Edizioni Solfanelli
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IL FILO D’ARIANNA Trimestrale di Cultura
Alberto Rosselli
Giuseppe Brienza
LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA
L’OLOCAUSTO ARMENO
I GESUITI E LA RIVOLUZIONE
Breve storia di un massacro dimenticato Presentazione di Marco Cimmino
ITALIANA NEL 1848
Nel 1936 scoppiò in Spagna una sanguinosa guerra civile che costò al paese un milione circa di morti tra i quali diecimila religiosi, oltre a terribili distruzioni materiali. La maggior parte della storiografia ha sempre considerato questa guerra come il primo scontro tra fascismo e antifascismo, preludio della seconda guerra mondiale, trascurando la peculiarità della storia della Spagna dove, fin dall’epoca delle invasioni napoleoniche, vi fu una profonda e talvolta violenta contrapposizione fra il tradizionalismo, rappresentato soprattutto dalla Chiesa, e le correnti di pensiero illuministiche che iniziarono a diffondersi a partire dal XVIII secolo. La rivalutazione di documentazione comprovante la responsabilità della Massoneria spagnola in quei tragici eventi e spesso volutamente taciuta dalla storiografia ufficiale per opportunismo o altro, fa di questo saggio un libro che rompe con gli schemi acquisiti per offrire al lettore una più ampia comprensione dell’evento.
La persecuzione scatenata tra il 1915 e il 1918 dai turchi nei confron-ti della popolazione armena residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia panturchista e panturanista che stava alla base del sedicente partito “progressista” dei Giovani Turchi, ma che traeva le sue profonde origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrappo-sizioni tra la maggioranza musulmana turcocurda e la minoranza cristiana armena. [ISBN-88-89756-17-9] Pagg. 96 - 7,50
[ISBN-88-89756-18-7] Pagg. 160 - 10,00
Questo saggio offre uno scorcio chiarificatore sulla vicenda di molti religiosi della Compagnia di Gesù che, nell’Italia infiammata dalla Rivoluzione europea del 1848, furono messi al bando e costretti a defatiganti esili a causa dei moti risorgimentali dello stesso anno. Propellente ideologico innescato contro i Gesuiti furono soprattutto i corrosivi pamphlet di Vincenzo Gioberti, che li accusava di costituire “uno dei principali ostacoli al riscatto d’Italia”. Al contrario, furono invece per-seguitati e costretti a lasciare il paese insigni studiosi appartenenti alla Compagnia, molto apprezzati all’estero (dove poterono infatti trovare rifugio e continuare le loro attività), come i padri Francesco de Vico e Angelo Secchi considerati ancor oggi pionieri dell’astrofisica, i teologi Giovanni Perrone e Johann Baptist Franzelin, e infine il filosofo Luigi Taparelli d’Azeglio i cui studi sul diritto naturale e sui rapporti fra società civile e Stato (questi ultimi per molti aspetti anticipatori dell’attuale dibattito sul “principio di sussidiarietà”) rappresentano pietre miliari nel pensiero cattolico contemporaneo.
IL FILO D’ARIANNA
Benigno Roberto Mauriello
PER UNA POLITICA DELLA LINGUA CONVERSAZIONE CON
FERRUCCIO PARAZZOLI TRE INEDITI DI BORGES
[ISBN-88-89756-20-9] Pagg. 64 - 7,00
Edizioni Solfanelli Gruppo Editoriale Tabula Fati www.edizionisolfanelli.it – edizionisolfanelli@yahoo.it 66100 Chieti - Via A. Aceto n. 18 (C. P. n. 34) Tel. 0871 63210 – 0871 561806 – 335 6499393 – Fax 0871 404798
Anno I - N. 1 - Gennaio Febbraio Marzo 2009 - € 8,00
IL FILO D’ARIANNA Trimestrale di Cultura Anno I - Numero 1 - Gennaio Febbraio Marzo 2009 Comitato direttivo
Renato Besana, Franco Cardini e Lucio D’Arcangelo
PER UNA POLITICA DELLA LINGUA Conversazione con FERRUCCIO PARAZZOLI TRE INEDITI DI BORGES 1
Sommario
EDITORIALE ................................................................................. 5 PER UNA POLITICA DELLA LINGUA Lucio D’Arcangelo Un paese senza lingua ................................................................. 7 Franco Cardini L’imperialismo culturale italiano .......................................... 10 Renato Besana Lingua nel caos ........................................................................... 17 Maurizio Dardano La lingua si difende da sé? ....................................................... 20 Antonio Sorella L’italiano? Lo salverà la scuola .............................................. 23 Massimo Arcangeli Tutti per uno, uno per tutti ...................................................... 27 DOCUMENTI La bella lingua ............................................................................ 33 L’italiano in Europa................................................................... 36 Il nuovo analfabetismo ............................................................. 38 UNA VALANGA DI LIBRI Conversazione con Ferruccio Parazzoli ................................ 41 Dino De Riseis DOSSIER BORGES Da Buenos Aires a Babilonia ................................................... 45 Borges e l’infamia ....................................................................... 50 Tre inediti .................................................................................... 53 Antologia ...................................................................................... 56 2
CIVILTÀ DELLE LETTERE Lucio D’Arcangelo Ricordo di Luciano Anceschi .................................................. 63 Giuseppe Conte Reinventare il mondo ................................................................ 66 Giulio Rasi Savinio e gli dèi .......................................................................... 69 Marco Delleani Lighea ........................................................................................... 73 Paolo Pinto La vita altrove ............................................................................. 76 Paolo Pinto Francesco Petrarca peregrinus ubique ................................ 78 Monica Farnetti Felicità di Katherine Mansfield .............................................. 84 ARCHIVIO DI POESIA .............................................................. 94 NARRATIVA Marco Delleani Racconto fra le righe ............................................................... 101 Renato Besana Quattro righe, ma buoniste .................................................... 104 Rolando D’Alonzo La sigaretta ................................................................................ 109 LINGUISTICA Lucio D’Arcangelo La foresta di suoni ................................................................... 113 Armando Francesconi Tradurre o non tradurre ........................................................ 118 EUROPA E OLTRE Alberto Rosselli Turanismo e Panturanismo ................................................... 122 3
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EDITORIALE
Varare una “rivista di cultura” oggi può sembrare temerario e perfino inutile. Gli spazi, se mai sono stati ampi, sono diventati ridottissimi. Tra la cultura fast food e quella specialistica, che nel nostro Paese partecipa della crisi generale dell’università, sembra non esserci via di mezzo, e ciò è tanto più nefasto in quanto oggi la cultura, e più in generale il sapere, devono combattere su più fronti. Non c’è solo l’avversaria di sempre, quella che i filosofi antichi chiamavano doxa, ossia le opinioni correnti e dominanti, prima riassunte nella cosiddetta “egemonia” e poi nel “politicamente corretto”. Oggi troviamo insidie anche più subdole: il “culturale”, ossia la riduzione della cultura ad evento e, congiuntamente, la vendetta del pettegolezzo sull’arte; i circenses gabellati per “cultura”, la museificazione della bellezza e l’esaltazione dell’orrido. La retorica dell’impegno, che ci ha assillato per decenni, è passata dalle mani di cantautori e conduttori, diventati maîtres à penser e predicatori domenicali. Il lascito più cospicuo dell’epoca ideologica è la demagogia culturale ovvero l’ignoranza organizzata.
