Bruno Massidda
Il giro del mondo in 76 anni
© 2015 Bruno Massidda Tutti i diritti riservati Grafica e impaginazione: CreaLibro Tutte le foto presenti nel volume sono di proprietà dell’autore
Indice
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Prefazione
11 Introduzione Racconti 15
Bombardamenti a Cagliari
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Sfollamento a Orotelli
24 Le scuole 32 Il molo di Levante 36 Le famiglie Fasciolo e Massidda 42 Oristano 46
Piazza del Carmine
51 Turreseu. San Giovanni del Sinis 56 I Lumi 61 La Moto Bianchi 500 64
La caccia al tesoro
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I soldi
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L’Apiscedda - l’Ape della Piaggio
83 La Cesana-Sestriere 89 Natale ad Amsterdam 1970 93
Beppe
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Sitka
100 Adriana 100
Pireo - Grecia
104 Il violino Stradivarius 121 Cuba 123 Fuster 129
Salon Rosado La Havana Cuba
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“La Briciola”. Santo Domingo
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Julio Iglesias
151 Casa de Campo. República Dominicana 154
*Cinque anni prima, a “la Briciola” di Santo Domingo
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Casa de Campo
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Il Victory
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Porto Seguro
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Bahia - Brasil
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La città
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Dante e Cleo
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Il mare
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Prima sorpresa
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Praza da lenha
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La casa sul fiume. Un colpo al cuore
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Marcello da San Paolo
199 Emilia 200 Claudia 203
La serata musicale
207 Churrasco 209
Arriva Marcello
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Arredare la casa
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La prima festa
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Il maggiolone e Stella
223 Tigre 227 Amici, musicisti 237
Pensieri, parole, momenti di vita
246 Ringraziamenti
Prefazione
A una certa età si sente la voglia e il bisogno di consegnare alla carta la nostra voglia di eternità, fosse anche una piccola prosecuzione. Mio figlio non sapeva chi è Bruno. Adesso sa chi è stato e cosa si muoveva intorno a lui negli anni della giovinezza prolungata di suo padre. Gli ho fatto sentire qualche suo pezzo e mi è, anzi ci è, andata bene. Lo ha proposto per la qualifica di evergreen. In effetti non lo hanno avvertito che gli anni passano, e continua a presentarsi in pubblico e al pubblico col sorriso pronto e contagioso da vecchio frequentatore di vecchie cricche cagliaritane, vestito coi colori della festa e un gusto inesausto po su spassiu. L’hanno sempre accompagnato una folla sterminata di amici, che ritrova perché vuole ritrovarli. Compagni di serate piene che finivano quando le palpebre ti avvertivano che era tardi, tra musica e scherzi, prese in giro e confidenze. Bruno, a un certo punto ha preso a partire dalla Sardegna, per tempi sempre più lunghi, su navi e aerei trans oceanici sino a stabilirsi in Sud America, dove possiede una casa. Va e torna come per me era usuale prendere l’Emme o andare a Su Cologone. Nel mentre ha vissuto queste due anime e una ha goduto dell’altra. Dei corpi che ha conosciuto non voglio fare cenno. Dei suoi amici, troppi per non trascurarne molti, ne voglio citare solo uno, un altro artista di cui essere orgogliosi, che ha maturato anch’esso una grande passione per il sud America,
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prefazione
specializzandosi su Cuba. Benito Urgu, suo amico, non c’è bisogno che specifichi grande. Nel libro ci sono tante delle storie che gli sono capitate, in varie parti del mondo, quando andare era un’avventura di soldi e curiosità vergini. Nel libro le ripercorriamo, dette con senso descrittivo, con lo stupore di come sono state vissute, cercate e trovate casualmente. Lo stupore è stato anche mio, sono un vecchio provinciale, e all’incontro con Julio Iglesias ci sarei voluto essere “Chi sono? Come chi sono? Sono amico di Bruno Massidda, sì, il collega di Julio”. Gli episodi sono tanti, vissuti in tante parti del mondo, e ti fanno venire la voglia di partire e affidarti al caso, che in certi casi non è mai tale, e figlio di una disposizione, se non è quello sarà un altro. E comporranno tante storie che diventano la tua storia, una storia resa possibile, una volta vissuta. E chi l’avrebbe immaginato che quel musicista, quella persona che vedevo a Videolina sarebbe diventato mio caro amico e mi avrebbe concesso il privilegio di dedicargli queste righe. Che sono una di quelle cose che sanciscono per sempre. Nino Nonnis
Introduzione
Sono nato nel maggio del 1938 ed ho oramai superato la soglia dei tre quarti di secolo, mica poco. Mi sembra ieri quando giocavo in piazza del Carmine dopo aver subito i numerosi bombardamenti del ’43. In questi lunghi anni, per merito della mia musica, ho avuto la fortuna di vedere posti incredibili e meravigliosi e conoscere personaggi formidabili sparsi in giro per il mondo. Ho avuto la fortuna di far parte di una famiglia speciale nella quale ho sempre trovato accogliente rifugio tra una mia avventura e l’altra. Ho avuto amici sinceri e favolosi che hanno un posto speciale nel mio cuore, e lo avranno per sempre. Ho avuto ed ho ancora qualche nemico, chi non ne ha, che ho considerato un ostacolo della vita da superare serenamente, senza paura né indecisioni. Ho imparato che i nemici e gli ostacoli non possono che temprarti e renderti più tenace e forte. Mia madre mi ha insegnato le cose più belle della vita, come la passione per la lettura, colonna portante della mia pur misera personalità. Mi ha inoltre insegnato l’umiltà, che spesso non favorisce nella strada della vita, ma che comunque ti rende orgoglioso d’essere umano e sensibile.
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introduzione
Per dolorosi fatti della vita non potrò lasciare come lei il mio lascito ad un figlio, e questo mi rattrista, molto. Vorrei che questo libro, con le poche pagine che raccontano alcuni momenti della mia vita, sia testimone del mio girovagare per il mondo, mostri le mie “cose” colorate dedicate alla mia città e serva a lasciare una pur labile traccia del mio cammino. Dedico il libro ad Adriana, compagna immensa, finalmente raggiunta dopo lunghi e trepidanti anni di separazione e d’attesa, a mia sorella Mirella, sempre vicina e pronta ad aiutarmi nei momenti di bisogno, alla Mirella vedova di mio fratello Sergio e ai nipoti e pronipoti. E ai miei amici, anche a tutti quelli sparsi per il mondo, ed infine a tutti coloro che, anche solo per curiosità, cercano di capire, curiosando tra queste pagine, il come, il perché ed il dove della mia esistenza. Un sincero grazie a tutti coloro che lo leggono in questo momento ed a quelli che lo leggeranno in seguito. Bruno Massidda
RACCONTI
Bombardamenti a Cagliari
Nel ’43 avevo 5 anni, abitavo in via Sassari al 73, al palazzo Fantola, incrocio con via Mameli, salendo a destra. Di fronte a casa c’era il negozio Martello, che vendeva Borsalino. A quella età mi interessava solo giocare, farmi coccolare da mamma, mangiare dolci e dormire. In famiglia eravamo in cinque: babbo Ettore, mamma Luisa, io e i miei fratelli Sergio e Mirella. Ero il più piccolo, Sergio del ‘30 e Mirella del ‘33. I miei genitori avevano il bar “dell’Aviazione” che stava in via Roma sul lato destro del municipio, di fronte a p.zza Deffenu. Si chiamava bar “dell’Aviazione” perché mio padre aveva comprato una piccola elica d’aereo che, piazzata sul soffitto funzionava come ventilatore riuscendo a rendere più fresca l’aria del bar. Mio padre Ettore era un uomo burbero e poco incline al sorriso, c’erano clienti che si affacciavano prima di entrare e se vedevano che alla cassa c’era lui cambiavano strada. Regalava il Suo sorriso molto raramente. Mia madre era un’altra cosa. Occhi azzurri, aria continentale, veniva dal Piemonte, Pozzolo Formigaro, ed era sempre gentile e sorridente.
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Mia madre, che faceva l’apertura, si svegliava alle 5, una rinfrescata e fuori. C’era da mettere in pressione la macchina da caffè e ci voleva almeno una mezzora. Il pullman che ogni mattina portava gli avieri all’aeroporto militare di Elmas si fermava di fronte al bar, sulla via Roma, e i militari nell’attesa facevano colazione da noi, motivati forse anche dalla bella presenza di mia madre. Verso le nove arrivava mio padre e mamma andava a fare la spesa al mercato che in quegli anni era sul Largo Carlo Felice. Il mercato era una enorme costruzione in ferro in stile Decò, di color verde, tutta impreziosita da eleganti riccioli e decori arzigogolati. Al mercato trovavi di tutto, dalla carne al pesce appena pescato e guizzante, galline e conigli in piccole gabbie e frutta, verdura e uova. La merce in vendita arrivava dai centri vicini ed i largo era spesso intasato da decine di carri e carretti. Al mercato potevi trovare, chiusi in piccole gabbiette, uccelli di decine di varietà e colori che cinguettando facendo da piacevole colonna sonora, disturbata dal caratteristico vociare dei venditori che reclamizzavano i loro prodotti. Il loro pesce era il più fresco, la loro carne la più buona o il loro formaggio il più gustoso, come peraltro asseriscono ancora i venditori d’oggi. Appena finita la spesa mamma tornava a casa accompagnata da “su piccioccu e crobi” con il cestino pieno di
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ogni ben di Dio poggiato sulla testa. Alle 13 il pranzo era pronto, e ci si sedeva a tavola affamati. Babbo Ettore arrivava sempre più tardi, quando, qualcuno di noi dopo aver mangiato gli dava il cambio al bar. Lui mangiava da solo, con mia madre a fianco a porgergli le portate, per poi fare un pisolino. Ho divagato un po’, sono passato dai ricordi dei miei 5 anni a quelli di quando ero un po più grande ma tant’è, i ricordi spesso si accavallano, mischiando date e avvenimenti. Tornando ai miei 5 anni, nel quarantatrè gli americani decisero che la Sardegna era una base logistica molto importante per i tedeschi e cominciarono a bombardarla con regolarità. In quell’anno, dal sette febbraio all’otto di settembre ci bombardarono decine di volte, spesso per ore, causando migliaia di morti con bombe di tutti i tipi e micidiali spezzoni. La città fu semidistrutta; vicino a casa nostra colpirono il Bastione, le Poste, il Municipio, la Stazione, le chiese di Sant’Anna, Santa Restituta, del Carmine e molte altre, sfiorarono la torre dell’Elefante, il porto era un cumulo di macerie, la via Roma un continuo cratere.
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Un giorno, il 26 febbraio del ‘43 i miei genitori, forse preoccupati per la possibilità di una nuova incursione aerea, ci portarono tutti al bar. D’improvviso, alle 15 e 30 la sirena che avvisava dell’approssimarsi degli aerei americani si mise a suonare. Preoccupato, mio padre corse a chiudere il portone, per fortuna bello robusto, chiudendoci dentro assieme a una decina di clienti terrorizzati. Ognuno cercò riparo, chi dietro il banco chi sotto lo stipite del portone. Il tormento durò circa mezzora, una terribile mezzora, scossi dal tremare della terra e del palazzo che ci proteggeva. Quel giorno il palazzo di cui faceva parte il bar fu colpito proprio a una decina di metri da noi. Il portone, spinto dal colpo d’aria, si spalancò completamente lasciandoci indifesi di fronte ad uno spettacolo di distruzione. Quando l’incursione aerea finalmente terminò uscimmo dal bar scossi ed impolverati, ma felici di essere ancora vivi. Mio padre offrì caffè e paste a tutti per festeggiare il miracolo. Dei bombardamenti ricordo anche una notte, forse il 13 maggio, pochi giorni prima del mio quinto compleanno. Quella notte, udendo per l’ennesima volta la sirena d’allarme, senza troppa fretta, (ci si abitua a tutto, anche alla morte), uscimmo di casa per andare al rifugio che stava proprio sotto il nostro palazzo. Appena usciti ci fermammo nel cortile a guardare verso il cielo. Ricordo decine di fari che illuminavano gli aerei incursori per guidare i cannoni della contraerea.
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Arrivammo al rifugio giusto in tempo per sederci su una panca appoggiata al muro, ed ecco le bombe. Il pensiero terrorizzante era che qualche bomba colpisse il palazzo che crollando ci avrebbe sepolti vivi, con poche possibilità d’essere salvati. La scarsa organizzazione e i numerosi interventi che dopo ogni bombardamento si dovevano approntare in tutta la città non ci avrebbero lasciato molte speranze di salvezza. Ho un altro terribile ricordo sulla conseguenza dei bombardamenti. Una mattina, molto presto, dopo una terribile notte passata nel rifugio ero sul portone di casa e guardavo militari ed infermieri che in una lunga fila portavano le barelle risalendo lentamente la via Sassari per arrivare all’ospedale civile. Su una barella giaceva un corpo coperto da un lenzuolo insanguinato attraverso cui si intravvedeva una testa poggiata sullo stomaco. L’avevano raccolta tra le macerie e messa sulla barella senza pensare all’effetto orribile che aveva sugli spettatori. Non è difficile immaginare che per anni quei momenti mi hanno inseguito, spesso interrompendo il mio sonno, altre volte facendomi trasalire solo al sentire una sirena che mi riportava a quei terribili giorni di guerra. Nel corso degli anni fortunatamente sono riuscito a rendere quei ricordi meno dolorosi ed ossessivi. Oggi, dopo tanto tempo, li rivedo con una certa serenità, come facessero parte di un vecchio film con immagini sgranate ed un audio quasi assente.
Sfollamento a Orotelli
Durante la guerra, nel ‘43, quando i bombardamenti su Cagliari diventarono ancora più insopportabili e pericolosi, iniziò lo sfollamento. Protette dal buio nella notte piccole carovane formate da mezzi eterogenei iniziarono ad uscire dalla città per dirigersi in posti più sicuri, verso l’interno, dove si sperava gli attacchi aerei non sarebbero arrivati. Carretti e macchine sconquassate, vecchi pullman e camionette scoperte cariche di masserizie e famiglie silenziose prendevano la direzione dei piccoli centri lontani dalla città. Un giorno, dopo una riunione concitata, i miei genitori con i cugini Meloni decisero di rifugiarsi ad Orotelli, dove avevano trovato una casa in affitto per una cifra accessibile. Mio padre chiuse il bar dell’Aviazione caricando su una camionetta procurata chissà come da zio Armando, maresciallo dei Carabinieri, valigie e masserizie di casa e poche altre cose. Cose che poi risultarono preziose per i “baratti” che ci avrebbero aiutato a sopravvivere dignitosamente per tutto il tempo dello sfollamento. La lira aveva perso il suo valore e non serviva per comprare cibo o quant’altro. Babbo portò con sé dal bar un piccolo sacco di caffè, che finì in poche settimane e due grandi sacchi di zucchero.
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Ricordo che li teneva nascosti sotto il letto come fossero gioielli. Durarono per tutto il tempo dello sfollamento. Si barattava una tazza di zucchero per un pollo o per una dozzina di uova. Con lo zucchero tirammo avanti per un bel po’. La famiglia Meloni era composta da Armando, sua moglie Olimpia Massidda, sorella di nostro padre Ettore, e dai figli Nino, Mariolina e Bebi. La nostra da Ettore Massidda, Luisa Fasciolo ed i figli Sergio, Mirella ed io, il più piccolo. La famiglia che ci ospitò a Orotelli si chiamava Lostia, benestanti del paese che ci misero a disposizione una casa grande abbastanza per accogliere le due famiglie, con una grande cucina che poteva ospitarci comodamente, tutti e dieci.. La casa da un lato si affacciava proprio sul mattatoio del paese, e ci abituammo presto ad assistere dalle finestre al frequente macello di vacche e buoi. Per abbattere gli animali si usava una grossa pistola o un pesante martello sulla fronte dei malcapitati bovini. In quei tempi di guerra non ci si preoccupava per il cruento spettacolo offerto ai giovani. Io avevo poco più di cinque anni e lo ricordo ancora nitidamente. Quando arrivammo era pieno autunno, le scuole erano chiuse per via della guerra e venne deciso che Nino e Mariolina, i cugini più grandi, diventassero i maestri di Bebi, Mirella e Sergio. Mariolina insegnava italiano, storia e geografia e Nino matematica.
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sfollamento a orotelli
Io, ancora troppo piccolo, ero esentato dagli studi e avevo tutto il tempo per giocare o andare in giro per il paese. Nei giorni di festa uno dei nostri passatempo era visitare le colline che circondavano il paese a cacciare uccellini con le fionde fatte in casa usando rami biforcuti e strisce di gomma ricavate da camere d’aria di bicicletta. Alcuni di noi si divertivano a prendere lucertole utilizzando un laccio. Le lucertole se ne stavano pacifiche al sole ed era facile prenderle usando un lungo stelo di Asfodelo alla cui estremità Bebi riusciva a fare un nodo scorsoio. Con pazienza ci si avvicinava da dietro e si faceva passare il laccio sulla testa del povero animale. Uno strattone e zac.. rimaneva appesa. Non ricordo cosa ne facessimo poi delle povere lucertole.. Era un altro esempio della crudeltà gratuita che da piccoli si scarica sugli animali in genere. Dello sfollamento ad Orotelli ho pochi altri ricordi, avevo solo 5 anni, ma un ultimo è rimasto indelebile. Come ho premesso mio padre aveva portato due sacchi di zucchero come utile mezzo di baratto con i paesani. Li teneva sotto il letto matrimoniale, ben al sicuro. Al sicuro dai ladri, ma non da me che, mingherlino, tutto pelle ed ossa, amavo lo zucchero senza reticenza. Quando i miei erano impegnati in cucina o in paese io, accaldato dai giochi, ogni tanto, quando facevo una pausa entravo di soppiatto in camera loro, mi infilavo sotto il letto, aprivo con attenzione uno dei sacchi e tiravo fuori una piccola pietra di zucchero. Ogni volta solo una pietra. Quindi richiudevo stando attento a non lasciare tracce e mi infilavo in bagno a succhiare la pietra con lenta voluttà.
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Un malaugurato giorno mio padre mi beccò mentre uscivo strisciando da sotto il letto con la pietra di zucchero in mano. Babbo non era una persona irascibile, era burbero, si, ma si limitava a grugnire ed a guardarci con severità per le nostre malefatte. Quella volta invece perse le staffe e mentre io cercavo di sfuggire alla sua ira lasciò partire una manata che mi colpì sulla schiena proprio mentre rasentavo la lunga scala che portava al pianterreno. Ripeto, avevo cinque anni ed ero uno scricciolo, pesavo niente, ed il colpo mi proiettò dritto verso il basso. Non so come ma per fortuna arrivai alla fine delle scale scosso ma con pochi graffi. Quando stordito mi girai verso l’alto, vidi mio padre scendere gli scalini a due a due piegato verso di me. Istintivamente mi coprii il capo con le magre braccia. Rimasi però piacevolmente sorpreso quando mi sollevò ansimante, quasi in lacrime, stringendomi e dicendo a sé stesso e ad alta voce che non voleva farmi male e giurando che non mi avrebbe più picchiato. Quella fu l’ultima volta che mio padre osò toccarmi, fosse anche con un dito. Alle mie malefatte, che continuarono imperterrite negli anni, preferì far finta di niente lasciando eventualmente a mia madre il compito di punirmi.
Le scuole
La mia prima scuola, quella elementare, dopo pochi anni di asilo è stata la Sebastiano Satta, in via Angioy, con entrate in via Sassari e in via Crispi. Dalla Satta sono poi passato per le medie alla Giuseppe Manno, in piazzetta Collegio. Alla Manno avevo come compagni di classe i fratelli Sergio e Renato Capelli, Sandro Sorcinelli e Gianni Zoppi; purtroppo dopo circa 65 anni ho dimenticato i nomi degli altri. L’insegnante di lettere storia e geografia era il Prof. Puddu, un tipo molto particolare, con un pizzetto a punta e lo sguardo enigmatico. Arrivava a scuola con un cappello di feltro sulle 23 ed un sorriso ironico ad accoglierci. Prof. Puddu aveva pensato ad una gara per incentivare in noi studenti l’entusiasmo per lo studio. Un gioco che alla lunga ci spinse a studiare con piacere per tutto l’anno scolastico. In classe eravamo in 24 e aveva quindi formato dodici squadre da due studenti, che estratti a sorte, dovevano sfidarsi con domande sulle materie di studio. Un piccolo campionato con assegnazione di due punti per la vittoria, uno per il pareggio e nessuno per la sconfitta. Ogni coppia doveva sfidare le altre, giornata dopo giornata, con gare di andata e ritorno.
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Aveva compilato un campionato con quattordici giornate, sette d’andata e sette di ritorno. Ogni componente della squadra preparava tre domande che avrebbe fatto ad un componente della squadra avversaria. Ognuno doveva rispondere al meglio delle sue possibilità per poi fare le sue domande all’opponente. Il giudice massimo di ogni tenzone era logicamente il Prof. Puddu che dava un voto, positivo o negativo, a suo insindacabile giudizio, scontro per scontro. Una giornata era dedicata alla letteratura italiana, un’altra alla storia e l’altra ancora alla geografia. Le domande dovevano essere scelte scegliendole dai contenuti dei libri di testo. Per rendere la gara ancora più entusiasmante Il professore fece stampare da una tipografia di un amico delle schedine tipo quelle della Sisal dove al posto delle squadre di calcio apparivano i nomi che ogni coppia aveva deciso di dare alla propria. La nostra si chiamava Castello, altre che ricordo erano Poetto, la Scafa, Palabanda, Su Siccu, Stampace etc. In ogni schedina erano riportati gli incontri di due giornate, e chi scommetteva doveva scrivere le sue previsioni con un uno una x o un due. Gli incontri avvenivano tutti i martedì e venerdì, ed il lunedì successivo il prof. Puddu portava in aula la classifica aggiornata che appendeva con una puntina sulla porta. La cosa che ci piaceva di più era che ogni settimana chi voleva poteva scommettere compilando le sue previsioni sulla schedina, che costava poche lire. Il capo classe faceva da cassiere. Quelli che azzeccavano i risultati degli incontri avevano diritto a prendere la metà della cifra scommessa in
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quella settimana. Ma ricordo che non ci furono vincitori, la schedina era più difficile di quella della Sisal perché si doveva puntare sul risultato di ben dodici scontri... Comunque rimaneva il fatto che alla fine del torneo la squadra prima classificata si sarebbe beccata la metà del monte premi, la seconda il trenta percento e la terza il venti. Il mio compagno di squadra era Gianni Zoppi. Quell’anno studiammo moltissimo, scartabellando continuamente i libri di testo per trovare domande trabocchetto da fare ad ogni “partita” memorizzando capitoli di storia o letteratura piuttosto che di geografia. Alla fine dell’anno scolastico fummo tutti promossi, molti a pieni voti. Altra cosa che ricordo particolarmente di quegli anni scolastici era la vicinanza della scuola con la via Manno, con il rione di Castello e con Terrapieno. Si poteva arrivare al porto in pochi minuti. Questi erano i posti in cui mi rifugiavo ogni volta che facevo vela. In primavera, tutte le volte che non mi sentivo preparato per un’interrogazione, che il tempo era così bello da non riuscire a sopportare l’idea di rimanere chiuso in un’aula fredda ed umida, facevo vela. Per poi andare ai giardini pubblici o in terrapieno o, quando faceva proprio caldo, al molo di ponente a fare i primi tuffi dell’anno. Un altro dei miei posti preferiti era l’orto botanico, ma era pericoloso perché troppo vicino a via Sassari dove abitavo e dove mi avrebbero potuto beccare i miei genitori. La scocciatura conseguente al far vela era che il giorno dopo, al rientro in classe, dovevo presentare al preside o
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all’insegnante una “Giustificazione” firmata da uno dei genitori. Con un po d’esercizio avevo imparato a copiare quella di mio padre. Quella di mamma era più difficile e l’imitazione si sgammava facilmente. Chi la riceveva era combattuto tra l’accettarla o no. Alla fine imitavo solo quella di babbo; tuttora la mia firma assomiglia alla Sua. Al Giuseppe Manno le scuole terminavano dopo tre anni di medie, e chi voleva continuare con il ginnasio doveva iscriversi al Siotto o al Dettori. L’ultimo anno al Manno lo passai male perché Prof. Puddu era stato trasferito e l’insegnante che lo sostituì non mi andava a genio; inoltre si tornò al solito noioso metodo didattico. Quell’anno faticai molto ad essere promosso. L’anno successivo mi iscrissero al Collegio “Calasanzio” di Sanluri. Negli anni ‘50 le famiglie con studenti svogliati e irrequieti, quelle che se lo potevano permettere, mandavano i più ribelli a Sanluri, al Collegio Calasanzio, tenuto dai Padri Scolopi. Si diventava studente interno e per tutto l’anno scolastico si viveva nella struttura del collegio, si dormiva nelle camerate, e studiava nelle sale apposite, si consumavano i pasti nel refettorio serviti da suore burbere e controllati dai severi padri scolopi. Si poteva tornare a casa una volta al mese, per un fine settimana, e solo se si era stati buoni. Qualcuno la chiamava “Scuola-Carcere”. Gli studenti dovevano anche fare dello sport; si poteva scegliere tra la corsa campestre, la ginnastica in palestra ed altre attività sportive, e c’era una squadra di calcio ed una di pallacanestro iscritte ai campionati Sardi allievi
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con gare che si svolgevano nei campi del collegio o in trasferta in varie scuole sparse per la Sardegna. Forte del fatto che mio fratello Sergio era stato preso come allenatore della squadra di pallacanestro riuscii a farmi inserire nella squadra. Sergio, data la mia altezza di ben 1.63 cm. mi affidò il ruolo di playmaker. Non ero alto ma giocavo abbastanza bene riuscendo discretamente nel distribuire palloni e lasciando agli altri, quelli alti, il compito di centrare il canestro. Della squadra facevano parte anche mio cugino Battista Fasciolo, Carlo Fadda, Gianfranco Fara, Luigi Mossa, Piero Pilia, i fratelli Vitacchio ed altri che non ricordo. Sergio, che in quegli anni giocava nell’Olimpia di Cagliari, squadra che militava nei campionati maggiori, veniva ad allenarci due volte alla settimana, accompagnato dall’amico del cuore Luciano Sassu che assisteva agli allenamenti urlandoci consigli che Sergio gli permetteva sorridendo, come fosse lui il preparatore. Luciano era un personaggio burbero ma simpatico. Si capiva che la Sua grinta nascondeva una naturale bontà. Tutta la squadra gli voleva bene. L’anno successivo partì per fare il minatore in Sud Africa dove in pochi mesi diventò prima capo del suo gruppo e poi direttore responsabile di una piccola miniera. Diventò anche, con mia grande sorpresa dato il suo carattere docile e tranquillo, un razzista incallito. Inevitabile conseguenza del vivere in una nazione dove l’apartheid era applicata severamente. Quell’anno la nostra squadra del Calasanzio di Sanluri vinse il campionato sardo allievi di pallacanestro battendo in finale nientemeno che l’Esperia, squadra fortissima
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in cui tra gli altri militavano i giovani fratelli Bertocchi, Ezio Lotti, Paolo Ritossa, Binaghi e Pedrazzini. Nel Collegio Calasanzio insegnavano Padre Widmann, Padre Resnati ed il preside Padre Colli. Oltre che insegnare varie materie scolastiche i Padri ci seguivano anche in tutte le attività extra. E ci punivano, anche severamente, quando a loro giudizio lo reputavano giusto. In quegli anni, siamo nel 52, al collegio Calasanzio le punizioni corporali erano all’ordine del giorno. Gli schiaffi, l’obbligo di inginocchiarsi per dei dolorosissimi minuti su ceci secchi, i colpi di riga sulle mani tese, l’obbligo di stare in piedi per delle ore all’angolo del corridoio davanti alla stanza del preside erano solo alcune delle punizioni che i più ribelli dovevano subire. Quando uno studente per una qualsiasi ragione stava male di stomaco era obbligato a bere un pestilenziale bicchiere colmo di olio di ricino, e non c’erano scuse per evitarlo. A quei tempi il mio soprannome era “l’Americano”, perché non facevo che canticchiare canzoni di Frank Sinatra di cui conoscevo tutto lo sconfinato repertorio. Un giorno Padre Widmann mi punì per una fesseria, non ricordo più quale. Durante una cena, di fronte a tutta la scolaresca seduta a mangiare arrivò d’improvviso alle mie spalle e prendendomi per l’orecchio mi portò a strattoni fino al centro del refettorio. Non mi mollava l’orecchio, continuava ad urlare e a spingermi la testa da un lato all’altro. Urlava frasi incoerenti spruzzando saliva e sudore tutto intorno. Era pro-
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prio inferocito. Quando cominciai a sentire oltre al dolore una rabbia crescermi dentro per l’esagerazione della punizione, persi finalmente la pazienza riuscendo a divincolarmi dandogli prima uno spintone e poi un sonoro schiaffo che lasciò esterrefatti tutti, me compreso. Prima che si riprendesse dalla sorpresa gli urlai: “Mi punisca pure Padre, ma non si permetta mai più di toccarmi, anche solo con un dito, perché la prossima volta non mi fermerò ad uno schiaffo!” Padre Widmann si rese conto che se avesse insistito la serata sarebbe finita con una rissa indecorosa con conseguenze imprevedibili e preferì mandarmi per punizione nel solito corridoio di fronte allo studio del Preside. Logicamente rimasi senza cena. Mi lasciò per un paio d’ore a sbollire per poi mandarmi a letto e punendomi con una settimana di studio rinchiuso nel collegio. Quando due giorni dopo arrivò Sergio per il solito allenamento gli raccontai la scena, la sproporzionata tirata d’orecchio e la mia reazione con lo schiaffo. Dapprima si mise a ridere, ma poi, vedendo la piccola lacerazione lasciatami dagli strattoni sull’attaccatura dell’orecchio, decise di andare a parlare personalmente con Padre Widmann. Quando entrò nell’ufficio rimasi fuori ad aspettare e lo sentii chiaramente quando gli intimò con modi educati ma perentori che non gli avrebbe permesso più di alzare le mani su di me. Quando poi, contrariato per la ingiusta punizione offrì le sue dimissioni come allenatore della squadra di pallacanestro, Padre Widmann le rifiutò adducendo come
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scusa che il campionato era oramai agli sgoccioli e non si poteva lasciare la squadra senza guida a poche partite dalla fine del torneo. Gli andò meglio così. Da quel momento Sergio divenne definitivamente il mio eroe. Da quel momento non fui più oggetto di controlli e punizioni, la squadra vinse il campionato con un finale mozzafiato ed io finii l’anno scolastico con una promozione risicata ma comunque benvenuta. Dopo i due anni di ginnasio, dal Calasanzio passai all’Istituto Martini per Ragionieri e Geometri che aveva per Preside Remo Fadda e dove, dopo due anni di sofferenza decisi di lasciare gli studi definitivamente. Fare il geometra non era evidentemente il mio massimo desiderio. Decisi così che avrei trovato un lavoro al più presto. Finite finalmente le scuole cominciai la mia vita nel mondo con i miei amici, le mie splendide ragazze, la lambretta, la prima 500, i primi lavori a vendere auto, le gare con un Abarth 595 verde e poi... il mondo, visitato grazie alla mia musica con tutte le altre meravigliose e terribili cose che hanno caratterizzato la mia vita.
Il molo di Levante
Avevo quattordici anni. Ogni anno, a scuola, appena arrivava Maggio con le sue giornate splendenti, mi prendeva un prurito, “unu pappingiu”, una smania di scappare, di caricarmi del primo sole primaverile e fare il bagno nel nostro meraviglioso mare. Dopo il bagno ed una lunga nuotata lasciavo che il sale mi si asciugasse sulla pelle. Il sale formava una patina bianchiccia sul corpo e sulle braccia che poi mi piaceva leccare, mentre tornavo a casa. Sono sempre stato un amante del sale, lo succhiavo in forma di cristalli presi alle saline o spolverato su fette di limone o anche sul pane, con burro o senza, e assieme al limone spremuto sull’uovo all’ostrica che mia madre mi preparava regolarmente al mio ritorno da scuola. Il mare è pieno di sale e così avevo imparato a nuotare molto presto, tutti in famiglia erano provetti nuotatori, e mi divertivo facendo con gli amici gare di nuoto o di immersione. Le gare di immersione le facevo con gli amici più intimi al Lido aggrappato ad un palo immerso sotto la rotonda. Chi rimaneva sott’acqua più a lungo vinceva. Semplice. Ricordo mio cugino Sandro Palenzona che severissimo ci cronometrava le prove. Rimanevo sott’acqua immobile ad occhi chiusi, concentrato al massimo, finché non resistevo più.
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Il mio record era di tre minuti e rotti, recordman tra gli amici. Quell’anno a Maggio le scuole erano ancora aperte, mancava almeno un mesetto agli esami e così quando non ce la facevo più, facevo “vela”. Studiavo al Giuseppe Manno, che in quegli anni era in piazzetta Collegio. Fare “vela” significava poi, il giorno dopo, falsificare la firma di mio padre, per giustificarmi con i professori, cosa che avevo imparato a fare benissimo. Ogni tanto mio padre se ne accorgeva ed eran guai.. Quando decidevo di “veleggiare” ci mettevo dieci minuti ad arrivare dalla scuola al molo di ponente, Appena trovato un posticino appartato mi spogliavo rimanendo solo con le mutande che avevo di proposito scelto nere nel vestirmi prima di uscire da casa. Il molo era frequentato da altri giovani, altri “veleggianti” e da pescatori di Sant’Elia o della Marina piuttosto che di Stampace. Appena spogliato mi tuffavo e iniziavo una lunga nuotata. L’acqua era sempre piacevolmente fresca e rigenerante. Al ritorno, trovata una roccia appena decente, mi sdraiavo ad asciugarmi, guardando gli altri ragazzi tuffarsi. I tuffi erano una mia specialità, magro com’ero, tuffi a squadra, ad angelo, con una capriola, il più pericoloso, che se cadevi di schiena... Il più divertente era quello a “coffa”, con grandi spruzzi a bagnare gli astanti. Dopo un po’ di tempo passato a guardare i ragazzi tuffarsi non riuscivo a resistere e mi rimettevo in fila aspettando il mio turno.
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il molo di levante
Mentre riposavo mi piaceva anche guardare il profilo delle navi che arrivavano da lontano. Le guardavo e sognavo, immaginandomi a bordo, diretto magari verso porti esotici. Sognavo di navigare verso mari tropicali, e fermarmi su spiagge assolate con palme piegate dal vento leggero. Sognavo, e dopo uno di questi miei voli di fantasia, un giorno particolarmente splendente, mi ritrovai senza i miei abiti e cosa più grave, senza le mie scarpe nuove. Qualcuno mi aveva visto svolazzare nel mio sogno e, con tranquillità, mentre volavo, si era portato via tutto. Aveva lasciato solo i libri di scuola.. Quella triste giornata mi toccò tornare a casa a piedi nudi, i libri sotto braccio, su un asfalto bollente, dal molo di ponente lungo la via Roma e poi su su fino a casa mia, in via Sassari 73, palazzo Fantola. Tutta la strada in mutande, per fortuna nere che potevano passare per un classico costume da bagno. In piazza del Carmine all’angolo con via Sassari cercai di passare in fretta di fronte al negozio di alimentari del Sig. Ferro, padre del mio amico del cuore Nello, che comunque mi vide arrivare in mutande, saltellando sull’asfalto bollente, e non smise di ridere per dieci minuti. Il ritorno a casa fu un vero tormento anche per la paura di incrociare mio padre. Fortunatamente era andato al mercato del pesce, sul Largo Carlo Felice, a comprare sardine appena pescate, la Sua passione, e non si accorse di niente. I nostri vicini, quelli che assieme a noi vivevano nel palazzo Fantola, la famiglia Barra e i cugini Fasciolo, fe-
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cero finta di niente conoscendo il carattere burbero e irascibile di mio padre. Rimpiazzai le scarpe spendendo tutti i miei risparmi al mercatino dell’usato. Nessuno si accorse di niente, eccetto mia madre, non Le sfuggiva niente, così, per punizione, mi proibì di uscire il pomeriggio, per una settimana. Perlomeno tentò, di punirmi, perché il giorno dopo fece finta di niente e mi lasciò andare a giocare in piazza del Carmine assieme agli amici Antonello, Carlo e Nello. Dopo quella sfortunata mattina, ogni volta che facevo “vela”, se decidevo di andare al porto a fare un tuffo, avrei lasciato le mie cose in custodia a qualche amico per poi, al mio ritorno, metterle sotto la testa, come un cuscino, se proprio decidevo di mettermi a sognare, e magari a volare, sul molo di Ponente.
Le famiglie Fasciolo e Massidda
Giovanni Battista Fasciolo, nonno da parte di mamma, espatriò in Argentina nei primi anni del ‘900 in cerca di fortuna. Partì da Pozzolo Formigaro, piccolo centro piemontese, assieme alla moglie Cristina, freschi di matrimonio e decisi a lavorare duro pur di raggiungere rapidamente una relativa tranquillità economica. I parenti avevano fatto agli sposi generose offerte in danaro, una discreta somma che li avrebbero aiutati a superare i primi ostacoli della loro avventura in Argentina. Sbarcarono a Buenos Aires dopo un lungo e tormentato viaggio in nave. Dopo pochi giorni spesi a riprendersi e riacquistare sicurezza sulla terra ferma si accorsero che nella capitale gli emigrati che si offrivano erano tanti, e poche le possibilità di lavoro. Un amico consigliò loro di provare a Rosario, nella provincia di Santa Fè dove gli emigrati erano meno numerosi. A Rosario nonno Battista si mise a fare piccoli lavori di sartoria, restringere o accorciare, lavoro che aveva fatto anche a Pozzolo. Ma con poca fortuna, mentre il piccolo capitale diminuiva a vista d’occhio. Dopo qualche mese, mentre cenava in una trattoria vicino alla stazione ferroviaria, ebbe la fortuna di ascoltare
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il proprietario che raccontava ad un vicino di tavolo la sua intenzione di lasciare il paese per tornare in Italia. Gli mancava solo di trovare un acquirente per l’hotel-trattoria. Mio nonno non perse l’occasione e si fece avanti presentandosi e chiedendo di discutere la cosa in privato. Dopo pochi minuti di trattativa i due raggiunsero un accordo di reciproca soddisfazione. Mio nonno non disponeva di tutta la cifra pattuita. ma il proprietario gli diede fiducia dicendo: “Quando avrai ricostruito il capitale mi spedirai il dovuto.” I miei nonni, rimboccandosi le maniche, riuscirono in poco tempo a saldare il debito. Annesso alla trattoria disponevano anche di un piccolo albergo composto da poche stanze a due-tre letti e un grande stanzone con materassi stesi in lunghe file dove venivano ospitati i viaggiatori con poche risorse e pochi pesos. Mentre nonno Battista curava la trattoria nonna Cristina seguiva l’albergo e dopo un po’, visto che i clienti erano per lo più mandriani che venivano dalle Pampas accompagnati da nidi di pidocchi e acari vari, decise che, prima di poter entrare nelle camere dovevano obbligatoriamente fare una lunga e saponosa doccia con un tocco finale di petrolio sul cuoio capelluto e su tutte le parti pelose del corpo... Il ristorante-trattoria funzionava benissimo e presto, raggiunta finalmente una certa tranquillità economica, i Fasciolo decisero di accrescere la famiglia. In pochi anni nacquero, a due anni l’uno dall’altro, Marino, Ida, Luisa, e Carlino.
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le famiglie fasciolo e massidda
Nel 1916 l’Italia entrò in guerra e tutti gli italiani maggiorenni vennero richiamati ad indossare la divisa per difendere la patria. Anche i residenti all’estero erano chiamati a tornare in patria pena una condanna per diserzione da scontare al loro eventuale ritorno. Nonno Battista non ci pensò su due volte e preso da un rigurgito patriottico mise l’albergo in vendita. Dopo poco trovò un altro italiano cui diede le chiavi in cambio di un piccolo acconto e la promessa che avrebbe ricevuto il resto in Italia in pochi anni. Mi risulta che non vide un centesimo. Ma tant’è, arrivò a Pozzolo Formigaro alla fine del 1916, indossò la divisa, fece due anni in un ufficio delle retrovie per poi venire congedato alla fine della guerra, nel 18. Si ritrovò senza lavoro, con pochi soldi e una famiglia numerosa da sfamare cui si era aggiunto Attilio, l’ultimo figlio nato a Pozzolo. Passò alcuni anni facendo diversi lavori tra cui nuovamente quello di sarto. Nel frattempo i cugini Palenzona si erano trasferiti a Cagliari ed erano diventati proprietari uno dell’albergo Moderno, palazzo Vivanet in via Roma di fianco alla stazione, e l’altro del Caffè Torino, sempre in via Roma di fronte al porto. Carlo Palenzona gli consigliò di partecipare al concorso per la gestione del ristorante delle ferrovie alla stazione di Cagliari e di Oristano. Nonno Battista si iscrisse, fece l’esame con entusiasmo e si qualificò primo vincendo il concorso e scegliendo di gestire il ristorante della stazione di Oristano.
