Argomenti di diritto processuale civile del professor Paolo Biavati, V edizione aggiornata

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TERMINUS Manuali

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Terminus Ci fu un tempo ove il senso dei confini era così acuto che gli uomini pensavano fossero presidiati dagli dei. I romani chiamarono il dio dei confini Terminus: trasponendo in cielo la necessità dell’uomo di stabilire un limite, e, al tempo stesso, l’incoercibile spinta a superarlo. Erasmo da Rotterdam elesse Terminus come proprio dio, sapendo di trovarsi sulla faglia di un cambiamento epocale, dove i confini diventano incerti e più impervio il procedere. Forse anche noi ci troviamo in una stagione nella quale ridiscutere i grandi temi diventa essenziale: come fu in quel primo passaggio millenario illuminato dal rinascimento degli studi, segnatamente giuridici, bolognesi. Per questo abbiamo deciso di raccogliere sotto l’egida di Terminus l’attività editoriale del Dipartimento di Scienze Giuridiche e della Scuola di Giurisprudenza dell’Ateneo bolognese sviluppata con Bononia University Press, dichiaratamente però aperta ad accogliere anche contributi di studiosi di altri Atenei. Essa contempla sia un comparto, questo, dedicato all’approntamento di strumenti idonei per una didattica efficace; sia una collana di studi monografici che compendia lo sforzo di pensiero ed elaborazione dottrinale. Nella convinzione che didattica e ricerca siano due facce inscindibili della stessa medaglia, così come la nascita e la storia dell’Alma Mater stanno a testimoniare.

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Paolo Biavati

ARGOMENTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE Quinta edizione aggiornata

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L’editore mette a disposizione sul sito www.buponline.com nella sezione materiali didattici i materiali e le schede di aggiornamento riferite alle novità normative e giurisprudenziali successive alla data di pubblicazione.

Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7, 40123 Bologna tel. (+39) 051 232 882 fax (+39) 051 221 019 www.buponline.com email: info@buponline.com © 2011, 2013, 2016, 2018, 2020 Bononia University Press I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. ISBN: 978-88-6923-560-3

Impaginazione: Design People (Bologna) Prima edizione: settembre 2011 Seconda edizione: settembre 2013 Terza edizione: giugno 2016 Quarta edizione: giugno 2018 Quinta edizione: giugno 2020

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INDICE GENERALE

Prefazione

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Prefazione alla quinta edizione

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Capitolo I LA STRUTTURA FONDAMENTALE DEL PROCESSO

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1.   Introduzione. Criteri di metodo. La nozione di processo. Le fonti e la storia recente del processo civile 2.   I principi costituzionali ed europei del processo civile 3.   La nozione di giurisdizione 4.   La struttura della giurisdizione contenziosa 5.   Limiti alla giurisdizione 6.   L’azione in generale 7.   Presupposti processuali, condizioni dell’azione, decisione nel merito 8.   I criteri per l’individuazione delle azioni 9.   Le azioni di cognizione 10. La difesa del convenuto. Le eccezioni. Le domande riconvenzionali. Il principio di non contestazione 11. La disponibilità della tutela giurisdizionale. Il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato 12. Il principio del contraddittorio 13. Principio dispositivo e inquisitorio. L’onere della prova. Il convincimento del giudice

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14. Impulso di parte e impulso d’ufficio. La direzione del processo 15. Oralità, scrittura e tecnologia informatica nel processo. Pubblicità e trasparenza 16. Il giudicato. Introduzione 17. I limiti soggettivi del giudicato 18. I limiti oggettivi del giudicato

Capitolo II LE CONDIZIONI DI SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

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19. La questione di giurisdizione. Il regolamento di giurisdizione 20. I limiti spaziali della giurisdizione italiana. La legge n. 218/95. I regolamenti europei sulla giurisdizione 21. Il sistema della competenza 22. Le modifiche alla competenza per ragioni di pregiudizialità e connessione. L’accertamento incidentale 23. La questione di competenza 24. Il giudice-organo. Cenni di ordinamento giudiziario 25. I magistrati onorari. Il pubblico ministero. Il cancelliere. L’ufficiale giudiziario 26. Imparzialità e indipendenza del giudice. Profili costituzionali. L’astensione e la ricusazione. La responsabilità del giudice 27. Il difensore e la deontologia forense 28. Pluralità di parti nel processo. Litisconsorzio necessario e facoltativo. L’azione di classe 29. L’intervento di terzi 30. Gli atti processuali 31. La sentenza e gli altri provvedimenti del giudice. Sentenze definitive e non definitive. 32. La nullità degli atti processuali 33. Le comunicazioni e le notificazioni nel processo 34. Il tempo nel processo. I termini processuali 35. Il tempo nel processo. La rimessione in termini 36. Il tempo nel processo. Le preclusioni. La ragionevole durata 37. I costi del processo

Capitolo III IL PROCESSO DI COGNIZIONE SECONDO IL RITO ORDINARIO

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38. Il rito ordinario di cognizione. I modelli processuali. Il problema delle risorse. L’atto di citazione 39. Gli effetti dell’atto di citazione. La nullità dell’atto di citazione 40. La costituzione delle parti. La comparsa di risposta

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41. La trattazione della causa. La prima udienza 42. Lo svolgimento dell’istruttoria. I mezzi di prova 43. Ammissibilità, rilevanza e valutazione delle prove 44. La prova testimoniale 45. La consulenza tecnica. Gli altri mezzi di prova costituendi 46. La confessione e il giuramento 47. Le prove documentali 48. Le modalità dell’intervento dei terzi. La riunione di cause 49. L’azione di classe 50. La fase decisoria del processo. Le difese finali 51. La fase decisoria del processo. La deliberazione 52. L’esecutorietà della sentenza 53. I provvedimenti anticipatori di condanna 54. Sospensione e interruzione del processo 55. La pregiudizialità europea 56. L’estinzione del processo 57. La contumacia. Cenni al procedimento dinanzi al giudice di pace. La giustizia minore 58. Il sistema delle impugnazioni. Profili generali. Condizioni e termini 59. Le impugnazioni incidentali e il processo di impugnazione a pluralità di parti 60. L’acquiescenza. Gli effetti della sentenza di impugnazione 61. L’appello (prima parte) 62. L’appello (seconda parte) 63. Il ricorso per cassazione. Aspetti generali 64. La funzione di legittimità della Cassazione. Il ricorso e il filtro 65. Il ricorso per cassazione. Il procedimento 66. Il ricorso per cassazione. I provvedimenti. Il giudizio di rinvio 67. Il regolamento di competenza 68. Revocazione e opposizione di terzo

Capitolo IV LE ALTRE FORME DI PROCESSO DICHIARATIVO

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69. Il processo del lavoro. Profili generali 70. Il procedimento nel rito del lavoro 71. Il procedimento nel rito del lavoro. L’istruttoria. Le ordinanze anticipatorie. Il mutamento di rito 72. La sentenza nel processo del lavoro. Il procedimento per impugnazione del licenziamento 73. Le impugnazioni nel rito del lavoro 74. La tutela sommaria. Presupposti e caratteristiche generali

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75. Il procedimento monitorio 76. L’opposizione a decreto ingiuntivo. L’ingiunzione europea 77. Il procedimento per convalida di sfratto 78. Il processo c.d. sommario 79. Il procedimento in camera di consiglio 80. L’arbitrato. Scopo e funzioni 81. Il patto di arbitrato. La nomina degli arbitri 82. Il procedimento arbitrale 83. Rapporti fra arbitri e giudice ordinario 84. La deliberazione e il lodo 85. L’impugnazione del lodo 86. Arbitrato rituale e irrituale. Arbitrato societario 87. Globalizzazione e armonizzazione del diritto processuale. Il processo straniero e il riconoscimento delle sentenze straniere 88. L’arbitrato internazionale e il riconoscimento dei lodi esteri

Capitolo V LA TUTELA CAUTELARE

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89. La tutela cautelare in generale 90. I sequestri 91. I procedimenti di nuova opera e danno temuto. L’istruzione preventiva. La consulenza tecnica preventiva 92. I provvedimenti d’urgenza. Cenni ai procedimenti possessori 93. Il procedimento cautelare uniforme 94. Misure cautelari e anticipatorie. Inefficacia e attuazione delle misure cautelari 95. Reclamo e revoca

Capitolo VI L’ESECUZIONE FORZATA

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96.  Il processo esecutivo. Introduzione. Il titolo esecutivo e l’atto di precetto 97.  Le tipologie dell’esecuzione forzata 98.  Il pignoramento. Struttura, natura ed effetti 99.  L’intervento dei creditori nell’espropriazione 100. La vendita forzata. L’assegnazione. Il riparto 101. L’espropriazione mobiliare 102. L’espropriazione presso terzi 103. L’espropriazione immobiliare (prima parte) 104. L’espropriazione immobiliare (seconda parte)

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105. Le forme particolari di espropriazione. L’esecuzione in forma specifica 106. Le opposizioni all’esecuzione forzata 107. La sospensione dell’esecuzione. L’estinzione del processo esecutivo

Capitolo VII FUORI DAL PROCESSO

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108. La mediazione e la conciliazione

Indice ragionato

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PREFAZIONE

Questo libro ha lo scopo di accompagnare il corso di lezioni di Diritto processuale civile che svolgo a Bologna, proponendo in un testo scritto la materia che spiego ai miei studenti. Un’efficace didattica comporta che l’esame si svolga sugli argomenti trattati a lezione, senza eludere la necessità che vi sia una corrispondenza, almeno tendenziale, fra ciò che si è discusso insieme e ciò che viene poi richiesto di conoscere. Il corso bolognese si sviluppa in centootto ore di lezione e quindi la materia è suddivisa in altrettanti argomenti. Gli argomenti prescelti non esauriscono certo il Diritto processuale civile. Pur nel rispetto di un percorso che tocca i temi classici, vi sono scelte discrezionali, sia per quanto riguarda le inevitabili esclusioni, sia per ciò che concerne il livello di approfondimento dei punti esaminati. Le linee a cui mi sono attenuto sono essenzialmente due. La prima è l’importanza dei singoli istituti per comprendere il funzionamento concreto del processo civile odierno. La seconda è il collegamento con il diritto europeo, non studiato a parte, ma considerato elemento integrante della normazione applicabile. Il libro non esaurisce il corso e non vi si sostituisce. Un corso di lezioni è una realtà viva, sempre diversa, non solo perché sono – devono essere – sempre nuovi gli stimoli culturali del docente, ma soprattutto

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Prefazione

perché sono diverse le persone degli studenti. Nessun corso è identico a quello precedente e lo studio del testo serve soprattutto da confronto con ciò che si è ascoltato ed appreso. L’editore, che ha fortemente sostenuto il progetto di questo strumento didattico, mette a disposizione un apposito spazio sul sito www.buponline.com, nel quale saranno inseriti materiali utili e le opportune schede di aggiornamento riferite alle novità normative e giurisprudenziali successive alla data di pubblicazione. L’accessibilità gratuita di questo spazio è parte non secondaria del servizio che questo libro si propone. Il libro è scritto per gli studenti. Sta a loro valutarne l’utilità e segnalarne aspetti suscettibili di miglioramento. Fin da ora, ringrazio Annalisa, Cristina, Federico, Filippo, Greta e Laura, che sono stati i miei primi lettori e che hanno collaudato singole parti del volume durante la redazione. Bologna, luglio 2011

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PREFAZIONE ALLA QUINTA EDIZIONE

Alcune importanti novità normative e l’opportunità di introdurre precisazioni e chiarimenti in diverse parti del libro spiegano il senso di questa quinta edizione. Nel contempo, è parso utile compiere una messa a punto della materia alla vigilia di un’importante novella, volta, negli auspici, a rendere il processo civile italiano più semplice ed efficace. La progettata riforma contiene taluni profili positivi, ma suscita anche non poche perplessità. In specie, si vuole nuovamente puntare ad un riassetto delle norme, senza tenere conto che solo adeguati interventi sul piano organizzativo e strutturale potranno portare la giustizia italiana a quel livello di eccellenza che la qualità dei suoi interpreti certo meriterebbe. Un obiettivo dichiarato del manuale è quello di condurre le studentesse e gli studenti alla comprensione delle reali modalità di vita dei giudizi civili: si tratta di un filo conduttore che ne accompagna le pagine e ambisce a metterli in condizione non solo di conoscere le norme, ma anche di giudicare la congruenza dell’operato del legislatore. Neppure si deve trascurare l’ammonimento che avevo affidato alla premessa della quarta edizione: la rapidità nel decidere, tanto invocata

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Prefazione alla quinta edizione

nell’approccio politically correct di molti ambienti governativi, economici ed imprenditoriali, non può comprimere le garanzie della difesa e la tensione verso una giusta soluzione delle controversie. Un particolare ringraziamento va, ancora una volta, ai dottori Matteo Pacilli, Giorgia Ottobre, Mario Golia e Dorelisa Lolli per i molteplici apporti di collaborazione nella revisione del testo. Bologna, marzo 2020

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Capitolo I LA STRUTTURA FONDAMENTALE DEL PROCESSO

1. INTRODUZIONE. CRITERI DI METODO. LA NOZIO­ NE DI PROCESSO. LE FONTI E LA STORIA RECENTE DEL PROCESSO CIVILE. I. Introduzione e metodo. Per uno studente non è facile acquisire un approccio corretto alla materia del diritto processuale. Le difficoltà principali, a mio avviso, sono due. Da un lato, la mancanza di una percezione previa delle situazioni a cui si applica questa materia: ad esempio, ognuno sa che cosa significa comprare o vendere, anche se ignora come il diritto positivo disciplini queste situazioni, mentre espressioni come litisconsorzio, connessione, citazione o precetto restano prive di un riscontro nel discorso comune. Dall’altro lato, il più elevato tecnicismo del linguaggio e la necessità di fare corrispondere alle parole definizioni esatte e precise. Lo scopo di un testo destinato soprattutto ad accompagnare un corso di lezioni non è quello di esaurire completamente la materia: esistono molti ottimi manuali che rispondono a questa esigenza. L’idea di fondo è piuttosto quella di offrire allo studente una guida introduttiva al diritto processuale, insegnando le nozioni fondamentali e fungen-

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La struttura fondamentale del processo

do da chiave di lettura della materia. Un testo utile deve tendere, inoltre, a suscitare interesse e curiosità; a mettere in luce problemi di rilievo sociale; a fare comprendere come la giustizia civile abbia ricadute non banali sulla quotidiana esperienza di molti. Punto di partenza è considerare il processo come un meccanismo che serve, partendo da una data controversia, a dare luogo alla decisione. Ogni istituto occupa un posto preciso in questo meccanismo, con determinate finalità e con una disciplina che qui e oggi è di un tipo, ma in altre condizioni storiche o culturali può essere ovvero è stata di un altro tipo. Le variazioni del diritto positivo costituiscono gli adattamenti alle singole situazioni storiche di una tensione perenne verso l’obiettivo di una decisione giusta: il senso della giustizia (dare a ciascuno il suo) è un dato costante. Per fungere da chiave di lettura, il testo dovrà anche confrontarsi con la situazione (strutturale e concreta) della giustizia civile in Italia ed avere ben presente lo scenario dell’Unione europea e dei meccanismi internazionali di globalizzazione, con le loro ricadute sul sistema della tutela dei diritti. Al contempo, non potrà mancare una riflessione sulla connotazione etica dei comportamenti degli operatori del processo, in specie giudici e avvocati. La giustizia civile potrà crescere soprattutto se migliori saranno le capacità di dedizione e di servizio di chi se ne occupa. Ritornando al problema del linguaggio, obiettivo di un corso di lezioni è certamente ottenere l’acquisizione rigorosa delle necessarie abilità di espressione tecnica. Lo studente deve sapere distinguere con chiarezza e proprietà istituti fra loro apparentemente simili. Occorre, però, essere consapevoli dell’esigenza che non basta saper parlare di diritto agli addetti ai lavori, ma è anche opportuno saper comunicare le nozioni giuridiche al vasto pubblico dei cittadini, che addetti ai lavori non sono. Uscire da un linguaggio criptico, comprensibile solo ad una relativamente ristretta cerchia di esperti, è un’esigenza sociale importante, per liberare (e non è poco) il mondo del diritto da una sorta di isolamento culturale, che accresce la diffidenza e genera il sospetto. Il diritto, a partire da quello processuale, è garanzia di libertà: ma è indispensabile che i giuristi sappiano farsi comprendere.

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Capitolo I

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II. Una nozione essenziale di processo. Può essere utile prendere le mosse da una nozione semplice ed operativa, ovviamente provvisoria, di processo. A questa stregua, processo è una serie di atti e comportamenti, mediante i quali due o più parti sottopongono una controversia alla decisione di un terzo imparziale, il giudice. Se ci poniamo la domanda, a che cosa serve il processo, dobbiamo partire dal dato dell’esistenza di una controversia, vale a dire del conflitto fra due o più pretese, che abbia rilievo per il diritto. Non ogni controversia ha peso giuridico; e non ogni controversia di rilievo giuridico sfocia in un processo. Colui che si ritiene leso in un proprio diritto soggettivo può trovare un accordo con la controparte, o semplicemente rinunciare ad una tutela giudiziaria. Se, però, la controversia resta in vita, occorre risolverla e l’ordinamento giuridico fornisce al cittadino, come mezzo principale e normale, lo strumento del processo civile. Nel processo, come meglio vedremo, si deve accertare il fatto e applicare il diritto, mediante un iter al quale danno vita le due parti e il giudice. Va subito precisato che oggi sono molto forti le opinioni che ritengono che la soluzione della controversia possa avvenire anche (o forse meglio) senza e al di fuori del processo. Di qui, spiccate tendenze verso forme alternative alla giurisdizione. Fin da ora, è bene chiarire che è preferibile la prospettiva (confortata dall’art. 24 cost.) secondo cui è la giurisdizione dello Stato la via ordinaria per la risoluzione dei conflitti. Il potere politico ha il preciso compito di assicurare al cittadino una giustizia efficiente, lasciandolo libero al contempo, in una società pluralista, di perseguire il proprio interesse anche attraverso modalità non giurisdizionali. Sarebbe però una grave carenza se si abbandonasse l’idea di una giustizia funzionante a favore di altri modelli. Vi sono due modi fondamentali di considerare il processo. Ciascuno dei due attinge ad un certo fondo di verità. Da un lato, il processo può essere visto come cosa delle parti; dall’altro, come cosa del giudice. Nella prima ottica, il processo è una sorta di gara o di gioco fra le parti, in cui il giudice si limita a registrare chi ha successo e chi soccombe; nella seconda, il giudice interviene attivamente.

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La struttura fondamentale del processo

Secondo il primo modello, che storicamente richiama il liberalismo classico, si ha un’assoluta neutralità del giudice e lo scopo è quello di definire la lite, raggiungendo una situazione di equilibrio, quale che sia. L’altro modello impone la ricerca della soluzione giusta (naturalmente, applicando le norme vigenti in quel dato momento), pagando però il prezzo di un giudice che, in qualche misura, è schierato in modo preferenziale per la parte che risulta portatrice di un interesse meritevole di maggiore tutela. Le regole procedurali sono alla costante ricerca di un equilibrio fra imparzialità del giudice e ottenimento della decisione giusta. Secondo un’impostazione dominante nel secolo scorso, il legame fra i soggetti del processo veniva visto come un particolare rapporto giuridico, denominato rapporto processuale. Non si farà abitualmente uso di questa terminologia. Obiettivo del processo è risolvere la controversia secondo verità e giustizia. In questo senso, non è appagante l’idea che sia giusta la decisione che ha semplicemente seguito l’iter procedurale corretto. Il rapporto fra processo e decisione è di mezzo a fine: il processo (è bene sottolinearlo subito, con forza) è uno strumento per l’attuazione dei diritti. Ora, il processo ha una struttura dialettica, dovuta agli apporti contrastanti delle parti in lite ed è necessario che tutti questi apporti vengano valorizzati. Tuttavia, è anche necessario ribadire che è giusta la sentenza che, sulla base degli elementi a disposizione, ha applicato correttamente il diritto sostanziale. Nel contempo, occorre dire che il processo non ricerca una verità assoluta, ma quell’approssimazione possibile secondo dati limiti di tempo e di mezzi probatori. Per quanto riguarda la giustizia, è scontato che vi possano essere errori umani: tuttavia, il processo deve tendere all’effettività della tutela. III. Le fonti del diritto processuale civile. Il diritto processuale civile è regolato principalmente dal codice di procedura civile, approvato il 28 ottobre 1940 ed entrato in vigore il 21 aprile 1942. Il codice consta di quattro libri, dedicati rispettivamente alle disposizioni generali, al processo di cognizione,

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Capitolo I

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al processo di esecuzione e ai procedimenti speciali. Vi rientrano anche le disposizioni di attuazione, spesso rilevanti per il funzionamento pratico dell’attività giudiziaria. Frutto di un ampio lavoro, il codice del 1940-42 era un testo molto organico e si lasciava alle spalle l’esperienza del codice liberale del 1865 e delle molte novellazioni successive. La compattezza del codice ebbe però breve durata. La prima importante legge di modifica è quella del 14 luglio 1950, n. 581. Hanno fatto poi seguito molti interventi, fra cui si possono ricordare la riforma del processo del lavoro (l. n. 533 del 1973), le due novelle in tema di arbitrato (1983 e 1994), la legge di riforma del diritto internazionale processuale (l. n. 218 del 1995), il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, in tema di lavoro e pubblico impiego. Naturalmente, non poche sono state le ricadute sul tessuto del codice delle norme della Costituzione. Tuttavia, va detto che la carta fondamentale della Repubblica non ha stravolto, ma solo ritoccato (attraverso le sentenze della Corte costituzionale) la struttura del codice. Un’importante revisione del codice fu quella apportata con la l. n. 353 del 26 novembre 1990, entrata in vigore, dopo numerose modifiche e un travagliato iter legislativo, nel 1995. La novella del 1990-95 cercò di rispondere alla più rilevante delle sfide attuali del processo civile, vale a dire i tempi eccessivamente lunghi che rischiano di vanificare l’effettività della tutela. L’esito non del tutto soddisfacente di questa riforma condusse ad una successione, sempre più fitta, di interventi legislativi. Il d.lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003 introdusse uno specifico rito per le controversie in materia societaria. Il biennio 2005-2006 diede luogo ad un’ampia novellazione, sotto la parola d’ordine della competitività: la l. 14 maggio 2005, n. 80, la l. n. 263 del 28 dicembre 2005 e la l. n. 52 del 24 febbraio 2006. Il d.lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006 attuò la delega contenuta nella l. n. 80, dettando disposizioni di riforma del procedimento dinanzi alla Cassazione e dell’arbitrato. Dopo le ulteriori modifiche apportate dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge con la l. n. 133 del 6 agosto 2008, ecco la n. 69 del 18 giugno 2009, che, da un lato, innovò il codice e, dall’altro lato,

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La struttura fondamentale del processo

delegò il governo a riformare i processi speciali e regolare la disciplina della mediazione. Questa legge ritornò indietro su alcune importanti scelte attuate negli anni precedenti: in specie, fu abolito il processo societario, prendendo atto del suo insuccesso pratico. Nel 2010 si registrarono alcune modifiche al codice introdotte con la l. 22 febbraio 2010, n. 24; il d.lgs. n. 4 marzo 2010, n. 28, sulla mediazione e conciliazione nelle controversie civili e commerciali; la l. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. collegato lavoro) che ha innovato la materia della conciliazione e dell’arbitrato nelle controversie di lavoro. Il d.lgs. n. 150 del 1° settembre 2011, relativo alla riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, costituì l’ultima fase di attuazione della riforma del 2009. Negli anni fra il 2011 e il 2018 si è succeduta una pioggia di leggi, che hanno toccato vari aspetti del processo civile. È il caso di notare, sotto il profilo della tecnica legislativa, che spesso si è scelta la strada di un decreto legge (peraltro, senza le condizioni di urgenza prescritte dalla Costituzione), che viene poi convertito in legge con modificazioni. Si farà riferimento a queste novelle nel corso della trattazione: ricordiamo qui soprattutto la l. 7 agosto 2012, n. 134, con importanti modifiche al sistema delle impugnazioni; la l. 27 febbraio 2015, n. 18, in tema di responsabilità civile dei giudici; la l. n. 132 del 6 agosto 2015, in tema di processo esecutivo; la l. 25 ottobre 2016, n. 197, che, nel convertire in legge il d.l. n. 168 del 31 agosto 2016, ha introdotto rilevanti disposizioni in tema di giudizio dinanzi alla Cassazione. Nello scorcio iniziale della XVIII legislatura, si devono segnalare la l. n. 12 dell’11 febbraio 2019, che ha convertito con modificazioni il d.l. n. 135 del 14 dicembre 2018, con interventi sul processo di esecuzione forzata per espropriazione e soprattutto la l. n. 31 del 12 aprile 2019, contenente le nuove norme sull’azione di classe. Alcune di queste norme appena introdotte sono state variate dalla l. n. 8 del 28 febbraio 2020, che ha convertito il d.l. n. 162 del 30 dicembre 2019 (c.d. milleproroghe). Vi è stata, in sostanza, una rincorsa a numerose misure, volte, negli auspici, a migliorare l’efficienza della giustizia civile per restituire credibilità al sistema paese sui mercati internazionali. Se già in precedenza era difficile scorgere una ragionevole strategia, ancora

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Capitolo I

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più arduo lo è divenuto nella fase a noi più vicina, a motivo che la valutazione di positività degli interventi è nei fatti rimessa alle strutture della finanza globale, che premiano o puniscono il legislatore interno con punti di rating o con modifiche della classifica del doing business. Non a caso, più volte la mancanza di una visione d’insieme ha portato all’introduzione e alla successiva rapidissima abrogazione di varie norme. Da ultimo, nel dicembre 2019 l’esecutivo ha varato un disegno di legge delega di ampia riforma di vari aspetti del processo civile. Mentre questo volume va in stampa, il d.d.l. è all’esame del Parlamento: nel corso della trattazione, in una serie di box si darà conto, in modo sintetico, delle principali innovazioni proposte. IV. Le riforme del processo civile fra norme e strut­ ture. Occorre comprendere perché, da molto tempo, si continui ad apportare modifiche al codice di procedura civile. Le riforme del processo civile cercano di fronteggiare la grave situazione della giustizia in Italia, caratterizzata da tempi di decisione troppo lunghi e da inefficacia nelle fasi attuative. È difficile offrire statistiche aggiornate: in ogni caso, un processo ordinario di primo grado dura solitamente alcuni anni; altri anni dura quello di appello e, mediamente, due-tre anni sono occupati dall’eventuale fase di cassazione. È evidente che si tratta di tempi inaccettabili per le dinamiche della società contemporanea. È importante avere chiaro che le regole di procedura hanno un peso percentualmente modesto nel novero delle cause dei disservizi della giustizia. Il problema non è tanto quello di modificare le norme, quanto di incidere sull’organizzazione complessiva della giustizia (troppo contenzioso, troppi avvocati, pochi giudici e per di più male impiegati e male distribuiti sul territorio, mentalità burocratica del personale, carenze strutturali). Sarebbe quindi del tutto incongruo considerare il diritto processuale senza tenere conto del modo di funzionare della macchina amministrativa e delle norme che si riferiscono all’organizzazione

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della giustizia. L’ordinamento giudiziario costituisce, anche sul piano scientifico, una parte fondamentale della disciplina della tutela giurisdizionale. Al riguardo, va ricordato, prima di tutto, il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (ampiamente modificato da leggi successive), espressamente dedicato all’ordinamento giudiziario; la l. n. 247 del 31 dicembre 2012, sull’ordinamento della professione di avvocato (c.d. legge professionale forense), che ha sostituito l’antico r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578; la l. n. 374 del 21 novembre 1991 istitutiva del giudice di pace; il d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, istitutivo del giudice unico in materia civile; il già citato d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, sulla riforma della magistratura onoraria. Di grande rilievo è poi l’impatto della normativa europea, che sta fortemente incidendo sul processo civile: vi si dedicherà ampio spazio. Occorre ricordare, infine, la presenza di importanti convenzioni internazionali (per non citarne che una, quella di New York del 1958 in materia di arbitrato). Le fonti del diritto processuale devono poi ricercarsi anche nel sesto libro del codice civile, dedicato alla tutela dei diritti, che anzi contiene alcune delle norme cardine della materia. È necessario per chi si avvicina allo studio del diritto processuale avere una chiara conoscenza delle regole contenute nel codice di diritto sostanziale. Infine, fenomeno recente è quello dell’inserimento di norme processuali speciali in singole leggi. Dalla centralità del codice, si passa ad una multilateralità di fonti. Va detto, peraltro, che più di una voce si è levata per contrapporre alla molteplicità dei riti un processo tendenzialmente unitario, pur se connotato da forme di flessibilità e di semplificazione. Qualche passo in avanti in questa direzione sembra essere stato compiuto dalla l. n. 69 del 2009, come meglio si vedrà a suo luogo. V. La giurisprudenza e i protocolli. Non solo la legge scritta è, in concreto, fonte del diritto processuale, anche se l’art. 111 cost. prevede che la giurisdizione sia attuata mediante il giusto processo regolato dalla legge. Non diversamente da altri settori del diritto, la materia del processo suppone sempre di più una viva attenzione alla giurisprudenza. Si riprenderà questo

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punto parlando dei principi di diritto e dell’effetto degli orientamenti della Corte di cassazione. Vi è, poi, un fenomeno che difficilmente può essere incluso nel novero delle fonti classiche, ma che sta acquisendo importanza crescente. Si tratta dei protocolli di comportamento fissati in accordo fra gli organi giudiziari e le organizzazioni professionali forensi, con lo scopo di meglio disciplinare aspetti pratici ed organizzativi e di stabilire interpretazioni comuni di determinate norme di legge o di importanti sentenze. Questi testi non hanno valore vincolante, ma vanno segnalati come un significativo sforzo per fare fronte, talvolta con caratteristiche prettamente locali, alla mancanza di coordinamento fra le regole codicistiche e le esigenze concrete dell’applicazione della giustizia. STUDIARE SUL LIBRO O STUDIARE SUL CODICE? È una domanda tanto frequente quanto mal posta. Si studia una materia, denotata da una certa complessità e, specialmente oggi, caratterizzata da una pluralità di fonti. La semplice lettura di un testo normativo (quello che si dice “studiare sul codice”) non permette allo studente di conseguire un’adeguata comprensione. Per questo, vi sono il corso di lezione e i tanti manuali, fra i quali ogni studente sceglierà quello più appropriato, sapendo che le indicazioni date dal docente sono meri suggerimenti, mai vincolanti. Però, il codice (inteso come testo che riporta le varie fonti normative interessate) è indispensabile, perché ci si deve abituare alla sistematica delle norme e a confrontare la sintesi del manuale con l’esatta dizione della norma.

2. I PRINCIPI COSTITUZIONALI ED EUROPEI DEL PROCESSO CIVILE. I. L’art. 24 cost. Il diritto di difesa. La prima ed essenziale fonte da considerare è la Costituzione della Repubblica. Sono numerose le norme che la carta costituzionale dedica al processo civile. In questa sede, ne daremo una rapida sintesi: tutte verranno poi riprese commentando i vari aspetti della materia.