Ai livelli medio-alti si tende da un lato ad identificare la cultura con la cultura politica (quanti politologi si impancano a storici?), e dall’altro con gli esotismi letterari che ci vengono propinati di volta in volta. Abbiamo assistito a mode culturali presto cadute nel limbo del sentito dire. Ma le “scienze umane” più in sintonia con il mondo globale in cui viviamo, la linguistica — beninteso quella vera — e l’antropologia, sono al di fuori degli interessi attuali. Del resto, nel nostro Paese non si fa divulgazione scientifica e la cultura accademica usa l’incomprensibilità, o l’illeggibilità, come fashion. L’editoria è succube dell’attualità. Gli autori sono nel migliore dei casi giornalisti e nel peggiore politici e vip della cronaca. Gli stessi bestsellers, cucinati in salsa “culturale” per soddisfare lo snobismo dei ceti emergenti, hanno imboccato la strada dello scandalismo. La letteratura (creativa) langue ed è campo di scorribande da parte di professori/traduttori, che esibiscono come cosa propria i lustrini delle culture altrui. La critica letteraria si riduce sempre più a pubblicità (tutto ciò che si pubblica è 5
Editoriale
“grande” e rappresenta una svolta epocale, che dopo qualche mese nessuno ricorda più) e non giova a quei pochi narratori che si distinguono o tentano di distinguersi dalla folla dei romanzieri d’annata. Trionfano i “contenuti” più triviali ed il nostro Paese, che fu già patria dell’estetica, sembra regredito all’età della pietra. Non parliamo della grande esiliata: la poesia. L’arte è infestata dalle pseudo-avanguardie e dai concettualismi più sfrenati ed assurdi. Di fronte alla svolta mondiale del “postmoderno”, con il suo recupero della tradizione, anche figurativa, seguita ad imperversare la Facilarte con le sue trovate tanto estemporanee (le cosiddette installazioni, per esempio) quanto inconsistenti. Ogni discorso storico deve subire a tutt’oggi le censure dei venerabili della Resistenza e si seguita ad usare il termine (staliniano) di revisionismo come se il muro di Berlino non fosse mai crollato. Assistiamo alla trasformazione della linguistica in un’ideologia dommatica da parte di consorterie accademiche in servizio di sorveglianza permanente dentro e fuori le università per le discipline di cui si ritengono depositarie. Trionfa l’abitudine non a discutere, ma a “vincere”, costruendosi avversari di comodo. Mai come negli ultimi anni il degrado della lingua ha coinciso con la caduta del livello cultu6
rale e questa con il trionfo della politica in senso deteriore. Sbrogliare questa matassa per ritrovare il filo della cultura, ossia di quel minimo di verità compatibile con la cultura, è diventato sempre più difficile, ed impossibile senza riannodare il rapporto con quei grandi nomi, e quelle tendenze, che hanno dato nerbo e carattere al patrimonio culturale italiano ed europeo. L’oscuramento del passato a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni ha prodotto due gravi conseguenze: la ricaduta in errori che si credevano superati e la scoperta di novità che sono soltanto anticaglie rinnovate. Oggi, grazie alla rapidità delle comunicazioni, l’orizzonte culturale si è allargato enormemente. Ma non riusciamo a profittarne se non in termini di imitazione provinciale e, più spesso, negandoci a ciò che di veramente nuovo bolle in pentola. Siamo stati i pionieri dell’Unione europea, ma l’Europa non ci salverà, se non sapremo essere prima di tutto italiani: “Che l’Italia torni ad essere quella di un tempo, scriveva Charles Morgan nel 1945, è evidentemente un interesse dell’Europa e di tutta la civiltà, non soltanto perché l’Italia custodisce sì gran parte delle tradizioni civili, ma perché essa non è, né è stata mai, una nazione intransigente (excluding); ed in alto grado possiede la duplice qualità di ricevere con grazia e donare cordialmente”.
Per una politica della lingua
UN PAESE SENZA LINGUA
Lucio D’Arcangelo
L’italiano (udite, udite!) non è la lingua ufficiale dello Stato italiano, o meglio, lo era, ma ha cessato di esserlo con la caduta del fascismo. Come tante altre realtà simboliche (la bandiera, l’inno di Mameli) suscettibili di evocare il concetto di “patria” la lingua italiana fu messa nel cassetto dalla classe dirigente postbellica: non fu nominata neppure per inciso nella nuova costituzione, come se fosse non la lingua d’Italia, ma una lingua “in” Italia. Non c’è quindi da meravigliarsi se dal dopoguerra in poi non c’è stata nessuna politica a tutela della lingua nazionale, ed anzi si è giunti perfino a sentenziare che “La Repubblica Italiana non deve privilegiare alcun idioma a spese di altri”. Si sono invece moltiplicati i provvedimenti a tutela delle minoranze linguistiche, applicati comunque e dovunque, come nel Sudtirolo, dove la popolazione di lingua germanica rappresenta la maggioranza (circa il 68% nel 1991) ed è quindi l’italiano ad essere minoritario. Per di più il concetto di “minoranza linguistica” ha ricevuto un’applicazione molto più estensiva rispetto al passato, e certamente forzata, con la Legge 15 dicembre 1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, che include fra dette “lingue” anche il friulano e il sardo, che non rappresentano evidentemente delle minoranze, ma caso mai delle comunità regionali o locali come tutti i dialetti del nostro Paese. Ma, quel che è peggio, i provvedimenti della legge 482 non sono bilanciati da altri in favore della lingua nazionale, né all’interno del nostro Paese, né quando essa si trova in condizioni minoritarie, come ben notò, commentando la legge in questione, Giovanni Nencioni, che in quegli anni era presidente dell’Accademia della Crusca. Sembra quindi necessario eliminare, anche in questo campo, le anomalie che ci contraddistinguono ed inserire in qualche articolo della costituzione (si disse l’art. 12) un paragrafo che finalmente 7
Per una politica della lingua
L’IMPERIALISMO CULTURALE ITALIANO Franco Cardini
Sono profondamente europeista e credo che le due carte da giocare oggi siano per noi l’europeismo e il mediterraneismo con un occhio non sfavorevole all’Eurasia. Ciò premesso, una cauta e consapevole riscoperta e riappropriazione della patria italiana e della propria storia sarebbe per gli italiani auspicabile. E mi spiego meglio. Gli italiani debbono ritrovare l’orgoglio della propria storia, cioè del loro passato, imparando a riconoscerlo per quel che effettivamente è stato. Una troppo lunga tradizione, eredità di un passato pervicacemente egemonizzato da una potenza estera (che poteva essere, a seconda dei casi e delle situazioni, la spagnola, la francese, l’austrotedesca, l’inglese), ha paradossalmente insegnato agli italiani a “vergognarsi” del proprio passato non solo in quanto non unitario, ma anche in quanto non militarmente “glorioso”. E qui bisogna intendersi seriamente sul senso della parola “gloria”. È ridicolo che ancora oggi, pur nell’àmbito di un diffuso, strisciante e perfino indiscriminato clima di pacifismo culturale, si continui a considerare “glorioso” un passato tessuto di vittorie e di conquiste militari (come se non si sapesse, ad esempio, di che lacrime grondi e di che sangue la “gloria” delle conquiste coloniali inglesi, francesi, spagnole e addirittura di piccoli paesi come l’Olanda, il Portogallo e il Belgio…). In forza di questo ridicolo e odioso pregiudizio retorico, si è fatta passare dall’Ottocento a oggi la falsa immagine d’un’Italia tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Risorgimento come di un paese “sottomesso”, “diviso”, “imbelle”, “ignavo”, venduto o schiavo dello “straniero”, soggetto alle “preponderanze straniere”. È una visione non solo falsa e retorica, ma anche profondamente errata. L’Italia della prima modernità fu addirittura un paese imperialista. Non certo dal punto di vista politico e militare; nemmeno da quello economico, commerciale e finanziario, dove i suoi “secoli d’oro” 10
Per una politica della lingua
LINGUA NEL CAOS
Renato Besana
In un Paese, come il nostro, pieno d’inventiva, se non basta l’inglese vero, si fa ricorso a quello finto. Per esempio: spot, Oltremanica, vuol dire faretto, da noi pubblicità televisiva; e body, per i sudditi di Sua Maestà Britannica, significa corpo, spesso morto e, se del caso, del reato; ma non corpetto, ovvero capo d’abbigliamento intimo femminile: underwear, per capirci. Si vuol apparire cosmopoliti, aggiornati, molto trendy e volonterosamente up to date; si finisce per imbastardire la lingua, con effetti non di rado cheap. Per cui, se un ristorante si chiama, poniamo, Sunshine, si può star certi che è meno caro del più casereccio “Da Giordano il carrettiere”. Accanto all’inglese abusivo, quello truffaldino, l’itangliano che, al pari del latinorum esibito da don Abbondio, ha l’unico fine di confondere le anime semplici. Le obbligazioni di Cirio e Parmalat che le banche hanno rifilato ai risparmiatori, si sono trasformate in bond appena è stato chiaro che si trattava di carta straccia. A Milano, la tassa d’ingresso per le automobili, anzi il ticket, è una pollution charge, da pagare con un ecopass, che fa pensare a un complesso esame radiologico. In una rubrica d’annunci immobiliari, figurava l’offerta di mono, bi e tri loft, così da nobilitare i troppo caserecci locali: signora mia, è il brand che fa trend. Se non bastasse, c’è l’italiano finto, che mal traduce termini anglosassoni, come i competitori, che sarebbero i concorrenti, orecchiando però i competitors. Quando il commentatore d’un autorevole quotidiano economico, intervenendo sui prezzi del petrolio, scrive “crudo” anziché “greggio”, non vuol farsi capire: intende soltanto comunicare ai suoi lettori di avere dimestichezza col Financial Times e il Wall Street Journal, dove appunto si discetta di crude; una questione di rango, o meglio di status, come si legge sulle pagine più aggiornate. Anche le ragioni seppur minime del costume pendono dunque a favore del disegno di legge per l’istituzione del Consiglio superiore 17
Per una politica della lingua
LA LINGUA SI DIFENDE DA SÉ?