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Il trasferimento di tutta la famiglia Fasciolo avvenne in pochi mesi. Il ristorante funzionava praticamente solo per rifocillare i passeggeri dei treni che facevano una fermata arrivando da Sassari-Porto Torres o da Cagliari. Pochi erano i clienti Oristanesi. I treni erano lenti ed il viaggio lungo e i viaggiatori che arrivavano assetati ed affamati approfittavano della sosta per rifocillarsi. Il treno si fermava solo per una decina di minuti e Nonno Battista si era organizzato bene con un piccolo carretto a ruote di gomma che portava tutto il necessario per soddisfare le richieste dei passeggeri affacciati dalle carrozze. Sul carretto spuntavano dei cestini da viaggio, ognuno contenente mezzo pollo, patate arrosto, un panino, una mela o pera ed una bottiglietta di gassosa. C’erano poi, separati per essere venduti sfusi, fiaschi di vino, bottiglie d’acqua, angurie e meloni a fette, banane, pesche e altri tipi di frutta. Non mancava il formaggio pecorino in grossi spicchi avvolti in una carta oleata e gialla. Nonno Battista utilizzava una rete da letto stesa su uno strato di carboni ardenti per arrostire le famose “lissas de Cabras�. I muggini appena cotti riempivano la stazione di un profumo succulento cui i passeggeri affamati non potevano resistere. Quando finalmente il treno ripartiva, sul carretto rimanevano solo poche cose invendute. Intanto la vita andava avanti serenamente ed i figli crescevano.
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le famiglie fasciolo e massidda
Mia madre Luisa si era fatta una giovane e prosperosa ragazza dagli occhi azzurri e la carnagione chiara, caratteristiche rare per la gente sarda-oristanese. Mio padre, Ettore Massidda, famiglia operosa e prolifica, sei figli tra maschi e femmine, aveva un negozio di “Armi e Munizioni” in via Dritta, prima strada chiusa al traffico di Oristano, classica “passeggiata” del paese. Possedeva una moto Indian del 1925 che portava orgogliosamente per le strade polverose a mostrarla a tutti. I suoi giri comprendevano un regolare passaggio in piazza della Stazione. Faceva un giro dell’aiuola centrale per poi tornare in piazza Roma. Un bel giorno vide mia madre che prendeva il sole primaverile languidamente appoggiata allo stipite della porta del ristorante. Presto cominciò a frequentare la stazione con regolarità e a pranzare nel ristorante quanto più poteva. Quando gli sguardi tra Luisa ed Ettore diventarono roventi, per chiedere consiglio babbo portò al ristorante uno dei suoi fratelli, Orlando, il maggiore. Questi, dopo attento e scrupoloso esame della candidata, diede parere favorevole sulla sua scelta. Babbo non perse tempo e immediatamente chiese a nonno Battista di poter frequentare Luisa, detta Luigina, per approfondirne la conoscenza. Ottenuto il permesso cominciarono ad uscire, una volta alla settimana, sempre accompagnati dalla cugina Rina che non li perdeva d’occhio un istante. Si sposarono nel ’29 e nel ’30 nacque Sergio cui seguì Mirella nel ’35.
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Io nacqui nel ’38, a Cagliari, in via Sassari dove i miei si erano trasferiti nel ’36 dopo l’acquisto del bar in via Roma. Tornando alla storia della famiglia Fasciolo, anni dopo, zio Marino prese il posto di nonno Battista alla guida del ristorante, oramai siamo nel dopoguerra, nel ’45 circa. Noi ragazzi passavamo tutte le estati a San Giovanni del Sinis dove zio Marino aveva comprato una casa che si affacciava sul mare. I primi giorni di vacanza li passavamo ad Oristano, nella loro casa sulla piazza della stazione. All’arrivo dei treni era una battaglia tra cugini; si faceva a gara per spingere il carretto, per portare di corsa i giornali dall’edicola ai passeggeri affacciati, per vendere i prodotti e portare i soldi alla cassa dove zio Marino sedeva sorridente. Quei dieci minuti della sosta del treno erano sempre intensi e caotici, e quando finalmente il treno ripartiva ci si ritrovava tutti felici e sorridenti, ognuno a sorseggiare la sua deliziosa gazzosa ghiacciata che regolarmente zio Marino ci offriva come premio per il nostro lavoro.
Oristano
Zio Marino Fasciolo aveva la gestione del ristorante-bar della Stazione Ferroviaria di Oristano. L’aveva avuta in eredità dal padre Battista appena raggiunti i ventidue anni. Zio Marino era uno dei fratelli di mia madre Luisa e sua moglie Gigina era una delle sorelle di mio padre, Ettore. Intreccio amoroso, fratello e sorella con sorella e fratello. Due Fasciolo con due Massidda. Zia Ida, moglie di Carlo Palenzona era sorella di mia madre, di Marino e di due altri fratelli, Attilio e Carlino. Tutte le estati noi giovani partivamo da Cagliari per passare le vacanze a San Giovanni del Sinis assieme ai cugini oristanesi. Zio Marino aveva una casetta a pochi metri dal mare che per tutta l’estate si riempiva di bambini guidati a bacchetta da Zia Gigina e da mia madre, quando riusciva a lasciare il lavoro al bar per una settimana di meritato riposo. Prima di partire passavano un po’ di giorni per i preparativi per la lunga vacanza e si dava una mano al ristorante. Ogni volta che arrivava il treno da Sassari o Porto Torres si faceva a gara per vendere tutto quello che si poteva ai passeggeri affamati ed assetati affacciati ai finestrini del treno.
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Io ero il più mingherlino e aiutavo a spingere un carrello per portarlo al lato delle carrozze del treno. Qualche volta Mirella, altre Sergio o Battista proponevano a gran voce i cestini pronti con mezzo pollo arrosto, patate, un panino con un formaggino Mio, una bottiglietta di gazzosa, frutta, caffè e bomboloni. Si finiva tutto quello che c’era sul carrello nei pochi minuti di sosta del treno. Questa scena si ripeteva due o tre volte al giorno. Era il nostro più grande divertimento. Quando tutto era finalmente pronto per la sospirata vacanza si partiva per San Giovanni del Sinis. Sveglia verso le cinque del mattino per evitare di viaggiare sotto il sole. Ancora con gli occhi pieni di sonno, due gocce d’acqua sul viso, un tazzone di latte appena munto coperto con un dito spesso di crema burrosa, un po’ di caffè due cucchiaioni di zucchero e mezzo coccoi a pezzettoni affogato dentro. Zia Gigina aveva già caricato sul carretto il cibo preparato la notte prima perché non ci mancasse niente. Malloreddus affogati nel sugo rosso, bistecche ben battute, pollo arrosto e frutta di tutti i tipi in abbondanza. Ricordo arance dolcissime, pere e pesche sugose ed enormi ed una grande anguria immersa nel ghiaccio della ghiacciaia ricavata da una cassa rivestita di alluminio. Inoltre non mancavano un paio di brocche d’acqua avvolte in un sacco di iuta per mantenerle ben fresche. Zio Marino aveva un carro ed un calesse che al momento di partire erano strapieni di zii, nipoti e cibarie varie.
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oristano
Il cavallo che trainava il carro si chiamava Piricchittu, testardo, grigio a macchie scure. A Piricchittu piaceva fare la cacca, iniziava appena partito, lo faceva a puntate e certe volte finiva all’arrivo a San Giovanni. Rimaneva giorni chiuso nella stalla solamente a mangiare biada e pensare. E così, quando finalmente usciva... Accaparrassi un posto in cassetta di fianco ad Antonio, il pastore che da una vita lavorava per Zio Marino, era una lotta tra me ed i cugini Battista, Piermarco, Giovi, Massimo, Piergiorgio e Giulio. Dalla posizione in cassetta si vivevano pienamente gli odori che emetteva Piricchittu. Era un odore di sana cacca di cavallo, con tocchi di paglia e crusca ad ammorbidirne il profumo. Il viaggio durava un paio d’ore. Si attraversava Oristano ancora addormentata, poi sul ponte del Tirso dritto fino alla chiesa del Rimedio quindi a destra verso Cabras ed ancora a sinistra dritti verso San Giovanni. Prima di arrivare al Villaggio di San Salvatore le ruote del carro sprofondavano nei binari scavati nella terra arida da decine di carri passati nel tempo Per Antonio ed il cavallo a quel punto non rimaneva che seguire il tracciato come un tram di legno nel bel mezzo della pianura del Sinis. Si viaggiava su un carro che traboccava dell’entusiasmo e della tensione di un pugno di ragazzi impazienti di arrivare finalmente al mare. Ci muovevamo da un lato all’altro del carro, dandoci involontarie spinte mostrando agli altri un falchetto in picchiata o una biscia che attraversava il sentiero.
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E finalmente appariva il mare, d’improvviso, di uno splendido blu scuro che emergeva prepotente dietro le dune di sabbia gialla e la scogliera scura. Quando il carro finalmente si arrestava cigolando Antonio ci permetteva di scendere oramai incapace di trattenerci oltre. La corsa verso la spiaggia dorata lasciava sul sentiero magliette e pantaloncini buttati alla rinfusa Ognuno aveva messo sotto i pantaloni il costume per non perdere tempo a cambiarsi. A quell’ora il mare era ancora fresco e frizzante mentre ci immergevamo gridando di gioia ed iniziando i giochi di spruzzi e palle di sabbia. I grandi scaricavano il carro ed il calesse per porre tutto in casa, all’ombra. Cominciava un’altra meravigliosa estate al mare del Sinis.
Piazza del Carmine
Dalla porta di casa nostra, in via Sassari, si arriva in P.zza del Carmine in pochi secondi, tutto in discesa. Per questo e per altre ragioni fin da bambino la piazza è diventata la mia seconda casa. La piazza era il mio cortile, il mio campo di calcio, la mia pista di pattinaggio, il posto in cui giocavo a nascondino dietro le panchine o la statua della Madonna del Carmine che si erge al perfetto centro. In piazza giocavo con gli amici a scalineddu con le figurine o al giro d’Italia con i tappi di gazzosa, o a ciri-mele cond’unu arrogu e linna da far volare lontano, tipo base-ball alla sarda. Iniziammo a giocare a Zacca e poni e Prontus cuaddus prontus quando diventammo più grandi, robusti e barrosi. Piazza del Carmine divenne in pochi anni il posto preferito per ritrovarsi con gli amici in ogni momento libero dagli impegni di studio, quindi quasi tutti i pomeriggi, fino all’imbrunire l’inverno e fino a tarda notte l’estate. La cricca degli amici agli inizi era numerosa ma col passare degli anni diventò sempre più ridotta e selezionata. I miei più cari amici erano Carlo Fadda, Nenne Barra, Nello Ferro, Ido Scognamillo, Roberto Vacca, Nando Dal Pane e poi Chichi e Gianna Tofanari, Adriana Tondi, Bianca Scognamillo e più tardi Bullino Boero, Guido Bec-
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caris, Cicci Frigo, Pippo Puggioni, Mariano Migliavacca e pochi altri. Una giorno litigai con Roberto per risolvere una volta per tutte una rivalità feroce che ci opponeva per la conquista del cuore di Adriana. Un pomeriggio d’estate la tensione era alta e decidemmo di incontrarci dietro il palazzo delle Poste, pronti a darcele di santa ragione con spinte, pugni e calci agli stinchi. Nessuno dei due era in effetti un tipo “sballarori”; quando raramente capitava di litigare le braccia giravano vorticosamente nella speranza di colpire l’avversario, quasi sempre con scarsi risultati. Un piccolo gruppetto di amici formò subito un quadrato per assistere allo spettacolo circondandoci completamente. Iniziammo a girarci intorno come galletti, entrambi timorosi di prendere cazzotti al volto per poi tornare a casa magari con un occhio nero. Ad un certo punto della tenzone, dopo un pugno andato a vuoto, con uno strattone involontario gli strappai la camicia, cosa che bloccò d’un colpo lo scontro. In verità io non avevo notato niente di strano. Roberto si mise una mano sulla bocca gridando: “fermo, fermo, ho perso un dente!” Ci ravvedemmo immediatamente, al diavolo la rivalità, un dente è sempre un dente, che cavolo! E tutti ci mettemmo a cercare per terra. Quando ci accorgemmo che il dente era solo un bottone partito dalla camicia di Roberto la tensione si tramutò con sollievo in una risata generale. La scazzottata finì con abbracci e pacche sulle spalle. Chissà perché ma risultai comunque il vincitore conquistando così i favori di Adriana.
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piazza del carmine
In P.zza del Carmine ci si riuniva anche la domenica, dopo la messa delle dieci nella omonima chiesa in viale Trieste. All’uscita della messa i genitori si incontravano sulla piazza per scambiare due chiacchiere mentre i figli si rincorrevano tra una panchina e l’altra. I giovani più intraprendenti si avviavano verso la via Roma, per la classica passeggiata (vasca) davanti al Caffè Torino. Negli anni del dopoguerra, sulla piazza, di fronte al palazzo delle Poste c’era l’Albergo Diurno. Non era un vero e proprio albergo, era un posto in cui si recavano quelli che arrivati a Cagliari con le navi o con il treno avevano la necessità di una doccia rinfrescante o di un buon taglio di capelli. Appena entrati al Diurno si trovava sulla destra una sala con quattro poltrone in pelle rossa, reclinabili e ruotabili, ognuna con davanti un grande specchio con cornice dorata, posto sopra un lavandino con doccetta per gli shampoo. Su ogni poltrona regnava un barbiere, ognuno tra i migliori che la piazza poteva offrire. Ricordo tra gli altri Raspino, segaligno con baffetti a spazzola brizzolati, apparentemente burbero ma sempre capace di regalarti un sorriso bonario. Alla fine del lavoro Raspino ti spruzzava sui capelli una colonia, sul viso una spennellata di boro talco e, quando sganciavi una mancia, specie verso la fine dell’anno, ti offriva un profumato calendarietto osè con disegni colorati di pin-up appena discinte. Al Diurno si poteva, pagando poche lire, chiedere una toilette o una stanza per il bagno in vasca o per la doccia.
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C’era un grande salone con una quarantina di stanzette. Le piccole erano dotate solo di un lavandino ed un piccolo water, altre, le più grandi, di vasca o doccia sedile e specchio. Chi pagava per il bagno o la doccia veniva servito di asciugamani e saponetta e di un numero per riconoscere la propria stanza, tutte senza tetto. Da ognuna si poteva sentire il vicino sguazzare nella vasca o mentre faceva i propri bisogni. All’entrata del salone, illuminato da una serie di lampade che sovrastavano ognuna delle stanze potevi vedere una nube di vapore acqueo che saliva verso il soffitto. L’odore era di umidità profumata di sapone. Anni dopo riconobbi lo stesso odore negli Hamami turchi di Kusadasi o di Istanbul. La proprietà del Diurno era dei miei zii Renzo Silvano e Attilio Fasciolo, che mi permettevano bonariamente di utilizzare gratuitamente dei servizi. Per anni, ogni settimana, possibilmente il venerdì o il sabato, mandato da mia madre che preferiva non usassi il piccolo ed affollato bagno di casa, mi presentavo al Diurno per il bagno o la doccia. Una volta al mese Raspino mi accorciava i capelli. Ero sempre perfettino e pulitino, e mia madre gongolava. Vicino alla piazza sulla via Sassari, all’angolo con via Roma, c’era l’albergo-ristorante Moderno, gestito per anni da un altro mio zio, Carlo Palenzona, marito di Ida Fasciolo, sorella di mia madre Luisa. Anche lì eravamo ospiti graditi, il ristorante era di prima classe e zia Ida una cuoca perfetta. Zia Ida e Zio Carlo gestirono per anni anche il bar del Bastione San Remì,
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piazza del carmine
dove preparavano una meravigliosa granita di caffè con panna che ogni volta che la ricordo mi fa venire una incontrollabile acquolina in bocca.. Tornando alla piazza del Carmine ricordo che una sera all’imbrunire, era febbraio, carnevale, mentre giocavo assieme a Nello e qualcun altro che non ricordo, accompagnata da ululati selvaggi e spaventosi scese da via Maddalena una tribù di indiani, tutti dipinti con colori accesi e spaventosi, tutti armati di tomahawk di legno e lance affilate. In un attimo ci circondarono, come fossimo un carro del far west. Mentre mi giravo da una parte dalla parte opposta mi arrivava un colpo sulla testa, mi rigiravo imbestialito cercando di acchiappare il ragazzo che ululava beato e me ne arrivava un altro. Dopo un po’ grondavo sangue da numerosi tagli, niente di veramente grave, ma alla vista sembravo moribondo. Nello era molto più robusto di me e ogni tanto riusciva a prenderne uno per il collo, ma intanto ne arrivavano altri a punzecchiarlo e deriderlo. Anche lui era presto diventato una maschera di sangue. L’attacco durò solo pochi minuti, la banda finalmente si stancò e sempre ululando di gioia tornò da dove era venuta, la famigerata via Palabanda. Tornammo a casa sanguinanti, umiliati ed incazzatissimi, giurando una vendetta che purtroppo non riuscimmo mai a realizzare. Troppo forti e pericolosi, e troppo abituati a picchiare quelli di via Palabanda, meglio lasciar perdere.
Turreseu. San Giovanni del Sinis
Con in mano il mio fucile subacqueo ben ingrassato, un Saetta appena comprato, le pinne e la maschera sistemati in un sacco che pesava niente sulla spalla nuda, andavo fischiettando verso Turreseu, che si trovava ad un chilometro di distanza, punto di partenza per la mia battuta di pesca. Avevo iniziato la giornata molto presto, eccitato al pensiero dalla prossima avventura. Una colazione leggera, solo una pesca ed una pera camusina. Avrei placato la fame al mio ritorno, quando zia Gigina ci avrebbe sfamato con un bel piatto di malloreddus o di spaghetti al sugo ed un bel pezzo di coccoi. Portavo con me un mezza patata rubata dalla cucina che avrei sfregato sul vetro della maschera come disappannante ed un fil di ferro che sarebbe servito per portare con comodo le prede infilate tra le branchie. Mezz’ora di cammino sulle dune intoccate con solo poche tracce di serpente che si snodavano zigzagando ad interrompere la verginità della sabbia rossastra. Ecco la sala da ballo, un grande spiazzo di rocce piatte e lisce che aveva questo nome perchÊ si poteva immaginare come fosse una pista da ballo che avrebbe potuto ospitare centinaia di ballerini a danzare sguazzando nell’acqua.
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Ancora poche dune su e giù ed eccomi arrivato a Turreseu. Da quel punto ci si immergeva incominciando a nuotare tra un gruppo di rocce all’altro verso il largo. Le secche andavano avanti a fior d’acqua per un chilometro abbondante verso il mare aperto. A volte rimanevo meravigliato a vedere lontano dalla spiaggia pescatori che riposavano in piedi con quasi tutto il corpo al di fuori dell’acqua. Un paio di minuti per mettermi le pinne, passare la mezza patata per disappannare la maschera, il fil di ferro cui avrei infilato le prede a giro vita come un hula hoop e via, iniziava la battuta. Nuotavo lentamente usando solo un leggero movimento costante delle pinne per non spaventare i pesci. Ne vedevo a decine di tante razze girare sereni tra le rocce. Era la nostra oasi, che dividevo solo con i miei cugini Battista, Piermarco e Giovi. Ci si andava solo quando volevamo portare a tavola qualche pesce speciale, un’aragosta, un bel dentice o un sarago. C’era una grotta così popolata che spesso, a sparare con un arpione si potevano prendere anche tre pesci in un colpo solo. Un paradiso tutto per noi. La maschera era nuovamente appannata, forse più in là avrei dovuto aggiungere un po’ di saliva, certe volte funzionava meglio della patata. Però riuscivo a vedere abbastanza bene il fondo a pochi metri sotto di me. Avevo pescato solo una sogliola e un piccolo sarago, ma non ero preoccupato perché sapevo che mi stavo av-
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vicinando al Nido, la mia zona preferita sotto Turreseu, dove avrei rapidamente riempito il carniere. C’era di tutto, polpi, murene, qualche aragosta, saraghi, orate, e, sulle zone sabbiose, aragne e sogliole, e ricciole di passaggio a far fuggire gli altri pesci al riparo, al solo avvicinarsi. Quando arrivo al Nido il fondo è ancora meno profondo ed il sole riesce ad arrivare sulle rocce ed a ravvivare tutto con mille colori, illuminando splendidamente la scena: centinaia di pesci di tutte le dimensioni e varietà che si incrociano, mangiano, si inseguono, giocando a nascondino tra i coralli per poi riapparire d’improvviso a poca distanza. Per il momento non hanno paura di me mentre nuoto da una roccia all’altra senza creare un fuggi fuggi. D’improvviso una pietra, lanciata da chissà chi, infrange la superficie del mare, saranno 40 o 50 metri da me. La vedo scendere proprio al centro di quest’oasi meravigliosa, disturbando la pace del momento, ma attraendo, mentre sprofonda verso il basso, i pesci che, forse credendo ad un qualche tipo di cibo, si avvicinano alla pietra, seguendola verso il fondo. Intanto, quasi nello stesso punto in cui era caduta la pietra, ora cade un altro oggetto che attrae anch’esso l’attenzione dei pesci. È qualcosa di diverso, è più pesante, cade più velocemente e da un punto al lato sfrigola, emettendo un bagliore arancione dal quale fuoriescono bollicine che si rincorrono salendo veloci fino alla superficie del mare calmo. Come in un lampo capisco tutto, sollevo la testa fuori dall’acqua e vedo a non più di venti metri da me
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turreseu. san giovanni del sinis
una piccola barca con due persone a bordo, una con in mano un coppo e l’altra che guarda, attraverso il fondo di vetro di un bidone, la scena che si svolge sotto di loro. Evidentemente non si sono accorti di me, parlano eccitati ed intanto, per fortuna, proprio ora che ho la testa fuori dall’acqua, uno scoppio fortissimo sconvolge la pace del Nido. Una colonna d’acqua altissima segue lo scoppio, e mentre mi ricade addosso come una gigantesca doccia, rimetto la testa sott’acqua. Mi appare una scena dantesca, infernale: nascosti dalla sabbia sollevata dallo scoppio che lentamente ricade verso il fondo, centinaia di pesci di tutte le razze e di tutte le dimensioni, morti o ancora agonizzanti cospargono il fondo marino. Sulle rocce, dove fino a poco prima la vita si svolgeva tranquilla, ora è tutto immobile, ancora più silenzioso, nel muto mondo subacqueo. Una rabbia immensa mi prende alla gola ai polmoni e agli occhi che improvvisamente prendono a lacrimare. Le mani mi tremano e quella che porta il fucile si solleva fuori dall’acqua, minacciosa. Sputo lontano il boccaglio e dalla mia bocca una voce che quasi non riconosco urla: “Po cariradi e Deus, basceisindi! Ma de pressi, de pressi, asinunca si bocciu!” Non ho bisogno di aggiungere altro. I due bombaroli, sorpresi e impauriti dalla mia inattesa presenza remano con forza allontanandosi verso la riva; hanno visto il mio fucile e soprattutto la mia faccia imbestialita.
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Passai il resto della giornata a raccogliere pesci e a metterli dentro la vecchia barchetta di Amedeo aiutato da Piermarco e Giovi. Mangiammo pesce per una settimana, noi ed i nostri vicini, i Cadeddu ed i Sanna. Ricordo ancora il sapore, di quel pesce. Sapeva di cattivo, come di polvere da sparo.
I Lumi
Avevo 18 anni, ed ero diventato un fanatico di Jazz e della musica americana. Fin da piccolo ero abituato, come molti della mia generazione, ad ascoltare alla radio le trasmissioni più popolari di musica. Ma non c’era grande scelta tra i programmi radiofonici, e i dischi erano quindi la nostra unica fonte musicale. Avevo una piccola collezione di 78 giri racimolata negli anni tra i pochi che si riusciva a trovare nei negozi o nei robivecchi dove ogni tanto scoprivo qualche copia dei famosi “V disc” americani lasciati dai militari nel dopoguerra. Dopo l’uso intenso erano spesso raschiati e rumorosi. Ma magnifici compagni di innumerevoli serate in compagnia. Poi erano arrivati prima i 45 giri e poi gli Lp, contenitori di almeno dieci brani, tutti ad alta fedeltà, come diceva la pubblicità. Avevo comprato un giradischi della Irradio su cui potevo ascoltare sia i 78 giri che i 45 ed infine gli Lp. Dopo lo studio passavo ore ed ore ad ascoltare Frank Sinatra, Nat King Cole, Sarah Vaughn, l’orchestra di Tommy Dorsey o di Glenn Miller e tanti altri pilastri della musica americana.
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Ogni volta che riuscivo a racimolare qualche soldo mi fiondavo nel negozio di dischi più vicino, la Casa del Disco in via Roma, dall’amico Rino Memmoli in via Dante o da Radiovision di Balletto in via Manno, a rovistare tra gli ultimi arrivi di jazz. In quei tempi ogni negozio di musica aveva un paio di cabine per l’ascolto delle novità. Erano cabine striminzite, c’era posto solo per una persona che si doveva sedere prima di poter chiudere la porta per godere in privato di Luis Armstrong o Ella Fitzgerald. Il giradischi delle cabine era giusto in grado di riprodurre alla bene meglio la musica, e non si poteva stare più di tanto ad ascoltare, sotto lo sguardo truce del titolare che dopo pochi minuti sollecitava l’uscita e l’eventuale acquisto. Gli amici Rino Memmoli e Sandro Puxeddu chiudevano un occhio e, se non c’erano altri clienti, mi lasciavano a sognare per ore. In quel periodo avevo due amici cui ero legato particolarmente per il grande amore che ci accomunava per questo tipo di musica. Con Alberto Rodriguez e Marcello Melis ci si trovava ogni sera, dopo gli studi, alla Lauc, in via università. E si
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parlava di Jazz, della composizione del quartetto di Luis Armstrong o di Dave Brubeck. Il Jazz era il nostro pane quotidiano, i dischi si consumavano mentre noi memorizzavamo i migliori soli dei nostri idoli. Alberto era il più ferrato e spesso ci batteva nelle gare a chi ricordava più nomi e strumenti suonati dai vari musicisti. Marcello si iscrisse al conservatorio per studiare il contrabbasso, strumento che gli era più congeniale, Alberto invece si comprò una batteria perché era portato per il ritmo mentre io conoscevo a memoria tutte le canzoni di Frank Sinatra, Ella Fitzgerald e Nat King e incominciai a cantare. Trovammo in Mario Ortalli, che suonava il piano, un altro appassionato da coinvolgere cui si aggiunse presto prima Antonio Cocco e poi Guido Artizzu e Antonello Boi, tutti e tre ottimi chitarristi. Per le serate in cui si doveva suonare in locali sprovvisti di piano si unì a noi Efisio Guiso, grande fisarmonicista e ottimo improvvisatore. Decidemmo di chiamarci “I Lumi”. Il nostro punto di incontro era la Lauc, Libera Associazione Universitaria Cagliari, che ci metteva a disposizione una sala in cui troneggiava un vecchio pianoforte scordato. In cambio ci chiedeva uno sconto per le serate musicali che offriva ai soci. La domenica pomeriggio, dalle 18 alle 20 e 30, si aprivano le porte del salone che si riempiva di studenti e amici e iniziava la serata. Repertorio misto, non c’erano molti appassionati di Jazz, e predominava il melodico con pezzi di Peppino di Capri, Paul Anka, Neil Sedaka ed Elvis.
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Io me la cavavo e con tutti gli altri facevamo un figurone ogni sera. Presto diventammo il gruppo che piaceva di più, ed iniziammo a suonare per altre feste studentesche ed anche per i Veglioni di carnevale che si tenevano nei grandi alberghi cagliaritani. Andammo avanti per anni, cambiando in seguito il nome in Lauc’s Gentlemen e poi solamente in The Gentlemen. Presto, per imparare il Sassofono, mi iscrissi nella banda dei Salesiani diretta dal Maestro Alcioni. Dovetti iniziare da zero partendo dal metodo Bona di solfeggio, una palla colossale, ma non c’erano storie; o si imparava a solfeggiare o niente strumento. Dopo aver digerito per alcuni mesi di sofferenza il Do o o, Mi Fa Re e etc, il Maestro mi permise di prendere lo strumento, che però non era il sax, come volevo, ma il clarinetto basso, l’unico disponibile. Intanto mi ero comprato uno splendido Sax King da Balletto che iniziai ad usare col gruppo non appena riuscii a fare il “labbro”. Furono mesi ed anni meravigliosi a continuo contatto con la musica ed il Jazz. In quel periodo faceva il militare a Cagliari l’ottimo pianista Enrico Intra di cui diventammo amici e con cui spesso, con Alberto e Marcello, si passavano lunghe ore notturne in prolungate “Jam sessions”. Col tempo presi la decisione di tentare la professione andando a cercar fortuna in “continente” con tutto quello che seguirà. Alberto intraprese con successo la carriera di giornalista prima collaborando con la rivista specialistica “Mu-
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sica Jazz” per poi approdare all’Unità e poi a “Rinascita Sarda”. Gli ultimi anni di vita, stroncata improvvisamente da una terribile malattia, li passò collaborando con Nicki Grauso all’Unione Sarda e con altre importanti iniziative. Marcello si trasferì a Roma dove subito trovò spazio tra le band locali ed iniziò a collaborare con i migliori gruppi di Jazz del momento. A Roma iniziò anche un lunga carriera diplomatica con la I.C.E. (Istituto Commercio con l’estero) passando anni a New York dove incise tra l’altro una pietra miliare del Jazz italiano come “Perdas de fogu” assieme ad altri ottimi musicisti americani per finire poi la carriera diplomatica a Kiev. Malauguratamente da Kiev tornò con una brutta malattia che in pochi anni lo costrinse alla resa. I Lumi rimangono per noi che ne facevamo parte e per tutti quelli che hanno ballato con la sua musica uno splendido ricordo di gioventù. Personalmente il nome “I Lumi” mi riporta in particolare alla profonda amicizia che mi legava ad Alberto e Marcello, amici della mia gioventù.
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A vent’anni ero carico di un energia incredibile. Ero capace di entusiasmarmi per un milione di cose diverse che seguivo, tutte, testardamente; mi innamoravo perdutamente di decine di ragazze, sempre per me bellissime, le mie amicizie erano le più vere, le mie antipatie le più profonde, la mia moto la più veloce, quelle degli altri delle lumache, ogni cosa era la più luminosa, la più colorata. E la più bella musica accompagnava regolarmente i vari momenti della mia giovane esistenza come una grande colonna sonora stereofonica. I miei vent’anni erano così, ogni giorno era carico di elettricità e sapori nuovi ed entusiasmanti. E anche le mie tristezze erano le più profonde e meste, quando perdevo una competizione, di qualsiasi tipo fosse, o quando terminava un amore rimanevo sconvolto per giorni. Ma alla fine imperterrito riprendevo a correre e a cercare di conquistare cuori. Mi piaceva lo sfarfallio nello stomaco al primo sguardo intrigante, al primo appuntamento, al primo casto bacio. E poi c’erano gli amici. A vent’anni avevo già creato assieme agli amici del cuore Alberto e Marcello il gruppo musicale de “I lumi”
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che dopo pochi mesi andava per la maggiore alle feste studentesche. Avevo assieme ad altri amici creato il primo Jazz club cagliaritano. Mi piacevano i motori, specie le moto, avevo una Augusta “Pullman” 125 ma non avevo ancora una macchina tutta mia. Scroccavo qualche volta quella di Sergio, mio fratello maggiore, una Fiat 1100 tv. Lui mi voleva bene, ma me la lasciava raramente la macchina, e solo quando dovevo rimorchiare qualche “pivella” e dovevo far colpo. Non ero proprio un bel ragazzo, ero piccolo di statura, ai diciotto iniziavo già a scuccare, mentre i miei amici erano “fusti” tipo Lilli Ruggeri, simpatico campione regionale nei 400 metri di corsa, oppure messi molto bene nella società, come Carlo Martelli e Sandro Sorcinelli, il cui padre, Baccio era proprietario dell’Unione Sarda.
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Sergio, fratello maggiore, cercava sempre di aiutarmi quando dovevo conquistare qualche bella ragazza. Un giorno Sergio partì per Roma in occasione delle Universiadi, partecipava con la squadra di pallacanestro dell’Università di Cagliari, e mi lasciò magnanimamente le chiavi della macchina dopo avermi fatto promettere per ben tre volte che sarei stato attentissimo andando a non più di sessanta. Sergio sarebbe rimasto in “Continente” per una settimana. Una pacchia! Per un paio di giorni o meglio, di notti, scorrazzai con la “pivella” del momento portandola alla pineta del Poetto a vedere la luna e ascoltare lo sciabordio del mare poco lontano... ben protetti all’interno della macchina con la sicura ben inserita e i sedili rigorosamente abbassati per stare più comodi... Ma dopo un po’ quella distrazione non mi bastò più e mi misi a pensare come avrei potuto sfruttare nel migliore dei modi la comodità di avere una macchina tutta mia anche se solo per pochi giorni. Non ricordo cosa fece scattare la scintilla, l’evento che mi diede lo spunto. Forse tutto iniziò dopo aver sentito una notizia alla radio che parlava di una vecchia auto ritrovata per caso in un granaio, poi rivelatasi un auto antica rarissima. Spinto da sogni di gloria un giorno decisi di andare a caccia di tesori nascosti o dimenticati. Cagliari era circondata da decine di piccoli centri pieni di cose da scoprire. Mi misi in caccia e feci centro al primo tentativo, non proprio di colpo, ma nella stessa giornata.
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La caccia al tesoro Partii una mattina presto, diretto a caso verso un paese qualsiasi dell’entroterra. Il sole splendeva e l’aria era meravigliosamente fresca e tersa. Presi la strada del Poetto per godermi il profumo del mare quindi superai senza fermarmi Quartu e poi Selargius e ancora Settimo, che reputavo troppo vicine a Cagliari per la mia ricerca e continuai verso l’interno. La prima tappa fu a Sinnai. La 1100 arranca sbuffando la salita finale ed appena arrivato entro in un bar del centro. Mi guardo intorno, c’erano tre tavolini con dei vecchietti impegnati in una partita a carte. Ordino un caffè e con indifferenza chiedo al proprietario se per caso conosceva qualcuno che voleva disfarsi di qualche vecchia auto. Eravamo intorno al 58, e vecchie macchine erano considerate le Fiat Balilla o le Topolino. Il barista mi guarda sorridendo e mi dice: “Funti giai benius e anti pigau tottu cussu chi ci viara de pigai. Itta pensara fustetti, de essi su primu chi sindi scirara? Ziu Antoni ari arregalau una Balilla tottu arruinara.” Accidenti, penso, sono arrivato tardi, e qui a Sinnai non li freghi più di certo. Terreno bruciato. Pazienza. Bevo il caffè, ringrazio ed esco. Sono deluso, mi sta già passando l’entusiasmo così salgo in macchina e torno indietro verso Cagliari, demoralizzato. La giornata non inizia bene. Ma i miei vent’anni mi danno una carica di “barra” non da poco e arrivato all’altezza di Settimo decido di fare un altro tentativo.
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Questa volta mi fermo davanti ad una chiesa, scendo e senza esitare entro. Nel buio della Capella appena rischiarata da poche candele faccio appena in tempo a vedere il prete che entra in sagrestia. Lo seguo senza indugio, determinato a intervistarlo. Busso discretamente alla porta e senza attendere risposta mi affaccio sorridente. “Buongiorno Padre, dico, posso rubarle un minuto?” Il parroco, un giovane di non più di trent’anni, mi guarda sorpreso e risponde: “Certo figliolo ma sii rapido che tra poco celebro messa.” “Arrivo subito al punto, Padre.” E sparo subito la prima “balla” che mi viene in testa: “Sono appassionato di meccanica, ci perdo la testa a smontare e rimontare motori e riparare macchine vecchie ed inutilizzate. Conosce qualcuno tra i suoi fedeli che vorrebbe disfarsi di una vecchia macchina, per caso?” Il Padre ci pensa su un attimo, ma poi scuote negativamente la testa e mi dice: “Non mi sembra di ricordare qualcuno con vecchie auto di cui liberarsi, il mio gregge è composto per la maggior parte da gente povera ed umile.” “Peccato, speravo molto in un suo consiglio... mi avevano detto che qui a Settimo... vabbè... pazienza! Comunque, grazie lo stesso, e buona giornata.” Mi avvio a capo chino verso l’uscita ma proprio mentre esco sento che il prete mi chiama: “Aspetta un attimo!” Mi blocco speranzoso ed il prete si avvicina dicendomi “Non so, ma se per te è lo stesso c’è una vecchia signora,
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si chiama Nanna Puddu, abita in periferia, e ha, mi sembra, la vecchia moto di suo marito, dipartito un paio di mesi fa.” Mi dà l’indirizzo, e mi consiglia di dirle che mi aveva mandato lui, Padre Puxeddu, della parrocchia di Santa Maria Beata. Torno indietro, gli stringo la mano riconoscente, ringrazio e mi butto alla ricerca del posto. Lascio la macchina dov’è, preferisco cercare la casa a piedi. Dopo una decina di minuti di girovagare tra le viuzze del paese mi ritrovo finalmente davanti al portone della signora. Su un cartellino a lato c’è scritto: Famiglia Puddu. Prendo un respiro profondo e batto il batacchio sul portone. Dopo un po’, non ricevendo risposta batto ancora più forte, disperando di trovare la signora a casa. Magari è uscita proprio per andare ad assistere alla messa. Invece il portone si apre di colpo: “Itta teniri, pressi? o pensara chi seu surda?” mi dice. È una vecchietta piccola e piena di rughe ma, si vede chiaro, ancora bella carica di vitalità. Porta un fazzoletto nero sui capelli bianchi e gli occhi brillano mentre mi squadrano indagatori. Intanto si asciuga le mani sui lati della gonna, anch’essa nera. Mi profondo in scuse, le dico che mi aveva mandato Padre Puxeddu, e che dovevo tornare in città al più presto, che mi perdonasse. “Il prete mi ha detto che forse lei ha una vecchia moto da buttare, io, sa, studio da meccanico e mi servirebbe per fare esperimenti...”
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Mi mantengo fedele alla prima bugia. “Castiri bel giovine”, mi risponde seria, “ndi tengu una tottu arruinara. Si si dda pigara mi fairi unu presceri. Bengara, bengara chi si dda fazzu biri.” Ansimando e ciondolante mi guida verso il cortile interno dove apre la porta di quello che deve essere il garage/ripostiglio. Il cielo si è coperto improvvisamente di scure nuvole e si vede appena dentro la stanzetta. La signora accende un luce fioca per poi avvicinarsi ad un telone tutto impolverato che ricopre qualcosa di voluminoso. Con calma comincia a ripiegare il telone, ed il piegare e sollevare a tratti mi permette di vedere qualcosa, tra la polvere, ma non abbastanza. Una ruota qui, un sellino là, una sofferenza immane, e la signora non vuole aiuto, assolutamente. Alla fine, quando il telone è completamente piegato e riposto, vedo ciò che ha nascosto chissà per quanto tempo. Involontariamente mi scappa un singhiozzo di sorpresa ed emozione. La signora mi guarda con curiosità, diffidente. “ittè, no ddi prasciri?” “no, no, signora”, rispondo a bassa voce. “non è esattamente quello che cercavo... ma certo...” “castiri, mi dica, quanto è disposto a darmi? Si si poneusu de accordu si dda poriri pigai immoi puru. Custa motocicretta mi preniri tottu su logu; no bbiu s’ora chi si dda pighinti.” Ero senza parole, estasiato da quello che avevo scoperto.
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Mi avvicino con cautela e vedo che si tratta di una moto Bianchi, tutta impolverata, ma riconosco senza dubbio la scritta “Bianchi”. Il serbatoio è di un azzurro chiaro, di forma rettangolare e lungo almeno 50/60 centimetri, il sellino è di pelle, sembra quasi nuovo, con solo qualche grinza per l’uso e l’età. Le gomme sono sgonfie e oramai inutilizzabili, il manubrio a V ha perso la cromatura, come d’altronde tutte le altre parti metalliche. Il faro è in perfetto stato, il vetro ancora sano ed integro, anch’esso di forma rettangolare. Il motore un grosso monocilindrico che poi scoprirò è un 500 di cilindrata. “Inzà, mi chiede impaziente la signora, “quanto offre il giovanotto?” Prendo un respiro e lascio passare un attimo. Faccio un po’ di conti e poi, timoroso rispondo: “Veramente... non so... è proprio mal ridotta... Cosa ne dice di... 20.000 lire? Devo prendere un’apiscedda per portarla via, e chissà quanto mi prenderanno per il trasporto”, aggiungo. 20.000 lire nel ’58 corrispondevano a circa 200/300 euro di oggi. E mi sembra un cifra onesta, dato lo stato della moto. “Castiri, si dda poriri pigai immoi puru, si bboliri.” Sono piacevolmente meravigliato per aver trovato subito un accordo. “Ma... signora, i documenti sono in ordine?” Ancora non ci credo. “Ce li ho in un cassetto da qualche parte. Aspetti che li cerco.”
