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Sommario
3 Introduzione, di Carla Romagnino
Le relazioni
Le relazioni
11 Premessa, di Davide Peddis 15 La luce, di Ugo Galassi 25 Ettore guarda il mare, di Juan José Gómez Cadenas 34 La matematica è parte di noi, di Ana Millán Gasca 41 Il calore della terra da argomento di dibattito scientifico a risorsa energetica, di Giacomo Oggiano 49 Chimica: una scienza impura?, di Italo Ferino 59 Albert Einstein, pacifista, di Pietro Greco 66 L’immaginazione nella scienza, di Vincenzo Schettino 77 Nodi, Trecce & Numeri, di Maria Becchere, Giorgio Erby, Luisanna Pani
I laboratori
I laboratori
87 Chimica: la nostra vita, il nostro futuro 90 La luce sorgente primaria di energia 91 Nodi, Trecce & Numeri 92 Geo-Labs
I laboratori per bambini 95 La meraviglia della scoperta 99 Fantavolando: scienza e favole I laboratori per bambini
Le mostre e gli spettacoli
Le mostre e gli spettacoli
105 Percorsi elettrici: Mostra storica e laboratorio interattivo 109 I classici della scienza 111 SiComeLuce
Percorsi naturalistici e botanici 115 Percorsi naturalistici
Testimonianze 121 Testimonianze
129 Gli autori - I curatori
Carla Romagnino
LA MERAVIGLIA DELLA SCIENZA a cura di Davide Peddis e Carla Romagnino
Introduzione
FESTIVAL DELLA SCIENZA Cagliari, novembre 2015 Editore
Via Alghero, 37 - 09127 Cagliari www.scienzasocietascienza.eu presidente@scienzasocietascienza.eu Comitato per le manifestazioni SCIENZAsocietàSCIENZA Carla Romagnino, presidente Maria M. Becchere, CRSEM Laura Bifulco, ANISN Viviana Fanti, Dip. Fisica UniCa, INFN Ca, AIFM Sardegna Ugo Galassi, AIF Maria Vittoria Massidda, DD-SCI Ettorina Montisci, AIF Davide Peddis, ISM-CNR Roma, DD-SCI Elisabetta Piro, ANISN Francesca Puggioni, MIUR
Il CagliariFestivalScienza 2015 è stato insignito del riconoscimento EFFE Label 2015-2016 dalla giuria internazionale EFFE per i migliori Festival europei
Partner Istituzionali MIUR, Ministero Istruzione Università Ricerca Regione Autonoma della Sardegna Assessorato della Pubblica Istruzione Assessorato del Turismo Comune di Cagliari Assessorato alla Cultura Università degli Studi di Cagliari Fondazione Banco di Sardegna Sardegna Ricerche INFN, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare CRS4 INAF, Istituto Nazionale di Astrofisica Osservatorio Astronomico di Cagliari © 2016
Progetto grafico Aldo Brigaglia Impaginazione Eidos, Cagliari Stampa Nuove Grafiche Puddu, Senorbì
Si ringraziano tutti coloro che a vario titolo hanno fornito le fotografie, Ugo Galassi, Giuseppe Murru, Sonia Egizio. Per le fotografie che corredano gli articoli si ringraziano gli autori. In copertina: un’opera di James Turrell
Con questa pubblicazione il Comitato SCIENZAsocietàSCIENZA desidera illustrare le esperienze maturate in sedici anni di lavoro nel campo della divulgazione scientifica. Gli esempi delle attività svolte, riferiti in particolare al festival 2015, assolvono al compito di valorizzare la cultura scientifica in Sardegna. La storia del Comitato ha inizio nel 2000. Il 18 novembre di quell’anno sia L’Unione Sarda che La Nuova Sardegna annunciano con due lunghi articoli l’apertura della “Settimana della Scienza” prevista per il giorno 21. È infatti nato quell’anno il Comitato SCIENZAsocietàSCIENZA allo scopo di sostenere il progetto dell’università elaborato qualche anno prima e teso a sostenere la creazione di un Centro della Scienza nella città di Cagliari. Questo Comitato si prefigge il compito di organizzare eventi che facciano vedere che cosa si intende e che cosa si
deve fare dentro un Centro della Scienza. Negli articoli di cui sopra sono riportati gli stralci più significativi degli interventi tenuti durante la conferenza stampa dai promotori del Comitato (Carla Romagnino, Guido Pegna e Ugo Galassi), dall’Assessore alla cultura del Comune dott. Gianni Filippini e dal Rettore dell’Università prof. Pasquale Mistretta. Qualche giorno dopo entrambi i quotidiani danno notizia di una lettera scritta al Magnifico Rettore dal dott. Filippini nella quale si afferma l’ineludibile necessità di un Centro della Scienza per la Sardegna. “Per dare una testimonianza all’opinione pubblica dei successi raggiunti dalla nostra università … in campo scientifico e per favorire l’interesse dei giovani per la Scienza”. Da allora, tutti gli anni, il Comitato ha continuato a organizzare le settimane della scienza e puntualmente ogni anno, in oc3
casione delle aperture delle varie edizioni, sui quotidiani locali si riparla della necessità di creare un Centro della Scienza e si dà conto degli impegni di questo o quel rappresentante delle istituzioni che individuano nel Parco di Monte Claro o nella ex vetreria di Pirri la sede più adatta per ospitare il Centro della Scienza. Nel 2003 viene perfino presentata una proposta di legge per la Istituzione della Fondazione culturale “Centro regionale della scienza in Sardegna”, primo firmatario il consigliere regionale Carlo Dore, cofirmatari altri 42 consiglieri tra maggioranza e opposizione. Grande folla di giornalisti alla conferenza stampa indetta per l’occasione e ampio spazio sui quotidiani il giorno successivo. Nel 2004 col sostegno della Fondazione Banco di Sardegna a cura del Comitato viene pubblicato un volumetto in cui si descrivono le nostre attività e in cui si ribadisce
l’importanza e quindi la necessità di un Centro della Scienza. I giornali informano del convegno organizzato per la presentazione di questo libro e L’Unione Sarda, in una ampia pagina del 25 marzo dedicata alla ricerca scientifica, ripropone il problema titolando “SOS degli scienziati, creiamo un centro della scienza” e ricordando la proposta di legge dell’anno precedente che non era stata discussa in aula e che mai verrà discussa. Siamo infatti ormai agli sgoccioli della XII Legislatura. L’appello viene raccolto da Polaris che insieme al nostro Comitato nell’ottobre 2006 organizza un bel convegno dal titolo “La diffusione della cultura scientifica e i centri della scienza”. Per questo convegno arrivano a Pula relatori importanti: Manuela Arata presidente e anima del Festival della Scienza di Genova, Paola Rodari della SISSA di Trieste esperta e ricercatrice di museologia scientifica. Si cerca di chiarire la funzione che nel mondo stanno assumendo queste strutture per la valorizzazione della ricerca scientifica. All’interno del convegno una tavola rotonda sul tema “Un Centro della Scienza in Sardegna: una scommessa importante per il territorio”. Tutti i presenti alla tavola concordano sulla necessi-
tà di poter disporre di un centro della scienza e gli amministratori presenti danno tutti la loro disponibilità per lavorare su questo. E si individua nella ex manifattura tabacchi una possibile ennesima sede. Come testimonia la stampa locale. L’anno successivo la settimana della scienza, che comincia ad avere anche il sostegno economico del MIUR, fu inaugurata da Luigi Berlinguer, ministro dell’università e della pubblica istruzione. A questa inaugurazione ci fu una grande presenza di politici, anche se su fronti opposti e in polemica fra di loro, l’assessore Pellegrini e il presidente della Regione Soru affermano che “urge cambiare mentalità” e prendere atto della necessità di un Centro della Scienza. I giornali ribadiscono. Nel 2008 nasce a Cagliari il Festival della Scienza e sempre, ad ogni tavola rotonda, ad ogni incontro con gli amministratori, ad ogni conferenza stampa il nostro Comitato non si stanca di ribadire l’importanza del Centro. Siamo arrivati al 2016, SCIENZAsocietàSCIENZA sta per varare la nona edizione del festival e, purtroppo, ancora nessun amministratore ha voluto prendere l’iniziativa di organizzare una conferenza di servizi che crei una si4
nergia e dia l’avvio a uno studio di fattibilità del progetto di realizzare il sospirato Centro. Noi però andiamo avanti, convinti come siamo che la diffusione della cultura scientifica sia importante per le ragioni che cerco di spiegare qui sotto. Le testimonianze riportate in questa pubblicazione, nelle interviste alla Rettrice Maria Del Zompo e al direttore del Muse di Trento, evidenziano come ancora oggi la creazione di un centro della scienza in Sardegna sia in cima ai nostri pensieri. La scienza è spesso guardata dall’uomo comune con estrema diffidenza ed è considerata un campo di ricerca riservato esclusivamente agli specialisti. Si dimentica in tal modo che la scienza e la tecnologia costituiscono un fattore importante per lo sviluppo di tutte le società industriali. Da qui una sorta di istintivo rigetto nei confronti della scienza in genere e della cultura scientifica in particolare. La scienza è vista come potenzialmente dannosa. Di conseguenza il consenso e la mobilitazione della società civile italiana (e sarda in particolare) a sostegno della scienza appaiono molto limitati, soprattutto se con-
frontati con quella mobilitazione, assai più consistente, orientata a ridurne il campo di azione, per pretestuose ragioni di natura etica o ambientale. Si ha paura delle nuove acquisizioni della scienza e della tecnologia, non si rispettano a sufficienza gli scienziati che talora sono assimilati a stregoni e allo stesso tempo si ricorre ad oroscopi, cartomanti, guaritori. Fumetti, cinema, disegni animati dipingono una figura di scienziato talora svampito e disordinato, talora come un lucido e razionale produttore del conoscere, freddo calcolatore privo di sentimenti o, magari, al soldo di fantomatiche multinazionali. Esiste, allora, questo profondo contrasto tra la dimensione sempre più rilevante delle scienze che in modo impetuoso stanno determinando una totale trasformazione delle condizioni di vita delle persone, dell’ambiente, del sistema produttivo e la scarsa consapevolezza della loro importanza e delle loro implicazioni ad ogni livello. Il paradosso è che le conoscenze scientifiche non fanno parte del sapere comune e di conseguenza non sono soggette a “critica” consapevole e si lascia che le trasformazioni determinate dalla scienza siano “imposte” alla società salvo
poi fare dell’allarmismo ingiustificato o per lo meno non poggiato su basi solide e convincenti. Per affrontare questo problema è evidente che il livello di fiducia e approvazione nei confronti dello sviluppo scientifico sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà la conoscenza dei suoi contenuti e dunque occorre incrementare il grado di conoscenza delle discipline scientifiche e migliorare il modo di insegnarle a scuola, facendo capire ai giovani che la scienza non è noiosa, non è fatta di formule e dogmi e presentandola in modo piacevole e accattivante così che sia fonte di curiosità e incentivo al fare. Ma, come dice il noto giornalista scientifico Pietro Greco, uno dei prestigiosi autori di questa pubblicazione, non c’è scienza se non c’è comunicazione della scienza. La storia ce lo insegna: se Galileo non ne avesse dato immediata diffusione attraverso il libro Sidereus Nuncius probabilmente le sue osservazioni col cannocchiale del 1609 non avrebbero avuto l’effetto dirompente che ebbero. In realtà il dovere è duplice: gli scienziati hanno il dovere di comunicare i loro risultati, il pubblico ha il dovere di acquisire il massimo di conoscenze in merito a questioni scientifiche che, spesso, è obbli5
gato a dibattere e risolvere come è successo nel referendum sulle cellule staminali embrionali o quello sull’utilizzo del nucleare o nelle posizioni da assumere su inceneritori o vaccini. Questo dovere è, in realtà, un diritto democratico fondamentale. Perché la scienza ha la capacità di modificare in profondità non solo la nostra vita quotidiana, ma anche quella di chi verrà dopo di noi e dell’intero pianeta. Dovremmo allora sperare che nella società si diffonda quella che è stata chiamata la Cittadinanza Scientifica, cioè che si attui un processo partecipativo che favorisca il consenso, e il sostegno dei cittadini alla cultura, alle pratiche e alle comunità della scienza e della tecnica in un contesto democratico. Perché questo accada occorre promuovere iniziative volte al riconoscimento sociale e al sostegno dei ricercatori nei vari settori scientifici per dare una immagine realistica del loro lavoro e sperimentare forme di partecipazione dei cittadini ai processi decisionali relativi alla scienza e alla tecnologia. Ma, soprattutto potenziare i luoghi deputati alla divulgazione scientifica come i Musei scientifici e i Science Center e incoraggiare la realizzazione di eventi culturali
come i Festival che mettano i cittadini in contatto con chi la scienza la produce. È inoltre auspicabile incentivare la pubblicazione di articoli di carattere scientifico e la produzione di servizi televisivi che sappiano porre sul giusto piano la parola degli esperti. Negli eventi culturali da noi organizzati abbiamo puntato soprattutto su tre aspetti: la valorizzazione dell’indagine sperimentale, l’accento sulla unicità della cultura e quindi sul superamento della dicotomia cultura scientifica/ cultura umanistica, la promozione della lettura. Tutte le discipline scientifiche sono presenti in un intreccio continuo tra fisica, chimica, matematica, biologia ma anche arte, musica, letteratura, teatro. Facendo lo sforzo di trovare sempre che cosa può interessare, delle conoscenze scientifiche, tutti i cittadini, dall’avvocato al bancario, dall’economista all’imprenditore, dal politico al sacerdote, dall’insegnante all’allievo. Ogni qualvolta si organizza un evento, forte ed evidente emerge la contraddizione fra lo scarso interesse dei giovani verso gli studi scientifici e l’interesse e la curiosità per questi eventi. La mancanza della pratica sperimentale a scuola è probabilmente uno dei fattori principali delle
carenze cognitive e dello scarso interesse degli studenti verso la scienza e c’è la necessità di stabilire un raccordo con le discipline umanistiche e collocare la nascita dei concetti, delle teorie e delle invenzioni nel loro contesto culturale e sociale, per rendere evidente il ruolo della scienza e della tecnologia nell’attività intellettuale del genere umano. Purtroppo le indagini comparative internazionali dimostrano che il nostro Paese è largamente carente, già a partire dalla scuola secondaria, di una adeguata cultura scientifica e tecnologica di massa. L’ormai famosa indagine PISA1, nata dalla consapevolezza che la cultura scientifica e tecnologica sono necessarie in una moderna società democratica, valuta in generale quel che gli studenti dovrebbero sapere ed essere capaci di fare in situazioni che “hanno a che fare” con la scienza e la tecnologia. Secondo questa indagine il nostro Paese si colloca per la matematica, le scienze e il problem solving agli ultimi posti fra i Paesi europei analizzati. E se i risultati dei giovani italiani in queste indagini sono scadenti, quelli ottenuti 1 Program International Students Assessment (Programma Internazionale per la Valutazione degli Studenti)
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in Sardegna addirittura disastrosi. Ciò è tanto più grave considerata la presenza, sul territorio regionale, di centri di ricerca e poli di eccellenza, pubblici e privati, dalle Università al parco scientifico e tecnologico. Presenza che si scontra con la carenza, sul territorio, di figure professionali che dovrebbero portare questi centri a svilupparsi e farsi conoscere in contesti più vasti. La ricerca non appare “appetibile” ai giovani sardi e non sono state sufficientemente curate politiche regionali di promozione della cultura scientifica. Si è sostanzialmente lasciato ad associazioni e comitati locali il compito di realizzare progetti finalizzati alla diffusione della cultura scientifica. Tali organismi – tra questi SCIENZAsocietàSCIENZA –, composti prevalentemente da insegnanti, hanno svolto questo impegnativo ruolo di supplenza grazie all’impegno appassionato dei loro componenti. Durante il Festival si hanno a disposizione gli exhibits, oggetti che sviluppano curiosità e possono essere toccati e utilizzati dal pubblico, o laboratori interattivi nei quali eseguire esperimenti sui fatti della scienza, ma anche attività che contribuiscano a rivisitare la storia della scienza dalle origini ad oggi e quindi a svolgere anche
un compito di carattere squisitamente culturale attraverso percorsi che aiutino a vedere la scienza come un prodotto della mente dell’uomo, così come lo sono una poesia o un’opera d’arte. Particolare cura è dedicata ai più piccoli per i quali l’approccio è di tipo prevalentemente ludico e sensoriale. Attraverso “giochi” scientifici smontabili e facilmente ricomponibili la scienza viene presentata sotto forma di gioco in modo da stimolare e incoraggiare il naturale desiderio di apprendimento che è in ogni bambino. Tutti questi giochi e, in generale, gli
exhibits e gli esperimenti di laboratorio, sono corredati da schede esplicative che facilitano la comprensione dei temi e, soprattutto, che possono in seguito essere approfonditi nell’ambiente classe. Per cogliere tempestivamente i cambiamenti scientifici e tecnologici della società contemporanea, all’interno della manifestazione si organizzano seminari che permettano di conoscere gli sviluppi delle varie discipline chiamando a Cagliari personalità di rilievo e incontri dibattito mattutini a tema, dove i giovani, preventivamente preparati dai loro insegnanti, possono dibat-
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tere con i ricercatori su argomenti di attualità legati alle scienze. Infine, durante il festival, abbiamo alcune attività più informali come i Science Café, appuntamenti sotto forma di conversazioni sulla scienza, sulle implicazioni anche sociali dei risultati scientifici e delle loro applicazioni tra un caffé e un aperitivo o gli spettacoli teatrali dove il linguaggio della scienza si fonde con quello del teatro, della musica e della danza. Questa pubblicazione documenta con esempi illuminanti le attività promosse dal Comitato SCIENZAsocietàSCIENZA.
Le relazioni
Davide Peddis
Premessa
La Meraviglia. “Sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata”. Questa è la definizione data dalla Treccani di una componente emozionale che da sempre è considerata parte essenziale per l’evoluzione intellettuale dell’umanità. Platone metteva la meraviglia alla base dello sviluppo della filosofia: “È proprio del filosofo essere pieno di meraviglia: e il filosofare non ha altro cominciamento che l’essere pieno di meraviglia” i. Sulla stessa linea il suo discepolo prediletto, Aristotele, ribadiva: “…gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia” ii. È interessante osservare che nel pensiero dei due filosofi greci il termine meraviglia traduce, in modo sicuramente non esaustivo, la parola greca thauma (θαὺμα) che ha un significato più
profondo e articolato. Ancora Aristotele ci aiuta a capire meglio il significato della thauma “mentre da principio [gli uomini] restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo” iii. Ecco come lo stupore, la sorpresa, la meraviglia nel senso comune del termine, per i fenomeni naturali diventa sgomento, quasi angoscia di fronte alla sproporzione tra l’immensità della natura e la finita condizione umana. Nello stesso passo della metafisica, il filosofo greco precisa che “chi prova un senso di dubbio e di thauma riconosce di non sapere [...]. La meraviglia, che diventa sgomento di fronte alla grandezza della natura, genera il dubbio, l’innata tendenza di 11
un essere pensante a porsi delle domande su sé stesso e sul mondo in cui vive. Lo stesso essere pensante tende a profondere ogni sforzo per dare una risposta a tali domande, ed ecco l’impulso allo sviluppo della conoscenza. Nell’ultima parte del famoso testo di Aristotele viene introdotto un altro elemento di enorme interesse e di grande attualità: “... se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica”. La forte spinta che è alla base del progresso della conoscenza, la thauma, non è necessariamente legata ad una qualche applicazione, ma il fine ultimo è lo sviluppo del sapere. Questo tema è, a mio parere, di grande attualità in ambito scientifico, perché oggi la ricerca, e molto spesso lo stesso modo di divulgare la scienza, è esclusivamente legato ad aspet-
ti applicativi, che assolutamente devono essere presenti, ma che non possono condizionare in modo univoco lo sviluppo scientifico del nostro tempo. Dopo queste poche righe spero che risulti chiaro al lettore, come il titolo di questa pubblicazione, che ricalca quello del Festival Scienza Cagliari 2015, sia molto più ricco di significati di quanto possa apparire ad un primo sguardo. Gli articoli riportati in questa sezione nascono da alcune conferenze tenute durante il festival, e declinano in modo davvero esaustivo il concetto di thauma, affrontandolo in tutti i suoi aspetti. Partendo dal significato più spontaneo, più immediato, l’articolo di Vincenzo Schettino ci racconta come sia proprio la sensazione di stupore di fronte ad un fenomeno naturale a dare avvio ad un processo creativo, che nell’arte come nella scienza è pesantemente governato dall’immaginazione iv. Nello stesso articolo è affidato ai versi di Hugh MacDarming il compito di descrivere come lo stupore che deriva dall’osservazione di un certo fenomeno si trasformi in una sensazione piena di meraviglia in seguito alla comprensione del fenomeno stesso:
Le meravigliose relazioni mostrate solo dalla biochimica prendono il posto di uno stupefatto senso di meraviglia perché naturali e comprensibili. La natura è più meravigliosa se è almeno in parte compresa.
All’interno di questo quadro di riferimento, Schettino ci dà conto del percorso creativo, e quindi emozionale, di grandissimi scienziati che hanno offerto un enorme contributo allo sviluppo della chimica. Ancora le parole di Mark Akenside chiariscono e dettagliano meglio questo collocazione della thauma tra osservazione e comprensione della natura: L’arcobaleno non è mai stato così piacevole come quando la prima volta la mano della scienza ha indicato la strada con la quale i raggi del sole cadono sulla nebbia d’acqua.
Le parole del poeta e medico inglese sembrano scritte per introdurre l’articolo curato da Ugo Galassi, con il coinvolgimento attivo di studenti e docenti di un liceo scientifico cagliaritano. Galassi scrive del percorso storico e sperimentale da lui ideato per raccon12
tare di diffrazione, dispersione, riflessione e di tutti i segreti della luce. La presentazione di questo lavoro nel 2015, anno internazionale della luce, ne esalta caratteristiche e peculiarità. L’articolo di Giorgio Erby, Maria Becchere, Luisanna Pani, su Nodi, Trecce & Numeri è collegato a questa sensazione piena di meraviglia che deriva dall’osservazione associata alla comprensione. Così Nodi e trecce, che certamente possono avere a seconda della loro complessità e del contesto in cui vengono osservati un forte impatto visivo, generando magari stupore e sorpresa nell’osservatore, vengono raccontati e spiegati in termini matematici. Vale la pena ricordare che i tre matematici sardi hanno ulteriormente valorizzato questa speciale connessione tra osservazione e comprensione, organizzando anche un laboratorio in cui nodi e trecce sono diventati oggetto di attenzione pratica da parte di scolari di diverso ordine e grado. Un nodo o una treccia può essere bello ma certamente è utile. Se personalmente concordo sul fatto che la meraviglia, nel senso più ampio, aristotelico, di thauma, debba essere considerata motore dello sviluppo del “sapere e non per conseguire qualche utilità prati-
ca”, ritengo che questo concetto non possa essere considerato esclusivo. Le ricadute applicate dello sviluppo scientifico, quando esso è sostenibile, rappresentano un frutto prezioso che va preservato. Questo elemento, che possiamo solo intravedere nell’articolo di Erby, Becchere e Pani è pienamente espresso da Giacomo Oggiano. Nel suo articolo Il professore sassarese chiarisce subito che “l’uomo si trova a dover scegliere tra utilità e rispetto ambientale” e si domanda retoricamente “possiamo conciliare la qualità dell’ambiente con l’esigenza di sfruttare risorse naturali a basso costo?”. Il contributo di Oggiano, che dopo una trattazione generale si concentra su problemi di carattere locale, conduce il lettore all’interno dello spinoso problema dello sviluppo sostenibile in ambito energetico, con particolare riferimento alla geotermia. La natura, che prima abbiamo osservato e compreso, diventa sorgente preziosa per il miglioramento della qualità della vita. Anche questa è Meraviglia. Ana Millán Gasca ci racconta la Matematica come “compagna dell’avventura umana“ e “come espressione della forza creativa nella quale riconosciamo la parte
migliore di noi stessi”. Ecco che la descrizione di Schettino sull’importanza del percorso creativo nello sviluppo della scienza chimica viene declinata in ambito matematico, con simboli e numeri, spesso visti solo come freddi ed insignificanti strumenti di calcolo, che diventano parte integrante dell’espressione della natura umana. Il piccolo principe, figlio della prosa di Saint-Exupéry, racconta: “Un giorno ho visto tramontare il sole”, non una, non quattro, non una decina ma esattamente “quarantatré volte”. Se l’osservazione e la comprensione della natura possono generare una sensazione piena di meraviglia, è altresì vero che tra “tutte le meraviglie della natura, la più sorprendente, è l’uomo” (Sofocle). In questo senso l’articolo scritto da Pietro Greco ci fornisce una prospettiva insolita su Albert Einstein: non strettamente legata ad aspetti scientifici, ma più focalizzata su aspetti umani e in particolare sulle sue posizioni pacifiste all’interno di un periodo della storia del mondo di straordinaria complessità in termini geopolitici. Tra le righe di questo pezzo troverete descritta la lungimiranza e genialità che Einstein ha dimostrato nello sviluppo della fisica, che diventa “una lucidità politica 13
tutt’altro che candida o banale” nel suo vivere la fase più rovente del XX secolo. Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti, diceva il geniale fisico tedesco. Trovo che questa definizione di meraviglia, intesa come linfa di vitalità intellettuale, sia stata alla base dell’innovazione che Einstein ha saputo dare in fisica e non solo. In questo senso illuminante è la chiusura dell’articolo di Greco, dove si ricorda che alla base della proposta di dismissione degli arsenali atomici che Gorbaciov, allora leader dell’Unione Sovietica, fece al suo omologo americano Ronald Reagan alle fine degli anni ottanta, vi era proprio la lettura dei testi di Einstein, scritti molti anni prima. Italo Ferino, a cominciare dal punto interrogativo presente nel titolo del suo articolo, completa la descrizione della thauma aristotelica, raccontandoci la meraviglia quale sorgente di dubbio e quindi motore della conoscenza. La descrizione dell’impurezza della scienza chimica, dovuta alla sua natura tran-disciplinare, diventa il filo conduttore di un agile viaggio che descrive il ruolo della chimica nell’ambito delle scienze naturali. La conclusione dell’articolo, dominata ancora dal dubbio, dai punti
di domanda, è costruita attorno ad alcuni passi di Thomas Mann v: Che cos’è la vita? Non si sa. Non appena è vita, ha coscienza di sé, senza dubbio, ma non sa che cosa sia. Che cos’è la vita? Nessuno lo sa. Nessuno conosce il punto naturale da cui scaturisce, in cui si accende. Da quel punto in poi non c’è nulla di immediato o malmediato nell’ambito della vita. Che cos’è dunque la vita? È calore, il prodotto calorico di una sostanza sostenitrice di forme, una febbre della materia che coinvolge inarrestabile e inarrestabile accompagna il processo di una incessante dissociazione e ricostruzione di molecole d’albumina disposte con arte.
Eccolo il dubbio, le domande esistenziali che spingono l’uomo a
progredire nella conoscenza di sé e del mondo in cui vive. Le medesime domande che mettono in discussione la sua stessa esistenza, generando quel senso di angosciosa adrenalina, anch’esso parte della thauma aristotelica. Ferino prova a dare una risposta, affidandosi all’impurezza della chimica che la rende capace di muoversi tra le altre scienze. Anche l’articolo di Juan José Gòmez Cadenas contribuisce alla definizione angosciosa di meraviglia fornendoci un bello spaccato del percorso scientifico di Ettore Majorana, uno degli ultimi geni della fisica italiana. Questo ci porta a contatto con segreti più intimi della materia sub-atomica quindi sempre più vicino ai problemi, “problemi riguardanti la generazione dell’intero universo”. È sempre l’articolo di Schettino che ci aiuta a chiudere il cerchio,
con le parole del poliedrico pensatore William Blake.
Ugo Galassi
La luce
Vedere un mondo in un granello di sabbia e un cielo in un fiore selvatico. Tenere l’infinito nel cavo della mano e l’Eternità in un’ora.
Nonostante lo scrittore inglese volesse esprimere disprezzo per il metodo scientifico, a mio avviso in questi versi Blake è riuscito a sintetizzare la straordinaria complessità della Meraviglia della Scienza, raccontata in dettaglio dagli autori di questa sezione. i. Platone, Teeteto, 155 d. ii. Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, trad. Giovanni Reale. iii. Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, trad. Giovanni Reale. iv. V. Schettino, Scienza e Arte, Firenze University Press. v. Thomas Mann, La Montagna Incantata, Corbaccio Editore.
Intorno al VI secolo a.C. gli studiosi più che alla natura della luce erano interessati al processo della visione. Essi (probabilmente appartenenti alla scuola pitagorica) immaginarono che dagli occhi uscissero dei “bastoni” per scrutare gli oggetti intorno, in analogia con il cieco che per informarsi sulla forma di un oggetto la tocca più volte con il bastone. Questi scandagliatori emessi dagli occhi furono chiamati raggi visuali. Fu Euclide (circa 300 a.C.), nella sua Ottica, a definire il raggio visuale come privo di struttura fisica e a stabilire tutte le più importanti relazioni di natura ottica. Da uno dei suoi postulati o supposizioni è tratta la definizione di raggio visuale: La figura compresa da’ raggi visuali è un cono la cui punta è nell’occhio e la base è nell’estremità della cosa veduta.
Contributi alla teoria dei raggi visuali provengono da: Erone di Alessandria, vissuto nel I sec. dopo C., che si distinse perché ricavò la legge della riflessione da un principio di minimo: un raggio di luce congiunge la sorgente con un ipotetico bersaglio seguendo il percorso più corto; 14
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Abstract Questo articolo riassume il lavoro “Luce, teorie e percorsi” ideato e progettato da Ugo Galassi (A.I.F.) in collaborazione con Ettorina Montisci (A.I.F.), Maria Grazia Collu e Maria Giovanna Nurra (liceo Pacinotti). Per il Festival 2015 è stato preparato un gruppo di studenti: Basciu Arianna 1E, Deplano Loris 2E, Dore Mauro 3M, Fenocchio Alice 3B, Garau Francesca, Gobbetti Francesca 5D, Lippi Riccardo 5B, Magno Marco 4B, Manca Sara 3B, Matilde Pitzalis 2E, Matta Alessandro 3B, Matta Giovanni 5I, Meloni Eleonora 3B, Mereu Adele 4A, Mirasola Lorenzo 4L, Moi Enrico 2E, Orrù Daniele 3M, Pisani Martino 5F, Savastano Michele 2E, Schintu Nicola Sergio 5B, Sisto Mattia 3B, Usai Iulia 3B, Usai Riccardo 5L.del liceo Pacinotti che ha contribuito alla presentazione dei venti poster relativi alle teorie della visione e della luce e alla realizzazione sperimentale dei percorsi. Le due attività sono state evidenziate in parallelo. This article (paper) summarizes the work “Light, theories and pathways” that has been designed by Ugo Galassi (A.I.F.) in collaboration with Ettorina Montisci (A.I.F.), Maria Grazia Collu and Maria Giovanna Nura (Pacinotti high school). Some students attending Pacinotti high school have contributed to the creation of twenty posters and several experimental pathways related to the theories of vision and light. Students, also, helped to present poster and experiments during science festival Cagliari 2015 (students: Basciu Arianna 1E, 2E Deplano Loris, Dore Mauro 3M, Fenocchio Alice 3B, Garau Francesca, Francesca Gobbetti 5D, 5B Lippi Riccardo, Marco Magno 4B, missing Sara 3B, Matilde Pitzalis 2E , 3B Alessandro Matta, Matta Giovanni 5I, Meloni Eleonora 3B, 4A Mereu Adele, Mirasola Lorenzo 4L, Moi Enrico 2E, Daniele Orrù 3M, Pisani Martino 5F, Savastano Michele 2E, Schintu Nicola Sergio 5B, Sisto Mattia 3B, Usai Iulia 3B, Usai Riccardo 5L.)
Percorsi I percorsi sono stati effettuati dagli studenti del liceo Pacinotti Propagazione rettilinea
Nella foto degli studenti una conferma della propagazione rettilinea della luce con la formazione dell’ombra
La camera oscura nell’esperienza degli studenti per avallare il fatto che la luce si propaga in linea retta
Lo schema interpretativo in una vecchia stampa
Tolomeo (circa 100-168/178 d.C.), l’autore dell’Almagesto, che nella sua L’Ottica, redatta circa quattro secoli dopo Euclide, sviluppa su principi più generali l’idea dei raggi visuali, in particolare afferma che i raggi non sono discreti, ma riempiono il cono visivo con continuità. Tolomeo studiò la rifrazione della luce e pur non arrivando ad una legge generale ottenne importanti tabelle sperimentali tra angoli di incidenza e di rifrazione. La teoria dei raggi visuali ebbe un grande successo, fu importante per gli studi di prospettiva scenica e venne seguita per molti secoli. Minor fortuna ebbe la teoria immissionistica, più o meno coeva a quella dei raggi visuali o emissionistica. Il più rappresentativo degli atomisti, Democrito (circa 460- 370 a.C.) sosteneva che i corpi contenenti gli atomi e il vuoto emanano gli éidola, le “immagini” delle cose. Epicuro (341-270 a.C.) spiega la visione in termini di copie di dimensione atomica (éídōla) che si staccano continuamente dagli oggetti e sono proiettate verso l’esterno in tutte le direzioni. Anche Lucrezio (prima metà del I sec. a.C.), abbraccia la teoria immisionistica. Nella sua opera De rerum natura sostiene che dalla superficie dei corpi si staccano i simulacri, tenui effigi e labili immagini, impalpabili e invisibili. Entrando negli occhi sono sentiti visivamente in un modo simile a come sentiamo la forma con le mani. Comunque si propaga in linea retta ciò che esce dagli occhi o va verso gli occhi.
