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Universitari per la Federazione europea

Cara Europa, dove vogliamo andare nel 2018?


Som m a r i o

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Germania e Francia al nastro di partenza, Italia ai box

Una data storica e tre domande sul Medio oriente

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Legge della precarietà

Rubrica Erasmus: Santander

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La partnership delle Unioni: per collaborare è necessaria una Federazione europea.

Conosciamo i federalisti europei: Jean Monnet (1888-1979)

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Universitari per la Federazione europea

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Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona: Responsabile del gruppo studentesco: Marco Barbetta. Direttore: Filippo Sartori. Collaboratori: Dimana Anastassova, Gianluca Bonato, Davide Corraro, Pietro Franceschini, Andrea Golini, Umberto Marchi, Margherita Margotti, Filippo Pasquali, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com Progetto grafico: Bruno Marchese

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Editoriale di o Sal vatore Roman

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rump fa il suo dovere, e con la lenza che lancia nel bacino mediorientale spera di pescare gloria, successi e voti; Putin, allarmato dalle mosse del nemico, si avvicina di corsa alla riva e getta dalla sponda opposta la sua lenza. Ecco, qualcosa si muove, il filo russo si tende di colpo, ancora poco e ci sarà lo strappo decisivo. Ma in questi mari, sembra pensare l’esperto pescatore, è meglio pazientare, una mossa affrettata può farti rimanere con l’amo in mano. Il subbuglio che si crea è sufficiente ad allarmare i capi di Stato europei. Subito giungono le dichiarazioni e le prese di posizioni. Ma l’onda anomala, che arriva sulla sponda atlantica da due anni a questa parte, lì dove più miti correnti accarezzavano il continente europeo, ha preso di nuovo in contropiede i primi ministri dei ventisette. Questa ha avuto il paradossale merito di metterli con le spalle al muro, di costringerli a orientare diversamente le lancette delle proprie bussole, perché ha fatto loro intendere che sull’ovest ormai non ci si può più affidare. E se all’epoca della guerra fredda, una situazione di stallo spinse gli stessi Stati a compiere passi importanti sulla via della cooperazione, questa sembra ancora l’odierna strada da percorrere. Ed è ciò che alcuni leader europei ammettono oggi nei loro interventi davanti alla stampa. I discorsi di Macron e quello recente di Schulz sono così intonati, ed il suono che sale da questa concordia d’ugole dice che un’Unione più forte è diventata una necessità. Anche in Italia questo qualcuno lo sa, ma usa un falsetto stentato e la voce non arriva alla platea. E se arriva è una vocetta flebile, che incontra timida i padiglioni auricolari, che sono i primi motori che mettono in movimento il meccanismo dell’applauso. Quando poi è tempo di elezioni, le affermazioni forti e decise muoiono in gola. Ma negli ultimi tempi si nota che il contagio europeista è approdato un po’ dappertutto, e pure in Italia ha sciolto le corde vocali dei più. Questo se sul breve spalleggerà chi ne saprà fare buon

uso in vista di competizioni elettorali, alla fine rivelerà quali saranno stati i migliori a barcamenarsi in mezzo ai marosi e a concretizzare i passi che vanno verso una maggiore integrazione europea. Seppure nel 2017 spigolosi scogli sono stati aggirati e l’euroscetticismo è stato sconfitto là dove si temeva che avrebbe vinto, la riva sulla quale passeggia oggi chi crede nel progetto europeo non è ancora sicura e libera da inondazioni. Gli argini non sono ben curati, e le falle lasciano pericolose stagnazioni d’acqua. I successi ottenuti nel passato, il cammino cominciato più di sessant’anni fa danno buone speranze per il futuro. Ma se esiste mai un tempo in cui cullarsi nell’agio delle cose fatte, non sentire il pungolo delle cose da fare, se in breve esiste davvero questa felice età dell’oro, per l’Europa non ne sono arrivati ancora gli anni. La storia recente e quella più antica può essere uno specchio efficace per riflettere gli errori passati, su questa ci si può soffermare a lungo, come chi sosta dopo aver corso un grave pericolo: «E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata, / così l’animo mio ch’ancor fuggiva, / si volse a retro a rimirar lo passo / che non lasciò già mai persona viva».

