Universitari per la Federazione europea
Auf Wiedersehen, Helmuth
So m m a r i o
pagina
pagina
Verso una difesa federale europea
Tre considerazioni (e mezza) sulle banche e l’Unione europea
pagina
pagina
4/5 6
8/9
10/11
Abbiamo bisogno di un Ppe europeista
pagina
7
“Noi vi vogliamo aiutare” Universitari per la Federazione europea
Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona Responsabile del gruppo studentesco: Marco Barbetta Direttore: Filippo Sartori
2 Eureka
Un miliardario, il Medio oriente e la dimenticata corsa agli armamenti Collaboratori: Gianluca Bonato, Davide Corraro, Andrea Golini, Umberto Marchi, Filippo Pasquali, Salvatore Romano, Andrea Zanolli Progetto grafico: Bruno Marchese Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona Tel./Fax 045 8032194 www.mfe.it gfe.verona@gmail.com
Universitari per la Federazione europea•Luglio 2017
di o Sal vatore Roman
H
Editoriale. L’Unione Europea non è una cagata pazzesca!
elmut Kohl è stato il cancelliere più longevo della Germania dai tempi di Bismarck. Dai tempi, cioè, di quel cancelliere che portò un piccolo stato, la Prussia, appartenente alla Confederazione germanica, organo sovranazionale comprendente un gran numero di stati più o meno grandi, a divenire il motore centrale nella spinta alla costruzione di uno Stato nazionale tedesco. Per far questo, Bismarck doveva svincolare il regno di Guglielmo I e gli altri staterelli della Confederazione da quella presenza ingombrante nell’area tedesca, rappresentata dall’Austria. Per convincere i timorosi alleati, era necessaria una prova di forza. E nessuno Stato poteva competere allora sullo scenario europeo con la Prussia in preparazione militare, allestimento di un esercito addestrato e possesso di avanzate armi belliche. Il successo contro l’Austria fu il coronamento della prassi politica di Bismarck, ispirata al sangue e al ferro. Un altro pericolo veniva però dalla sponda ovest, la Francia di Napoleone III, che vedeva con disappunto il rafforzamento di un nemico alle porte di casa. La vittoria contro la Francia e l’incoronazione di Guglielmo I nel gennaio 1871, nella reggia di Versailles, a imperatore del nuovo impero tedesco, segnavano contemporaneamente l’inizio dell’ascesa della potenza tedesca e dei primi rancori tra i due vicini. Essi si catalizzeranno nella prima guerra mondiale al fuoco dei fucili e delle prime armi moderne, le mitragliatrici, capaci di dare una morte meccanica, seriale, senza il fastidio di guardare negli occhi il nemico, abbandonandosi solamente al cieco furore del
meccanismo. Il mulino insanguinato di Verdun rappresentò uno dei punti del fronte occidentale in cui l’impiego di risorse belliche ed umane raggiunse il culmine. Luogo storico per la Francia (qui nel 843 fu stabilita la divisione del regno di Carlo Magno), era una postazione che non si voleva lasciare al nemico, e qui gravitò infatti, alternandosi in un girotondo infernale, la maggior parte dei contingenti francesi nel disperato sforzo della difesa. Per ricordare lo spargimento di sangue, le tante morti, nel 1984 il presidente francese Francois Mitterrand ed Helmut Kohl vi si recarono. Testimonianza resta una loro foto. Davanti ad una bara fasciata da una bandiera francese e tedesca, si tengono per mano. Kohl è stato il più longevo perché è rimasto al potere dal 1982 al 1998. Ha visto il crollo del muro di Berlino, ed ha spinto per la riunificazione della Germania. Ha teso la mano a Mitterrand, e si è adoperato per una maggiore integrazione europea, promuovendo in particolare l’introduzione di una moneta unica. A riconoscimento del suo impegno, lo scorso primo luglio si sono tenuti quelli che sono stati i primi funerali di stato europei, rispettando la sua volontà. La foto in copertina, il suo grigio sembra falsificare le distanze, distorcere gli anni che separano il presente da quel non lontano passato. Indurre lo spettatore a pensare una guerra europea oggi come un anacronismo. Proprio la trappola della sicurezza permette una babelica inquisizione sull’Europa, il suo significato e peso nel mondo oggi. È un silenzioso lasciapassare anche per i motteggi, più o meno sguaiati. È indifferente a tutti e a tutto. A volte, però, lascia trasparire anche sul volto del comico una smorfia non contenuta. Basta appena che l’ingranaggio della battuta s’inceppi per un attimo, come un singhiozzo trattenuto, un rutto ingoiato, e vendicativa gli si ritorce contro, in un contrappasso a lungo dilazionato: «L’Unione Europea non è una cagata pazzesca!». In copertina: sopra, immagine della commemorazione della morte di Helmuth Kohl, statista tedesco ed europeo, tenutasi al Parlamento europeo il primo luglio scorso; sotto, foto di François Mitterrand e Helmuth Kohl a Verdun nel 1984.