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In primo luogo, leggiamo l’art. 24. “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”. La norma regola il diritto di difesa e di azione e suppone l’accesso alla tutela giurisdizionale, la garanzia del contraddittorio e la parità delle armi nel processo. Sotto il primo profilo, non si tratta soltanto di attribuire a chi ha subito una lesione il diritto di ricorrere al giudice, ma anche di assicurare condizioni che rendano effettivo questo diritto (come, ad esempio, il patrocinio a spese dello Stato). Sul contraddittorio ritorneremo ampiamente. La parità delle armi non significa uguaglianza assoluta di posizioni, ma almeno tendenziale omogeneità della capacità di ogni singola parte di fare valere i suoi diritti. Il contenuto dell’art. 24 incide sulla costituzionalità di taluni procedimenti. La Corte costituzionale ha svolto un ampio ed articolato lavoro, specialmente negli anni Settanta e Ottanta, per verificare la compatibilità costituzionale di varie norme del codice e, soprattutto, di alcuni procedimenti speciali. Con una serie di importanti sentenze, la Consulta ha enucleato un contenuto minimo del diritto di difesa, che si articola nel rispetto del contraddittorio, nella facoltà di dare prova dei fatti, nel diritto ad una difesa tecnica e nel potere di proporre impugnazioni. II. L’art. 111 cost. Il giusto processo. La ragionevole durata. L’art. 24 era già stato reso oggetto di molte pronunce interpretative della Corte costituzionale, quando (con la l. cost. n. 2 del 23 novembre 1999) è stato introdotto un nuovo testo dell’art. 111. Secondo il comma 1° dell’art. 111 cost., la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. La nozione di giusto processo non sembra innovativa rispetto a quanto già in vigore nel nostro ordinamento, anche per effetto dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Anche

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la riserva di legge, indicata dalla norma, non esclude né forme di elasticità processuale, né l’apporto giurisprudenziale. D’altra parte, il riferimento al giusto processo sta diventando una componente essenziale della produzione sia giurisprudenziale che normativa (si pensi all’art. 360-bis c.p.c. sui requisiti per l’ammissibilità del ricorso in cassazione, che sarà esaminato a suo luogo). Quindi, si tratta di indicarne, per quanto possibile, una dimensione positiva. Collegato al generale aspetto del diritto di difesa, il concetto di giusto processo sembra alludere ad una corretta modalità di svolgimento della procedura, tale per cui nessuna delle due parti abbia visto comprimere le proprie facoltà difensive, al punto da ipotizzare che, se queste fossero state rispettate, il processo avrebbe avuto un esito diverso. Viene in gioco, ancora una volta, l’idea del processo come strumento. Da un lato, si cerca di ridurre, se non di eliminare, lo spazio delle situazioni in cui una parte perda un diritto sostanziale per un errore di procedura; dall’altro, si toglie importanza alle irregolarità processuali, qualora non abbiano inciso effettivamente sull’esito della decisione del giudice. Il comma 2° dell’art. 111 afferma che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. In una certa misura, le affermazioni di questo comma 2° sono comprese nella lettura dell’art. 24, come effettuata dalla Corte costituzionale. Di maggiore impatto è, invece, il profilo della ragionevole durata, che eleva al piano costituzionale il criterio di un’estensione temporale del processo che non ne pregiudichi l’effettività. Le norme processuali devono quindi essere interpretate in questa ottica. Entra in gioco un importante criterio interpretativo, non esclusivo, ma certamente tipico del diritto processuale. Le norme devono essere lette, in caso di dubbio, secondo un senso che dia luogo ad un miglioramento complessivo del sistema giustizia e non ad un suo appesantimento. Infatti, la ragionevole durata non va riferita soltanto al singolo processo e, quindi, all’interesse del singolo ad ottenere una pronuncia senza attendere anni: questo aspetto è certamente rilevante (tanto che genera i profili di indennizzo

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a carico dello Stato, regolati dalla c.d. legge Pinto), ma non è l’unico, né il principale. La ragionevole durata significa soprattutto equilibrio fra le risorse complessive del sistema, che non permette di sprecare la giurisdizione, e il tempo che può essere dedicato ad un singolo giudizio. Le ricadute sono notevoli e si avrà modo, nel corso dello studio della materia, di metterne in luce alcune. Per ora, è bene segnalare che la ragionevole durata si pone quindi alla stregua di un orientamento ermeneutico di rilevanza costituzionale. La riaffermazione del principio del contraddittorio, della parità fra le parti e della terzietà e imparzialità del giudice indica, in qualche modo, il nocciolo duro ed essenziale di ogni processo civile. Le regole di dettaglio possono variare, ma non si ha processo autentico senza il rispetto di queste condizioni fondamentali. Per il momento, basti enunciarle: saranno poi approfondite a suo luogo. Ancora, si tratta di stabilire se, fra i principi fondamentali del processo, vi sia una gerarchia. Il problema si pone, soprattutto, nel rapporto fra il giusto processo e il diritto di difesa, da un lato, e la ragionevole durata, dall’altro. La ragionevole durata è, in qualche modo, un contenuto del giusto processo, nel senso che non è giusto un processo che non ottenga il suo esito in tempi ragionevoli; tuttavia, la necessità di fare presto non può giungere fino al punto da ledere il cuore stesso della tutela. Le garanzie del giusto processo, insomma, rappresentano un vertice non negoziabile. Al riguardo, va detto che se si ammette che ragionevole durata e diritto di difesa siano due concetti omologhi ma opposti, predicabili in modo uguale rispetto al singolo processo, si corre il serio rischio di non raggiungere alcuna soluzione soddisfacente e di praticare il gioco della torre. Infatti, ogni espressione difensiva comporta un allungamento dei tempi di decisione e ogni sforzo di sintesi del giudice suppone una restrizione delle attività difensive delle parti e un impoverimento delle loro posizioni. Partendo da questa premessa, si deve finire per concludere che, comunque, il giusto processo e il diritto di difesa prevalgono e che, in qualche modo, la ragionevole durata è un principio di rango inferiore.

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Ora, un discorso diverso si può fare, se si ritiene che ragionevole durata e diritto di difesa non siano nozioni omologhe, ma siano (almeno prevalentemente) predicabili, quanto alla prima, rispetto al sistema nel suo complesso e, quanto al secondo, rispetto ad un dato processo concreto. Infatti, la nozione di ragionevole durata non va intesa solo come semplice misurazione temporale della lunghezza dei processi, ma anche (e forse soprattutto) come ragionevole impiego di risorse in relazione a quel processo. Ed è in questa chiave che si deve compiere il lavoro, certo imprescindibile, di rilettura delle norme del codice alla luce del precetto di cui all’art. 111, comma 2°, cost. Ne segue che il discrimine per una più o meno intensa applicazione del principio della ragionevole durata, in rapporto al diritto di difesa, va collocato in relazione al piano del maggiore o minore impiego di risorse giudiziarie che ne viene in gioco. In realtà, il principio di ragionevole durata (inteso come ragionevole impiego di una quota di risorse giurisdizionali adeguata rispetto ad un dato processo) non è mai in contrasto con il ragionevole esercizio del diritto di difesa. Se si guardano le situazioni normative in cui, negli anni recenti, si è manifestata in modo più acuto una tensione fra esigenze della difesa ed esigenze della durata e dell’efficacia, ci si rende conto che vi sono casi in cui il principio di ragionevole durata si scontra con un esercizio non ragionevole ed abusivo del diritto di difesa, e deve quindi prevalere, ma senza nessun vero vulnus alle aspettative della tutela; che ve ne sono altri in cui, invece, non è lecita alcuna compressione dell’attività difensiva, seppure collegata ad un possibile ritardo nell’emanazione della decisione, perché non ne viene in gioco alcun aggravio di risorse per il sistema; che, infine, vi sono casi in cui il ragionevole impiego delle risorse e il ragionevole esercizio del diritto di difesa convergono nell’imporre soluzioni concordanti. Nell’esposizione della materia si daranno gli opportuni esempi a questo proposito. L’art. 111 contiene altri due commi importanti per la nostra materia. Secondo il comma 6°, tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Il comma 7° precisa che contro le sen-

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tenze (e i provvedimenti sulla libertà personale) è sempre possibile il ricorso (c.d. straordinario) in cassazione per violazione di legge. La portata concreta di questa norma è ora ampliata dopo la riforma del 2006. III. Altre norme costituzionali. L’art. 113 fonda il principio della tutela ordinaria contro la p.a. La carta repubblicana vuole intendere, con questo, due concetti essenziali. Il primo è che il cittadino ha il diritto di difendersi, dinanzi allo Stato-giurisdizione, contro lo Stato-amministrazione (il che oggi è pacifico, ma pur sempre frutto di una lenta conquista storica). Il secondo è che lo Stato-amministrazione non ha, a priori, un giudice speciale per le sue controversie, ma è sottoposto alle regole comuni. Di fatto, la ripartizione della giurisdizione e l’esistenza di speciali giurisdizioni amministrativa e contabile individuano un percorso del tutto particolare per lo Stato che si deve difendere in giudizio. Più appropriato sarebbe andare nella direzione di una tutela globale di diritti ed interessi legittimi (vale a dire, verso la giurisdizione unica). La Costituzione è particolarmente attenta a garantire l’indipendenza dei giudici, con disposizioni che ovviamente si estendono oltre il processo civile. Al riguardo, si devono menzionare in particolare gli artt. 101, 104, comma 1°, e 108, comma 2°, cost. Un ruolo fondamentale spetta in questo senso al Consiglio superiore della magistratura (di seguito, Csm), organo di autogoverno del giudiziario italiano. Su queste norme, tutte visibilmente collegate all’art. 111, comma 2°, si ritornerà parlando di ordinamento giudiziario, di rapporto fra legge e giurisprudenza e di imparzialità. IV. Le fonti di diritto dell’Unione europea. L’inserimento dell’Italia nell’Unione europea impone anche di considerare l’influenza dell’ordinamento dell’Unione sul diritto processuale civile.

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Il punto fondamentale da sottolineare è che l’ordinamento italiano è distinto, ma non separato da quello europeo, che prevale sul nostro, in forza dei trattati europei e in specie, ora, del trattato sull’Unione europea (Tue) e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) e del rinvio operato dall’art. 11 cost. Pertanto, le fonti europee hanno efficacia immediata (ovviamente, secondo modalità diverse, se si tratta di regolamenti, direttive, sentenze dei giudici di Lussemburgo e via discorrendo). L’art. 81 Tfue promuove la progressiva compatibilità fra gli ordinamenti processuali nell’Unione europea. Si leggano i primi due paragrafi della norma. “1. L’Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie e extragiudiziali. Tale cooperazione può includere l’adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. 2. Ai fini del paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano in particolare se necessario al buon funzionamento del mercato interno, misure volte a garantire: a) il riconoscimento reciproco tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali e la loro esecuzione; b) la notificazione transnazionale degli atti giudiziari ed extragiudiziali; c) la compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di giurisdizione; d) la cooperazione nell’assunzione dei mezzi di prova; e) un accesso effettivo alla giustizia; f ) l’eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario promuovendo la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri; g) lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie; h) un sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari”. In attuazione di questo intervento positivo dell’Unione europea, che fonda una vera e propria politica sul diritto processuale, sono stati emanati finora vari regolamenti che toccano direttamente, in determinati settori, la nostra materia (1215/12 sulla competenza giurisdizionale e il riconoscimento e l’esecutorietà delle decisioni in materia civile e commerciale; 2201/03

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e oggi 1111/19 sulla competenza, il riconoscimento e l’esecutorietà delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale, nonché sulla sottrazione internazionale di minori; 1393/07 sulle notificazioni negli altri paesi dell’Unione; 1206/01 sull’assunzione delle prove civili; 805/04 sul titolo esecutivo europeo in materia di crediti non contestati; 1896/06 e 2421/15 sul procedimento di ingiunzione europea; 861/07 e 2421/15 sul procedimento per le controversie di modesta entità; 4/09 sulla competenza in materia di obbligazioni alimentari; 650/12 sulla competenza, la legge applicabile e il riconoscimento delle decisioni in materia di successioni; 655/14 sul sequestro conservativo dei conti correnti bancari). In base all’art. 4 Tfue, la materia della cooperazione giudiziaria civile è inclusa fra i settori di competenza concorrente dell’Unione e degli Stati nazionali. Questo razionalizza le acquisizioni già ottenute, senza però risolvere il problema di quali settori dovranno essere oggetto della legislazione quadro dell’Unione e quali, invece, rimanere di prerogativa statuale. Ancora due brevi annotazioni. Nel rapporto fra norme europee e diritti nazionali vige la regola dell’autonomia procedurale. Autonomia procedurale significa che, da un lato, sussiste piena libertà per i legislatori interni di modellare come meglio credono le regole di procedura civile e, a maggior ragione, i rispettivi ordinamenti giudiziari. Tuttavia, questa autonomia deve tenere conto della supremazia del diritto europeo e, quindi, deve essere strutturata in modo tale da assicurare, almeno per i diritti che discendono dal sistema europeo, una tutela effettiva ed adeguata. Il concetto di tutela effettiva ed adeguata comporta che le norme nazionali non possono rendere eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti discendenti dall’ordinamento dell’Unione europea e in ogni caso devono assicurare a questi diritti una tutela non inferiore a quella prevista per le situazioni di mero diritto interno. Ne segue che le norme nazionali vanno sottoposte ad un test di compatibilità con lo standard europeo minimo di tutela e devono rispettare i criteri europei di equivalenza ed effettività. Inoltre, va tenuto in considerazione il rilevante impatto delle

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sentenze della Corte di giustizia, che sono fonte del diritto processuale anche interno. Al riguardo, è opportuno ricordare che la Corte di giustizia è l’organo posto al vertice del giudiziario europeo e ha compiti interpretativi di enorme rilievo. Ancora, è bene distinguere per chiarezza fra le norme che regolano il giudizio dinanzi agli organi giurisdizionali dell’Unione europea di Lussemburgo (che si possono considerare il diritto processuale europeo in senso stretto) e le norme di fonte europea che disciplinano segmenti del processo civile e sono immediatamente applicabili nei singoli ordinamenti nazionali. In queste pagine, si farà normalmente riferimento a questo secondo significato più ampio. Ora, la materia processuale di derivazione europea va inserita come contenuto non marginale ed episodico, ma sempre più centrale dell’insegnamento del diritto processuale civile. Infatti, quando si parla del diritto europeo come contenuto di un moderno studio del diritto processuale, non ci si riferisce tanto ai profili strettamente applicativi, ma al modo di essere di un diritto che si muove su tre direttrici: i grandi principi e i valori di fondo; norme a carattere regolamentare, che dettano una disciplina hic et nunc; la giurisprudenza che colma le lacune, che integra il sistema, che promuove lo sviluppo dell’ordinamento. Così opera il diritto dell’Unione europea e così, a poco a poco, senza che il cambiamento venga proclamato a gran voce, si stanno evolvendo i diritti nazionali, incluso quello italiano e compresa la materia del processo civile. Ci si può limitare qui a questo riferimento schematico, perché le fonti europee saranno riprese durante l’esposizione della materia, con gli opportuni coordinamenti. V. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Una fonte importante è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito, Cedu), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata

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dall’Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848. Si tratta di un testo vincolante, non solo perché frutto di un accordo internazionale, ma anche perché richiamato dal trattato dell’Unione europea, come modificato dopo il trattato di Lisbona del 2007. Infatti, secondo l’art. 6 Tue, l’Unione aderisce alla Cedu, secondo le indicazioni contenute nel protocollo allegato n. 8. Inoltre, si dichiara che i diritti fondamentali, garantiti dalla Cedu e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Secondo l’art. 6 Cedu, ogni persona ha diritto che la sua causa sia trattata in modo equo, da un tribunale indipendente ed imparziale, stabilito per legge, e in un termine ragionevole. A lungo, l’art. 6 è rimasto l’unica fonte normativa ad occuparsi della questione e la relativa applicazione è stata demandata alla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, istituita in base all’art. 19 Cedu. Le statuizioni della Corte europea sono vincolanti per il giudice nazionale. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha contribuito, nel corso degli anni, alla formazione di una sensibilità più accentuata verso i tre grandi temi dell’art. 6 (e quindi, il giusto processo, l’imparzialità dei giudici e la ragionevole durata), che oggi, come si è visto, fanno parte delle regole costituzionali interne. Si deve aggiungere che il 7 dicembre 2000 l’Unione europea varò a Nizza la propria Carta dei diritti fondamentali, non identica alla Convenzione del 1950, ma in gran parte allineata sui medesimi contenuti. L’art. 47 della Carta europea ribadisce le prescrizioni dell’art. 6 Cedu. Con il trattato di Lisbona, la Carta (con una formulazione lievemente diversa da quella originaria) è stata nuovamente adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L’art. 6 Tue, ora, le riconosce il medesimo valore giuridico dei trattati, con la conseguenza che i principi contenuti nella Carta sono suscettibili di immediata applicazione in sede giurisdizionale. Come si vede, le regole europee e quelle costituzionali, seppure non identiche e governate da un complesso sistema di fonti, convergono verso i medesimi obiettivi.

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3. LA NOZIONE DI GIURISDIZIONE. I. Le norme costituzionali sulla giurisdizione. È utile, per una migliore comprensione del processo, fissare uno schema molto semplificato, che vede due parti, portatrici di interessi contrapposti, sottoporre la loro controversia al giudice. Alcuni argomenti verranno quindi a concentrarsi sulla figura e i poteri del terzo imparziale chiamato a decidere la lite: il giudice. La prima nozione che si incontra è quella di giurisdizione. Giurisdizione, prima di tutto, significa potere di decidere una controversia. Questo potere appartiene, in ogni ordinamento, alla comunità politica organizzata. Da oltre due secoli, in Occidente il potere giurisdizionale è un potere dello Stato, ma distinto dal potere esecutivo e da quello legislativo. Il potere giurisdizionale è in grado di controllare l’esecutivo e di vigilare sull’applicazione delle statuizioni del legislativo. La sfida che il mugnaio dell’aneddoto avrebbe rivolto a Federico II, re di Prussia (…c’è un giudice a Berlino!), è un simbolo plastico del costante rapporto di tensione fra il cittadino e il potere. Le moderne costituzioni democratiche attribuiscono al cittadino una piena tutela dei diritti e, per converso, attribuiscono ad un autonomo segmento dell’organizzazione dello Stato, quello giurisdizionale, il compito di risolvere i conflitti ed applicare la legge nei confronti di ogni altro soggetto dell’ordinamento, Stato-amministrazione incluso. Le norme che vengono in gioco sono gli artt. 101 e 102 cost. e l’art. 1 c.p.c. L’art. 101 cost. ricorda che la giustizia è amministrata in nome del popolo e che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. L’art. 102, comma 1°, cost., precisa che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Infine, l’art. 1 c.p.c. ribadisce che la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del codice di rito.

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La struttura fondamentale del processo

Il legame istituito dalla carta fondamentale fra principio democratico ed esercizio della funzione giurisdizionale è nitido. Il potere appartiene al popolo, che lo esercita eleggendo il Parlamento, che detiene il potere legislativo. I giudici operano in nome del popolo, applicando la legge voluta (seppure nelle forme della democrazia indiretta) dal popolo. Da un lato, il giudice non è soggetto ad alcun potere: la sua indipendenza (su cui si ritornerà), specialmente dall’esecutivo, è uno dei cardini della struttura costituzionale. Dall’altro lato, non è di minore importanza il precetto per cui il giudice è soggetto alla legge: la giurisdizione esercita la sua funzione applicando le norme, e non modificandole o piegandole a finalità politiche. Sono due dati semplici, ma che talora è comodo dimenticare. II. Il fine della giurisdizione. Ci si deve domandare perché il giudice ha il potere di decidere; ovvero, qual è il fine della giurisdizione. Le risposte sono diverse e tutte contengono qualche elemento di verità. Si può dire, prima di tutto, che la giurisdizione ha lo scopo oggettivo di attuare i precetti dell’ordinamento. Il potere giudiziario è visto, in questo senso, come la cinghia di trasmissione dell’ordinamento, che ha uno specifico interesse a vedere regolate dalle sue norme (e quindi dai suoi valori, civili e politici) le controversie fra i propri cittadini. Confliggono con questa ipotesi la facoltà delle parti di scegliere un giudice o un arbitro stranieri che non applicano il diritto italiano (come previsto dall’art. 4 l. 218/95) e la possibilità che il processo si estingua senza una sentenza. Non sempre, quindi, l’esercizio della giurisdizione è in grado di pervenire al suo scopo oggettivo. Si può poi vedere la giurisdizione come modo di risoluzione dei conflitti e di garanzia della pace sociale. In realtà, la decisione giurisdizionale può risolvere la lite, ma non sempre elimina, anzi talora accresce, il conflitto. Se una sentenza giuridicamente corretta apre, di fatto, la via ad altre liti, la finalità pacificatoria risulta vanificata. Ancora, si può affermare che scopo della giurisdizione è quello di reintegrare le posizioni soggettive lese. Questa lettura è forse la più conforme all’art. 24 cost., ma si scontra con le molteplici forme di

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inefficacia o mancata attuazione pratica delle misure giurisdizionali. Quando il processo non ottiene l’esito di ricostruire pienamente il patrimonio giuridico di chi ha domandato tutela, si deve ammettere che la giurisdizione ha fallito. Come si vede, identificare la finalità della giurisdizione esclusivamente con questo o quello degli obiettivi segnalati porta a risultati non esaustivi. È preferibile affermare che la giurisdizione, e quindi il potere decisorio che lo Stato affida al giudice, ha una pluralità di scopi, alcuni dei quali vengono in ogni caso realizzati. Un più moderno approccio al problema vede poi un significato nuovo della giurisdizione. Essenzialmente, la funzione giurisdizionale diventa la prestazione di un servizio pubblico, con il contenuto di risolvere controversie, applicando (ma solo normalmente) la legge italiana, a favore, in alcune materie, obbligatoriamente di tutti i consociati e, in altre, di coloro che liberamente se ne vogliano avvalere. Se la giurisdizione civile non è strutturalmente destinata a garantire la giuridicità dell’ordinamento italiano, essa può venire paragonata ad uno dei tanti servizi (ad esempio, aeroportuali) che lo Stato appresta, indifferentemente, a favore di cittadini e non. Così, la giurisdizione deve essere valutata anche in rapporto all’efficienza dei suoi risultati. In ogni caso, è certo che l’attività giurisdizionale ha carattere strumentale e sostitutivo. Il fine della giurisdizione non è quello di realizzarsi, ma quello di raggiungere uno scopo che è al di fuori di essa: come il processo è uno strumento, la giurisdizione è un potere strumentale. Questo punto va esaminato con attenzione, perché riguarda il senso stesso del processo civile. Dire che il processo è uno strumento significa affermare che la finalità del processo e della giurisdizione civile consiste nella realizzazione di obiettivi di giustizia sostanziale. Se un processo si conclude con un esito che si arresta alla semplice affermazione di un profilo processuale, la giustizia sostanziale non è perseguita, anche se quella sentenza è corretta. La giurisdizione, poi, ha carattere sostitutivo. Normalmente, i precetti dell’ordinamento vengono adempiuti: occorre avere chiaro che la vita sociale si fonda essenzialmente su comportamenti delle persone che vengono accettati dagli altri, anche a prescindere dalla scrupolosa osservanza di ogni previsione normativa, e che la contro-

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versia è pur sempre un episodio statisticamente marginale rispetto alla massa dei rapporti giuridici. Quando, tuttavia, ciò non accade e sorge il conflitto, il soggetto leso non può farsi giustizia da solo (il divieto dell’autotutela è un fondamento assoluto di ogni convivenza ordinata), ma deve ricorrere alla giurisdizione che, da un lato, si sostituisce alla vittima nel fare giustizia, e, dall’altro, sostituisce all’adempimento spontaneo quello coattivo. DEALING WITH CASES JUSTLY L’art. 1 del c.p.c. esordisce parlando di giurisdizione. È utile leggere, a confronto con la norma italiana, l’art. 1 delle Civil Procedure Rules inglesi, come introdotto nel 1998 e come successivamente modificato. Secondo la Rule 1(1) delle Civil Procedure Rules, “these Rules are a new procedural code with the overriding objective of enabling the court to deal with cases justly and at proportionate cost. Dealing with a case justly and at proportionate cost includes, so far as is practicable, (a) ensuring that the parties are on equal footing; (b) saving expense; (c) dealing with the case in ways which are proportionate (i) to the amount of money involved; (ii) to the importance of the case; (iii) to the complexity of the issues; and (iv) to the financial position of each party; (d) ensuring that it is dealt with expeditiously and fairly; and (e) allotting to it an appropriate share of the court’s resources, while taking into account the need to allot resources to other cases; and (f) enforcing compliance with rules, practice directions and orders”. La lettura di questo testo, in lingua originale, è particolarmente utile per mettere in luce un modo diverso e flessibile (anche se certo non sempre perfetto) di amministrare la giustizia civile. Soprattutto, però, mette in evidenza il diretto rapporto che sussiste fra il lavoro delle corti e il risultato finale: ciò che, nelle pagine di questo libro, indichiamo come carattere strumentale del processo e della giurisdizione.

III. Giurisdizione, giustizia e verità. La giurisdizione si sforza di risolvere le controversie secondo giustizia e verità, ma non in modo assoluto. L’obiettivo del processo è quello di risolvere le controversie, anche accettando la permanenza di pronunce non conformi al diritto o fondate su falsi presupposti di fatto. Esempio della prima categoria è l’art. 363 c.p.c.; della seconda, l’art. 2738 c.c.

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Secondo la prima norma (che meglio si comprenderà studiando le impugnazioni), quando le parti non hanno proposto ricorso in cassazione nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è rivolta al primo presidente della Cassazione, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione sia di particolare importanza. La pronuncia della Corte – ed è questo l’aspetto che qui interessa – non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito. In altre parole: esiste una sentenza gravemente errata in diritto, il cui errore è stato posto in luce dalla Cassazione, ma che non viene cancellata dall’ordinamento e continua a vincolare le parti. Secondo l’art. 2738 c.c., poi, nel caso che il processo sia stato deciso da un giuramento e, successivamente, una sentenza penale accerti che il giuramento era falso, la decisione contenuta nella sentenza non può essere rivista e la parte lesa può soltanto domandare il risarcimento dei danni. Per quanto qui interessa, l’ordinamento è consapevole che quella decisione è ingiusta, eppure non la rimuove: apre soltanto la strada ad una reintegrazione patrimoniale del danneggiato. La tensione fra le esigenze della verità e quelle della certezza attraversa tutto il diritto processuale. In linea di massima, il sistema si preoccupa in modo basilare della certezza, ma le spinte verso la verità restano presenti e talora, come si vedrà, erompono alla luce. IV. Giurisdizione contenziosa e volontaria. L’attività giurisdizionale è molto diversa a seconda che risolva un conflitto (ed è il suo proprio e specifico compito), ovvero che integri, completi e controlli i poteri mancanti a dati soggetti dell’ordinamento. Nel primo caso si parla di giurisdizione contenziosa; nel secondo, si ha una nozione, in definitiva, spuria, di giurisdizione e si parla di giurisdizione volontaria.

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La giurisdizione volontaria è attività sostanzialmente amministrativa, affidata al giudice per ragioni storiche, ma che potrebbe essere demandata ad uffici pubblici non giurisdizionali. Mentre nella giurisdizione contenziosa vi è una domanda di un soggetto contro un altro soggetto, nella giurisdizione volontaria vi è un solo interesse che il giudice è chiamato a proteggere. Si pensi, ad esempio, all’art. 320, comma 3°, c.c.: i genitori non possono alienare o ipotecare i beni immobili pervenuti al figlio minore a qualsiasi titolo, né compiere altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, se non dopo autorizzazione del giudice tutelare. I genitori che ricorrono al giudice non vogliono una condanna nei confronti di qualcuno, ma solo ottenere il permesso di compiere un atto a vantaggio del figlio; l’interesse è solo quello del minore, e ciò anche qualora vi fosse un contrasto di opinioni circa la migliore gestione del bene. Mentre, poi, la giurisdizione contenziosa, nel suo profilo di cognizione, tende essenzialmente ad un accertamento, la giurisdizione volontaria contribuisce soprattutto a costituire rapporti: l’autorizzazione del giudice tutelare, nell’esempio che si è proposto, è un elemento che forma la fattispecie dell’alienazione del bene immobile. L’accertamento si muove verso una dimensione di stabilità, che si realizza pienamente nel giudicato, mentre la giurisdizione volontaria dà vita ad un provvedimento dato in relazione allo stato delle cose (rebus sic stantibus), che non dà luogo a giudicato e che, come ogni atto amministrativo, è revocabile e modificabile. Nelle pagine che seguono, ci occuperemo sostanzialmente solo dell’altra nozione, quella di giurisdizione contenziosa.

4. LA STRUTTURA DELLA GIURISDIZIONE CON­ TENZIOSA. I. La giurisdizione di cognizione. La giurisdizione contenziosa comporta una triplice articolazione, a seconda della struttura intrinseca dell’attività espletata. Si parla di giurisdizione di cognizione, esecutiva e cautelare.

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La giurisdizione di cognizione tende ad affermare un giudizio di conformità del fatto concreto rispetto alla fattispecie legale astratta. Il giudizio è un’attività della mente umana, che si compie comunemente e che porta a confrontare un dato di esperienza con un canone valutativo: si pensi ad un giudizio morale, estetico, pratico. Qui il canone è la norma e il giudizio ha carattere giuridico. Questo giudizio prende il nome di accertamento. Attraverso il meccanismo dialettico dei contributi contrapposti delle parti (in contraddittorio), il terzo imparziale dotato di potere giurisdizionale (giudice) determina (“accerta”) i rapporti fra le parti. Questo accertamento (il riferimento semantico è alla “certezza”) ha tendenzialmente efficacia stabile: si ha il c.d. giudicato sostanziale. Nella controversia giudiziaria, ciascuna delle parti propone al terzo che giudica una propria visione della vicenda: afferma l’esistenza di determinati fatti e a questi fatti offre una determinata valutazione in diritto. Queste ricostruzioni sono, in tutto o in parte, necessariamente confliggenti, visto che, se non lo fossero, non vi sarebbe lite. Ora, l’ordinamento risolve quel caso nell’ambito di una previsione normativa generale e astratta: occorre verificare (cioè, accertare) come quella lite concreta e determinata si inquadra all’interno della fattispecie prevista dalla norma. È importante comprendere che, mentre per il diritto sostanziale il fatto è dato, nel senso che si configura una fattispecie concreta e ad essa si applica la norma, per il diritto processuale il fatto va indagato e ricostruito. Compito del giudice è stabilire che cosa è accaduto e poi applicare la norma adeguata. Un esempio. Secondo l’art. 2377 c.c. sono impugnabili, in presenza di determinati requisiti, le delibere di assemblee di società per azioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto. Se l’attore A impugna la delibera della società B, occorre verificare (e cioè accertare) se veramente quella delibera concreta comporta la violazione del parametro normativo lamentata dall’attore. Questa verifica non è compiuta in modo, per così dire, unilaterale da un organo a ciò incaricato, ma è effettuata da un terzo imparziale, il giudice, nel confronto fra le parti (in contraddittorio), sulla base di regole precise. Studiare queste regole è compito del diritto processuale civile.

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L’attività del giudice di cognizione è, in sé, un’attività intellettuale, che porta all’emanazione di un giudizio. Il giudizio è il risultato di un confronto fra la fattispecie concreta, individuata dalle contrapposte posizioni delle parti, e il dato normativo. Il giudizio del giudice non è, in sé, diverso dal giudizio che potrebbe fare uno studioso o qualunque terzo, a cui fosse sottoposta la questione; è diverso per la diversa forza che l’ordinamento gli attribuisce. Il giudizio del giudice (e solo quello del giudice) costituisce l’accertamento: è la verità legale su quella controversia. Il risultato del giudizio, compiuto da chi è incaricato dalla legge di compierlo, dà quindi luogo a precisi effetti di legge. Esso stabilisce (ancora una volta, cioè, accerta) come la regola generale ed astratta si traduce in quel caso concreto: dà quindi vita a ciò che chiamiamo accertamento e che costituisce l’oggetto proprio del processo di cognizione. L’accertamento, frutto della giurisdizione di cognizione, ha già funzione sostitutiva: si sa, è certo che i rapporti fra le parti sono configurati in un determinato modo. Si supera la precedente incertezza, dovuta al confrontarsi delle distinte posizioni delle parti. L’accertamento (e lo si vedrà meglio più avanti) può semplicemente chiarire una situazione incerta, può comportare una modifica all’ordinamento, oppure può dare luogo ad una condanna, nei confronti di un soggetto dell’ordinamento, a tenere un dato comportamento in conformità alla decisione del giudice (e quindi, a un dare, a un fare o a un non fare). II. La giurisdizione esecutiva. Tuttavia, in molte situazioni l’accertamento non basta, perché l’inadempimento della parte soccombente perdura. Ecco allora la giurisdizione esecutiva, che ha di mira non un accertamento (che c’è già), ma la realizzazione materiale dell’accertamento e dei comandi ad esso inerenti, attraverso il superamento degli ostacoli che vi si frappongono. Mentre nella giurisdizione di cognizione l’aspetto essenziale è un giudizio, nella giurisdizione di esecuzione si parla di cose, di ri-

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sultati materiali, di modifica della realtà fisica. La cognizione si può svolgere in qualunque situazione ed è sempre possibile: ogni controversia legale ha una risposta. L’esecuzione, invece, seppure più semplice da un profilo concettuale, non sempre riesce. Se l’attore A ha ottenuto la condanna di B al pagamento di 100 e B non adempie, si attuerà un procedimento di esecuzione forzata: ma non è detto che nel patrimonio di B si trovi la somma di 100 o comunque beni che abbiano quel valore. La giurisdizione esecutiva suppone l’uso della coazione ed è più collegata all’ordinamento di riferimento, di quanto non sia la giurisdizione di cognizione. Infatti, mentre la giurisdizione di cognizione può facilmente essere delocalizzata, quella di esecuzione è condizionata al luogo in cui si trovano le cose, i beni, ai quali si riferisce. Se A ha una controversia con B, cittadino giapponese e che possiede beni solo in Giappone, può ottenere una sentenza di cognizione che condanni B a pagarlo da un giudice italiano, o, per accordi in precedenza stipulati dalle parti, da un giudice di un paese terzo o da un arbitro che pronuncia il lodo in qualsiasi parte del mondo. Se, però, B, pur condannato, non adempie, l’attività di esecuzione forzata potrà essere compiuta solo dall’autorità giurisdizionale giapponese. Anche nella giurisdizione esecutiva non manca l’imparzialità: il giudice è terzo fra la pretesa esecutiva (data e preesistente) e la sua realizzazione concreta, che deve andare non oltre il livello dell’accertamento. Qui il problema sta nel rapporto fra il giudizio-accertamento e la realtà materiale su cui il giudizio-accertamento incide. Il giudice accoglie la domanda di A e ordina a B di demolire parzialmente un muro, riducendone l’altezza di un metro. Occorre fare in modo che il muro sia demolito esattamente in conformità a quanto risulta nell’accertamento e nella conseguente condanna: né più, né meno di un metro. Ora, questo compito di verifica è demandato (nel sistema italiano) al giudice. III. La giurisdizione cautelare. La necessità di assicurare la permanenza di situazioni materiali che rendano possibile l’effettiva realizzazione di un futuro accer-

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tamento e/o di una futura coazione sta alla base della giurisdizione cautelare. Qui la giurisdizione assume un aspetto ancora più strumentale (facendosi, per così dire, strumento dello strumento): i suoi risultati, che sono conservativi ed assicurativi, sono finalizzati a garantire l’effettività della tutela di cognizione ed esecuzione e hanno sempre natura provvisoria, destinati come sono ad essere superati dall’esito finale dell’attività giurisdizionale. Provvisorietà e strumentalità, dunque, sono le caratteristiche essenziali di questa forma di attività giurisdizionale. Un esempio può servire a chiarimento. Il creditore A chiede la condanna di B al pagamento del dovuto. Apprende poi che B, per sottrarsi al suo obbligo, sta per vendere i beni su cui, all’esito del giudizio di accertamento, A potrà soddisfarsi. Ecco allora che A può chiedere al giudice il sequestro di quei beni, non per incamerarli, ma perché restino sotto il controllo giudiziario per il tempo necessario a verificare l’esistenza del credito e ad attuare l’esecuzione forzata. La tutela cautelare costituisce oggi un’esigenza ineludibile: si tratta di poter consentire a chi ne ha diritto una protezione per il periodo necessario a conseguire l’accertamento pieno. In una società caratterizzata da tempi sempre più rapidi nell’instaurazione e nella modificazione dei rapporti e da uno squilibrio costante rispetto ai tempi di realizzazione della giustizia, è facile comprendere la necessità di disporre di questo tipo di rimedio. Accanto alla tutela cautelare in senso stretto, va ricordata la tutela c.d. anticipatoria. Essa ha natura provvisoria, nel senso che precede un completo accertamento di merito, ma contenuto non necessariamente strumentale, a motivo che realizza già, in anticipo, un risultato equivalente a quello definitivo. È utile rilevare che la tendenza più recente va nel senso di potenziare le forme di attività giurisdizionale che conseguono un risultato pratico vantaggioso per la parte, ma senza necessariamente arrivare alla pienezza del giudicato. Così, sono apparse norme che tendono a rendere stabili misure anticipatorie, che mantengono la loro efficacia pratica, pur senza acquisire forza di giudicato (ad esempio, l’art. 669-octies c.p.c.).