Maurizio Dardano
Non è mai avvenuto nella nostra storia e tanto meno può avvenire oggi. In passato la lingua italiana è stata promossa dalla sua eccellenza letteraria e culturale, oggi deve essere difesa dall’impegno della società civile e dalle istituzioni. Proprio come devono essere difesi il posto di lavoro, l’ambiente, le minoranze, i dialetti e tutte le componenti della nostra vita in comune. Stupisce che a proclamare il contrario sia stato proprio un linguista; e stupisce ancora più che ciò sia avvenuto sull’onda di un contrasto tra Destra e Sinistra, ricco di spunti ideologici e politici, quanto povero di ragioni culturali. La difesa della nostra lingua, intesa come difesa della nostra identità culturale, dovrebbe essere una questione bipartigiana, da affrontare realisticamente, senza il plusvalore della politica, senza l’ingombro di ideologie e di teorie datate, del tutto inadeguate a risolvere i problemi del momento. Ciò dovrebbe avvenire al più presto e dovrebbe essere effetto di una partecipazione ampia degli “operai della mente”, perché la nostra lingua, che oggi non gode ottima salute, è un bene di tutti gli Italiani. Tre episodi — in certo modo esemplari — possono essere ricordati: non per suscitare polemiche, ma per trovare soluzioni. Primo episodio. I dati di una recente ricerca dell’OCSE rivelano che, per quanto riguarda il grado di preparazione dei nostri studenti quindicenni (in varie discipline, compresa la capacità di lettura di testi), l’Italia, in una graduatoria di 57 paesi, occupa la 36ª posizione. Secondo episodio. Dei 380 posti messi a disposizione in un concorso pubblico per magistrati, svoltosi il 7 gennaio 2008, ne sono rimasti scoperti 58 a causa della non adeguata conoscenza della nostra lingua dimostrata da un gran numero di candidati. Per la cronaca, le domande erano state 43.000, i candidati ammessi 18.000, coloro che hanno terminato le prove scritte 8.000. Infine una recente testimonianza: «Secondo un centro studi (il 20
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L’ITALIANO? LO SALVERÀ LA SCUOLA
Antonio Sorella
Ricordo che quando studiavo all’università era ancora possibile ascoltare dalla viva voce dei professori ripetere quello che avevano scritto in tempi non sospetti i più grandi maestri della storia della nostra lingua, cioè che l’italiano era (appunto, era) una creazione dei più grandi scrittori, da Dante a d’Annunzio, sulla base originaria del fiorentino parlato tra il XIII e il XIV secolo. Ma i tempi stavano già cambiando, sotto la spinta delle nuove tendenze della linguistica internazionale. Oggi, si sa, non si può più ragionare di differenze tra le lingue, perché tutte le lingue – dicono – sono uguali e dunque è assolutamente vietato sostenere che l’italiano è una lingua dolce, musicale, armoniosa, elegante, ricca e nobile, frutto e patrimonio di una grande civiltà, come si è sempre fatto, almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso, e come ancora si fa comunemente all’estero, quando non si sia pregiudizialmente prevenuti. Stupidaggini, si dirà, alla stregua dei vecchi luoghi comuni per cui il francese sarebbe una lingua affascinante sulla bocca delle donne, o il tedesco una lingua dura, buona per impartire ordini a uomini e animali. La linguistica formale ha insegnato che lingue e dialetti sono sistemi che funzionano variamente innestandosi sulla struttura di una grammatica universale che sarebbe innata in ogni uomo. Dunque, da un punto di vista scientifico, partendo da tali presupposti, un dialetto della montagna abruzzese costituisce un oggetto di studio di pari dignità e valore dell’italiano letterario o di qualsiasi altra lingua. In Italia, anche coloro che, come me, non condividono questa impostazione di tipo innatista nello studio delle lingue e che seguono criteri fondati sul metodo storico propendono ormai per un atteggiamento politicamente corretto ed egualitario nei confronti delle lingue. Come corollario inevitabile, si è dato il bando ad ogni grammatica normativa, perché le lingue si fanno da sole ed è la gente a decidere quello che è giusto e quello che è sbagliato dire e scrivere. Il corollario del corol23
Per una politica della lingua
TUTTI PER UNO, UNO PER TUTTI. Contro l’inglese globale o per l’italiano grammaticale? Massimo Arcangeli
1. Alla perduta ricerca del nulla. Lingue artificiali e dei tempi andati Si contano attualmente sempre più numerose le prese di posizione a favore di una lingua di garanzia in grado di sostituirsi all’inglese nei rapporti diplomatici tra le diverse nazioni: una lingua-ponte che possa contrastarlo sia dal fronte propriamente politico, che guarda al suo dominio planetario come a una propaggine dell’impero americano, sia da quello più direttamente linguistico, che vi scorge invece una grave minaccia alla sopravvivenza delle singole lingue nazionali. In tempi recenti, al fine di favorire lo stabilirsi di un’autentica democrazia della comunicazione, si sono riaffacciate così varie ipotesi di promozione di un’apposita lingua artificiale in grado di opporglisi sul piano internazionale. Potrebbe essere l’esperanto inventato da Lejzer Ludwik Zamenhof alla fine dell’Ottocento, quando furono elaborate tante altre lingue artificiali basate per lo più sul latino (con il supporto del francese e del tedesco, le lingue più parlate allora in Europa). Oppure, nella ristretta ma decisiva prospettiva eurocentrica, il più moderno europanto; rispetto alle 16 regole dell’esperanto, da studiare per quanto elementare possa essere, l’europanto, nelle intenzioni del suo ideatore, Diego Marani, si imparerebbe senza alcun bisogno di norme: è sufficiente masticare un po’ d’inglese e mescolarlo a qualche tratto morfo-lessicale proveniente da almeno altre due lingue europee e il resto, secondo il suo ottimista creatore, viene da sé. C’è anche chi, a rispondere perfettamente allo scopo di contrastare l’inglese veicolare globale, pensa sia addirittura il latino. Secondo Mario Gabriele Giordano, che ha affrontato l’argomento sulla terza pagina dell’“Osservatore Romano” del 12 agosto 2006 (La questione del latino), dovrebbe essere l’antica lingua di Roma a farsi carico di rimpiazzarlo nel contesto delle relazioni politico-diploma27
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LA BELLA LINGUA
L’VIII settimana della lingua italiana nel mondo svoltasi nell’ottobre del 2008 ha avuto come tema “l’italiano in piazza”. Come si legge negli annunci ufficiali, si è trattato di “un itinerario virtuale attraverso le città più importanti d’Italia per raccontare la storia linguistica e culturale del nostro Paese”. Secondo il testo illustrativo elaborato dall’Accademia delle Crusca le piazze, disertate dai politici, che preferiscono la TV, sarebbero state riconquistate dal popolo o dalla gente che dir si voglia. Ed è chiaro il riferimento alle kermesse dei cantanti, nelle cui “parole” non pochi linguisti ravvisano il divenire della nostra lingua. Ma oggi la pop music si esprime preferibilmente in inglese e pensare di diffondere la nostra lingua attraverso la musica leggera è poco meno che utopistico. D’altra parte il linguaggio dei parolieri è conciato piuttosto male, checché se ne dica. Ed è una duplice disgrazia, perché la fama di cui gode l’italiano all’estero dipende anche, in misura non trascurabile, dal suo tradizionale connubio con la musica. Nel Settecento la nostra lingua, rappresentata dalle ariette del Metastasio, fu usata
persino da Mozart, e Rousseau la considerava “la più adatta alla musica”, un modello di cantabilità. Basta ricordare la celebre strofa: “Se a ciascun l’interno affanno/si leggesse in fronte scritto/ quanti mai che invidia fanno/ci farebbero pietà.” Nell’Ottocento l’italiano fu la lingua dell’opera, imparata fino ad oggi dai cantanti lirici di tutto il mondo, che ne hanno perpetuato la fama di lingua armoniosa, musicale. Ancora oggi Kenneth Katzner, autore di The Languages of the World, parlando della “qualità dolce e musicale” posseduta dal malgascio (Madagascar), non trova altro termine di paragone che l’italiano. Strano a dirsi, i dotti di casa nostra hanno sempre snobbato questa “communis opinio”, considerandola “impressionistica”, letteraria e scientificamente poco fondata. Perciò non ne fanno mai menzione, pur sapendo che sarebbe facilmente recepita fuori d’Italia. Basta guardare i temi delle precedenti edizioni della “Settimana”: il cibo e le feste (2006), il mare, ecc. Eppure la “musicalità della lingua italiana” (Mario Campana, 1934) fu riconosciuta non soltanto in passato, ma anche in tempi recenti e da un lin33
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L’ITALIANO IN EUROPA
L’anno 2008 si è chiuso con la ribadita volontà da parte dell’Unione Europea di escludere l’italiano dalle cosiddette lingue di lavoro. La cosa non è andata a genio a Berlusconi, che ha invitato i nostri rappresentanti al Parlamento europeo a boicottare le riunioni se i documenti non sono disponibili in italiano e a considerare la possibilità di disertarle se si è costretti a parlare in un’altra lingua. La presa di posizione del Presidente italiano è stata stigmatizzata da alcuni giornali britannici, che naturalmente hanno parlato di nazionalismo, alimentando polemiche nazionali e internazionali non ancora sopite. È quindi il caso di soffermarsi sulla questione, emblematica delle condizioni in cui versa la nostra lingua. In base alle decisioni assunte tutti i documenti della UE verranno redatti solo in inglese, francese e tedesco: ciò che ribadisce ed amplifica l’egemonia esercitata in seno all’Europa da quelle nazioni. I grandi esclusi sono da un lato l’italiano e dall’altro lo spagnolo che in quanto a diffusione è secondo solo all’inglese e ne minaccia la supremazia perfino in alcuni stati americani. L’importanza di una lingua non è data soltanto dal prestigio politico della na36