Luglio 2017•Universitari per la Federazione europea
Eureka 3
Verso una difesa federale europea di Andr Golini ea
L
’Unione Europea, ad oggi, non è nelle condizioni di affrontare le sfide globali in modo collettivo. Non vi è ancora un’idea condivisa per risolvere i problemi comuni che colpiscono il continente. La situazione nei fatti non è più sostenibile e le nazioni lo stanno capendo. Se non si trova presto un accordo, i problemi comuni verranno affrontati dai Paesi membri in modo autonomo, con la prospettiva di arrivare ad una definitiva rottura dell’Unione e al rafforzamento dell’egocentrismo nazionale. Dai mezzi a disposizione e a causa di strategie economiche di piccole dimensioni, ogni singola nazione non sarà mai in grado di affrontare le grandi crisi che stanno affliggendo l’Europa in questo periodo: si pensi all’instabilità del Medio-oriente e alle forti migrazioni provenienti dal Nordafrica. Queste nuove “minacce globali” costituiscono le attuali problematiche che possono mettere a rischio la sicurezza e la difesa dell’intera Unione europea. È quindi necessario istituire un organo europeo che si occupi principalmente della politica estera unica, per far fronte alle sfide attuali e a quelle che investiranno in un prossimo futuro l’intera Unione. Una politica estera unica è infatti necessaria, se non fondamentale, per la sicurezza e la difesa degli Stati dell’Unione ed è proprio su questo che si discute in Consiglio europeo e si valutano ipotesi per delineare un piano in grado di affrontare crisi e conflitti internazionali, perseguendo un maggior rafforzamento tra politiche interne ed estere degli Stati membri.
4 Eureka
Inoltre, nonostante esistano gruppi militari europei, ad es. Eurocorps, che collaborano in ambito internazionale, non è possibile impiegarli in modo versatile e soprattutto efficace nella difesa comune, proprio perché non c’è una politica estera condivisa che ne indichi ambiti e compiti. Un passo in avanti però sembra sia stato fatto: “L’UE rimane impegnata a favore del rafforzamento della sicurezza e della difesa”, ed è ciò che risulta dal piano discusso in Consiglio europeo nei mesi scorsi. In breve, è un progetto che prevede, attraverso vari step, il miglioramento delle strutture di gestione delle crisi della Politica di Sicurezza e Difesa Comune. Alcuni tra i più importanti passaggi sono: il rafforzamento della cooperazione con i paesi membri che hanno la capacità e l’intenzione di contribuire alle missioni e alle operazioni legate alla sicurezza e alla difesa europea; il potenziamento delle capacità a sostegno della sicurezza e dello sviluppo; lo sviluppo delle capacità civili e miglioramento della capacità di reazione della gestione civile delle crisi, e il potenziamento della reazione militare rapida, compresi i gruppi tattici dell’UE. A supporto di tali intenti c’è anche la proposta di intensificare la cooperazione tra l’Unione e la NATO, come dichiarato dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk insieme a Jean-Claude Junker, presidente della Commissione europea, in accordo con il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg. Pieno sostegno a tale prospettiva viene anche dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, che sottolinea come tale cooperazione debba diventare una consuetudine e non un’eccezione, affinché vi sia una concreta collaborazione in grado di far ottenere risultati migliori, come ad esempio nella condivisione delle informazioni, per le comunicazioni strategiche e per la cooperazione marittima. Nel piano rientra la Cooperazione Strutturata Permanente e la possibilità di una Revisione Coordinata Annuale sulla difesa su base volontaria, ossia un processo volto a offrire una panoramica migliore a livello UE della spesa per la difesa, degli investimenti nazionali e degli sforzi di ricerca a sostegno dell’industria europea e dell’innovazione tecnologica. Dopo anni di silenzio e inazione nel settembre del 2016, a seguito della riunione del Consiglio, i Ministri
Universitari per la Federazione europea•Luglio 2017
della difesa di Francia e Germania, Jean-Yves Le Drian e Ursula von der Leyden, hanno inviato all’Alto Rappresentante Federica Mogherini un nuovo documento congiunto, insistendo proprio sul ricorso alla Cooperazione Strutturata Permanente. Saranno Jean Ayrault e Frank-Walter Steinmeier, rispettivamente i Ministri degli esteri di Francia e Germania, i promotori della Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO - PErmanent Structured COoperation), che è contenuta nel rapporto sulla strategia globale dell’UE, ed è stata presentata dalla stessa Mogherini nel novembre 2016. Oggi, «il Consiglio accoglie con favore i progressi compiuti nell’ulteriore sviluppo di una Cooperazione Strutturata Permanente nel 2017, sulla base degli apporti forniti dagli Stati membri. Il Consiglio ribadisce che la PESCO dovrebbe essere aperta a tutti gli Stati membri che intendono sottoscrivere i necessari impegni vincolanti e che rispondono ai criteri, ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 6, e dell’articolo 46 del Trattato sull’Unione europea, nonché del protocollo 10 allegato ai trattati». Tale cooperazione permette di rafforzare la reciproca collaborazione tra gli Stati aderenti nel settore militare per la sicurezza e la difesa comune. La Cooperazione Strutturata Permanente sarà finanziata inizialmente con il “fondo iniziale” di cui all’art. 41.3 del Trattato sull’Unione europea, oppure con il bilancio europeo. Successivamente il finanziamento sarà coperto dal Fondo europeo per la difesa. A partire dal 2017 l’UE concederà, per la prima volta, sovvenzioni destinate alla ricerca collaborativa in tecnologie e prodotti per la difesa innovativi, interamente e direttamente finanziate dal bilancio dell’UE. I finanziamenti saranno di 90 milioni di euro stanziati fino alla fine del 2019, con 25 milioni di euro stanziati per il 2017. 