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Iv. Il giudice e l’intelligenza artificiale. Il progresso della tecnologia e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale pongono agli studiosi un’importante questione: se, cioè, si possa immaginare che la persona del giudice sia sostituita, in tutto o in parte, da una macchina. Ci si chiede se, in un prossimo futuro, quel compito di emettere un giudizio e di assumere una decisione, che costituisce il cuore della funzione giurisdizionale, possa essere affidato a un robot. Se (come si è detto e come si vedrà lungo tutta l’esposizione della materia) spetta al giudice accertare i fatti e applicarvi il diritto, nulla sembra impedire che una macchina svolga questa attività sulla base di algoritmi, garantendo, per di più, quella sicura prevedibilità della decisione, che non di rado sfugge al fattore umano. È certamente presto per formulare ipotesi. Fin da ora, l’intelligenza artificiale può essere impiegata utilmente a supporto del lavoro del giudice (si pensi alle banche dati). In taluni ordinamenti europei (è noto il caso dell’Estonia) si sta sperimentando la decisione di casi seriali e di modesto valore a mezzo di macchine, salvo un controllo successivo del giudice. Di qui a dire che la persona fisica del giurista non serva più, la strada è molto lunga e, forse, non potrà mai essere percorsa fino in fondo. Gli algoritmi sono procedimenti che risolvono un problema attraverso un numero finito di passi elementari, chiari e non ambigui: ammesso che ciò possa valere per il diritto, non vale altrettanto per il fatto. In conclusione. Attenendoci sobriamente alla realtà attuale, guardiamo con attenzione al futuro, per coglierne gli sviluppi, che saranno probabilmente più rapidi di quanto non si possa oggi immaginare.

5. LIMITI ALLA GIURISDIZIONE. I. Giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali. La nozione di giurisdizione non definisce soltanto il potere di decidere le controversie, ma si estende anche al complesso di organi che esercita quel potere nell’ambito di un dato ordinamento.

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Si parla in questo senso di giurisdizione unica, quando un solo complesso di organi (ovvero un solo organo) esercita la totalità del potere giurisdizionale, o di giurisdizione ripartita, quando più complessi di organi esercitano il potere giurisdizionale, in relazione a dati criteri. In Italia vige il sistema della giurisdizione ripartita. Il potere giurisdizionale è esercitato dai giudici ordinari e dai giudici speciali. La giurisdizione ordinaria riguarda la generalità delle controversie, senza ulteriori distinzioni, ed è esercitata dai giudici ordinari, che sono quelli identificati dalla normativa sull’ordinamento giudiziario (r.d. n. 12/41 e successive modificazioni e, in particolare, art. 1 ord. giud.). La giurisdizione ordinaria ha una connotazione pienamente unitaria. L’art. 1 della legge sull’ordinamento giudiziario elenca gli organi a cui essa è affidata, senza alcuna distinzione fra i due settori, civile e penale, che costituiscono soltanto una lata distinzione per materia, priva di effetti interni. È la legge a stabilire che taluni di questi organi hanno solo competenza civile (come è accaduto per un certo tempo per il giudice di pace) o solo competenza penale (come il magistrato e il tribunale di sorveglianza). Di solito, gli organi giudiziari ordinari hanno competenza sia civile che penale. Le giurisdizioni speciali riguardano determinate categorie di controversie. La Costituzione individua talune giurisdizioni speciali e ne vieta l’istituzione di nuove. L’art. 103 cost. indica tre giurisdizioni speciali: quella amministrativa (art. 103, comma 1°), quella contabile (art. 103, comma 2°) e quella militare (art. 103, comma 3°). Queste giurisdizioni sono state espressamente scelte dal costituente e sottratte sia al divieto di istituzione di nuovi giudici speciali, sia all’obbligo di revisione degli altri organi speciali di giurisdizione all’epoca esistenti, previsto dalla sesta disposizione transitoria della Costituzione nei cinque anni successivi all’entrata in vigore. Quindi, sia il concetto di giurisdizione ripartita, sia i singoli plessi giurisdizionali speciali sono di diretta rilevanza costituzionale. In realtà, quelle appena elencate non esauriscono il novero delle giurisdizioni speciali. Si pensi, ad esempio, all’importantissimo segmento della giurisdizione tributaria, preesistente alla Costituzione,

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non revisionato tempestivamente (come pure una lettura rigorosa dell’art. 102 della carta repubblicana avrebbe imposto) e più volte modificato e razionalizzato (da ultimo con i d.lgs. nn. 545 e 546 del 31 dicembre 1992). Ci si trova, in questo ambito, in una zona di obiettiva inattuazione della Costituzione, praticata con il consenso della Corte costituzionale (si veda la sentenza n. 215 del 3 agosto 1976), con un’adesione politica unanime e, occorre dire, con buoni risultati pratici. Un altro settore di rilievo è quello della giurisdizione del tribunale superiore delle acque, considerato a buon titolo giudice speciale, laddove i tribunali territoriali delle acque, costituiti da sezioni di corti d’appello, si devono considerare giudici ordinari. Occorre dire che la dottrina si sforza di accreditare questi organi come componenti della giurisdizione civile ordinaria: ma in modo non convincente. Un problema particolare è quello che concerne le Autorità garanti. Sullo sfondo delle questioni che finora si sono esaminate rimane nitido, come si è detto, il tradizionale principio della separazione dei poteri, che ha caratterizzato tutti gli ordinamenti liberali postrivoluzionari. Tuttavia, è anche implicitamente emersa la crisi di questo principio, che si va rapidamente accentuando. Sempre più frequenti sono i casi di organi amministrativi che esercitano attività decisorie di conflitti (e quindi sostanzialmente giurisdizionali), di organi giurisdizionali che esercitano funzioni amministrative e di organi a carattere misto, che esercitano anche compiti decisori. Il settore più interessante, in questo senso, è quello delle c.d. autorità amministrative indipendenti, che sono organi dello Stato di natura amministrativa, ma del tutto svincolati dal corpo della p.a. e dal potere esecutivo. A queste autorità sono assegnati compiti di controllo e di garanzia, non privi di poteri decisori, che vengono esercitati con modalità in gran parte simili a quelle della funzione giurisdizionale. Si segnalano, in questo ambito, organi di indiscusso rilievo come l’autorità garante per la concorrenza e il mercato o l’autorità garante della privacy. La tesi più diffusa in dottrina tende a riconfermare il carattere non giurisdizionale delle authorities, alle quali manca, in definitiva,

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il profilo della piena terzietà. Nel decidere un conflitto, infatti, le autorità indipendenti hanno di mira la finalità affidata a ciascuna di esse. Questa soluzione è certo accoglibile, anche se essa poi suppone che vi sia un pieno controllo giurisdizionale di merito sulle deliberazioni delle authorities che incidano su diritti soggettivi. Oggi, la giurisdizione esclusiva spetta, in questa materia, ai giudici amministrativi, ai quali però va imputata l’attitudine ad esercitare un controllo debole, che tende ai soli profili di legittimità: il che induce ad ipotizzare la soluzione di affidare invece il controllo ai giudici ordinari. In ogni caso, si fa strada la tendenza a ritenere che anche nei procedimenti di fronte alle autorità indipendenti debbano trovare applicazione le garanzie della difesa e del contraddittorio. In realtà, la molteplicità di soggetti che sono oggi chiamati a svolgere compiti di decisione dei conflitti suppone, per una risposta rispettosa del senso, oltre che della lettera, delle norme costituzionali, che chiunque sia investito di funzione decisoria (poco importa se formalmente classificabile come giurisdizione o amministrazione) debba rispettare le regole dell’equo processo e che la decisione sia soggetta ad un controllo di merito da parte di un giudice ordinario. II. I criteri di riparto delle controversie fra giuri­ sdizione ordinaria e giurisdizioni speciali. L’attribuzione del potere giurisdizionale in rapporto ad una data singola controversia fra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali (o fra più giurisdizioni speciali) è fatta dalla legge. Non esiste la possibilità di scegliere fra l’una e l’altra giurisdizione, ovvero di cumularne più di una: l’inserimento di una data materia nel potere di una giurisdizione esclude, per definizione, il potere delle altre. Gli eventuali contrasti danno luogo ad una questione di giurisdizione (ovvero, secondo la migliore dottrina, di “giurisdizione-competenza”). Il sistema dei controlli sulla giurisdizione appartiene, in senso stretto, al diritto processuale. Qui basti ricordare due regole essenziali. Prima di tutto, è il giudice chiamato a decidere la causa a stabilire, anche d’ufficio, se ha o no giurisdizione. In secondo luogo, la risposta finale proviene dalla Corte di cassazione, a cui la que-

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stione può pervenire in tre modi: attraverso le vie ordinarie di impugnazione della decisione sulla giurisdizione; mediante un ricorso preventivo prima che il giudice abbia statuito sul merito in primo grado (regolamento preventivo di giurisdizione, ex art. 41 c.p.c.); infine, quando sia sollevato un conflitto positivo o negativo di giurisdizione ex art. 362 c.p.c. Rimane da accennare alle modalità del riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali: soprattutto, la giurisdizione amministrativa (vale a dire, i tribunali amministrativi regionali in primo grado e il Consiglio di Stato in secondo). La materia è stata spesso innovata (d.lgs. n. 29/93, d.lgs. n. 80/98, l. n. 205/2000, senza contare le correzioni imposte dalla Corte costituzionale) e, infine, razionalizzata dal d.lgs. n. 104 del 2 luglio 2010, successivamente più volte modificato (c.d. codice del processo amministrativo). Il quadro che ne esce è quello di un complesso incrocio fra due diversi criteri: da un lato, quello della natura della situazione soggettiva tutelata (diritti soggettivi al giudice ordinario e interessi legittimi a quello amministrativo); dall’altro, quello di materie affidate in esclusiva o all’autorità giudiziaria ordinaria (così i rapporti di lavoro di pubblico impiego) o al giudice amministrativo (così i pubblici servizi e l’urbanistica). Il primo criterio, utilizzato soltanto nella ripartizione tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa, risente della struttura storica del problema. Sottratta un tempo al controllo del giudice civile, l’attività riconducibile al potere esecutivo è stata progressivamente attratta nel cono della tutela giurisdizionale, ma dinanzi ad un giudice speciale e soltanto per i profili di correttezza formale e non nel merito delle scelte. Questa situazione è stata cristallizzata dall’art. 103, comma 1°, cost., in base al quale gli organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi. È la stessa norma costituzionale a prevedere che, nelle particolari materie indicate dalla legge, i giudici amministrativi possano occuparsi anche di diritti soggettivi (il che, fra l’altro, rende possibile l’attuale ampia estensione del secondo criterio). Ciò comporta che, al contrario, quando l’attività esecutiva abbia leso diritti soggettivi

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(o perché la p.a. ha operato sul piano privatistico, ovvero perché ha ecceduto nell’esercizio del proprio potere di imperio, confliggendo con un diritto assoluto e fondamentale del cittadino), la relativa tutela sia affidata al giudice ordinario. L’assetto del riparto, nel tempo, è venuto a spostarsi progressivamente sul secondo criterio, vale a dire quello della materia. In questi casi, si parla di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: esclusiva, perché abbraccia l’intera materia, a nulla rilevando la distinzione di posizioni soggettive, a cui si è appena accennato. La giurisdizione esclusiva, già nota per casi limitati, ha ricevuto un forte incremento mediante l’attribuzione di interi comparti di materie al giudice amministrativo. Più in dettaglio, l’art. 7 del codice del processo amministrativo stabilisce che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni (mentre non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico). In specie, poi, la giurisdizione amministrativa si articola in giurisdizione generale di legittimità, esclusiva ed estesa al merito. Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, anche se introdotte in via autonoma. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo conosce anche controversie su diritti soggettivi, estese al profilo risarcitorio. Queste materie sono indicate in maniera non esaustiva dall’art. 133 del codice del processo amministrativo e comprendono aspetti di grande rilievo politico ed economico, come (per non fare che qualche esempio) le controversie in materia di pubblici servizi, di affidamento di lavori pubblici, di espropriazione per pubbli-

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ca utilità, di provvedimenti sanzionatori delle autorità garanti, di concessioni nel settore dell’energia. Va detto che la tecnica normativa, però, è raramente netta e in più casi disegna un complesso ritaglio di limiti e confini fra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa. Infine, il citato art. 7 affida in pochi casi al giudice amministrativo il potere di esercitare la giurisdizione con cognizione estesa al merito: in questi casi, il giudice amministrativo può non soltanto annullare gli atti illegittimi, ma anche sostituirsi all’amministrazione, adottando un nuovo atto o modificando e riformando quello impugnato. La suddivisione dei compiti fra le altre giurisdizioni speciali non conosce il criterio fondato sulla distinzione delle posizioni soggettive, ma solo quello per materia (in qualche modo, nell’ottica di un tentativo di specializzazione). Di qui (e necessariamente in linea molto generale) l’attribuzione alla giurisdizione contabile delle materie della contabilità pubblica, della responsabilità erariale e di parte della materia pensionistica dei pubblici dipendenti; la giurisdizione tributaria, articolata in commissioni tributarie provinciali e regionali, si occupa di tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi, come meglio specificate e con le esclusioni di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992; il tribunale superiore delle acque decide le controversie aventi ad oggetto provvedimenti dell’autorità in materia di acque pubbliche e di demanio marittimo. Quanto ai tribunali militari, la loro giurisdizione, in tempo di pace, è anch’essa delimitata dal criterio oggettivo, nel senso che ne formano oggetto esclusivamente i reati militari, con la precisazione che essa si estende comunque soltanto nei confronti di soggetti che appartengono alle forze armate. III. Giurisdizione unica e giurisdizione ripartita. La scelta costituzionale di percorrere la via della giurisdizione ripartita, che obbediva a precise ragioni storiche, suscita oggi più di una perplessità, sotto i profili dell’effettività della tutela e dell’influenza del diritto europeo. L’illustrazione, sia pure sommaria, di

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criteri di riparto fra l’una e l’altra giurisdizione dimostra, in modo convincente, quanto sia disagevole una corretta individuazione dell’attribuzione della materia nel singolo caso, specie nei settori dell’ordinamento, sempre più ampi, in cui le tradizionali distinzioni fra pubblico e privato o fra diritti e interessi legittimi vengono ad appannarsi. In una situazione di grave crisi della giustizia civile, la difficoltà di riconoscere l’organo giudiziario chiamato a decidere rappresenta un forte, ulteriore ostacolo per la tutela dei diritti. Del resto, il diritto dell’Unione europea, che porta influssi sempre più profondi nel nostro ordinamento, non conosce la dicotomia fra diritti soggettivi e interessi legittimi, rendendo problematico il modo di essere dell’articolazione della tutela, come prevista dagli artt. 103 e 113 cost. I problemi sono aggravati dalla circostanza che i singoli plessi giurisdizionali funzionano come isole autonome e non comunicanti. L’errore (spesso veniale e giustificabile) del cittadino che propone la domanda dinanzi alla giurisdizione che non la può conoscere viene pagato con il rigetto della richiesta di tutela e con la necessità di cominciare di nuovo il procedimento dinanzi alla giurisdizione competente. In passato, per effetto dei termini di decadenza e di prescrizione, ciò poteva comportare l’impossibilità di fare valere il proprio diritto. Di qui, l’esigenza di trovare, per così dire, una sorta di ponte fra le diverse giurisdizioni, in modo da attenuare i disagi per chi incorra in un errore. Nel tempo, una positiva evoluzione è venuta ad attenuare la distanza fra i diversi plessi giurisdizionali e permette oggi di affermare l’esistenza del principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale e viceversa, in caso di pronuncia declinatoria della giurisdizione. Ciò significa che il medesimo processo può essere trasferito dinanzi all’organo dotato di competenza-giurisdizione, quanto meno senza perdere i diritti derivanti dall’originaria proposizione della domanda. A questo risultato si è giunti, dapprima, per via giudiziaria. Con la sentenza n. 4109 del 22 febbraio 2007 la Cassazione a sezioni unite ha modificato il proprio orientamento, ritenendo che una lettura costituzionalmente orientata delle norme allora vigenti permettesse

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di ammettere la translatio iudicii. Pochi giorni dopo, con la sentenza n. 77 del 12 marzo 2007, la Corte costituzionale ha affermato, con pronuncia additiva, il principio secondo cui gli effetti della domanda, proposta erroneamente davanti al giudice sprovvisto di giurisdizione, restano in vita anche dopo la pronuncia declinatoria. Si vedrà a suo luogo che un analogo fenomeno si sta verificando nei rapporti fra giurisdizione dello Stato e arbitri, per effetto della sentenza n. 223 del 2013 della Consulta. Il legislatore ha poi seguito questo orientamento con l’art. 59 della l. n. 69 del 2009. La norma prevede, in primo luogo, che il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo. Viene poi stabilito (ed è questa la novità essenziale) che, se entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia negativa di giurisdizione la domanda è riproposta al giudice indicato nella sentenza (secondo le regole processuali vigenti per quel giudice, che sono diverse per il processo civile, quello amministrativo e via dicendo), nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. In altre parole. Se A ricorre contro il comune B dinanzi al giudice amministrativo per fare valere un suo diritto soggetto alla prescrizione ordinaria decennale e, dopo più di dieci anni, la giurisdizione amministrativa si pronuncia declinando la giurisdizione e affermando quella del giudice civile, A può ora trasportare il processo nella sede competente, senza che gli si possa eccepire che, nel frattempo, il diritto si è prescritto. Il punto sarà ripreso e meglio chiarito parlando di effetti sostanziali dell’atto introduttivo del giudizio. Tuttavia, può essere chiaro fin da ora che la riproposizione della do-

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manda recupera, per così dire, gli effetti, fra cui l’interruzione della prescrizione, conseguiti con l’azione cominciata davanti al giudice carente di giurisdizione. Invece, e di conseguenza, l’inosservanza dei termini per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. La legge aggiunge che in ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice dotato di giurisdizione, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova. L’art. 59, peraltro, lascia ancora uno spazio di intervento al giudice davanti al quale la causa è riassunta. Infatti, se la causa gli è pervenuta a seguito di una decisione di merito, senza che sulla questione di giurisdizione si siano già pronunciate le sezioni unite della Corte di cassazione, questo giudice può sollevare d’ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento di giurisdizione. Va aggiunto che il codice del processo amministrativo ha attuato l’indicazione della legge di delega all’art. 11. Questo significativo passo avanti, se non porta il sistema sul piano della giurisdizione unica, costituisce però una presa d’atto delle gravi diseconomie che conseguono alla giurisdizione ripartita. Si evitano i danni peggiori, anche se non si impedisce l’enorme perdita di tempo che deriva dall’avere iniziato la causa nella sede ritenuta priva di giurisdizione. Il quadro andrebbe comunque completato con efficaci sistemi processuali, che permettessero una rapida e decisiva definizione della giurisdizione abilitata a conoscere della domanda fino dalle prime battute del processo. IV. La specializzazione del giudice. Se l’unicità del concetto di giurisdizione come potere porta ad un’inevitabile tensione verso l’unità anche degli organi chiamati ad amministrare la giustizia (suggerendo così, pur se in prospettiva, il ripensamento del sistema attuale), resta vero che l’ordinamento si

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estende a materie che la tecnica e la frammentazione del sapere rendono sempre più complesse e meno dominabili da un mero conoscitore del diritto, quale è il giudice. Ci si deve realisticamente domandare, infatti, se chi giudica di una lite debba essere necessariamente un giurista o non possa, talora, essere un tecnico, eventualmente assistito da un giurista e rovesciando, quindi, l’impostazione tradizionale, che vuole il sapere tecnico (formalmente) sottoposto al vaglio di chi quel sapere non possiede. Oggi, nelle controversie che suppongono una rilevante conoscenza di elementi fattuali che sfuggano alla comune esperienza, il metodo è quello della richiesta di un’indagine affidata ad un esperto, nelle forme della consulenza tecnica. È molto improbabile che il giudice possa disattendere ciò che il tecnico gli riferisce, proprio perché non possiede gli strumenti conoscitivi adeguati: molta parte della decisione del conflitto si trasferisce, quindi, sulle spalle di chi giudice non è. In ogni caso, è ragionevole che vengano organizzate strutture giudiziarie che, per la formazione dei giudici o per l’affiancamento ad essi di esperti qualificati, possano garantire anche una maggiore capacità di percepire la fattualità tecnica della controversia. È questa la logica del giudice specializzato. I giudici specializzati sono giudici ordinari, il cui impiego non solo non incontra alcun limite costituzionale (riferito, come si è detto, soltanto ai giudici speciali o straordinari), ma è anzi espressamente previsto dalla carta repubblicana, che, all’art. 102, comma 2°, sancisce che possono istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei, estranei alla magistratura. Demandare a questi giudici la cognizione di determinate tipologie di conflitti costituisce, del resto, una concreta applicazione del principio, di rango costituzionale, del buon andamento dell’amministrazione della giustizia. La specializzazione può essere attuata, in primo luogo, rigorosamente all’interno degli organi giudiziari ordinari (ad esempio, il tribunale civile), destinando alcuni magistrati ad occuparsi più stabilmente di determinate controversie. Questi magistrati vengono assegnati a sezioni che, nell’ambito della divisione interna del lavoro, si

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dedicano a particolari aspetti del contenzioso. È quanto accade per i magistrati impiegati nelle sezioni lavoro e, in una certa misura, per quelli delle sezioni specializzate in materia di impresa, di cui al d.lgs. n. 168 del 27 giugno 2003 e all’art. 2 della l. n. 27 del 2012. Questo punto richiede una breve sosta, perché oggetto di una precisa scelta politica del legislatore. Fino dal 2003, operavano le sezioni specializzate per la materia della proprietà industriale e intellettuale: si trattava di sezioni di tribunale e corte d’appello, ubicate solo in alcune sedi e con competenza territoriale più vasta rispetto a quella del rispettivo circondario o distretto. Nel 2012, queste sezioni sono state trasformate in sezioni specializzate in materia di impresa, con due accorgimenti. In primo luogo, ne è stato aumentato il numero: le nuove sezioni di tribunale e di corte d’appello si trovano in tutte le sedi delle città capoluogo di regione, oltre a Brescia e a Catania (ma non ad Aosta, ricompresa nella sezione che opera presso il Tribunale e la Corte d’appello di Torino). A partire dal 2014, si è aggiunta la sezione di Bolzano. In secondo luogo, la materia attratta dalle sezioni specializzate si è accresciuta: oltre a quella della proprietà industriale ed intellettuale, si aggiungono le controversie in materia di società di capitali e cooperative, di appalti pubblici di rilevanza europea, di violazione della disciplina italiana ed europea antitrust e, più recentemente, di azione di classe. È importante notare che queste sezioni non applicano un rito speciale, ma impiegano il rito ordinario. Molto opportunamente, alla specializzazione del giudice non si aggiunge una diversificazione del rito, nel quadro di un sia pure faticoso cammino verso una prospettiva di unità delle regole di procedura. Con la l. 21 febbraio 2014, n. 9, ad alcune soltanto di queste sezioni specializzate è stata attribuita anche la competenza a conoscere le cause che, nella materia sopra descritta, vedono come parte una società con sede all’estero. Si tratta delle sezioni di Bari, Cagliari, Catania, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia, Trento e Bolzano. Altra individuazione, ancora più specifica, deriva dal d.lgs. n. 3 del 2017, che concentra la competenza per le azioni di risarcimento

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del danno da violazione della disciplina antitrust (sia individuali che collettive) alle sole sezioni presso i tribunali di Milano, Napoli e Roma. In un settore del tutto diverso, la l. 13 aprile 2017, n. 46 ha introdotto disposizioni, anche processuali, in tema di protezione internazionale, specie in relazione ai fenomeni migratori. La competenza per materia a conoscere le controversie collegate a questo ambito (analiticamente precisate dall’art. 3 della legge) è affidata a sezioni specializzate, istituite presso i tribunali del luogo in cui hanno sede le corti d’appello. Queste sezioni sono composte da magistrati in servizio, che hanno ovvero che acquisiranno nel tempo specifiche conoscenze in materia. In altri casi, si cerca di puntare all’obiettivo della specializzazione mediante la tecnica di una composizione modificata dell’organo giudiziario, nel senso che, nel collegio decidente, ai giudici di carriera vengono affiancati membri non togati, dotati di specifiche competenze in un dato settore. Si devono menzionare, al riguardo, i tribunali regionali delle acque pubbliche, che sono giudici ordinari e sono formati da sezioni delle otto corti d’appello (Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari) presso le quali sono istituiti (art. 64 ord. giud.). Dato che il giudice regionale delle acque si occupa soltanto di specifiche controversie, indicate dalla legge, in cui è necessaria una particolare competenza tecnica in materia idrica, la sezione designata di corte d’appello è integrata da tre esperti, iscritti nell’albo degli ingegneri e nominati con decreto del ministro della giustizia. Del collegio giudicante, composto da tre membri, deve fare parte uno di questi giudici laici (d.l. 24 dicembre 2003, n. 354, convertito in l. 26 febbraio 2004, n. 45). Vanno poi ricordate le sezioni specializzate in materia agraria (l. 2 marzo 1963, n. 320 e successive modificazioni) dei tribunali e delle corti d’appello. Qui, ai magistrati vengono affiancati esperti, nominati dal Csm o, per delega, dal presidente della corte d’appello, scelti per il tribunale fra gli iscritti negli albi professionali dei dottori in scienze agrarie, dei periti agrari, dei geometri e degli agrotecnici, e, per le sezioni d’appello, unicamente tra i dottori in scienze agrarie.

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Un altro importante caso di tribunale specializzato è quello del tribunale per i minorenni (art. 50 ord. giud.). Questo organo, secondo il r.d. 20 luglio 1934, n. 1404 e successive modificazioni, è composto da un magistrato di corte d’appello, che lo presiede, da un magistrato di tribunale e da due esperti, un uomo e una donna, benemeriti dell’assistenza sociale, scelti fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia, nonché dall’apporto di altri operatori che ne preparano o fiancheggiano l’attività. Questa peculiare composizione (che si ritrova, quanto agli esperti, anche nella sezione per i minorenni della corte d’appello), unita alle particolarità del procedimento in materia minorile, ha lo scopo di rendere il tribunale per i minorenni particolarmente adatto per affrontare le delicate problematiche del mondo giovanile. Va detto che la faticosa e mai risolta dicotomia fra tribunali ordinari e tribunali per i minorenni nella materia del diritto di famiglia e minorile aveva indotto il legislatore a proporre la soppressione dei tribunali per i minorenni, ma senza rinunciare alla politica di favore per la specializzazione, con la contestuale istituzione presso i tribunali e le corti d’appello di sezioni specializzate per la persona, la famiglia e i minori. Per il momento, il progetto non ha trovato attuazione. La specializzazione del giudice, nella moderna società complessa, è certamente una via ragionevole di approccio ai problemi della giustizia. Tuttavia, essa rischia di essere attuata in maniera inefficace, come conseguenza dello scontro fra un’esigenza di efficienza tecnica e organizzativa, da un lato, e la struttura burocratica del reclutamento e della progressione in carriera, dall’altro. Quando la specializzazione è perseguita assegnando stabilmente i magistrati a determinate funzioni, il punto critico è quello della formazione (che manca in via preventiva) e dell’aggiornamento. Al di là degli apprezzabili sforzi che vengono compiuti dal Csm, molto di questi aspetti è lasciato all’impegno del singolo magistrato. Qui, come altrove, le norme giungono fino ad un certo punto: il resto è affidato all’etica e alla responsabilità di ogni persona. Quando, invece, si opera per la specializzazione dell’organo giudiziario attraverso l’integrazione di componenti laici, si aprono delicati problemi sotto il profilo delle modalità di scelta dei mem-

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bri tecnici. Infatti, da un lato occorre individuare persone di sicura competenza tecnica; dall’altro, occorre evitare, a tutela dell’imparzialità dell’organo, che i giudici non professionali si trovino più vicini a questa o a quella parte della lite. V. I limiti esterni alla giurisdizione dello Stato. Nessun ordinamento è universale e, in specie, non lo è nessuna giurisdizione (intesa come complesso di organi che esercitano una data porzione di potere giurisdizionale). Ne segue che, rispetto ad ogni giurisdizione (e gli angoli prospettici potrebbero essere molteplici), si pone il problema dei limiti alla giurisdizione (vale a dire, di stabilire fino a che punto gli organi giudiziari di un dato ordinamento hanno potere di decidere). Oltre al limite interno, sopra segnalato, vi sono numerosi limiti esterni: a) quelli posti dal rapporto con le giurisdizioni straniere (su cui, v. infra); b) quelli posti dal rapporto con ordinamenti particolari (ad es., la giurisdizione ecclesiastica); c) quelli esistenti nei rapporti con l’autonomia privata, che si manifesta in forme decisorie estranee alla giurisdizione statuale, come l’arbitrato. Oltre a questi profili, esiste anche un limite del potere giurisdizionale nei confronti o di altri poteri dello Stato (e allora si parla di conflitto di attribuzioni), o della stessa non giuridicità (e non tutelabilità secondo diritto) del conflitto. In questi casi, si parla di difetto assoluto di giurisdizione: nessun giudice ha potere di statuire. Il primo aspetto è studiato dal diritto costituzionale, perché si colloca sul piano del bilanciamento fra i diversi poteri dello Stato. Il secondo punto, in realtà, è solo in apparenza un profilo di giurisdizione: la domanda non fondata su alcuna ragione di diritto è, per l’appunto, infondata: più che dire che nessun giudice ha giurisdizione, si dovrebbe dire che qualunque giudice ha il dovere di respingerla. Ci si permetta un esempio al limite dello scherzo: se A chiede che la propria fidanzata B, che lo ha lasciato, sia condannata a riprendere il rapporto, la domanda non potrà essere accolta né dal giudice ordinario, né dal giudice speciale, in quanto totalmente estranea alla tutela di un diritto o anche solo di un interesse

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legittimo. Fuori dallo scherzo, vi sono ambiti di rilievo, non privi di giuridicità in senso ampio, sottratti alla giurisdizione: si pensi alle controversie in materia di osservanza ed applicazione delle norme che garantiscono il corretto svolgimento delle attività sportive, ovvero di irrogazione delle sanzioni disciplinari sportive, che l’art. 2 della l. 17 ottobre 2003, n. 280, riserva all’autonomia dell’ordinamento sportivo. Nel prosieguo della trattazione, ci collocheremo, salvo diverse indicazioni, dall’angolo prospettico della giurisdizione italiana, statuale, ordinaria, civile.