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Dopo pochi minuti di trepidante attesa spesi a godermi lo spettacolo del tesoro scoperto ed a pensare come tirar fuori le 20.000 lire che non avevo, la signora Puddu torna con in mano un pacchetto di documenti chiusi in una busta trasparente e tenuti insieme da un elastico corroso ed appiccicaticcio. Lo apro quasi strappando l’involucro di plastica di un colore reso giallognolo dal tempo e leggo: Moto bianchi 500, anno di costruzione 1925, immatricolata a Cagliari targa Ca 175, proprietario sig. Efisio Puddu. Capisco che ci saranno problemi per il passaggio di proprietà, che il marito è defunto e la burocrazia in questi casi non agevola il cambio di intestazione, ma in quel momento non me ne può fregare di meno. “Allora signora, i documenti mi sembrano apposto, se è d’accordo, mi dia il tempo di andare in banca, e noleggiare un mezzo per trasportarla a Cagliari. Sarò di ritorno domattina presto. va bene?” “Faccia pure con comodo, ma prima è, mellus è”, asserisce sorridendo e stringendomi la mano sudaticcia dall’emozione.
I soldi La Fiat di Sergio sembra una Ferrari, il viaggio da Settimo a Cagliari in meno di mezzora con l’acceleratore a tavoletta. Adesso iniziano i problemi, mi dico. Da dove tirare fuori le 20.000 lire per l’acquisto? Da Babbo manco a pensarci, per vizi e stravizi non c’era verso; Sergio non c’era, mia sorella Mirella era sturrata
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più di me e comunque i suoi risparmi li teneva chiusi a chiave da qualche parte segreta. Rimaneva Mamma, santa donna. La trovo alla cassa del bar che abbiamo in via Roma a fianco del Municipio. Come sempre mi accoglie con un sorriso bonario, sono il suo preferito, il più piccolo di casa ed anche il più viziato. Le do un bacio, cosa che non faccio spesso, e mi guarda sorpresa e guardinga dicendo subito: “Tu hai qualcosa da chiedermi. Allora?” Mia madre mi legge come un libro aperto, non c’è niente da fare. Mamma Luisa è una gran lavoratrice. Si sveglia ogni mattina alle cinque, si prepara frettolosamente per poi scendere ad aprire il bar. Mettere in pressione la macchina del caffè porta via almeno mezzora, e i primi clienti, i giovani avieri che aspettano il pullman per Decimo davanti alla fermata di fronte al bar sono in attesa tutte le mattine dalle 5 e mezza. Quindi Mamma alle cinque deve essere già al lavoro. Mamma è inoltre una donna amante della lettura, sbrana per lo meno un libro alla settimana, anche tomi grossi così. Legge di tutto, le piace molto la letteratura americana del dopo guerra, da Heminguay a Dos Passos, da Steinbeck a Truman Capote. Ha letto Passaggio a Nord-Ovest, Via col vento, la Saga dei Forsythe, tutti tomi grossi così in un paio di giorni, non ha limiti. Appena riesce a trovare un momento di tregua dai suoi molteplici impegni di madre e moglie, tra la cucina, la spesa ed il turno mattutino del bar, si siede immancabilmente sulla sua poltrona preferita e si immerge in una nuova storia.
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Grazie a Dio è riuscita a trasmettere questo suo grande amore a tutti noi, figli prediletti, che non finiremo mai di ringraziarla. Questa sua immensa passione per la lettura la rende quindi pronta a vedere la mia nuova avventura con favore. “Tu hai qualcosa da chiedermi, insiste. Allora?” Convinto dal Suo sguardo sinceramente interessato rispondo: “Mamma, un colpo di fortuna incredibile, ho trovato un tesoro, una moto vecchia e rara. Ed ho convinto la proprietaria a vendermela, un vero affare! Solo che non ho soldi sufficienti per l’acquisto. Anzi, non ho neanche una lira. Mi potresti aiutare?” Mia madre, come invece farebbero molte altre mamme, non prova neanche a tentare di convincermi che non ci sono soldi, che sto facendo una fesseria, che magari sto comprando un vecchio rottame che poi devo buttare da qualche parte. Vede i miei occhi scintillare d’entusiasmo, capisce dalla mia voce tremolante e speranzosa che ci tengo moltissimo a questa nuova avventura e dice semplicemente: “Quanto?” “20.000 lire. Mamma, ti prego, te li renderò poco a poco, lo giuro.” Avrei dovuto chiederle un po’ di più, penso subito, devo ancora noleggiare l’apiscedda, ma oramai non posso più cambiare la cifra. Allora quella santa donna fa la cosa che non dimenticherò mai. Come ho detto è seduta alla cassa del bar e in quel periodo le cose vanno a gonfie vele.
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Senza pensarci un attimo apre il cassetto, infila la mano nel reparto in fondo, quello dei biglietti di grosso taglio e comincia a mettermi davanti pezzi da mille cominciando a contare: Uno, due, cinque, dieci, quindici, venti, e non si ferma, ventuno, ventidue, venticinque. Infine prende un profondo respiro e mi dice: “Prendili in fretta, prima che torni tuo padre o che io ci ripensi.” “Ma, Mamma” mi sento obbligato a dirle, “te ne avevo chiesto 20.000...” Mi guarda sorridendo e risponde: “Ti serviranno altri soldi per portarla in garage e per i primi lavori, presumo”. Mamma meravigliosa, tento di stritolarla in un abbraccio commosso, ma mi scrolla di dosso imbarazzata di fronte agli sguardi del banconiere e di qualche cliente presente del bar. Afferro i soldi e li metto immediatamente nel profondo di una tasca. Ho la bocca secca. Bevo un bicchiere d’acqua freschissimo che il banconiere mi offre sorridendo, saluto ancora commosso mamma ed esco alla ricerca di un’apiscedda disposta a portarmi a Settimo. Oramai è sera inoltrata.
L’Apiscedda - l’Ape della Piaggio Di fronte al bar, attraversando la via Roma si arriva in piazza Deffenu, con ad un lato la Stazione e dall’altro uno spiazzo dove parcheggiano i camioncini e le apiscedde per i piccoli trasporti.
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I proprietari aspettano clienti in piccoli gruppetti o da soli. Ne punto uno tra i pochi rimasti che mi sembra il più onesto e sorridente e comincio subito a trattare. “Buonasera, cantu mindi pigara po andai a Settimo San Pietro, carrigai una motocicretta e torrai a Casteddu?” “Candu, immoi?” “No, no, immoi è troppu tardi, è po crasi a mengianu.” “Balla, a Settimo no esti una passillara, ci poreus ponni assumancu una pariga e oras po’ andai e una pariga po’ torrai.” “Du sciu” gli rispondo, “seu nasciu a Casteddu”. “Inso’” continua, “bolemmu nai chi scetti de benzina s’apiscedda si buffara a su mancu 5 litrus...” “Eia, no dda fezziri longa, cantu mi pigara? Aguantasì basciu chi cè attra genti chi abettara...” Mi guardo intorno e vedo che gli altri seguono attenti la trattativa. “Vva bbè, itta ndi narara de 1000 francus?” “Castiri, si bolliri fai su traballu si deppiri aguantai basciu..faeusu 700 e noddi chistionaus prusu.” Trattiamo un altro po’ e alla fine ci mettiamo d’accordo per 800 lire. L’appuntamento è per l’indomani mattina, li in piazza, verso le 9. Finalmente torno a casa. Sono stanco morto, mangio distratto qualcosa e mi metto a letto. Passo una notte tormentata, con brutti pensieri e con visioni della signora che al mio arrivo a Settimo mi guarda come se non mi conosce asserendo di non avere nessuna moto: “fustetti è maccu, bandisindi de pressi o zerriu sa polizia.“
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Mi giro e rigiro nel dormiveglia riesco a prendere sonno solo molto tardi. L’indomani mattina mi alzo che sono uno straccio. Dopo colazione penso che forse è meglio non portare la moto nel nostro garage perché è sempre occupato dalla Fiat di Sergio, quindi decido di chiedere il favore di un ricovero almeno temporaneo ad Antonello Boi, un buon amico, per di più anche lui appassionato di meccanica. Lo chiamo al telefono, lo tiro giu dal letto, gli racconto della mia scoperta meravigliosa e subito ci mettiamo d’accordo per portare la moto nel suo garage che sta in via Piemonte. Mi avrebbe aspettato intorno alle 11 del mattino o giù di lì. Con i soldi caldi caldi in tasca scendo in strada e corro verso l’appuntamento con il tizio che mi deve portare a Settimo. L’Apiscedda è pronta e rombante, mi siedo a fianco di Pietro, oramai siamo complici nell’avventura, ci diamo del tu, e via, verso il tesoro! Attraversare la città e poi Selargius e ancora il lungo cammino verso Settimo ci porta via almeno un’ora e mezza, ridendo e scherzando, ma alla fine arriviamo alla meta. Quando finalmente arriviamo il portone della casa è chiuso. Nessuno risponde al mio sbatacchiare e comincio a rivivere il mio incubo notturno. Avrà cambiato idea? Avrà dato la moto a qualcun altro? Pitticca puru sa scarogna, se ha cambiato idea. La signora non ha il telefono a casa, poche famiglie lo
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possiedono in quei giorni, e così non so che fare, devo solo aspettare. Pietro comincia a sospettare un viaggio a vuoto, e ci metto un po’ a garantirgli che comunque sarà pagato, che stia tranquillo. Finalmente, dopo una mezz’ora passata a mangiarmi le unghie arriva la Signora Puddu con la borsa della spesa piena di pane fragrante e frutta matura. Appena mi vede dice: “Mera, abettendi? Deppemmu fai sa spesa e no sciemmu a ita ora beniara. Immoi ddu fazzu passai, Apiscedda e tottu.” Apre il portone e ci guida verso il piccolo ripostiglio dove c’è la moto. “Prima de tottu bieus su dinai”, mi dice, diffidente. Lascio Pietro a pensare come meglio caricare la moto sul furgoncino e mi siedo assieme alla signora al tavolo della accogliente cucina. “Ddu buffara unu rosoliu? Po festeggiai...” mi chiede sorridente. Accetto subito, tanto quando in Sardegna decidono di festeggiare non c’è nulla da fare, bisogna farsene una ragione, prendersela con calma e... festeggiare. Dopo una sorsata di rosolio, servito in un piccolo bicchiere color verde smeraldo, finalmente tiro fuori i soldi dalla tasca e mi accingo a contarli sotto lo sguardo attento della signora. Lei ha in mano il pacchetto con i documenti, pronta allo scambio. “Allora, faccio quattro pacchetti da 5000 così viene più facile da contare per lei.” Conto quattro volte cinque e ben divisi porgo i soldi alla signora.
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E lei in cambio mi allunga il pacchetto con i documenti. “Controlliri beni, mi pariri chi no manchi nudda” ci diciamo a vicenda. Mentre io rivedo i documenti della moto lei conta i soldi con attenzione, mettendo i pezzi da mille uno sull’altro, nuovamente in gruppetti da cinque pezzi. Finiamo i controlli insieme, ci guardiamo sorridendo e ci stringiamo la mano a suggellare lo scambio. Un altro Rosolio chiude definitivamente la trattativa, il patto è fatto. Esco dalla cucina e vedo che Pietro ha già messo l’Apiscedda vicino alla moto, la sponda abbassata e con varie corde pronte per assicurare un viaggio sereno. Assieme solleviamo la moto, le gomme sono completamente corrose, e mi accorgo che pesa un bel po’. Usavano materiali di prima qualità nel 25, mi dico. Alla fine, caricata ed assicurata la moto alle sponde del motofurgone, ringrazio ancora la signora non mancando di avvisarla che al più presto l’avrei cercata per il passaggio di proprietà e si parte. Altro viaggio, questa volta verso Cagliari, ma più lento per evitare le molte buche che costellano le strade del tempo e che possono danneggiare la Bianchi. Pietro ha messo anche delle vecchie coperte sul fondo del furgoncino perché le parti metalliche non si danneggino sfregando. Faccio il viaggio seduto di sbieco e controllando dal vetro posteriore il mio tesoro. Dopo un paio d’ore, verso mezzogiorno e mezza, quasi l’una, arriviamo finalmente al garage di Antonello, che trovo appoggiato al muro annoiato e nervoso per la lunga
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attesa. Mi scuso per il ritardo, ma a quel punto Antonello non mi ascolta più, oramai avvinto indissolubilmente dalla ragnatela tesa dal mio tesoro, in piena vista sul pianale del furgone. La Bianchi è uno splendore, e anche se impolverata ed arrugginita si riesce a vedere con la fantasia come si presenterà una volta finiti i lavori di riparazione. Scarichiamo con cautela la moto, e la mettiamo sui due cavalletti. Pago Pietro dandogli 100 lire in più, mi sento magnanimo, galleggio dalla felicità, lo saluto e torno da Antonello. Lo trovo inchinato a verificare il rubinetto posto sotto il serbatoio e sopra il carburatore. “Prima di mettere in moto bisogna aprire leggermente il rubinetto, far cadere alcune gocce di benzina sull’apertura del carburatore, quindi in fretta agire sul pedale della messa in moto, prima che la benzina evapori, - mi spiega, grattandosi il ciuffo ribelle. In quel momento arriva Mimmo Maccioni, amico anche lui, pianista ed amante della musica jazz, della fotografia e dei motori. Abita lì vicino ed ha visto la serranda del garage aperta. Si blocca allibito ad ammirare la Bianchi. “Bellissima!”, esclama, “da dove l’avete tirata fuori?” “Arrivata fresca fresca da Settimo San Pietro”, rispondo. “Bruno ha trovato il tesoro, e adesso viene il bello”, risponde Antonello, “smontaggio, pulizia, cromatura dei pezzi arrugginiti e verniciatura...” “Posso dare una mano?” propone Mimmo, “dai, ci terrei moltissimo!”
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In pochi minuti nasce una società per la ricostruzione della Bianchi. Io avevo trovato il pezzo e speso per l’acquisto, Antonello avrebbe messo il lavoro per lo smontaggio e rimontaggio, le spese per la verniciatura delle parti come il serbatoio, il faro e il parafango, e Mimmo si sarebbe interessato per trovare un posto per cromare il manubrio, le leve e tutte le altri parti che ne avessero avuto bisogno. Avrebbero insomma affrontato le spese che rimanevano e poi avremo fatto i conti. Chiudiamo l’accordo con una stretta di mano e, abbassata la saracinesca, ognuno torna alla propria casa per il pranzo. Antonello la sera stessa andrà a fare due ulteriori copie della chiave del garage. Così ognuno di noi avrebbe potuto lavorare sulla moto a suo piacimento. A casa trovo mia madre che fa finta di niente e non accenna al prestito in presenza di Mirella. Io riesco a mandare giù solo pochi bocconi delle lasagne buonissime che ci ha preparato. Babbo è alla cassa, al bar. Chiacchieriamo del più e del meno, anche se io friggo dalla voglia di rendere tutti partecipi del mio favoloso acquisto. Ma prima voglio parlarne da solo con Mamma per decidere cosa dire e cosa eventualmente nascondere. La cifra che mi ha dato è alta, ed è meglio che Babbo non sappia niente, per il momento. Dopo pranzo scendo al bar per dare il cambio e passo due ore nervosissimo in attesa che finisca il mio turno. Alle 5 finalmente ritorna Babbo e schizzo subito sulla macchina per fiondarmi al garage. Lo trovo chiuso, Antonello non c’è.
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È andato a fare le copie della chiave, mi dico, e intanto continuo a friggere. Dopo mezzora di sofferenza finalmente arriva, con le chiavi che gli sobbalzano in mano. “Eccoti la tua”, mi dice, “attento a non perderla.” Prima di iniziare a smontare la Bianchi decidiamo di provare a metterla in moto. Prima però smonto e carico sulla macchina le ruote per andare a cercare delle gomme nuove. Le trovo faticosamente, girando un paio di gommisti, spendo altre 2000 lire per comprarle e farle montare quindi vado dal rifornitore a prendere un paio di litri di benzina. Intanto Antonello controlla il livello dell’olio e la catena, pulisce le candele, regola la tensione dei cavi, lubrifica tutto ciò che fa qualche frizione etc. etc. Appena torno rimontiamo le ruote e controlliamo anche il serbatoio che risulta ancora relativamente pulito. Comunque sprechiamo un quarto di litro a farlo scorrere su una lattina per scaricare eventuali residui di ruggine. Alla fine è tutto pronto per la prova di messa in moto. Siamo entrambi nervosi per l’eventualità che il motore non parta. La signora di Settimo mi aveva avvisato che era ferma da un paio d’anni. Mi metto sulla leva e do il primo colpo, e niente, però il volano gira, la compressione è buona e così insisto. Antonello apre il rubinetto sul carburatore e lascia cadere un paio di gocce di benzina. Salgo ancora sulla leva, prendo un bel respiro e pedalo con forza. Finalmente al terzo tentativo il motore comincia a scoppiettare, per poi spegnersi borbottando.
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Ma oramai sento che tra poco prenderà vita. Comincio a sudare, ma non mollo. Proprio quando si affievolisce la speranza ecco che lo scoppiettio riprende e continua. Il garage si riempie in un attimo di fumo mentre il rombo possente del motore 500 scuote le pareti del piccolo locale. Con cautela spingiamo giù dai cavalletti la moto e la portiamo fuori. Salgo sul sellino che sembra scricchiolare di piacere dopo tanto tempo di riposo e do una accelerata di prova. Incredibilmente, ora che siamo all’aperto, sembra che il rumore del motore sia ancora più forte e possente. Calco la frizione, inserisco la prima muovendo la leva che sta sulla destra del serbatoio, rilascio con cautela la frizione e la Bianchi finalmente si muove. Antonello è ancora vicino e la spinge con cautela, timoroso che il motore possa spegnersi. È una moto grossa, pesa più di 175 chili, e non è facile tenerla in equilibrio. Finalmente arrivo sulla strada e parto per un primo giro di prova. Il tom tom del motore è regolare ed è musica per le mie orecchie. Non mi azzardo ad accelerare più di tanto, non voglio rischiare grippaggi, intanto tocco il freno di tanto in tanto per non avere sorprese, e sembra che tutto funzioni alla perfezione. Sono in un brodo di giuggiole, e mi viene da cantare dalla felicità. Allora, via Piemonte, poi sulla sinistra in via Toscana, poi la discesa di via La Vega, poi ancora in via Piemonte per rientrare finalmente nel cortile dove è il garage. Ci ho messo poco tempo a fare il giro, ma sono soddisfatto.
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All’entrata Antonello sbraccia gridando “Bellissima!” e Mimmo, che è arrivato giusto in tempo per godersi lo spettacolo si spella le mani applaudendo. Io mi sento un re, indosso la mia giacca di pelle, è un giubbotto americano da pilota, con colletto di pelliccia, comprato in via Sardegna in un negozio di roba usata, e mi manca solo una lunga sciarpa e un paio di occhialoni per sembrare un Barone Rosso del motociclismo. Decido lì per lì che avrei completato il mio abbigliamento da pilota al più presto. Cedo di malincuore la moto ad Antonello per un giro intorno all’isolato, ma prima mi dilungo a dargli consigli sul cambio, l’acceleratore ed i freni. Finalmente lo lascio partire e lo guardo sparire con apprensione dietro la curva. Un paio di minuti ed eccolo rispuntare da Via La Vega. Il ciuffo è ancora più ribelle e scomposto ed il viso rosso dall’eccitazione. Quasi non riesce a parlare quando scende dalla moto, ed ecco che Mimmo mi guarda speranzoso, come per dire... adesso tocca a me! Riprendo a dare spiegazioni, questa volta a Mimmo, anche se aveva ascoltato attentamente quelle date ad Antonello. Attenzione al peso della moto, non facile da controllare, accelerare con cautela, pronto sul freno, da utilizzare con delicatezza che i ferodi quasi non ci sono più etc etc. Intanto il motore continua a rombare, sordo e grintoso. Alla fine lascio che Mimmo parta per un ulteriore giro del rione. Lo vediamo sparire e iniziamo con Antonello a predisporre un ordine di lavoro per migliorare la Bianchi e farne una bellezza da ammirare.
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Passano i minuti e Mimmo non appare. Dall’entrata del garage e l’incrocio con via La Vega sono 50 metri e mi avvio verso la curva per vedere perché non arriva. Non vedo niente. Allora torno indietro, aspetto ancora un po’ e poi non ce la faccio più. Salgo sulla mia M.V. metto in moto e parto alla ricerca di Mimmo. All’altezza di via Toscana lo trovo fermo e circondato da un gruppetto di persone. Mi spavento e penso: un incidente? Parcheggio a lato del gruppo e mi avvicino timoroso. “Mimmo”, gli dico, “che è successo?” “Niente Bruno, tutto apposto, sono rimasto senza benzina!” Tiro un sospiro di sollievo e capisco tutto. Avevo preso 2 litri di benzina, un po’ l’abbiamo sprecata per pulire il serbatoio, ed il motore 500 si era ciuppato il resto in un batter d’occhio. Riportiamo la Bianchi vergognosamente trainata dalla mia M.V., tranquillizziamo Antonello che aveva quasi finito di sgranocchiarsi le unghie nell’attesa, e finalmente risistemiamo la moto in garage per un giusto riposo. Da quel momento inizia la lunga appassionante avventura di ricostruzione della moto, ma quella è un’altra storia.
La Cesana-Sestriere
Sono sulla linea di partenza, davanti a me ho ancora solo quattro macchine. Le pompate sull’acceleratore dei motori supercompressi si susseguono incessanti aumentando di ritmo man mano che ci si avvicina alla partenza, ogni pilota con la sua forza e frequenza. La Cesana -Sestriere è forse la gara più importante per il campionato della montagna. Questo è il mio primo anno di partecipazione, da pilota privato, al Campionato Italiano della Montagna. Siamo nel 1962, ed ho appena compiuto 24 anni. Corro con un Abarth 595, verde Lotus, preparazione Trivellato e assetto gomme Dal Fiume. Non ho sponsor, sono un novellino e con molti sacrifici e un casino di entusiasmo è già la quinta gara che affronto. I costo non indifferenti mi costringono a controllare le spese non strettamente necessarie con meticolosa attenzione. Ciò che concerne la macchina ed i suoi accessori, le parti che migliorate possono abbassare i tempi in gara, quelle sono le spese che giudico giuste e le affronto con entusiasmo, anche se spesso sono in rosso con il conto in banca. Il resto, l’albergo, il ristorante, i viaggi sono le cose su cui è d’obbligo il risparmio. Escludendo le topaie, mi adat-
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to a dormire in posti sperduti, l’importante è che il letto ed il bagno siano dignitosamente puliti ed economici. Per mangiare mi basta un qualsiasi trattoria e tra i piloti c’è un passa parola per i posti dove si mangia bene e si paga poco. Il mio principale avversario è Leonardo Durst, altoatesino, campione d’Italia della categoria, anche lui su una Abarth 595. Sul telaio di una Fiat 500 si monta un motore Abarth portato a 595 appunto, poi si cambiano le gomme ed i cerchi con ruote in lega a sezione larga, ammortizzatori preparati rigidi e tarati, il volante Momo a razze d’alluminio. Per maggior sicurezza ho fatto montare un robusto roll/ bar che irrobustisce la struttura. A questo punto del campionato sono secondo in classifica generale di categoria e mancano ancora solo tre gare. Per essere alla prima partecipazione il mio sorprendente posto in classifica ha fatto notizia. Ho vinto quattro delle mie cinque gare, tre in Sardegna, e Autosprint, rivista specializzata che segue il campionato, parla di me come della promessa della classe 600. Ma battere il campione in carica non sarà gioco facile, so che Durst è un “manico” di prima classe, sulla scena da molti anni. Il tracciato della Cesana-Sestriere si snoda in leggera salita, molto veloce, con curve da prendere a tavoletta, trattenendo il respiro e confidando nei propri riflessi. Da una parte si rasenta la roccia dall’altra il dirupo, l’adrenalina a mille. Il tracciato si snoda su un saliscendi, lunghi tratti in salita ed altri in leggera discesa dove se si ha il famoso
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“pelo sullo stomaco” si può acquistare più velocità ed affrontare la prossima curva recuperando preziosi secondi sugli avversari. La Cesana /Sestriere è su un tracciato misto veloce. Anche la macchina di Durst monta un motore preparato da Trivellato, di Vicenza, ma ognuno di noi viene seguito da un differente gruppo di meccanici. La mia 595 Abarth ha un assetto studiato Dal Monte, fatto apposta per gare con molte curve e mi permette una adesione incredibile. L’assetto mi dà massima sicurezza e mi aiuta a guadagnare decimi di secondo, curva dopo curva. I tecnici di Trivellato mi hanno seguito anche in Sardegna dove ho affrontato la Monte Acuto Campuomu e la Alghero Scala Picada, vincendole entrambe. Nella gara della domenica precedente, la Trieste/Opicina, ho toppato come un novellino facendo incazzare tutto lo staff di meccanici e accompagnatori. Ho cercato il limite per ridurre il peso della macchina, pretendendo di risparmiare anche sulla benzina, due litri e mezzo invece dei tre consigliati dai tecnici, e, come un pollo, sono rimasto a secco a duecento metri dal traguardo. Quando poi un amico mi ha detto che a tre quarti del tracciato avevo accumulato quasi 10 secondi di vantaggio su Durst il mio incazzo rasenta la bufera. Per fortuna anche Leonardo Durst non ha raggiunto il traguardo spaccando il motore a fine gara. Ed i pochi punti che ci separano in classifica generale sono rimasti gli stessi. A Cesana devo vincere, non ci sono scuse, altrimenti lascio perdere il campionato e torno a casa. Le gare intaccano molto i miei risparmi, per ogni gara parte un milione di lire, tra tecnici, messa a punto e tutto il resto.
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Finora me lo sono potuto permettere, sono giovane, single, abito ancora a casa dei miei, vendo Alfa Romeo per una grossa succursale e guadagno bene ogni mese. Inoltre sono popolare per far parte del gruppo musicale che va per la maggiore nelle feste private ed universitarie. D’estate al Lido di Cagliari siamo il gruppo che tira di più. E la mia popolarità mi permette di avere più conoscenze da convincere verso l’acquisto delle Alfa. Intanto i piloti che mi precedono alla partenza sono ridotti a due. Il via viene dato ogni due minuti ed è ormai arrivato il mio turno. Il giudice di linea mi chiama perché sistemi le ruote anteriori esattamente sulla striscia che segnala la partenza. Al momento opportuno inizia a contare mostrandomi le dita: 5, 4, 3, silenzio e... Via! Una formidabile carica di adrenalina mi riempie il cuore e le vene. Carico inconsapevolmente i polmoni per rimanere in
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apnea mentre cambio di marcia, prima fino a diecimila giri, seconda fino alla prima curva sulla destra, alleggerisco un decimo di secondo per poi velocissimo pompare nuovamente benzina schiacciando l’acceleratore come se volessi attraversare il fondo dell’auto. Ora riprendo aria, un respiro profondo, ma adesso è regolare; immetto aria ogni dieci secondi. E così Vado su per tutti i quattordici chilometri della gara. Curva a sinistra, rettilineo breve, curva stretta a destra, poi una curva larga che mi permette di spingere al massimo in terza piena a ottomila giri. Sono le undici di mattina ma sul tracciato di montagna ogni tanto si trovano pozze di nebbia che disturbano la visibilità. Supero le curve come fossero burro sciolto al sole. Il numeroso pubblico ai due lati del tracciato, specie sulle curve più impegnative urla ed applaude al mio passaggio. So che è un omaggio che porgono a tutti i piloti, niente di personale, agnimò, de dogna manera, mi piace pensare che le curve come le affronto io sono più divertenti da vedere, danno più emozioni, e gli applausi che mi arrivano malgrado il frastuono degli scarichi aperti al massimo mi sembrano fatti apposta per me. Vedremo all’arrivo. E invece no, all’arrivo non ci arrivo, scusate il gioco di parole, che Leonardo c’ha un culo, ma un culo... Mancavano poche centinaia di metri al traguardo, cominciavo a rilassarmi perché la parte finale del tracciato era la più semplice da affrontare, quando, all’uscita di una curva, proprio mentre ero in terza piena mi si blocca il cambio, la quarta non entra, e rimango con la terza fissa, fino al traguardo.
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Arrivo secondo per pochi secondi e Durst vince la gara ed il campionato. Arrivederci e scusa! Bella scalogna e mè... Comunque, a ripensarci, ho goduto come un grillo!
Natale ad Amsterdam 1970
Suonavo ad Amsterdam in un club situato sulla riva di uno dei tanti canali, l’ Herengracht, e il locale si chiamava Caliente. In quel periodo stavo con Rita, diminutivo di Henderika, che poi sarebbe diventata mia moglie, e vivevamo in una pensione, camera con cucina, non molto lontano dal locale. Per andare al lavoro ci mettevo cinque minuti. Con noi viveva Asta, una femmina di pastore tedesco che avevamo comprato in un negozietto vicino all’Hotel. La cagnetta aveva avuto da cucciolo una qualche traumatizzante esperienza; forse qualcuno l’ aveva picchiata o spaventata al punto che era rimasta paurosa. Teneva quasi sempre il capo chino e la coda tra le gambe, si nascondeva sotto il letto al sopraggiungere di qualche estraneo e risbucava solo quando era andato via. Piano piano, con immensa pazienza ed amore, eravamo riusciti a farle riconquistare un po’ di fiducia nella razza umana. Ma eravamo ancora agli inizi, la terapia era appena cominciata. Ogni notte, alla mia partenza per il locale, specie quando Rita mi accompagnava, Asta rimaneva tranquilla nella stanza, acciambellata nella sua cuccia sotto una finestra.
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Per abitudine prima di andare al lavoro la portavo a fare un giro nel parco vicino, ad annaffiare qualche albero. Poi al nostro ritorno dal locale, alle quattro del mattino, altro giretto, un boccone per tutti e via a letto. La notte di Natale del ’69 decidemmo di portare Asta al club, visto che venivano tutte le famiglie dei musicisti e degli artisti che lavoravano con noi. Ci sarebbe stata una grande festa, con maghi, palloncini, bambini eccitati e tutto il contorno. Nel locale Asta mi seguiva dappertutto, non si staccava dai miei piedi, ma conosceva quasi tutti i presenti e sembrava abbastanza tranquilla. Quando fu l’ora di iniziare a suonare la cagnetta mi seguì sul palco, suscitando l’ilarità degli amici. Si mise sdraiata ai miei piedi e restò tranquilla per una mezz’ora, mentre io cantavo e suonavo il sax. Comunque dopo un po cominciò a dare segni di nervosismo e visto che si avvicinava la mezzanotte e che il casino sarebbe aumentato notevolmente, avvisai gli altri del gruppo che prendevo una pausa per portarla all’aperto, lungo il canale, sperando si calmasse. Era notte inoltrata, l’aria era fredda, aveva finito di nevicare e ora arrivava il gelo; le strade erano silenziose e vuote, tutti chiusi al caldo in attesa della mezzanotte. Appena usciti decisi di lasciarla libera dal guinzaglio perché corresse un po’. Anche Rita era uscita dal locale e Asta correva da l’uno all’altra felice. Ed ecco che da una porta non lontana esce un ubriaco abbracciato ad una donna, lei è barcollante e si sostengono l’una con l’altro.
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L’uomo non si è accorto di noi e all’improvviso si ferma, si allontana dall’amica, infila la mano in tasca e tira fuori una pistola. Ricordo ancora che era di un colore argentato. Punta l’arma verso il cielo e inizia a sparare uno, due, cinque colpi. Asta, in quel momento tra me e Rita, si blocca come colpita da un fulmine, si gira per fuggire dall’origine di quel rumore terrorizzante e, sorda ai nostri richiami, corre lontana. Dimentico tutti i miei impegni di lavoro, la festa con gli inevitabili abbracci, gli scambi di regali e le pacche sulle spalle, e corro all’inseguimento del cane. Mi infilo in viuzze buie e passo tra mucchi di neve, il nome di Asta risuona per le strade di Amsterdam, ma senza risposta. Torno al Caliente, spiego la situazione a Joop, il proprietario, che capisce e mi lascia libero di continuare le ricerche. Assieme a Rita saliamo sul furgone dell’orchestra e riprendiamo a girare tra le viuzze ed i canali. Intanto il freddo è aumentato notevolmente come la nostra preoccupazione. La cagnetta non è abituata a passare la notte fuori casa, per di più nel gelo della strada, sappiamo che se non trova presto un riparo non ce la farà a sopravvivere. La notte trascorre rapidamente e l’alba ci ritrova ancora alla disperata ricerca del cane. Abbiamo fermato decine di auto della polizia, lasciato la descrizione del cane a passanti, giornalai e spazzini, assieme al nostro telefono.
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Quando il sole comincia ad infastidire i nostri occhi stanchi e arrossati, torniamo a casa per cercare conforto nel sonno. Mancavano 6 giorni alla nostra partenza per la Francia, il gruppo aveva un contratto con “Le Palladium” di Metz e doveva iniziare il 2 di Gennaio. Passammo quei giorni a cercare, cercare, cercare. Ma senza esito. Mettemmo annunci su De Telegraph, ricevemmo decine di telefonate, perché gli olandesi queste cose le prendono a cuore, con nessun risultato; risultarono tutti falsi allarmi. Lasciammo Amsterdam con un grosso peso nel cuore dopo aver passato un capodanno tristissino. Non abbiamo più rivisto Asta. Dove avrà passato la sua ultima notte di Natale?
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Suonavo col mio gruppo al Moulin Ruoge di Amsterdam, in quei giorni tra i locali rinomati per la buona musica e per gli ottimi spettacoli di varietà . Il Moulin Rouge si trovava sulla parte alta di Amsterdam e si affacciava su una piazzetta piena di verde, panchine e bancarelle che vendevano di tutto, dagli abiti usati a oggetti d’antiquariato o da aringhe crude servite con profumate cipolle. Il locale era famoso per le sue attrazioni internazionali adatte ad un pubblico eterogeneo, copiette e famigliole, con qualche casto numero di streap tease, tanto per dare un tocco di piccante alla serata. Il nostro gruppo iniziava a suonare alle 22 e andava avanti fino alle 4, non stop. Un mazzo da non poco. Gli unici momenti di pausa per noi musicisti capitava quando gli artisti utilizzavano per i loro numeri delle basi registrate su nastro. Finalmente ci si poteva rilassare su sedie di fortuna piazzate strategicamente dietro il sipario e si chiacchierava o si leggevano vecchi numeri di Tex che qualche altro musicista italiano aveva lasciato in un bustone sbattuto in un angolo. Il sipario del nostro palchetto si apriva sulla pista su cui si svolgevano i vari numeri d’attrazione, pista che poi
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diventava da ballo appena il gruppo riprendeva a suonare. Puntualmente alle 22, ogni sera eravamo sul palco pronti a partire. Si iniziava a suonare anche se il locale era ancora vuoto, e spesso il volume era assordante perché dovevamo fare da richiamo per i turisti che passeggiavano sulla piazzetta vicina. Appena i primi ospiti arrivavano subito venivano accompagnati sapientemente ai loro posti strategicamente studiati. Le famiglie sul davanti, vicino al palcoscenico, le coppiette un po’ più indietro ed i single nelle zone più in penombra, prede predestinate per le numerose ed avvenenti entreneuses. Quando tutto era pronto iniziava lo show. Lo spettacolo era composto da artisti di vario genere: cantanti, ballerini e ballerine, maghi, streapteaseuses, ventriloqui, contorsionisti, etc. Alcuni degli artisti per nostra fortuna si esibiva utilizzando una base su nastro che il tecnico del suono/ presentatore metteva al momento opportuno seguendo la scaletta della serata. Noi dovevamo conoscere la durata del pezzo e soprattutto le battute finali per essere pronti a ripartire con la musica al momento opportuno, possibilmente con pochi secondi di spazio tra la fine del numero e l’inizio della musica. A quel punto il sipario si apriva, le luci da forti si facevano più diffuse la musica iniziava ed il pubblico invadeva rumoreggiante la pista da ballo. In genere il break musicale aveva la durata di tre pezzi suonati consecutivamente per cercare di trattenere i
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ballerini dando ai camerieri il tempo di servire le ordinazioni pendenti per poi fermarsi appena lo spettacolo riprendeva. Era tutto organizzato perfettamente, tre canzoni, un numero artistico, tre canzoni e così via fino alle 2 di notte. Dalle 2 si andava avanti con un repertorio di lenti per favorire l’approccio delle entreneuses con i solitari in cerca di distrazioni più forti. Il rumore di tappi di champagne echeggiava spesso durante tutta la parte finale della serata. Le ragazze guadagnavano un tanto per ogni consumazione e particolarmente per ogni “tappo” di Champagne. Quella sera, saranno state le ventitrè circa e il locale era pieno da scoppiare; turisti inglesi, americani, tedeschi e giapponesi gremivano ogni spazio. All’aprirsi del sipario, mentre iniziavo a contare l’inizio del pezzo, d’improvviso, nel silenzio generale una voce emerge dal pubblico: “O Massidda, sa mamma de aundi, itta ses fendi in mesu a is olandesus?” Era Beppe, non lo potevo vedere perché i fari puntati sul palco mi accecavano, ma lo avevo riconosciuto dalla voce. Non avevo dubbi. Era il Suo modo per salutarmi comunicandomi il piacere di trovarmi così lontano da casa, sardo con sardo. Beppe, che poi venni a sapere viveva in Olanda da svariati anni assieme a Sua moglie Hans e i due figli Francesca e Chefren era conosciuto e rispettato per il lavoro e la determinazione, ammirato e temuto per la testardaggine nel perseguire un obbiettivo. Per raggiungere l’obiettivo era capace di travolgere tutto e tutti. Forse queste caratteristiche sono state le involontarie cause per la Sua immatura scomparsa. A lungo andare
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la grinta che usava per affrontare la vita ha forse sfibrato l’organismo lasciandolo per strada quando meno se lo aspettava. Gli avevo chiesto molte volte di mollare il lavoro, quando oramai aveva raggiunto una certa sicurezza economica; di venire a trovarmi dove mi trovavo in quel momento, a Cuba, Santo Domingo o più recentemente, a Porto Seguro, in Brasile. “O Pippo, gli dicevo, ci compriamo una barchetta, usciamo la mattina e torrausu candu ndi teneus gana. Sole, mare, pisci bonu e musica a nastro, itta bolis de prusu?” E lui sorrideva, immaginando la scena e poi, apparentemente triste nel lasciare il sogno rispondeva: “O Bruno, non sai quanto mi piacerebbe, ne avrei proprio bisogno di staccare la spina, ma seu tottu incasinau, troppi impegni, troppe responsabilità, la famiglia, le tasse... è tottu una casinu! Appena mi libero, ti giuro che ci organizziamo!” L’ultimo invito è stato poco prima che sparisse definitivamente tra le nuvole in un cielo terso e blu. Non sono riuscito a convincerlo, non ha voluto mollare, non ha voluto dare le spalle alle sue responsabilità, il solito egoista. E ci ha lasciato, per sempre. Ha preferito inseguire i Suoi sogni, lasciandoci, noi che gli volevamo bene, soli e sconsolati.
