Universitari per la Federazione europea
L’esito dell’ultimo Consiglio europeo, lo stallo dei governi nazionali palesano un assetto europeo fragile, mostrano difficoltà nel rispondere ai problemi dei cittadini. Perché la bandiera europea continui a sventolare, serve un progetto per l’integrazione europea rinnovato. O un passo verso gli Stati uniti d’Europa o un passo verso la disintegrazione dell’UE e dell’euro. I desideri realizzati di pace e benessere non bastano a compensare alle mancanze di questo assetto europeo. Sveglia, Europa! Dove vogliamo andare?
Sveglia, Europa!
So m m a r i o
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Nuovo governo, vecchi problemi
Mondiali di calcio: se il pallone entra nella porta sbagliata
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Contro un continente che non fa notizia
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10/11 Ciò che unisce e ciò che divide Pyongyang e Teheran Stampato da
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Rubrica Erasmus: Dublino
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Conosciamo i federalisti europei: Carlo Cattaneo (1801-1869)
Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona: Responsabile del gruppo studentesco: Marco Barbetta. Direttore: Filippo Sartori. Vice-Direttore: Salvatore Romano. Collaboratori: Gianluca Bonato, Davide Corraro, Pietro Franceschini, Andrea Golini, Umberto Marchi, Filippo Pasquali, Giovanni Righetti, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 Articolor Verona Articolor Verona srl srl 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com Progetto Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa grafico: Bruno Marchese 37135 Verona Via045 Olanda, 17 - 37057 Verona Tel. 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433
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Universitari per la Federazione europea
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Universitari per la Federazione europea•Luglio 2018
Editoriale di ri Filip po Sarto
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’Unione Europea viaggia da parecchio tempo su binari instabili, ricevendo numerosi scossoni lungo la strada, ma bene o male mantenendosi in corsa. Le questioni che pongono un serio rischio a questa corsa, più simile ad un piccolo trotto se vogliamo essere onesti, si ripresentano ciclicamente, ma ogni volta più forti, pericolose, minacciose. In tutto il Continente si sta diffondendo un malumore non indifferente, che si esplica con il successo, in numerosi Paesi, di partiti o coalizioni a stampo populista e insofferente verso Bruxelles. In un discorso al Parlamento Europeo circa la questione migratoria, Guy Verhofstadt, leader del gruppo parlamentare ALDE, ha ben descritto la situazione attuale: l’Italia, per voce del suo nuovo ministro degli Interni Matteo Salvini, dichiara «no no no, basta in Italia, che li accolgano Ungheria, Austria, Germania»; le stesse parole sono pronunciate anche dai leader degli altri Paesi in questione, mettendo in evidenza il vero problema: l’egoismo nazionale. Raramente, in precedenza, si è mostrato con tanta chiarezza il demone che rischia di minare le fondamenta del processo di integrazione europea: ogni Stato cerca di ribadire con forza i suoi interessi, perdendo di vista l’obiettivo comune, la strada unica da percorrere come Europa, l’aiuto reciproco. È innegabile che l’Italia, in questi anni, abbia compiuto grandi sforzi per sostenere il principio dell’accoglienza, sacrosanto, verso persone, esseri umani, in cerca di un futuro migliore per sé e per i propri figli. Va sottolineato come anche Grecia e Malta, da questo punto di vista, non si sono certo tirate indietro - difficile pretendere chissà cosa da un’isola di 400mila abitanti. È altrettanto vero che, specie l’anno scorso, la Germania stessa ha compiuto grandi sforzi per gestire la situazione, accogliendo quasi un milione di persone. Si tratta spesso di iniziative poco o mal coordinate, prese dai singoli Paesi, con un aiuto solamente economico – importante, chiaro, ma non sufficiente- da parte del resto dell’UE. Proprio per questo, da cittadini europei, è difficile considerare una vittoria ciò che è emerso dall’ultimo Consiglio Europeo: si è stabilito il principio della volontarietà nella ripartizione delle quote di migranti (termine infelice, si tratta sempre di persone, con una storia e una dignità da rispettare), che è sostanzialmente l’unica novità che è emersa, per il resto tutto sostanzialmente invariato.
Così facendo si facilita il gioco di chi, a cominciare dall’ungherese Orban, non ha mai accettato il principio della ridistribuzione né della solidarietà tra Paesi membri. Viene da sorridere a pensare alla vicinanza e alla stima reciproca tra Orban e Salvini, i cui interessi sono sostanzialmente opposti: è sotto gli occhi di tutti che a Salvini piace la politica di chiusura dei confini propugnata a gran voce dal leader ungherese, con la non irrilevante differenza che, per l’Italia, in quanto Paese di confine, essa sia sostanzialmente impraticabile. La soluzione di totale chiusura diventerebbe nel lungo periodo insostenibile e pericolosa. Questo è un problema che Orban non ha, per questo è assurdo pensare di sostenere la sua visione e cercare di imitarla. La questione va affrontata, con decisione e mano ferma, a livello internazionale: non si può accettare che per qualcuno far parte dell’Europa voglia dire solo accettare con un sorriso i lati positivi, per poi dire di no a qualsiasi impegno venga richiesto. Il teatrino vergognoso di botta e risposta tra Francia e Italia – sia chiaro, vergognoso da entrambe le parti – è un capitolo che va chiuso al più presto. La situazione va affrontata nelle sedi opportune, il Consiglio Europeo, il Parlamento, le Commissioni, che vanno considerate con serietà e rispetto, non snobbate per impegni elettorali di becera propaganda! È ora di smetterla con gli annunci, le dichiarazioni alla stampa, le voci grosse e i battibecchi tra Paesi. Va attuata una profonda revisione dell’atteggiamento con cui i Paesi membri si pongono ad affrontare le varie questioni, eliminando per sempre dal modo di ragionare e di agire il principio del «not in my backyard!».
