel mondo delle triadi cinesi, con magistrali sequenze al ralenti che si alternano a scene d’azione veloci e furiose, condito da classiche sequenze evocative (vedi quella con gli ombrelli molto simile al precedente Sparrow) e da Lam Suet, Anthony Wong e compagnia bella che si comportano, si muovono, agiscono seguendo l’affascinante stereotipo dei personaggi che Johnnie To gli ha costruito intorno durante gli anni. Chi pensava a un film snaturato dovrà ricredersi. Ma il problema è proprio questo: come giustamente qualcuno ha fatto notare, Vengeance è un “Johnnie To for Dummies”, perché riprende, rivista e (ri)frulla tutto ciò che il regista ha mostrato negli ultimi anni, concentrandolo in un’unica pellicola che non può che risultare già vista, sentita, amata. Il regista cantonese resta se stesso, esaspera i suoi caratteri, ma questa sorta di revival incide negativamente sull’ispirazione, rendendo il tutto una (bella) fotocopia di Mission, A Hero Never Dies, Exiled, Election e via citando.
vengeance I sentimenti con i quali mi appresto a scrivere questa recensione sono contraddittori. Saranno bene o male quelli con i quali mi accingerò a vedere Vengeance al cinema, se la distribuzione italiana dovesse mantenere le sue promesse e quindi fare uscire l’ultima fatica di Johnnie To in pellicola nella nostra penisola. Da una parte non posso che sorridere al pensiero che dopo Breaking News, il pubblico della nostra italietta possa godere ancora una volta delle prodezze del regista cantonese, dall’altra mi infastidisce realizzare che ancora una volta ci si debba accontentare di vedere un’opera minore tra le tante dirette e prodotte dal Nostro. Vengeance è il primo esperimento di To fuori dai confini nazionali, è
una pellicola parlata in tre lingue (inglese, francese e cantonese) e coprodotta da Hong Kong e Francia. Ma la paura che questa rapida occidentalizzazione del regista potesse corrispondere a un’occidentalizzazione dell’approccio alla pellicola è completamente infondata. Nonostante infatti il protagonista di Vengeance sia niente poco di meno che Johnny Hallyday, figura cardine per la musica rock francese, e il suo personaggio sia ispirato a quelli di melvilliana memoria, il film conserva tutte le caratteristiche che hanno reso celebre la Milkyway, casa di produzione di Johnnie To e Wai Ka-Fai, che ha contribuito a mantenere salda la bandiera del cinema cantonese in
Michelangelo Pasini
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RECENSIONI IN SALA
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96’ 2009 ATOM EGOYAN Il regista canadese di origini armene Atom Egoyan si esercita col recente Nathalie... (2003), interpretato da Emmanuelle Béart, Fanny Ardant e Gérard Depardieu. Ne esce un triangolo decentrato, ambientato nella buona borghesia canadese della Toronto cosmopolita, non privo di qualità. Julianne Moore è una convincente ginecologa di mezza età che entra in crisi quando il marito, uno stranito Liam Neeson (che recita nei giorni immediatamente precedenti all’improvvisa scomparsa della moglie Natasha Richardson) insegnante di musica a New York perde, più o meno volontariamente, il volo di ritorno nel giorno del suo compleanno. Il sospetto che rode la protagonista è presto rinfocolato dallo spiare il cellulare del marito, e sfocia nell’entrata in scena di una giovane escort adocchiata casualmente nella prima scena del film a cui viene chiesto di mettere alla prova la fedeltà del marito. E il film cresce sull’interpretazione
Chloe della giovane Amanda Seyfried, ormai lanciata dopo i successi di Mamma mia! e di Dear John, che dà vita alla credibile e misteriosa giovane prostituta che acquisisce gradatamente i fili del gioco coinvolgendo anche il figlio della coppia, un giovane musicista classico interpretato dal promettente Max Thieriot.
Il dramma si compie, non senza sorprese che lasciamo alla visione dello spettatore, inerpicandosi anche sulle vette di un accennato erotismo, facendo del film un labirinto che Egoyan risolve non senza contraddirsi. Intenso, ma solo per uno spettatore di nicchia. Ilario Gradassi
retropolis
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RECENSIONI RETROPOLIS
la legge tramonta a oriente
Giovanni Falcone, tra le altre cose, spiegava che da un punto di vista di volume d’affari la mafia italo-americana non era affatto la prima associazione criminale del pianeta, ma si situava attorno al ventesimo posto. Il suo dominio apparente era dovuto al successo dei film a essa dedicati, in primis i padrini di Francis Ford Coppola, su cui la supervisione di Cosa Nostra aveva accenti da film alleniano. Le mafie orientali nei film che tratteremo vengono descritte da maestri come Pollack, Scott, Kitano e Carpenter attraverso il linguaggio di una violenza aliena o almeno esterna, trattata anche in forma parodistica (il capolavoro di Carpenter). Il nostro immaginario di mafie orientali come organizzazioni più umane e “oneste” delle nostre si deve in gran parte a questi quattro film. Dipenderà dalla distanza o le triadi hanno fatto dei casting migliori? Ilario Gradassi
Yakuza
123’ 1975 SIDNEY POLLACK
Incontro e “scontro” di due culture, di due mondi diametralmente opposti, di due civiltà che fondano i loro principi su basi e valori così distanti da sembrare aliene l’una all’altra. Questo film di Sidney Pollack mette a confronto gli Stati Uniti e il loro cinismo (rappresentato da Robert Mitchum) con le antiche tradizioni giapponesi. La Yakuza, ovvero, molto semplicemente,
BILLY NUMERO 22 APRILE 2010 114’ 2000 TAKESHI KITANO Quale dei film del celebre Beat Takeshi può rappresentare al meglio il connubio post moderno tra occidente e oriente se non Brother? Coprodotta da Jeremy Thomas, la nona pellicola del regista nipponico si colloca nella transizione tra due epoche kitaniane: dopo i successi consacranti fuori dal Giappone, ma subito prima del ritorno alla patria e ai forti richiami alla cultura nipponica stessa. Come situato in un