500 milioni di euro l’anno dopo il 2020. Nel 2018 la Commissione proporrà un programma UE specifico di ricerca nel settore della difesa con una dotazione annua stimata di 500 milioni di
euro, che renderà l’UE uno dei maggiori investitori nella ricerca nel settore della difesa in Europa. Gli Stati membri possono ad esempio investire congiuntamente nello sviluppo della tecnologia dei droni o della comunicazione via satellite, o acquistare in blocco elicotteri per ridurre i costi. Il cofinanziamento offerto dall’UE sarà pari a una dotazione complessiva pari a 500 milioni di euro per il 2019 e il 2020 e di 1 miliardo di euro l’anno dopo il 2020. È quindi necessario che l’UE spenda congiuntamente le proprie risorse per migliorare la sicurezza e la difesa di tutti gli Stati membri, aumentando le risorse strategiche e militari, per riuscire in futuro a mantenere la stabilità globale e ad avere un’Unione europea forte, che protegge i suoi cittadini. I capi di Stato e di governo «hanno deciso di istituire le cooperazioni per la difesa: è un passo storico per l’Unione europea». Parole dell’ex premier polacco Donald Tusk il quale precisa che le cooperazioni permanenti «hanno l’ambizione di essere aperte a tutti». Un passo ambizioso facilitato dalla Brexit se pensiamo che negli ultimi decenni Londra ha sempre bloccato la collaborazione in campo militare. È stato facilitato anche dal mantra del neo-eletto presidente francese Macron «L’Europa che protegge», e grazie al sostegno di Angela Merkel che promuove il Fondo europeo perché può incidere positivamente sull’avanzamento di una collaborazione industriale europea. Anche per l’Italia è preferibile andare verso una Cooperazione Strutturata Permanente, perché la penisola è tra i paesi più esposti alle tensioni medio-orientali e africane, ed è importante che sappia portare avanti questo progetto in maniera attiva e concreta per poter contare su una futura buona politica estera comune e sul fondo europeo per la difesa. Di fatto la PESCO, a cui tutti gli Stati membri sono invitati a partecipare, può significare l’inizio concreto di una politica di difesa comune dell’intera Unione europea.
Luglio 2017•Universitari per la Federazione europea
Eureka 5
di lli And rea Zano
C
Abbiamo bisogno di un Ppe europeista
on questo breve pezzo vorrei concentrarmi su alcune particolarità del Partito Popolare Europeo (PPE), cioè il più votato partito transnazionale alle elezioni del 2014 per il Parlamento Europeo, che occupa tutte e tre le maggiori cariche dell’Unione Europea e che possiamo posizionare come schieramento di centro-destra. Il mio fine non è gettare fango sui popolari, magari a vantaggio di altri schieramenti, anzi vorrei propormi di evidenziare con un po’ di chiarezza qualche ambiguità dell’assetto interno di quello che è un partito di fondamentale importanza per il processo di integrazione europea, in ottica di una vocazione più chiara ed europeista. Per chi non lo sapesse, i partiti transnazionali sono composti dall’unione dei vari partiti nazionali presenti negli Stati dell’Unione Europea e si aggregano in base alla vicinanza di posizionamenti ideologici e di programma, occupando poi i seggi del Parlamento Europeo. Tuttavia, alle elezioni europee per comporre il Parlamento, i cittadini di ogni Stato trovano sulla scheda elettorale i simboli e i candidati dei partiti nazionali, cosicché i partiti transnazionali non finiscono mai davanti agli occhi dei cittadini europei comuni. Chiusa la parentesi, procediamo proponendo alcuni esempi. Una situazione clamorosamente diversa fra i vari partiti nazionali di questo schieramento si nota quando in Germania troviamo l’Unione Cristiano-Democratica di Merkel che si pone come possibile locomotiva trainante del processo di integrazione europea, mentre in Italia Forza Italia di Berlusconi vince le amministrative in diverse città alleandosi con Salvini e Meloni, eurofobi e neo-nazionalisti. Per fare un altro esempio, siamo costretti a disturbare ancora Frau Merkel, la quale accoglie un milione di immigrati nel solo 2016, mentre il Presidente ungherese Viktor Orbàn costruisce muri e blocca i flussi migratori. Se vogliamo concentrarci su qualche altro caso, prendiamo il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker che propone i primi storici funerali di Stato europei per l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, mentre il Presidente ungherese Orbàn chiude la Central European University di Budapest.