6. L’AZIONE IN GENERALE. I. Tutela delle parti e istanze sociali di giustizia. L’esposizione della materia deve ora proseguire guardando, dopo il giudice, alla posizione delle parti. La controversia diventa lite giudiziaria quando una delle parti la porta dinanzi al giudice. È questo un passaggio delicato, che mette in gioco una pluralità di considerazioni, solo alcune delle quali attengono direttamente a profili giuridici. Ogni conflitto suppone, per una delle parti, una limitazione o una diminuzione dei propri diritti, a causa di un comportamento altrui. Non ogni diminuzione di diritti legittima il ricorso al giudice: se, ad esempio, la parte lamenti un danno patrimoniale in sé esistente e potenzialmente tutelabile, ma di dimensioni così modeste da non generare un serio interesse alla reintegrazione, se ne esclude la tutelabilità giudiziaria. In ogni caso, la parte (opportunamente consigliata dal proprio consulente legale) dovrà valutare quanto importante sia l’interesse leso, quali siano le probabilità di ottenere una decisione favorevole, quale sia il rapporto costi-benefici fra l’azione giudiziaria e il risultato auspicato. È in questa fase che l’ordinamento supporta, in modo sempre più marcato, l’intervento di organismi che possano favorire la conciliazione e la mediazione fra le parti, evitando così il ricorso a giustizia.

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Il modo migliore per ragionare sulle tendenze odierne della giustizia è quello di partire dalle domande che la società civile rivolge agli operatori del processo e di vedere, poi, come i legislatori e i giudici cercano di dare una risposta a queste richieste. La prima e più pressante istanza sociale è quella di una giustizia rapida. È un dato di fatto che la vita dei processi è troppo prolungata per i tempi di decisione del mondo economico e imprenditoriale. Il mercato e i suoi interessi viaggiano ad una velocità troppo forte perché il processo civile riesca a seguirla. Certo, molti ordinamenti europei riescono a dare sentenze con ritardi meno clamorosi di quelli italiani: tuttavia, è innegabile che il perdurare della situazione di incertezza legata a processi iniziati e non conclusi appare inaccettabile. Viene, in secondo luogo, un bisogno di informazione e di trasparenza. Il livello di cultura media è fortunatamente cresciuto e questo pone all’utente della giustizia la necessità di sapere e di capire. Il linguaggio dei giuristi e il tecnicismo del rito risultano spesso incomprensibili. Un terzo profilo è quello della scarsità di risorse. Nelle società moderne la domanda di servizi e di welfare si traduce in richieste pressanti di spesa pubblica in settori come le infrastrutture, la sanità, le pensioni. La forza politica e sociale dei gruppi che appoggiano queste richieste finisce per mettere inevitabilmente in secondo piano settori come quello della giustizia, e specialmente della giustizia civile. Ne segue che occorre rispondere ad una domanda di giustizia rapida e trasparente senza poter contare sulle risorse, umane ed economiche, che sarebbero necessarie. Ma la quarta delle domande sociali qui elencate è la più drammatica e supera le tre precedenti, di cui è a suo modo conseguenza. Si tratta di ciò che si può definire la fuga dal processo: vale a dire, l’idea che il processo sia comunque un male da evitare e che agli inevitabili conflitti si debbano trovare soluzioni di tipo diverso e alternativo. Questa situazione viene ad impattare con una temperie di cultura giuridica in cui non solo le grandi ideologie, ma anche le meno grandi visioni del processo sfumano e si stemperano nella ricerca di ciò che è più utile ed opportuno nella situazione concreta. Anche se, in

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linea di massima, si può dire che prevalga in Europa la linea di pensiero che privilegia il giudice come attivo protagonista del processo, occorre riconoscere che i modelli processuali appaiono in declino. LA GIURISDIZIONE, BENE PREZIOSO (OVVERO LA SINDROME DI ROBINSON) I testi universitari di diritto processuale, compreso questo, raccontano il processo, per finalità didattiche, come se vi fosse al mondo una sola lite, fra l’attore e il convenuto. Chi ne legge le pagine, è portato a pensare che il processo sia una sorta di isola del tesoro, in cui vivono soltanto Robinson e il selvaggio Venerdì, accompagnati da un solo giudice. I tre personaggi appaiono impegnati a proporre domande ed eccezioni, ovvero a rilevare questioni d’ufficio, o comunque ad agire come se null’altro esistesse al mondo. Questa semplificazione è necessaria per spiegarsi, ma la realtà è molto diversa. Con cifre approssimative, ma non inesatte, si può dire che in Italia vi siano poco meno di tre milioni e mezzo di cause pendenti, con oltre duecentomila avvocati e alcune migliaia di magistrati togati. Le risorse che il sistema paese è in grado di dedicare alla giustizia (e, per capirsi, non alla sanità, alle pensioni, alla scuola, alle infrastrutture, alla sicurezza e via dicendo) sono limitate e questo porta ad una sostanziale incapacità dell’ordinamento a dare risposte efficaci, rapide e meditate alle liti. Se la Costituzione, il codice di procedura civile e le singole leggi speciali fondano e ribadiscono il diritto del cittadino ad avere giustizia, è anche vero che l’esercizio dell’attività giurisdizionale non è un bene riproducibile a volontà, ma di cui occorre fare un uso ragionevole e ponderato.

II. La domanda giudiziale. La parte che si rivolge al giudice gli chiede di dirimere la controversia in senso a sé favorevole e sfavorevole alla controparte. Essa chiede al giudice qualcosa (un provvedimento, un bene della vita) contro qualcuno. Domanda giudiziale è appunto ciò che si chiede al giudice contro qualcuno. Questa idea è fondamentale e va rimarcata. In altri ambiti del diritto, si può chiedere un’utilità a proprio vantaggio, senza detrimento per altri. Se A chiede il rilascio del passaporto, la competente

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autorità amministrativa potrà accogliere l’istanza o no: ma questa decisione non causa alcun pregiudizio agli altri soggetti (B, C e via dicendo). Nel diritto processuale civile, invece, il conflitto fra le parti suppone che la vittoria dell’uno sia la sconfitta dell’altro e che non si possa ottenere un risultato giurisdizionale favorevole senza affrontare la resistenza di un altro soggetto. Nella giurisdizione contenziosa, lo schema dialettico impedisce che si possa chiedere al giudice un intervento, per così dire, neutrale: il vantaggio di una parte suppone necessariamente il detrimento dell’altra. La parte che propone la domanda si chiama attore. La parte contro cui la domanda è proposta si chiama convenuto. Il potere di proporre la domanda giudiziale si chiama azione: è il potere delle parti, corrispondente al potere di giurisdizione del giudice. Il fondamento positivo di questo potere sta nell’art. 24 cost. e nell’art. 2907 c.c., secondo cui alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, solo quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio. III. La natura dell’azione. L’abuso del processo. La natura dell’azione è un argomento classico del diritto processuale, oggetto di studi approfonditi. Con una sintesi estrema, si può vedere l’azione: a) come diritto potestativo pubblico. Ogni cittadino, in quanto tale, ha diritto di convenire in giudizio un altro cittadino ed ha il diritto che la sua causa sia ascoltata da un giudice: e ciò a prescindere dal fatto che egli lamenti una lesione effettiva o no. Il cittadino, insomma, può sempre adire i tribunali, anche se ha torto. b) come proiezione processuale di un diritto soggettivo esistente. Viene sottolineato, in questa prospettiva, il legame che deve sussistere fra il diritto sostanziale e l’azione, intesa come mezzo di tutela processuale di quel diritto. In altre parole: se il processo serve per reintegrare i diritti lesi, occorre che questi diritti sussistano. Nel patrimonio giuridico di ogni soggetto, accanto all’utilità sostanzia-

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le che egli ritrae (ad esempio, godere del bene di cui è proprietario), vi è la facoltà di ottenerne la tutela giudiziale: vale a dire, appunto, il diritto di azione (ad esempio, di rivendica). c) come pretesa. Si fa leva qui sulla struttura dialettica del processo. Quando il processo comincia, l’attore non vanta un diritto, ma solo la pretesa che venga accertato quel diritto. Quando ottiene ragione, non sussiste più l’azione, ma vi è già l’accertamento; è finita la fase dinamica e si tratta semmai di ottenere l’esecuzione forzata. Pertanto, si sottolinea che l’azione vive allo stato di pretesa. Questo punto è importante. Finché c’è processo, nessuno ha ragione e nessuno ha torto: è solo la definitività dell’accertamento a fissare la verità dell’ordinamento su quel rapporto. Ne segue che ogni regola processuale deve rispettare questo equilibrio fra le parti, ciascuna delle quali è il potenziale vincitore del confronto, e che non è accettabile nessuna ipotesi che comporti posizioni di svantaggio per una delle parti. d) come attività. Qui si vuole sottolineare che l’azione suppone il compimento di atti: in effetti, la tutela giurisdizionale non si realizza certo con un solo atto, ma suppone una continuità di attività. Tutte queste prospettive contengono elementi rilevanti; certo, la veduta dell’azione come proiezione di un diritto esistente sembra particolarmente in linea con il dettato costituzionale e con l’idea che al processo debba ricorrere solo chi ha ragione. D’altra parte, non è possibile abbracciare posizioni troppo unilaterali, proprio perché la situazione di incertezza in cui per definizione si svolge il processo non deve condurre a sanzioni eccessive nei confronti di chi abbia iniziato un giudizio nella convinzione che il diritto vantato sussista, anche se poi l’esito finale è diverso. In definitiva, il limite al diritto d’azione può ravvisarsi nel c.d. abuso del processo, che identifica una serie di fattispecie in cui un soggetto utilizza il processo per una finalità diversa da quella di vedere riconosciuto, sulla base di una ragionevole prognosi, un proprio diritto. Si può avere abuso del processo, ad esempio, nel caso di una domanda giudiziale proposta in evidente mala fede o di un processo instaurato all’unico scopo di ritardare l’adempimento di un’obbligazione.

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Certo, manca nel nostro ordinamento una definizione normativa di abuso del processo. Tuttavia, il legislatore (nell’ambito della novellazione della c.d. legge Pinto, con l’art. 1, comma 777°, della l. n. 208 del 2015) ha elencato una serie di casi di abuso. Ve ne rientrano due particolarmente significativi: quello della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole - così la norma - dell’infondatezza, originaria o sopravvenuta, delle proprie domande e quello della parte che abbia ottenuto dalla decisione finale lo stesso esito che aveva rifiutato in sede di mediazione. Sul piano culturale, è bene notare che il legislatore si basa sull’idea (errata, ma sempre più ricorrente) di una sicura prevedibilità dell’esito dei giudizi, che contrasta con la dimensione dell’incertezza, che accompagna l’esercizio della tutela giurisdizionale. IV. Rapporti fra azione e diritto sostanziale. L’azione è uno dei momenti di più forte contiguità fra diritto processuale e diritto sostanziale. L’azione è autonoma dalla posizione soggettiva sostanziale a cui si riferisce, ma non ne è totalmente svincolata. L’azione, come ogni diritto, nasce, subisce eventuali vicende e si estingue. L’estinzione dell’azione non comporta come necessaria conseguenza anche l’estinzione del diritto sostanziale sottostante, ma implica che quel diritto non potrà più ottenere la protezione giurisdizionale e potrà avere attuazione solo in caso di adempimento spontaneo. Per contro, l’estinzione del diritto trascina con sé anche l’estinzione dell’azione. Stabilire quali siano le azioni a tutela di un dato diritto è argomento di carattere sostanziale e non processuale. Le norme sul processo spiegano soltanto il “come” della tutela e nulla dicono sul “se” della sua praticabilità. Le teorie astratte dell’azione – quelle, cioè, che la vedono come il diritto ad ottenere una decisione – aiutano a capire che, per il processo, sapere se una data azione poteva o non poteva essere proposta è un dato di partenza irrilevante: chiunque si presenti al giudice (e acquisti, così, la qualità di parte processuale) ha diritto di partecipare al gioco processuale e di vederne applicate le regole.

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Nel contempo, però, il processo serve a reintegrare un diritto vero e quindi ad accogliere un’azione fondata. Vi è una linea sottile che separa un’azione, che poi non potrà essere accolta, forse dopo una complessa istruttoria e un delicato studio delle norme, da un’altra azione proposta per finalità oblique. L’abuso del processo si colloca su questa linea di confine e l’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme processuali serve a migliorare e a favorire un uso positivo del giudizio. Occorre riflettere, del resto, che l’abuso del processo non va visto tanto nell’ottica individuale delle parti, ciascuna delle quali può proporsi di sondare le probabilità di conseguire un dato vantaggio proponendo la domanda giudiziale e accettando il rischio della soccombenza, quanto in quella della complessiva funzionalità del sistema, che non può assicurare un’effettiva tutela a chi ne ha diritto se le sue risorse sono male impiegate a dare risposta a iniziative avventate. Alla luce di queste considerazioni, si comprende meglio che il processo è uno strumento che deve dare ragione a chi si è visto ledere un diritto. V. Il processo come strumento per l’attuazione dei diritti. Riflettere sull’azione significa anche riflettere sul modo in cui un diritto viene riconosciuto e tutelato dall’ordinamento. Infatti, è vero che, nella enorme maggioranza dei casi, le norme sostanziali vengono applicate spontaneamente dai cittadini; quando, però, questa applicazione spontanea non vi sia e chi vanta un diritto ne voglia conseguire l’attuazione forzata, per il tramite della giurisdizione, la tutela delle posizioni soggettive dipende dal fatto che la persona interessata compia correttamente il percorso che l’ordinamento impone. Questo percorso è dettato in ampia misura dalle norme processuali. Se, quindi, il processo non è fine a se stesso, ma è uno strumento per l’attuazione dei diritti, è anche vero che l’attuazione dei diritti non può prescindere (come detto, quando vi sia contestazione e controversia) dalle regole del processo. Se chi ha un diritto effettivo non agisce nei tempi e nei modi che le regole impongono, non ne otterrà

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il riconoscimento. Qualora, ad esempio, dopo avere proposto la domanda giudiziale, non porti in giudizio le prove necessarie, il suo diritto, anche se esistente, non verrà riconosciuto e resterà lettera morta. In questo senso, si può dire che il processo è dominato dal principio di responsabilità. Già i latini lo esprimevano con il brocardo “vigilantibus, non dormientibus, iura succurrunt”. Con parole attuali si può dire che, di fronte ad una contestazione o ad un inadempimento, il soggetto leso deve assumersi la responsabilità di reagire e di difendersi. Vi è poi un altro aspetto. Posto che il processo suppone regole ed è esso stesso un insieme di regole, si tratta di capire fino a che misura il mancato rispetto di una regola processuale debba portare, come conseguenza sanzionatoria, la perdita di un diritto sostanziale. Non è facile, ovviamente, trovare un adeguato punto di equilibrio fra l’esigenza di raggiungere la verità e la giustizia sostanziali, da un lato, e la struttura dialettica del processo, dall’altro. In dottrina, si è spesso parlato di collaborazione delle parti con il giudice, ai fini di un non meglio identificato interesse superiore della giustizia, che certo non può indurre le parti a comportamenti che non rispondano rigorosamente ai loro interessi. Così pure, un certo livello di disuguaglianza fra le parti (se non altro, perché il difensore di una è più capace del difensore dell’altra) è ineliminabile e non può essere superato semplicemente con un rafforzamento, a questi fini, dei poteri di iniziativa del giudice. Il vero problema è di ridurre i casi in cui le regole di procedura, volte a garantire un leale confronto in contraddittorio, possano diventare ragione, talvolta unica, di vittoria di uno dei due antagonisti. Ad esempio (e prescindendo qui dalle risposte offerte dal diritto positivo), non è fruttuoso che una domanda sia respinta per mere ragioni di incompetenza o di carenza di giurisdizione, senza che sia consentito alla parte di riproporla, senza pregiudizio alcuno per il diritto sostanziale fatto valere, dinanzi all’autorità competente; ovvero, che non si possa rimediare ad un errore formale in una notificazione. Se è vero che il processo è (anche) gioco fra le parti, si tratta di capire fino a che punto vada spinto il ragionamento e fino a che punto, invece, le esigenze di accertamento del diritto sostanziale non siano prevalenti.

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Si vedranno, nelle pagine che seguono, varie ipotesi in cui l’ordinamento offre soluzioni che restringono l’area di un esagerato formalismo della procedura: dalla rimessione in termini della parte incolpevole, alla possibilità di trasferire il giudizio dinanzi alla giurisdizione abilitata a decidere il caso, alla salvaguardia dei diritti del notificante, all’adozione di metodi flessibili. Denominatore comune a tutte queste fattispecie è la reattività verso le regole processuali predeterminate. VI. Diritti individuali e diritti collettivi. L’azione è tradizionalmente concepita come modo di tutela di diritti individuali: il fatto che, talora, più diritti si sommino in un solo processo non ne altera la natura. In realtà, la moderna sensibilità giuridica ha fatto nascere forme di tutela diversa: quella che ha di mira gli interessi diffusi e gli interessi collettivi. Si parla di interessi diffusi quando non è possibile distinguere un soggetto che ne sia portatore esclusivo: si pensi alla protezione dell’ambiente. Si parla invece di interessi collettivi quando l’interesse è comune ad una pluralità, potenzialmente definibile, di soggetti. In entrambi i casi, il problema è quello di individuare un ente che si faccia carico di rappresentare questi interessi e abbia quindi la legittimazione a difenderli in giudizio. Questi temi si sono affacciati solo di recente sulla scena del diritto processuale e, a ben guardare, sono tuttora in qualche modo residuali. In queste pagine, se ne darà conto in qualche misura trattando, a suo luogo, delle azioni collettive e dei modi di disciplina delle azioni seriali.

7. PRESUPPOSTI PROCESSUALI, CONDIZIONI DEL­ L’AZIONE, DECISIONE NEL MERITO. I. I presupposti processuali. Obiettivo dell’azione è quello di ottenere dal giudice della cognizione non soltanto un accertamento, ma un accertamento favorevole, previa instaurazione di un valido rapporto processuale.

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Nell’esame della domanda, il giudice deve compiere una verifica progressiva di una serie di requisiti. Solo la sussistenza di tutti i requisiti consentirà al giudice di accogliere la domanda. Questo aspetto è molto importante e va tenuto sempre presente. Nell’ordine, il giudice deve verificare l’esistenza dei presupposti processuali, delle condizioni dell’azione e, infine, del diritto fatto valere. I presupposti processuali sono i requisiti che devono sussistere affinché il giudice possa validamente decidere. La loro mancanza impedisce al giudice di decidere sulla domanda. Questo non significa che non vi sarà una decisione, ma soltanto che quella decisione darà atto dell’impossibilità per il giudice di pronunciarsi. Sono, come meglio si dirà, decisioni di rito, che restano al di fuori dell’oggetto sostanziale della causa: se, ad esempio, un giudice afferma di non avere competenza, resta del tutto impregiudicato chi ha ragione e chi ha torto: semplicemente, si apprende che non è quello l’organo giudiziario che si può pronunciare. I presupposti processuali vanno verificati al momento di inizio del processo (come si arguisce dall’art. 5 c.p.c.), ovvero al momento in cui è compiuto un atto carente di requisiti. Si possono ulteriormente distinguere in presupposti di esistenza e presupposti di validità del processo: i primi riguardano la regolare instaurazione del giudizio, mentre i secondi afferiscono al suo corretto svolgimento. Rientrano fra i presupposti processuali tutti i profili di validità formale del processo: ad esempio, la sussistenza della competenza in capo al giudice o la regolare instaurazione del contraddittorio. Con una certa approssimazione, si potrebbe dire che la materia del diritto processuale civile si occupa di tutte le condizioni di regolare svolgimento del giudizio, verificate le quali diventa invece decisivo il diritto sostanziale. Per questo, non si tratta di dilungarsi: l’intera trattazione servirà a mettere in luce questi aspetti. I presupposti processuali, in altre parole, attengono alla correttezza delle regole del gioco, da valutarsi alla luce della norma costituzionale sul giusto processo.

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II. Le condizioni dell’azione. Le condizioni dell’azione sono i requisiti che devono sussistere affinché il giudice possa validamente decidere nel merito così come proposto nella domanda: vale a dire, esaminare la questione sul piano del diritto sostanziale e accertare chi, fra le parti in lite, abbia ragione. La loro mancanza impedisce ancora una volta al giudice di passare all’esame della sostanza del caso (e quindi del merito): ma non perché le condizioni formali-processuali non siano rispettate, ma perché le modalità della domanda non permettono di farlo. La loro sussistenza va verificata al momento della decisione. Due sono le condizioni dell’azione: la legittimazione ad agire e contraddire e l’interesse ad agire. La legittimazione ad agire e a contraddire consiste nella corrispondenza fra la situazione del rapporto sostanziale e quella del rapporto processuale. La domanda giudiziale deve essere presentata da chi vanta la titolarità del diritto leso (e non da altri, salvo le precisazioni che si faranno più avanti) e nei confronti di chi ha posto in essere la condotta ritenuta lesiva (e non di altri). Il diritto processuale è legato fortemente al diritto sostanziale: non è una semplice macchina strumentale. Se l’azione dà luogo alla reintegrazione dei diritti lesi, è chiaro che deve essere proposta da chi, sul piano del diritto materiale, possa fare valere quel diritto: e ciò prima ancora di stabilire se il diritto è stato effettivamente violato. Identico discorso vale naturalmente per il soggetto contro il quale la domanda è rivolta. Stabilire se vi sia legittimazione attiva e passiva, dunque, è un problema di diritto sostanziale, anche se viene in luce al momento in cui è domandata la tutela giurisdizionale e si risolve non sulla base delle regole processuali, ma di quelle materiali. Veniamo all’interesse ad agire. Se è vero che chi propone una domanda giudiziale ha subito la lesione di un diritto, occorre che l’accoglimento della domanda abbia potenzialmente (perché ovviamente non si sa se sarà accolta) l’effetto di dare all’attore un beneficio concreto. Quindi, la lesione deve essere effettiva e il provvedimento richiesto al giudice deve avere la capacità di porvi rimedio. Al riguardo, dispone l’art. 100 c.p.c.: per proporre una domanda o per contraddire alla stessa, occorre avervi interesse.

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Il punto dell’interesse è centrale nella dinamica del processo. In primo luogo, esso significa che chi si rivolge al giudice deve potersi prefigurare di ottenere un’utilità, conforme a diritto, maggiore e diversa da quella che potrebbe conseguire non agendo o non difendendosi. Questa valutazione va effettuata in concreto, con riguardo alle condizioni effettive del soggetto e alla configurazione giuridica della fattispecie. In secondo luogo, esso significa che la tutela giurisdizionale non è accordata a chiunque. I tribunali non sono una sorta di sportello a cui ogni cittadino può chiedere opinioni. Soltanto chi, attraverso la mediazione della giurisdizione, può conseguire l’eliminazione di una lesione e la reintegrazione di un diritto, ha titolo per rivolgersi al giudice. Ritorna ancora l’idea dell’abuso del processo. Ad esempio, le sezioni unite della Cassazione hanno sancito come inammissibile il frazionamento di un credito in più domande: il creditore ha certo il diritto di agire, ma non ha l’interesse a dividere il suo credito in più azioni giudiziarie. Se queste due condizioni mancano, il giudice non può occuparsi di stabilire chi ha ragione nel merito. La sua decisione non verrà ad accertare la fattispecie, ma rileverà che la domanda non può essere correttamente proposta e quindi non va esaminata. Non si formerà, dunque, un accertamento stabile sull’inesistenza del diritto, ma si avrà soltanto una pronuncia che non impedirà la riproposizione della domanda, da parte di chi sia legittimato o contro chi sia legittimato, ovvero quando sorgerà l’interesse ora mancante. III. L’esistenza del diritto. Infine, requisito per l’accoglimento della domanda è l’esistenza del diritto fatto valere dall’attore. È ovvio che si tratta del requisito principale. Se manca, il giudice (che può decidere e può decidere nel merito), darà luogo ad un accertamento, che però risulterà negativo sotto il profilo delle aspettative e dell’interesse dell’attore. Può essere utile, da un profilo pratico, tenere in mente che il giudice, per accogliere la domanda, deve verificare l’esistenza dei presupposti processuali, delle condizioni dell’azione e della sussi-

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stenza del diritto nel merito. L’attore, per avere ragione, deve poter contare sull’esistenza di ciascuna di queste situazioni. Al convenuto, invece, basta convincere il giudice della non esistenza anche di una sola di esse, per ottenere una decisione che non accoglierà la domanda dell’attore. Ovviamente, gli effetti di una decisione negativa per l’attore sono molto diversi a seconda che la domanda sia respinta in rito o in merito: nel primo caso, la domanda potrà essere riproposta; nel secondo, invece, si otterrà un accertamento negativo della pretesa dell’attore. IV. Le questioni e l’ordine logico della decisione. Decisioni di rito e di merito. La materia oggetto della controversia può comprendere numerose questioni. Per “questione”, si intende ogni punto di fatto o di diritto, rispetto al quale le parti o il giudice siano di opinione difforme e che quindi va risolto in modo autoritativo. Ora, il giudice deve seguire tendenzialmente un ordine logico e risolvere, in questo ordine, le questioni che gli vengono proposte. In primo luogo, il giudice dovrà verificare l’esistenza dei presupposti processuali: dovrà, cioè, stabilire se può decidere o no il caso. Se si rende conto che manca un presupposto processuale (ad esempio, l’organo giudiziario non ha giurisdizione o non è competente, ovvero non si è attuato regolarmente il contraddittorio e via dicendo), non può proseguire nell’esame della controversia. Poi, deve verificare l’esistenza delle condizioni dell’azione e, solo come ultimo passaggio, prende in considerazione il merito. Ora, una cosa è l’ordine logico-giuridico nella decisione, e altra cosa è l’effettiva sussistenza di questioni. In un dato processo, può accadere che vi siano solo questioni di merito e in nessun modo si discuta di presupposti processuali o di condizioni dell’azione. Tuttavia, se più questioni vi sono, occorre stabilirne l’ordine. Si parla, quindi, di questioni pregiudiziali e preliminari. Per ora, basti dire che sono pregiudiziali e preliminari quelle questioni che vanno decise (per antecedenza logica o fattuale) prima di altre. Il punto sarà ripreso quando si parlerà di sentenze non definitive.

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Pertanto, non tutti i processi si concludono con un accertamento di merito. Alcuni non giungono ad alcun provvedimento giudiziale (per il fenomeno dell’estinzione, di cui si dirà). Altri si fermano ad una pronuncia che rileva la mancanza di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione. Si parla, in proposito, di decisioni di rito, nel senso che si fermano ad uno stadio del ragionamento del giudice anteriore al punto della soluzione della lite. Queste decisioni, anche se corrette perché prese in esatta applicazione delle norme di legge, non raggiungono però l’obiettivo vero della tutela giurisdizionale, vale a dire la decisione sul diritto che si pretende leso: non risolvono la controversia e preludono ad una nuova fase processuale, questa volta rispettosa delle condizioni di legge. In qualche modo, esse rappresentano una sconfitta per il sistema ed è quindi necessario, in forza del principio costituzionale della ragionevole durata, limitarne per quanto possibile l’impatto. La decisione di merito è invece quella che affronta il cuore della controversia e stabilisce, per intendersi, chi ha ragione e chi ha torto sul piano della sostanza. Solo la decisione di merito contiene un accertamento e solo essa può dare luogo a giudicato sostanziale, come meglio si vedrà.

8. I CRITERI PER L’INDIVIDUAZIONE DELLE AZIONI. I. I criteri per l’individuazione delle azioni. Sulla scorta delle premesse finora svolte, si deve affrontare il problema dell’individuazione delle azioni: vale a dire, stabilire come si distingue un’azione da un’altra. Al riguardo, bisogna premettere che non esiste un numero chiuso di azioni, ma un numero indeterminato, in relazione agli sviluppi del diritto sostanziale. La legge viene modificata, nascono nuovi istituti, si creano nuove azioni di tutela. Si pensi, per non fare che qualche esempio, agli artt. 840-bis ss. c.p.c., relativi alle azioni di classe. Nel contempo, è bene riflettere sul fatto che solo se è prevista una tutela, e tutela efficace, si può affermare che sussiste veramente

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un diritto. La massima ubi remedium, ibi ius esprime questa idea: un diritto sostanziale solo affermato, ma non dotato di strumenti di attuazione, è un diritto in pratica insussistente, perché dipende dalla sola esecuzione spontanea di altri soggetti. Bisogna anche chiedersi perché ci si pone il problema della distinzione fra le azioni. Ora, l’ordinamento consente che una data domanda giudiziale dia luogo ad un solo esercizio di potere giurisdizionale: è il divieto del bis in idem, che si esprime attraverso gli effetti della cosa giudicata e la protezione dell’accertamento divenuto definitivo, le norme che evitano la litispendenza, il divieto di nova in appello. Il bisogno di certezza è uno dei profili cardine dell’ordinamento. Ora, due azioni sono identiche quando presentano identici tre elementi: le parti, l’oggetto e il titolo (o ragione giuridica). II. Le parti. Capacità processuale e legittimazione. Le parti sono i soggetti del rapporto a cui l’azione inerisce. Ora, la qualità di parte nel processo si acquista, da un profilo formale, quando si instaura e per il solo fatto che si instaura il processo. Proposta la domanda giudiziale, chi la propone è attore, colui contro il quale è stata proposta è convenuto, chi è chiamato o interviene volontariamente è terzo. Quando si parlerà di parti, si avrà riguardo a questo semplice concetto. Normalmente, chi è parte processuale è anche parte del rapporto sostanziale controverso. Tuttavia, ciò non sempre accade. Prima di tutto, per essere parte occorre avere capacità giuridica: essere in grado, cioè, di avere diritti. Ogni persona fisica vivente ha capacità giuridica: ma non ha capacità giuridica un defunto, oppure un animale o una pianta. Analogamente, possono essere parti le persone giuridiche esistenti. Se (per assurdo) venisse chiamato in giudizio un soggetto diverso da una persona fisica vivente o da una persona giuridica esistente, non potrebbe nascere alcun processo. Il giudice dovrebbe limitarsi a dichiarare la non esistenza del rapporto sostanziale e quindi quella del processo. Occorre, poi, che la parte processuale sia legittimata. La legittimazione, come si è visto, è la relazione sostanziale fra la parte, la

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domanda e il rapporto giuridico controverso. Sia dal punto di vista attivo, che da quello passivo, si ha legittimazione quando qualità di parte e titolarità del rapporto coincidono. La legittimazione è concetto diverso dall’esistenza del diritto, nel senso che se A afferma che B è suo debitore, e B nega di esserlo, B è legittimato passivo, perché la pretesa di A è rivolta contro di lui, anche se poi si rivelasse non fondata nel merito; mentre ogni altro soggetto non è legittimato passivo. Se vi sono parti processuali che non sono parti del rapporto, mancherà la condizione dell’azione della legittimazione e quindi la domanda sarà respinta, senza che il giudice entri ad occuparsi del merito; la domanda potrà essere riproposta da chi è legittimato attivo contro chi è legittimato passivo. Ancora, si deve distinguere la qualità di parte dalla capacità a stare in giudizio. Secondo l’art. 75, comma 1°, c.p.c., sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. La capacità a stare in giudizio corrisponde alla capacità di agire di diritto civile e riguarda la capacità a porre in essere validamente le attività che si riferiscono al processo. Se il titolare del rapporto controverso è capace di stare in giudizio (e quindi è maggiore di età, non interdetto e via dicendo), non sorgono problemi: agendo o resistendo, egli diviene parte e può agire opportunamente nel processo. Se, invece, il titolare del rapporto, pur avendo capacità giuridica, non ha capacità di stare in giudizio (perché è minore di età, interdetto e così via), non per questo non potrà ottenere la tutela dei suoi diritti, ma dovrà essere rappresentato (ovvero assistito o autorizzato) secondo le norme sostanziali che regolano la sua capacità (art. 75, comma 2°, c.p.c.). Quindi, il minore sta in giudizio rappresentato dall’esercente la potestà genitoriale e l’interdetto rappresentato dal tutore. Analogamente, l’art. 75 precisa che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto e le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate nelle apposite norme del codice civile. In questi casi, in cui la parte sostanziale è priva di capacità di agire, si ha una discrasia fra chi agisce nel processo e chi riceve il

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risultato dell’accertamento del giudice: si ritornerà in argomento parlando dei limiti soggettivi del giudicato, mettendo in luce che l’esito del processo concerne la parte in senso sostanziale, vale a dire il titolare del rapporto, e non chi ha agito in giudizio per suo conto. Infine, potrà accadere che vi siano parti del rapporto sostanziale non chiamate in giudizio: il processo, cioè, si presenta carente per difetto, nel confronto fra coloro che hanno assunto formalmente la qualità di parte e coloro che avrebbero dovuto assumerla. In tal caso, si dovrà procedere alla chiamata di queste parti sostanziali (ciò che tecnicamente prende il nome di integrazione del contraddittorio), con l’annotazione che se ciò non avvenisse si avrà un rapporto processuale inesistente. III. L’oggetto. L’oggetto (o petitum) è ciò che si domanda al giudice. Può essere inteso come provvedimento (e allora si parla di petitum immediato, perché è ciò che il giudice può dare con la sua attività), oppure come bene della vita a cui il soggetto che propone la domanda aspira (e allora si parla di petitum mediato, che si otterrà, cioè, attraverso e per mezzo del provvedimento del giudice). Se A chiede la condanna di B a pagare 100, l’oggetto immediato della domanda è il provvedimento di condanna: il giudice, se la domanda è fondata, potrà effettivamente condannare B, ma non consegnerà la somma di 100 ad A. Tuttavia, il vero obiettivo dell’azione di A non è quello di conseguire una sterile pronuncia favorevole, ma di mettere in tasca la somma di 100: il che, se la sentenza è favorevole, avverrà o con l’adempimento spontaneo di B o con l’esecuzione forzata. Risulta subito chiaro che una stessa azione fra le medesime persone può riguardare oggetti diversi: abbiamo allora due azioni distinte. Se A chiede a B la consegna del bene X e il risarcimento del danno Y, provocato appunto dal ritardo nella consegna, A spiega due diverse azioni: potrà accadere, ad esempio, che una sia accolta e l’altra no.