Luglio 2018•Universitari per la Federazione europea
Eureka 3
di Filip ali po Pasqu
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Tutti vincitori, uno sconfitto: l’Europa
ll’ultimo Consiglio europeo del 2829 giugno, i capi di stato dei ventotto paesi si sono seduti intorno al tavolo per mettere in scena l’ennesimo psicodramma UE. Si intende risparmiare i retroscena delle trattative apparsi sui giornali, per senso di dignità. Breviario: Frecciatine, veti incrociati, litigi a mezzo stampa, fuga di notizie false – appositamente – per confondere gli sherpa altrui impegnati in trattative, più altri mezzucci vari cui si rimanda l’approfondimento ad un qualsiasi Quotidiano Autorevole Nazionale ©. Principale oggetto del contendere la gestione della “crisi” migratoria, ma anche una grande assente. Procediamo con ordine.
E quindi tutti perdenti. Perché l’Europa non riesce a reagire: il punto della situazione e consigli non richiesti ai sovranisti nostrani di tutte le razze – a pelo corto e a pelo lungo – su come procedere insieme senza consegnarci alla Russia
Antefatti (con paradosso) Negli ultimi 4-5 anni il flusso migratorio da Africa e Medio Oriente verso l’Europa ha messo in crisi i principi solidaristici propri della costruzione europea. Sbarchi a Lampedusa e nelle isole greche. La rotta balcanica viene chiusa tramite un accordo con la Turchia, successivamente all’accogliamo-un-milione-di-rifugiati promosso dalla Merkel ma che ha rotto gli equilibri nella società tedesca. La rotta mediterranea – che piaccia o meno – viene chiusa nel 2017 dal ministro degli interni Minniti, come dimostra il crollo dell’86% di sbarchi sulle coste italiane rispetto all’anno precedente. Ora il paradosso: man mano che la crisi rientrava, cresceva il fronte sovranista del chiudiamo-le-frontiere. In serie: Kurz porta la destra al governo in Austria, Orban (ri)vince in Ungheria, il gruppo di Visegrad alza la posta e detta la linea, Le Pen incalza in Francia, come pure i colleghi dell’AFD in Germania, Salvini vince le elezioni diviene ministro dell’interno e chiude i porti. Sui motivi del successo dell’onda nera si sono già pronuncia-
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ti numerosi esperti, corrispondenti unici, giornalisti e giornalai carichi di approfondimenti & analisi della sconfitta. Passiamo oltre. I protagonisti e i loro interessi
Si sapeva da tempo che Merkel si sarebbe presentata al Consiglio Europeo con il fiato sul collo del suo ministro degli Interni Seehofer, nonché leader della CSU bavarese, su cui si regge il governo. L’aut aut? Stop ai movimenti intra-EU di rifugiati, altrimenti si torna ad elezioni. Il quartetto di Visegrad – insieme ai baltici e all’Austria, futura presidente semestrale del Consiglio dell’UE – si pone un obbiettivo molto semplice: nessun migrante oltrepassa i nostri confini nazionali. I moderati della situazione. Francia-Spagna firmano con un documento congiunto: hotspot europei ma situati nei paesi di sbarco, sì alla redistribuzione dei migranti, stop ai flussi. Posizione già espressa al mini-vertice che ha preceduto di una settimana il Consiglio, concluso in un nulla di fatto. In tutto questo, nelle settimane precedenti al vertice, l’Italia diventa la mina vagante della situazione. Il nuovo governo Conte chiede con vigore la redistribuzione tra i paesi membri dei migranti approdati in Italia, invoca solidarietà e collegialità dell’emergenza. Il suo ministro degli interni prende il telefono e invita l’omologo austriaco Strache a Roma. E poi chiama Seehofer. Quindi Kurz se ne esce con il ‘ricostruito asse Roma-Vienna-Berlino’, quanti ricordi. Conte torna ad agitare lo spettro del veto se i paesi non ascolteranno le richieste italiane: i gialloverdi chiedono il rafforzamento dei piani UE di controllo delle frontiere esterne e l’installazione di hotspot nei paesi africani di transito, per vagliare in loco le richieste di asilo. Il suo ministro degli interni prende l’aereo – militare – e vola a Tripoli. Preso atto del nulla cosmico ottenuto finora, Conte alza il tiro e sbarella la (non) strategia tenuta, attac-
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Consiglio europeo sull’immigrazione cando Parigi e Madrid, mentre i primi ministri – pardon, viceministri – bombardano Tunisi, La Valletta e Berlino. Arrivati al punto in cui Machiavelli non capirebbe più, ma Dr. Jekyll sì, ovvero il Consiglio stesso, Conte si presenta per “sbattere i pugni su quel tavolo”, rispolverando un vecchio slogan grillino finito male. Chi ottiene cosa Il documento prodotto dallo Psicodramma è un insieme di formule che non impegna nessuno, ma che permette a tutti di uscire in conferenza stampa e sostenere di aver incassato il risultato. E infatti il primo a farlo è il nostro Conte, che sventola orgoglioso il documento finale salvo poi rivelarsi una fregatura. Hotspot nei paesi di primo approdo – cioè noi – redistribuzione dei migranti solo su base volontaria – ovvero nessuno o quasi. Bene il sostegno alla Libia e l’idea di istituire accordi con i paesi di transito. I Visegrad & co. ottengono lo stralcio della solidarietà obbligatoria e soprattutto l’accordo di votare in futuro modifiche al regolamento di Dublino – quello che regola materie riguardanti l’immigrazione – per unanimità. Tradotto: nessuna modifica verrà mai apportata. Merkel guadagna rassicurazioni sui movimenti secondari, che le permettono – forse – di salvare il governo. E la riforma discussa e votata dal Parlamento Europeo fuori dai riflettori è scartata, per rimarcare l’ormai conclamata supremazia degli stati nazionali all’interno del processo decisionale. Appunto per i populisti: prima di battere pugni a destra e a manca, si suggerisce di individuare una strategia. Non si può invocare solidarietà europea e nello stesso tempo (ri)costruire improbabili assi con euroscettici vari. Ancora una volta, giocare a fare il nazionalista preclude richieste di
