Cadillac 20e - Post 5A [giugno 2020]

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CADILLAC # 20e | post 5 | giugno 2020 curatore L’IA di Cadillac impaginazione Manfredi Damasco copertina Elena Miele illustrazioni interne Ruggero Facchin: p. 30, p. 54, p. 60, p. 66, p. 115. Francesco Levi: p. 4, p. 6, p. 40, p. 53, p. 82, p. 100.

Cadillac Magazine Archivio cadillacmag.wordpress.com


editoriale — di — Redazione

Benvenuti sul numero 23e post5 di Cadillac Magazine. Oggi è il 25 maggio del 2020, l’anno del covid19. Detto così non ha molto senso, ma tra vent’anni sarà struggente. Questo dovrebbe essere l’ultimo dei numeri postumi dedicati alla narrativa, anche se in questo caso proponiamo di tutto tranne che autori emergenti. Alois Hotschnig è già affermato in patria, e noi siamo i primi a proporlo, grazie ad Ada Vallorani. Azorín in Spagna è un classico, ma siamo certi che prima o poi verrà riconosciuto anche da noi; proponiamo un testo inedito della traduzione della bravissima Carmen Romeo. Futabatei Shimei è l’inventore del romanzo giapponese moderno, un mostro sacro in patria, sconosciuto da noi. Anaïs Nin non ha bisogno di presentazioni, e in verità non siamo stati originalissimi nella scelta del racconto, ma. Musil e Gončarov, voglio dire. Franziska zu Reventlow è personaggio da riscoprire, e noi proponiamo qualche frammento di un romanzo pubblicato da Adelphi, entro le battute consentite dalla legge. Borges, beh, come Musil e Gončarov, e anche qui siamo stati banalotti nella scelta del racconto, ma a volte vale la pena d’esser banali. Di Lawrence proponiamo un racconto che qualcuno di aveva caldamente consigliato e non ricordiamo più chi e ci dispiace moltissimo. Ma il massimo della prevedibilità l’abbiamo toccato ospitando quel capolavoro di Hawthorne che risponde al titolo di Wakefield, ammesso che i racconti possano rispondere se li chiamate. Ma voi provateci. Buona lettura. La redazione

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indice editoriale

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alois hotschnig Forse stavolta, forse adesso [estratto]

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azorín Montaigne

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futabatei shimei Mediocrità [estratto]

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anais nin Lilith

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robert musil L’uomo senza qualità [estratto]

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gončarov L’inutile ciclo della vita [estratto]

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franziska zu reventlow Il complesso del denato [frammenti]

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jorge luis borges La rosa di Paracelso

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h.d. lawrence Odore di crisantemi

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hawthorne Wakefield

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Alois Hotschnig —

forse stavolta, forse adesso — Traduzione degli studenti del corso di Laurea magistrale in Letterature e Traduzione Interculturale, Università Roma Tre. Estratto incluso nell’antologia Nuove scritture dall’Austria, a cura di Giovanni Sampaolo (Artemide, 2017), e qui pubblicato grazie alla mediazione di Ada Vallorani

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alter non viene, e questo per noi andrebbe anche bene, se i nostri genitori non vivessero per altro che per il pensiero di lui e per la speranza che lui possa una volta o l’altra comparire, quando ci incontriamo tutti da loro, e così essere al completo, l’intera famiglia, tutti, come se ci appartenessimo l’un l’altro, come se fossimo una cosa sola, una volta ancora, o piuttosto una volta, perché così non è stato, mai. Quando li vado a trovare e come l’ultima volta propongo di andare insieme il giorno successivo da mia sorella a festeggiare il suo compleanno, loro sono contenti, perché a niente danno più importanza che al legame tra i loro figli, e così decidiamo di fare una sorpresa il giorno dopo a mia sorella e mio fratello, e anche all’altro fratello forse, se ci sarà tempo, perché lui abita un po’ più lontano. Tu sai quanto mi fa piacere sapervi insieme, dice mamma, e racconta che cosa è avvenuto da loro durante la mia assenza, e ci sentiamo sempre più vicini, e dopo un po’ lei

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cadillac 20e - post 5 diventa taciturna e silenziosa e papà dice, forse è meglio che andiate voi due e che io rimanga a casa, potrebbe essere che domani passi Walter, e la mattina dopo noi non andiamo da mia sorella, perché mamma non lascia volentieri solo papà, e anche lei non vuole perdersi lo zio Walter, se viene per una volta, e così tutti e due rimangono lì a casa, ed io rimango da loro, ed è mia sorella che viene in visita, a festeggiare il suo compleanno a casa dei genitori, e non a casa sua, come ha desiderato per decenni. Già da sempre uno dei due è rimasto a casa. Tutti e due insieme, da quando io sono in grado di pensare, non hanno mai lasciato la casa, e da qualche tempo non la lasciano neppure più uno per volta, per il timore che possa venire Walter mentre loro non ci sono. Se vogliamo vederli, dobbiamo andare noi da loro, e noi lo facciamo, occasioni ce ne sono spesso, il compleanno di papà e il compleanno di mamma, l’anniversario del loro matrimonio, il compleanno di mio fratello e dell’altro mio fratello, che sembra somigli tanto allo zio Walter, si dice, onomastici, matrimoni e battesimi, il giorno di tutti i santi e il giorno dei morti, Natale, Pasqua e Pentecoste, motivi ce ne sono abbastanza, e noi li rispettiamo. Da ogni parte ci mettiamo in viaggio e ci ritroviamo a casa dei nostri genitori. Oltre a Walter papà ha un altro fratello e una sorella, loro ci sono sempre ad ogni festa, e i loro figli e figlie, le cugine con i loro bambini, i nipoti, il prozio, tutti, cioè, non proprio tutti, perché è sempre lo zio Walter che manca, e per quanto inverosimile sia la sua venuta dopo tutti questi anni, essi rimangono costanti nel loro desiderio di lui e nella speranza che questa volta, oggi, proprio adesso, possa forse accadere. Ma Walter non viene, almeno non quando noi siamo da loro. La sua assenza non è compensata da tutti noi che

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siamo lì, e per quanto ci sforziamo di distoglierli da lui e di farglielo dimenticare, questo proprio non ci riesce. Tutti noi, sì, contiamo, e tuttavia non contiamo quanto lui, perché l’assenza di Walter ci fa scomparire tutti e ci rende invisibili agli occhi dei genitori e a noi stessi. Le assenze vengono notate e registrate, ma solo fino al momento in cui l’assente di turno entra dalla porta per unirsi al gruppo in attesa e lì scomparire. Il gioco è sempre lo stesso, chi c’è e chi no, quanti siamo già e chi poi forse verrà ancora, e chi no. Se durante una festa un estraneo si presenta alla porta o passa davanti a una delle finestre, capita abbastanza spesso che i bambini dei miei fratelli sussultino e si guardino fra loro per accertarsi se per caso l’estraneo non potrebbe essere Walter, e si rispondono che quello di sicuro non può essere lo zio Walter, e fanno cenni dubbiosi o scuotono la testa, non è lo zio Walter, no, e per un qualche imperscrutabile motivo, lo zio Walter non è così, lo zio Walter è più alto, o anche più basso, a seconda, perché ognuno di noi ha la propria immagine di Walter. Ma secondo tutti i racconti lui è d’animo bonario, affabile e premuroso e interessato a ciascuno di noi. Così ci viene raccontato. Ma noi non ci crediamo, come anch’io da bambino per anni non ho potuto credere neppure che esistesse veramente. E invece Walter esiste. Ha una moglie, che si chiama Ria. In casa dei miei genitori lei viene e va. Ed ha un figlio, ha un nipote, dunque perché mai non dovrebbe esistere. Esiste. E viene in visita. Se è vero quello che i genitori ci raccontano, perché testimoni di queste visite non ce ne sono, mai. Comunque sia, dopo la sua visita la vita dei miei genitori per un po’ è più serena. Ci manda i suoi saluti. Ha una parola gentile per ciascuno di noi. Assicura che vuole esserci al prossimo incontro,

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cadillac 20e - post 5 e non vede l’ora di conoscerci, ognuno di noi, così ci dicono. Questo ci viene detto, e questo sentiamo. E c’è ancora sempre qualcuno di noi che ci crede, o lo dà a vedere per amore dei genitori, questo non si può dire, tutti infatti ci comportiamo come se ci credessimo e come se questo fosse possibile un giorno, forse addirittura questa volta, adesso. I nostri genitori pendono da quest’uomo, e con loro pendiamo tutti noi. Walter li fa penare e loro glielo permettono, e noi anche, come se avessimo un debito nei suoi confronti, o dovessimo scontare una colpa che nessuno sa in che cosa consista. […] D’estate, se il tempo lo permette, aspettiamo in giardino, perché con la confusione che fanno i bambini, spesso in casa non è facile resistere. Allora sediamo al sole o sotto uno degli alberi, solo la sedia di Walter sta appartata all’ombra sotto uno degli altri alberi. Walter non sopporta il sole, la luce non gli fa bene e le correnti d’aria lo fanno ammalare, per questo porte e finestre in casa sono sempre chiuse, perché Walter non si deve ammalare. D’estate aspettiamo al sole e all’ombra degli alberi e nella stagione fredda aspettiamo nelle stanze. Non si accende il riscaldamento in casa. Il caldo non fa bene a Walter, dunque d’inverno stiamo seduti gelati nelle stanze ed abbiamo gli uni gli altri davanti agli occhi, e Walter nella testa, e cerchiamo di star bene insieme e stiamo bene e anche no. Stiamo lì seduti e cerchiamo di dimenticarlo e di farlo dimenticare, ognuno per parte sua, e se per caso per un momento si riesce o per lo meno sembra che si riesca ad ottenere un po’ di calma, di pace e tranquillità, ecco che mamma nel silenzio dice se non ci penso, che noi stiamo così bene mentre Walter è solo da qualche parte, io non lo posso sopportare, dice.

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Walter non è solo, conosciamo sua moglie, il figlio e il nipote, che si chiamano tutti e due Walter come lui. Solo non è, lo sappiamo, ma non protestiamo, perché questo per mamma non conta, per mamma Walter era ed è solo. Neanche Ria cambia niente, dice e scuote la testa. Noi abbiamo gli altri, ma Walter sta sempre solo, così noi dobbiamo pensare a lui e preoccuparci di lui, dice. E proprio da questo Walter sta sempre alla larga, stando alla larga da noi. […] La moglie di Walter passa a volte, questo succede, non spesso, non in modo prevedibile, e che sia per riguardo verso i genitori o perché Walter la manda, comunque sia, lei viene. La porta si apre e noi vediamo: Walter non è con lei, lei viene senza di lui, lo vediamo. Eppure, uno di meno manca all’appello, perché Ria fa parte di noi, anche se lei senza di lui non conta. Così aspettiamo insieme a lei, perché lui aveva intenzione di venire, ci assicura ogni volta. Walter viene dopo, dice, lei è venuta avanti perché qualcuno all’ultimo momento ha trattenuto Walter. Aspettiamo, e nell’attesa lei diventa inquieta e preoccupata e con lei i genitori e tutti noi. È successo qualcosa, dice allora, altrimenti sarebbe qui. Rimane ancora un po’ e se ne va, e noi restiamo lì e aspettiamo una chiamata da lei, un cenno, ma non ce n’è, mai, così come non c’è Walter, non per noi. […] Mamma telefona. Walter è stato lì, dice poi, il suo posto è ancora caldo, pensa, per un pelo l’avremmo perso, meno male che abbiamo avuto un presentimento. E all’incontro successivo sentiamo papà e mamma raccontare di Walter e di come è andata.

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cadillac 20e - post 5 Così diversi in fondo non siamo, penso spesso. Anch’io voglio essere raggiungibile, questo desiderio non mi è estraneo, e la sensazione di essere in obbligo con qualcuno la conosco anche troppo bene. Per questo mi tengo lontano dagli impegni, e quelli che prendo, li annullo, per essere raggiungibile nel caso che qualcuno passi a trovarmi. L’unica eccezione che faccio è per i genitori, e la faccio così spesso, che per altre rimane poco tempo. Così i miei occhi vanno dall’uno all’altro, e rifletto che per noi è impossibile sfuggire al nostro legame. Al di fuori di Walter questo non è riuscito a nessuno, e anche a lui solo al prezzo che noi tutti paghiamo per lui. E tuttavia, ad ogni incontro viene il momento in cui è tempo di separarsi e di farsene una ragione e di ammettere che l’attesa è inutile, almeno per questa volta e adesso, infatti papà passa la mano sul tavolo e non dice niente, e poi, bè, Walter per oggi non può più venire, dice e si alza e ci ringrazia di essere venuti , e poi, rivolto a mamma, tu vieni dopo, dice e se ne va in camera sua, e mamma lo segue fino alla porta, che chiude dietro di lui e si sistema la camicetta e si siede ancora una volta con noi, per un po’, poi abbassa gli occhi e sorride e batte le mani allegra. Domani saluto io Walter per voi, dice poi. -Alois Hotschnig. Nato nel 1959, ha studiato medicina, germanistica e anglistica a Innsbruck senza laurearsi. Dal 1989 vive in quella città scrivendo narrativa, poesie, teatro e radiodrammi. È stato insignito di numerosi premi tra cui il premio Italo Svevo (2002) e il premio Erich Fried (2008). Diverse sue opere sono state tradotte in inglese, francese, sloveno, croato e svedese.

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Azorín —

l’ideale di montaigne — traduzione di Carmen Romeo [ racconto inedito in Italia ]

Era un uomo allegro? «Proprio allegro. Il giorno che gli segai il cranio…» «Gli ha segato il cranio?» «L’ho fatto in veste di medico legale. Alejandro era uno dei miei più cari amici. Fu uno dei momenti più dolorosi della mia vita.» «Com’è morto?» «È morto come ha vissuto: senza tristezza né dolore, senza causare dispiacere a nessuno. «Questo era l’ideale di un altro uomo che anch’io stimo molto e che era in vita tre o quattro secoli fa: il filosofo Montaigne. Voleva morire in una locanda. “Viviamo e ridiamo tra la nostra gente, e andiamo a lamentarci e a morire tra gli sconosciuti”, diceva.» «Alejandro era uno di quegli uomini che portano un’allegria incredibile ovunque vadano.» «Tra tutti i tipi di allegria, quella irrazionale è la più allegra: è l’allegria dei bambini, dei contadini e dei selvaggi, cioè di tutti quegli individui che vivono a contatto con la natura più di noi. Com’era Alejandro?» «Era alto, grasso, con il collo robusto e la testa piccola.» «Era ricco?»

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cadillac 20e - post 5 «Stava abbastanza bene, però ha scialacquato tutta la sua fortuna divertendosi e viaggiando. Al momento della sua morte, gli era rimasto molto poco: era arrivata in tempo.» «Nessun figlio?» «Era scapolo. Diceva di non sentire l’urgenza che il suo nome si tramandasse nel mondo.» «Ecco un’altra somiglianza con il filosofo che ho citato poco fa. Nemmeno questo Montaigne desiderava che si tramandasse la sua stirpe. “Mi importa poco di ciò che succederà nel mondo una volta che me ne sarà andato”, scriveva.» «Mi diceva che Alejandro viaggiava?» «Andava di frequente a Madrid. Lì lo conoscevano in tanti. Un giorno entrò in una taverna e disse che tutto quello che stavano consumando i clienti lo avrebbe pagato lui. “Chi paga? Chi paga?” si chiedevano, e a quel punto, quando ebbe tutti gli occhi puntati addosso, salì su un tavolo e cominciò a parlare a vanvera.» «Forse era ubriaco.» «No, non si ubriacava più. Ma gli piaceva mangiare bene e tanto. Questa fu la causa della sua morte.» «Ictus?» «Sissignore. Una sera stavamo facendo baldoria al Casinò vecchio... Lei non ha conosciuto il Casinò vecchio?» «Nossignore.» «È chiuso da parecchi anni ormai. Una sera stavamo cenando lì e Alejandro non era con noi. Mancava a tutti, non poteva non esserci: all’improvviso spuntò dalla porta. Allora iniziò l’allegria… Ricordo che dopo cena, quando portarono il caffè, io presi un bicchiere, lo riempii di rum e lo offrii ad Alejandro. Lui lo prese, lo

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tenne un attimo in mano e dopo lo tracannò. Ma quando allontanò il bicchiere dalla bocca, fece una smorfia di disgusto e mi disse queste parole, che ancora mi sembra di sentire: “Sembrava veleno”.» «Perché lo disse?» «Non saprei, forse era un presentimento. Il rum non aveva nulla, lo avevamo bevuto tutti… Mentre tutto questo succedeva era l’una di notte. Io me ne andai, perché mi piace svegliarmi presto. “A domani”, dissi ad Alejandro. “Torni qui?”, mi chiese. “Sì, dopo mangiato”, risposi. Con me vennero anche tre o quattro amici, ma Alejandro rimase lì con altri due o tre, i più chiassosi.» «Che facevano lì?» «Chiacchieravano e bevevano. Quello che successe dopo lo so perché me lo ha raccontato diverse volte l’oste. Alejandro, quando prendeva parte a queste bisbocce, alla fine aveva l’abitudine di cimentarsi in un ballo di sua invenzione.» «L’aveva inventato lui?» «Molto verosimile: era una sequenza di salti e piroette stravaganti.» «Ballò anche quella notte. Gli altri battevano le mani e cantavano, e lui saltava al centro del cerchio con quel suo corpo grassoccio. Ma all’improvviso, dato che aveva ballato a lungo, si allontanò dal gruppo e andò a sedersi a un tavolo. Una volta lì, appoggiò il gomito sul marmo, la testa sul palmo della mano e chiuse gli occhi.» «E agli altri non sembrò strano?» «No, per niente. Gli altri erano alticci, a parte il fatto che, che Alejandro si mettesse a dormire dopo un’abbuffata, era cosa normale.» «E che fecero quando Alejandro si mise a dormire?»

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cadillac 20e - post 5 «Se ne andarono. Alejandro, quando chiuse gli occhi russò leggermente. “Ormai Alejandro dorme”, dissero tutti, e se ne andarono. A quel punto l’oste fece portare a sua moglie una coperta e un cuscino, li misero a terra e insieme sollevarono Alejandro per metterlo a dormire. Tenga presente che, quando Alejandro smise di russare come dicevo prima, era già morto. L’oste mi ha raccontato tanto volte che, quando lui e sua moglie lo presero per metterlo a dormire, lui disse: “Diamine, quanto pesa il signor Alejandro oggi...!”» «Alejandro trascorse così la notte. Il giorno successivo, l’oste entrò in sala e lo trovò nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato. “Signor Alejandro! Signor Alejandro!”, gridò. Ma Alejandro non si muoveva. Allora lo tirò da un braccio, lo tirò da una gamba e vide, inorridito, che sia la gamba che il braccio erano pietrificati... Fui io ad eseguire l’autopsia il giorno stesso: gli serrai il cranio e mi sembrò di non arrivare mai alla massa encefalica. Non ho mai visto delle ossa così resistenti! Dentro non c’era altro che una briciola di cervello.» «In poche parole, non avere cervello è la chiave per vivere allegramente?» «È possibile...»