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di lli And rea Zano

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Germania e Francia al nastro di partenza, Italia ai box

ir wollen die Vereinigten Staaten von Europa». Queste le parole di Martin Schulz durante il Congresso del Partito socialista tedesco a Berlino. Lo ha detto davvero: Noi vogliamo gli Stati Uniti d’Europa. Schulz, ex presidente del Parlamento Europeo e neo-sconfitto nella tornata elettorale tedesca, rappresenta oggi l’ultimo tentativo per Frau Merkel di costituire una maggioranza di governo nel Bundestag. Ma conviene procedere con ordine. Il 24 settembre scorso, si sono tenute le elezioni federali per il rinnovo della legislatura in Germania. Merkel è arrivata dinnanzi a tutti, nonostante ci sia stato un netto calo per il suo partito, mentre i rivali socialisti di Schulz hanno deluso perdendo anch’essi una notevole mole di voti rispetto al 2013. Così, la cancelliera uscente ha iniziato le trattative con gli altri partiti per formare una maggioranza di governo, avendo come unica vera soluzione la cosiddetta Coalizione Giamaica, denominata così dai colori dei tre partiti interessati: nero, giallo e verde, come quelli della bandiera giamaicana. I tre partiti, Cristiano-Democratico, Liberale e Verde, hanno iniziato le trattative, che però si sono concluse in un nulla di fatto, soprattutto per la decisa rigidità del Partito Liberale, che ha commentato: «Meglio non governare, che governare male». Quali scenari sono possibili, allora, per la nota stabilità di governo tedesca? Nuove elezioni o un ritorno alla Grande Coalizione. Il Presidente della Repubblica tedesca Steinmeier, dal suo autorevole canto, ha scelto per la seconda opzione, preferendo non indire ora nuove elezioni e spingendo i due partiti con il maggior numero di seggi nel Bundestag a continuare con la coalizione che ha governato in Germania (e nel Parlamento europeo) negli ultimi quattro anni. E così, arriviamo ad oggi: Merkel che vaga fra nuove elezioni e occhiolini ai socialisti, Schulz che emette un discorso forte e incisivo da campagna elettorale con una grande novità: sbilanciamento puro sull’Eu-

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ropa. Fra l’altro, tornando alle parole del leader socialista e allontanandoci dalla cronaca relativa al Bundestag tedesco, egli non ha utilizzato mezzi termini, perché ha continuato: «Voglio un nuovo trattato costituzionale per stabilire gli Stati Uniti d’Europa. Un’Europa che non sia una minaccia per i suoi stati membri, ma un valore aggiunto». E si è anche dato un termine: «Entro il 2025, noi dovremo avere una maggiore cooperazione in questo senso». La sfida a Merkel pare chiara: ridisegniamo l’Europa, dimostriamoci trascinatori dell’innovazione politica del nostro continente. E subito mi viene alla mente il discorso pronunciato alla Sorbona dal Presidente francese Macron a fine settembre: «Il solo modo per garantire il nostro avvenire è la rifondazione di un’Europa sovrana, unita e democratica». Anche lui lo ha detto davvero: Un’Europa sovrana, unita e democratica. E nel contesto odierno, io sono convinto che solo un asse franco-tedesco forte e determinato possa stimolare un forte rilancio dell’Europa, con una riforma dell’UE che necessita di radicalità e di partire dalla stipulazione di nuovi trattati. Per questo il mio augurio è per la formazione di un governo Merkel-Schulz il prima possibile, per fornire alla Germania un governo forte saldamente unito dalla volontà di innescare un processo di rinnovazione e di innovazione dell’Unione Europea, partendo insieme alla Francia, che ha già la vettura pronta, e poi coinvolgendo tutti gli Stati che si dimostreranno attrezzati a correre con loro. Dove sta l’Italia in tutto questo? Non lo sappiamo, perché per ora siamo fermi ai box. Sicuramente, prima delle prossime elezioni politiche di marzo non possiamo aspettarci di avere risposte, ma, in cuor mio, auspico che il tema cardine della campagna elettorale si sposti sull’idea di Europa che ogni partito ha da proporre, perché, altrimenti, temo che il Belpaese si ritroverà assente nel momento di una possibile partenza scattante di Germania e Francia (e magari di molti altri, vedi Spagna). E nessun italiano può ragionevolmente desiderare questo scenario. E allora, chiediamo di parlarci, di Europa, per presentarci anche noi al via al momento dello sparo.