solidarietà, trovandosi costretti ad accusare altri paesi. Esasperando i problemi. La grande assente Secondo le attese della vigilia, a fare da co-protagonista della discussione, sarebbe dovuta concorrere la riforma dell’Eurozona. E invece lo Psicodramma Migranti si è rubato tutta la scena. Le tensioni accumulate nelle settimane precedenti, sia tra Paesi che in seno agli stessi governi, ha fatto sì che il dibattito venisse monopolizzato dalla questione, per la sopravvivenza di Schengen. Intanto, però, le riforme – quelle importanti – posticipate. Unico accordo raggiunto la stesura di una road map simile a quanto promesso per la riforma di Dublino. Della serie: “grazie per essere venuti, vi faremo sapere”. I punti salienti, per dovere di cronaca: trasformazione del Fondo Salva Stati (ESM) in un Fondo Monetario Europeo e completamento dell’Unione Bancaria con strumenti comuni di assicurazione sui depositi. Stralciati: bilancio dell’Eurozona, Ministro delle Finanze UE. Anche qui l’Italia ha giocato un ruolo ambiguo, per cui si veda di sopra: flirtare con Visegrad, minacciare, rovesciare il tavolo non porta da nessuna parte. Il nostro governo chiedeva fondi comuni contro la disoccupazione e un sistema di aiuti per i paesi in difficoltà durante crisi cicliche. Ci portiamo a casa un ‘ne discuteremo’, più la richiesta – secondo i retroscena – di effettuare in autunno una manovra correttiva da 5 miliardi di tagli, per non deviare dai binari della riduzione del deficit. A dimostrazione che voltare le spalle ai volenterosi alleati, quali il nucleo fondativo, non porta che a sbattere contro un muro di altolà. Subito dietro c’è il muro della realtà, ma per quello basta aspettare la Legge di Bilancio autunnale.
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Nuovo governo, vecchi problemi di o Sal vatore Roman
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’avvocato difensore degli italiani scende in campo. Il biglietto da visita che il neo premier ha presentato a circa sessanta milioni di giovani e vecchi, parte lesa di un processo in cui non sapevano di essere, dice tutto e nulla. Risponde però alla retorica dei due partiti vincitori, M5s e Lega, che hanno fatto della cura degli interessi italiani il loro imperativo categorico. Dal loro matrimonio non poteva che nascere un avvocato, difensore per l’appunto, come da una famiglia di medici legge vuole che il primogenito faccia il medico da grande. L’utilizzo dei mezzi pubblici, le citazioni tratte dai vangeli, i documentari fai da te postati su YouTube, tutto fa parte del grande apparato della corte del populismo, termine che il Presidente Conte stesso
Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio
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ha rivendicato in occasione del discorso di insediamento alle Camere. E termine che da due anni a questa parte, dall’elezioni di Trump, ha acquisito un ruolo di primo piano nel vocabolario della politologia contemporanea. Ha spazzato via le antiche divisioni di destra e sinistra, si dichiara post-ideologico, etichetta i suoi banditori come populisti, coloro che fanno generalmente gli interessi del popolo. Come lo fanno i sovranisti, anch’essi contrari a quelle organizzazioni sovranazionali che scavalcano le prerogative di un popolo che si vuole sovrano. Gli eventi che hanno caratterizzato la formazione del governo italiano, il non placet di Mattarella, la minaccia di una tempesta finanziaria, la possibilità di un nuovo governo tecnico guidato da Cottarelli, sono stati una manna per i difensori del popolo sovrano. Per coloro che leggevano l’atto di Mattarella come un attentato, un alto tradimento, un’incostituzionalità bella e buona. L’accusa di impeachment, lanciata e poi smentita, il ritorno alla normalità con il nuovo governo finalmente insediatosi, sono conseguenze da una parte degli sbalzi di umore di un popolo sovrano che si è sentito franare il terreno sotto i piedi, dall’altra dalla soddisfazione di uno dei bisogni primari delle democrazie occidentali, le elezioni dei rappresentanti del popolo. E i nuovi rappresentati sono stati eletti sulla base di un programma che, in barba ai parametri deficit/Pil, al debito pubblico, alla tenuta dei conti, punta su un piano di riforme che sembra non scorgere i temporaleschi eventi che si ingrossano all’orizzonte, l’economia globalizzata, la minaccia dei nuovi stati-continente, gli sconquassi sociali del Medio Oriente, e del continente africano. D’altronde, è corollario del sovranismo concentrarsi solo sui problemi di casa propria, prendere un paese e considerarlo come un tutto isolato, un blocco identitario su cui mettere mano. Per questo il contratto di governo contiene soltanto un piccolo paragrafo dedicato all’Unione europea, relegato nelle ultime pagine. Un accenno obbligato ormai per tutti sovranisti e no, anche solo di poche righe. Se poi la mano che l’abbia vergato sia più di uno che di un altro, è di poco conto, perché la firma del contratto obbliga entrambe