zione che la parla, ma anche da ciò che rappresenta o ha rappresentato culturalmente. I Romani conquistarono la Grecia, ma il greco fu studiato e parlato dagli stessi Romani. L’italiano è alla base della cultura moderna, nata con il Rinascimento, come è noto, e molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano (basta pensare alla musica la cui terminologia è tuttora italiana: andante, moderato, ecc.). Inoltre l’Italia non è certo l’ultima arrivata in seno alla UE: è stata socio fondatore della Comunità Europea, come allora si chiamava, ed alfiere, con la Germania, dell’europeismo. Infine, se si resta in ambito europeo, l’italiano ha un maggior numero di parlanti rispetto al francese e allo stesso inglese: ciò che non sembra secondario ai fini del suo uso come “lingua di lavoro”, senza contare che, grazie alla Chiesa cattolica, è anche una lingua internazionale. Per queste ragioni non si può non comprendere, e condividere, la presa di posizione del Presidente Berlusconi. Purtroppo la lingua è un po’ come l’aria: ci si accorge che non c’è quando viene a mancare. Il linguaggio è un organismo insieme biologico e culturale, come dice Talmy Givón, e ne sanno qual-
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IL NUOVO ANALFABETISMO
Secondo l’ultimo censimento Istat in Italia ci sono 6 milioni di analfabeti (12 italiani su 100) e 20 milioni di persone (un italiano su tre) senza titolo di studio, o al massimo con la licenza elementare. Sono dati allarmanti che rivelano le fragili basi su cui è stata costruita la piramide istruzione, che da un lato ha visto il proliferare delle università sul territorio nazionale e dall’altro il declassamento dell’istruzione elementare e media. Si è dato per scontato che la scuola assolvesse pienamente alla sua funzione primaria: l’alfabetizzazione. Ma ciò è ben lontano dal vero e le conseguenze non si sono fatte attendere: l’università si è “licealizzata”, e si tratta solo di un eufemismo, perché il greco e il latino sono un ricordo dei nonni. Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione (Cede) un diciottenne su quattro è fuori della scuola. Ma anche quelli che seguitano a frequentarla non ne ricavano granché. Oggi gli esperti denunciano un fenomeno ben più grave del cosiddetto “analfabetismo di ritorno”: il semianalfabetismo giovanile, di cui l’Unla (Unione nazionale per la lotta 38
contro l’analfabetismo) ha rivelato la persistenza tra gli studenti universitari, che ignorano le doppie, scrivono “hanno” senza l’acca, non hanno confidenza con i pronomi, pensano che “massaia” sia “un ammasso di qualcosa” e, quel che ancora peggio, non sono in grado di fare un riassunto scritto. Mentre l’analfabetismo di ritorno, per quanto preoccupante, è limitato ad un certo numero di anziani vittime di una scolarizzazione insufficiente, il semianalfabetismo giovanile rischia di diventare un fenomeno diffuso, le cui origini non sono tanto oscure come si pensa. Nonostante le molte “riforme” della scuola, dagli anni ’70 in poi l’insegnamento della lingua nazionale è stato soggetto ai condizionamenti di una cultura che tollerava o addirittura nobilitava ogni arbitrarietà e sciatteria, ogni oltraggio alla chiarezza ed alla stessa comunicabilità. L’onda lunga di questo “laissez faire” non ha cessato di produrre i suoi effetti sulla scuola e l’analfabetizzazione di molti giovani non ne è che la conseguenza. “Per avere un quadro festoso e multicolore del degrado scolastico consiglierei ai responsabili
Intervista
UNA VALANGA DI LIBRI Conversazione con Ferruccio Parazzoli
Ferruccio Parazzoli, scrittore, due volte nella cinquina del Campiello e del Premio Strega, è consulente di Mondadori, di cui è stato capo ufficio stampa e direttore editoriale Oscar. È autore di numerosi romanzi: tra gli ultimi Nessuno muore (2001), MMRossa (2003), L’evacuazione (2005). Di lui Giuseppe Genna ha dato il seguente ritratto: “L’ho conosciuto anni fa, quando stava nell’area degli Oscar a Segrate (ci sta tuttora). Va detto che Ferruccio Parazzoli, per molti mondadoriani e per molti operatori dell’editoria italiana, è il Grande Vecchio, l’Eminenza Grigia, il Silenziosamente Imprescindibile. Conosco decine e decine di scrittori, insospettati e qui irrivelabili, che prima di pubblicare un libro mandano il manoscritto a Parazzoli, non lo inviano al loro editore se prima Parazzoli non l’ha letto e non ha detto loro cosa secondo lui va o non va. Per dire se una cosa va o non va, Parazzoli utilizza un verbo che è diventato lingua comune nell’editoria ita-
liana: ‘funziona’ o ‘non funziona’ (…)”. I profeti dell’elettronica hanno decretato più volte, come si sa, la fine della carta stampata. Ma il libro non è morto ed anzi prolifera. Si sèguita a dire che si legge poco, ma intanto ci troviamo di fronte ad un’inflazione libraria senza precedenti. In Italia si contano migliaia di editori. Come spieghi il fenomeno ? Quanti siano a leggere in Italia nessuno lo sa. Non tutti i libri che si comprano vengono letti. Anzi, secondo me, sono solo una piccola parte, e va bene così perché troppi libri vengono acquistati sulle chiacchiere dei rotocalchi e della televisione. Poi, si dimostrano come sono in realtà: deludenti. Ci sono libri, invece, che vengono passati di mano in mano, persone — e ne vedo non poche — che hanno il prestito presso biblioteche centrali e rionali. Insomma, leggono tutti quelli che 41
Dossier Borges
DA BUENOS AIRES A BABILONIA
Dino De Riseis
A più di vent’anni dalla morte Borges è lo scrittore di lingua spagnola più letto ed amato. In un recente sondaggio del quotidiano “El País” le “Finzioni” e “L’Aleph” vengono inclusi tra i libri “imprescindibili” e nelle preferenze dei lettori Borges supera di gran lunga i tanti strombazzati García Márquez e Vargas Llosa. A testimoniare una fortuna che non è mai venuta meno sono di questi giorni “La mirada de Borges” di Solange Fernández Ordoñez, definita come una “biografia sentimentale”, e l’“Enciclopedía Borges” di Marcela Croce e Gastón Sebastián Gallo, utile strumento per orientarsi nella copiosa produzione borgesiana. In Europa Borges è trattato come un classico: i suoi libri vengono costantemente ripubblicati e da noi Adelphi ha rimesso in circolazione parecchi titoli, alcuni dei quali mai tradotti in italiano, come il giovanile “La misura della mia speranza”. Pochi scrittori ispanoamericani hanno avuto in Europa una tale celebrità, tanto più significativa in quanto l’affermazione dello scrittore argentino al di fuori della madrepatria non fu pilotata, come per 45
Dossier Borges
BORGES E L’INFAMIA
«Ho abusato di procedimenti cinematografici condensando in due o tre scene la vita di un uomo»: così Borges commentava i suoi primi racconti, Storia universale dell’infamia (1935): «esercizi» narrativi nati sotto il segno di una duplice influenza: il cinema (Borges stimava in particolare Joseph von Sternberg) e la poesia municipale di Evaristo Carriego, dedicata al suburbio di Buenos Aires, dove prosperava una delinquenza autoctona: i guappi di quartiere o compadritos. Uno di questi racconti, «El hombre de la esquina rosada», è anche il primo in senso assoluto, e quello a cui Borges è rimasto più affezionato, tanto da includerlo in tutte le edizioni della sua «antologia personale». La storia (narrata in prima persona) gli era stata raccontata da un guappo di quartiere, un fuorilegge, e questa “oralità” si riflette in un linguaggio saturo di “argentinismi”, termini gergali ed espressioni colloquiali «avrebbe dovuto vederla, signore» oppure «proprio a me parlarmi di quel tipo» ecc. Il racconto è scritto come una sceneggiatura e fu poi trasformato in un vero soggetto cinematografico. Un guappo, Francisco Real, fa la sua apparizione in un locale di periferia, tratta con arroganza i presenti e sfida a duello il bullo del luogo, Rosendo. Contrariamente ad ogni aspettativa, questi non raccoglie la provocazione. Invano la sua donna, la Lujanera, gli toglie il coltello dal taschino del gilet e glielo mette in mano. Rosendo lo guarda, «come se non lo riconoscesse» e lo getta dalla finestra. Non dice una parola, ma è chiaro il suo rifiuto di battersi. Real lo insulta, ma la Lujanera lo allontana da Rosendo che ormai tutti considerano un vigliacco. Real balla con la donna e poi esce con lei. A questo punto il guappo che racconta la storia, rosso dalla vergogna per le umiliazioni subite dal «quartiere», esce dal locale. Poco dopo (la scena non è cambiata) rientra Francisco Real ferito mortalmente. Real muore nel locale, dopo essersi fatto 50
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TRE INEDITI
Altra versione di Faust In quegli anni i fratelli Podestà percorrevano la provincia di Buenos Aires rappresentando commedie gauchesche. In quasi tutti i paesi la prima rappresentazione era Juan Moreira, ma, arrivati a San Nicola, ritennero di buon gusto annunciare Formica Nera. Inutile ricordare che l’eponimo era stato da giovane il più famoso bandito dei dintorni. Alla vigilia della rappresentazione un individuo piuttosto basso e avanti negli anni, vestito in modo povero, ma pulito, si presentò alla tenda. “Vanno dicendo, disse, che domenica uno di voi comparirà davanti a tutta la gente e dirà di essere Formica Nera. Vi avverto che non ingannerete nessuno, perché Formica Nera sono io e tutti mi conoscono” I fratelli Podestà lo trattarono con quella deferenza tutta loro e cercarono di fargli comprendere che la commedia in questione rappre-
Rappresentazione di Juan Moreira dei Podestá 53
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ANTOLOGIA “Giudico la letteratura in modo edonistico. Vale a dire, giudico la letteratura secondo il piacere o l’emozione che mi dà”.
