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CAMBIAILMONDO
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n°
anno 1 - febbraio 2012
cambiailmondo N° 1 FEBBRAIO 2012
In questo numero: CAMBIAILMONDO - EDITORIALE FEBBRAIO 2012 di Rodolfo Ricci
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DA BERLUSCONI A MONTI di Alfiero Grandi
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EUROPA: UN TRATTATO DA RIGETTARE di Roberto Musacchio
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EUROPA: IL LIBRO NERO DELLE PENSIONI R. M.
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MERCATO E PROFITTO DEVONO REGNARE R. M.
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PROVE DI GROßE KOALITION IN GERMANIA di Paola Giaculli
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Il partito Die Linke sotto controllo: PERICOLOSO PER LA DEMOCRAZIA di Massimo Demontis
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UNA RIFLESSIONE SULLA SITUAZIONE GRECA È NECESSARIA Le foto che illustrano questo numero sono state tratte dalla rete. Desideriamo ringraziare tutti gli autori i cui nomi non siamo stati in grado di reperire. Un ringraziamento particolare a Gaia Squarci (foto pagina 40) e all’Archivio Alighiero Boetti (foto pagina 43).
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di Alfiero Grandi
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Lettera aperta del compositore greco Mikis Theodorakis LA GRECIA RISCHIA DI SPARIRE
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OSKAR LAFONTAINE: LA MERKEL E IL SETTORE FINANZIARIO DISTRUGGONO LA DEMOCRAZIA di Massimo Demontis
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LA SANTA ALLEANZA CONTRO IL RISCHIO SOCIALISTA IN FRANCIA
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LA TURCHIA, FOCOLAIO DI CRISI IN MEDIO ORIENTE? di GZ Karl
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IL NUOVO ELDORADO ARGENTINO: LE PROTESTE DEL FAMATINA TRA SVILUPPO ECONOMICO E SOSTENIBILITÁ AMBIENTALE di Adriana Bernardotti
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INTERVISTA A JORGE GIORDANI di Geraldina Colotti
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IN VENEZUELA IL RESOCONTO ANNUALE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, HUGO CHAVEZ di Attilio Folliero
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OPZIONE PREFERENZIALE PER I RICCHI. PRIVATIZZARE GLI UTILI, NAZIONALIZZARE LE PERDITE DELL’ELITE GLOBALISTA di Tito Pulsinelli
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Joa Pedro Stedile sul Forum Social di Porto Alegre ABBIAMO BISOGNO DI UNITÀ E DI MOBILITAZIONE SOCIALE A LIVELLO NAZIONALE E INTERNAZIONALE 54 APPROPRIAZIONE INDEBITA DI UNA LINGUA E DISSIMULAZIONE DELLA REALTÀ di Daniela Ricci
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Segnalazioni Francois Morin, Un mondo senza Wall Street? Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società
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febbraio Rodolfo Ricci
Da Berlusconi a Monti, il passaggio sembrerebbe epocale. L’estetica di governo
cambia
repentinamente,
complici i rialzi di spread e i ribassi delle quotazioni Mediaset che hanno indotto a più miti consigli il Cavaliere.
Ma
il contenitore, cela sempre un contenuto, ed esso, non sembra corrispondere alle tante aspettative, comprensibili (perché si da sempre fiducia al nuovo), ma infondate. Anzi, si potrebbe dire che l’operazione di marketing politico di Monti (e Napolitano) è ineccepibile, sul piano tecnico. Più trascorrono le settimane e i giorni, più il sapore del prodotto risulta sempre più amaro. In Europa, intanto si approntano gli ultimi dispositivi per rendere stabile e gestibile, ciò che per sua natura è instabile e difficilmente gestibile: la crisi sistemica del neoliberismo e quella della prima ed unica moneta (della storia) che è emessa e controllata dai “mercati”, anziché da una Banca Centrale e da un Paese: l’Euro, questa chimera. Libero Mercato, Profitto, Competitività, sono gli elementi ritenuti basilari per la sostenibilità dell’Euro e dell’Europa. Quindi, senza mercato, senza profitto, senza competitività, non può esistere. Può esistere però senza un Stato. E con un welfare ridotto all’osso. Un bel paradosso.
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Assieme ai corollari di Flessibilità in ingresso e in uscita nel mondo del lavoro: tra l’ingresso e l’uscita, non vi è niente. Solo precarietà quotidiana, quindi permanente. L’Uomo nuovo sta per nascere, nella sua forma istituzionalizzata dalla nuova scolastica. Quando a 70 anni, uscirà definitivamente dal mondo del lavoro (ammesso che mai vi riesca ad entrare), all’uomo nuovo per cui stiamo lavorando, resteranno solo pochi mesi per salutare amici e conoscenti e congedarsi per sempre, come nella poesia di Giorgio Caproni, “Congedo del viaggiatore cerimonioso”. Le pensioni e il Welfare, d’altra parte, costano. E se a doverli finanziare sono i mercati, bisogna pure che rendano. E come si fa a far rendere il Welfare per gli investitori ? Enigma. Oppure, diciamocelo, cancellandolo. Redditività massima. Per far sì che la cosa regga, si sono approntate misure innovative per il sud-Europa: grandi coalizioni in Grecia e in Italia, e già si preannuncia il rinnovo di quella tedesca, a far da bastione al provvisorio primato teutonico della “retta via” polpottiana, che pare aver sostituito (geopoliticamente) quello anglosassone, molto pragmatica, ma poco lungimirante nella sua adorazione del debito diffuso. Per evitare problemi, visto che i rompiballe sono presenti anche da loro, i servizi segreti tedeschi hanno messo sotto osservazione Die Linke, il partito di Oscar Lafontaine, socialdemocratico ex Ministro delle finanze ed ex candidato Cancelliere. Nel frattempo, come ci ricorda Mikis Teodorakis, la Grecia sta sparendo, letteralmente, sotto i dispositivi della Troika (FMI, BCE e Commissione Europea), una supercupola, che potrebbe anche assomigliare alla “supercazzola con scappellamento a destra”. Tanto sono ridicole e allo stesso tempo micidiali le sue ricette di guarigione imperniate sul salasso delle risorse del paese per salva-
guardare la pancia delle banche creditrici del nord Europa. Nessuno dice che, a seguito delle successive somministrazioni di rigore, (che l’emerito ex vicepresidente della Trilaterale, membro del Gruppo Bildberg, consulente di Goldman Sachs e della Coca Cola, Senatore a vita e Presidente del Consiglio, Prof. Mario Monti ha definito “salutari”), il debito pubblico greco è passato dal 120% al 160%. Ottima dimostrazione dell’efficacia delle terapie e della qualità dei medici. Ripeta l’esame di macroeconomia, Senatore! Ma finché l’egemonia mediatica è dalla loro parte, non serve a niente far sapere a pochi attenti che centinaia di migliaia di greci dormano sotto i ponti e riempiano le strade, elemosinanti. Per evitare che insorgano problemi o qualcuno metta il bastone fra le ruote dell’equipe di sperimentatori, sembra persino che si sia consolidata una Santa Alleanza tra premier onde evitare che il candidato socialista alla presidenza della Repubblica Francese, Francois Hollande (avverso al Fiscal Compact), arrivi al soglio che fu di De Gaulle: Merkel, Cameron, Rajoy e Monti eviteranno di incontrarlo in campagna elettorale e ciò costituirà segnale inequivocabile che il neoliberismo europeo sa compattarsi nel momento del bisogno e può stendere a terra chiunque pensi di metterlo con le spalle al muro. Altro che conflitti nazionali! La dottrina, la nuova scolastica, è un bene da tutelare ovunque, diversamente, ma similmente a quanto faceva il Patto di Varsavia con i paesi satelliti capricciosi. O come fecero le armate imperiali centroeuropee contro la Comune di Parigi. Questa volta l’obiettivo è un pericoloso socialista democratico ! Il nuovo internazionalismo globalista è in azione e i suoi nemici sono essenzialmente nemici interni: no-tav, movimenti ecologisti, sindacalisti, socialdemocratici, keynesiani, insomma tutta una serie di
nuove varianti eretiche. Solo la sacra follia monetarista deve regnare. Eppur si muove. Anzi, si è mosso. Solo che non ce lo fanno sapere: in America Latina, hanno subito per lungo tempo, ma superato da un bel decennio, le imposizioni dei Chicago Boys. Con ottimi risultati quantitativi e qualitativi. Ma in Italia e in Europa, non vi sono orecchie per ascoltare quel messaggio: sarebbe troppo che quelli del sud ci vengono a insegnare qual è la via d’uscita. Nel prossimo numero di Cambiailmondo, Adriana Bernardotti e J. Carlos de Assis ci racconteranno da Buenos Aires e da Paraiba, come anche i conservatori latino-americani sogghignino per l’insipienza dell’Europa odierna. (Chi vuole se lo può leggere adesso su www.cambiailmondo.org: La crisi europea e italiana vista dall’Argentina: fine del mito europeo e Gli assassini del progetto socialdemocratico europeo) Soprattutto una bella fetta di sinistra (?) continua ad oscurare ciò che accade a sud: sarebbe come dover tirare i remi in barca e ammettere la sconfitta della terza via Gyddenesiana che tanti adepti registrò anche sul suolo patrio. E quindi nessun contrasto all’appropriazione indebita della lingua e del vocabolario che i media esercitano quotidianamente per confondere le acque e per esorcizzare la possibile rivolta. Comunque i sondaggi (assieme ai forconi), ci vengono incontro. In Italia resta un 3% a mantenere una residua fiducia verso questa compagine politica che si appresta a organizzare i nuovi comizi elettorali. Comizi per che cosa ? Quando tutto sarà deciso dalla cosiddetta Europa che ci richiama al dovere e al rigore, su cosa legifereranno i novelli deputati e senatori italici ? Sul colore dei tovaglioli nei ristoranti ? O sul contenuto di aria fritta nelle buste di pop-corn ? Buona lettura e buona visione. febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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DA BERLUSCONI A MONTI di Alfiero Grandi Da dove nascono le difficoltà dell’economia italiana. La crisi economica e occupazionale del nostro paese è più grave di quanto si pensi e per superarla occorre una politica economica coraggiosa e innovativa. Per la distinzione in due tempi della manovra il governo non ha usato al meglio le risorse per sostenere la ripresa. L’inflazione è un pericolo per i redditi bassi e per la ripresa dell’economia. Lotta all’evasione e giustizia fiscale restano obiettivi centrali.