Chiesa di S. Eulalia Stoffa e acrilico su legno 40x40 cm 2013
Panorama zippato Stoffa e acrilico su legno 40x60 cm 2013
Cagliari Via del Fossario Stoffa e acrilico su legno 40x60 cm 2013
Cagliari Chiese, golfo e regata 100x40 cm 2013
Cagliari panorama blu Stoffa su legno 100x60 cm 2012
Casteddu colorara Stoffa su legno 100x100 cm 2011
Casteddu a righe Stoffa su legno 40x40 cm 2011
Cattedrale con verde e blu Stoffa su legno 30x40 cm 2011
Nuraghe rosso Stoffa su legno 40x40 cm 2012
Cagliari Stampace e Castello Stoffa su legno 60x40 cm 2013
Cattedrale gialla Stoffa su legno 40x40 cm 2012
Cattedrale vista da Terrapieno Stoffa e acrilico su legno 100x40 cm 2013
Cattedrale su roccia Stoffa su legno 20x40 cm 2011
Cagliari Porta Cristina Stoffa e acrilico su legno 30x40 cm 2012
Cagliari Chiesa di S.Saturnino Stoffa e acrilico su legno 40x60 cm 2012
Pinguino pescatore Acrilico su tela 40x40 cm 2011
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Suonavo con “The Sardinians” a bordo della Island Princess, una splendida nave da crociera della P&O, compagnia di navigazione tra le più conosciute nel mondo delle vacanze di qualità. Il gruppo, lo dice il nome, era composto da cinque amici, tutti sardi e tutti di Cagliari e dintorni. Durante il periodo estivo la nave aveva come sede di partenza Vancouver, meravigliosa città canadese posta nel nord, sul Pacifico. Si partiva ogni sabato per una crociera che toccava per i sei giorni successivi altrettanti porti di ridenti cittadine canadesi e americane. L’Alaska ha sulle sue coste piccole città che un tempo furono meta dei cercatori d’oro provenienti da tutto il mondo. Juneau, la capitale, ha solo poche decine di migliaia di abitanti, e Skagway poco meno, ed entrambe rimangono meta preferita delle navi da crociera. La Island Princess faceva tappa in queste cittadine prima di arrivare al ghiacciaio più famoso, lungo decine di chilometri, il Glacier Bay. Il comandante, appena la nave arrivava abbastanza vicina al ghiacciaio faceva suonare la sirena in modo da provocare, per l’ammirazione dei passeggeri ammassati sui ponti, la colossale caduta di immensi iceberg che si staccavano dalla parete produ-
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cendo grandi onde. Alcune erano capaci di spostare per decine di metri anche la nostra nave. Oggi tutto questo è giustamente e severamente proibito. Il giorno dopo la sosta a Glacier Bay l’Island Princess arrivava a Sitka, una piccola cittadina posta su un promontorio frastagliato su cui dominano le famose Aquile reali, quelle con il capo bianco neve e lo sguardo truce presenti anche sulla bandiera americana. Durante la sosta noi musicisti avevamo il tempo di andare in giro alla ricerca di posti strani o di negozi in cui comprare le t-shirt con il nome della città o con un grosso Totem disegnato sopra. C’era il nostro bar preferito con un paio di tavoli da biliardo e la barman sempre sorridente dove mentre si giocava si sgranocchiava pezzetti di carne secca sorseggiando la birra locale, e poi il piccolo ristorante che proponeva gustosi piatti di carne di cervo o caribou. Guardando dalle sue finestre luminose uno poteva immaginarsi la vista del fiordo ricoperto di ghiaccio, come sarebbe apparso durante il freddo inverno. Un giorno mi spingo un po più lontano dal centro alla ricerca di qualche negozio con souvenir interessanti da portare come regalo ai miei. Girato l’angolo verso il fiordo vedo le vetrine illuminate a giorno e cariche di piccoli oggetti d’artigianato locale lavorati su ossa di balena o denti di tricheco. Appena apro la porta sento squillare un campanello dal fondo lontano del negozio. Entro guardingo e mi guardo intorno curioso. Non si avvicina nessuno.
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Delle voci vengono dal fondo del locale e mi avvio per parlare con il proprietario.. Mentre mi avvicino sento una voce femminile che parla in inglese con un accento particolare che mi ricorda qualcosa. Superato un bancone vedo una signora con capelli corvini e di statura minuta che spiega qualcosa al cliente. Mi avvicino ancora e finalmente capisco cos’è che mi suona familiare. Aspetto che finisca di parlare e le chiedo: “De aundi beniri fustetti? Itta ci fairi ainnoi in custa bidda sperdia?“ Lei mi guarda sorpresa, forse ho preso un abbaglio, ma poi, aprendosi in un grande sorriso, risponde: “De Decimomannu seu bennia, mi seu coiara cund’unu militari americanu e seu accabbara in Alaska!”
Adriana
Pireo - Grecia Mancavano pochi minuti alle 18, ora precisa di partenza della Stella Oceanis. Il porto del Pireo era intasato dal traffico marittimo e le banchine erano strapiene di passeggeri in arrivo ed in partenza. Decine di navi che andavano verso le innumerevoli isole greche o turche e poi traghetti, porta container e numerose navi da crociera congestionavano le acque del porto. Quella nella quale suonavo era ancora attraccata in attesa degli ultimi passeggeri. il comandante della Stella Oceanis, il greco Manalis guardava in giu dal ponte di comando verso i portelloni aperti dove si affrettavano gli ultimi passeggeri accaldati dalla lunga e umida giornata passata ad Atene. Ero sul ponte più in basso e guardavo nervoso verso l’entrata del porto, e il tassì con Adriana a bordo non si vedeva. L’aereo dall’Italia era arrivato con un’ora di ritardo. Ancora pochi minuti e Manalis avrebbe dato l’ordine di partenza e una volta ritirata la passerella nessuno sarebbe potuto salire a bordo.
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Altre volte avevo assistito a tragici arrivi ritardatari di passeggeri, Manalis non perdonava, la nave partiva senza di loro e i poveretti dovevano a proprie spese prendere un aereo o nave veloce per raggiungere la nave allo scalo successivo, magari il giorno dopo. Le regole della compagnia erano severe e Manalis le applicava con intransigenza. Erano settimane che aspettavo questo momento; come capo orchestra avevo ottenuto per Adriana un biglietto scontato all’osso per una cabina esterna e i quindici giorni di crociera nelle isole greche e turche promettevano momenti meravigliosi da passare insieme. Intanto Adriana non appariva, e cominciavo a perdere le speranze. Sapevo che l’aereo, anche se in notevole ritardo, era atterrato da più di un’ora e oramai il taxi con Adriana doveva essere dietro l’angolo. Il comandante Manalis aveva sorriso comprensivo quando aveva saputo del prossimo arrivo della mia compagna, ma sapevo che non avrebbe fatto eccezioni. Adriana non arrivava ed erano oramai le 18 precise. Guardai in alto verso il ponte di comando e vidi il Manalis parlare al radiotelefono con i marinai agitando la mano come per sollecitare il ritiro della passerella. Io ero proprio sotto di lui e agitando il braccio attirai la sua attenzione sollevando un dito come per dire: “Capo, parakalò, aspetta un altro minuto, mostra un po’ di umanità!” Ma Manalis fece segno di no rientrando all’interno del ponte di comando e lasciandomi sconsolato e muto. Ed ecco, improvvisamente, come in un film d’altri tempi, come in una scena di un “Casablanca” d’annata,
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vedo arrivare un tassì che superate velocemente le barriere del porto frena a cento metri dal portellone della nave in mezzo ad una nuvola di polvere. Oltre non poteva proprio andare. Lo sportello si apre d’improvviso ed ecco Adriana con una piccola borsa in mano buttare dei soldi verso l’autista per poi lanciarsi ansimante verso la nave. Per fare più in fretta aveva preso le scarpette in mano e correva, correva. Purtroppo la passerella era oramai sparita all’interno della nave e il portellone si chiudeva, lentamente ma inesorabilmente. Intanto sui ponti della nave oramai in partenza si erano assiepati i passeggeri. Sul molo i marinai ed i facchini che riposavano dopo le fatiche dell’imbarco guardavano in silenzio l’evolversi della scena, come fossero al cinema. Adriana corre gli ultimi metri in un secondo, il viso arrossato e bellissimo. Non ha ancora capito che il portellone è chiuso e che forse tutto questo correre e ansimare non sarebbe servito a niente. Io dal ponte non smettevo di urlare ai marinai di riaprire il portellone e rimettere la passerella: “Che diavolo, cosa ci vuole, oramai basta un secondo!” E loro, pur capendo il mio dramma, non possono fare nulla; Manalis se li mangerebbe vivi se non rispettassero i suoi ordini. Il Capitano non si vede, sarà dentro il ponte di comando a sovrintendere la partenza. Allora, senza pensarci più di tanto salgo al volo le due rampe di scale che mi separano dalla plancia di comando, apro la porta e urlo:
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“Capo, per favore, parakalò, Adriana è arrivata, appena in tempo. Fai rimettere la passerella, ci vuole un attimo!” Manalis, serissimo, fa di no con la testa e si gira a parlare con il secondo. Ho oramai gli occhi fuori dalle orbite dalla frustrazione, sono disposto a tutto, solo al pensare di lasciare il mio amore da sola ad Atene... riprendo ad urlare: “Capo, guarda che se parti senza prenderla a bordo giuro su quello che vuoi che non suono più e lo show greco te lo fai da solo con il tuo bouzuki di merda!” La tensione è tremenda, tutti sono li che aspettano un aspro rimbrotto da parte del comandante. A quel punto sono disposto a perdere il lavoro. O Adriana sale a bordo o sbarco e lo lascio senza musica. Per fortuna tutto si risolve con Manalis che scoppia in una risata seguita con sollievo da quella del resto del gruppo di ufficiali che ha assistito allo scontro. E finalmente prende il radiotelefono ed autorizza l’imbarco. Mi giro senza neanche ringraziarlo e scendo le scale a tre a tre, un piano dopo l’altro fino al ponte più in basso. E li trovo Adriana che mi aspetta, appena entrata, tutta sconvolta, con il viso arrossato ma con un sorriso grande così, le scarpette ancora in mano, meravigliosa eroina della mia storia.
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Per un certo periodo della mia vita ho avuto la buona sorte di visitare il mondo su splendide navi da crociera, navi di lusso sulle quali ho lavorato come musicista. Le navi mi hanno portato in bellissime località: dall’Alaska al Canada, dal Messico a Panama, passando per il suo incredibile Canale, dagli Stati Uniti al Venezuela, dal Suriname al Brasile, e poi nella maggior parte delle splendide isole dei Caraibi, permettendomi di tuffarmi nel loro meraviglioso mare tropicale o in quelle Greche e Turche, ed in tante altre località turistiche che sarebbe lungo elencare e che non avrei potuto visitare altrimenti. Un ricordo particolare mi riporta alla splendida Istanbul, perla del mar nero, città metà orientale e metà occidentale. Ero capo orchestra sulla nave Stella Oceanis che faceva scalo, settimanalmente nei porti di piccole e grandi isole dell’Egeo per poi tornare ad Atene, porto di partenza. Piccole crociere che duravano una settimana esatta. Una delle tappe in cui la nave faceva scalo rimanendo ogni crociera per mezza giornata, dalle 7 del mattino alle sei di sera, era Istanbul. La mia prima volta la mia visita fu decisamente traumatica, rimasi sconvolto per il caos del porto, il traffico convulso con migliaia di macchine strombazzanti e mi-
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gliaia di turchi che attraversavano la strada incuranti del pericolo, tutti regolarmente con i baffi e l’immancabile sigaretta in bocca. Sulle strade intorno al porto si trova di tutto. Attraccate a piccoli moli decine di barche vendono pesce ancora guizzante, mentre galleggiano dondolanti su acque rese iridescenti dal petrolio che ricopriva la superficie. L’inquinamento è terribile. Un tanfo indescrivibile mi circonda appena sceso dalla nave, ma presto, man mano che mi allontano dal porto, inizio a percepirlo sempre meno, fino ad abituarmi, almeno in parte. Una volta allontanato dalla zona portuale entro in una parte della città che subito mi affascina per i suoi colori e caratteristiche metà orientali e metà occidentali. Sono sulla parte destra del ponte di Galata, vicino alla Torre. Belle vetrine di marche famose si alternano a negozietti dove si vende di tutto. E poi un’incredibile quantità di variopinte bancarelle con venditori urlanti che propongono merci di tutti i generi. Sembra che l’arte di produrre imitando gli oggetti delle grandi “griffe” sia nata, almeno per certi articoli, in Turchia. Molto prima che in Cina. Siamo intorno all’85, per pochi dollari puoi trovare magliette “Lacoste” identiche alle originali, in tutta la gamma di colori e taglie. La qualità della stoffa è alta, non si restringe né scolorisce. Solo pochi anni fa ne ho trovate alcune ancora in ottimo stato in fondo ai miei cassetti.
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Numerosissimi bar propongono il classico caffè turco servito in piccole tazzine. Una volta bevuto lascia la “mamma” sul fondo, che alcuni possono interpretare, altri godono nello sgranocchiare la polvere dopo avere sorbito il liquido fragrante. Lo puoi trovare anche per strada, offerto per poche lire (turche) da ragazzini intraprendenti. Dopo, il sapore del caffè ti rimane a lungo piacevolmente in bocca. In tutti i bar troneggia il classico narghilè sistemato al fianco dei piccoli tavolini. E poi c’erano, anch’essi numerosissimi, i ristoranti, la maggior parte piccoli, fumosi e rumorosi. Mesi dopo invitai in uno di questi piccoli ristoranti vicino al porto tutto lo staff degli “entertainers” (gli artisti e musicisti che “intrattenevano” ogni sera i passeggeri), ad un pranzo per il mio compleanno. Eravamo una ventina e mangiammo di tutto, dai tipici antipasti a base di yogurt e peperoncini piccanti ad una specie di timballo a base di melanzane, e pesce arrosto di diverse varietà, il tutto accompagnato da birra locale o da un vino tipo “retzina” ma di produzione turca, per finire con piccoli dolci buonissimi. (I turchi sono famosi per la produzione di piccoli dolci a base di noci o mandorle.) Fu un compleanno diverso e il pranzo terminò con una torta offerta dal baffuto proprietario. Aveva una solitaria candela a simboleggiare i miei anni. Un giorno, si arrivava regolarmente alle 7 del mattino, dopo una abbondante colazione servita a bordo della Stella Oceanis metto il mio zainetto sulle spalle ed esco
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per infilarmi nell’intricato dedalo di viuzze del vecchio quartiere che circonda il Kervansarai, il caravanserraglio, dove si trova il Gran Bazaar, il grande mercato di Istanbul. Anche intorno alla immensa costruzione prolificano moltissimi negozietti, la maggior parte vecchi e decrepiti, che vendono dagli articoli in pelle alle scarpe da Pascià a vetuste pipe di schiuma che riproducono scolpite originali teste di turchi baffuti o di vecchi pirati. Dopo un po di girovagare mi fermo a bere un caffè in un bar. Cerco un tavolino all’aperto, è una bella giornata con un’aria frizzante ed un sole tiepido. Mentre sorseggio la bevanda vedo che proprio davanti al bar c’è un negozio con una piccola vetrina polverosa che mi incuriosisce per la quantità di oggetti esposti, tutti ricoperti di polvere. Pagato il caffè attraverso la stradina schivando con abilità biciclette, moto ed auto impazzite e finalmente entro aprendo la porta scricchiolante. Un campanellino appeso sul retro della porta avvisa allegramente il mio ingresso. Il locale è piccolo e buio, e pieno zeppo di ogni ben di Dio, almeno per i miei occhi di ricercatore. Appesi al soffitto oggetti di tutti i tipi penzolano appena illuminati dalla luce che viene dalla strada. Un anziano signore è seduto dietro ad un minuscolo banco vetrina anch’esso strapieno di oggetti ammassati senz’ordine. Il vecchietto, i capelli bianchissimi e folti, e un “pince nez” sulla punta del naso mi sussurra un “gunaydin”, buongiorno in turco, e mi guarda speranzoso. Al momento non capisco il significato della parola ma immagino sia un saluto in turco e rispondo con un “hello” in inglese.
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Mi metto a girare e lui rimane seduto ma continuando a seguire con attenzione i miei movimenti. Ci sono bastoni da passeggio con teste di cani o di leoni, pattini a rotelle, vecchi caschi coloniali e da motociclista, statuette decò e quadri messi li alla rinfusa. Tutto è impolverato e non vedo prezzi esposti. Per avere un’idea del valore degli oggetti scelgo un vecchio grammofono a manovella, una piccola valigia di tipo inusuale, con coperchio che si chiude per il trasporto. Ha una tromba argentata che si snoda per aderire al coperchio dalla parte interna, e la marca è Decca, americana. “Questa funziona?” domando sempre in inglese. “Certamente, che io ricordi” risponde. “E quanto costa?” L’ometto esce da dietro il banco e si avvicina claudicante. Solleva il grammofono, ci guarda sotto e dice: “100 dollari, troppo?” Faccio una smorfia e rispondo: “Potrebbe abbassare il prezzo, almeno un poco?” Il reale valore dell’oggetto è di certo superiore alla cifra che il venditore vuole realmente e so che il divertimento dei commercianti turchi è quello di trattare, sparare sem-
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pre una somma alta, aspettare una controfferta, per poi abbassare un poco la richiesta, un botta e risposta lungo e divertente, fino a trovare l’accordo definitivo. Non è educato chiedere il prezzo di una cosa e poi andar via se il prezzo ti sembra troppo alto. Fare una richiesta significa che l’oggetto ti interessa, e devi continuare la trattativa fino a che non si sia trovato un punto di incontro. Puoi interrompere lo scambio di offerte e controfferte solo quando il venditore rimane troppo lontano dalla tua ultima cifra. Altrimenti è capace di seguirti fino a fuori dal negozio, anche per strada, tirandoti per la giacca e continuando a trattare imperterrito. “Quanto è disposto ad offrire?” mi risponde. “75 dollari”. Comincio a divertirmi. “75? Povero me, mi mette sul lastrico! Facciamo 95?” “Al massimo arrivo a 80.” “Oh, me misero”, piagnucola, “facciamo 90”. “Vabbè, eccole 85 dollari e ci stringiamo la mano.” Tiro fuori un bel biglietto da cento che è tutto ciò che ho in tasca e glielo sventolo davanti al naso. Quasi me lo strappa di mano, il biglietto, ma io non mollo la presa e insisto: “Siamo d’accordo?” Alla fine si raggiunge l’intesa. Ma io mi rimetto il foglio in tasca e gli dico: “Prima di darle il dovuto, mi scusi, ma vorrei vedere se funziona.” Prendo il grammofono, lo metto sul banco, lo apro e stacco dal suo inserto la manovella, anch’essa bella cromata. La inserisco al suo posto avvitando fino in fondo.
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Dopo poco il movimento della manovella comincia finalmente ad avvolgere la molla che spinge il piatto. Lo faccio partire ruotando la piccola leva che blocca il movimento ed il piatto comincia a girare. Subito lo fermo e controllo la testina, anch’essa snodabile, per vedere se la puntina sia ben fissata. È tutta arrugginita. La sfilo ed apro il piccolo scomparto al lato del piatto. È pieno di vecchie puntine, alcune ancora brillanti dal poco uso e ne scelgo una. “Mi da un disco, per favore? Uno qualsiasi.” Si lancia su una pila di dischi poggiata sul pavimento ne tira fuori uno e me lo passa dopo averlo ben spolverato sui pantaloni. È un vecchio 78 giri di Glenn Miller, guarda un po’! Lo appoggio sul piatto, rifaccio partire il movimento e metto con cautela la puntina sul bordo del disco. Subito l’orchestra di Glenn Miller che suona la primissima versione di Moonlight Serenade invade il negozio. Il suono è un po gracchiante per via dell’usura del disco e per la puntina non proprio perfetta, ma il grammofono funziona bene, come avevo sperato. Gli do sorridendo il centone mantenendo la mano con il palmo all’insù aspettando il resto. Ma subito ci ripenso dicendogli: “Guardi, se mi aggiunge 15 dischi 78 facciamo cifra tonda e non mi dà resto.” Non ci pensa su neanche un po’ e mi lascia lì seduto per terra a scegliere nella pila fra dischi di Sinatra, Mills Brothers e Bing Crosby. Sono quasi tutti brani americani del dopoguerra, ma riesco a trovare anche un vecchio disco di Beniamino Gi-
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gli che canta “O sole mio” e un altro di Tito Schipa ottimo interprete dell’aria “Un dì all’azzurro spazio” dall’Andrea Chenier. Alla fine gli consegno i dischi pregandolo di impacchettarlo bene per proteggerli per il trasporto. Mentre il proprietario prepara un pacco che si possa trasportare comodamente, mi guardo intorno sempre alla ricerca di qualche tesoro nascosto, non si sa mai. Tra le cose appese e dondolanti intravvedo ancora qualcosa di interessante. Un violino vecchio e polveroso, una corda rotta e penzolante. Cerco di sganciarlo dal filo che lo trattiene ma non ci riesco. Allora il vecchietto, terminato di preparare il pacco si avvicina con una piccola scala che piazza sotto e ansimando, piano piano sale e scende con il violino in mano. Vedo subito che è malmesso e sto per renderglielo scusandomi per avergli fatto fare una fatica inutile quando vedo, attraverso la “f”, l’apertura che ogni violino ha ai due lati, un’etichetta quasi illeggibile. Mi avvicino alla luce che filtra dalla vetrina, metto il violino in modo da poter leggere meglio e rimango allibito. La scritta, ricoperta di polvere e sbiadita dal tempo riporta: “Stradivari facebit”. Era scritto in corsivo, con la S di Stradivarius svolazzante, come se scritta con un pennino che oramai non si usa più, forse una piuma d’oca. Il cuore si ferma per un attimo, per poi riprendere veloce e galoppante. Stradivarius! strillo dentro di me! Sarebbe un ritrovamento incredibile e di un valore immenso!
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I ritrovamenti di questo tipo capitano così, d’improvviso, senza che uno se lo aspetti. Il vecchio intanto è dietro di me e aspetta che gli renda il violino mentre spera che gli chieda il prezzo per iniziare un’altra lunga e divertente trattativa. Invece prendo tempo, il viso rosso dall’eccitazione, faccio un profondo respiro per rallentare il galoppare del cuore e glielo rendo. Non mi sono rimasti che pochi dollari in tasca e non posso lasciare un acconto per bloccarlo. Ho pensato un piano da seguire e voglio portarlo a termine. Devo fare in modo che mi tenga da parte il violino, ma non voglio fargli capire che sono particolarmente interessato. Se si fosse accorto della scritta e del potenziale valore del violino avrebbe certamente chiesto molto o addirittura lo avrebbe tenuto per sé. Riprende deluso il violino e strisciando i piedi torna alla scala e lo riappende lasciandolo lì a dondolare. Aveva sperato di concludere un altro affare con lo straniero ma... pazienza, qualcosa aveva comunque concluso. Raccolgo il pacco col giradischi e, visto che il peso non è indifferente gli domando dove posso potuto trovare un taxi per riportarmi alla nave. Mi mostra un parcheggio vicino con due macchine in attesa di passeggeri. Lo ringrazio e faccio per uscire ma prima di chiudere la porta mi giro e gli dico: “Tornerò la prossima settimana, può darsi che voglia rivedere il violino, me lo tenga da parte, per favore.”
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“Certamente signore”, risponde, “guardi che con pochi dollari se lo porta via anche adesso, se vuole”. “Adesso non posso, ho giusto i soldi per il taxi, ma non si preoccupi, ne riparliamo la prossima settimana.” Esco definitivamente, prendo il taxi e torno eccitatissimo alla nave. Lasciato il pacco in cabina salgo per bere qualcosa al bar del ponte principale poco prima del pranzo. Mi siedo, ordino al barman un Martini cocktail e mentre lo sorseggio sgranocchiando noccioline decido che potrei tornare al negozio con un po’ di dollari e portarmi via il violino definitivamente, che diavolo, non vedo l’ora di controllarlo per bene e vedere se è veramente autentico. In pratica avrei rischiato solo pochi dollari e ne valeva la pena. Comunque, prima di riuscire decido di andare a mettere qualcosa nello stomaco ancora chiuso per l’eccitazione. Al tavolo riservato all’orchestra trovo Piero Di Rienzo, anche lui sardo, bassista del gruppo. Decido di raccontargli la mia avventura, non posso trattenermi, devo dirlo a qualcuno e Piero è la persona giusta. Mi ascolta a bocca aperta, dimenticando come me gli spaghetti che si sfreddano. Alla fine del racconto gli chiedo di accompagnarmi a ritirare il violino, dopo il pasto, e qui nasce il primo intoppo. “Guarda che alle tre e mezza abbiamo prove con Steve, il mago, e poi con le ballerine per lo show di stanotte. Ti sei dimenticato?” Miseria ladra, mi ero completamente dimenticato! Non posso bruciare le prove, il dovere prima di tutto,
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e il direttore di crociera è severissimo con chi sgarra. La nave poi parte alle sei e quindi non c’è tempo, assolutamente. Mi rassegno. Ritirerò il violino al nostro ritorno ad Istanbul, fra sette giorni. Fu una settimana lunghissima. La possibile scoperta dello Stradivarius mi ha reso nervoso ed ansioso. Dopo le prove per lo spettacolo della sera, mentre la nave inizia il suo viaggio verso Kusadasi, dove attraccherà l’indomani all’alba, salgo sul ponte comando e chiedo di fare una telefonata in Italia. La nave ha una cabina da cui i passeggeri possono chiamare tutto il mondo, attraverso la radio di bordo. Dopo una mezzora di attesa finalmente mi mettono in contatto con Giorgio Aresu, sinnaese doc, amico e sassofonista del precedente gruppo “The Sardinians” con il quale avevo suonato tra l’altro su un’altra nave da crociera, la “Island Princess”. Fortunatamente trovo Giorgio a casa e risponde al primo squillo. Giorgio è fidanzato con Lidia, una simpatica signora di Cremona. Senza spiegargli il motivo vero mi invento che mi premeva contattare Lidia al più presto per chiederle se conosca un pianista di Cremona di cui avevo il nome. Mi serviva sapere se poteva eventualmente prendere il posto di quello che avevo che doveva tornare a casa al più presto. Avevo il nome e l’indirizzo, ma non avevo il numero telefonico e prima di confermarlo, per non correre rischi volevo informazioni fresche. Lidia frequenta l’ambiente artistico di Cremona, e può informarsi di sicuro. Giorgio mi da il numero, parliamo ancora per un po’ e finalmente chiudo la telefonata.
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Riparlo con il centralinista e aspetto che mi metta in comunicazione con Lidia. Anche con lei ho fortuna, risponde al primo squillo ed è felice di sentirmi dopo tanto tempo. Prima mi invento un nome di un fantomatico pianista di Cremona su cui chiedo informazioni. Si informerà, mi dice, mi dispiace farle perdere tempo inutilmente, ma devo coprire la innocente bugia detta a Giorgio; poi, come fosse una mia curiosità, le chiedo se lì a Cremona ci siano esperti che possano darmi informazioni su antichi violini di valore come quelli di Guarnieri o Stradivarius. Le dico che un amico aveva trovato un vecchio violino in un robivecchi di Istanbul e voleva avere qualche informazione che lo aiuti a capire meglio come riconoscere un violino di valore controllando magari particolari caratteristiche. Insomma, mi mantengo sul vago. Mi rassicura che anche per questo argomento ha un caro amico, proprio il direttore del museo dedicato a Stradivari, che può consultare il giorno stesso. Le dico che mi farò vivo tra un paio di giorni per avere notizie sia sul fantomatico pianista che per le informazioni sui violini. Le va bene e ci lasciamo dopo i saluti di rito. La vita a bordo, tra prove con gli artisti per lo show di ogni notte, la lettura quotidiana di un paio di pagine dell’ultimo libro di Wilbur Smith preso in prestito dalla biblioteca della nave, passeggiate sul ponte per smaltire il cibo ingurgitato che è sempre abbondante, e tutte le altre molteplici attività che normalmente si svolgono su una nave da crociera mi aiutano a distrarmi per un
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paio di giorni. Finalmente la nave arriva al Pireo, porto di Atene. Sul molo cui attracchiamo è piazzata strategicamente una sede telefonica messa apposta per dare ai marinai e al personale di bordo la possibilità di comunicare con le proprie famiglie. Fatta la mia solita abbondante colazione esco e con pazienza mi metto in fila davanti alla sede. Dopo una mezzora riesco finalmente a sedermi in una cabina piena di fumo lasciato dal marinaio appena uscito, (allora non c’erano le restrizioni odierne), e subito chiamo Lidia. Questa volta non risponde, lascio squillare per un minuto e poi decido di riprovare più tardi. Intanto chiamo casa, chiacchiero con mia madre e mia sorella, le tranquillizzo come al solito, tutto va benissimo, saluto e richiamo Lidia. Comincio a friggere, ho bisogno di notizie prima che la nave riparta per la nuova crociera. Questa volta risponde dopo pochi squilli. In poche parole mi spiega che non è riuscita a rintracciare il pianista inesistente. La consolo dicendo che non è così importante, e passo in fretta all’argomento che veramente mi interessa. Per il violino ha poche ma utili informazioni. Il suo amico esperto le ha spiegato che stabilire l’autenticità di un violino del Guarneri o Stradivarius non era così facile. Solo un esperto capace di riconoscere la reale età del pezzo, il tipo di legno usato in quel periodo, le vernici etc. Comunque tutto questo non era sufficiente a stabilire con sicurezza la mano del liutaio che l’aveva costruito. Uno dei metodi era verificare la firma che sia il Guarnieri che Stradivarius ponevano all’interno dello strumento.
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La firma spesso si poteva intravvedere attraverso la “f” di sinistra del violino. Usavano una penna di uccello tagliata a becco e intinta nell’inchiostro. Scrivevano su una parte liscia del fondo perché l’inchiostro non sbavasse. Qualche volta mettevano la data, altre no. Altra caratteristica importante era che spesso la “f” di sinistra era un po’ più alta di quella di destra, perché Stradivari aveva problemi di vista. Mi sembra che Lidia mi abbia fornito abbastanza elementi per fugare i dubbi; la ringrazio ancora, la saluto calorosamente dicendole che avrei richiamato se la cosa fosse diventata importante, anche per un eventuale controllo finale del suo amico esperto cremonese, e finalmente chiudo. Per passare il tempo decido di andare ad Atene per un rapido giro del centro, ma devo tornare alla nave prima delle 18, ora di partenza della prossima crociera. Incontro Piero mentre aspetto il taxi e lo convinco a farmi compagnia. Ad Atene, vicino a piazza Sintagma troviamo una grossa cartoleria dove compro una lente di ingrandimento che certamente mi sarà utile nella mia ricerca. Cerco nella vicina libreria, la più importante in città, un buon libro su Stradivarius e spendo venti dollari per uno che riporta anche esempi della firma e foto dei più importanti violini ritrovati ed esposti nei musei sparsi nel mondo. Insomma, mi sto preparando al meglio. Con tutte le informazioni di cui sono ora in possesso non potrò sbagliare, una volta che il violino sarà tra le mie mani. Riconoscente per la sua compagnia invito Piero a mangiare in un ristorante nascosto dietro Sintagma.
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Pranziamo con un buon pesce arrosto, souvlaki, moussakà, un pezzo di ottima feta e per finire un kataifi, un dolce con ripieno di mandorle e sciroppo. Annaffiamo il tutto con una bottiglia di fresca retsina, finiamo con un caffè e con un altro taxi torniamo soddisfatti a bordo. La Stella Oceanis è in piena attività nell’imbarcare i nuovi passeggeri e i loro bagagli. Ci rifugiamo nelle nostre cabine per un giusto riposo in attesa dell’impegno serale con il gruppo. Inizia un’altra settimana di lavoro. Finalmente, dopo due lunghi giorni di navigazione, sbarchi e reimbarchi fra un’isola e l’altra, arriviamo ad Istanbul. Chiedo ancora a Piero di accompagnarmi, facciamo una rapida colazione e ci fiondiamo verso il negozio. Sono in fibrillazione, non vedo l’ora di riavere il violino tra le mani. Arrivati in porto prendiamo un taxi per fare prima, e appena arrivati... troviamo il locale chiuso. Saracinesca abbassata e tutto! Sono solo le 9 del mattino, forse apre più tardi, mi dico. È una bella giornata, il bar di fronte è aperto e ci sediamo a bere un caffè in trepidante attesa. Il cameriere mi assicura che il proprietario del negozi etto non dovrebbe tardare ad arrivare, di regola a quell’ora è già sull’uscio ad aspettare clienti. Finalmente dopo una mezzora arriva ciondolante il vecchietto. Inizia a trafficare con chiavi e lucchetti. Faccio per alzarmi per aiutarlo ma Piero mi blocca dicendo: “Aspetta, non farti vedere troppo interessato...”
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Ha ragione. Mi risiedo e riprendo nervoso a sorbire il secondo caffè e sgranocchiare nervosamente la “mamma” saporita. Piero mi dà il permesso di alzarmi solo quando il vecchio proprietario sparisce dentro il locale. Dopo un paio di minuti passati ad aspettare il conto attraversiamo la strada stando attenti alle macchine che ti sfiorano indifferenti e finalmente entriamo nel locale. Le luci sono ancora spente ma la campanella avvisa comunque il proprietario del nostro arrivo. Appena siamo dentro guardo verso il punto in cui la settimana prima era appeso il violino ed... è sparito! Intanto il vecchietto arriva sfregandosi le mani, mi ha riconosciuto e già assapora il fruscio dei dollari che spera di scucirmi. Lo saluto con indifferenza e subito gli chiedo dove sia finito il violino. Non riesco proprio a trattenermi e Piero mi guarda deluso per la mia mancanza di capacità affaristiche. Sorridendo il proprietario mi indica il banco su cui troneggia il violino. Sapeva che sarei tornato e si è dato da fare. Il violino ha perso la patina di polvere, forse è stato anche lucidato con un prodotto da mobili, in ogni modo è lì, in piena mostra, ad attendermi. In più ha un archetto messo apposta vicino per valorizzare la messa in scena. Mi avvicino, prendo in mano il violino e inizio a controllarlo con attenzione. Sfilo da una tasca la lente che mi sono portato dietro e guardo prima sul dorso come per controllare lo stato del
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legno poi giro il violino e guardo finalmente tra l’apertura delle due “f”. In quella di sinistra rivedo l’etichetta con la firma la cui autenticità mi ha fatto uscire di testa per una intera settimana. Ed ecco che il sogno, impietosamente, senza alcuna clemenza, si frantuma sbattendo con forza di fronte alla cruda realtà. L’uso della lente di ingrandimento mi mostra in primo piano, desolatamente, una piccola etichetta di carta malamente attaccata al fondo dello strumento. La scritta che riporta la firma “Stradivari facebit” è irrimediabilmente stampata, non ci sono dubbi. Porcaccia miseriaccia! In seguito ho appreso, sempre da Lidia, che quel tipo di violino veniva costruito per essere venduto in tutto l’oriente ed usato nelle scuole che insegnavano i primi rudimenti ai giovani alunni. Andai via deluso senza nemmeno salutare l’incolpevole vecchietto, accompagnato da Piero anche lui silenzioso e partecipe del mio sogno infranto. Ancora oggi, ogni volta che mi ricordo di quella giornata mi rammarico per non avere comunque comprato il violino. Avrei potuto appenderlo in casa lasciandolo così com’era a riprendere le polvere del tempo. Di quando in quando avrei potuto mostrarlo con nostalgia agli amici, magari dopo una cena conviviale come ricordo di un meraviglioso ritrovamento mancato.
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Se non siete mai stati a Cuba, particolarmente durante le feste di Pasqua, non potete avere l’idea di come si festeggia da quelle parti. A casa mia la Pasqua vuol dire la ricorrenza della morte e resurrezione di Gesù, e poi le uova di cioccolato o dipinte a mano e inserite in forme di pane, con regali dentro o fuori, o la colomba farcita di nutella e di canditi, e prima il pranzo, con 6 o 7 portate, vino caffè e digestivo. A Cuba la Pasqua non viene festeggiata, non esiste, o se esiste è solo per pochi. Pasqua è una domenica come le altre. Il cubano non lavora, come capita tutte le domeniche, e pensa solo a riposare, bere birra o Ron Anejo e guardare in TV la partita di base-ball. Dalla rivoluzione il popolo ha perso i contatti con la chiesa cattolica anche per la tolleranza che la stessa aveva avuto con il governo di Batista, dittatore corrotto. Il popolo o la maggior parte di esso con in testa Fidel, si è dimenticato di festeggiare la morte e la resurrezione di Cristo. La domenica si riposa, e, solo per ragioni di stato, o meglio, ordini del partito di Fidel, si può cambiare la routine di un giorno di riposo.
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Invece a Santo Domingo, dove vivo e lavoro 8 mesi all’anno, per la settimana di Pasqua, chiamata “Semana Santa”, si è più religiosi, si va a messa, si uccidono i capretti grassi, e il Venerdì Santo non si fa musica né si mangia carne, per lo più. I locali importanti preferiscono chiudere visto che la città si svuota e che la gente bene parte in vacanza per Miami, la California o per le località turistiche sulla costa. E io, aprofittandone, da un po’ d’anni a questa parte, passo la Pasqua a Cuba, dai miei amici. Le mie amicizie cubane sono le famiglie di José Fuster e di Wilfredo Torres. José Fuster ha un suo taller, o studio di ceramica e pittura, che sta a Jaimanitas, municipio Plaia, sulla Quinta Avenida, quindici minuti dalla Habana vieja. José è un pittore ceramista tra i più popolari di Cuba ben conosciuto all’estero per i colori caribegni che riempiono le sue tele e le sue ceramiche, per la sua pittura naive, con reminiscenze picassiane. Lo chiamano il Picasso del Caribe. Torres è suo allievo, faceva il disegnatore satirico per una rivista cubana, vicino di casa di Fuster, barrio Vibora, a nord de la Habana. Un giorno visita Fuster che lavora con il barro, vede nella ceramica una possibilità di guadagno; capisce che basta fare piccoli oggetti da vendere a pochi dollari, per migliorare i suoi miseri introiti, all’epoca 10 dollari al mese, corrispondenti ai 220 pesos cubani che gli pagava il giornale satirico. Durante una visita del museo della ceramica, al “Castillo de la Real Fuerza”, sul Malecon, vede esposta un’o-
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pera di un famoso ceramista, una macchina da scrivere con la lettera A che si ripeteva su tutti i tasti. Pochi giorni dopo la Habana si ritrovò invasa da piccole macchine da scrivere di ceramica. Costavano 20 dollari l’una in ogni negozio per turisti. Era nato il Torres ceramista. Fanculo al posto al giornale.
Fuster Ho conosciuto Fuster a Santo Domingo, oramai sono una ventina d’anni, assieme al suo collega cubano Wilfredo Torres, durante la preparazione di una mostra. Abitavano nel mio stesso hotel, un antico palazzo, il primo costruito in pietra nelle americhe, data 1502, chiamato Hostal Nicolas de Ovando, sulla calle las Damas, nella Ciudad Colonial. La direttrice dell’hotel aiutava gli artisti bisognosi e di valore, ospitandoli e organizzando per loro incontri didattici e esposizioni nelle vaste sale del Nicolas de Ovando. Fuster e Torres, ogni mattina, utilizzavano una delle torri dell’hotel per preparare le loro opere ceramiche e di pittura. In quel periodo suonavo tutte le notti a “La Briciola”, uno dei migliori ristoranti della città, e regolarmente facevo tardi riuscendo a svegliarmi presto solo perché il salone dove si faceva colazione chiudeva alle 9.30. Da sempre affascinato dall’arte ma raramente a contatto con artisti così da vicino, arrivavo regolarmente, dopo colazione, praticamente tutti i giorni, alla torre dove lavoravano.
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Me ne stavo lì a guardarli lavorare e ad apprendere la tecnica del barro, come chiamano qui la creta, o a spiare la “mescla de colores” di Fuster. In cambio, a metà mattina invitavo i miei amici cubani a fare una pausa ofrendo loro una cerveza, ricambiando così la loro simpatia e la loro disponibilità e pazienza nello spiegare e rispondere alle continue domande che non mancavo di fare. Un giorno mi proposero di fare qualcosa con il barro, invece di stare lì a guardarli con le mani in mano. Era esattamente la cosa che da giorni non osavo chiedere, affascinato dalla possibilità di plasmare la materia e dal vedere nascere una qualsiasi forma dalle mie dita. Così, d’improvviso, mi innamorai della creta, della sensazione che provavo nel manipolarla e particolarmente dalla facilità con cui riuscivo a rendere in pratica ciò che pensavo. Nacque così un amore immediato e definitivo, che dura tutt’ora, anche se per ragioni pratiche spesso non posso soddisfare i miei progetti. Solo quando vado a Jaimanitas, nello studio di Fuster, posso immergermi nella creta e costruire, biscocciare, che sarebbe cuocere l’oggetto realizzato in forni ad alta temperatura, per poi dipingere l’oggetto e ricuocerlo ed aspettare un giorno per tirare fuori l’opera (d’arte?) dal forno e finalmente vedere il risultato dei miei sforzi. Una delle cose meravigliose della creta è che non si può scommettere su ciò che salterà fuori dal forno, che colori verranno, se forti o deboli, se il verde sarà scuro o chiaro, e così via. Il risultato è spesso il contrario di ciò che ci si aspetta.