Universitari per la Federazione europea•Luglio 2018
Luigi Di Maio, Vicepresidente del Consiglio e Ministro dello sviluppo economico, del lavoro e delle politiche sociali
Matteo Salvini, Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Interni
le parti, come alla fedeltà reciproca il contratto matrimoniale. Qualora l’idolo sotto cui sia nato questo governo si riveli più populista che sovranista, allora i suoi rappresentati potranno venire meno ai patti senza delegittimarsi agli occhi del popolo che li ha eletti. Questo perché saranno sempre in un modo o nell’altro amici del popolo, primi tra primi. A quel punto, spinti dalla necessità e a fare i conti con la dura realtà, si rivolteranno contro se stessi, tradiranno il partner, ma come in un matrimonio che si rispetti senza perdere le buone apparenze in società. La condizione perché avvenga il cambio d’abito in corsa si è già verificata, come sono già avvenuti i primi ritocchi al contratto per mano del ministro dell’economia, Giovanni Tria. La condizione è stata l’assenza di un qualsiasi confronto diretto tra le parti in campo, Pd, M5s, Lega, Forza Italia, che si sono presentati all’appuntamento del 4 marzo scorso, aldilà delle battute dei vari leader lanciate con i tweet e riportate dai telegiornali. Con il confronto è venuta meno l’ipotesi che si verificasse in Italia quello che si è verificato in Francia con i ballottaggi per le presidenziali tra Le Pen e Macron. Ossia che emergesse nel dibattito politico un tema, che se anche
nel mondo della carta e dei contratti occupa un misero angolino, nel mondo reale fa sentire il suo peso. L’Unione europea, il suo presente e futuro, la sua riforma o la sua distruzione. Questo non si è verificato. E si è lasciato fare, l’onda populista che è stata annunciata da tutti, dai suoi detrattori come dai suoi più coraggiosi surfisti, ha travolto tutto. Non vi sono state opposizioni, né un contro-discorso che cercasse di cambiare, anche in extremis, l’ordine delle cose. Alla fine è rimasta una gran confusione e incertezza sul futuro, se il governo deciderà di mettersi a lato nel processo di riforma e revisione dei trattati dell’Unione, se costantemente vorrà metterla in crisi o meno. La mancanza di chiarezza su questo punto può portare a tutto, ad interpretare che la tacita volontà degli italiani sia quella di uscire dall’euro e dall’Unione, o che il voto del 4 marzo sia stato solo un voto di protesta, di cambiamento contro i vecchi partiti. Cosi come possono essere sconfessate le premesse iniziali, e i due partiti vincitori riorientare le lancette delle proprie bussole su un euro-euforia, anche se tiepida. Questo solo se prevarrà il dio populista, che è un dio metamorfico. Nel frattempo rimane nell’aria una frase generica, «sono l’avvocato difensore degli italiani».
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Contro un continente che non fa notizia di Andr Golini ea
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Se l’Europa deve cambiare dobbiamo decidere cosa deve diventare
bbiamo assistito al “Gruppo dei Sette”, anche noto come G7, l’organizzazione formata per intraprendere politiche macroeconomiche tra i paesi partecipanti e per monitorare lo sviluppo dell’economia mondiale. L’attuale formazione prevede le europee Germania, Francia, Italia e Regno Unito, le americane Stati Uniti e Canada, e l’asiatica Giappone. Possono vantare le economie più avanzate e dinamiche del mondo, ma non possono certo vantare grandi affinità. Come si è visto nell’ultimo vertice del 8-9 giugno, svoltosi in Canada, gli Stati europei si sono presentati deboli e disuniti confermando così uno stato di difficoltà del continente europeo, gli Stati Uniti sono andati contro tutti pur di difendere le proprie politiche protezioniste e un Giappone in secondo piano lasciato da solo ad affrontare le tensioni che riguardano il continente asiatico. Il G7 non sembra rappresentare il futuro dell’economia globale e non dà l’impressione di essere un’organizzazio-
ne promotrice di sviluppo e coesione, soprattutto in questo momento. Diversamente ha saputo fare l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, anche conosciuta con la sigla SCO, che rappresenta un po’ quella parte del mondo lontana dall’occidente e purtroppo poco considerata. Le Repubbliche di Cina, India, Pakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan, insieme alla Federazione Russa (ex membro del G8), si sono riunite il 9-10 giugno anche loro con lo scopo di pianificare strategie economiche che interessino le nazioni partecipanti. Questa organizzazione ovviamente ha un’ottica mondiale e le sue politiche di governance si sono dimostrate contrarie a quelle dei membri del G7. Diverse posizioni le possiamo trovare nella questione della situazione ucraina, nella questione coreana, nell’accordo sul nucleare con l’Iran e nella passata crisi in Crimea, per alcuni definita un’invasione, che ha causato proprio l’uscita della Russia dal G8. Se quindi facciamo un parallelo tra le due organizzazioni di Stati, abbiamo da un lato deboli paesi europei alle