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ualcuno aveva gettato il cuore oltre l’ostacolo sostenendo che il passaggio del testimone del governo da Berlusconi a Monti avrebbe risolto almeno una parte della crisi finanziaria del debito pubblico italiano. Purtroppo il disastro creato dalle menzogne raccontate sul reale stato dell’economia italiana dal governo Berlusconi – che ancora a luglio 2011 parlava a vanvera di nuovi sgravi fiscali – ha reso molto più difficile per il nostro paese risalire la china in
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cui l’ha precipitato la caduta di credibilità causata da oltre 3 anni di menzogne e dall’assenza di politiche adeguate. Il cambio di testimone tra governi c’è stato, ma l’eredità ricevuta dal governo Berlusconi è purtroppo pessima e anche la manovra approvata in dicembre – che è il biglietto da visita del governo Monti – non ha la forza necessaria per invertire la rotta ed è inadeguata sotto il profilo dell’equità. Essa ha inoltre riproposto una logica dei due tempi (prima il
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risanamento, poi la ripresa e l’occupazione) che ha perseguitato in passato anche i governi di centrosinistra con risultati non positivi. Il fulcro della prima manovra del prof. Monti è stato mettere in ordine i conti dello Stato ma – paradossalmente – la critica dei “mercati” è centrata esattamente sull’assenza di misure credibili per il futuro dell’economia italiana. Come del resto segnala la differenza tra gli spread sui titoli italiani a breve termine e quelli a medio-lungo termine. È dunque inutile negare che la distanza tra i titoli italiani a dieci anni e quelli tedeschi non si riduce nella misura sperata, malgrado la credibilità del governo Monti sia ben diversa da quella del governo Berlusconi. Il pr ob l e m a d i f ondo Le difficoltà per l’Italia sono quindi concentrate sul futuro. I cosiddetti mercati non capiscono se possono fidarsi dell’Italia nel mediolungo periodo. A questo va aggiunto che il debito pubblico italiano è a scadenza medio-lunga, la qual cosa è stata finora un punto di forza per i conti pubblici, rendendoli più stabili approfittando della disponibilità a sottoscriverli. Ma nell’attuale situazione di instabilità finanziaria questo fatto, che fino ad ora è stato un punto di forza, espone maggiormente il nostro paese all’umore mutevole dei mercati e finisce con il caricare il peso di interessi più gravosi per
un lungo periodo di tempo. Detto per inciso: forse anche una diversa gestione delle scadenze dei titoli pubblici italiani potrebbe limitare i danni dell’aumento degli interessi, che per ora è sopportabile, ma diventa più pesante man mano che il tempo passa. Ma questa è tattica congiunturale. Il problema di fondo è invece la differenza di credibilità a mediolungo termine tra le politiche e le economie nazionali. Il problema non è stato, almeno per ora, neppure sfiorato dal nuovo governo. Si è ritornati nuovamente alla logica dei due tempi: prima si mettono in ordine i conti pubblici, poi si pensa alla ripresa. In realtà, i due argomenti sono strettamente connessi. Ad esempio, la convinzione di molti conservatori che dopo il risanamento finanziario verrà la ripresa, quasi come una conseguenza naturale, è destituita di fondamento. Il risanamento può preparare al massimo le premesse, ma la ripresa è un argomento che ha tutt’altro spessore, richiede interventi specifici e non deriva affatto automaticamente dalla prima scelta. Risanamento finanziario, liberalizzazioni e interventi sul mercato del lavoro non bastano a prefigurare una ripresa economica, neppure dal punto di vista neoliberale. Semmai il vero problema è che tenere distinti gli argomenti e i tempi di attuazione fa correre un grave rischio, che infatti è purtroppo
presente nella manovra voluta dal governo Monti. La tassazione ad esempio può avere carattere inflazionistico oppure no. Un provvedimento fiscale può essere pro-ripresa, oppure pro-ciclico e quindi fattore di aggravamento della recessione e perfino provocare danni sul tessuto occupazionale. La crisi economica e occupazionale La recessione è già iniziata e ci sono avvisaglie preoccupanti sulla sua reale portata: se la recessione andasse oltre lo 0,5 % previsto dal governo richiederebbe un’ulteriore manovra di aggiustamento dei conti, perché la recessione inglobata nella manovra di Monti è appunto di questa portata. Tenere distinti gli interventi e le fasi non aiuta a ricomprendere in modo coerente i provvedimenti. Un esempio: la maggiore tassazione a carico dei redditi più alti vista come elemento di maggiore equità è importante anche come fattore economico. Perché può evitare la riduzione dei consumi in quanto colpisce settori della società che presumibilmente non diminuiranno i loro consumi anche se tassati maggiormente. Mentre la tassazione dei redditi bassi colpisce fasce della società che come conseguenza riducono immediatamente i consumi perché non hanno margine di manovra sul reddito. L’equità quindi discende da un fattore etico, ma è anche una febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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scelta di politica economica perché se ben applicata può ridurre l’impatto recessivo sottraendo meno risorse ai redditi più bassi e quindi ai consumi.Oggi infatti una delle leve più importanti è la ripresa della domanda interna, fortemente depressa dalle misure restrittive. Inoltre il prelievo impositivo sui redditi riduce al minimo l’impatto inflazionistico, che invece è una conseguenza prevedibile nel caso dell’aumento della tassazione indiretta sui beni di consumo. Anche per questo riesce difficile capire perché alcuni settori sindacali parlano con leggerezza di aumentare l’Iva per usarne gli introiti per diminuire la tassazione sui redditi bassi. Cosa che rischierebbe di essere una partita di giro se non peggio. Anche in questo caso la tassazione diretta è in rapporto con l’equità, ma è anche un fattore di politica economica, con effetti ben diversi a seconda delle scelte concrete. Per uscire dalla crisi Nelle prossime settimane il governo dovrà esporre le sue proposte di politica economica per la ripresa e forse per questo qualche suo fervido sostenitore ha messo le mani avanti, chiedendo di rinviare il giudizio a non prima della fine dell’anno: la prudenza non è mai troppa. In realtà non è questione di prudenza. La questione è che la cura da cavallo del risanamento finanziario, iniziata dal governo 8 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
Berlusconi e conclusa (per ora) con quella del governo Monti rischia di gelare le possibilità di ripresa se non c’è un chiaro orientamento su cosa fare. L’enfasi sulle liberalizzazioni, ad esempio, sembra francamente eccessiva. Certamente c’è bisogno di togliere di mezzo difese corporative, ma non è detto che quelle normalmente elencate siano le peggiori. In ogni caso il loro peso sull’economia non è tale da mettere in sicurezza la ripresa economica. Alcuni numeri che vengono forniti sulla presunta influenza che alcune liberalizzazioni avrebbero sul Pil sembrano sovradimensionati. Se guardiamo alla formazione dei redditi personali c’è qualcosa di eccessivo nel divario tra reddito di chi lavora e quello dei megamanager, in particolare dei settori finanziari. Anche la Banca d’Italia si è espressa per un contenimento dei livelli retributivi che sono 400-500 volte maggiori del reddito medio dei lavoratori. Infatti la Banca d’Italia ha auspicato regole più serie in materia, ma non risulta che ci siano regole cogenti. Si tratta di un auspicio, di una raccomandazione.