l’organizzazione criminale nipponica viene raccontata attraverso tutti i suoi rituali e le sue regole, il suo codice d’onore, a cui tutti devono attenersi. Attraverso la sua rigida gerarchia, ci viene raccontato un modo di vivere che trae le sue origini dall’antico codice Bushido, che pone le regole dell’organizzazione. Il mondo occidentale si scontra con le
RECENSIONI RETROPOLIS limbo, Brother, è una sorta di Takeshi’s ante litteram, una piccola summa del repertorio del regista visto fino ad allora senza un orientamento stilistico vero e proprio. Un po’ come se lo stesso Kitano non sapesse bene dove rivolgere lo sguardo. I più cattivi hanno parlato di un remake di Sonatine riadattato ai gusti del pubblico occidentale, nel quale sono sì presenti vari elementi caratteristici, ma la mancanza dei controtempi tipici del regista fa scivolare il tutto nel prevedibile e nel banale. Senza
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contare la massiccia presenza di violenza che tanto piace agli americani. Ma il fatto è che il valore di questo film si misura proprio (come con Takeshi’s) riportandolo a quell’universo kitaniano di cui è punto fermo. Brother è un’opera che stimola a guardare oltre la superficialità della vita e delle sparatorie violente. Un film dove lo humor nero (anzi noir) sembra essere l’unica risposta agli orrori che popolano il mondo. Alberto Semprini
Brother
rigide norme che regolamentano non solo le famiglie della Yakuza, ma che danno ritmo e condizionano le vite di tutti i personaggi. Tutto viene messo in secondo piano: i rapporti familiari e i rapporti sentimentali soccombono di fronte all’etica e al dovere nei confronti di un codice di comportamento e di uno stile di vita, la riconoscenza supera il dolore, l’errore si bagna
di sangue che verrà versato con le antiche spade dei samurai, e il pentimento comporta il sacrificio e il marchio indelebile del dito mozzato. Culture così lontane e irraggiungibili che non mancheranno di trovare i punti di incontro attraverso, inevitabilmente, riti imprescindibili e sacri. Marco Bacchi
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RECENSIONI RETROPOLIS
125’ 1989 Ridley Scott L’inutile e criminale atomica americana è il vero scheletro narrativo dell’altalenante film di Ridley Scott. È la causa della pioggia sporca del titolo, pioggia radioattiva, che brucia corpi e vestiti. È la causa del male e del malessere, è la giustificazione del crimine e della devianza. È lo snodo dei rapporti tra “fottuti yankees” e “stupidi giapponesi”, come diaframma di incomprensione e diffidenza. Ma è anche il cancro successivo, l’umiliazione, che corrode sentimenti e amicizie,
che insinua sospetti e cristallizza pregiudizi, nonostante i soldi falsi, nonostante i regali da happy-end posticcio che happyend non è, nonostante i debiti saldati e le vite dovute. Una patina che esula dal film stesso e abbraccia il reale (posto che il reale esista): Scott ha giurato che non girerà più in Giappone, per tutti i problemi incontrati. Ma la pioggia è anche, in se stessa, un altro cardine narrativo, a tratti metacinematografico: la pioggia che bagna Harrison Ford in Blade Runner, quando consuma un pasto orientale, con le bacchette, è la stessa che arriva
a lambire idealmente lo stesso Michael Douglas, anch’egli impegnato in un pasto tipico, e poi – ancora oltre – che cade sul Giappone, contaminandolo con la decadenza occidentale, esasperata dai quei neon, da quelle luci, da quegli sfavillii ingombranti che rendono Osaka uguale alla Los Angeles del 2019. A rendere il tutto maggiormente intrigante è la clamorosa incapacità di Scott a fare, di tutto questo prezioso materiale, un’opera neanche decente. Matteo Lolletti
Black Rain
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RECENSIONI RETROPOLIS
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Grosso guaio a
Chinatown 99’ 1986 John Carpenter Chinatown: una piccola (ma neanche tanto) fetta di Cina costruita nel cuore di San Francisco. Non più un ghetto, ma una vera e propria città in miniatura, con le sue regole e la sua cultura. Una realtà che vive di profondi, inscindibili legami con la patria cinese, legami difficilmente comprensibili da un americano (o un occidentale in genere): legami fatti anche e soprattutto di leggende e magia. In tutto questo si trova catapultato Jack Burton, rude camionista dall’animo tutto sommato puro (interpretato da un Kurt Russel splendido come sempre in mano a Carpenter), che, deciso ad aiutare l’amico Wang Chi a salvare la di lui fidanzata dalle grinfie di una gang cinese, deve presto fare i conti con combattenti micidiali, stregoni della peggior risma e profezie sulla fine del nostro mondo. Le vicende si susseguono freneticamente in una giustapposizione che ha del rocambolesco: si ha quasi la sensazione che alcuni eventi si verifichino un po’ per caso, e comunque sicuramente senza che i protagonisti abbiano contribuito a causarli. Tutto questo, lungi dall’essere un difetto, rende ancora più avvincente, divertente e a suo modo esotica questa bizzarra avventura fantastica dai toni velatamente horror e più smaccatamente comici (l’atmosfera è quella che si respira in Indiana Jones e il Tempio Maledetto). Carpenter confeziona un b-movie che non annoia mai, e omaggia a più riprese il cinema di Hong Kong con spassose scene di arti
marziali. Da vedere con bibita ghiacciata e abbondanti popcorn! Matteo Lier Lelli
VETR VETRINA
rassegne in romagna nell’aprile 2010
Martedì allo Snaporaz
Teatro Binario
mercoledì 14 aprile
piazza Mercato 15, Cattolica, ore 21.15, ingresso 5 €
viale Giannetto Vassura, Cotignola, ore 21.00
Dementia – Daughter of Horror ***
martedì 6 aprile
venerdì 2 aprile
Lourdes
Rachel sta per sposarsi
99’ 2009 Jessica Hausner
114’ 2008 Jonathan Demme
Metrofestival Cinema
martedì 13 aprile
venerdì 9 aprile
Il missionario
Lucky Break
90’ 2009 Roger Delattre
112’ 2001 Peter Cattaneo