Dall’850 al 950 si ha un grande risveglio dell’attività intellettuale del mondo arabo, che già dal 627 dopo la conquista dell’impero persiano aveva apprezzato e diffuso la cultura greca. L’arabo sostituisce il siriaco nelle opere scientifiche e mediche e per tre secoli sarà la lingua internazionale della scienza. Attorno all’anno 1000, due secoli dopo al-Kindi e Hunain, importanti pensatori arabi traduttori delle opere greche, le teorie della visione cominciano ad essere messe in discussione. In particolare Abu Ali Hasan Ibn al Haithan (o Alhazen) (965-1040 d.C.) nella sua opera Ottica demolisce la teoria dei raggi visuali. Infatti 16
l’immagine non dovrebbe persistere dopo la chiusura degli occhi e non si dovrebbe provare dolore nell’osservazione diretta del sole. Al contrario, deve esserci un agente esterno che opera sull’occhio e lo fa soffrire quando è troppo forte, e vi lascia delle impressioni che perdurano. Alhazen pensa che un quid colpendo i corpi e poi penetrando nell’occhio dia luogo alla visione. Questo quid è fisico e sarà individuato più tardi con il termine latino lumen, mentre il risultato del processo che culmina con la visione sarà indicato con lux. Così demolisce anche la teoria delle scorze. Ruggero Bacone, filosofo e scienziato (Ilchester 1214 circa - forse Oxford dopo il 1292), fu forse tra i primi in Europa a conoscere ed approfondire le idee di Alhazen, che tardarono a diffondersi in Occidente. Erazmus Witelo, latino Vitellione (1220/1230-1280 circa), religioso nato in Slesia, alla corte papale di Viterbo venne a conoscenza delle opere di R. Bacone, suo contemporaneo, e intraprese poi la traduzione e la rielaborazione dell’opera di Alhazen. Una sistemazione e razionalizzazione dell’ottica sarà compiuta nel 1604, circa tre secoli dopo, da Giovanni Keplero (Weil der Stadt 1571 – Ratisbona 1630) pubblicando un’opera dal significativo titolo Ad Vitellionem paralipomena. L’opera è uno studio sulle eclissi di sole e di luna, ma con un trattato sulla visione e l’analisi dell’occhio e delle sue parti. In essa riprende e sviluppa ciò che Witelo aveva riportato sugli studi di Alhazen. Tra le più importanti innovazioni di Keplero: la pupilla per la prima volta è considerata come un diaframma e ciò consente che i raggi provenienti da un punto di un oggetto colpito dal “lumen” dia luogo ad un punto immagine sulla retina. Ripetendo ciò per tutti i punti dell’oggetto indagato si avrà sulla retina una figura simile all’oggetto e la psiche dell’osservatore, informata dai segnali che le pervengono dal nervo ottico, ricostruisce la figura esterna. Ora la figura vista è come la proiezione esterna della figura proiettata sulla retina. Nel XIII secolo si costruiscono le “lenti di vetro”, con cui si cerca di correggere la presbiopia. Sono dischetti di vetro ricolmi al centro, simili a lenticchie, da cui il nome. La scoperta, portata a conoscenza dei filosofi, è giudicata negativamente. Gli accademici e i filosofi dichiarano: le lenti ingannano, perché deformano gli oggetti, quindi non servono per conoscere la verità e non devono essere adoperate per scopi seri. Le lenti non furono abbandonate. Modesti artigiani continuarono a produr17
Riflessione
Quando la luce colpisce una superficie molto levigata (come uno specchio) viene rinviata (riflessa) in una determinata direzione Diffusione
Un raggio laser rosso entra in una scatola. Si vedono le “macchie” rosse all’ingresso nella prima parete ed all’uscita nella seconda parete. Non si vede il raggio che viaggia dentro la scatola
Abbiamo introdotto del fumo nella scatola e le sue particelle diffondono la luce del raggio laser e rendono visibile il suo cammino Il fenomeno della diffusione rende “illuminato” il nostro cielo. È l’atmosfera che diffonde i raggi provenienti dal Sole. In assenza avremmo un ambiente oscuro con il solo disco del sole luminoso
Rifrazione
Nella foto il passaggio del raggio di luce laser dall’aria all’acqua. L’esperienza evidenzia anche il fenomeno della diffusione. La visibilità del percorso è stata ottenuta introducendo alcune gocce di latte nell’acqua e un po’ di fumo nella parte alta (aria)
Rifrazione acqua-aria. Si intravede il raggio riflesso. In questo caso il raggio incidente in parte si rifrange e in parte si riflette
Se l’angolo di incidenza supera un certo valore (tipico di ogni coppia di mezzi) si ha solo riflessione (o riflessione totale)
le e a vederne l’utilità nell’applicazione alla vista. Ma Galileo nel 1610 prepara opportune lenti con cui realizza un telescopio. Lo punta verso il cielo e dopo alcune mesi di osservazioni notturne trova: un gran numero di stelle, le fasi di Venere, le scabrosità della superficie lunare, quattro satelliti di Giove. Disegna le osservazioni e pubblica tutto su un libretto rivoluzionario il Siderius Nuncius. L’ambiente dei filosofi e degli accademici è diffidente e avverso all’opera di Galileo. Keplero, avuto un cannocchiale di Galileo, lo usa per rifare le osservazioni e conclude che quanto ha trovato Galileo è esatto. Keplero dà alle stampe nel 1611 il trattato Dioptrice. È la prima trattazione “scientifica” delle lenti. Nel ’600 siamo nella fase di rottura con la tradizione e di capovolgimento metodologico nell’impresa scientifica. Inoltre l’attenzione degli studiosi si concentra sempre più sulla natura del lumen (l’ente fisico che stimola l’inizio del processo di visione). Si arriva ad una legge sulla rifrazione, superando così i tentativi di Tolomeo, Alhazen e dello stesso Keplero. L’olandese Willebrord Snell, Snellius, (1580-1626) vi perviene speTomaso da Modena 1352 rimentalmente. Ma sarà Cartesio, René Descar- Ritratto di Ugo di Provenza Forse per la prima volta compaiono tes (1596 La Have Touraine – oggi in un dipinto gli occhiali Descartes, – 1650 Stoccolma) a ricavare la legge della rifrazione nella forma nota sen i/sen r = n per via teorica, forse senza che egli avesse notizia dei risultati sperimentali di Snellius. Per Cartesio, la luce è movimento che procede in linea retta e velocità infinita in un universo privo di vuoto, ma riempito di particelle “celesti” (il sole e le stelle) e particelle “materiali” (sferiche dell’occhio), i cui vortici generano la luce che si propaga istantaneamente. I diversi colori dipendono dalla diversa velocità di rotazione delle particelle celesti. La sua teoria, talvolta, è un po’ oscura e farraginosa. Estremamente critico nei confronti di Cartesio fu Pierre de Fermat (1601-65), tra i principali 18
matematici della prima metà del XVII secolo. Ritiene inammissibile che la velocità della luce possa essere maggiore in acqua che in aria. Fermat deriverà nel 1662 la legge della rifrazione in base al principio di minimo, secondo il quale il tempo che la luce impiega per propagarsi in due o più mezzi ottici deve essere minimo; egli trova la legge, oggi ritenuta corretta, sen i/sen r = vi/vr. Christiaan Huygens (1629-1695), fu uno dei più grandi scienziati del ’600, Fu ammirato da Newton e a sua volta ammirò Newton per i Principia. Tuttavia le loro idee sulla luce e anche sulla struttura del mondo furono inconciliabili. A lui si deve, nel suo Traité de la lumière, la prima organica, fondamentale teoria ondulatoria della luce, in cui prevedeva la presenza dell’etere e che le onde fossero longitudinali. Huygens aveva supposto che la luce, ad esempio di una candela, fosse il risultato di tante onde elementari emesse dai singoli punti della fiamma. Il movimento della materia eterea è locale; ciò che si sposta nello spazio è l’onda, che nel suo «movimento successivo» investe le particelle dell’etere e le mette in vibrazione. Per il «movimento successivo» Huygens afferma che «c’è bisogno di tempo»: ammette che la propagazione della luce non sia fenomeno istantaneo e ciò è confermato dalla scoperta di O. Römer sui ritardi e anticipi delle eclissi del satellite Io di Giove. In una forma più moderna l’enunciato del suo principio della propagazione delle onde: i punti che vengono raggiunti dalla perturbazione, divengono essi stessi centro di onde elementari; ma le azioni di tutte queste onde, ad ogni istante, sono sensibili soltanto sulla superficie che le inviluppa, la quale rappresenta la superficie d’onda nell’istante considerato. Isaac Newton (Woolsthorpe 25 dic. 1642 – Londra 20 mar. 1727) venne ammesso al Trinity College di Cambridge nel 1661. Nel 1665 la peste costringe il giovane ad abbandonare Cambridge e a vivere in isolamento nella natia Woolsthorpe per circa due anni. Lo stesso Newton ricorderà quanto fu fruttuoso e creativo quel periodo. Newton conosce le teorie della luce di Cartesio e di Robert Hooke 19
Dispersione
La dispersione della luce bianca attraverso un prisma a base triangolare
Diffrazione
Un osservatore guarda attraverso una sottile fenditura i due led accesi
Il led bianco acceso e visto attraverso la fenditura
Il led blu acceso e visto attraverso la fenditura Le due foto non sono paragonabili a quanto effettivamente vede l’osservatore attraverso l’occhio, tuttavia sono sufficienti ad evidenziare la diffrazione della luce e quindi mettere in dubbio il concetto di propagazione rettilinea della stessa
(1635 -1703) fisico, matematico, biologo, membro e curatore degli esperimenti della Royal Society. Per Cartesio e Hooke la luce bianca è semplice e i colori sono modificazioni della luce bianca. Newton procede sperimentalmente. Fa passare un pennellino di luce attraverso la persiana e poi attraverso un prisma proiettando l’immagine ricavata su uno schermo distante qualche metro. Ottiene un’immagine allungata e la formazione dello spettro. Intuisce che il prisma non modifica la luce bianca, ma la divide nelle sue componenti. Intercetta parte dello spettro che fa rifrangere in un secondo prisma, osserva che questo non modifica il raggio uscente ma lo rifrange lasciandolo immutato. Effettua alcune misure e infine ricompone attraverso una lente i colori sino ad ottenere di nuovo luce bianca. Può quindi concludere che i colori non sono modificazioni della luce bianca, ma, al contrario, la luce bianca è composta da colori. Nel 1672 pubblica un articolo con la teoria dei colori in cui chiama l’esperienza dei due prismi experimentum crucis. Le critiche sono molte, in particolare di Hooke, di Huygens che ritiene che la luce abbia carattere ondulatorio e vuole che Newton si esprima. Nasce un dibattito vivacissimo. Newton sostiene che con l’esperimento ricerca regolarità matematiche e distingue le proprietà che trova dalle ipotesi sulla natura della luce. Nel 1687, dopo un intenso lavoro finale durato tre anni, e con l’aiuto di Edmond Halley pubblica Philosophiae naturalis principia mathematica. È la sua opera più importante che lo rende famoso con i contemporanei e che trasmette sino a noi la sua grandezza. Newton per un lungo periodo non decide in maniera chiara per l’una o l’altra delle teorie e soltanto nel 1704, ormai carico di onori e di incarichi prestigiosi, dà alle stampe un trattato sull’ottica, Opticks, in cui abbraccia in modo completo la teoria corpuscolare, forse anche perché l’anno prima è morto il suo rivale Robert Hooke. Per Newton la luce è composta da piccolissime particelle di materia emesse da sostanze luminose in tutte le direzioni e in linea retta. La riflessione è spiegata tramite il rimbalzo delle particelle nel momento dell’urto con una superficie. La rifrazione è dovuta alle forze che le molecole di una sostanza esercitano sulle particelle di luce deviandone la direzione. Ciò comporta che una forza agisca perpendicolarmente alla superficie di separazione dei due mezzi e quindi si ha una componente Δv (della velocità), lungo tale perpendicolare, il che comporta un au20
mento della velocità della luce nel passaggio dall’aria all’acqua. Luci di colori diversi vengono rifratte con angoli differenti. Nel 1665 viene pubblicato postumo uno studio di Francesco Maria Grimaldi (1618-63) il cui tema centrale riguarda la natura della luce. Secondo l’ottica ufficiale la luce si propaga solo in linea retta per rifrazione e per riflessione. In alcuni casi, tuttavia, si osservano fenomeni non spiegabili. Grimaldi, nel corso delle sue esperienze, si trova a osservare proprio uno di questi fenomeni che definisce “diffrazione”. Egli avanza allora l’ipotesi che la luce, ”almeno qualche volta”, debba propagarsi “anche ondulatamente”. Per la prima volta si osserva che la propagazione può non avvenire in linea retta. Nel 1801, in un contesto mutato rispetto al ’700, Thomas Young (Milverton 1773 – Londra 1829) scoprì un nuovo fenomeno ottico: l’interferenza della luce. Studiando il fenomeno della diffrazione Young cominciò a ispezionare le “frange di diffrazione” e ne parlò alla Royal Society. Escogitò un esperimento semplice e geniale, studiando la figura di diffrazione della luce attraverso un doppio foro. Young, tramite il modello ondulatorio, studiò l’interferenza di onde superficiali in un ondoscopio constatando che le onde identiche emesse dall’oscillatore a due punte possono interferire sia costruttivamente che distruttivamente. Young trasferì questi risultati all’esperienza con la luce che faceva passare prima attraverso una fenditura e successivamente attraverso una doppia fenditura. Per la prima volta veniva ripresa la teoria ondulatoria di Huygens, che era stata abbandonata dai newtoniani per la trionfante teoria corpuscolare. Young però fu molto criticato per il suo lavoro sull’interferenza e l’interpretazione con il modello ondulatorio. Quattordici anni più tardi nel 1815, Augustin Fresnel (1788 - 1827),che aveva dedicato gran parte della sua attività scientifica allo studio della diffrazione e dell’interferenza diede un contributo determinante all’af21
Interferenza
Schema del fenomeno dell’interferenza. Una lente concentra la luce su una fenditura che poi arriva su una doppia fenditura (molto sottili e poco distanti). Sullo schermo si formeranno frange chiare e oscure, le prime indicazione di interferenza costruttiva, le seconde distruttiva
Foto di una figura di interferenza
Polarizzazione
La luce proveniente dal sole consta di oscillazioni trasversali uniformemente distribuite in tutte le direzioni. Questa è definita luce normale. Se attraversa un pezzo di cristallo di tormalina la luce si polarizza, cioè oscilla in una ben determinata direzione concorde con l’asse ottico del cristallo
Se la luce così ottenuta passa attraverso un secondo cristallo di tormalina, la luce passa solo se l’asse ottico del secondo è parallelo a quello del primo, ma se è perpendicolare la luce emergente è pressoché nulla Un led visto attraverso una lamina, che polarizza la luce
Lo stesso led visto attraverso due lamine parallele (con gli assi ottici paralleli). La luce polarizzata attraversa la seconda lamina
fermazione della teoria ondulatoria (con l’ingombrante presenza dell’etere), studiando la polarizzazione della luce e la conseguente trasversalità delle onde. Contribuì a modificare il principio di Huygens: onde elementari si compongono, nei punti nei quali si sovrappongono, secondo le regole della composizione dei moti armonici e inoltre ammettendo che un’onda elementare che nasce in un punto ha un’intensità massima nella direzione della normale n alla superficie d’onda in quel punto e diminuisce all’aumentare della inclinazione rispetto a questa retta, annullandosi per a ≥ π / 2. Nel 1849 Armand Louis Fizeau (1819-1896) realizzò la prima misura diretta della velocità della luce nell‘aria grazie a un dispositivo basato su specchi e un disco dentato e Jean Léon Foucault (1819-1868) nel 1850 riuscì a dimostrare, per mezzo di uno specchio girevole, che la velocità di propagazione della luce nell’aria è maggiore che nell’acqua. Questi risultati favorirono l’affermazione della teoria ondulatoria. Affermazione che sarà completata dalla monumentale opera di James Clerk Maxwell (Edimburgo 1831 – Cambridge 1879). Nel suo Treatise on Electricity and Magnetism, formalizza e riassume in alcune equazioni fondamentali l’unificazione dei fenomeni elettrici e magnetici attraverso il campo elettromagnetico. Prevede che una perturbazione elettromagnetica si propaghi sotto forma di onde elettromagnetiche. Dalle sue equazioni ricava che la velocità delle onde elettromagnetiche nel vuoto sarà data da 1 / √ε0 μ0 dove ε0 è la costante dielettrica del vuoto e μ0 la permeabilità magnetica del vuoto. Questa velocità risultava uguale a quella della luce nel vuoto. Nel 1886 Heinrich Hertz (1857-1894) riuscì per la prima volta a produrre e a rivelare le onde elettromagnetiche, di cui Maxwell aveva previsto l’esistenza. La teoria ondulatoria ha raggiunto il suo apogeo e ha 22
soppiantato quella corpuscolare, che, per il prestigio di Newton, aveva dominato per tutto il ’700 e nei primi anni dell’800. Durante i suoi esperimenti Hertz scoprì l’effetto fotoelettrico: emissione di cariche elettriche da un materiale quando viene “illuminato”. L’effetto fotoelettrico dà luogo a situazioni non spiegabili con la teoria ondulatoria, in particolare il fenomeno non avviene se la frequenza della luce è minore di un valore minimo f0 detto frequenza di soglia diverso da materiale a materiale. Il modello ondulatorio entra in crisi. Albert Einstein (Ulm 1879 – Princeton 1955) nel 1905 avanza questa ipotesi (per cui avrà il Nobel nel 1921): l’energia luminosa non sarebbe uniformemente distribuita su tutto il fronte d’onda che avanza, ma concentrata in pacchetti separati. Queste quantità di energia non avrebbero un valore qualsiasi, ma sarebbero quantità ben definite e proporzionali alla frequenza f dell’onda. Il fattore di proporzionalità è una costante h (costante di Planck). Quindi l’energia di un fascio di luce di frequenza f si compone di quantità discrete, ciascuna di valore hf. L’intensità di energia di ogni singola unità elementare è chiamata quanto di energia, poi fotone. I quanti di energia o fotoni trovarono perplessità e non completa accettazione, ma nel 1923 Arthur Compton (1892- 1962) eseguì un esperimento sulla diffusione dei raggi X che colpivano elettroni. Usando le leggi di conservazione della quantità di moto e dell’energia applicati ai raggi X trattati come quanti di energia o fotoni, riuscì a interpretare il fenomeno e dare piena validità all’ipotesi di Einstein. Per questo Compton ebbe il premio Nobel nel 1927. In conclusione possiamo affermare che: La radiazione elettromagnetica in alcuni casi mostra un comportamento simile a quello delle particelle, mentre in altri casi si comporta come un’onda. Nel 1923 il fisico francese Louis de Broglie (1892- 1987) intuì che il dualismo ondulatorio-corpuscolare non era esclusivo della radiazione, ma andava esteso alla materia, agli elettroni e alle particelle quantistiche. Sviluppando la sua ipotesi de Broglie (premio Nobel 1929) trovò un’espressione per la lunghezza d’onda che l’elettrone avrebbe dovuto avere nel suo comportamento ondulatorio, era la stessa che lega la quantità di moto di un fotone e la sua lunghezza d’onda. Per l’elettrone λ = h/p. La verifica sperimentale fu fatta da George Paget Thomson (1892-1975) che ottenne una figura di diffrazione di elettroni. Con Clinton Joseph Davisson ebbe il premio Nobel 1937 per la fisica. 23
Infine abbiamo incrociato le due lamine (assi ottici perpendicolari). La luce emergente è pressoché nulla Effetto fotoelettrico Elettroscopio che porta una lastrina di zinco carica negativamente. L’indice (in rosso) indica la carica della lastrina
Si dispone una lampada a vapori di mercurio (opportunamente alimentata) davanti alla lastrina di zinco
La lampada è ricca di radiazioni ultraviolette* che incidono sulla lastrina strappando elettroni e quindi scaricando l’elettroscopio. L’indice (in rosso) è pressoché nella posizione di zero. * Le radiazioni ultraviolette hanno una frequenza maggiore di quelle del visibile; operando con queste ultime il fenomeno non avviene
Diffrazione degli elettroni
Tubo di diffrazione elettronica a carattere didattico
Fotografia di diffrazione degli elettroni ottenuta con il dispositivo precedente
Abbiamo riassunto il lungo cammino degli studi sul processo della visione e sulle teorie della luce. Cammino interessante e affascinante per il sovrapporsi di congetture, ipotesi, esperienze, teorie, talvolta per tornare indietro e riprendere idee, adattarle e interpretarle in coincidenza di nuovi fenomeni o per esaminare fenomeni già noti. Nel ventesimo secolo abbiamo trovato una sistemazione accettabile delle teorie della luce. Ma proseguono gli studi di neurologi, biologi, psicologi per approfondire come e quali parti del cervello, della mente sono interessate a decodificare e interpretare i segnali che partono dalla retina e a tramutarli in rappresentazioni di ciò che “vediamo”. Siamo completamente e definitivamente soddisfatti ? Certamente non definitivamente perché la conoscenza, prerogativa della persona umana, porterà a scoprire altri fenomeni e/o ad escogitare nuove idee più complete e più soddisfacenti delle attuali.
Bibliografia Enrico Persico, Ottica (ristampa anast. dell’ed. orig. pubbl. da F. Vallardi, 1932), Zanichelli, 1979. Vasco Ronchi, Sui fondamenti dell’acustica e dell’ottica, Leo S. Olschki Editore, Firenze, mcmlxvii. Scienza e Tecnica dalle origini al novecento, vol. I, Annali dalla preistoria al 1700, Ed. Scientifiche e Tecniche Mondadori, mcmlxxvii. Scienza e Tecnica dalle origini al novecento, vol. II, Annali dal 1700 al 1900, Ed. Scientifiche e Tecniche Mondadori, mcmlxxvii. Le Scienze dossier, n. 9, Il colore, autunno 2001. David H. Hubel, Occhio, cervello e visione, Zanichelli editore, 1989. Da internet: http://amslaurea.unibo.it/815/1/Bernardi_Federico_Mattia_L’Ottica_di_Euclide_e_la_ scienza_della_visione.pdf. Federico M. Bernardi, Tesi di laurea in storia del pensiero scientifico (relatore prof. Sandro Graffi), Università degli studi di Bologna, III sessione anno accademico 2008- 2009, L’Ottica di Euclide e la scienza della visione. http://www.treccani.it/enciclopedia/scienza-greco-romana-ottica-e-teoria-della-luce_ (Storia-della-Scienza)/. Treccani, A. Mark Smith, Scienza greco-romana. Ottica e teoria della luce. http://www.fisicamente.net/FISICA/STORIA_LUCE.pdf. Fisica/mente, Roberto Renzetti, La Luce. http://www.treccani.it/enciclopedia/la-civilta-islamica-teoria-fisica-metodo-sperimentale-e-conoscenza-approssimata-l-ottica_(Storia-della-Scienza)/. Treccani, A. Mark Smith, Graziella Federici Vescovini, Eyal Meiron, La civiltà islamica: teoria fisica, metodo sperimentalee conoscenza approssimata. L’ottica. 24
Juan José Gòmez Cadenas
Ettore guarda il mare
L’uomo che guarda il mare sarà sulla trentina. È molto magro, i capelli lunghi e scuri pettinati da un lato, unti di brillantina. Le sopracciglia sono spesse e arcuate, le labbra carnose e sensuali, un po’ troppo femminili. Il volto di questo giovane uomo è allo stesso tempo bello e inquietante, c’è qualcosa di incompiuto nelle sue fattezze, come un bel ritratto che un artista disattento non ha completato fino in fondo. Il mento è debole, i capelli troppo lucidi e le sopracciglia troppo folte. Ma la caratteristica più inquietante in questo volto inquietante sono gli occhi: enormi, scuri e immensamente tristi. L’uomo guarda il mare, appoggiato alla ringhiera della nave di linea che viaggia tra Napoli e Palermo. Non sappiamo a cosa stia pensando, ma il leggero tremore che lo scuote ci fa pensare che abbia freddo. La brezza del mare è ancora così gelata da impedire a qualsiasi altra anima di stare all’aperto in questo momento. Perché è ancora qui? Forse soffre il mal di mare? Non sembra probabile, il mare è calmo in questa notte del 1938, calmo come se il mondo fosse un’oasi di pace, nonostante la crudele guerra che si sta avvicinando, guerra che negli anni successivi ucciderà decine di milioni di persone. Ma lui non sa nulla del futuro. Probabilmente, infatti, il futuro non gli interessa, se crediamo alla lettera che ha inviato due giorni prima – il 25 marzo – ad Antonio Carelli, il direttore dell’Istituto di Fisica di Napoli, dove questo giovane, chiamato Ettore Majorana, è già professore ordinario di fisica. In questa lettera il nostro eroe si scusa per gli eventuali disagi che la sua imminente scomparsa potrebbero causare, ma afferma che la sua decisione è definitiva. Quale decisione? Perché sta oscillando oltre il parapetto, come in pre25
Abstract “Al mondo ci sono varie categorie di scienziati; gente di secondo e terzo rango, che fan del loro meglio ma non vanno molto lontano. C’è anche gente di primo rango, che arriva a scoperte di grande importanza, fondamentali per lo sviluppo della scienza. Ma poi ci sono i geni, come Galilei e Newton. Ebbene, Ettore Majorana era uno di questi”. Enrico Fermi, 1938 “Because, you see, in the World there are different categories of scientists: people of secondary or tertiary standing, who do their best, but do not go very far. There are also those of high standing, who come to discoveries of great importance, fundamental for the development of science. But then, there are geniuses like Galileo of Newton. Well, Ettore was one of them.” Enrico Fermi, 1938
da alle vertigini? Non lo sappiamo. Se esaminiamo la sua vita, incontriamo un genio precoce, un prodigio della matematica e un fisico di talento che ha lavorato nientedimeno che con Enrico Fermi e i suoi collaboratori, i famosi Ragazzi di via Panisperna. Lo stesso Fermi dirà riferendosi a lui: “Al mondo ci sono varie categorie di scienziati; gente di secondo e terzo rango, che fan del loro meglio ma non vanno molto lontano. C’è anche gente di primo rango, che arriva a scoperte di grande importanza, fondamentali per lo sviluppo della scienza. Ma poi ci sono i geni, come Galilei e Newton. Ebbene, Ettore Majorana era uno di questi”. Tra le molte altre idee innovative (la maggior parte delle quali non sono state pubblicate, dato che Ettore non poteva prendersi la briga di scrivere un articolo su cose che stupivano tutti gli altri ma che a lui sembravano troppo ovvie), questo giovane uomo ha avanzato una delle proposte più intriganti. Egli ha cioè ipotizzato che il neutrino possa essere l’antiparticella di se stesso. Ma che cosa è un’antiparticella? Oggi il concetto di antimateria ci è familiare, anche se, purtroppo, le principali fonti di informazione per la maggior parte delle persone sono i romanzi di Dan Brown. Ma, come avviene spesso quando si parla di scienza, l’elucubrazione del tecno-scrittore non riesce ad eguagliare la realtà. Nella trama di “Angeli e Demoni” compare la minaccia di una annichilazione materia-antimateria dalle conseguenze terrificanti per il genere umano, che risulta comunque inferiore al sibilo di un petardo bagnato se confrontato con quello che è successo circa 14 miliardi di anni fa. Poco tempo dopo il Big-Bang, riteniamo che l’Universo fosse composto in quantità uguali di materia e antimateria. Come un Cosmo fatto di opposti, quegli angeli e demoni primordiali erano condannati a trovare l’un l’altro e annichilire in pura energia. Il nostro Universo bambino non aveva altra possibilità, a quanto pare, che essere per sempre nient’altro che una sfera di materia e di luce, un ciclo di pulsazioni Armageddon che non si sarebbero mai unite a formare atomi ed elementi chimici, galassie e stelle, pianeti e vita, rose e aquile, unicorni e chimere, questi ultimi esistenti nella mente dell’uomo, la forma di materia più strana e più recente. Perché solo la materia è sopravvissuta alla grande annichilazione. Che il nostro universo sia fatto solo di materia è un fatto ben consolidato. Abbiamo cercato l’antimateria intorno a noi e ne abbiamo trovato 26
solo lievi tracce (di cui comprendiamo l’origine). Guardiamo verso il cielo e non vediamo nessun segnale dei fuochi d’artificio cosmici che sarebbero prodotti dalle annichilazioni materia-antimateria di galassie che si incrociano. Eppure, quando osserviamo i residui prodotti dalle collisioni di elettroni ad alta energia o di protoni negli acceleratori, contiamo sempre esattamente lo stesso numero di particelle di materia e antimateria. Allora, cos’è accaduto? Ettore Majorana ha postulato che il neutrino, una particella che all’epoca era immaginaria come gli unicorni e le chimere, possa essere allo stesso tempo materia e antimateria. Il neutrino è infatti l’unica particella elementare nota che potrebbe essere entrambe le cose. Un elettrone (materia) può essere distinto da un positrone (antimateria) misurando la sua carica elettrica, e questo avviene per tutte le altre particelle tranne il neutrino, che non ha carica elettrica e nessun’altra carica rilevante che permetta di etichettare la sua natura e distinguere tra materia e antimateria. Majorana si rese conto di questo fatto e saltò alla conclusione che, se la natura non vieta al neutrino di avere una duplice natura, significa che lo permette. Ma se il neutrino è allo stesso tempo materia e antimateria, allora può succedere che decada in entrambe. E se, in aggiunta, qualcosa (una proprietà che noi chiamiamo la violazione di CP) gli permette di decadere un po’ più in materia che in antimateria, allora un cugino più pesante del neutrino ora conosciuto e ormai estinto, avrebbe potuto introdurre la cruciale asimmetria che ha reso possibile l’Universo, iniettando nel gioco una quantità un poco superiore di materia. Poi la battaglia cosmica che infuriò poco dopo il Big Bang ha distrutto tutto tranne che quell’eccesso insignificante. Noi non siamo altro che i residui della “fine del mondo” avvenuta poco prima del suo inizio. Questa intuizione profonda è stata formulata più di 80 anni fa, da un uomo che non si trovava più nella nave quando questa è arrivata al porto. E, ad oggi, è solo un’ipotesi, ma sappiamo come poterla dimostrare. Alcuni nuclei sulla Terra sono radioattivi. Ciò significa che essi possono trasformarsi in altri nuclei, rilasciando nel processo qualche energia sotto forma di particelle. In particolare, nel cosiddetto decadimento beta, uno dei neutroni di un nucleo si trasforma in un protone, un elettrone e un antineutrino. Ad esempio, una particolare variante del carbonio, noto come isotopo C-14 (che ha un nucleo con sei protoni e 27
Materia e antimateria Ogni particella ha la sua antiparticella che si differenzia da ques==≠ta per avere carica opposta. Questo vale anche per le particelle neutre, cioè senza una carica elettrica. In questo caso infatti si considerano altri tipi di “cariche” chiamate numeri quantici che hanno valori opposti per particella e antiparticella. Annichilazione Quando una particella incontra la sua antiparticella, avviene un processo chiamato annichilazione: le due particelle scompaiono e al loro posto compare una quantità di energia equivalente alla loro massa secondo la famosa equazione di Einstein E=mc2.
Decadimento e decadimento radioattivo Alcune particelle non sono stabili nel tempo ma subiscono un processo chiamato decadimento che le porta a trasformarsi in altre particelle. In natura esistono anche nuclei instabili che subiscono il cosiddetto decadimento radioattivo in cui sono emesse particelle di diverso tipo chiamate α e β, spesso accompagnate da fotoni γ.
otto neutroni circondato da sei elettroni che determinano le proprietà chimiche dell’elemento carbonio) può decadere in una variante di azoto noto come N-14, con sette protoni e sette neutroni. Nel processo sono sempre emessi un elettrone e un antineutrino. In alcuni isotopi avviene un processo molto più raro, quello del doppio decadimento beta. Qui, due neutroni decadono contemporaneamente in protoni, elettroni e neutrini. Questo è il caso, per esempio, dello Xenon, il cui isotopo Xe-136 decade in bario (Ba-136). Questo decadimento è così raro che la sua vita media è dell’ordine di 1021 anni, da confrontare con la vita media dei tipici elementi radioattivi più lenti (uranio e torio), che è dell’ordine di 1010 anni. Per avere un’idea della scala temporale, ricordate che l’Universo stesso ha un’età di circa 14 miliardi di anni (1,4 x 1010 anni). L’unica ragione per la quale possiamo osservare il doppio decadimento beta è che la materia contiene tantissimi atomi. Per esempio, ci sono 4,4 x 1021 atomi di xenon in un grammo di xenon e di questi 4,4 x 1020 (il 10% di tutti gli isotopi di xenon), sono atomi di Xe-136. Questo è un numero immenso di atomi: se solo uno tra 1020 atomi decadesse in un anno, potremmo ancora (con un ottimo rivelatore) osservare quattro o cinque decadimenti. Tuttavia, se il neutrino fosse l’antiparticella di se stesso, potrebbe verificarsi una reazione alternativa, in cui sono emessi solo due elettroni. I due neutrini scompaiono perché uno di essi si comporta come materia, l’altro come antimateria, ed entrambi annichilirebbero prima ancora di essere prodotti! Per quanto strano possa sembrare, il meccanismo di base è più o meno proprio questo. Senza la duplice natura del neutrino, il cosiddetto doppio decadimento beta senza emissione di neutrini non può verificarsi. Al contrario, se riuscissimo a osservare questo decadimento di là da ogni dubbio, dimostreremmo che il neutrino è l’antiparticella di se stesso. Se non sono emessi neutrini nel decadimento (per esempio di Xe-136), la somma delle energie dei due elettroni emessi deve essere sempre la stessa, pari alla differenza di massa (moltiplicata per c2, secondo la più famosa di tutte le formule della fisica, E = mc2) tra l’isotopo che decade (Xe-136) e il suo prodotto di decadimento (Ba-136). Invece il decadimento ammesso (quello che può accadere sia che il neutrino sia l’antiparticella di se stesso sia che non lo sia), comporta l’emissione di due elettroni e due neutrini. In questo caso, la somma delle energie 28
dei due elettroni è sempre diversa (perché i neutrini, emessi anch’essi nel decadimento, portano via una fetta variabile della torta), e in ogni caso sempre inferiore alla famosa differenza di massa tra nucleo padre e nucleo figlio che noi chiamiamo Q2. In effetti, la stessa esistenza del neutrino fu postulata da Wolfgang Pauli intorno al 1930, a causa di un fenomeno simile. A quel tempo, i fisici avevano osservato il decadimento di un certo numero di atomi radioattivi (la radioattività era stata scoperta da Becquerel e dai coniugi Curie pochi anni prima) in cui era stata osservata solo l’emissione di radiazione beta (un elettrone). Il principio di conservazione dell’energia stabiliva che l’elettrone emesso dovesse portare via l’energia disponibile nell’evento (Q2), ma gli esperimenti mostravano che i beta osservati avevano valori di energia continui, compresi tra zero e Q2. La situazione era talmente sconcertante che un certo numero di fisici era pronto ad abbandonare il sacrosanto principio di conservazione dell’energia.
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Vita media Fornisce una misura del tempo medio dopo il quale un certo nucleo radioattivo decade. Si tratta di un concetto statistico nel senso che se si ha un solo nucleo radioattivo non si può sapere quando avverrà il suo decadimento; se si considera invece un campione con un numero molto grande di atomi allora si può affermare che dopo un tempo pari alla vita media nel campione resterà solo il 37% dei nuclei iniziali mentre gli altri saranno decaduti.
A questo punto si inserisce Pauli, uno dei più grandi fisici del XX secolo, così grande da avere il coraggio di proporre l’esistenza di un fantasma. In una lettera inviata ai partecipanti del famoso Congresso di Tubinga, nel 1930, Pauli scrive: Gentili Signore e Signori Radioattivi, come il portatore di queste righe, che gentilmente vi chiedo di ascoltare, vi spiegherà più in dettaglio [...] ho pensato a un possibile disperato rimedio per salvare [...] la legge di conservazione dell’energia.