In materia di redditi potrebbe esserci una proposta semplice ma importante: per alcuni anni (almeno quanto quelli del blocco della rivalutazione delle pensioni) i redditi dei manager delle banche, delle assicurazioni, delle grandi imprese ecc. non devono poter crescere e quindi sono congelati ai livelli attuali. Se crescono il fisco provvede automaticamente a incamerare la differenza. Se per 2 anni i pensionati con un lordo poco sopra i 1400 euro al mese non hanno rivalutazione, anche i manager di vario tipo possono pazientare. Non è un discorso astratto, poiché appena c’è stato un accenno di ripresa alla fine del 2009 questi redditi hanno ripreso a crescere come se nulla fosse. Questo per confermare che una politica di sostegno alla ripresa ha bisogno di una esplicita politica dei redditi: quali contenere e quali sostenere. Naturalmente è solo un esempio tra i tanti possibili. Quindi le liberalizzazioni possono in alcuni casi essere utili, mentre in altri sono una mera scusa per privatizzare servizi pubblici o cercare di rimangiarsi i risultati positivi dei recenti referendum abrogativi, ignorando completamente ogni riflessione sui beni comuni. Riflessione sui beni comuni che dovrebbe essere la migliore eredità dei referendum del giugno scorso. La ripresa economica e in particolare il sostegno all’occupazione richiedono misure precise e
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mirate. Alcune di queste misure richiedono risorse e altre no,ma sono anch’esse ugualmente necessarie. La finalizzazione non è un optional, ma una condizione per adottare misure efficaci, tanto più in una fase di risorse scarse. Solo con nuove costruzioni non si andrà molto lontano. Ancora risuona l’eco della banalità dell’affermazione di Berlusconi, secondo il quale “quando le costruzioni vanno, tutta l’economia va”. Non è così. Non solo perché la vicenda spagnola è ancora sotto i nostri occhi, ma soprattutto perché la competitività sui mercati internazionali si misura sulla produzione industriale, sui servizi di qualità, sulla produzione di idee e progetti. Per questo il governo dovrebbe puntare ad avere una politica economica ed industriale, impostando dei progetti che il paese intero possa ritenere importanti per il suo futuro. Italia ed Europa È evidente che tutto questo non può essere risolto solo a livello nazionale, ma richiede più che mai un orizzonte europeo che purtroppo non c’è e questo indebolisce moltissimo la possibilità per il nostro paese di farcela. L’ideologismo tedesco dominante impone manovre restrittive a raffica ai paesi ritenuti meno virtuosi, anzi spendaccioni, fino a sfiancarli, come nel caso della Grecia. Si possono reggere con fatica le
conseguenze del risanamento finanziario con un’economia in ripresa, ma senza questa sarebbero guai seri se dovesse prevalere la richiesta tedesca di ridurre di un ventesimo l’anno il debito pubblico italiano oltre il parametro ritenuto accettabile del 60%, senza nemmeno le attenuazioni sul risparmio dei cittadini. Così dovremmo trovare 40 miliardi l’anno per ridurre ulteriormente il debito pubblico. La recessione diventerebbe endemica e senza sbocco. Le conseguenze sociali sarebbero terribili. Quindi il problema vero è la ripresa economica dell’Italia, che però nelle attuali condizioni non può esserci senza l’introduzione di misure adeguate, anche perché la contrazione presente in tanti paesi e il pericolo incombente che l’insieme dell’Europa entri in recessione rende molto più difficile puntare sulle nostre esportazioni. Forse proprio per questa distinzione in due tempi della manovra straordinaria il governo Monti non ha usato al meglio le risorse rastrellate per sostenere la ripresa. Infatti le misure sulla riduzione dell’Irap sul lavoro sono tali da
non essere in sé disdicevoli, ma di tale dispersione da non avere la forza di incoraggiare nuove assunzioni per i giovani e le donne e nemmeno di mantenere questa occupazione se le aziende dovessero decidere di ridurre gli organici. Con la manovra sull’Irap si è arrivati all’incirca a un 2% di riduzione dei costi, che può alleggerire le imprese ma non è in grado di muovere positivamente l’asticella dell’occupazione. Come si dice: male non fa, ma questa misura non ha la forza di impegnare un’impresa a tenersi i lavoratori o ad assumerne altri. In situazioni di emergenza è preferibile finalizzare con precisione, concentrare gli interventi in modo stringente. Ad esempio è preferibile decidere che per un certo periodo, diciamo tre anni, per i giovani e le donne assunte – oltre la pianta organica già esistente – le aziende non pagheranno contributi, che quindi sarebbero interamente a carico dello Stato. Questa misura sarebbe tale da aiutare la crescita dell’occupazione. Se poi – come in passato – venisse messa la clausola che per godere di questa fiscalizzazione per tre anni la condizione è l’assunzione a tempo indeterminato, il risultato potrebbe essere sorprendente. È già accaduto che con una misura analoga presa alcuni anni fa, in piena epoca del “flessibile è bello”, è riemersa l’occupazione a tempo indeterminato, che febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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tanti blateravano non esistesse ormai più. L ’ i l l u s i o n e d i u n r i t o r no a l p a s s a to Le misure per la ripresa economica richiedono anche la capacità di fare i conti con la qualità dello sviluppo. La qualità dello sviluppo, ovvero come dicono molti un altro modello di sviluppo, non è un obiettivo per il dopo crisi. Seriamente si pensa che questa crisi sia una semplice pausa e tutto il problema si riduce al tornare a prima di essa, come se nulla fosse, solo mettendoci alcuni anni per tornare al punto precedente? C’è anzitutto una questione finanziaria. La finanza internazionale, nei suoi vari aspetti, è ormai 8-9 volte il Pil mondiale. Una massa di capitali enorme, che si muove come uno tsunami, o se si preferisce una muta di cani guidati dal corno da caccia delle agenzie di rating. Ventitrenta anni fa la situazione non era questa. Resta il fatto che il problema di mettere sotto controllo i movimenti della finanza e le sue attività è una premessa per uno svi10 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
luppo equilibrato, degno di questo nome, mentre ora gli elementi distruttivi del capitalismo finanziario hanno raggiunto livelli impressionanti. Non a caso Buffet li ha definiti armi finanziarie di distruzione di massa. Quindi il primo problema è che dal 2008, scoppio della crisi finanziaria, ad oggi la situazione dei mercati finanziari è quella di prima, forse perfino peggiore. L’imperativo assoluto che non si possono mettere limiti e vincoli ai movimenti dei capitali finanziari domina più che mai e naturalmente ne sono parte l’uso strumentale delle resistenze di qualcuno per giustificare il nulla di fatto. Come nel caso della Tobin tax, che sembrerebbe avere tanti consensi, salvo vincolare la sua introduzione al consenso di chi non è d’accordo, con risultati che ricordano Bertoldo e l’albero a cui volevano impiccarlo che naturalmente non trovava mai di suo gusto. Anche l’enorme immissione di liquidità nelle banche decisa dalla Bce non sta dando i risultati attesi perché è un po’ come aumentare il metadone, in situazioni estreme è necessario, ma
non può essere una cura. Il problema di fondo sono le regole da introdurre nei mercati finanziari. Sarebbe interessante, ad esempio, sapere perché la Consob non è intervenuta per fermare il tracollo in borsa di Unicredit. In questo quadro lo spread è come un’altalena. Per alcuni gli interessi sono troppo alti, come per l’Italia, ma per la Grecia è molto peggio. Per altri come la Germania sono molto bassi perché diventano il rifugio dei capitali che fuggono. Gli Usa per decenni hanno fatto coesistere un’economia in difficoltà e una bilancia commerciale passiva con una bilancia finanziaria in attivo perché attraevano i capitali dall’estero. Perfino laCina è grande detentrice (un quarto del totale) di titoli del debito pubblico statunitense. Oggi la Germania beneficia di una situazione simile e colloca i suoi titoli del debito pubblico a condizioni invidiabili, alcuni addirittura sotto il livello nominale dei titoli. Vi è qualcosa di strano in quanto sta accadendo nei mercati finanziari. I capitali finanziari che fanno perno sugli Stati Uniti hanno certamente volontà speculative e l’euro in quanto tale è entrato nel mirino. Un’altra moneta forte che nel mondo affianchi il dollaro come valuta dominante non sembra essere gradita da gruppi finanziari importanti con base negli Stati Uniti e forse la Germania, almeno una sua parte, non è del tutto al riparo dalle sirene che la spingono in una posizione apparentemente più favorevole, ma in realtà isolata da gran parte del
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resto dell’Europa, facendo leva sulle posizioni tedesche che hanno sempre guardato con diffidenza all’abbandono del marco. La Germania viene spinta da queste posizioni a fare da sola, con la compagnia di qualche adepto, per sfruttare le condizioni più convenienti e in alternativa a questa deriva altri settori tedeschi non trovano di meglio che imporre condizioni molto pesanti nelle regole della finanza pubblica degli Stati considerati spendaccioni. Da qui la pressione della Merkel per ottenere preliminarmente l’adozione nelle Costituzioni degli Stati europei di una regola simile a quella che è nella Costituzione tedesca, che obbliga al pareggio di bilancio. In questo vi è un salto di qualità, perché si passa da una scelta politica, discutibile fin che si vuole ma sempre appartenente al rango delle scelte, che sono quindi modificabili, a una vera e propria ideologia da imporre come regola permanente nelle Costituzioni. F i n a n z a p u bb l i c a i n o r d i n e e ripr e s a e c o n o m i c a La manovra varata a dicembre dal governo Monti per rimettere in sesto i conti pubblici italiani non basta per mettere in sicurezza il nostro paese perché l’interrogativo a cui occorre rispondere è se l’Italia reggerà nel tempo e sarà in grado di riprendersi, di avere un futuro di sviluppo e di occupazione. O c c o r r e e v i t a r e s a l t i l og i c i Una manovra per mettere in
ordine i conti pubblici era necessaria per tornare ad avere un ruolo in Europa e allontanare lo spettro del default. Il default non è mai stata una vera alternativa. Anche se proposto talora da sinistra in realtà questa prospettiva non ha mai spiegato come fare fronte al dramma di un secco impoverimento molto maggiore di quello creato dalle misure restrittive – degli strati sociali più deboli. Escluso il default come alternativa possibile, resta solo da discutere le diverse opzioni per fare fronte a questa fase turbolenta. Ed è proprio questo il punto: non è affatto vero che una volta detto no al default e concordato sull’esigenza di uno sforzo straordinario per affrontare i problemi posti da un debito pubblico eccessivo (che il governo Berlusconi ha lasciato lievitare fino al 120 % del Pil, bruciando tutti gli sforzi precedenti) i contenuti della manovra del governo Monti, compresa la distinzione tra fase 1 e fase 2, fossero gli unici possibili. Quindi non c’è un rapporto causa effetto tra il risanamento finanziario e questa manovra. Anche la giustificazione che queste misure ce le ha chieste l’Europa non regge, visto che lo stesso Monti ha detto apertamente che qualcuno dall’Italia ha suggerito all’Unione di richiedere queste misure. Del resto basta ricordare i dettagli della lettera della Bce per capire che chi ha scritto quel testo conosceva molto bene la situazione italiana e in quell’ambito si schierava nettamente su un fronte conservatore e liberista.