6 Eureka
Restando sul più influente partito italiano che aderisce al PPE, ossia Forza Italia, possiamo evidenziare come di questi tempi l’ambivalenza sull’idea di Europa sia decisamente netta. Infatti, a gennaio abbiamo assistito all’elezione di Antonio Tajani, europarlamentare di Forza Italia e del PPE, a Presidente del Parlamento Europeo, supportato alle tornate decisive soprattutto dal suo schieramento, ma anche dal gruppo dei liberali dell’ALDE guidati da Guy Verhofstadt, sicuramente fra i più vicini alle istanze federaliste nell’aula di Strasburgo. Da una prospettiva italiana, l’elezione di Tajani può essere vista come positiva, perché ci porta a pensare che in questo modo il suo partito nazionale sia, in un certo qual modo, vincolato alla proposta europea contro uno schieramento antieuropeista che altrimenti acquisirebbe un insostenibile peso. Ma queste aspettative sono celermente deluse. Così solo pochi mesi dopo, come scritto sopra, Berlusconi salda in moltissime città italiane alleanze con la Lega Nord e con Fratelli d’Italia. Ossia, i “forzisti” passano nel giro di cinque mesi da posizioni di spicco nelle istituzioni europee ad amicizie con personaggi che a Strasburgo volano solo per gonfiare il conto corrente e che poi atterrano nuovamente in Italia per evocare gli spettri del nazionalismo contro il mostro dell’Unione. Certo è che in questo schieramento c’è anche il peso del Partido Popular che governa in Spagna con Mariano Rajoy, il quale si dimostra spesso e volentieri favorevole all’integrazione europea. Oppure in Francia ci sono les Républicains e l’Unione per il Movimento Popolare Francese che hanno un’ideologia pressoché europeista e che collaborano positivamente nel Partito Popolare Europeo. In definitiva, quello che si vuole affermare è che il PPE dovrebbe esplicitare se è quello di Merkel, Juncker e Rajoy, oppure se è quello di Orbàn e Berlusconi, magari con la spinta da parte dei primi a un rinnovamento, quantomeno parziale, dei secondi. La svolta che si delineerà all’interno di questo partito potrebbe rivelarsi decisiva nel rafforzare lo schieramento europeista o quello antieuropeista. Insomma, si ritorna ancora una volta alla linea di demarcazione di cui scriveva Spinelli.