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Futabatei Shimei —

mediocrità [ un estratto ] — traduzione attribuita a Luca Lamberti il romanzo Mediocrità (1907), pubblicato in Italia nel 1941 da Einaudi e ristampato nel 1983, è fuori catalogo da quarant’anni XL. La ragione per cui fuggii dalla stanza di Yukie San fu che avevo una paura tremenda. Non sapevo di che cosa, ma avevo paura. L’uomo traccia una linea tra la vita e la morte e ha paura di attraversarla. Né ciò avviene necessariamente perché egli tema la morte. Benché egli sappia che la morte è inevitabile, è perché teme questa linea che non può attraversarla. Così fu per la mia fuga. Passare la linea che separa l’ignorare la donna dal conoscerla si chiama comunemente «rompere il ghiaccio». Io ero giunto fino a questa linea, sospinto dal desiderio, ma benché sapessi che mi bastava attraversarla per soddisfare il mio desiderio, pure, per paura, non ce la feci. Non era che non volessi attraversarla: ma, per quanto lo volessi, non ci riuscii. Qualche anno dopo, quando cercai una seconda volta di attraversarla, avevo ancora paura, ma stavolta, fortificatomi con del sake e mezzo fuori di me, riuscii finalmente a farcela. Una volta traversata la

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cadillac 20e - post 5 linea e ridivenuto padrone di me, provai una certa avversione e, ridatomi al sake, mi costrinsi a dimenticare per un certo tempo l’avversione. Malgrado questi sentimenti, avevo voluto soddisfare il mio desiderio. Qualcuno potrà credere che fosse perché la mia compagna non era una concubina legittima ma una pubblica prostituta, eppure il motivo dell’avversione non era quello. Quand’anche la compagna sia la propria moglie legittima, dicono che quasi ognuno prova questo sentimento. E dicono che ciò valga specialmente per le donne. Come mai? C’è un’altra cosa, strettamente legata a questa, che io non so capire. Tutti gustano in segreto il frutto dell’Eden, eppure tutti si vergognano anche soltanto di accennarne davanti agli altri. Scriverne liberamente come faccio ora, è soltanto possibile con un grandissimo sforzo. Come mai? Se una cosa non si può nemmeno accennare davanti agli altri, non sarebbe meglio non farla? E se si osa farla, non sarebbe meglio parlarne apertamente con chiunque? Non è un’incongruenza vergognarsene dopo che si è osato commetterla? Forse. Ma intanto trovate qualcuno che la pensi così? Qual è la ragione? Dobbiamo chiamarlo il dissidio della carne e dello spirito? Ma, se la carne e lo spirito vanno d’accordo, come lo chiameremo? Smetteranno uomini e donne di credere terribile e vergognoso il conoscersi? Arriveremo al candore degli animali? Chiamano Tolstoj il saggio del Nord. Che cosa dice questo filosofo? Nella conclusione della Sonata a Kreutzer dice che l’ideale che può essere pienamente realizzato non è un ideale autentico. È soltanto un ideale autentico quello che non si può pienamente realizzare. La purezza è l’ideale del cristianesimo. Perciò è inevitabile che la

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perfezione non si possa raggiungere; soltanto, lui dice che i cristiani devono perseguire quest’ideale per tutta la loro vita e consiglia tutti i coniugi di questo mondo a vivere quanto più possono come fratello e sorella. Che cosa significa? Io non riesco a capirlo. Se uno cerca la perfezione e non riesce a raggiungerla, non dovrebbe costui morire di affanno? Un uomo, che abbia la purezza per ideale e sposi una donna e ne abbia dei figli, mostra di essere doppiamente degenerato. E poi, non si dice forse che non si deve mai divorziare dalla donna che si è sposata? Se avere una moglie è segno di corruzione, perché non si afferma positivamente che i coniugi dovrebbero separarsi del tutto? Che ragione c’è nel precetto di non separarsi vita natural durante? Non è forse insensato? Noi siamo come quelli che meditano perplessi con lo stomaco vuoto senza pensare a procurarsi riso sufficiente per sfamarsi. Ma non possiamo continuare a vivere parlando a ruota libera, come fanno i vecchi avari in ritiro quando discettano di morale. XLI. Ben presto, per Yukie San venne scelto un marito. Quando fu scelto, ebbi un po’ l’impressione di essere stato ingannato da lei e, siccome ero molto mortificato, per quanto i miei si opponessero recisamente, inventai delle scuse, trovai modo di lasciare casa Ogitsune e me ne andai a vivere in una pensione. Il lato sciocco della cosa fu che, una volta stabilito nella pensione, mi presi la pena di fare ancora nella vecchia casa due o tre visite, per vedere come Yukie San se la passava e se per caso non era un po’ malinconica. Ma lei

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cadillac 20e - post 5 non lo era affatto. Al contrario, adesso che le avevano scelto il marito, pareva allegra. Finì che me ne disgustai profondamente e, diradate le mie visite, poiché in seguito mio zio fu trasferito al posto di capodistretto in non so quale provincia dove si recò con la famiglia, dimenticai del tutto Yukie San. Non la vidi mai più. Tutto ciò e troppo banale e comune. Un fatto di questo genere andrebbe chiamato risveglio del desiderio sessuale e non amore. L’amore e qualcosa di un po’ più nobile e spirituale, diranno gli uomini nobili e spirituali. Può darsi. Ma l’amore degli uomini comuni come me è sempre di questa fatta. In primo luogo, il desiderio sessuale, consapevole o inconsapevole che sia, cerca soddisfazione; poi, per motivi di ragione e di gusto, ci si fissa su una persona, e finalmente per la prima volta entra in scena l’amore. Dove fin dall’inizio non esiste desiderio sessuale, non c’è neppure amore. È questo il motivo per cui non esiste amore tra i membri di una stessa famiglia, per quanto di sesso diverso. Siccome in gioventù il desiderio sessuale punge violento, un uomo non sempre si accoppia secondo ragione e gusto, ma agisce d’istinto e si prende avventatamente la prima donna in cui s’imbatte. La mia avventura con Yukie San fu in sostanza questo. Il fondo dei nostri amori e sempre desiderio sessuale. Il desiderio sessuale non è una cosa nobile, ma nemmeno si può dire una cosa vile, neutra e indifferente. Che il nostro amore possa sembrare cosa vile è dovuto al riflesso di una personalità ignobile, ma il desiderio sessuale di per se non è ignobile. E così, il mio desiderio sessuale s’era destato prima che amassi Yukie San. Perciò non e strano che, una volta perduta la compagna chiamata Yukie San, l’amore mi duras-

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se nel sangue come prima. Soltanto che l’amore senza oggetto, l’amore errante, perduto il suo oggetto, non era in sostanza altro che desiderio carnale insoddisfatto. Per dirla candidamente, anche se la cosa parrà disgustosa, la soddisfazione di questo violento desiderio fu, se non proprio tutto l’oggetto della mia esistenza d’allora, certo gran parte. Né io soltanto, ma i più tra i miei amici erano in questa condizione, e perciò, intorno a quel tempo, tutti cominciarono, un poco alia volta, a cercare «distrazioni». Se nei fondi destinati alia mia educazione avessi avuto del superfluo, probabilmente anch’io mi sarei «distratto». Ma siccome non ne avevo, ed essendo di sentimenti piuttosto delicati non potevo indurmi a condurre una vita risolutamente sregolata, rinunciavo per quanto ne soffrissi. I miei amici si «distraevano» con molta stravaganza, si «distraevano» in modo eccessivo e temerario. Vedendoli, io li invidiavo. Ma siccome nella mia pusillanimità non volevo ammetterlo, nascondevo di esserne invidioso. Una volta che uno più anziano di me mi invitò, non volli saperne di andare con lui, e quello mi canzonò insinuando che mi davo alla venere solitaria. A mia vergogna, la congettura era giusta, e divenni furibondo. Cambiai colore e viso, l’alterco violento fini in un pugilato e infine ruppi con lui ogni rapporto. Poiché ero arrivato al punto di bisticciare con un amico, adesso anche l’orgoglio mi proibiva di darmi alle «distrazioni». E così, per quanto involontariamente, divenni un uomo morigerato e vivevo preda di un’indicibile angoscia che non sapeva quel che volesse.

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cadillac 20e - post 5 XLII Ah, quest’oggi ho di nuovo la testa annebbiata. In simili giornate non so scrivere nulla che valga la pena, però sarebbe una vergogna perdere un giorno. Voglio provare a legarmi un asciugamano intorno alla testa. Dunque, vivevo angosciato perché non potevo soddisfare i miei desideri sessuali come volevo. Non ne capisco il motivo ma non potevo trattenermi dal considerare tutta quanta la vita con pessimismo. I miei amici «scherzavano» di gusto quando scherzavano, e lavoravano altrettanto di gusto quando lavoravano: perciò, senza un dolore al mondo, sembravano trascorrere il loro tempo allegri e soddisfatti. Guardandoli agire, provavo una rabbia tristissima. In un certo modo davo a loro la colpa delle mie sofferenze e angosce. Perciò, almeno per sfogare questa rabbia, presi a denigrare come potevo il loro franco libertinaggio, dicendo che erano fiacchi di volontà e inetti all’azione; mentre me ne stavo solo in disparte, però ero in segreto anch’io un degenerato. Se la degenerazione dei miei amici era positiva, la mia era negativa. Se la loro era candida, aperta e virile, la mia era… oh, che cosa posso dire? Non esiste parola che la significhi, nel linguaggio umano. Ero una bestia. Ma essere degenerato nel segreto della mia solitudine, era troppo poco interessante e non me ne sentivo per nulla soddisfatto. Dopotutto, desideravo una complice dell’altro sesso. Ma siccome non potevo trovarla lì su due piedi, ero costretto per il momento a supplire al bisogno per mezzo della letteratura. La letteratura ha buona fama. Non richiede grandi spese. Sostituendo alle donne un po’ di letteratura, io ne abbellivo la mia corruzione.

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Parlo, si capisce, della letteratura amena, specialmente la narrativa. Io non sapevo che cosa fosse veramente la narrativa, ma mi pareva che abbellisse la corruzione umana. Secondo gli uomini esperti della vita, l’origine del libertinaggio è la ricerca del piacere venereo, ma, via via che esso penetra fino al midollo, ci si fa più esigenti e la semplice lussuria perde interesse. L’uomo allora, ammaliato o che altro, si irretisce in una passione con una persona dell’altro sesso e fa di tutto per accrescere interesse alla semplice soddisfazione sessuale. Ed ecco, questo è il motivo per cui si ricerca la letteratura. Ciò, almeno, fu vero nel mio caso. Con questo scopo in mente, dapprima lessi l’uno dopo l’altro con la massima avidità tutti i romanzi d’amore che avevo cominciato a sfogliare quando abitavo in casa Ogitsune, ma più ne leggevo più diventavo difficile, e alla fine mi disgustarono. Per quanto anche quelle fossero descrizioni di un risveglio del desiderio sessuale simile al mio, volevo leggere descrizioni che fossero un po’ più interessanti. Perciò, dopo avere assaggiato ogni sorta di romanzi, capitai finalmente sulle opere dei maestri giapponesi del nostro tempo, e li trovai veramente degni di venir chiamati romanzieri dell’epoca Meiji: le loro descrizioni dello sviluppo del desiderio sessuale sono abilmente condite con le loro opinioni sulla vita, sì che riescono insieme piacevoli e interessanti. Messo per questa strada, il desiderio, che mi stava rovinando attraverso l’immaginazione, mi penetro fino all’osso, e finii per tendere la mano verso l’Occidente, chiesi aiuto a Dickens, Thackeray, Zola, Hugo, Turgenev, Tolstoj: forzando in senso innaturale e patologico il desiderio neutrale e indifferente che avrei avuto altrimenti, se fossi rimasto un uomo nor-

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cadillac 20e - post 5 male, assunsi con la fantasia quella tensione sensuale che si incontra nei libri di Krafft-Ebing e di Forel e mi sentii molto nobile, tutto solo in me stesso. No, non mi sentii nobile e tutto solo. Tanto più che molti uomini delle stesse idee s’incontrarono e divennero amici. Ci fu un tale, nativo della mia prefettura, che dopo la scuola preparatoria s’iscrisse alla facoltà di lettere, e sentii in modo particolare il suo influsso. Oh, fu tutta colpa mia e non dovrei serbare rancore verso nessuno, ma ancora oggi, quando incontro costui, provo un senso di indicibile disgusto. A volte mi pare che, se potessi fare secondo i miei voti, vorrei morire trafitto dalla sua spada e trapassandogli il cuore con la mia. XLIII Questo amico, che esercitò su di me un simile influsso, era più anziano di me di un anno o due. Dato che le lettere erano la sua materia, il semplice fatto che avesse letto più libri di me non significava nulla, ma io la consideravo una gran cosa. Quando ancora non avevo letto il Faust, lui già ne discorreva. Insomma, per quanto dicesse stupidaggini, quando nelle sue chiacchiere pronunciava ampollosamente grandi parole come «vita umana», «appetito intellettuale», «angoscia», «la carne», «degenerazione», «redenzione», io gli ero riconoscente e lo giudicavo straordinario. Ero un grande sciocco. Non aveva fatto altro che leggere un po’ prima di me il vecchio libro intitolato Faust. E se anche l’avesse capito leggendolo, che cosa c’era poi là dentro? Che valore conserva ancora questo libro, quando ne togliate l’eccellenza tecnica? Di più, il mio amico l’aveva letto con una dubbia competen-

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za linguistica, saltando i passi difficili, e l’aveva trovato interessante soltanto col suo intelletto non sviluppato e, anzi, pieno di reverenza per ciò che ne aveva sentito dire, l’aveva senz’altro considerato interessante prima ancora di averlo letto, accattando cioè una buona metà del suo entusiasmo. Anche se avesse potuto comprendere alia perfezione il significato del libro, questo non e poi altro che un’opera umana e non vale gran cosa, ma lui che, avendolo letto in tal modo, gli portava tanto rispetto e, sminuendo quelli che non l’avevano letto, parlava con tanta arroganza, era altrettanto spregevole di me che ascoltavo pieno di ammirazione. Agli occhi di un uomo di buon senso doveva essere una cosa disgustosa. Questo amico m’impartiva ogni sorta di spiegazioni sul prezioso valore della letteratura. Attualmente le ho pressoché tutte dimenticate, ma tuttavia ricordo che mi diceva come la letteratura dia una nuova forma alla verità e la riproduca in modo immediato e concreto, — e io ammiravo. Mi diceva che l’uomo comune non è in grado di comprendere l’essenza vera della natura ma che, quando il poeta ha filtrato quest’essenza attraverso la sua soggettività e la mostra come immagine, allora finalmente l’uomo comune la comprende, ed essa diventa patrimonio dell’umanità, — e io di nuovo ammiravo. Mi diceva che lo spirito umano è mosso dall’amore, — e io ammiravo. Mi diceva molte altre cose e tutte io le ammiravo a una a una, ma erano tutte stupidaggini e ciance. Abbandonare la vita al vuoto pensiero e accontentarsi di guardarla, soltanto sfogliando le pagine di vecchi libri, e perdersi nella meditazione cercando di lasciare la vita al genere umano e di aggirarsi tra gli uomini cercando di essere commossi dalle attività umane, di penetrare con occhi viventi le in-

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cadillac 20e - post 5 time operazioni di tali attività, comprendendo la vita in qualche modo: una simile letteratura, quale la descriveva il mio amico, era letteratura immaginata chissà dove da chissà chi, e non la letteratura vera. La funzione genuina della letteratura e di abbellire la corruzione dell’uomo e di rendere più effeminati gli effeminati. Volete dire che il mio modo di considerare le cose e pervertito? Che vedo soltanto i mali e non i vantaggi? Ma non e forse la realtà della letteratura la vittoria del male sul bene? Non è forse la realtà della letteratura già più pervertita nel senso del male che non il mio punto di vista? Ah, ma invece di denigrare la letteratura, invece di denigrare i miei amici, farei meglio a prendermela con me stesso. Un essere così indegno quale io sono, se anche leggesse il libro di un saggio, ne ritrarrebbe comunque, probabilmente, del male. «Tengo per la natura, tengo per il genere umano», dico con le labbra, ma queste parole le ho soltanto accattate dai libri e non comprendo bene che cosa significhino. Giocando con le parole, che dico? facendomi giocare dalle parole, non ho mai capito nulla e sono passato miseramente per il mondo come in sogno. Ritenevo che un uomo, se era detto poeta, fosse più grande di tutti gli individui comuni. Credevo che nei romanzi, specialmente nei romanzi stranieri, la realtà della vita umana fluttuasse sul volto del protagonista. Credevo che i poeti occidentali fossero tutti più grandi degli orientali. Stabilivo il valore delle opere esaminando se erano vecchie o nuove. E mentre mi mostravo tato sciocco, se qualcuno che conduceva col sudore della fronte un’onesta vita di lavoro, talvolta non sapeva capacitarsi che quelle fossero le condizioni del mondo letterario, subito lo trattavo da filisteo, lo vilipendevo come uno della

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folla e collocavo me in alto, solo. Mentre da una parte mi collocavo in alto, in segreto commettevo continui adulteri immaginari e mi abbandonavo alia depravazione. Ah, mi scotta il viso dalla vergogna. Che cosa detestabile! Quando ripenso a quei giorni, mi pare che vorrei sedermi nella polvere su un angolo dei più affollati e farmi calpestare, prendere a calci e coprire di sputi da tutti i passanti. L Persino una cosa nobile come lo studio della vita, tra le mie mani finiva nell’assurdo desiderio di trovare una donna giovane. Gli uomini comuni sono consapevoli in gioventù della loro stupidita e tuttavia continuano a comportarsi scioccamente, ma io non mi feci mai furbo. Convinto che insomma la mia era una nobile impresa che soltanto uomini come me potevano compiere, mentre anelavo d’imbattermi in una ragazza giovane, ecco che la tanto desiderata mi venne finalmente incontro. Accadde quando abitavo in una pensione presso il Denzuin nel rione Koiscikaua. Non era un luogo molto distinto, ma comunque passava per una pensione di prim’ordine e aveva tra i suoi clienti, credo, uno o due studenti universitari. Gli altri erano tutti mode- sti funzionari o giovani impiegati di varie compagnie, che se ne andavano la mattina col fagottino della colazione e non tornavano prima delle sedici, sicché la casa godeva per tutto il giorno di un’assoluta tranquillità. Occupavo la stanza migliore, un vano di otto stuoie, al piano di sopra. Che roba! benché fosse la migliore, siccome la casa era sempre stata una pensione, aveva un

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cadillac 20e - post 5 meschinissimo arredamento e le porte s’accartocciavano spesso e s’inceppavano, ma aveva in compenso un’alcova dov’era appeso tutto Panno un piccolo rotolo dipinto da Tesshu o chi fosse, e dove il vaso non era mai senza fiori. Quest’ultimo particolare non deve stupire, perché in realtà, persino in piena estate, quei fiori erano crisantemi. Fiori finti, insomma. Le altre camere poi erano più o meno identiche, ma io avevo una cosa che mancava agli altri, cd era questo che, per cos! dire, dava alla mia stanza tutta la sua distinzione. Si trattava di un grande specchio dalla cornice di legno rosa, imitazione intagliata di una vite in rilievo, un articolo di bazar che rifletteva le facce allungandole, ma comunque era collocato sussiegosamente nell’alcova come simbolo dell’eccellenza della camera. Sotto di me ce n’era un’altra di otto stuoie, ma senza specchiera. Pur trattandosi di stanze identiche, l’affitto della mia costava un trenta per cento in più, di cui metà, credo, per via dello specchio. La mia stanza non era dunque, come ho detto, gran cosa: tutto il suo pregio consisteva nell’esposizione a mezzodì, che la rendeva calda l’inverno e fresca l’estate. Inoltre, sita in fondo alia casa e lontano dalle scale, evitava la seccatura della sbirciatina dei coinquilini che passassero. Un’altra bella cosa, per quanto non dipendente dalla stanza in sé, era che l’esazione del fitto si faceva con tolleranza. Pare che la padrona, il cui marito non era per nulla invadente, riuscisse a tirare avanti da sé e, siccome era d’indole gaia e generosa, se qualcuno dei clienti più antichi restava in arretrato di un mese o due, non si mostrava avida ma diceva che andava bene cosi, avrebbe incassato con nostro comodo. Dato che questo era l’ide-

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ale per chi come me non aveva un’entrata fissa, rimasi in questa casa due anni buoni. Un giorno uscii la mattina e, di ritorno nel pomeriggio, trovai alia cassa una donna che non conoscevo. Siccome la vidi di schiena, non potei farmi un’idea del suo viso. Ma, seduta direttamente sul pavimento, coi capelli pettinati sulla nuca a ciocche e una giacchetta lievemente trapunta, di crespo nero o stoffa simile, la sua schiena aveva qualcosa di seducente. Mentre discorrevo con la padrona, lei sedeva in silenzio fumando e non si guardava d’attorno. Quando fui salito in camera mia ed entro la fantesca ad accendere, la trattenni e seppi, dietro mia do- manda, che la nuova venuta era giunta verso l’ora in cui ero uscito, doveva essere una parente della padrona e, siccome s’era portato del bagaglio nella ginrikisa, veniva probabilmente dalla provincia. Questo fu tutto; non era possibile sapere l’essenziale da una fantesca. «Che tipo di donna è?» «Come, non l’avete veduta adesso?» «Non l’ho veduta di fronte». «È una bellezza!» sogghignò la fantesca. «Viso tondo?» «No, ovale e...» «Che carnagione? Chiara?» La fantesca mi guardo in faccia in silenzio; poi disse: «Vi interessa molto, eh? Provate a scendere e a guardarvela un’altra volta». Sconcertato, al solito, quando qualcuno mi canzona, non seppi che dire e finii per atteggiarmi a un sogghigno. La fantesca use! con una gran risata.