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L’ozio dello scrittore L’opera di uno scrittore è fatta di ozi. Il lavoro fondamentale dello scrittore consiste nel distrarsi, nel pensare ad altre cose, nel fantasticare, nel non affrettarsi a dormire ma nell’immaginare qualcosa... E poi viene l’esecuzione, che è già mestiere. Cioè a dire, non credo che le due cose siano incompatibili. Inoltre, credo che quando uno stia scrivendo qualcosa di più o meno buono, non lo senta come un lavoro, ma come una distrazione. Una distrazione che non esclude l’intelligenza, come non la escludono gli scacchi, che mi piacciono molto ed ai quali mi piacerebbe saper giocare — sono sempre stato un pessimo scacchista. Racconto contro romanzo “Non ho mai pensato di scrivere romanzi. Credo che se cominciassi a scrivere un romanzo, mi renderei conto che si tratta di una sciocchezza e non lo porterei a termine. Probabilmente questa è un’invenzione della mia pigrizia. Ma credo che Conrad e Kipling abbiano dimostrato che un racconto breve — non troppo breve —, quello che potremmo chiamare long short story, possa contenere tutto quello che contiene un romanzo, con meno fatica per il lettore. Nel caso di uno dei maggiori — secondo me — romanzi del mondo, il Chisciotte, credo che un lettore potrebbe prescindere benissimo dalla prima parte ed attenersi alla seconda senza perdere niente, giacché lì troverebbe tutto. Juan Ramón Jiménez ha detto di poter immaginare un Chisciotte uguale nella sostanza, ma con episodi diversi, giacché gli episodi non sono altro che modi per rivelarci il carattere del protagonista o, forse, dei due protagonisti. In an almost anonymus style La verità è che per arrivare a scrivere in un modo più o meno elegante, in un modo più o meno decente, sono dovuto arrivare a settanta anni. Ci fu un periodo in cui volevo scrivere in spagnolo antico; poi volli scrivere alla maniera di quegli scrittori del XVII secolo che, a loro volta, volevano scrivere come Seneca — uno spagnolo di tipo latino —; e poi pensai che avevo il dovere di essere argentino. Allora acquistai un dizionario di argentinismi, mi dedicai ad essere creolo in modo professionale, fino a tal punto che mia madre 57
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RICORDO DI LUCIANO ANCESCHI
Lucio D’Arcangelo
Un tempo la critica militante era rappresentata da letterati come Pietro Pancrazi e Enrico Falqui o da scrittori del calibro di Emilio Cecchi. Oggi viene esercitata da giornalisti che frequentano i premi letterari (diventati come i diplomi da cavaliere), o da scrittori di dubbio valore, che scrivono pro domo sua, mentre la critica accademica, sempre più chiusa nel proprio recinto, non ha lettori, anche perché spesso è illeggibile. È una situazione asfittica, da cui sembra difficile uscire. Le polemiche che ogni tanto si accendono sui quotidiani non aprono spiragli, ed anzi fanno l’effetto di discussioni in famiglia, in cui si parla di tutto un po’. Così il comune lettore finisce per avere l’impressione che in Italia la critica letteraria o non esista o sia recens nata. Ci sono alcuni nomi, sempre gli stessi, (per lo più viventi) a cui bisogna fare obbligatoriamente riferimento, mentre i maestri del nostro più recente passato è come se non fossero mai esistiti. Uno dei di-
menticati è proprio uno dei più autorevoli in materia, Luciano Anceschi, scomparso quasi alla chetichella nel 1995. Ordinario di Estetica all’Università di Bologna, fu tra i primi ad abbattere gli steccati che dividevano negli anni ’60 la critica accademica da quella militante, patrocinando le nuove generazioni di poeti: la “linea lombarda”, i Novissimi. Ma non è solo per questo che bisogna ricordarlo. Mai come con Anceschi la critica fu un esercizio del pensiero: un pensiero autenticamente “fenomenologico”, capace 63
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REINVENTARE IL MONDO
Giuseppe Conte
Per una curiosa coincidenza, il primo volume delle Opere di Foscolo, che comprende le poesie e le tragedie, è uscito per le edizioni Einaudi-Gallimard pressoché contemporaneamente all’occupazione di Santa Croce da me promessa e culminata nella recita rituale dei Sepolcri davanti alla tomba del loro autore. Chi cercherà le ragioni dell’attualità di Foscolo nell’introduzione a questo volume, dovuta a Franco Gavazzeni, rimarrà deluso; in compenso troverà una documentazione storico-filologica di prima qualità, e un ottimo apparato di note. In realtà, ciò che rende attuale Foscolo va al di là della sua stessa opera letteraria, e riguarda la sua idea del rapporto tra poesia e vita, tra poesia e mito e tra poesia e politica. La sua biografia è drammaticamente esemplare: tra Parini, che gode della tiepida protezione dell’abito talare, e Alfieri, Manzoni e Leopardi, che nascono aristocratici, Foscolo è un borghese sradicato e randagio, con la violenta, eccessiva, dissi66
pante avidità di esperienze dei borghesi quando non vogliono o non possono esserlo fino in fondo. Fa il giornalista, il professore — ma per pochissimo —, il traduttore, il polemista, il frequentatore di salotti mondani, il militare, il capitano napoleonico nell’esercito. E viaggia come sempre in fuga da qualcosa, come un cavallo, gioca e si getta a capofitto in continue, vorticose avventure d’amore. Qualcuno può restare perplesso leggendo nelle sue lettere gli assillanti riferimenti alle difficoltà finanziarie: ma Foscolo è capace soltanto di un uso poetico del denaro: come poi accadrà a Baudelaire, a D’Annunzio, altri grandi interpreti di una stretta connessione tra arte e vita. Anche le sue vicende d’amore, con la loro incalzante volubilità, possono destare qualche diffidenza: ma Foscolo è coerente con la propria ricerca dello Spirito dell’Amore, dello Spirito della Bellezza, che può brillare e incarnarsi in qualunque donna incontri. Unico tra i grandi poeti d’Italia conosce nei
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SAVINIO E GLI DÈI
Giulio Rasi
Considerato un “irregolare” delle nostre lettere, Alberto Savinio seguita ad essere uno scrittore misconosciuto o poco conosciuto, benché Adelphi ne abbia ripubblicato quasi integralmente l’opera (ultimi gli “Scritti dispersi”, 1943-1952). La critica, accademica e non, lo ha ignorato per molto tempo e solo recentemente, bontà sua, lo ha rivalutato, ma con quelle tortuosità interpetrative che la contraddistinguono ed a cui si aggiungono, nel caso specifico, imbarazzate censure sulla giovanile compromissione di Savinio con quel fascismo, che, come lasciò lucidamente annotato Roberto Bazlen, “è stato il tentativo di realizzare lo Stato del Sole quando ormai era diventato una espressione retorica”. Savinio fu certamente uno degli scrittori più originali di una stagione letteraria che coincise temporalmente con il ventennio e perciò stesso venne cancellata e messa da parte. Pittore e narratore, fu anche saggista di genio,
adepto di quella Nuova Scienza, che “fiorisce solo quando si esce dalla forma dommatica per entrare in una forma personale e critica”. Fu un profondo conoscitore del linguaggio e da artista studioso delle forme qual era, comprese perfettamente che l’imbarbarimento della lingua era tutt’uno con quello della cultura. Censurando “l’inelegante aggrovigliamento del discorso” in cui incorrevano certi intellettuali, scriveva nella “Nuova Enciclopedia”: “Quale fiducia avere nei pensieri e nei ragionamenti di uno scrittore che fa degli errori di grammatica? La correttezza della lingua è la prima qualità dello scrittore, specie dello scrittore che non scrive di cose narrative e di fantasia. Lo storico, il filosofo, il critico, hanno il dovere di essere corretti, chiari, precisi, e prima di tutto, grammaticatissimi.” I vizi della nostra cultura, o meglio del suo rumore di fondo, come diceva Karl Kraus, erano gli stessi di ora, e quella “lingua chiara e leggera” che Savinio auspicava, 69
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LIGHEA Un racconto fantastico mancato Marco Delleani