Universitari per la Federazione europea•Luglio 2017
“Noi vi vogliamo aiutare” di o Sal vatore Roman
«N
oi vi vogliamo aiutare, vi vogliamo aiutare» ripete categorico l’intervistatore al proprietario di un povero basso napoletano, che enuclea i suoi guai di fianco all’esponente di un comitato scientifico per la risoluzione dei problemi della città. Si tratta di un vecchio sketch comico del trio “La smorfia”, in cui le miserie del popolino sono rivisitate in una chiave grottesca, e ricondotte in una dimensione tragicomica. Ebbene, sentendo i discorsi dei candidati alle ormai passate comunali, dei leader dei maggiori partiti italiani, questo “vi vogliamo aiutare”, recitato come un mantra, sembra ormai incapsulato nelle loro parole. E più che suonare come un conforto, sembra pesare sulla testa dei cittadini come una nube minacciosa, una maledizione da cui non c’è scampo. Le settimane, i mesi pre-elezioni giustificano poi sempre il parossismo delle dichiarazioni, delle promesse di coloro che gareggiano e che sono preoccupati a lasciare il più indietro possibile il diretto avversario. Il paese rischia di trasformarsi, da qui a fine legislatura, in un’unica grande bolla piena di parole, promesse, e fiducia degli elettori in quella proposta o nell’altra. Con il rischio, perenne quando in gioco vi sono il benessere di pochi e la disperazione di molti, che la bolla poi esploda e che tutto quello che c’era dentro, nascosto o implicito, si riversi di fuori. Come fece la crisi finanziaria del 2008, portando alla luce del sole l’indigenza e la frustrazione dei più e dando così la stura a quei movimenti nel mondo che si possono definire e sono stati definiti anti-establishment. Tutte le possibilità inespresse, le svolte che possono cambiare il destino di un paese si concentrano in quel punto, raggiunto l’acme. D’altra parte tale momento catartico è un po’ come guardarsi allo specchio e riconoscersi. Scriveva a proposito Hugo che un popolo non può sapere quanta canaglia nasconda nel suo seno finché non c’è una rivoluzione sociale. La vittoria del no al referendum costituzionale del 4 dicembre è suonata per tutti, per l’allora premier e i suoi oppositori, come una sconfitta personale di Renzi e una sua forte delegittimazione popolare. Da allora l’arena politica si è aperta a tutti coloro che hanno avuto intenzione
di scorrazzare sul sabbione e di gareggiare. Se, come preannunciato, Renzi nei prossimi mesi farà un giro in treno dalle Alpi allo Jonio, senza dimenticare le isole, allora la tattica di marciare da nord a sud per racimolare voti e consenso verrà di nuovo confermata. In una strenua volontà di marcare il territorio, essere presente, corpo e anima per gli elettori. Già è stato effettuato dai 5 Stelle qualcosa di simile. La marcia francescana da Perugia ad Assisi, a ribadire la loro proposta di un reddito di cittadinanza. Proposta santa, troppo santa, qualcuno potrebbe dire, per un partito politico, la cui realizzazione è difficile ma suona ottimamente nell’agenda politica. Marcare il territorio è un dovere anche per Salvini, leader della Lega, inviato speciale nelle città da espugnare. Forte della conquista di Genova, su tutte nelle ultime comunali, roccaforte della sinistra, forse potrà trovare un accordo con il redivivo Berlusconi in vista di una futura alleanza. Scenario complessivamente frantumato, di cui la sinistra, ridotta in rivoli che si dipartono da un corso d’acqua principale, ne offre in piccolo la dimensione. Tuttavia un unico coro esce da questo specchio frantumato, come un accordo trovato involontariamente, un “Noi vi vogliamo aiutare” all’unisono. Indizio forse, al di là delle fratture che corrono lungo il vetro, di un’unica immagine d’impotenza.
“Un’immagine dei “bassi”, le tipiche case popolari napoletane”
Luglio 2017•Universitari per la Federazione europea
Eureka 7
di Filip ali po Pasqu
L
Tre considerazioni (e mezza) sulle banche e l’Unione europea
a gestione di una banca in default – si sa – è sempre stata una questione spinosa, da qualsiasi parte la si guardi. Sono imprese, ma non agiscono con capitale proprio. Investono, prestano, creano profitto. E appunto falliscono. Da quando gli istituti di credito sono diventati fruibili in massa, nel corso della seconda metà del XIV secolo, ci si è sempre interrogati sul dilemma, anche morale, della risoluzione di crisi degli istituti di credito. Quale sia il problema è presto chiaro. Il crack di una qualsiasi altra impresa, provoca rovina solitamente circoscritta al contesto locale dell’azienda: impiegati, proprietari, azionisti e le loro famiglie. Ma un’impresa-banca, invece, contiene i risparmi e il frutto del lavoro di migliaia di altre persone e famiglie, società, aziende, associazioni e organizzazioni che non prendono parte alla gestione della stessa. La portata di un default bancario può provocare agevolmente un effetto cascata, considerato che molto spesso tra gli azionisti di una banca figurano altre banche, generando quindi pericolose crisi economiche (leggi: banche USA e il magico mondo dei mutui subprime). D’altra parte – va detto – l’alternativa è il salvataggio pubblico, con i costi
8 Eureka