Tale rimedio disperato consisteva nel postulare l’esistenza di una particella con (quasi) nessuna massa e nessuna carica elettrica; un fantasma per tutti gli scopi pratici, la cui raison d’être è portare via parte dell’energia del decadimento (dileguandosi inosservato) e giustificare così lo spettro di energia osservato. Nel doppio decadimento beta senza neutrini tuttavia, non sono emessi neutrini e quindi la somma delle energie dei due elettroni deve essere sempre la stessa. Possiamo quindi immaginare un semplice esperimento ideale per dimostrare che il neutrino è l’antiparticella di se stesso. Si comincia con una grande massa di Xe-136, diciamo 100 kg, o 4,4 x 1026 atomi. Ora, se solo uno di ciascuno dei 1026 atomi subisce un doppio decadimento beta ogni anno, possiamo osservare pochi eventi (circa quattro) e stabilire che il neutrino è l’antiparticella di se stesso. Quale sarebbe la firma degli eventi? Beh, immaginate che tutto il no30
stro xenon sia conservato in un grande contenitore, e supponiamo che siamo in grado di ricostruire le traiettorie degli elettroni prodotti nel decadimento e di misurare la loro energia. Poiché questo è un esperimento ideale, lo possiamo fare con precisione infinita. Allora, se vediamo due elettroni che saltano fuori dal nulla (ricostruiamo la loro traiettoria perfettamente, e quindi sappiamo che si tratta di due elettroni e di nient’altro), e se sommiamo le loro energie e otteniamo proprio Q2 (con precisione infinita), siamo a cavallo! Con un’unica osservazione dimostriamo l’intuizione di Majorana! Ma ahimè, la realtà è più complicata degli esperimenti mentali. Infatti, nella vita reale possiamo contenere il nostro gas in un serbatoio. Per ridurre il volume occupato dal gas, possiamo pressurizzarlo, diciamo a 10-15 bar di pressione, e metterlo in un contenitore di acciaio. Poi, per misurare la traiettoria e l’energia degli elettroni, possiamo sfruttare il fatto che lo xenon scintilla quando una particella carica lo attraversa. Possiamo usare la luce di scintillazione per misurare l’energia e la traiettoria degli elettroni, equipaggiando la parte interna del nostro serbatoio con sensori sensibili alla luce. Naturalmente, però, i nostri sensori non sono perfetti e le nostre misure saranno affette da errori. E sono proprio gli errori che fanno la differenza tra la vita reale e gli esperimenti mentali. Perché? Perché se non siamo in grado di stabilire con precisione del 100% che abbiamo due elettroni e se non siamo in grado di misurare la loro energia con una precisione arbitraria, allora altri processi potrebbero falsificare il segnale che stiamo cercando. Forse potrebbe trattarsi di un elettrone singolo che simula due elettroni, con energia così vicina a Q2 da farci credere che stiamo osservando l’evento reale. Chi potrebbero essere questi impostori? Da dove vengono? E fino a che punto possono falsificare il nostro segnale? Le risposte sono preoccupanti. Gli impostori, che i fisici delle particelle chiamano “eventi di fondo”, provengono dalla radioattività naturale. E, a quanto pare, la Terra è un pianeta molto radioattivo. Ogni tonnellata di roccia che ci circonda contiene circa tre grammi di uranio e dieci grammi di torio. Queste potrebbero sembrare quantità trascurabili, ma consideriamo ora la posizione del nostro esperimento reale (non più immaginario). Dove dovremmo collocarlo? Per rispondere a questa domanda, consideriamo che la Terra è bombardata in continuazione da particelle 31
Rivelatori a scintillazione Per poter “vedere” le particelle sono necessari particolari strumenti chiamati rivelatori. I rivelatori a scintillazione sfruttano la proprietà di alcuni materiali che emettono un lampo luminoso quando sono attraversati da una particella. Questo segnale luminoso permette di misurare alcune caratteristiche della particella quali energia e posizione.
di alta energia, provenienti dallo spazio esterno, che chiamiamo raggi cosmici. Questi raggi cosmici colpiscono l’atmosfera (per nostra fortuna, lo strato di gas che circonda il nostro pianeta, non solo fornisce un habitat respirabile e caldo, ma anche un meraviglioso scudo contro i raggi cosmici che altrimenti ci friggerebbero), e producono sciami di altre particelle, come i muoni (cugini pesanti degli elettroni) che raggiungono il suolo come una pioggia leggera: troppo leggera per essere una preoccupazione per la nostra salute, ma troppo pesante per svolgere un esperimento alla ricerca di un decadimento raro al livello del suolo. Ricordate: ci aspettiamo pochissimi eventi l’anno, forse uno o due. Invece, al livello del mare, ogni minuto arriva circa un muone per centimetro quadrato. Si tratta di tantissimi muoni nel rivelatore in un anno, l’equivalente di un rumore di fondo continuo alla radio quando cerchiamo di ascoltare il nostro programma musicale preferito dal segnale molto debole. Così, come i Signori dei Nani della Terra di Mezzo, i fisici piazzano i loro rivelatori di preziosi all’interno di miniere profonde, o nei tunnel che attraversano catene montuose. Il trucco è aggiungere uno o due chilometri di roccia per fermare i muoni che arrivano a terra e ridurli a un livello tollerabile. L’Italia ha uno dei migliori laboratori sotterranei del mondo, i Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (LNGS). In Spagna si trova, nei Pirenei, un cugino dei LNGS molto moderno ma più piccolo, il laboratorio Canfranc (LSC). Ci sono altre strutture analoghe nel mondo ma non così tante e di solito sono riempite fino all’orlo con strumentazione progettata per la ricerca 32
di eventi rari. Il doppio decadimento beta senza neutrini e le particelle di materia oscura sono gli eventi prediletti in queste moderne miniere di Moria, dove si forgia il Mithril della scienza. Una volta all’interno della miniera, i muoni non sono più un problema, ma il rivelatore è circondato da tonnellate e tonnellate di roccia. E così vi è abbondanza di uranio e torio, le cui catene radioattive hanno vita media dell’ordine di 1010 anni. Ah, ma il segnale che stiamo cercando ha forse vita media di 1026 anni (se siamo fortunati). Ciò significa che tra segnale e fondo potenziale ci sono sedici ordini di grandezza. Questo fatto rende forse la ricerca del doppio decadimento beta senza neutrini così difficile come cercare un ago in un pagliaio? Magari fosse così facile! Il problema equivalente assomiglia più a cercare un singolo granello di sabbia in un’enorme spiaggia. Come si può fare? Innanzitutto, si aumenta la schermatura: all’interno della miniera, il rivelatore è circondato da piombo, rame o acqua, materiali con contaminazione radioattiva molto bassa e in grado di fermare la radioattività in arrivo. Poi, si equipaggia il rivelatore con sensori raffinati, che forniscono misurazioni (nel caso del nostro esperimento con lo xenon, le traiettorie e le energie degli elettroni), vicine alla perfezione. E, naturalmente, lo stesso rivelatore deve essere costruito con materiali i meno radioattivi possibili: un compito difficile. Tutto è radioattivo sul nostro pianeta, comprese le persone (a causa di un isotopo radioattivo del potassio, K-40, presente nelle nostre ossa). Ci sono diversi esperimenti per la ricerca del doppio decadimento beta senza neutrini, che cercano di dimostrare che Majorana aveva ragione. Io ne coordino uno, chiamato NEXT, che utilizza xenon gassoso, nel laboratorio Canfranc. Questo significa che dedico il mio tempo, la mia energia, tutta la mia vita, a cercare di dimostrare qualcosa di così perfettamente inutile come la possibilità che il neutrino sia l’antiparticella di se stesso (se ci riusciamo, non ci saranno nuovi iPhone né formule magiche per avere più energia o meno anidride carbonica). Perfettamente inutile, eppure drammaticamente importante, perché se Ettore Majorana aveva ragione (e io ne sono convinto), questa strana proprietà della più leggera e più umile di tutte le particelle elementari, è la ragione principale per cui l’universo esiste. (Traduzione dall’inglese a cura di Viviana Fanti) 33
Ana Millán Gasca
Abstract La matematica è presente nella nostra vita, nella scienza e nella tecnologia, eppure essa è “invisibile”: cerchiamo di ritrovarla, come compagna nell’avventura umana, per non dover più ridurla ad un ammasso di calcoli e di simboli che spaventano, e comprenderla invece come espressione della forza creativa nella quale riconosciamo la parte migliore di noi stessi. Mathematics is present in our lives, in science and technology, but yet it is “invisible”. We try to find it, as a companion in the human adventure, not reducing it just to calculation and symbols that scare. Rather, we try to understand mathematic as an creative force that is one of the the best part of ourselves.
La matematica è parte di noi
ciale e quasi il simbolo del moderno spirito positivo basato su fatti e argomentazioni, opposta alle credenze “irrazionali”?
I ricordi scolastici sulla matematica riguardano interminabili pagine di esercizi sul libro e da svolgere sui quaderni (corrisponderà il risultato?), i problemi (saprò venirne a capo?), le espressioni (avrò sbagliato una parentesi, un segno “meno”?) e le formule (che si confondono nella mente, sovrapponendosi le une alle altre e quelle “inverse” a quelle “dirette”): cose di cui avere paura, cose che provocano noia e frustrazione a bambini e ragazzi. Eppure ci dicono che la matematica è nascosta un po’ dovunque nel nostro mondo, dagli orari degli aerei ai telefoni cellulari, dalle previsioni meteorologiche alla crisi finanziaria che ancora trascina le sue amare conseguenze. Tali esempi però non ci convincono necessariamente del fatto che essa abbia a che fare con noi, con l’esperienza umana, con il nostro vissuto. Per indagare l’umano nella matematica e per restituirla così alla cultura – l’unica via per farla studiare e apprendere – ci viene in aiuto la storia della scienza. Due domande che gli storici della scienza si sono posti possono interessare molto anche ognuno di noi. La prima domanda è questa: da dove viene la matematica? Fino a cent’anni fa, si faceva risalire la nascita della matematica al mondo greco, attorno al – 500. In realtà, le indagini archeologiche e l’antropologia ci forniscono al riguardo indizi veramente sorprendenti, anche se spesso trascurati, forse perché antropologi e archeologi non hanno la matematica al centro dei loro interessi (la vecchia separazione tra “lettere” e “scienze”!); oppure forse anche perché la matematica è alle volte invisibile e ci vuole perspicacia e sensibilità. La seconda domanda che si sono posti gli storici è la seguente: come è arrivata la matematica a diventare così centrale nel nostro mondo, cruciale nella tecnologia moderna, nella moderna organizzazione so-
1. La matematica prima della storia «Dovremmo ricordarci con gratitudine dell’umanità preistorica, i più grandi inventori di tutti i tempi», scriveva il grande storico Ernst Gombrich ai ragazzi nella sua Breve storia del mondo. L’origine della tecnica e le origini del linguaggio – quei suoni che ci permettono di comunicare con i nostri simili e di cogliere il mondo e noi stessi – si collocano in questa lunghissima tappa originaria dell’Umanità che chiamiamo preistoria, centinaia di migliaia di anni di cui possiamo sapere poco, perché non vi era ancora stata sviluppata la scrittura. Due studiosi recenti, un storico della matematica francese e una archeologa franco-americana, ci hanno aperto gli occhi sul fatto che dobbiamo a questi grandi inventori, nostri antenati, anche i numeri e le forme. Ponendosi a cavallo fra le discipline specialistiche – essendo quindi interdisciplinari, senza chiudere i loro orizzonti da una specializzazione che è pur necessaria per far progredire la ricerca – essi hanno contribuito a cercare qualche pista sull’enigmatica origine della matematica. Lo storico francese Olivier Keller ha riunito e confrontato le scoperte degli archeologi che studiano il Paleolitico (prima quindi dello sviluppo dell’allevamento e della agricoltura) con la messe di elementi e analisi degli antropologi che studiano le varie culture, ossia i vari popoli che vivono – o sono vissuti fino a poco tempo fa – sulla Terra con le loro lingue, credenze, costumi. In due libri affascinanti, egli mostra che, nonostante le difficoltà che presenta lo studio di periodi tanto remoti della storia dell’umanità, oggi possiamo affermare che essi videro “nascere incontestabilmente un’attività umana di tipo geometrico. Essa si manifesta dapprima nella creazione di utensili di pietra nel Paleolitico inferiore”: oggetti cui una mano ha dato una forma da “bolla poliedrica” (come quelle della figura 1) oppure una forma bifacciale – come una mandorla (amigdala) –, e la cui evoluzione e perfezionamento nel corso del tempo si manifesta proprio nella simmetria che si raggiunge alla fine nella fase più remota del Paleolitico e nella presenza di alcune forme che si ripetono e quindi in qualche modo diventano modelli, standard diremmo oggi (triangolari, ovali, circolari, sferiche). In reperti risalenti a 1.800.000 anni fa gli archeologi trovano prove nei reperti di una “disposizione” dello spazio nei
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Figura 1 Jean Chavaillon, “Melka Kontoure, gisement paléolithique d’Éthiopie”, in La préhistoire. Problèmes et tendances, Paris, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1968, p. 121.
cerchi di pietre che delimitano le abitazioni o nelle fosse funerarie. Si tratta quindi di “attività geometrica”, azione di qualcuno che ha scelto una forma voluta: forma preesistente nella mente umana? oppure imitazione della natura?: non entriamo in questa difficile alternativa, aperta a discussione (forse una combinazione di entrambe le cose?). Risale a un periodo successivo, alla fine del Paleolitico (il Paleolitico superiore, a partire dal – 35.000), ricorda Keller, l’attività numerica che si manifesta negli ossi con tacche incise. E spiega che tali reperti – alcuni di essi celebri – sono un salto rispetto all’attività proto-geometrica precedente: La più umile delle corrispondenze biunivoche 1, come tra gli animali uccisi e le tacche sull’osso, è di tutt’altra struttura intellettuale: vi è la negazione dell’oggetto concreto per non trattenere altro che il suo fantasma, la pura esistenza, e vi è la creazione di un segno, diciamo per fissare le idee il segno di un successo del cacciatore. A chi lo possiede basta guardarlo per leggervi un significato, un’interpretazione che non ha alcun legame tangibile, sensibile, con ciò che esso significa, ma che lo mette in corrispondenza con esso. L’uomo, dall’inizio del Paleolitico superiore, ha creato un medium tra i suoi atti e il suo pensiero, un secondo strumento del pensiero dopo – oppure contemporaneamente a – il linguaggio. Dietro l’enumerazione con l’aiuto delle tacche si nasconde il numero: inizia la storia dell’aritmetica [..] due scoperte capitali che dobbiamo ai nostri antenati illetterati: il numero e i sistemi di numeri, ossia il numero e il calcolo.
1 A ogni animale ucciso corrisponde una e una sola tacca, e a ogni tacca corrisponde uno e un solo animale, nell’esempio. La matematica moderna parla in questo caso di corrispondenza biunivoca o di biezione, come facciamo quando apparecchiamo la tavola per i commensali presenti oppure quando contiamo il numero di banconote estratte dal bancomat.
Se ci riflettiamo è proprio così: i numeri sono “negazioni degli oggetti”! sono fantasmi! Non solo le tacche, tutti i segni grafici si impregnano nel Paleolitico superiore di qualche valore simbolico. Infatti, mentre le prime forme in pietra standardizzate “non sono altro che le forme di quei precisi utensili”, nelle pitture parietali di quel periodo presenti in vari luoghi del mondo le forme “accedono allo statuto di simbolo, di mezzo del pensiero”: da una parte i segni figurativi si stilizzano, e appaiono figure complesse quali linee rette o curve parallele, rettangoli decomposti in rettangoli più piccoli e cerchi concentrici. I ricercatori sono convinti che i segni – le tacche, oppure le figure disegnate o modellate – hanno un valore simbolico, soprattutto grazie al confronto con gruppi umani di cacciatori e raccoglitori che sono stati 36
studiati fra Ottocento e Novecento. Sia gli studi antropologici, sia le antiche testimonianze scritte – fra gli indiani come nel Vicino Oriente antico fino ai Pitagorici –, puntano tutti al fatto che vi erano dei collegamenti fra i numeri e le forme e le credenze religiose, i miti e i riti. È del tutto naturale cercare di decifrare il significato degli antichi segni paleolitici, eppure Keller critica severamente le varie interpretazioni matematiche che sono state proposte, soprattutto, perché – ammonisce – ogni verifica è impossibile: e ciò proprio considerando l’enorme varietà dei valori simbolici dei segni grafici schematici in vari popoli. Sulla scia di alcuni studiosi della preistoria specialisti dell’arte parietale, egli sottolinea che ciò che conta è la certezza del loro valore simbolico: in definitiva, possiamo affermare oltre ogni ragionevole dubbio che quelle tacche e quelle linee o figure della fine del Paleolitico significavano qualcosa per coloro che le hanno tracciate. Quei tratti incisi o dipinti non sono mere raffigurazioni, bensì esprimono una ricerca di ciò che il mondo è: Ciò che è certo e corroborato sia dalla archeologia sia dalla etnografia, è la “postura” intellettuale rilevante dell’uomo primitivo, al quale la scienza delle civiltà in epoca storica deve molto: i primitivi hanno affermato in principio che per agire sul mondo, basta agire su ciò che è considerato la sua essenza, il simbolo, e lo hanno fatto in modo immaginario con l’aiuto di disegni geometrici o meno. Concentrare una cosa o una serie di cose su un simbolo prefigura l’azione intellettuale che nega l’apparenza immediata per andare verso l’essenza nascosta, unica via di conoscenza (Figura 2).
In altre parole, la storia dei numeri e delle forme si perde nella notte dei tempi, perché la forma contraddistingue l’industria umana (l’umanità preistorica dà forma perché costruisce e modella), perché la vita è composta da ripetizione di giorni e quindi di gesti quotidiani, fra cui quello antichissimo ed “eroico” dell’inseguimento delle prede. E soprattutto numeri e forme arrivano fino alle soglie della storia pregne della ricerca di significato che l’umanità ha intrapreso fin da allora. A partire da questo atteggiamento di fronte al mondo, afferma Keller – anche se pagando il prezzo di una rottura dolorosa dell’unità del mondo primitivo fatta di corrispondenze simboliche – emergeranno i sistemi matematici dei Greci. 37
Figura 2
Figura 3
2. Il calcolo e la scrittura Prima, tuttavia, è avvenuto un grande salto ulteriore nell’evoluzione del pensiero simbolico, ossia la scoperta della scrittura, con la quale consideriamo convenzionalmente che finisce la preistoria e inizia la storia. Volgiamoci quindi al Neolitico, all’uomo stanziale che diventa agricoltore e anche artigiano, tessitore e ceramista. Proprio l’ambizione di conoscere meglio l’evoluzione delle tecniche per modellare e cuocere l’argilla nel Vicino Oriente antico hanno portato l’archeologa e storica dell’arte Denise Schmandt Besserat a incuriosirsi per certi piccoli reperti, oggettini di argilla sparpagliati per i musei di tutto il mondo, raccolti in molti anni di campagne di scavo e cui nessuno aveva prestato alcuna attenzione. Notevoli però le varie forme di questi oggetti, fra cui alcune regolari come sfere, coni, dischi: erano giochi, erano scarti della fabbricazione dei vasi e contenitori di ceramica? Notevole il fatto che siano stati fabbricati per millenni, fino a poco prima delle prime tavolette incise e impresse con segni (le più antiche risalgono a poco prima del –3000). Notevole, infine, il fatto che essi si trovino in alcuni pochi casi in sfere cave – ancora delle bollae –: di questo fatto si era già interessato un celebre archeologo, Leo Oppenheimer, la cui penetrazione di analisi ci ha aiutato a comprendere la ricchezza e complessità dell’organizzazione sociale e del lavoro nella antica società mesopotamica. Guardando con occhi limpidi ai piccoli contrassegni di argilla e confrontando anch’essa le ricerche linguistiche e antropologiche, Schmandt Besserat ha ipotizzato che i contrassegni fossero i simboli 3D di cose (orzo, olio, pecore), non soltanto in corrispondenza biunivoca (un oggetto – una porzione), in quanto, alle volte un oggetto rappresentava ad esempio dieci porzioni. Quindi si trattava di numeri e di calcolo primitivo (Figura 3). A partire da questi umili inizi, nel mondo antico si svilupparono tecniche di calcolo (conteggi, misure) che ebbero un ruolo cruciale nel lavoro e nell’organizzazione sociale ed economica (costruzione, pagamento di tasse, scambi commerciali, agrimensura). Fin da tempi remoti, la forza creativa nella quale riconosciamo la parte migliore di noi stessi, ha avuto come compagna la matematica: forme, misure e poi calcoli, per costruire, per organizzare e amministrare, per produrre oggetti, per rappresentare il mondo e cercare la bellezza. Sì, in questo senso possiamo dire che ritroviamo questa consonanza con 38
numeri e forme in ogni bambino che viene al mondo, nel suo ripetere dei gesti che così bene si apparenta alla recitazione dei numeri, con questo suo cimentarsi con le mani per toccare, fare e disfare, con il suo movimento per andare ad afferrare qualche cosa desiderata o raggiungere di corsa la madre. 3. La matematica nella modernità Certo è sorprendente che numeri e forme siano una presenza nella vita umana dal pozzo profondo del passato. Pensate all’importanza che hanno le forme e i numeri, quei “fantasmi” delle cose, ancora oggi, in questo senso primordiale: essi veicolano messaggi quali la completezza, l’equità, l’equilibrio, lo slancio verso l’infinito, attraverso la loro presenza nelle immagini e nel discorso. Ad esempio, pensate con quanta cura gli esperti di pubblicità progettano il logo di un marchio, il ruolo del cerchio (Figura 4), delle simmetrie, e la carica di stimoli che ci trasmettono. E pensiamo anche al valore che associamo ai numeri, con i quali esprimiamo le nostre incertezze, sentimenti di ogni tipo: Figura 4 Dodici mesi ha l’anno; sei di truffa e sei d’inganno Eravamo quattro gatti
e le nostre emozioni, come il Piccolo principe di Saint Exupéry: ... Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatré volte! o come canta Bob Dylan nella sua A Hard Rain’s A-Gonna Fall Ho inciampato sul fianco di dodici montagne nebbiose, ho camminato e strisciato lungo sei strade tortuose, mi sono inoltrato nel mezzo di sette cupe foreste ...
I sistemi matematici che i Greci hanno creato attorno ai numeri e alla geometria, considerando i numeri, i punti, le rette come fantasmi del pensiero e accantonando il loro uso quotidiano, ha permesso di sviluppare la scienza moderna e poi la tecnologia, che sono esplose con la loro potenza fra la fine del Settecento, l’Ottocento e il Novecento. Così, 39
oggi la matematica è presente nel nostro mondo non soltanto attraverso il calcolo e l’uso quotidiano, ma soprattutto attraverso la presenza della scienza e delle macchine e le reti tecnologiche. Un filosofo italiano, Galileo, è stato colui che più di ogni altro ha affermato l’idea che dei triangoli e dei cerchi avrebbero permesso di leggere il libro della natura, non più come simboli di misteri nascosti, ma per scoprire le leggi espresse usando le proporzioni studiate dalla matematica. Le ricerche degli studiosi europei vissuti nel Seicento gli hanno dato ragione, e così Isaac Newton arrivò a descrivere ciò che chiamò “principi matematici della filosofia naturale”. Nell’epoca dell’Illuminismo, la fiducia nella ragione umana ebbe così un argomento importante nelle grandi scoperte della fisica studiata con l’aiuto della matematica, e si arrivò a formulare il progetto di creare una scienza della società anch’essa matematica, in grado di farci avere una società più equa e più giusta. La matematica è sì parte di noi, insieme a tante altre manifestazioni del pensiero e dell’agire umano, come il diritto, la storia, le arti, la letteratura, la musica.
Bibliografia
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Giacomo Oggiano
Il calore della terra da argomento di dibattito scientifico a risorsa energetica
Che la terra al suo interno sia calda è un’evidenza che ha trovato generale consenso, per lo meno a partire dagli albori della geologia così come fondata da Hutton. Meno consenso, nel diciannovesimo secolo, c’è stato sulle cause di questo calore. Il paradigma dominante, sostenuto dal padre della termodinamica William Thompson (Lord Kelvin), descriveva la terra primordiale come un corpo inizialmente incandescente, a causa degli urti con altri corpi celesti e/o al suo collasso gravitazionale, e ancora dotata di un calore residuo in via di dissipazione. Tale dissipazione, secondo l’approccio deduttivo del grande fisico sarebbe stata totale in appena qualche decina di milioni di anni. Perciò Lord Kelvin contrastava fieramente Darwin e gli altri geologi che sostenevano un’età della Terra quasi illimitata, necessaria, fra l’altro, alla teoria dell’evoluzione formulata dal grande naturalista. Gli argomenti di Darwin, da buon geologo, erano di natura induttiva, si basavano sull’osservazione dei processi in atto nella crosta terrestre, mentre quelli di Kelvin si basavano sull’assunto assiomatico di una sola fonte di calore iniziale, e potevano essere inficiati soltanto dall’esistenza di una forma di energia “immaginaria e sconosciuta” che avrebbe dovuto rimpiazzare il calore dissipato. Con questi argomenti Kelvin animava il dibattito scientifico che, in epoca tardo vittoriana, lo opponeva ai darwinisti. Ma il dibattito, com’è noto, volse a favore dei darwinisti; solo un paio d’anni più tardi (1896), Henry Bequerel scoprì che i sali di uranio impressionavano le pellicole fotografiche, cioè emettevano radiazioni, e sei anni dopo i Curie scoprirono che oltre all’uranio esistevano altri elementi radioattivi e che la radiazione emessa riscaldava I corpi a contatto con i sali di questi elementi. Ogni m2 di superficie terrestre riceve 1367 W dal sole e 0,060 W 41
Abstract Il calore prodotto in contesti geologici regionali può essere trasferito come fonte continua, sotto forma di energia alternativa e rinnovabile imponendo la realizzazione di centrali che inevitabilmente avranno un certo impatto ambientale L’uomo si trova a dover scegliere tra utilità e rispetto ambientale. Possiamo conciliare la qualità dell’ambiente con l’esigenza di sfruttare risorse naturali a basso costo? The heat produced in regional geological contexts can be transferred as a continuous source, in the form of alternative and renewable energy. This requires the construction of power plants and it will have an environmental impact. Man has to choose between utility and environmental compliance. We can reconcile environmental quality with the need to exploit natural resources at low cost?
dall’interno della terra. Si può sfruttare un flusso che è 20.000 volte più piccolo del calore che ci arriva dal Sole? Noi non sfruttiamo, come qualcuno è portato a pensare, il calore che la terra disperde nello spazio. Lo misuriamo perché le sue anomalie, in senso positivo, sono un indicatore di elevato gradiente geotermico. Sono, cioè, un indicatore di rocce, o fluidi, molto caldi a basse profondità. In queste zone “anomale” I fluidi caldi possono raggiungere da soli la superficie, oppure possono essere prelevati a modeste profondità tramite pozzi. Maggiore sarà questo flusso maggiore sarà la possibilità di reperire risorse geotermiche a profondità limitate. Il flusso di calore dall’interno della terra La legge di Fourier applicata alla terra può essere semplificata in q = Mg dove q è il flusso di calore in un punto della superficie, M la conduttività termica della roccia e g il gradiente Geotermico, che in superficie è di 0.06 W/m² (0.035 sui continenti). Valori più elevati, o più bassi dipendono da: – litologia che influenza la conduttività; – il contesto geodinamico che influenza il gradiente geotermico. Il valore medio del gradiente geotermico nella crosta superiore è di 2530 °C /Km e tende a diminuire con la profondità. Le aree con elevato gradiente geotermico, sono quelle che meglio si prestano per lo sfruttamento del calore terrestre: spesso, ma non necessariamente, sono aree interessate da attività vulcanica.
Utilizzo di fluidi a bassa entalpia I fluidi a bassa entalpia possono essere utilizzati in maniera diretta per il teleriscaldamento degli edifici di civile abitazione o per il riscaldamento di edifici pubblici, serre, o impianti di acquacoltura. In Islanda il numero di abitazioni riscaldate sfruttando questa risorsa raggiunge l’ottantacinque per cento. Inoltre i fluidi a bassa entalpia sono alla base del turismo e della medicina termali. Anche in assenza di acque termali e quindi in zone con gradienti geotermici ridotti è sempre possibile ricorrere al calore terrestre per l’installazione di Geoscambiatori. Questa tecnologia si sta diffondendo sempre di più perché consente notevoli risparmi energetici con conseguente abbattimento della produzione di gas-serra. Il principio è semplice come del resto la tecnologia. Un circuito in cui circola acqua (o altro fluido) raggiunge una profondità nel terreno non influenzata dalla temperatura esterna (strato omeotermo) e la pompa di calore vi trasferisce il calore nel periodo estivo e lo preleva in inverno. In questo modo si ha caldo d’inverno e fresco in estate. Un’abitazione con circa 20 KW di fabbisogno che necessita di 1800 ore di funzionamento all’anno ottiene un fabbisogno energetico di circa 40000 KWh/anno (compresa acqua calda sanitaria), con una spesa in gasolio di circa 4500 €/anno, (tenendo presente il potere calorico teorico del combustibile ed il rendimento medio annuo). Lo stesso fabbisogno energetico, con l’impianto geotermico, ponendo il rendimento medio pari a 4, (4 Kw geotermici per 1 Kw elettrico speso) necessita di un’energia elettrica di circa 10.000 KWh, che equivale a circa 1400 €/anno. Il risparmio è notevole e la CO2 che si immette in atmosfera è si riduce a 1/4. Utilizzo di fluidi a media entalpia In questi sistemi il fluido geotermico a media entalpia (anche in fase liquida) viene utilizzato per vaporizzare, attraverso uno scambiatore di calore, un secondo liquido a basso punto di ebollizione (fluido termovettore). Il fluido secondario si espande in una turbina accoppiata ad un alternatore e viene quindi condensato e riavviato allo scambiatore in un circuito chiuso. Il fluido geotermico, dopo aver attraversato lo scambiatore, può tornare al pozzo di reiniezione per essere nuovamente pompato nel serbatoio naturale da dove proviene, oppure può esse-
Fig. 1. Andamento delle geoterme in relazione alla possibilità di sfruttamento dell’energia geotermica
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Fig. 2. Schema di geoscambiatore
Fig. 3. Schema di ciclo binario
re ancora utilizzato come fonte diretta di calore. Per la miglior coltivazione dei campi geotermici, e per un impatto ambientale trascurabile, è preferibile un sistema che preveda la reiniezione dei fluidi nel serbatoio una volta estratta l’energia. Essendo un sistema a circuito chiuso è anche il più ecologico in quanto eventuali soluti contenuti nel fluido geotermico non vengono dispersi nell’ambiente. Utilizzo fluidi di ad alta entalpia I sistemi geotermici a vapore dominante (fluidi ad alta entalpia) consentono la produzione di grandi quantità di energia elettrica. In Italia la centrale di Larderello produce circa 700 Mw. Non sono compatibili con i valori di gradiente geotermico presenti in Sardegna. In Islanda gli impianti che sfruttano I fluidi ad alta entalpia coprono circa il 30% del fabbisogno di energia elettrica. Come noto oltre al vapore acqueo possono esserci altri gas. Le problematiche ambientali della geotermia Nessuno sfruttamento di energia è esente da problematiche ambientali, così anche lo sfruttamento della risorsa geotermica. Tali problematiche vanno però rapportate al contesto geologico in cui si opera e, soprattutto, vanno raffrontate con i ben più severi impatti generati dallo sfruttamento di combustibili fossili e di biomasse e, per certi
versi, dall’idroelettrico e dal solare fotovoltaico. In realtà le problematiche sono limitate allo sfruttamento dei fluidi ad alta entalpia. Infatti nei sistemi a vapore dominante, in funzione della composizione del serbatoio e del contesto geodinamico, oltre al vapore acqueo possono comparire altri gas, tra I quali CO2, H2S, acido borico e cationi come Hg e As che, se insieme ai condensati sono dispersi nell’ambiente, possono creare problemi di inquinamento. A Larderello (soffioni boraciferi) o a Yellowstone (Gayser) o in Islanda, per millenni questi gas sono finiti nell’atmosfera, mentre dove vengono sfruttati a scopi geotermici c’è la tendenza a reiniettarli nel serbatoio di provenienza, o nelle sue prossimità, dopo l’estrazione di buona parte del contenuto termico. La reiniezione, oltre a risolvere problemi ambientali, può migliorare la resa del campo geotermico, ad esempio rallentandone la decadenza. La pressione di reiniezione deve essere calibrata in modo da non indurre brecciazione idraulica, per non cambiare le caratteristiche del serbatoio in equilibrio col pozzo e per evitare microsismi o, in qualche caso, sismi direttamente percettibili. Infatti in alcuni casi di sistemi che adottano la fratturazione idraulica (EGS) in serbatoi profondi (5 Km) prossimi a faglie sismiche, si sono verificati sismi intorno a ML 3 (e.g.Basilea) che hanno indotto ad abbandonare l’approccio EGS in quel sito. Altra situazione che viene sempre presa come caso critico è l’Amiata. Il monte Amiata è un vulcano alimentato da magmi crostali (generati a basse profondità), attualmente quiescente. Il quadro geodinamico non è paragonabile a quello sardo dove il vulcanismo recente è alimentato dal mantello (magmi profondi). In ogni caso le considerazioni negative sulle problematiche ambientali non sono univoche e, soprattutto, sono limitate alla zona dell’Amiata dove I fluidi “inquinanti” arriverebbero comunque nell’ambiente da vie naturali. La Geotermia in Sardegna In un tentativo di classificazione delle aree italiane con risorse geotermiche sono state individuate 4 categorie principali (da A a D, in ordine decrescente di importanza). In questa classificazione la Sardegna rientra nelle categorie A e B (cioè con interesse da buono a moderato) cioè tra le tre regioni con maggiore flusso di calore e quindi elevato gradiente geotermico.
Fig. 4. Centrale di Larderello 44
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Fig. 5. Andamento del flusso termico in Italia
La Sardegna, dopo la Toscana, l’alto Lazio e alcune zone di limitata estensione come i Campi Flegrei, è la regione più avvantaggiata. Se la Sardegna non è sede di vulcanismo attivo come la Campania o di vulcanismo crostale recente come la Toscana, quale può essere la fonte del calore? È probabile che esistano più concause, ma con buona probabilità una delle più importanti è la presenza nella crosta sarda del batolite sardo-corso col suo rilevante spessore (Casini et al., 2015) di rocce granitiche relativamente ricche di elementi radioattivi quali 40K, 238 U e 232Th, suscettibili di generare calore radiogenico. Considerando valori medi di 238U (~4.5 ppm), 232Th (~20 ppm), e 40K (~4.7%) in accordo con Xhixha et al., (2014), si potrebbe stimare una produzione potenziale di 3.1 μW/m3, utilizzando l’approccio di Rybach (1988). Tale valore è tre volte quello stimabile per una crosta continentale cratonica (circa 1 μW/m3). Se consideriamo l’elevata conducibilità termica dei graniti (generalmente 2.8–3.4 W/m/K; Cuccuru et al., 2015), la Sardegna soprattutto quella settentrionale avrebbe un flusso di calore del 30% più elevato rispetto alle tipiche aree cratoniche. Un tale flusso di calore è sufficiente a generare fluidi termali anche in serbatoi ospitati a profondità relativamente superficiale all’interno di graniti. Le acque termali della Sardegna Le sorgenti termali sono molto diffuse in Sardegna e quelle con temperatura più elevata in genere sgorgano da rocce granitoidi (Anglona, Valle del Tirso). La loro esistenza è di per sé un indizio di elevato flusso termico, favorito da circuiti idrotermali, nelle regioni in cui sono diffuse: Campidano, Valle del Tirso, Anglona e – con temperature inferiori – Logudoro. Questi circuiti presumibilmente si sviluppano lungo faglie prevalentemente all’interno del basamento paleozoico (rocce granitiche e metamorfiti; Cuccuru et al. 2015) e nel Logudoro in vulcaniti terziarie. All’interno di queste aree vi sono diverse manifestazioni idrotermali (es. a Sardara e Villasor nel Campidano, a Fordongianus e Benetutti nella Valle del Tirso) che presentano composizione chimica e temperatura costanti nel tempo (Angelone et al 2005).