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Anaïs Nin —

lilith — traduzione di Delfina Vezzoli racconto incluso in Anaïs Nin, Il delta di Venere (Bompiani, 2017) e già disponibile online su vari siti

L

ilith era sessualmente fredda e il marito lo sospettava, a dispetto di tutte le sue finzioni. Questo fatto portò al seguente episodio. Lilith non usava mai lo zucchero perché non voleva ingrassare, lo sostituiva quindi con un succedaneo: pastigliette bianche che portava sempre con sé nella borsetta. Un giorno le finì e chiese al marito di comprargliene delle altre tornando a casa dall’ufficio. Così lui le portò una boccetta come quella che aveva chiesto, e Lilith mise le sue due pillole nel caffè. Dopo cena, sedettero uno accanto all’altra e il marito prese a guardarla con quell’espressione di dolce tolleranza che sfoderava spesso di fronte alle sue esplosioni nervose, alle sue crisi di egoismo, di autocondanna, di panico. A ogni suo comportamento drammatico egli reagiva con un buon umore e una pazienza imperturbabili. Lilith era sempre sola nelle sue tempeste, nelle sue furie, nei suoi sconvolgimenti emotivi, ai quali lui non partecipava. Probabilmente questi sfoghi simboleggiavano la tensione che non si scaricava tra loro sessualmente. Il marito rifiuta-

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cadillac 20e - post 5 va le sue sfide violente, le sue ostilità primitive. Si rifiutava di scendere con lei in questa arena emotiva e di accontentare il suo bisogno di gelosia, di paure, di battaglie. Forse, se avesse accettato le sue sfide e si fosse prestato di più ai suoi giochi, la moglie avrebbe sentito la sua presenza con un maggior impatto fisico. Ma il marito di Lilith non conosceva i preludi al desiderio sessuale, non conosceva nessuno degli stimolanti che certe nature selvagge richiedono, e così, invece di assecondarla, non appena la vedeva con i capelli elettrici, il viso più vivace, gli occhi come fulmini, il corpo inquieto e scattante come quello di un cavallo da corsa, si ritirava dietro a una parete di comprensione oggettiva, a una gentile accettazione ironica di lei, come uno che guarda un animale allo zoo, e sorride dei suoi giochi, ma non riesce a condividerne l’umore. E questo lasciava Lilith in uno stato di isolamento; davvero come un animale selvaggio in un deserto. Quando infuriava e quando le si alzava la temperatura, il marito era irreperibile. Era come un cielo mite che guardava in giù verso lei, in attesa che il temporale si placasse. Se anche lui, come un animale egualmente primitivo, fosse apparso all’altra estremità di questo deserto, affrontandola con la stessa tensione elettrica di capelli, occhi, pelle, se fosse apparso con lo stesso corpo da giungla, muovendosi pesantemente, aspettando solo un pretesto per balzare, abbracciare con furia, sentire il calore del suo avversario, allora avrebbero potuto rotolarsi insieme, e i morsi sarebbero diventati d’altro genere, e lo scontro avrebbe potuto trasformarsi in un abbraccio, e gli strattoni ai capelli avrebbero potuto avvicinare le bocche, i denti, le lingue. E nella furia i genitali avrebbero potuto sfregare gli uni contro gli altri, liberando scintille,

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e i due corpi avrebbero dovuto compenetrarsi per por fine alla tensione estrema. E così anche quella sera, lui sedeva con la solita espressione negli occhi, mentre lei stava sotto una lampada a dipingere furiosamente un oggetto come se, dopo averlo dipinto, fosse pronta a mangiarselo in un boccone. Il marito le disse: “Non era saccarina quella che ti ho portato e che hai messo nel caffè. Era cantaride, un afrodisiaco.” Lilith era sconcertata. “E tu mi hai fatto prendere una cosa del genere?” “Sì, volevo vedere che effetto ti faceva. Pensavo potesse essere piacevole per tutti e due.” “Oh, Billy,” disse Lilith, “che razza di scherzo! E ho promesso a Mabel che saremmo andate al cinema insieme. Non posso deluderla, è stata chiusa in casa per una settimana. Pensa se incomincia a farmi effetto al cinema!” “Be’, se gliel’hai promesso devi andare. Vuol dire che starò sveglio ad aspettarti.” Così, in uno stato di alta tensione febbrile, Lilith andò a prendere Mabel. Non osò confessarle lo scherzo del marito. Le vennero in mente tutte le storie che aveva sentito sulla cantaride. Nel diciottesimo secolo, in Francia gli uomini l’avevano usata senza parsimonia. Le venne in mente la storia di un aristocratico che, all’età di quarant’anni, quando incominciava a risentire delle assidue attenzioni amorose prestate a tutte le belle donne del suo tempo, si innamorò così appassionatamente di una ballerina di soli vent’anni, che passò tre giorni e tre notti intere a far l’amore con lei, con l’aiuto della cantaride. Lilith cercò di immaginarsi come poteva essere un’esperienza del genere, e incominciò a temere che l’effetto della droga si scatenasse in un momento inaspettato,

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cadillac 20e - post 5 costringendola a correre a casa e confessare al marito il proprio desiderio. Seduta nel cinema al buio, non riuscì a seguire la pellicola. Aveva un caos in testa. Era seduta rigidamente sull’orlo della poltrona, e cercava di individuare gli effetti della droga. Si tirò su con uno strattone quando si accorse che era rimasta seduta a gambe aperte e con la sottana fin sopra le ginocchia. Pensò che fosse una manifestazione della sua già crescente febbre sessuale. Cercò di ricordare se si era mai seduta al cinema in quella posizione, prima d’allora. Considerava lo stare a gambe aperte come una delle posizioni più oscene che si potessero immaginare, e per di più si rese conto che le persone sedute nella fila di fronte, molto più in basso, avrebbero potuto guardarle sotto la sottana e regalarsi la bella vista delle sue mutandine e delle giarrettiere nuove che aveva comprato proprio nel pomeriggio. Sembrava che tutto cospirasse per una notte di orgia. Intuitivamente doveva aver previsto tutto quando era andata a comprarsi le mutandine con le gale di pizzo e le giarrettiere di un corallo intenso che si addicevano a meraviglia alle sue gambe lisce da ballerina. Ricompose le gambe con rabbia. Pensò che se questa violenta disposizione sessuale si fosse impadronita di lei in quel momento, non avrebbe saputo cosa fare. Doveva alzarsi di scatto e andarsene, adducendo un mal di testa? Oppure poteva rivolgersi a Mabel? Mabel l’aveva sempre adorata. Avrebbe osato volgersi a Mabel e accarezzarla? Aveva sentito parlare di donne che si accarezzavano a vicenda al cinema. Una sua amica, una volta, si era seduta nel buio di un cinema, e molto lentamente la mano della compagna le aveva slacciato l’apertura della gonna, si

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era abbassata sul suo sesso e l’aveva accarezzata a lungo, fino a farla venire. Quante volte questa amica aveva ripetuto la deliziosa esperienza di sedere immobile, controllando la metà superiore del corpo, seduta eretta e ferma, mentre una mano la accarezzava nel buio, segretamente, lentamente, misteriosamente? Era questo che sarebbe successo ora a Lilith? Non aveva mai accarezzato una donna. A volte aveva pensato tra sé come doveva esser bello accarezzare una donna, la rotondità del culo, la morbidezza del ventre, quella pelle così morbida tra le gambe, e aveva cercato di accarezzarsi, nel suo letto al buio, proprio per figurarsi cosa doveva essere toccare una donna. Si era spesso accarezzata i seni, immaginando che fossero di un’altra. Ora, a occhi chiusi, ricostruì l’immagine del corpo di Mabel in costume da bagno, Mabel con i seni rotondi che quasi sprizzavano dal reggiseno, con la bocca ridente, piena e morbida. Come sarebbe stato bello! Ma tuttavia tra le sue gambe non c’era ancora un calore tale da farle perdere il controllo e spingerla ad allungare la mano verso Mabel. Le pillole non avevano ancora fatto effetto. Era ancora indifferente, persino repressa, tra le gambe; c’era una rigidezza lì, una tensione. Non riusciva a rilassarsi. Se toccava Mabel ora, non avrebbe saputo far seguire un gesto più audace. Chissà se Mabel indossava una gonna che si apriva di lato, chissà se le sarebbe piaciuto essere accarezzata? Lilith diventava sempre più inquieta. Ogni volta che dimenticava se stessa, le gambe le si spalancavano in quella posizione che le sembrava tanto oscena e invitante, come quei movimenti che aveva visto nelle danze balinesi, in cui le gambe si aprivano e si allontanavano dal sesso, lasciandolo senza protezione.

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cadillac 20e - post 5 Il film terminò e Lilith guidò silenziosamente la macchina lungo le strade buie. I fari colpirono un’automobile parcheggiata sul bordo della strada e illuminarono all’improvviso una coppia che non si stava accarezzando nel solito modo sentimentale. La donna era seduta sulle ginocchia dell’uomo, di schiena, l’uomo si stava sollevando tutto teso verso di lei, con tutto il corpo nella posa di chi sta raggiungendo un orgasmo. Era in uno stato tale, che non riuscì a interrompersi quando i fari lo illuminarono. Si allungò tutto, in modo da sentire meglio la donna seduta sopra di lui, e questa ondeggiò quasi priva di coscienza per il piacere. Lilith rimase senza fiato a quella vista e Mabel disse: “Li abbiamo sorpresi proprio nel momento migliore.” E rise. Dunque Mabel conosceva questo apice di piacere che a Lilith era ancora ignoto, e che avrebbe tanto voluto sperimentare. Le venne voglia di chiedere all’amica: “Com’è?” Ma l’avrebbe saputo presto. Sarebbe stata costretta a dar libero corso a tutti quei desideri che di solito sperimentava solo nelle sue fantasie, nei sogni a occhi aperti che riempivano le sue ore quando era sola in casa. Seduta a dipingere pensava: Ora entra un uomo di cui sono molto innamorata. Entra nella stanza e mi dice: “Lascia che ti spogli.” Mio marito non mi spoglia mai - si sveste da solo e si mette a letto, poi, se mi vuole, spegne la luce. Ma quest’uomo entrerà e mi svestirà lentamente, pezzo per pezzo, e questo mi darà modo di sentirlo, di sentire le sue mani su di me. Prima di tutto mi toglierà la cintura, mi prenderà la vita tra le mani e dirà: “Che bella vita hai, come è sinuosa, com’è snella!” Poi mi sbottonerà la camicetta molto lentamente, e io sentirò le sue mani che slacciano ogni bottone e che mi toccano i seni a poco

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a poco, finché emergeranno dalla camicetta, e allora lui li amerà e mi succhierà i capezzoli come un bambino, facendomi un po’ male coi denti, mi riempirà di sensazioni per tutto il corpo, sciogliendo ogni nodo di tensione, dissolvendomi. Con la sottana sarà più impaziente, e la strapperà un po’: sarà in uno stato tale di desiderio! Non spegnerà la luce, e continuerà a guardarmi bruciante di desiderio, ammirandomi, adorandomi, scaldandomi il corpo con le mani, e aspetterà finché non sarò completamente eccitata, in ogni particella della pelle. Stava forse facendole effetto la cantaride? No, era illanguidita, e le sue fantasie si riaffacciavano, per l’ennesima volta, tutto lì. Eppure, la vista della coppia nella macchina, il loro stato di estasi, era qualcosa che voleva conoscere. Quando arrivò a casa, suo marito stava leggendo. La guardò e le sorrise maliziosamente. Lilith non voleva confessargli che le pillole non le avevano fatto effetto: era una delusione tremenda per lei. Che donna fredda era, non c’era niente che riuscisse ad alterarla, neanche la droga che aveva permesso a un nobiluomo del diciottesimo secolo di fare l’amore per tre giorni e tre notti di fila, ininterrottamente. Si sentiva un mostro. Persino suo marito doveva rimanerne all’oscuro. Avrebbe riso di lei. Avrebbe finito per cercarsi una donna più sensuale. Allora incominciò a spogliarsi davanti a lui, camminando avanti e indietro nuda, spazzolandosi i capelli davanti allo specchio. Di solito non lo faceva mai perché non voleva che lui la desiderasse. Non le piaceva. Era qualcosa da consumare in fretta, a beneficio di lui soltanto. Per lei era un sacrificio. La sua eccitazione e il suo piacere, che lei non condivideva, le risultavano piuttosto ripugnanti.

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cadillac 20e - post 5 Si sentiva come una puttana che prende dei soldi per cose del genere. Era una puttana priva di sentimenti che, in cambio dell’amore e della devozione del marito, gli buttava in faccia questo suo corpo vuoto e insensibile. Si vergognò di essere così morta, in fondo al corpo. Ma quando finalmente si infilò a letto, lui le disse: “Non credo che la cantaride ti abbia fatto abbastanza effetto. Ho sonno, svegliami se...” Lilith cercò di dormire, ma non ci riuscì, aspettandosi di impazzire di desiderio da un momento all’altro. Dopo un’ora si alzò e andò in bagno. Trovò la boccetta e prese dieci pillole in un colpo solo, pensando: “Adesso dovrebbe funzionare.” E incominciò ad aspettare. Durante la notte, il marito scivolò nel suo letto, ma Lilith era così chiusa tra le gambe che non riuscì a bagnarsi, e dovette umettare con la saliva il pene del marito. Il mattino dopo si svegliò piangendo. Il marito le chiese come mai, e lei gli disse la verità. Allora lui disse: “Ma Lilith, era solo uno scherzo. Non c’era nessuna cantaride. Ti ho solo fatto uno scherzo.” Ma da quel momento, Lilith rimase ossessionata dall’idea che potessero esserci dei modi per eccitarsi artificialmente. Provò tutte le formule delle quali aveva sentito parlare. Provò a bere grandi tazze di cioccolata con dentro un sacco di vaniglia. Provò a mangiare cipolle. L’alcool non le faceva l’effetto che faceva ad altri, perché fin dall’inizio era in guardia contro i suoi effetti. Non riusciva a dimenticare se stessa. Aveva sentito parlare di palline speciali che venivano usate in India come afrodisiaci. Ma come procurarsele? A chi rivolgersi? Le donne indiane le inserivano nella vagina. Erano fatte di una gomma speciale, molto soffice,

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con una superficie morbida, simile alla pelle. Quando venivano introdotte nel sesso, si modellavano secondo la sua forma e si muovevano quando si muoveva la donna, adattandosi con sensibilità a ogni movimento dei muscoli, provocando una titillazione molto più eccitante di quella del pene o di un dito. A Lilith sarebbe piaciuto trovarne una, e tenersela dentro giorno e notte.

Anaïs Nin Il delta di Venere Titolo originale Delta of Venus Traduzione di Delfina Vezzoli Copyright © 1969 by Anaïs Nin Copyright © 1977 by The Anaïs Nin Trust Copyright © 1978 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani Copyright © 1999 RCS Libri S’p’A’ - Milano I edizione “I Grandi Tascabili” maggio 1999 Bompiani

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Robert Musil —

le qualità senza l’uomo — traduzione di Irene Castiglia, tratto da L’uomo senza qualità (1930-1943), a cura di Micaela Latini, per gentile concessione di Newton Compton Editori

39. Un uomo senza qualità è fatto di qualità senza l’uomo […] Ulrich era un uomo passionale, ma con il termine passione non si devono intendere qui le singole passioni. Di certo doveva esserci stato qualcosa che continuamente lo rigettava in esse, e questo qualcosa era forse passione, ma anche in stato di eccitazione e nel corso di azioni concitate, il suo atteggiamento era al contempo appassionato e impassibile. Così aveva fatto tutte le esperienze possibili e sentiva che ancora adesso sarebbe potuto ricacciarsi da un momento all’altro in qualsiasi impresa, della quale magari non gli importava nulla, purché stimolasse il suo istinto ad agire. Con un po’ di esagerazione poteva dire perciò che tutti gli avvenimenti della sua vita si erano prodotti come se fossero legati più l’uno all’altro che a lui stesso. Ad A era sempre seguito B, sia che si trattasse di guerra o d’amore. E così dovette anche convincersi che le qualità personali acquisite in quelle occasioni appartenessero più l’una all’altra che non a lui, anzi, se egli si analizzava a fondo, ciascuna di esse non aveva con lui

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cadillac 20e - post 5 un rapporto più stretto di quello che avrebbe avuto con altri individui che a loro volta le possedessero. È fuor di dubbio però che le qualità determinano la persona, la costituiscono, anche quando non ci si identifichi con esse, e quindi a volte ci si sente estranei a se stessi, sia se non si fa nulla sia se si agisce. Se Ulrich avesse dovuto dire chi era realmente, si sarebbe sentito in imbarazzo, poiché fino a quel momento, come molti altri, non aveva mai esaminato se stesso se non in relazione a un problema e alla sua soluzione. La sua coscienza di sé non aveva subito danni, e neppure era viziata o vanitosa; tanto meno conosceva il bisogno di quella revisione e lubrificazione che viene chiamata esame di coscienza. Era un uomo forte? Non lo sapeva; in proposito forse stava commettendo un errore fatale. Ma di certo era sempre stato un uomo che si fidava delle proprie forze. Tuttora non dubitava che la differenza tra avere le proprie esperienze e qualità e rimanergli quelle estranee fosse solo una differenza di atteggiamento, in un certo senso una presa di posizione o la scelta di un determinato grado tra universalità e individualità in cui vivere. In poche parole, rispetto alle cose che ci accadono o che facciamo, possiamo assumere un atteggiamento più universale o più individuale. Uno schiaffo, oltre che come dolore, lo si può avvertire anche come offesa, e in tal caso il dolore cresce fino a divenire insopportabile; ma lo si può anche prendere sportivamente, come un ostacolo che non ci deve né scoraggiare né mandare su tutte le furie; e allora accade spesso che non ce ne accorgiamo neppure. In questo secondo caso non si è fatto altro che classificare lo schiaffo secondo una categoria universale, quella della lotta, così che la sua natura viene subordinata al compito che deve svolgere. Ogni esperien-

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za trae quindi il suo significato, anzi il suo contenuto, solo dalla posizione che occupa in una catena di azioni conseguenti; si tratta di un fenomeno che può essere osservato in chiunque non consideri la singola esperienza come un avvenimento puramente personale, ma una sfida alla sua forza intellettuale. Lui stesso quindi si sentirà meno coinvolto nelle sue azioni; ma singolarmente quello che nella boxe viene considerato come una forza superiore dell’intelletto, è solo freddezza e insensibilità se proviene da individui che non sanno boxare e hanno una tendenza alla vita intellettuale. In proposito è d’uso comune un intero campionario di distinzioni, a seconda che si voglia assumere e pretendere una condotta universale o individuale. A un assassino che agisce con freddezza si attribuisce una particolare brutalità; un professore che tra le braccia della moglie continui a far calcoli per risolvere un proprio problema viene considerato gelido e arido; un politico che fa carriera distruggendo gli avversari viene giudicato importante o infame, a seconda che abbia o meno successo; dai soldati, dai carnefici e dai chirurghi invece si pretende la stessa impassibilità che negli altri viene condannata. Non occorre addentrarsi ancora nella morale di questi esempi per notare immediatamente l’incertezza con cui ogni volta scendiamo a un compromesso tra la condotta oggettivamente giusta e quella individualmente giusta. Questa incertezza faceva da vasto sfondo al problema personale di Ulrich. In passato si poteva essere persone con una coscienza migliore rispetto a oggi. Gli individui erano come steli nella messe: Dio, la grandine, il fuoco, le pestilenze e la guerra li scuotevano da una parte all’altra probabilmente con maggiore violenza di oggi, ma nel loro insieme, come città, regione, campo; e per quel

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cadillac 20e - post 5 po’ di movimento individuale che ancora gli rimaneva, il singolo stelo poteva assumersene la responsabilità, ed era uno spazio ben determinato. Al contrario oggi la responsabilità ha il suo baricentro non nell’uomo, ma nei legami oggettivi. Non si è notato come le esperienze si sono rese indipendenti dall’uomo? Sono state messe in scena a teatro, nei libri, nelle relazioni scientifiche e nei resoconti di viaggi, nelle comunità politiche e in quelle religiose, che coltivano determinati tipi di esperienze a costo di altri come in un esperimento sociale; e allorquando le esperienze non si trovino direttamente nel lavoro, sono semplicemente sospese in aria; chi può dire ancora al giorno d’oggi che la sua rabbia sia davvero la sua, quando tante persone ci mettono bocca e ne sanno più di lui? Si è formato un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e sembra quasi si possa ipotizzare che l’essere umano non avrà più alcuna esperienza individuale e il peso gradevole della responsabilità personale debba dissolversi in un formulario di significati possibili. Probabilmente il disfacimento di quel sistema antropocentrico che per tanto tempo ha tenuto l’uomo al centro dell’universo, ma che è in declino già da secoli, ha toccato finalmente anche l’Io, poiché la convinzione che in un’esperienza l’importante sia viverla, e in un’azione compierla, comincia a parere un’ingenuità alla maggior parte degli individui. Naturalmente ci sono ancora persone che vivono in modo assolutamente personale; si esprimono così: «Ieri siamo stati dal tale o dal tal altro», oppure: «Oggi facciamo questo o quest’altro», e sono soddisfatti, senza bisogno di attribuire alle loro parole altro contenuto o significato. Amano tutto ciò che le loro dita possono toccare e, per quanto sia possibile,

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sono privati cittadini. Il mondo diventa un mondo privato non appena ha a che fare con loro, e splende come un arcobaleno. Probabilmente sono molto felici, ma questa tipologia di persone in genere appare assurda agli altri, per quanto non si sappia ancora bene il perché. E d’un tratto, di fronte a queste perplessità, Ulrich dovette confessare sorridendo a se stesso di essere malgrado tutto un carattere, pur senza averne uno. 40. Un uomo con tutte le qualità, ma gli sono indifferenti. Un principe dello spirito viene arrestato e l’Azione parallela ottiene il suo segretario onorario Non è difficile descrivere nei suoi tratti essenziali quest’uomo di trentadue anni, Ulrich, seppure egli sappia di sé soltanto di essere ugualmente vicino e lontano da tutte le qualità e che esse, sia che le possieda o meno, gli sono stranamente indifferenti. Alla versatilità interiore, che ha come unico presupposto una gran varietà di inclinazioni, si unisce in lui anche una certa aggressività. È una mente virile. Non si commuove per gli altri e raramente s’immedesima in loro, salvo quando li vuole conoscere per propri scopi. Non rispetta i diritti, se non rispetta la persona a cui appartengono, e questo avviene raramente. Con il tempo, infatti, si è sviluppata in lui una certa predisposizione alla negazione, una duttile dialettica del sentimento, che lo porta con facilità a trovare qualcosa di negativo in ciò che per tutti è bene e, di contro, a difendere quel che è proibito o a sottrarsi a certi doveri con l’avversione che nasce dalla volontà di crearsene di propri. Malgrado tale volontà e a parte alcune eccezioni che si concede, egli affida il proprio comportamento morale semplicemente a quel codice cavallere-