P oteva n o e s s e rc i m i s u r e d ive r s e ? Certamente. I contenuti della manovra varata dal governo Monti, anche con le correzioni fatte in parlamento, resta una manovra che poteva avere alternative, bastava volerle, a condizione di non soggiacere alla Bce.. Un’altra manovra poteva maggiormente garantire un forte grado di equità che la manovra adottata dal governo Monti purtroppo non è riuscita a dare. Ora è palese un tentativo di dare per scontato quanto è stato già deciso, ma non sarà così facile, perché sono centinaia di migliaia i lavoratori intrappolati nella terra di nessuno tra lavoro e pensione, a causa dell’allungamento drastico di 5-6 anni dell’età di pensionamento; e almeno su questo punto sarebbero necessarie altre correzioni. Vedremo se i partiti che sostengono il governo saranno coerenti con gli impegni a correggere almeno alcuni aspetti della manovra, in particolare sulle pensioni. Inf l a z i o n e, e va s i o n e, occupazione Così sarebbe un errore dare per scontata la decisione di aumentare di 2 punti l’Iva sulle aliquote del 10% e del 21% dal prossimo ottobre 2012. Sono già forti le tensioni inflazionistiche, spinte dall’aumento dai prodotti petroliferi e non basterà a frenarle la liberalizzazione della loro vendita. Né basteranno altre misure di liberalizzazione. Da troppo tempo i governi rinunciano a controllare seriamente la formazione dei prezzi, febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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a partire da quelli petroliferi, anche a costo di reintrodurre misure di controllo e restrittive. Non bastano le varie Autorità e i loro controlli attuali. Ad esempio il governo, in nome dell’interesse collettivo, potrebbe benissimo richiedere direttamente alle Autorità l’avvio delle procedure di infrazione. Questi controlli potrebbero dare risultati perfino maggiori delle liberalizzazioni nel settore. Il governo ha deciso per parte sua aumenti delle imposte che amplificano gli effetti delle speculazioni sul mercato dei prodotti petroliferi. L’inflazione è un problema oppure no? L’inflazione è un problema serio e non può diventare lo strumento indiretto per fare tornare i conti, sia dello Stato che delle imprese. Anzitutto perché i redditi, soprattutto quelli più bassi, sono già sotto pressione, ad esempio per il blocco dei contratti pubblici e della rivalutazione delle pensioni sopra i 1400 euro lordi, per la riduzione dell’occupazione, per la perdita di reddito dovuta alla cassa integrazione e alla disoccupazione. Lo spread si combatte anche con il contenimento dell’inflazione. Del resto solo così si può chiedere ai risparmiatori italiani di aumentare la sottoscrizione di titoli pubblici. La scelta contraria significa usare 12 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
l’inflazione per fare tornare i conti pubblici (ad esempio con il blocco della rivalutazione delle pensioni e lasciando lievitare i prezzi), con il risultato di peggiorare seriamente le condizioni di vita di milioni di persone e di comprimere pesantemente la domanda interna. L’inflazione è la tassa più iniqua e ingiusta. Per questo l’aumento dell’Iva dal 1° ottobre andrebbe evitato con tutti i mezzi possibili. Per questo tornano utili la lotta all’evasione, l’adozione di una vera e propria patrimoniale, l’unificazione del prelievo fiscale con le stesse regole su tutti i redditi qualunque sia la loro provenienza, a partire dalle rendite di qualunque tipo. Non è più tempo di trattamenti di favore. Tassare tutti allo stesso modo per tassare meno i redditi bassi. Tuttavia, la questione centrale resta come riconquistare fiducia sul futuro dell’Italia, anche per abbassare lo spread, per dare prospettive al nostro paese, il cui futuro occupazionale Confindustria per prima ha descritto in modo allarmante. Per questo obiettivo è certo necessario il lavoro che sta facendo Monti in Europa per cercare di ottenere una politica europea per uscire dalla crisi. Insieme è necessaria un’iniziativa politica italiana con al centro il
problema dell’occupazione. Perché ora che si aprono spazi concreti a livello europeo non si sviluppa un’iniziativa nel parlamento italiano per l’adozione in tempi brevi della Tobin tax come primo passo per mettere sotto controllo i movimenti speculativi di capitali? Adottare la Tobin tax come hanno fatto altri paesi è possibile, basta volerlo; altro è la sua effettiva entrata in vigore, che può essere legata alla decisione di un numero congruo di paesi europei, senza cadere nella trappola dell’unanimità. Del resto questa è esattamente l’impostazione della legge francese sulla Tobin tax introdotta dalla gauche e mantenuta in vigore dai gollisti. Perché tutte le sinistre non prendono un’iniziativa comune per porre il problema di un’Europa che metta al centro gli interventi per lo sviluppo e dell’occupazione? Potrebbe contribuire a rimettere in moto un’iniziativa analoga a livello europeo. Questo per confermare che sarebbe il momento di riprendere l’iniziativa politica per ribaltare un’attenzione troppo concentrata sui conti anziché sullo sviluppo.Non è il momento per i partiti di Centrosinistra di restare in panchina. Del resto anche in Italia, preso atto della fase straordinaria, il modo migliore
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per dare un contributo non è restare in attesa delle elezioni. Occorre mettere al centro lo sviluppo senza il quale lo spread continuerà ad agire come un nodo scorsoio sull’Italia. Per questo occorre mettere l’accento su interventi pubblici, pochi e ben mirati, per rimettere in moto l’economia. Disperdere gli interventi servirebbe solo a disperdere le poche risorse. Ad esempio, in materia di energia occorre puntare sulle fonti rinnovabili e sul risparmio e in questa direzione concentrare le risorse per aiutare a costruire settori produttivi, competenze, ecc. Esattamente come ha fatto la Germania in questi anni. La cantieristica è in crisi ma potrebbe anche essere la base di una conversione energetica verso l’eolico off-shore. Non serve pensare a come tornare a prima della crisi. Occorre pensare a come cambiare, dopo la crisi, il modello di sviluppo in mondo da renderlo più forte perché rispettoso dell’ambiente e socialmente più equo. Non il contrario. In altre parole la politica di sviluppo non è dare più risorse senza finalità alle imprese, risanare le banche senza introdurre nuove regole. Vuol dire invece invece decidere una qualità diversa dello sviluppo e della vita. Per impostare un compito così arduo c’è bisogno di
più iniziativa politica. Per questo il centrosinistra dovrebbe evitare di farsi distruggere dal peso di questa fase politica straordinaria. La foto di Vasto andrebbe rafforzata, semmai aggiungendo altri soggetti, non strappata. Per questo c’è da chiedersi se proprio ora non si debba costruire un programma comune, che attraverso una sorta di patto di consultazione permanente tra le forze del centrosinistra, siano o no sostenitrici del governo, gestisca questa complicata fase politica e prepari da subito il futuro appuntamento elettorale. C’è chi anche nel centrosinistra si identifica con questo governo. Come sempre c’è chi è più realista del re, ma il centrosinistra deve cercare di reagire all’emergenzialismo, alla straordinarietà recuperando errori e limiti che lo hanno portato alle difficoltà attuali. Questo potrebbe perfino dare al governo Monti un maggiore apporto nelle forme giuste Rappresentanza del lavoro Concertazione vuol dire riconoscere il ruolo del sindacato e dei lavoratori e quindi risolvere, ad esempio, il caso Fiat. Perché mai il centrosinistra dovrebbe oggi accettare di regredire dalla concertazione come perno delle relazioni sindacali, in alternativa alla rottura settaria che ha caratterizzato la politica del Governo di centro destra ?
La concertazione fu l’apporto migliore del governo Ciampi, che non a caso recuperò nel 1993 la precedente rottura del 1992. L’accordo realizzato da Ciampi riuscì a tenere insieme, pur con limiti che non vanno dimenticati, difesa dei redditi, occupazione, sviluppo, risanamento finanziario. Di questo c’è più che mai bisogno oggi. La posizione spesso autoreferenziale del governo è un problema serio. Una posizione fortemente tecnocratica, temperata dall’esigenza di avere il consenso in parlamento, rischia di chiudere lo spazio di intervento delle forze sociali e del sindacato in particolare. I lavoratori, i disoccupati, i pensionati, i giovani hanno bisogno di fare sentire i loro problemi, di avere una rappresentanza adeguata, altrimenti tutto diventerà più difficile e gli squilibri sono destinati ad aumentare con la conseguenza, troppo spesso trascurata, che l’intero paese sarebbe condannato alla stagnazione e ad un impoverimento. (da «Critica marxista»)
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EUROPA:
un trattato da rigettare di Roberto Musacchio
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isogna avere ben chiaro di cosa si sta decidendo. Una modifica del Trattato Europeo, che poi è più precisamente un Patto Fiscale Intergovernativo, sottoscritto appunto dai governi, che porta a compimento la ricostruzione degli architravi europei iniziata con la task force salva stati e poi continuata con la costruzione di Europlus, l’approvazione del six pack, e articolatasi nei vari Stati con le manovre finanziarie dettate da Bruxelles e l’evoluzione dei quadri politici di vari Paesi, in queste ore è la Slovenia che sta per avere un banchiere a capo del governo, verso esecutivi funzionalizzati al processo in corso. Il patto fiscale intergovernativo per altro ha in sé la spudoratezza di non risultare neanche una revisione del trattato europeo, ostato come è per altro dal veto inglese, ma fa si che i governi si arroghino il
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potere di modificare direttamente le loro Costituzioni nazionali. Un potere che se pure magari rispetterà alcune procedure formali previste, sarà talmente indiscutibile che queste modifiche costituzionali avverranno, e anzi già avvengono, per imperio sostenuto dalla dichiarazione di stato di emergenza che ormai vige in Europa. Allo stato attuale nessuno, o quasi, mostra di saper resistere all’incedere degli eventi. La governance tecnocratica, composta da governi del Consiglio Europeo, Commissione Europea, BCE e FMI, lavora a pieno regime. Le direttive di austerity imposte sono sorrette dal sixpack e contengono numeri e metodologie insindacabili. Il sostegno massmediologico volto a creare l’impossibilità del dissenso, è impressionante. La colpevolizzazione dei cittadini è sistematica, così come la costruzione dei capri espiatori, giusti o sbagliati che siano.
Il cerchio si stringe. Il processo di cambiamento di natura dell’ Europa nel suo complesso, e degli stessi singoli Stati, conosce un passo in avanti che ha un peso enorme, una vera e propria chiusura del recinto, per usare una metafora che si è andata diffondendo per indicare questa fase postdemocratica in cui stiamo vivendo.