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Legge della precarietà di o Sal vatore Roman

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a legge elettorale viene approvata alla Camera, e passa al Senato. Qui ottiene il sì definitivo. Studenti, forse maliziosi, forse ingenui, in visita al Quirinale domandano al Presidente della Repubblica: «Cosa fa se una legge non le piace?». La risposta, «quando mi arriva qualche provvedimento, una legge del Parlamento o un decreto del Governo, io, anche se non lo condivido appieno, ho il dovere di firmarlo», è quella giusta, sortisce l’effetto di una mano che in fretta spazza via una nuvoletta di fumo. Il 12 dicembre la Corte Costituzionale respinge gli appelli contro la suddetta legge. L’accusa di incostituzionalità cade, e la legge, votata da Pd, Forza Italia, Alternativa popolare, Lega Nord, sarà quella con cui si andrà a votare nel marzo 2018. Rosatellum, Rosatellum bis per alcuni, Inciucellum per altri. Dall’incontro tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica emerge la data delle elezioni. Saranno il 4 marzo. La legislatura terminerà probabilmente negli ultimi giorni di Dicembre, anziché a Marzo come prevedeva la sua scadenza naturale. Approvata la legge di Stabilità, si può dire basta e chiudere temporaneamente i cantieri delle aule parlamentari. Così vuole Mattarella, così vuole un Parlamento frammentato e incapace di pronunciarsi su molte questioni. Perciò alle aule si metteranno i paletti, e una segnaletica adatta, ma la scritta apposta su questa non sarà “Attenzione, lavori in corso”, ma “Attenzione, chiusura in corso”. Questo è il prezzo da scontare per le nuove elezioni, perché abbia corso l’equazione nuove elezioni uguale nuovo governo. «Senza vincitori, avanti con Gentiloni», ha detto recentemente il leader di Forza Italia, sceso di nuovo in campo dopo l’esilio politico. La sua frase esprime un pensiero corrente, ossia che questa legge elettorale difettosa, e, se si vuole, il difettoso panorama politico italiano, viziato dalla compresenza di tre poli, favoriscono l’ingovernabilità. Dalle urne c’è la sicurezza che si uscirà senza governo, data anche l’assenza di coalizioni forti. Perciò bisogna correre ai ripari. In questo senso si è mosso l‘inquilino del Quirinale negli ultimi giorni. La previsione dell’assenza di una maggioranza par-

lamentare, e il timore che si ripeta in Italia ciò che si è verificato in Spagna e in Germania, hanno spinto a puntare nuovamente su Gentiloni e su un suo governo nei mesi pre- e post-elezioni. La sagoma dell’attuale premier pare ritagliata ormai per riempire gli spazi vacanti della politica italiana. Un riempitivo per coprire e nascondere un vuoto istituzionale, o semplicemente Gentiloni rappresenta un fedele sosia del protagonista de L’Intrepido, film di Gianni Amelio. Un uomo di mezz’età, candido e ingenuo, prende il posto di lavoro di chi per un giorno o una settimana è assente, e vive alla giornata passando da un mestiere all’altro. La sua precarietà, e quella di molti altri lavoratori sembra essersi trasferita ora alle istituzioni. E di rimbalzo agli elettori, che andranno alle urne in molti sfiduciati, non credendo nemmeno in coalizioni post-voto stabili e durature. Molti, secondo i dati attorno al 30 per cento, condividendo questa percentuale con gli indecisi, non si presenteranno neanche davanti alle cabine elettorali. Ma altri, e non importa se pochi, eserciteranno il proprio diritto di voto. Questi, se fosse loro possibile, prenderebbero volentieri il posto di chi si astiene, cambierebbero il nome sulla scheda elettorale sostituendolo con il proprio, e andrebbero a votare.

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di Andr Golini ea

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La partnership delle Unioni: per collaborare è necessaria un Federazione europea. Come risulta dal quinto vertice tra Unione europea e Unione africana, le relazioni tra i due continenti sono in crescita e l'unico modo per risolvere le questioni comuni, attuali e future, è quello di affrontarle insieme.