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Le aree con sorgenti termali note Campidano acque Na-HCO3-Cl ricche in CO2-N2, temp. max. 55 °C a Sardara; Valle del Tirso acque Na-Cl ricche in N2, temp. max. 55 °C a Fordongianus; Anglona acque Na-Ca-Cl ricche in N2, temp. max. 75 °C a Casteldoria; Logudoro acque Na-HCO3 ricche in CO2, temp. max. 24 °C a Abbalughente presso Romana. Il flusso di calore stimato indica un valore medio nell’area del Campidano di 188,4 mW/m2 e valori anche più elevati in alcune aree dell’Anglona. Mentre è di circa 60 mW/m2 nei rilievi del basamento cristallino varisico, valore prossimo a quello medio della crosta continentale europea. Come utilizzare la risorsa Gran parte del territorio sardo, soprattutto nelle zone granitiche, è idoneo per sonde geotermiche (Cuccuru et al. 2015). Lungo le principali faglie è possibile reperire fluidi per il teleriscaldamento. Ai bordi delle principali fosse tettoniche e lungo le faglie trascorrenti sono presenti condizioni favorevoli per la produzione di energia elettrica con centrali a ciclo binario. In tutta l’Isola è vantaggioso l’impianto di geoscambiatori e telerileriscaldamento. Vantaggi di questi tipi di tutte queste potenziali fonti energetiche: – Circuiti chiusi ad emissioni 0; – Funzionamento continuo non dipendente dalle condizioni meteo e dall’irraggiamento solare; – rinnovabilità della fonte Svantaggi: – Nei secondi due casi gli incentivi sono previsti solo per l’installazione. Non essendoci produzione di Kw elettrico da immettere in rete l’incentivo non è “rinnovabile”. 47
Fig. 6. Aree con principali manifestazioni termali
– Nel terzo caso l’incentivo è “rinnovabile”, il costo energetico in una centrale a ciclo binario è di 0,09 - 0.05 €/ Kwh ed è (o era) previsto un contributo di 0,20 € per Kwh immesso in rete. – Investimenti elevati per ricerca e perforazione dei pozzi (fino a 2/3 dell’investimento totale). Tali costi sono comunque comparabili con quelli necessari per il termoelettrico. – Diffidenza nei confronti di queste tecnologie (indipendentemente da chi le gestisce) alimentata da interessi poco chiari che spesso si trincerano dietro una mal concepita difesa dell’ambiente, subordinata ad esigenze ideologiche, e che prescinde da (o rifiuta) ogni approccio scientifico-sperimentale al problema.
Bibliografia Angelone, M., Gasparini, C., Guerra, M., Lombardi, S., Pizzino, L., Quattrocchi, F., 2005. Fluid geochemistry of the Sardinian Rift-CampidanoGraben (Sardinia, Italy): fault segmentation, seismic quiescence of geochemically ‘‘active’’ faults, and new constraints for selection of CO2 storage sites. Appl. Geochem. 20, 317–340. doi:10.1016/j.apgeochem.2004.08.008 Casini, L., Cuccuru, S., Maino, M., Oggiano, G., Tiepolo, M. 2012. Emplacement of the Arzachena Pluton (Corsica-Sardinia Batholith) and the geodynamics of incoming Pangaea. Tectonophysics; 544-545, 31-49. Cuccuru S., Oggiano G., Funedda A. 2015. Low Entalpy Geothermal Suitability of North Sardinia (Italy). Energy Procedia 76: 256-263. I:10.1016/j.egypro.2015.07.858 Rybach, L., 1988. Determination of heat production rate. In R. Hänel, L. Rybach, L. Stegena, (eds.), Handbook of Terrestrial Heat Flow Density Determination, Kluwer, Dordrecht, pp. 125-142. Xhixha,M., Baldoncini, M., Bezzon, G.P., Buso, G.P., Carmignani, L., Casini, L., Callegari, I., Colonna, T., Cuccuru, S., Guastaldi, E., Fiorentini, G., Mantovani, F., Massa, G., Mou, L., Oggiano, G., Puccini, G., Rossi Alvarez, C., Strati, V.,. Xhixha, C., Zanon, A., 2014. A Detailed Gamma-ray Survey for Estimating the Radiogenic Power of Sardinian Variscan Crust. NORM & Environmental Radioactivity. 27th Conference of the Nuclear Societies in Israel; Dead Sea (Israel); 11-13 Feb 2014; INIS Issue 50. Vol. 45. 48
Italo Ferino
Chimica: una scienza impura?
Nell’opinione pubblica è comunemente diffusa la convinzione che tutto ciò che è chimico sia in opposizione a ciò che è naturale, ritenendo che tutte le cose non possano che essere o naturali o chimiche e, inoltre, che una cosa non può essere simultaneamente sia chimica che naturale. Tuttavia, l’opinione su cosa sia naturale o chimico appare spesso confusa: per esempio, mentre l’acquavite è tradizionalmente considerata “naturale”, il kerosene è quasi invariabilmente considerato una “sostanza chimica”, pur essendo ottenuto dal petrolio grezzo (quindi altrettanto “naturale” del vino) attraverso l’impiego della stessa tecnica, la distillazione. In realtà, tutte le sostanze, siano esse prodotte dalla natura o dall’uomo, sono sostanze chimiche e la dicotomia, allo stesso tempo esaustiva ed esclusiva, che oppone chimico a naturale è palesemente infondata. Benché questa argomentazione sia ineccepibile, l’uso che ne fa l’industria chimica in difesa dei suoi prodotti rischia di nascondere la vera portata della percezione negativa della chimica insita nella dicotomia chimico/naturale. Per cercare di ristabilire una visione più equilibrata sembra invece più utile considerare il modo in cui i prodotti dell’industria chimica sono stati introdotti nell’uso comune e quali implicazioni culturali ne sono derivate. La storia, anche solo schematica, delle materie plastiche è forse la più emblematica in un approccio di questo tipo. La prima materia plastica prodotta su scala commerciale è stata la celluloide, nella seconda metà del 1800. Al suo inventore, John Wesley Hyatt, era stato conferito un premio per aver trovato un sostituto più economico dell’avorio da impiegare nella fabbricazione di palle da biliardo. 49
Abstract La chimica è percepita dall’opinione pubblica come una tecnoscienza che agisce in opposizione alla natura e il ruolo subalterno della disciplina rispetto alle altre scienze è vecchio quanto la disciplina stessa. Insieme alle ragioni che hanno originato questa immagine, in questo articolo saranno presentate motivazioni a sostegno della dignità scientifica della chimica. It is a common opinion among the general public that chemistry is a techno-science, acting in opposition to nature. In addition, the image of chemistry as subaltern science with respect to the other sciences, is as old as chemistry itself. Along with the reasons that gave rise to this landscape, this paper will present arguments in support of the scientific dignity of chemistry.
New Jersey, 1870: la prima fabbrica di materie plastiche (celluloide)
Il cherosene (o kerosene) è una miscela liquida di composti chimici a base di carbonio e idrogeno, incolore, infiammabile, utilizzato principalmente come combustibile o solvente. Il nome deriva dalla parola greca keros (κηρός), che significa “cera”. Una volta veniva ampiamente usato in lampade a cherosene ma ora è usato principalmente come combustibile aeronautico o viene bruciato con l’ossigeno liquido come carburante per missili.
C’era piena consapevolezza del fatto che, a fronte del suo minor costo, il prodotto in celluloide sarebbe stato di qualità inferiore di quello in avorio, ma già nei primi decenni del 1900 questo atteggiamento appare rovesciato. L’industria chimica si rende conto che i suoi prodotti, per esempio il Plexyglas per la fabbricazione di stoviglie o il Nylon per le calze da donna, possono essere considerati superiori a quelli “naturali” e li propaganda esplicitamente come tali: “Cose migliori per vivere meglio, grazie alla chimica”, afferma con orgoglio uno slogan della DuPont negli anni ’30. La “plastica”, usata per produrre oggetti che cambiano forma in risposta ai diversi bisogni o desideri, diventa sinonimo di adattabilità e la sua flessibilità viene sfruttata da designer, architetti e artisti. Aspira alla rispettabilità e appare addirittura insolente: non si presenta più con finiture (toni pastello, finto corno o tartaruga) che imitano i prodotti naturali ma con colori primari brillanti, rivendicando con orgoglio la modernità della sua origine. Questo suo nuovo status viene acutamente rilevato da Roland Barthes, che nel 1971 scrive: “Più che una mera sostanza, la plastica rappresenta l’idea stessa della trasformazione infinita. Come suggerisce il suo nome popolare, essa è l’ubiquità resa visibile. In effetti, è questo che la rende miracolosa: il miracolo è sempre un subitaneo cambiamento in natura. La plastica è impregnata di questo stupore, non è tanto un oggetto, quanto piuttosto la traccia di un movimento”. A dispetto del fatto che la “plastica” è ben altro che un sostituto a 50
basso costo di un materiale naturale e del fatto che, a causa della imprevedibilità o addirittura inaffidabilità dei materiali naturali, gli oggetti nel nostro ambiente immediato sono ormai in larghissima maggioranza prodotti dall’industria chimica, il loro impiego è spesso visto in una luce negativa. Questo atteggiamento è facilmente riconducibile al fatto che la vera e propria rivoluzione originata dall’industria chimica è stata accompagnata non solo da grandi benefici, ma anche da molte paure, a causa degli elevati costi ambientali ai quali è avvenuta. Benché la percezione degli effetti negativi dei processi manifatturieri sull’ambiente risalga addirittura al XVII secolo, la nascita di una diffusa consapevolezza dell’impatto dei prodotti dell’industria chimica sull’ambiente può essere simbolicamente datata al 1962, anno in cui viene pubblicato (a puntate sul New Yorker) il libro Primavera silenziosa, della zoologa statunitense Rachel Louise Carson, chief editor al Dipartimento della Pesca degli Stati Uniti. Il libro, che contiene descrizioni di forte impatto emotivo sulle conseguenze dell’uso di pesticidi ed erbicidi, spinse John F. Kennedy a costituire una commissione di indagine, dando l’impulso per la creazione, nel 1970, dell’EPA, l’Environmental Protection Agency. Nel 1972 l’EPA mise al bando il DDT. Sembra ormai accertato, a quasi mezzo secolo di distanza, che questa decisione abbia avuto una forte componente emotiva (suscitata dalla pressione dell’opinione pubblica) piuttosto che una reale base scientifica. Le audizioni sul DDT durarono sette mesi e nelle conclusioni si legge che “Il DDT non presenta rischi di carcinogenicità, mutagenicità o teratogenicità per l’uomo. Gli usi sotto regolamentazione […] non hanno un effetto deleterio sui pesci, gli organismi degli estuari, gli uccelli o altre forme di vita selvatica […] e […] vi è al momento bisogno dell’uso del DDT”. Nonostante ciò, due mesi dopo, il responsabile dell’EPA ne dichiarò il bando, affermando, sulla base di due studi su animali, che “Il DDT presenta rischio di carcinogenicità per gli esseri umani”. Entrambi questi studi risultarono comunque inattendibili: di uno non fu possibile replicare i risultati, probabilmente affetti da contaminazione con aflatossine, nell’altro le dosi impiegate erano esageratamente massicce. L’intera vicenda è presentata con ricchezza di dettagli in un lavoro di J. Gordon Edwards, pubblicato postumo nel 2004 sull’American Journal of Physicians and Surgeons. L’autore, entomologo, professore emerito alla San José State Universi51
Il para-diclorodifeniltricloroetano o DDT è un solido incolore altamente insolubile in acqua. È stato il primo insetticida moderno ed è senz’altro il più conosciuto; venne usato dal 1939, soprattutto per debellare la malaria. In Italia si ricorda, in particolare, il suo uso a questo scopo in Sardegna, dove la malattia era endemica e ne consentì l’eradicazione. C1
H
C1 C1
C1
C1
Struttura del DDT. Il nome IUPAC esatto è 1,1,1-tricloro-2,2bis(pclorofenil)etano, abbreviato in Dicloro-DifenilTricloroetano, da cui la sigla DDT.
Gordon J. Edwards, fiero oppositore del bando del DDT, che si fa ritrarre mentre nei ingerisce un cucchiaio per mostrarne il carattere innocuo.
ty e convinto ambientalista (aveva servito come ranger per nove anni in un parco nazionale e sosteneva finanziariamente alcune associazioni ecologiste) vi esamina con estrema cura e rigore scientifico tutta la letteratura sull’argomento. Edwards non manca di rimarcare il rifiuto preconcetto degli editor delle più autorevoli riviste scientifiche a considerare per la pubblicazione qualunque lavoro che fosse critico sul bando del DDT, e non esita a intitolare il suo saggio DDT: a case study of scientific fraud. La sua amara conclusione è che “Il composto chimico che ha salvato più vite umane di qualunque altro nella storia, il DDT, è stato bandito […] [in conseguenza della] […] pressione dell’opinione pubblica generata da un libro di successo e sostenuta da ricerche viziate da errori o fraudolente. Le affermazioni […] di carcinogenicità, tossicità […], proprietà anti-androgeniche e persistenza nell’ambiente sono false o grossolanamente esagerate. L’effetto su scala mondiale del bando da parte degli Stati Uniti è stato la morte, che sarebbe stato possibile prevenire, di milioni di persone”. Se da una parte il caso del DDT mette in guardia dal prendere posizioni viziate dall’ideologia e contrarie all’evidenza scientifica, dall’altra i disastri ambientali causati dall’industria chimica testimoniano dei gravi rischi insiti in una gestione dei processi che si pone al di fuori da ogni forma di controllo. È tragicamente famoso il caso di Minamata, in Giappone, nella cui baia la Chisso Chemical Company rilasciò per oltre trenta anni metilmercurio, con conseguente accumulo nei crostacei, molluschi e pesci, e il cui passaggio nella catena alimentare ebbe effetti devastanti sulla popolazione. Oppure quello di Bhopal, in India, dove una fuoriuscita di isocianato di metile da uno stabilimento della Union Carbide causò la morte di migliaia di persone. Alla luce di fatti come questi, l’immagine negativa di cui gode l’industria chimica non è certo sorprendente e forse non lo è neppure il constatare che questa immagine si estende anche alla disciplina accademica: è la chimica stessa che è vista come una scienza impura, che contamina il suolo, avvelena l’acqua e inquina l’aria. Non tutte le catastrofi ambientali di origine antropica sono però causate dall’industria chimica. Basti citare il tragico incidente nucleare di Černobyl e, più recentemente, quello di Fukushima. Curiosamente, a differenza di quanto accade invariabilmente con la chimica, nessun giudizio negati52
vo ricade mai sulla fisica come disciplina accademica da eventi come questi. Devono perciò esserci altre ragioni, nella storia delle due discipline, che determinano una simile disparità di giudizio. Il profondo rispetto di cui gode la fisica e il malcelato disprezzo riservato alla chimica sono già evidenti nell’opinione che comunemente si ha dei fondatori delle due discipline. Mentre da una parte abbiamo Galileo e Newton, considerati maestri di razionalità e rigore, dall’altra troviamo Paracelso, quasi un ciarlatano. D’altronde, gli stessi chimici si presentano alla comunità scientifica, sin dagli inizi della disciplina, con un senso di subalternità. Scrive nel 1610 Jean Beguin nel suo Tyrocinium chimicum: “La chimica è un’arte che insegna a dissolvere i misti naturali e a coagularli, per fare dei medicamenti più gradevoli, più salubri, più sicuri. [...] Il suo oggetto è il corpo misto e composto, non in quanto mobile, perché sotto questo aspetto esso appartiene alla fisica, ma in quanto è solubile e coagulabile. [...]. Il problema principale di ogni scienza è di conoscere i principi. [...]. Prima di passare oltre desidero che i fisici e i medici intendano che i chimici non fanno nulla contro di loro quando stabiliscono altri principi”. Le risposte, se così possiamo chiamarle, dei fisici sono interessanti. Scrive Bernard Le Bovier de Fontenelle, segretario della Reale Accademia delle Scienze di Parigi, nel 1669: “Attraverso le sue operazioni, la chimica scinde i corpi in un certo numero di principi grezzi tangibili: sali, solfi, etc., mentre, attraverso le sue sottili speculazioni, la fisica agisce sui principi come la chimica agisce sui corpi, scindendoli in altri principi ancora più semplici, piccoli corpi disposti e mossi in un numero infinito di modi: questa è la principale differenza tra fisica e chimica. [...] Lo spirito della chimica è più confuso, più denso; questo spirito è simile alle misture, dove i principi sono mischiati insieme l’uno con l’altro, mentre lo spirito della fisica è più chiaro, semplice, meno impedito, e, infine, va dritto all’origine delle cose, mentre lo spirito della chimica è inconcludente”. Secoli dopo, agli inizi del 1900, sentiamo Paul Dirac affermare che “La chimica non è, ormai, che meccanica quantistica applicata” ed Ernest Rutherford, quasi a chiudere bruscamente la questione: “C’è solo la fisica, il resto è collezionismo di francobolli”. In effetti, l’affermarsi della fisica moderna, che ha privilegiato la pura teoria rispetto ad altre forme di conoscenza, ha reso naturale connotare le scienze che rimangono a livello di pratica come impure, se non degenerate. Apparentemente, 53
questo vale in modo particolare per la chimica, una tecnoscienza considerata incapace di stare sul piano elevato della teoria pura e sempre coinvolta nella pratica produttiva. A questo si può aggiungere che la fisica ha l’ambizione di occuparsi dei “grandi” problemi: quali sono i costituenti ultimi della natura e le leggi fondamentali che governano il loro comportamento; quale è la natura ultima del cosmo; come funziona il nostro universo. Di cosa precisamente si occupa invece la chimica? Essa può essere definita la “scienza che studia le proprietà, la composizione, l’identificazione, la preparazione e la trasformazione della materia a partire dal livello atomico e molecolare”. Nella parte finale di questa definizione è implicito il carattere transdisciplinare della chimica. Il semplice esempio della fotosintesi clorofilliana, tipico argomento di biologia, mostra chiaramente il soggiacente ruolo della chimica, senza la quale i meccanismi molecolari che determinano il fenomeno non sarebbero comprensibili. Ma la chimica fa di più che spiegare la base molecolare dei fenomeni osservati dalla biologia: cerca di trarre ispirazione da essi per la risoluzione di problemi di cruciale importanza, non solo economica, ma anche sociale. Un buon esempio è rappresentato dalla produzione di idrogeno, il cui uso come vettore energetico permetterebbe di rendere sostenibile dal punto di vista ambientale il modo di vita delle attuali società complesse. Si possono concepire, e sono in fase di studio, cicli di reazione ispirati alla fotosintesi in cui intervengano molecole (di sintesi) analoghe a quelle del processo naturale e che realizzino la scissione dell’acqua in idrogeno e ossigeno grazie alla radiazione solare. Oppure, per lo stesso scopo, sintetizzare aggregati molecolari in grado di mimare l’azione catalitica di alcuni enzimi capaci di produrre idrogeno. Il fatto che gli aggregati molecolari coinvolti in questi processi abbiano la dimensione di pochi nanometri introduce sulla scena un’altra, giovane disciplina, che sembra insidiare il ruolo della chimica in molti campi del sapere e del fare: la nanotecnologia. Eccone il manifesto, nelle parole di Eric Drexel nel suo (per certi versi visionario) libro Engines of creation del 1986. “I chimici non hanno il controllo diretto sui moti acrobatici delle molecole in un liquido, e così le molecole sono libere di reagire in qualunque modo possano farlo, a seconda di come si urtano. Ciononostante, i chimici ancora persua54
dono le molecole reagenti a formare strutture regolari come molecole a forma di cubo o dodecaedro, e strutture che sembrano improbabili come anelli molecolari con legami fortemente distorti. Le macchine molecolari avranno una più grande versatilità nel far formare i legami, perché useranno i moti molecolari per farlo, ma potranno guidare questi moti in modo che i chimici non possono fare”. Anche se queste parole possono suonare di apprezzamento per il difficile lavoro dei chimici, una metafora di Drexel chiarisce subito che così non è: la nanotecnologia è paragonabile alla costruzione di una automobile pezzo per pezzo, mentre la sintesi tradizionale equivale a cercare di costruirne una mettendo insieme dentro un contenitore tutte le parti simultaneamente e agitando nella speranza di ottenere alla fine una macchina funzionante. La conclusione è che “è sorprendente che i chimici siano in grado di ottenere qualcosa”. L’avvento delle nanotecnologie decreterà dunque la fine della chimica? In realtà la visione di Drexel, che consiste nel semplice trasferimento del modello di macchina alla scala nanometrica, appare inappropriata se si tiene conto di quanto l’ambiente del nanomondo sia radicalmente diverso da quello macroscopico. Certo, non ci sarebbe più il problema dell’inerzia, ma apparirebbe quello delle forze di adesione, che renderebbero le “dita” di una ipotetica nanomacchina troppo “appiccicose” per eseguire il lavoro, oppure, se si pensa a un “nanosottomarino”, si dovrebbe considerare che i moti browniani ne impedirebbero la guida lungo una rotta prestabilita. Non si tratta di critiche distruttive. Come osserva nel 2002 Philip Ball, “il down-sizing dell’ingegneria meccanica reso popolare da nanotecnologisti come Eric Drexel – dove ogni dispositivo nanometrico è architettato come un insieme di parti rigide in movimento, rotelle, cuscinetti e alberi a camme – non considera che ci possono essere modi migliori, più inventivi di ingegnerizzare a questa scala, modi che si avvantaggiano delle opportunità che la chimica e le forze intermolecolari offrono”. Questa proposta di riconciliazione tra nanotecnologia e chimica è implicitamente accolta nella attuale definizione di nanotecnologia: “lavorare al livello atomico, molecolare, supramolecolare alla scala compresa nell’intervallo 1-100 nanometri, allo scopo di comprendere, creare e usare materiali, dispositivi e sistemi con proprietà e funzionalità fondamentalmente nuove a causa della loro piccola struttura”. 55
Eric K. Drexel, visionario sostenitore dell’avvento delle nanotecnologie e autore del libro Engines of Creation
L’RNA e il DNA sono acidi nucleici (molecole polimeriche lineari le cui unità ripetitive sono chiamate nucleotidi), e sono tra le macromolecole essenziali per tutte le forme di vita conosciute. Il DNA (acido desossiribonucleico o deossiribonucleico) è un acido nucleico che contiene le informazioni genetiche necessarie alla biosintesi di RNA e proteine. Negli organismi viventi, il DNA è presente ma come una coppia di filamenti saldamente associati tra loro. Essi si intrecciano tra loro a formare una struttura definita doppia elica. Come il DNA, l’RNA (acido ribonucleico) è assemblato come una catena di nucleotidi, ma a differenza del DNA è più frequente in natura come un singolo filamento ripiegato su se stesso, piuttosto che un doppio filamento accoppiato. Gli organismi cellulari utilizzano l’RNA messaggero per trasmettere le informazioni che dirigono la sintesi di proteine specifiche.
Un campo nel quale la visione dei nanotecnologi nutrita dalle profonde, indispensabili conoscenze dei chimici può dare molti frutti è il cosiddetto rational design, cioè la varietà di metodi, spesso informatizzati, sviluppati per la progettazione di molecole o nanomateriali con interessanti proprietà catalitiche, mediche, magnetiche ottiche o elettroniche. Si può citare come esempio la sintesi di catalizzatori solidi caratterizzati da una architettura strutturale in cui gli spazi sono di dimensioni nanometriche e di forma tale da permettere di accogliere al loro interno solo determinati reagenti e di far avvenire solo le reazioni desiderate, agendo in sostanza come un “nanoreattore”. Si è osservato in precedenza che una delle ragioni che hanno assicurato alla fisica l’indiscusso primato tra le discipline scientifiche è stata la sua capacità di confrontarsi con le grandi questioni sulla natura ultima e l’origine dell’universo. A fianco di queste, però, c’è un’altra “grande domanda” meritevole di essere considerata: che cosa è la vita?. Sono straordinariamente profonde a questo proposito le riflessioni di Thomas Mann, esposte attraverso i personaggi del suo romanzo La montagna incantata, del 1924. Scrive Mann: “Che cos’è la vita? Non si sa. Non appena è vita, ha coscienza di sé, senza dubbio, ma non sa che cosa sia”. E aggiunge più avanti: “Che cos’è la vita? Nessuno lo sa. Nessuno conosce il punto naturale da cui scaturisce, in cui si accende. Da quel punto in poi non c’è nulla di immediato o malmediato nell’ambito della vita”. E conclude infine: “Che cos’è dunque la vita? È calore, il prodotto calorico di una sostanza sostenitrice di forme, una febbre della materia che coinvolge inarrestabile e inarrestabile accompagna il processo di una incessante dissociazione e ricostruzione di molecole d’albumina disposte con arte”. Oltre che per il loro valore letterario, queste citazioni sono notevoli perché rivelano come il grande scrittore avesse acutamente intuito, con grande anticipo sui tempi, quali fossero i punti chiave della questione. Quello che Mann chiama “molecole di albumina disposte con arte” è, sappiamo oggi, la doppia elica del DNA. Con la particolare collocazione dei suoi gruppi chimici all’interno della molecola, il DNA possiede le proprietà salienti della vita: ha una memoria, è in grado di riprodursi, può essere soggetto a mutazioni e di conseguenza può subire adattamenti evolutivi. E l’affermazione che “non c’è nulla di immediato o malmediato nell’ambito della vita” trova riscontro nella 56
complessità dei meccanismi che, con la cooperazione di una serie di enzimi, riduplicano il DNA nel genoma per la conservazione dell’informazione a lungo termine, trascrivono l’informazione nell’effimera molecola dell’RNA messaggero per istruire la sintesi proteica e infine istruiscono la sintesi proteica stessa. Ed è straordinariamente acuta, oltre che molto poetica, la conclusione che la vita è “calore, il prodotto calorico di una sostanza sostenitrice di forme, una febbre della materia...”, che sembra prefigurare il carattere dissipativo (in termini di entropia) dei sistemi viventi. Mentre è superfluo sottolineare la natura squisitamente chimica di questi problemi, vale la pena di osservare che è sempre la chimica che è chiamata ad occuparsi della questione ancora aperta di come è nata la vita. Come scriveva Mann, “Nessuno conosce il punto naturale da cui scaturisce, in cui si accende”, cioè, in altri termini, quali sono stati i primi replicatori e come hanno fatto a replicarsi senza enzimi. L’ambizione della chimica di occuparsi di questo “big bang” della vita è bene espressa da Jean-Marie Lehn: “Per me, la chimica ha il più importante contributo da dare alla domanda più grande di tutte: come è nata l’auto-organizzazione e come essa conduce l’universo a generare una entità che è in grado di riflettere sulla sua stessa origine?”. Se la fisica è la scienza fondamentale, bisogna ora riconoscere che la chimica è la scienza centrale: non c’è aspetto del mondo in cui avvengano trasformazioni della materia in cui essa non sia coinvolta, inclusi gli organismi viventi. I chimici rivendicano il loro diritto/dovere di occuparsi di questi argomenti in termini talvolta molto netti: “La natura delle cellule è un problema interamente molecolare. Non ha niente a che fare con la biologia”, afferma Gorge Whitesides nel 2001, e Erwin Chargaff, nel 1978: “La definizione di biologia molecolare è la pratica della biochimica senza licenza”. È però l’affermazione di Linus Pauling del 1949 che sembra più appropriata: “È il chimico ben preparato che ha le migliori opportunità di contribuire all’integrazione delle scienze”. Non solo per il suo tono pacato, ma perché mette bene in evidenza che la chimica, come la matematica, è sì una scienza autonoma, ma ha anche un forte carattere transdisciplinare, e che la conoscenza chimica è uno strumento, un linguaggio (una filosofia naturale) utilizzato da tutte le altre scienze. E il suo coinvolgimento nella pratica produttiva, che la faceva considerare una scienza impura, è in realtà portatore di 57
Jean-Marie Lehn: si è laureato in chimica organica all’Università di Strasburgo nel 1960. Nel 1963 ha conseguito il Ph.D. e ha cominciato a lavorare nel laboratorio diretto da Robert Burns Woodward ad Harvard, dove si occupò di sintesi organica. In seguito ritornò a Strasburgo dove si dedicò alla chimica fisica. Lehn, parafrasando Richard Feynman e il suo noto discorso There’s plenty of room at the bottom sulle nanotecnologie (con l’espressione There’s even more room at the top) ha indicato come la chimica non solo deve guardare verso l’estremamente piccolo, ma può andare anche al di sopra delle dimensioni molecolari, studiando la complessità supramolecolare.
Bibliografia Bernardette Bensaude-Vincent, Jonathan Simon, Chemistry: The Impure Science, World Scientific, 2008. Rachel Carson, Silent Spring, Mariner Books, 2003. J. Gordon Edwards, DDT: A Case Study of Scientific Fraud, J. Am. Phys. Surg. 9 (2004) 83. Pietro Greco, Einstein e il ciabattino: dizionario asimmetrico di concetti scientifici, Editori Riuniti, 2004. Eric Drexel, Engines of Creation, Anchor Books, 1986. Thomas Mann, La montagna incantata, Corbaccio, 2011. G. Gibson et al., Creation of a Bacterial Cell Controlled by a Chemically Synthesized Genome, Science 329 (2010) 52. P.T. Anastas and J.C. Warner, Green Chemistry: Theory and Practice, Oxford University Press, 1998.
un approccio, il “conoscere attraverso il fare”, che si rivela fruttuoso in tutte le discipline. Così, per esempio, i biologi mimano le tecniche chimiche nella biologia di sintesi. In questa disciplina, che non si limita a introdurre qualche gene estraneo in un organismo ma punta a costruirgli in laboratorio l’intero genoma, i processi di produzione vengono suddivisi nei loro stadi costitutivi, ciò che equivale a identificarne quelle che nell’ingegneria chimica sono chiamate “operazioni unitarie”, adottate già un secolo fa per la sintesi chimica. Da un approccio di questo tipo nascono lavori come quello di Craig Venter e collaboratori apparso su Science nel 2010 e intitolato Creation of a bacterial cell controlled by a chemically synthesized genome, nel quale si rivendica che il solo DNA presente in queste cellule è quello progettato e poi realizzato per via sintetica. L’immagine della chimica che sembra derivarne è molto lontana da quella della modesta serva delineata all’inizio di questa breve rassegna, ma appare piuttosto simile a quella di una arrogante scienza con ambizioni da creatore. Come si possono concludere queste poche pagine su un argomento così articolato e ricco di sfumature? Forse in modo pragmatico, come usano i chimici, considerando che essi hanno sempre dovuto operare, e lo dovranno fare sempre, in un clima di incertezza, perché i prodotti della loro creatività scientifica appartengono simultaneamente al complesso ecosistema naturale e a un ambiente sociale largamente imprevedibile, fuori dal loro controllo. E dando loro atto del fatto di aver saputo sviluppare una piena consapevolezza dell’impatto a lungo termine dei prodotti chimici sulla biosfera, originando una nuova cultura chimica. Questa, significativamente battezzata “chimica verde”, si propone di eliminare (o quanto meno ridurre) l’uso o la generazione di sostanze pericolose durante la produzione e le applicazioni dei prodotti chimici, attraverso azioni quali la progettazione di processi che non prevedano rifiuti o li minimizzino, impiego di materie prime rinnovabili, uso di reagenti non tossici, efficienza atomica elevata, uso di catalizzatori eterogenei, assenza di solventi o uso di solventi riciclabili senza impatto ambientale.
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Pietro Greco
Albert Einstein, pacifista
Il più grande fisico di ogni tempo? Duecento fisici intervistati dalla rivista specializzata Physics World all’inizio dell’anno 2000 non hanno avuto dubbi nel rispondere a maggioranza schiacciante: Albert Einstein. Il tedesco ha preceduto di netto “colleghi” del calibro di Newton, Galileo, Archimede, Maxwell. Il personaggio più rappresentativo del XX secolo? Gli esperti di diverse discipline interrogati, nelle stesse settimane, dalla rivista generalista Time, ancora una volta non hanno avuto dubbi: Albert Einstein. Il tedesco ha preceduto personaggi del calibro di Roosevelt, Stalin, Hitler, Mao, Picasso. Ebbene, pochi lo sanno, ma il padre della relatività e uno dei tre padri fondatori della fisica quantistica (con Planck e Bohr), il personaggio più rappresentativo del XX secolo e forse dell’intero II millennio, il mito inossidabile che è diventato l’icona stessa della scienza, era un pacifista. Ma non un pacifista distaccato e ingenuo, un fisico che cammina sulle nuvole della politica senza mai poggiare i piedi per terra, come qualcuno lo ha descritto. Bensì un pacifista militante. Impegnato in prima persona e dotato di una grande e laica capacità di leggere il presente e di battersi – sì, di battersi – per costruire un futuro desiderabile. Conviene riflettere ancora su questo scienziato che ha dedicato almeno metà della sua vita pubblica alla militanza pacifista. Per due motivi. La sua straordinaria attualità. E la sua straordinaria influenza sulla storia politica del XX secolo. La tesi dello scienziato pacifista che cammina sulle nuvole, fatta propria anche da qualche storico e persino da qualche storico della scienza, non è fondata. Perché Einstein, al contrario, è stato un politico spesso radicale ma sempre molto lucido (le due cose non sono affatto 59
Abstract Ebbene, pochi lo sanno, ma il padre della relatività e uno dei tre padri fondatori della fisica quantistica (con Planck e Bohr), il personaggio più rappresentativo del XX secolo e forse dell’intero II millennio, il mito inossidabile che è diventato l’icona stessa della scienza, era un pacifista. Well, few people know this. The father of relativity and one of the three founding fathers of quantum physics (with Planck and Bohr), the most representative figure of the entire second millennium, the stainless myth that is the same icon of science, was a pacifist.