Ciò che è intoccabile è il sistema, quello della finanziarizzazione e della lex monetaria. Poco importa che tutto dica che le misure prese non curano, ma aggravano la malattia, basta vedere il paziente greco ormai morente. Si deve cambiare il volto della democrazia sociale europea, aprire spazi a nuove scorrerie del capitale finanziario nei santuari di quello che fu il welfare ( basta leggere a proposito il recentissimo documento della deutch bank sulla necessità delle più vaste privatizzazioni dei servizi ); piegare ogni idea di soggettività collettiva del lavoro; ridurre la politica a pura serva degli interessi dominanti. I distinguo sono assai flebili . Il Parlamento Europeo, che qualche giorno fa dichiarava, per bocca dei 4 propri membri delegati a discutere con il Consiglio la bozza di nuovo trattato, la inaccettabilità totale di procedure e contenuti, ora approva una risoluzione, blindata ed inemendabile, di 4 gruppi, Popolari, Socialisti e Democratici, Liberali e Verdi, che in buona sostanza riformula l’inaccettabilità in dissenso e lo circoscrive alla richiesta che al rigore si accompagni, e non si sostituisca, lo sviluppo e si assicuri un qualche ruolo del Parlamento. Rispetto dunque allo stesso voto di qualche mese fa sul six pack, dove ci fu almeno in parte una qualche dialettica destra- sinistra ,si è andato assestando un quadro assai più da grande o addirittura grandissima coalizione. Dove il distinguo rischia appunto di essere meramente aggiunti-
vo e non contestativo di ciò che si fa. Come se quelle idee di austerità non avessero in sé una propria idea della “crescita”, quella affidata allo smantellamento del modello sociale europeo. E come se il carattere postdemocratico non fosse intrinsecamente connesso alla natura delle cose che si stanno facendo e che appunto stracciano il compromesso sociale che sorreggeva la forma propria della democrazia europea. E’ una trama complessa che si sviluppa dall’alto e dal basso, dal centro, Bruxelles, e dalle periferie. Dove si moltiplicano le spinte alla tecnicizzazione dei governi e alla costruzione di larghe convergenze della politica a sostegno ancillare. In Italia è una realtà sempre più in strutturazione. Ma nella stessa Germania, cuore del nuovo ordine europeo, dal land di Berlino in poi, sono sempre più evidenti i segnali di Grosse Koalition, con la Merkel per altro al 36% dei sondaggi, nettamente prima. Se consideriamo, come si deve fare per serietà, l’approvazione del patto fiscale come vero spartiacque, difficile dire che si collochino all’opposizione, proponendosi come alternativi al complesso di questa impostazione, i socialisti e gli stessi verdi. Fa eccezione la Francia, dove però pesa molto la campagna elettorale in corso e dove Holland, socialista, dice che da Presidente vorrà discutere se firmare il trattato. E sarà interessante vedere lo svolgimento concreto dei fatti dato che l’intenzione è arrivare alla ratifica del patto fiscale prima del
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voto francese. In Italia, il via libera al punto chiave dell’inserimento dell’obbligo al pareggio di bilancio, la cosiddetta regola d’oro, viene votato da una maggioranza “ bulgara “, tale da vanificare la possibilità di un passaggio confermativo per voto popolare. A proposito di voto bulgaro, scherzando amaramente, vorrei dire che neanche Bresnev costituzionalizzò una teoria monetaria. E quella del pareggio è appunto una teoria, che “ uccide “ il keynesismo, e, concretamente significa tra l’altro che, se si deve scendere al 60% del debito in pochissimi anni, le manovre saranno durissime e prolungate. Con il rischio, o forse la certezza, di una spirale recessiva tragica. Pensate all’Italia che deve scendere dal 120%! E questo senza nessuna riflessione sulla genesi, la natura e la composizione di quei debiti. In Italia ad esempio il debito, guarda un po’, si impenna negli anni immediatamente seguenti alla cancellazione della scala mobile e dunque con l’instaurazione di un sostegno alla crescita drogato di denaro pubblico, al posto di quello legato all’espansione dei salari; e lievita, come in tutta Europa, di nuovo in questi ultimi due anni di trasferimenti enormi di denaro pubblico al sistema finanziario, ben 6400 miliardi nella UE, e di record di ore di cassa integrazione per la crisi sociale ; ma comunque resta un debito assai più interno che estero e assai meno legato alle famiglie, che anzi risparmiano, e con delle banche meno esposte di quelle francesi e tedesche. Eppure si prepara una mozione politica del governo Monti di sostegno all’austerità europea che avrà giusto qualche distinguo di “ ma anche misure per
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la crescita “ e di “ i tedeschi devono…”. Chi ha contestato tutta la costruzione semantica del debito sono stati i movimenti, i soli, o quasi, fuori dal recinto e in campo per un’altra Europa e non per uno stantio nazionalismo. Naturalmente da soli non possono farcela a vincere. Ma la battaglia la si può dare. E il cuore della battaglia oggi è il “ No al Trattato “ e il “ Non potete decidere senza dare la parola al popolo europeo “. Naturalmente essa poi si sostanzia anche di un’altra costituzionalizzazione democratica dell’Europa, quella con procedure popolari e con al centro lavoro, reddito e beni comuni. Ma chi crede che se passa il Trattato, poi si possa tornare a ripristinare la “ normale dialettica democratica , dice una sciocchezza o una falsità. Se lor signori finiscono il loro lavoro, poi non tornano “ i buoni “ ma saremmo tutti in una situazione più cattiva. Come sempre per saper governare bisogna prima sapersi opporre.
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EUROPA: il libro nero delle pensioni realtà si tratta di un “libro bianco“ cioè quegli elaborati pubblicati dalla Commissione Europea per dare corso a determinate indicazioni su determinate materie. Di solito ne segue una direttiva o una raccomandazione. Nel caso delle pensioni, in realtà, si dice che la competenza è degli stati membri, ma non è difficile pensare che, specie ora che c’è la governance europea sui conti, si troveranno misure assai cogenti per intervenire. Ed è la natura degli interventi che mi fa definire il libro “nero“. Come sempre la logica europea è stringente e costruita su un’assioma. In questo caso è la constatazione lapalissiana che c’è un incremento della vita media e un aumento della popolazione anziana. A dire il vero non è poi neanche così scontata neanche la logica demografica. In realtà nel mercato del lavoro europeo ormai ci sono anche quote consistenti e crescenti di lavoratori immigrati che sono assai più giovani e che versano contributi significativi senza che sia neanche chiaro se e dove godranno di un regime pensionistico. Ma lo stesso assioma demografico meriterebbe almeno dei correttivi significativi con altri parametri. Ad esempio gli incrementi di produttività
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che si verificano. O i tassi di occupazione che si devono determinare. O anche i livelli contributivi auspicabili. Tutte cose queste che riconnettono la questione pensioni con quella del lavoro, che è il vero cuore della questione sociale. È il lavoro che ha prodotto il benessere europeo ed è la crisi del lavoro che determina la situazione drammatica di oggi. Tutto questo viene ignorato e le 40 pagine del libro nero, pardon, bianco, servono a sostenere i dogmi che si vogliono imporre e che sono sempre gli stessi, un poco peggiorati. Il primo è naturalmente che bisogna allungare la vita lavorativa tenendo conto, appunto, degli andamenti demografici. Se si scrive, come si scrive, che ci si aspettano al 2050 6/7 anni di vita media in più si può cominciare a tremare. Non solo, si scrive poi che bisogna disincentivare i collocamenti a riposo anticipati, il che fa molto a pugni con quello che accade nella realtà dove le espulsioni degli over 50 dai luoghi di lavoro sono tantissime, incentivate dalla possibilità ampiamente offerta di sostituire lavoratori stabili con lavoratori precari. D’altronde ai giovani si pensa per questo e non per creare nuovo lavo-
ro. Ancora, per gli anziani bisognerà pensare a forme di reimpiego che allunghino la loro attività lavorativa anche oltre i limiti della pensione. Per garantire i rendimenti pensionistici poi serve la diffusione ancora più larga delle pensioni integrative cui andranno destinate risorse in più tratte da una maggiore disponibilità dei lavoratori a investire sulla propria assicurazione accettando di guadagnare di meno. Da ultimo la parità tra uomini e donne va costruita in questo quadro e non, che so io, riconoscendo un indennizzo per il lavoro di cura o promuovendo una redistribuzione dello stesso per rafforzare le donne nel lavoro. Tutte brutte cose che continuano nel pessimo andazzo attuale. Si impone la tirannia dei conti perché non si vuole più partire da ciò che crea ricchezza e cioè il lavoro. È il rapporto tra lavoro e welfare che ha creato il modello sociale Europeo. Si è imposto un rapporto rovesciato tra moneta e interessi finanziari legati alle privatizzazioni, che è quello che il modello sociale europeo lo sta uccidendo. Il libro nero-bianco va in consultazione e sarebbe bene respingerlo al mittente. R.M.
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Il diritto di sciopero alla luce del regolamento “Monti 2”
MERCATO E PROFITTO DEVONO REGNARE
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entre in Italia è apertissimo il conflitto sull’art.18, con il governo Monti intenzionato ad andare fino in fondo, c’è, in Europa, un altro fronte riconducibile al Presidente del Consiglio italiano, che concerne il nuovo regolamento sul diritto di sciopero nell’ambito del mercato unico, il cosiddetto Monti 2, che l’allora Commissario Europeo, appunto Mario Monti, predispose e che ora la UE sembrerebbe intenzionata a varare in tutta fretta. D’altronde la signora Merkel ha ben detto che dopo l’aver messo a posto i conti ora bisogna occuparsi di mercato del lavoro. Ecco dunque in pista questa proposta di raccomandazione che, è bene saperlo, come tale avrebbe la caratteristica di entrare immediatamente in vigore. Ma di che cosa si tratta? Di un testo che figlia sostanzialmente da una determinata lettura di due storiche sentenze della Corte di giustizia europea, la sentenza Viking e quella Laval, che inerivano lotte sindacali, molto dure, avverse a processi di delocalizzazione e insediamento di attività produttive, di armamento navale ed edile, che non rispettavano però le norme del Paese ospitante. Le sentenze furono particolarmente ambigue e perniciose, dando sì ragione ai sindacati che avevano lottato contro la delocalizzazione ma torto agli stessi sindacati sul punto cardine dell’obbligo del rispetto del contratto nazionale di lavoro. Il Parlamento Europeo dedicò una propria risoluzione a tentare di correggere una determinata lettura delle sentenze. Ma ora la proposta di regolamento di Monti ne ripropone gli elementi peggiori. A partire dal bilanciamento tra diritto di sciopero e diritto alla libera concorrenza e al profitto nel mercato unico che fa da architrave a tutta la proposta. E in tal senso si dice esplicitamente nel testo che non esiste primazia tra libertà economiche e diritti sindacali. La chiave è sempre nella proporzionalità, che è una delle parole magiche che fu inserita nella famigerata direttiva Bolkestein per
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sostituire il contestatissimo principio del Paese d’origine. Proporzionalità, necessarietà e non discriminazione è la triade inserita a qualificare il margine di intervento possibile per le regole nazionali, non a caso le aggettivazioni usate dal WTO. Non solo. Il Monti 2 riprende appunto pienamente dalle due sentenze Viking e Laval a partire dalla affermazione che lo sciopero costituisce un ostacolo al funzionamento del mercato interno, al pari degli atti regolativi adottati dagli Stati. E, continuando a valersi delle due sentenze, ne discende come conseguenze concrete che ci si può battere contro delocalizzazioni (sentenza Viking) ma si deve tenere conto della sentenza Laval per quanto concerne gli scioperi per l’applicazione del contratto nazionale in quanto gli accordi tra le parti sono tenuti a rispettare solo gli standard minimi previsti dalla direttiva distacchi. A seguire tutta una serie di procedure, dall’allerta alla conciliazione, per impedire che si regi-