ttualmente l'Unione europea ricopre il ruolo di maggior promotore e investitore per lo sviluppo, la stabilità e la pace del continente africano.Esempio di questo sono i 32 miliardi di euro investiti dalle imprese dell'Unione europea solo nel 2015, pari a circa un terzo del totale degli investimenti diretti esteri in Africa; più di 1 miliardo di euro sarà investito a sostegno dei programmi per l'istruzione e la formazione, da qui fino al 2020; sette missioni civili e militari sono dispiegate su tutto il territorio africano in difesa dei diritti civili. Grazie all'impegno dell'Unione europea il legame tra il vecchio continente e quello africano negli ultimi anni si è rafforzato esponenzialmente. Importante è stato il vertice di La Valletta del novembre 2015, quando i leader di entrambi i continenti concordarono il lancio dello EU Emergency Trust Fund for Africa. Si tratta di un fondo fiduciario, finanziato con le risorse della cooperazione allo sviluppo europeo e dai contributi degli Stati membri, creato per combattere le cause iniziali delle migrazioni provenienti dall'Africa e per finanziare progetti legati alla sicurezza, come il progetto di capacity building per la guardia costiera libica. Due anni dopo, più precisamente lo scorso 29-30 novembre ad Abidjan in Costa d'Avorio, c'è stato il quinto Summit tra Unione europea e Unione africana, dove i leader dei due continenti hanno valutato e discusso ciò che è stato fatto negli ultimi anni e ciò che dovrà essere fatto da qui in avanti. Si è parlato di investimenti per i giovani: «Giustamente desiderate che vi si dia ascolto quando discutiamo delle priorità e delle azioni per

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i prossimi anni e che vi si includa nella loro attuazione, in quanto sarete voi a portarle avanti in futuro. Il nostro compito come leader è di prendere decisioni che renderanno il futuro più sicuro e più prosperoso per tutti i nostri giovani, sia in Africa sia in Europa», ha affermato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, durante la conferenza stampa del quinto Summit UE-UA. Il tema più caldo è stato quello del fenomeno migratorio: i leader delle due Unioni si sono presi l'impegno e la responsabilità di collaborare per combattere le cause della migrazione irregolare, causata soprattutto da trafficanti di esseri umani, e per porre fine al trattamento disumano dei migranti e dei rifugiati in Libia. Per quanto riguarda la situazione nel Paese libico, insieme alle agenzie dell’Onu come la UN Refugee Agency, entro i prossimi 12 mesi l’UE favorirà il rimpatrio di circa 15.000 migranti, detenuti in condizioni di aperta violazione dei diritti umani di base ed effettuerà 50.000 processi di ricollocamento per gli individui che necessitano protezione internazionale. Inoltre per rafforzare la cooperazione, si è istituita una Task Force congiunta tra Unione europea, Unione africana e Nazioni Unite. Tale Task Force avrà come obiettivo quello di salvare e proteggere le vite dei migranti, accelerare i rimpatri volontari assistiti nei paesi di origine e accelerare il reinsediamento delle persone bisognose di protezione internazionale. Tuttavia non si è ancora definito quali e quante risorse saranno dedicate a questa iniziativa. Perciò, con questo quinto summit, Unione europea e Unione africana hanno ribadito lo sforzo per una partnership stretta e forte, in collaborazione con

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Il Vertice Ue-Africa ad Abidjan le Nazioni Unite, per far fronte alle sfide internazionali come migrazione e crescita economica a cui si aggiunge quella del terrorismo. Come dichiarato dal presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, «I problemi dell’Africa sono i problemi dell’Europa». Il sostenitore del “Piano Marshall” per l'Africa ritiene che bisogna intervenire in Africa per avviare una transizione del continente verso un’industria sostenibile e un’agricoltura efficiente attraverso politiche solidali. Tutto ciò, se avviato con il sostegno delle Nazioni Unite, porterebbe un maggior sviluppo e una maggiore stabilità non solo in Africa ma anche in Europa (basti ricordare il legame tra imprese europee e imprese africane). Eppure le attuali strategie politiche sembrano richiedere troppo tempo per essere messe in atto e agli accordi non sempre sono stati corrisposti validi risultati. Questo ha alimentato il timore che le discussioni tra i leader dei due continenti siano state e potrebbero essere solo una semplice formalità. Come mai l'attuale collaborazione tra UE e UA risulta ancora così poco concreta e così poco efficace, nonostante gli sforzi che si stanno facendo? L'Unione africana ha limiti di competenza e di potere che derivano dal fatto di essere un'organizzazione prettamente internazionale; l'interesse dei singoli Stati africani prevale sull'interesse comune dell'intero continente e il “potere di veto” limita la concretezza di tali organizzazioni. Inoltre, come criticato dall'Italian Center for International Development (ICID), alcuni Stati dell'Unione africana faticano a comprendere che i problemi, come quello delle migrazioni, sono strutturali e di lungo periodo. Lo stesso ragionamento può essere fatto con l'Unione europea: seppure abbia forme di potere maggiori rispetto ad una semplice organizzazione internazionale, è limitata dalle politiche estere di alcuni Stati, che rispetto ad altri, non essendo ancora direttamente coinvolti, impediscono il perseguimento di riforme necessarie per migliorare l'attuale situazione europea. Si pensi per esempio ai regolamenti di Dublino, rego-