Paolo Corbera, siciliano, giornalista praticante presso “La Stampa” di Torino – siamo nel 1938 – è afflitto da una crisi di misantropia e per sfuggire alla propria solitudine diventa frequentatore abituale di un caffè di Via Po, dove incontra il “compaesano” Rosario La Ciura, senatore del regno e grecista insigne. L’uomo è piuttosto strambo e scontroso, ma Corbera finisce per conquistarne l’amicizia e con essa la confidenza, finché una sera il senatore, invitatolo a casa, gli svela il suo segreto più incomunicabile: un’incredibile storia d’amore vissuta da giovane con una Sirena incontrata nei mari di Sicilia all’epoca in cui si preparava al concorso per la cattedra di letteratura greca e si era ritirato con i suoi libri in una spiaggia del tutto deserta. Racconto nel racconto, è sinteticamente la struttura narrativa di Lighea, il più celebre dei quattro racconti scritti da Tomasi di Lampedusa negli ultimi anni della sua vita ed uscito postumo
da Feltrinelli nel 1961 tre anni dopo la morte. Considerato una specie di testamento spirituale dell’autore, Lighea ha conosciuto una fortuna fors’anche maggiore del Gattopardo. Ha avuto ben due versioni cinematografiche (una del 1983, filmTV, per la regia di Carlo Tuzii ed un’altra più recente — 2003 — diretta da Ruggero Cappuccio, intepreti
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LA VITA ALTROVE
Paolo Pinto
Capita talvolta — se ne ha l’avvertenza in genere quando si è un po’ avanti negli anni — di vivere una seconda vita. Quel che si credeva immutabile — la nostra vita, per l’appunto, il nostro modo d’essere, le nostre abitudini (i nostri riti quotidiani), i nostri amici — tutt’a un tratto viene meno, si dilegua, sparisce. C’era una volta... Normalmente questa seconda vita — ma spesso è una terza o una quarta vita — è più difficile della prima, perché si è meno giovani, si avverte più acutamente il senso della nostra precarietà, sopravviene fatalmente un po’ di malinconia. E poi il mondo ci appare, forse perché cambia la prospettiva, più crudele o addirittura inesorabile. Si decide allora, talvolta, di andare in esilio, di costruire un altro mondo intorno a noi, fatto a nostra immagine e somiglianza, che almeno ci dia, pur nel naufragio delle illusioni, qualche gratificazione personale. Qualcuno, in quest’ultima 76
stagione della vita, ha prodotto i frutti più belli. «Vennero poi l’estate, l’autunno e il tempo dell’inverno», fa dire Wagner a Hans Sachs, «e dolori e angustie nella vita, ed anche qualche gioia coniugale, battesimi, affari, liti, contrasti: eppure ci sono alcuni che ancora vogliono riuscire a cantare un bel canto. Ecco: questi si chiamano Maestri!» L’esilio, ora scelto, ora subìto, appare comunque un doloroso privilegio degli spiriti superiori. Ai mediocri è concessa una lunga vita, felice e inconsapevole, ma non una seconda vita, una terza.... Coloro cui è toccato in sorte questo destino, e che hanno avuto consapevolezza di una simile, per certi versi estrema, esperienza di vita, hanno reagito naturalmente nei modi più diversi. In tutti c’è stata la sensazione di una perdita irreparabile, ma anche di una conquista esaltante: una nuova attitudine dello spirito, la percezione di una diversità interiore rispetto a ciò che si era un tempo.
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FRANCESCO PETRARCA PEREGRINUS UBIQUE
Paolo Pinto
«Quello che amavo oramai più non amo; mentisco: amo ancora, ma con più temperanza; ecco ho mentito di nuovo: amo ancora, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente, questo è il vero. È proprio così, amo, ma quello che vorrei non amare, quello che vorrei odiare; amo tuttavia, ma nolente, a forza, con mestizia e con pianto». Così scriveva Francesco Petrarca nella celeberrima “Lettera dal monte Ventoux”, del 1336. Il poeta aveva allora 32 anni, e aveva fatto già le scelte fondamentali della propria vita, quelle che pur tra infinite lacerazioni e tormenti non rinnegherà mai: la scelta di dare voce – una voce dolce, malinconica, intensa, passionale, colta – ai moti più segreti e più autentici dell’animo umano; quella, non meno impegnativa, di studiare gli antichi, senza disdegnare i moderni che fossero meritevoli, per perseguire un ideale di saggezza, che si traducesse infine, col conforto dei principî cristiani, in un itinera78
rio di salvazione. Ma Petrarca, per quanto le sue idee e i suoi propositi fossero chiari, mostrava uno spirito irrequieto, segnato da profonde e forse insanabili contraddizioni. E sempre sarà così, in tutti gli accadimenti della vita, in tutte le dispute intellettuali combattute con se stesso o con i grandi spiriti del passato. Abbiamo quindi un Petrarca che è per antonomasia, con il suo Canzoniere, il poeta dell’educazione sentimentale; e un altro, l’umanista, autore di opere latine di filosofia morale, scritte sull’esempio di Seneca, di Cicerone e di Agostino, che riflette sulla fragilità della condizione umana, sull’illusorietà dei beni materiali, e s’interroga sui modi più adeguati per attingere la virtù. Il peccatore e il penitente, il laico e il mistico; l’uomo avido di onori e di gloria, che ama rinchiudersi però nella solitudine di un eremo, sia esso Valchiusa o Arquà; il poeta dell’amore, che dialoga però con la morte; il creatore di una
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FELICITÀ DI KATHERINE MANSFIELD*
Monica Farnetti
“Non svolazzano mai qua e là, le stelle?”. “Sì, ma non si vede”. Katherine Mansfield
Felicità come sappiamo è il promettente titolo di un racconto del 1920 di Katherine Mansfield, che assieme a Preludio (del 1918) e alla raccolta d’esordio In una pensione tedesca (del 1911) le valse l’attenzione e l’ammirazione dei contemporanei, e in particolare di quell’una e fatale fra tutti che risponde al nome di Virginia Woolf. Ma felicità è senz’altro anche il modo di riassumere in una parola tutta la letteratura della Mansfield, perché nomina efficacemente l’intuizione sulla quale si è costruita e si regge la sua magnifica collezione di racconti. Tracce di quella “felicità”, infatti, sono reperibili pressoché in ognuno dei testi della scrittrice; sulla sua ricerca, manifestazione ed espressione si sostiene la scrittura stessa di lei; si tratta di qualcosa di così splendente da illuminare per contagio, come vedremo, anche scritture contigue; e laddove essa si fa spazio in modo più vivido ecco che questo coincide coi racconti più noti e più amati di lei. Ma cos’è in Katherine Mansfield felicità? Per provare a rispondere, cominciamo ad ascoltare la sua voce. Che farci se avete trent’anni e, svoltando l’angolo della vostra strada, vi sentite sopraffatta d’improvviso da un senso di felicità — una felicità assoluta — come aveste inghiottito un frammento lumi* Il saggio è tratto dal volume Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, La Tartaruga – Baldini Castoldi Dalai 2008, per gentile concessione dell’editore. 84
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Canto mattutino
Dorati uccelli dall’acuta voce, liberi per il bosco solitario in cima ai rami di pino confusamente si lamentano: e chi comincia, chi indugia, chi lancia il suo richiamo verso i monti: e l’eco che non tace, amica dei deserti, lo ripete dal fondo delle valli. Anonimo greco Traduzione di Salvatore Quasimodo
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Attoniti, dai nidi
Attoniti, dai nidi nuovi sui vecchi tetti guardano gli augelletti, mettendo acuti gridi, cadere l’invocata pioggia di mezzo aprile; Tu dietro la vetrata de la finestra bassa come lor guardi e ridi. Ăˆ nuvola che passa Luigi Pirandello (1867-1936)
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Camminiamo nel vivido bagliore
Camminiamo nel vivido bagliore dei faggi in riga verso il limitare: dai cancelli guardiamo alla campagna un’altra volta il mandorlo nel fiore. Il ricordo ai riposi ci accompagna, che voce estranea mai venne a turbare: e nei sogni s’allacciano le braccia e a lungo il lume tenero ci appaga. Grati su noi sentiamo qualche traccia gocciar di raggi i vertici frementi: volgiamo il capo ad ora ad ora intenti quando un frutto maturo al suolo cada. Stefan George (1868-1933)
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Vana allucinazione del pensiero!