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cadillac 20e - post 5 sco che nella società borghese guida la stragrande maggioranza degli individui finché mantengono una condotta di vita regolare, e in tal modo, con la superbia, l’indifferenza e la noncuranza di un uomo che ha una vocazione, conduce la vita di un altro che delle proprie inclinazioni e capacità fa un uso più o meno comune, utile e sociale. Era abituato per istinto e senza alcuna vanità a considerarsi lo strumento di uno scopo non da poco che sperava di apprendere in tempo, e persino ora, durante quell’anno di inquieta ricerca ormai cominciato, dopo aver realizzato che la sua vita andava alla deriva, aveva di nuovo l’impressione di essere sulla buona strada, e non si curava troppo del suo progetto. Non è semplice individuare in una natura simile la passione trainante: inclinazioni e circostanze le hanno conferito forme molteplici, il suo destino non è ancora stato dischiuso da una contrarietà davvero grande; ma l’importante è che per giungere a una decisione le manca ancora qualcosa che le è ignoto. Ulrich è un individuo che è costretto da qualcosa a vivere contro se stesso, sebbene apparentemente sia assolutamente libero. Il paragone tra il mondo e un laboratorio aveva risvegliato in lui una vecchia idea. Un grande luogo di esperimenti, dove si dovrebbero collaudare i modi migliori per essere uomo e scoprirne di nuovi; così in passato si era spesso immaginato la vita che avrebbe voluto condurre. Che l’intero laboratorio operasse senza un piano organico e che mancassero i direttori e i teorici era un’altra questione. Si poteva ben dire che lui stesso volesse diventare qualcosa di simile a un principe o a un signore dello spirito. Del resto, chi non lo vorrebbe? È così evidente che lo spirito venga considerato l’elemento supremo e dominante su qualsiasi altro. Lo impariamo a scuola. Chi può

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si adorna di spirito, se ne abbellisce. Legato ad alcunché, lo spirito è l’elemento più diffuso al mondo. Lo spirito della fedeltà, lo spirito dell’amore, uno spirito virile, uno spirito colto, il più importante spirito del nostro tempo, teniamo alto lo spirito di questa o di quell’altra impresa, agiamo secondo lo spirito del nostro movimento: come suonano rassicuranti e inoffensive queste espressioni fino ai gradi più bassi. Tutto il resto, i crimini che si compiono ogni giorno o la mai paga avidità di guadagno, sembra in confronto come l’inconfessabile, come la sporcizia che Dio si toglie dalle unghie dei piedi. Ma quando lo spirito se ne sta lì da solo, un sostantivo nudo, spoglio come un fantasma al quale si vorrebbe prestare un lenzuolo, che cosa accade allora? Si possono leggere poeti, studiare filosofi, comprare quadri e trascorrere intere nottate a discutere: ma è spirito quello che si ottiene così? Mettiamo pure che lo si ottenga, ma poi lo si possiede? Questo spirito è così fortemente legato alla forma contingente nella quale si presenta! Passa attraverso l’individuo che vorrebbe accoglierlo, e si lascia dietro solo una piccola vibrazione. Che cosa ce ne facciamo di tutto questo spirito? Lo si continua a produrre su montagne di carta, di pietra, di tela in quantità addirittura astronomiche; altrettanto di continuo lo si gusta e lo si assimila con un impegno smisurato di energia nervosa: ma che ne è poi dello spirito? Scompare come un’allucinazione? Si scompone in particelle? Si sottrae alla legge fisica della conservazione? Non c’è proporzione tra tutto quello spreco e i granelli di polvere che scendono dentro di noi e lentamente si posano. Dove va, dov’è, che cos’è? Forse se ne sapessimo di più calerebbe sul termine “spirito” un silenzio opprimente.

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cadillac 20e - post 5 Era giunta la sera; case che irrompevano nello spazio, asfalto e rotaie d’acciaio formavano la conchiglia della città che lentamente si raffreddava. La conchiglia madre, colma di movimento umano, infantile, gioioso, iracondo. Là dove ogni goccia ha inizio come gocciolina che spruzza e schizza, cominciando con una piccola esplosione che viene assorbita e raffreddata dalle pareti, per divenire poi più dolce e immobile, fino a rimanere teneramente aggrappata al guscio della conchiglia madre e solidificarsi quindi in un granello duro. “Perché non sono diventato un pellegrino?”, pensò Ulrich d’un tratto. Vide davanti a sé un’esistenza pura, priva di compromessi, frizzante come l’aria limpida; chi non vuole dire sì alla vita, dovrebbe quanto meno dire il no del santo: eppure era semplicemente impossibile pensarlo seriamente. Ma nemmeno poteva fare l’avventuriero, per quanto così la vita avrebbe avuto l’aspetto di un eterno fidanzamento, verso cui si sentiva attratto anima e corpo. Non era potuto diventare poeta, e nemmeno uno di quegli individui disillusi che credono unicamente al denaro e al potere, sebbene avesse una predisposizione a tutto ciò. Dimenticò la sua età, s’immaginò di avere vent’anni: malgrado ciò era intimamente risoluto a non prendere nessuna di quelle strade; tutte le possibilità lo attraevano, ma qualcosa di più forte di quell’attrazione gli impediva di coglierle. Perché viveva quindi in modo così irrisoluto e confuso? Di certo, si disse, quello che lo legava a una forma di esistenza solitaria e anonima non era altro che l’impulso coattivo a scomporre e ricomporre la realtà; quell’impulso che, con una parola che non s’incontra volentieri da sola, viene definito spirito. E, senza sapere perché, Ulrich divenne improvvisamente triste e pensò: “Semplicemente non mi voglio bene”. Nella parte

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più profonda del corpo ghiacciato e impietrito della città sentiva il battito del suo cuore. In lui c’era qualcosa che non aveva voluto fermarsi da nessuna parte, che era avanzato a tastoni lungo le pareti del mondo, pensando che ne esistevano ancora milioni di altre; quella ridicola goccia dell’Io che lentamente si raffredda e non vuol cedere il suo fuoco, il minuscolo nucleo incandescente. Lo spirito ha scoperto che la bellezza rende buoni, cattivi, stupidi o affascinanti. Seziona una pecora o un penitente, e trova in entrambi umiltà e pazienza. Analizza una sostanza e scopre che in grandi quantità è un veleno, in piccole un eccitante. Sa che la mucosa delle labbra è affine a quella dell’intestino, ma sa anche che l’umiltà delle labbra è affine all’umiltà di tutto quello che è santo. Scompagina, scompone e ricompone di nuovo. Bene e male, sopra e sotto non sono per lo spirito concetti relativi in senso scettico, ma elementi di una funzione, valori che dipendono dal contesto in cui si trovano. Da secoli ha imparato che i vizi possono diventare virtù e le virtù vizi, e pensa che in fondo sia solo questione d’incapacità se nel corso di una vita non è in grado di trasformare un criminale in un uomo produttivo. Non riconosce nulla di illecito e nulla di lecito, poiché tutto può avere una qualità che lo inserisca un giorno in un nuovo grande contesto. Odia in segreto tutto ciò che pretende di essere stabilito una volta per tutte: i grandi ideali, le grandi leggi e la loro piccola copia pietrificata, il carattere pacifico. Per lo spirito nessuna cosa è certa, nessun Io, nessun ordine; poiché le nostre conoscenze possono sempre cambiare, non crede nei legami, e tutto possiede il valore che ha solo fino al successivo atto di creazione, come un volto al quale si sta parlando e che cambia a ogni parola.

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cadillac 20e - post 5 Lo spirito è così il grande creatore di alternative, ma di per sé è inafferrabile e si potrebbe quasi credere che sia capace solo di distruzione. Ogni progresso è una conquista nel particolare e una scissione nell’insieme; è un aumento di potenza che sfocia in un progressivo indebolimento, e non v’è rimedio. Ulrich si sorprese intento a riflettere su questo corpo di fatti e di scoperte che cresce quasi di ora in ora e dal quale oggi lo spirito deve guardare fuori, se vuole affrontare una qualunque questione con precisione. È un corpo che cresce senza aver cura dell’anima. Innumerevoli concezioni, opinioni, classificazioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi, di tutte le possibili forme di cervelli sani e malati, svegli e sognanti lo attraversano – questo è vero – come migliaia di nervi sensoriali, ma manca il punto di irradiazione, quello nel quale dovrebbero unirsi. L’individuo si sente minacciato dal pericolo di subire presto la stessa sorte toccata a quei giganteschi animali della preistoria che si sono estinti per le loro dimensioni; ma non può fermarsi. Così Ulrich si ritrovò a pensare a quell’idea alquanto discutibile nella quale aveva creduto per lungo tempo e che neppure allora aveva abbandonato del tutto, l’idea che il mondo dovrebbe essere retto da un Senato di uomini sapienti e progrediti. È del tutto naturale pensare che l’uomo, il quale quando è malato non si fa curare da pecorai ma da medici specializzati, non abbia alcun motivo, quand’è sano, di farsi manipolare da chiacchieroni che sembrano pecorai, come fa in politica; per questo i giovani, avendo a cuore i contenuti fondamentali della vita, inizialmente considerano secondario tutto quello che al mondo non è né vero, né buono, né bello, dunque anche un’amministrazione finanziaria, ad esempio, o un

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dibattito parlamentare; così almeno erano a quell’epoca, perché oggi, in virtù dell’educazione politica ed economica, pare siano diversi. Ma anche allora, diventando grandi e prendendo confidenza con quel luogo che inaridisce lo spirito in cui il mondo affumica il grasso dei propri affari, s’imparava ad adeguarsi alla realtà, e la condizione definitiva di un individuo intellettualmente formato era più o meno quella di una persona intellettualmente limitata alla propria specializzazione e che per il resto della vita si portava dietro la convinzione che l’insieme avrebbe dovuto essere diverso, ma che era del tutto inutile pensarci su. Appare così all’incirca l’equilibrio interiore degli individui che compiono qualcosa di intellettuale. E improvvisamente Ulrich si raffigurò l’intera questione in modo curioso, domandandosi se, in fin dei conti, dal momento che di intelligenza ce n’è sicuramente abbastanza, forse il problema è semplicemente che l’intelligenza stessa non è dotata di intelligenza. Gli veniva da ridere. In fondo anche lui era uno di quei rinunciatari. Ma l’ambizione delusa, ancora viva, lo trapassò come una spada. In quell’istante c’erano due Ulrich. Il primo si guardava intorno sorridendo e pensava: “Per una volta dunque ho voluto recitare un ruolo su questo palcoscenico. Un giorno mi sono svegliato non sul morbido come nella culla della mamma, ma con la ferma convinzione di dover comunicare qualcosa. Mi hanno dato dei suggerimenti, ma sentivo che non erano fatti per me. Come dalla febbre luccicante della ribalta, tutto era allora avvolto dai miei propositi e dalle mie speranze. Ma nel frattempo, senza che me ne accorgessi, il palcoscenico si è girato, ho fatto qualche passo in avanti, e forse già mi trovo vicino all’uscita. Tra poco sarò fuori,

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cadillac 20e - post 5 e del mio ruolo tanto importante avrò detto appena: I cavalli sono sellati. Andate tutti al diavolo!”. Ma, mentre l’uno avanzava sorridendo con questi pensieri sul calare della sera, l’altro serrava i pugni per il dolore e per la rabbia; era il meno visibile e si preoccupava di cercare una formula magica, un appiglio al quale potersi magari aggrappare, il vero spirito dello spirito, il pezzo mancante, piccolo forse, che chiude il cerchio. Il secondo Ulrich non trovava parole per esprimersi. Le parole saltano da un albero all’altro come scimmie, ma nell’ambiente oscuro dove sono radicate, manca la loro cortese mediazione. Il terreno gli scorreva sotto i piedi. Quasi non riusciva a tenere gli occhi aperti. Un sentimento può infuriare come una tempesta senza essere affatto un sentimento tempestoso? Quando si parla di una tempesta di sentimenti s’intende una di quelle che fanno gemere la corteccia degli uomini e ne curvano i rami fino quasi a spezzarli. Invece questa era una tempesta che lasciava tranquilla la superficie. Quasi solo uno stato di conversione, di inversione; ogni lineamento restava impassibile, mentre all’interno nessun atomo pareva restare al suo posto. I sensi di Ulrich erano lucidi, eppure l’occhio percepiva diversamente dal solito ogni persona che incontrava, e allo stesso modo l’orecchio ogni suono che udiva. Non si poteva dire che percepisse più acutamente; e in realtà neppure più profondamente, né in modo più ovattato, o più naturale, o più innaturale. Ulrich non riusciva a dire nulla, ma in quel momento pensava alla singolare esperienza “spirito” come a un’amante dalla quale si è traditi per tutta la vita senza per questo amarla meno, e tale esperienza era ciò che lo univa a tutti gli avvenimenti della sua esistenza. Quando si ama, infatti,

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tutto è amore, anche se è dolore e ribrezzo. Il ramoscello sull’albero e il vetro della finestra, pallido nella luce della sera, si trasformavano in un’esperienza immersa nella propria essenza più profonda, un’esperienza che quasi non si può descrivere a parole. Le cose non sembravano fatte di legno e di pietra, ma di un’immoralità grandiosa e infinitamente tenera che nell’attimo in cui entrava in contatto con lui si trasformava in una profonda commozione morale. […]

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Gončarov —

l’inutile ciclo della vita — [ tratto da Oblomov, 1859 ] traduzione di Giacinta De Dominicis Iorio realizzata per Garzanti

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orse Iljuša già da un pezzo capisce quello che si fa e si dice davanti a lui: vede papà, in pantaloni di velluto di cotone e giacca di panno marrone trapunta, che va avanti e indietro da un angolo all’altro con le mani dietro la schiena, fiuta tabacco e si soffia il naso, mentre mammà passa dal caffè al tè, dal tè al pranzo; sa che il genitore non ha mai pensato nemmeno lontanamente di controllare quante biche sono state falciate o affastellate, o di punire una negligenza, mentre invece se non gli portano subito il fazzoletto dà in escandescenze perché tutto è in disordine e mette sottosopra la casa. Forse la mente del fanciullo ha deciso da un pezzo che bisogna vivere come gli adulti che gli stanno intorno, e non in altro modo. E poi, come volete che possa decidere altrimenti? E come vivono gli adulti di Oblomovka? Si chiedono forse perché è stata data loro la vita? Lo sa solo Iddio. E cosa rispondono a questa domanda? Nulla, probabilmente: per loro è tutto molto semplice e chiaro.

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cadillac 20e - post 5 Non hanno mai sentito parlare di quella che si chiama una esistenza travagliata, di gente che racchiude in petto inquietudini tormentose, che per questo o quel motivo corre da un capo all’altro della terra o dedica la vita a un lavoro continuo, senza fine. A Oblomovka quasi non si crede nemmeno ai tumulti dell’anima: non si considera la vita il turbine delle eterne aspirazioni a raggiungere chissà cosa, chissà dove; si teme come il fuoco l’entusiasmo delle passioni; e, come in altri luoghi il corpo degli uomini si consuma spesso a causa del vulcanico lavorio del fuoco interiore, così l’anima degli abitanti di Oblomovka affondava pacifica e indisturbata nei flaccidi corpi. La vita non li segna, come fa per altri, con rughe precoci, né li bersaglia di colpi fisici o morali. Questa brava gente concepisce la vita solo come un ideale di pace e di dolce far niente, turbato a volte da avvenimenti spiacevoli: malattie, perdite, dispute e, magari, anche il lavoro. Il lavoro è sopportato come un castigo già inflitto ai nostri avi, ma che non si può certo amare e che si ritiene non solo possibile ma addirittura doveroso evitare non appena se ne ha l’occasione. A Oblomovka non ci si lambicca mai il cervello con vaghi problemi intellettuali o morali, perciò tutti hanno una salute di ferro e sono allegri, perciò vivono a lungo; gli uomini di quarant’anni sembrano degli adolescenti; i vecchi non lottano contro una morte difficile e dolorosa ma, vissuti fino ai limiti del possibile, scompaiono come alla chetichella, si irrigidiscono a poco a poco ed esalano inosservati l’ultimo respiro. Perciò si dice che un tempo gli uomini erano più forti.

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Sì, erano davvero più forti: in passato non si affrettavano a spiegare al bambino il significato della vita e a prepararlo ad essa come a qualcosa di difficile e grave; non lo facevano penare sui libri, che mettono in capo un mucchio di interrogativi; e gli interrogativi consumano il cervello e il cuore e abbreviano l’esistenza. Le norme della vita erano già pronte e venivano date loro dai genitori, che le avevano apprese - già pronte - dai nonni; e i nonni dai bisnonni, con il precetto di custodirle integre ed inviolate come il fuoco di Vesta. Così era stato fatto al tempo dei nonni e dei padri, così si faceva al tempo del padre di Il’ja Il’ič, e così forse si continua a fare ancora oggi a Oblomovka. Su che cosa dovrebbero meditare? Per quale motivo dovrebbero agitarsi? Che cosa dovrebbero apprendere? Quali scopi dovrebbero raggiungere? Non hanno bisogno di nulla: la vita scorre sotto i loro occhi come un fiume tranquillo; devono solo sedersi sulla riva e osservare i fenomeni ineluttabili che, senza esser chiamati, si presentano a turno a ciascuno di loro. Ed ecco che sotto gli occhi del dormiente Il’ja Il’ič cominciano a sfilare, come quadri viventi, i tre momenti principali della vita che si sono verificati nella sua famiglia come in quelle dei parenti più lontani e dei conoscenti: nascita, matrimoni, funerali. Poi si snoda la variopinta processione di diversi avvenimenti secondari: battesimi, onomastici, feste di famiglia, il giorno che precede il digiuno e il giorno che segue il digiuno, chiassose tavolate, arrivi di parenti, saluti, felicitazioni, lacrime e sorrisi ufficiali. Tutto si compie con la massima precisione, importanza e solennità.

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cadillac 20e - post 5 Rivede perfino dei volti conosciuti e le loro espressioni sollecite o indaffarate durante le varie cerimonie. Affidategli una delicata proposta di matrimonio, un’importante festa di nozze o di onomastico, e loro assolvono il compito secondo le regole, senza la minima svista. La disposizione dei posti a tavola, che cosa e come si deve servire, e chi e con chi deve prendere posto in vettura per andare alla cerimonia, se si devono rispettare i presagi; su tutto questo a Oblomovka nessuno faceva mai il più piccolo errore. Forse che lì non sanno allevare i bambini? Basta guardare i putti rosei e rubicondi che le madri tengono in braccio o per mano. Per loro è essenziale che i rampolli siano grassocci, sani e con un bell’incarnato. Ignorerebbero la primavera, si rifiuterebbero di riconoscerla se all’inizio di essa non potessero cuocere il loro dolcetto in forma di allodola. Come possono ignorare e non rispettare la tradizione? In questo consistono la loro vita e la loro scienza, i loro dolori e le loro gioie; per questo si tengono lontani da qualsiasi altra preoccupazione e pena e non conoscono altre gioie; la loro esistenza ribolle esclusivamente di questi fatti basilari e inevitabili, che sono un nutrimento inesauribile per il loro spirito e per il loro cuore. Attendono con trepidazione un rito, un banchetto, una cerimonia e poi, dopo avere battezzato, sposato o sotterrato una persona, la dimenticano insieme con il suo destino e ripiombano nell’abituale apatia, dalla quale li risveglia un analogo avvenimento: un onomastico, un matrimonio, e così via. Quando nasce un bambino, la prima preoccupazione dei genitori è quella di celebrare, con la maggior preci-

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sione possibile e senza omettere nulla, tutti i riti imposti dalle convenienze, ossia dare un banchetto dopo il battesimo; poi si dedicano alle attente cure che esige il neonato. La madre assegna a se stessa e alla nutrice il compito di allevare un bambino sano, di proteggerlo dalle infreddature, dal malocchio e da qualsiasi altra circostanza avversa. Ci si adopera col massimo impegno perché il piccolo sia sempre allegro e ben pasciuto. Non appena il ragazzo cammina con le sue gambe, cioè non ha più bisogno della tata, ecco che nel cuore della madre nasce il segreto desiderio di trovargli una compagna; anch’essa sana e rubiconda. Ricomincia così un periodo di cerimonie, di banchetti, che culmina nel matrimonio: in questo si concentrano tutte le emozioni della vita. Poi il ciclo riprende: nascita dei figli, cerimonie, banchetti, fino a che un funerale non modifica la scena; ma non per molto tempo; alcuni cedono il posto ad altri, i bambini diventano giovanotti e al tempo stesso fidanzati, si sposano, generano figli simili a loro... e così la vita, seguendo questo programma, si trascina in un ininterrotto e monotono intrecciarsi di eventi che si interrompe senza chiasso sull’orlo della fossa.