che ricadono spalmati sulla popolazione intera anziché sui soli correntisti/azionisti. In pratica lo stato sborsa (e non poco) ma così si evita, in ordine: famiglie e imprese rovinate, effetto contagio e delle non troppo piacevoli recessioni finanziarie. Spero sia chiaro che soluzioni da talk show non sono applicabili. È doveroso analizzare la faccenda, di fronte ai casi mediatici susseguitesi, in particolare sulla condotta tenuta dall’Unione europea nell’affaire banche. Sono necessarie almeno tre considerazioni, più la licenza per una breve polemica. Numero uno. Da che parte si schiera l’UE nella diatriba di cui si accenna sopra. A favore di un salvataggio pubblico, oppure che l’istituto si autogestisca la propria crisi? Proprio come si dice (urla) dalle nostre parti (leggi: “UE serva delle banche!!undici” e compagnia), l’Europa ha invece deciso, con una direttiva*, che il dissesto bancario deve prima di tutto essere risolto con risorse interne alla banca stessa, in sostanza cavandosela da sola come può. La procedura da seguire è definita del bail in, ovvero la svalutazione del valore di obbligazioni e crediti detenuti della banca a rischio, anche attraverso prelievi diretti, con lo scopo di assorbire il danno delle perdite e ricapitalizzare l’istituto. Il principio seguito dalla Commissione è semplice: visto che, giustamente, non si collettivizzano i guadagni, a maggior ragione le perdite devono essere trattate alla stessa stregua. Come dire: le banche si responsabilizzino, ché da ora in avanti non ci sarà più il paracadute statale a salvarle dai rischi di investimenti azzardati. Il bail in si inserisce nel quadro dell’Unione bancaria in costruzione dal 2012, che va uniformando i vari sistemi creditizi nazionali. La seconda considerazione da fare riguarda proprio questo cantiere in corso e il fatto che nell’Unione europea attualmente manca un ente che funga da prestatore di ultima istanza. Cioè quell’ente pubblico che di fatto funge da salvagente
Universitari per la Federazione europea•Luglio 2017
per le aziende nazionali in crisi. Storicamente il ruolo è stato fin da subito interpretato dalle banche centrali di ogni paese, ma nel regime attuale di transizione le banche nazionali hanno perso questo potere, mentre la Banca Centrale Europea non è (ancora?) ufficialmente il lender of last resort di cui si ha bisogno. In pratica, l’autorisanamento interno stabilito con il bail in serve anche per coprire questo deficit strutturale dell’Unione stessa. Deficit aggredito nel 2015 con l’istituzione del Fondo Unico di Risoluzione (SRF) per gli istituti in crisi, ma che sarà operativo, secondo la tabella di marcia prevista, non prima del 2025. Perché questo enorme lasso di tempo a fronte delle attuali crisi creditizie? Mancanza di fondi? No, verrebbero recuperati con l’emissione di obbligazioni da parte del Fondo. Mancanza di solidarietà? Molto più probabile. Una parte degli stati infatti, si rifiuta di caricarsi il fardello altrui. Gli egoismi nazionali hanno sempre costituito un ostacolo ricorrente nel processo di integrazione europea. Vedi in tempi non sospetti le crisi dei debiti sovrani e dei migranti. Il completamento dell’Unione bancaria europea è doveroso avvenga nei tempi e nei modi più rapidi possibili. Se non altro, si sa: costa meno prevenire, che poi soccorrere un eventuale collasso. Grecia docet. Quale sia questo ventilato crack, è oggetto della terza considerazione. Guardare attorno non serve. Sulla questione dissesti bancari, è proprio l’Italia il malato d’Europa. La cronologia parla chiaro. Nel giro di pochi anni, sono fallite o quasi, rispettivamente: 2015, quattro banche del centro Italia - Banca delle Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di
Chieti oltre che la più famosa Banca Etruria; nel 2016, Monte dei Paschi di Siena; Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca a fine giugno 2017, fiori all’occhiello dell’autonomismo veneto. Applicazioni della direttiva sul bail in: nessuna. In tutte le situazioni elencate, il governo è intervenuto elargendo fondi propri prevenendo il default. Sempre muovendosi tra le strette maglie che la direttiva BRRD impone. Prima si trattò di mitigare i danni delle quattro e per questo, oltre che al dissesto delle banche venete, lo stato creò il Fondo Atlante, una joint venture composta da soldi statali e dai maggiori istituti di credito italiani. Risultato: ha tenuto in vita le banche traballanti per un anno circa, fino al fallimento de facto della Monte Paschi, terzo istituto italiano per dimensioni. Da lì in seguito, non più pervenuto. Se qualcuno ne ha notizia, prego contatti la Sciarelli. Perché si è evitato di applicare in tutti i modi lo strumento del bail in? Per due ragioni. La prima è che, secondo gli addetti ai lavori, se le banche fossero state abbandonate al loro destino, l’effetto valanga sarebbe stato certo. La Commissione, vagliate le pratiche, ha concesso in tutti i casi il via libera derogando alla propria direttiva, a conferma dell’esistenza di un rischio sistematico. La seconda, per ragioni di consenso. Aumentare il debito pubblico non fa scandalo, risparmiatori straziati sì. Il mancato adeguamento italiano alla direttiva ha avuto un costo politico molto alto, come svela in un articolo del 5 luglio il quotidiano La Repubblica. La Bundesbank ha dato per “morto” il bail in e fonti interne considerano i recenti sviluppi come la parola fine, per la banca centrale tedesca, al completamento dell’Unione bancaria europea, mai gradita dalla Germania e dal suo club rigorista. Mezza polemica, mezza considerazione finale: quello che si sente in giro è vero. Alcuni paesi europei hanno fatto anch’essi un uso smodato del finanziamento pubblico. I dati, aggiornati al 2014, parlano di 238 miliardi versati dalla Germania ai propri istituti in crisi di liquidità, 52 la Spagna, 42 dall’Irlanda, persino la Grecia ha dovuto sborsare 40 miliardi. La spiegazione di questo trattamento c’è. No, non si tratta di una persecuzione eurocrate. Senza ricorrere allo scandalo, nessuno di questi paesi ha infranto le regole come qualcuno sostiene (urla). Semplicemente, il bail in è entrato in vigore il 1 gennaio 2015, dando tempo a paesi che lo ritenessero necessario, di mettere in sicurezza il proprio comparto bancario. Alcuni stati ne hanno approfittato, con la giusta pianificazione, affrontando il problema alla radice. La strategia italiana di risanamento invece è stata augurarsi che nel frattempo, i vari Zonin, Mussari, Consoli & co. sbancassero i casinò di Las Vegas. Eventualmente, di tanto in tanto, ostentare solidità e additare a gufi e austerity causa il flop al tavolo dei loschi dirigenti sopracitati.