Metropol, Corso Mazzini 51 Gambettola, ore 21.00, abbonamento 7 euro per 7 film
martedì 20 aprile
Lunedì Cult Movie Cinema
56’ 1955 John Parker
colonna sonora eseguita dal vivo da Junk Food Band
romagn Nord
78’ 2009 Rune DenStad Langlo martedì 27 aprile
Donne senza uomini
95’ 2009 Shin Neshat, Shoja Azari
Italia, via Cavina 9, Faenza, ore 21.30, ingresso 6,50 €
ap
78’ 2009 Rune DenStad Langlo
La prima cosa bella
martedì 6 aprile
Alice in Wonderland
Princess Mononoke
108’ 2010 Tim Burton
I Love Radio Rock* 135’ 2009 Richard Curtis martedì 20 aprile
Italian Dream 95’ 2008 Sandro Baldoni martedì 27 aprile
Lebanon 90’ 2009 Samuel Moaz
spotlight
117’ 2009 Giorgio Diritti
giovedì 15 e venerdì 16 aprile
lunedì 19 aprile
via XX settembre 98/a, Cervia, ore 21.00, ingresso 3,50 €, *ingresso gratuito
martedì 13 aprile
110’ 2010 Rob Marshall
L’uomo che verrà
Cinema Sarti
134’ 1997 Hayao Miyazaki
Nine
giovedì 8 e venerdì 9 aprile
lunedì 12 aprile
Nord
giovedì 1 e venerdì 2 aprile
116’ 2010 Paolo Virzì
A Single Man
95’ 2009 Tom Ford
giovedì 22 e venerdì 23 aprile
lunedì 26 aprile
Io, loro e Lara
115’ 2010 Carlo Verdone
giovedì 29 e venerdì 30 aprile
Sperduti nel buio 2010
Il concerto
Il Raggio Verde, Faenza, ore 21.00, ingresso libero, **Il Do, Mura Mittarelli 34 ***Cinema Sarti, via Scaletta 10
120’ 2009 Mihaileanu
mercoledì 7 aprile
Songs from the Second Floor** 98’ 2001 Roy Andersson
Il cinema racconta il lavoro Cineteca di Rimini, via Gambalunga 27, ore 21, ingresso libero martedì 6 aprile
Valentino: The Last Emperor 98’ 2008 Matt Tyrnauer
appuntamento col mosaico d’europa film fest
Torna a Ravenna l’appuntamento primaverile con il cinema di qualità:
Forte di un ormai consolidato consenso di pubblico, MEFF 2010
d’Europa Film Fest, sei giornate ricche di proiezioni ed eventi speciali,
perdere, come le proiezioni dedicate agli ultimi capolavori di tre
dal 19 al 24 aprile 2010 si terrà la quarta edizione del Mosaico presso la multisala CinemaCity.
Il Festival, organizzato dall’Ufficio Cinema del Comune di Ravenna
con FICE – Federazione Italiana Cinema d’Essai e CICAE – Confederazione Internazionale dei Cinema d’Arte e d’Essai, con il
contributo di Enipower e con la prestigiosa presidenza onoraria del regista Pupi Avati, giunge così al suo quarto anno di vita proponendosi come importante vetrina per la migliore produzione filmica europea e non solo.
apre questa sua nuova edizione con una serie di eventi da non indiscussi maestri del cinema mondiale: il malinconico documentario
auto-biografico Les plages de Agnès di Agnès Varda, l’oscuro e
metafisico noir dalle venature horror My Son, My Son What Have Ye
Done di Werner Herzog (prodotto da David Lynch, con Willem Dafoe, Chloë Sevigny e Udo Kier) e Bellamy, triste e rabbioso omaggio di
Claude Chabrol al genere poliziesco di Simenon, magistralmente interpretato da Gérard Depardieu in quello che è il primo film insieme per la coppia regista-attore.
RINA BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
martedì 13 aprile
Tutti giù per aria – L’aereo di carta 65’ 2009 Francesco Cordio
Il cinema di Sergio Leone – Fronte del pubblico Salone Snaporaz, Piazza del Mercato 15, Cattolica
Sarà presente Alessandro Tartaglia Polcini martedì 20 aprile
Capitalism: A Love Story
na 119’ 2009 Michael Moore martedì 27 aprile
Louise - Michel
94’ 2008 Benoît Delépine e Gustave Kervern
DocInTour 10 Cineteca di
Rimini, via Gambalunga 27, ore 21, ingresso 3€
Cineclub SCAGLIE pub
Clandestino, viale Baccarini 21, Faenza, ore 21.30, tessera mensile 8€ domenica 11 aprile
martedì 6 aprile
Per qualche dollaro in più 130’ 1965 Sergio Leone
The Road
111’ 2009 James Hillcoat domenica 18 aprile
martedì 13 aprile
Il buono, il brutto, il cattivo 180’ 1966 Sergio Leone
Thriller - A Cruel Picture 104’ 1974 Bo Arne Vibenius domenica 25 aprile
martedì 20 aprile
Of Freaks and Men
Giù la testa
93’ 1998 Aleksey Balabanov
154’ 1971 Sergio Leone
Lotto(8) non solo a marzo
martedì 27 aprile
C’era una volta il West
Sala Teatro Fellini, piazza S. Maria Foris Portam 2, Faenza, inizio proiezioni ore 20.30, ingresso offerta libera
prile lunedì 12 aprile
175’ 1968 Sergio Leone
Brustulein. Cinema da sgranocchiare
Film mai visti Cinema Saffi,
6’ 2009 Davide Rizzo
La voce Stratos
110’ 2009 Luciano D’Onofrio e Monica Affatato
lunedì 19 aprile
Brustulein. Cinema da sgranocchiare
Viale dell’Appennino 480, Forlì, ore 21.00; *ore 20.30 - 22.40 replica, a cura di Cultura e Progetto; **ore 21.00 – 22.30, a cura di Fice Emilia Romagna, DOCinTOUR 10
Magari le cose cambiano
130’ 2007 Emir Kusturica
Brustulein. Cinema da sgranocchiare 6’ 2009 Davide Rizzo
Piombo fuso
82’ 2009 Stefano Savona
60’ 2004 Donna Read, Starhawk, commento di Vania Bertozzi
La dea del 1967
Promettilo!
lunedì 26 aprile
Signs Out Of Time - Omaggio A Marija Gimbutas
14 aprile
lunedì 12 aprile
6’ 2009 Davide Rizzo
63’ 2009 Andrea Segre
7 aprile
118’ 2000 Clara Law
Gruppo dello Zuccherificio
lunedì 19 aprile
Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
Introduce il film Giancarlo Dini
Mama’s club, via San Mama 75 Ravenna, ingresso offerta libera per i soci, tessera 5€ 15 aprile
lunedì 26 aprile
Morire di lavoro
My Main Man
92’ 2008 Daniele Segre
95’ 2009 Germano Maccioni
La febbre del fare
83’ 2009 Alessandro Rossi, Michele Mellara
La colonna portante del festival – luogo ideale per la scoperta di
Appuntamento da segnalare quello con gli ospiti presenti in sala:
partecipano dieci pellicole non ancora distribuite nelle sale italiane,
tra l’altro dello script di Arca Russa di Aleksandr Sokurov) presenterà
Tra queste spiccano il dramma inglese Fish Tank, diretto da Andrea
del Pardo d’Oro a Locarno, e sarà membro della Giuria del MEFF
georgiano George Ovashvili; il biopic di Martìn Provost Sèraphine,
- Nicolas Winding Refn. Dopo Venezia e Torino 2009, il giovane
premiate a Cannes 2009: La merditudes des choses del regista
e si appresta a passare dallo stato d’autore di nicchia a quello di
Canino di Yorgos Lanthimos.