lamenti che molti esponenti europei vorrebbero modificare perché ormai inefficaci e che proprio per questo stanno mettendo in difficoltà i Paesi più esposti alle nuove migrazioni provenienti dal continente africano. Con il sistema attuale, che prevede il voto all’unanimità sulle politiche considerate sensibili come la sicurezza sociale, la politica estera e la difesa comune, le proposte per modificare i regolamenti di Dublino vengono bloccate. L'unanimità rallenta la risoluzione delle problematiche attuali; per poter agire su tali questioni è necessaria la maggioranza qualificata. Con le competenze di uno Stato Federale, l'Unione europea potrebbe agire velocemente evitando l'ostruzionismo dei pochi Stati che utilizzano la loro sovranità a discapito del benessere europeo. L'Unione europea perciò dovrebbe considerare che una collaborazione con l'Unione Africana sarebbe più efficace se le proprie competenze in materia e le possibilità di intervenire fossero maggiori rispetto a quelle attuali. La gestione politica di ogni singola nazione è debole; è necessario creare un nuovo sistema nel quale determinate competenze vengano ampliate. È necessario portare la discussione da un livello nazionale ad uno più ampio europeo, con una dichiarazione di intenti comuni a garanzia di tutti gli Stati membri. In Europa tutto ciò può avvenire solo con la creazione di una Federazione europea. In questo modo una collaborazione tra interi continenti, necessaria tra Unione europea e Unione africana, risulterebbe più efficace, più concreta e soprattutto più veloce. Per questo motivo il percorso da intraprendere per cercare di risolvere tali problematiche è quello della collaborazione, della partnership, delle decisioni comuni, riducendo la sovranità degli Stati nazionali, che limita le possibilità di risoluzione delle questioni che coinvolgono interi continenti. Se è vero che dal destino dell'Africa dipenderà anche il futuro dell'Europa allora è necessaria una partnership di Unioni con maggiori competenze, nell'interesse africano ed europeo.

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di i Pie in tro Francesch

Una data storica e tre domande sul Medio oriente

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l 6 dicembre passerà alla storia come una data da ricordare. In questo giorno infatti il presidente americano Donald Trump ha deciso unilateralmente di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato israeliano. La dichiarazione di Trump porta con sé una serie di questioni non indifferenti che ora proverò ad elencare e a rispondere. 1. Quale sarà il futuro della leadership americana nei negoziati di pace? Alla luce degli ultimi avvenimenti, il quadro geopolitico mondiale non può rimanere invariato data la mossa dell’amministrazione Trump. Questa decisione getta un’ombra sulla capacità da parte di Washington di essere un arbitro imparziale della questione. Pare evidente, in particolar modo agli occhi della leadership palestinese come gli Stati uniti abbiano deciso di schierarsi definitivamente dalla parte dello stato d’Israele, togliendo quindi gli USA da una zona di imparzialità e compromettendo in maniera quasi risolutiva, salvo nuovi colpi di scena che non possono certamente essere esclusi date le caratteristiche del nuovo inquilino della Casa bianca, la tregua degli accordi di Oslo del 1993, che prevedeva la formazione di due stati separati. Inoltre, il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele ha generato instabilità non solo nella regione (i leader di Hamas hanno già promulgato

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una terza intifada; l’ambasciata americana a Beirut è stata presa di mira da parte di migliaia di manifestanti scesi in piazza), ma anche dal punto di vista interno: l’11 dicembre infatti a Manhattan un immigrato bengalese risiedente in America da 7 anni ha tentato di farsi esplodere nella metropolitana di New York, fortunatamente senza causare dei morti. Le probabilità che atti del genere si ripetano in America restano dunque alte. L’eventualità che quindi gli Stati Uniti possano continuare ad essere un negoziatore riconosciuto da entrambe le parti restano basse e l’”affare israelo-palestinese”, come lo ha definito Trump in campagna elettorale, si trova ad un bivio: o si continua con gli Stati Uniti escludendo le soluzioni a due stati e quindi cercando di trovare una nuova soluzione (stato bi-nazionale?) oppure si apre lo spazio per l’ingresso di nuovi responsabili delle negoziazioni (Putin? Europa?). 2. Come si rapporterà il mondo islamico nei confronti della questione di Gerusalemme? Per i mussulmani di tutto il mondo, Gerusalemme rimane la linea rossa che non si sarebbe mai dovuto oltrepassare per il raggiungimento della pace in una soluzione con due stati. I palestinesi infatti considerano Al