Vana allucinazione del pensiero! I sogni non se ne vanno per una strada, diventano vecchi e impallidiscono o si mettono a volare - nel crepuscolo sulle limpide ali della musica o sulle ali leggere dei versi. Porfirio Barba-Jacob (1883-1942)
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La bufera che sgronda sulle foglie
La bufera che sgronda sulle foglie dure della magnolia i lunghi tuoni marzolini e la grandine, (i suoni di cristallo nel tuo nido notturno ti sorprendono, dell’oro che s’è spento sui mogani, sul taglio dei libri rilegati, brucia ancora una grana di zucchero nel guscio delle tue palpebre) Eugenio Montale (1896-1981)
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Ombra di primavera
S’alzano i venti d’aprile e le sferze dei salici frustano il verde nella luce tersa. Il sogno elude al risveglio la punta delle dita. Percuote la vetrata della colazione e sfolgora bianco come un arco di mercurio il sole sull’argenteria. Una portiera sbatte. Mordono oggi le mosche maggioline. Odor di serenelle su marosi d’aria penetra nella stanza del bambino. Affligge l’uomo dei suoi ricordi nella sedia di ferro Robin il Pettirosso. Una ragazza vestita d’azzurro marezzato, pensa, e schiva che studiava sull’erba del giardino, voltò una gran pagina di sole e foglie nuove, chiudendo il libro. Ora potete andare, il Maestro sembrò dire. Ed egli era un somaro. Ora, purtroppo, tutti i gessi colorati si spezzano, e tutti i narcisi sbocciano neri all’improvviso. Robert Lowell (1917-1977)
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Divagamento
Autunno se n’è andato e con esso il sole addio profumi dove tutto è chiaro addio vivo argento dei cieli! intorno niente che ti possa attrarre anche le rondini in grande confusione hanno preso la lunga via del mare La nuca è stanca rimugini un pensiero: come una parola malposta uccida il verso; non usa la poesia le stesse parole della prosa? «lo stesso sangue nelle vene di entrambe» * Altro il valore l’ordine dei suoni poesia non sta solo nel testo è nel suo agire rivela l’inespresso, dava forma alle visioni alle voci degli dèi: un’idea si fa corpo, impulso delle dita? contatti di neuroni? apre il cammino né sappiamo dove quando arriveremo... del resto nessuna imposizione il mondo in una mano tu prima l’hai mai visto? Nelo Risi (1920)
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Wordsworth.
Narrativa
RACCONTO FRA LE RIGHE
Marco Delleani
Purple-plumed, the nesting twilight covers All their golden windows. One last gleam Shows me tranquil gardens, where go lovers With eyes adream. Robin Hyde
Incontrai Germana ad una festa, e mi attirò subito senza che potessi resistere al fascino che emanava dalla sua figura. Era seduta e fumava con quella sprezzatura che dimostra un dominio perfetto delle proprie emozioni. Sembrava assorta ad ascoltare l’orchestrina che suonava The Windmills of your mind ed io per un attimo mi persi nella profondità di quegli occhi. Fu come se guardandola recuperassi dei sogni che mi ero buttato alle spalle, e l’estro di una vita perfetta si riaccese nella mia mente. Ad un tratto qualcuno le buttò sulle spalle nude uno scialle nero, e lei parlò. Notai che aveva una “r” leggermente sbilanciata e quindi più “evidente” rispetto alle altre consonanti: il che aggiungeva vaghezza alla sua voce. La sua persona, flessuosa ma dignitosa, aveva quell’aria perfettamente borghese che mi ha sempre affascinato. Non fummo presentati, ma da quel momento fu come se ci conoscessimo. Una mattina mi trovai, non so come, a Mattinata e improvvisamente, mentre camminavo, vidi Germana a pochi passi da me, ferma davanti ad un negozio. Si voltò e quando mi fu di fronte, mi parve, come dice il poeta, che portasse “la mattina nelle mani”. La salutai e lei sorrise senza mostrare nessuna emozione o meraviglia. Mi misi a camminare al suo fianco e lei con tutta naturalezza mi prese il braccio: a volte mi si stringeva un po’ di più ed io sentivo la vicinanza di quel corpo come un’intimità 101
Narrativa
QUATTRO RIGHE, MA BUONISTE
Renato Besana
Il dottor Mario Comini ne aveva parlato con l’amministratore, poi con la portinaia che gli aveva detto, alla fine della sua spiegazione: “Mi faccia un bel cartello, con su scritto che l’acqua sarà chiusa dalle ore tot alle ore tot del giorno tale. Io glielo appendo qui, sul vetro della guardiola, così lo vedono tutti”. L’idraulico gli aveva assicurato che un ora e mezza di lavoro sarebbe stata sufficiente, non era una riparazione complessa, ma occorreva sostituire il rubinetto che regolava l’afflusso dell’acqua dall’impianto generale al suo appartamento; altrimenti nessuno avrebbe fermata quella goccia insistente, tenuta a bada alla meglio con vecchi giornali e stracci. Approfittando di un’impercettibile pendenza del pavimento, il rivolo aveva superato la portafinestra e raggiunto il balconcino sul cortile, sgocciolando sulla terrazza al piano di sotto; e non sarebbe stato granché, se una crepa nel rivestimento, aperta dalle gelate di fine dicembre, non avesse convogliato l’acqua sul mezzanino delle scale di servizio: di qui, gradino dopo gradino, era scesa fin nell’androne. Quella che ora appariva come una macchia d’umidità avrebbe potuto dilatarsi in pozzanghera. Bisognava intervenire per evitare guai maggiori e per restituire dignità alla sua vita quotidiana. Provassero, quelli che vagheggiavano il buon tempo antico a vivere come accadeva a lui da una settimana buona; con l’acqua corrente a intermittenza, com’era costretto a fare per non sovraccaricare il rubinetto a guasto. Anche i gesti più semplici, lavarsi i denti per esempio, erano diventati difficili e scomodi: figuriamoci con il pozzo nel cortile. Deciso a porre fine al suo forzato campeggio domestico, Mario Comini si pose davanti al computer. Un cartello, che ci voleva? Attese con impazienza che si avviasse il programma di scrittura, ma quando la barra degli strumenti ebbe finito di disporsi lungo il bordo superiore dello schermo, si accorse della prima difficoltà. Stava per scrivere: “Si avvertono i signori condomini”, ma colse la sfumatura ne104
Narrativa
LA SIGARETTA
Rolando D’Alonzo
Plus significas quam loqueris Seneca
A pochi passi da lui sedeva, proprio ai bordi della piscina, Lucio Anneo. E fumava beatamente sulla poltrona di tela bianca, lo sguardo fisso sulla testolina bruna che emergeva a tratti regolari dall’acqua, in una corolla effimera di spruzzi e poi subito si immergeva e spariva. Istintivamente si stropicciò gli occhi, più volte. Anche il Maestro, adesso! Un fastidioso prurito gli si spandeva su per il naso e per la gola. Accidenti! Estrasse dalla tasca il piccolo nebulizzatore e schizzò due dosi di prodotto per narice. Poi si poggiò una mano sul viso, a chiudere con il sipario tiepido della carne la visione di un mondo estraneo, lontano, eppure vicino, molto vicino al suo spirito e più attraente. Cadde in un temporaneo, profondo torpore. Non udì più voci, rumori, né percepì accanto al braccio il fruscio della brezza che faceva fare flop flop al tendone del riparo. Quando si destò e la vide, il Maestro non c’era più: vuota la sdraio, deserte la piattaforma e la passeggiata del ponte laterale. Ed ecco che lei, agile e leggera, risalì il bordo della piscina, si avvolse nell’accappatoio e si accomodò soddisfatta sul materassino. Era il crepuscolo, una luce dorata attraversava l’aria, proiettando lunghe ombre sulle paratìe, sulle scale, sul corrimano. Lei aprì un pacchetto di sigarette e ne mise una tra le labbra. Quindi frugò nella borsetta, con insistenza. I suoi capelli scuri grondavano rivoletti argentei lungo il collo, ma lei non se ne diede cura. I riflessi del sole basso sull’orizzonte incendiavano le minuscole perle liquide che le ornavano la fronte, le ciglia, le gote, le orecchie. Egli la osservava da quel remoto banchetto di poppa, dove s’era 109
Linguistica
LA FORESTA DI SUONI
Lucio D’Arcangelo
La facoltà della parola è prerogativa di tutti gli uomini senza distinzione. Ma la diversità delle lingue è nata, si può dire, con l’uomo stesso o, se vogliamo, con la sua diversificazione genetica, se proprio non vogliamo parlare di razze. Lo strumento del linguaggio, ossia il tratto vocale, è stato paragonato ad un oboe e l’alfabeto ad una scala musicale, formata da suoni fondamentali che, contrastando fra loro, permettono di differenziare le parole: ad esempio la P di pollo e la B di bollo, la I di bit e quella di beat, la Z di caza (“caccia”) e la S di casa in spagnolo, ecc. Ma questi suoni, come si vede, variano da lingua a lingua. Non è diversa solo la musica, sono diverse anche le note. Ci sono limiti a questa variabilità? Quali e quanti sono i suoni effettivamente utilizzati dal linguaggio? Fino a tempi recenti (1984) solo risposte teoriche, anche perché un censimento fonetico delle lingue del mondo sembrava impossibile. Ma due noti linguisti americani, Ian Maddieson e Peter
Ladefoged, non si diedero per vinti e, affidandosi a metodi statistici, isolarono un campione di 451 lingue geneticamente o geograficamente “rappresentative”, ricavandone un repertorio fonetico virtualmente “globale” (Ucla Phonetic Segment Inventory Database). Questa enciclopedia sonora, unica nel suo genere, è stata tenuta in costante aggiornamento fino ad oggi. L’archivio delle registrazioni effettuate si è sempre più ampliato fino a contenere un numero impressionante di lingue: soltanto nel 2008 ne sono state aggiunte un centinaio. Dopo la morte di uno dei creatori dell’UPSID, il noto linguista Peter Ladefoged (2006), autore 113