Vertice del G7 a Charlevoix, Canada, 8 giugno scorso
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Il summit di Shanghai del 9-10 giugno scorso prese con un alleato americano poco disponibile ad accordi economici e dall’altro due paesi come Cina e Russia, che hanno aumentato gli scambi commerciali del 27% solo nei primi mesi del 2018, e paesi ricchi di petrolio e gas pronti ad utilizzarli per accrescere la loro influenza internazionale e dettare le politiche economiche. Se qualcuno mi facesse oggi la domanda: dove vedi il futuro dell’economia mondiale? Io risponderei Asia, un continente che in occidente non fa notizia. Se parlate con imprenditori soprattutto nel settore tecnologico avrete la stessa risposta, alcuni sono addirittura più precisi e vedono nella Cina il futuro monopolista del mercato tecnologico. In Europa l’industria tecnologica asiatica è dominante e inizia a surclassare quella americana. Con l’aumento della qualità dei prodotti asiatici il rischio è quello di avere un unico venditore globale capace di dettare le politiche economiche globali. È un rischio che il presidente americano ha ben presente ma le manovre economiche che sta adottando per rilanciare il mercato americano indeboliscono anche l’Europa. Allora a questo punto mi chiedo: cosa deve fare l’Unione europea? Da una parte ci sono gli Stati Uniti che dichiarano un successo il fatto di aver lasciato costruire alla Corea del Nord un arsenale nucleare ad oggi operativo e che annunciano una nuova era di protezionismo, dall’altra vi sono Stati come la Russia e la Cina molto indietro per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali delle persone e della libertà dei loro cittadini. Per il nostro vicepresidente leghista la questione della Crimea non ha più importanza e vorrebbe togliere le sanzioni economiche annuali alla Russia, proprio mentre la Svezia mobilita i riservisti e distribuisce manuali di sopravvivenza alla popolazione dichiarandosi pronta per un’eventuale “crisi”. Nel frattempo, nove paesi europei, Italia esclusa, hanno de-
ciso di collaborare in campo militare a sostegno di eventuali fenomeni di “crisi”; con questo nuovo piano l’UE è andata oltre gli Stati membri ed ha accettato l’appoggio arrivato dal paese della Brexit. Per l’Unione europea si prospetta un periodo decisivo: il G7 ha dimostrato che non si può più dipendere dagli USA, i deboli sistemi nazionali dei paesi europei rendono improduttive le strategie europee e il continente asiatico potrebbe assumere il ruolo di leader del mercato globale senza trovare alcuna concorrenza. L’Unione dovrebbe quindi superare il sistema intergovernativo che rallenta le decisioni su fatti da affrontare per il benessere comune, dovrebbe superare la chiusura americana e dovrebbe creare un polo concorrente e positivo per questo pianeta. Forse è il caso di creare una Federazione europea promotrice di mercati concorrenziali, in cui vi sia una chiara politica economica che incentivi le energie rinnovabili, pronta a creare un mercato del lavoro comune, che tuteli dai regimi di sfruttamento, proiettata a dare maggiori diritti e libertà ai propri cittadini, pronta a superare i confini nazionali portando una sana competizione economica tra continenti. Solo così potrebbe esistere una forza che si contrappone agli attuali sistemi di governance internazionale. Come fare quindi? Facendo entrare nei libri di storia i presidenti degli Stati europei. Ricordandoli come coloro che hanno avuto il coraggio di creare un nuovo modello di società basata sui valori fondamentali europei che si contrapponga a sistemi di sfruttamento illegali di risorse e di capitale umano. L’Europa non deve più decidere con chi “stare” tra America, Russia e Cina, ma decidere una volta per tutte di creare un nuovo soggetto, migliore dell’attuale Unione, gli Stati Uniti d’Europa.
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di i Pie in tro Francesch
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Ciò che unisce e ciò che divide Pyongyang e Teheran
ra Pyongyang e Teheran ci sono più di 10000 chilometri, eppure la storia recente rende questi due popoli uniti da un comune destino, anche se con un apparente finale diverso per ora. Dalla rivoluzione islamica del 1979 l’Iran è stato relegato a stato canaglia da parte dell’occidente, trovandosi quindi in una situazione simile a quella della Repubblica Democratica di Corea, la quale è sì uno stato vassallo della potenza cinese ma che in quanto a rapporti con l’occidente sta agli stessi livelli di Teheran. Un’altra caratteristica ad unire questi due
stati è il comune desiderio di possedere un arsenale nucleare in grado di porli in una posizione quantomeno di presunta parità con l’acerrimo nemico di questi due paesi: gli Stati Uniti d’America. La situazione però negli ultimi anni aveva cambiato di prospettiva; infatti la Repubblica islamica aveva accettato di firmare un accordo storico con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, dalla quale otteneva l’eliminazione delle sanzioni internazionali nei suoi confronti in cambio di un blocco di un lustro per l’arricchimento dell’uranio e la possibilità per l’agenzia di ispezionare i siti, anche