suoi primi lavori e gli ultimi acclamati film Bronson e Valhalla Rising.
nuovi talenti - sarà il Concorso Internazionale per lungometraggi, cui
- Svetlana Proskurina. La regista e sceneggiatrice russa (co-autrice
ma premiate dalle giurie dei principali festival internazionali di cinema.
il suo film Sluchajnyj Vals – Un valzer casuale, vincitore nel 1990
Arnold; Gagma Napiri – The Other Bank, opera prima del regista
2010.
sulla vita della pittrice francese Sèraphine de Senlis; due pellicole
danese comincia lentamente ad essere conosciuto anche in Italia
belga Felix van Groening e l’inquietante thriller greco Kynodontas –
importante e famoso regista di culto. Il festival porterà sullo schermo i
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BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
BORSINO
Chiara Tartagni
Alberto Semprini
Matteo Lolletti
Matteo Lelli
Alessandro Merci
Ilario Gradassi
Barbara De Caro
Marco Bacchi
BORSINO APRILE 2010
amante inglese, l’ alice in wonderland appuntamento con l’amore codice: genesi chloe donne senza uomini figlio più piccolo, il genitori e figli invictus mine vaganti nord shutter island wolfman
BILLY aprile 2010 numero 22
STAFF Direttore Ilario Gradassi, caporedattore Chiara Tartagni, responsabile di redazione Michelangelo Pasini, editor Cecilia Benzoni, grafico Stefania Montalti. Scrivono Marco Bacchi, Marco Berardi, Barbara De Caro, Paco Garroyo, Ilario Gradassi, Barbara Grassi,
billy.rivistacinematografica@gmail.com
Matteo “Lier” Lelli, Matteo Lolletti, Alessandro Merci,
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Luigi Palmirotta, Michelangelo Pasini, Safr, Alberto
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Semprini, Dario Stefanoni, Chiara Tartagni.
COPERTINA Immagine tratta da Sukyiaki Western Django
Q u e s t a rivista non rappresenta un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001 e non persegue alcuna finalità di lucro. Le immagini pubblicate sono tutte tratte dalla rete internet e sono considerate di dominio pubblico. Qualora il loro uso violasse diritti d’autore scrivete al nostro indirizzo di posta e le rimuoveremo prontamente. La rivista è rilasciata con licenza Creative Commons - Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia. Ogni volta che usi o distribuisci quest’opera, devi farlo secondo i termini di questa licenza, che va comunicata con chiarezza. In ogni caso, puoi concordare col titolare dei diritti utilizzi di quest’opera non consentiti da questa licenza. Questa licenza lascia impregiudicati i diritti morali. http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it
BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
RUBRICHE CATTIVI MAESTRI
john woo John Woo nasce a Canton nel 1946, ma si trasferisce presto con la sua famiglia a HongKong. Nel 1986 a poco più di vent’anni entra nel mondo del cinema della colonia britannica, che lo sconvolge radicalmente. Nel 1993, purtroppo, sbarca a Hollywood, nel 2008 torna in Cina, ma per poco. Di lui il cosiddetto grande pubblico conosce soprattutto gli alterni lavori americani: Face/Off, Windtalkers, Mission Impossible II… Ma noi vogliamo tornare alla metà degli anni ’80, a Hong-Kong, quando uno stanco John Woo, deluso dalla ventina di film da lui realizzati negli anni precedenti, accoglie l’invito di Tsui Hark a girare un rifacimento in chiave femminile di True Colors of a Hero di Lung Kong. Woo accetta, ma stravolge idea e film d’accordo con Hark. Il film che nasce si inserisce all’interno del rinnovamento che la New Wave hongkonghese stava imponendo dalla fine degli anni ’70 al cinema della colonia. Registi come Alex Cheung, Kirk Wong e Johnny Mak, in quel periodo, iniziano a produrre noir innovativi e pieni di violenza. Ma è John Woo che, nel 1986, con A Better Tomorrow rifonda i canoni del gangster movie di Hong Kong: con stile e personalità il regista cinese inventa nella sostanza un genere completamente
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A Better Tomorrow
CATTIVI MAESTRI MATTEO LOLLETTI
«gli antagonisti, per quanto agiscano in un’ottica di contrapposizione manichea, sono in realtà affini nella struttura e vivono una dialettica che oscilla tra attrazione e repulsione, anche se fatalmente destinati allo scontro» nuovo. Con A Better Tomorrow II (1987), The Killer (1989) e Hard Boiled (1992), John Woo firma una tetralogia noir che gli darà fama in tutto il mondo. I tratti di questa rivoluzione portano tracce di Scorsese e di Melville, unite al melodramma e strutturate in una costruzione della scena iperbolica ed essenziale. D’altro lato la figura del protagonista si precisa in termini quasi morali, in cui questi cavalieri solitari, questi criminali in conflitto con se stessi e con il mondo, un mondo brutale e disperato, cercano la redenzione attraverso la violenza, la catarsi attraverso il proprio sacrificio. Il cinema di John Woo crea un universo nuovo, personale, inedito in cui gli antagonisti, per quanto agiscano in un’ottica di contrapposizione manichea, sono in realtà affini nella struttura e vivono una dialettica che oscilla tra attrazione e repulsione, anche se fatalmente destinati allo scontro. Il cinema noir, orientale od occidentale, non potrà più dirsi lo stesso.