Luglio 2017•Universitari per la Federazione europea
Eureka 9
di ro Dav ide Corra
D
Un miliardario, il Medio oriente e la dimenticata corsa agli armamenti Un’opportunità per poter ridefinire la politica estera europea
iciamoci la verità, le immagini del primo viaggio di Trump in Medio oriente ci hanno suscitato una certa ilarità e sono state produttive di una serie impressionante (e qualche volta anche divertente) di meme che per settimane hanno impazzato sul web. Indimenticabile la scena del presidente americano che non riesce ad azzeccare due passi di danza in Arabia Saudita, o la foto con il leader saudita Re Salman e il generale egiziano Abdel Fattah al Sisi attorno ad un globo luminescente che ai più ha ricordato qualche episodio di Game of Thrones. Insuperabile poi, la foto del tycoon dinanzi al muro del pianto che ha scatenato una serie di polemiche interminabili. Nel suo viaggio, il presidente americano ha infranto anche un record compiendo il primo volo diretto dall’Arabia Saudita ad Israele (seconda tappa del tour
mediorientale) che nessuno, pochi mesi prima, avrebbe avuto anche solo l’ardire di immaginare. Ebbene sì, Trump è uno che non manca di quella sfacciataggine che gli permette nello stesso tempo di essere l’uomo più potente e temuto (?) al mondo e lo zimbello della politica internazionale. E anche in questo viaggio non è stato da meno. Al di là delle relazioni sempre amichevoli tra il paese saudita e gli Stati Uniti a causa di un petrolio che non riesce a non essere il motore del mondo, Trump ha mostrato una reverenza e quasi una sudditanza nei confronti del mondo arabo e dei petroldollari sauditi che ha letteralmente lasciato di stucco il mondo e ha rappresentato una vittoria senza precedenti di un paese che di fatto non rispetta i diritti umani, non rispetta cioè quel baluardo su cui si sta costruendo quel sogno chiamato Europa. Questo è quello che i media hanno risaltato, dimenticando uno degli obiettivi principali della visita del presidente statunitense: l’incremento della vendita di armi ai sauditi. In dieci anni i sauditi hanno praticamente raddoppiato l’acquisto di armi, principalmente dagli Stati Uniti, primo esportatore mondiale, ma anche dall’Italia (come ricordato in un precedente articolo apparso su questa rivista). Si sa, quando un paese compra tante armi prima o poi ha intenzione di utilizzarle ed è esattamente quello che sta accadendo – tra l’altro in costante violazione del diritto internazionale – nell’ormai devastato Yemen. Il piccolo Yemen – che ha visto morire quasi cinquemila persone a causa dei bombardamenti sauditi e con quasi cinque milioni di individui ridotti alla fame, senza contare un’epidemia di colera dilagante – guarda ora con preoccupazione all’accordo che vedrà una vendita di armi per 100 miliardi di dollari da parte delle officine che fanno capo allo Zio Sam, una cifra che è superiore agli armamenti venduti ai sauditi in tutti gli otto anni dell’amministrazione Obama. Ma il dato più preoccupante che emerge dall’incontro di Riyadh è il cambiamento di strategia inter-
10 Eureka Universitari per la Federazione europea•Luglio 2017
nazionale nei confronti del temibile Iran, nemico comune di mezzo mondo occidentale (ma anche di Arabia Saudita ed Israele, forse uno dei pochi terreni di condivisione!). Con l’Iran assistiamo ad un completo cambiamento di rotta rispetto all’amministrazione Obama, che aveva tentato un ravvicinamento con Teheran grazie all’accordo sul nucleare. La retorica di Trump contro l’Iran è sembrata molto dura e segna soprattutto l’intromissione degli Stati Uniti in un conflitto regionale – quello tra Arabia Saudita ed Iran – che potrebbe avere risvolti catastrofici nel corso dei prossimi anni, per decidere quale paese arabo debba avere l’effettivo controllo sugli altri. Ma c’è di più. Questo accordo tra Trump e Arabia Saudita ha preoccupato Israele, che comunque non ha mancato di riservare al presidente un’accoglienza maestosa. Il giorno della visita di Trump, definito da Haaretz come un “opportunista messianico”, mi trovavo in una