Vertice di Istanbul

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Al Quds, città vecchia di Gerusalemme to e Giordania dipendono politicamente e ed economicamente dalla Casa bianca, ma non è da escludere che Putin possa ottenere una maggiore influenza date le sue recenti vittorie nella guerra in Siria. 3. L’Europa cosa intende fare?

Quds, la città vecchia di Gerusalemme, come la capitale dello stato palestinese e per questo il leader dell’OLP Abu Mazen ha dichiarato che gli accordi di Oslo non verranno più riconosciuti in risposta alla decisone di Trump. Negli ultimi giorni i principali leader del mondo arabo si sono riuniti ad Istanbul sotto la guida del primo ministro turco Recep Erdogan, il quale ha deciso di schierarsi in prima linea divenendo il portavoce della questione di Gerusalemme all’interno del mondo arabo. Ad Istanbul i 57 paesi membri dell’organizzazione dei paesi mussulmani hanno dichiarato di voler riconoscere Gerusalemme est come capitale della Palestina, delegittimando quindi il presidente americano. Il mondo arabo però al suo interno si trova diviso in particolar modo le due principali potenze medio orientali: l’Arabia Saudita da sempre alleata degli americani e che durante le discussioni di Istanbul ha cercato, con successo, di smussare la dichiarazione finale, e l’Iran di Rouhani da sempre intransigente nei confronti degli Stati uniti. L’Iran, alla luce della possibilità da parte di Washington di ridiscutere gli accordi sul nucleare, cerca quindi di spingere in una direzione di rottura dichiarando illegittimi gli americani come negoziatori. Dall’altra parte abbiamo il governo di Riyad, e in particolar modo la figura del principe bin Salman, di tentare una soluzione di compromesso con gli Stati Uniti: è previsto infatti nei prossimi mesi un incontro tra il principe ereditario e il ministro dell’intelligence israeliana Ysraeli Katz. In tutto ciò si inserisce la Russia di Putin; il quale di recente si è incontrato al Cairo con il presidente egiziano al Sisi, Abu Mazen e il re giordano Abdullah. Egit-

Immediatamente dopo la dichiarazione di Trump, tutti i principali stati europei si sono schierati contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale, votando compatti in maniera non favorevole all’interno del Consiglio di sicurezza dell’ONU, dichiarando che non verrà riconosciuto nessun nuovo status della città santa senza che ambo le parti siano favorevoli. Il primo ministro israeliano Netanyahu ha di recente partecipato ad una serie di incontri con i suoi corrispettivi europei, in particolar modo Emmanuel Macron, che, in assenza di Angela Merkel, per questioni post elettorali si trova ad essere il principale leader europeo e ha dichiarato che la Francia non riconoscerà il nuovo status di Gerusalemme. In un successivo incontro con l’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza europea Federica Mogherini, Netanyahu si è trovato ancora una volta la porta sbattuta in faccia. Inoltre, pare che la Mogherini stia lavorando ad una dichiarazione congiunta da parte dei 27 paesi europei di ferma condanna alla decisione di Trump, la quale rischia di cancellare le poche possibilità di pace. Ovviamente l’Alto Rappresentante sta trovando difficoltà a raggiungere tale dichiarazione, per la contrarietà da parte di Victor Orban, primo ministro ungherese, da sempre pecora nera all’interno del Consiglio europeo in quanto contrario a maggiori forme di integrazione e vicino al Cremlino, e da parte dell’uscente governo della Repubblica Ceca, il quale ha dichiarato per voce del suo ministro degli esteri di riconoscere come capitale dello stato di Israele Gerusalemme, non nella sua integrità ma solo nella parte ovest, ossia quella prevista dagli accordi di pace successivi alla Guerra dei sei giorni. Ancora una volta, quindi, l’Europa, per colpa del metodo intergovernativo, probabilmente non potrà essere un protagonista vero dei futuri colloqui di pace, lasciando a figure come Erdogan e Putin il ruolo di arbitro della partita.