stri un danno alla libertà di profitto sancita dalla libertà di impresa nel mercato unico santificata dai trattati. Alla fine c’è pure una clausola di salvaguardia dei diritti sindacali ma suona come pura foglia di fico. Il regolamento è un tassello pesante di uno stravolgimento complessivo in atto e che riguarda le costituzioni e le giurisprudenze formali ed informali. È evidente che il “fondata sul lavoro “ della Costituzione italiana rischia di essere sempre più residuale rispetto all’inserimento, in costituzione, dell’obbligo al pareggio di bilancio e, da trattati europei del bilanciamento, in realtà una primazia, del diritto al profitto da libertà di mercato. L’unica cosa ammessa sono i minimi e i contratti sono sempre meno erga omnes. E la conflittualità deve stare dentro il rispetto del principio generale del mercato e la cornice degli accordi extracontrattuali. Ancora una volta l’intreccio tra vicenda italiana ed europea è strettissimo. E la figura di Monti lo simbolizza assai concreta-
mente. Fu lui da Commissario Europeo, che predispose quel libro bianco sulla riforma del welfare tutto fondato sulla logica dei minimi e della sussidiarietà che sarebbe bene si leggesse per capire quanto è strutturata l’azione del Monti presidente del Consiglio. Ed è un suo provvedimento che ora si vuole varare in tutta fretta proprio nei giorni in cui sempre Monti arriverà a Strasburgo. Non appare proprio casuale che in un sondaggio tra i cittadini tedeschi il suo apprezzamento sia al 60%, poco meno di quello per la nuova dama di ferro, la signora Merkel . Roberto Musacchio
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PROVE DI GROßE KOALITION IN GERMANIA di Paola Giaculli (Berlino)
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alla piccola regione del Saarland al confine con la Francia, arrivano ulteriori forti segnali in direzione della Große Koalition. A inizio gennaio la presidente democristiana Kramp-Karrrenbauer ha decretato la fine del primo governo Cdu-Liberali (Fdp) e Verdi per inaffidabilità dei liberali. È apparso da subito abbastanza evidente che si è cercato un pretesto per provocare la crisi di governo, così come da subito si è fatto intendere di volere un’alleanza con la Spd. In questa regione, di cui è originario Oskar Lafontaine e che ha a lungo amministrato per la Spd prima da sindaco e poi da presidente tra gli anni ‘80 e i ‘90, la Spd ha risentito del generale crollo del
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2009 (dal 44 al 24, elezioni 2009), in seguito all’esperienza di governo con Merkel, e la Linke, grazie alla candidatura locale di Lafontaine ottenne qui il 21 percento di voti. Ciononostante i Verdi non intesero entrare in coalizione con Spd e Linke e optarono invece per un governo con Cdu e Liberali. Spd e Linke non avevano da soli i numeri sufficienti a formare un governo. Adesso il quadro è notevolmente cambiato: sembra non ci siano alternative a un governo CduSpd perché, come afferma Heiko Maas, presidente della Spd locale, pupillo di Lafontaine nonché viceministro del suo governo fino al ‘98, la Linke “non riconosce la norma della parità di bilancio” e quindi man-
cano le basi per una collaborazione tra Spd e Linke, escludendola perciò in partenza, al contrario del 2009. Maas e KrampKarrenbauer hanno concluso giovedì sera le loro consultazioni, manifestando la volontà di non allearsi subito, ma di farlo dopo nuove elezioni, che sarebbero quindi anticipate rispetto alla scadenza naturale del 2014. La dichiarazione comune dei due politici di fronte ai media lascia intendere che in nome di “un governo più stabile”, da conseguire però sulla base del consenso elettorale, formeranno comunque una große Koalition: tra l’altro l’Spd Maas riconosce le molte “affinità” con la Cdu, mentre la collega della Cdu definisce l’alleanza “l’unica combinazione possibile”. Certo, la premessa è il grave indebitamento della regione, per il cui superamento è necessaria la massima stabilità, parola che ricorre ormai come un mantra non solo in Germania, ma si è diffusa in tutta Europa, dove si è imposto il trend tedesco. Hai voglia a dire coma fa Lafontaine che pareggio di bilancio altro non è che “ tagli alla scuola, al sociale e agli investimenti”, ormai quello è il dogma che apre la stura a quello che in Germania è in effetti una novità: a livello nazionale, negli unici
due precedenti storici, la Große Koalition, l’alleanza tra Cdu e Spd, era una soluzione di emergenza, quando i risultati elettorali non permettevano né ai conservatori da una parte né alla Spd e Verdi dall’altra di formare un governo, come accadde nel 2005 – oppure quando i Liberali (in passato non ancora liberisti) rifiutavano sia il governo con la Cdu che con la Spd (come nel 1966). Vero è che a livello regionale, dei Länder, c’è sempre stata più flessibilità. Anzi, ormai, gli ultimi anni lo dimostrano, anche laddove, (quattro Länder, tra cui in ultimo Berlino), ci sono i numeri per formare governi con la Linke, la Spd ha sempre preferito ricorrere al governo con la Cdu. Però mai si è dichiarata in maniera così esplicita prima delle elezioni – sciogliendo un parlamento per indirle addirittura all’uopo – la volontà di formare un governo con l’altra parte politica, quasi per “necessità”. È evidente che tutte le critiche della Spd nei confronti di Merkel si smascherano e si fermano sempre di fronte all’ortodossia della disciplina finanziaria. Del resto è stato proprio il partito socialdemocratico al governo con la Cdu a iscrivere la Schuldenbremse, alla lettera “il freno ai debiti”, ossia il pareggio di bilancio nella costituzione tedesca a fine maggio del 2009, uno degli ultimi atti della seconda e recente gro‚e Koalition della Repubblica federale tedesca . Non è un caso, poi, che il riavvicinamento si sia palesato di recente anche nella vicenda in cui era sotto accusa il presidente
della repubblica: in caso di sue dimissioni il presidente della Spd Sigmar Gabriel, e poi la numero due del partito Andrea Nahles, hanno generosamente offerto a Merkel la loro collaborazione nella ricerca di un candidato comune per la presidenza (a cui si sarebbero aggregati anche i Verdi), togliendo, a loro dire, dall’impiccio la cancelliera. Ma Merkel in questo momento va fortissimo e, anche se gli alleati tradizionali liberali tendono al dissolvimento, può sempre aspettare al varco la Spd, senza “concedersi” fino alla scadenza naturale del Bundestag, nel settembre del 2013, con buone probabilità di rimanere cancelliera. Del resto Merkel stessa ha sempre mal celato le simpatie per la collaborazione con la Spd, e non è mai apparsa davvero convinta che gli alleati ideali fossero i liberali, quasi rimpiangendo gli anni del suo governo con la socialdemocrazia (2005-2009). Per il momento la Spd è, nei sondaggi, al di sotto del 30 percento, mentre la Cdu va per il 35-36. Infine la vicenda dello “scandalo” sul presidente Wulff, che dimostra tutta l’ipocrisia dei mass media, a partire dalla populistica Bild-Zeitung e da Der Spiegel, con pretese intellettualistiche, ma dalle mire altrettanto basse: a carico del presidente non vi sono reati, ma “solo” vacanze presso le ville degli amici imprenditori, un
credito agevolato per l’acquisto della sua casa, risalenti al suo mandato di primo ministro in Bassa Sassonia. Insomma, non risultano scambi di favori, anche se tutta la vicenda è tutt’altro che esemplare ed è stata gestita dal presidente in modo goffo e dilettantesco, non certo all’altezza della prima carica istituzionale tedesca. Gli attacchi continuano ma perdono d’intensità, da un lato perché l’opinione pubblica, dopo sei settimane di martellamento mediatico, dimostra nei sondaggi di non poterne proprio più, e, dall’altro, il presidente non si dimette. Eppure non si allontana il sospetto che con le dimissioni di Wulff si volessero prendere due piccioni con una fava: inaugurare ufficialmente la nuova stagione di Große Koalition e sbarazzarsi di un presidente che ha avuto il coraggio di affermare, sin dall’inizio, in un momento di forte rigurgito xenofobo, che “Islam è Germania”, dichiarandosi così presidente di tutte e tutti. Non è un caso che per il prossimo febbraio ha annunciato di voler ricordare in una commemorazione ufficiale le vittime della furia razzista di una cellula di neonazisti, che hanno goduto della copertura, se non dell’appoggio, dei servizi segreti tedeschi. E questo ci pare il vero scandalo. Wulff è inoltre il primo presidente tedesco ad avere incontrato su suo esplicito invito mercoledi scorso un presidente palestinese. E anche questo rappresenta in Germania una grande novità. febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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Il partito Die Linke sotto controllo e osservazione
PERICOLOSO PER LA DEMOCRAZIA di Massimo Demontis (Berlino)
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tutto 27 parlamentari su 76, un terzo del gruppo parlamentare, compresi il capogruppo in Parlamento e leader del partito Gregor Gysi, la segretaria nazionale Gesine Lötzsch e Petra Pau vicepresidente del Parlamento, ai quali vanno aggiunti 11 membri dei parlamenti di alcuni Laender. Costo complessivo annuale 400.000 euro per sei persone addette al controllo. “Sotto osservazione, ma non sotto sorveglianza” ha dichiarato il ministro dell’Interno HansPeter Friedrich (CSU, cristianosociale). Il ministro ha anche detto che non vengono utilizzati i tipici mezzi dei servizi segreti e che l’osservazione si limita all’analisi di discorsi e scritti, sottolineando anche che il Verfassungsschutz ha il mandato legislativo di osservare
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organizzazioni e partiti che forse sono anticostituzionali. Non così invece in Bassa Sassonia, dove il presidente del Verfassungsschutz del Land HansWerner Wagel ha ammesso l’utilizzo dei metodi dei servizi segreti in quanto “pezzi del partito sono contro la Costituzione e dunque è necessario metterlo sotto controllo”. Nel mirino del Verfassungsschutz e dei servizi segreti sono finiti non soltanto i membri dell’ala definita radicale del partito (i cosiddetti Fundis), per lo più aderenti a piattaforme comuniste e di superamento del sistema capitalistico, ma anche l’ala detta realista (i Realos), di matrice socialdemocratica. E con essi tutte le figure di primo piano del partito, da Gysi alla Lötzsch, da Petra Pau a Sahra Wagenknecht, leader della piattaforma comunista,
passando per Dietmar Bartsch, considerato in tutti i partiti il più socialdemocratico di tutti i dirigenti del Die Linke. Viene spontaneo chiedersi: cosa fa lo stato per il controllo di partiti e organizzazioni neonaziste, soprattutto dopo lo scandalo della cellula nera Nationalsozialisticher Untergrund (NSU), un gruppo terrorista di matrice neonazista che per oltre dieci anni ha seminato morti e terrore in tutta la Germania? Per l’osservazione e il controllo del partito di estrema destra NPD (Nationaldemokratische Partei Deutschlands – Die Volksunion), giudicato vicino al NSDAP, vengono spesi 590.000 euro all’anno e impiegate dieci persone. Due pesi e due misure? È possibile, è sensato, accomunare un partito come Die Linke, con tutta la sua storia e il suo passa-
In Germania il partito Die Linke è sotto osservazione sia da parte del Verfassungsschutz, un organismo che raccoglie informazioni a tutela della Costituzione e del libero ordinamento democratico, sia da parte dei servizi segreti.