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IV. Il titolo. Più delicata è l’individuazione del titolo (o causa petendi). Nel valutare l’accoglibilità della domanda giudiziale, il giudice deve individuare la norma applicabile ai fatti concreti dedotti in giudizio; ai fatti, cioè, che l’attore indica come costitutivi del diritto vantato e della lesione lamentata. La causa petendi è l’intreccio fra fatto e norma: è la norma invocata come applicabile ai fatti della controversia, ovvero il fatto in quanto rilevante ai fini della norma e ricompreso nella fattispecie. Questo punto va sottolineato, perché ha ricadute su molti aspetti della materia. Non esiste tutela teorica: il problema astratto si trova solo sui libri e nelle lezioni universitarie. La vita reale è costituita da una miriade di fatti, un minimo numero dei quali comporta un effetto giuridico (e non semplicemente fattuale) pregiudizievole per uno o più soggetti. La tutela è sempre concreta e suppone fatti concreti, anche se a questi fatti va applicato il ragionamento giuridico. In particolare, l’attività tipica del giudice della cognizione è un giudizio di conformità tra il fatto concreto e la fattispecie astratta, che si attua tramite un sillogismo. Il sillogismo del giudice parte dalla premessa maggiore (in diritto: quindi, l’individuazione della fattispecie e della norma da applicare), passa alla premessa minore (in fatto: quindi, la verifica di ciò che è accaduto) e trae poi la sintesi conclusiva, che è il giudizio (quindi, l’inserimento del fatto concreto all’interno della fattispecie astratta). Il giudizio, se concerne il merito, darà vita all’accertamento. Così, fra le stesse parti e in relazione allo stesso oggetto possono sussistere controversie e quindi azioni diverse (per esempio, azione di rivendica e possessoria; oppure, due comodati, relativi alla medesima cosa, stipulati in date diverse). Occorre avere presente che l’individuazione della causa petendi opera in modo diverso per i diritti relativi e per i diritti assoluti. Per i primi, ad ogni fatto costitutivo corrisponde un diverso diritto (fenomeno della c.d. eterodeterminazione della domanda); per i secondi, il diritto è sempre il medesimo, anche in presenza di una pluralità di eventi lesivi (fenomeno della c.d. autodeterminazione della domanda). Questa diversa configurazione dell’azione, che discende

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dal modo di essere del diritto sostanziale, è importante a tutti i fini per cui rileva la distinzione fra le domande, a cominciare dagli effetti del giudicato e dalla modificabilità della domanda. Ad esempio, si pensi ad una pluralità di fatti illeciti, che provocano danni successivi alla stessa persona. Ogni fatto-evento è suscettibile di un’autonoma azione risarcitoria; l’accertamento di un fatto non comporta l’accertamento degli altri; l’accertamento dell’insussistenza di un fatto non suppone l’inesistenza degli altri. La domanda giudiziale concerne quel fatto (o quei fatti) di cui si vuole ottenere il risarcimento: spetta a chi agisce determinare, per così dire, dall’esterno il contenuto della domanda. Per questo si parla di eterodeterminazione. Si pensi, invece, alla domanda di ottenere l’accertamento del diritto di proprietà su un bene. Una volta proposta la domanda, essa si estende a tutti i possibili modi di acquisto della proprietà. Quindi, in questa ipotesi, il contenuto della domanda è determinato, per così dire, dall’interno e perciò si parla di domande autodeterminate. L’accertamento (e, come meglio vedremo, il giudicato) si riferisce ad una determinata azione e quindi a quel rapporto fatto-norma e a quei fatti. Altri fatti, non resi oggetto esplicito di accertamento, permettono di riproporre la domanda se danno luogo ad un rapporto giuridico diverso; non lo permettono, se rientrano sempre in quel medesimo rapporto. V. Litispendenza, continenza, connessione. Il diritto processuale impiega alcuni concetti specifici per rappresentare il confronto di due o più azioni fra loro. Si parla, quindi, di litispendenza quando le azioni sono identiche; di connessione, quando hanno in comune alcuni elementi; di continenza, quando hanno in comune alcuni elementi e un elemento diverso, che, per una di esse, ricomprende quello corrispondente dell’altra. La connessione è soggettiva, quando l’elemento comune sono soltanto le parti; è oggettiva quando comuni sono l’oggetto e il titolo (entrambi o uno solo di essi). Inoltre, la connessione si definisce propria quando vi sia un elemento comune; si definisce

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impropria quando due azioni totalmente diverse devono però essere risolte in base alle medesime regole di diritto, il che, a date condizioni, ne favorisce la trattazione congiunta. Gli effetti processuali di litispendenza, connessione e continenza (che rientrano nell’ambito dei presupposti processuali) sono regolati dagli artt. 39-40 c.p.c. Obiettivo del sistema è fare in modo che su una data domanda o azione vi sia una sola pronuncia giurisdizionale. In linea generale, l’ordinamento, in caso di litispendenza, sopprime le altre azioni, lasciandone in vita una; in caso di connessione, cerca di favorire la trattazione delle varie azioni in un solo alveo processuale. Sulle disposizioni del codice si ritornerà più avanti.

9. LE AZIONI DI COGNIZIONE. I. L’accertamento come oggetto delle azioni di co­ gnizione. Alla tripartizione delle tipologie di giurisdizione corrisponde un’analoga tripartizione sotto il profilo dell’azione. Tuttavia, se è certamente possibile parlare di azione esecutiva e di azione cautelare, è nel settore della giurisdizione di cognizione che la teoria dell’azione trova il più ampio sviluppo. Le azioni di cognizione tendono tutte ad un accertamento. L’attore domanda al giudice, prima di tutto e come base di ogni decisione successiva, un confronto fra la situazione concreta in cui egli si trova e di cui lamenta qualche aspetto di antigiuridicità, con le norme positive. All’esito di questo confronto sta un giudizio, che per l’autorità di chi lo compie (il giudice, in nome del popolo) diventa la verità di legge su quella situazione e, quindi, l’accertamento vincolante. Di solito, però, l’accertamento non basta a garantire la tutela domandata: occorre che ad esso acceda una clausola di condanna, ovvero che da esso conseguano effetti costitutivi. Si ha così la tradizionale ripartizione fra azioni di mero accertamento, di condanna e costitutive.

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II. Le azioni di mero accertamento. Le azioni di accertamento mero sono quelle in cui la pronuncia del giudice ha in sé l’efficacia di tutelare l’interesse leso. Qui l’attore si trova, generalmente, in una situazione di materiale godimento, minacciata dalla pretesa altrui. La pronuncia serve a confermare la legittimità della situazione, in sé già soddisfacente. Un esempio può essere quello dell’azione confessoria servitutis. A gode materialmente della servitù di passaggio sul fondo di B, ma B la contesta. Ad A occorre un accertamento giudiziale, che sarà però, in questo caso, confermativo di ciò che già esiste. La dottrina ha dubitato a lungo dell’ammissibilità della categoria delle azioni di mero accertamento. Il problema è che di rado una domanda di mero accertamento reintegra un diritto leso e che quindi spesso manca l’interesse ad agire. Non vi è interesse, ad esempio, quando la domanda è in definitiva fine a se stessa (le c.d. azioni di iattanza). Nell’esempio precedente, si potrebbe ritenere esistente l’interesse ad agire di A se B, mentre A sta cercando di vendere il proprio fondo a C, informasse quest’ultimo dei dubbi sulla effettiva esistenza della servitù: C potrebbe essere indotto ad abbandonare l’affare oppure a proporre un prezzo minore. Di qui, l’interesse concreto di A ad ottenere un accertamento sul punto. Un aspetto della tutela di mero accertamento è anche quello dell’accertamento negativo del preteso diritto della controparte. Di fronte alla domanda dell’attore, il convenuto può limitare il proprio interesse al mero non accoglimento di quella domanda, per qualunque ragione ciò avvenga, anche se di natura prettamente processuale di rito; può, però, anche avere l’interesse ad ottenere un accertamento della non esistenza del diritto vantato, per conseguire su questo punto il giudicato e quindi la certezza che la domanda non sarà più riproposta. In tutti i casi, l’accertamento in sé è già sufficiente per dare alla parte il soddisfacimento che domanda al giudice. Non occorre altro, e tanto meno mettere in piedi la macchina dell’esecuzione forzata.

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III. Le azioni di condanna. Molto spesso all’accertamento si affianca una domanda di condanna nei confronti del convenuto (a un dare, a un fare, a un lasciar fare, a un non fare). Si hanno allora le azioni di condanna (o meglio, di accertamento e condanna). Le azioni di condanna sono molto frequenti: vi rientrano, fra le altre, tutte le situazioni in cui l’attore chiede il pagamento di una somma o la consegna di un bene. Il presupposto dell’azione di condanna è che l’attore non abbia la materiale disponibilità del bene o dell’opera, che gli deve essere prestata dal convenuto. Per conseguire lo scopo, non gli basta la pur necessaria affermazione dell’esistenza del suo diritto, ma gli occorre che l’ordinamento, attraverso il giudice, emani un comando concreto a carico della controparte. Se a questo comando la controparte non sarà adempiente, l’attore vittorioso potrà agire esecutivamente e ottenere che il braccio dello Stato attui la reintegrazione materiale del suo diritto. Il rapporto fra azione di condanna e successiva esecuzione è molto stretto, nel senso che la pronuncia condannatoria è, di per sé, non idonea a dare all’attore il soddisfacimento pieno del suo diritto e l’attività esecutiva si presenta come un’appendice necessaria, se non vi è spontanea collaborazione della controparte. Un punto delicato è quello delle azioni speciali di condanna. Prima di tutto, si discute (sempre sotto il profilo dell’interesse) sull’ammissibilità di una domanda di condanna generica (cioè solo sull’an debeatur e non anche sul quantum debeatur). Il caso di condanna generica regolato dall’art. 278, comma 1°, c.p.c. suppone, in realtà, una domanda anche sul quantum. La norma citata prevede che, quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. Ora, non si tratta di un caso in cui l’attore si sia limitato a chiedere l’accertamento, fine a se stesso, dell’obbligo del convenuto di pagare o adempiere, ma di una situazione in cui l’attore ha chiesto il pagamento di una somma e, di fronte alla contestazione dell’esistenza del diritto, il giudice abbia

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intanto accertato che quel diritto esiste: il processo proseguirà poi per stabilire l’entità del pagamento. Una domanda volta ad un mero accertamento di una situazione di credito, con espressa rinuncia a chiedere la condanna, sarebbe priva della condizione dell’interesse ad agire e quindi non accoglibile nel merito. Il profilo dell’interesse e dell’attualità della lesione viene in gioco anche per la condanna in futuro. Di solito, tale forma di condanna non è ammissibile, perché il diritto alla tutela sorge solo con la violazione del diritto: solo talora, la legge eccezionalmente la consente (come nel caso dell’art. 657 c.p.c., in tema di convalida di licenza per finita locazione). Distinta dalla condanna in futuro è quella che si ottiene mediante le azioni inibitorie. Qui non si ha a che fare con la reintegrazione di un diritto leso, ma con la richiesta di rimozione di un comportamento antigiuridico, destinato a provocare lesioni e danni in futuro. L’attività illecita sussiste già, ma l’obiettivo è esattamente quello di prevenirne le conseguenze. Si deve notare che nell’ordinamento italiano non esiste una fattispecie generale di azione inibitoria, ma una pluralità di norme che prevedono domande di questo tipo (ad esempio, in tema di tutela del consumatore o di ordini di protezione contro gli abusi familiari). Si parla, da altro profilo, di pronunce di condanna condizionata. Queste pronunce sono frutto della creazione giurisprudenziale e sono ammesse, in omaggio al criterio della economia dei giudizi, in quanto l’efficacia della condanna è subordinata al sopraggiungere di un determinato evento futuro ed incerto, o di un termine prestabilito, o di una controprestazione specifica, sempre che il verificarsi della circostanza tenuta presente non debba essere controllato da altri accertamenti di merito, in un ulteriore giudizio di cognizione, ma possa essere semplicemente fatto valere in sede esecutiva, mediante l’istituto, di cui si dirà a suo luogo, dell’opposizione all’esecuzione. In particolare, la giurisprudenza, in maniera consolidata, ha evidenziato che la condanna condizionale non può essere concessa nel caso in cui l’evento incerto e futuro dipende da altro accertamento di merito da farsi in un altro giudizio e tra altri soggetti e nel quale

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il condannato condizionato rimane estraneo, con la conseguenza di poter subire pregiudizi senza avere la possibilità di difendersi. Rilevanti sono anche le forme di condanna con cognizione sommaria, con prevalente funzione esecutiva, come il decreto ingiuntivo a norma degli artt. 633 ss. c.p.c. e l’ordinanza di convalida della licenza o dello sfratto con riserva delle eccezioni del convenuto, secondo l’art. 665 c.p.c. Questi istituti saranno ripresi e commentati a suo luogo. Non è inutile osservare, però, come la tendenza, non solo italiana ma europea, a cogliere un risultato immediatamente fruibile tende a supportare la costruzione di metodi che valorizzano maggiormente ciò che, sul piano sistematico, è accessorio (vale a dire, la condanna), a detrimento di ciò che sempre sul piano sistematico è principale (vale a dire, l’accertamento). Naturalmente, l’accertamento non manca, ma si tende, sia pure nei limiti del quadro costituzionale fissato dall’art. 111, a renderlo più semplice e, talora, assicurato dalla semplice mancanza di reazione della controparte. IV. Le azioni costitutive. Infine, le azioni costitutive hanno luogo quando la lesione del diritto è sanata da una pronuncia del giudice, in cui all’accertamento consegue, senza che vi sia necessità di vincere una resistenza materiale, una modificazione della realtà giuridica. La pronuncia giudiziale è di per sé sufficiente a conseguire l’effetto della reintegrazione nel diritto leso. Questo potere è conferito ai giudici dall’art. 2908 c.c., secondo il quale, nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. È bene osservare che, alla base di ogni pronuncia di condanna costitutiva, si trova una specifica norma di legge che conferisce al giudice quello specifico potere. L’espressione “nei casi previsti dalla legge” ha esattamente questo significato. Si può distinguere fra giurisdizione costitutiva necessaria e non necessaria. Nel primo caso, l’effetto modificativo si attua solo per il tramite dell’intervento del giudice; nel secondo caso, l’effetto si può produrre anche con l’accordo delle parti.

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Se, ad esempio, si propongono domande che investono lo status delle persone, soltanto un provvedimento giurisdizionale può risultare efficace: non si può interdire una persona su base pattizia. Se, invece, si tratta di vicende relative a diritti patrimoniali disponibili (ad esempio, l’annullamento del contratto o l’esecuzione del contratto preliminare ex art. 2932 c.c.), la giurisdizione interviene a motivo del conflitto fra le parti, ma l’esito ben potrebbe essere conseguito per via consensuale. Le pronunce costitutive non suppongono l’esecuzione forzata, perché, come detto, non vi sono resistenze materiali da vincere. Ciò non toglie che non di rado le sentenze caratterizzate da questo contenuto suppongano attività consequenziali per essere efficaci (come, ad esempio, la trascrizione). Si tratta però di attività che non comportano la resistenza di una controparte, ma solo la doverosa cooperazione di soggetti, enti ed organi che per legge vi sono tenuti. V. Riepilogo. Nozione di processo. È opportuno, a questo punto, riepilogare. È noto che cosa è azione. Si parla invece di causa come sinonimo di lite o controversia portata in giudizio (e quindi, anche con due o più azioni: es., risoluzione del contratto e risarcimento del danno). Il termine processo riguarda invece il contenitore della controversia, che può ricomprendere anche più cause e quindi più azioni (ad es., azione di risoluzione e risarcimento dei danni proposta in materia di appalto contro l’impresa e il direttore dei lavori). È quindi possibile dare una nozione di processo più articolata di quella utilizzata finora. Si può dire che il processo civile è un metodo per la risoluzione delle controversie civili che ne prevede la decisione da parte di un organo giurisdizionale, in posizione di terzietà e di imparzialità, con l’osservanza delle opportune garanzie e in un tempo ragionevole. Il singolo processo è quello che nasce con l’instaurazione della lite davanti all’organo giurisdizionale e che viene concretamente individuato dalle parti coinvolte e dalle domande proposte.

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10. LA DIFESA DEL CONVENUTO. LE ECCEZIONI. LE DOMANDE RICONVENZIONALI. IL PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE. I. La posizione del convenuto. Fino a questo momento, si è guardato al processo nell’ottica dell’attore: di chi, cioè, domanda giustizia. È invece necessario vedere il fenomeno anche nell’ottica di chi subisce la domanda giudiziale, non solo perché a priori non si può sapere se ha torto, ma anche perché non di rado ha ragione. “Il processo deve dare a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che ha diritto di conseguire in base alla legge sostanziale”. Queste parole di Giuseppe Chiovenda, che hanno nutrito tanta parte della cultura giuridica italiana del Novecento, se applicate ad un convenuto che ha ragione, vengono a dire che il processo non deve dare nulla all’attore. Conviene ricordare che, in diritto processuale, non esiste una parte che ha ragione, ma solo una parte che pretende di averla. Fino alla decisione che conclude la lite (e fatti salvi, naturalmente, gli effetti medio tempore delle pronunce che si susseguono), vi sono soltanto due o più parti contrapposte, ciascuna delle quali ha pieno diritto di difesa e di tutela. Quando si esamina un istituto processuale, per verificarne la capacità di regolare con equilibrio una data situazione, occorre collocarsi sia dal punto di vista dell’attore che dal punto di vista del convenuto. Solo se da entrambe le prospettive ne esce un giudizio di ragionevolezza, si può concludere che la struttura di quell’istituto è adeguata. Di fronte alla domanda giudiziale, il convenuto si può difendere in vari modi, di crescente intensità. In primo luogo, può limitarsi alla mera negazione del fatto. In secondo luogo, può svolgere obiezioni in diritto. In tutti i casi, può contestare la sussistenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione. In tal modo, egli cerca di impedire la realizzazione dell’iter dimostrativo che spetta all’attore compiere. Infatti, l’attore, per ottenere una pronuncia favorevole di merito e conseguire così il

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bene della vita auspicato, deve realizzare tutti i presupposti processuali e le condizioni dell’azione e, poi, raggiungere una valutazione di fatto e di diritto conforme alla sua domanda. Al convenuto basta invece ostacolare l’attore su un punto soltanto di questo percorso, perché la domanda dell’avversario venga respinta. II. L’eccezione. In modo più efficace, il convenuto può introdurre nel processo fatti nuovi, che contrastano la domanda dell’attore sul piano della causa petendi (fatto e norma). Così come l’attore deve indicare i fatti costitutivi del diritto leso, il convenuto può opporre fatti modificativi, estintivi ed impeditivi, che rendono inapplicabile la norma. In altre parole, il convenuto scende più a fondo sul terreno del confronto e passa a sostenere di avere piena ragione nel merito. Si innesta qui il concetto di eccezione. Talora si indica con eccezione ogni difesa attiva del convenuto. In senso proprio, tuttavia, sono eccezioni soltanto le deduzioni di fatti nuovi, che alterano il quadro prospettato dall’attore. Si parla di eccezioni in senso strettissimo, quando i fatti allegati dipendono – in senso giuridico – dal convenuto. Sotto il primo profilo (e quindi, nel significato di difesa attiva), si distingue fra eccezioni di rito ed eccezioni di merito, a seconda che il convenuto contrasti qualcuno dei requisiti che devono sussistere per la legittima decisione del giudice, oppure affronti le tesi dell’attore direttamente sul piano dell’esistenza del diritto. Occorre avere presente che, una volta radicata in giudizio la controversia, sorge automaticamente nel convenuto l’interesse ad ottenere a sua volta l’accertamento negativo della pretesa dell’attore. Il convenuto, insomma, non è un soggetto chiamato soltanto a difendersi, ma è parte della controversia, legittimata a fare valere in pieno le sue ragioni. Si troverà conferma di questo in vari aspetti della materia, dalla disponibilità dei mezzi di prova alla disciplina dell’estinzione. È importante, a vari fini, la distinzione fra eccezioni che possono essere sollevate solo su istanza di parte ed eccezioni rilevabili d’ufficio. Questo aspetto dipende non dal principio di disponibilità della

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tutela giurisdizionale, che spetta solo alle parti, ma dall’operatività del diritto sostanziale e dal principio della conoscenza del diritto da parte del giudice (c.d. principio iura novit curia). Il punto sarà ripreso più avanti, in sede di trattazione del processo di cognizione. Fin da ora, si deve sottolineare che la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni si deve coordinare con il principio della disponibilità della materia del contendere in capo alle parti (che si illustrerà fra poco), che comporta che, normalmente, siano soltanto le parti a decidere su che cosa litigare e su quali questioni confrontarsi. All’interno del perimetro della materia del contendere, così come le parti la hanno fissata, vi sono talora profili così importanti, di diritto sostanziale o processuale, che la legge ne impone in ogni caso la considerazione: non potendo imporlo alle parti, ne mette il relativo peso sul giudice. III. La domanda riconvenzionale. Infine, il convenuto può, per così dire, passare al contrattacco, proponendo a sua volta una domanda contro l’attore, che prende il nome di domanda riconvenzionale. Si pensi ad un contratto di appalto, in cui l’appaltante cita in giudizio l’appaltatore per ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento, ritenendo che l’appaltatore stia lavorando male e senza rispettare i termini di consegna delle opere. L’appaltatore, oltre a difendersi contestando le affermazioni dell’attore, potrà a sua volta chiedere al giudice il pagamento delle proprie spettanze. Si tenga presente che il convenuto potrebbe sempre proporre la propria domanda in un giudizio autonomo: non è obbligato a presentarla in quello iniziato dall’attore. Tuttavia, è normale che il convenuto cerchi di presentare al giudice l’atteggiamento antigiuridico dell’attore, alla doppia finalità di meglio difendersi contro la domanda principale e di ottenere a sua volta un vantaggio. Ne segue che le due azioni (la domanda principale dell’attore e quella riconvenzionale del convenuto), per essere trattate nello stesso processo, devono avere un legame fra loro di connessione per il titolo o per l’oggetto, come dispone l’art. 36 c.p.c.

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In realtà, la giurisprudenza ammette che possa essere proposta dal convenuto una domanda riconvenzionale non altrimenti connessa per il titolo o per l’oggetto a nessuna delle domande dell’attore, purché ne venga rispettata la competenza per materia, valore e territorio dell’organo giudiziario adito per primo. In pratica, si preferisce gestire un processo solo, anziché, come sarebbe necessario, due processi. Si tratta di un’applicazione del principio di economia processuale. IV. L’oggetto del processo e la materia del conten­ dere. La considerazione complessiva delle posizioni dell’attore e del convenuto permette di inquadrare la nozione di oggetto del processo (o materia del contendere), che è quindi dato dalla domanda (o dalle domande) dell’attore, dalle eccezioni e domande riconvenzionali del convenuto, dalle eccezioni e dalle domande riconvenzionali che a sua volta l’attore propone contro la domanda riconvenzionale del convenuto (c.d. reconventio reconventionis). A tutto ciò, come meglio vedremo, va aggiunto l’apporto di eventuali terzi. Si deve precisare che anche il giudice può dare un contributo alla definizione di ciò che deve essere deciso: non per mezzo di autonome domande, ma per mezzo delle eccezioni proponibili d’ufficio. V. La strategia difensiva del convenuto. Il principio di non contestazione. Come sceglie il convenuto fra le possibili linee difensive a sua disposizione? Le modalità tattiche di difesa del convenuto dipendono da un insieme di circostanze e, specialmente, dalla prognosi che egli può fare sull’assolvimento dell’onere probatorio in fatto a carico dell’attore. Va detto, peraltro, che le norme positive impongono al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (oltre che di proporre le eventuali eccezioni di rito o di merito non rilevabili d’ufficio, a pena di decadenza): così

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l’art. 167 c.p.c. e l’art. 416 c.p.c. Più in specifico, l’art. 115, comma 1°, prevede che il giudice debba porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Il principio di non contestazione assume dunque una valenza formale nel nostro ordinamento. Esso significa che se una delle parti afferma la verità di un fatto e l’altra parte non ne sostiene apertamente la falsità, proponendo una sua diversa versione, o per lo meno non espone una narrativa della vicenda, incompatibile con la veridicità di quel fatto, il giudice non deve compiere alcuna indagine, ma ritiene per confermata quella circostanza. È opportuno soffermarsi brevemente sulle ragioni di questo principio. Non si tratta, qui, di un profilo collegato alla disponibilità della materia del contendere, che riguarda domande e non singoli fatti. Non si tratta neppure di un criterio di verità: un fatto falso, ma non contestato, non diventa per questo vero ma rimane falso. Si tratta, invece, di una combinazione di un criterio di economia processuale con la responsabilità delle parti e la loro autonomia nella gestione del contenzioso. Il giudice deve prima di tutto risolvere un conflitto e non cercare una piena verità dei rapporti fra le parti: quindi, il principio di non contestazione serve a circoscrivere l’area della controversia. In pieno accordo con la tendenza europea, espressa da varie norme dei regolamenti processuali dell’Unione, il nostro ordinamento va quindi nella direzione di equiparare il silenzio cosciente ad una vera e propria ammissione dei fatti dedotti dalla controparte. È bene segnalare fin da ora che il principio di non contestazione opera a due condizioni: che la parte interessata a negare un fatto sia attivamente presente nel processo (e per questo la norma parla di “parte costituita”) e che sia in grado di avere un’opinione sulla verità del fatto che decide di non contestare. Da ultimo, si deve segnalare il principio della parità delle armi nel processo (sul quale si ritornerà) e che suppone una situazione di equilibrio di possibilità fra le parti. Questo equilibrio non va dimenticato mai, anche in rapporto alle esigenze di effettività della tutela dei diritti lesi.

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11. LA DISPONIBILITÀ DELLA TUTELA GIURISDI­ ZIONALE. IL PRINCIPIO DELLA CORRISPONDEN­ ZA FRA IL CHIESTO E IL PRONUNCIATO. I. La disponibilità della tutela giurisdizionale. Dopo aver esaminato, separatamente, la posizione del giudice e quella delle parti, considerati in modo statico, dobbiamo, in una prima approssimazione, vedere i loro reciproci rapporti in modo dinamico, nelle rispettive interazioni. Studiamo, quindi, nelle loro linee generali, i grandi principi e le regole generali del processo. Il primo punto è quello della disponibilità della tutela giurisdizionale. Data una controversia e una lesione di una posizione soggettiva, la parte può decidere di richiedere la tutela giurisdizionale oppure no (rinunciare alla pretesa, optare per una forma di risoluzione non giudiziale della controversia e via dicendo). Nel nostro sistema, la tutela giurisdizionale è disponibile, nel senso che il soggetto interessato può agire o non agire e, dopo avere agito, può disporre del diritto sostanziale e/o dell’azione. L’art. 2907 c.c. sancisce il principio della domanda: il processo inizia su decisione di parte e il giudice non può iniziare il processo d’ufficio. Così dispone il comma 1° della norma: alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero. Fa eco l’art. 99 c.p.c.: chi vuole fare valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente. La scelta di affidare alla parte la decisione se iniziare o no il processo è frutto di una valutazione politico-sociale: infatti, si ritiene che la parte sia la migliore arbitra della valutazione dei propri interessi. Nei sistemi moderni, il giudice non ha il potere di cominciare di sua iniziativa il processo civile. La concezione liberale, ora del tutto prevalente, esclude che sia l’autorità giudiziaria, con la finalità di vedere affermata l’applicazione di determinate norme, ad avviare un processo. Le residue, modeste situazioni di iniziativa pubblica si riducono ai pochi casi in cui il relativo compito viene affidato al pubblico mi-

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nistero. Il divieto per il giudice di iniziare d’ufficio un processo civile esprime anche l’idea di una funzione della giurisdizione, come modo di reintegrazione dei diritti lesi e come efficiente servizio. Se il criterio dell’interesse di parte normalmente risponde in modo efficace all’esigenza di selezionare, fra i molti conflitti della vita reale, quei pochi che approdano nei tribunali, vi sono tuttavia situazioni in cui la mancata richiesta di tutela giurisdizionale dipende non da una scelta, ma da una necessità: ciò accade, ad esempio, per le fasce sociali più deboli o per le controversie di modesta entità. In questi casi, i costi della giustizia, troppo alti in rapporto alle capacità patrimoniali della parte o rispetto al valore del bene conteso, inducono chi ha subito una lesione a rinunciare alla tutela. Le disposizioni sul patrocinio a spese dello Stato tendono ad ovviare a questi problemi, ma con esiti solo parziali. La decisione se iniziare o no il processo spetta solo all’attore. Ma una volta che il processo sia iniziato, entrambe le parti possono decidere di porvi fine, eventualmente disponendo (se si tratta di diritti disponibili) delle posizioni sostanziali. Secondo l’art. 306 c.p.c., le parti possono rinunciare agli atti, estinguendo il processo: esse possono quindi compiere una scelta che nega e contraddice quella originaria di voler ricorrere al giudice. Proprio perché conseguente alla disponibilità della tutela giurisdizionale, questa rinuncia suppone il consenso di tutte le parti costituite. La semplice rinuncia agli atti non preclude alle parti la possibilità di riproporre in un secondo momento la domanda. Se, però, oggetto di controversia sono diritti disponibili, è frequente che la rinuncia agli atti sia la traduzione, sul piano del rito, di un accordo che definisce la lite sul piano sostanziale. Normalmente si tratta di una transazione, che, a mente dell’art. 1965 c.c., è un contratto con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già insorta (ovvero prevengono una lite che può sorgere fra loro). Se, ad esempio, A chiede a B il risarcimento del danno subito, che indica nell’ammontare di X, può accadere che, durante lo svolgimento del processo, le parti trovino un accordo, per cui B versa ad A i due terzi di X. Le parti stipulano allora un contratto di transa-