Manifesto Russell-Einstein Dichiarazione presentata il 9 luglio 1955 a Londra all’interno di una campagna per il disarmo nucleare. I suoi promotori, Bertrand Russel e Albert Einstein, invitavano gli scienziati di tutto il mondo a riunirsi per discutere sui rischi per l’umanità prodotti dall’esistenza delle armi nucleari. A seguito di questo manifesto, tra il 7 e il 10 luglio 1957, nella cittadina canadese di Pugwash, in Nuova Scozia, ventidue scienziati si riunirono in un convegno che fu il primo di una lunga serie, e diede il nome a quello che oggi si chiama il Movimento Pugwash. Nel 1995, a quarant’anni esatti dalla presentazione del manifesto Russell-Einstein, il Movimento Pugwash e il suo presidente storico, Joseph Rotblat, l’unico degli scienziati coinvolti nel progetto Manhattan ad abbandonare il lavoro per contrasti di natura morale, ricevettero il premio Nobel per la pace per i loro sforzi volti a diminuire ed eliminare il ruolo delle armi nucleari nella politica internazionale. Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare, riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del documento che segue. Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano, la cui stessa sopravvivenza è ora in
in contraddizione). Ed è stato un pacifista militante, ma sempre in grado di modulare l’intensità del suo pacifismo o, se si vuole, la qualità delle sue richieste sulla base di una puntuale analisi del contesto o, per dirla nel gergo dei fisici, delle condizioni a contorno. In breve: il pacifismo di Einstein non è mai stato assoluto, ma sempre modellato sulla concreta realtà storica. Basta scorrere la sua storia per rendersene conto. Molti biografi di Einstein, a partire dal suo amico Abraham Pais, attribuiscono il pacifismo del fisico tedesco all’insofferenza, manifestata fin dalla fanciullezza e poi nell’adolescenza, per ogni forma di autoritarismo e di militarismo. Per questo hanno definito «istintivo» il suo pacifismo. In effetti, fin da bambino Einstein mostra insofferenza per qualsiasi tipo di autoritarismo, in primo luogo per quello militare. Ma non è affatto istintiva, almeno non nei contenuti, la prima sortita pubblica del pacifista Einstein, avvenuta nel 1914. Pochi mesi dopo essere giunto a Berlino e pochi giorni dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, il giovane, appena trentacinquenne, sconosciuto alle masse e ammesso nel gotha della fisica prussiana su suggerimento di Max Planck e accolto a Berlino tra mille onori dal Kaiser Guglielmo in persona, non esita a firmare un manifesto – il suo primo manifesto – contro il militarismo prussiano, sfidando le ire della polizia. Ma non c’è solo coraggio, in quel gesto. C’è anche lungimiranza. Nel documento, redatto insieme al biologo Georg Nicolai, Einstein coglie un carattere nuovo della guerra moderna: la distruzione del tessuto culturale e un regresso della civiltà: «Mai prima una guerra aveva distrutto completamente la cooperazione culturale. Ciò avviene nel momento in cui il progresso della tecnologia e delle comunicazioni suggerisce con chiarezza di riconoscere la necessità che le relazioni internazionali si muovano verso l’universale, diffusa civilizzazione». Ma Einstein e Nicolai suggeriscono anche una via d’uscita dalla barbarie della guerra moderna che infiamma il Vecchio Continente: «Noi dichiariamo qui pubblicamente la nostra fede nell’unità europea: una fede che noi crediamo condivisa da molti. Noi speriamo che questa affermazione pubblica della nostra fede possa contribuire alla crescita di un potente movimento verso questa unità. Il primo passo in questa direzione è l’unione delle forze di tutti coloro che hanno sinceramente a cuore la cultura dell’Europa». E concludono: «Noi cerchiamo di effet60
tuare il primo passo, per raccogliere la sfida. Se la pensate come noi, se siete anche determinati a creare un vasto movimento per l’unità Europea, vi offriamo di impegnarvi solennemente con la vostra firma». In piena guerra, dunque, e trent’anni prima di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, due scienziati sconosciuti ai più e senza esperienza politica rilevante, Albert Einstein e Georg Nicolai, si rivolgono a tutti i cittadini del Vecchio Continente chiedendo loro di superare gli steccati del nazionalismo e di impegnarsi per l’unità dell’Europa – di una federazione degli Stati Uniti d’Europa – quale antidoto alla guerra e per intraprendere un percorso virtuoso verso l’universale, diffusa civilizzazione. Le loro parole risultano più che mai attuali oggi, che l’idea di Europa unita è in crisi non solo sul piano economico, ma anche e, forse, soprattutto culturale. Il «Manifesto agli Europei» non otterrà un grande successo. Lo firmano solo in due, oltre gli autori. Ma non per questo Einstein diminuirà il suo impegno politico. Anzi per molti versi lo accentua. Nel corso della Grande Guerra militerà in un partito pacifista ormai clandestino. E poi dopo il 1919, anno in cui viene «provata» la sua teoria della relatività generale, diventerà famoso in tutto il mondo e capace di toccare la mente ma anche il cuore di grandi masse, da Parigi a Tokio, spenderà tutta la sua fama per la causa pacifista. «Non dimentichi di dire che sono un pacifista convinto, che crede che il mondo ne abbia abbastanza della guerra», si raccomanda a un giornalista che, nel 1921, lo ha appena intervistato. La militanza per la pace di Einstein in questi anni è senza tentennamenti. Si alimenta di buone letture (Kant, Russell) e di buoni contatti (Romain Rolland, il presidente americano Woodrow Wilson, il filosofo Henri Bergson, Sigmund Freud). Si inserisce appieno nel filone pacifista del razionalismo europeo. E muove lungo due strade maestre: l’internazionalismo, con la richiesta più volte espressa di un governo democratico del mondo; l’antimilitarismo, con la richiesta più volte espressa del disarmo unilaterale delle nazioni. E così vediamo Einstein partecipare al progetto della Società delle Nazioni e, nel contempo, chiedere ai giovani di rifiutare, in ciascun paese, di prestare il servizio militare. È questa la fase che è stata definita di pacifismo radicale di Einstein. 61
pericolo. Il mondo è pieno di conflitti, e su tutti i conflitti domina la titanica lotta tra comunismo e anticomunismo. Chiunque sia dotato di una coscienza politica avrà maturato una posizione a riguardo. Tuttavia noi vi chiediamo, se vi riesce, di mettere da parte le vostre opinioni e di ragionare semplicemente in quanto membri di una specie biologica la cui evoluzione è stata sorprendente e la cui scomparsa nessuno di noi può desiderare. Tenteremo di non utilizzare parole che facciano appello soltanto a una categoria di persone e non ad altre. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: “Quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?” La gente comune, così come molti uomini al potere, ancora non ha ben compreso quali potrebbero essere le conseguenze di una guerra combattuta con armi nucleari. Si ragiona ancora in termini di città distrutte. Si sa, per esempio, che le nuove bombe sono più potenti delle precedenti e che se una bomba atomica è riuscita a distruggere Hiroshima, una bomba all’idrogeno potrebbe distruggere grandi città come Londra, New York e Mosca. È fuor di
dubbio che in una guerra con bombe all’idrogeno verrebbero distrutte grandi città. Ma questa non sarebbe che una delle tante catastrofi che ci troveremmo a fronteggiare, e nemmeno la peggiore. Se le popolazioni di Londra, New York e Mosca venissero sterminate, nel giro di alcuni secoli il mondo potrebbe comunque riuscire a riprendersi dal colpo. Tuttavia ora sappiamo, soprattutto dopo l’esperimento di Bikini, che le bombe atomiche possono portare gradatamente alla distruzione di zone molto più vaste di quanto si fosse creduto. Fonti autorevoli hanno dichiarato che oggi è possibile costruire una bomba 2500 volte più potente di quella che distrusse Hiroshima. Se fatta esplodere a terra o in mare, tale bomba disperde nell’atmosfera particelle radioattive che poi ridiscendono gradualmente sulla superficie sotto forma di pioggia o pulviscolo letale. È stato questo pulviscolo a contaminare i pescatori giapponesi e il loro pescato. Materiali online per Pappagalli verdi, di Gino Strada 2 Pagina stampabile e fotocopiabile solo a uso didattico © Loescher 2013 Nessuno sa con esattezza quanto si possono diffondere le particelle radioattive, ma tutti gli esperti sono concordi nell’affermare che una guerra con bombe all’idrogeno avrebbe un’alta probabilità di portare alla distruzione della razza umana. Si teme che l’impiego di molte bombe all’idrogeno possa portare alla morte universale – morte che sarebbe immediata solo per una minoranza, mentre alla maggior parte degli uo-
Iniziata nel 1914, questa fase si interrompe tra l’estate del 1932 e l’inverno del 1933, quando Einstein si rende conto che in Germania sta assumendo il potere una forza, quella nazista, contro cui non valgono gli strumenti del pacifismo. Prima ancora che Adolf Hitler assuma il potere, nel dicembre 1932, Einstein lascia la Germania. E alla moglie Elsa che sta uscendo di casa a Caputh, alle porte di Berlino, dice: «Voltati, perché non la vedrai mai più». Albert Einstein comprende prima di altri e meglio di altri la natura del nazismo. La sua violenza inusitata, che minaccia non solo gli Ebrei e gli oppositori in Germania. Ma l’Europa intera. Anzi, la stessa civiltà europea. A quella forza organizzata, pensa Einstein, non è possibile opporre altro che la forza organizzata. E lo sostiene pubblicamente. Così scrive alla fine di luglio del 1933, al pacifista belga Alfred Nahon: «Ciò che dirò ti sorprenderà ... Immagina che il Belgio sia occupato dall’attuale Germania. Le cose andrebbero molto peggio che nel 1914, e sì che allora andarono abbastanza male. Quindi devo chiederti candidamente: se fossi un belga non dovrei, in queste circostanze, rifiutare il servizio militare, piuttosto, dovrei assolverlo con impegno nella certezza che sarei lì per aiutare a salvare la civiltà europea. Ciò non significa che sto abbandonando il principio per cui mi sono battuto finora. Spero sinceramente che verrà il tempo in cui rifiutare il servizio militare diventerà di nuovo il metodo migliore per servire il progresso dell’uomo». Il movimento pacifista europeo resta come scioccato dall’analisi di Einstein. Il quale, dal canto suo, insiste nella sua progettualità politica: per contrastare Hitler, sostiene, occorre un’alleanza stretta tra Usa, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica. Un’alleanza che si formerà effettivamente, ma solo dieci anni dopo. Accorgersi, prima di altri, che sta nascendo un potere così violento da non poter essere contrastato coi normali strumenti della civiltà e prefigurare un’alleanza politica che si realizzerà effettivamente dopo un decennio non è certo da politico ingenuo. E neppure da pacifista candido. Il pensiero di Einstein è sempre di tipo razionale, fondato su un’attenta analisi del contesto. Ed è proprio l’analisi del contesto che lo spinge, nel mese di agosto del 1939, ad accettare l’invito di tre ungheresi – Leo Szilard, Eugene Wigner ed Edward Teller – e a scrivere al presidente americano Franklin 62
Delano Roosevelt per avvertirlo: a) che i fisici hanno realizzato la fissione dell’atomo e scoperto una nuova fonte di energia; b) che questa fonte può essere utilizzata per la costruzione di armi di distruzione di massa di potenza devastante; c) che in Germania ci sono fisici in grado di mettere a punto queste armi; d) che Hitler, invadendo la Cecoslovacchia, è entrato in possesso della materia prima: l’uranio. Occorre dunque che gli Stati Uniti si impegnino a costruire l’arma atomica: non per utilizzarla sul campo, ma quale deterrente verso l’uso di un’eventuale atomica tedesca. Il ruolo che ha la lettera di Einstein a Roosevelt forse è stata sopravvalutato. Certo non sortisce effetti immediati. Negli Usa il Progetto Manhattan partirà solo due anni dopo. Einstein non vi è in alcun modo coinvolto. Anche e soprattutto perché c’è il veto dell’FBI, che lo considera un pericoloso estremista forse amico dei comunisti. Per cui appare del tutto infondato associare la sua figura alla costruzione effettiva dell’arma atomica. Men che meno è possibile associare il nome di Einstein alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Anzi, prima che quelle due immani tragedie si siano consumate, nella primavera del 1945, Albert Einstein è già tornato al suo pacifismo radicale. In Europa la guerra volge al termine. Il nazismo è sconfitto. E quindi, pensa Einstein, è venuta meno la ragione per la costruzione dell’arma atomica. Il contesto è cambiato e lui ritorna pacifista militante e attivo. Ecco, dunque, che scrive una nuova lettera a Roosevelt, pregandolo di ascoltare il suo amico Leo Szilard che intende perorare la sospensione del Progetto Manhattan e bloccare la costruzione dell’arma di distruzione di massa. Ma Roosevelt muore e Szilard non riesce a farsi ascoltare. Il 6 agosto una bomba all’uranio cade su Hiroshima. L’8 agosto l’URSS dichiara guerra al Giappone. Il 9 agosto una bomba al plutonio distrugge Nagasaki. Il 15 agosto l’imperatore Hirohito annuncia la resa. Ora tutto è cambiato. Nei mesi successivi il pacifista Einstein è di nuovo in campo, accanto alla Federazione degli Scienziati Atomici che intende opporsi alla «logica della bomba». Ancora una volta la sua lucidità politica è tutt’altro che candida o banale. Albert Einstein comprende che la nuova arma di distruzione di massa cambia i rapporti tra militare e politica. La logica della bomba è una sua dimensione autonoma, persino superiore, alla logica del confron63
mini toccherebbe una lenta agonia dovuta a malattie e disfacimento. In più occasioni eminenti uomini di scienza ed esperti di strategia militare hanno lanciato l’allarme. Nessuno di loro afferma che il peggio avverrà per certo. Ciò che dicono è che il peggio può accadere e che nessuno può escluderlo. Non ci risulta, per ora, che le opinioni degli esperti in questo campo dipendano in alcuna misura dal loro orientamento politico e dai loro preconcetti. Dipendono, a quanto emerso dalle nostre ricerche, dalla misura delle loro competenze. E abbiamo riscontrato che i più esperti sono anche i più pessimisti. Questo dunque è il problema che vi poniamo, un problema grave, terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra? È una scelta con la quale la gente non vuole confrontarsi, poiché abolire la guerra è oltremodo difficile. Abolire la guerra richiede sgradite limitazioni alla sovranità nazionale. Ma forse ciò che maggiormente ci impedisce di comprendere pienamente la situazione è che la parola “umanità” suona vaga e astratta. Gli individui faticano a immaginare che a essere in pericolo sono loro stessi, i loro figli e nipoti e non solo una generica umanità. Faticano a comprendere che per essi stessi e per i loro cari esiste il pericolo immediato di una mortale agonia. E così credono che le guerre potranno continuare a esserci, a patto che vengano vietate le armi moderne. Ma non è che un’illusione. Gli accordi conclusi in tempo di pace
di non utilizzare bombe all’idrogeno non verrebbero più considerati vincolanti in tempo di guerra. Con lo scoppio di un conflitto armato entrambe le parti si metterebbero a fabbricare bombe all’idrogeno, poiché se una parte costruisse bombe e l’altra no, la parte che ha fabbricato le bombe risulterebbe inevitabilmente vittoriosa. Tuttavia, anche se un accordo alla rinuncia all’armamento nucleare nel quadro di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe la soluzione definitiva del problema, avrebbe nondimeno una sua utilità. In primo luogo, ogni accordo tra Oriente e Occidente è comunque positivo poiché contribuisce a diminuire la tensione internazionale. In secondo luogo, l’abolizione delle armi termonucleari, nel momento in cui ciascuna parte fosse convinta della buona fede dell’altra, diminuirebbe il timore di un attacco improvviso come quello di Pearl Harbour, timore che al momento genera in entrambe le parti uno stato di agitazione. Dunque un tale accordo andrebbe accolto con sollievo, quanto meno come un primo passo. La maggior parte di noi non è neutrale, ma in quanto esseri umani dobbiamo tenere ben presente che affinché i contrasti tra Oriente e Occidente si risolvano in modo da dare una qualche soddisfazione a tutte le parti in causa, comunisti e anticomunisti, asiatici, europei e americani, bianchi e neri, tali contrasti non devono essere risolti mediante una guerra. È questo che vorremmo far capire, tanto all’Oriente quanto all’Occidente. Ci attende, se
to politico e ideologico. E che è questa logica, stavolta, a mettere in gioco la sopravvivenza della civiltà. Forse della stessa umanità. Per cui occorre agire. Da un lato riprendendo l’idea di un governo mondiale, gestito in una prima fase dalle potenze vincitrici della guerra – Usa, Gran Bretagna e Urss – cui affidare il monopolio dell’arma atomica. E dall’altro mobilitando le masse, in una stretta e inedita alleanza con gli scienziati, per impedire l’«assuefazione» alla bomba e per costruire un movimento globale per il disarmo nucleare. Intorno a questo progetto Einstein lavorerà fino agli ultimi giorni. E questo lavoro culminerà nel manifesto Russell-Einstein firmato dal fisico tedesco una settimana prima di morire. La vita di Einstein termina il 18 aprile 1955. Il manifesto viene reso pubblico da Bertrand Russell nel luglio successivo e diventa sia il fondamento delle Conferenze Pugwash, il movimento degli scienziati che si battono, in modo attivo e analitico, per il disarmo sia uno dei fondamenti del movimento di massa per la pace che, tra alterne vicende e profondi cambiamenti, è vivo e attivo ancora oggi. È stata, quella del pacifista Einstein, l’attività di un visionario senza effetti sulla realtà concreta del mondo? Certo, la corsa al riarmo atomico non è stata fermata da quell’alleanza tra scienziati e grandi masse teorizzata da Einstein all’atto dell’assunzione, nel 1946, della Presidenza dell’Emergency Committee della Federazione degli Scienziati Atomici. Certo, l’umanità siede ancora oggi su una polveriera in grado di distruggerla. Ma, sostiene lo storico Lawrence S. Wittner, in forze alla State University di New York, se dopo Hiroshima e Nagasaki l’arma atomica non è stata più usata – se è diventata un tabù per tutti, politici e militari compresi – non lo si deve tanto alla saggezza dei governi e degli stati maggiori, ma proprio a quel movimento per il disarmo capace di mobilitare le masse voluto da Albert Einstein. Tra l’11 e il 12 ottobre 1986, in un vertice tenuto a Reykjavík, in Islanda, Michail Gorbaciov, ultimo segretario del PCUS e ultimo Presidente dell’URSS, propose a Ronald Reagan, Presidente degli Stati Uniti d’America, di azzerare gli arsenali atomici. Reagan fu a un passo dall’accettare. Il progetto svanì, ma iniziò un processo quanto meno di riduzione degli armamenti nucleari. Quando, tempo dopo, fu chiesto a Gorbaciov da dove venisse quell’idea, il Presidente dell’URSS rispose: dalla lettura dei testi di Albert Einstein e dalla proposte del movimento 64
pacifista mondiale. A riprova che il pensiero del più grande fisico di tutti i tempi ha avuto un’influenza reale nella storia del mondo. Un pensiero – eliminare tutti le armi nucleari – più che mai attuale.
Bibliografia Albert Einstein, Scienziato e filosofo, a cura di A.P. Schlipp, Einaudi, 1958. Albert Einstein, Pensieri degli anni difficili, Universale Scientifica Boringhieri, 1965. Albert Einstein, Opere scelte, a cura di Enrico Bellone, Bollati Boringhieri, 1988. Abraham Pais, Sottile è il Signore..., Boringhieri, 1986. Abraham Pais, Einstein è vissuto qui, Bollati Boringhieri, 2007. Walter Isaacson, Einstein, la sua vita, il suo universo, Mondadori, 2008. John Stachel, L’anno memorabile di Einstein, Dedalo, 1998. Jeremy Bernstein, Einstein, Oscar Mondadori, 1990. Albert Einstein, Il lato umano, a cura di Helen Dukas e Banesh Hoffmann, Einaudi, 1980. Helen Dukas e Banesh Hoffmann, Albert Einstein, creatore e ribelle, Bompiani, 1977. Lewis Samuel Feuer, Einstein e la sua generazione, il Mulino, Bologna, 1990. Francoise Balibar, Einstein 1905, dall’etere ai quanti, Edizioni Kami, Roma, 2005. John Brockman, a cura di, Einstein secondo me, Bollati Boringhieri, 2010. Albert Einstein e Mileva Maric, Lettere d’amore, Bollati Boringhieri, 1993. Albert Einstein, Michele Besso, Correspondance, 1903-1955, Hermann, Paris, 1979. Fabio Toscano, Il genio e il gentiluomo, Sironi, 2004. John Gribbin, Il capolavoro di Einstein, Bollati Boringhieri, 2015. Pietro Greco, Marmo pregiato e legno scadente, Carocci, 2015. Amanda Gefter, Due intrusi nel mondo di Einstein, Raffaello Cortina, 2015. Federico Laudisa, Albert Einstein, Bompiani, 2010. Einstein parla italiano: itinerari e polemiche, a cura di Sandra Linguerri, Raffaella Simili, Edizioni Pendragon, Bologna, 2008. Silvio Bergia, Einstein, I grandi della Scienza, I, 6, 1998. Enrico Bellone, Albert Einstein relativamente a spazio e tempo, DVD Beatuful Minds n. 12, La Repubblica-L’Espresso, 2010. http://www.einstein-website.de http://www.alberteinstein.info/ http://www.openculture.com/2013/06/listen_as_albert_einstein_calls_for_peace_ and_social_justice_in_1945.html https://vault.fbi.gov/Albert%20Einstein 65
lo vogliamo, un futuro di continuo progresso in termini di felicità, conoscenza e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte solo perché non siamo capaci di dimenticare le nostre contese? Ci appelliamo, in quanto esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità, e dimenticate il resto. Se ci riuscirete, si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; altrimenti, vi troverete davanti al rischio di un’estinzione totale. Invitiamo questo congresso, e per suo tramite gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente mozione: In considerazione del fatto che in una futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi sono una minaccia alla sopravvivenza del genere umano, ci appelliamo Materiali online per Pappagalli verdi, di Gino Strada 3 Pagina stampabile e fotocopiabile solo a uso didattico © Loescher 2013 con forza a tutti i governi del mondo affinché prendano atto e riconoscano pubblicamente che i loro obbiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale e di conseguenza li invitiamo a trovare mezzi pacifici per la risoluzione di tutte le loro controversie. Firmatari del manifesto Max Born, Percy W. Bridgman, Albert Einstein, Leopold Infeld, Frédéric Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat, Bertrand Russell, Hideki Yukawa
Vincenzo Schettino
L’immaginazione nella scienza
Vedere un mondo in un granello di sabbia E un cielo in un fiore selvatico Tenere l’infinito nel cavo della mano E l’Eternità in un’ora
E così molti altri. Heinrich von Kleist scrive che “Newton nel seno di una ragazza avrebbe visto solo una linea curva e nel suo cuore niente di più interessante della sua capacità volumetrica”. Analogamente D.H. Lawrence vede la scienza come un mondo arido:
Abstract L’articolo si propone di discutere il ruolo dell’immaginazione nella scienza. Vengono prima riportate alcune delle contrastanti opinioni espresse in proposito da letterati e scienziati e successivamente viene illustrata in dettaglio la rilevanza che l’immaginazione ha avuto nel metodo di lavoro e nelle scoperte scientifiche di alcuni padri fondatori della moderna scienza chimica (van’t Hoff, Kekulé e Mendeleev). This article aims to discuss the role of imagination in science. First will be given some of the mixed views expressed in this regard by writers and scientists. Then will be explained in detail the importance that imagination had in working method and the scientific discoveries of some founding fathers of modern chemistry (Van’t Hoff, Kekule and Mendeleev).
1. Introduzione Un radicato pregiudizio, che non riconosce un ruolo significativo dell’immaginazione nella scienza, nasce da una lettura schematica del precetto del metodo scientifico che ogni modello deve sottostare alla verifica di esperimenti perfettamente definiti, che potranno essere ripetuti con identici risultati. In questa visione la scienza si presenta come un sistema rigido, privo di margini di manovra. Ma, in realtà, la scienza è uno strumento conoscitivo intrinsecamente dinamico, che si rinnova continuamente. In Vita di Galileo [1], Bertold Brecht fa dire al grande scienziato: “Quello che oggi sappiamo, domani lo cancelleremo dalla lavagna”. Il pregiudizio sul ruolo dell’immaginazione deriva anche dalla paura che la conoscenza del mondo naturale perseguita dalla scienza distrugga il fascino e il mistero di quello che ci circonda, riducendo tutto a oggetti esprimibili solo con formule o equazioni. In questo articolo esamineremo prima il pensiero di artisti e di scienziati sul ruolo dell’imaginazione nella scienza [2] per poi illustrare come nel lavoro di grandi scienziati l’immaginazione abbia svolto un ruolo fondamentale. 2. Un ventaglio di opinioni contrastanti William Blake [3], scrittore, artista, poeta romantico ha espresso il suo pensiero in varie forme. In una sua incisione (Laocoonte) la figura centrale è circondata in maniera disordinata da iscrizioni e aforismi, in uno dei quali si legge: “L’arte è l’albero della vita, la scienza è l’albero della morte”, e nella morte non c’è molto spazio per l’immaginazione. In una poesia Blake esprime il disprezzo per l’atteggiamento analitico della scienza: 66
[la scienza] ha ucciso il sole, rendendolo una palla di gas con delle macchie... Il mondo della scienza... è il mondo arido e sterile abitato dalla mente astratta
Ma secondo John Tyndall [4], il grande fisico dell’800, questi pregiudizi dipendono solo da una scarsa conoscenza: È stato affermato dai suoi oppositori che la scienza si separa dalla letteratura: ma questa affermazione, come molte altre, si origina da una scarsa conoscenza.
Lo stesso Lawrence non sa sottrarsi al flusso immaginativo della scienza: Amo la relatività e le teorie dei quanti Perché non le capisco E mi fanno sentire come se lo spazio si muovesse in giro come un cigno che non si posa Rifiutando di fermarsi ancora e di essere misurato; E come se l’atomo fosse un oggetto impulsivo Che cambia continuamente opinione.
Nel suo trattato sull’ottica Newton ha dato una spiegazione scientifica dell’arcobaleno dovuto a fenomeni di dispersione e riflessione nelle gocce d’acqua sospese nell’aria. Per il poeta James Thomson la conoscenza scientifica esalta il fascino e l’immaginazione dell’arcobaleno: Anche la stessa luce, che mostra tutte le cose, 67
Nato in Irlanda nel 1820, John Tyndall esercitò per anni la professione di geometra e ingegnere e per questo motivo si laureò in fisica soltanto nel 1850. Fu poi professore alla Royal Institution di Londra dove intrattenne rapporti di forte amicizia con Michel Faraday. Fu il primo scienziato a dimostrare sperimentalmente l’effetto serra e per le sue ricerche sull’ottica, sul calore e sulla propagazione del suono divenne membro della Royal Society.
brillava non scoperta, finché la sua mente brillante disciolse tutto lo splendente vestito del giorno E, dalla bianca indistinta fiamma, Raccogliendo ogni raggio nel suo genere, All’occhio incantato portò lo splendido treno Dei colori primari. ... come giusta, come bella la legge di rifrazione.
La stessa sensazione è espressa da Mark Akenside: l’arcobaleno non è mai stato così piacevole come quando la prima volta la mano della scienza ha indicato la strada con la quale i raggi del sole cadono sulla nebbia d’acqua
Ma non tutti la pensano così. John Keats sostiene che “Newton ha distrutto tutta la bellezza dell’arcobaleno riducendolo ai colori del prisma” e Williams Wordsworth in Lamia scrive: Non volano via tutte le bellezze al semplice tocco della fredda filosofia? C’era una volta un terribile arcobaleno in cielo; conosciamo la sua struttura e tessitura; come dato nell’insignificante catalogo delle cose comuni. La filosofia taglierà le ali di un Angelo, conquisterà tutti i misteri con regole e linee
Ma sarà poi vero che conoscere qualcosa di quello che ci circonda distrugge il mistero e il fascino? O è vero il contrario? Il poeta Hugh MacDiarmid scrive in una sua poesia: Senza un po’ di chimica uno è costretto a restare Per sempre uno sciocco selvaggio Di fronte a reazioni vitali. Le meravigliose relazioni Mostrate solo dalla biochimica 68
Prendono il posto di uno stupefatto senso di meraviglia Perché naturali e comprensibili. La natura è più meravigliosa Se è almeno in parte compresa
La questione è stata analizzata con grande lucidità da Richard Feynman in una delle sue lezioni: I poeti dicono che la scienza ci allontana dalla poesia delle stelle – semplici globi di gas atomici. Ma niente è semplice. Anch’io posso guardare le stelle in una notte serena e ammirarle. Ma io vedo di più o di meno? La vastità dei cieli amplia la mia immaginazione – attaccato a questo carosello il mio piccolo occhio può catturare una luce vecchia di un milione di anni. Un vasto scenario, di cui sono parte – forse la mia materia è stata emessa da qualche stella dimenticata, come una che sta emettendo là. O vederle con il grande occhio di Palomar, che sfrecciano via da qualche punto iniziale comune, quando forse erano tutte insieme. Quale era lo scenario, o il significato o il perché? Non nuoce al mistero saperne qualcosa. Perché molto più meravigliosa è la verità di quella immaginata da artisti del passato!... Che uomini mai sono i poeti che possono parlare di Giove se fosse come un uomo, ma se è una immensa sfera ruotante di metano e ammoniaca devono restare in silenzio?
Humphry Davy, il grande chimico dell’800, in uno dei suoi quaderni di laboratorio scrive: La percezione della verità è quasi altrettanto semplice che la percezione della bellezza; e i geni di Newton, di Shakespeare, di Michelangelo e di Handel, non sono poi così lontani uno dall’altro. L’immaginazione, come pure la ragione, è necessaria per la perfezione nella mente filosofica. La rapidità di combinazione, la capacità di percepire analogie, e di confrontarle con i fatti, sono la sorgente creativa della scoperta. La discriminazione e la precisione della sensazione, così importante nella ricerca fisica, sono altri nomi per il gusto e l’amore per la natura è la stessa passione che l’amore per il magnifico, il sublime, il bello.
Michael Faraday [5], un chimico prestato alla fisica [6], è stato uno dei 69
più grandi sperimentatori sia nella chimica che nella fisica. Faraday aveva una scarsa conoscenza della matematica ma in tutta la sua attività ha supplito a questo con la sua formidabile intuizione. Nello studio delle interazioni magnetiche ha immaginato le linee di forza, che nessuno potrà mai osservare e possiamo solo visualizzare attraverso la disposizione dei granelli di una polvere di ferro attorno ai poli di un magnete. Parlando del suo lavoro di scienziato, Faraday scrive: Difficilmente puoi immaginare come io mi stia sforzando ad esercitare le mie idee poetiche proprio ora per scoprire analogie e remote immagini nel rispetto della terra, del sole e di ogni sorta di cose perché io penso che questo sia il vero modo (corretto dal nostro giudizio) per arrivare a una scoperta.
Analogamente Mendeleev scrive: Come, nell’immaginazione di Dante, l’aria invisibile si affolla di esseri spirituali, così, davanti agli occhi del più attento ricercatore, e specialmente davanti agli occhi di Clerk Maxwell, la massa invisibile dei gas si popola di particelle.
3. L’immaginazione nel lavoro degli scienziati 3a. van’t Hoff: Molecole nello spazio Jacobus Van’t Hoff (1852-1911), grande innovatore nella chimica e fondatore della chimica fisica ha ricevuto il primo premio Nobel per la chimica nel 1901 per i suoi studi sulle soluzioni e sulla pressione osmotica. Il primo grande risultato scientifico di van’t Hoff è contenuto in un breve articolo pubblicato prima della sua tesi di dottorato: Proposta per l’estensione delle attuali formule di struttura chimiche nello spazio: immaginando che l’atomo di carbonio formi quattro legami diretti verso i vertici di un tetraedro van’t Hoff ha dato origine alla stereochimica. Questa idea rivoluzionaria fu inizialmente giudicata una pura fantasia infantile. Ma l’immaginazione di van’t Hoff aveva dato nel segno. L’idea di molecole con legami precisamente orientati nello spazio tridimensionale non nasceva dal nulla. La rappresentazione delle formule 70
chimiche nel piano era insoddisfacente particolarmente in molecole complesse in cui c’era la possibilità di isomeria. Fu in questo scenario delle conoscenze di struttura chimica che van’t Hoff intuì che la disposizione tetraedrica dei legami intorno all’atomo di carbonio poteva chiarire una molteplicità di fatti in cerca di spiegazione. Quando fu chiamato come professore di chimica fisica all’Università di Amsterdam van’t Hoff tenne una lezione inaugurale dal titolo: Il potere dell’immaginazione nella scienza [7] in cui illustrò la sua idea generale del metodo di lavoro del chimico, e dello scienziato in generale. Van’t Hoff sostiene che la scienza è pratica nel senso migliore del termine; cioè nello studio dei fenomeni naturali la scienza si prefigge di trovare un collegamento tra cause ed effetti, cercando le strade più opportune, anche indirette, per scoprire questi collegamenti. In questo processo l’immaginazione può avere un ruolo fondamentale. L’immaginazione è l’abilità di visualizzare un oggetto in tutte le sue proprietà in modo da rappresentarlo con la stessa precisione ottenibile con una osservazione diretta. La configurazione tetraedrica intorno all’atomo di carbonio “immaginata” da van’t Hoff sarà confermata sperimentalmente per mezzo della diffrazione dei raggi X solo dopo molti anni. Van’t Hoff identifica due fasi nel lavoro dello scienziato, l’osservazione del fenomeno e la ricerca delle relazioni causa-effetto. Nella prima, l’immaginazione si esplicita nella scelta del momento e della natura dell’osservazione, oppure nella variazione delle condizioni sperimentali e nell’invenzione degli espedienti sperimentali per un’osservazione significativa. Nella seconda fase l’immaginazione agisce nello scoprire corrispondenze ed analogie (o differenze) con conoscenze pregresse oppure nel formulare ipotesi che poi dovranno essere verificate. Nella concezione di van’t Hoff il lavoro dello scienziato deve procedere attraverso l’osservazione e l’immaginazione per ottenere risultati importanti: molto spesso i risultati ottenuti provengono da una perseveranza nella realizzazione di una qualche idea che inizialmente esiste solo nella mente del ricercatore come risultato dell’immaginazione. Parlando ancora dell’immaginazione, van’t Hoff conclude che nella mente umana c’è un elemento spirituale e poetico che, all’improvviso, ci dà un’illuminazione e una previsione del futuro che ci permettono di percepire la verità della natura come per anticipazione. 71
3b. Kekulé: Sogno e realtà Friedrich August Kekulé (1829-1896) è generalmente considerato il padre fondatore della chimica organica che lui, per primo, definì come la chimica dei composti del carbonio. Il nome di Kekulé è legato soprattutto alla teoria della struttura che permise di superare la classificazione delle sostanze sulla base dei tipi o dei radicali [8]. Nel 1890 fu organizzato un festival in onore di Kekulé (Benzolfest) nella City Hall di Berlino e in quella occasione Kekulé tenne una conferenza (poi pubblicata nel Berichte der Deutschen Chemischen Gesellshaft) [9] in cui spiegò l’origine delle sue idee sulla tetravalenza (o sulla tetratomicità, secondo il suo linguaggio) del carbonio, sulla capacità degli atomi di carbonio di legarsi tra loro in catene e sulla struttura del benzene e delle molecole aromatiche. Nel suo discorso Kekulé precisa che nella scienza non ci meravigliamo di vedere più lontano di chi è venuto prima di noi semplicemente perché viaggiamo sulle spalle dei nostri predecessori. È falso pensare che le nuove teorie, come quella della struttura del benzene, sorgano per incanto, come una meteora in cielo. Arriva il tempo in cui nuove teorie sono nell’aria perché si originano da semi piantati da altri e rimasti in attesa di germinare. Tuttavia, Kekulé racconta poi l’origine delle sue teorie facendole apparire avvolte nella leggenda [9]. A proposito dell’idea che gli atomi di carbonio si leghino tra loro dice:
A proposito della struttura del benzene Kekulé ricorda un secondo sogno:
Durante il mio soggiorno a Londra abitavo in Clapham Road. (…) Spesso passavo le serate con il mio amico Hugo Mueller (…) Parlavamo di molte cose, ma soprattutto della nostra amata chimica. Una sera di fine estate [mentre] tornavo a casa con l’ultimo omnibus (…) caddi in una reverie e, ecco, gli atomi serpeggiavano davanti ai miei occhi. Tutte le volte fino ad allora in cui questi minuscoli esseri mi erano apparsi, erano sempre stati in movimento. Ora, invece, vedevo come, spesso, due atomi più piccoli si univano a formare una coppia; come una coppia più grande abbracciasse i due più piccoli; come alcune ancor più grandi afferrassero tre o anche quattro dei più piccoli; come il tutto continuasse a girare in una danza vertiginosa. (…) Il grido del conduttore “Clapham Road!” mi risvegliò dal sogno, ma passai una parte della notte a mettere su carta i primi abbozzi di queste forme viste in sogno.