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Sulla mia Chevrolet del ‘59, davanti alla casa, a la Havana, dell’amico José Fuster
Tornando alla mia prima esperienza di scultura ceramica, non solo fu un amore a prima vista con il barro; di conseguenza nacque anche una amicizia con i due cubani, che non smettevano di complimentarsi con me per la mia manualità spontanea. All’inizio avevo seri dubbi sulla sincerità dei loro complimenti, mi sembrava assurdo che quello che facevo con la creta valesse qualcosa, specie per loro, ma dopo un po’ e anche dopo aver sentito il parere di altri artisti del luogo, mi convinsi che valeva la pena continuare. Incominciai a fare oggetti, la notte li pensavo e la mattina arrivavo spesso prima di loro, per realizzarli, e poi, come al primo amore appunto, non vedevo l’ora che il
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pezzo uscisse dal forno, spesso deludente, altre volte proprio come l’avevo sognato. Dopo qualche settimana avevo realizzato 5 pezzi discreti, legati alla musica o all’amore: un sax dalla forma assurda ed un sassofonista stilizzato, le altre erano intitolate: “Mira cuanto te quiero”, “guarda quanto ti amo”, numerate, ed erano tre busti. Da uno fuoriuscivano cuori dalla bocca, da un altro dei fiori, e l’ultimo aveva due mani che aprivano la testa, come fosse una melagrana, da cui fuoriuscivano dei cuori rossi. Fuster, senza esitare, mi invitò ad esporre i miei pezzi alla loro prossima esibizione, a Casa de Teatro, nella città coloniale. Non ci volevo credere, e, quando uscì il piccolo catalogo della mostra con il mio nome accanto al loro, ceramisti famosi, quasi svenivo. C’era anche la foto di una mia opera, un mio “mira cuanto te quiero”, ed è una delle poche cose che mi rimane della mostra. Con l’aiuto di Fuster, ottimo venditore, “piazzai” 4 pezzi su 5! Durante la preparazione della mostra e anche nella settimana di esposizione passavo tutto il tempo libero con i miei nuovi amici, a parte qualche ora che dedicavo alla musica, provare nuovi pezzi e la notte a suonare al ristorante italiano “la Briciola”. Spesso i cubani venivano al locale ad ascoltarmi cantare, e poi quando finivo si andava con la mia enorme Chevrolet del 73 al Jaragua, un grande hotel sul Malecon, il lungomare di Santo Domingo, ad ascoltare merengue, a giocare pochi pesos alle macchinette, e a mirar “esplendidas chicas morenas”.
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Quando, dopo un mese dalla chiusura della mostra, Fuster e Torres partirono alla volta di Cuba, mi lasciarono solo dopo che mi ebbero strappata la promessa di andarli a trovare da lì a qualche mese, per le vacanze di Natale, periodo in cui a Santo Domingo, come per la “Semana Santa”, tutti partono in vacanza e la città rimane vuota. Finalmente, dopo un mese di preparazione, telefonate, cosa portare?, si trovavano spaghetti?, e l’olio extra vergine? il 24 di dicembre partii alla volta de la Habana, mitica, sognata e immaginata in mille modi da troppo tempo. Al mio arrivo la prima delusione, riguardo alla organizzazione della dogana e dell’immigrazione. Nello spazio di dieci minuti arrivarono tre aerei, il mio da Santo Domingo, un altro da Puerto Rico e l’ultimo da Toronto. Si formò così un totale di circa cinquecento persone in fila, distribuite su una decina di linee, in attesa di passare il controllo passaporti, con pochi addetti militari, e tutti con poca voglia di essere rapidi, anzi! Ogni passaporto era esaminato con estrema attenzione, e poiché la maggioranza dei turisti non parlava l’idioma di casa, lo spagnolo, si perdeva ancora più tempo per fesserie. Passarono circa due ore prima che fosse il mio turno, poi dieci minuti sotto lo sguardo da cerbero di un poliziotto che sembrava simpatico e che invece era incazzato nero e picchiava nervoso sui tasti di una vetusta tastiera di un decrepito computer, senza degnarsi di rispondere alle mie domande sul perché si dilungava tanto Infine, dopo una decina di minuti mentre la fila si allungava sempre di più perché nel frattempo erano arrivati altri aerei, con un sospiro quasi di dispiacere per
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non aver trovato argomenti per rifiutare il mio ingresso, l’addetto al controllo mi rende il passaporto e schiaccia un pulsante che apre la porta che immette alla sala per il ritiro bagagli. Non sapevo che la storia si sarebbe ripetuta anche con il controllo delle valigie. Prima un’attesa lunga per ritrovare le mie due borse, e poi, in fila per uno, con alla mano gli scontrini dei bagagli, un controllo con domande tipo: cosa contengono le valigie? regali?, guardi che non si possono introdurre articoli elettrici, né alimentari, cosa sono queste? mele? sequestrate, e questo? olio? sequestrato, e, che belle queste batterie, ricaricabili? ne posso prendere un paio? sai, qui sono introvabili! Alla fine ti lasciano a rimettere in ordine i bagagli aperti, tutto un casino rivoltato, con la voglia di urlare il tuo sconforto, ma anche felice di essere finalmente passato e fuori dal terminal! Fuster mi aspettava oramai da tre ore abbondanti, ma, sapeva che questa trafila era una cosa a cui si veniva sottoposti regolarmente, e, da buon cubano, mi ricevette comunque con un abbraccio, come se niente fosse. A Jaimanitas, 15 km dal centro de la Havana, il taller dove Fuster lavorava era pieno di gente ad attenderci, tutta la famiglia. La moglie Gladys, i figli José e Huanchy, e il figlio del primo matrimonio, Alex. E poi c’erano le sorelle Caridad e Gladys, il fratello Ismael, tutti con relativa famiglia, la madre Antonia che aveva la pelle tanto incartapecorita da sembrare quella di una tartaruga ma con un sorriso angelico e sincero. Logi-
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camente c’era Torres con moglie e figlia a seguito, il vecchio aiutante ceramista Toirac, e i vicini di casa Amparo e Luisito. Stranamente per Cuba, un fronte freddo era sceso dalla Florida e la temperatura si era abbassata di circa dieci gradi, e la cosa non era piacevole anche perché un vento teso peggiorava le cose. Era il 24 dicembre, vigilia di Natale. Ci fu una festa di benvenuto, una semplice cena cubana con riso, fagioli e chicharrones, il tutto innaffiato di rum e Tropicola, (la Coca Cola a Cuba non esiste). Io partecipai con una bottiglia di Imperial, il miglior rum domenicano, passata miracolosamente al controllo doganale e alla fine, quando tutti se ne furono andati ciondolanti cantando Pablo Milanes a squarciagola, mi infilai a letto, completamente vestito perché faceva un freddo cane e a Cuba non esistono coperte.
Salon Rosado La Havana Cuba Eravamo, Michele ed io, forse gli ultimi due turisti rimasti dentro il Salon Rosado Benny Moré, a la Havana. Erano le sei del mattino, l’orchestra de “Los Van Van” sul palco raccoglieva gli strumenti, il posto era ancora pieno di cubani; stranamente a quell’ora erano rimasti solo uomini. Le uniche due donne erano quelle che ci accompagnavano. Il conto era stato pagato da un pezzo e alla mia proposta di andare via ottenni un consenso generale.
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Ci alzammo per attraversare il locale ed uscire alla ricerca di un taxi e contemporaneamente(?) altri gruppetti di clienti si misero in movimento. Alcuni si misero davanti a noi, in fila verso l’uscita, qualcuno si fermava a parlare intralciandoci la strada, altri chiedendoci un “fosforo, por favor”. Intanto i più vicini, con estrema maestria, infilavano la mano nelle nostre tasche “por suerte” ben presto vuote. Ci seguirono fino all’uscita; io ci arrivai ridendo e con le mani in alto, per facilitare il loro lavoro. Il bilancio finale del furto, chiamiamolo così, fu la scomparsa dalle nostre tasche di vari biglietti con indirizzi di ragazze da noi faticosamente raccolti durante la serata, (peccato), di una vecchia ricetta per il mal di schiena che mi affliggeva in quei giorni, di un accendino Bic appena comprato, e di tre dollari che avevo tenuto in serbo per il ritorno. Il taxi che ci riportò all’albergo lo saldarono le ragazze. Di quella serata al Salon Rosado de la Havana mi rimane il ricordo della coinvolgente musica de “los Van Van” e la strana sensazione di innumerevoli mani che dentro le mie tasche cercavano, cercavano, cercavano...
“La Briciola”. Santo Domingo
La prima volta che metto piede a “la Briciola”, il ristorante più “in” di Santo Domingo è in una calda sera di sabato, quando mi rimangono ormai pochi giorni prima di affrontare il viaggio che mi riporterà a Cagliari. Il locale è gremito e non ci sono posti disponibili nei tavoli sistemati nel vasto patio. Sgomitando tra decine di persone che sorseggiano i propri drink riesco a raggiungere la fine del lungo bancone del bar posto nel grande salone interno. Seguo con lo sguardo uno dei barman preparare un martini cocktail e noto che lo esegue secondo le regole di “James Bond”, esattamente come piace a me. Appena si accorge che lo sto osservando gli sorrido e sollevo un dito per ordinarne uno. Finisce di preparare un Manhattan per una profumatissima signora e comincia a darsi da fare sul mio Martini. Shaker, ghiaccio, una spruzzata di Martini dry, shakerata veloce per poi buttare tutto il liquido nel lavandino lasciando sul ghiaccio rimasto solo il profumo del dry. Quindi una dose abbondante di Bombay, il miglior Gin in circolazione, ancora una shakerata per poi colmare fino all’orlo il classico bicchiere usato nel mondo per i Martini cocktail, con la coppa triangolare, ovviamente ben ghiacciato.
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Un scorza di limone e l’immancabile oliva infilzata in uno stecchino terminano l’opera d’arte. Ottimo barman, penso, come ci si aspetta di trovare nei migliori locali. Buon inizio di serata, mi dico soddisfatto. Mi avevano parlato della “Briciola” alcuni italiani residenti da anni a Santo Domingo. Avevo chiesto un consiglio per un buon locale in cui cucina e buona musica si abbinavano bene. Se anche la cucina fosse stata dello stesso livello del bar si prospettava una bella serata. La musica mi arrivava ovattata, sentivo in sottofondo un pianoforte ed un contrabbasso, ma il brusio che mi circondava non mi permetteva di farmi un’idea della qualità dei musicisti. Intanto la bella receptionist del locale si avvicina per chiedermi se voglio fermarmi per la cena. Le rispondo subito di si e le chiedo di trovarmi un posto possibilmente vicino al palco dei musicisti. Mi garantisce che si darà da fare per soddisfare la mia richiesta. Sorseggio compiaciuto il mio Martini, faccio un cenno di apprezzamento al barista, gli comunico che carichi il drink sul conto del mio tavolo e mi alzo per andare verso il palco da cui proviene la musica. Il grande patio spagnolo contiene una trentina di tavoli, tutti occupati. Vedo dove è sistemato il palchetto e noto che la ragazza cui ho chiesto un tavolo è indaffarata a prepararne uno, giusto a fianco del pianista. Mi guarda e mi fa un cenno per invitarmi a sedere. Perfetta organizzazione, mi dico.
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Ne ho conferma pochi minuti dopo quando si avvicina un elegante cameriere con in mano due menù, uno per i vini e l’altro per le portate della cena. Me li lascia con un sorriso e sparisce. Intanto ho finito il mio drink, e decido che per la cena ordinerò una President, ottima birra locale. Il proprietario della “Briciola” è italiano, siciliano, così mi hanno detto, quindi scelgo tranquillo uno spaghetto allo scoglio ed una sogliola alla parmigiana. Speriamo bene. Intanto i musicisti hanno preso una pausa mentre, diffuso tra le palme ed i gelsomini arriva il suono del pianoforte di Raul di Blasio. Torna il cameriere, scrive l’ordinazione e sparisce silenziosamente. Mi guardo intorno e noto molte belle donne, tutte vestite elegantemente, tutte bianche e profumatissime. Gli uomini sono anch’essi eleganti, il nero e la cravatta predomina, ma ci sono anche persone che vestono sportivo, come il sottoscritto. Anche tra gli uomini predomina il bianco, inteso per il colore della pelle. Gli unici uomini di colore sono i simpatici camerieri ed il bassista che riappare in quel momento sul palco assieme al pianista. Un’ulteriore riprova del razzismo imperante tra l’alta società di Santo Domingo. Il patio trabocca di piante e fiori tropicali che si arrampicano sulle quattro pareti e che colorano e profumano tutto l’ambiente. La musica e la President arrivano insieme. Il pianista è anche un discreto cantante, ed inizia con un bolero classico: “Sabor a mi”.
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Il piano è un mezza coda Steinway perfettamente accordato, e anche questo è un particolare che apprezzo e che dimostra la serietà dei proprietari. Insomma mi sembra di aver trovato il posto giusto. Arriva lo spaghetto allo scoglio accompagnato da un piacevole profumo di frutti di mare freschi. È un piatto enorme con cozze, vongole, pezzi di aragosta e di gamberi che spuntano tra i fumanti spaghetti. Senza vergogna mi infilo il tovagliolo nell’apertura della mia Lacoste, al diavolo l’etichetta, e mi butto sul cibo con voracità. Ho passato una meravigliosa giornata in una spiaggia tropicale e sono ancora carico di sole e pieno di energie. Intanto il duo accenna uno standard americano, “Smoke gets in your eyes”, il repertorio sembra simile al mio. Mentre assaporo le cozze e l’aragosta, comincia a farsi strada in me l’idea che potrei propormi per un provino. Ho il biglietto di ritorno per Cagliari per la settimana successiva, non ho voglia di perdere tempo né di farlo perdere al proprietario, ma mi piacerebbe suonare ancora una volta prima di partire. Intanto arriva la sogliola alla parmigiana e le faccio tutti gli onori che merita. La musica continua e continua a non entusiasmarmi più di tanto. Il repertorio è buono ma l’esecuzione... L’atmosfera della Briciola intanto si scalda, le chiacchiere allegre quasi sovrastano la musica, e i camerieri corrono da un tavolo all’altro per le ultime ordinazioni. Anch’io ordino un dolce e contemporaneamente prego il cameriere di chiedere al “dueño”, il proprietario, se può onorarmi della sua presenza, solo per un attimo.
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Dopo un paio di minuti trascorsi a far fuori un ottimo tiramisù finalmente vedo avvicinarsi un signore elegante e sorridente. “Buonasera, sono Franco Riccobono, cosa posso fare per lei?“ Lo invito a sedersi, mi presento anch’io e gli dico: “Complimenti per il locale, tutto di primissima qualità dal Martini alla cena e alla musica! Le farò certamente pubblicità tra i miei amici”. Mi ringrazia sorridendo e mi offre un drink per chiudere al meglio la serata, scelgo un Rum Barcelò d’annata e decido di proporre subito la mia candidatura. “Sono un musicista ed ho pensato che mi piacerebbe molto proporre la mia musica in questa splendida cornice.“ Mi guarda sorpreso e risponde “Musicista? Molto bene, repertorio italiano?“ “Repertorio internazionale” rispondo, “spazio dalla canzone italiana agli standards americani, dai bolero cubani alle chansons francesi e le bossa e samba brasiliane. Canto e suono il sax ed il flauto”. Rimane evidentemente affascinato all’idea di sentire qualcosa di nuovo e vario e mi chiede “Vuole cantare qualcosa adesso? Se vuole chiedo al pianista...” Declino l’offerta per questioni pratiche, non mi piace giocare una carta importante appoggiandomi ad un musicista che non conosco e da cui dovrei dipendere per la mia esibizione. Gli propongo di tornare il giorno dopo, in un orario di suo gradimento, per presentarmi in modo più esauriente, con sax, flauto e basi a seguito. Gli spiego che canto su basi registrate su un computer che collegherei all’am-
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plificazione del locale. Insomma che sono un “one man band”. Dapprima mi sembra spiazzato dall’idea di uno che canta da solo su un palco, a meno che non sia un pianista, forse gli sembra un po’ misera, come presentazione. Comunque alla fine ci mettiamo d’accordo per trovarci al locale verso le 12 del giorno dopo. “Magari dopo la sua esibizione potrebbe essere mio ospite per uno spuntino assieme ai miei figli.” Accetto l’invito con piacere. Mi saluta e si allontana per avvicinarsi a un gruppo di clienti che lo aspetta per salutarlo prima d’uscire. Ho l’impressione che Franco Riccobono sia benvoluto, a Santo Domingo, cosa che non guasta in un ambiente così sofisticato. Finisco di sorseggiare il Barceló, chiedo il conto, pago Con Franco Riccobono, a “la Briciola” di Santo Domingo
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lasciando una buona mancia, saluto i musicisti e torno in albergo. Mi addormento in un attimo. Il giorno dopo mi sveglio appena in tempo per scendere al bar per la colazione. Faccio appena in tempo, alle 9 e mezza chiudono tutto. Un cappuccino, una croissant alla marmellata e mi sento subito un altro. Torno in camera, tiro fuori il sax tenore dalla sua valigetta, inumidisco l’ancia e faccio una mezzora di scale ed arpeggi mettendo un asciugamano a tappare l’ampia bocca dello strumento sperando che il voluminoso suono non disturbi i clienti dell’albergo. L’asciugamano riesce ad evitare lamentele e continuo tranquillo per un po’. Un’altra mezzora a rinforzare il labbro con il flauto e il mio orologio segna le 11 e mezza. Giusto il tempo per vestirmi decentemente, raccogliere il computer, Sax e Flauto ed uscire. Per strada fa un caldo umido tipico del posto e decido di prendere un taxi anche se il ristorante dista non più di 500 metri. Appena arrivo il fresco della Briciola mi accoglie piacevolmente. Il locale è ancora vuoto. A pranzo sono pochi i clienti a frequentarlo. Mi accoglie Alessandro, il figlio maggiore di Franco Riccobono che sa già del mio provino e mi accompagna sul palco per mostrarmi l’amplificazione ed eventualmente aiutarmi nei collegamenti. La marca dell’amplificatore è Bose, e questo mi garantisce un’ottima qualità di suono.
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Chiedo un tavolino per appoggiare il computer, faccio il collegamento, provo il microfono e tutto mi sembra perfetto. Apro gli astucci degli strumenti li monto e li appoggio sul trespolo che mi sono portato dietro appositamente. Alessandro mi sembra soddisfatto per la mia sicurezza nel preparare Con Chuck Mangione a “la Briciola” l’esibizione. “Bene”, gli dico, “io sarei pronto, quando volete...” “Un minuto che chiamo Papà e Chico.” Mentre aspetto vado al bar e mi trascino sul palco uno sgabello che ho adocchiato la notte prima, adatto per le mie esigenze. Sono abituato a suonare e cantare seduto, fa molto “ambiente” e mi sento decisamente più rilassato in quella posizione. Riprovo i volumi delle basi e del microfono, faccio gli ultimi ritocchi, meno bassi più medi, ed ecco apparire Franco accompagnato dai figli. Mi stringe la mano, mi presenta Chico, che si pronuncia Cico, piccolo in spagnolo, (che invece è grassetto, con un viso paffuto e simpatico), e si siedono sorridenti in attesa che io inizi a suonare. Ho deciso di partire con un pezzo di Elton John, “Your song”.
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Calco il play e parte la musica. Appena inizio vedo il sorriso dei tre farsi più largo e allegro. Quando poi faccio l’assolo con il flauto si guardano scambiandosi cenni positivi. Mentre suono predispongo il pezzo successivo. Il programma che uso mi permette di evitare pause tra un pezzo e l’altro. Finito “Your song” continuo con un brano di Venditti, “Ricordati di me”, che spesso canto per convincere ascoltatori scettici, e qui colpisco il secondo centro. Per chiudere il trittico faccio partire “Everybody’s talkin” la colonna sonora dell’“Uomo da marciapiede”, uno dei miei cavalli di battaglia. I Riccobono sono oramai in mio potere. Non mi permettono di continuare, mi invitano al loro tavolo per pranzare insieme e pianificare un eventuale esibizione per quella stessa settimana. Arriva da mangiare con un buon vino rosso ad accomCon Guarionex Aquino e band
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pagnare gli spaghetti al ragù ed una piccola bistecca ai ferri con patatine fritte. “Quali sono i tuoi progetti?“ mi chiede Alessandro, che capisco sarà quello con cui tratterò per un eventuale accordo. Mi dà del tu e questo crea un’atmosfera più rilassata. “Veramente... avrei un biglietto di ritorno per Italia per la prossima settimana.“ rispondo imbarazzato. L’atmosfera allegra si raggela immediatamente. I Riccobono si guardano allibiti per poi chiedermi quasi all’unisono: “Ma allora, minchia, perché ti sei voluto proporre?“ “Veramente ho pensato che se la cosa vi fosse interessata davvero avremmo potuto studiare uno stratagemma per vedere di sospendere il rientro. L’Alitalia, compagnia con la quale ho fatto il biglietto contempla l’eventualità di una piccola penale per cambiare la data per il ritorno.” Il sorriso riappare immediatamente sul viso di quelli che saranno i miei futuri compagni d’avventura per i prossimi mesi. Mi garantiscono che risolveranno loro il problema con l’Alitalia, conoscono l’agente locale, loro cliente abituale, e cominciamo a trattare per un accordo comune. Si spaventano alla mia prima richiesta, con quello che chiedo per una serata loro pagano un quartetto locale. Alla fine abbasso le mie pretese in cambio di tre serate fisse alla settimana, cene a “la carte” comprese. Il periodo del contratto rimane aperto, in attesa di sentire l’Alitalia e decidere una data per il rientro. In più cercheranno di trovarmi attraverso amici una sistemazione vicino al ristorante, nella città coloniale. Inizierò il giorno
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Con gli amici Chino, Paco,Carlos e Bolivar, a “La Briciola”
dopo, il tempo per reclamizzare l’evento sui giornali locali. Alla fine mi tratterrò, con alterni periodi di sosta, per circa un anno, con estrema soddisfazione di entrambe le parti, diventando un’attrazione fissa del locale. In quel periodo alla Briciola ho avuto anche il piacere di suonare e cantare in varie occasioni assieme a numerosi musicisti locali. Le mie serate erano sempre esaurite da settimane prima. Ancora oggi vado orgoglioso per le soddisfazioni ottenute a la “Briciola”. La famiglia Riccobono, con Franco in testa diventeranno amici carissimi, anche al di fuori del lavoro. Purtroppo, prima Marcella, moglie e madre felice e poi lo stesso Franco ci lasciarono immaturamente. Mantengo ancora oggi frequenti contatti con Ale e Chico che continuano a Santo Domingo la tradizione di famiglia.
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Era una serata come un’altra, un martedì qualsiasi, e il locale “La Briciola” di Santo Domingo, nella República Dominicana, cominciava lentamente a riempirsi. I clienti arrivavano alla spicciolata, dovevo iniziare la mia esibizione alle 22 e i piccoli altoparlanti sparsi per tutto il ristorante in punti strategici e perfettamente nascosti da fiori e piante, diffondevano musica a volumi giusti. Chiacchiero come al solito con i camerieri fermi vicino al mio tavolo mentre finisco di cenare. La serata è fresca e piacevolmente profumata dai gelsomini che si arrampicano sulle pareti del patio. Pian piano i camerieri spariscono tutti per occuparsi dei vari gruppi che entrano spargendosi per il locale accompagnati dal direttore di sala che corre da un tavolo all’altro. Mi alzo e mi avvicino al lungo bancone del bar, ordino a Bolivar il solito caffè e l’altrettanto immancabile rum Barcelò Imperial che mi accompagna sempre sul palco. Durante la serata ne berrò due, mai di più. Accetto in più solo quelli offerti dai clienti, ma solo per far finta di sorseggiarli per poi lasciarli da parte intoccati. Non mi voglio rovinare il fegato esagerando né mi piace perdere la lucidità. Un po’ di rum non guasta, specie
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all’inizio della serata per rilassarmi e stirarmi le corde vocali, ma senza esagerare. Salgo sul palco, ogni cosa è sistemata al suo posto, il sax, il flauto ed il computer collegato all’impianto. Accendo l’impianto Bose, faccio “sà... sà” per provare il microfono, sorrido ai clienti seduti ai tavoli vicini, mi sistemo sul comodo sgabello ed inizio a suonare. Parto con il solito profilo basso, pezzi leggeri fatti con il flauto o il sax, normalmente inizio a cantare quando mi sono ben scaldato. A la “Briciola” capita spesso di vedere il direttore di sala e i camerieri in subbuglio per l’arrivo di qualche personaggio famoso. Tra i clienti abituali del ristorante c’era il Presidente della Repubblica Dominicana che arrivava sempre accompagnato da vari ministri e da uno stuolo di guardie del corpo. Franco Riccobono, il proprietario, siciliano doc, aveva predisposto una sala apposita per lui, aria condizionata al massimo. Ma spesso il Presidente preferiva stare nel patio, all’aperto, per sedersi a capo di un gran tavolo messo lungo una parete del locale. Al presidente Fernandez piaceva vedere ed essere visto. Il ristorante era regolarmente frequentato da attori della televisione locale, i più popolari, oltre a tutti i personaggi, artisti e politici, che venivano in visita nel paese e si trattenevano nella capitale. La “Briciola” era il primo locale “in” della città, e tutti i potenti del momento volevano essere presenti quando vi capitava qualcosa di risonante ed importante.
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I flash dei fotografi dei giornali locali lampeggiavano regolarmente, ma dopo poche foto i “paparazzi” venivano con severità invitati ad uscire, cosa molto apprezzata dai clienti anelanti ad un momento di tranquillità. Una sera, tutto filava regolarmente, ero arrivato al secondo set, decido di cantare “To all the girls ìve loved before”, una canzone resa famosa nel mondo da Willie Nelson, famoso country singer, ed incisa in duetto con Julio Iglesias, uno dei cantanti più popolari nel mondo e particolarmente in quello latino. Faccio in tempo ad accennare la prima strofa ed ecco che si presenta un tipo sorridente che si mette davanti a me facendo un cenno come per dire, mi fai cantare? Capita spesso che qualcuno voglia esibirsi per cantare una canzone e dedicarla alla donna o al gruppo di amici che lo accompagna. È politica del locale permettere una partecipazione dei clienti perché in genere diverte tutti, anche quando i cantanti sono terribili, ed il mio compito è smorzare gli entusiasmi solo al momento opportuno. Ma sempre di permettere un prima esibizione. Insomma, alla richiesta del signore che non conosco, mai visto prima nel locale, gli passo il microfono e lo invito a salire sul palco. Appena inizia a cantare da tutti i tavoli parte un applauso scrosciante ed entusiasta. Magicamente appare un fotografo del “Listin Diario” e comincia a scattare foto. Intorno al palco tra clienti e camerieri entusiasti si forma un cerchio spesso un paio di metri. Ad un certo punto il cantante mi passa il microfono e
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penso voglia smettere, ma invece mi sta invitando a cantare assieme a lui, e iniziamo un duetto, come Willie e Julio nel disco. Lo guardo bene e finalmente lo riconosco, è proprio Julio Iglesias, me lo ricordavo capellone ed adesso ha i capelli corti, ma è proprio lui. Quasi mi si blocca la voce dall’emozione, ma riesco a cantare lo stesso mentre continuavamo a scambiarci il microfono, strofa dopo strofa fino alla fine del pezzo. Appena finita la canzone scoppia un applauso caloroso, Julio Iglesias ringrazia, mi mette il braccio sulla spalla e mi chiede sottovoce ed in un italiano perfetto: “Hai per caso la base di Caruso?“ “Certo che ce l’ho”, gli rispondo e mi inchino sul computer a cercare tra i mille pezzi di cui dispongo. Il cuore mi batte all’impazzata. “Conosci bene il testo?“ mi permetto di chiedergli, e lui: “Dovrei, sto per inciderla!“ Parte il brano e faccio per scendere dal palco mentre gli lascio il microfono, ma lui mi blocca. Non vuole che mi allontani. Forse non se lo ricorda proprio bene, il testo, penso. Ma dopo un po’ capisco che vuole continuare il duetto, e mi ripassa il microfono giusto quando inizia la strofa più importante: “Te voio bene assaie... “ È la parte più difficile, come Lucio Dalla non la canta nessuno, ed ho il cuore in gola, ma riesco a finirla per poi ripassargli il microfono all’inizio della strofa successiva. Alla fine ancora applausi che ci sommergono, ed io co-
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mincio a rilassarmi. So che tutto questo calore ed entusiasmo è dedicato a Julio, ma forse un po’ anche a me... Julio Iglesias ringrazia sorridente e poi mi guarda come se fosse speranzoso che io gli proponga qualcos’altro da cantare, si vede che incredibilmente gli piacerebbe continuare. Subito faccio scorrere l’elenco dei pezzi sul computer finchè non trovo un classico del tango argentino, “A media luz”. Glielo mostro e subito mi dice: “Facciamolo, alé”. Parte la base e lui mi fa capire che vuole che inizi io. E parto “Corrientes, tres cuatro ocho, segundo piso ascensor...” inizio sicuro, è un brano che mi richiedono spesso e lo conosco a memoria e vado giù liscio. Al momento giusto gli ripasso il microfono e questo scambio dura fino alla fine. Intanto si è avvicinata una bellissima donna, giovane, bionda e sorridente che si piazza sotto il palchetto, di fronte ad Iglesias. Capisco subito che non è venuta per me, e ne ho conferma appena il pezzo è finalmente finito perché gli prende la mano e cerca di trascinarlo giù dal palco dicendogli “Gli spaghetti si sfreddano!” Capisco allora che è la sua seconda o terza moglie. Beato lui... Julio Iglesias prima di seguirla obbediente ringrazia il pubblico, poi mi prende la mano, me la stringe con entusiasmo per poi sollevarla in alto sollecitando un applauso anche per me. Grazie a Dio gli spettatori rispondono volentieri, molti sono clienti fissi del ristorante e mi conoscono.
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Comunque questo gesto mi conferma la sua signorilità e la grande umanità che mi dimostrerà anche in seguito. Dote che spesso manca alla maggioranza della gente importante è famosa. Mentre Iglesias torna al suo tavolo abbracciato alla giovane moglie decido che non ho più voglia di riprendere a suonare. Devo fare una pausa, bere qualcosa di forte e riprendere fiato. Scendo dal palco e mi dirigo al bar. I camerieri non fanno che complimentarsi con me, orgogliosi per lo spettacolo appena finito. Mentre bevo il Barcelò accompagnato da piccoli sorsi d’acqua fresca arriva Franco Riccobono che mi abbraccia felice. “Che spettacolo, minchia”, mi dice da buon siciliano. “Bevi, bevi, rilassati che appena te la senti andiamo al tavolo per un giusto brindisi con il maestro.” E così dopo un po’ la cosa continua, e assieme ad un cameriere che porta un cestello contenente una bottiglia di Moet Chandon freschissima ci avviciniamo al tavolo di Iglesias che siede assieme a sua moglie e poche altre persone, tra cui il suo impresario americano e un famoso presentatore della televisione locale. Appena ci vede avvicinarci al tavolo si alza e ci aspetta in piedi. E qui fa la cosa che ancora ricordo con emozione. Appena arrivo vicino Julio Iglesias... mi abbraccia! “Grazie ancora, mi sono divertito!” mi dice. “Sei proprio bravo, la tua voce me encanta!” Sono allibito e mi giro verso Franco che sorride orgoglioso.
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Con Julio Iglesias a Punta Cana- República Dominicana
Brindiamo insieme, ancora accompagnati dagli applausi del pubblico entusiasta per lo spettacolo inatteso. Julio ci presenta tutti, moglie, impresario e star televisiva e ci invita a sederci con loro. Franco accetta ma io devo ancora lavorare e declino l’invito ringraziandolo comunque. Non vi dico come cantai l’ultimo set della serata. Veramente non ricordo molto dell’ultima ora, e neanche cosa cantai, ma ricordo che gli applausi, anche se meno scroscianti, continuarono a sostenermi fino alla fine. Fu una serata memorabile! Un mese dopo Julio Iglesias mi invitò a suonare per l’inaugurazione della sua nuova villa a Punta Cana, una località turistica di moda a 200 chilometri dalla capitale.
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Due giorni prima dell’evento mandò a prendermi un piccolo aereo che mi portò in un’oretta fino a Punta Cana. Venni sistemato in un appartamento vicino alla villa, e mi vennero a riprendere dopo che mi fui rinfrescato. Un autista mi portò in un’altra villa dove ero invitato per la cena assieme a pochi intimi, cosa che mi inorgoglì ancora di più. Julio fu un anfitrione splendido trattandomi con amicizia, anche se mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Per fortuna la cena finì presto. Il giorno dopo arrivarono centinaia di invitati da tutta la República Dominicana, dagli Usa e dalla Spagna. L’avvenimento era importante e gli inviti erano ricercatissimi. Per fortuna erano presenti anche Franco e Marcella e dopo aver suonato per il cocktail cenai assieme a loro e ad altri ospiti italiani. A fine cena Julio Iglesias fece un breve discorso seguito da Oscar de la Pegna, famoso stilista, e da Quincy Jones, chi non lo conosce?, suoi soci nella costruzione di un grande ed esclusivo residence che sarebbe sorto vicino alla sua nuova villa. Ottima occasione per cercare altri soci per l’iniziativa, pensai. Dopo il dolce finalmente salii sul palco ed iniziai la serata. Immaginavo che Julio ad un certo punto sarebbe spuntato sul palco per ripetere l’esibizione dedicandola agli ospiti importanti, e così fu. Accompagnato da un boato di apprezzamento salì sul piccolo palco, fece portare dai camerieri due sedie e mi invitò a sedermi assieme a lui. Ci saremmo esibiti come fossimo in un piano bar. Fece abbassare le luci ed iniziammo.
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Io questa volta mi ero preparato ed avevo portato con me un piccolo registratore per documentare la serata per i “miei” posteri. Custodisco gelosamente la registrazione della serata che oramai fa parte dei miei ricordi più cari. Ero molto emozionato ed in qualche punto della registrazione si capisce, un’insicurezza qui, una pausa un po’ lunga là, ma... tant’è, rimarrà per sempre un momento importante della mia vita di musicista.
Casa de Campo. República Dominicana
“Pronto, parlo con Bruno, Bruno Massidda?” “Eccomi qua”, rispondo, “that’s me, con chi parlo?” “Ciao Bruno, sono Mauro, Mauro Torriani, ti ricordi di me?” Ci penso un attimo e subito un flash: “Certo, Mauro, Mauro e Giancarlo gli antiquari di Plaza Bellini, a Santo Domingo!” “Esatto! Senti Bruno, scusa se ti disturbo, non so neanche che ore sono lì in Italia... ma sai.. io e Giancarlo vorremmo sapere se sei libero per l’inizio di Maggio prossimo. Stiamo per inaugurare il ‘Victory’, un bellissimo locale, esclusivo, qui a Casa De Campo, vicino a la Romana, conosci il posto?, e ci piacerebbe averti con noi per l’inaugurazione ed il primo periodo, tanto per lanciare il locale nel migliore dei modi.” Casa de Campo è la località più “in” della República Dominicana, una specie di Porto Cervo, frequentata dalla gente più ricca e famosa del posto e anche da molti ricchi italiani e del resto del mondo latino. Siamo ai primi di Aprile, e in quel momento il mio lavoro langue, poche serate a Cagliari e nel circondario, per dire che non sto in panciolle, ma niente di solido, e la cosa mi interessa moltissimo.
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Un paio di mesi in Sud America, e particolarmente a Santo Domingo dove ho passato un bellissimo periodo suonando nel migliore locale, “La Briciola”, mi andrebbe proprio a fagiolo. Ma preferisco tenermi sul vago. “Senti Mauro, potresti mandarmi più notizie? Tutto ciò che mi può interessare di sapere sul posto, il tipo della clientela eccetera. Lasciami vedere se riesco a liberarmi dagli impegni, e ti faccio sapere al più presto. Dammi la Tua email e mi faccio vivo appena ho le idee chiare. Non ti nascondo che la cosa mi interessa; devo solo vedere se posso.” “Va bene, vedi di fare il possibile. Ricorda che qui avresti, oltre alla nostra amicizia, il vitto nel nostro ristorante e l’alloggio in un piccolo appartamento proprio vicino al locale. Logicamente il viaggio sarebbe a nostro carico. Fammi sapere quale è il tuo cachet e vediamo se rientriamo nel budget. Aspetto una tua risposta quando puoi, ma ti prego di essere veloce nel decidere. Ho un altro paio di nomi da contattare, ma tu sei il primo della lista.” Prometto di farmi sentire appena possibile, mi faccio dare il suo email, saluto e chiudo. Mauro e Giancarlo formano una coppia gay, famosa in tutta la República Dominicana per la loro intensa vita sociale e per essere gestori di uno tra i migliori negozi di antiquariato della capitale. Nel corso degli anni hanno arredato la maggior parte delle case dei ricchi di Santo Domingo, di Santiago e di Casa de Campo; le loro feste sono le più ricercate e le loro cene le più intime ed esclusive.
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Ho avuto il piacere di suonare per le loro iniziative in varie occasioni, e sempre con risultati positivi. E questa telefonata dimostra che ad una buona semina corrisponde spesso un buon raccolto. Malgrado abbia già deciso di accettare la loro offerta, (Mauro con una email mi ha ragguagliato sul tipo di clientela, internazionale con molti italiani), lascio passare ancora una settimana prima di richiamarlo. “Ciao Mauro, ho pensato alla vostra offerta e se vi interessa ancora possiamo metterci d’accordo. Ti dico subito che vorrei tornare qui in Sardegna per l’inizio di Agosto, ho numerosi importanti impegni in Costa Smeralda. Dopo una lunga trattativa arriviamo ad un accordo che ci soddisfa entrambi decidendo di iniziare la collaborazione dal primo sabato di maggio; mancano appena due settimane. Dopo pochi gironi ricevo un prepagato Cagliari-Milano-Santo Domingo con partenza per i primi di Maggio e comincio a preparare bagagli e bagaglini: sax, flauto, computer, dat, minidisc, ipod, una piccola ma buona radio a cassette e cd, magliette, short, costumi da bagno, macchina fotografica, capellini, occhiali da sole, ciabattine da spiaggia etc etc. Per finire una serie di camicie da spettacolo, come le chiamo io, colorate o serie da portare fuori, stile sud/americano e tre pantaloni, fatti su misura, uno grigio uno blu scuro ed uno nero, per chiudere con tre paia di mocassini comodi ed eleganti. Spero di non dimenticare nulla, anche se sono tranquillo perché in caso di bisogno a Santo Domingo potrò trovare le migliori marche di abbigliamento del mondo.
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Durante i pochi giorni che mi rimangono prima della partenza faccio controllare da un amico il piccolo computer che userò per le basi musicali. Non voglio avere problemi, comunque ho tutte le basi anche su Dat e minidisc, non si sa mai. Porto sax e flauto a Sinnai per una messa a punto e una lucidatura finale e sono pronto!
*Cinque anni prima, a “la Briciola” di Santo Domingo Suono al ristorante “La Briciola” nella città coloniale di Santo Domingo oramai da due settimane, il mio nome comincia a girare tra la gente importante, clienti quotidiani del locale. Sono la novità musicale del momento, e nelle sere in cui mi esibisco i posti sono spesso esauriti. Ho già chiuso accordi per un paio di feste private e mi sento in un brodo di giuggiole. Suono tutti i martedì, giovedì e sabato e stasera, che è martedì, mi aspetto meno casino del solito. Normalmente suono per due set da un’ora, la serata musicale de “La Briciola” parte con un trio che inizia alle 20 e 30 per lasciarmi il posto alle 21 e 30 e così via. Io chiudo la serata dalle 23 e 30 a poco prima dell’una, e solo se capita qualche gruppo di ospiti che vuole fare le ore piccole. Franco, gestore siciliano del ristorante, non vuole che superi comunque l’una di notte, altrimenti il personale si incazza. E a me va benissimo così.