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Rubrica Erasmus: Santander i

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rasmus è inizialmente burocrazia, la peggior burocrazia che esista: quella delle università italiane. Erasmus è partire senza sapere dove si sta andando, il più delle volte da soli. È arrivare in un paese del quale non si parla la lingua e come prima cosa sentirsi dire dall’agenzia che la casa che avevi affittato non è pronta, e che quindi ti hanno trovato una sistemazione temporanea. Qui conosci quella che sarà la prima amica di tutto un semestre, una dolcissima ragazza brasiliana spaesata quanto te, con la quale, dopo un primo momento di incertezza, entri in confidenza bevendo vino rosso dimenticato dagli inquilini precedenti e parlando di quanto sia bello fare acquisti di cancelleria. Con lei inizi a scoprire piano piano la città, prima gli ambienti universitari, l’Oceano, poi il centro e via via cose sempre meno turistiche. Poco più di una settimana dopo, appena il tempo di sentirsi a proprio agio nella sistemazione provvisoria, l’agenzia si fa viva dicendo che la tua vera casa adesso è pronta. Con valigie e bagagli a metà è allora il tempo per un nuovo cambio casa, questa volta però non c’era nessuno ad aspettarti, solo una casa sporca e decisamente diversa da come ti era stata presentata sul catalogo online. Ma non ci vuole molto perché un messicano tutto matto venga a vivere lì, diventando un coinquilino sicuramente sui generis, ma senza il quale non ci sarebbero stati karaoke e balletti mentre si faceva da mangiare, finendo a fare i combattimenti con gli utensili da cucina. Erasmus è l’insieme di tutte le persone con le quali entri in contatto. Nascono falò sulla spiaggia dove all’inizio non si sa mai che canzone suonare per trovare qualcosa che coinvolga l’intero gruppo, ma basta un po’ di sangria e di “Wonderwall” per mettere tutti d’accordo. Si improvvisano cene internazionali, dove ognuno cucina il cavallo di battaglia del proprio paese e si scopre inaspettatamente che non per forza è il cibo italiano a farla da padrone, ma che se ci si fida a provare cose nuove, si può restare sopresi ed abbattere qualche pregiudizio. Nel corso di infinite camminate guardando il mare d’inverno, persone conosciute appena qualche mese prima diventano il tuo confidente più intimo, perché è con loro che stai condividendo un qualcosa che i tuoi amici di casa non potrebbero capire appieno.

Erasmus è desiderare di tornare indietro, è quel momento di debolezza che ti porta a chiederti se hai fatto la cosa giusta, se forse non stavi meglio nel tuo appartamentino da fuori sede a Bologna con gli amici di sempre, però in fondo in realtà lo sai che non potevi prendere una decisione migliore che quella di partire. In quel momento la tua forza sono gli amici che ti sei creato, perché non devi pensare di essere il solo a vacillare un attimo. In Erasmus si diventa una grande famiglia, e come in ogni famiglia che si rispetti si condivide tutto, anche le paure. Erasmus è anche università. È svegliarsi la mattina e dover andare a lezione nonostante la sera prima si abbia fatto festa, prendere appunti in maniera sconclusionata e quindi andare a caccia di studenti del posto per farsi aiutare. È fare il tour delle biblioteche per capire quella con il rapporto silenzio-bar più vantaggioso, perché è proprio in biblioteca che si svolgono la maggior parte delle giornate d’inverno, quando ci si rende conto della vicinanza degli esami ed allora tra una pausa caffè e l’altra, ci si ritrova tutti assieme, finendo col fare aperitivo la sera. A poco a poco si inizia a sentirsi al proprio posto nella nuova vita, una volta consolidata una routine, e diventa impensabile l’idea di tornare indietro. Man mano che la data del rientro si avvicina, si organizzano sempre più feste, ci si avvicina sempre di più alle persone, si cerca di fare tutto quello che non si è fatto prima per non lasciare che scivoli via nemmeno un secondo di quell’esperienza che sta volgendo al termine. Ma l’Erasmus è anche tornare a casa.