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zione. L’adempimento di questo contratto viene a modificare i rapporti fra le parti, nel senso che A non ha più nel proprio patrimonio giuridico l’originaria azione risarcitoria. Ne segue che il processo, sorto per ottenere la realizzazione di quella azione, non ha più ragione di essere e si estingue, seppure non in modo automatico, ma secondo le modalità processuali regolate dagli artt. 306 ss. c.p.c. Se, dopo la stipula e l’adempimento della transazione, A continuasse il giudizio, la sua domanda sarebbe respinta. II. La corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Collegato a questo, vi è il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Dalla domanda di parte scaturisce il dovere decisorio del giudice, che si esplica in tanto in quanto le parti lo hanno richiesto. Sono le parti a delimitare l’oggetto del processo e quindi il potere-dovere di decidere del giudice. Infatti, occorre tenere presente che il monopolio di parte nella tutela giurisdizionale non concerne solo la scelta, se iniziare o no la causa, ma anche quali fatti portare a fondamento della tutela. In questo senso, il principio della domanda è strettamente legato all’individuazione dei fatti costitutivi, vale a dire di quelle circostanze materiali che sono necessarie e sufficienti a generare la sussistenza del diritto vantato dall’attore. Secondo gli artt. 112 c.p.c. e 2907 c.c. il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti della domanda. L’accertamento (e il giudicato) si formeranno in relazione al terreno individuato dalle domande, anche riconvenzionali, e dalle eccezioni delle parti. La regola si completa con il divieto per il giudice di pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti. Questo significa che normalmente il giudice, a cui spetta di verificare l’esistenza del diritto fatto valere, può rilevare le eccezioni e che si deve arrestare solo quando l’ordinamento assegna alle parti in via esclusiva il potere di introdurre una data eccezione nel processo. All’obbligo di decidere su tutta la domanda (o meglio, su tutto l’oggetto del processo) corrisponde il vizio della c.d. omissione di

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pronuncia, mentre al dovere di non pronunciare oltre i limiti della domanda corrisponde il vizio di ultrapetizione. Si parla, a questo proposito, di dovere decisorio del giudice. La tutela costituzionale del diritto di azione e difesa delle parti suppone che, una volta proposta la domanda, il giudice sia comunque tenuto a decidere. L’ordinamento non ammette un diniego di giustizia (il c.d. non liquet). Certo, la parte non può avere alcuna pretesa sull’esito della decisione, che può essere favorevole o sfavorevole: ma sa che, avviato il giudizio e se non si verifica, nel frattempo, qualche fatto estintivo (di cui peraltro essa è pienamente arbitra) il giudice dovrà comunque emettere una decisione. A differenza di altre scienze, il diritto offre sempre una soluzione: per lo meno, una soluzione astratta, visto che quando si passa poi al piano della realizzazione materiale possono presentarsi ostacoli non superabili. Finché si resta, però, sul piano dell’accertamento, il giudice è sempre in grado di dare una risposta: per questo, il dovere decisorio non ammette deroghe. Quando si dice che il giudice deve decidere su tutta la materia del contendere, occorre tenere presente il profilo dell’ordine delle questioni. Se il giudice nega la sussistenza del presupposto processuale della competenza, non può passare all’esame del merito, ma non per questo ha mancato al suo dovere decisorio. Allo stesso modo, se, risolvendo una data questione decide nel merito la controversia, non è obbligato a prendere posizione sulle eventuali altre questioni il cui esame non è necessario ai fini della sentenza. Si parla, in questo senso, di domande, eccezioni o questioni assorbite: vale a dire, quelle che il giudice legittimamente non decide, senza per questo violare il dovere decisorio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. I casi di assorbimento sono molteplici: ad esempio, se viene accolta la domanda principale resta assorbita la subordinata; oppure, se viene accolta un’eccezione preliminare o pregiudiziale, restano assorbite le eccezioni di merito. Uno specifico caso di adempimento del dovere decisorio del giudice si ha quando opera il principio della c.d. ragione più liquida, secondo il quale si decide prima (temporalmente) una questione (logicamente) più a valle, se tale decisione è più agevole e se risolve

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nello stesso senso la materia del contendere. Ad esempio, A cita B per ottenere il pagamento della somma X. B si difende eccependo l’incompetenza per materia del giudice e rilevando che comunque il credito si è prescritto. La questione di competenza è difficile e di incerta soluzione. Invece, l’eccezione di prescrizione è documentalmente provata e dimostra che, certo, la domanda di A non può essere accolta. Secondo l’ordine logico delle questioni, il giudice dovrebbe dapprima risolvere la questione di competenza (relativa ad un presupposto processuale, certamente pregiudiziale rispetto al merito) e, forse, dichiararsi incompetente, lasciando poi al giudice competente il dovere di accertare l’evidente inesistenza della pretesa di A. In questi casi, in coerenza con il dettato costituzionale della ragionevole durata del processo, si reputa corretto che il giudice decida nel merito, mentre la questione a monte resta assorbita. Il giudice non può introdurre nel processo elementi di fatto diversi da quelli che le parti gli propongono. Tuttavia, egli conosce il diritto e può qualificare le domande in modo diverso. Così pure, è sempre chiamato a verificare le domande e le eccezioni delle parti alla luce delle disposizioni di legge e può, quindi, respingerle quando non sono conformi alle fattispecie legali disegnate dalle norme. Tutto ciò non comporta un vizio di ultrapetizione. Se il giudice ravvisa un’eccezione rilevabile d’ufficio, può metterla a fondamento della sua decisione senza eccedere i propri limiti (salvo ciò che si dirà a proposito del contraddittorio). L’estensione del potere del giudice di sollevare eccezioni d’ufficio, però, va coordinata con il monopolio delle parti nella determinazione della materia del contendere. Si tratta di un punto di particolare delicatezza, che incide su molti aspetti: ad esempio, sui limiti oggettivi del giudicato che si verrà a formare. Si ritornerà su questo profilo nelle pagine che seguono. III. Processo civile e gestione degli interessi. Se il compito del giudice civile è quello di esercitare la giurisdizione applicando le norme giuridiche, è opportuno segnalare che sempre più spesso egli è chiamato a svolgere un ruolo attivo di gestione

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della lite, attraverso la ponderazione degli interessi. In particolare, servono a questo scopo gli strumenti che operano sul fattore tempo, facilitando o no la trattazione rapida ovvero la composizione della lite, ivi incluse le misure di urgenza e anticipatorie all’interno del processo, con la possibilità di scegliere (e quindi di discriminare e di amministrare il contenzioso) fra taluni casi e taluni altri. Nel contempo, si assiste all’incremento di forme di processualizzazione dell’operato della pubblica amministrazione, con l’inserimento di elementi non secondari di trasparenza, di informazione e di ascolto (quasi di contraddittorio) degli interessati. Ora, ciò porta ad una sorta di avvicinamento fra il metodo amministrativo e quello giurisdizionale nella gestione dei casi. Fra la decisione amministrativa, per quanto raggiunta attraverso tecniche raffinate di confronto fra gli interessi, e la decisione giudiziaria, per quanto ottenuta attraverso metodi semplificati o perfino sommari, esiste una radicale ed inconciliabile differenza, data dalla mancanza, nel primo caso, di terzietà del decidente e di parità di posizioni giuridiche fra i contendenti. Tuttavia, la tendenza ad equiparare il metodo (allineando cioè le regole procedurali) è destinata a veicolare anche la sostanza della decisione. Sia la decisione amministrativa che quella giurisdizionale sembrano tendere verso una sorta di koinè: l’organo decidente, in vista di un interesse superiore, bilanciando opportunamente gli interessi particolari, seguendo un procedimento che consenta a tutti i portatori di interesse di fare sentire la loro voce, prende la decisione che ritiene migliore. La normazione europea contribuisce, in molti ambiti, a fare sì che le due attività si assomiglino sempre di più, nonostante norme come l’art. 6 Cedu e l’art. 47 della Carta dei diritti. In effetti, le norme costituzionali e fondamentali possono mantenere le loro formulazioni, pur in presenza di una sostanziale mutazione genetica dei concetti a cui rinviano. Il diritto di difesa resta il diritto di difesa, ma altra cosa è pensarlo in un contesto di gestione di interessi (come in effetti avviene in taluni procedimenti amministrativi: si pensi alle fasi precontenziose in materia di concorrenza) e cosa ben diversa in un ambito di tutela giurisdizionale dei diritti, dove (e basterebbe questa annotazione) esso si esplica sia per con-

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vincere il giudice contro l’avversario, sia per salvaguardare la pienezza di prospettazione delle proprie tesi (e quindi, se non contro il giudice, certamente anche nei confronti del giudice). Se il primo dei due significati occupa anche il secondo degli spazi, è evidente che si sta operando una modifica, tanto silenziosa quanto dirompente. Se questa analisi è esatta, è necessario operare, con molta attenzione, per mantenere ferme in sede giurisdizionale le caratteristiche di civiltà e di garanzia proprie del processo, operando, per quanto possibile, in modo che la sovrapposizione non si risolva in un impoverimento della tutela: pericolo al quale le tendenze europee certamente non sottraggono.

12. IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO. I. La nozione di contraddittorio. Il principio del contraddittorio è un elemento cardine di ogni sistema processuale di cognizione (e, con qualche limitazione, anche cautelare e di esecuzione). L’essenza del contraddittorio è duplice: esso comporta che il giudice non possa decidere se non avendo ascoltato tutte le parti e che ciascuna parte sia posta in condizione di poter contrastare le tesi delle altre. Si tratta di un punto molto importante, che va ben compreso. Il processo ha struttura dialettica: ciò significa che l’accertamento della verità e della giustizia non si attua in maniera unilaterale. Il giudice non riceve un carteggio sul tavolo e poi decide da solo; non dà, dopo avere studiato il caso, un parere giuridico. Al contrario, decide su una domanda e, quindi, come si è detto, sulla richiesta di una parte contro l’altra. Il conflitto è strutturale, intrinseco. Ne segue che la decisione non può avvenire che sull’apporto, contrastante e confliggente, di tutte le parti. La controversia, del resto, si presenta obiettivamente incerta. Se non lo fosse, lo strumento del processo sarebbe superfluo e il suo impiego un abuso. Se, però, vi è una controversia reale, l’incertez-

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za (in diritto o in fatto) ne costituisce un elemento essenziale, che postula quindi il confronto fra le parti. Incertezza e contradditorio sono profondamente collegati. Il processo civile è costantemente sfidato a rinnovarsi dal mutamento sociale: ogni ritardo in questo senso è fonte di disagio in coloro che, dal processo, attendono giustizia e tutela. La società postmoderna, fondata su ritmi veloci di comunicazione e di fruizione dei beni, valorizza determinati aspetti della tecnica processuale e ne deprime altri. Così, l’efficienza, la rapidità, la trasparenza sono qualità apprezzate, mentre è meno percepito il valore del rigore nelle forme o quello della stabilità del risultato dell’attività giurisdizionale. Ora, fra i punti di sensibilità diffusa si deve porre, in prima linea, quello del confronto fra le parti, del contraddittorio, dell’esercizio pieno delle difese. L’accresciuto livello della cultura media rende sempre più necessario al difensore spiegare al proprio assistito le ragioni delle sue scelte all’interno del processo e i motivi dell’impatto, positivo o negativo, di queste scelte sulla decisione del giudice. Il contraddittorio, insomma, è un aspetto irrinunciabile del processo e lo sarebbe anche se, per assurdo, le norme (interne ed europee, costituzionali e ordinarie) non lo tutelassero. Il legislatore di oggi può optare per governare date situazioni senza il processo, ma, se sceglie il processo, deve consentire uno spazio pieno all’operatività del contraddittorio, senza remore e senza esitazioni. Ovviamente, si possono immaginare diversi sistemi processuali, in cui non identica, per così dire, è la “quantità” di contraddittorio possibile. Nel rito ordinario di cognizione, come meglio si vedrà, le parti dialogano fra loro con una pluralità di atti: la citazione, la comparsa di risposta, le tre memorie previste dall’art. 183 c.p.c., le comparse conclusionali, le repliche. Nel rito del lavoro, così come nel c.d. rito sommario, gli atti difensivi sono soltanto uno per parte, oltre alla possibilità di una discussione orale. L’essenziale è che il confronto possa avvenire con modalità adeguate, anche se non vi sia un numero particolarmente elevato di repliche reciproche. La nozione di contraddittorio sembra sovrapporsi a quella di diritto di difesa. In realtà, il diritto di difesa attiene alla sostanza,

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mentre il principio del contraddittorio attiene al metodo. Il diritto di difesa suppone che ogni parte possa incidere effettivamente sul convincimento del giudice e il contraddittorio è il modo con cui ciò si realizza. Il principio del contraddittorio si connette ad un altro principio fondamentale: quello dell’uguaglianza delle parti fra loro e dinanzi al giudice. Le parti sono uguali, hanno uguali diritti e devono essere poste in condizione di fronteggiarsi in modo equilibrato. È questa la particolare sottolineatura che offre il concetto di parità delle armi: tutte le parti devono essere equamente poste in condizioni di difendersi, con tempi e modalità, se non assolutamente identici, per lo meno tendenzialmente simili. II. Le basi normative del principio del contraddit­ torio. Le norme fondanti sono gli artt. 24 e 111 cost. e 101 c.p.c. L’art. 101, comma 1°, c.p.c., avverte che il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale la domanda è proposta non è stata regolarmente citata e (ma bisogna piuttosto leggere “o”) non è comparsa. Ma, in realtà, si tratta di un principio di civiltà giuridica. Secondo l’art. 6 Cedu, rubricato “diritto ad un processo equo”, ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. Contenuti analoghi si trovano nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La norma, al suo comma 3°, precisa che ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. Secondo gli interpreti più accreditati, essa viene ad elevare a diritto fondamentale quello alla consulenza e all’informazione. La normazione europea pone in posizione assolutamente dominante il diritto sostanziale e vede il processo, in modo radicale, come uno strumento per l’attuazione, in tanto in quanto indispen-

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sabile, delle regole materiali. Perché questa veduta abbia possibilità di riuscita in una società complessa, a forte litigiosità, occorre, fra l’altro, limitare lo sbocco contenzioso delle liti. Uno degli strumenti, in questo senso, è l’informazione tecnica ovvero l’assistenza legale prima e al di fuori del processo. Il cittadino europeo deve essere posto in condizione di conoscere i propri diritti, certamente per instaurare un contenzioso a ragion veduta, ma (e forse soprattutto) anche per evitare un contenzioso inutile, per calibrare la bilancia di costi e benefici, per scegliere le modalità di lite più adatte, per evitare la ripetizione e la moltiplicazione di processi in sedi diverse. Tutto questo, nell’ottica dell’Unione, non ha soltanto un effetto deflattivo, ma esprime, in positivo, anche l’idea di un ricorso alla giustizia che deve essere efficace e non inutile. Il diritto all’informazione è strettamente collegato, sul piano finalistico, con quello del diritto di difesa e del contraddittorio. III. Il nucleo essenziale del contraddittorio. La dimensione del contraddittorio richiede di riflettere su due aspetti. In primo luogo, si tratta di ricordare l’ampio lavoro svolto, fino dagli anni Settanta del secolo scorso, ad opera della Corte costituzionale, che ha riletto le norme vigenti (talora integrandole, talora dichiarandone l’incostituzionalità), alla luce dell’art. 24 cost. La Corte costituzionale ha ritenuto legittimo che il legislatore diversifichi l’intensità delle modalità della difesa a seconda del tipo di processo, purché, però, vi sia un nucleo irrinunciabile. La giurisprudenza costituzionale ha così ritenuto che il diritto di difesa comporti sempre l’assistenza di un difensore tecnico, il diritto di provare fatti e, appunto, il principio del contraddittorio, nel senso che ogni atto del giudice deve passare attraverso il reciproco controllo delle parti. Fra le molte pronunce con cui la Consulta ha svolto un importante compito di integrazione del sistema, si possono menzionare la sentenza 10 luglio 1975, n. 202; la sentenza 30 giugno 1971, n. 151; la sentenza 23 marzo 1981, n. 42. In secondo luogo, va esaminato il rapporto fra la norma di sempre, l’art. 24 e la norma più recente, l’art. 111. Si tratta di capire

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se l’art. 111 abbia aggiunto qualcosa a ciò che l’elaborazione della Consulta, a cui si è appena accennato, aveva fissato. Ora, da questo profilo sembra si possa dire che l’art. 111 incide essenzialmente sul processo penale, ma nulla aggiunge all’ampiezza delle tutele, già conseguita con l’applicazione dell’art. 24. Diverso – ma anche diverso è il tema – è il contributo innovativo che l’art. 111 ha apportato sul terreno della ragionevole durata del processo. IV. Il contraddittorio fra parti e giudice. La moderna coscienza giuridica si è posta il problema di garantire il contraddittorio non soltanto fra le parti, ma anche fra le parti e il giudice. Lo scenario è quello delle decisioni c.d. di terza via o a sorpresa. Le parti si confrontano: l’attore propone al caso la soluzione A e il convenuto la soluzione B. Il giudice segue invece un proprio percorso, oppure solleva d’ufficio una data questione, che lo porta ad optare per la soluzione C. In questi casi, l’ordinamento vuole che le parti possano discutere con il giudice il punto, prima della decisione. Il comma 2° dell’art. 101 c.p.c., introdotto con la riforma del 2009, stabilisce al riguardo che, se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice non può decidere (ancora una volta, da solo), ma deve prima garantire alle parti la possibilità di depositare scritti difensivi, contenenti osservazioni su quella questione. La norma era stata preceduta dall’art. 384, comma 3°, c.p.c., in tema di giudizio di cassazione. Infatti la Cassazione, se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, e non fatta oggetto di motivi o difese presentati dalle parti, non può decidere immediatamente, ma riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione. Ancora prima, già nel 2001 era emerso un orientamento giurisprudenziale della suprema Corte che apriva all’esigenza di un confronto fra il giudice e le parti su ogni profilo, destinato a fondare la decisione.

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Ovviamente, ci si può domandare che efficacia abbia il contraddittorio, se attuato non fra le parti davanti al giudice imparziale, ma fra chi deve decidere (e ha già un’idea precisa su come farlo) e chi non è d’accordo. In realtà, si tratta solo di mettere a confronto la soluzione del giudice con ogni possibile obiezione, in modo da garantire la decisione più esatta possibile. V. Limiti all’operatività del contraddittorio. Non vi sono segmenti del processo da cui il contraddittorio sia radicalmente escluso: anche nel processo esecutivo, pur in un contesto diverso, esso va tutelato e garantito. Tuttavia, in concreto, vi sono talune eccezioni alla piena operatività del principio del contraddittorio, la cui legittimità è oggi in discussione, alla luce dell’art. 111 cost. Un esempio è dato dall’art. 669-sexies c.p.c., nel contesto del procedimento uniforme in materia cautelare. Al comma 2°, si dice che il giudice può emettere senza contraddittorio un provvedimento cautelare, la cui durata, però, non può eccedere i quindici giorni: infatti, il giudice deve fissare un’udienza da tenersi entro quindici giorni, nella quale, in contraddittorio, può confermare o revocare il provvedimento. Altra importante ipotesi è quella del procedimento di ingiunzione o monitorio (artt. 633 ss. c.p.c.). Qui il giudice decide sulla domanda dell’attore (peraltro, corredata da documentazione scritta) senza sentire la controparte; però il provvedimento, se favorevole all’attore, acquista efficacia piena solo se entro un dato termine dalla notifica (normalmente, quaranta giorni) la controparte non vi si oppone, instaurando un giudizio di cognizione piena in contraddittorio; il contraddittorio, quindi, è eventuale e differito. In entrambi questi casi, l’opinione prevalente va nel senso che la compressione del contraddittorio è accettabile, in quanto si tratta di una limitazione solo temporanea, in vista di obiettivi di giustizia sostanziale e di effettività della tutela. Occorre anche fare riferimento all’istituto della contumacia. La contumacia (come meglio si vedrà) è la situazione per cui la parte

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(attore o convenuto) non si costituisce e quindi non prende posizione attiva nel processo: il che è possibile in quanto la partecipazione attiva al processo è una facoltà e non un obbligo. Ora, il processo in contumacia non viola il principio del contraddittorio. Infatti, il contraddittorio assicura l’uguaglianza formale delle parti, ossia la pari possibilità, e non quella sostanziale, come parità di livello di difesa. Nel contempo, l’equilibrio che sempre deve sussistere fra la posizione delle parti suppone che l’esame della domanda giudiziale dell’attore da parte del giudice non sia condizionato al consenso o alla partecipazione attiva del convenuto. Il processo è accertamento del fatto e applicazione del diritto. Per ciò che concerne il diritto, il contraddittorio è utile, ma da un certo profilo non essenziale, perché il giudice conosce il diritto e, una volta che la controversia gli viene sottoposta, potrebbe da solo trovare la norma correttamente applicabile: anche se il dibattito, scritto o orale, dinanzi al giudice, sui punti di diritto, costituisce uno degli aspetti salienti delle difese. Invece, il contraddittorio è essenziale nell’accertamento dei fatti: in particolare, deve essere garantito nell’istruttoria e le prove debbono essere assunte in contraddittorio (ad esempio, i testimoni sono normalmente sentiti davanti alle parti e ai loro difensori) o, quanto meno, la loro valutazione deve essere compiuta in contraddittorio (ad esempio, nel caso dei documenti).

13. PRINCIPIO DISPOSITIVO E INQUISITORIO. L’O­ NERE DELLA PROVA. IL CONVINCIMENTO DEL GIUDICE. I. La regola dell’onere della prova. Si è già visto come l’accertamento presuppone l’individuazione e la prova dei fatti lesivi, che vengono poi inquadrati nella fattispecie normativa. L’individuazione dei fatti è compito delle parti e rientra nel monopolio della tutela giurisdizionale: sono le parti, ed esse sole, a decidere quali fatti introdurre in causa. Il giudice, così come non può

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cominciare il processo da solo, neppure può, di sua iniziativa, modificare la materia del contendere, introducendo fatti nuovi. L’attività di parte, che consiste nell’introdurre fatti nel processo, prende il nome di allegazione. Allegare, o dedurre i fatti, significa portarli in causa all’attenzione del giudice. Diverso, invece, è il punto della prova dei fatti allegati. Prima di tutto, ci si deve domandare a chi spetta il compito di provare i fatti. La regola posta dall’art. 2697 c.c. è nel senso che chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento e di cui egli afferma l’esistenza; a sua volta, chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto non è mai sorto ovvero si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Pertanto, l’attore deve provare i fatti costitutivi, il convenuto i fatti estintivi, impeditivi e modificativi. È questa la regola dell’onere della prova. Si parla di onere in senso tecnico. Nessuno è obbligato a provare nulla, così come nessuno è obbligato ad iniziare una lite. Se però, cominciato il processo, vuole ottenere ragione, ha l’onere di dare l’opportuna dimostrazione dei fatti al giudice. L’onere della prova è, prima di tutto, una regola di giudizio, perché consente al giudice di evitare il non liquet. Se i fatti non sono dimostrati, il giudice ne prende atto, in senso contrario alla posizione di chi li doveva provare: non esse et non probari paria sunt. Se il tavolo del giudice resta vuoto, senza il minimo apporto di conoscenza dei fatti, non per questo il giudice abdica al suo dovere decisorio, ma respinge la domanda perché non ne è dimostrato il fondamento. Allo stesso tempo, l’onere della prova è anche una regola di attività, nel senso che la parte onerata si deve dare carico di apportare al processo gli elementi idonei a dimostrare i fatti di suo interesse, nella consapevolezza che, diversamente, la sua tesi, contenuta nella domanda o nell’eccezione, non potrà essere accolta. La distribuzione dell’onere della prova appartiene al diritto sostanziale perché, in un certo senso, rappresenta un modo di essere del rapporto giuridico in questione. A conferma, si noti che le parti possono accordarsi, sul piano del diritto materiale e fuori dal processo, per disciplinare in modo diverso l’onere della prova, alteran-

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do, col che, il loro rapporto. La legge non proibisce questi accordi che invertono o modificano l’onere della prova (art. 2698 c.c.), ma li rende nulli in caso di diritti indisponibili (e lo si comprende, visto che qui il rapporto non può essere alterato pattiziamente) o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto. Negli anni più recenti, si è fatto largo in giurisprudenza il principio della c.d. prossimità della prova. Si intende, con questo, che l’onere probatorio è a carico della parte più vicina ai fatti da provare, indipendentemente dal suo interesse che la relativa dimostrazione entri in causa. Un esempio tipico si ha in materia di adempimento delle obbligazioni: la parte creditrice della prestazione è tenuta a provarne la base contrattuale, mentre spetta alla parte debitrice della prestazione provare di avere correttamente adempiuto. Porre l’onere della prova a carico di una parte o di un’altra può essere frutto di precise scelte politiche del legislatore che, in questo modo, intende facilitare il compito di una di esse. Ad esempio, l’art. 4 del d.lgs. n. 216 del 9 luglio 2003 in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, prevede che, quando il ricorrente fornisce elementi presuntivi che facciano ragionevolmente supporre l’esistenza di comportamenti discriminatori, spetta al datore di lavoro convenuto di provare l’insussistenza della discriminazione. Questa tecnica, basata sull’intervento sull’onere della prova, costituisce una forma ormai classica di sostegno alle tutele antidiscriminatorie. II. Il principio dispositivo e il principio inquisitorio. Per quanto attiene all’iniziativa istruttoria (vale a dire, l’iniziativa di apportare gli elementi probatori nel processo), il discorso è più complesso. Intanto, è evidente che, sussistendo il principio del monopolio della tutela giurisdizionale in capo alle parti, queste ultime devono essere messe in condizione di esercitare il loro diritto di prova. Si tratta, come si è visto, di una delle componenti minime essenziali del diritto di difesa.

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Capitolo I

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Il problema è di capire se l’iniziativa istruttoria possa spettare anche al giudice. Qui, l’atteggiamento dei vari ordinamenti giuridici non è identico. Quando essa appartiene solo alle parti, si parla di principio dispositivo (in senso processuale). Quando appartiene sia alle parti che al giudice, con riferimento a tutti i mezzi di prova, si parla di principio inquisitorio (sempre in senso processuale). Va detto che le stesse espressioni, usate in senso sostanziale, si riferiscono al potere di parte o d’ufficio di disporre della tutela giurisdizionale. È bene mettere in relazione questi principi con quello della disponibilità della tutela giurisdizionale e con quello dell’onere della prova. In relazione al primo, come detto, sarebbe del tutto incongruo un sistema, che riservasse al solo giudice l’iniziativa probatoria, perché in questo modo le parti sarebbero gravemente espropriate sul piano del diritto di difesa. Invece, la scelta fra metodo dispositivo e metodo inquisitorio (ovvero, metodi che in modo diverso mettono in equilibrio l’uno e l’altro) non lede la disponibilità sostanziale della tutela: infatti, altro è privare le parti del loro diritto alla prova, altro è impostare forme di presenza attiva del giudice, al fine di un più oggettivo accertamento dei fatti. Dal secondo angolo prospettico, invece, si tratta di due principi indipendenti. L’onere della prova resta quello che è, comunque sia strutturata l’iniziativa probatoria. Certo, un metodo totalmente dispositivo lascia la parte che deve provare sola dinanzi al suo compito; un metodo inquisitorio può invece portare, su iniziativa del giudice, dati probatori che, in qualche caso, possono agevolare la parte onerata. Il sistema italiano è caratterizzato, almeno per quanto riguarda il processo ordinario di cognizione, dal principio dispositivo attenuato: ciò significa che l’iniziativa istruttoria appartiene alle parti (art. 115 c.p.c.), ma che il giudice ha una rilevante serie di poteri istruttori officiosi, rafforzati quando il processo si svolge dinanzi al giudice unico: ne è un esempio l’art. 281-ter c.p.c., in base al quale il giudice può disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la veri-

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tà. Riti diversi da quello ordinario conoscono soluzioni diverse: si pensi al processo del lavoro, caratterizzato da forme decisamente inquisitorie (art. 421 c.p.c.). Scegliere un processo più caratterizzato nell’uno o nell’altro senso dipende da una scelta politica: il principio dispositivo è coerente con l’idea del processo come gioco fra le parti, mentre il principio inquisitorio è in linea con l’idea del processo che deve dare ragione a chi ce l’ha. La maggior parte dei sistemi moderni sceglie una figura di giudice attivo. Ci si può chiedere, però, se il ruolo attivo abbia riflessi sull’imparzialità del giudice. Anticipando una riflessione che si ribadirà a suo luogo, è bene chiarire che la ricerca attiva della prova dei fatti (nei limiti di quelli posti dalle parti a base delle rispettive difese) tende a raggiungere un dato di verità. Il giudice apporta materiale probatorio che potrà confortare le tesi di questa o di quella parte, ma ciò non inquina in alcun modo la sua posizione di terzo imparziale. Va detto che l’attività di ricerca delle prove deve fare i conti con una serie di possibili difficoltà od ostacoli materiali, che ne limitano l’efficacia. Una tutela pienamente effettiva dovrebbe permettere alle parti di raggiungere tutti i materiali probatori utili ai fini della decisione, in modo che il giudice possa dare al caso una soluzione nella piena consapevolezza dello svolgimento dei fatti. Ora, l’aspirazione del processo alla verità si scontra con una serie di elementi contrari: il trascorrere del tempo, che cancella le tracce e la memoria; la (talora legittima) mancanza di collaborazione da parte di soggetti terzi che detengono fonti di prova; le limitazioni ai poteri del giudice. Non di rado, l’ordinamento cerca di supplire a queste deficienze con meccanismi di presunzioni: vale a dire, dando per vere talune circostanze quando la parte che doveva cooperare ad accertarle si rifiuta. Se però queste conseguenze possono essere rovesciate sulla controparte, quando è la controparte a detenere e a non rivelare le fonti di prova, non accade lo stesso per i terzi. È chiaro, tuttavia, che l’obiettivo essenziale dell’ordinamento non è, in assoluto, il raggiungimento della verità, ma piuttosto la determinazione della certezza del rapporto. Per questo, in materia civile, l’indagine resta pur sempre limitata.

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Capitolo I

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III. Il libero convincimento del giudice. Le presunzioni. Una volta raccolto il materiale istruttorio, si tratta di vedere come il giudice lo deve valutare. Il convincimento del giudice sulla verità dei fatti può formarsi secondo due diversi modelli. Il primo è quello di una valutazione predeterminata del materiale istruttorio acquisito: è un metodo molto verificabile, ma anche rozzo, perché presuppone criteri automatici di valutazione. Il secondo si basa invece sulla valutazione libera del materiale istruttorio acquisito. È questo il criterio del libero convincimento e apprezzamento, che affida al giudice la valutazione razionale dell’esito probatorio. Nell’ordinamento italiano vale l’art. 116 c.p.c.: normalmente il giudice decide sui fatti secondo il suo libero convincimento. Il giudice – così afferma la norma – deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti (nel caso, cioè, delle c.d. prove legali, di cui si dirà fra poco). Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno in sede di interrogatorio libero, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. Libero convincimento non equivale ad arbitrio, ma a valutazione razionale. Il diritto processuale si è progressivamente evoluto da forme automatiche di convincimento del giudice all’attuale libertà di apprezzamento. È ovvio che il giudice può sbagliare: ad esempio, perché ritiene convincente il racconto del testimone A e non invece quello del testimone B. Tuttavia, fra il rischio dell’errore, che comunque potrà essere corretto in appello, e l’ingessatura della decisione giudiziale in automatismi rigidi (ad esempio, se due testimoni affermano la stessa cosa, ciò significa che è vera), la moderna coscienza giuridica preferisce, senza rimpianti, il primo. Il diritto processuale riceve, su questi aspetti, importanti contributi da scienze come la logica probabilistica e l’epistemologia. La scelta della ricostruzione più credibile dei fatti, all’interno dei vari materiali apportati al processo, non è frutto del caso, ma suppone una serie di passaggi razionali, di cui il giudice deve dare conto nella sua motivazione.

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Il giudice può avvalersi di presunzioni: meccanismi logici che portano il giudice da un fatto noto di livello inferiore ad un fatto ignoto. Le presunzioni non sono mezzi di prova, nel senso che non sono modalità autonome di approccio ai fatti; non sono neppure prove, perché eventualmente è prova ciò che emerge dopo la loro applicazione. Sono soltanto un ragionamento induttivo, che permette al giudice di desumere da un certo dato, emerso dall’espletamento di un mezzo di prova e già entrato in giudizio, un dato ulteriore. Le presunzioni sono semplici o legali. Sono semplici quando il ragionamento induttivo è svolto dal giudice, sulla base di comuni criteri di razionalità. Sono legali quando il ragionamento è svolto, per così dire, dalla legge: se si verifica il dato A, allora per legge se ne deve dedurre il dato ulteriore B. In base all’art. 2729 c.c., le presunzioni semplici possono essere ammesse dal giudice solo se gravi, precise e concordanti; pertanto, il giudice può ritenere dimostrati fatti, che non siano direttamente provati, soltanto se a ciò sia possibile pervenire in base ad una pluralità di circostanze certe, non equivoche e tutte nella stessa direzione. È bene notare che la decisione in base a presunzioni è un esito frequente dei processi civili. Non sempre si può ottenere la prova diretta dei fatti costitutivi, ma più spesso si possono provare situazioni e circostanze, che consentono poi di indurre ragionevolmente la verità dei fatti controversi. Diversi dalle presunzioni sono i semplici argomenti di prova, menzionati dall’art. 116 c.p.c. Mentre le presunzioni consentono al giudice di decidere il caso, gli argomenti servono soltanto a corroborare una valutazione, che però deve essere maturata e fondarsi essenzialmente su altre e più forti basi. IV. Le prove legali. Il principio del libero convincimento conosce alcune deroghe. La prima è quella delle c.d. prove legali: vale a dire, quelle la cui valutazione da parte del giudice è predeterminata. Si tratta di un’area residuale, perché il criterio del libero convincimento espri-

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me una tendenza comune a tutti gli ordinamenti moderni. Queste prove (su cui si ritornerà, con le precisazioni opportune, circa l’effettivo ambito di operatività della deroga al principio del libero convincimento) sono: il giuramento, la confessione, l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata. Basti rilevare qui che per i primi due la giustificazione dell’eccezione si fonda sulla loro natura di atti negoziali su diritti disponibili; per gli altri, gioca il rilievo della pubblica fede data dalla presenza del pubblico ufficiale. La seconda, come si è accennato, è quella delle presunzioni legali: da una premessa si trae per legge una certa conseguenza. Le presunzioni legali sono poche e solo in taluni casi non ammettono prova contraria (e si parla allora di presunzioni iuris et de iure), mentre normalmente possono essere superate da una dimostrazione di segno opposto (e si parla allora di presunzioni iuris tantum).