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La clientela della “Briciola” è generalmente formata da gente del cinema e della televisione locale che fanno da contorno ai personaggi politici del momento, diplomatici e rappresentanti del governo, compreso il Presidente in persona che si presenta sempre con una robusta scorta ed un codazzo di leccaculo. Stanotte sembra tutto tranquillo, almeno fino a poco dopo che ho iniziato il mio set. Mentre suono un brano al flauto dal grande portone d’ingresso mi arriva un allegro cicaleccio; il direttore di sala si sveglia dal suo torpore e corre a ricevere il gruppetto. Il primo ad entrare nel patio dove suono è un bell’uomo di non più di quarant’anni, biondo castano, vestito con una giacca gialla e pantaloni fucsia, che subito mi si para davanti e mi dice: “Tu devi essere Bruno, l’italiano, come me!” Più che una domanda mi sembra un’affermazione, quindi accenno un sorriso di circostanza e aspetto che continui. “Guarda che siamo venuti apposta per sentirti, ci hanno detto meraviglie su di te!” Questa volta rispondo con un sorriso più aperto aggiungendo che farò il possibile per rendere la loro serata piacevole. “Diciamo che tutto quello che farai in italiano lo reputerò dedicato specialmente a me ed al mio gruppo! A proposito, io mio chiamo Mauro, forse ti ho già visto in giro. Ho il più bel negozio di antiquariato della República e sta proprio qui di fronte, sulla plaza Billini.” Conosco il negozio, molto bello e sempre pieno di cose preziose che spariscono regolarmente dopo pochi giorni
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di esposizione per finire dritte nelle case dei ricchi della Capitale. Mi saluta con un “Ciau ciau” e raggiunge ancheggiando il gruppetto che è già seduto ad un tavolo sul fondo del patio. La serata va avanti benissimo ed il gruppo di Mauro applaude ululando per ogni canzone italiana che canto. Quando a fine serata vanno via si assembrano intorno al palchetto per complimentarsi e conosco così Giancarlo, compagno e socio di Mauro, un uomo serio e compito e con un sorriso bonario che ne ammorbidisce lo sguardo. Da quel giorno verrò invitato a suonare in tutte le loro iniziative più importanti.
Casa de Campo Il viaggio da Cagliari a Santo Domingo, comprese le tre ore di sosta a Milano, dura in totale 15 ore passate a mangiare, vedere un film, sbadigliare, dormire, vedere un altro film, per finire con una triste colazione poco prima dell’arrivo. Passata la lunga coda ed il controllo doganale, finalmente esco dall’ Aeroporto per riprendere a respirare l’aria calda e profumata della República Dominicana. Sono le 18 locali il sole è ancora alto; ci saranno una trentina di gradi. Mi guardo intorno e subito vedo il mio nome scritto su un cartello tenuto in alto da un ragazzo di colore. Mi avvicino, mi presento e immediatamente, con un gran sorriso, Frank, così si chiama il mio autista, mi prende le valigie per guidarmi verso una Mercedes parcheggiata vicino.
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Un poliziotto di colore è fermo ad un passo dalla macchina, e temo che stia per appioppargli una multa, ma rimango di stucco quando Frank sorridendo lo ringrazia dandogli una pacca sulla spalla e rifilandogli un biglietto da 50 pesos. Il poliziotto lo aiuta addirittura a caricare le valigie prima di salutarci con un perfetto saluto militare, manco fossimo generali! Frank porta il Mercedes con esperienza e sicurezza passando su strade strette e dissestate tra una chiacchiera e l’altra. Passiamo prima a Higuey, poi a La Romana per finire, dopo due ore snervanti, davanti all’appartamento che mi ospiterà per i prossimi tre mesi. Sta al primo piano di una casa moderna di due piani, e composto da una spaziosa camera da letto con un gran ventilatore al centro già in funzione per rinfrescare l’ambiente, un bagno con doccia con un colossale specchio, per finire con un salone arredato con divano per due davanti ad un televisore al plasma di buone dimensioni. Niente male. Dopo il lungo viaggio aereo e le quasi tre ore in macchina sono stanco e sudato e non vedo l’ora di fare una doccia per poi sdraiarmi per un giusto riposo, ma Frank mi smonta il sogno dicendomi che ripasserà tra un’ora per portarmi al locale che oramai è in piena festa di inaugurazione! Forse avevo capito male e mi aspettavo che l’inaugurazione fosse per il giorno dopo... Comunque Mauro e Giancarlo mi stanno aspettando per presentarmi agli amici... Peccato, speravo di mettermi a letto...
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Dopo mezz’ora passata quasi interamente sotto una doccia fresca e voluminosa mi vesto con la miglior camicia che trovo, pantaloni ancora sgualciti, un paio di freschi mocassini marroni ed esco. Frank è lì fuori ad aspettarmi sorridente. Il viaggio verso il Victory dura solo pochi minuti; lo facciamo con una piccola macchina elettrica perché il locale dista non più di 500 metri. Pregusto già la camminata che d’ora in poi affronterò ogni sera per andare e tornare dal al lavoro. Il locale è posto alla fine di un lungo molo su cui sono attraccati decine di yacht di tutte le dimensioni, ognuno di non meno di quindici metri e tutti scintillanti di cromature e fari splendenti che illuminano il cammino. Il molo è gremito di gente ben vestita e sorridente e fatichiamo un poco a raggiungere il Victory. Il locale costruito intorno ad un faro che svetta alto, è bianco e luminoso. Il patio che da un lato rasenta il locale è cosparso di bassi tavolini bianchi circondati da comodi divani e grandi cuscini buttati in giro alla rinfusa e gremiti dagli ospiti in cerca di fresco. La festa vera si svolge all’interno e dalle porte spalancate arriva la musica, diffusa anche da altoparlanti sparsi dappertutto. Dentro la ressa è incredibile, tutti si spingono mentre ballano al ritmo di merengue suonato da un quartetto niente male. In piedi sul grande bancone centrale Mauro balla a petto nudo circondato da una decina di signore adoranti. Ci saranno almeno 300 persone sparse per tutto
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il locale. L’atmosfera è, malgrado il casino, piacevole e rilassata. Frank mi guida verso un altro bar poco affollato piazzato strategicamente in una zona più tranquilla, mi fa preparare dal barman un rinfrescante gin and tonic e mi lascia lì per andare a cercare Giancarlo. Mi appoggio al banco sorseggiando la bibita rinfrescante e mi guardo intorno. Gli ospiti sono quasi tutti signori di una certa età, over sessanta/settanta e tutti accompagnati da splendide donne che in media non superano i trent’anni, qualcuna supera appena i venti, non so se sono figlie o giovani amanti. Noto subito che pochissimi degli ospiti sono di colore, che parrebbe strano se non sapessi da tempo che nella República Dominicana il razzismo impera malgrado la popolazione di colore superi l’80 per cento. Mi rendo conto che mi trovo in un posto esclusivo messo al centro di una località ancora più esclusiva come Casa de Campo. Sorseggio il mio drink e sgranocchio un bel pezzo di parmigiano preso da un’intera forma che svetta sul bancone del bar a portata di tutti. Appena il gruppo fa una pausa musicale ecco che arrivano Mauro e Giancarlo quasi sospinti da Frank che li protegge dal pubblico; Mauro è ancora a petto nudo a mostrare i pettorali palestrati, entrambi sorridono e salutano mentre attraversano la ressa degli ospiti che si sperticano di complimenti. “Bruno, finalmente!” Mauro mi abbraccia incurante del sudore appiccicaticcio che mi rimane sulla camicia
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appena messa. Per fortuna un costoso profumo copre ogni traccia di cattivi odori. Subito i due mi prendono sottobraccio e mi trascinano verso il palco dove il gruppo non ha ancora interrotto la pausa. Appena Mauro prende il microfono parte uno scrosciante applauso per la sua performance appena terminata. Giancarlo gli si mette a fianco ed entrambi ringraziano commossi; a questo punto Mauro, che è quello più giovane ed estroverso, mi invita a salire sul palco e mi presenta. “Signore e signori, ho il piacere di presentarvi il musicista che allieterà le nostre serate da domani in poi. È appena arrivato dall’Italia dopo un lungo viaggio e non vogliamo tenerlo in piedi ancora per molto, ma prima di mandarlo a casa per un giusto riposo lo vogliamo invitare a cantare almeno una canzone per darvi un assaggio delle sue qualità.” E qui mi lasciano da solo sul palco mentre un applauso d’incoraggiamento cerca di sostenermi almeno ancora per un po’. Mi giro per cercare aiuto dai musicisti e mi dirigo verso il pianista che è quello determinante da coinvolgere. Lo conosco dai tempi della “Briciola” il famoso ristorante di Santo Domingo, faceva parte del gruppo di Guarionex Aquino col quale ho cantato diverse volte. Dobbiamo decidere in fretta il pezzo da cantare. Dopo un minuto di tira e molla scegliamo “La barca” un bel bolero molto popolare in america latina, da tempo uno dei miei cavalli di battaglia, troviamo la giusta tonalità e finalmente partiamo.
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Per fortuna sia Gustavo Rodriguez che gli altri sono musicisti di prima qualità e così il pezzo fila giu liscio e perfetto ed alla fine gli applausi ci sommergono piacevolmente. Molti mi chiedono un bis, ma riesco a svincolarmi adducendo come scusa la stanchezza ma con la promessa che dalla successiva notte sarei stato a loro completa disposizione per una qualsiasi richiesta. Finalmente gli ospiti accettano di lasciarmi andare, anche se a malincuore Ringrazio profusamente i musicisti, augurandomi con ognuno di loro di avere al più presto altre occasioni per un incontro musicale. Mauro e Giancarlo capiscono la mia situazione e mi fanno strada verso la spaziosa cucina del locale dove organizzano assieme allo chef un ottimo spuntino freddo che mi sostenga fino al mio agognato ritorno all’appartamento. Dopo aver mangiato abbondantemente e bevuto un bicchiere di ottimo Cabernet sono arrivato agli sgoccioli e non riesco quasi a tenere gli occhi aperti. Ringrazio ancora tutti, mi metto d’accordo per fare un sound check la mattina successiva e finalmente esco per prendere un po’ d’aria incamminandomi a piedi la verso quella che sarà la mia casa per i prossimi tre mesi. L’aria è intrisa di un piacevole profumo di mare, il cielo tropicale è incredibilmente cosparso di milioni di stelle brillanti e la luna piena si rispecchia immensa su un mare calmissimo. Una meraviglia! Il futuro si presenta pieno di piacevoli sorprese.
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Il Victory Malgrado tutta la stanchezza accumulata e l’ora tarda del mio ritorno a casa, la mattina successiva mi sveglio verso le dieci, tra riffa e raffa avrò dormito cinque ore; comunque mi sento piacevolmente riposato e pronto ad iniziare la mia nuova avventura al Victory di Casa de Campo. A due passi da casa trovo un piccolo bar con tavolini all’aperto dove mi siedo per levarmi le ultime tracce di sonno con un buon caffè accompagnato da un paio di fragranti croissant. Il sole è ancora tiepido e piacevole, ma so già che tra poche ore la temperatura toccherà almeno i trentacinque gradi. Ho caricato in una capace borsa i miei strumenti di lavoro, sax, flauto, computer e, finita la colazione, mi dirigo verso il locale che dovrebbe essere aperto per le pulizie. Il lungo molo alla fine del quale sorge il Victory è costellato di decine di barche di lusso, più che barche alcune potrei chiamarle Yacht, ognuno con numerosi marinai ed inservienti tutti impegnati a lucidarne i ponti e le cromature in un silenzio irreale. I proprietari saranno ancora a dormire dopo la lunga notte di baldorie. Mentre cammino mi riempio i polmoni del profumo del mare portato da una leggera brezza che arriva da ponente. Il Victory si erge alto con il suo faro all’estremità del molo. È tutto dipinto di un bianco candido che riflette abbacinante i raggi del sole. Fuori è sparito il caos lasciato
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dalla festa, spariti i bicchieri e i portacenere e spazzolati per bene cuscini e poltrone. Comincia a far caldo e sono appena le undici. All’interno il locale è piacevolmente fresco e silenzioso. Un paio di inservienti finiscono di lustrare il pavimento mentre dalla cucina arriva il rumore di stoviglie e le chiacchiere allegre del personale. Mi affaccio per vedere se c’è qualcuno di mia conoscenza, o un responsabile che mi possa aiutare per i primi collegamenti. Trovo Frank seduto ad un tavolo. Scoprirò in seguito che Frank è un po’ il factotum della coppia, fa le spese, il tassista, il buttafuori e controlla anche i conti del ristorante e cura i rifornimenti. Magari di notte gli rimbocca anche le lenzuola... Lo saluto e gli chiedo: “Puoi aiutarmi a sistemare le mie cose per un primo sound check? Ti rubo solo un minuto, poi vado avanti da solo e ti lascio tranquillo.” Gentilmente lascia quello che sta facendo e mi accompagna sul palco che adesso è completamente vuoto di strumenti e perfettamente lustro. È rimasto solo il pianoforte a mezza coda, Yamaha, nero e lucidissimo, un modello speciale che ha sul frontespizio sopra la tastiera un ottimo sistema che lo amplifica e a cui posso collegare il mio computer e il microfono. Frank mi spiega come fare per accenderlo e come fare i collegamenti quindi torna subito in cucina. Il suono viene diffuso da due buone casse Bose da 500 watt piazzate ai lati del palco e da altre numerose, più piccole, sempre Bose e distribuite con sapienza in vari punti strategici della vasta sala.
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Sul frontale della tastiera del pianoforte come fosse il cruscotto di una macchina è piazzato un piccolo mixer con quattro entrate che regolano i volumi e gli effetti delle varie fonti sonore, voce, computer oltre al piano che si può suonare sia acustico sia amplificato. Inoltre contiene una entrata per cd che registra fedelmente tutto quello che esce dal mixer. Formidabile! In seguito farò delle eccellenti registrazioni di intere serate. Il microfono è il mio preferito, uno Shure Sm 58, sistemato su una piccola giraffa al lato del piano. Collego subito il computer, accendo l’impianto interno e provo subito la voce e poi le basi sulle quali canterò e suonerò. Il suono esce limpido e pulito e l’acustica del locale, anche se al momento è vuoto, mi sembra buona. Provo anche il sax tenore ed il flauto e subito dalla cucina e dalle altre porte che danno alla cambusa spuntano curiose teste caratterizzate da riccioli scuri, pelle altrettanto scura e denti bianchissimi e sorridenti. Appena termino il sound check spariscono tutti, come fossero granchi che spaventati si rifugiano in tana. Le 12 hanno suonato da un po’ quando torno alla cucina e trovo Frank ancora seduto al tavolo questa volta apparecchiato per due e con una bottiglia di Santa Ana, un discreto Cabernet Sauvignon cileno, bianco e ghiacciato. Mi accorgo di avere una gran fame arretrata e accetto volentieri il suo invito a fargli compagnia. Il pranzetto ci viene servito personalmente dallo chef: tagliolini ai gamberi e prezzemolo flambati con un ottimo rum Dominicano, entrecote di manzo con limone ed un sughetto di funghi ed infine una mousse di cioccolato con
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gelato di crema a soffocarla. Alla fine la bottiglia è finita in gloria. Un buon caffè e sono pronto per un giusto riposo nella mia nuova residenza dominicana dove spero di trovare una temperatura fresca. Sono ormai le due del pomeriggio, fuori dal locale ci sono almeno trentacinque gradi e per fortuna trovo ad aspettarmi un inserviente del Victory con la macchinetta elettrica che in un attimo mi porta alla meta. Con Frank siamo rimasti d’accordo per trovarci verso le 20 per una cenetta prima che inizi la serata. Si pensa che la prima clientela arrivi verso le 21, ma non si sa mai, il locale è appena inaugurato e si crede che ospiti venuti ieri (gratis) forse oggi andranno da qualche altra parte per poi farsi vedere in seguito. Vedremo. La casetta è piacevolmente fresca e silenziosa e, dopo una veloce doccia rinfrescante non faccio in tempo a posare il capo sul cuscino che mi ritrovo in un mondo di sogni. Mi sveglio e sono le 19, giusto in tempo per prepararmi e andare con tranquillità al locale. Sono finalmente rilassato e mi permetto di dare uno sguardo in giro mentre mi dirigo verso il molo. L’appartamentino è situato vicino alla piazza centrale di Casa de Campo e si trova a ridosso del porticciolo. La piazza è piccola, chiusa a semicerchio e costellata da piccole boutiques con nomi altisonanti, gelaterie e almeno una decina di ristoranti a quell’ora semivuoti. Molti residenti mischiati a turisti affollano un paio di bar che diffondono soffusamente musica jazz e brasiliana. Attraverso la piazza diretto al molo e trovo alcuni degli ospiti di ieri notte che mi riconoscono e mi salutano.
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Una coppia che poi mi diventerà amica e fedele fan mi invita al loro tavolo per offrirmi un aperitivo. Vedo che sono appena le 19 e 20 ed accetto con piacere. Mi presento e conosco un altro Bruno, lui fa´ Giacosa di cognome che è, tra le altre cose, presidente della Marina di Casa de Campo! Al suo tavolo siedono altre personalità che poi verrò a sapere far parte del Jet set della República Dominicana. Ordino un Martini cocktail e lo sorseggio tra una chiacchiera e l’altra. Vogliono sapere tutto su di me e quando rivelo che ho suonato per un po’ di tempo a La Briciola di Santo Domingo alcuni si ricordano di me e anche della famosa serata del “duetto” con Julio Iglesias. Dopo mezz’ora devo lasciare il gruppo ma prima riesco a strappare loro la promessa che verranno a passare un paio d’ore al Victory, magari la sera stessa. Al mio arrivo il locale è fresco e profumato ed i camerieri sistemano le ultime cose. Noto che i tavolini sono preparati sia per la cena che per ospitare chi volesse solo bere. Faccio l’ultimo sound check, do l’ultima pulitina al sax ed al flauto e, in attesa che mi chiamino per la cena, mi siedo ad un tavolino esterno che dà sul golfo della Romana. Il tramonto è in piena fase discendente e il sole colora di giallo rosso le pareti del faro mentre un mare tranquillo circonda il molo. Questa volta per cena mi siedo ad un tavolino per bene, tutto per me, con due camerieri chiacchieroni a coccolarmi piacevolmente. Sono apparecchiati anche gli altri tre posti, per cui mi aspetto che qualcuno arrivi a farmi compagnia. Difatti
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verso le 21, il buio della notte oramai ci circonda, arrivano trafelati e profumatissimi Mauro e Giancarlo, assieme ad una bellissima ragazza. “Bruno, ciccio, mi dice Mauro, questa è Sarah, la nostra P.R. Ascolta sempre i suoi consigli che dà molto raramente ma sono sempre da seguire A..ssolutamente! Sarah’ è del posto, nipote di Don Alejandro Lima e a conoscenza di tutti quelli che contano, e dei loro scheletri nell’armadio!” Sarah avrà non più di trenta/trentacinque anni, mulatta, capelli corvini ed occhi grigi e profondi. E un sorriso sfolgorante e bianchissimo che spicca sull’incarnato di un colore appena sullo scuro, caffè latte. È molto bella ma riconosco non è il mio tipo; è decisamente “troppa” ed ha uno sguardo duro che nasconde qualcosa che non mi piace. Mi immagino avrà conosciuto molto intimamente quasi tutti i galli importanti del pollaio Dominicano. E di molti avrà certamente ancora il guinzaglio. Mi guarda con interesse e sono certo che mi ha appena finito di catalogare e messo da parte. Comunque riesce a sorridermi apertamente e con simpatia. Capisco che dovrò necessariamente collaborare con lei perché non scoppino casini di incomprensione. Mi ricordo che sono qui per rispettare il contratto, suonare al meglio e basta. That’s it! Sarah ha certamente passato ai raggi il mio abbigliamento. Spero che l’analisi sia stata positiva. Comunque non sono assolutamente preoccupato.
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Parte subito all’attacco, tanto per chiarire il terreno di gioco, e mentre arrivano le varie portate della cena mi bombarda di domande tipo: di quali pezzi è composto il mio repertorio, in quante lingue canto, se suono il sax alla Papetti, eccetera. Rispondo con garbo a tutte le domande chiarendo anche che sono arrivato al Victory a seguito dei successi ottenuti negli anni sia alla Briciola che ai vari parties dati dagli amici antiquari e da quasi tutti i partiti importanti della capitale Dominicana. Come per dirle che si rivolga a Mauro e Giancarlo caso mai volesse chiarire ulteriormente le idee su di me. Appena finisco di cenare chiedo scusa e mi allontano per due passi sul molo esterno, quella parte che da sul mare aperto. Mi riempio i polmoni di una fresca aria salubre fragrante di iodio e salsedine. Mi giro verso il Victory e mi accorgo che numerosi gruppetti cominciano ad arrivare. La serata inizia. Dopo un paio d’ore ininterrotte di musica smetto tra gli applausi. Mi accorgo che la stanchezza mi ha decisamente ripreso. Lascio il posto ad un dj della capitale che attacca con una lunghissima serie di Bachata e Merenghe. Fuori trovo seduti i proprietari che mi invitano a bere con loro una coppa di champagne per festeggiare l’inizio della nostra avventura. Non c’è stato un pienone ma tutti sono soddisfatti. Sarah non si sbilancia più di tanto, e ascolta tutti sgranocchiando noccioline. “Bella la canzone di Vasco”, mi dice Mauro. “Prima non la facevi; ed anche quella di Venditti. Domani me le rifai per piacere?” E così via per una altra mezzora, dopo di che saluto tutti adducendo la stanchezza ed il jet-leg e mi avvio verso casa.
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Nelle settimane e mesi successivi vivrò intensamente la vita notturna del Victory, le tensioni tra Mauro e Giancarlo, finite sempre tra lacrime e abbracci, feste incredibili con personaggi famosi come Gloria ed Emilio Estefan, Van Diesel, Shakira, George Bush padre, Arturo Sandoval, Beyoncè e tanti altri che non ricordo e che per ogni partecipazione riempivano di flash il locale più importante della República Dominicana. Di giorno Mauro e Giancarlo mi lasciavano utilizzare una dalle loro macchinette per andare a fare il bagno nelle bellissime spiagge tropicali della zona o visitare i dintorni. Ma tre mesi sono comunque lunghi da passare... Il resto del tempo lo spendevo collegato ad internet a controllare la posta o davanti alla tv satellitare dove la domenica verso le dieci potevo vedermi in diretta le partite della serie A ed i vari telegiornali trasmessi da Rai Internazionale. Casa de Campo offre poco più di questo, oltre naturalmente a una sfavillante vita lussuosa che solo i veri ricchi possono gustare. Proprio come la Costa Smeralda. O sei ben fornito o meglio stare in una spiaggia libera oppure... a casa! Dopo tre lunghi mesi fui ben lieto di riprendere il volo per la mia amata Cagliari. Sono grato a Mauro e Giancarlo per la magnifica avventura e per l’unica esperienza, ma... molto meglio tornare a casa, con i ricci sul lungomare del Poetto la domenica mattina, le passeggiate a Monte Claro, i bagni a Villasimius o a San Giovanni del Sinis, e poi la buttarga, le cozze crude, i pesci arrosto mangiati usando le mani, gli amici in via Paoli, i pranzetti in via Barcellona da Francesca e Paolo, le mostre al Thotel, le serate al Jambalaia, al Jazzino o al Bflat... vuoi mettere?
Porto Seguro
Bahia - Brasil Nella città, di circa 125.000 abitanti, viene posto un particolare occhio di riguardo per la propria storia, primo porto Brasiliano per gli esploratori portoghesi, dove, tra l’altro, non viene consentita la costruzione di palazzi che siano più alti di due piani. Dal 1976 tutto il distretto di Porto Seguro è divenuto Patrimonio Storico Nazionale del Brasile. La città dispone di un aeroporto internazionale che dista dal centro circa 3 km, e con il quale si collega a tutte le grandi città del Brasile e del mondo; è collegata con autobus di linea e privati anche multipiano. Il clima è caratterizzato da estati molto calde, con picchi di circa 42 gradi, ed inverni in cui le temperature oscillano tra i 25 e i 15 gradi. La città è attraversata dal Rio Buranhèm. A sud, a circa 60km, si trova il famoso Monte Pascoal. Porto Seguro è la principale meta turistica dei Brasiliani ma anche di europei e americani, ed offre svariati divertimenti sul lungomare, tra cui la Passarela do Alcool, decine di chioschi che offrono una gran varietà di cocktail alcolici alla frutta.
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La Passarela do Alcool è una via pedonale sul lungomare dove si concentrano anche ristoranti, bar, pizzerie e piccole rivendite dell’artigianato locale. Cosa che fa divenire molto ambita questa città sono i prezzi alquanto contenuti per il pernottamento sia nelle pousadas che negli alberghi, la possibilità di raggiungerla attraverso un aeroporto, gli spettacoli di Capoeira e le serate di Axè e Forrò nei locali lungo la costa. Nella vicina Arraial d’Ajuda pochi anni fa nasceva la lambada, ballo che l’ha resa famosa nel mondo intero. *** Per un certo periodo della mia vita ho abitato al Poetto, in una piccola e comoda dependance, ospite di mia sorella Mirella. Vivendo sul mare avevo preso la buona abitudine di fare tutte le mattine lunghe camminate a passo spedito, verso le sette quando l’aria è ancora fresca e sa di mare, di iodio e un poco di gas di scarico. Il lungomare del Poetto è frequentato tutto l’anno da decine di cagliaritani che sgambano a piedi o in bicicletta andando da Marina Piccola fino all’Ospedale Marino, e poi fino alla Bussola e ritorno. Era la primavera del 2003, il tempo era l’ideale per lunghe passeggiate, ancora ben coperti per il freddo che si trascinava dal lungo inverno passato. Un giorno, arrivato davanti al Lido mentre andavo verso la Bussola, incrocio una vecchia conoscenza che non vedevo da molto. “Marco” gli dico, “da dove diavolo sbuchi?“
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Marco è un vecchio amico, sparito nei meandri del mondo da diversi anni, si diceva che avesse cercato fortuna a Santo Domingo e a Cuba, ed ora eccolo che spunta all’improvviso. Sapevo che negli ultimi anni non era stato a Santo Domingo perché ci avevo vissuto e conoscevo almeno di nome tutti gli italiani residenti in quell’isola. Avevo abitato a Santo Domingo per molti anni suonando nei locali del centro e se Marco avesse svernato là lo avrei saputo di certo. “Sono appena arrivato dal Brasile, ho ancora il jet-leg, ed il mio medico mi ha consigliato lunghe passeggiate al Poetto per smaltire il viaggio.“ mi risponde. Ero curioso di conoscere i particolari della sua esperienza in Brasile e così lo invito a camminare con me verso la Bussola.
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Anche lui vuole sapere delle mie esperienze a Santo Domingo e la Havana. Lungo il cammino ci scambiamo storie e aneddoti, e quando Marco si accorge che a parlare di Cuba e Santo Domingo mi brillano gli occhi, mi dice, come per cercare di farmi passare la cotta: “Dovresti venire a Porto Seguro, sono certo che ti troveresti a tuo agio. Un clima ideale, raramente meno di quindici e mai più di trenta gradi, tutto l’anno, garantito. E poi ha un mare pescosissimo e musica da ascoltare e ballare come il Forrò, l’Axè e la Lambada. E poi le famose “meninas” bahiane, sangue caliente e carattere allegro e disponibile.. Dovresti provare.” Io ero già stato in Brasile, a Rio de Janeiro, una decina di anni prima. Avevo passato una brutta avventura strattonato e rapinato in piena notte sotto la minaccia di una pistola. Pochi cruzeros rubati ma un ricordo di violenza che non avevo ancora dimenticato. “Brasile? No grazie.“ E gli racconto il fatto. Mi ascolta attento e poi insiste: “Porto Seguro è un’altra cosa, stanne certo. Rio è una grande città, bellissima ma anche pericolosa, come d’altronde lo sono San Paolo e quasi tutte le più grandi città del mondo. Turisti ingenui le frequentano a decine, e i balordi droghini non hanno che l’imbarazzo della scelta per portar via i loro soldi e sbarcare così il lunario con poco sforzo.” Riconosco che girare da solo in piena notte dopo aver lasciato gli amici nella discoteca per tornare all’albergo sulla Avenida Atlantica era stato per me come lasciare incustodito un barattolo di miele alla portata di un orso goloso. Me l’ero proprio cercata.
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Comunque Marco continua ad elencare le bellezze di Porto Seguro e piano piano accende il mio interesse. Sono molti anni ormai che vivo tra Santo Domingo e la Avana e forse è arrivato il momento giusto per visitare un nuovo paese. Anche se ho paura che la mia ricerca non finirà mai... Marco è disposto ad ospitarmi per i primi giorni. Se poi il posto mi fosse piaciuto avrei potuto cercare una sistemazione più comoda. Mi lascia i suoi numeri, quello di Cagliari e quello di Porto. Ripartirà per il Brasile tra dieci giorni, e mi prega di chiamarlo qualora avessi deciso di raggiungerlo. Ci rivediamo ancora un paio di volte, una volta al Poetto e un’altra per una pizza allo Spiedo Sardo la notte prima della sua partenza. Oramai sono convinto ed ho già in tasca alcuni preventivi per il lungo viaggio verso Porto Seguro. Una cosa che mi solletica particolarmente è che Marco mi ha assicurato che la cittadina è diventata negli anni un centro turistico molto frequentato durante tutto l’anno e che ci sono molti locali tra club e ristoranti dove si può ascoltare musica dal vivo e dove mi potrei proporre tranquillamente. Io non disdegno di esibirmi ogni volta che si presenta l’occasione sia per arrotondare la cassa sia per il genuino piacere che, malgrado i miei 50 e passa anni da musicista, continuo a provare nel cantare e suonare il mio sax o il mio flauto. Marco finalmente è pronto per partire ma prima prendiamo gli ultimi accordi. Appena comprerò il biglietto mi farò vivo telefonicamente per comunicargli la data d’arrivo.
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Non ho grossi problemi nel decidere una data, posso partire in qualsiasi momento, anzi, i miei “pamporis” (pruriti) mi spingono a partire al più presto per nuove mete e così scelgo una data in cui il costo del biglietto è più conveniente. Partirò il prossimo 15 di novembre, manca oramai solo una settimana. Avviso mia sorella Mirella della mia prossima partenza, e lei accetta la notizia con un sorriso triste, non riesce mai a trattenermi più di tanto. Preparare la valigia non mi porta via molto tempo. Decido di portare il minimo necessario. Comprerò lì quello che mi mancherà. A Porto Seguro si avvicina l’estate e presumo che userò prevalentemente shorts e magliette. Il mio ideale. Finalmente arriva il giorno della partenza. Cagliari-Milano-San Paolo-Porto Seguro. Al mio arrivo all’aeroporto internazionale di Porto, Marco è lì che mi aspetta. Il viaggio è stato lungo, sveglia alle 5 di mattina per il volo delle 6 da Cagliari per Milano, poi 12 ore fino a S.Paolo, tre ore d’attesa quindi la coincidenza per Porto, un’altra ora e mezza di volo e finalmente l’arrivo. Una piacevole temperatura di 25 gradi mi accoglie. Sono le 12 del mattino, ora locale. Marco aspetta paziente che ritiri i bagagli e subito mi porta a casa sua per scaricare tutto e farmi rinfrescare prima di andare a mangiare un boccone. Porto Seguro mi sembra subito un piccolo centro civettuolo e pulito. Il ristorante scelto da Marco è di quelli in cui riempi il piatto scegliendo da un ottimo buffet, lo pesi e paghi il dovuto.
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Sono ristoranti comodi ed economici. E mangi in fretta, senza lunghe attese. Il cibo è ottimo, esposto in bella vista, caldo o freddo. Dopo aver mangiato mi accorgo che sto per cedere al sonno e prego Marco di portarmi a casa per un po’ di riposo, sono oramai molte ore che viaggio e sto per crollare. Marco non si fa pregare, mi lascia a casa promettendomi che tornerà a prendermi al tramonto. Non faccio in tempo ad appoggiare la testa sul cuscino che sono in un mondo di sogni.
La città Mi risveglio riposato dopo quattro ore di sonno profondo. Una doccia mi riporta lentamente alla realtà e quando Marco bussa alla porta sono pronto per la mia prima visita di Porto Seguro. La temperatura è piacevolmente sui 28 gradi e un leggero venticello rinfresca l’aria. Prima tappa al caffè frequentato dagli italiani, allo Shopping Avenida. A Porto Seguro sembra che la colonia Italiana sia di circa 2000 persone. Molti sono pensionati che passano la mattina in spiaggia e il pomeriggio al bar a giocare a ramino o pinnacolo. Altri hanno aperto imprese che funzionano, ristoranti, bar, gelaterie e piccoli alberghi e si sono inseriti con successo nel tessuto sociale della cittadina. Dal bar “Italiano” dove conosco Enrico, Ennio e Paolo e altri impegnati in una partita di ramino passiamo alla
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“Passarela do Alcool” il lungomare di Porto dove si affacciano la maggior parte dei bar e Ristoranti. Una lunga fila di bancarelle colorate piene di frutta tropicale variopinta offre al turista per pochi reais “Capetas”, bevande a base di frutta e cachasa, la grappa locale. Per primo Marco mi porta a conoscere Tiziano, gestore dell’Area, il ristorante italiano che va per la maggiore. Sono ormai le 21 e i tavoli sono quasi tutti occupati. Tiziano comunque ci trova posto sulla parte esterna che dà sul lungomare. Davanti a noi la gente del posto passeggia assieme ai numerosi turisti che si riconoscono per l’allegria. Tiziano torna dopo pochi minuti e di sua iniziativa ci porta un fumante piatto di linguine ai frutti di mare ed una bottiglia di un vino bianco d’importazione. La serata inizia bene, mi dico. Mentre mangiamo mi accorgo che quasi tutti i tavoli sono occupati da italiani, tutti accompagnati da ragazze brasiliane. L’atmosfera è allegra e piacevole. Marco mi indica i vari personaggi che frequentano regolarmente il locale, chi proprietario di hotel, chi di bar, chi costruttore di residence, attività che sembra la più comune. Gli italiani che decidono di comprare casa qui cominciano ad essere numerosi, anche per i prezzi molto più convenienti che in Italia. Tiziano si siede a bere un bicchiere con noi e mentre chiacchieriamo Marco si fa scappare che sono musicista, che canto e suono il sax ed il flauto. Ben presto Tiziano si entusiasma e mi propone di fare una serata all’Area il sabato seguente.
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Ho portato con me i miei strumenti ed un computer che uso per mandare delle basi sulle quali mi esibisco. Mi basta collegarlo ad un amplificatore ed ecco che ne viene fuori un musica di buona qualità sulla quale io canto e suono. Per Porto Seguro sarà una novità assoluta. Devo solo trovare qualcuno da cui affittare l’amplificazione per la serata. Intanto all’Area continua ad arrivare gente e i più curiosi si avvicinano a noi per conoscere il “nuovo arrivato”. Marco mi presenta a tutti come un musicista famoso, e la cosa non mi piace più di tanto. Prima di esibirmi preferisco mantenere un profilo basso per poi sparare tutte le mie cartucce, e magari fare inaspettatamente una bella figura. Marco ha scoperto gli altarini e mancherà la sorpresa durante la serata di sabato. Tra gli altri conosco Dante, proprietario di un piccolo hotel sulla Rua dos Navigantes proprio vicino a dove abita Marco. Ho saputo che i bar aprono dopo le 9, per me che sono mattiniero è troppo tardi, quindi mi metto d’accordo per fare colazione da lui ogni mattina per una cifra onesta. Non immagino certo che da li nascerà un’amicizia che durerà per gli anni a venire. La cena finisce tra una caipirina e una caipiroska. È mezzanotte passata quando Marco finalmente accetta di riportarmi a casa. Sono nuovamente uno straccio e riprendere a dormire non mi costa un soldo.
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Dante e Cleo La mattina dopo alle 5 sono sveglio, ancora incasinato dal jet leg, e quando finalmente Marco si alza è oramai da un po’ che scalpito per uscire e mettere qualcosa sotto i denti. Due passi ed arriviamo al Gaviota, il Gabbiano, l’albergo di Dante, dove sua moglie Cleo ci aspetta sorridente. Il “Gaviota” è un piccolo hotel, una ventina di camere, quasi sempre pieno durante l’ alta stagione. Il buffet che offre ai clienti per il cafè da manhà è vario e appetitoso. Va dalle uova strapazzate al prosciutto cotto, dal formaggio a vari tipi di marmellate e yogurt. Caffè, the, succhi e diversi tipi di frutta tropicale come mango, papaia, guayaba, anguria e melone completano la ricca colazione. Un paradiso! Quando stiamo per finire arriva Dante che si siede con noi a bere un caffesinho. L’hotel mi sembra pulito ed accogliente e gli chiedo di mostrarmi una stanza, caso mai... Dante affida il compito a Cleo che subito mi mostra l’ultima camera rimasta libera. È spartana ma pulita, ha un letto da una piazza e mezzo, una finestra che da sulla piccola piscina, un buon televisore satellitare ed una doccia pulita e funzionale. Il prezzo è abbordabile e decido di prenderla subito. Marco mi sembra contento per la decisione, d’altronde la sua ospitalità non poteva durare più di tanto. E mi va bene, anch’io ho bisogno del mio spazio. In mattinata mi trasferisco in hotel e poi trovo anche il tempo di andare a fare il primo bagno in una spiaggia a pochi chilometri dalla cittadina.
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Marco mi accompagna ma mi lascia subito, a lui non piace particolarmente stare sulla spiaggia. Ripasserà a prendermi più tardi.
Il mare Il mare è la mia prima delusione, ma me lo potevo aspettare. Noi sardi siamo abituati al nostro mare, al suo colore smeraldo e alla sua trasparenza unica. Il mare brasiliano, lungo tutta la costa atlantica, è poco trasparente, con un color marroncino per via della gran quantità di terra che i numerosi fiumi vi scaricano in conseguenza delle piogge continue. In compenso risulta pescosissimo. L’acqua è calda e pulita e subito mi immergo a scacciare il caldo che verso le 12 raggiunge i trenta gradi. Dopo una mezzora che prendo il sole, sdraiato su un lettino all’ombra offerto dal bar cui mi sono rifugiato chiedo un jugo de coco, che bevo direttamente dalla noce verde con una lunga cannuccia. Ed ecco spuntare Cleo con due bambini che corrono verso di me. Sono Giulia e Luca, cinque e sei anni, biondissimi e minuti figli della coppia. Cleo come sempre è sorridente. “Come va? Ti stai godendo il bel tempo Bahiano? “ Cleo lascia che i bambini giochino sul bagnasciuga e si siede vicino. “Veramente bello, se non aumenta il calore” rispondo. “Questo è il periodo migliore, la temperatura non supera mai i trenta gradi.”
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Cleo è solare ed aperta, sempre disponibile, e mi propone, se voglio, di portarmi in giro a conoscere il posto. Accetto con entusiasmo. Lei viene da Belo Orizzonte, ha conosciuto Dante quando era proprietario di una miniera di smeraldi a Minas Gerais. Mi racconta che Dante, proprio quando la miniera cominciava a dare buoni frutti ha dovuto cedere a forti pressioni del commissario locale perché gli svendesse la miniera anche se non ne aveva nessuna intenzione. Una storia interessante. (Un giorno Dante mi racconterà che accettò di vendere solo dopo essere stato portato via da casa sua da tre brutti ceffi mascherati e appeso per i piedi ad un albero nel mezzo della giungla amazzonica. Per caso (?), dopo un’ora a testa in giù, venne salvato proprio dal commissario chiamato da Cleo allarmata per la sua prolungata assenza. Dopo averlo liberato dalle corde che lo legavano e dopo che Dante si riprese per il tempo passato in quella scomoda posizione il commissario bonariamente gli disse: “Vedi Dante? C’è qualcuno che certamente ti vuole far del male. Questo è chiaramente un segnale. Chissà a chi hai pestato i piedi. Fossi in te considererei l’eventualità di vendere la miniera, ora che hai ancora una possibilità.” Dante capì chi fosse il vero mandante del rapimento e l’indomani firmò i documenti di vendita, incassando comunque una bella cifra.) Fece baracca e burattini e venne a Porto dove investì parte dell’introito nell’acquisto dell’hotel.