Forse la storia dei sogni di Kekulé non è vera ed è solo una magnifica invenzione. Secondo alcuni, con il racconto dei sogni Kekulé ha voluto attribuirsi tutto il merito delle sue scoperte. Ma in realtà nel suo discorso in occasione del Benzolfest egli riconosce esplicitamente che la teoria della struttura e della geometria del benzene sono state un’impresa collettiva. Tuttavia, indipendentemente dai sogni, l’intuizione ha giocato un ruolo fondamentale nella teoria della struttura. Kekulé identifica tre momenti nel lavoro dello scienziato: l’immaginazione che permette di andare oltre la semplice correlazione di una molteplicità di fatti sperimentali, la memoria degli esperimenti e delle elaborazioni proprie e di altri come base per la ricerca di collegamenti, il giudizio critico proprio dello scienziato. La straordinaria capacità di Kekulé di penetrare con l’immaginazione nel mondo invisibile degli atomi e delle molecole deve, con ogni eviden-
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Ero seduto intento a scrivere, ma il lavoro non progrediva; i miei pensieri erano altrove. Girai la sedia verso il camino e mi appisolai. Di nuovo gli atomi giocavano di fronte ai miei occhi (…). Il mio occhio mentale, reso più acuto da questa ripetuta visione, era ora in grado di distinguere strutture più grandi di multiforme conformazione; lunghe file talvolta sistemate più strettamente, tutte sinuose e ricurve come il moto di un serpente. Ma guarda! Che cos’è? Uno dei serpenti aveva afferrato la sua stessa coda, e la forma girava beffardamente davanti ai miei occhi. Come per un lampo improvviso mi risvegliai e passai il resto della notte a elaborare la mia ipotesi.
Kekulé conclude il racconto dei suoi sogni con un invito e un ammonimento: Impariamo a sognare, signori, e poi forse scopriremo la verità. E a quelli che non pensano Che gli verrà data la verità A loro sarà data senza sforzo Ma guardiamoci dal rendere i nostri sogni di pubblico dominio finché non siano corroborati dalla nostra interpretazione cosciente.
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Dmitrij Mendeleev nacque in Siberia nel 1834. Nel 1857 a San Pietroburgo comincio i suoi studi scientifici divenendo nel 1867 professore di chimica all’Istituto Tecnologico e all’Università Statale. Nel 1868 comincia la stesura del suo famoso testo Principi di chimica, con l’obiettivo di razionalizzare tutte le informazioni dei 63 elementi chimici noti a quel tempo. Un anno dopo lo scienziato russo presentò i suoi risultati sull’interdipendenza fra le proprietà dei pesi atomici degli elementi alla Società Chimica russa, che lui stesso aveva fondato.
za, essere stata esaltata dai suoi studi iniziali di architettura, prima di dedicarsi all’amata chimica, che avevano indotto una irresistibile spinta a visualizzare ogni tipo di oggetti, anche nel mondo dell’infinitamente piccolo.
È funzione della scienza quella di scoprire l’esistenza di un regno di ordine generale nella natura e di trovare le cause che disciplinano questo ordine. E questo si riferisce in misura uguale alle relazioni dell’uomo – in campo sociale e politico – e all’intero universo nel suo insieme
3c. Mendeleev e la tavola periodica La creatività della chimica, la gratificazione estetica nella ricerca, il ruolo dell’immaginazione nella scoperta scientifica, la ricerca dell’ordine e della perfezione sono illustrate nel modo più evidente dalla storia e dai profondi significati e implicazioni della tavola periodica degli elementi, l’icona fondamentale della chimica, di cui vogliamo parlare nel seguito. Il tentativo di riduzione della molteplicità del mondo naturale ad un numero finito di elementi fondamentali risale ai filosofi greci. Nella cosmogonia di Platone ci sono quattro elementi fondamentali (aria, acqua, fuoco e terra) che sono associati a forme geometriche semplici, i solidi platonici, simbolo di bellezza e perfezione, e dalle cui combinazioni si formano tutti gli oggetti del mondo naturale. Nella concezione di Aristotele sono le qualità piuttosto che le forme geometriche degli elementi ad avere un ruolo fondamentale. Un presagio della moderna tavola periodica è stato visto nei sette metalli degli alchimisti (oro, argento, ferro, mercurio, piombo, stagno, rame), ognuno associato ad un corpo celeste; è la magia del numero sette che come vedremo ritornerà in tempi più recenti nella regola delle ottave di Newlands [10], il vero antecedente della tavola periodica di Mendeleev. In effetti, per menzionare solo alcune delle ricorrenze di questo numero, sette sono le meraviglie del mondo antico, i saggi, le porte di Tebe, i colori dell’arcobaleno, i giorni della settimana, le zone celesti dell’antichità, le stelle dell’orsa. Solo con la definitiva affermazione della teoria atomica e la rifondazione di Lavoisier della chimica come rigorosa scienza sperimentale le correlazioni tra le proprietà delle sostanze acquistano un valore quantitativo. Con Mendeleev la ricerca di una tavola periodica degli elementi diviene non la ricerca di una regolarità nei comportamenti chimici e fisici ma la ricerca di una legge universale che si manifesta anche nei fenomeni chimici [11]:
La scoperta della tavola periodica da parte di Mendeleev è avvolta nella leggenda, come avvalorato dallo stesso chimico russo. Si racconta che nella notte del 16 febbraio 1869 Mendeleev abbia fatto un sogno durante il quale gli elementi chimici gli sarebbero apparsi ordinati nella sua tavola periodica: al mattino, svegliatosi, si sarebbe alacremente messo al tavolo per trascrivere su carta l’oggetto del sogno. La rivelazione nel sogno è motivo ricorrente in tutta la storia dell’uomo ma è più frequentemente associata con le intuizioni degli artisti: la leggenda della tavola periodica ci vuole mostrare che l’intuizione, l’eureka, non fa distinzione tra arte e scienza, anche se la realtà della scoperta scientifica è assai più complessa. Un’altra leggenda racconta che Mendeleev aveva predisposto una tavola, una scheda, per ognuno degli elementi chimici noti e che si era messo a lavorare su queste schede, come in un solitario con le carte da gioco, riuscendo a ordinarle infine nella struttura della tavola periodica. La tavola periodica degli elementi è una delle più geniali e straordinarie realizzazioni dell’ingegno umano. Tutta la complessità del mondo naturale è codificata in una semplice tabella sinottica, l’alfabeto della chimica. Ogni elemento chimico viene cristallizzato all’incrocio tra una riga e una colonna della tavola e questo fissa per sempre le sue proprietà, perché ci dice con quali altri elementi si può combinare e in quali proporzioni e quindi fissa quali delle infinite sostanze del mondo fisico si potranno formare. Mendeleev aveva ordinato gli elementi sulla base del loro peso atomico crescente. La grandezza e la genialità delle intuizioni di Mendeleev sono state, se possibile, amplificate dalle successive scoperte della meccanica quantistica che hanno mostrato che l’ordinamento degli elementi nella tavola periodica è determinato dal numero degli elettroni negli atomi. Mendeleev, come un sognatore visionario, ha anticipato di 50 anni altri risultati scientifici legati a una struttura interna degli atomi che ai suoi tempi era del tutto sconosciuta. Come idea elementare dell’ordine e della semplicità dell’universo il fascino della tavola periodica va molto oltre l’ambito della chimica e
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Referenze 1. B. Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, Torino 1998. 2. V. Schettino, La Decima Musa. Poesia e scienza, FUP, Firenze in stampa. 3. Quando non specificato diversamente, per le citazioni di questa sezione si fa riferimento alla referenza [2]. Vedi anche V. Schettino, Scienza e arte. Chimica, arti figurative e letteratura, FUP, Firenze 2014. 4. J. Tyndall, Scientific use of imagination, Longmans, London 1872. 5. J.M. Thomas, Michael Faraday. La storia romantica di un genio, FUP, Firenze 2006. 6. S. Califano, Storia della chimica. I. Dall’alchimia alla chimica del XIX secolo, Bollati Boringhieri, Milano 2010. 7. J. H. van’t Hoff, Imagination in Science, Resonance (2007) 88-100. 8. K. Harada, Pilgrimage through the history of German natural science, University City Bonn, Viva Origino, 29 (2001) 143-154. 9. A. Kekulé, Berichte der Deutschen Chemischen Gesellshaft 23 (1890) 1302. 10. J.A.R. Newlands, On the law of octaves, Chemical News 12 (1865) 93. 11. D. Mendeleev, Mendeleev on the periodic table: Selected writings 1869-1905, Dover, Mineola (NY) 2005. 12. P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1988. 13. H. Aldersey-Williams, Favole periodiche. Le vite avventurose degli elementi chimici, BUR, Milano 2011. 14. S. Kean, Il cucchiaino scomparso e altre storie della tavola periodica degli elementi, Adelphi, Milano 2012.
ha suscitato l’interesse non solo di scienziati ma anche di scrittori e artisti. La rappresentazione tradizionale della tavola periodica è nella forma rettangolare leggermente asimmetrica ma numerose altre rappresentazioni sono state proposte o suggerite, anche se non sono poi entrate nell’uso comune. Ma oltre questi propositi scientifici, ci sono rappresentazioni della tavola periodica completamente immaginifiche. Ma la più significativa presenza della tavola periodica fuori di un contesto strettamente chimico è in tre opere letterarie, Il sistema periodico di Primo Levi [12], Favole periodiche. Le vite avventurose degli elementi chimici di H. Aldersey-Williams [13] e Il cucchiaino scomparso e altre storie della tavola periodica degli elementi di S. Kean [14]. La ispirazione comune di questi racconti, che si ritrova anche in Zio Tungsteno di Oliver Sacks, sta nel considerare il viaggio attraverso la tavola periodica, la scoperta, gli usi e le proprietà degli elementi come una metafora delle vicende umane personali o comuni e sociali. Aldersey Williams nel raccontare la storia della tavola periodica e degli elementi chimici scrive che questo è stato per lui come percorrere una storia di scoperte e scopritori, di rituali e valori, di sfruttamento e celebrazione. Il mio viaggio mi ha condotto in miniere e studi di artisti, in fabbriche e cattedrali, nei boschi e nelle profondità del mare,
concludendo altrove che: ... gli elementi sono tutt’intorno a noi, sia in senso materiale (sono negli oggetti che teniamo cari e sotto i lavelli delle nostre cucine) sia, e soprattutto, in senso simbolico (sono nelle nostre arti e nella nostra letteratura, nella nostra lingua, nella storia e nella geografia)... È attraverso questa vita culturale, più che non attraverso gli esperimenti di Laboratorio, che noi giungiamo a conoscere individualmente gli elementi, e rattrista vedere come l’insegnamento della chimica, nella maggior parte dei casi, faccia ben poco per riconoscere questa ricca esistenza.
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Abstract
Maria Becchere, Giorgio Erby, Luisanna Pani
Nodi, Trecce & Numeri
“E ancora il principio che gli gnomoni dei quadrati terminano col minimo quadrato è proprio dell’aritmetica: perché in geometria il minimo assoluto non esiste” (Proclo, Commento al Libro I degli Elementi di Euclide, Prologo parte II)
Con il termine “nodo” s’intende una qualsiasi curva chiusa immersa in uno spazio tridimensionale. I nodi si rappresentano mediante la loro proiezione nel piano, che è un diagramma dotato di un certo numero di incroci. Dal punto di vista topologico due nodi si considerano equivalenti se sono ottenibili l’uno dall’altro tramite una deformazione continua fatta di “stiramenti” e/o “contrazioni” senza operare “tagli”. I nodi equivalenti si definiscono “isotopi”. Un nodo si dice “scioglibile” se è isotopo ad una circonferenza (detta anche nodo banale), come si può evincere dal seguente esempio: ribaltando, nel primo nodo, il ramo intermedio orizzontale di 180° sul piano della pagina lungo la direzione verticale si ottengono due rami; sul medesimo piano, ruotando il ramo sinistro superiore di 180°, da sinistra verso destra, per chi legge, lungo la direzione orizzontale, si eliminano tutti gli incroci del nodo di partenza.
D’ora in poi per numero di incroci intenderemo il numero di incroci presenti in una figura. Non tutti i nodi sono scioglibili come si può verificare per via empirica. Un esempio è il nodo a 77
Attraverso le leggi che governano nodi e trecce e la loro realizzazione si sono evidenziate analogie tra questi oggetti geometrici e i numeri. La legge di composizione tra i nodi richiama alcune caratteristiche della moltiplicazione tra numeri strettamente positivi. La legge di composizione tra le trecce. ricorda alcune proprietà dell’addizione tra numeri interi. La loro classificazione ci ha condotto, anche, a mostrare nuove relazioni tra la teoria dei nodi e quella dei sistemi dinamici e disordinati in genere, come evidenziato dall’analisi delle catastrofi e dal parallelismo con i sistemi di spin. By means of the mathematical rules that govern knots and braids and their construction, we emphasize the analogies between such geometric objects and numbers. The composition between knots closely reminds of the multiplication between strictly positive numbers while the composition between braids has similarities with the algebraic summation between whole numbers. The classification of such object has led us to identify and present new relations between the theory of knots and that of dynamical systems and disordered systems in general, as highlighted by catastrophe analysis and by the parallelism with spin systems.
trifoglio, il cui diagramma è simile al precedente per numero di incroci, ma diverso perché questi si presentano in sequenza alternata, infatti ciascun ramo passa alternativamente sotto o sopra un altro ramo. Definiti i nodi scioglibili, nasce l’esigenza di classificare i nodi non scioglibili riconducibili a nodi più semplici ma non riducibili a quello banale.
1 Si attribuisce il segno positivo se il ramo orientato verso destra va sopra il ramo orientato verso sinistra e viceversa per il negativo. 2 Diretta conseguenza del Teorema di Artin o delle relazioni di Artin.
Un esempio di nodo riducibile da un nodo non isotopo a quello banale è dato dal nodo cappuccino riducibile al trifoglio. Per verificare quanto affermato è sufficiente ribaltare di 180° il ramo superiore sul piano della pagina, lungo la verticale, ed osservare che il numero d’incroci con le sue alternanze rimane invariato. Notiamo che per caratterizzare in modo unico un nodo non sono sufficienti il numero d’incroci e le loro alternanze. Se si invertono tutti gli incroci nel nodo trifoglio si otterrà un nodo simile ma diverso in quanto il trifoglio non è un nodo simmetrico, ovvero non è invariante per riflessione. Il nodo a trifoglio è un esempio di nodo irriducibile: ciò equivale a dire che non può essere ottenuto dalla composizione di due nodi non banali. Chiariremo in seguito l’operazione di composizione tra nodi. Può risultare conveniente scomporre un nodo in una figura elementare aperta, denominata “treccia”, la cui chiusura genera lo stesso nodo. Ogni nodo può essere ottenuto da una treccia tramite l’operazione di chiusura identificando le estremità superiori delle stringhe con quelle inferiori (1). Eseguendo un taglio nel ramo superiore e inferiore di un nodo cappuccino e ruotando la figura di 90°, sul piano del foglio, si ottiene la treccia rappresentata qui a lato. A differenza di quanto accade nei nodi, ogni treccia ha un numero di stringhe e di incroci con segno1 univocamente determinato (2). Si può inoltre verificare che tutte le trecce con lo stesso numero di stringhe formano un gruppo non commutativo2 rispetto ad una legge di composizione; questo significa che la somma di due trecce dà ancora una treccia, che esiste una treccia neutra (ovvero una treccia che composta 78
con una seconda treccia lascia invariata quest’ultima), che esiste l’inversa di una treccia che composta con quella di partenza dà la treccia neutra. La composizione o “somma” di due trecce si realizza allineandole lungo la verticale e unendo le stringhe della prima treccia con le corrispondenti stringhe della seconda. La treccia neutra invece è quella priva d’incroci e caratterizzata da una sequenza di stringhe parallele e aperte per ogni numero fissato di stringhe. La treccia inversa3 si costruisce “specchiando” una treccia rispetto ad un piano orizzontale, lasciando inalterata la struttura. Come conseguenza dell’esistenza della treccia inversa, ogni treccia si può sciogliere componendola con un’altra. Il caso particolare da noi verificato euristicamente è quello delle trecce formate da due sole stringhe dove abbiamo avuto modo di constatare che sono soddisfatte le medesime relazioni che coinvolgono le somme tra numeri interi. Una treccia è definita dispari (D) se dotata di un numero dispari di incroci e pari (P) se dotata di un numero pari di incroci (3). Le tre sequenze P+P = P; D+P = D; D+D = P si possono ricavare dai diagrammi sotto riportati.
L’inversa di una treccia, nel parallelismo con gli interi, corrisponde all’opposto di un numero dato e la treccia neutra è invariante sotto inversione, così come lo zero dei numeri interi è invariante sotto cambiamento di segno. L’attività empirica di laboratorio ha evidenziato la possibilità di ottenere, dalla chiusura di trecce a due stringhe pari, dei link o nodi sconnessi e da quelle a due stringhe dispari dei nodi irriducibili connessi. 3 Ringraziamo la Sig.ra Teresa Farris per il suo contributo nel realizzare le foto.
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Un altro modo per ottenere nodi da trecce consiste nell’allineare due trecce, ruotare la Tr2 di 90° e congiungere i suoi estremi con la Tr1.
Osservando le due sequenze di figure, si può evincere come l’alternanza o meno degli incroci giochi un ruolo fondamentale nella tipologia del nodo risultante. Nella prima sequenza la presenza d’incroci gemelli rende il nodo banale, nella seconda, l’alternanza produce un nodo non scioglibile. I nodi si possono combinare tra loro, per generarne altri, tagliando un ramo di ciascuno dei due e connettendo poi tra loro i rami dei nodi diversi come nell’esempio sottostante.
X La legge di composizione tra nodi gode di proprietà simili a quelle della moltiplicazione tra numeri naturali quali: assenza dell’inverso, esistenza del nodo banale, proprietà associativa e commutativa. Quest’ultima proprietà può essere verificata grazie alla continuità del nodo che permette di contrarre uno dei nodi componenti in una figura talmente piccola da poter scorrere lungo l’altro nodo per passare dalla sua parte opposta. 80
A differenza di quanto accade per le trecce, nel caso dei nodi non esiste un nodo non banale che composto con un nodo dato ne determini la “riduzione” all’elemento neutro, ovvero lo scioglimento. Ogni nodo può essere scomposto in modo unico nel prodotto di due o più nodi non banali irriducibili, che possono anche essere denominati nodi primi, come avviene nella scomposizione in fattori primi dei numeri naturali4. È importante rilevare che le analogie con la moltiplicazione tra i numeri naturali si fermano qui: infatti se si va a contare il numero (minimo) degli incroci presenti nel nodo risultante dalla composizione di altri due nodi, in genere, questo numero, sarà prossimo alla somma degli incroci dei nodi componenti come nel caso del nodo “amore” (qui riportato) con il nodo “trifoglio”. Purtroppo, non essendo possibile distinguere i nodi solo in base al numero di incroci a causa dell’esistenza di nodi diversi anche se con il medesimo numero di incroci, non è possibile ordinarli come i numeri naturali. Infatti, dati due nodi distinti con lo stesso numero di incroci, come rispondere alla domanda quale dei due è più grande? Le metodologie derivate dalla fisica statistica dei sistemi disordinati sembrano essere più efficaci per la classificazione dei nodi attraverso la costruzione di una funzione di partizione avente proprietà simili a quella di un sistema di spin di Ising, secondo il modello proposto da Kauffman (1). A ciascun spin del primo reticolo di Ising corrisponde, nel secondo reticolo rappresentante un nodo, un incrocio con segno positivo se lo spin è up, negativo se lo spin è down. Si è detto, anche, che una delle ragioni che impediscono una completa corrispondenza tra nodi e numeri è legata all’impossibilità attuale di distinguere tra loro i vari nodi in base ad una relazione d’ordine. Analizzando i nodi a partire dalle loro proiezioni piane, può accadere, in alcuni casi, che le proiezioni di più rami distinti confluiscano in un medesimo punto dando luogo ad una di queste figure dette anche “catastrofi”. Nelle figure di questa terna sono visibili tre casi in cui è tecnicamente impossibile determinare quali rami passano sotto e quali sopra. Nella prima figura i rami hanno due estremi coincidenti che rappresentano una cuspide; la seconda deriva direttamente dalla sovrapposizione di due incroci gemelli che degenerano in un singolo incrocio e la terza è caratterizzata dalla sovrapposizione generica di due incroci. 81
4 Teorema di Schubert: “Ogni nodo si scompone nel prodotto di nodi primi in modo unico”.
5 Teorema di Reidermeister: “Due diagrammi (proiezioni) rappresentano uno stesso nodo se e solo se è possibile trasformarli l’uno nell’altro attraverso una successione di alcune particolari isotopie planari dette mosse di Reidermeister”.
La presenza di una catastrofe determina l’impossibilità di distinguere tra loro nodi distinti. Il teorema di Reidermeister5 ci permette di sostituire i tre esempi precedenti con operazioni sui diagrammi attraverso particolari isotopie nello spazio. Lo stesso teorema garantisce che due proiezioni rappresentano lo stesso nodo se e solo se è possibile trasformarle l’una sull’altra attraverso una sequenza di tali isotopie. Da ciò consegue che il problema dell’isotopia tra nodi spaziali è riducibile al problema di isotopia tra le proiezioni dei rispettivi nodi nel piano. L’analisi delle catastrofi suggerisce una relazione diretta tra la teoria dei nodi e la teoria dei sistemi caotici. In quest’ultima, per catastrofe si intende un cambiamento improvviso che nasce in seguito ad una rapida risposta del sistema ad una variazione delle condizioni esterne e indica una situazione di indecidibilità da parte di un sistema nella direzione della sua evoluzione. Ne sono un esempio le configurazioni di equilibrio instabile di un sistema fisico. Facendo uso dei principi fisici si può costruire una “macchina delle catastrofi”, ovvero un meccanismo in grado di rappresentarle. Questa macchina collega il problema dell’instabilità strutturale con la catastrofe a cuspide analizzata prima. È sufficiente fissare un disco circolare in un piano con un perno mobile alla sua periferia ed un perno fisso nel piano; si collega poi il perno fisso con il perno mobile tramite un elastico e, con un altro elastico, una matita con il perno mobile. Se si tende l’elastico con la matita fino ad allinearlo con il centro della circonferenza ed il suo perno mobile, una volta lasciata libera di muoversi, l’equilibrio strutturale “forzato” si rompe e il sistema è libero di descrivere rami di cuspidi simili a quelle che in geometria analitica prendono il nome di “Cissoidi di Diocle” esprimibili con l’equazione cartesiana: x3 = (2a – x)y
dei sistemi dinamici e disordinati in genere, come emerge dai riferimenti alle catastrofi (1), (4) e ai sistemi di spin (1). Abbiamo iniziato questo articolo con la citazione di Proclo la quale spiega in modo plastico e sorprendentemente moderno la dicotomia tra l’aritmetica dei numeri interi strettamente positivi, che nella loro sottosequenza di quadrati ammette un quadrato minimo coincidente con l’unità, e la geometria che invece non ammette minimo a causa della divisibilità all’infinito delle sue figure caratterizzate dalla continuità. Il nodo si rivela, dunque, un oggetto affascinante le cui proprietà, di curva continua e chiusa, si combinano con la matematica discreta dei numeri naturali dando luogo ad una grande varietà di forme. L’esperienza maturata nei cinque giorni del CagliariFestivalScienza e nei due giorni del festival Scienza in festa di Oliena ci ha portato a riflettere sull’opportunità di continuare la ricerca ed estendendola anche alla didattica in classe.
Conclusioni Attraverso le leggi che governano trecce e nodi e la loro realizzazione con strumenti poveri si sono evidenziati i parallelismi tra questi “oggetti” geometrici ed i numeri interi nel primo caso, interi positivi nel secondo, rispettivamente con operazioni di addizione e moltiplicazione. L’esigenza di classificare i nodi, evitando le possibili degenerazioni, ci ha condotto a mostrare nuove relazioni tra la teoria dei nodi e la teoria
Bibliografia
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Un’immagine del laboratorio sui Nodi organizzato nell’ambito del Festival (vedi pag. 91)
1. Alexei Sossinsky. Nodi. Genesi di una teoria matematica, Ed. Bollati Boringhieri, Torino 2000. 2. Riccardo Piergallini. Nodi e Grafi, in http://mat.unicam.it/piergallini/home/seminari/ nodi-grafi/nodi-grafi.pdf. 3. Franco Ghione. Nodi, pubblicato ne L’occhio di Horus. Itinerari nell’immaginario matematico, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1989, a cura di Michele Emmer. 4. V. I. Arnold. Teoria delle catastrofi, Ed. Bollati Boringhieri, Torino 1990. 83
I laboratori
Chimica: la nostra vita, il nostro futuro (Riserva inesauribile di cose da raccontare) Gruppo Didattica Chimica DDSCI Ivana Cocco, Carlo De Rubeis, Valentina Devoto, Rossana Loddo, M. Vittoria Massidda, M. Cristina Mereu, Silvia Piludu, Laura Trofa. a cura di Maria Vittoria Massidda.
La chimica rappresenta una riserva inesauribile di cose da raccontare; a noi che la pratichiamo la chimica appare Bella e potente; ma non tutta la chimica si presta a essere raccontata e divulgata e/o non sempre noi riusciamo a farlo. Utilizziamo linguaggi diversi, in quanto portatori di idee e di visioni del mondo, per proporre i modi di vedere propri della chimica, per dialogare con la società. L’apprezzamento da parte del grande pubblico per le mostre interattive a carattere scientifico, per gli spettacoli e le dimostrazioni sperimentali, è in contrasto con una certa immagine della chimica e con la scarsa considerazione che le materie scientifiche hanno nella scuola. D’altra parte la grossa portata delle problematiche etiche e tecnologiche che investono lo sviluppo della scienza richiedono decisioni fondate su solide
basi culturali scientifiche e non su stati emotivi e soggettivi. Chi deve farsi carico di formare i cittadini? La scuola svolge questo compito come ruolo istituzionale, essendo la più importante delle agenzie intenzionalmente formative; proprio nelle scuole l’insegnamento della chimica può dare un contributo per sviluppare la criticità e l’autonomia della persona, per preparare i giovani alle scelte che riguardano il loro ambiente e la società. Ma come fare? Le risposte europee alla richiesta di una adeguata formazione scientifica vanno verso due direzioni: innovare i metodi di insegnamento ed i curricoli dei vari paesi mediante la ricerca didattica e diffondere 87
la cultura scientifica presso tutti i cittadini promuovendo manifestazioni nazionali e internazionali a sostegno della cultura scientifica. Per un’immagine della chimica Una migliore immagine della chimica dipende da un’adeguata formazione dei giovani e dalla capacità di diffondere una cultura chimica presso tutti i cittadini, non solo nelle scuole e nelle università, ma anche attraverso le iniziative dei musei e dei centri della scienza. Noi, che da tanti anni realizziamo a Cagliari iniziative di diffusione della cultura chimica, proponiamo ai giovani e a tutti i cittadini attività sperimentali interattive, exhibit, cioè ci serviamo della forza comunicativa di un “oggetto speri-
mentale” che proponiamo perchè venga utilizzato; ci serviamo della curiosità che nasce dal veder fare e del piacere insito nel fare per introdurre bambini, giovani e adulti nel mondo della chimica. Chi siamo e quali obiettivi ci poniamo Siamo un gruppo di persone che appartengono al mondo della scuola e che si propongono di: • Avvicinare i giovani alla chimica utilizzando i mezzi informali delle mostre interattive, coinvolgendoli direttamente attraverso esperienze e indagini; • Divertire, educare, stimolare la creatività e la fantasia, far nascere il desiderio di porre domande, proporre soluzioni, approfondire le tematiche proposte; • Coniugare gli aspetti chimici disciplinari con l’esperienza quotidiana dei giovani; • Mostrare l’immagine di una chimica diffusa nella vita quotidiana, socialmente e culturalmente rilevante; • Costruire un dialogo chimico tra scuole, università, altre istituzioni, enti locali, imprese e società; • Diffondere le esperienze formative maturate e il patrimonio storico-culturale dell’università; • Dare il contributo della chimica alla futura realizzazione di un
centro cittadino per la diffusione della cultura scientifica. I laboratori interattivi Annualmente presentiamo al Cagliari Festivalscienza percorsi e laboratori interattivi che nascono da un progetto condiviso in cui i contenuti chimici e la fantasia, il pensare per immagini, si concretizzano in dispositivi sperimentali. L’immaginazione, strumento di conoscenza scientifica, diventa anche strumento di divulgazione scientifica. Così è stato per la progettazione e la realizzazione della grande tavola periodica interattiva, accattivante e facilmente consultabile. Anche gli spettacoli di “magia del-
la chimica” sono stati pensati e realizzati con una sceneggiatura originale. Il laboratorio interattivo sull’estrazione del ferro dai suoi minerali ha coinvolto docenti e alunni nella ricostruzione di un forno fusorio primitivo. In tutte le edizioni del festival abbiamo ricercato situazioni sperimentali che evidenziassero la stretta relazione tra la chimica e la vita quotidiana, tra la chimica e il progredire della scienza. Abbiamo realizzato dispositivi sperimentali di facile utilizzo, manipolabili anche dai più piccoli, che coinvolgono il visitatore attraverso la vista, l’olfatto e il tatto; presentano efficacemente il feno-
meno o il tema scelto, comunicano il contenuto chimico. Progettati per esplorare le dimensioni scientifiche della chimica della luce, i laboratori interattivi presentati nell’edizione del 2015 illustrano ai visitatori come la chimica sfrutta la luce per svariati scopi. Con le radiazioni luminose l’uomo ha vinto il buio della notte, vede i colori, comunica, invia informazioni. Senza luce non vi sarebbe vita. Lo stupore e l’emozione per i fenomeni chimici legati alla luce e alle relative scoperte è ciò che si è voluto trasmettere ai visitatori.
chimica appare Bella e potente, come Luigi Cerruti definisce la Chimica del novecento nel suo libro; ma non tutta la chimica si presta a essere raccontata e divulgata e/o non sempre noi
Conclusioni La chimica rappresenta una riserva inesauribile di cose da raccontare; a noi che la pratichiamo la 88
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riusciamo a farlo. Utilizziamo linguaggi diversi, in quanto portatori di idee e di visioni del mondo, per proporre modi di vedere propri della chimica, per dialogare con la società.
La luce sorgente primaria di energia Il tema proposto dall’ANISN riprende una bella e significativa frase di A. Szent-Györgyi, fisiologo ungherese, premio Nobel per la Fisiologia e Medicina nel 1937. “Ciò che guida la vita è una piccola corrente elettrica, alimentata dalla luce del sole”.
di L. Carbini, G. Cambus, G. Caria, B. Carzedda, M.A. Manca, M.G. Rachele, P. Renza, soci della Sezione Sardegna dell’ANISN Associazione Nazionale Insegnanti di Scienze Naturali Nell’Anno Internazionale della Luce l’ANISN ha dedicato, in occasione del FESTIVALSCIENZA 2015, il proprio exhibit all’ azione che la luce esplica sugli esseri viventi, legati da una indissolubile catena alimentare/energetica. Il fine è stato quello di sensibilizzare i visitatori sull’importanza della luce quale fonte primaria di energia, regolatrice di diversi fenomeni quali fotosintesi, tropismi, fotoperiodo, ritmi circadiani, produzione di vitamina D nell’uomo e negli animali. Nel laboratorio interattivo i visitatori hanno avuto la possibilità di osservare esemplari di piante ad attività brevidiurna, longidiurna, neutrodiurna e inoltre, su modello, alcuni aspetti dell’attività fotosintetica delle piante, nonché esempi
di tropismi ed eziolature. È stato possibile osservare al microscopio preparati “a fresco” di tessuti vegetali che, avendo il vantaggio di essere pronti in brevissimo tempo, permettono di ammirare strutture e colori senza alcuna alterazione. L’attenzione dei visitatori è stata indirizzata in modo particolare all’osservazione dei plastidi e nello specifico dei cloroplasti, responsabili dell’attività fotosintetica della pianta. Si è proceduto inoltre all’estrazione dei pigmenti clorofilliani e alla cromatografia su carta dei pigmenti stessi. Nel settore espositivo sono stati presentati alcuni tipi di alimenti ricchi di vitamina D, le cui forme più importanti sono la D3 (colecalciferolo) e la D2 (ergocalciferolo), sintetizzate rispettivamente nel mondo animale e vegetale. La D3 è l’unica vitamina che il corpo può produrre usando la luce Solare ( alle latitudini temperate l’80% del fabbisogno è garantito dall’irradiazione solare e solo il 20% dall’alimentazione). Una volta sintetizzata la D3 si localizza nel tessuto adiposo e il suo ruolo è quello di intervenire nel processo di ossificazione e mantenimento del tessuto osseo. Poster e cartelli esplicativi di tutta l’attività hanno rivestito un ruolo di approfondimento dei 90
temi trattati. Sono stati realizzati quattro poster dal titolo: Fototropismo, Dall’ultravioletto alla struttura corporea: il ruolo della vitamina D, Fotosintesi, I pesci torcia. Quest’ultimo in particolare descrive il curioso fenomeno della bioluminescenza, presentato dai cosiddetti “pesci torcia”, della famiglia degli Anomalopidi, in grado di produrre una luce intensa per comunicare, per procurarsi il cibo e per confondere i predatori. In effetti la luminescenza è dovuta alla presenza di batteri che vivono in simbiosi con i pesci, concentrandosi negli organi luminosi situati sotto gli occhi. I pescatori dell’Indonesia, zona di diffusione dei pesci torcia, hanno saputo avvantaggiarsi di questa caratteristica utilizzando o gli organi luminosi rimossi o gli interi pesci raccolti in un canestro e ponendoli sotto le loro barche come esche vive.