14. IMPULSO DI PARTE E IMPULSO D’UFFICIO. LA DIREZIONE DEL PROCESSO. I. L’impulso di parte. Agli occhi di un osservatore esterno, il processo appare come una successione di atti scritti ed udienze, vale a dire di incontri tra le parti e il giudice. Occorre domandarsi chi determina la successione di queste fasi. Vi sono due possibili schemi: l’iniziativa di parte o l’impulso del giudice. Il processo civile italiano, ad eccezione di quello davanti alla Corte di cassazione, è retto dal principio dell’impulso di parte: la parte ha un costante onere di mantenere in vita il processo. Si tratta di una soluzione coerente con il principio del monopolio della tutela giurisdizionale in capo alle parti. Le applicazioni del principio dell’impulso di parte sono molteplici. Si può affermare che ad ogni snodo del procedimento le parti siano chiamate a confermare la loro volontà di andare avanti, ponendo in essere attività specifiche. Conseguenza dell’inattività delle

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parti è la conclusione del processo senza avere raggiunto l’accertamento e, quindi, l’estinzione del processo. Già si è visto, in relazione al potere di disposizione della tutela giurisdizionale, che il processo può estinguersi per rinuncia agli atti del giudizio (art. 306 c.p.c.): le parti decidono di porre fine alla lite. Qui va detto che il processo si estingue anche quando le parti non continuino ad esercitare attività di impulso: la legge ricollega alla mancata presenza delle parti in udienza o all’omissione di certi atti l’estinzione del processo (artt. 307 e 309 c.p.c.). Così, secondo gli artt. 309 e 181 c.p.c., se nessuna delle parti si presenta all’udienza, il giudice fissa una seconda udienza; ove le parti non si presentino nemmeno alla seconda udienza la causa viene cancellata dal ruolo e il processo si estingue immediatamente. Il punto sarà approfondito più avanti. Per ora, basti osservare che l’estinzione per inattività non concerne solo il processo di cognizione, ma anche quello esecutivo e cautelare. Data poi la struttura conflittuale del processo civile, è comprensibile che, di solito, solo una parte abbia un preciso interesse alla prosecuzione, mentre per l’altra il risultato pratico del mancato accertamento o della mancata realizzazione dell’attività esecutiva è più che sufficiente, anche se la domanda potrebbe essere successivamente riproposta. Così, tutti i momenti del processo che suppongono una data iniziativa sono per una parte un passaggio obbligato, da compiere con diligenza, e per l’altra parte una potenziale occasione di approfittare di errori o inesattezze di chi ha l’onere dell’impulso. È anche opportuno mettere in luce un istituto che si incontrerà più volte: quello della riassunzione del processo. In dipendenza da vari eventi procedurali, occorre talora che la parte chieda nuovamente al giudice di prendere in esame la trattazione del procedimento: non si tratta di iniziare un giudizio ex novo, ma di fare ripartire, dandogli nuovo impulso, un processo esistente. Seppure possa presentare forme non identiche, la riassunzione è disciplinata in via generale dall’art. 125 disp. att. c.p.c. Il processo davanti alla Corte di cassazione è retto invece dall’impulso d’ufficio; proposto il ricorso, il processo prosegue fino alla sentenza (salva per le parti la facoltà di rinuncia). Vi è

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qui una conseguenza dell’interesse pubblico ad ottenere una pronuncia di diritto, che si riverbera sulla diminuzione dell’onere di impulso per le parti. Le udienze di mero rinvio sono consentite dagli artt. 81 e 82 disp. att. c.p.c.; sono vietate nel processo del lavoro (art. 420 u.c.), anche se la prassi giudiziaria ha trovato più di un metodo per aggirare la norma. L’attuale struttura del processo dovrebbe circoscrivere le udienze di mero rinvio, anche se non sempre esse costituiscono un abuso e talora rispondono ad esigenze effettive. II. Direzione del processo e case management. La direzione del processo spetta al giudice (art. 127 c.p.c.). È solo il giudice, terzo imparziale e consapevole del rapporto fra le risorse disponibili e il contenzioso da smaltire, a dettare i tempi e ad imprimere l’orientamento della trattazione. Spetta al giudice – lo si vedrà meglio – se effettuare o no attività istruttoria; se avviare o no la causa in decisione; se decidere tutta la materia del contendere o parte di essa. Ancora, spetta al giudice fissare le udienze e stabilire quindi il ritmo di quel caso. Ovviamente, il giudice applica le norme di procedura, ma le norme gli fissano solo limiti esterni. È sempre più accentuata la tendenza a fare del giudice una sorta di manager della giustizia. L’espressione anglosassone case management non significa solo trattazione del processo, ma anche capacità di stabilire quanto tempo, energie e attenzioni si possono dedicare ad un singolo giudizio, in rapporto agli altri che attendono di essere decisi, sapendo che per tutti vale il criterio costituzionale della ragionevole durata. Va detto, però, che il magistrato non riceve alcuna formazione in questo senso: è un giurista che apprende in pratica come gestirsi, riuscendoci più o meno efficacemente in base alle sue qualità personali. Con una notevole frequenza, si incontreranno in queste pagine riferimenti al principio di economia processuale. Si parla di economia processuale per indicare la tendenza ad evitare inutili duplicazioni di attività e a favorire la semplificazione. Di per sé, l’economia processuale è più collegata alla capacità organizzativa del giudice

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che non alla durata del processo in quanto tale, seppure le ricadute sul piano dei tempi siano evidenti; ed è vero, in ogni caso, che è l’attenzione del singolo giudice a valorizzarla. L’impulso del processo, che spetta alle parti, e la direzione del processo, che spetta al giudice, sono due nozioni diverse. Le parti devono manifestare la loro volontà di proseguire nella trattazione, ma è il giudice che stabilisce come e quando. Certo, il fatto che la direzione del processo spetti sempre al giudice può far ricadere sulle parti il disservizio dell’organo giudiziario, mentre una migliore gestione del processo dovrebbe consentire alla parte che ha esigenze di rapida conclusione del processo di poter velocizzare i tempi. III. Il processo a struttura elastica. Rispetto al potere di direzione del processo, si configurano due modelli: il processo a struttura rigida e il processo a struttura elastica. Il sistema italiano è prevalentemente rigido, anche se non mancano norme improntate a flessibilità. La struttura elastica del processo significa che in determinate fasi processuali il giudice può imboccare una fra più strade diverse (tutte predeterminate), a seconda delle esigenze del caso concreto. L’adeguamento delle regole processuali al caso concreto equivale ad un più profondo rispetto per le esigenze dei cittadini. L’elasticità, d’altra parte, è nozione diversa dalla mera discrezionalità. “Elasticità” significa che la struttura di base del processo può conoscere, in determinati snodi, una serie di varianti, in una gamma conoscibile a priori alle parti e al giudice. “Discrezionalità” significa invece che il giudice governa il processo, secondo l’opportunità del caso, nello spazio fra l’atto introduttivo e la decisione. La flessibilità non è esclusa né dall’art. 111, comma 1°, cost., con il suo riferimento al processo “regolato dalla legge”, né dalle norme europee come l’art. 47 della Carta dei diritti, che anzi la favoriscono. L’elasticità processuale costituisce la migliore risposta alla necessità di personalizzare il rito, di adeguarlo il più possibile alle caratteristiche, non di quella data tipologia di giudizi relativi a una determinata materia, ma al singolo caso: che, in definitiva, è l’unico reale.

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In effetti, ogni norma sconta il problema dell’inadeguatezza di un comando generale ed astratto a cogliere e rappresentare le peculiarità di ciò che è concreto: nel diritto materiale, si risponde a questa esigenza con diversi strumenti, che vanno dall’applicazione dell’equità alla discrezionalità del giudice. Il diritto processuale non solo non sfugge a questa difficoltà, ma tende anzi a dare una risposta più burocratica, incanalando il caso in binari predeterminati. Il caso, in definitiva, è una pratica, che deve seguire un dato iter: non di rado, gli organi giudicanti non si pongono nell’ottica della tutela delle persone coinvolte, ma essenzialmente in quella dei fascicoli da evadere. È facile allora privilegiare gli aspetti di una pedissequa rigidità, che ha il vantaggio di semplificare il lavoro al giudice e di rendere prevedibile ai difensori lo sviluppo della trattazione. La rigidità delle norme spinge la dottrina e il legislatore a cercare, con molteplici soluzioni diverse, il modello processuale più idoneo a garantire un processo giusto. Si può pensare ad un modello unico o ad una molteplicità di modelli, adattabili a diverse categorie astratte di controversie. Non si evita, però, la trappola della gabbia ideologica, in cui la letteratura giuridica in questa materia è costantemente caduta. Infatti, se vi è un tipo di processo migliore, si discuterà all’infinito su come questo processo debba configurarsi e si formuleranno principi generali, ai quali, secondo una certa ottica, il rito si dovrebbe sempre ispirare. L’approccio flessibile si pone al di fuori delle mischie ideologiche. Esso rimarca la strumentalità del singolo processo al singolo caso e, pur sulla base di elementi costanti (come il diritto di difesa e l’indipendenza del giudice), affina la norma processuale in modo da accrescerne l’adeguatezza alle esigenze concrete. Sottolinea, inoltre, come il diritto processuale debba puntare con assoluta decisione verso la tutela del diritto concreto e verso la risposta efficace al bisogno di protezione giuridica, nella consapevolezza del rispetto per la parità di posizioni delle parti. Ora, in primo luogo, va ricordato che l’elasticità è soprattutto un modo di strutturarsi del processo: ha carattere di elasticità un processo in cui il rito può diversificarsi, sul piano anche formale, a se-

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conda dei singoli casi esaminati e quindi in relazione alla specificità delle singole cause. L’uso dell’elasticità come criterio ermeneutico è quindi, di per sé, un’operazione impropria, che può giustificarsi soltanto sulla base di un riferimento normativo. Il riferimento normativo – ed è questa la seconda precisazione – a cui è possibile ancorare l’impiego dell’elasticità come criterio guida di un lavoro di interpretazione va ricercato tenendo presente che l’obiettivo da tutelare è il pieno diritto di difesa delle parti nel giusto processo, fondato sugli artt. 24 e 111 cost. È la scelta di valore del costituente che impone, nel dubbio, di optare per un’interpretazione che rafforzi, anziché comprimerlo, il diritto di difesa. Ma per rafforzare il diritto di difesa è essenziale favorire, negli spazi consentiti dalle norme positive, l’iniziativa delle parti e, quindi, il criterio di elasticità. Ecco allora che si può trovare nell’art. 24 cost. la norma che, al di là delle scelte concrete del legislatore, che per il momento privilegiano la rigidezza, permette di utilizzare l’elasticità anche come criterio interpretativo, strumentale all’efficace realizzazione del diritto di difesa delle parti. Naturalmente, altro è un processo a struttura elastica e altro (certo, molto meno) è tentare di temperare un processo a struttura tendenzialmente rigida. L’operazione oggi possibile è solo la seconda. Nel contempo, occorre dire che il legislatore più recente imbocca non di rado la via di una forte deformalizzazione del processo. In più norme (che si esamineranno in dettaglio a suo luogo) si sottolinea che il giudice governa la causa nel modo più opportuno, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio. La scelta è certo a favore della flessibilità, ma non senza qualche preoccupazione per l’interprete: infatti, non si apre dinanzi al giudice un ventaglio di possibilità (a priori, note alle parti) fra cui scegliere, ma gli si offre un percorso totalmente libero e non prevedibile. Occorre poi domandarsi se il problema della direzione del processo possa oggi essere affrontato in una luce diversa sotto il profilo del dialogo fra il giudice e le parti: se, cioè, si possa immaginare una trattazione, non solo flessibile (e quindi rapportata alle esigenze del caso concreto), ma anche condivisa.

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È chiaro che sul piano della condivisione delle scelte non ci si può spingere troppo oltre: il processo necessita, di fronte agli opposti interessi delle parti, per definizione conflittuali, di una guida autorevole e non di rado energica. Tuttavia, vi sono aspetti che in qualche misura possono venire concertati. A questo porta l’esperienza di altri ordinamenti (come i contrats de procédure francesi), il ripetuto sforzo di scrivere protocolli operativi e anche qualche tentativo del legislatore, come quello del calendario del processo.

15. ORALITÀ, SCRITTURA E TECNOLOGIA INFORMA­ TICA NEL PROCESSO. PUBBLICITÀ E TRASPARENZA. I. Oralità e scrittura nel processo. Ci si deve chiedere, ora, in che modo si svolge il processo civile: se, cioè, oralmente o per iscritto. In realtà, in tutti i sistemi la trattazione del processo è caratterizzata sia da oralità sia da scrittura. Un processo completamente orale comporterebbe problemi di documentazione e uno completamente scritto evidenti difficoltà di comunicazione. Vi sono atti normalmente scritti (come l’atto di citazione o le comparse) e atti normalmente orali (le udienze, l’assunzione delle prove, la discussione). Tuttavia, la ripartizione scritto/orale non risponde ad una necessità logica, in quanto non c’è nulla che teoricamente non possa essere sia scritto sia orale; è la normazione a fare una scelta. Ad esempio, nel processo italiano vigente, la citazione è un atto scritto: però, è possibile anche in forma orale davanti al giudice di pace (art. 316 c.p.c.). Così pure, la testimonianza è solitamente orale, ma in taluni casi può essere scritta (art. 257-bis c.p.c.; art. 816-ter, comma 2°, c.p.c., in materia di arbitrato). Nello spostare l’ago della bilancia verso la scrittura o verso l’oralità giocano considerazioni relative al tipo di controversia, al maggiore o minore tecnicismo, al regime linguistico. Non è irrilevante il profilo ideologico, come risulta dall’elaborazione dottrinale risa-

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lente alla seconda metà del XIX secolo, da Franz Klein a Giuseppe Chiovenda. Sotto questo aspetto, nel rapporto tra il giudice e le parti si è auspicata la prevalenza dell’oralità, in quanto si è ritenuto che per accertare i fatti sia più indicato l’esame congiunto con discussione piuttosto che l’esame individuale di atti; l’oralità del processo si collega al ruolo attivo del giudice. Si pensi, ad esempio, alle parole d’ordine chiovendiane dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione o, per maggiore semplicità, alla prima di esse. Si possono condividere o no le critiche di coloro che hanno parlato di mito dell’oralità, ma certo non si può fare a meno di cogliere la carica ideologica ed astratta che si trova dietro le posizioni di Chiovenda e dei suoi commentatori. Il vero problema è che l’oralità non è migliore della scrittura, né la scrittura è preferibile all’oralità, né le terze vie utilizzabili attraverso l’applicazione dell’informatica sono in assoluto migliori dell’una e dell’altra. Trattazione orale e trattazione scritta sono due metodi, che presentano vantaggi e svantaggi e la cui più esatta corrispondenza all’idea di un processo giusto può misurarsi, in definitiva, solo in rapporto al singolo e concreto caso, come definito dalla materia trattata, dal numero delle parti, dalla qualità del giudice, dalla capacità dei difensori, dai tempi e luoghi in cui il processo si svolge. In linea teorica si afferma la prevalenza del principio di oralità, ma di fatto sussiste una tendenza alla scrittura, in quanto soprattutto i processi ad elevata difficoltà tecnica richiedono una puntualizzazione scritta. È espressione di questa tendenza allo scritto il fatto che, mentre si seguono le prescrizioni normative là dove esse indicano lo scritto, qualora la legge preveda l’oralità spesso si ricorre ad atti scritti surrogati. Si possono registrare vari esempi della prevalenza della scrittura sull’oralità. Secondo l’art. 180 c.p.c., la trattazione della causa è orale, ma è anche prescritto che della trattazione si rediga processo verbale. Secondo l’art. 126 c.p.c., in generale, dell’udienza deve essere redatto un verbale che descrive ciò che si è fatto e fa fede di quanto avvenuto. In pratica, molto spesso ciò che rimane dell’oralità è un sintetico riassunto scritto. Del resto, le parti curano che le loro prese di posi-

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zione, se importanti, vengano riportate nel verbale, perché ciò di cui non rimane traccia scritta viene a perdere ogni rilievo. Si aggiunga che, in caso di processi lunghi, nei quali si succedono più giudici, il giudice subentrante conosce la causa soltanto attraverso il verbale. La novella del 2005, modificando gli artt. 183 e 185, ha eliminato l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione (che era stata introdotta dalla riforma del 1990-95, insieme con la comparizione personale delle parti), prevedendo che il tentativo si svolga solo se tutte le parti lo richiedono. L’insuccesso nella prassi del tentativo obbligatorio costituisce il motivo di questa condivisibile riforma; è anche la conferma di una minore efficacia dell’oralità rispetto alla trattazione scritta. Il dilemma oralità-scrittura si ripropone nella fase della discussione della causa. Nel rito attualmente vigente, in base all’art. 275 c.p.c., la discussione orale è soltanto eventuale, in quanto è fissata solo se richiesta dalle parti. Nella prassi, era stata sostanzialmente eliminata; tuttavia, la facoltà data al giudice di invitare le parti a precisare le conclusioni e a discutere immediatamente, in base agli artt. 281-quinquies e -sexies c.p.c., sta prendendo piede e, nell’ottica di una valorizzazione della ragionevole durata del processo, reintroduce profili di oralità. Peraltro, la discussione orale, generalmente, trova spazio solo nelle controversie con maggiore tasso di semplicità e anche dinanzi alla Cassazione il suo ruolo è stato fortemente ridotto dalla novella del 2016. II. Il processo telematico. Si deve convenire che la disputa fra oralità e scrittura è ormai questione del secolo scorso. Certo, fra la vecchia oralità e la vecchia scrittura, quest’ultima era destinata a prevalere. Ma la nuova frontiera è il processo telematico, attraverso quella che da taluno è già stata definita la nuova oralità. Il processo civile telematico, c.d. p.c.t., è oggi una realtà, fondata da specifiche norme di legge e implementata da numerose e complesse disposizioni regolamentari, che non è utile qui citare, dato il loro rapido succedersi. Il sistema ha ad oggetto la gestione digitale

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del processo attraverso la dematerializzazione degli atti (vale a dire la sostituzione della forma cartacea con quella elettronica), quale strumento ordinario di veicolazione delle informazioni tra uffici giudiziari, avvocati ed altri professionisti. Le possibilità effettive, per ora, sono quelle di attuare per via telematica le comunicazioni fra il giudice e le parti, ovvero delle parti fra loro; la presentazione di atti giudiziari; l’emissione dei provvedimenti giurisdizionali; la consultazione dello stato dei procedimenti risultante dai registri di cancelleria e dei documenti contenuti nel fascicolo elettronico; il pagamento delle spese di giustizia. Il futuro, però, è aperto a molti sviluppi: è certamente immaginabile anche un’udienza telematica, in cui il confronto fra le parti e il giudice avvenga non fisicamente, ma nelle forme oggi già possibili con l’impiego di un comune personal computer. Un’altra funzionalità del p.c.t. riguarderà la messa a punto delle metodologie per il rilievo, la rappresentazione e la costruzione di banche dati per l’informazione giuridica, che renderanno immediatamente conoscibili a tutti – e non solo agli utenti del sistema p.c.t. – i testi delle sentenze e delle leggi vigenti. Punto di partenza per l’abbandono delle carte, o processo paperless, è stata l’accettazione della validità del documento informatico (che il legislatore italiano ha operato già a partire dal 1993) e delle condizioni di sicurezza che lo devono accompagnare, condizioni che, per consuetudine terminologica, vengono definite «firme elettroniche». Forma elettronica e firma elettronica sono oggi compiutamente disciplinate nel codice dell’amministrazione digitale (c.d. cad., introdotto dal d.lgs. n. 82 del 2005 e successive modificazioni), attraverso varie disposizioni che ne tratteggiano sia la struttura che l’efficacia, sostanziale e probatoria, in dipendenza delle diverse caratteristiche. Le trasmissioni telematiche si basano, infine, sulla posta elettronica certificata (pec), ovvero su una tecnologia in grado di garantire aspetti che un tempo erano demandati esclusivamente ad epicentri di pubblica fede, come l’ufficiale giudiziario per il procedimento di notificazione oppure il servizio postale per le spedizioni raccomandate. L’introduzione delle modalità informatiche non incide, in sé – è bene sottolinearlo – sulla struttura del processo. Il contraddittorio, la ragionevole durata, il diritto di difesa, l’imparzialità del giudice e

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via dicendo, non vengono alterati e non sarebbe corretto immaginare il processo telematico come un ulteriore modello di processo. Ciò che cambia è la forma espressiva e la rapidità delle comunicazioni. Le ricadute delle modalità telematiche sono molteplici e se ne darà conto nella trattazione dei vari istituti. È bene segnalare fin da ora che, in attesa di un più completo coordinamento normativo, talora le norme del codice (pensate e scritte in relazione al tradizionale supporto cartaceo) non sono coerenti con le esigenze e le possibilità del mezzo informatico. Di qui, vengono taluni squilibri, che dovranno essere progressivamente corretti. III. Pubblicità e trasparenza. La giurisdizione è esercitata, secondo l’art. 101 cost., in nome del popolo. Ne segue che le sue modalità di esercizio devono presentare un profilo di pubblicità. Sono pubbliche le udienze in cui si discute la causa (art. 128 c.p.c.) e, se non lo fossero, la sanzione sarebbe quella della nullità. Solo in via eccezionale il giudice, che dirige l’udienza, può disporre che si svolga a porte chiuse, se ricorrono, secondo quanto dispone il codice, ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume; al contempo, il giudice può allontanare chi contravviene alle sue prescrizioni, facendo uso dei poteri di polizia che gli sono conferiti. Sono pubbliche le sentenze: non a caso, il momento in cui la decisione esce dalla sfera di riflessione del giudice e diventa nota alle parti prende il nome tecnico di pubblicazione. Oltre al classico profilo della pubblicità, occorre però prendere in considerazione anche quello della trasparenza. La domanda sociale di trasparenza non sembra avere destato, finora, l’attenzione degli studiosi. Eppure, essa è chiaramente presente a chi appena apra le finestre della casa dei giuristi e getti uno sguardo al mondo esterno. Legislatori non privi di sensibilità politica ne hanno fatto un obiettivo di riforme (come, ad esempio, nel caso della novella tedesca del 2002). Trasparenza significa che il cittadino non giurista deve essere posto in condizioni di comprendere che cosa sta accadendo nel pro-

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cesso. È vero che la funzione di mediazione e di spiegazione può e deve essere svolta dagli avvocati, ma è anche vero che si infittiscono le norme finalizzate a dare al cittadino un’informazione diretta. Non vi è dubbio che il processo debba affrontare la sfida del linguaggio. Un primo livello di questa sfida è quello della comprensione linguistica nei processi transnazionali e che è sempre più sollecitato non solo dalle tradizionali esigenze di autonomia delle minoranze, ma anche dalla sempre più diffusa presenza, nei paesi europei, di minoranze etniche e di gruppi di immigrazione. Un secondo e più delicato livello è quello della comunicazione delle nozioni giuridiche. Certo, non si può compromettere l’esattezza tecnica dei concetti espressi, ma si deve pur ambire a raggiungere una modalità espressiva che risulti meno criptica e, in definitiva, meno incomprensibile ai non tecnici rispetto all’attuale linguaggio legislativo e giudiziario. I giuristi, troppo abituati a parlare fra loro, devono riuscire a farsi capire anche dai cittadini comuni. L’obbligo costituzionale di motivazione, oltre che in chiave di garanzia, deve essere letto anche da questa prospettiva. Un terzo profilo, molto collegato alla tecnica processuale, è poi quello che investe i rapporti fra il giudice e le parti e che tende ad escludere ogni forma di decisione a sorpresa, o comunque ogni soluzione del caso che non sia stata oggetto di dibattito giudiziario. La novella tedesca del 2002 ha rafforzato un metodo già noto alla Zivilprozessordnung, modificando il par. 139 e passi in questa direzione si trovano anche nel par. 182 a) della ZPO austriaca, come riformato sempre nel 2002. Tuttavia, questa evoluzione non è presente solo negli ordinamenti germanici, tradizionalmente più sensibili all’argomento, ma anche in quelli latini: in questo senso, va ricordato l’art. 16 del c.p.c. francese e va citato il nuovo testo dell’art. 101, comma 2°, c.p.c., già commentato a proposito del principio del contraddittorio. Infine, devono essere segnalate le norme che, in qualche misura, cercano di dare un’informazione diretta al cittadino o di ottenerne o semplicemente di permetterne la partecipazione all’attività processuale. Si pensi all’art. 163, comma 3°, n. 7, c.p.c., che comporta un avviso al destinatario della notifica circa gli effetti della sua

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contumacia; ma si pensi soprattutto al fitto impiego di modelli prestampati nei regolamenti europei, che in più occasioni consentono al cittadino o all’impresa di svolgere attività senza il necessario ausilio di un avvocato (ad esempio, nel regolamento n. 1896 del 2006, questo accade per la presentazione di una domanda di ingiunzione), oppure alle norme del regolamento n. 1206 del 2001 sull’assunzione delle prove all’estero, per quanto attiene alla diretta assistenza della parte interessata. Tutto il sistema europeo, del resto, è incentrato su questa operazione informativa, di cui è cardine la decisione del 28 maggio 2001 (e successive modificazioni) istitutiva della rete giudiziaria, il cui scopo è quello di mettere a disposizione degli utenti una notevole mole di notizie e dati. Certo, è lecito domandarsi quanta efficacia possano avere queste e altre disposizioni analoghe in un contesto normativo in cui è difficile muoversi anche per i più esperti. Tuttavia, l’intenzione è chiara e apprezzabile: la giustizia non può restare un terreno riservato a pochi iniziati, ma deve essere una casa di vetro, leggibile anche da parte dei non addetti ai lavori. Nello stesso tempo, si rafforza l’idea che le questioni procedurali non devono essere il terreno su cui si decide il processo a causa dell’errore di questa o di quella parte, ma che l’obiettivo di fondo è raggiungere una pronuncia sul merito.

16. IL GIUDICATO. INTRODUZIONE. I. Il giudicato come obiettivo del processo di cogni­ zione. L’obiettivo del processo di cognizione consiste nel formarsi di un accertamento sulla controversia: si deve conoscere in maniera certa la risposta che l’ordinamento dà alla lite. Come si è accennato, il sistema ha necessità di dare certezza e quindi l’attività giurisdizionale, a un dato punto, deve arrestarsi, fissandosi su un risultato. Mentre lo storico, che ricerca la verità dei fatti, può continuare a indagare senza limiti di tempo e ciò che restava ignoto in un certo momento può essere scoperto e svelato a distanza di

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decenni o perfino di secoli, il giudice esercita la sua attività non solo secondo regole, ma anche secondo tempi in qualche modo predeterminati. L’accertamento del giudice si ha per vero: pro veritate habebitur. Il giudicato è l’accertamento stabile e definitivo che si ha al termine del processo di cognizione. È chiaro che i passaggi necessari per ottenere queste certezza e stabilità legali obbediscono ad una scelta convenzionale. Da un punto di vista gnoseologico, nulla suppone che la decisione del secondo giudice sia migliore di quella del primo, ovvero che dopo tre istanze di giudizio si sia ottenuto l’esito preferibile. Semplicemente, è l’ordinamento che, in un dato momento storico, annette stabilità all’accertamento ottenuto secondo certe modalità e non altre: modalità che, ovviamente, possono variare. Occorre ricordare qui una regola fondamentale: l’esercizio dell’attività giurisdizionale si può dare una sola volta per una data controversia. Dicendo “una sola volta” si includono, naturalmente, tutti i vari gradi di giudizio. Il motivo è evidente: può esistere una sola verità legale. II. Giudicato in senso formale e in senso sostanziale. Vi sono due diversi significati di giudicato: giudicato in senso formale ed in senso sostanziale. Il giudicato formale riguarda l’incontrovertibilità di ciò che è stato deciso, con il conseguente divieto di ripetere l’accertamento e il giudizio sulla stessa causa, in correlazione con il principio per il quale l’ordinamento prevede una tipologia chiusa di mezzi di impugnazione. In base all’art. 324 c.p.c., si intende passata in giudicato formale la sentenza che non è più attaccabile con i mezzi di impugnazione ordinari, o perché già esperiti, o perché non più esperibili, con l’effetto di impedire la proposizione di un processo identico (“ne bis in idem”). Sono mezzi di impugnazione ordinari: il regolamento di competenza, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione ordinaria, regolata dai numeri 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.

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Il giudicato sostanziale è invece governato dall’art. 2909 c.c.: l’accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato fa stato fra le parti, i loro eredi e aventi causa. Il giudicato sostanziale è la concretizzazione della norma generale ed astratta, ossia il comando normativo dato dal giudice per quel caso concreto; rappresenta la disciplina stabile della controversia, quindi la certezza raggiunta dall’ordinamento, per effetto del formarsi del giudicato formale, che impedisce la riproposizione della domanda. Per questo, non è sbagliato dire che il giudicato è la legge del caso concreto: infatti, l’ordinamento si esprime con comandi generali ed astratti (le norme), che però, in caso di controversia, si concretizzano in una data fattispecie, realizzando, attraverso l’opera del giudice, un comando concreto. Dalla norma (generale, di codice) che sancisce la responsabilità patrimoniale del debitore, si passa alla norma (concreta, contenuta nell’accertamento) che impone ad A di pagare la somma X a B. Il giudicato sostanziale, in quanto legge del caso concreto, prevale anche sulle variazioni legislative. Infatti, se il giudice ha deciso in base alla legge applicabile al momento della decisione, e poi la pronuncia è passata in giudicato, eventi come la successiva abrogazione o la dichiarazione di incostituzionalità della legge ovvero la promulgazione di una diversa legge retroattiva, non travolgono gli effetti di quel giudicato. Le ragioni di certezza sono prevalenti. Sfugge a questa regola solo il caso (peraltro, rarissimo) in cui una legge successiva espressamente disponga la perdita di efficacia dei giudicati formati secondo la disciplina precedente: qui, una legge astratta successiva abroga una legge concreta precedente. Ciò che passa in giudicato non è la sentenza, ma l’accertamento in essa contenuto, in quanto accertamento di merito sul diritto, mentre la sentenza può anche pronunciarsi soltanto su profili diversi dal merito, come i presupposti processuali o le condizioni dell’azione. Pertanto, mentre tutte le sentenze sono idonee a passare formalmente in giudicato, perché la possibilità di proporre impugnazioni ha precisi limiti temporali, non tutte le sentenze danno luogo

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a giudicato sostanziale, perché non tutte contengono un accertamento di merito. Una decisione sulla competenza, ad esempio, superate tutte le possibili impugnazioni, dà luogo a giudicato formale sul punto, ma non a giudicato sostanziale, perché si è solo stabilito davanti a quale giudice le parti devono litigare e non anche chi ha ragione o torto sulla questione sostanziale. Non si forma giudicato sostanziale dove non si ha un accertamento tendenzialmente stabile. Per questo, le decisioni in materia di volontaria giurisdizione o comunque date rebus sic stantibus non hanno efficacia sostanziale di giudicato, ma sono costantemente modificabili, quando ne mutano i presupposti. Si è detto che costituisce ostacolo per il giudicato formale la proponibilità delle impugnazioni ordinarie. Invece, le impugnazioni straordinarie possono essere proposte anche contro le sentenze passate in giudicato formale e contenenti un accertamento passato in giudicato sostanziale, in quanto vi sono casi in cui il mantenimento della certezza comporta un’ingiustizia così forte da risultare intollerabile. In questi casi, peraltro eccezionali, è possibile la caducazione del giudicato. Sono mezzi di impugnazione straordinaria la revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo. La revocazione straordinaria (art. 395, comma 1°, nn. 1, 2, 3, 6 c.p.c.) è collegata ad ipotesi gravissime di ingiustizia sostanziale (si pensi al caso di dolo del giudice, con una violazione clamorosa del dovere di imparzialità), mentre l’opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.) si ha quando la sentenza ha leso un diritto soggettivo del terzo che non ha partecipato al giudizio, in contrasto con il principio del contraddittorio. III. Giudicato e giurisdizione esecutiva e cautelare. Il giudicato è il risultato del processo di cognizione. Il processo di esecuzione e quello cautelare non danno luogo ad un accertamento definitivo: si può quindi parlare di giurisdizione, ma non di giudicato. Il processo cautelare, in particolare, porta ad un provvedimento provvisorio. Tuttavia, nei casi di tutela anticipatoria, l’ordinamento

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offre alla decisione una certa stabilità di effetti pratici, che non equivale a giudicato, ma che assorbe molte delle conseguenze concrete di un giudicato vero e proprio. Il processo esecutivo non conduce ad un accertamento e ha effetti giuridicamente fondati, ma materiali; invece il giudicato non ha mai conseguenze materiali dirette. In dottrina, si è impiegata l’espressione di “preclusioni pro iudicato” per indicare gli effetti materiali irreversibili di un’esecuzione forzata. Se, ad esempio, per eseguire una pronuncia in materia di contraffazione commerciale, vengono fisicamente distrutti oggetti contraffatti, è chiaro che quegli oggetti concreti non sono ricostruibili. Tuttavia, è bene non eccedere nel tentativo di esportare il giudicato al di fuori dei confini che gli sono propri e che restano limitati al processo di cognizione. IV. Processo moderno e ruolo del giudicato. Il concetto di cosa giudicata è assolutamente centrale nello studio del diritto processuale civile: tradizionalmente, è il perno attorno al quale tutta la materia ruota. Il processo, in un certo modo, ha senso in tanto in quanto riesca a stabilizzare l’ordinamento su un dato risultato: riesca, cioè, a produrre un giudicato e a dare certezza sulla controversia. Il valore della certezza – non lo si sottolinea mai abbastanza – viene preferito dal sistema rispetto al valore della giustizia. Nelle società moderne, tuttavia, la stabilità dell’accertamento giurisdizionale è messa in discussione sotto molti aspetti. In questo testo si darà conto del dibattito sugli effetti delle misure cautelari anticipatorie, non seguite necessariamente da un giudizio di merito, ovvero sulle fattispecie, sempre più frequenti, di decisioni sommarie, che non danno vita a giudicato. In tutte queste situazioni, il problema non è quello di superare o disapplicare gli effetti del giudicato: molto più semplicemente, del giudicato si fa a meno e si costruisce un equilibrio di interessi, a cui la stabilità proviene non dal dictum giudiziale, che in sé ne è privo, ma dall’inerzia delle parti, che di quell’equilibrio si ritengono paghe, e dal decorso del tempo, che seppellirà definitivamente la lite sotto il manto della prescrizione.