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Franziska Zu Reveltlow —

il complesso del denaro [ frammenti ] — traduzione di Renata Colorni Franziska zu Reventlow, Il complesso del denaro (1916), Adelphi, 1983.

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asa di cura... già vi vedo, tu e tutti gli altri, scuotere il capo con aria perplessa. E in effetti io non sono malata di nervi, e neppure particolarmente nervosa, ho soltanto un «complesso del denaro». [...] Quante volte, nel vostro accecamento, avete ammirato il mio ottimismo e il mio disprezzo della morte… ma avevate torto, perché proprio l’ottimismo è stato la mia rovina. “Io non ho mai preso abbastanza sul serio le questioni di denaro, lasciavo correre pensando che prima o poi le cose sarebbero cambiate. In breve, per dirla nel gergo dei freudiani, ho decisamente rimosso il denaro nel subconscio, e questo il denaro non l’ha sopportato. Per favore, non ritenetemi seriamente squilibrata, ma è così, sono davvero arrivata al punto di intenderlo – il denaro — come un essere dotato di personalità con il quale si intrattiene un dichiarato, e nel mio caso tormentoso, rapporto. Con il rispetto e la compiacenza si

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cadillac 20e - post 5 può anche accattivarselo, con l’odio e il disprezzo si può renderlo innocuo, ma trattarlo con affabile indolenza è il modo di guastarsi ogni rapporto con lui! E io devo aver fatto proprio questo: lo lasciavo andare e venire senza preoccuparmene, come capitava... ah, quel maledetto ottimismo che a voi piaceva tanto! E quando ho notato che il denaro cominciava a diventare sempre più ostile nei miei riguardi, allora ho provato a blandirlo, gli sono corsa appresso; ma ormai era troppo tardi... lui non ha più voluto. Insomma, la mia crisi economica ha toccato un vertice che mai avrei immaginato. [...] E io, per parte mia, non avevo più quella cieca fiducia in Dio e sentivo che il baratro apertosi tra lui e me – tra il denaro e me – non era più colmabile. Il denaro cominciò a vendicarsi, e questa vendetta fu tanto più infame in quanto non solo lui mi evitava, ma proprio per il suo non esserci affatto riempiva di sé tutti i miei pensieri, tutti i miei sentimenti, mi assorbiva completamente e non si lasciava più ricacciare nel subconscio. [...] Tutta la mia vita mi passò nuovamente davanti in ogni minimo dettaglio pecuniario, mi rendevo conto che non avevo mai avuto abbastanza denaro e che, verosimilmente, non ne avrei mai avuto abbastanza – sicché si ridestarono in me tutte le voglio rimosse, tutti i sogni di lusso infranti, e le innumerevoli cose che avrei potuto far o desiderato acquistare e non avevo fatto o non avevo acquistato turbinavano dinanzi al mio occhi interiore, come per ammonirmi, e così via, incessantemente, all’infinito… Che in simili condizioni non si possa essere molto socievoli, to lo puoi certo immaginare. Sentivo inoltre

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che anche gli amici non provavano più un particolare piacere a frequentarmi. Mi trovavano noiosa, tormentata, e tremavano al pensiero che gli chiedessi del denaro. E in questo avevano perfettamente ragione, perché quando mi trovavo insieme a qualcuno non facevo altro che valutarlo in cuor mio e aspettare il momento adatto per adescarlo in un prestito, in un losco affare, oppure in una firma... Non ho nessuna voglia di scendere troppo nei particolari, per amor tuo ma anche per me stessa. Perché se comincio a parlare pin in dettaglio di queste cose, ancora oggi mi tornano i miei attacchi di conti. Finalmente un giorno — sarà stato all’inizio o alla meta di maggio - uscii dalla città di buon mattino nella speranza di svagarmi. Ma non servì a nulla… non appena in strada, mi venne incontro la vettura di un albergo, lessi stordita la scritta: «Alle quattro stagioni» e meccanicamente mi chiesi, mentre camminavo per i prati, che stagione fosse mai quella. Tutto era in fiore e il sole splendeva, le allodole cantavano e nello stagno le rane gracidavano — verosimilmente di piacere. Io le invidiai. E di nuovo i miei pensieri cominciarono a ruotare intorno a quell’unico punto, vorticosi, inarrestabili... Sì, sarà anche primavera, ma a me che m’importa? Non esistono le stagioni, né il sole che splende, né i prati in fiore, non esiste il canto delle allodole, e neanche la rana, esiste soltanto il denaro. Tutte queste cose e creature fingono di essere felici, ma la felicitò non esiste, e neanche la tragedia, perché con il denaro si può sopportare qualsiasi tragedia e senza il denaro anche la felicità se ne va al diavolo o comunque non serve. [...]

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cadillac 20e - post 5 Il mio vicino di tavola, il libero docente Lukas, grazie a Dio è soltanto affaticato per il troppo lavoro. A me piace conversare con lui, solo che per i gusti è troppo progressista e trovo stravaganti le site idee sulle capacità professionali delle donne - sai, + uno studioso di economia politica. Di fronte a lui è seduta una studentessa di medicina che naturalmente lo asseconda in tutto, essendo il suo cavallo di battaglia il cervello femminile, che malgrado alcune differenze vale, secondo lei, quanto quello maschile Proprio su questo tema l’altro giorno stavamo quasi per azzuffarci. La ragazza, accecata com’è, ha sostenuto con grandissima foga che le donne, in massa possibilmente, dovrebbero dedicarsi alle professioni scientifiche che offrirebbero loro prospettive migliori rispetto alle altre professioni. Il dottor Lukas ha insistito ancora più del solito sulla idoneità femminile alla vita professionale in genere, e allora io ho dichiarato con profondissima convinzione che noi donne siamo assolutamente inette a svolgere un’attività seria, e che perfino quando si tratta di cucire e cucinare i sarti e i cuochi sono più bravi di noi. [...] Io non ho mai preso abbastanza sul serio le questioni di denaro, lasciavo correre pensando che prima o poi le cose sarebbero cambiate. In breve, per dirla nel gergo dei freudiani, ho decisamente rimosso il denaro nel subconscio, e questo il denaro non l’ha sopportato. [...] lo lasciavo andare e venire senza preoccuparmene, come capitava... ah, quel maledetto ottimismo che a voi piaceva tanto! E quando ho notato che il denaro cominciava a diventare sempre più ostile nei miei riguardi, allora ho provato a blandirlo, gli sono corsa appresso; ma ormai

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era troppo tardi... lui non ha più voluto. […] E io, per parte mia, non avevo più quella cieca fiducia in Dio e sentivo che il baratro apertosi tra lui e me – tra il denaro e me – non era più colmabile. Il denaro cominciò a vendicarsi, e questa vendetta fu tanto più infame in quanto non solo lui mi evitava, ma proprio per il suo non esserci affatto riempiva di sé tutti i miei pensieri, tutti i miei sentimenti, mi assorbiva completamente e non si lasciava più ricacciare nel subconscio. […] Tutta la mia vita mi passò nuovamente davanti in ogni minimo dettaglio pecuniario, mi rendevo conto che non avevo mai avuto abbastanza denaro e che, verosimilmente, non ne avrei mai avuto abbastanza – sicché si ridestarono in me tutte le voglio rimosse, tutti i sogni di lusso infranti, e le innumerevoli cose che avrei potuto far o desiderato acquistare e non avevo fatto o non avevo acquistato turbinavano dinanzi al mio occhi interiore, come per ammonirmi, e così via, incessantemente, all’infinito… [...]

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Jorge Luis Borges —

la rosa di paracelso — racconto contenuto in Borges, Tutte le opere, Mondadori, 1985, 2002, e già disponibile online su diversi siti

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el suo laboratorio, che comprendeva le due stanze dello scantinato, Paracelso chiese al suo Dio, al suo indeterminato Dio, a qualunque Dio, di inviargli un discepolo. Imbruniva. Il magro fuoco del camino proiettava ombre irregolari. Alzarsi per accendere la lanterna di ferro avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo. Paracelso, distratto dalla fatica, dimenticò la sua preghiera. La notte aveva cancellato l’athanor e i polverosi alambicchi quando bussarono alla porta. Insonnolito, l’uomo si alzò, salì faticosamente la breve scala a chiocciola e socchiuse un battente. Uno sconosciuto entrò. Anch’egli era molto stanco. Paracelso gli indicò una panca; l’altro sedette e attese. Per un certo tempo non scambiarono tra loro nemmeno una parola. Il maestro fu il primo a parlare. “Ricordo volti d’Occidente e volti d’Oriente”, disse, non senza una certa enfasi. “Non ricordo il tuo. Chi sei tu e che vuoi da me?”.

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cadillac 20e - post 5 “Il mio nome non ha importanza”, replicò l’altro. “Ho camminato tre giorni e tre notti per entrare in casa tua. Voglio diventare tuo discepolo. Ti ho portato tutti i miei beni”. Tirò fuori una borsa e la rovesciò sulla tavola. Le monete erano molte e d’oro. Lo fece con la mano destra. Paracelso, per accendere la lanterna, aveva dovuto voltargli le spalle. Quando tornò, notò nella sua mano sinistra una rosa. La rosa lo inquietò. Si chinò, giunse le estremità delle dita e disse: “Tu mi credi capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offrì oro. Non è l’oro ciò che cerco e se è l’oro che ti interessa, tu non sarai mai mio discepolo”. “L’oro non mi interessa”, rispose l’altro. “Queste monete non sono altro che una prova del mio desiderio di apprendere. Voglio che tu mi insegni l’Arte. Voglio percorrere al tuo fianco la via che conduce alla Pietra”. Paracelso disse lentamente: “La via è la Pietra. Il punto di partenza è la Pietra. Se non comprendi queste parole, non hai ancora cominciato a comprendere. Ogni passo che farai è la meta”. L’altro lo guardò con aria diffidente. Disse con voce chiara: “Ma esiste una meta?” Paracelso si mise a ridere. “I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario e mi accusano di essere un impostore. Non dò loro ragione, ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via”. Vi fu una pausa, e l’altro affermò: “Sono pronto a percorrerla con te, anche se dovessimo viaggiare per molti anni. Lasciami attraversare il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa, anche se gli

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astri me ne vieteranno l’accesso. Ma prima di intraprendere il viaggio, io voglio una prova”. “Quando?” disse Paracelso, con inquietudine. “Subito”, rispose il discepolo con brusca determinazione. Avevano iniziato la conversazione in latino, ora parlavano in tedesco. Il giovane levò in alti la rosa. “Affermano - disse - che tu puoi bruciare una rosa e farla rinascere dalle ceneri, per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio. Ecco ciò che ti chiedo; poi la mia vita sarà tua”. “Sei molto credulo”, disse il maestro. “Non so che farmene della credulità; esigo la fede”. L’altro insistette. “È proprio perché non sono credulo che voglio vedere coi miei occhi l’annientamento e la resurrezione della rosa”. Paracelso l’aveva presa in mano e parlando giocherellava con essa. “Sei credulo”, disse. “Tu dici che io sono capace di distruggerla?” “Nessuno è incapace di distruggerla”, rispose il discepolo. “77 sbagli. Credi forse che qualcosa possa esser reso al nulla? Credi che il primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distruggere un solo fiore, un solo filo d’erba?” “Non siamo nel Paradiso - disse ostinato il giovane qui, sotto la luna, tutto è mortale”. Paracelso si era alzato in piedi. “E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso? Credi che la

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cadillac 20e - post 5 caduta sia altro dall’ignorare che siamo nel Paradiso?” “Una rosa può bruciare”, disse il discepolo in tono di sfida. ‘V’è ancora del fuoco nel camino”, rispose Paracelso. “Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l’abbiano consumata e che sia la cenere a essere reale. Io ti dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo”. “Una parola?” disse stupefatto il discepolo. “L’athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che farai per farla rinascere?” Paracelso lo guardò con tristezza. “L’athanor è spento” - ripetè - “e gli alambicchi sono coperti di polvere. In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti”. “Non oso domandare quali”, disse l’altro con malizia o con umiltà. “Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l’invisibile Paradiso in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale. Parlo della Parola che ci insegna la scienza della Cabala”. Il discepolo disse freddamente: “Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scomparsa e ricomparsa della rosa. Poco mi importa che tu operi per mezzo del Verbo o degli alambicchi”. Paracelso rifletté. Infine disse: “Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un’apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia. Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa”. Sempre diffidente, il giovane lo guardò. Il maestro alzò la voce e gli disse: “E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodi-

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gio? Che hai fatto per meritare un simile dono?”. L’altro replicò, tremando: “So bene che non ho fatto nulla. Ti chiedo, in nome dei molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi”. Bruscamente, afferrò la rosa rossa che Paracelso aveva lasciato sul leggio e la gettò tra le fiamme. Il colore si perse e rimase solo un po’ di cenere. Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo. Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità: “Tutti i medici e tutti gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore. Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non lo sarà”. Il giovane si sentì pieno di vergogna. Paracelso era un ciarlatano o un semplice visionario e lui, un intruso, aveva varcato la sua porta e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane. Si inginocchiò e disse: “Ho agito imperdonabilmente. Mi è mancata la fede che il Signore esigeva dai credenti. Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò più forte e sarò tuo discepolo e in fondo al cammino vedrò la rosa”. Parlava con passione autentica, ma quella passione era la pietà che gli ispirava il vecchio maestro, tanto venerato, tanto attaccato, tanto insigne e perciò tanto vuoto. Chi era lui, Johannes Grisebach, per scoprire con mano sacrilega che dietro la maschera non c’era nessuno? Lasciare le monete d’oro sarebbe stata un’elemosina. Le riprese uscendo. Paracelso lo accompagnò ai piedi della scala e gli disse

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cadillac 20e - post 5 che sarebbe sempre stato il benvenuto. Entrambi sapevano che non si sarebbero rivisti mai piÚ. Paracelso rimase solo. Prima di spegnere la lanterna e di sedersi nella poltrona consumata, raccolse nell’incavo della mano il piccolo pugno di cenere e disse una parola a bassa voce. La rosa risorse.

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H.D. Lawrence —

odore di crisantemi — traduzione di Piero Nardi racconto incluso in Tutte le opere di David Herbert Lawrence, Mondadori, 1947, e già disponibile online su diversi siti

L

a piccola locomotiva numero quattro veniva giù da Seston con sette vagoncini carichi. Comparve dietro la svolta, con un fracasso minaccioso, ma il puledro che spaventò, tra le ginestre che apparivano confusamente tremule nel freddo pomeriggio, la superò al piccolo trotto. Una contadina che se ne andava verso Underwood, lungo la strada ferrata, si scansò contro la siepe, scostò il canestro e tenne lo sguardo al predellino della locomotiva che avanzava. I vagoni sfilarono pesantemente uno dietro l’altro, con lenta, inevitabile marcia, e la donna rimase rannicchiata tra i carri neri sobbalzanti e la siepe. Poi il treno piegò verso il boschetto, dove le foglie di quercia, ormai avvizzite, cadevano silenziose; mentre gli uccelli, che continuavano a piluccare le bacche rosse lungo il sentiero, si rifugiarono nell’oscurità che già aveva invaso il sottobosco. All’aperto, il fumo della locomotiva si abbassava e si perdeva nell’erba cespugliosa. I campi erano tetri e abbandonati; nel tratto acquitrinoso che conduceva al

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cadillac 20e - post 5 canneto dello stagno, i polli avevano già lasciato il loro recinto tra gli ontani per riparare nel pollaio catramato. Il bordo della miniera appariva dietro lo stagno, fiamme come rosse cicatrici balenavano su per i suoi fianchi cinerei nella luce stagnante del pomeriggio. Dietro ancora, si levavano i camini a forma conica e i goffi argani anneriti della miniera di Brinsley. Le due ruote giravano veloci contro il cielo e la carrucola di sollevamento singhiozzava convulsa. Venivano tirati su i minatori. La locomotiva si mise a fischiare, entrando nel largo piazzale ingombro di rotaie a fianco della miniera; là sostavano lunghe file di carri in attesa. I minatori, dirigendosi soli o in gruppi verso le proprie abitazioni, passavano via come ombre. Vicino al terrapieno, percorso dai binari di raccordo, tre scalini più in basso della scarpata color cenere, si trovava una casetta acquattata. L’abbracciava una grossa vite ossuta, che pareva volesse tenere il tetto legato alla terra. Tutt’intorno al cortile in mattoni cresceva qualche primula invernale; Un lungo giardino declinava fino a un ruscello coperto di cespugli. Vi crescevano alcuni meli contorti, alberi sempreverdi, cavoli mezzo sfogliati. Oltre il sentiero ondeggiavano rosei crisantemi spampanati simili a panni rosa stesi su cespugli. Una donna, quasi piegata in due, uscì dal pollaio coperto di feltro. Mise il lucchetto alla porta, scosse il grembiule bianco e si drizzò. Era una donna alta, di aspetto maestoso, bella, con sopracciglia nere ben marcate. Portava i capelli, lisci e neri, spartiti a metà. Stette un momento ferma, osservando i minatori che camminavano lungo la ferrovia, quindi si diresse verso il ruscello. Il suo volto era calmo e deciso, la bocca chiusa esprimeva scontento. Di lì a poco si mise a chiamare:

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“John!” Nessuno rispose. Attese ancora, poi chiese distintamente: “Dove sei?” “Qui” rispose una voce imbronciata di bambino, dai cespugli. La donna aguzzò lo sguardo nell’oscurità. “Sei al ruscello?” chiese severa. Per tutta risposta il bambino venne avanti con le canne di lampone, che sollevò come staffili. Era un bambino di cinque anni, piccolo e robusto. Restò immobile, con aria di sfida. “Ah” fece la madre tranquillizzata. “Avevo paura che fossi andato al ruscello; e ti ricordi cosa ti ho detto.” Il bambino ancora non si mosse, né rispose. “Vieni, andiamo” disse la donna incoraggiante. “Si fa buio. Vedi la locomotiva del nonno che sta arrivando.” Il ragazzino mosse qualche passo lentamente, in silenzio, scontroso. -Indossava calzoni e panciottino d’una stoffa troppo massiccia e rigida per le sue misure ridotte. Si vedeva che erano stati ricavati dai panni di un adulto. Mentre andavano piano verso casa il bambino strappò una manciata di petali di crisantemo, seminandoli sul sentiero. “Non lo fare, non è bello” disse la madre. Il ragazzo smise e la donna, improvvisamente commossa, spezzò un rametto che aveva tre o quattro pallidi fiori e se lo portò al viso. Quando madre e figlio giunsero nel cortile, la mano di lei esitò e anziché gettare via i fiori li infilò nella cintura del grembiule. Rimasero ambedue ai piedi degli scalini, guardando al di là dei binari i minatori che tornavano a casa. Il rumore del trenino si stava avvicinando. A un tratto la macchina apparve accanto alla casa e si fermò davanti al cancello. Il macchinista, un uomo basso, con la barba grigia tutt’intorno al volto, si affacciò alla cabina, alto sopra la donna.

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cadillac 20e - post 5 “Me la daresti una tazza di tè?” chiese con tono gioviale. Era il padre della donna. Questa entrò in casa, dicendo che gliela avrebbe preparata. Tornò quasi subito. “Non sono venuto a trovarvi domenica” cominciò l’ometto con la barba grigia. “Oh, non ti aspettavo” disse la figlia. Il macchinista ci rimase male; ma subito, ritrovando il suo tono allegro, disse: “Ah, allora l’hai saputo? Bene, e che ne pensi?” “Mi pare un po’ presto” rispose lei. A questa critica concisa l’ometto tradì un gesto di impazienza; poi gentile, ma con minacciosa freddezza, riprese: “Bene, ma che può fare un uomo? Non è vita, per un uomo della mia età, sedere dinanzi al focolare come un forestiero. Se mi devo sposare, meglio farlo subito. A chi importa?” La donna non rispose, si voltò e tornò in casa. L’uomo rimase nella cabina con espressione corrucciata, finché lei non riapparve con una tazza di tè e un piattino con pane e burro. Salì i gradini e stette vicino al predellino della locomotiva, che soffiava. “Il pane e il burro non importava” disse il padre, “ma una tazza di tè” aggiunse sorseggiandolo compiaciuto, “è davvero piacevole.” Dopo altre sorsate: “Pare che Walter si prenda di nuovo qualche sbronza” disse. “Quando mai aveva smesso?” chiese la donna con amarezza. “All’osteria ‘Lord Nelson’ dicevano che, prima di andarsene, voleva spendere tutto: una mezza sterlina.” “Quando?” chiese lei.