Nodi, Trecce & Numeri a cura di Maria Becchere, Giorgio Erby, Luisanna Pani
Questo laboratorio, presentato per la prima volta al CagliariFestivalScienza nella sua VIII edizione, da Luisanna Pani, Giorgio Erby e Maria M. Becchere, ha esaminato oggetti non comuni nella didattica curricolare. La scelta di presentare i nodi, trecce e numeri ha richiesto un lungo e attento studio del materiale pubblicato dai ricercatori in questo settore e, in alcuni casi, la verifica di alcune affermazioni, se pur empirica, attraverso la realizzazione degli stessi oggetti con materiale povero. Nelle proposte dell’Unione Matematica Italiana (UMI) del 2003 è dedicato un capitolo al laboratorio di matematica e nel 2007 le indicazioni per i curriculum sia dell’infanzia sia del primo ciclo d’istruzione hanno evidenziato l’importanza di questo momento trattandosi di una fase in cui il discente è attivo, formula le sue ipotesi, ne controlla le conseguenze, progetta e sperimenta, discute, argomenta. Ciò che caratterizza la divulgazione è l’assenza delle fasi di verifica e valutazione presente nel contratto didattico che lega lo studente al
proprio insegnante. Nelle attività divulgative le due fasi sono, appunto, assenti poiché il contratto è, adidattico e/o non didattico. Nel laboratorio è stata analizzata e realizzata la possibilità di introdurre il concetto di nodo sia dal punto di vista teorico sia pratico. Uno dei nostri obiettivi è stato quello di coinvolgere il pubblico del CagliariFestivalScienza e osservare con attenzione l’interesse dimostrato da studenti di diversi gradi scolari. I bambini più piccoli si sono cimentati a costruire nodi con la plastilina o a giocare con un mosaico fatto di carte costruite hoc attraverso il quale imparavano a verificare le possibili isotopie tra nodi o trecce, individuando il ruolo giocato dalle diverse tipologie di incrocio e dalle loro sequenze. I più grandi hanno costruito e sciolto trecce facendo uso di corde colorate e aste del meccano, hanno utilizzato gli specchi per costruire la treccia inversa. Hanno altresì acquisito la capacità di sciogliere alcuni nodi particolari giocando a coppie con i foulard. Gli alunni della secondaria di 1° grado si sono allenati a verificare i primi concetti sui nodi, mentre, quelli di 2° grado hanno scoperto che l’attività laboratoriale dava agli oggetti quotidiani una connotazione scientifica a loro sconosciuta: una treccia dei capelli ora 91
era diventata un oggetto parte del mondo topologico. È emerso che solo, in manifestazione di questo tipo, attraverso semplici esperimenti manuali è possibile rendere comprensibile sia il concetto di scioglibilità sia di non scioglibilità di un nodo, ed estenderlo a quello più generale di riducibilità o non riducibilità. Da ciò si è pervenuti alla necessità di definire le trecce quali componenti più elementari di un nodo. È venuto spontaneo il parallelismo tra le trecce e numeri da una parte, nodi e numeri dall’altra. Si è potuto così riscontrare come i due concetti siano legati ai numeri tramite leggi di composizione diverse. L’operazione fra trecce richiama alcune caratteristiche della somma, mentre quella tra i nodi alcune proprietà del prodotto fra numeri. Alcuni studenti delle classi superiori e visitatori hanno dimostrato la possibilità di seguire un successivo sviluppo al nostro discorso: un eventuale parallelismo tra le leggi che consentono di identificare i nodi dalle loro proiezioni piane e la teoria dei sistemi dinamici attraverso la costruzione di una macchina delle catastrofi.
Geo-Labs Laboratori di Scienze della Terra Università di Cagliari A cura di P. Pittau, R. Cidu, A. Funedda, G. De Giudici, P. Orrù, M.T. Melis, S. Da Pelo del dipartimento di scienze chimiche e geologiche dell’Università di Cagliari Un percorso nei laboratori geologici per dirette osservazioni sulle proprietà e l’intima struttura dei minerali (microscopia e difrattometria); sui lineamenti del territorio attraverso l’analisi stereoscopica di foto aeree e la rappresentazione 3D (lab-cartografici); l’esplorazione delle strutture geologiche nei fondali marini (oceanografico – geologico
lab.); esperienza a contatto con la terra per osservarne proprietà e caratteristiche (geotecnico lab.). La mostra delle Meraviglie “Le terre hanno una storia... (Stenone, 18th sec.)”; gli “Strati diversi sono classificabili in base ai fossili che contengono… (Smith, 18th sec.)”; “Il presente è la chiave del passato... Lyell, 19th sec.)”; “Il passato è la chiave del presente... (Geologia moderna, 20th sec); “la conoscenza dei processi del passato chiave interpretativa dei processi futuri... (Geologia moderna). La varietà degli ambienti naturali ha cresciuto, nel tempo, una moltitudine di forme viventi che testi-
moniano nelle rocce la complessità biologica. Il clima, la tettonica, la competizione biologica e la selezione naturale sono tra i motori che hanno condotto all’attuale biosistema terrestre. Il “Mistero” del clima è nelle rocce; quello della tettonica nelle catene montuose e aperture degli oceani; quello dei viventi nel DNA; quello degli estinti nei fossili.
Le sabbie al microscopio Le osservazioni al microscopio ci permettono di comprendere la storia millenaria di una spiaggia e raccontano le condizioni di salute della piattaforma marina prospicente. La provenienza dei ciotoli, i processi di trasporto che li hanno modificati, la frequenza di bioclasti sono tra le osservazione basilari che potranno essere effettuate per comprendere questo micro-macro-cosmo.
I laboratori per bambini Fluorite 92
La meraviglia della scoperta
bellissime che mi hanno fatto capire che in quelle menti in formazione c’era tutto l’occorrente per diventare dei veri scienziati. Nella loro semplicità hanno capito le cose fondamentali che volevo arrivassero a loro: la radioattività è qualcosa che nasce dagli atomi di cui è fatta la materia; si trova anche in natura; tanta fa male ma poca non ci disturba; si può usare anche per curare alcune malattie. Quando dalle loro domande ho capito che il messaggio era arrivato forte e chiaro sono stata ripagata di tutta la fatica fatta per realizzare il laboratorio”.
a cura di Alessandra Bernardini, Viviana Fanti e Alessia Zurru L’osservazione e l’esplorazione della realtà che li circonda caratterizzano i bambini fin dai loro primi anni di vita. La capacità di meravigliarsi davanti ai fenomeni naturali costituisce il primo passo verso una loro comprensione più approfondita ed è proprio la curiosità innata dei bambini che li rende i destinatari ideali per i laboratori didattici. Riportiamo qui le esperienze di alcuni laboratori di fisica, tesi a far apprendere semplici nozioni scientifiche attraverso il gioco e lo stupore. Laboratorio: Radioattività a merenda Il laboratorio “Radioattività a merenda” è nato con l’intento di chiarire ai più piccoli alcuni concetti che spesso ingenerano dubbi anche negli adulti. La radioattività e le radiazioni sono spesso considerate solo nella loro accezione negativa mentre esistono anche applicazioni, come alcune metodiche mediche, importanti per migliorare la vita di tutti noi.
La dott.ssa Alessandra Bernardini racconta: “La mia esperienza con i bambini è stata entusiasmante. Quando mi è stato chiesto di fare un laboratorio per bambini sulle radiazioni ionizzanti, di cui mi occupo per lavoro, ho capito subito che non sarebbe stato facile spiegare qualcosa di complicato in termini semplici, soprattutto a bambini che nella maggior parte dei casi non avevano mai sentito parlare dell’atomo. Ho accettato la sfida e ne sono rimasta entusiasta. Durante i laboratori ho incontrato circa 150 bambini di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni. Da loro ho avuto attenzione, stupore, interesse ma soprattutto domande 95
La risposta dei bambini: Una giornata “radioattiva” Quel giorno non avrei mai pensato di incontrare una studiosa della radioattività e appena la maestra ce lo riferì io fui molto incuriosita! Quando la ricercatrice entrò in classe mi si aprirono gli occhi e mi estraniai dal resto del mondo. La accogliemmo con un po’ di chiasso perché entusiasti ma poi capimmo subito che dovevamo smettere, quindi ci comportammo come bambini grandi e ascoltammo tutte le cose interessanti che ci raccontò. Come prima cosa collegò il suo computer alla LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) e man mano che spiegava ci faceva
la Scienza moderna, per condurre i bambini in un percorso laboratoriale che li porta ad apprendere e comprendere i fondamenti del metodo sperimentale. La “meraviglia” costituisce l’elemento trainante dell’intero percorso che mira ad un coinvolgimento emotivo dei bambini attraverso diversi canali, come l’utilizzo di uno sfondo narrativo, di una valigia misteriosa e, naturalmente, della sperimentazione diretta. vedere immagini e piccole frasi che descrivevano brevemente tutto il lungo discorso che componeva sul momento. Io ammiravo questa sua capacità di ricavare da una frase un intero, lungo, semplice, chiaro discorso. Ci fece capire che la radioattività è un fenomeno naturale e si può trovare dappertutto: nelle stelle, nella crosta terrestre, negli alimenti e perfino nel corpo umano. A quel punto ebbi un istinto irrefrenabile di toccarmi e dire – Io sono radioattiva! – all’inizio ebbi paura perché pensai di esplodere come una bomba, ma poi Alessandra (la ricercatrice) ci spiegò che poteva essere pericolosa solo se in quantità molto grandi. Questa quantità si può misurare con una unità di misura molto strana: la banana, o meglio la quantità di potassio in essa contenuta. La presenza
di radioattività si può rilevare con uno strumento chiamato “misuratore di radioattività” che, quindi, serve a misurare quanta radioattività c’è nell’ambiente. Quello strumento mi sembrò un telefonino antico ma in realtà è molto più utile di un qualunque tablet o telefonino “Supertecnologico.” In seguito ci spiegò che la radioattività può essere sfruttata dall’uomo che però, purtroppo, la sfrutta male, come per esempio quando si costruiscono le bombe nucleari. Fino ad allora non mi ero resa conto di quanto fosse pericolosa se sfruttata male. A questo punto ci si potrebbe chiedere una cosa – Ma questa radiazione può essere sfruttata anche a fin di bene? – La risposta è sì. Per esempio per fare le radiografie. 96
Quando finì di spiegarci tutto quanto, avrei voluto ringraziarla per tutto quello che ci aveva insegnato ma essendo timida non riuscii a pronunciare nient’altro che – Ciao – Così rimasi con un profondo debito di gratitudine nei suoi confronti, ma almeno imparai tante cose nuove e interessanti. Gaia Cappai 5ª A Laboratorio: La Valigia di Messer Galileo Il laboratorio “La Valigia di Messer Galileo” è stato presentato per la prima volta al Cagliari Festival Scienza 2013 dall’Associazione Culturale Laboratorio Scienza e riproposto poi in numerose scuole come percorso didattico in più incontri per il secondo ciclo della Scuola Primaria. L’attività prende spunto dall’avvincente storia del fondatore del-
La dott.ssa Alessia Zurru racconta: “Il 15 febbraio del 1564, in una città famosa per la sua torre pendente accadde qualcosa di speciale….nacque un bel bambino dai capelli rossi. Il suo nome era Galileo Galilei”. Così inizia il nostro racconto della vita di Galileo. La storia dello scienziato ci accompagna nell’intero percorso e tiene viva l’attenzione dei bambini, che vengono trasportati nelle avventure, nelle passioni e nelle scoperte di Galileo. La narrazione ha coinvolto fin da subito i bambini, catturando la loro immaginazione ed è diventata un prezioso stimolo motivazionale, in particolare per quelle bambine e quei bambini che avevano una minore confidenza con le discipline scientifiche. I bimbi, infatti, si sono lasciati tra-
sportare dal racconto e hanno vissuto le esperienze laboratoriali come parte integrante della storia: man mano che Galileo cresceva e faceva le sue importanti scoperte, anche i bambini, con piccoli esperimenti fatti in classe, conducevano in modo naturale un personale percorso di scoperta e di apprendimento scientifico. Ogni tappa del nostro percorso è stata accompagnata da una vecchia “valigia misteriosa” che, per accrescere nei bambini la curiosità e il senso di meraviglia, abbiamo presentato come un oggetto appartenuto con tutta probabilità proprio a Galileo Galilei. Il momento dell’apertura della valigia di Messer Galileo era vissuto dai
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bambini con grande attesa: “Che cosa nasconderà oggi al suo interno”? La risposta era diversa per ogni incontro: un martello e una piuma per le esperienze sulla caduta dei gravi; fili di lana e plastilina da modellare e trasformare in pendolini per sperimentare l’isocronismo del pendolo; barchette, palline e persino delle uova per gli esperimenti sul galleggiamento ed ancora... tubi, cannucce ed elastici trasformati dai bambini stessi in strumenti musicali per rivivere la passione di Galileo per la musica e per la fisica del suono. Come uno scrigno di tesori, la valigia conteneva dunque sempre nuove sorprese, invenzioni
Fantavolando: scienza e favole a cura di Maria Antonietta Calvisi
Il cartellone realizzato dai bambini della 3°A della Scuola Primaria Colombo di Cagliari (a.s. 2014-2015)
ed oggetti curiosi ma sono stati i bambini i veri protagonisti che riuscivano a trasformare con la loro curiosità ed entusiasmo ognuno di questi oggetti in un’esperienza attiva di apprendimento. La valigia misteriosa e la storia di Galileo sono serviti infatti come stimolo e corollario per permettere ai bambini di applicare in prima persona, attraverso giochi ed esperimenti, il metodo sperimentale galileiano. Ogni esperienza proposta ha portato i bambini stessi alla formulazione di domande, osservazioni, ipotesi e al desiderio di provare nuovi esperimenti, spesso conducendo anche noi animatori in un percorso inaspettato ed a nuove scoperte condivise. Così anche noi, insieme ai bam-
bini e alle insegnanti in ogni incontro abbiamo giocato, ci siamo stupiti e abbiamo imparato cose nuove provando con loro quel contagioso senso di stupore e meraviglia che può trasformarsi a qualsiasi età anche in una preziosa occasione di apprendimento scientifico.
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La favola “L’allenatore di arcobaleni”, letta in classe ha dato spunto al percorso che ha coinvolto gli alunni della 2ªB della scuola elementare di Predu Murta di Oliena. Gli alunni, guidati dalle insegnanti hanno studiato e sperimentato per scoprire il meraviglioso mondo della luce. Due i fenomeni che hanno attirato maggiormente la loro attenzione: la rifrazione e la riflessione. Nel loro piccolo, hanno voluto dare un contributo al festival La scienza in festa (A Oliena, il 24-25 novembre 2015, parte del CagliariFestivalScienza) accogliendo i visitatori e assumendo il ruolo di tutor nella presentazione degli exhibit realizzati principalmente con materiali poveri. La loro performance iniziava con la lettura della favola e seguiva la presentazione degli esperimenti realizzati in classe.
“Le storie sono sempre molto belle, ma le cose che riguardo l’arcobaleno non vanno proprio così. Adesso vi raccontiamo un’altra storia che inizia con la luce”. “Gli oggetti al buio non possiamo vederli. Per poterli vedere dobbiamo accendere la luce. La luce ce li fa vedere rossi, gialli, blu e di tutti gli altri colori. Di che colore è la luce? Noi la vediamo bianca”. Quando la luce passa dall’aria all’acqua la luce viene “piegata”, avviene cioè la rifrazione. È questa la spiegazione che i ragazzi della 2ªB hanno dato a coloro che hanno partecipato al laboratorio Favolando: scienza e favole. Hanno reso partecipi i visitatori degli esperimenti. Hanno scomposto la luce con il prisma. Hanno riprodotto il disco di Newton. Hanno dimostrato che immergendo una matita nell’acqua ci appare spezzata grazie alla rifrazione della luce che avviene quando la luce cambia mezzo. Quando cioè passa dall’aria all’acqua. Hanno giocato con la moneta nascosta
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dentro un recipiente, resa visibile dall’acqua che determina la rifrazione della luce. Hanno giocato con l’acqua, con gli specchi e con i cd per creare tanti piccoli arcobaleni che con la loro magia hanno suscitato lo stupore di grandi e piccini.
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Le mostre e gli spettacoli
Percorsi elettrici: Mostra storica e laboratorio interattivo di Carlo De Rubeis
Introduzione Da qualche tempo a questa parte gli strumenti scientifici, le macchine elettriche, le apparecchiature tecnologiche del passato sembrano assumere un nuovo e significativo utilizzo, quali fonti importanti di informazioni nello studio della storia della scienza e della tecnologia. Da strumenti obsoleti, considerati come “cimeli” e osservati con la curiosità che suscitano i pezzi di antiquariato, essi riconquistano uno spazio nel quale si ridefinisce la loro identità quali riferimenti del percorso di quella avventura umana che è la scienza. La loro riscoperta ha contribuito allo sviluppo dei moderni musei scientifici storici. Essi costituiscono mezzi privilegiati per ripercorrere esperienze; creare atmosfere rievocative di antichi laboratori; evidenziare l’uso e l’evoluzione dei materiali. Questa loro riproposizione, nei termini di un impiego mirato ad approfondire il percorso storico e conoscitivo del cammino della scienza, pone il problema del-
la loro reperibilità e disponibilità. Essendo stati occultati, dispersi in un generale abbandono, ignorati in una diffusa dimenticanza, spesso è difficile ritrovarli e, diciamolo pure, riconoscerli. Escludendo gli strumenti conservati e “venerati” come “sacre reliquie” in qualche museo famoso, essendo appartenuti ad illustri protagonisti del progresso scientifico, si tratta di favorire la loro acquisizione più ampia possibile ad una pluralità di strutture museali e laboratori storici. Come rendere disponibili i numerosi “utensili della scienza” di cui spesso non restano che pochi esemplari o, addirittura, solo la loro descrizione in qualche trattato scientifico? Per alcuni è sicuramente possibile un restauro ma, credo, che una vera e propria ricostruzione ne consentirebbe una più ampia diffusione e utilizzo. Ora, ricostruire uno strumento scientifico del passato, attività alla quale mi sono dedicato durante la mia esperienza lavorativa e che continuo anche oggi, non è una banale riproduzione. Presuppone un percorso che, partendo da una iniziale curiosità, da una capacità di meravigliarsi, si sviluppa attraverso una sorta di immedesimazione, anche psicologica, nei problemi che dovettero af105
frontare, allora, coloro che li idearono e li costruirono la prima volta. Ci si avventura, per così dire, in un cammino di rielaborazione quasi filologica, di interpretazione di problematiche tecniche, scientifiche e applicative a suo tempo affrontate e risolte nell’ambito di quella che erano la cultura e la tecnologia del tempo in cui questi strumenti comparvero la prima volta. In questo lavoro c’è evidentemente qualcosa di più che una semplice abilità artigianale, di una mera sapienza pratica di chi esegue un lavoro di buona fattura. La ricostruzione di una macchina o di uno strumento antico non avviene, pertanto, attraverso la realizzazione sapiente di operazioni tecnico-pratiche, fondate su abilità esclusivamente artigianali e basate su una progettazione eterodiretta come, talvolta, un atteggiamento supponente di esclusiva primazia teorica sembra supporre. Questa attività, per essere utile ed efficace, deve comportare un lavoro in cui convergono competenze multi e interdisciplinari, non gerarchicamente distribuite, ma sinergicamente orientate verso la realizzazione del manufatto. In questo quadro, analogamente a quanto avviene in tanti paesi stranieri, sarebbe auspicabile l’istituzione, soprattutto presso
le università, di gruppi di lavoro interdisciplinari, finalizzati alla realizzazione di laboratori storici, trasportabili e utilizzabili con dinamismo e flessibilità in ogni struttura formativa in cui il loro impiego possa rivelarsi utile alla formazione scientifica dei giovani studenti. Ho avuto modo di mostrare al Festival della Scienza di Cagliari alcune di queste macchine e strumenti elettrici per ricordare, tra l’altro, le figure di importanti personaggi della scienza che hanno vissuto nella nostra città e hanno contribuito alla sua crescita culturale e scientifica. Antonio Pacinotti a Cagliari La mostra del 2012 ha celebrato il centenario della morte di Antonio Pacinotti. A 32 anni Antonio Pacinotti venne nominato Professore ordinario di fisica sperimentale e Direttore del relativo gabinetto all’Università di Cagliari. Inventore della dinamo, a Cagliari costruì tutte le macchine magnetoelettriche successive alla Macchinetta che lo rese famoso. Durante il Festivalscienza, ho messo a disposizione del pubblico la Macchina a Gomitolo (1874), la prima macchina elettromagnetica costruita da Antonio Pacinotti a Cagliari, che costituisce un’evolu-
zione della Macchinetta del 1860. La sua ricostruzione è esemplificativa del percorso di immedesimazione nelle difficoltà di natura pratica e tecnica che Pacinotti dovette affrontare appena giunto nella nostra città: lo studio dell’originale e dei testi documentali evidenziano la mancanza di materiali, di personale specializzato e di attrezzature adeguate per la lavorazione dei metalli.
Figura 1. L’immagine mostra Antonio Pacinotti nel suo laboratorio nell’Università di Cagliari intento nella costruzione della macchina con sopraeccitatore. Sullo sfondo si notano la macchina a gomitolo e la Torre dell’Elefante.
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Figura 2. Macchina a Gomitolo elettromagnetico di Antonio Pacinotti, 1874. Esemplare della collezione Percorsi Elettrici, unica ricostruzione al mondo, fedele all’originale conservato a Pisa.
Rotazioni nello spazio Le cariche elettrostatiche, le correnti elettriche e i campi magnetici possono generare rotazioni nello spazio e fenomeni luminosi, questi effetti sono stati il filo conduttore delle mostre e dei laboratori interattivi allestiti negli ultimi tre anni. Nella mostra Rotazioni nello Spazio ho dedicato una parte importante dell’esposizione ai motori elettrici, costruiti con il preciso scopo di ottenere un movimento rotatorio. Seguendo il progressivo sviluppo storico dei motori a partire da alcuni prototipi della prima metà dell’800, ho presentato il raro motore elettrico di Jacobi (1834) che, di diritto, occupa un posto rilevante nella storia della tecnica, essendo stato il primo impiegato per un uso pratico. L’esposizione ha incluso altri mo-
Figura 3. Ricostruzione del Motore di Jacobi tori di rilievo storico come quelli di Gramme, Froment, Magrini, Palmieri e del nostro Antonio Pacinotti; si arriva a Galileo Ferraris, grande scienziato e tecnologo al quale si deve la scoperta del campo magnetico rotante che sta alla base di tanti apparecchi presenti nella mostra. Alcune macchine elettriche, ricostruite fedelmente rispetto agli originali, hanno un’importanza storica, altre apparecchiature sono state create per uso didattico, tutte sono perfettamente funzionanti e quasi tutte possono essere manipolate dal pubblico. Luce elettrica Una sezione della mostra del 2015 comprendeva un’esposizio107
ne di lampade a incandescenza, di varie forme e dimensioni, a significare la fine di un sistema di illuminazione. Messe al bando dall’Unione europea le vecchie lampadine a incandescenza, si è scelto di seguire la scala evolutiva della lampadina: dalle lampadine ad arco a quelle a incandescenza, dalle lampade a scarica ai LED. Come in tutte le mostre presentate al Festivalscienza, è stato curato l’aspetto interattivo con una sezione in cui i visitatori potevano fruire degli exhibit appositamente studiati, progettati e costruiti. Hanno ricevuto uno stimolo sensoriale immediato: le luci stimolano la vista e incuriosiscono, incoraggiano i bambini a toccare, a premere i pulsanti e ad osservarne le conseguenze. L’exhibit è quasi un
I classici della scienza Figura 5. Lampade a scarica: un tubo al neon viene attivato da un rocchetto di Ruhmkorff.
Figura 4. Laboratorio “Luce Elettrica”: i bambini giocano con l’exhibit delle lampadine a incandescenza. gioco che fa divertire, riflettere e invita alla conoscenza. Il visitatore viene coinvolto, reso protagonista dell’esplorazione e indotto a porsi domande; può mettere le mani nelle cose, fare, capire e dominare i fenomeni. Nella costruzione degli exhibit ho scelto di utilizzare materiali semplici, sicuri, ma anche solidi e piacevoli, principalmente il legno, ma anche il ferro dolce, il plexiglass e l’ottone, e di creare forme armoniose, proporzionate, esteticamente curate. Talvolta le risorse a disposizione, così come succedeva nel passato, hanno guidato le mie scelte, ma più spesso la ricerca dei materiali adatti è stata guidata dalla facile reperibilità e dalla
ricerca di una efficace comunicazione scientifica. Con gli exhibit ho proposto diverse tipologie di fenomeni: esperienze storiche già realizzate e riproposte in forma didattica, esperienze nuove nate da intuizioni personali, oppure pannelli espositivi che con i colori, la disposizione delle diverse parti e la coerenza del percorso conoscitivo stimolano la curiosità e la costruzione di propri modelli mentali. In un’altra sezione, apparecchi storici, quali i rocchetti di Ruhmkorff, sono stati utilizzati per alimentare sorgenti luminose attraverso scariche elettriche nel vuoto e nei gas rarefatti. Il rocchetto di Ruhmkorff utilizzato, apparecchio rarissimo perfettamente funzionante, è la ricostruzione storica di uno dei primi rocchetti riportati nei trattati di fisica della metà ottocento. Ali108
Mostra realizzata dal Comitato per le manifestazioni SCIENZAsocietàSCIENZA su progetto di Carla Romagnino e la collaborazione di Maria Maddalena Becchere, Licia Carbini, Maria Bonaria Desogus, Rossana Loddo, Silvia Piludu, Elisabetta Piro, Paola Pittau, Maria Grazia Rachele
mentato da una pila da pochi volt genera tensioni di migliaia di volt. Ho presentato fenomeni spettacolari, caratterizzati da straordinarie luminescenze di vari colori, nati dalla curiosità per un fenomeno misterioso, che portarono alle grandi scoperte di fine ottocento: i raggi x, l’elettrone, la radioattività.
The exhibition commemorates, through 30 panels, the books, articles, essays that have shaped the history of science. Its purpose is to promote the study of the classics and raise people awareness about the fact that science is universal culture and contributed, like the other branches of knowledge, to the progress of humanity. Works of the greatest scientists, who have been of great unifiers, are shown, and new connections are experimented and found.
Conclusioni Il lavoro di costruzione e ri-costruzione è alimentato dall’auspicio che si crei a Cagliari un Museo scientifico storico cittadino che raccolga le collezioni universitarie e del territorio, sia dotato di laboratori interattivi propri di un moderno Centro della Scienza che siano destinati alla formazione scientifica dei giovani studenti e alla divulgazione delle scoperte e delle innovazioni scientifiche umane.
La mostra ha voluto mettere in rilievo le pietre angolari del grande edificio della scienza. In essa sono stati ricordati i libri, gli articoli, i saggi che hanno fatto la storia della scienza. Aveva un carattere fortemente multidisciplinare e aveva lo scopo di favorire il superamento della dualità fra le due culture umanistica e scientifica. L’intento era di far capire che, così come la storia della lettera-
tura si studia attraverso le opere degli autori che si sono distinti nei diversi generi letterari: nella prosa, nella poesia, nel teatro ecc.; anche la scienza è un prodotto della mente umana che si sviluppa attraverso le teorie e le scoperte fatte da uomini che avevano certe strutture mentali e che si sono trovati a vivere in determinati contesti storici e sociali. La multidisciplinarità sottolineava invece come la scienza non possa semplicemente essere concepita come somma di storie particolari. Molti scienziati, soprattutto quelli del passato, non sapevano certo in quale capitolo se della fisica o della chimica o altro sarebbero andate a finire le loro ricerche. E perciò, in particolare, si sono volute mettere in rilievo le opere dei più grandi scienziati che sono stati degli unificatori, degli uomini che hanno saputo trovare connessioni che prima di loro non erano mai state percepite da nessuno. Tra essi citiamo Copernico che nell’introdurre un nuovo modello del sistema solare seppe unificare i disparati elementi che caratterizzavano il moto dei corpi celesti. Con Tolomeo, infatti, ogni pianeta era un’entità a sé stante, con Copernico tutti i pianeti furono sistemati in un quadro esplicativo unitario. 109
Oppure Newton che eliminò la dicotomia tra moti celesti e moti terrestri, formulando un insieme di leggi che si applicavano tanto alla terra quanto al cielo o Maxwell che vide il rapporto tra l’elettricità e il magnetismo e dimostrò che la luce era una forma di radiazione elettromagnetica. E ancora Darwin che colse la relazione tra tutti gli organismi viventi,
che discendevano da un antenato comune o Einstein che coi suoi scritti del 1905 fece vacillare alcune convinzioni fondamentali della fisica classica, in particolare mise in questione la teoria ondulatoria della luce, fornì prove decisive dell’esistenza degli atomi, permise una nuova comprensione dello spazio e del tempo e infine identificò la massa come una forma di energia.
La mostra raccontava quindi di uomini e donne che attraverso la loro genialità, hanno determinato quelle che sono chiamate delle vere e proprie rivoluzioni scientifiche. Ma attraverso la lettura dei loro saggi è facile capire che la scienza non progredisce solo attraverso il passaggio del testimone da un cosiddetto gigante e l’altro, ma che all’impresa scientifica partecipano molti personaggi, spesso secondari che, attraverso un sapere diffuso, contribuiscono in maniera decisiva a determinare le grandi scoperte o le grandi svolte concettuali. Ai volti e alle storie di questi scienziati è stato affidato il racconto di un percorso affascinante che fin dall’antichità ha accompagnato
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l’umanità. La mostra è stata sponsorizzata dall’Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Cagliari e dai Servizi Bibliotecari della Provincia di Cagliari. I pannelli erano strutturati in modo da presentare due immagini principali, il volto dell’autore e il frontespizio del libro di cui si vuole sottolineare l’importanza. Una terza immagine, in trasparenza, sullo sfondo, simboleggia la teoria sviluppata. Nei riquadri, in alto un brevissimo inquadramento storico per ricordare i principali fatti dell’epoca in cui è vissuto l’autore. Nel riquadro di sinistra si descrivono le ragioni per cui si è scelto quel particolare libro e, a destra, una breve biografia dello scienziato.
SiComeLuce Spettacolo teatrale a cura di Maria Bonaria Zandara e gli allievi dell’IC Dolianova La Scienza è fondamentalmente scoperta e piacere della scoperta. La scuola, invece, assegnando grande spazio alle risposte, colloca in un angolo la curiosità e il piacere di scoprire. Come ottenere il massimo del risultato suscitando la partecipazione attiva degli studenti? Una risposta è il teatro che, nella nostra esperienza di questi ultimi anni, è stato capace di risvegliare l’interesse dei giovani per la scienza. Scuola, teatro e scienza possono quindi integrarsi e rendere più efficace il messaggio scientifico. Tenendo conto che il teatro rappresenta uno spazio all’interno del quale si mettono in moto relazioni e competenze che, normalmente, non abitano nelle attività scolastiche “normali”. Gli spettacoli che abbiamo presentato hanno sempre messo al centro la dimensione sociale della scienza, sia con le storie di scoperte che di conflitti, oltre ai percorsi individuali che hanno coinvolto scienziati e idee scientifiche, storia e progresso.
Lo spettacolo teatrale ha lo scopo di presentare una diversità di spazi /azioni /eventi dove la velocità della luce permette agli studenti /attori di vivere un mondo in cui le deformazioni spaziali e le inversioni temporali sono il pretesto per narrare – non convenzionalmente – le problematiche legate al mondo della Scienza. I ragazzi vengono allenati al gioco teatrale quale strumento di sostegno alla didattica, prendendo spunto da argomenti di carattere scientifico e dalla vita di grandi scienziati. Un mondo, non sempre immaginario, all’interno del quale vivono inaspettate connessioni sceniche e dove lo sforzo comune è orientato 111
a “rendere comprensibile il possibile”. FABULATORE: Mi pare di capire che sino ad oggi molti hanno preferito il buio, e in questa luce sfumata hanno cercato di nascondere la verità! Secondo qualcuno mettere in discussione le basi delle conoscenze del passato era una eresia e un rischio per la propria incolumità! Io credo, invece, che dobbiamo ascoltare i nostri cercatori di verità, i nostri scienziati, anche perché dicono cose molto intriganti! GALILEO: Caro amico mio, certo a qualcuno è andata male ma non ti
dispiacere! A me è andata un po’ meglio, anche se il rischio che ho corso è stato grande! E tutto perché ho osato cambiare l’idea del giorno e della notte! Ma soprattutto perché ho tolto la Terra dal centro dell’Universo! MARIONETTA: Certo che non erano tempi tranquilli, perché insieme a grandi scienziati e grandi scoperte vivevano imbroglioni e truffatori che vendevano di tutto per fare soldi. FABULATORE: Galileo si è salvato la pellaccia! Ma non è facile vietare agli uomini di guardare il cielo! Voi pensate sicuramente che ha
fatto il furbetto!! Vorrei vedere voi al suo posto! Ma il fatto di ritrattare le sue teorie gli salvò la vita! Certamente perse una grande battaglia, ma la guerra delle idee
proseguì! Ed il suo “eppur si muove” alla fine del processo, la dice lunga sul suo pentimento!
Percorsi naturalistici e botanici 112
Il promontorio di Sant’Elia a cura di Cristina Onnis L’itinerario naturalistico nel Promontorio di Sant’Elia si è articolato lungo il sentiero di Astarte, dalla Baia di Calamosca sino alla Sella del Diavolo. Lungo l’itinerario i visitatori hanno potuto ammirare suggestivi panorami, osservare specie floristiche di grande pregio e di particolare rarità e conoscere infrastrutture di epoca punica e romana, vestigia di una ricca e affascinante storia. Il colle di Sant’Ignazio a cura di Gavino Dettori, Franco Saba, Alfonso M. Stiglitz Il colle di Sant’Ignazio costituisce l’ultima propaggine del sistema di colli di Cagliari, unitamente a quello di Sant’Elia dal quale è separato da una piccola valle. Frequentato già in età preistorica, come mostrano i rinvenimenti di materiali neolitici in alcune grotte, prende il suo nome dai resti di un forte realizzato nel 1792 a difesa della città, minacciata dai francesi. In realtà il forte non venne mai completato. Alcuni anni dopo, nel 1804, venne utilizzato per ospitare i malati contagiosi che non trovavano posto nel Lazzareto posto ai piedi della collina. All’estremità meridionale del colle 115
Percorso botanico Terrazza del Ghetto a cura di Gabriella Caria, Maria Antonietta Manca
sorge il faro di Calamosca, noto con il nome di “Torre dei segnali”. Venne edificata nel 1638 su una torre preesistente. Il nome “torre dei segnali” le venne dato perché era dotata di un sistema di segnalazione con il Castello di Cagliari. Più in basso, su un piccolo promontorio presso il borgo di Sant’Elia è presente un’altra torre costiera, di piccole dimensioni detta di “Su Perdusemini” (del prezzemolo), anch’essa legata alla necessità di vigilare le coste. Durante la seconda guerra mondiale nello spazio tra la torre e il forte furono realizzate alcune batterie antiaeree, ancora visibili. Il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu a cura di Gavino Dettori, Franco Saba, Alfonso M. Stiglitz È il più occidentale dei colli di Cagliari, caratterizzato da due cime, Tuvumannu e Tuvixeddu, separate da una piccola valle oggi attraversata da via Is Maglias. Il colle fu frequentato sin dall’età neolitica, quando un piccolo villaggio fu impiantato in via Is Maglias. L’uso funerario del colle inizia nell’età del Rame (III millennio a.C.); alle pendici orientali di Tuvumannu fu realizzata una necropoli a grotticelle artificiali di Cultura Monte Claro. La desti116
nazione funeraria del colle raggiunge la maggiore estensione in età punica (VI-III sec. a.C.), come dimostrano le migliaia di tombe scavate nella roccia, dotate di pozzo verticale e camera. La necropoli continua ancora in età romana quando vennero realizzate le grandi tombe a camera, dotate di facciate monumentali che imitano gli edifici della città, come la c.d. Grotta della Vipera, che somiglia a un tempio. Nel proseguo di tempo la necropoli viene abbandonata e utilizzata come cava, in particolare negli ultimi due secoli scorsi, quando venne trasformata in un’autentica miniera urbana.