to, a partiti e organizzazioni di estrema destra che si richiamano al nazionalsocialismo? E come è potuto accadere che l’NSU potesse rimanere in clandestinità per 14 anni? C’è chi parla di fallimento da parte di organi dello stato, ma anche chi avanza vere e proprie ipotesi di complicità. Insomma, da più parti si sostiene che organi dello stato avrebbero fatto come le tre scimmiette. Gregor Gysi ha criticato duramente il Verfassungschutz dicendo: “è uno scandalo, questi qui sono proprio fuori di testa”. Critiche anche da parte dei liberali e dei verdi. Dirk Niebel (FDP), ministro per lo Sviluppo e dirigente nazionale dei liberali,
ha dichiarato: “non è possibile che deputati siano messi sotto controllo sull’intero territorio nazionale. In una democrazia questo non va bene”. Volker Beck, figura di primo piano dei Grünen, si è chiesto che senso ha mettere Die Linke sotto osservazione e controllo per poi porre l’accento sulla “sproporzione dell’intervento se lo si paragona con il dispendio di mezzi messi in campo contro l’NPD”. Di tutt’altro avviso il segretario generale della CSU Alexander Dobrindt che si è spinto a chiedere la proibizione del partito. Secondo quanto riportato dal quotidiano online Frankfurter Rundschau, un portavoce del ministero dell’Interno avrebbero dichiarato che i parlamentari del Die Linke “sono giustamente sotto osservazione, perché da
essi può partire un pericolo per la democrazia tedesca. Nel partito si concentrano forze che aspirano a un cambiamento dell’attuale modello di stato e di società”. “È lecito avere visioni politiche e di società che vadano al di là del presente (alternative, ndr)?”, ha fatto notare Jakob Augstein, columinst di Spiegel online e editore del settimanale politico Der Freitag (Il Venerdì). “Sì, e non solo: è necessario. La visione di una società giustaequa la si ritrova nella stessa Costituzione. Ma paese non è più sociale da molto tempo” ha aggiunto Augstein, “basti pensare che non di rado in Germania il salario orario è inferiore a 5 euro”.
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La
Una riflessione sulla situazione greca è necessaria di Alfiero Grandi
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Grecia ha svolto finora, nell’ambito dell’Euro, il ruolo dell’appestato. È vero che la destra ha falsificato i conti del bilancio pubblico greco e che da quel momento la Grecia è entrata nel tunnel. È altrettanto vero che era possibile all’inizio della crisi della finanza pubblica greca un sostegno europeo molto minore di quanto è stato necessario in seguito, tanto più se verranno effettivamente erogati i 130 miliardi di euro. 130 miliardi che dovrebbero portare il debito pubblico greco a livelli più sopportabili e su cui sono in corso estenuanti trattative tra la cosiddetta troika europea e il Governo “tecnico” greco. Non va dimenticato che l’attacco della speculazione alla Grecia è stato rafforzato da dichiarazioni della coppia Merkel e Sarkozy sulla possibilità di default del paese. Dichiarazioni mai sentite prima da esponenti dei Governi europei su altri paesi. Per un breve periodo anche i tecnici europei che hanno affrontato il problema greco hanno ammesso che i provvedimenti imposti erano sbagliati e avevano finito con l’aggravare la situazione perché, prescindendo dai pesantissimi costi sociali, avevano innescato una pesante recessione economica che finiva con l’allontanare ancora di più il risanamento. Subito dopo si è rapidamente tornati a percorrere la stessa strada, premendo sempre più pesantemente sulla Grecia, al punto da ipotizzare un vero e proprio commissariamento del Governo. In sostanza la manomissione della sovranità della Grecia. Le condizioni poste alla Grecia per ottenere la concessione del prestito europeo e un forte sconto sui debiti pubblici detenuti da privati sono veramente pesanti: licenziamenti, riduzione delle pensioni, riduzione dei salari, aumento delle tasse, riduzione dell’assistenza sanitaria, ecc. La conseguenza, se alla fine ci sarà l’accordo, sarà un ulteriore avvitamento nella crisi economica. È vero che la Grecia pesa per il 2 % sul Pil europeo e quindi le conseguenze della sua recessione sulle altre economie dell’Europa saranno limitate, come del resto lo sarebbe stato farsi carico dei suoi
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problemi fin dall’inizio. Le conseguenze delle condizioni imposte dall’Europa sull’assetto democratico e sociale della Grecia saranno pesanti e sembra fin troppo dimenticato che questo paese è rientrato nella democrazia solo tre decenni anni fa. Come è noto lo spread sul debito pubblico è un’altalena che vede alcuni Stati puniti – Grecia al top – e altri fortemente beneficiati come la Germania, che è arrivata a collocare titoli pubblici sotto il loro valore reale. Si riflette poco anche sul fatto che la Bce sta cercando di aiutare l’accordo con la Grecia rinunciando a 11 miliardi di plusvalenze sui titoli greci. Scelta giusta ma che insieme conferma che c’è chi ha guadagnato (o potrebbe guadagnare) dalla crisi greca. La Grecia ha svolto in questo periodo il ruolo di esempio da non imitare, da cui tanti trovano naturale cercare di distinguersi. È comprensibile che anche in Italia di fronte alla deflagrazione del dramma sociale politico in Grecia ci sia un diffuso tentativo di dimostrare che l’Italia non è la Grecia e si comporterà in modo diverso. Comprensibile come tentativo di allontanare lo spettro della crisi più grave e incontrollabile, ma meno come visione europea che dovrebbe fondarsi su un certo grado di empatia tra i suoi membri, in particolare nell’area Euro. Invece non solo non c’è empatia ma si arriva ad usare in modo spregiudicato la gravità della situazione greca come spauracchio per portare a più miti consigli i riottosi ancora presenti, anche in Italia.
La destra europea, oggi egemone, ha trovato nella Grecia l’esempio negativo, lo spauracchio da usare per convincere tutti gli altri paesi ad adottare regole nei bilanci pubblici paragonabili a quelle tedesche, attraverso la traduzione nelle Costituzioni o con altri mezzi legislativi di pari valore. È del tutto chiaro che quando ci si interroga su quale sarà la conseguenza di politiche così restrittive in Europa spesso si finge di non sapere che viene dato per scontato un periodo di non crescita economica, o addirittura di recessione, con la conseguenza della crescita della disoccupazione, in nome della possibilità di avere in futuro (quando ?) una crescita che viene definita sana. Quindi si torna al vecchio adagio: prima il risanamento, poi la crescita, è la solita politica dei 2 tempi. Va aggiunto che se un paese ha minore produttività deve anche accettare che le retribuzioni siano minori, quindi i tagli chiesti alla Grecia non sono casuali. Non a caso questa linea di politica economica, che viene fatta risalire alla tradizione tedesca formatasi dopo l’incubo di Weimar, è in realtà un concreto modo per recuperare consensi elettorali in Germania da parte della Cancelliera Merkel. La vittima di questa scelta è una visione solidale dell’Europa. Tanto è vero che il Ministro tedesco Schauble è stato colto in flagrante mentre cercava di convincere il Governo del Portogallo che l’eventuale default greco non avrebbe comportato l’abbandono anche di questo paese. Tipico del divide et febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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impera da parte di chi ha il gioco in mano. Anche la scelta di procedere attraverso il metodo dei trattati bilaterali per stabilire le nuove regole europee ha il chiaro significato di imporre un ridisegno dell’Europa. La Germania con il sostegno di Sarkozy, che ha grossi problemi elettorali e bisogno dell’appoggio tedesco, di fatto straccia il metodo europeo. In particolare cancella il ruolo del parlamento, per regredire ai trattati intergovernativi. Senza l’adozione delle nuove regole, ispirate dalla Germania, niente aiuti ai paesi che ne hanno bisogno. Per questo anche le conseguenze sulle regole dei singoli Stati sono rilevanti, dal momento che la loro adozione è condizione per ottenere gli aiuti. Pur comprendendo le ragioni che spingono ad allontanare lo spettro della crisi greca, in realtà ci sarebbe bisogno di una riflessione più attenta su cosa significa procedere su questa strada, sulle conseguenze che ne derivano sotto il profilo delle regole democratiche (la democrazia non può essere un bene riservato ai paesi che hanno i conti in ordine) sulle prospettive economiche e occupazionali.
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Non a caso Obama ha rivolto a Monti, stando ai giornalisti presenti, una domanda precisa, di cui non è nota la risposta. Se l’Europa sceglie una politica generalizzata di tagli come potrà esserci ripresa? La ripresa è l’assillo degli Usa da tempo. Infatti Obama ha puntato tutte le carte sulla possibilità di uscire dalla crisi e ha bisogno di un partner europeo coprotagonista della ripresa che oggi non ha. Anche la manovra di Draghi che ha concesso 500 miliardi di liquidità alle banche per 3 anni all’1%, che ricorda da vicino le scelte della Federal Reserve, non può dare più di tanto perché, come ha ricordato il Presidente Mussari, l’acquisto di titoli pubblici e la concessione di credito ai privati da parte delle banche si scontra con le regole europee. Regole europee che hanno posto limiti severi alla leva degli impieghi bancari. La banche hanno soldi disponibili per tre anni, ma con le regole attuali non possono utilizzarli, anzi debbono ricorrere all’aumento dei mezzi propri come sta facendo Unicredit, con i relativi problemi. Quindi si torna al problema posto da Obama: come pensa l’Europa di uscire dalla crisi ?