La stretta di mano tra il leader della Corea del Nord Kim Yong Un e il Presidente americano Donald Trump
10 Eureka Universitari per la Federazione europea•Luglio 2018
La firma di Trump sul documento che ritira gli Usa dall'accordo sul nucleare con l'Iran quelli ad uso militare. Questo accordo, che non eliminava comunque la possibilità che in un futuro l’Iran potesse tornare a rappresentare un problema per l’occidente ma sicuramente era un passo in avanti rispetto al travagliato passato – per usare un eufemismo –, le relazioni tra la Repubblica degli Ayatollah e gli Stati uniti. Per questo accordo purtroppo si deve parlare al passato, in quanto il Presidente americano Donald Trump, senza dare troppo bado alle proteste degli alleati della NATO e in particolare del presidente francese, ha deciso di ritirarsi dall’accordo, poiché a detta sua l’Iran non ne rispettava lo spirito. Il problema principale di questa sua affermazione sta nel fatto che gli accordi non hanno uno spirito ma dei criteri da rispettare, e sia l’Iran che l’occidente li stavano rispettando, quindi non si capisce dove si trovasse il problema. In soccorso però ci viene sempre l’economia, ormai unica materia in grado di spiegare in maniera un po’ più limpida ciò che agli occhi pare offuscato. L’Iran è da sempre il principale nemico della potenza egemone del Medio oriente alleata degli Stati uniti, l’Arabia Saudita, la quale ha sempre visto con una certa sofferenza gli accordi siglati a Vienna nel 2015, in quanto consentivano agli iraniani di vendere all’estero l’enorme quantità di gas naturale prodotto, più ecologico del petrolio, di cui l’Iran possiede la seconda riserva mondiale, andando quindi ad indebolire il potente petrolio saudita. Non di meno vi è la questione atavica di sunniti sauditi contro sciiti iraniani. La logica ci porta quindi a pensare che Trump, per rafforzare i suoi rapporti con Ryahd e il nuovo principe ereditario Bin Salaman, abbia deciso di abbandonare un accordo che avrebbe indebolito sia lui che lo storico alleato. Fin qui non ci dovrebbero essere problemi nella comprensione delle azioni in ogni caso sconsiderate di Trump, se non che l’eccentrico tycoon un paio di settimane fa ha deciso di riabilitare la Repubblica della Corea del nord e
il suo leader Kim Yong Un, dopo che dall’inizio del suo mandato aveva iniziato un scontro a suon di Twitter contro di lui. L’incontro avvenuto a Singapore rappresenta sì una data storica per le relazioni internazionali, in quanto due paesi che non si erano parlati, se non in maniera muscolare, negli ultimi settant’anni hanno deciso di incontrarsi e di firmare insieme un accordo di intesa, che da un lato poneva al centro la denuclearizzazione totale della Corea del nord e dall’altro la fine della presenza americana a protezione del Sud, il che ha lasciato sbigottita Seul, non era stata informata di ciò. Il tutto però in maniera unilaterale, senza sentire alleati, senza che ci siano controlli sull’effettiva validità dell’accordo, tutto basato su una stretta di mano che in politica internazionale conta come il due di coppe con la briscola a spade. Per questo accordo è molto più difficile trovare una spiegazione logica, se non quella di un accrescimento della coda da pavone dei due interessati: da una parte, un dittatore tra i più sanguinari della storia; dall’altra, un uomo che valuta se stesso in base al numero di affari che riesce a portare a termine. Il vero problema di questo accordo è che di fatto non va a modificare di un non nulla l’equilibrio internazionale. La domanda lecita che ci si dovrebbe porre dall’esterno è: perché la Corea sì e l’Iran no? Cosa pone su due piani differenziati uno stato che avrebbe un’effettiva possibilità di colpire in maniera seria gli alleati dell’America come Israele, data la sua vicinanza all’Europa, la sua dimensione sia geografica che economica, e uno stato ridotto all’orlo del baratro con frequenti carestie e che in caso di attacco sarebbe soggiogato in tempi da invasione polacca? A noi mortali non è dato sapere. Per noi europei, fatto sta che le continue uscite di Trump ci rendono deboli e indifesi. Servono nuovi strumenti più autonomi, ma di questi tempi l’Europa sembra più immobile di un morto.
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Eureka 11
di lli And rea Zano
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Mondiali di calcio: se il pallone entra nella porta sbagliata
na delle ultime sere, stavo seguendo una partita dei mondiali di calcio in televisione e mi sono imbattuto in una mirabolante affermazione del telecronista di turno: «Per la patria si dà sempre qualcosa in più!». Con estrema meraviglia, prima di tutto mi sono reso conto dell’ignoranza politica e storica del tale, ma poi mi sono domandato, questa volta con preoccupazione, se siamo nel 2018 o nel 1936, quando a Berlino Hitler organizzava le Olimpiadi per dimostrare la superiorità ariana anche nello sport, all’insegna della razza, della patria e della nazione. La riflessione che mi sono posto e che, lo ammetto, continuo a pormi è: la Coppa del Mondo di calcio è un evento tendente al nazionalismo o al federalismo, all’unione fra le nazioni? Sappiamo come nel corso del XX secolo lo sport sia stato un elemento fondante della propaganda nazionalista, che inseriva all’interno del gioco e della competizione le componenti di identità fra simili e di