Il percorso botanico, allestito nella Terrazza del Ghetto di Cagliari, ha inteso promuovere la conoscenza della flora sarda valorizzando il patrimonio materiale e l’esperienza maturata nelle precedenti edizioni del Festivalscienza per il Parco di Monte Claro. Nei tre anni precedenti erano state infatti realizzate complessivamente 30 schede botaniche per le palme, i pini, le piante aromatiche e della macchia mediterranea presenti nel Parco; le associazioni ANISN, UICI e UNIVOC, ANFFAS
avevano curato rispettivamente la parte scientifica, la trascrizione in braille dei testi e la costruzione dei variopinti tutori delle schede. Nell’edizione 2015 del Festivalscienza, grazie alla collaborazione dell’Ente Foreste, il percorso botanico è stato ricreato nella
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Terrazza del Ghetto di Cagliari esponendo vari esemplari della macchia mediterranea, di erbe aromatiche e di alcune conifere. Tutte le piante sono state corredate delle schede botaniche in italiano e in braille. Con la supervisione scientifico-didattica delle socie ANISN sono state coinvolte, oltre alle già menzionate associazioni, anche ABC e Futuribile che con impegno ed entusiasmo si sono alternate con le stesse socie ANISN e dell’UICI come guide alle scolaresche e al pubblico intervenuto. IL settore è stato curato da Gabriella Caria, Maria Antonietta Manca, Cristina Onnis per la parte scientifica e da Maria Becchere e Laura Bifulco per la parte organizzativa.
Testimonianze
Maria Del Zompo Magnifico Rettore dell’Università di Cagliari
In questa sezione abbiamo raccolto le testimonianze dei diretti partecipanti ai vari eventi. Le interviste, fatte durante il festival, erano state rivolte a relatori, rappresentanti delle istituzioni, studenti, responsabili dei laboratori. La trascrizione delle interviste ci permette di approfondire e capire cosa è davvero il festival e quale scopo si prefigge. Ringraziamo per il lavoro svolto Giuseppe Murru, dell’Ufficio stampa del Consorzio Camù, e i giornalisti di Radio X e di UnicaRadio.
I podcast con le interviste sono reperibili alle pagine http://www.unicaradio.it/programmi/7030-festival-della-scienza; http://www.radiox.it/extralive/conoscenza/extralive-speciale-festivalscienza/; http://www.radiox.it/extralive/conoscenza/festivalscienza-fablab-laboratori-e-led-blu-per-illuminare-le-menti/; http://www.radiox.it/programmisocial/news/festivalscienza-costruire-e-conservare-il-sapere/; http://www.radiox.it/extralive/conoscenza/meravigliamoci-ecco-segreto-del-festival-scienza/.
Professoressa che cosa ne pensa di questo festival? Il gruppo della professoressa Romagnino, tutto il gruppo che sostiene il festival della scienza è encomiabile perché è una realtà che viene dalla società civile che coinvolge poi varie associazioni tra cui l’Università, che chiaramente si sente molto coinvolta per la partecipazione sia di studenti sia di docenti. La cosa bella è che parte dalla società civile, non dall’Università, e contribuisce a quella che è la dialettica sul significato della scienza in una città come Cagliari che ha molte potenzialità e che a mio parere si sta un po’ risvegliando sotto questo aspetto. All’insegna della multidisciplinarità. La scienza è di per sé multidisciplinare. Non parliamo solo delle discipline più tecnologiche (medicina, biologia, ingegneria) ma anche le scienze fisiche, filosofiche, umanistiche e giuridiche. Un festival della scienza comprende un po’ tutti gli aspetti. C’è da distinguere quella scienza che è più vicina ad aspetti molecolari biologici, diciamo con una valutazione
di aspetti oggettivi, dalle scienze umanistiche che invece hanno più un valore di tipo introspettivo o creativo, non necessariamente legate a valutazioni oggettive. Mi spiego meglio: un calcolo della relatività e una poesia di Leopardi hanno due approcci, due significati diversi. Il festival della scienza quest’anno ha evidenziato una peculiarità importante per il territorio, quella di voler portare avanti il percorso legato alla creazione di un museo delle scienze interattivo. Lei dice che Cagliari si sta riavvicinando a questo tipo di tematiche. Come è stato possibile? C’è un signore che si chiama Gianbattista Vico che parla dei corsi e ricorsi storici. Ogni tanto ti addormenti ma a un certo punto ti risvegli. C’è voglia di partecipare, c’è voglia di esserci e l’Università è una grande piccola parte di tutto questo, sempre più dentro la società, non solo quella cagliaritana ma anche quella di un territorio più vasto. Il sonno della ragione genera mostri: condivide? Non proprio. Io do all’emotività e alle emozioni un colore molto più vivido e molto più valido del colore che si dà alla ragione e questo viene dalla mia esperien121
za di neuroscienziato, dalla mia ricerca, dalla mia cultura, dalla mia conoscenza. La parte emotiva che sta in noi è la parte che ci colora però è anche la parte più biologica. Per cui questo mix continuo tra l’aspetto biologico e quello che dall’esterno noi siamo in grado attraverso il nostro cervello di assimilare ci rende quello che siamo. Poi la parte ragionevole cerca di controllarci, di portarci avanti in una maniera un pochino più organizzata: è giusto che ci sia ma se fosse solo quello saremmo disperati non saremmo la specie umana che siamo. Lei ha una lunghissima carriera nel campo dell’insegnamento. Quanto è importante riuscire a trasmettere a dei ragazzi, ai bambini, quanto è importante insegnare la curiosità? È fondamentale. Tutti i mezzi che noi possiamo utilizzare per questo, ci aiuteranno a far crescere una società civile sempre più vogliosa di continuare a crescere, in una realtà di equilibrio però, perché questa è la cosa più importante. La curiosità, il fatto di continuare a volersi spiegare delle cose, a volersi cimentare e mettersi alla prova, a sfidarsi è qualcosa che noi dobbiamo insegnare e abbiamo cercato di insegnare ai
nostri ragazzi, ai nostri bambini e bisogna continuare a stimolare in questo senso. Lei ha più volte parlato del rapporto tra la scienza e la tecnologia. Infatti la scienza non è tecnologia. Compito dell’Università non è formare dei tecnologi ma dei cittadini consapevoli, che abbiano modo all’Università di interagire con più discipline e di avere una crescita culturale a tutto tondo, che non si limita esclusivamente agli aspetti legati a quella che domani sarà la loro professione ma che permetta di utilizzare quel tempo, della laurea, e quel luogo, l’Università, per crescere come cittadini consapevoli capaci di valutare con maggiore conoscenza e perciò con maggiore competenza anche problemi sociali che hanno a che fare con la vita di tutti noi. La scienza ci permette di incuriosirci, la tecnologia - soprattutto se usata in maniera passiva - potrebbe impigrire le nostre menti. L’università fa crescere le menti. In questi anni ha ormai sviluppato come missione la divulgazione della scienza (ricerche e approfondimenti) per aumentare il livello di conoscenza e quindi automaticamente il livello di competenza con l’attiva partecipazione.
Museo di Trento. Quale il progetto a Cagliari? Io ho una mia filosofia, che è quella di affrontare i problemi immaginando di raggiungere risultati. L’Università ha dato un suggerimento, mettendo a disposizione in un prossimo futuro il Palazzo della scienze che potrebbe essere rivisitato dal punto di vista architettonico per ospitare il museo della scienza interattivo, con la parte legata alla conoscenza della scienza grazie alla possibilità di giocare con la scienza per bambini e adulti, e una parte legata alle tante collezioni di alto livello scientifico che l’Università possiede nei propri dipartimenti, che possono essere una base più che valida per un museo della scienza che abbia la parte storica, la parte culturale ma anche la parte moderna e interattiva. Non c’è bisogno né di archistar né di edifici nuovi. Quelle risorse finanziarie possono essere impiegate per altri aspetti legati alla creazione del museo. Il Palazzo delle scienze nell’arco di qualche anno potrebbe essere reso disponibile, insieme a quello che poi ci sarà intorno, perché ci sono degli edifici che resteranno in uso all’Università per le sue attività. E poi si può pensare a un percorso culturale e turistico mol122
to interessante e stimolante che comprenda l’anfiteatro e in generale tutto Buoncammino.
Enrica Puggioni Assessore alla Cultura del Comune di Cagliari
Un festival che si colloca a buon titolo nel programma di Cagliari capitale italiana della cultura. Assolutamente sì, è un anno ricchissimo questo della capitale italiana della cultura e non poteva mancare una edizione speciale ispirata alla meraviglia alla luce del festival della scienza. Ringrazio il comitato e gli organizzatori perché veramente è un’offerta imperdibile che tra l’altro non è limitata, come tutti i festival migliori, ai cinque giorni del calendario ma nasce da un percorso di rete, di incrocio di linguaggi e di coinvolgimento attivo delle scuole, delle realtà locali, degli enti di ricerca in un progetto importante di ricucitura non solo urbana ma anche extraurbana. È così che la scienza suscita quella famosa maraviglia di cui si parlava in alcune bellissime poesie di Galileo Galilei, che ci fa stupire e venir veramente voglia di conoscere perché conoscere è bello.
Ferdinando Ferroni Presidente dell’INFN
Professore, che cosa ne pensa dei festival della scienza? Penso bene di tutti i festival che non siano Sanremo. I festival della scienza sono un’occasione importantissima per avvicinare la scienza al grande pubblico. Credo ci sia un grande deficit di comunicazione in questo paese, ma forse in genere nel mondo, e apprezzo questo formato in cui il grande pubblico viene attirato da un evento che in questa città a dimensione umana viene molto meglio che a Roma o a Milano. Questo incontro con la possibilità di dialogare è una delle chiavi perché in futuro ci sia la ripresa di coscienza di quello che è la scienza per la società. Siamo in un ambiente che tenta di ricostruire lo studio di Einstein come lo ha lasciato poco prima della sua morte. La emoziona questo? Einstein è considerato da tutti noi il padre nobile della scienza moderna. Credo che quella che è stata la sua profondità di pensiero sia qualcosa che ancora non riusciamo probabilmente a capire fino in fondo. L’avere scritto cento anni fa la teoria della relatività,
una teoria complicatissima tra l’altro, che ha resistito a ogni tentativo di invalidarla e che oggi ci mette di fronte ai suoi ultimi test la ricerca delle onde gravitazionali il tentativo di capire all’inizio dell’universo come poteva mai questa relatività andare d’accordo con la meccanica quantistica le sfide che ci ha lasciato sono veramente un punto fondamentale il più alto che io conosca della scienza moderna.
Interviste da Radio X Migliaia di visitatori, laboratori affollatissimi: il lato divertente della scienza per i bambini e per gli insegnanti. Sono in compagnia con Fabrizio del circolo ASD Cagliari scacchi. C’è una scacchiera gigante con pezzi per giocare a scacchi che sta attirando l’attenzione dei tantissimi ragazzi che partecipano al festival scienza. Come è nata questa iniziativa? Siamo stati invitati in quanto gli scacchi sono molto legati alla matematica. Avete dei bambini. È sempre così pieno o è solo la mattina che attira tanta gente? 123
Ieri siamo rimasti fin a sera tardi e avevamo i tavolini sempre pieni. Si avvicinano tutti: ragazzi, organizzatori, adulti. Sembra strano nell’era dei tablet ma è un gioco che attira ancora molta gente. È ancora molto attuale e ha un fascino tutto particolare quello di poter vedere una mossa più in là dell’avversario, di poter giocare una guerra senza vittime. Giordano, sei un ragazzo dell’istituto Grazia Deledda e sei qui con la tua scuola per fare il volontario all’interno del festival della scienza. Parlaci un po’ della tua esperienza. È stata un’esperienza importante per il nostro istituto. Ci ha fatto crescere molto. L’esperienza lavorativa è stata molto impegnativa ma abbastanza appagante. Quanti giorni dovete fare? Da mercoledì a domenica, dalla mattina fino alle sette della sera. Si può imparare anche fuori dalle aule scolastiche? Rifaresti questa esperienza? Certo, si può imparare anche di più. Abbiamo fatto delle conoscenze e rifarei questa esperienza molto volentieri, magari con meno ore.
Davide, anche tu sei un volontario del festival. Ci racconti questa esperienza? È un’esperienza molto positiva e piacevole. Siamo a stretto contatto con i bambini e il nostro ruolo è accompagnarli assieme ai professori nei vari laboratori che trattano argomenti scientifici, Newton, la luce, i colori, tutto molto bello. Tu sei dell’istituto alberghiero di Cagliari e questo è un progetto che coinvolge vari istituti del cagliaritano. Tu pensi che sia importante per la vostra formazione, aggiunge qualcosa rispetto a quello che fate normalmente nelle ore di lezione? Sì, aiuta molto a formare in quanto noi che studiamo nel settore del ricevimento siamo a contatto con la gente e il nostro lavoro è quello di accoglierla. È il terzo anno che ripeto questa esperienza e la trovo formativa: riesci a raggiungere il contatto con il potenziale cliente che in una esercitazione scolastica non puoi avere. Ti sentiresti di consigliare questa esperienza anche ad altri ragazzi? Sicuramente sì perché imparare a relazionarsi con le altre persone è sempre un’aggiunta in qualsiasi tipo di lavoro. Anche il minimo contatto col cliente può servire.
Qui siete molti ragazzi quindi avrete anche immagazzinato esperienze di lavoro in team. Puoi dirci come vi state coordinando, che cosa nel dettaglio si richiede ad ognuno di voi? Innanzitutto siamo due istituti che hanno dei supervisori. Siamo divisi in squadre. Un supervisore controlla all’entrata il flusso dei ragazzi e assegna i vari accompagnatori che portano poi i ragazzi ai laboratori, un altro interno aiuta il coordinamento dei laboratori stessi. Il lavoro è molto molto bello, siamo tutti ragazzi che hanno molta voglia di fare e la cooperazione viene naturale. Si crea fin dal primo giorno un bel cameratismo. Laboratorio cooperativo: i policubi. Fabio e Roberta del Grazia Deledda si stanno cimentando con questo interessante laboratorio. Ci raccontate che cosa state facendo? Abbiamo varie forme e le mettiamo in pila per provare a fare delle costruzioni. Stiamo muovendo in modo da tenere tutto in equilibrio e piano piano lavoriamo assieme per creare nuove case. Vedo che siete un po’ in difficoltà, è difficile? Beh sì perché più sali in alto più 124
diventa difficile perché le costruzioni devono rimanere in piedi. Sono in compagnia di Sandro Deplano, Federica Curreli, Alessandra Desogus e Silvia Loi. Sandro, di che cosa si tratta? Si tratta di un’esperienza manipolativa dove attraverso oggetti del quotidiano, addirittura oggetti che possono utilizzare anche i bambini di un anno, si riesce ad impostare dei discorsi sulla geometria, in particolare la geometria solida. Per i bambini più piccoli il primo obiettivo sarà quello di ricopiare un oggetto che si vede in una fotografia o in uno schema o addirittura costruito come un modello da ripetere e via via scoprire le regolarità. In una scuola media possiamo studiare come i multipli di tre vengono tradotti in modo geometrico oppure la combinazione di questi oggetti porta ad arrivare addirittura a un discorso di espressioni. Ecco perché abbiamo messo Diofanto in quanto ha inventato le equazioni in due incognite con coefficienti interi e soluzioni intere. Federica, Il vostro è un laboratorio cooperativo. Puoi dirci come cambia l’approccio dagli adulti ai bambini o se invece ci sono delle costanti?
L’approccio avviene attraverso il gioco. Collaborando imparano: il più bravo insegna al meno bravo ma il più bravo impara perché deve trovare delle soluzioni più semplici per il meno bravo. Allo stesso tempo c’è la scoperta di soluzioni che in quel momento il bambino non vedeva, con l’aiuto del compagno riesce a visualizzare cose nuove e quindi c’è la scoperta e soprattutto il lavorare insieme che fortifica il lavoro e stimola il bambino o il ragazzo. Il laboratorio va dalla prima elementare fino ai ragazzi delle superiori. L’altro giorno sono venuti dal liceo di Arzachena gli alunni più bravi delle varie classi e tutti hanno lavorato in modo collaborativo. In molti casi abbiamo lavorato con alunni con handicap e abbiamo sperimentato come in molti casi addirittura il ragazzo con problemi nell’attività manuale riusciva a competere con i coetanei tanto che questi arrivavano a chiamarlo e a integrarlo nel gruppo classe per riuscire a risolvere il problema che gli veniva presentato attraverso il gioco non vivendolo come un problema ma come una soluzione da scoprire. Alessandra, il vostro è un progetto che ha visto la collaborazione dell’Accademia dei Lincei e dell’Università di Sassari.
Sì, abbiamo avuto la possibilità di un’esperienza con altri docenti di ogni ordine di scuola e abbiamo giocato in piccoli gruppi per capire come un materiale apparentemente semplice possa essere utilizzato a vari livelli.
Abbiamo appena sentito l’intervento del dott. Michele Lanzinger sul Muse di Trento e sta per iniziare una tavola rotonda dal titolo “Sardegna isola della scienza”, durante la quale si parlerà della possibilità di creare un museo delle scienze. Ne parliamo con il prof. Paolo Sanjust docente universitario e architetto. Professore può dirci quali sono i temi caldi? Il tema principale è quello della impostazione di un museo delle scienze dell’università di Cagliari, un progetto su cui si sta ragionando insieme all’Università, naturalmente col Comune di Cagliari, con la Regione e con gli altri enti di ricerca. Abbiamo fatto solo i primi passi e oggi è il primo momento pubblico nel quale tutte le istituzioni si confrontano su questo tema. Abbiamo appena assistito a una conferenza emozionante del prof. Lanzinger direttore del MUSE di Trento, uno dei più importanti musei della scien125
za creati negli ultimi anni in Italia. Ci ha fatto comprendere come un museo oggi non è più un luogo di pura e semplice esposizione ma è un luogo di vita, un museo per l’uomo, sostanzialmente un museo nel quale la crescita culturale e sociale dell’uomo trova sostanza, trova un luogo dove svilupparsi. Il progetto al quale abbiamo lavorato noi del Dipartimento di architettura immagina di raccogliere le collezioni dell’università di Cagliari che sono in alcuni casi di valore assoluto: penso alla collezione degli strumenti di fisica, alla collezione delle cere anatomiche, alla collezione mineralogica raccolta da Lamarmora. Farle diventare lo spunto di un museo delle scienze, che non può più essere un museo di soli oggetti. Quali sono le ricadute positive sul territorio anche da un punto di vista occupazionale? Intanto c’è una questione legata all’organizzazione e alla gestione degli spazi culturali della città. Nell’ambito del piano particolareggiato del centro storico c’è stata una collaborazione fra il Dipartimento di architettura e il Comune che hanno fatto insieme un ragionamento sugli spazi della cultura sui musei della città. Stiamo affrontando in questi anni la
dismissione di un grande numero di monumenti e di edifici storici: l’ex carcere di Buoncammino, l’ospedale civile, la manifattura Tabacchi, il Palazzo delle scienze, la clinica Macciotta. in questo contesto di riorganizzazione degli spazi culturali stiamo ipotizzando che il Palazzo delle scienze possa accogliere un museo delle scienze. Sulle ricadute occupazionali è prematuro fare previsioni precise. Certamente ci saranno, anche se non siamo ancora in grado di quantificare sia in termini diretti l’occupazione di persone che lavorano all’interno del museo, sia in termini indiretti perché un grande museo attira visitatori e induce movimento di persone e di denaro.
topografiche storiche della Sardegna e di Cagliari, una collezione di opere d’arte e una collezione di oggetti etnografici di grande valore. Per non parlare della collezione Piranesi L’Università conserva 1100 stampe di Giovanni Battista Piranesi un patrimonio straordinario sulle 1300 complessivamente prodotte da Piranesi. Stiamo dunque ragionando anche sulla riorganizzazione delle collezioni universitarie di tipo umanistico, anche se siamo un po’ più indietro rispetto al ragionamento sulle collezioni di tipo scientifico.
Musei di questo tipo sono possibili esclusivamente relativamente a materie di tipo scientifico o possono essere applicati anche a musei di tipo tradizionale, tipo pinacoteche e gallerie d’arte? La riorganizzazione dei musei in senso contemporaneo riguarda tutti i musei. In ambito universitario stiamo ragionando anche sulle collezioni umanistiche. L’Università ha delle collezioni straordinarie anche in quel campo, penso principalmente alla straordinaria collezione Piloni di carte geografiche 126
Fabrizio Sotgiu del FabLab
Interviste a Bambini
Come reagiscono i bambini davanti a questa tecnologia, a questa esperienza? Si divertono tantissimo soprattutto con la parte sui colori perché permette comunque di disegnare con le tempere, di miscelare i colori ed è molto manuale e li appassiona molto: hanno trovato interessante anche l’installazione nuragica nonostante sia più complicata come attività.
Che cosa ti aspetti da questa esperienza? Io mi aspetto di scoprire nuove cose di cui non ci eravamo mai resi conto.
Anche per voi immagino sia divertente fare cose di questo genere. Qual è l’aspetto più importante e più bello che poi vi resta? Sono occasioni che ci permettono di vedere molta più gente rispetto all’attività solita del laboratorio perché essendo abbastanza distanti da Cagliari abbiamo una affluenza abbastanza limitata. Qui abbiamo la possibilità di interagire con molte più persone e di variare l’attività di tutti i giorni. Noi stessi ci divertiamo tantissimo e nonostante sia molto impegnativo alla fine siamo sempre soddisfatti e felici dell’esperienza.
Ci potete raccontare che cosa avete fatto stamattina?
Siete contenti di essere qui? Si io tanto
che ogni volta si dovevano mettere. Inoltre abbiamo fatto anche dei disegni con circonferenza simmetrica. Secondo bambino Abbiamo fatto anche un laboratorio dell’Ente foreste dove c’era un cervo imbalsamato, altri animali e tante cose interessanti sui boschi sardi.
Ma non solo perché saltate la scuola? No certamente
Primo bambino Appena arrivati siamo andati in una sala dove ci hanno fatto vedere come costruire delle scatole e poi anche fare dei disegni con delle forme costruite con la carta. Che cosa ti è piaciuto di più? Mischiare tutti i colori con gli acquerelli per ottenere nuovi colori sempre più belli: abbiamo scoperto i colori terziari e secondari. È bello imparare anche fuori dalla scuola. Abbiamo imparato anche a costruire un nuraghe, una cosa molto bella perché c’erano tutti i progetti e abbiamo imparato come era fatto. Abbiamo usato dei pezzi di puzzle con dei numeri 127
Gli autori Maria Becchere Laurea in Matematica, Università di Cagliari, Dottorato di Ricerca in Storia, Filosofia e Didattica delle Scienze. Docente di Matematica e Fisica. Socio C.R.S.E.M. Vice presidente dell’Associazione ScienzaSocietàScienza. Alessandra Bernardini Responsabile operativo del servizio di Fisica Sanitaria e Radioprotezione dell’Università di Cagliari. Si occupa da molti anni della protezione dalle radiazioni ionizzanti. Da qualche anno ha iniziato a proporre a bambini e ragazzi laboratori sulla radioattività. Maria Antonietra Calvisi Docente Scuola Primaria presso l’Istituto Comprensivo di Oliena dove insegna Italiano, Storia, Arte e immagine, Scienze, Educazione Fisica. Gabriella Caria Laureata in Scienze Biologiche e Medicina e Chirurgia, ha insegnato Scienze e Matematica nella scuola secondaria di primo grado. È stata Supervisore di tirocinio nella SSIS di Cagliari e ha partecipato a numerosi progetti didattici e di Ed.alla Salute. Socia ANISN partecipa a Monumenti Aperti e al Festivalscienza da molti anni. Carlo De Rubeis Studioso di storia della strumentazione scientifica, da oltre trent’anni si occupa di attività museali associandole al suo precedente lavoro di funzionario tecnico nell’Università di Cagliari. Le sue attività rientrano in quell’ambito della ricerca museale che attribuisce all’interattività con il pubblico un ruolo decisivo
per la divulgazione scientifica presso giovani e adulti. Realizza ricostruzioni fedeli agli originali di apparecchiature scientifiche del XVIII e XIX secolo e apparecchiature interattive originali utili per illustrare fenomeni fisico/chimici utilizzabili anche a scopi didattici. Partendo dallo studio meticoloso di testi, di documenti d’epoca e utilizzando rigorosamente tecniche e materiali del tempo ha riprodotto numerosi esemplari di strumenti e macchine legate all’elettricità, molti dei quali unici al mondo. Con il suo lavoro appassionato e la sua determinazione ha reso possibile la nascita del Museo di Chimica dell’Università di Cagliari. Ha curato la ricostruzione dei laboratori chimici e di ambienti storici del vecchio Palazzo delle Scienze, risalenti al 1938, e la valorizzazione della collezione di strumenti scientifici, reagenti e vetrerie dei Dipartimenti chimici.
Italo Ferino Professore associato di Chimica Industriale all’Università di Cagliari, dove tiene anche corsi di Chimica della Catalisi e Tecnologie Ecosostenibili per gli studenti dei corsi di laurea in Scienze Chimiche. È autore di un centinaio di articoli su riviste scientifiche e la sua attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche è da diversi anni indirizzata alle applicazioni della catalisi in campo energetico e ambientale. È stato ricercatore all’Università di Poitiers e visiting professor all’Università Claude Bernard di Lione. Ha ricoperto l’incarico di direttore della Scuola di dottorato in Scienze e Tecnologie Chimiche e Farmaceutiche e di direttore del Dipartimento di Scienze Chimiche, ed è attualmente componente del Nucleo di Valutazione dell’Ateneo di Cagliari.
Gavino Dettori Ingegnere libero professionista, insegnante di ruolo di materie tecniche negli Istituti Tecnici Statali. Sin da giovane ha aderito ai movimenti per la rivendicazione dei diritti sociali e per la tutela dell’ambiente.
Ugo Galassi Ha insegnato matematica e fisica al liceo Pacinotti di Cagliari, dove ha realizzato uno dei migliori laboratori di fisica di scuola secondaria superiore. Preside di ruolo dal 1983 al liceo scientifico Alberti di Cagliari, ne ha favorito il potenziamento strutturale e organizzativo-didattico. È stato co-fondatore, nel 1973, della Sezione A.I.F. di Cagliari, di cui è segretario dal 1980, svolgendo intensa attività scientifica e didattica. Ha diretto la rivista “Asterischi di Fisica”, periodico della sezione A.I.F. di Cagliari. Nel 1998 ha lasciato il servizio e si occupa di attività legate all’aggiornamento nell’insegnamento delle discipline scientifiche e ai problemi della divulgazione scientifica. Ha fondato, assieme a Carla Romagnino e Guido Pegna il Comitato ScienzasocietàScienza, è membro del Consiglio direttivo della associazione omologa.
Giorgio Erby Laurea in Fisica, Università La Sapienza, Roma, Docente di Matematica e Fisica presso il Scientifico Amaldi di Carbonia. Socio dell’Associazione ScienzaSocietàScienza. Viviana Fanti Ricercatore al Dipartimento di Fisica dell’Università di Cagliari, dove si occupa di applicazioni della Fisica alla Medicina. Promuove le attività di divulgazione scientifica per il Dipartimento e per la locale Sezione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. 129
Juan José Gòmez Cadenas È un fisico che si occupa di neutrini. Ha lavorato negli esperimenti NOMAD, K2K and T2K per lo studio delle proprietà dei neutrini. Nel 2009 ha proposto l’esperimento NEXT che è attualmente in corso presso il laboratorio Canfranc in Spagna sotto la sua direzione. NEXT ricerca il doppio decadimento beta per dimostrare che il neutrino è la antiparticella di se stesso. Gomez-Cadenas è anche scrittore e ha pubblicato due romanzi: Materia Strana (Dedalo, 2008) e Spartana (S.L.U. Espasa Libros, 2014). Pietro Greco Laureato in chimica, è giornalista e scrittore, membro del Consiglio Scientifico di ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), socio fondatore della Fondazione Idis-Città della Scienza di Napoli, condirettore del web journal Scienzainrete, è membro del Comitato del MIUR per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica, ha insegnato e insegna in vari master in comunicazione della scienza. Durante il Cagliari FestivalScienza ha presentato il suo libro “Marmo pregiato e legno scadente”, Carocci editore 2015. Ana Millàn Gasca Professore Associato di Matematiche complementari presso l’Università Roma Tre. Laurea in Scienze Matematiche, Dottorato di ricerca, Studi di Terzo Ciclo nel Programma di Dottorato, Università di Zaragoza. Ha pubblicato 13 libri di divulgazione; articoli di diffusione della cultura matematica, scientifica e tecnica; numerosi i contributi di matematica per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana; vari i contributi all’edizione dei carteggi del fondo Luigi Cremona; svariate le recensioni di libri. Ha tenuto numerose con-
ferenze di storia e cultura matematica. Membro corrispondente dell’Académie Internationale d’Histoire des Sciences. Membro della Redazione Scientifica. Premio Peano 2008. Maria Antonietta Manca Laureata in Scienze Biologiche ha insegnato Scienze naturali, chimica e geografia nella scuola secondaria di secondo grado. Socia ANISN, partecipa da alcuni anni a Monumenti Aperti e al Festivalscienza. Maria Vittoria Massidda Dirigente Scolastico, laureata in Chimica con un master di secondo livello in Leadership e Management in educazione, ha insegnato per diversi anni chimica analitica nella scuola superiore ed ha ricoperto l’incarico di docente di Didattica della Chimica nella Scuola di Specializzazione per la Formazione degli Insegnanti dell’Università di Cagliari. Socia della Divisione Didattica della Società Chimica italiana (DD-SCI) si occupa di ricerca e divulgazione della chimica. Ha fatto parte del Comitato Nazionale di Science on Stage, ha curato la progettazione e realizzazione di exhibit interattivi originali e spettacoli scientifici ed ha partecipato a manifestazioni a livello cittadino e internazionale. Tra gli incarichi ricoperti: esperto di Scienze nel Piano di informazione e formazione sull’indagine OCSE-PISA e altre ricerche nazionali e internazionali, componente del gruppo di Pilotaggio Regionale (GPR) del Piano ISS – Insegnare Scienze Sperimentali – presso l’USR Sardegna. È autrice di materiali didattici per il Progetto Educazione Scientifica curato dall’INDIRE, nonché autrice di pubblicazioni e relatrice in convegni a carattere divulgativo e didattico. Nel Comitato ScienzasocietàScienza dal 130
2004, è tra i soci fondatori della nuova Associazione ScienzaSocietàScienza e membro del Consiglio direttivo. All’interno dell’Associazione si occupa della gestione dei partenariati per il FestivalScienza e cura le comunicazioni tra il Consiglio Direttivo e l’esterno. Giacomo Oggiano Ordinario di Geologia strutturale nel Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio dell’Università degli Studi di Sassari. Laurea in Scienze Geologiche presso l`Università di Pisa, è Membro del Comitato Regionale per la Nuova Cartografia Geologica d`Italia. È stato coordinatore per il Progetto Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), partecipando a tre spedizioni in quel continente. Autore di numerosi articoli e comunicazioni a congressi nazionali e internazionali. Luisanna Pani Laurea in Ingegneria, Università di Cagliari, docente di Matematica presso il Liceo Scientifico Asproni di Iglesias. Socio dell’Associazione ScienzaSocietàScienza e socio C.R.S.E.M. Franco Saba Ha studiato a Firenze laureandosi in Scienze Forestali per poi intraprendere la carriera lavorativa nella Amministrazione Forestale della Regione Autonoma della Sardegna. Cofondatore di Legambiente in Sardegna si è occupato di aree protette contribuendo fattivamente alla istituzione del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna. Con l’organizzazione Iubilantes di Como si occupa di cammini storico religiosi curando in modo specifico il Cammino di San Giorgio vescovo di Suelli e collaborando al Cammino minerario di Santa Barbara.
Vincenzo Schettino Professore emerito di chimica fisica nell’Università di Firenze, è socio dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia Angelico Costantiniana e della Royal Society of Chemistry. Ha ricevuto il premio del Presidente della Repubblica per la ricerca scientifica. È autore dei volumi Le vibrazioni delle molecole, Lattice dynamics of molecular cristals, Molecules under extreme conditions, Scienza e arte e di oltre 200 articoli scientifici di chimica fisica. Alfonso Massimiliano Stiglitz Archeologo specialista, Direttore del Museo civico di San Vero Milis, è condirettore degli scavi archeologici che il Museo conduce nei siti di S’Urachi e di Serra is Araus (San Vero Milis) e di quelli che l’Università di Cagliari sta realizzando sul Capo Sant’Elia. È autore di una monografia sulla necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu e di una sessantina di articoli scientifici. Maria Bonaria Zandara Laureata in Scienze Biologiche, insegna nella Scuola Media Statale di Dolianova. Socia A.N.I.S.N., collabora attivamente alle diverse iniziative che vengono programmate. Al Festival delle Scienze presenta con i suoi studenti varie piéce teatrali collegate al tema scientifico che ogni anno ne caratterizza l’edizione. Alessia Zurru Lavora dal 2009 per la società di divulgazione scientifica Laboratorio Scienza, come animatrice e consulente scientifica. Progetta e realizza laboratori e percorsi ludico-didattici su diverse tematiche scientifiche per scuole, biblioteche, eventi e festival. Si occupa della ricerca di metodologie attive di apprendimento e tecniche educative non convenzionali.
I curatori Davide Peddis Attualmente è ricercatore TD presso l’Istituto di Struttura della Materia del Consiglio Nazionale delle Ricerche e Senior Scientis presso il Vinca Institute di Belgrado. La sua attività di ricerca si sviluppa nel campo della chimica fisica dei materiali e della fisica della materia condensata, ed è rappresentata da oltre 60 pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali e otre 150 comunicazioni a congressi internazionali, anche su invito. (https://unica.academia.edu/DavidePeddis/CurriculumVitae). Ha inoltre condotto una intensa attività didattica in Italia (Univ. di Cagliari, Univ. Politecnica delle Marche, Univ. di Genova) e all’estero (visiting professor Univ. di le Mans e Univ. di Uppsala), curando corsi specialistici per studenti di master e dottorato. Sin dal 2002 ha partecipato a diverse manifestazioni scientifiche a carattere divulgativo, sia come organizzatore che come relatore. È inoltre membro della Sezione Didattica della Società Chimica Italiana, redattore del sito web www.chimicare.org e responsabile del progetto di divulgazione scientifica Nanoscienza e nanomateriali Magnetici, in collaborazione con il Liceo Giuseppe Peano di Monterotondo (RM). Carla Romagnino Fa parte del Comitato per la diffusione della cultura scientifica del MIUR. È stata Presidente del NSC per il Science on Stage Europe; ha coordinato il gruppo Storia della Fisica dell’AIF; ha ricevuto la medaglia Volta assegnata dall’History of Physics Group of the EPS per le sue attività in Storia della Fisica e il Premio della SIF per la Didattica della Fisica; è stata per sei anni Presidente Nazionale 131
AIF e membro di varie Commissioni ministeriali; laureata in Fisica all’Università di Cagliari ha insegnato matematica e fisica; ha diretto per tredici anni il Laboratorio di Fisica del Liceo Pacinotti di Cagliari dove per dieci anni ha seguito una sperimentazione dell’insegnamento della fisica nell’ambito del Piano Nazionale per l’Informatica; ha pubblicato numerosi articoli sulla didattica e storia della fisica e sulla diffusione della cultura scientifica; dal 2000 al 2009 ha insegnato come docente a contratto alla Scuola di Specializzazione per gli Insegnanti della Scuola Secondaria dell’Università di Cagliari; ha fondato nel 2000, assieme a Ugo Galassi e Guido Pegna il comitato ScienzasocietàScienza, di cui è stata presidente. Oggi è Presidente onorario della associazione omologa.