Gerusalemme completamente bloccata e tesa all’inverosimile. Solo pochi giorni prima dell’arrivo, una squadra di professionisti americani era stata inviata a Gerusalemme per montare vetri anti-razzo su tutto il piano dell’albergo in cui il Presidente avrebbe passato il suo soggiorno. Diecimila uomini mobilitati, autostrade chiuse, città vecchia bloccata, tutti i caccia israeliani pronti alle procedure di scrambling, tredici limousine, no-fly zone sulla capitale e altre decine di misure di sicurezza in cui, si sa, gli israeliani sono leader mondiali, anche se, come al solito, ne sarebbero bastate meno della metà. Dicevamo di un’accoglienza trionfale. In tutta la città campeggiavano cartelli con le scritte “Make Israel Great Again” o “JerUSAlem is with you”, ovviamente tutti pagati dalle associazioni sioniste che non hanno dimenticato le centinaia di miliardi di dollari che dagli Stati Uniti continuano a defluire verso quella che il Presidente Netanyahu ha definito «l’u-
nica democrazia in Medio oriente». Certo, una “democrazia” che non rispetta i diritti umani di parte dei suoi cittadini non credo possa essere definita tale, ma su questo con gli States sono abbastanza in buona compagnia. Trump è stato anche il primo Presidente americano in carica a visitare il Muro del Pianto, con un gesto che ha scatenato la derisione mondiale. Impossibile infatti non pensare alle parole del Presidente sulla possibilità di costruire il muro tra il confine tra USA e Messico. Anche questa non è stata proprio una mossa politica azzeccata – o, quanto meno, non è stata ben ragionata – ma si sa che le scelte avventate e la scarsa conoscenza della storia della politica internazionale sono una caratteristica trumpiana. Gli altri Presidenti e capi di Stato in generale avevano infatti evitato questa tappa, in quanto la costruzione ultramillenaria si trova ufficialmente a Gerusalemme Est, illegittimamente occupata da Israele nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni e che i Palestinesi rivendicano come capitale del futuro Stato palestinese. Occorre, però, dare a Cesare quel che è di Cesare: Trump è stato forse il primo Presidente a chiamare le cose con il loro nome. Nel discorso ai paesi islamici ha infatti parlato di “estremismo islamico” e di “terrorismo islamico” è ha detto forte e chiaro che la responsabilità di sradicare il terrorismo islamista spetta ai paesi a maggioranza musulmana. Che sia finita l’era dell’esportazione della democrazia? Delle lezioni date al mondo? Degli scontri di civiltà? Francamente è troppo presto per dirlo e Trump è troppo opportunista e voltagabbana per poter provare ad azzardare una previsione futura. Ma tutto questo credo determini un vantaggio senza precedenti per l’Europa. Se, infatti, la politica estera europea offrisse qualche appiglio ai paesi mediorientali per poter trovare un vero mediatore senza troppi interessi militari nella regione, l’Unione Europea potrebbe giocare un ruolo fondamentale per la stabilità e la pace in questa parte di mondo. Ma per tutto questo serve fiducia. Una fiducia che troppo spesso manca perché l’UE è concentrata su altro (migranti, accordi commerciali, patto sul clima, ecc.) e forse anche per la presenza di un Rappresentate della Politica estera europeo che al di fuori dei confini di Bruxelles fatica a farsi tributare rispetto, anche per lo scarso background internazionale dell’inesperta Mogherini. Io credo fermamente che l’Europa possa avere una grande opportunità in Medio oriente, sia per ritrovare una propria unità di visione in politica internazionale, sia per imporre la propria posizione sullo scacchiere mondiale, magari contribuendo a pacificare una regione che fatica a stabilizzarsi ed a trovare quella pace che in Europa dura da più di settant’anni.
Luglio 2017•Universitari per la Federazione europea
Eureka 11
Disertando la politica non si lasciano le cose come sono, nemmeno nella vita privata. Si creano vuoti di potere, cioè si affida il potere agli altri, si accetta che degli altri divengano i padroni del proprio futuro. Mario Albertini