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Il valore dell’accertamento si muove su piani diversi da quello della giustizia, tanto che il giudicato certamente ingiusto non può essere rimosso, pur nella consapevolezza legale (e non meramente soggettiva) della sua ingiustizia, come risulta dall’emblematico e già citato art. 2738, comma 1°, c.c., in tema di giuramento falso. La prospettiva intorno a cui lavorare è quella che si propone di riportare al centro della finalità dell’attività giurisdizionale la giustizia sostanziale e non (o meglio, solo strumentalmente) la gabbia dorata del giudicato.

17. I LIMITI SOGGETTIVI DEL GIUDICATO. I. Efficacia soggettiva del giudicato. Il giudicato sostanziale ha limiti sia soggettivi che oggettivi. Il problema dei limiti soggettivi del giudicato risponde alla seguente domanda: stabilire fra chi ha efficacia il giudicato sostanziale, ossia fra quali soggetti fa stato il giudicato e a chi si rivolge il comando concreto. L’art. 2909 c.c. chiarisce che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato (e quindi ha efficacia, secondo i profili dei limiti oggettivi, che si esamineranno) tra le parti, i loro eredi ed aventi causa. Il punto fondamentale è che il giudicato si forma e si esplica fra le parti del rapporto sostanziale, a prescindere da chi abbia agito nel processo. Occorre quindi brevemente ritornare sul concetto di parte processuale e sul rapporto che intercorre fra la parte sostanziale e chi propone (o contro cui si propone) la domanda nel processo. Si è distinto fra la capacità di agire e la legittimazione processuale. La capacità di agire nel processo corrisponde normalmente alla capacità di agire di diritto sostanziale (art. 75 c.p.c.): chi può fare valere un diritto sostanziale può allo stesso tempo difenderlo in sede giudiziaria. La legittimazione processuale, invece, normalmente spetta a chi ha la disponibilità del diritto, in forza del collegamento

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tra la titolarità del diritto e dell’azione e allo stesso tempo individua chi, fra i molti soggetti capaci di agire, può fare valere esattamente quel diritto che è reso oggetto della controversia. Come si ricorderà, la legittimazione è una delle condizioni dell’azione. Nella maggior parte dei casi, il titolare del diritto (persona fisica o giuridica), capace di agire, è parte processuale. Gli effetti del giudicato (e quindi, la definizione del diritto che esce dall’accertamento) si producono sul titolare di tale diritto. Diritto sostanziale e processo sono dunque due vasi perfettamente comunicanti. La successione a titolo universale segue questo schema: il successore entra in causa nel luogo del dante causa. L’art. 110 c.p.c. stabilisce che quando la parte viene meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. Ciò vale per la successione ereditaria, ma anche per tutte le molteplici ipotesi di successione fra enti: dalla fusione fra società alla successione di enti pubblici. II. Rappresentanza e sostituzione processuale. Questo schema subisce, però, alcune varianti, nei casi di rappresentanza e sostituzione processuale. Nel caso della rappresentanza (volontaria o legale), un soggetto agisce (sostanzialmente e processualmente) in nome e per conto di un altro, sul quale però ricadono gli effetti dell’accertamento giurisdizionale (art. 75, comma 2°, c.p.c.). È evidente che qui molto dipende dalla struttura del diritto sostanziale. Si avrà allora una rappresentanza volontaria, basata su una procura; ovvero, una rappresentanza istituzionale per le persone giuridiche, private e pubbliche, che agiscono per mezzo del legale rappresentante; una rappresentanza legale dei soggetti minori o incapaci; le rappresentanze legali speciali, come quella del curatore della liquidazione giudiziale. È sempre necessario verificare che chi agisce in nome e per conto del rappresentato (persona fisica o ente che sia) disponga di un vero potere di rappresentanza: se così non fosse, la domanda giudiziale (o la resistenza in giudizio) risulterebbe carente di una condizione dell’azione e non potrebbe essere accolta.

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La rappresentanza processuale va tenuta ovviamente distinta dalla difesa o rappresentanza tecnica. Infatti, la rappresentanza processuale altro non è, se non la traduzione nel processo della rappresentanza sostanziale. La società X non potrebbe concludere un contratto, se non in persona dell’amministratore che ne ha la legale rappresentanza; allo stesso modo, non può stare in giudizio se non in persona di quell’amministratore. Invece, la difesa o rappresentanza tecnica, ossia la designazione di un soggetto (il difensore, l’avvocato) abilitato in via esclusiva a compiere gli atti del processo, che la parte non può compiere a causa del divieto di difendersi da sola (come meglio si vedrà), è un fenomeno strettamente collegato al processo e che non sussiste al di fuori del processo. Che abbia o no controversie giudiziali pendenti, la società X è sempre rappresentata dall’amministratore A; solo se ha controversie pendenti (e finché sono pendenti) essa sarà rappresentata in giudizio dall’avvocato B, scelto dall’amministratore A. Un’ipotesi ancora diversa è quella, regolata dall’art. 81 c.p.c., della sostituzione processuale (da taluno chiamata anche legittimazione straordinaria): un soggetto è abilitato ad agire in giudizio in nome proprio per far valere un diritto altrui. Qui si è al di fuori del modus operandi della rappresentanza sostanziale e ci si colloca in un ambito solo processuale. La sostituzione è possibile solo nei casi previsti dalla legge: essenzialmente, quelli disciplinati dagli artt. 108 e 111 c.p.c. Nel caso della rappresentanza, gli effetti dell’accertamento e del giudicato si esplicano non sul rappresentante, ma sul rappresentato. Se il Comune di Y è condannato a risarcire ad A un danno, il relativo esborso esce dalle casse municipali e non da quelle del Sindaco legale rappresentante. Nel caso della sostituzione, invece, gli effetti si producono sia sul sostituto, che sul sostituito. Vediamo le ipotesi previste dalle due norme citate. Così recita l’art. 108: se il garante compare e accetta di assumere la causa in luogo del garantito, questi può chiedere, qualora le altre parti non si oppongano, la propria estromissione. Questa è disposta dal giudice con ordinanza; ma la sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro l’estromesso. La norma suppone

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che A agisca contro B, il quale affermi di essere garantito dal terzo C. Se C non contesta il rapporto di garanzia (e quindi, di essere tenuto a pagare al posto di B, se B sarà condannato), C può entrare in causa al posto di B. C non rappresenta B, ma lo sostituisce. Se A perde la causa, gli effetti si esplicheranno sia sul patrimonio di B che su quello di C: nessuno dei due deve pagare. Se A vince la causa, B sarà condannato, ma C pagherà: gli effetti ricadono sul patrimonio di entrambi. L’art. 111 affronta invece il caso della successione a titolo particolare nel diritto controverso. Conviene partire, ancora una volta, dal testo della norma. Se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie. Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte (è l’ipotesi del legato), il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può esserne estromesso. La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione. Vediamo ora un esempio. A agisce in rivendica contro B, affermando di essere proprietario del fondo Y. Durante il giudizio, B vende il fondo a C. Proprietario del fondo (e quindi, parte sostanziale) è ora C. Tuttavia, la legge impone a B (salva diversa volontà di C) di restare in giudizio per contrastare la pretesa di A. B non rappresenta C, ma lo sostituisce. Se A vince la causa, gli effetti si producono sia su C, che perde il bene acquistato, sia su B, che dovrà tenere indenne C dall’evizione e restituirgli il prezzo pagato. Pur nella varietà delle ipotesi, si può affermare comunque che, sia in caso di sostituzione processuale, sia in caso di rappresentanza, il giudicato ricade sempre sulla parte sostanziale, ossia sul sostituito o sul rappresentato. Nel caso della sostituzione, si aggiunge l’effetto anche per il sostituto processuale.

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III. Gli effetti del giudicato nei confronti dei terzi. Occorre poi chiedersi che effetti ha il giudicato sostanziale per i terzi. Secondo l’art. 2909 c.c., il giudicato ha effetto solo tra le parti e non ha effetti diretti rispetto ai terzi (“res inter alios iudicata tertio neque nocet neque prodest”). Tuttavia, effetti indiretti si possono produrre. Prima di tutto, vanno considerati gli effetti derivanti dalla “verità storica” della sentenza. Per il solo fatto di esistere, la sentenza esprime un atteggiamento dell’ordinamento, di cui tutti i terzi devono tenere conto, prendendo atto dei comandi in essa contenuti ovvero delle modifiche che essa apporta. Poi, vi sono i c.d. effetti riflessi: vale a dire, le situazioni di vantaggio o svantaggio fattuale che ricadono sul terzo come conseguenza del giudicato fra altri soggetti. Ancora una volta, si assiste ad un diverso modo di operare fra diritti assoluti e diritti obbligatori. In particolare, nei diritti obbligatori, l’accertamento del rapporto può comportare conseguenze patrimoniali anche su soggetti che a quel rapporto erano estranei. Ad esempio, la sentenza che condanna un soggetto a pagare il suo creditore con tutto il suo patrimonio priva gli altri creditori del pagamento. Normalmente, gli effetti riflessi non ricevono tutela. Tuttavia, l’ordinamento prevede almeno un caso di emersione degli interessi colpiti. Secondo l’art. 404, comma 2°, c.p.c., l’opposizione di terzo revocatoria consente al terzo di mettere in discussione sentenze passate in giudicato che hanno su di lui un riflesso negativo qualora siano l’effetto di frode (dolo o collusione) a suo danno. Nel caso di sentenza che pregiudica i diritti di un terzo non intervenuto nel processo, l’accertamento in essa contenuto ha effetto vincolante limitato alle parti del processo e non è opponibile al terzo, in quanto la sentenza non si è pronunciata sul suo diritto. Il terzo pregiudicato nel suo diritto può sia esercitare un’azione di mero accertamento del suo diritto, sia agire ex art. 404, comma 1°, c.p.c., con opposizione di terzo semplice: con tale rimedio egli non mira soltanto ad affermare il proprio diritto, ma anche a porre nel nulla la sentenza che riconosca tale diritto ad altri.

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Bisogna poi considerare i casi di efficacia ultra partes della sentenza o di estensione degli effetti del giudicato. Infatti, in base alla struttura del diritto sostanziale, vi sono casi in cui il giudicato fra due parti espande necessariamente i suoi effetti oltre le parti del rapporto. Ad esempio, A impugna una delibera assembleare della società X e ne ottiene l’annullamento. La situazione giuridica così modificata ha effetti anche nei confronti dei soci B, C e D, rimasti spettatori della lite, ma che, in quanto soci, sono coinvolti dal nuovo assetto. In non pochi casi, quando per il diritto materiale sussiste fra due rapporti una relazione di pregiudizialità-dipendenza, gli effetti del giudicato sul rapporto pregiudiziale si ripercuotono sul rapporto pregiudicato. Vi sono poi casi in cui l’ordinamento permette un’estensione anomala del giudicato. Si pensi all’art. 1306 c.c. La norma prevede che la sentenza pronunciata fra il creditore e uno dei debitori in solido o tra il debitore e uno dei creditori in solido non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori: e fin qui, si tratta di una normale applicazione delle regole sui limiti soggettivi del giudicato. Il comma 2°, però, aggiunge che gli altri debitori possono opporla al creditore, salvo che sia fondata su ragioni personali del condebitore. Evidentemente, essi riterranno di avvalersene se favorevole: se, cioè, la decisione abbia respinto la domanda del creditore, ovvero ne abbia ridotto l’ammontare al punto da renderla conveniente. Analogamente, gli altri creditori possono fare valere la sentenza contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può opporre a ciascuno di essi. Ne segue che il giudicato qui si estende soggettivamente oltre le parti, a seconda dell’esito della causa (secundum eventum litis). Il fenomeno qui accennato non va confuso con quello del litisconsorzio necessario, che si descriverà più avanti. Nel litisconsorzio necessario, vi sono più soggetti che sono necessariamente parte del processo, in quanto parti del rapporto sostanziale: se questi soggetti non sono stati coinvolti, il processo non può essere deciso e un’eventuale sentenza sarebbe inesistente. Nel caso dell’efficacia ultra partes, invece, i terzi possono legittimamente restare fuori dal processo e la sentenza è data correttamente non

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nei loro confronti: tuttavia, essi ne ricevono, in modo più o meno intenso, gli effetti. Infine, va esaminata la c.d. efficacia erga omnes del giudicato nei rapporti di status. Si vuole intendere con ciò, non certo che esista un giudicato nei confronti di tutti (il giudicato, infatti, è strutturalmente relativo alle parti della controversia), ma che il giudicato, pur se originato in un processo fra due parti, ha effetti che si impongono a tutti i cittadini. Se A è riconosciuto figlio di B, ciò è vero anche per ogni terzo: per la scuola che A frequenterà, per i rapporti ereditari con gli altri figli di B e via dicendo. Queste conclusioni devono però essere poste a confronto con le norme costituzionali sul processo e, in particolare, con l’art. 111 cost., che afferma i principi del contraddittorio e del giusto processo, come condizione per l’esercizio legittimo della giurisdizione. Ora, senza voler negare che, in base al diritto materiale, il giudicato possa avere effetti anche nei confronti di chi non è stato parte del processo in cui si è formato l’accertamento e quindi non si è potuto difendere, si deve rilevare che i limiti del giudicato hanno valenza costituzionale: nel senso che, tendenzialmente, il giudicato non può avere efficacia se non fra coloro che hanno partecipato al giudizio in contraddittorio e che ogni estensione deve essere interpretata in modo restrittivo.

18. I LIMITI OGGETTIVI DEL GIUDICATO. I. L’oggetto del giudicato. Il problema dei limiti oggettivi del giudicato risponde alla seguente domanda: che cosa (vale a dire, quale materia oggetto di controversia) deve ritenersi definitivamente accertata? Questo aspetto è di notevole importanza sotto il profilo dell’attività del giudice. Può accadere, infatti, che la parte insoddisfatta dell’esito della causa riproponga (eventualmente, in forme in qualche modo mascherate) la stessa domanda già avanzata, chiedendo quindi un secondo (e inammissibile) esercizio dell’attività giurisdi-

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zionale sulla medesima controversia. Ora, la controparte rileverà che quella domanda è già stata definitivamente decisa, sollevando pertanto l’eccezione di cosa giudicata. La parte istante replicherà che quell’aspetto, invece, non era stato effettivamente deciso. Il giudice dovrà allora stabilire quali erano i limiti oggettivi del primo giudicato, vale a dire ciò che è stato definitivamente accertato e ciò che invece è ancora possibile oggetto di dibattito. Il punto di partenza è costituito dall’individuazione del profilo oggettivo dell’azione (dato dal petitum e dalla causa petendi). Chi propone la domanda tende ad accertare una certa situazione e il giudicato, tendenzialmente, corrisponde alla medesima quantità di materia (si ricordi il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato). Essenzialmente, il giudicato si forma sull’oggetto della domanda. In dottrina, si è ritenuto da alcuni che il giudicato riguardi il rapporto giuridico o gli effetti del rapporto. Occorre quindi individuare il fatto costitutivo e i fatti lesivi, posti a fondamento della domanda (e, naturalmente, di eventuali domande riconvenzionali). È utile ricordare qui che l’azione suppone l’allegazione di fatti. Al riguardo, va detto che, mentre nei diritti obbligatori il fatto costitutivo e il fatto lesivo coincidono (ad ogni fatto lesivo corrisponde una diversa domanda), nei diritti assoluti non è così: una pluralità di fatti lesivi mette in gioco un solo ed unico diritto. Gli effetti del giudicato saranno, pertanto, molto diversi. Se A chiede accertarsi il suo diritto di proprietà sul fondo F nei confronti di B (ad esempio, assumendo di averlo acquistato) e la sua domanda viene respinta con sentenza passata in giudicato, resta asseverato che, per i fatti anteriori alla pronuncia, il proprietario del fondo F è B e non A. Qualora più tardi A affermasse non di avere acquistato, ma di avere usucapito il fondo F, non potrebbe conseguire una seconda pronuncia, perché è già passato in giudicato l’accertamento del diritto di proprietà in capo a B. L’attore chiede l’accertamento di un diritto e il giudicato stabilirà se quel diritto esiste o non esiste. La dottrina tradizionale ha espresso questo profilo con formule che lasciano intendere come la realtà giuridica sia profondamente modificata dal giudicato.

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Il giudicato, si dice, “copre” il dedotto e il deducibile: ossia, i fatti lesivi specificati e quelli, anteriori, che avrebbero potuto essere introdotti in causa e non lo sono stati. Qui si apre un profilo che va attentamente considerato. La certezza suppone che i giochi giudiziari, ad un certo momento, si chiudano; se circostanze importanti o perfino decisive sono rimaste fuori dalla cognizione del giudice, ciò non impedisce che si raggiunga la stabilità degli effetti. Il dedotto richiama la chiarezza delle posizioni, la razionalità dell’accertamento, l’oggettività di una verità giudiziaria che forse si è formata faticosamente, ma che rappresenta il massimo livello possibile di approssimazione ai fatti. Ma sul dedotto, si allunga l’ombra del deducibile, che porta con sé un’indefinita serie di accadimenti che avrebbero potuto essere ma non erano stati, che allude a potenzialità inespresse, che suggella la fallibilità di avvocati incapaci di presentare le difese a tempo e luogo. Il giurista non può permettersi di ritornare sui propri passi e la ricerca del tempo perduto non gli appartiene. Certo, il giudicato non copre, invece, ciò che non era ancora deducibile (ad esempio, i fatti successivi). II. Giudicato implicito e giudicato esterno. Il giudice, per giungere alla decisione, deve compiere una serie di passaggi logici e affrontare, anche implicitamente, determinati aspetti (ad esempio, la verifica della sussistenza dei presupposti processuali). La definizione, con forza di giudicato, di un dato punto, suppone anche la definizione dei punti pregiudiziali, anche se non espressamente discussi. Si parla quindi di giudicato implicito e di giudicato interno. Si parla di giudicato implicito per affermare che il giudicato “copre” non solo l’oggetto diretto della pronuncia, ma anche tutto ciò che ne rappresenta il fondamento logico-giuridico, anche se non sia stato discusso in causa. Il giudicato implicito è una costruzione giurisprudenziale, rispetto alla quale la dottrina, basandosi specialmente sull’art. 34 c.p.c., ha talora dato una lettura parzialmente diversa. Si è rilevato, in particolare, che le questioni pregiudiziali di merito

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sono coperte dal giudicato solo se, per legge o per volontà delle parti, il giudice vi abbia esteso la sua diretta cognizione; diversamente, si tratterebbe di valutazioni rilevanti incidenter tantum. Altra dottrina ritiene che sia sempre comunque coperta la “pregiudizialità logica” (distinta da quella meramente “tecnica”), che comprende tutte le questioni, la soluzione delle quali in modo non coerente con la decisione sul merito ne avrebbe impedito la pronuncia. La prima tesi è preferibile, nel senso che l’estensione implicita del giudicato si deve coordinare con tutto ciò che rappresenta la volontà delle parti di litigare su una data questione e non su altre: volontà espressa dai principi del monopolio della tutela giurisdizionale, del contraddittorio, della trasparenza, della gestione degli interessi. Come si è visto, un ruolo importante è svolto dal potere del giudice di sollevare eccezioni d’ufficio. Ne è riprova il dibattito circa la rilevabilità d’ufficio o no dell’eccezione di nullità del contratto nell’ambito delle impugnazioni negoziali. Se una parte domanda la risoluzione del contratto e l’altra si difende solo sul piano dell’inadempimento (con la conseguenza che entrambe ne affermano la validità originaria), ci si chiede se il giudice, pur ritenendo che non vi siano gli estremi per la risoluzione (il che manterrebbe l’efficacia del rapporto), possa d’ufficio rilevare la nullità. Se si risponde di no, rispettando rigorosamente la delimitazione dei confini della lite operata dalle parti, il giudicato si verrebbe a formare solo sul punto della risoluzione: il che consentirebbe di riproporre la questione della nullità in un altro giudizio. Le sezioni unite della Cassazione, invece, si sono pronunciate di recente in senso affermativo, perché hanno ritenuto che la pronuncia sulla risoluzione darebbe per ammessa (e quindi coperta dal giudicato) la validità del contratto: ne segue che l’eccezione di nullità va sollevata nel giudizio sulla risoluzione, anche nell’ottica di regolare in modo completo e una volta per tutte la controversia. Questo orientamento giurisprudenziale costituisce probabilmente una forzatura, ma è sintomatico della complessità del problema. È comunque evidente che il giudicato si forma su ciò che, sia pure implicitamente, è stato deciso. Invece, non si ha giudicato sulle questioni che il giudice ha esplicitamente dichiarato o implicitamente

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considerato assorbite, nel senso che egli è pervenuto alla decisione senza esaminarle. La nozione di giudicato esterno ha a sua volta notevole importanza. Per giudicato esterno si intende la decisione, emessa dal giudice con forza di giudicato nella causa X, che fissa in modo stabile l’accertamento su alcuni elementi della controversia sottoposta al giudice nella successiva causa Y. Le sentenze dei giudici di merito (ad esempio, penali o amministrativi), passate in giudicato, che abbiano statuito su profili sostanziali della controversia, sono suscettibili di acquistare autorità di giudicato esterno, diventando incontestabili nei giudizi fra le stesse parti, relativi a questioni identiche rispetto a quelle già esaminate e coperte dal giudicato. Così, un provvedimento dichiarato legittimo dal giudice amministrativo, con sentenza passata in giudicato, non può poi essere oggetto di una successiva domanda di illegittimità e disapplicazione dinanzi al giudice ordinario. Si ritiene oggi che i principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata consentano al giudice di rilevare anche d’ufficio e anche in sede di impugnazione l’esistenza di un eventuale giudicato esterno (se, ovviamente, ciò risulta dagli atti del processo). III. L’efficacia del giudicato penale. Un cenno va dato all’efficacia delle sentenze penali sulle azioni civili risarcitorie o restitutorie conseguenti al reato. Al riguardo, va detto che è tramontata la concezione della superiorità della giurisdizione penale su quella civile, che ha ceduto il passo ad un sistema più articolato, dopo la riforma del 1988 del codice di procedura penale. Secondo l’art. 651 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna pronun-

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ciata a norma dell’art. 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato. In base all’art. 652 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2°, c.p.p. Ha la medesima efficacia la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell’art. 442 c.p.p., se la parte civile ha accettato il rito abbreviato. IV. Tendenze europee. Come si vede, specialmente nei diritti assoluti, il giudicato ha un’estensione che può essere più ampia rispetto alle questioni, di fatto e di diritto, effettivamente discusse e rese oggetto di contraddittorio. Le conseguenze sono importanti sul patrimonio giuridico delle parti. Tuttavia, è bene sapere che emerge una tendenza europea di tipo diverso, che tende a restringere gli effetti del giudicato, limitandoli ai punti di fatto e di diritto effettivamente discussi. Di questa tendenza sono tracce l’art. 29 del regolamento n. 1215/12, nell’interpretazione della Corte di giustizia e, in qualche misura, le sentenze con cui la medesima Corte ha ritenuto inefficaci sentenze italiane passate in giudicato, in casi di contrasto con il diritto europeo (sentenza Lucchini del 18 luglio 2007; sentenza Olimpiclub del 3 settembre 2009). Di più, la stessa forza vincolante del giudicato sostanziale è posta in discussione, almeno in una certa misura. Nel caso Lucchini, la Corte di giustizia ha affermato che una norma come l’art. 2909 c.c. deve cedere di fronte all’applicazione di misure comunitarie e che il giudicato nazionale non può fungere da ostacolo alla piena

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efficacia del diritto europeo. Il caso di specie presentava peculiarità tali da suggerire una lettura prudente del principio affermato dalla Corte: tuttavia, un varco importante è stato aperto e l’intangibilità della cosa giudicata non può ora essere affermata come un dato assoluto. V. L’eccezione di cosa giudicata. L’ordinamento, nel suo obiettivo di dare certezza, cerca di evitare il contrasto di giudicati, vale a dire la situazione in cui, sullo stesso diritto, si formino due accertamenti contrastanti. I mezzi per evitare questo rischio sono l’eccezione di litispendenza, l’eccezione di cosa giudicata, la sospensione del processo, la revocazione ordinaria ex art. 395, n. 5, c.p.c. Mediante l’eccezione di litispendenza si cerca di evitare, sul sorgere, che nascano due processi identici, decisi da due giudici diversi (ciò che potrebbe portare a decisioni non uguali e quindi ad un contrasto). L’eccezione di cosa giudicata ha, invece, un obiettivo diverso: essa mira a paralizzare un’azione proposta dopo il passaggio in giudicato di una data sentenza, rilevando che il giudice ha già esercitato il suo potere di ius dicere esattamente sulla medesima domanda. Ovviamente, stabilire se la domanda è identica o no dipende dalle regole sui limiti soggettivi e soprattutto oggettivi del giudicato. L’eccezione di cosa giudicata è strettamente legata al profilo dell’unicità dell’esercizio del potere giurisdizionale in rapporto ad una data controversia: per questo, è rilevabile non solo su iniziativa di parte, ma anche d’ufficio. VI. Contrasto fra giudicati e contrasto di giuri­ sprudenza. Contrasto fra giudicati è cosa diversa dal contrasto di giurisprudenza, situazione certo non gradita ma tollerata dall’ordinamento. Il contrasto fra giudicati si ha quando l’identica causa fra A e B è decisa in un modo dal giudice X e in un modo diverso dal

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giudice Y. Contrasto di giurisprudenza si ha invece quando la causa fra A e B è decisa dal giudice X in modo diverso da come la causa fra C e D (diversa, ma di identiche basi giuridiche) è decisa dal giudice Y. Nel primo caso, manca la certezza dell’ordinamento su un identico rapporto sostanziale. Nel secondo caso, per ciascuno dei due rapporti si ha una soluzione certa, ma manca totalmente la prevedibilità nell’interpretazione della norma in un eventuale terzo caso. Il contrasto di giurisprudenza è affrontato dall’art. 374 c.p.c., in base al quale, in caso di soluzioni diverse date dalle sezioni semplici della Corte di cassazione, la questione è sottoposta all’esame delle sezioni unite, vale a dire di una composizione allargata e più autorevole della stessa Cassazione. Di fatto, il contrasto di giurisprudenza è un dato frequente, che pregiudica nel tempo la certezza del diritto. A questo proposito, la riforma del 2006 ha modificato il citato art. 374, sancendo l’obbligatorietà, per le sezioni semplici, di attenersi al principio di diritto enunciato dalle sezioni unite: infatti, le sezioni semplici, se non ritengono di condividere tale principio, non possono decidere il ricorso in maniera difforme, ma devono rimettere la relativa decisione alle sezioni unite. L’ordinamento cerca di evitare, per quanto possibile, il contrasto di giurisprudenza, anche con altri strumenti. Uno di questi è la connessione impropria, che permette la trattazione in un unico processo di più cause prive di collegamento oggettivo fra loro, ma caratterizzate dalla medesima questione di diritto. Un altro è l’azione di classe, che consente a molti soggetti di fare convergere le proprie domande, ottenendo un risultato omogeneo. In materia di lavoro, opera l’art. 420-bis c.p.c., che permette di risolvere in modo unitario le vertenze che coinvolgono l’interpretazione di un medesimo aspetto di contratti o accordi collettivi. Manca, tuttavia, una generale considerazione delle azioni seriali: vale a dire, di quelle azioni, in sé diverse, ma che si ripropongono con ampia diffusione relativamente a punti di diritto comuni. È evidente che una riflessione su questi profili potrebbe portare ad utili risultati dal punto di vista della ragionevole durata delle cause e dell’economia complessiva delle risorse.

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La struttura fondamentale del processo

IL PROCESSO COME COMPLESSO DI RELAZIONI Al termine di questo primo blocco di argomenti, si può brevemente ritornare sulla nozione di processo. Del processo, si è messa in luce la struttura semplice (due parti che si rivolgono ad un terzo imparziale per definire una controversia fra di loro), la strumentalità rispetto alla decisione sostanziale e alla tutela dei diritti, il carattere di contenitore ampio di più liti, la visualizzazione esterna come catena di atti e di incontri fra le parti e il giudice. Così pure, si è preso atto che il processo esprime una situazione intrinsecamente dialettica e contraddittoria: l’accoglimento delle domande di una parte suppone la soccombenza dell’altra. Tentando di riassumere questi vari aspetti, si può dire che il processo è (non diversamente da altre situazioni della vita umana, regolate o no dal diritto) un complesso di relazioni interpersonali. Queste relazioni sono caratterizzate fra loro in modo diverso: si pensi alle coppie attore-convenuto, parti-giudice, giudice-ausiliari, parte-difensore, giudice-difensore, giudice-testimone. Caratteristica comune è la giuridicità, nel senso che ogni relazione è tale perché così modellata dal diritto e suppone l’esercizio di diritti e doveri. Per il resto, ognuna si atteggia in modo diverso e suppone di essere riempita e sostanziata da comportamenti umani coerenti: l’imparzialità del giudice rispetto alle parti, il dovere di verità del testimone, la lealtà dell’avvocato verso la parte, la correttezza nel conflitto fra attore e convenuto. La natura relazionale del processo non è mai stata effettivamente approfondita: la concezione del rapporto giuridico processuale ne metteva in luce solo l’involucro comune, ma non ne considerava le peculiarità. La principale conseguenza operativa di questo modo di guardare al processo è che l’incoerenza interna alla relazione (e quindi una relazione vissuta in modo inadeguato) comporta l’incapacità del processo di conseguire il suo risultato: quello di risolvere la controversia in modo conforme a diritto. Per continuare nell’esempio, il giudice parziale, il testimone falso, l’avvocato colluso, l’attore o il convenuto fraudolento non soltanto pongono in essere un comportamento giuridicamente sanzionabile, ma snaturano radicalmente la relazione che li concerne. Più semplicemente, anche il giudice che non studia a fondo il fascicolo o l’avvocato che si presenta all’udienza impreparato danno luogo ad una relazione incoerente. Tradotto in concreto, questo significa che la componente umana è decisiva perché il processo civile funzioni. Nessuna riforma e nessuna alchimia potranno ottenere risultati che dipendono dalla quotidiana applicazione degli uomini.

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