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RUBRICHE THE FILMGAMER
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«i Wachowski hanno spezzettato l’opera cinematografica e ne hanno distribuito le componenti in media completamente diversi creando non solo un film, ma un’opera intermediale»
la matrice
intermediale the filmgamer
alberto semprini
Non ci vogliono molti sforzi per vedere la trilogia di Matrix come un immenso videogioco. I riferimenti sono molteplici e su tutti i livelli di lettura, proprio perché i Wachowski, da bravi nerd, saccheggiano abbondantemente la cultura videoludica. Anche chi non è esperto riuscirebbe a vedere Morpheus e Neo come due videogiocatori nella scena in cui si sfidano in un incontro di kung fu virtuale. Così come non è molto difficile considerare la figura dell’architetto (che rivela a Neo la sua natura di anomalia precalcolata) come un programmatore videoludico, che fornisce al giocatore poteri straordinari ma sotto controllo per dargli l’illusione di piena libertà d’azione . Più difficile è invece capire che cosa è Matrix nel suo insieme e che influenza abbia avuto sul cinema e sulla cultura popolare di inizio millennio. In primis Matrix è una saga di film, dei quali il primo ha dettato nuovi canoni stilistici del cinema d’azione. Ma considerare il fenomeno solo in questi termini pare un po’ riduttivo. Sappiamo che Matrix è costituito anche da una serie di corti d’animazione (Animatrix) e da una serie di videogiochi, quindi di oggetti culturali che ampliano l’universo finzionale della pellicola originale. Ma l’intenzione dei Wachowski non è solo quella di proporre prodotti correlati alla loro opera principale, ma è anche quella di incastonare questi stessi prodotti nell’universo diegetico principale. Si può
benissimo guardare Matrix Reloaded conoscendo solo il fatti del primo capitolo, ma solo chi ha visto L’ultimo volo dell’osiris (il primo Animatrix) può essere testimone dell’episodio che dà il via alla vicenda. Chi gioca Enter The Matrix (videogame d’azione uscito in contemporanea con il film) non rivive la storia attraverso le avventure di Neo e soci, ma nei panni di alcuni personaggi appena accennati nella pellicola, le quali azioni hanno ripercussioni nel film stesso. È un po’ come se i Wachowski avessero spezzettato l’opera cinematografica e ne avessero distribuito le componenti in media completamente diversi creando non solo un film, ma un’opera intermediale, in una sorta di post moderno, non solo sul piano stilistico, ma anche sul piano linguistico.
BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
horror politics
RINGU Ringu (1998) di Hideo Nakata è un capolavoro, e il raffronto con The Ring (2002) di Gore Verbinski, oltre a confermare tale assunto, permette un parallelo culturale rilevante. Se la fabula resta, in linea di massima, invariata, almeno nella maggioranza dei suoi tratti essenziali, la messa in scena, il dettaglio, la scansione ritmica e le scelte visive segnano uno scarto profondo tra l’originale giapponese e il suo remake. Nato dalla suggestione di alcuni fantasmi propri del pantheon nipponico, il film di Nakata si lascia trasportare dalla dimensione arcana della storia, concedendo più spazio al suggerito che al mostrato, all’alluso che allo spiegato, allentando il tessuto scopofiliaco sullo sfondo. In questo modo, la figura vendicatrice della piccola Sadako assurge a tutta la
RUBRICHE HORROR POLITICS
matteo lolletti
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«l’occidente aggiorna e piega al gusto, rende accettabile, l’esotico. In questo percorso il cinema trasla le ansie, gli orrori, le paure (e le loro dinamiche) adattandoli al proprio peculiare contesto»
sua irresistibile drammaticità, prefigurandosi come un rimosso di colpa che sfiora i luoghi dell’eresia. Da vittima a carnefice, Sadako costringe le persone a tradire affetti e amicizie, in un cerchio (anche visivo) che spinge ben più in là il concetto di eredità delle colpe. Di contro il remake hollywoodiano spinge fin da subito sull’iperbole visiva: la cassetta killer si emancipa dall’amatorialità e si fa centro di gravità, quasi che a uccidere non sia Samara, ma le immagini stesse. La dimensione arcana si esaurisce rapidamente in declinazioni cliniche, la colpa comune diviene sociologica e meno umana, e il ragionamento sulla responsabilità del guardare e del mostrare viene esasperato, almeno nelle intenzioni. L’occidente aggiorna e piega al gusto, rende accettabile l’esotico. In questo percorso il cinema trasla le ansie, gli orrori, le paure (e le loro dinamiche) adattandoli al proprio peculiare contesto. L’ex marito della giornalista protagonista si muta da sensitivo a tecnico esperto di analisi video (con ovvie funzioni narrative), la sensitiva madre della bambina diventa allevatrice di cavalli (il cavallo è uno dei simboli Usa per eccellenza e l’allegoria è fin troppo esplicita), il sovrannaturale si trasforma in determinismo materialista e psichico (risultando accettabile). Con risultati inferiori, ma più graditi. L’horror quindi pesca davvero nel(l’in)conscio collettivo di un popolo e di una cultura?
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RUBRICHE CINERDMATOGRAFO
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cinerdmatografo
matteo lier lelli
«ci si deve accostare criticamente alla diffusa opinione che il western sia il genere occidentale per eccellenza» Se è vero che tanto I magnifici sette (1960, di John Sturges) che Per un pugno di dollari (1964, di Sergio Leone) affondano le loro radici in due film del maestro giapponese Akira Kurosawa (rispettivamente I sette samurai, 1954, e La sfida del samurai, 1961), allora forse ci si deve accostare criticamente alla diffusa opinione che il western sia il genere occidentale per eccellenza. E dunque che il cinema orientale si cimenti con esso non dovrebbe sembrare un fatto così eccezionale. Pur stando così le cose, è comunque innegabile che un orientale col cappello da cowboy e le pistole sia una bizzarria senza uguali! Eppure è una bizzarria che poco per volta sta prendendo piede, tanto che, escludendo l’isolato Tampopo (di Juzo Itami) uscito nel 1985, negli ultimi anni sono stati realizzati ben tre ramen-western. A fare d’apripista è stato il tailandese Le lacrime della Tigre Nera (2000, di Wisit Sasanatieng), un divertentissimo pastiche, ambientato ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, che mescola reminescenze di Leone e Peckinpah ai toni del melodramma, tingendo il tutto con i colori acidi degli anni ’60. È sempre lo spirito di Sergio Leone a soffiare nel violentissimo Sukiyaki Western Django (2007), che porta l’inconfondibile firma di quel geniaccio di Takashi Miike: vero punto di forza di
il cowboy dagli occhi a mandorla dall’oriente arriva un nuovo genere: il ramen-western!
questo remake in salsa nipponica di Per un pugno di dollari è senz’ombra di dubbio lo stile da fumetto pulp di cui è pervaso: dalle scenografie esageratamente cartoonesche all’assurdo vestiario dei personaggi, dal non-tempo in cui si svolge l’azione all’inserto animato, dall’indimenticabile sequenza iniziale al duello finale katana contro pistola... Il vero problema è che gli attori giapponesi recitano in un inglese davvero incomprensibile... ma va detto in loro favore che Quentin Tarantino, nel suo cameo, è ancora più inascoltabile. Chiude momentaneamente la serie il sudcoreano The Good, The Bad, The Weird (2008, di Ji-woon Kim), ambientato nella Manciuria occupata dal Giappone verso la fine degli anni ’30, che fin dal titolo non fa mistero di essere abbondantemente ispirato a Il buono, il brutto e il cattivo di Leone (già, sempre lui!). Epico, divertente e dannatamente ben girato. Lunga vita al ramen-western!