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“Un sabato notte. Lo so per certo.” “Può darsi” sorrise mestamente la donna. “A me dà ventitré scellini.” “Ah, bella cosa, quando un uomo non sa far altro, col suo denaro, che abbrutirsi!” disse il macchinista tra i baffi grigi. La donna volse la testa. Il padre finì il tè e le porse la tazza. “Mah” sospirò asciugandosi la bocca. “Purtroppo, niente da fare.” Appoggiò la mano sulla leva. La piccola locomotiva sobbalzò e brontolò, il treno si avviò fragorosamente verso il passaggio a livello. La donna gettò un’occhiata oltre le rotaie. Le tenebre calavano fitte sui binari e sui vagoni; passavano ancora, a gruppi indistinti, minatori diretti a casa. La carrucola continuava a pulsare a ritmo accelerato, con brevi pause. Elizabeth sostò a guardare quella pallida processione, quindi rientrò. Suo marito non era ancora arrivato. La cucina era piccola e vivamente illuminata dai riflessi del fuoco; braci rosse accendevano la cappa del camino. Tutta la vita della stanza sembrava racchiusa nel bianco, caldo focolare e nella grata che ne rimandava i bagliori vermigli. La tovaglia era stesa per il tè, le tazze scintillavano nell’ombra. In un angolo, dove gli ultimi scalini entravano nella stanza, sedeva il bambino, armeggiando con un coltello e un pezzetto di legno bianco. Nell’oscurità era quasi invisibile. Erano le quattro e mezzo. Per prendere il tè aspettavano il padre. Quando la donna lanciava un’occhiata alla cupa, ostinata lotta del figlio col pezzetto di legno, in quella ostinazione ritrovava se stessa; e ritrovava il padre in quell’estraniarsi da tutto ciò che non lo riguardasse personalmente. Al pen-

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cadillac 20e - post 5 siero del marito essa si faceva preoccupata. Forse egli era passato oltre la casa, aveva tirato dritto davanti l’uscio, per andare a bere qualcosa prima di rientrare; e intanto la cena si guastava. Guardò l’orologio, poi prese le patate per andare a scolarle nel cortile. Il giardino e i campi dietro il ruscello erano avvolti in una oscurità incerta. Quando si rialzò con la pentola, lasciando a fumare nella notte l’acqua scolata, fissò la fila di lampade gialle che segnava il cammino su per la collina, al di là dei binari e dei campi. Poi guardò ancora gli uomini, sempre più radi, che rincasavano. In cucina il fuoco si affievoliva e la stanza diventava di un rosso cupo. Posò la pentola sulla mensola del focolare e mise la torta vicino alla bocca del forno. Poi restò in attesa. Quasi subito, come in segno di gratitudine, agili passi giovanili si avvicinarono alla porta. Una mano indugiò sul saliscendi, quindi entrò una ragazzina e cominciò a spogliarsi, scompigliando col cappello un grosso ciuffo di riccioli, sfumato tra l’oro e il bruno, che le ricaddero sugli occhi. La mamma la sgridò perché tornava tardi da scuola; disse che in quelle buie giornate d’inverno avrebbe dovuto tenerla in casa. “Via, mamma, non è ancora così buio; la lampada non è ancora accesa e il babbo non c’è.” “È vero, ma manca un quarto alle cinque. L’hai mica visto?” La bambina divenne seria. Guardò la madre con i begli occhi azzurri, pieni di ansietà. “No, mamma, non l’ho visto. Perché? È Forse passato di qui per andare da ‘Old Brinsley’? Non credo, mamma, perché io l’avrei visto.”

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“Beh, sarebbe stato attento,” disse la madre con tristezza. “Avrebbe fatto in modo che tu non lo vedessi. Ma ci puoi giurare: a quest’ora se ne sta seduto al ‘Principe di Galles’. Altrimenti non tarderebbe tanto.” La bambina guardò la madre con aria di compassione. “Vogliamo prendere il tè, mamma?” disse. La donna chiamò John a tavola. Aprì ancora una volta la porta e scrutò nell’oscurità, oltre i binari. Tutto era deserto; era cessato anche il rumore della carrucola. “Forse” disse tra sé, “si è fermato per qualche straordinario.” Sedettero per prendere il tè. John dall’altra parte del tavolo, vicino alla porta, era quasi cancellato dal buio. Non si vedeva in faccia. La bambina si chinò presso la grata facendo girare lentamente davanti al fuoco una grossa fetta di pane. Il bambino, la cui faccia era una macchia scura nell’ombra, seguiva con lo sguardo la sorella, che era tutta illuminata di riflessi rossi. “È proprio bello guardare il fuoco” egli disse. “Ah sì? E perché?” chiese la madre. “È così rosso, tutto pieno di piccole grotte, e dà un bel calduccio, e se ne può respirare l’odore.” “Bisogna riattizzarlo subito” disse la madre, “altrimenti quando viene vostro padre continuerà a dire che quando uno arriva sudato dalla miniera non c’è mai fuoco. Un’osteria, purtroppo, è sempre ben riscaldata.” Tacquero, poi il bambino disse in tono di lamentela: “Svelta, Annie.” “Cosa sto facendo? Non posso farlo bruciare più in fretta, ti pare?” “Lo fa apposta a metterci tanto tempo” brontolò il ragazzo.

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cadillac 20e - post 5 “Non avere di questi cattivi pensieri” lo rimproverò la madre. La stanza, quasi buia, si riempì del rumore di pane sgranocchiato. La madre mangiò appena. Bevve il suo tè con fare deciso e rimase pensosa. Quando si alzò, la sua collera appariva evidente nel modo di tenere la testa eretta. Guardò la torta sulla bocca del forno ed esclamò: “È una vergogna che un uomo possa non tornare a casa neppure per il pasto. Val proprio la pena di preoccuparsi per lui. Dovess’anche diventare un mucchietto di cenere, non vedo perché dovrei preoccuparmene… passa davanti alla porta di casa sua e va all’osteria.” La donna tacque. Buttò pezzi di carbone uno dopo l’altro sul fuoco che resero più grandi le ombre sulle pareti, finché la stanza cadde in un’oscurità quasi completa. “Non ci vedo più” brontolò l’invisibile John. La donna rise suo malgrado. “La strada per la bocca la trovi lo stesso” disse. Mise fuori il secchio dell’immondizia. Quando si riavvicinò come un’ombra al focolare il bambino ripeté piagnucoloso: “Non ci vedo.” “Dio buono” gridò la madre stizzita. “Col buio diventi noioso come tuo padre.” Comunque prese un rotolino di carta, da un mucchio posato sulla mensola, e accese la lampada che pendeva dal soffitto, in mezzo alla stanza. Nell’alzare le braccia, il suo corpo rivelò la rotondità di una maternità incipiente. “Oh mamma!” esclamò la bambina. “Che c’è?” chiese la donna. Si interruppe mentre rimetteva il tubo di vetro sulla fiammella. Il paralume di rame ne mise in risalto le belle

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forme; col braccio ancora alzato lei guardava la figlia. “Hai un fiore nel grembiule” disse la figlia, affascinata da quella vista insolita. “Dio mio” sospirò la donna con sollievo. “Pensavo si fosse incendiata la casa.” Aggiustò il tubo e aspettò un momento prima di alzare il lucignolo. Un’ombra leggera ondeggiò vagamente sul pavimento. “Fammi sentire il profumo,” disse ancora incantata la piccola, avvicinandosi e spingendo il viso al grembo della madre. “Va via, sciocchina,” disse questa, alzando il lucignolo. La luce mise in evidenza le loro espressioni ansiose, al punto che la donna se ne irritò. Annie si teneva ancora stretta alla vita della madre, la quale, seccata, si tolse i fiori dal grembiule. “Oh mamma, non gettarli via” esclamò Annie, prendendole la mano e cercando di infilare di nuovo il rametto al suo posto. “Che sciocchezze!” fece la mamma, allontanandosi. La bambina avvicinò i pallidi crisantemi alle labbra, mormorando: “Che buon odore hanno!” La madre uscì in una risatina. “No” disse, “non per me. Vi furono crisantemi quando lo sposai; crisantemi quando nascesti; e la prima volta che me lo riportarono a casa ubriaco, lui portava un crisantemo scuro all’occhiello.” Guardò i figli, essi la fissavano stupiti, con la bocca socchiusa. Lei si dondolò per un po’ sulla sedia, in silenzio. Poi guardò l’orologio. “Venti alle sei!” Con tono distaccato continuò: “Eh, se non lo porta qualcuno, lui da solo non ce la fa più. C’è rimasto attaccato. Ma che non mi

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cadillac 20e - post 5 venga intorno sporco come al solito, perché io non lo laverò. Può sdraiarsi sul pavimento. Eh, che sciocca sono stata, che sciocca. Ecco per cosa sono venuta qui, in questo sporco buco, pieno di topi e altro: perché lui tirasse dritto davanti alla porta di casa sua. Due volte, la settimana scorsa. Adesso ricomincia.” Tacque e si alzò per sparecchiare. Per più di un’ora i bambini giocarono, quietamente intenti, la fantasia accesa, uniti nella paura della collera materna e nello sgomento del ritorno del padre. Mistress Bates, sulla sedia a dondolo, lavorava a una maglietta di grossa flanella color crema, che provocava un cupo rumore di lacerazione quando la donna ne strappava un pezzo d’orlo. Eseguiva il lavoro risoluta, ascoltando i bambini; e piano piano la sua collera si placò, si esaurì; per riaccendersi di tanto in tanto nei suoi occhi. Stava con le orecchie tese. Talvolta anche la rabbia trepidava e tremava; e la madre interrompeva il lavoro, seguendo i passi che risuonavano fuori, sulle traversine; alzava il capo bruscamente per accennare ai bambini di fare silenzio; ma si riprendeva in tempo, e i passi svanivano oltre il cancello, e i bambini non venivano strappati dal loro mondo di giochi. Ma alla fine Annie sospirò e non ce la fece più. Guardò il suo trenino fatto di ciabatte, con improvvisa avversione. Si rivolse lamentosa alla madre: “Mamma” ma non riusciva a dire altro. John saltò fuori da sotto il divano come un ranocchio. La donna alzò lo sguardo. “Sì” disse, “guardati un po’ le maniche della camicia!” Il ragazzo se le portò davanti agli occhi, senza dire niente. In quel momento qualcuno chiamò con voce rauca attraverso la ferrovia, e la stanza si riempì di attesa, finché

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due persone passarono oltre la casa, chiacchierando. “È tempo di andare a letto” disse la madre. “Il babbo non è venuto” pianse Annie. Ma sua madre era sostenuta dal coraggio. “Non ci pensare. Lo porteranno a casa come un ciocco.” Intendeva dire che non vi sarebbero state scenate. “E dormirà sul pavimento fino a quando non si risveglierà. So che non andrà a lavorare domani, dopo una cosa come questa.” Pulì le mani e il volto dei bambini con uno strofinaccio. Loro rimasero tranquilli. Quando ebbero indossato le camicine da notte, dissero le preghiere, il piccolo borbottando. La madre li guardava, guardava il ciuffetto di riccioli bruni che s’intrecciavano come seta sulla nuca della bambina, la piccola testa scura del bambino, e il cuore le ribollì di rabbia al pensiero del padre, che era causa di tanto dolore per tutti e tre. I bambini, per consolarsi, tenevano il volto contro la sottana della madre. Quando Mistress Bates tornò da basso, la stanza era stranamente vuota, carica di tensione e di attesa. Riprese il suo lavoro di cucito e per un poco lavorò senza alzare il capo. Nel frattempo la sua collera si andava colorando di paura. II L’orologio suonò le otto, e la donna improvvisamente si alzò, lasciò cadere il lavoro sulla sedia. Andò alla porta che dava sulle scale, l’aprì; rimase in ascolto. Poi uscì, richiudendo la porta dietro di sé. Qualcosa frusciò nel cortile; ella trasalì, nonostante sapesse che il posto era infestato dai topi. La notte era molto scura. Sull’ampio

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cadillac 20e - post 5 piazzale della ferrovia, ingombro di vagoni, non brillava un barlume di luce; solo sul fondo riusciva a scorgere qualche rara lampada gialla in cima al pozzo, e il riflesso della miniera che bruciava nella notte. Camminò in fretta lungo la massicciata dei binari; poi, attraversate le rotaie che si incrociavano, giunse alla staccionata, presso il cancello bianco, da dove entrò nella strada. Ora non sentiva più paura. C’era gente che andava a New Brinsley; vide le luci delle case; una ventina di metri più in là c’erano le vetrate del “Principe di Galles.” La donna ebbe un momento di esitazione. Non le era mai capitato di andarlo a prendere, non vi sarebbe andata neppure adesso. Così continuò a camminare lungo la linea interrotta delle case, che sorgevano un po’ in disparte dalla strada. Infilò un vicolo tra le abitazioni. “Mister Rigley?” “Sí. Volete parlare con lui? Ma in questo momento non c’è.” Un tipo di donna ossuta si affacciò dall’oscurità del retrocucina, cercando di vedere l’interlocutrice, sul cui volto cadeva una debole luce attraverso le persiane della cucina. “Siete Mistress Bates?” domandò con tono di rispetto. “Sì. Volevo sapere se vostro marito è rientrato a casa. Il mio non ancora.” “Davvero? Beh, Jack sì; ha mangiato ed è uscito. È uscito per una mezz’oretta, prima di andare a letto. Non avete mica guardato al ‘Principe di Galles’?” “No.” “Beh, capisco, non è simpatico.” La donna si mostrava comprensiva. Seguì una pausa imbarazzata. “Jack non mi ha detto niente di vostro marito” disse.

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“No! Sono sicura che si è ficcato là dentro.” Elizabeth Bates disse ciò con amarezza e senza reticenze. Si era accorta che nella casa di fronte una donna la stava ascoltando, ma non se ne curò. Mentre stava per andarsene: “Fermatevi un minuto” le disse Mistress Rigley, “vado a domandare a Jack se per caso ne sa qualcosa.” “Oh no, non vorrei disturbare.” “Sì, vado, ma voi entrate e sorvegliatemi i bambini, che non scendano le scale e si brucino.” Elizabeth Bates entrò mormorando parole di scusa. L’altra dal canto suo si scusò per il disordine della stanza. E la cucina aveva bisogno di scuse davvero. Sottanine, pantaloncini e altri indumenti, giacevano sparsi qua e là sul pavimento, insieme a giocattoli di vario genere. Sull’incerata nera del tavolo c’erano pezzi di pane, di torta, briciole, liquidi versati e una teiera di tè freddo. “Eh, anche la nostra è come questa” disse Elizabeth guardando la donna anziché la stanza. Mistress Rigley si avvolse la testa in uno scialle e se ne andò in fretta dicendo: “Non starò via più di un minuto.” L’altra si sedette, osservando con disapprovazione il disordine generale della stanza. Passò a contare le scarpe, di varia misura, sparse per terra. Ve ne erano dodici. Sospirò e disse tra sé: “Per forza!” osservando di nuovo tutta quella confusione. Sentì, nel cortile, uno scalpiccio. I Rigley entrarono. Elizabeth Bates si alzò. Lui era un uomo grosso, ben piantato. La testa appariva particolarmente ossuta. Una cicatrice azzurra gli attraversava la tempia: era una ferita che si era fatto in miniera, e che la polvere del carbone aveva reso azzurra come un tatuaggio. “Davvero non è rientrato?” egli le chiese senza pream-

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cadillac 20e - post 5 boli, ma con rispetto e simpatia. “Non saprei dire dove si trovi. Là dentro no” e volse la testa verso il “Principe di Galles.” “Non sarà al ‘Tasso’?” chiese Mistress Rigley. Vi fu un’altra pausa di silenzio. Rigley sembrava avesse qualcosa da dire. “Siamo usciti che non aveva ancora finito” cominciò. “Gli altri erano già andati via da dieci minuti circa quando noi uscimmo, e io gli gridai: ‘Vieni, Walt?’ e lui rispose: ‘Andate; ancora qualche minuto’. Così noi salimmo fuori, con Bowers, e prendemmo la strada pensando che sarebbe venuto col gruppo successivo.” Tacque pensieroso, come dovesse rispondere del fatto di aver abbandonato l’amico. Elizabeth Bates, adesso di nuovo sicura di una disgrazia, si affrettò a rassicurarlo: “Penso che sia andato all’osteria del ‘Tasso’, come avete detto voi. Non è la prima volta. Sono stata in pena già altre sere prima d’ora. Verrà a casa quando qualcuno ce lo porterà.” “Ah, è un bel guaio” la compianse l’altra. “Ora faccio un salto da Dick, potrebbe esser là” propose l’uomo, che aveva paura di mostrarsi allarmato, e di prendersi troppa libertà. “Oh, non voglio che vi disturbiate andando così lontano” disse Elizabeth Bates, con tono enfatico; ma lui capì che ne era contenta. Mentre si avviavano alla porta per uscire, Elizabeth Bates udì la moglie di Rigley correre attraverso il cortile e aprire la porta dei vicini. Improvvisamente le sembrò che tutto il sangue che aveva nelle vene le uscisse dal cuore. “Attenta!” l’avvertì Rigley. “Ho detto un sacco di volte che dovrei livellare il pavimento qui nell’ingresso, qual-

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cuno vi si romperà una gamba.” La donna riprese e camminò veloce accanto al minatore. “Non mi piace lasciare i bambini a letto con nessuno in casa,” disse. “Beh, certamente,” rispose cortesemente l’uomo. Raggiunsero in breve il cancello dell’abitazione di lei. “Bene, non ci metterò molto. E voi non agitatevi, tutto andrà a posto, “disse Rigley. “Grazie tante, Mister Rigley,” disse lei. “Non c’è di che,” mormorò l’altro, allontanandosi. “Sarà questione di minuti.” La casa era tranquilla. Elizabeth Bates si tolse il cappello e lo scialle, e arrotolò la stuoia del focolare. Quando ebbe finito si mise a sedere. Erano le nove e qualche minuto. Si riscosse al pulsare rapido della carrucola della miniera, e all’attrito dei freni sulla corda che scendeva. Sentì di nuovo quella dolorosa sensazione di sangue che le mancava, si portò una mano al fianco, dicendo a voce alta: “Dio mio, è soltanto il cambio delle nove,” quasi a volersi rimproverare. Rimase immobile, in ascolto. Dopo una mezz’ora le sembrò che le forze le venissero meno. “Perché mi sto torturando in questo modo?” si disse con una sorta di compassione verso se stessa. “Finirò soltanto per farmi del male.” Riprese il suo lavoro di cucito. Verso un quarto alle dieci udì alcuni passi. Passi di una persona! Guardò in direzione della porta, in attesa che si aprisse. Comparve una vecchia, con un berretto nero e uno scialle scuro di lana: la madre del marito. Aveva circa sessant’anni, era pallida, con due occhi azzurri, il

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cadillac 20e - post 5 viso solcato di rughe e triste. Chiuse la porta e si volse alla nuora con un lamento: “Ah, Lizzie, che cosa dobbiamo fare?” gridò. Elizabeth si ritrasse un poco, con mossa brusca. “Che c’è, mamma?” chiese. La vecchia si sedette sul divano. “Non lo so, bambina, non riesco a dirtelo!” scosse la testa lentamente. Elizabeth si sedette guardandola, in ansia, turbata. “Non so” ripeté la vecchia con un sospiro profondo. “Non c’è fine per i miei guai, non c’è. Le cose che ho dovuto sopportare dovrebbero bastare!” Pianse senza asciugarsi gli occhi, le lacrime le scorsero sulle guance. “Ma, mamma” la interruppe Elizabeth, “cosa volete dire? Che è successo?” La suocera si asciugò lentamente gli occhi. Il pianto fu interrotto dalla domanda diretta di Elizabeth. Si asciugò gli occhi con lentezza. “Povera bambina! Povera creatura!” gemette l’altra. “Non so cosa dovremmo fare, non lo so... e tu, in quelle condizioni... oh, è terribile!” Elizabeth attendeva. “È morto?” chiese, e a quelle parole il cuore le sobbalzò violentemente, benché sentisse un lieve rossore di vergogna di fronte all’estrema assurdità della domanda. Le sue parole impaurirono la vecchia, quasi al punto di farla ritornare in sé. “Non dir così, Elizabeth. Speriamo che non sia così grave; no, voglia il Signore risparmiarci questo, Elizabeth. Jack Rigley è venuto da me proprio mentre mi ero seduta per bere un goccio, prima di andare a letto; e mi ha detto: ‘Forse sarebbe opportuno che andaste giù alla ferrovia, da Mistress Bates. Walt ha avuto un incidente.

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Forse dovreste andar giù e farle compagnia fin tanto che non lo possiamo riportare a casa.’ Non ho avuto il tempo di rivolgergli neppure una domanda prima che se ne andasse. E io mi sono messa il cappello e sono scesa subito giù, Lizzie. Tra me pensavo: ‘Ah, quella povera bambina benedetta! E se qualcuno va da lei e le dà la notizia all’improvviso, allora cosa le può capitare?’ Tu non devi agitarti, Lizzie, altrimenti sai cosa può accaderti. A che mese sei, al sesto o al quinto, Lizzie? Ah!” la vecchia scosse la testa, “il tempo passa, il tempo passa! Ah!” Elizabeth pensava ad altro. Se lui era morto, lei sarebbe stata capace di vivere con la scarsa pensione e con ciò che poteva guadagnare? Fece un rapido conto. Se era ferito, non lo avrebbero portato all’ospedale; e come sarebbe stato stancante curarlo! Ma forse le sarebbe riuscito di strapparlo al vizio del bere e a quella sua vita odiosa. Si sarebbe provata, mentre era malato. A quel quadro le vennero le lacrime agli occhi. Ma a quale gusto sentimentale si stava abbandonando? Si mise a pensare ai bambini. Ad ogni modo lei era assolutamente indispensabile per loro. I bambini erano cosa sua. “Ah!” riprese la vecchia, “mi sembra che sia passato soltanto una settimana o due da quando mi portò il suo primo salario. Ah, era un bravo ragazzo, Lizzie, lo era, a modo suo. Non capisco come abbia cambiato tanto, non capisco. Era un ragazzo allegro in casa, soltanto molto vivo. Ma non c’è dubbio che ci ha dato un sacco di dispiaceri, non c’è dubbio. Spero che il Signore lo risparmi perché ritrovi se stesso. Lo spero. Tu hai avuto un sacco di guai con lui, Elizabeth, lo so. Ma con me era un ragazzo abbastanza buono, posso assicurartelo, non capisco cosa sia successo...”