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Adesso con quello che gli rimaneva stava per comprare una fazenda con 2000 capi di bestiame. Alla mia domanda di quanto fosse grande la fazenda mi rispose: “Duemila ettari, uno per capo di bestiame, naturalmente.” Mi spiegò che, perché il terreno non soffra e il bestiame trovi sempre da pascolare, la quantità minima di terreno è considerata in un ettaro per capo. La terra che stava per comprare comprendeva tre fiumi e vari boschi parte del quali avrebbe dovuto abbattere per ottenere più pascolo. Quando Marco passò a prendermi lasciai Cleo dopo esserci accordati per rivederci verso le 18. Mi avrebbe fatto da cicerone in un giro di conoscenza di Porto Seguro. Per il pranzo Marco mi riporta al ristorante del giorno prima, Portinha, quello che chiamo a “peso”. Il posto oggi propone tra l’altro una ampia scelta di Sushi e Sashimi, ed io decido di pranzare solo con quelle prelibatezze. Accompagno il sushi con una cerveza geladinha. Alle 18, dopo una piacevole siesta al Gaviota arriva Cleo che si presenta assieme ai bambini per portarmi in giro per la cittadina. Prima di uscire mi fermo per consegnare a Jocelyn, la donna delle pulizie la roba sporca. Le offro una mancia purché la lavi al più presto, ho portato poche cose e mi manca il cambio di mutande e magliette. Iniziamo il giro della cittadina. I posti da visitare non sono molti, Porto è un piccolo
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centro, ma Cleo si ferma con la sua Golf in ogni angolo che le sembra giusto mostrarmi. Mi presenta tutti quelli che incrociamo, uomini e donne, avvisandoli che il prossimo sabato mi sarei esibito all’Area, da Tiziano. Mi mostra tra l’altro alcuni ristoranti, stile trattoria, tipici brasiliani, dove mi garantisce si mangia bene ed i prezzi sono ottimi. Porto Seguro comincia a piacermi e penso che mi tratterrò un po’ a guardarmi intorno. Mi piace l’atmosfera festaiola e la gentilezza sia dei bahiani che dei pochi italiani che finora ho conosciuto. Cleo mi riporta in albergo dopo un’oretta di girovagare. Ci rivedremo la mattina successiva per il cafè da manhà. È oramai sera ed è da dopo pranzo che non vedo Marco. Così, dopo una doccia rinfrescante, scendo a piedi verso la Passarela do Alcool dove spero di incontrarlo da Tiziano. Infatti è seduto assieme a Dante ed ad una coppia che non conosco. Appena mi avvicino Dante me li presenta. Sono Candeja e Louis Claudio, due brasiliani, bahiani di Salvador, anche loro proprietari di un hotel sulla Orla, come viene chiamata la lunga spiaggia di Porto Seguro. Candeja è bionda, sulla trentina, bianca di pelle ma abbronzatissima con splendidi occhi verdi e denti bianchissimi. Uno schianto. “Sappiamo che suonerai qui il prossimo sabato, e verremo di sicuro!” mi assicurano entusiasti. Tiziano ha messo un piccolo cartello all’entrata del locale per pubblicizzare l’evento e quando si avvicina mi
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comunica giubilante che è quasi tutto prenotato, e mancano ancora tre giorni! Mi ricordo che non ho ancora trovato l’impianto d’amplificazione per la serata. Devo darmi da fare in fretta... Questa volta Tiziano mi consiglia di cenare con un carpaccio di tonno freschissimo, insalata e della frutta appena colta. Una cena leggera ogni tanto ci vuole. Mentre mangio chiacchiero con Dante e gli altri. Alla fine mi propongono di fare un salto al Bombordo, un piccolo locale da ballo. “Qui se vuoi cucchi di sicuro” mi dice Marco entrando. “Basta guardare con insistenza una ragazza e se ci sta si avvicina ed è fatta. Una caipirinha, un ballo lento e te la porti a letto. Piuttosto chiedi a Dante se ti permette di ospitare una ragazza in camera.” Il Bombordo è strapieno, per la maggior parte da ragazze, e c’è un quartetto che suona Axè su un piccolo palco. I tavoli sono tutti occupati e solo dopo un po’ riusciamo a trovare un piccolo spazio vicino al banco bar. Ordiniamo da bere e in attesa che ci servano mi guardo intorno. Un gruppo di ragazze ci ha visto arrivare e mi accordo che ci adocchiano speranzose. Alcune sono veramente belle, ma mi sembrano troppo giovani e quindi svirgolo lo sguardo per evitare che si avvicinino. In verità non me la sento di agganciare una “garota” così, appena arrivato. Dopo una mezz’ora di musica a volume alto e la caipirinha che ho finito in un attimo sento nuovamente la stanchezza e decido di lasciare il gruppo e tornare in albergo.
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Domattina il programma è: cafè da manhà presto e poi in giro a vedere se riesco a trovare un appartamentino in affitto. Dal Bombordo al Gaviota sono pochi minuti a piedi lungo Rua dos Navegantes. All’una sono nel mondo dei sogni.
Prima sorpresa Il giorno dopo mi sveglio alle 9 e dopo una veloce doccia corro a fare colazione. Trovo Dante seduto da solo al suo tavolo che mi fa cenno di sedermi con lui. Cafè con leite, uova strapazzate con pancetta, poi pane con burro e marmellata con un frullato di frutta per poi chiudere con fette freschissime di ananas, mango e papaia. Una buona colazione garantisce un inizio di giornata positivo. D’ora in poi vorrei saltare il pranzo per arrivare alla cena con appetito. “Dante, sai per caso dove potrei trovare un piccolo appartamento da affittare? Qui da te mi piace molto, ma se decido di stare a Porto per un paio di mesi devo trovare qualcosa di più economico” gli dico. Dante annuisce e subito mi consiglia un paio di posti discreti e vicini al centro, in modo da non aver bisogno di prendere taxi per arrivare alla Passarela do Alcool, punto di ritrovo serale. Mentre mi accingo a tornare in camera arriva sorridente Cleo che mi dice: “Ieri hai lasciato la roba da lavare a
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Jocelyn. È pronta per te alla reception. Hai notato se ti manca qualcosa?” Ci penso un po’ su ma non mi sembra che mi manchi niente di importante. Faccio di no con la testa e Cleo mi allunga un pacchetto chiuso da un elastico. “Guarda cosa hai dimenticato in tasca dei pantaloni.” Riconosco il pacchetto e sbianco di colpo. “Non mi dire...” So già cosa contiene la busta. Alla partenza avevo diviso i miei dollari ed euro in diverse tasche del giubbotto e dei pantaloni. Non si sa mai, ti rubano da una tasca e ti rimane sempre qualcosa per non cadere nella disperazione. Era andato tutto bene, non mi avevano scucito niente. Solo che quando avevo recuperato i vari pacchetti mi ero dimenticato di guardare in una tasca dei pantaloni... Apro la busta e riprendo colore. 1000 dollari, 10 biglietti da cento mi sorridono assieme a Cleo che abbraccio riconoscente. Viva l’onestà, mi dico. “È Jocelyn che li ha trovati?” Cleo mi risponde di sì e mi faccio subito accompagnare alla lavanderia a fianco dell’hotel. Scopro che Jocelyn è una bella signora di una quarantina d’anni. Indossa un largo fazzoletto e come vestito una larga vestaglia colorata, tropicale. Appena entro mi riconosce e mi fa allegramente: “Dom Bruno, vocè tem uma cabeza.! Como pudo olvidar tudo ese dineiro?” “Che testa avete.! Come avete potuto dimenticare tutti questi soldi?”
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Chino il capo in segno di vergogna e contemporaneamente le stringo la mano. La mia contiene un biglietto da cento che dopo la stretta lascio nella sua. Appena se ne rende conto scoppia a ridere e insieme a piangere. In seguito verrò a sapere che cento dollari sono pari allo stipendio che Jocelyn percepisce ogni mese. Ma se li merita tutti per la Sua onestà. Avrebbe potuto far finta di niente e mantenere tutto il pacchetto, pari a quasi un anno di guadagni sudati. Invece... Jocelyn mi abbraccia riconoscente, ed io posso solo corrispondere l’abbraccio, felice di essere rientrato in possesso della cifra maldestramente dimenticata nei miei pantaloni. Torno in albergo più sereno. Devo uscire subito alla ricerca di un appartamento da affittare.
Praza da lenha Da Rua dos Navigantes dove è l’hotel, se prendi scendendo una qualsiasi traversa sulla destra arrivi inevitabilmente a Rua 7 de Setembro. Questa strada corta e variopinta porta sulla sinistra a Praza da Lenha, o da Tarifa. Qui da sempre c’è il mercato del pesce, aperto tutti i giorni, con decine di pescatori che offrono il prodotto ancora saltellante nelle ceste. Con calma inizio la visita del mercatino. Giro tra decine di bancarelle e noto meravigliato pesci mai visti nei nostri mari, di colori luminosi in cui predomina il verde smeraldo, gamberi da piccolissimi a enormi e aragoste vive e saltellanti.
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Dopo una decina di minuti di girovagare sento un tocco sulla spalla: “Scegli il pesce che più ti piace, te lo preparo per stasera a cena”. È Tiziano che fa gli acquisti per il ristorante. “No ne conosco nessuno, chissà cosa finirei per prendere. Tu cosa mi consigli?” gli rispondo. “Quello lì è un Badejo, ottimo sia fritto che arrosto.” “Vada per il Badejo” rispondo. Ne scelgo uno, pago e lui lo prende assieme agli altri pesci ordinati per il locale. Chiacchiero ancora un po’ con Tiziano che scopro abita poco distante, e gli comunico che non ho ancora trovato l’impianto per la serata di sabato. Tiziano non ha mai fatto musica dal vivo nel suo locale e non conosce nessuno che affitti impianti audio, ma mi garantisce che per l’ora di cena, siamo già a Giovedì, mi presenterà qualcuno per definire i dati tecnici e garantire così un buon impianto per la serata di sabato. Tiziano porta via il Badejo assieme agli altri acquisti che riforniranno il frigo del locale ed io continuo il giro alla ricerca di una casa da affittare. All’angolo della piazza c’è un piccolo bar con tavolini all’ombra di una tenda che sbatte allegra al vento fresco che viene dal fiume. Scelgo un angolo tranquillo, ordino una Skoll, ottima birra Brasiliana, che sorseggio mentre consulto una piccola mappa della città che mi hanno dato all’albergo. Il proprietario del bar si avvicina per propormi un fritto misto di piccoli gamberetti e minuscole seppiette per accompagnare la cerveza. Vede che consulto la mappa e mi chiede se può essermi d’aiuto.
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Gli comunico la ragione della mia ricerca, un piccolo appartamento da affittare in centro, che sia decente e che costi poco. Jovanhao, così si chiama, scuote la testa per dirmi che in zona non conosce nessuno che affitti appartamenti, ma che proprio lì a fianco al bar è in vendita la casa che fa angolo con la piazza. Per caso il proprietario è un italiano che vive a San Paolo. Ha lasciato a lui le chiavi per mostrarla ad eventuali acquirenti, e se mi interessa vederla... Ci penso su e mi dico, perché no, guardare non costa niente. Jovanhao subito va dietro al banco per riuscire con la chiave in mano. Mi fa cenno di seguirlo mentre si incammina. Mi alzo lasciando la cerveza a riscaldare al sole e lo seguo.
La casa sul fiume. Un colpo al cuore Appena Jovanhao apre il portoncino che porta direttamente al salone della casa, tutto è ancora in penombra, ho l’impressione che la casa sia bellissima, anche se non ho ancora visto nulla. Il salone ha il pavimento in pietra scura, mi sembra ardesia, due finestre sulla strada e due porte ed una finestra che danno sul fiume. In un angolo un bancone con il ripiano sempre di ardesia separa il salone da una ampia cucina. Jovanhao per fortuna non ha notato la mia eccitazione nel vedere il posto.
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Apre le porte e la finestra ed il locale viene subito invaso dai raggi del sole che arrivano dal giardino che dà sul fiume. Un grossa inferriata protegge la casa da eventuali ladri per tutta la larghezza del giardino, che scopro è di 15 metri abbondanti. Decido che se dovessi comprare la casa l’inferriata sarà la prima cosa di cui mi libererò. Il giardino è una piccola selva incolta con due palme altissime che svettano su tutto. Torno dentro e chiedo di salire al primo piano per vedere le camere da letto. Una piccola rampa con spessi gradini in legno si snoda e ci guida verso l’alto. Il primo piano consiste in due stanze da letto, una grande e l’altra più piccola, ognuna con il bagno doccia. Entrambe danno sul fiume e la più grande ha un bagno speciale, che da su un piccolo terrazzino. Le pareti del bagno sono di cristallo che permette di ammirare il panorama mentre ci si lava o si fa la doccia. Una meraviglia! “Dimmi, Jovanhao, quanto chiedono per questa casetta?” “Guarda, la casa è in vendita da parecchio, e il proprietario comincia a perdere le speranze. Il prezzo, piano piano, si è abbassato notevolmente. Se tu fossi veramente interessato potresti fare un affare.” Mi risponde speranzoso. Capisco che Jovanhao si beccherebbe una gustosa provvigione se la vendita andasse in porto. Mi racconta la storia della casa. Un tempo proprio lì sorgeva la Tarifa, il posto originale in cui si vendeva il pesce a Porto Seguro, oramai da anni trasferito al centro della piazza dove si trova ora.
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Il proprietario, di origini italiane, di Milano, è stato rappresentante della Pirelli per la zona di San Paolo. Aveva usato la casa per passarci le vacanze assieme alla famiglia, ma oramai da otto anni non veniva più se non per controllarne lo stato e per pagare Jovanhao che era incaricato di controllare che non vi si insediasse qualche Indio locale. Gli domando quanto volessero al momento, e la cifra che Jovanhao mi comunica mi sembra assurdamente bassa. È pari al costo di un piccolo garage in Italia, poche decine di migliaia di euro. Me la faccio ripetere e quando me la conferma comincio a sognare sulla possibilità di comprare. Avevo risparmiato negli anni e la somma di cui parlava era alla mia portata. E mi lasciava spazio per eventuali miglioramenti. Chiedo a Jovanhao di contattare il padrone di casa e chiedergli se mi può chiamare all’hotel di Dante per chiarire eventuali dubbi. Comincio a fare i conti e subito sorge il problema su come fare arrivare i soldi in Brasile, è pur sempre una cifra consistente, devo consultare la mia banca di Cagliari e il Banco do Brasil per vedere se ci siano problemi valutari. Torno al mio tavolino, la birra è oramai bollente e ne ordino un’altra assieme al fritto misto. Jovanhao è eccitato e si siede con me. Gli chiedo di non parlare con nessuno del mio interessamento per non svegliare cani dormienti che possano inquinare le trattative. Alla fine arriva il fritto misto che è eccellente, e Jovanhao strappa il conto come augurio per un esito positivo della vendita
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Lo ringrazio ma non gli nascondo che il passo da fare è ancora lungo e che prima di tutto mi devo informare con le banche perché tutto sia in regola. Prima di andar via gli chiedo di farmi una copia della chiave in modo che possa tornare con calma a rivedere la casa. Mi garantisce che la sera stessa avrebbe chiamato San Paolo e lasciato al proprietario il numero di telefono dell’hotel e che, ottenuta l’autorizzazione, il giorno dopo avrebbe avuto la copia della chiave da lasciarmi. Torno in albergo pieno di entusiasmo, sono ormai le tre del pomeriggio, ma non riesco a fare la solita siesta. Aspetto che arrivi la sera guardando la tv alla ricerca di una distrazione. Alle sette esco diretto verso la Passarela dove spero di incontrare Marco. Sono indeciso sul comunicargli la notizia, è tutto ancora in alto mare, sono scaramantico ma anche eccitato ed ho bisogno di scaricarmi con qualcuno. Arrivo all’Area che imbrunisce ed ordino subito una Caipirinha in attesa di affrontare il Badejo. Marco non si vede, devo al più presto comprare un cellulare locale per poter essere reperibile e chiamare chi voglio senza dover chiedere la cortesia a Dante o Tiziano. La passerela è piena di giovani che passeggiano sorseggiando Capetas, drinks di vario tipo, alcoolici e non, che la bancarelle offrono a pochi Reais. Ecco apparire Marco che con passo strascicato arriva da lontano. Gli offro da bere, ho intenzione di offrirgli anche la cena, per festeggiare la mia incombente decisione. Sceglie una cerveza long neck della Skoll e chiede che portino un
S.Anna rossa Stoffa su legno 40x40 cm 2013
Cagliari Cattedrale Stoffa su legno 60x40 cm 2013
Cagliari celeste Stoffa su legno 100x40 cm 2013
Cagliari e Cattedrale Stoffa su legno 100x40 cm 2013
Cagliari Porta Cristina Stoffa su legno 60x40 cm 2013
Cagliari Skyline rossa Stoffa e acrilicosu legno 100x40 cm 2013
Cagliari Stampace Stoffa su legno 100x100 cm 2013
Cagliari P.zza Yenne Stoffa su legno 100x40 cm 2014
La Torre e la Sella del Diavolo Stoffa e acrilico su legno 60x40 cm 2012
Cagliari, le chiese, il golfo Stoffa e acrilico su legno 100x40 cm 2014
La casa nel giardino Stoffa su legno 60x40 cm 2013
Babbo in un campo di gigli Acrilico su stoffa 100x60 cm 2012
Babbo in un campo di papaveri Acrilico 100x60 cm 2012
Babbo militare Acrilico su stoffa e legno 60x40 cm 2011
Nanna e le libelllule Acrilico 40x60 cm 2012
Babbo in via Dritta a Oristano Acrilico 100x80 cm 2012
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piatto di Frango Passarinho, piccoli pezzi di pollo fritti da sgranocchiare in attesa della cena. “Oggi ho trovato una casa molto interessante, ad un prezzo ottimo”, esordisco, “Sto seriamente pensando di acquistarla.“ Marco mi guarda sorpreso. “Come? Sei appena arrivato e già hai deciso di fermarti? E dove hai trovato?” So che Marco è da un po’ che pensa di comprare una casa ma finora non si è ancora deciso. “Vicino a Praza da Lenha, una vecchia casa sfitta da 8 anni.” “Praza da Lenha, sul fiume? Dove c’è il mercato del pesce?” “Esatto, 120 metri quadri, con un bel giardino sul fiume, apparentemente in ordine e pronta per essere arredata. Ci potrei andare a vivere in quindici giorni.” “Calma, calma, devi stare attento, prima bisogna andare al Cartorio, verificare se i documenti di proprietà sono in ordine, niente ipoteca, tasse pagate etc. E poi, come pagherai?” “Penso che, leggi permettendo, pagherò con un bonifico, ma è tutto ancora prematuro, non ho ancora parlato con il proprietario. Aspetto che mi chiami, domani spero.” Marco mi sembra infastidito. Come, penserà, io sono qui da sei anni sempre in affitto, e tu appena arrivato già ti compri una casa? Intanto arriva Tiziano con il Badejo e la chiacchierata si spegne per darci il tempo di godere della prelibatezza appena arrostita. Ce n’è abbastanza per due.
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Per accompagnare il pesce ordino una bottiglia di vino cileno giusto per festeggiare. Chiedo a Marco di venire con me il giorno dopo per un sopralluogo alla casa, anche perché mi dia un suo parere. Ci mettiamo d’accordo per trovarci alle dieci di mattina all’hotel di Dante. Prima di andare via Tiziano mi dà il numero di telefono di un musicista che affitta impianti d’amplificazione. Mi chiede di scegliere il più adatto e che poi si incaricherà lui per saldare il conto. Mi conferma il tutto esaurito per il sabato. La sera trascorre piacevolmente tra una caipirinha ed una caipiroska e verso mezzanotte, da solo, torno ciondolando all’albergo.
Marcello da San Paolo La mattina successiva mentre faccio colazione ricevo la chiamata di un certo Marcello da San Paolo che a nome del padre mi chiede se fossi veramente interessato all’acquisto della casa di Rua 7 de Setembro. È disposto a venire per trattare, ma solo se la cosa mi interessa davvero, insomma niente perditempo. Senza pensarci su più di tanto gli confermo il mio sincero interesse e contemporaneamente chiedo se ci sia la possibilità di un ritocco del prezzo per un eventuale pagamento in contanti. Sembra che la cosa si possa fare, anche se in minima parte, il prezzo è già basso in partenza, mi dice Marcello.
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Ci lasciamo con la promessa che appena confermato il volo mi avrebbe richiamato per comunicarmi l’orario di arrivo. Subito chiamo la mia banca a Cagliari e chiarisco la meccanica per fare un bonifico della cifra che mi servirà per l’acquisto della casa. Non ci sono problemi, mi dicono. Aspettano solo una mia conferma con una email, password e tutto. Esco dall’albergo con la colazione fatta a metà, non riesco a mandare giù niente, e mi dirigo alla sede del Banco do Brasil. Arrivo alle 9 e mezza e la banca è ancora chiusa. Mi metto in fila e finalmente dopo mezzora d’attesa entro e trovo subito un funzionario che mi spiega come fare per il bonifico. Visto che non ho un conto aperto con il Banco do Brasil la mia banca dovrà inviare la cifra a mio nome, con relativo numero di passaporto. La commissione è minima, ma la banca dovrà spedire la cifra in trance non superiori ai 2000 euro, per ragioni valutarie, e non più di una al giorno. Sarà un casino, ma così sono le leggi Brasiliane. Il funzionario mi da tutte le coordinate della Banca, lo saluto e me ne vado. Adesso devo solo aspettare che Marcello arrivi da San Paolo. Intanto il cielo è terso e la temperatura, malgrado l’ora mattutina, sale imperterrita. Oggi farà molto caldo. Alle dieci e mezza torno in albergo e trovo Marco che mi aspetta spazientito. Mi scuso per il ritardo e insieme ci incamminiamo verso Praza da Lenha. Jovanhao è al bar che mi aspetta sorridente.
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Mi da subito la copia della chiave, ha avuto l’autorizzazione da Marcello, si vede che ci tiene molto a portare a termine la vendita. Appena entrati Marco rimane silenzioso per un attimo per poi dire: “C’è odore di umidità.” “O Marco, guarda che la casa è chiusa da 8 anni, itta bolisi?” Appena apro le porte che portano al giardino e vede la grande inferriata dice: “Meno male che è protetta, altrimenti dal fiume entrano cani e porci a rubare.” “Guarda che la prima cosa che farò sarà abbattere l’inferriata. Non voglio mica vivere in una prigione!” Mi guarda come se fossi matto e lascia perdere. In compenso il resto della casa è di suo gradimento e riconosce che il prezzo che gli ho comunicato sembra interessante. Noto una cosa che non avevo visto alla prima visita. Il soffitto del salone, per tutta la larghezza ha una serie di tronchi tutti scolpiti a mano, forse con una accetta, e messi ad un metro l’uno dall’altro. Non conosco il tipo di legno usato, ma danno una impressione formidabile di solidità. Noto anche che nel salone c’è un piccolo bagno e una dispensa a fianco della cucina chiusa da una porta/grata. Ottima per sistemare le scorte. Sul soffitto delle camere da letto ci sono dei ventilatori stile coloniale, con larghe pale di legno per rinfrescare durante le caldi notti baiane. Manca tutto il resto, dai letti agli arredi della cucina. Dovrò darmi da fare per trovate tutto l’occorrente appena concluso l’affare.
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Mi spaventa il costo di tutto quello che dovrò comprare per renderla vivibile, ma forse questa è la parte più bella della storia. Sono anni che giro il mondo con la mia musica, dormendo quasi sempre in alberghi o in camere ammobiliate. Ho vissuto a Cuba e Santo Domingo per molti anni ma mai nello stesso posto, adesso mi si presenta l’occasione per fermarmi per un po’ e la cosa mi “attizza” molto. Dopo una mezzora di controlli e commenti finalmente usciamo per sederci al bar di Jovanhao e rinfrescarci con un Skoll. Questa volta ci consiglia un piatto di “Isca de peishe”, pezzetti di pesce impanati e fritti con fette di lime a fianco. Ottimi assieme alla birra. Mentre sgranocchiamo e sorseggiamo Marco mi inonda di consigli sui pericoli che presenta l’acquisto di una casa. Bisogna informarsi bene, andare al Cartorio, una specie di ufficio comunale dove ti puoi informare su vita e miracoli di tutte le proprietà immobiliari di Porto, si può facilmente sapere se la casa è gravata da ipoteche, se ha debiti con il comune o addirittura con lo stato. Insomma una visita da fare assolutamente prima di scucire anche solo un real di acconto. Gradisco molto i consigli di Marco e mi riprometto di seguirli alla lettera. Comunque mi consiglia anche di appoggiarmi ad un certo Gabrielo, un faccendiere locale che può accelerare le pratiche conoscendo tutti i funzionari importanti. Gabrielo, dice, alla fine mi chiederà qualcosa, ma ne varrà la pena.
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Questa volta Jovanhao mi lascia pagare il conto, pochi reais, e con Marco torniamo verso l’hotel sotto un sole cocente. Dante mi aspetta e mi dà un messaggio appena arrivato. Marcello arriverà il lunedì successivo con il volo delle 10 da San Paolo. Perfetto, ho ancora pochi giorni per risolvere gli eventuali ostacoli burocratici. Prima di mettermi a letto per un riposino pomeridiano chiamo il ragazzo che mi dovrebbe affittare l’impianto d’amplificazione per la serata di domani. Ricardo, così si chiama, è di origine argentina e parla logicamente un ottimo spagnolo così ci capiamo meglio, io con il portoghese non ci smanetto ancora bene. Ci mettiamo d’accordo per incontrarci la sera stessa all’Area. Non riesco a riposare più di tanto, mille idee mi frullano in testa, la serata musicale che incombe, la casa, la banca... Verso sera non resisto più e decido di uscire per guardare le vetrine dei negozi di mobili. Sulla Navigantes ce ne sono due o tre e così prendo un caffè al bar dell’hotel e mi incammino. Purtroppo i mobili che vedo esposti mi sembrano dozzinali e per di più cari, così cambio idea e mi dedico a trovare un cellulare decente da usare al più presto. Ne trovo uno economico della Nokia che ha le funzioni minime e che serve giusto al mio scopo, compro un scheda della Tim con 10 reais di carica e mi sento meglio. Ora sono raggiungibile e posso contattare chiunque secondo la necessità senza dover dipendere dall’hotel.
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Emilia Arrivo da Tiziano ed il locale è quasi pieno, è Venerdì e molti sono liberi dal lavoro, fine settimana lungo. Tutto il mondo è paese.. Questa sera vorrei mangiare i tagliolini allo Scoglio, piatto che Tiziano dicono prepari alla perfezione. In un lungo tavolo sulla Passarela trovo seduti Marco assieme a Dante, Cleo e la coppia Luis Claudio e Candeja. Assieme a loro una bella morena minuta ma perfetta nelle proporzioni, Emilia, bellezza tipica Bahiana. Hanno un posto libero per me e mi accolgono con un brindisi. Loro sono avanti con gli aperitivi e ordino subito una Caipiroska per recuperare. Il mio posto è a capotavola vicino ad Emilia, forse una cosa organizzata? Appena seduto mi immergo in un’indagine per sapere tutto sulla mia vicina e scopro che ha ventotto anni, è felicemente sposata con un italiano, (acc!) ha un figlio di 12 anni, (ma quanti anni aveva quando lo ha concepito?). Logicamente parla benissimo l’italiano ed è molto simpatica. Rimango ammaliato immediatamente, pur sapendo che sono poche le speranze di conquistarla, ma non si sa mai. Il marito ed il figlio sono in Italia e... cuore non vede... La guerra è guerra, mi dico sornione. Gli altri aspettavano me per ordinare e così finalmente Tiziano prende le ordinazioni. Chi ordina questo, chi quello, ma non mi faccio condizionare e confermo i miei Tagliolini allo Scoglio.
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Arriva una bottiglia di Santa qualcosa, il solito bianco Cileno e la serata va avanti allegramente. A metà cena arriva Ricardo, mi scuso e mi allontano dal gruppo per definire con lui i particolari tecnici per l’indomani. Ricardo è un serio professionista e ha tutto capito subito quello che voglio perché la serata riesca al meglio, almeno dal lato tecnico. Ci accordiamo per trovarci l’indomani sera verso le 7 per posizionare le casse ed il mixer nel migliore dei modi e fare un piccolo sound check. Chiarisco che è essenziale che il microfono sia almeno uno Shure SM 58. Ricardo mi tranquillizza, mi porterà il suo microfono personale. Lascio Ricardo a definire il costo dell’affitto con Tiziano, e torno al tavolo a finire la cena. Il gruppo mi sta aspettando per affrontare un enorme robalo, pesce locale tipo spigola che si dimostrerà squisito. Emilia è su di giri e vuole a tutti i costi andare a ballare al Bombordo appena finito di mangiare. Anche gli altri sono propensi ad allungare la serata in allegria e mi trascinano con loro per un ultimo drink.
Claudia Stasera al Bombordo c’è un gruppo Axè venuto da Salvador, la capitale, e arriviamo giusto in tempo per trovare l’ultimo tavolo da quattro disponibile che utilizzeremo a turno. Il posto è strapieno e le belle ragazze spuntano dappertutto. Marco parte all’attacco e dopo un po’ sparisce in buona compagnia. Emilia impera sulla pista. Balla be-
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nissimo, alla bahiana, molto sexy. Tutti gli uomini non guardano che lei, e li capisco. Dopo un po’, trascinati dalla musica, siamo tutti in pista a dimenarci al ritmo dell’Axè musica bahiana che non conoscevo e che è molto coinvolgente. In genere sono restio a ballare, non mi sento a mio agio, mi sento un po’ un orso goffo, anche se tengo bene il ritmo, comunque questa sera metto da parte i tabù e mi lascio andare sull’onda della musica. Presto comincio a sentire la fatica ed il caldo e torno al tavolo dove Dante e Cleo fanno il loro turno per custodire le borse delle signore ed i drink. Il mio cuba libre è diventato caldo e faccio la fila per ordinarne un altro. Mentre aspetto mi trovo a fianco una ragazza di colore niente male che continua a ballare cantando. Mi sembra sola e così prendo coraggio e le chiedo cosa vuole bere. Smette di ballare e mentre si asciuga il leggero velo di sudore dalla fronte mi guarda come per dire: perché non mi lasci in pace? Invece la bocca si allarga in un sorriso e risponde che una cerveza geladinha farebbe proprio al caso. In pochi minuti nell’attesa che ci diano le bibite vengo a sapere che si chiama Claudia, ha ventisette anni e viene da Baianao, una specie di favela ad una decina di chilometri da Porto Seguro. Lavora come commessa in un negozio che vende costumi da bagno allo Shopping Avenida, ed è figlia unica. E ora che le sono vicino mi accorgo che è molto bella, ha una pelle fine e delicata, occhi castani, capelli neri crespi ed ondulati ed un sorriso bianchissimo. Pago i drink e la porto al tavolo dove intanto sono tornati tutti dalla pista.
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Al nostro arrivo noto che Dante e Luis Claudio fanno una faccia strana, mentre le donne, Cleo, Candeja e Emilia si alzano improvvisamente per andare al bagno, dicono. Presento Claudia agli uomini rimasti e noto ancora che la loro stretta di mano è imbarazzata. Claudia è la prima a rendersi conto della situazione e mi dice: “Grazie per la bibita, ci vediamo.” Ci rimango male, ma non voglio perdere l’occasione per conoscerla meglio e la accompagno verso il gruppo di amiche che la aspettano. Claudia mi presenta, le amiche sono tutte di colore, allegre e sorridenti e subito mi invitano a ballare con loro. Questa volta è Claudia a rimanerci male quando declino l’invito adducendo una scusa. Mi sentirei un pesce fuor d’acqua a ballare in mezzo ad un gruppo di belle ragazze. Ma prima di lasciarla invito lei e le amiche a venire all’Area l’indomani ad ascoltare il mio “concerto”. Tutte sono entusiaste ed incuriosite e garantiscono che verranno. Sono gasatissimo. Per finire chiedo a Claudia il suo numero di cellulare che mi lascia volentieri. Potrebbe essere un numero fasullo, certe usano questo sistema per sganciarsi da un fastidioso approccio, comunque so dove trovarla in caso non si facesse viva. Quando torno al tavolo trovo il gruppo pronto per andare via, solo Emilia non ha ancora voglia di lasciare il locale. Decido di rimanere anch’io a farle compagnia. Ci salutiamo e mentre tutti si avviano verso l’uscita Marco si avvicina e mi dice: “Attento che agli altri non piace la tua conquista..A certi il colore troppo cioccolato non va bene.”
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Rimango di sasso. Non immaginavo che in un piccolo centro di Bahia, con una popolazione di colore dell’85 percento esistesse un razzismo così evidente. Comunque lascio perdere e torno da Emilia che sorseggia accaldata un drink. A veder bene anche Emilia è, anche se in minima parte, di colore, meglio, è mulatta con una splendida carnagione ambrata. In seguito scoprirò che tra i razzisti esiste una classifica. Si parte appunto dal mulatto per poi salire al caffè latte, al caffè, al cioccolato, al nero, ed infine al nero azzurro. Ridicolo! Emilia mi sorride e mi dice: “Attento a chi frequenti qui a Porto, in certi ambienti il nero non apre le porte.” Ma in seguito scoprirò che la maggior parte degli italiani residenti a Porto hanno compagne di colore, con relativi figli. Decido di lasciar perdere e torno in pista in cerca di Claudia, ma non ne trovo traccia. Evidentemente ha lasciato il locale anche lei. Dopo una mezz’ora la serata sembra perdere di forza e decidiamo di andar via. Emilia mi offre un passaggio fino all’albergo con la sua Punto e mi lascia con un casto bacio sulla guancia. Ci vedremo l’indomani all’Area, promette.
La serata musicale Il giorno dopo passo la mattina in spiaggia, a caricare le batterie sotto un sole caldo e piacevole. Mangio al bar un piatto di Frango passarinho accompagnato da
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una birra geladinha e prendo un taxi per tornare in albergo. Alle sette e mezza arrivo all’Area e trovo Ricardo che ha già montato l’impianto. Tiziano ha trovato due palletts che ha ricoperto con un pezzo di moquette. Il palchetto è piazzato all’esterno del locale, sulla Passarela e così la mia serata potrà essere “goduta” dice lui, non solo dai clienti ma anche da tutti i passanti. Collego il computer, faccio “ssà ssà” al microfono che è uno Shure Sm 58 e faccio partire una base per provare l’insieme. A quell’ora per strada c’è poca gente, solo gli addetti ai lavori delle varie bancarelle e dei ristoranti che preparano i tavoli. Appena inizio il sound/check tutti mollano quello che stanno facendo per ascoltare. Ho scelto “Your Song” di Elton John e l’insieme è gradevole. Soddisfatto fermo il pezzo dopo pochi secondi ma prima di spegnere l’impianto voglio provare anche il sax ed il flauto. Parte un’altra base, monto gli strumenti e accenno un riff con il sax ed un altro con il flauto. Tutto ok, mi dico, sono pronto. Spengo e noto che Ricardo e Tiziano sorridono soddisfatti. Sono oramai le otto e assieme a Ricardo ci sediamo per un boccone. Spaghetti alle vongole, un piccolo trancio di tonno ed un bicchiere di vino riescono a soddisfare il nostro appetito. Intanto il locale si è riempito. Ci sono tutti, Marco con un gruppo di amici brasiliani che non conosco, e poi Dante e Cleo, Emilia, Luis Claudio e Candeja in un tavolo vicino al palco e tanti altri che hanno oramai esaurito i tavoli.
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Vedo anche Claudia e le amiche che passeggiano davanti al locale in attesa che io mi esibisca. Ed io non vedo l’ora di partire con la musica. Da quando ho iniziato a suonare, avevo forse 17 anni, è sempre stato così. Ad ogni festa o ballo o qualsiasi esibizione che ho affrontato sono stato sempre pronto a salire sul palco da molto prima dell’orario di inizio stabilito. Mi arriva una carica naturale che so che mi passerà solo quando comincerò a cantare. Alle 9 e mezza non ce la faccio più. Avviso Tiziano e con un bicchiere di Rum cubano in mano per darmi coraggio salgo sul palco per iniziare la serata. Parto subito, senza salutare, non ricordo con quale canzone, e vado avanti come un treno. Mi rendo presto conto che il pubblico gradisce, ogni brano è seguito da applausi e quello è il gas che spinge la mia macchina ad andare avanti con grinta. Il locale è circondato da piccole siepi che lo separano dai locali a fianco e dalla passarela. Intorno si è formata un piccola folla che ascolta i brani con attenzione e che applaude con entusiasmo sottolineando con ululati e fischi di gradimento. Claudia con le amiche sono le più rumorose e sorridenti. Sono gasatissimo, non speravo di meglio. Dopo una quarantina di minuti decido di fermarmi per un drink. Quando scendo vado dritto al bar perché mi è rimasta la gola secca ed ho urgente bisogno di qualcosa di fresco e leggermente alcolico. Il primo ad avvicinarsi è Ricardo che mi abbraccia come se avessi appena fatto un gol importante al Botafogo e mi dice: “Beleza, maestro, parabens!”
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Sorrido grato al suo complimento e gli offro da bere. Mi assicura che l’audio è perfetto, e che la serata non potrebbe andar meglio. Tiziano intanto corre da un tavolo all’altro e Roberta, sua moglie, anche lei bahiana doc, seduta alla cassa batte scontrini sorridente. Quando arrivo al tavolo degli amici parte un applauso spontaneo al quale se ne aggiungono molti dai tavoli vicini. Tutti sono contenti per la mia esibizione e c’è chi mi chiede: “Saresti libero per il prossimo sabato.? Faccio una festa a casa mia...” Sapevo che solo per la novità del repertorio particolarmente vario la gente avrebbe gradito, ma non speravo tanto. Dopo un po’ chiedo scusa e mi allontano dal gruppo perché ho visto Claudia che sulla passarela mi chiede di avvicinarmi. Le amiche non fanno che sorridere e chiedermi: “E questa la conosci? Qualcosa di Djavan? o di Jobim? E quando riprendi?” Oramai è passato un quarto d’ora e così, a malincuore, lascio Claudia e le amiche per riprendere a suonare. La serata va avanti spedita e a mezzanotte, quando saluto dopo l’ultimo pezzo, parte un coro unanime di: “Otra, otra, otra”. Da molti anni ho adottato un pezzo particolare per l’eventuale bis e per chiudere la serata musicale. È “What a wonderful world”, reso famoso dall’interpretazione di Luis Armstrong. Alla fine la gente mi sommerge ancora di applausi, l’aria è fresca e profumata, il cielo è pieno di stelle che brillano ammiccanti ed io sono l’uomo più felice del mondo.
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Churrasco Domenica mattina passata al mare assieme a Dante, Cleo ed i bambini. Hanno scelto un bar-ristorante che offre gratis l’uso di ombrelloni e sedie a sdraio per i clienti. Il mare è pulito e caldo e passo la mattinata in acqua a nuotare e giocare con i bambini. All’ora di pranzo ci facciamo portare due grandi bottiglie di birra Skoll gelata, polpette fritte di Baccalà assieme a gamberi appena pescati fatti arrosto e patatine fritte per i piccoli che mangio anch’io con gusto. Sono riuscito a bruciarmi al potente sole bahiano e non mi muovo più da sotto l’ombrellone. Altoparlanti sparsi in giro trasmettono musica popolare brasiliana e l’atmosfera è piacevole e rilassata. Ogni tanto si avvicina qualcuno a salutare Dante e a complimentarsi con me per la serata musicale di ieri notte. Porto Seguro è un piccolo centro e la voce della bella serata musicale all’Area corre veloce. Ieri notte Tiziano, preso dall’entusiasmo, mi ha chiesto di suonare anche il sabato successivo. Ho accettato con piacere; la cifra pattuita non è un granché ma è bene che inizi ad incassare qualcosa. Dopo il succulento pranzetto cerco un posto riparato dal sole e lontano dal chiasso dei bagnanti e mi sdraio per una sana pennichella pomeridiana. Alle cinque Dante mi scuote avvisandomi che se voglio un passaggio in albergo dovevo sbrigarmi. Cleo è già seduta in macchina con i bambini. Arrivato in albergo una rapida doccia per eliminare il sale dalla pelle e un altro po’ di tempo sdraiato a rilassarmi.
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Stasera sono invitato da Luis Claudio e Candeja per un churrasco al bordo della piscina condominiale. Il Brasile la carne è ottima, non come quella Argentina ma sempre buonissima. Al mio arrivo trovo anche Dante, Cleo con i bambini ed Emilia. L’acqua della piscina è piacevole e la temperatura esterna è gradevole. Emilia è particolarmente sorridente ed ammiccante con me e la cosa mi spinge a riconsiderare le mie speranze... Ho portato una bottiglia di Rum cubano che finisce in pochi minuti, tutti sono assetati dopo la lunga giornata di mare. Gli altri sono andati in una spiaggia di Arrajal D’aiuda, una cittadina vicina aldilà del fiume. Mi dicono che è un posto assolutamente da visitare e mi riprometto di andarci al più presto. Dicono sia il posto più “in” della zona, assieme a Trancoso, piccoli centri frequentati dalla gente bene bahiana che arriva nelle loro case in elicottero o su grandi barche provenienti da Salvador de Bahia e dal resto del Brasile. Il churrasco è buono e tenero, ogni tipo di carne ottimamente cucinato da LuisClaudio e riesco a mangiarne una quantità incredibile accompagnando ogni boccone con un sorso di un vino rosso cileno. Verso mezzanotte qualcuno, non ricordo chi, mi riaccompagna in albergo dove appena appoggio la testa sul cuscino mi ritrovo a svolazzare in un sogno profondo e pacifico.