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RUBRICHE CINELETTERATURA
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marco bacchi «è l’ordinato disordine della battaglia a darci il senso del film e solo uno sparo a riportarci nel sonoro dopo una delle battaglie più assordanti della storia del cinema»
RAN
Caos, rivolta, disordine. Questi i significati, molteplici, della parola Ran e, innumerevoli, le allegorie di cui si carica, inevitabilmente, il film di Kurosawa. Ran è ispirato a una antica leggenda giapponese che vede un anziano nobile dividere il proprio feudo tra i figli, i quali riescono a mantenere fede alle ultime volontà del padre. Kurosawa ribalta il destino dei protagonisti fondendo la trama con la tragedia shakespeariana, riadattando cioè il Re Lear. Nei tumulti che seguono la divisione del feudo, il regista indaga la natura dei diversi personaggi e ciò che le loro azioni comportano o hanno comportato: il padre, vecchio e apparentemente saggio, viene punito per i peccati commessi e per l’ingiustizia usata in gioventù con una tremenda spirale di vendetta e violenza innescata dall’avidità e dalla brama di potere dei figli. Ran diventa, quindi, tragico affresco del destino dell’uomo che, cieco di fronte ai valori di una società in continua disgregazione, perde ogni lucidità e, vinto dalla follia, distrugge ogni cosa che ha creato. A rendere il film un capolavoro concorrono la perfezione
cineletteratura
della messa in scena, in particolar modo nelle scene di massa, e l’uso incessante del silenzio come elemento drammaturgico e catartico. Soprattutto quando il rumore è l’elemento principe, come accade nella cruenta scena di battaglia in cui l’atrocità del momento è data allo spettatore esclusivamente attraverso le immagini, mute, in un fiume di sangue e di colori, in cui è, appunto, l’ordinato disordine della battaglia a darci il senso del film, in cui i vessilli e gli stendardi si e ci confondono, fusione cromatica e di intenti. È solo uno sparo a riportarci nel sonoro, dopo una delle battaglie più assordanti della storia del cinema e a ridarci il fantasma del vecchio padre che brancolerà alla ricerca della salvezza e della redenzione, costretto a vedere il lento crollo di tutto il suo mondo. In questo silenzioso caos, in cui nessun personaggio si salva dalla follia della violenza, in cui nessuno è giusto, forse solo la morte è in grado di restituirci giustizia.
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RUBRICHE PSICOVISIONI
PSICOVISIONI LUIGI PALMIROTTA «rispetto all’opera, chi infine soccomberà non sarà donna e orientale, ma un uomo e occidentale.»
La menzogna, il doppio, l’inversione di ruoli trascinati da quell’energia vitale che molti chiamano amore, si spinge oltre i confini plurimi oriente-occidente, uomo-donna, verità-inganno che a uno sguardo da lontano appaiono netti e marcati, ma a uno sguardo più ravvicinato perdono la loro consistenza sfumandosi e fondendosi come due corpi si fondono in uno allorchè spinti dalla passione. Renè, funzionario francese in Cina, incontra Liling, cantante d’opera che sostiene la netta differenza fra oriente
e occidente anche nel modo d’amare e lo fa dopo aver interpretato Madame Butterfly, che è opera dopotutto di un occidentale, ed è filo conduttore del film. Renè se ne innamora, pur se accidentalmente è un uomo sposato, o forse si innamora della dedizione di una donna orientale per il proprio uomo e sembra voler riprodurre la stessa storia dell’opera pucciniana, lì dove la donna orientale soccombe ingannata dall’uomo occidentale. Nasce da qui quella con-fusione simile all’abbraccio fra lo ying e lo yan che si genera fra gli opposti. Rispetto all’opera, chi infine soccomberà non sarà donna e orientale, ma un uomo e occidentale. Anche lo spettatore partecipa all’inganno quando scopre insieme al protagonista che quella sensuale donna non è altro che un uomo, ma Renè è già traghettato da un cupido illusionista oltre il confine del tabù uomo-donna, una differenza teoricamente palese e facile da vedere soprattutto per un funzionario così abile a smascherare i truffatori nascosti del consolato, e che gli permette di vedere oltre quella omosessualità. Sedotto, illuso, con-fuso e abbandonato non riesce a superare tale dissonanza cognitiva tra il suo comportamento, i valori, e il sentimento che prova se non attraverso una identificazione eteropatica che riduce la distanza tra sé e la donna amata, consentendo la negazione dell’esperienza di separazione da ella. Pone fine, in un gioco di inversione di ruoli, alla girandola di identità nascoste, in un ennesimo binomio di opposti finzione-realtà togliendosi la vita realmente mentre finge, così vestito da donna mentre è uomo, da orientale mentre è occidentale.