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cadillac 20e - post 5 La vecchia continuò a fantasticare a voce alta, con un suono irritante e monotono, mentre Elizabeth pensava assorta, riscuotendosi quando udí il pulsare della carrucola, e i freni smisero di stridere. La vecchia non se ne rese conto. Elizabeth rimase in attesa. La suocera parlava, con pause di silenzio. “Ma non era figlio tuo, Lizzie, e questo è una cosa diversa. Qualunque cosa fosse, io me lo ricordo quando era piccolo, e imparai a capirlo e a scusarlo. Bisogna trovare il modo di scusarlo.” Erano le dieci e mezzo e la vecchia stava dicendo: “Ma sono guai dal principio alla fine, non si è mai troppo vecchi per i guai, mai troppo vecchi per questo” quando il cancello del giardino si richiuse e si sentirono passi pesanti sugli scalini. “Vado io, Lizzie, vado io” disse la vecchia alzandosi. Elizabeth era già sulla porta. C’era un uomo vestito da minatore. “Lo stanno portando” egli disse. Elizabeth sentì che il cuore le si fermava. Poi riprese a battere, quasi soffocandola. “Sta molto male?” chiese. L’uomo si volse a guardare l’oscurità. “Il dottore dice che è morto da molte ore. L’ha visitato in cabina.” La vecchia, in piedi dietro Elizabeth, si lasciò cadere su una sedia, e giungendo le mani gridò: “Figlio, figlio mio!” “Ssssst!” fece Elizabeth, corrugando bruscamente le sopracciglia. “State calma, non svegliate i bambini. Non vorrei averli qui proprio adesso.” La vecchia attaccò a lamentarsi, dondolandosi sulla sedia. L’uomo fece per ritirarsi, lentamente, ma Elizabeth

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mosse un passo verso di lui. “Com’è successo?” chiese. “Io non lo so esattamente” rispose l’uomo, che si sentiva a disagio. “Stava finendo un pezzo di parete, i sorveglianti erano già usciti, quando gli è caduto addosso un sacco di roba...” “Ed è rimasto schiacciato?” gridò la vedova rabbrividendo. “No” disse l’uomo. “Lui lavorava a ridosso della parete, e il materiale gli è caduto alle spalle. Non è stato neppure sfiorato. È rimasto chiuso lì. Dicono sia morto per soffocamento.” Elizabeth tremava. Udì la vecchia dietro di lei che gridava: “Come dice che è stato?” L’uomo ripeté a voce più alta: “È morto soffocato.” La vecchia riprese a gemere più forte, ed Elizabeth si sentì come sollevata. “Oh mamma” disse appoggiandole una mano addosso, “non svegliate i bambini, non svegliate i bambini.” Anche lei pianse per un po’, quasi inconsciamente, mentre la vecchia si lamentava e si contorceva. Elizabeth si ricordò che lo stavano portando a casa, e che lei doveva essere pronta. “Lo metteremo nella saletta” disse tra sé, fermandosi un momento, pallida e perplessa. Allora accese una candela e si recò nella piccola stanza. L’aria era fredda e umida, ma non si poteva accendere il fuoco, non c’era caminetto. Fissò la candela e si guardò in giro. La luce splendeva sul lampadario, sui due vasi che contenevano crisantemi rosa e sul mogano scuro. C’era un freddo, mortifero odore di crisantemi, nella stanza. Elizabeth si fermò a guardare i fiori. Volse via il capo, fece il calcolo dello spazio, se sarebbe stato sufficiente

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cadillac 20e - post 5 per mettere il marito sul pavimento, tra il divano e il credenzino. Spostò le sedie. C’era spazio sufficiente per il morto e per potergli camminare intorno. Quindi prese una vecchia tovaglia da tavolo, rossa, e un altro panno vecchio; li distese sul pavimento, per risparmiare il tappeto. Nell’uscire dalla stanza sussultò, prese da un cassetto una camicia pulita e la mise vicino al fuoco. Tutto quel tempo la vecchia aveva continuato a piangere e a dondolarsi sulla sedia. “Dovete spostarvi di lì, mamma” disse Elizabeth. “Ora lo porteranno. Mettetevi nella poltrona.” La vecchia obbedì meccanicamente, si sedette vicino al fuoco continuando il suo lamento. Elizabeth andò in dispensa a prendere un’altra candela e là, in quel bugigattolo sotto le tegole nude, li sentì arrivare. Si fermò sulla porta della dispensa, in ascolto. Li sentì che svoltavano l’angolo della casa e scendevano pesantemente i gradini: uno scalpicciare di passi e un mormorio di voci. La vecchia era muta. Gli uomini stavano nel cortile. Poi Elizabeth sentì Mathews, l’amministratore della miniera, che diceva: “Jim, tu entra per primo. Attento!” La porta si aprì, le due donne videro un minatore che camminava all’indietro reggendo un’estremità della barella, sulla quale videro le scarpe chiodate del morto. I due portatori si fermarono, l’uomo che stava in testa si arrestò allo stipite della porta. “Dove volete che lo mettiamo?” chiese l’amministratore, un uomo piccolo, dalla barba bianca. Elizabeth rinvenne e uscì fuori dalla dispensa con la candela spenta. “Nella saletta” disse. “Là, Jim” ammiccò l’amministratore, e gli uomini en-

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trarono nella piccola stanza. Mentre attraversavano le due porte, il soprabito col quale era stato coperto il cadavere cadde; le donne videro il loro uomo nudo fino alla vita, come quando lavorava. La vecchia riattaccò a piangere, con un lamento pieno di angoscia. “Posate la barella da una parte” ordinò asciutto l’amministratore. “Attenti, adesso, attenti. Guardate cosa avete fatto!” Uno dei portatori aveva rovesciato un vaso di crisantemi. Egli spalancò gli occhi spaventato; poi adagiarono la barella. Elizabeth non guardò il marito. Appena entrata nella stanza si mise a raccogliere i cocci e i fiori. “Un momento” disse. I tre uomini attesero in silenzio che avesse finito di asciugare per terra con uno straccio. “Che sciagura! che sciagura!” ripeteva l’amministratore, asciugandosi la fronte, turbato e incredulo. “Mai accaduta una cosa simile in vita mia, mai. E pensare che non doveva fermarsi! Mai vista una cosa simile in vita mia. La parete gli è franata addosso, e l’ha chiuso. Neppure un metro e mezzo di spazio, c’era; e non l’ha nemmeno sfiorato!” Guardò il morto che giaceva disteso, mezzo nudo, sporco della polvere di carbone. “Asfissiato, ha detto il dottore. È la cosa più spaventosa che abbia mai visto. Neanche a farlo apposta. Crolla su di lui e lo chiude come una trappola da topi.” Fece un rapido gesto con la mano, dall’alto in basso. I minatori, che stavano in piedi davanti a lui, volsero il capo in una specie di disperato commento. L’orrore dell’accaduto gravava su ciascuno di loro. Poi udirono la voce della bambina, che dal piano di sopra cominciò a chiamare: “Mamma, mamma, chi c’è?

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cadillac 20e - post 5 Mamma, chi c’è?” Elizabeth corse svelta verso le scale e aprì la porta. “Vai a dormire” disse brusca. “Che c’è da gridare? Vai a dormire, non è successo niente.” Cominciò a salire le scale, la sentirono camminare sulle assi, sul pavimento intonacato della cameretta. “Ma cosa ti salta in mente, stupidina?” La udirono distintamente; la sua voce era inquieta e insieme di una tranquillità irreale. “Mi sembrava fosse venuto qualcuno” disse la voce lamentosa della piccola. “È venuto il babbo?” “Sì, l’hanno portato. Ma non c’è motivo di far tanto chiasso. Adesso vai a dormire, da brava bambina.” Udirono la voce di lei nella camera; rimasero in attesa finché la donna non ebbe aggiustato le coperte dei bambini. “È ubriaco?” chiese la figlia, timidamente, sottovoce. “No, dorme.” “Dorme giù?” “Sì, e tu non far chiasso.” Vi fu una pausa, poi gli uomini udirono ancora la voce spaventata della bambina. “Ma cos’è questo rumore?” “Niente, ti dico. Di che ti preoccupi?” Il rumore era il pianto della vecchia. Dimentica di tutto, la vecchia gemeva sulla sedia a dondolo. L’amministratore le mise una mano sul braccio; fece: “Ssssst!” Lei spalancò gli occhi e lo guardò. Era stupita per l’interruzione, sembrava chiedere una spiegazione. “Che ore sono?” Era la voce esile e lamentosa della bambina che rivolgeva quest’ultima domanda, prima di riprendere tristemente il sonno interrotto.

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“Le dieci” rispose la madre sottovoce; e baciò i suoi bambini. Mathews fece cenno agli uomini di uscire. Essi si misero il berretto e ripresero la barella. Scavalcando il cadavere uscirono in punta di piedi. Nessuno di loro parlò, finché non furono lontani dai bambini, che erano ancora svegli. Quando Elizabeth scese, trovò la suocera sola, sul pavimento, china sul figlio morto, che bagnava di lacrime. “Bisogna vestirlo” disse Elizabeth. Mise una pentola d’acqua sul fuoco, poi s’inginocchiò ai piedi del morto e prese a slacciargli le scarpe. La stanza era umida e scusa con una sola candela; così che la donna dovette abbassare il capo fin quasi in terra. Alla fine tolse gli scarponi e li posò da parte. “Ora ho bisogno del vostro aiuto” disse alla vecchia. E insieme lo spogliarono. Quando si rialzarono, lo videro disteso nella semplice dignità della morte; le donne rimasero immobilizzate dalla paura e dal rispetto. Per un po’ rimasero così, con gli occhi abbassati, mentre la vecchia gemeva. Elizabeth si sentiva come esclusa. Lo vide. Egli giaceva assolutamente impenetrabile e intatto, racchiuso in se stesso. Lei non aveva nulla a che fare con lui. E questo non lo poteva sopportare. Chinandosi lo toccò, come per rivendicare qualcosa. Era ancora caldo, perché la miniera, là dove era morto, aveva una temperatura molto elevata. La madre si teneva il volto tra le mani, mormorava frasi prive di senso. Le vecchie lacrime cadevano ininterrottamente, come gocce da foglie bagnate; essa non piangeva, semplicemente versava lacrime. Elizabeth abbracciò il corpo del marito, sfiorandolo con la guancia e le labbra. Pareva

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cadillac 20e - post 5 ascoltasse, interrogasse, cercasse di individuare il nesso. Ma non vi riusciva. Veniva respinta. Egli era inviolabile. Si alzò e andò in cucina, versò dell’acqua calda in una ciotola, prese il sapone, un pannolino e l’asciugamano. “Lo devo lavare” disse. La vecchia allora si alzò irrigidita e guardò Elizabeth mentre lavava accuratamente il volto del morto e puliva col pannolino, accuratamente, i baffi biondi. Elizabeth si sentiva sconvolta, eseguiva il lavoro come fosse un rito. La vecchia, gelosa, disse: “Lo asciugo io” e s’inginocchiò dall’altra parte, lo asciugò con delicatezza dove l’altra lo aveva lavato, strusciando ogni tanto col suo cappello nero la testa della nuora. Lavorarono per un pezzo in silenzio; non dimenticavano di essere di fronte alla morte. Il contatto col cadavere dava loro emozioni indefinibili, diverse nell’una e nell’altra. In comune avevano soltanto una grande paura. La madre si sentiva tradita nelle viscere; la moglie sperimentava il totale isolamento dell’anima umana; anche la creatura che portava in grembo le sembrava estranea. Poi smisero di lavarlo. L’uomo aveva un bell’aspetto, il suo volto non rivelava le tracce dell’alcool. Aveva capelli biondi, carni solide, membra ben proporzionate. Ma era morto. “Che Dio lo benedica!” mormorò la madre, continuando a guardare il suo volto e parlando ad alta voce per la paura. “Caro ragazzo, benedetto!” Parlava in una specie di estasi sibilante, che nasceva dal terrore e dall’amore materno. Elizabeth si chinò ancora sul pavimento, appoggiò il viso contro il collo di lui, scossa da tremiti. Ma dovette ancora tirarsi indietro. Lui era morto e la sua carne viva

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non poteva stare accanto a quella del marito. Si sentì sopraffatta dallo spavento e dalla stanchezza, si sentì inutile. La sua vita era trascorsa così. “È bianco come il latte, come un bambino di un anno, benedetto, caro” la vecchia continuava a mormorare. “Non un segno sul corpo bianco, lindo e bello come nessuno” aggiunse con orgoglio. Elizabeth teneva il viso tra le mani. “Se n’è andato in pace, Lizzie, in pace come se dormisse. Bello, vero, il mio agnellino? Certo che si è messo in pace, Lizzie; chiuso là dentro ha avuto tutto il tempo per pentirsi. Non avrebbe questo aspetto tranquillo se non si fosse pentito. Agnellino, mio povero agnellino. Ah, come rideva di cuore. Mi piaceva tanto sentirlo. Rideva proprio di cuore, Lizzie, come un ragazzo.” Elizabeth alzò lo sguardo. La bocca dell’uomo era leggermente spostata, un poco dischiusa sotto i baffi. Gli occhi, semiaperti, non erano vitrei nell’oscurità. La vita nell’abbandonarlo col suo incendio fumante, lo aveva messo da parte, lo aveva del tutto staccato da lei. E capì quanto le fosse estraneo. Sentì il gelo del terrore nel proprio grembo, a causa di questo estraneo con cui era stata una sola carne. Cosa significava tutto ciò: che la vita si riduceva a una separazione assoluta e intatta, tenuta nascosta dal calore del vivere? Impaurita guardò altrove. Questa era una realtà mortale. Non c’era stato nulla tra loro due, eppure erano stati uniti, avevano scambiato ripetutamente le loro nudità. Ogni volta ch’egli l’aveva presa, erano diventati due esseri isolati, lontani come adesso. Egli non ne era stato più responsabile di quanto lo era stata lei. Il bambino era come gelo nel suo ventre. Guardando il morto, la sua mente fredda e lontana di-

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cadillac 20e - post 5 ceva distintamente: “Chi sono io? Che cosa ho fatto? Ho lottato contro un marito immaginario. Ma questo sì, che è sempre esistito. Qual è stato il mio errore? Con chi ho vissuto? La realtà giace lì, è quest’uomo.” E il cuore le morì dentro per il terrore; capì di non averlo mai visto, suo marito; e che lui non aveva mai visto lei. Si erano incontrati nelle tenebre, nelle tenebre avevano lottato, senza sapere con chi vivevano, contro chi combattevano. E adesso lei sapeva, ma non riusciva a parlare. Perché si era sbagliata. Aveva detto che lui era diverso da quello che era; si era creduta intima di lui. Invece egli era stato sempre lontano, vivendo come lei non aveva vissuto, sentendo ciò che lei non aveva sentito. Sconvolta e umiliata guardò quel corpo nudo che aveva mal conosciuto. Eppure era il padre dei suoi figli. L’anima le era stata strappata e stava per conto proprio. Seguitava a guardare quel corpo nudo e si vergognava, come se lo avesse rinnegato. Dopo tutto, era se stesso. Quel pensiero le parve orribile. Osservò il viso di lui, poi si volse verso la parete. Perché il suo sguardo era diverso da quello di Elizabeth, e anche il suo modo di vivere. Lei aveva rinnegato ciò che lui era, lo capiva adesso. Lo aveva rifiutato così com’era. Questa era stata la sua vita, la vita di lui. Ora si sentiva riconoscente verso la morte, che ristabiliva la verità. E lei sapeva di non essere morta. E intanto il cuore le scoppiava di dolore e di pietà per lui. Quanto aveva sofferto? Quale carico di orrori aveva sopportato quell’uomo privo di aiuto? L’angoscia l’irrigidiva. Lei non aveva saputo aiutarlo. Quell’uomo spoglio, quell’essere isolato, era stato atrocemente offeso, e lei non poteva riparare. C’erano i bambini, ma i bambini appartenevano alla vita. Questo cadavere non aveva nien-

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te a che fare con loro. Loro due erano stati il passaggio obbligato attraverso il quale la vita era entrata nei figli. Lei era madre, ma adesso sapeva quanto fosse terrificante essere stata moglie. E lui, adesso morto, con quale terrore doveva essersi sentito marito! Capì che nell’altro mondo lui sarebbe stato un estraneo per lei. Se lassù si fossero incontrati, nell’aldilà, si sarebbero soltanto vergognati di ciò che erano stati in vita. Per qualche misteriosa ragione i bambini erano usciti dalla loro unione; ma i bambini non li avevano uniti. Adesso egli era morto, capì che sarebbe stato lontano da lei per l’eternità, che per l’eternità non avrebbe avuto a che fare niente con lei. Vide che quel capitolo della sua esistenza era chiuso. Nella vita si erano rinnegati. Ora lui si era ritirato. L’angoscia l’attanagliò. Era tutto finito: i loro rapporti erano divenuti disperati molto tempo prima che egli morisse. Eppure quello era stato suo marito. Ma quanto poco! “Dove hai la sua camicia, Lizzie?” Si volse senza rispondere, benché si sforzasse di piangere e di comportarsi come la madre si aspettava. Ma non le riusciva, non riusciva a parlare. Andò in cucina e tornò con l’indumento. “È asciutta” disse tastando qua e là il cotone per sincerarsene. Quasi si vergognò di toccare il cadavere: che diritto ne aveva lei, o chiunque altro, di toccarlo? Ma la sua mano si mosse timida sul corpo di lui. Fu difficile vestirlo. Era così pesante e inerte. Una paura terribile le stringeva la gola: egli era così pesante e completamente inerte, indifferente e lontano! L’orrore di quella lontananza tra lei e il marito era troppo grande: essa doveva guardare attraverso un baratro infinito.

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cadillac 20e - post 5 Finalmente tutto fu pronto. Lo coprirono con un lenzuolo e lo lasciarono lĂ disteso, col volto fasciato. Lei chiuse a chiave la porta del salottino, per paura che i bambini vedessero cosa vi era dentro. Quindi, in pace nel profondo del cuore, si mise a ripulire la cucina. Sapeva di doversi sottomettere alla vita, che era la sua padrona piĂš diretta. Ma dinanzi alla morte, ultima padrona, rabbrividiva di vergogna e di paura.