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Arriva Marcello Lunedì; oggi arriva Marcello, ha circa 50 anni il padrone della casa in vendita. Mi ha chiamato prima di imbarcarsi sul volo da San Paolo e siamo d’accordo per incontrarci al bar di Jovanhao verso le 11 del mattino. Arrivo al bar alle 10 e mezza e mi siedo in attesa. Sono nervoso, sto per compiere un passo importante con il probabile acquisto e non sono ancora sicuro. Voglio, prima di sbilanciarmi, chiarire alcuni particolari. Marcello arriva puntuale e la prima impressione è positiva. Ha circa una cinquantina d’anni, è ben vestito e parla benissimo l’italiano malgrado viva in Brasile da quasi quaranta. Mi dice che è ingegnere e che le migliorie fatte alla casa sono state curate da lui personalmente solo pochi anni prima. Gli dico che ha fatto un ottimo lavoro con le porte di cristallo sul fiume e le lunghe travi di legno massiccio a sostenere il soffitto. Tratto per un po’ sul prezzo, e riesco a strappare un piccolo sconto dal momento che salderò la cifra in contanti. Accetta la mia proposta di saldare solo dopo una verifica al cartorio sullo stato di “salute” della casa. Alla fine mi invita a pranzo in un ottimo ristorante sulla Orla per poi riprendere l’aereo per San Paolo con la promessa di ritrovarci a Porto appena sarò in possesso dell’intero importo. Una vigorosa stretta di mano per definire l’accordo e ci lasciamo sorridenti.
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Una settimana dopo sono in finalmente in grado di richiamarlo per concludere il passaggio di proprietà. La banca mi ha mandato trance da 2000 euro, come vuole la legge Brasiliana, un giorno dopo l’altro, fino a raggiungere la cifra desiderata. Ora che ho in mano l’importo pattuito non vedo l’ora di chiudere l’accordo al cartorio, pagare e finalmente prendere possesso della casa. Chiamo Marcello e lui mi garantisce che arriverà il mercoledì successivo per definire la vendita. Gabrielo ha fatto fare tutte le ricerche sugli eventuali debiti che pendono sulla casa e mi garantisce che risulta libera da ipoteche o debiti con lo stato per tasse non pagate. Quando il mercoledì arriva Marcello con il volo da San Paolo ci rechiamo subito al cartorio assieme a Gabrielo. Si conclude la vendita/acquisto ed in pochi minuti firmiamo il documento per il passaggio di proprietà. Dal li andiamo direttamente all’hotel dove ho lasciato tutti i miei soldi in cassaforte. Dante è presente e sarà testimone per la consegna della cifra pattuita. Questa volta sono io ad invitare tutti al ristorante per festeggiare l’acquisto. Invito anche Cleo ed Emilia, la presenza femminile ingentilirà l’incontro. Quando Marcello finalmente riparte per San Paolo siamo tutti sull’allegro andante, è pomeriggio inoltrato e invito tutti a vedere la casa prima che arrivi la sera; non c’è ancora il collegamento elettrico. Entriamo in gruppo e, non appena apro le porte e finestre che danno sul patio ed il fiume per dare luce al salone, parte un coro di meravigliate esclamazioni per la bellezza dello spettacolo che si presenta..
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Il sole sta per tramontare e il riflesso dei suoi raggi sul fiume è abbacinante, i suoi raggi colorano di rosso/arancione ogni foglia delle palme e della Jacaranda all’angolo del giardino. Per un attimo rimaniamo tutti silenziosi, con il fiato sospeso. È uno spettacolo bellissimo che dura solo per pochi meravigliosi minuti. Mi immagino le serate che passerò a godere di questo spettacolo e sono ancora più felice per l’acquisto appena concluso. Nei minuti che ci rimangono prima che arrivi il buio riusciamo a visitare il resto della casa, e tutti ancora si fermano sulla porta di quella che sarà la mia camera da letto per godere del tramonto che ancora per poco si vede attraverso la parete di cristallo del bagno. All’uscita ci fermiamo ancora un po’ al bar di Jovanhao per un aperitivo e poi ognuno per i fatti suoi. Io decido di mangiare un boccone da solo da Portinha per poi fiondarmi a letto sperando in una notte senza pensieri.
Arredare la casa I giorni successivi passano veloci ma intensi e caotici. L’allaccio dell’acqua e della corrente elettrica si risolve abbastanza in fretta e riesco ad avere tutto rapidamente. Con Cleo che mi porta in macchina riesco ad arredare la casa in pochi giorni, spesso comprando quello che mi serve in piccoli negozi di cose usate.
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In un robivecchi trovo un bellissimo letto spagnolo in legno massiccio, solido e pesante, un tavolo tondo che si può raddoppiare per cene numerose, un comodo divano con due poltrone e una televisione, sempre usata, ma in ottime condizioni con relativo mobile. Prendo contatto con una amica di Jocelyn per le necessarie pulizie della casa. Jaira, così si chiama, arriva con marito e figlio, scope e ramazze varie e sistema tutto in poche ore, giusto in tempo prima che arrivino gli acquisti fatti. Insieme mi aiutano a scaricare le cose ed a piazzarle nelle varie camere, specie il letto che è decisamente bello ma anche molto pesante. Alla fine del lavoro Jaira mi chiede una fesseria e decido di aggiungerle una lauta mancia. Visto come ha lavorato, ha lasciato la casa lucida e profumata, le chiedo se ha libero un giorno alla settimana da dedicare alla casa e alla sua risposta affermativa troviamo un accordo perché inizi a lavorare dalla settimana successiva. Nasce così un rapporto che durerà per anni con reciproca soddisfazione. Jaira si dimostrerà anche un’ottima cuoca, sarta e perfino capace giardiniera divertendosi ad annaffiare quotidianamente le piante del giardino e a potarle quando è il caso. Mi rimangono da fare solo un paio di cose importanti ed urgenti. La prima è comprare le stoviglie per la cucina, compresa la cucina stessa. Sempre con il consiglio e l’esperienza di Cleo risolvo in poche ore e presto la zona cucina si presenta piena di pentole, padelle e quant’altro serva per cucinare. Non
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vedo l’ora di preparare qualcosa di italiano, magari di sardo, per i miei nuovi amici di Porto. Compro una cucina da appoggiare sul ripiano con quattro fuochi grandi, da una svendita di un ristorante appena chiuso. Sembra nuova e perfetta. Compro anche una bombola per il gas che sistemo fuori casa, in un angolo del patio. Ho sempre usato i fornelli, quando potevo averli a portata di mano, per cucinare ottimi pranzetti per me e per i miei amici, ovunque mi trovassi in giro per il mondo. Un’altra bella eredità avuta da mia madre. In un negozio di cose vecchie trovo un buon servizio di posate in sterling silver, per 11, manca solo una forchetta, un coltello ed un cucchiaino. Lo prendo al volo per pochi reais, un affarone, ma che poi si dimostrerà poco adatto alle cenette che organizzo regolarmente. Presto comprerò un servizio di posate normale, adatto a tutte le occasioni. Quello in Silver Sterling adesso si trova nella casetta di Tigre, in Argentina, in perfetto stato, ma anche lì usato pochissimo, inadatto alla casa sul fiume. Rimarrà in eredità a qualche mio nipote, chissà. A Porto la mia vita prende un corso regolare, tra la casa, le mattinate al mare, la siesta pomeridiana e le serate sulla Passarela. In casa continuo a portare cose che reputo utili ed importanti per la mia comodità e quella dei miei ospiti. In altri mercatini di cose usate trovo sei bellissime e comode sedie, una diversa dall’altra ma che stanno bene insieme oltre ad un armadio portoghese adatto per riporre i miei pochi abiti.
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Decido anche di prendere una serie di piatti, anch’essi diversi, che compro separatamente in vari posti. Alcuni sono antichi e scoloriti, ma di bell’aspetto. Sempre con l’aiuto di Cleo, che instancabile mi porta in giro per numerosi negozi nascosti, riesco alla fine a creare un bel servizio per sei, con piatti fondi, piani e piccoli da dessert tutti antichi e colorati. Anche per i bicchieri decido di comprarli diversi così più facili da riconoscere durante le cene o le feste che presto organizzerò nel mio giardino.
La prima festa Alla prima festa che organizzo a casa invito solo poche persone, ho pensato ad un cena in piedi con un buffet di piatti freddi come antipasti, per continuare con un arrosto di vari tipi di carni. Per la scelta delle carni mi sono affidato a Dante che è, come fazendero, un esperto. A cucinare i piatti freddi europei ci penso io, per quelli brasiliani Jaira, e per l’arrosto un suo parente che si dimostrerà molto bravo, anche a detta dei locali. Saremo una ventina, Tiziano e Roberta hanno chiuso il ristorante per l’occasione, siamo in bassa stagione e nei giorni feriali i clienti sono pochi. Ho chiesto a tutti gli invitati di partecipare portando qualcosa da bere. E tutti si sono presentati, chi con del vino, chi con superalcolici e altri, la maggioranza, con cassette di birra. Non ho ancora comprato un buon frigorifero e così ho riempito una capiente bacinella, procurata da Luis Clau-
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dio, con dei grossi pezzi di ghiaccio dove infilo alla rinfusa birre e vino. La serata è calda e la birra fresca va via che è un piacere. Due ottimi musicisti locali allietano la serata con brani popolari, suonando il Cavaquinho, con il Pandeiro e il Surdo a dare il ritmo. Ne verrà fuori una festa formidabile.
Il maggiolone e Stella I soldi che ho ricevuto dalla banca di Cagliari diminuiscono a vista d’occhio, ma mi rimane abbastanza per comprare una macchina che mi sarà utile per girare la zona senza dover dipendere dagli amici. Sempre con il loro aiuto riesco a trovare un vecchio maggiolone Volkswagen con il motore ancora in buone condizioni. Il colore è Blu scuro e l’interno grigio chiaro. Le gomme sono ancora buone ed i documenti in regola. Con l’equivalente di 300 euro ne vengo in possesso, passaggio compreso. Nei giorni successivi all’acquisto comincio a girare la zona circostante Porto fino ad arrivare ad Eunapolis da una parte, Itabuna e Ilheus, dall’altra. Ilheus è una civettuola cittadina, resa famosa dai racconti di Paulo Coelho e per la raccolta dei semi di cacao che esporta in tutto il mondo. Si trova a circa un centinaio di chilometri da Porto Seguro. Ci vado con Dante una domenica di sole e poco vento e ne rimango entusiasta. Passo il pomeriggio a visitare l’antico centro e la bellissima Cattedrale.
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È da un po’ che mi frulla l’idea di comprare un cane che mi tenga compagnia e custodisca la casa in mia assenza. Una mattina, mentre visito la feria che si tiene settimanalmente sulla Praza da Lenha, proprio accanto a casa, il destino mi da una mano ad esaudire il sogno; mentre girovago tra le variopinte bancarelle che affollano la piazza mi ritrovo tra i piedi un cucciolo, un batuffolo bianco e nero, appena scappato dalla scatola in cui era rinchiuso assieme al resto di una cucciolata in vendita. Mentre lo sollevo per riportarlo alla padrona lo avvicino involontariamente al viso e lui subito me approfitta per leccarmi la guancia ed il naso scodinzolando allegro. È un colpo di fulmine stravolgente, un amore immediato e definitivo. La vecchia padrona che ha assistito alla scena del leccaggio capisce che mi ha in pugno e subito spara una cifra alta. Io non batto ciglio e pago il dovuto senza neanche chiedere un piccolo sconto. L’amore è cieco e non ci sono ca... In una bancarella vicina compro una busta di crocchette per cuccioli due ciotole per acqua e cibo oltre a un guinzaglio perché si abitui ad essere legato senza troppi fastidi. Il cucciolo è una femmina e decido di chiamarla Stella. Entra scodinzolando a casa come se ci fosse nata e subito fa pipì sul pavimento, il primo di una lunga serie di bisogni che costellerà la casa nelle settimane successive. Quando arriviamo a casa Jaira è in cucina intenta a prepararmi il pranzo. Appena la vede molla tutto per accarezzarla e parlarle in portoghese con frasi evidenti
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d’amore. Le chiedo se sa lavare un cagnolino senza farlo spaventare e mi garantisce che ha posseduto decine di cani che non ha mai lavato perché “ci pensano loro a tenersi puliti”, come i gatti! Comunque dopo pranzo compra uno shampoo per animali e presa Stella con delicatezza la deposita in una bacinella piena d’acqua tiepida. Si mette sotto il patio e comincia ad insaponarla parlandole sempre con tenerezza. Stella non si scompone più di tanto, anzi dà l’impressione che l’acqua le piaccia molto. Alla fine del bagnetto Jaira la asciuga con uno degli asciugamani appena comprati che diventerà il suo personale. Il pomeriggio porto una Stella profumata e pimpante, trattenuta dal lungo guinzaglio, da un veterinario che le inietta i dovuti vaccini e sverminatori e prepara un tesserino con le sue caratteristiche e la data presunta di nascita e del primo vaccino. Mi garantisce che Stella sta benissimo e che non presenta problemi di sorta. Dovrò riportarla dopo quaranta giorni per un vaccino di richiamo e per un controllo. Da quel momento la cagnetta farà parte integrante della mia vita Portuense. Diventerà presto la favorita del vicinato, dei pescatori e delle mie amicizie, particolarmente di Claudia e Cleo che ogni volta che possono me la portano via per coccolarla e carezzarla. Come tutti i cuccioli fa i suoi bisogni dappertutto, e ci vuole un po’ perché impari a farli in giardino. Io invece imparo a nascondere le mie scarpe e ciabattine dopo che ne aveva rovinato un paio trovate in giro, rendendole inservibili.
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Per lei continuano ad essere un irresistibile richiamo ed io le lascio a sua disposizione finché non le distrugge completamente. Stella si accorge ben presto che da alcuni buchi che costellano il giardino ogni tanto spuntano dei granchi con spaventose chele pronte a pizzicare chiunque si avvicini troppo. La valorosa cagnetta non si fa intimidire e digrignando i dentini si avventa per poi arrestarsi a pochi centimetri; felice solo al vederli schizzare in tana e sparire alla vista. Un giorno un granchio meno timoroso decide di non scappare e, appena Stella si avvicina, con un salto improvviso aggancia il labbro proteso e ci rimane attaccato. Stella, disperata, inizia a guaire e correre per la casa con il granchio pendi pendi. Finalmente con uno scossone riesce a farlo cadere per terra. Il povero granchio le lascia però la chela che rimane attaccata al labbro del disperato cucciolo. Ci vuole un po per riuscire a liberarla dalla presa ferrea. Per buona sorte non ha passato la pelle del labbro. Stella non dimenticherà più la terrificante avventura, e, ogni volta che le capita di trovare un granchio sul suo cammino ci gioca saltellando da una parte all’altra ma mai avvicinandosi più di tanto. Una sera, mentre guardo la televisione, Stella, che spesso si sdraia sul divano al mio fianco per farsi carezzare, d’improvviso scende e comincia a digrignare i denti ed a emettere un piccolo ruggito, guardando verso una delle porte che danno sul giardino. La sera le porte sono aperte così che l’aria circoli meglio e rinfreschi il salone.
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Dopo un po’ sembra che si calmi e fa per tornare al mio fianco, ma subito riprende a digrignare e mostrare segni di nervosismo. Si accorge che io, tutto preso dalla trasmissione televisiva non le do retta ed inizia ad abbaiare ed a saltare da una parte all’altra. L’argomento della trasmissione mi interessa particolarmente e l’abbaiare di Stella non mi permette di sentire bene. “Stella”, le dico “smettila di rompere e vieni qui!” Ma Stella non vuole assolutamente muoversi da dietro il divano e continua ad abbaiare verso la dispensa vicino alla cucina. Immagino sia uno dei soliti granchi e le ripeto di smetterla, ma niente, e l’abbaiare si fa più rabbioso. Allora mi alzo per prenderla in braccio e tranquillizzarla ma lei, più Stella
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sicura dalla mia presenza si avvicina ancora di più verso la dispensa. Accendo la luce del corridoio per vedere quale sia la causa del suo nervosismo e rimango di sasso. Dentro la dispensa c’è un uomo, giovane, vestito di stracci e sporco da far paura. Ha in mano un paio di bottiglie del vino che tengo di riserva, e da una tasca spunta un’altra bottiglia, questa di Rum locale. Ho il cuore in gola... “Cosa ci fai qui?” mi viene spontaneo chiedergli. “Molla tutto e fila via, prima che chiami la polizia!”, urlo nel mio portoghese stentato, e non so se il ladro mi capisce. Comincio a riprendere coraggio. Comunque il mio tono lo spinge a scappare attraverso la porta aperta che da sul giardino. La casa è situata sul fiume, e il ladro non ha il tempo di saltare il muro laterale e deve giocoforza entrare in acqua spinto dalla fretta. Corre con le bottiglie in mano mentre quella che ha in tasca cade durante la corsa. Per fortuna non si rompe rimbalzando sull’erba del giardino. Intanto Stella incredibilmente cerca di mordergli almeno il risvolto dei pantaloni. Per fortuna non ci riesce altrimenti sarebbe finita con il ragazzo dritta in acqua. Il ladro che nuota con le due bottiglie in mano che usa come remi è una scena che ricorderò per molto. Urlo un paio di volte “Al ladro, al ladro!” perché è diretto verso la piazza dove spesso i pescatori siedono a giocare a Domino. Forse qualcuno lo blocca, spero, più per la soddisfazione di dargli una lezione che per recuperare le due bottiglie. Rientro a casa ansimante per riuscire subito dalla porta principale e vedere se riesco a bloccarlo, ma quando
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arrivo in piazza noto che quella sera non c’è nessuno a giocare a domino e che del ladro non c’è traccia. Al mio ritorno a casa Stella mi aspetta ancora ansimante. Capisco subito che è offesa. Non le ho permesso di portare a termine la sua prima entusiasmante caccia al ladro e mi terrà il muso per un po’. Da quel giorno ogni volta che abbaia verso il fiume ho sempre lasciato le mie faccende e controllato con cura la causa del suo nervosismo, non si sa mai. Oggi Stella è felicemente diventata Argentina dopo un lungo viaggio in cambusa sull’aereo che ci ha portato a Buenos Aires. Vive e continua a proteggere la mia casetta sul Rio de la Plata, e durante le mie prolungate assenze è diventata la beniamina dei miei vicini di casa che se la contendono senza mezzi termini. Sono un uomo fortunato ad avere trovato una creatura così docile ed affettuosa.
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La storia di Porto Seguro, delle mie avventure musicali e non, continuerà ancora per vari anni fino all’inevitabile distacco dettato dalla mia evidente incapacità di stare in un posto troppo a lungo. In seguito venderò la casa, ne costruirò un’altra e poi venderò anche quella. Dopo anni lascerò il Brasile per andare a trovare le mie radici in Argentina, a Rosario de Santa Fè dove nacque mia madre Luisa Fasciolo, detta Luigina. Il posto da cui invece non riesco a staccarmi definitivamente e che mi richiama come il canto di una sirena ammaliatrice è e rimarrà per sempre la Sardegna ed in particolare Cagliari, dove sono nato e dove risiedono i miei affetti più profondi, “c’è pagu e fai”.
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Comprare la casa di Tigre in Argentina, provincia di Buenos Aires, è stato avere la “suerte” d’essere nel posto giusto al momento giusto; un bel colpo di fortuna, come direbbe un mio amico invidioso. Mi è costata solo poche migliaia di euro, 80 metri quadri di costruzione con 1700 mq di terreno su cui crescono rigogliose cinque o sei querce, tutte alte dai quindici ai venti metri, 26 salici, anch’essi altissimi, che contengono l’avanzare del fiume sui due lati del terreno, un noce Pecan che produce una quantità esagerata di ottime noci e un platano ultracentenario con una circonferenza di 4 metri abbondanti che sfoggia la sua possanza sul davanti della casa. Dalla finestra della cucina si può ammirare una bellissima camelia dai fiori grandi e bianchi e diverse piante da frutta tra cui un chinino dai succosi frutti gialli. Casa di 80 mq completamente arredata in maniera spartana, ma con cucina, quattro letti, divano, armadi etc, tavolo da ping pong e canoa annessa e per finire con un molo privato con due grandi panche per attendere gli ospiti e prendere il fresco sul fiume magari bevendo il mate, bevanda nazionale argentina. In verità i fiumi che circondano la casa sono due, perché il terreno ha la caratteristica di essere al vertice di un isola dove si incrociano il Lolota e il Gambado, due af-
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fluenti del Sarmiento, che è uno dei tanti fiumi che compongono il grande Rio de la Plata. Un difetto della casa? Ci si arriva solo in barca attraccando direttamente al molo di casa o camminando dal molo dove attracca la lancia pubblica che viene dalla cittadina di Tigre. Si cammina per 500 metri circa sul lungofiume passando da un’isola all’altra su un ponte sospeso e traballante. Un pregio? ci si arriva solo in barca o camminando dal molo dove... e in più ci si può arrivare prendendo dal porticciolo di Tigre un boat-taxi o remis che mi porta al molo di casa in 15 minuti circa. Sull’isola la natura è ancora rigogliosa ed in parte incontaminata. La mattina mi sveglio regolarmente e piacevolmente con il canto diverso di decine di uccelli. Dopo una abbondante colazione nel silenzio del fiume, se proprio decidi di tornare in mezzo al caos della città, basta chiamare un taxi d’acqua che ti porta a Tigre da dove poi, prendendo un trenino, arrivi in pieno centro di Buenos Aires. Il tutto in un’oretta stretta. La casa è fornita di corrente elettrica, telefono e tv satellitare, ha un bel caminetto che scalda facilmente tutta la parte vecchia. Appena comprata la casa ho scoperto che il mio vicino Adrian Villavicencio è un piccolo impresario che costruisce case nel Delta. Ho presto trovato un rapido accordo per aggiungere 40 metri di costruzione sul lato che da sul fiume Lolota. Una volta aggiunta la nuova ala, per riscaldarla in modo giusto ho comprato una antica cucina economica, quel tipo di stufa in ghisa, pesantissima, che si carica con
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piccoli pezzi di legna, capace però di scaldare molto più del tradizionale caminetto. Per l’acqua da usare per l’uso della cucina e del bagno la casa è dotata di due cisterne esterne da 1000 litri. Uso una pompa elettrica per aspirare l’acqua direttamente dal fiume ad un primo serbatoio dove, aggiungendo una tazza di non ricordo di che tipo di solfuro decanta e si purifica. Dopo, con un’altra pompa l’acqua viene spinta all’altro serbatoio posto su una torre a sei metri d’altezza. E qui rimane a disposizione per essere usata per i servizi. Acqua non potabile, purtroppo. Per quella mi rifornisco regolarmente comprando dei bidoni da 25 litri che piazzo sul relativo distributore all’americana vicino alla cucina. Non è certamente comodo, per noi abituati a berla appena esce dal rubinetto, ma qualcosa dovrai pur pagare per il piacere di vivere lontano dal caos della grande metropoli...
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Vicino a casa, a quindici minuti di barca-taxi, c’è la cittadina di Tigre, tipica civettuola cittadina turistica. Tigre è lo sfogo naturale per gli abitanti di Buenos Aires, con decine di circoli di voga, con migliaia di iscritti che regolarmente visitano su canoe o barche a remi l’immensa rete di fiumi e fiumiciattoli che costellano il delta. La domenica i suoi numerosissimi fiumi, compreso il mio Gambado e Lolota che circondano la mia casa, sono fastidiosamente popolati da canoe di molte dimensioni, dalle più piccole fino a quelle da 8 con, spesso composte da ottuagenari pimpanti. E anche da fastidiosi moto d’acqua e rumorosi motoscafi. A Tigre si trova un magnifico museo del Delta, un casinò con slot machines e roulette, un teatro e un grande parco giochi per i più giovani. Ristoranti economici e cari spuntano numerosi nelle strade che costeggiano i numerosi fiumi proponendo menù per tutti i gusti. Vado a Tigre regolarmente per rifornire la cambusa di casa. Un grande Carr’e four soddisfa tutte le mie esigenze, con consegna gratuita sul molo della Estacion Fluvial solo per gli isolani. Spero di continuare a viverci per molto ancora. Un mese di vita “en la isla” mi ricarica per un anno almeno. Ci vivo per almeno 6 mesi all’anno, il resto del mio tempo non posso che passarlo dove sono nato: Cagliari, con il Poetto, la Sella del Diavolo, Monteurpinu, la via Roma e Calamosca, l’Anfiteatro e la famiglia ed infine gli amici che ancora conservo gelosamente tra le pieghe della mia vita da nomade.
Amici, musicisti
Dal ‘56 ad oggi, sono poco meno di sessant’anni, ho avuto il piacere di collaborare con molti ottimi amici/musicisti. Ho cercato con molta fatica di ricordarli per ringraziarLi tutti. Spero mi perdonino i pochi dimenticati, fanno comunque parte della mia vita.
I Lumi e Lauc’s Gentlemen Alberto Rodriguez - Batteria Marcello Melis - Contrabbasso Efisio Guiso - Fisarmonica Antonio Cocco - Chitarra Mario Ortalli - Piano Giovanni Sanna - Chitarra Antonello Boi - Chitarra Guido Artizzu - Chitarra
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Con Le Ombre Albino Puddu -Chitarra Giorgio Dessi - Canto Giorgio Zuddas - Canto - Batteria Alberto Perisi - Basso Antonio Stara - piano Marco Shoumer - Canto a Soverato Cz.
Con i “De de lind” - Milano Vito Paradiso - Canto Matteo Vitolli - Tromba Eddy Lorogiola - Basso Richy Rebajoli - Chitarra
Con “The Marines” Iose Caddeo - Piano (manca nella foto) Giorgio Carta - Basso Alino Mureddu Chitarra Giampaolo Mulas Sassofono Paolo Liggi - Batteria Sandro D’amico - Chitarra
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In Olanda B.Massidda quintet Giorgio Zoppi - Chitarra - Basso Mario Ultre - Batteria Alberto Monpellio - Piano Renzo Mometti - Sassofono Ora Suffer - (Israele) - Piano Livio Mungai - Piano Fredy Quevedo - (Spagna) - Piano - Organo Hammond Paco Carrillo - (Spagna) - Batteria
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A Milano ‘67 Vito Caccia - Piano Riccardo Rauchi - Sassofono Gegè di Giacomo - Batteria
TV La Voce Sarda Trasmissione “Piano Bar” Daniele Piga - Piano Irio De Paula - Chitarra Mandrake - Chitarra Bebbo Ferra - Chitarra Paolo Fresu - Tromba Iose Caddeo - Piano Piero Di Rienzo - Contrabbasso Paolo Liggi - Batteria Francesco Sotgiu - Batteria
Tv Videolina Trasmissione “E tutto finisce in musica” Albino Puddu - Charango Domingo - Charango Paolo Pirisi - Basso Mauro Abis - Chitarra Giuseppe Branca - Chitarra Alberto Massidda - Chitarra
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Trasmissione “Prima Fermata” Pescion Flauers Alessandro Diliberto - Piano Andrea Casciu - Chitarra Alberto Massidda - Canto - Basso Antonio Madeddu - Batteria
Varie Trasmissioni Tv Sandro Civolani - Tromba - Gentlemen - Solo in “Canzoni stonate” Pietro Carrus autore sigle “Prima Fermata” e “Stasera” assieme a Lucio Salis e Pierangelo Filigheddu Piero Marras - Canto trasmissione Tv Rai 1 Carlo Palmas - Piano Massimo Piludu - Sassofono Gianfranco Cionci Figus - Basso Piero di Rienzo - Contrabbasso Sandro Civolani - Tromba Carlo Mulas - Piano
Gruppo 2001 Franco Montalbano - Canto - Chitarra Pino Montalbano - Chitarra Paolo Carrus - Basso Sandro “Pantera” Congiu - Batteria Massimo Pancotto - Piano
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The Blood Alle Saline Cagliari Sergio Marcialis - Organo Hammond - fino al ’75 Al Casinò di Sanremo - Kursaal di Montecatini - Fifty Fifty di Reggio Emilia e sulla Nave della P & O - Pacific Island come:
The Sardinians Gianfranco Mattu - Piano dal ’75 Giorgio Aresu - Clarinetto - Sassofono Paolo Pirisi - Chitarra - Basso Antonio Loi - Basso Paolo Nonnis - Batteria
Jam notturne Marco Mannini - Piano Pietro Corcione - Basso Luigi Nonnis - Batteria
Sulle Navi Greche Stella Oceanis - Stella Maris - Stella Solaris Paolo Carrus - Piano Ubaldo Pettinau - Basso Nunzio Rossi - Batteria Salvatore Pumo - Piano
bruno massidda Antonio Galbiati - Canto - Chitarra Alberto Massidda - Chitarra - Basso Biscottino - Batteria Stratos - Bouzuchi
In Sud America Carlos Marcelo (Santo Domingo) - Piano Victor Mitrov (Santo Domingo) - Canto - Tromba Gustavo Rodriguez (Santo Domingo) - Piano Guarionex Aquino - (Santo Domingo) - Percussioni Pengbian Sang - (Santo Domingo) - Piano - Basso Choco De Leon - (Santo Domingo) - Sassofono Remy - (Santo Domingo) - Batteria Bobby Carcasses (Cuba) - Tromba Charlie Carcasses (Cuba) - Piano
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Tatita (Cuba) - Canto Cary Santos (Cuba) - Canto
Con la Maxi Band di Paolo Nonnis 1993 Paolo Nonnis - Batteria Paolo Carrus - Piano Piero Di Rienzo - Contrabbasso Gavino Murgia - Sassofono Nicola Piras - Sassofono Andrea Morelli - Sassofono Francesco Sangiovanni - Sassofono Giorgio Baggiani - Tromba Matteo Cogoni - Tromba Riccardo Piga - Tromba Adriano Sarais - Tromba Maurizio Ligas - Trombone Fabrizio Pittau - Trombone Enrico Sanneris - Trombone
Al Jambalaya Tore Spano - Piano Mauro Mulas - Piano Vittorio Sicbaldi - Batteria Michele Franzini - Piano Alessandro “Cinzio� Atzori - Contrabbasso Marco Argiolas - Sassofono Matteo Carrus - Piano
bruno massidda Piero Di Rienzo - Contrabbasso Robertino Deidda - Chitarra
Varie formazioni, vari anni e varie occasioni Sandro Civolani - Tromba Bebo Ferra - Chitarra Alessandro Garau - Batteria Ignazio Sechi - Batteria Massimo Ferra - Chitarra Alessandro Coco - Piano Riccardo Coco - Canto Robertino Deidda - Chitarra Gabriele Biancu - Contrabbasso Sandro Mosino - Contrabbasso - Batteria Ignazio Marongiu - Chitarra Sergio Pilleddu - Batteria Ninni Loi - Banjo Carlo Loi - Chitarra Luca Maddaloni - Canto Davide Buzzo - Sassofono Pino Pisano - Chitarra Antonello Severino - Banjo Giampaolo Mundula - Chitarra Aldo Marongiu - Armonica Nanni Serra - Chitarra Alberto Pirodda - Piano Pierfrancesco “Checco� Loche - Batteria Gianni Cogotti - Chitarra Benito Urgu - Canto
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amici, musicisti
Francesco Parodo - Armonica Mimmo Maccioni - Piano Angelo Falchi - Canto Ludovico Piredda - Batteria Guido Piccaluga - Piano/Organo Augusto Pirodda- Piano Francesco Sotgiu - Batteria Flavio Ibba - Chitarra Paolo Cocco - Chitarra Franco Medas - Piano Pasquale Cao - Sassofono Sandro Mura - Piano Sandro Devita - Batteria - Percussioni Onofrio Figliola - Piano Fabrizio Olla - Basso Carlo Palmas- Piano Franco Corda - Piano Rossella Faa - Canto Gianni Ibba - Vibrafono Ninni Manca - Canto Gianfranco Canu - Chitarra Paolo Carrus - Canto - Chitarra - Basso Pietro Carrus - Canto - Chitarra Marco Rinalduzzi collaborazione “Prima Fermata” sigla d’apertura “Prima Fermata” Rita Marcotulli - Piano Solo su “Stasera”, sigla di chiusura “Prima fermata” Efisio Lai - Coro “Daedalus” Silvia Lai - Coro “Daedalus” Ilaria Lai - Coro “Daedalus” Benito Urgu - Canto e autore brano “Porto Seguro”
Pensieri, parole, momenti di vita
E me la godo Un cavallo che bruca sul prato, un bambino che gioca cantando, una vecchia che cuce al sole. Io mi appoggio al muretto, e me la godo.
Al cinema Ero seduto in fondo, una delle ultime file, da solo, e piangevo. Lacrime salate ed abbondanti mi rigavano le guance e mi piaceva. Era un film sullo sport, la storia di un ragazzo che dopo innumerevoli sacrifici, anni ed anni passati ad allenarsi otto ore al giorno, finalmente riesce a vincere una medaglia alle Olimpiadi. Un filmone! Io riesco a commuovermi anche con storie così. C’è gente che come me si gasa a vedere Superman solo perché è capace di fare cose impossibili che da sempre
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pensieri, parole, momenti di vita
desiderava fare lui, e magari si commuove con la storia di un cane di strada che alla fine trova casa con carezze, cibo buono, una cuccia calda e tutto, o di una prostituta che finalmente si redime, si sposa, fa una nidiata di splendidi bambini e vive felice per tutta la vita. Mi commuovo e applaudo quando il debole riesce a stendere il forte dopo avere stoicamente sopportato offese ed umiliazioni. Applaudo e piango. Le lacrime mi vengono giù gratis, spontanee. Se vado al cinema in compagnia mi vergogno se non riesco a trattenere le lacrime. Ma è inutile, so che prima o poi se il film è di quel tipo... devo lasciar liberi i miei sentimenti, tentando magari di camuffare. Allora inizio a tossicchiare, mi levo gli occhiali come se debba pulirli, sbadiglio, mi sfrego gli occhi come se fossi stanco o annoiato e più di tutto evito di parlare, che la voce mi tradirebbe di certo. D’ora in poi, quando danno un film che presuppone emozioni di quel tipo, andrò da solo. Libero di piangere, magari a catinelle. Al diavolo gli amici.
Io vorrei Io vorrei che la mia donna, a vedermi per strada, corra felice ad abbracciarmi. Io vorrei che la mia donna, a vedermi dormire,
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si sdrai a fianco per sentirsi sicura. Io vorrei che la mia donna mi guardi in fondo al cuore nel dirmi che mi ama. Sitka 9-7-76
Fiore Il vetro riflette un fiore che, nato tra due pietre stenta, poverino, a farsi spazio. Quando l’acqua raggiunge finalmente il gambo il fiore guarda il cielo ed il sole e sorride di piacere.
Fill’e ba.. Fill’e ba... , la bocca corrucciata, mio nonno mi insegue con in una mano una scarpa e nell’altra una cinghia, sulla strada che costeggia il mulino. Mentre dormiva gli ho pisciato le scarpe. Non me lo perdona.
Vancouver 11-7-76
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Ansia L’ansia di rivederla, finalmente, l’ansia di possederla, nuovamente, mi rattrappì le gambe e poi l’uccello, e feci un fiasco immane, che figura!
Silenzio Silenzio, pace, nostalgia. Un albero con sopra quattro uccelli che cantano intonati tutti in coro. I raggi della luna, raffinati, disegnano una storia sul mio prato, e la mia mano tesa che ti cerca. Sperando di trovarti, anche se è buio.
Vancouver 28-8-76
Svegliarsi Svegliarsi la mattina presto e subito aver voglia di far qualcosa, di produrre. L’elisir di lunga vita.
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Il cane Il cane abbaiava e sbavava digrignando i denti e guardando la mia gola, protetta solo da una sciarpa leggera e dalla robusta rete che circondava la casa.
Gelato Così, così, come fosse un gelato, magari alla nocciola, quello che ti piace molto. Così, con delicatezza, la lingua gentile, lecca ed aspira e con la mano tienilo dritto, come fosse un cono, su e giu, su e giu, fino a farlo esplodere di gioia.
Attesa Il telefono è muto, sono ore che non squilla. Ho controllato già tre volte, non si sa mai, con questo tempo, magari le linee.., ma niente, il tuu tuu è regolare. Allora Carmen, che cazzo stai facendo, mi hai dimenticato così presto? E perché non telefoni, allora?
Ismael, Cuba Ismael è quello che mi procura i Coiba, i sigari che usa Fidel, che mi porta a pescare con la sua barchetta, che mi assiste nella scelta dei materiali che userò per la costruzione della mia casa cubana. Ismael, quello che mi
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ha invitato al matrimonio di sua figlia sedicenne incinta e che mi ha presentato una sua amica bonissima, che mi racconta storie impossibili di pesca del Marlin e del Dorado, che mi riporta a casa quando il ron cubano, quello da pochi pesos (por el pueblo), mi ha definitivamente tagliato le gambe e infine quello che conosce tutte le canzoni di Pablo Milanes e le canta a squarciagola, stonato come una campana. Ismael, un caro amico cubano, que mas quieres de la vida?
Amore puro Ogni volta che ti vedo sento dentro come un casino. Il cuore mi gira dentro il petto come fosse una barduffola, sempre più veloce. E sbatte da una parte all’altra. Aspetta solo che tu lo tocchi, così rallenta a poco a poco, e, finalmente, fa un bel respiro profondo.
Lontano E pensare che avevo sognato una storia da quattro e quattr’otto, che la cosa doveva finire prima ancora d’aver cominciato. E adesso che ci son dentro, questa storia mi sembra reale, con un pizzico di mistero, che la rende un po meno banale. Vuoi sapere come mi sento?
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Cosa sento quando incrocio il tuo sguardo? Io mi sento di stare lontano. Se ti tocco mi sento volare per planare sul tuo ventre velluto, scivolando su gambe accoglienti. Poi riparto a sfiorarti la schiena e i capelli, un campo di grano, che col vento si muove lontano, lontano.
Milano Settembre 1968 Ultime volontà di una mamma milanese E rubare? Cosa ne dici? Puttana se ne ruberei di cose! Mia madre l’ha detto sempre: “Se fai solo i cazzi tuoi alla fine non arraffi un bel niente! Prova a metterla nel didietro di qualche santo e vedrai che gusto si prova! E dopo, a guardarti intorno vedrai che tutti ti ammirano e si cagano addosso solo a sfiorali con lo sguardo. Guarda tuo padre. Lui sì che la sapeva lunga. Ne ha fatta di strada ad inculare la gente. Certo, lo so cosa vuoi dire, ora è in “nave” a scontare otto anni, senza spese, ma lui almeno le palle le ha mostrate, in giro. Merda, dove ho messo lo stecchino? Cosa dicevo? Ah giusto, tuo padre, gran figlio! Certe notti non mi lasciava dormire a furia di chiedermelo! Glielo davo e lui... ancora, lo voleva ancora, come un bambino. Dì un po’, questa musica.. chi è il sax? Paul Desmond? Una figata, te lo dico io che di musica, anche se non l’ho studiata, me ne intendo. Sai quanta gente mi ha detto, “ma come canti bene”!
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Anche se cantavo, a loro non dava fastidio, a scopare! Addirittura c’era uno che mi chiedeva di smettere, altrimenti non veniva. Ne ho viste, figlio, di cose strane, nella vita! Potrei scriverci un libro delle mie cose, ne venderei a dozzine! Solo con gli amici che ho, uno per uno, farei un casino di sghei! Ma non ne ho voglia, mi manca lo stimolo, come per pisciare, se non c’è... Così... affanculo, i miei ricordi li porto con me e pazienza. Ruba, figlio mio, mettila in culo e quando sarai vecchio, magari in “nave”, chi se ne frega? Avrai vissuto la tua vita alla grande, e a parlare di te la gente si leverà il cappello. Puoi giurarci, parola di mamma, che di cazzi ne ha mangiato a colazione, pranzo e cena!
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Dall’alto e in senso orario: Bruno, Fredi, Luciano, Adelaide, Laura, Gege
Ringraziamenti
Per i rituali ringraziamenti non saprei da dove iniziare. Sono molte, tante, le persone cui devo un sincero “grazie”, ad iniziare da quelli che non hanno mai smesso di spronarmi, quando le difficoltà mi spingevano a lasciar perdere, consigliandomi di continuare nel racconto del mio personale giro del mondo, a quelli che, materialmente, leggendo bozze e correggendole, hanno reso il tragitto più agevole. Altresì non potrei dimenticare i musicisti che nel corso degli anni mi hanno aiutato a costruire le mie basi musicali, morali e materiali, basi che poi hanno permesso le mie serate da “One man band” in giro per il mondo. Molte di queste basi fanno parte del Cd allegato al libro. Farò i nomi così, come mi vengono in mente, in ordine sparso, non in ordine di importanza, ma tutti, proprio tutti, mi hanno aiutato ad essere, nel corso degli anni, quello che sono oggi, a 76 anni. Allora, inizierei con... Anzi, a ripensarci forse sarebbe meglio non farne, di nomi; potrei dimenticare qualcuno, alla mia età... e crearmi qualche nemico in più, e non ne ho proprio bisogno. Forse è meglio così; chi è stato importante per la mia maturazione artistica e musicale ne è di certo consapevole e sa che gli sarò riconoscente, per sempre.