inimicizia con tutti gli altri. Il fine, ovvio, era quello di incrementare la coesione del noi e la divisione con loro. Allo stesso tempo, sinteticamente sappiamo che il federalismo riprende quanto Immanuel Kant teorizzava nel suo saggio Per la pace perpetua riguardo all’uguaglianza fra i cittadini di tutto il mondo, compresi in un contesto globale in cui vi è un potere comune ideato per evitare qualsiasi guerra fra gli uomini. Andiamo al dunque. Quali sono le caratteristiche proprie dello sport che non lo condannano a una rappresentazione della cruenta lotta fra popoli, come poteva accadere ai tempi hitleriani? Innanzitutto, ci sono alcuni elementi intrinseci allo sport che possono facilitare la fraternità e la veicolazione sana della naturale competizione fra esseri umani. Dopo tutto, se sfocia nel gioco, lo scontro non si ammorbidisce forse in un incontro? Due squadre nazionali che si sfidano su un campo da calcio, con i rispettivi tifosi che si siedono accanto sugli spalti e che si accodano insieme all’entrata dello stadio, non trasformano lo scontro in incontro? Io credo che, in qualche misura, le risposte possano essere (felicemente) positive. Insomma, i colori, la gioia, i cori, i senegalesi con il petto nudo e tinto di rosso, giallo e verde, i brasiliani illuminati dalle loro splendenti maglie gialle, gli islandesi che si presentano con le barbe lunghe e che cantano in coro credo possano costruire simpatia in chi li guarda e li conosce. Non è questo il lato migliore e più profondo proprio dello sport? Inoltre, proprio nello sport gli istinti di superiorità tipici del sentimento nazionalista possono arenarsi davanti alle sconfitte o alla scarsa competitività contro le altre squadre. Ad esempio, gli italiani, perdendo, potrebbero aver compreso che non sono i migliori del mondo e che la loro paventata superiorità calcistica altro non è che miraggio di anni (e di fortune) che furono, visto che anche la Svezia e la Macedonia paiono in grado di fermarli. E allo stesso modo credo possa accadere per molti altri (olandesi?, argentini?, tedeschi?, spagnoli?). Un’altra questione interessante riguarda, a parer mio, il fatto che, durante i mondiali di calcio, chiun-
12 Eureka Universitari per la Federazione europea•Luglio 2018
que si accorge che ciascuna nazionale dovrebbe più propriamente essere chiamata multinazionale. Perché? Perché la formazione della Francia pullula di francesi con origini africane, quella della Germania è costernata da tedeschi di origini turche, quella della Nigeria ha qualche titolare con la pelle chiara e calciatori di origine slava e kosovara sono inclusi in tutte le rose europee. Morale: forse è vero che i confini non sono costruiti seguendo le divisioni di sangue! Purtroppo, però, ora è il momento di elencare anche qualche punto che mi fa credere che la Coppa del Mondo sia una manifestazione che abbia effetti filo-nazionalisti. Eric J. Hobsbawm, storico britannico, in Nazione e nazionalismi raccontava di quando, a inizio Novecento, si disputarono le prime partite fra squadre nazionali e di come, con i nazionalismi non ancora pienamente consolidati, si potesse intravedere nello sport l’idea di nazione in carne e ossa. Quanto oggi queste osservazioni possano essere considerate attuali non è facilmente dicibile, ma, sicuramente, il nazionalismo ha storicamente fatto leva sullo sport per diffondersi. In secondo luogo, io credo che tuttora permanga nei tifosi, nonché cittadini, l’identificazione, alle volte radicale, con le bandiere, le maglie, le vittorie, le sconfitte o i giocatori (che solitamente vengono celebrati più delle eccellenze dell’arte, della letteratura e della
cultura), generando spesso il contrasto con gli stessi simboli appartenenti alle squadre avversarie (vi dicono qualcosa la rivalità degli italiani con i tedeschi o quella dei brasiliani con gli argentini, ad esempio?). In terzo luogo, come accennavo prima, vi è un manifesto problema con la terminologia utilizzata dal mondo dello sport. Infatti, parlare di nazionali è errato, perché i confini degli stati non corrispondono mai (con la eventuale sola eccezione del Giappone) con i confini delle nazioni. A chi non ci crede, chiedo di trovare dieci usanze tipiche in comune fra un altoatesino e un siciliano, oppure fra un catalano e un madrileno. E allora perché le chiamiamo nazionali? Semplice: perché il sistema della Coppa del Mondo è nelle mani degli stati nazionali, che in quanto tali per sopravvivere devono nazionalizzare. Questa imprecisione sostengo non aiuti per nulla a educare alla realtà, cioè alla presa di coscienza dell’unicità del genere umano. Trovare una risposta dirimente alla domanda iniziale richiederebbe un’analisi più approfondita, che forse può essere ricercata solo da qualche invasato, perché nel frattempo tutti gli altri si godranno i gol e le emozioni che il calcio e lo sport possono regalare. Ma forse non si tratta di una divisione dicotomica, quindi vi invito a mettervi nel mezzo; mentre assaporate il calcio giocato, provate a meditare sui suoi effetti: si scopre un mondo di cose!