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Nathaniel Hawthorne —

wakefield — traduzione di Claudio Gorlier, realizzata per Hawthorne, “I capolavori”, Mursia 1968, e già disponibile online

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n qualche vecchia rivista o giornale rammento d’aver letto una storia, raccontata come vera, di un uomo, chiamiamolo Wakefield, che si allontanò per molto tempo da sua moglie. La questione, formulata così in astratto, non è proprio infrequente e, senza un’opportuna distinzione tra le circostanze, neppure può esser condannata come malvagia o priva di senso. Tuttavia questo, ben lungi dall’essere il più grave, è forse il più strano esempio di cui si abbia il ricordo, di trascuratezza nei doveri di un marito; e, inoltre, il più singolare capriccio che possa riscontrarsi nell’intera lista delle umane stramberie. La coppia degli sposi viveva a Londra. L’uomo, con il pretesto di dover fare un viaggio, andò ad abitare nella strada adiacente a quella della sua casa e qui, restando inosservato sia alla moglie sia agli amici, e senza l’ombra di una ragione per questo suo volontario esilio, visse per più di venti anni. Durante questo periodo, ogni giorno lui poteva osservare la sua casa, e spesso anche l’abban-

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cadillac 20e - post 5 donata signora Wakefield. E dopo un così lungo vuoto nella sua felicità coniugale, quando la sua mone era ormai considerata certa, ben sistemato il suo patrimonio, il suo nome cancellato dalla memoria e sua moglie da lungo, lungo tempo rassegnata alla sua autunnale vedovanza, egli varcò una sera la porta di casa, quietamente come dopo l’assenza di un giorno, e divenne uno sposo affettuoso fino alla morte. Questo abbozzo è tutto quel che ricordo. Ma il fatto, benché della più assoluta originalità, senza esempio, e che probabilmente mai potrà esser ripetuto, è tale, io credo, da dover richiamare la generosa simpatia dell’umanità. Sappiamo bene, ognuno per proprio conto, che nessuno di noi mai potrebbe commettere una simile follia, eppure proviamo una sensazione come se qualcun altro ne fosse capace. Alla mia personale attenzione, nondimeno, questo avvenimento ha molte volte fatto ritorno, sempre eccitando la mia meraviglia, con un’impressione però che la storia debba esser vera, e con una certa idea del carattere del suo protagonista. Ogni volta che un qualsiasi argomento colpisce la mente con tanta forza, il tempo che si passa a pensarci sopra è certo bene impiegato. Se il lettore preferisce, lo lascio alla sua meditazione; ma se desidera vagabondare con me attraverso i venti anni della stravaganza di Wakefield, gli darò il benvenuto, confidando che possa da qui scaturire un senso generale e uno morale, anche se non dovessimo riuscire a trovarli, nitidamente riassunti e conchiusi, entro le ultime battute del racconto. Il pensiero ha sempre la sua efficacia e ogni avvenimento singolare ha la sua morale. Che tipo di uomo era Wakefield? Siamo liberi di foggiarcene apertamente una nostra personale immagine, e

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di chiamar ogni cosa col suo nome. Era allora nel fiore degli anni; i suoi slanci coniugali, mai troppo intensi, si erano adagiati in un sentimento calmo ed abitudinario; di tutti i mariti, è probabile che lui sia stato il più fedele, perché una certa inerzia manteneva in riposo le sue capacità affettive, dovunque avesse dovuto volgerle. Era un intellettuale, ma non troppo attivo; la sua mente si perdeva in lunghe e oziose meditazioni, che non tendevano ad alcuno scopo ben definito, ne avrebbero avuto il vigore per conseguirlo; i suoi pensieri erano di rado così attivi da potersi tradurre in parole. La fantasia, nell’accezione comune del termine, non faceva parte delle qualità di Wakefield. Con una sensibilità fredda ma non corrotta ne incostante, ed una mente che mai si eccitava a pensieri di rivolta, e neppure era perplessa da idee troppo originali, chi mai avrebbe potuto pensare che il nostro amico avrebbe preso un posto di prim’ordine tra gli autori di gesta eccentriche? Se ai suoi amici fosse stato chiesto quale era, in tutta Londra, l’uomo che più sicuramente nulla avrebbe fatto oggi da poter essere ricordato domani, tutti senza dubbio avrebbero pensato a Wakefield. Soltanto la moglie, per la miglior conoscenza che ne aveva, avrebbe esitato. Senza avere mai analizzato a fondo il carattere di lui, ella era in parte conscia di quel neghittoso egotismo sotto cui gli si era arrugginita una mente già di per sé inattiva; di un particolare tipo di vanità, che era la più pericolosa delle sue doti; di una tendenza alla doppiezza che però di rado aveva prodotto effetti più gravi di un saper ben tenere nascosti meschini segreti, che non valeva certo la pena di rivelare; e, infine. di quanto lei chiamava, in quel brav’uomo, una lieve stra­nezza. Quest’ultimo attributo è invero indefinibile, e

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cadillac 20e - post 5 forse neppure esisteva. Immaginiamo ora Wakefield che dice addio alla moglie. È il crepuscolo di una sera di ottobre. Indossa un pesante cappotto marrone chiaro, ha il cappello coperto di tela cerata, sti­vali alti, un ombrello in una mano e una valigetta nell’altra. Ha informato la signora Wakefield di dover prendere la diligenza della sera per recarsi in campagna. La donna vorrebbe chiedergli la durata del viaggio, i suoi scopi, la probabile data del suo ritorno, ma poi, indulgendo all’innocuo amore di lui per il mistero, lo interroga soltanto con un’occhiata. Egli l’avverte di non andarlo appositamente ad aspettare al ritorno della diligenza, né di preoccuparsi se mai dovesse tardar tre o quattro giorni, ma in ogni caso di attenderlo il venerdì sera per cena. Si può ritenere che lo stesso Wakefield non abbia alcun sospetto di quanto lo aspetti. Lui le porge la mano. lei gli da la sua e si scambiano il bacio di addio nella consueta maniera di una coppia dopo dieci anni di matrimonio; e il signor Wakefield, signore di mezz’età, si allontana quasi deciso a lasciare perplessa la fiduciosa moglie con l’assenza di una settimana. Quando la porta si richiude dietro di lui, la donna si accorge che viene riaperta in parte e attraverso lo spiraglio raccoglie un’ultima visione del volto di suo marito, che le sor­ride e, in un attimo, le sparisce alla vista. Per il momento non bada al piccolo incidente e più non sembra pensarci. Ma molto tempo dopo. quando ormai da anni è più vedova che moglie, quel sorriso le torna alla mente e vagola su tutti i suoi ricordi del volto di Wakefield. Nelle sue lunghe meditazioni, ella circonda quell’originale sorriso di una moltitudine di fantasie che glielo rendono strano e persino sinistro: o, per esempio, se immagina il marito in

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una bara, quello sguardo resta raggelato sui lividi lineamenti del suo volto; o, se sogna di lui in cielo, lo spirito beato possiede sempre quel tranquillo e furbesco sorriso. Eppure, è proprio per questo sorriso, quando tutti gli altri lo hanno dato per morto, che dubita sempre d’esser vedova. Bisogna però che noi ci occupiamo del marito. Dobbiamo affrettarci a seguirlo, lungo la strada, prima che perda la propria individualità confondendosi con là gran massa della folla di Londra. Sarebbe inutile cercarlo là. Stiamo alle sue calcagna, quindi, finché dopo molte inutili giravolte e andirivieni Io vediamo tranquillamente seduto accanto al caminetto di un piccolo appartamento, da lui in precedenza preso in affitto. Egli si trova ora nella strada proprio accanto a quella della sua casa, e al termine del suo viaggio. Quasi non crede alla sua buona fortuna, d’esser arrivato fin là senza esser notato da nessuno, poiché si rammenta che ad un certo momento ha dovuto indugiare tra la folla, proprio sotto la luce di un fanale acceso; e, di nuovo, che c’eran dei passi che parevano seguirlo, ben distinti da quelli della moltitudine che lo circondava; mentre, in un altro momento, egli ha udito una voce che urlava lontana, e gli pareva che pronunciasse il suo nome. Senza dubbio una dozzina di intriganti lo hanno osservato e hanno ormai riferito a sua moglie tutta la storia. Povero Wakefield! Quanto poco sai accorgerti d’essere insignificante in questo grande mondo! Nessun occhio mortale, salvo il mio, ha seguito le tue tracce. Vattene tranquillo a letto, sciocco; e domani, se vuoi esser saggio, torna a casa dalla buona signora Wakefield, e dille la verità. Non ti allontanare più, neppure per una breve settimana, dal tuo posto sul suo casto seno.

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cadillac 20e - post 5 Se ella, per un solo momento, ti considerasse morto, o perduto, o da lei diviso per sempre, tristemente ti accorgeresti allora di un irreversibile cambiamento nella tua sincera sposa. È pericoloso aprire una falla negli affetti umani; non perché essi si formano, ma perché si chiudono poi con tanta rapidità! Quasi pentito della sua sciocchezza, o in qualsiasi altro modo si voglia chiamarla, Wakefield si corica presto, e sobbalzando dal suo primo sonno, spalanca le braccia nell’ampia e solitaria vastità di quel letto cui ancora non si è abituato: « No, » pensa, stringendosi bene attorno le coperte, « non dormirò solo per un’altra notte. » La mattina si alza più presto del solito, e si mette a riflettere su quanto realmente intende fare. Il suo modo di ragionare è tanto vago e impreciso, ch’egli si è spinto a questo passo singolare con la coscienza di uno scopo, è vero, ma senza tuttavia essere in grado di sufficientemente definirlo per la sua stessa meditazione. L’indeterminatezza del progetto, e lo sforzo convulso con cui si è gettato alla sua esecuzione, sono entrambe caratteristiche di un uomo debole di carattere. Wakefield vaglia le sue idee, nondimeno, il più minutamente pos­sibile, e avverte la curiosità di sapere come vanno le cose a casa, come la moglie esemplare sopporterà la vedovanza di una settimana; e, in breve, come la piccola cerchia di creature e di consuetudini di cui egli era il centro, sarà colpita dalla sua partenza. Una certa vanità morbosa, in definitiva, è quanto sta al fondo della sua decisione. Ma come può raggiungere il suo fine? Non certo restando chiuso in questo confortevole alloggio, dove, benché dorma e si svegli nella strada vicina a casa sua, egli si trova in realtà tanto lontano come se a gran velo­cità la carrozza postale

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lo avesse fatto correre per tutta la notte. E tuttavia, se mai dovesse decidersi a farsi vivo, tutto il suo progetto crollerebbe di colpo. Il suo povero cervello è irrimediabilmente invischiato in questo dilemma, e alla fine osa avventurarsi fuori, quasi deciso a spingersi fino all’estremità dell’incrocio della strada, e a gettare una frettolosa occhiata al suo domicilio abbandonato. L’abitudine (è un uomo abitudinario) lo prende per mano e lo guida, senza che egli se ne accorga, proprio davanti alla porta di casa sua, dove, esattamente nel momento critico, è come risvegliato dallo sfregamento del piede contro lo scalino. Wakefield, dove stai andando? In quell’istante il suo destino ruota come attorno a un perno. Ben lungi dall’immaginarsi il destino cui quel suo primo passo indietro lo avrebbe condotto, fugge via, senza respiro, con un’agitazione prima di allora mai provata, ed appena osa volgere il capo quando ha ormai raggiunto quel discosto angolo della strada. È forse possibile che nessuno lo abbia visto? Tutti gli abitanti della casa, l’onesta signora Wakefield, l’allegra cameriera e lo sporco piccolo lacchè, non leveranno un grido e un urlo, per tutte le strade di Londra, per inseguire il loro fuggiasco padrone e signore? Miracolosa fuga! Prende coraggio per fermarsi e guarda verso casa, ma resta come perplesso, avvertendo una specie di cambiamento nell’edificio familiare così ben noto, come noi tutti avvertiamo quando, dopo una lontananza di mesi o di anni, vediamo di nuovo una montagna o un lago, o un’opera d’arte che avevamo conosciuto molto tempo fa. Nei casi ordinari, questa indescrivibile sensazione è provocata dal conforto e dalla dissonanza tra i nostri imperfetti ricordi e la realtà. In Wakefield, invece, la magia di una sola notte

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cadillac 20e - post 5 ha operato questa trasformazione, perché, in quel breve periodo, egli ha subito un grande cambiamento morale. Ma questo è per lui ancora un segreto. Prima di lasciare quel luogo, da lontano è in grado per un momento di scorgere la moglie, mentre passa davanti alla finestra centrale, col viso rivolto verso il fondo della strada. Furbescamente quello sciocco se la batte, impaurito all’idea che, tra tante migliaia di mortali simili ad atomi, l’occhio di lei possa averlo individuato. E felice in cuor suo, per quanto il cervello sia tutto in subbuglio, quando si ritrova davanti al focolare di torba del suo nuovo appartamento. Ciò per quanto riguarda il principio di questo capriccio di lunga durata. Dopo l’idea iniziale, e lo sforzo di quest’uomo dal torpido temperamento per metterla in pratica, tutta la questione si evolve secondo un decorso naturale. Possiamo immaginar quest’uomo, che, come risultato di profonde meditazioni, acquista una nuova parrucca di color rossiccio, si sceglie qualche abito di un tipo diverso dal suo consueto marrone, nel negozio di un rigattiere ebreo. È fatta. Wakefield è un altro uomo. Stabilito ora il nuovo sistema di vita, ritornare all’antico sarebbe quasi altrettanto difficile del passo che lo ha portato in questa singolarissima posizione. Inoltre, egli è reso caparbio da una scontrosità saltuariamente insita nel suo carattere, e in questa persiste a causa dell’impressione di non aver prodotto nel cuore della signora Wakefield un effetto sufficiente. Non tornerà indietro fin quando non si sia quasi spaventata a morte. Bene; due o tre volte gli è passata davanti agli occhi, ogni volta con un passo più pesante, le guance più pallide e Io sguardo più ansioso; e nella terza settimana dalla propria scomparsa

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egli scorge entrar nella casa un presagio di malaugurio, sotto l’aspetto di un farmacista. Il giorno dopo il battente viene felpato. Al cader della notte giunge la carrozza di un medico, e deposita il suo carico solenne ed imparruccato alla porta di Wakefield, donde, dopo una visita di un quarto d’ora, emerge, forse araldo di un funerale. Povera donna! Ne morrà? Nel frattempo però, Wakefield è eccitato da qualche cosa di simile a un’alterazione dei sentimenti, ma ancora resta lontano dal capezzale della moglie, giustificandosi di fronte alla propria coscienza con il fatto che in una simile situazione ella non dev’essere disturbata. Se vi sono altre cose che lo trattengono, egli non ne è conscio. Nel corso di poche settimane la donna lentamente migliora; la crisi è superata; il suo cuore è triste, forse, ma tranquillo; e, sia ch’egli ritorni presto o tardi, non si farà venire più la febbre per lui. Queste idee baluginano nella nebbia che ottenebra la mente di Wakefield, e lo rendono vagamente conscio che un baratro quasi incolmabile divide l’appartamento d’affitto dalla sua antica dimora. « Non è che la strada accanto! » dice tra sé qualche volta. Povero sciocco. È in un altro mondo. Finora ha procrastinato il suo ritorno da un giorno all’altro; d’ora innanzi egli trascura di precisarne la data. Domani no, probabilmente la settimana prossima, molto presto, insomma. Pover’uomo! I morti hanno quasi altrettante possibilità di rivedere le loro dimore terrene di quante ne abbia Wakefield dal suo volontario esilio. Avessi la possibilità di scrivere un in-folio, invece d’un racconto in dodici pagine! Allora potrei con un esempio spiegare come un influsso che non è sotto il nostro individuale controllo prenda nelle sue forti mani tutto quello che noi facciamo, e ne intrecci le conseguenze nel

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cadillac 20e - post 5 ferreo tessuto della fatalità. Wakefield è legato come da un incantesimo. Ora dobbiamo lasciarlo, per circa dieci anni, vagolare attorno alla sua casa, senza mai varcarne la soglia, neppure una volta, restando fedele a sua moglie, con tutto l’affetto di cui il suo cuore è capace, mentre lentamente la sua immagine sbiadisce nel cuore di lei. Da molto tempo, lo si deve notare, non si rende più conto della stranezza della sua condotta. Ed ora la scena madre! Tra la folla di una strada di Londra distinguiamo un uomo, incamminato ormai alla vecchiaia, con poche caratteristiche che possano attirare l’attenzione di osservatori distratti, tuttavia recando, in tutto il suo aspetto, i segni di un destino non comune, per quelli che hanno l’abilità di saperli capire. È magro; la sua fronte bassa e stretta è solcata profondamente di rughe; gli occhi, piccoli e spenti, si guardano qualche volta attorno con apprensione, ma più spesso sembrano rivolti a un’intima introspezione. China il capo e si muove con una singolarissima obliquità di andatura, come se non volesse del tutto esporre alla gente il proprio aspetto. Esaminatelo abbastanza a lungo per osservare quanto abbiamo descritto, e voi pure dovrete riconoscere che le circostanze, le quali spesso producono uomini notevoli con la normale opera della natura, hanno qui creato un uomo come lui. Poi, lasciandolo al suo procedere furtivo lungo i muri, volgete gli occhi nella direzione opposta, da dove una donna ben portante, evidentemente al declinare della vita, con un libro di preghiere in mano, si dirige verso la chiesa laggiù. Ostenta il placido aspetto della vedova rassegnata. I suoi rimpianti o sono finiti o sono diventati così essenziali per il suo cuore, che difficilmente essi sarebbero da lei barattati con una gioia

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qualsiasi. Proprio mentre l’uomo magro e la donna di buon carattere stanno passando, ha luogo un lieve intoppo, che porta le due persone a contatto l’una dell’altra. Le loro mani si sfiorano; la pressione della folla spinge il seno di lei contro la spalla di lui; i due si fermano, a faccia a faccia, guardandosi l’un l’altro negli occhi. Dopo dieci anni di separazione, cosi Wakefield incontra sua moglie! La folla li allontana, e li separa nettamente. La tranquilla vedova, riprendendo il passo abituale, avanza verso la chiesa, ma si ferma sotto il portale, e lancia uno sguardo perplesso lungo la strada. Ella entra, tuttavia, aprendo il suo libro di preghiere mentre procede. E l’uomo! Con un viso così sconvolto che l’affaccendata ed egoistica Londra si ferma a guar­darlo, torna in fretta al suo alloggio, si sbarra la porta alle spalle, e si getta sul letto. La latente consapevolezza di quegli anni perduti prorompe in lui; la sua debole mente riceve da tale sferzata una breve energia; tutta la miserabile stravaganza della sua vita gli si rivela in un lampo; e a gran voce si lamenta, appassionatamente; Wakefield, Wakefield! Tu sei pazzo! Forse lo era realmente. La singolarità della sua situazione deve averlo così completamente plasmato nella propria stravagante matrice, che, posto a confronto con gli altri suoi simili e col normale andamento della vita, si potrebbe dire egli non possieda un sano equilibrio mentale. È riuscito, o piuttosto gli è accaduto, di separarsi dal mondo, di svanire, di abbandonare il suo posto ed i suoi privilegi tra i viventi, senza venir per questo ammesso tra i defunti. La vita dell’eremita non è per nulla simile alla sua. Era nel vortice della città, come nei tempi passati; ma la folla gli e passata vicino senza neppure sfiorarlo; egli era vissuto, possiamo in un certo senso dirlo, sempre

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cadillac 20e - post 5 accanto a sua moglie ed al suo focolare, eppure non doveva sentire ne il calore dell’uno, ne l’affetto dell’altra. Il destino senza precedenti di Wakefield consisteva nel mantenere la sua pane originaria delle simpatie umane, e nell’essere ancora coinvolto negli interessi umani, mentre egli aveva perduto la propria influenza su quelli. Sarebbe una curiosa esperienza speculativa delineare gli effetti di simili circostanze sul suo cuore e sulla sua intelligenza, sia separatamente, sia all’unisono. Eppure. per quanto fosse cambiato, ben di rado se ne accorgeva, ma si considerava lo stesso uomo di un tempo; sprazzi della verità, certo, lo avrebbero colpito, ma soltanto per un momento; e nondimeno doveva continuare a dire: « Tornerò presto! » senza pensare che ripeteva questa frase ormai da venti anni. Capisco, anzi, che questi venti anni dovevano sembrargli, visti retrospettivamente, appena più lunghi della settimana a cui Wakefield aveva in un primo tempo deciso di limitare la sua assenza. Doveva considerare questa faccenda come_un intermezzo tra le principali questioni della sua vita. Quando, dopo un ulteriore lasso di tempo, avesse ritenuto che era giunta ormai l’ora di tornare nel suo salotto, sua moglie avrebbe battuto le mani di gioia, nello scorgere quel signor Wakefield di mezza età. Ohimè, che errore! Se il tempo attendesse la fine delle nostre predilette follie, potremmo esser giovani, noi tutti, sino al giorno del giudizio. Una sera, dopo venti anni da quando era scomparso, Wakefield sta facendo la solita passeggiata verso la casa che ancora considera sua. È una ventosa sera di autunno, con frequenti scrosci di pioggia che si riversano sul selciato, e già son finiti prima che si sia potuto aprir l’ombrel-

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lo. Fermandosi vicino a casa, Wakefield scorge, attraverso le finestre del salotto del pianterreno, il rosso bagliore e la guizzante luce e gli sprazzi di fiamma di un focolare invitante. Sul soffitto compare una grottesca ombra della buona signora Wakefield. La piccola cuffia di naso e il mento, e la grossa vita formano un’ammirevole caricatura, che danza, per di più, con il vivificarsi in alto e con il diminuire della fiamma, in maniera quasi troppo gaia per l’ombra di un’anziana vedova. In quell’istante si dà il caso che un rovescio di pioggia stia cadendo e venga gettato, da una sgarbata raffica, proprio sul volto e sul petto di Wakefield. Si sente penetrare fino alle ossa dal freddo autunnale. Resterà lì, bagnato e tremante, quando la sua casa ha un buon fuoco per riscaldarlo, e sua moglie correrà a prendergli la veste da camera grigia e la biancheria personale, che, senza dubbio, ha tenuto accuratamente nell’armadio della loro camera da letto No! Wakefield non è così pazzo. Sale gli scalini, pesantemente, perché venti anni gli hanno reso più rigide le gambe da quando li ha discesi per l’ultima volta, ma lui non lo sa. Fermati, Wakefield! Vuoi proprio recarti alla sola casa che ti rimasta? Allora muovi i tuoi passi verso la tomba! La porta si apre. Mentre entra, mentre diamo un ultimo sguardo al suo volto, riconosciamo quell’astuto sorriso che era stato il segno premonitore del piccolo scherzo che aveva ordito alle spese della moglie. Con quanta poca pietà ha messo nell’imbarazzo la povera donna! Bene, un augurio di buona notte a Wakefield! II felice avvenimento, ammesso che sia stato tale, può essere capitato soltanto all’improvviso, senza premeditazione. Noi seguiremo il nostro amico oltre la soglia. Ci ha lasciato abbastanza per alimentare i nostri pensieri,

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cadillac 20e - post 5 una parte dei quali potrà fornire la propria saggezza ad una morale, ed essere ridotta in una forma più concreta. Nell’apparente confusione del nostro mondo misterioso, vi sono individui che tanto esattamente si adattano ad un sistema, e i sistemi l’uno all’altri e ad un tutto organico, che, se compie per solo un momento un passo falso, un uomo si espone al terribile rischio di perdere per sempre il proprio posto. Come Wakefield, egli può trasformarsi, per così dire, nel fuorilegge dell’universo.

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