Linguistica
TRADURRE O NON TRADURRE
Armando Francesconi
Non sarebbe difficile ripescare negli scrittori preromantici ed anche in quelli classici brani o spunti riguardanti la traduzione. Ma è con il movimento romantico tedesco che il tradurre, inteso come il verdeutschen (“germanizzare”) di Lutero, viene messo al centro della cultura. Gli studi linguistici di Wilhem von Humboldt ebbero a questo riguardo un ruolo decisivo. Rifiutando la concezione razionalistica, illuministica, del linguaggio, Humboldt ravvisa nelle lingue dei modi di vedere, e di immaginare, il mondo. La parola non è un semplice segno che rimanda ad un concetto preesistente. Il linguaggio “(...) ist das bildende Organ des Gedankens”, e sembra la riscoperta di quel rapporto organico tra sermo e animus già indicato dal Petrarca. Ma con Humboldt è la lingua a condizionare il pensiero. La “forma interna” (innere Sprachform) propria di ogni lingua è tutt’uno con la Weltansicht dei parlanti. Da questo punto di vista la traduzione non sta lì a 118
provare l’identità ultima degli uomini, e dei popoli, ma la loro irriducibile differenza. Tuttavia l’esercizio traduttivo può diventare un veicolo di contatto fra le culture. Gli studi filologici, etnografici e linguistici che fioriscono con il Romanticismo hanno fondamentalmente lo stesso scopo: far conoscere il diverso. Ma come tradurre nel modo più adeguato? Per Schleiermacher le alternative sono due: «O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore». Il metodo preferito è quello “estraniante” (il lettore avvicinato il più possibile all’originale), che fa sentire il carattere nazionale del testo tradotto: ciò che Hölderlin chiama “la prova dello straniero”. Per Goethe il processo traduttivo deve essere graduale: dalla traduzione “prosaica” si passa a quella “parodica”, semplice surrogato dell’originale, e
Europa e oltre
TURANISMO E PANTURANISMO Alla base del mito della “Grande Turchia” Alberto Rosselli
In epoca contemporanea, il termine Turan — antico nome con il quale i persiani chiamavano la regione asiatico-centrale, e da cui deriva turanismo e panturanismo — oltre che a designare peculiarità linguistiche ed etniche tipiche delle popolazioni stanziate in questa vasta area geografica, ha assunto non soltanto un significato etnico e culturale, ma anche “ideologico”. Nei testi sacri zoroastriani iraniani dell’Avesta, l’aggettivo turya fa riferimento agli avversari dello zoroastrismo, anche se apparentemente non esisterebbero marcate differenze etniche tra i turya e gli arya citati nelle suddette scritture. Alcuni linguisti fanno derivare Turan dalla radice indo-iraniana tura (forte, veloce), mentre altri la collegano all’antico termine iraniano tor (scuro, nero). La somiglianza tra le parole turya e türk viene considerata accidentale dalla maggioranza degli studiosi che dubitano circa il fatto che turya stia ad indicare, in epoca pre sassadine, 122
il popolo turco. Nel poema epico medio persiano Shahnameh, il termine turan (“terra dei Turya”, al pari di Eran, cioè Iran, “terra degli Arya”) fa riferimento ai popoli confinanti con la Persia orientale, cioè agli abitanti dell’impero kushano, entità statuale del IIII secolo d.C. i cui confini si estendevano dall’attuale Tagikistan al Mar Caspio, all’Afghanistan e alla valle del Gange. A partire dall’inizio del XX secolo, la parola Turan venne sempre più spesso utilizzata dagli occidentali e dai turchi per indicare genericamente l’area geografica corrispondente all’Asia Centrale. Gli etnologi e i linguisti europei dell’epoca romantica (in particolare quelli tedeschi, ungheresi e slovacchi) erano soliti utilizzare il termine turaniano per designare popolazioni che parlavano linguaggi uralo-altaici. Anche se, attualmente, questa accezione non viene ancora completamente condivisa dalla comunità accademica. Anche se a livello popolare è tut-
Europa e oltre
È ormai noto come tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso — in concomitanza con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, successivamente, nel contesto della rivolta antimoscovita cecena — la CIA abbia appoggiato in maniera decisa sia i movimenti musulmani panturanici sia quelli jihadisti. E come successivamente la politica filoturanica del presidente George Bush abbia contribuito a rafforzare i legami di amicizia tra Washington e le repubbliche centro-asiatiche, sia in funzione antirussa, sia, questa volta, in funzione antifondamentalista islamica. A questo proposito, gli americani — stando ai loro convincimenti — avrebbero scelto la car-
ta panturanica (e quindi filoturca) come mezzo per tentare di immunizzare una parte del mondo islamico dal “contagio” di AlQaida, impegnata nella lotta armata contro l’Occidente e i governi musulmani apparentemente o realmente filo occidentali (come quelli di Arabia Saudita, Pakistan, Egitto e Turchia). L’intento di Washington era quello di porre un argine (anche attraverso una politica filo panturanica e filo panturchista) ad un fenomeno politico-religioso che nella sua dimensione in quanto transnazionale sembra ormai avviato verso un’evoluzione globalizzatrice, coinvolgendo non tanto le istituzioni governative, ma soprattutto le masse diseredate del multiforme pianeta islam.
IL FILO D’ARIANNA Trimestrale di Cultura Supplemento a ABRUZZOpress n. 31 del 31 gennaio 2009 Registrazione al Tribunale di Chieti n. 1/1981 Direttore Responsabile: Marino Solfanelli Direzione, Redazione e Amministrazione: Via A. Aceto n. 18 - 66100 Chieti Tel. 0871 63210 - 0871 561806 - Fax 0871 404798 - Cell. 335 6499393 rivistailfilodarianna.blogspot.com - rivistailfilodarianna@yahoo.it Una copia Euro 8,00 - Quattro numeri Euro 30,00 Per acquisti o abbonamenti: versamento sul c.c. postale 68903921 oppure IBAN IT35 H076 0115 5000 0006 8903 921 intestati a Gruppo Editoriale Tabula Fati
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Edizioni Solfanelli
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IL FILO D’ARIANNA Trimestrale di Cultura
Alberto Rosselli
Giuseppe Brienza
LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA
L’OLOCAUSTO ARMENO
I GESUITI E LA RIVOLUZIONE
Breve storia di un massacro dimenticato Presentazione di Marco Cimmino
ITALIANA NEL 1848
Nel 1936 scoppiò in Spagna una sanguinosa guerra civile che costò al paese un milione circa di morti tra i quali diecimila religiosi, oltre a terribili distruzioni materiali. La maggior parte della storiografia ha sempre considerato questa guerra come il primo scontro tra fascismo e antifascismo, preludio della seconda guerra mondiale, trascurando la peculiarità della storia della Spagna dove, fin dall’epoca delle invasioni napoleoniche, vi fu una profonda e talvolta violenta contrapposizione fra il tradizionalismo, rappresentato soprattutto dalla Chiesa, e le correnti di pensiero illuministiche che iniziarono a diffondersi a partire dal XVIII secolo. La rivalutazione di documentazione comprovante la responsabilità della Massoneria spagnola in quei tragici eventi e spesso volutamente taciuta dalla storiografia ufficiale per opportunismo o altro, fa di questo saggio un libro che rompe con gli schemi acquisiti per offrire al lettore una più ampia comprensione dell’evento.
La persecuzione scatenata tra il 1915 e il 1918 dai turchi nei confron-ti della popolazione armena residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia panturchista e panturanista che stava alla base del sedicente partito “progressista” dei Giovani Turchi, ma che traeva le sue profonde origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrappo-sizioni tra la maggioranza musulmana turcocurda e la minoranza cristiana armena. [ISBN-88-89756-17-9] Pagg. 96 - 7,50
[ISBN-88-89756-18-7] Pagg. 160 - 10,00
Questo saggio offre uno scorcio chiarificatore sulla vicenda di molti religiosi della Compagnia di Gesù che, nell’Italia infiammata dalla Rivoluzione europea del 1848, furono messi al bando e costretti a defatiganti esili a causa dei moti risorgimentali dello stesso anno. Propellente ideologico innescato contro i Gesuiti furono soprattutto i corrosivi pamphlet di Vincenzo Gioberti, che li accusava di costituire “uno dei principali ostacoli al riscatto d’Italia”. Al contrario, furono invece per-seguitati e costretti a lasciare il paese insigni studiosi appartenenti alla Compagnia, molto apprezzati all’estero (dove poterono infatti trovare rifugio e continuare le loro attività), come i padri Francesco de Vico e Angelo Secchi considerati ancor oggi pionieri dell’astrofisica, i teologi Giovanni Perrone e Johann Baptist Franzelin, e infine il filosofo Luigi Taparelli d’Azeglio i cui studi sul diritto naturale e sui rapporti fra società civile e Stato (questi ultimi per molti aspetti anticipatori dell’attuale dibattito sul “principio di sussidiarietà”) rappresentano pietre miliari nel pensiero cattolico contemporaneo.
IL FILO D’ARIANNA
Benigno Roberto Mauriello
PER UNA POLITICA DELLA LINGUA CONVERSAZIONE CON
FERRUCCIO PARAZZOLI TRE INEDITI DI BORGES
[ISBN-88-89756-20-9] Pagg. 64 - 7,00
Edizioni Solfanelli
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Anno I - N. 1 - Gennaio Febbraio Marzo 2009 - € 8,00