Luglio 2018•Universitari per la Federazione europea
Eureka 13
Rubrica Erasmus: Dublino di Gio tti vanni Righe
D
el mio Erasmus nella verde Irlanda ricordo in particolare il primo mese, e ricordo di essermene amaramente pentito quasi subito. CHI ME LO HA FATTO FARE? Chi me lo ha fatto fare di cercare casa per un mese, vivendo nel frattempo in ostello? Di abbassare gradualmente le pretese, visita dopo visita, trovandomi a fare la fila fuori dagli appartamenti con altre venti persone per vedere una stanza a Drumcondra o a Rathmines? NO STUDENTS, ONLY PROFESSIONALS Le mattine del primo mese ci si connetteva da Starbucks (prezzo connessione: double espresso) per fissare gli appuntamenti delle visite del pomeriggio. Poi su e giù per Dublino a piedi (spesso) o con i mezzi (raro). Tutto ciò per visionare stanze imbarazzanti a prezzi folli. Le sentenze spesso erano dei lapidari “no longer available, sorry” oppure “no students, only professionals” e la mattina dopo si tornava da Starbucks, stesso double espresso, altro giro di chiamate. Chi me lo ha fatto fare? Davvero ne vale la pena? I miei amici sono a Verona ora, e mi invidiano pure, ora che sono “un Erasmus”. Se tornassi? Spenderei meno, meno stress, e riuscirei anche mettermi in pari con gli esami – in italiano, così magari ci capirei anche qualcosa. Torno in Italia? Torno. No anzi, ci provo ancora. E alla fine trovo una sistemazione a Rialto, zona 8, 15 minuti/ bici dal centro. Il proprietario dice good location, l’inquilino
Dublino, Irlanda
uscente dice greedy landlord and dodgy neighbourhood, i ragazzini in strada mi lanciano i sassi – giuro. Spese urgenti: cuscino e coperte. La stanza aveva solo un materasso - il greedy landlord si era dimenticato di specificare che tutto il resto se lo doveva portare via il vecchio coinquilino. Seguirebbe interessante, divertente e un po’ stucchevole racconto di quanto, da quel momento in poi, l’esperienza Erasmus sia stata emozionante e piena di avventure. NE VALE DAVVERO LA PENA? Guardandomi indietro ho sempre pensato che il mio Erasmus abbia avuto inizio la notte che ho trascorso sul materasso, prendendo nota delle spese urgenti per il giorno dopo. Come avrei ampiamente trattato nell’interessante, divertente e un po’ stucchevole racconto della mia esperienza, in nove mesi ci sono stati dei fisiologici alti e bassi, e anche qualche crisi, come è giusto che sia, ma non ho mai pensato di tornare in Italia prima del tempo. MA DAVVERO TUTTO CIÒ È UN DI PIÙ? OPPURE È SOLO UNA VACANZA SPESATA, COME MOLTI PENSANO? Secondo me, pur dipendendo dagli obiettivi che ognuno si pone alla partenza, l’Erasmus è fondamentalmente un espediente per costringere lo studente fuori dalla sua comfort zone. Per la prima volta ci si pone fuori dal proprio contesto e si è costretti a ripensare la propria routine, a riadattare il proprio stile di vita. Aldilà delle nuove amicizie, degli esami e del curriculum, penso che il vero valore aggiunto dell’Erasmus siano i momenti di difficolta e disagio. La sensazione di smarrimento quando si viene catapultati in un’altra realtà con in tasca un abbozzo di Learning Agreement rigorosamente nella cartellina “Dublino”. Penso sia proprio questo senso di inadeguatezza a porre lo studente nella giusta prospettiva nei confronti del mondo esterno. Affrontare ciò che è radicalmente nuovo, pur in un ambiente relativamente protetto come quello universitario, ti spinge, per necessità, a conoscere e rispettare ciò che è diverso. Ma non si tratta della solita esperienza “nuovi amici-culture diverse-imparo la lingua”: per quello ci sono le vacanze studio a Malta. Proprio per questo motivo ho scelto di parlare del mio primo mese a Dublino, cioè quello in assoluto più frustrante: penso sia stato non solo parte integrante del mio Erasmus, ma addirittura il vero valore aggiunto.
14 Eureka Universitari per la Federazione europea•Luglio 2018
di hi Um berto Marc
Conosciamo i federalisti europei: Carlo Cattaneo (1801-1869)
Quinta puntata della rubrica "Conosciamo i federalisti europei”, in cui raccontiamo la biografia di alcuni famosi federalisti!
«U
nità vogliamo noi pure, ma non smembramento e decapitazione. Vogliamo l’unità degli Stati Uniti d’America, non quella dell’Inghilterra che opprime la Scozia e l’Irlanda, non quella della Russia che schiaccia la Polonia. Noi facciamo voto per gli Stati Uniti d’Italia, non solo, ma per gli Stati Uniti d’Europa». A noi noto soprattutto per il suo ruolo determinante nelle cinque giornate di Milano del 1848, Carlo Cattaneo fu anche un grande federalista! Invero, Cattaneo era ben conscio della presenza nella storia del continente europeo di una poderosa tendenza unitaria, frutto non solo di una comune cultura politico-giuridica data dalla lunga età del diritto comune (romano e canonico), impostosi nel XII sec. e rima-
Carlo Cattaneo in un ritratto di Ernesta Bisi (1826)
sto sempre vivo fino alle grandi codificazioni nazionali, ma anche e soprattutto dell’intensa rete di scambi culturali e commerciali, di vie di comunicazione terrestri e navali, di rapporti economici e politico-militari che hanno caratterizzato fin dalle origini la storia del nostro Continente. Egli difatti era convinto che, per un verso, l’Europa avesse al suo interno questo sostrato storico-culturale comune e, per altro verso, che lo sviluppo scientifico ed economico in atto in Europa rendesse ormai inevitabile il processo di unificazione. Per Cattaneo solo la scelta federale poteva consentire ai popoli europei, da un lato, di difendere, promuovere ed esaltare la propria identità storica, culturale e linguistica e, dall'altro, di avviare, attraverso la rinuncia ad una piccola quota di sovranità, un processo irreversibile di pace e di collaborazione, nonché di risolvere problemi che nessun popolo da solo sarebbe stato in grado di affrontare. Per Cattaneo era questa la strada più semplice e più limpida per conseguire l’unità nella diversità. Luglio 2018•Universitari per la Federazione europea
Eureka 15
«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947