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RUBRICHE IN COSTUME
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RAGIONE E SENTIMENTO:
L’ASSENZA DELLO
SGUARDO
È verità universalmente riconosciuta che sovente la critica cinematografica ama utilizzare metri di giudizio preconfezionati. Nel 1996 trionfa alla Berlinale Ragione e sentimento, tratto dal secondo romanzo di Jane Austen (1775 – 1817) e strano caso di produzione americana che ingaggia un regista taiwanese trapiantato negli USA e affida la sceneggiatura, premiata con l’Oscar, alla protagonista, la solidissima Emma Thompson. Il regista altri non è che Ang Lee, reduce dalla commedia agrodolce Mangiare bere uomo donna e coinvolto per la prima volta nella produzione di un kolossal internazionale. Quell’Ang Lee che in seguito darà prova di audace (incosciente?) eclettismo girando L’incredibile Hulk, La tigre e il dragone e Brokeback Mountain. Molto si è detto all’uscita del film, in concomitanza con altri progetti che testimoniano una vera febbre austeniana, di un presunto “tocco orientale” nella regia. Ma la complessa vicenda delle sorelle Dashwood, che con risoluta grazia affrontano indigenza, malevolenza e tormenti d’amore, viene dipinta come un convenzionale affresco in costume. Gli accesi ma misurati contrasti di luce e la vivacità del colore, che si ritrovano nel più sontuoso e poco significativo Vanity Fair di Mira Nair (2004), non costituiscono necessariamente la traccia estetica di una visione orientale, quanto piuttosto una pura illustrazione della moda imperante all’epoca. Lo sguardo personale del regista si limita ad accarezzare con delicatezza i volti perlacei delle donne e la morbidezza dei tessuti, con esigui accenni cromatici all’Oriente da cui Lee era ormai lontano: la luminosità traslucida delle sete e quel verde smeraldino, quasi accecante, delle campagne inglesi, che conduce la mente ad altri paesaggi, altre realtà. Ma è poca cosa. Il film, seppur sostenuto da una piacevole sceneggiatura
IN COSTUME CHIARA TARTAGNI e da lodevoli interpretazioni (da ricordare quelle di Kate Winslet ed Emma Thompson), scorre placido come un ruscello agreste, fondendo pathos e ironia in un amalgama preciso, ma non incisivo. E la regia si appiattisce in una raffinata confezione, priva di quella determinazione culturale che avrebbe donato nuova linfa a un genere a rischio di stagnamento.
«la regia si appiattisce in una raffinata confezione, priva di quella determinazione culturale che avrebbe donato nuova linfa a un genere a rischio di stagnamento.»
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RUBRICHE CINEMA PRIMITIVO
«Si diffuse l’idea del “pericolo giallo”, lo straniero dipinto come nemico, essere inferiore, perfido e scaltro simulatore. Il marchese è il simbolo di questa perfidia asiatica, ricco, immorale, privo di pietà, dedito a soddisfare i propri desideri con l’inganno, il ricatto e la violenza»
BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
la
danzatrice che uccise la
tigre malese cinema primitivo barbara grassi Nel 1917 fu realizzata una versione italiana del film di Cecil B. De Mille, The Cheat del 1915, intitolata Malìa, regia di Alfredo de Antoni, soggetto e sceneggiatura di Giuseppe Paolo Pacchierotti, prodotta dalla Caesar Film. Una celebre danzatrice, Liliana, è la moglie del conte De Rienzo, il quale, per onorare un debito di gioco, si fa prestare una forte somma di denaro dal
marchese malacco Yamagata. Egli vuol riscuotere il debito seducendo la moglie del conte, ma lei si difende uccidendolo. Francesca Bertini è la contessa De Rienzo, Lido Manetti è il conte e il marchese è Tamoshiro Matsumoto, il quale tentò di imitare, senza riuscirvi, Sessue Hayakawa, interprete di The Cheat. Il critico Lissetra dell’interpretazione di Matsumoto scrisse: «Il malacco è un artista improvvisato». Pacchierotti ha essenzialmente ricalcato il soggetto di The Cheat. Solo l’esplicito ricatto sessuale da parte del giapponese che si compie nel film di De Mille, in Malìa, fu edulcorato; le proposte del malese alla contessa sono meno pericolose, ma provocano la morte dell’uomo. La censura pose numerose condizioni per il rilascio del visto: chiese di rendere una «fuggevole visione» la scena di lotta che si svolge tra Liliana e il malese; di eliminare tutti gli accenni alla «razza gialla», ricorrenti nelle didascalie, e sopprimere la scena in cui la protagonista danza con contorcimenti lascivi attorno a un giovane ballerino legato a un palo, strofinandosi a lui. Nonostante i tagli anti-razzisti, la lotta tra vittima e carnefice rappresentava inevitabilmente la contrapposizione tra oriente-occidente. Si diffuse l’idea del «pericolo giallo», lo straniero dipinto come nemico, essere inferiore, perfido e scaltro simulatore. Il marchese è il simbolo di questa perfidia asiatica, ricco, immorale, privo di pietà, dedito a soddisfare i propri desideri con l’inganno, il ricatto e la violenza; ma paga la sua ignominia con la vita, subendo il giusto castigo. In tribunale «la giustizia della società e l’onestà degli uomini occidentali» non potevano condannare la vittima/vendicatrice Liliana, così come il pubblico non poteva che essere d’accordo con questo finale, essendo testimone di un tentativo di violenza eterorazziale, per molti, doppiamente intollerabile.
mira nair BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
RUBRICHE I SOLITI IGNOTI
I SOLITI IGNOTI MICHELANGELO PASINI Salaam Bombay
Il sogno americano di molti registi orientali porta a una costante fuga dei cervelli dal Giappone, dalla Cina, dall’India, verso il dorato mondo hollywoodiano. I talenti asiatici di maggior successo vengono molto spesso ingaggiati dalle major statunitensi con contratti milionari che sono le specchio per le allodole di una trasferta che si rivela molto spesso controproducente. Uno degli esempi più calzanti in tal senso è la deriva che in pochi anni di permanenza americana ha coinvolto John Woo, arrivato negli Usa dopo aver firmato un capolavoro come Hard Boiled e arrivato, dopo la felice parentesi Face/Off, a produzioni decisamente poco felici come The Hostage e Paycheck. La carriera di Mira Nair non ha la linearità di quelle di molti suoi colleghi sedotti dall’occidente (successo in Asia, arrivo a Hollywood, ritorno in patria con le pive nel sacco): la regista lascia la natia India poco più che maggiorenne grazie a una borsa di studio che la porta ad Harvard. Successivamente abbandona gli studi sociologici e gira India Cabaret, documentario che la bollerà a vita come regista del realismo e del cinéma verité, nemica dello sfarzo delle pellicole di Bollywood. Proseguendo su questa strada, e quindi alienandosi definitivamente i remunerativi canali distributivi del cinema mainstream indiano,
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«nonostante per la regista indiana il percorso da oriente a occidente non sia figlio di fantomatiche promesse di gloria il risultato non è stato tanto diverso»
gira Salaam Bombay, lavoro che prende le mosse da un workshop atto a studiare le condizioni di vita dei bambini di strada indiani. Saranno questo film, vincitore del premio del pubblico a Cannes nel 1988, e il successivo Mississipi Masala (coprodotto da Usa e Inghilterra) a consacrarla come punto di riferimento in occidente per comprendere, attraverso il mezzo cinema, la situazione sociale critica propria dell’India. Nel tentativo di farsi perdonare dal sistema bollywoodiano, Mira Nair torna in India per girare Monsoon Wedding, il vero punto di incontro tra India e Hollywood: alle parentesi canore e alla tendenza alla facile melodrammatizzazione bollywoodiane unisce le leggerezza di certe commedie made in Usa. Il risultato è il Leone d’Oro a Venezia e l’inizio di una spersonalizzazione che da qualche tempo sembrava dietro l’angolo. Nonostante per la regista indiana il percorso da oriente a occidente non sia figlio di fantomatiche promesse di gloria il risultato non è stato tanto diverso.
BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
RUBRICHE IN MATITA
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BILLY NUMERO 22 APRILE 2010
RUBRICHE GARROYO E I SUOI FRATELLI
«in tre minuti era riuscito a spiegare cosa unisce oriente e occidente: violenza, prostituzione e Bud Spencer»
violenza, prostituzione garroyo e bud spencer e i suoi fratelli Paco Garroyo
L’altro giorno ero a giocare a freccette al bar, e c’era anche Ermanno Olmi. Sconfortato e anche un po’ ubriaco, mi ha confidato di non aver trovato un distributore per la sua nuova opera, il sequel di Cantando dietro ai paraventi, e me ne ha dato una copia su una penna usb, un primo montaggio, cosicché gli facessi sapere cosa ne pensavo. Il film si apre dove si era chiuso il precedente: siamo in un bordello cinese degli anni ‘80, un bordello costruito all’interno di un teatro in modo che clienti e meretrici possano godersi anche uno spettacolo, protetti dai veli che circondano i loro baldacchini posti in platea. Sul palco una giovane attrice orientale in ginocchio piange, si lamenta,
canta una nenia lunga e straziante. È la figlia dell’Imperatore Chu Chiao Ning, ed è addolorata per la sconfitta del padre nella battaglia navale di Haikou. A un tratto entra in scena un vecchio pirata barbuto e ciccione, con cappello, pistola, pappagallo in spalla e tutto. È Bud Spencer che, imprecando in portoghese (?), prende una sedia e la spacca sulla schiena della giovane principessa. Allora sale sul palco un uomo di mezz’età calvo, orientale anche lui, completamente nudo (?) e con in mano una sciabola. È l’Imperatore Chu. «Per quello che hai fatto a mia figlia» dice l’uomo al pirata Bud «ora ti lancerò un terribile anatema: Casca il mondo casca la terra, tutti giù per terra!». Per tutta risposta,
Bud Spencer prende un paravento e, imprecando in latino (?), lo frantuma sulla testa dell’Imperatore. Dalla platea di baldacchini si leva un grido: «Questo è troppo!» dice un uomo che si alza, si rimette i pantaloni in fretta e se ne va, sbattendo la porta. Senza pagare. Il giorno dopo sono tornato al bar. C’era Ermanno Olmi seduto al suo solito tavolo con una bottiglia di brandy. Mi sono avvicinato. Gli ho detto che era il mio nuovo eroe, che in tre minuti di pellicola era riuscito a spiegare definitivamente cosa unisce oriente e occidente: violenza, prostituzione e Bud Spencer. Con mio sommo stupore non ha reagito bene: è diventato triste e si è messo a piangere maledicendo il mondo.
Nella foto, il pirata Bud mentre cerca con lo sguardo la sua prossima vittima
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RUBRICHE LA POSTA DEL CAPP’TANO
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ano t ' p
del a t os p la
p a c
Capitano, cosa vorresti trovare nel tuo uovo di Pasqua? tuo, ammiratore amichevole Caro il mio ‘mmiratoro... tanto pe’ cominciare non credo a Babbo Pashqualo, e quindi lui so’ anni che per ripicca non m’ porta neanche un uovo shmangiucchiato. E poi l’ishtessa domanda me l’ha fatta quacche gionno fa il mio amico Geghegè, quello premuroso come ‘na femm’na, che c’ piace guaddare Uomini & Uomini alla tv e mi shta sempre ‘ttaccato come una linguina allo shcoglio, tanto che gli schogli (quelli grossi... quelli ‘oni) me li shta pure un po’ rompento! Ti avvetto Geghegè che se shcopro che m’ pesseguiti pure sulla rivishta (nel senso che la dovete guadda’ tutti almeno 2 volte, se no s’ chiamava solo vishta, l’ishtesso che windoz) in quanto capo ‘ndishcutibbilo dei Rapaci Randagi t’ revoco il diritto e,
la corrishpondenza eccezziunale di capitan phalco pe’ shta tranquillo, pure il rovescio, d’ potta’ alle riunioni i cd di Barbara Shtressa! So’ shtato shpiegato?!
Capitano, hai disonorato il nostro maestro Cazzumoto. Preparati a morire. Il Ningia Faentino Signo’ Ningio, deve essecci un errore d’ shbaglio! Io questho Cazzumoto non lo conoshco: non m’ pemmetterei mai d’ mancare d’
rishpetto a uno che la motocicletta ce l’ha pure nel nome, insieme a quell’altra cosa che fa capire che non c’è da shchezzare... Secondo me è shato quel mmalantrino d’ Capitan Fintuz: dammi retta, non c’è da fidassi d’ uno che porta dei bambini tutti soli in mezzo al mare e poi ci vuo’ ddare il suo ‘bashtoncino d’ merluzzo’, eh!
Se volete rivolgere domande al Capp’tano mandate le vostre disperate missive a billy.rivistacinematografica@gmail.com. Ogni vostro dubbio verrà saziato.
Dolce baffetto, io Susy Pompiglio, estetista, 17 anni, recentemente ribalconata, voglio venire a seguire le avventure del tuo magico gruppo. I miei per lasciarmi andare vogliono sapere di che campi. Cosa gli dico per convincerli? S. Cara Susina, cette cose il tuo Capp’tano non le fa, e vishta l’età che c’hai fareshti meglio a rivoggerti a Capitan Fintuz qui sopra... Però, se vuoi segui’ le mie peripezie e shcoprire quanto so’ bbravo nel barattolo illegalo (so’ un purtento a schampiare ficurine con cutulette, oppure penne ashfera co’ calzini... tutto di nashcozto da quei dannati shpirri che m’ danno la caccia) devi veni’ a vedere il mio film, Le Imprese Eccezziunali di Capitan Phalco e i Rapaci Randagi!