10 Eureka Universitari per la Federazione europea•Dicembre 2017


di hi Um berto Marc

Conosciamo i federalisti europei: Jean Monnet (1888-1979)

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on vi sarà pace in Europa, se gli Tuttavia, questo disperato tentativo di impedire la sconfitta Stati si ricostituiranno sulla base della Francia fallì perché la classe politica francese era ormai della sovranità nazionale [...]. rassegnata alla resa. Monnet decise allora di recarsi negli I paesi d'Europa sono troppo Stati Uniti per collaborare al Victory Program, convinto piccoli per garantire ai loro poche l'America avrebbe potuto svolgere il ruolo di “grande poli la prosperità e l'evoluzione arsenale delle democrazie”. L'economista Keynes dirà, alla sociale indispensabili. È necessario che gli Stati europei si fine del conflitto, che, con la sua azione di coordinamencostituiscano in una federazione [...]». to, Monnet aveva probabilmente accorciato di un anno la Jean Monnet è un politico francese, considerato tra seconda guerra mondiale. Nel 1943, ad Algeri, entrò a far i padri fondatori dell'Unione Europea. Dopo aver traparte del Comitato di liberazione nazionale “Francia scorso la giovinezza ad aiutare il padre nel commercio del libera”, dove collaborò con De Gaulle per organizzare cognac, allo scoppio della prima guerra mondiale si pose, la resistenza. Nella riunione del 5 agosto 1943, Monnet nel tentativo di rendersi utile, il “formidabile dichiarò al comitato: «Non vi sarà pace in Seconda puntata problema” dell'organizzazione degli approvEuropa, se gli Stati si ricostituiranno sulla della nostra nuovigionamenti, che gli Alleati non sapevano ribase della sovranità nazionale [...] I paesi va rubrica "Conosolvere e che poteva compromettere l'esito del d'Europa sono troppo piccoli per garantisciamo i federaconflitto. Una volta intuita la soluzione, cioè re ai loro popoli la prosperità e l'evoluziolisti europei”, in una programmazione comune tra Francia e ne sociale indispensabili. È necessario che cui raccontiamo la biografia di alcuni Inghilterra, riuscì a farsi ricevere dal Presidente gli Stati europei si costituiscano in una fefamosi federalisti! del Consiglio e a convincerlo della sua propoderazione.» Nel 1949, Monnet si rese conto sta. Inviato a Londra, diede vita a un pool franche la tensione tra Germania e Francia per il co-inglese per coordinare gli acquisti e i trasporti. Alla fine controllo della Ruhr, l'importante bacino carbosiderurgico, delle ostilità, grazie ai brillanti risultati conseguiti, venne saliva minacciosamente, facendo presagire una possibile nominato segretario generale aggiunto della Società delripresa delle ostilità. le nazioni. Monnet iniziò questa sua nuova missione con Per questo, Monnet elaborò, insieme a pochi collabogrande entusiasmo. Ma dovette ben presto riconoscere ratori, una proposta rivoluzionaria: la messa in comune, che la Società delle Nazioni non poteva afsotto il controllo di un governo europeo, fatto realizzare quegli obiettivi di pace e di delle risorse franco-tedesche di carbone e concordia che si proponeva. Potevano esacciaio. La proposta costituiva premessa sere prese solo decisioni all'unanimità. «Il per gettare “le prime fondamenta conveto – così Monnet commenta questa sua crete di una federazione europea indiesperienza – è la causa profonda e nello spensabile per preservare la pace”. In acstesso tempo il simbolo dell'impossibilicoglimento di questa idea, col Trattato tà di superare gli egoismi nazionali». Nel di Parigi del 18 aprile 1951, venne co1923 abbandonò dunque il suo incarico stituita la CECA. Nel 1955, dopo la grae ritornò a occuparsi dell'impresa paterna. ve crisi causata dal rifiuto della Francia di Agli inizi della seconda guerra mondiaratificare la Comunità europea di difesa le, Monnet venne di nuovo inviato a Lon(CED), Monnet diede vita al Comitato dra per organizzare la gestione in comune d'azione per gli Stati Uniti d'Europa, delle risorse degli Alleati. Qui, nel giugno con il quale, sino alla fine della sua vita, 1940, propose a Churchill e a De Gaulinvitò instancabilmente la classe politica le, un progetto per una unione federale europea a non abbandonare la via intraimmediata tra Gran Bretagna e Francia. presa dell'unità europea. Dicembre 2017•Universitari per la Federazione europea

Eureka 11


Disertando la politica non si lasciano le cose come sono, nemmeno nella vita privata. Si creano vuoti di potere, cioè si affida il potere agli altri, si accetta che degli altri divengano i padroni del proprio futuro. Mario Albertini


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