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La Grecia rischia di sparire Lettera aperta del compositore greco Mikis Theodorakis
«Il pericolo della sparizione della Grecia è reale. Io lo colloco entro i prossimi 10 anni. Di noi, resterà solo la memoria della nostra civiltà e delle nostre battaglie per la libertà» Esiste un complotto internazionale che ha l'obiettivo di cancellare il mio paese. È iniziato nel 1975 opponendosi alla civiltà neogreca, è continuato con la distorsione sistematica della nostra storia contemporanea e della nostra identità culturale e adesso sta cercando di cancellarci anche materialmente con la mancanza di lavoro, la fame e la miseria. Se il popolo greco non prende la situazione in mano per ostacolarlo, il pericolo della sparizione della Grecia è reale. Io lo colloco entro i prossimi 10 anni. Di noi, resterà solo la memoria della nostra civiltà e delle nostre battaglie per la libertà. Fino al 2009 il problema economico non era grave. Le grandi ferite della nostra economia erano la spesa esagerata per la difesa del paese e la corruzione di una parte dei politici e dei giornalisti. Per queste due ferite, però, erano corresponsabili anche dei paesi stranieri. Come la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti che guadagnavano miliardi di euro da noi con la vendita annuale di materiale bellico. Questa emorragia continua ci metteva in ginocchio e non ci permetteva di crescere mentre offriva grandi ricchezze ai paesi stranieri. Lo stesso succedeva con il problema della corruzione. La società tedesca Siemens manteneva un dipartimento che si occupava della corruzione dei nostri politici, per poter piazzare meglio i suoi prodotti nel mercato greco. Di conseguenza, il popolo greco è stato vittima di questo duetto di ladri, Greci e Tedeschi, che si arricchivano sulle sue spalle. È evidente che queste due ferite potevano essere evitate se i due partiti al potere (filo americani) non avessero raccolto
tra le loro fila elementi corrotti, i quali, per coprire l'emorragia di ricchezze (prodotte dal lavoro del popolo greco) verso le casse di paesi stranieri, hanno sottoscritto prestiti esagerati, con il risultato che il debito pubblico è aumentato fino a 300 miliardi di euro, cioè il 130% del Pil. Con questo sistema, le forze straniere di cui ho detto sopra, guadagnavano il doppio. Dalla vendita di armi e dei loro prodotti, prima; dai tassi d'interesse dei capitali prestati ai vari governi (e non al popolo), dopo. Perché come abbiamo visto, il popolo è la vittima principale in ambedue i casi. Un esempio solo vi convincerà. I tassi d'interesse di un prestito di 1 miliardo di dollari che contrasse Andreas Papandreou nel 1986 dalla Francia, sono diventati 54 miliardi di euro e sono stati finalmente saldati nel…2010! Il Sig. Juncker ha dichiarato un anno fa, che aveva notato questa grande emorragia di denaro dalla Grecia a causa di spese enormi (e obbligatorie) per l'acquisto di vari armamenti dalla Germania e dalla Francia. Aveva capito che i nostri venditori ci portavano direttamente ad una catastrofe sicura ma ha confessato pubblicamente che non ha reagito minimamente, per non colpire gli interessi dei suoi paesi amici! Nel 2008 c'è stata la grande crisi economica in Europa. Era normale che ne risentisse anche l'economia greca. Il livello di vita, abbastanza alto (eravamo tra i 30 paesi più ricchi del mondo), rimase invariato. C'è stata, però, la crescita del debito pubblico. Ma il debito pubblico non porta obbligatoriamente alla crisi economica. I debiti dei grandi paesi come gli USA e la Germania, si contano in tris miliardi di euro.
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Il problema era la crescita economica e la produzione. Per questo motivo furono contratti prestiti dalle grandi banche con tasso fino al 5%. In questa esatta posizione ci trovavamo nel 2009, fino a quando in novembre è diventato primo ministro Georges Papandreou. Per farvi capire cosa ne pensa oggi il popolo greco della sua politica catastrofica, bastano questi due numeri: alle elezioni del 2009 il partito socialista ha preso il 44% dei voti. Oggi le proiezioni lo portano al 6%. Papandreou avrebbe potuto affrontare la crisi economica (che rispecchiava quella europea) con prestiti dalle banche straniere con il tasso abituale, cioè sotto il 5%. Se avesse fatto questo, non ci sarebbe stato alcun problema per il nostro paese. Anzi, sarebbe successo il contrario perché eravamo in una fase di crescita economica. Papandreou, però, aveva iniziato il suo complotto contro il proprio popolo dall'estate del 2009, quando si è incontrato segretamente con il Sig. Strauss Kahn per portare la Grecia sotto l'ombrello del FMI (Fondo Monetario Internazionale). La notizia di questo incontro è stata resa pubblica direttamente dal Presidente del FMI. Per passare sotto il controllo del FMI, bisognava stravolgere la situazione economica reale del nostro paese e permettere l'innalzamento dei tassi d'interesse sui prestiti. Questa operazione meschina è iniziata con l'aumento 'falso' del debito interno, dal 9,2% al 15%. Per questa operazione criminale, il Pm Peponis, ha chiesto 20 giorni fa, il rinvio a giudizio per Papandreou e Papakostantinou (Ministro dell'economia). Ha seguito la campagna sistematica in Europa di Papandreou e del Ministro dell'economia che è durata 5 mesi, per convincere gli europei che la Grecia è un Titanic pronto per andare a fondo, che i greci sono corrotti, pigri e di conseguenza incapaci di affrontare i problemi del paese. Dopo ogni loro dichiarazione, i tassi d'interesse salivano, al punto di non poter ottenere alcun prestito e di conseguenza il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea hanno preso la forma dei nostri salvatori, mentre nella realtà era l'inizio della nostra morte. Nel Maggio del 2010 è stato firmato da un solo Ministro il famoso primo accordo di salvataggio. Il diritto greco, in questi casi, esige, per un accordo così importante, il voto favorevole di almeno tre quinti del parlamento. Quel primo accordo è dunque illegale. La troika che oggi governa in Grecia, agisce in modo completamente illegale. Non solo per il diritto greco ma anche per quello europeo. Dal quel momento fino ad oggi, se i gradini che portano alla nostra morte sono venti, siamo già scesi più della metà. Immaginate che con questo secondo accordo, per la nostra 'salvezza', offriamo a questi signori la nostra integrità nazionale e i nostri beni pubblici. Cioè Porti, Aeroporti,
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Autostrade, Elettricità, Acqua, ricchezze minerali ecc. ecc. ecc. i nostri, inoltre, monumenti nazionali come l'Acropolis, Delfi, Olympia, Epidauro ecc. ecc. ecc.; perché con questi accordi abbiamo rinunciato a eventuali ricorsi. La produzione si è fermata, la disoccupazione è salita al 20%, hanno chiuso 80.000 negozi, migliaia di piccole fabbriche e centinaia di industrie. In totale hanno chiuso 432.000 imprese. Decine di migliaia di giovani laureati lasciano il paese che ogni giorno si immerge in un buio medioevale. Migliaia di cittadini ex benestanti, cercano nei cassonetti della spazzatura e dormono per strada. Intanto si dice che siamo vivi grazie alla generosità dei nostri 'salvatori', dell'Europa, delle banche e del Fondo Monetario Internazionale. In realtà, ogni pacchetto di decine di miliardi di aiuti destinato alla Grecia torna per intero indietro sotto forma di nuovi incredibili tassi d'interesse. E siccome c'è bisogno di continuare a far funzionare lo stato, gli ospedali, le scuole ecc., la troika carica di extra tasse (assolutamente nuove) gli strati più deboli della società e li porta direttamente alla fame. Un'analoga situazione di fame generalizzata l'avemmo all'inizio dell'occupazione nazista nel 1941, con 300.000 morti in 6 mesi. Adesso rivediamo la stessa situazione. Se si pensa che l'occupazione nazista ci è costata 1 milione di morti e la distruzione totale del nostro paese, com'è possibile per noi greci accettare le minacce della sig.ra Merkel e l'intenzione dei tedeschi di installare un nuovo gaulaighter… e questa volta con la cravatta… E per dimostrare quant'è ricca la Grecia e quanto lavoratori sono i greci, che sono coscienti del Obbligo di libertà e dell'amore verso la propria patria, c'è l'esempio di come si reagì all'occupazione nazista dal 1941 all'Ottobre del 1944. Quando le SS e la fame uccidevano 1 milione di persone e la Vermacht distruggeva sistematicamente il paese, derubando la produzione agricola e l'oro dalle banche greche, i greci hanno fondato il movimento di solidarietà nazionale che ha sfamato la popolazione ed hanno creato un esercito di 100.000 partigiani che ha costretto i tedeschi ad essere presenti in modo continuo con 200.000 soldati. Contemporaneamente, i greci, grazie al proprio lavoro, sono riusciti non solo a sopravvivere ma a sviluppare, sotto condizioni di occupazione, l'arte neo greca, soprattutto la letteratura e la musica. La Grecia scelse la via del sacrificio per la libertà e la sopravvivenza. Anche allora ci colpirono senza ragione e noi rispondemmo con la Solidarietà e la Resistenza, e siamo riusciti a vincere. La stessa cosa che dobbiamo fare anche adesso con la certezza che il vincitore finale sarà il popolo greco. Questo messaggio mando alla Sig.ra Merkel ed al Sig. Schäuble, dichiarando che rimango sempre amico del Popolo tedesco ed ammiratore del suo grande contributo alla scienza, la filosofia, l'arte e soprattutto alla musica! E forse, la
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miglior dimostrazione di questo è che tutto il mio lavoro musicale a livello mondiale, l'ho affidato a due grandi editori tedeschi Schott e Breitkopf con cui ho un'ottima collaborazione. Minacciano di mandarci via dall'Europa. Ma se l'Europa non ci vuole una volta, noi, questa Europa di Merkel e Sarkozy, non la vogliamo dieci volte. Oggi è domenica 12 Febbraio. Mi sto preparando per prendere parte alla manifestazione con Manolis Glezos, l'eroe che ha tirato giù la svastica dall'Acropolis, dando così il segnale per l'inizio non solo della resistenza greca ma di quella europea contro Hitler. Le strade e le nostre piazze si riempiranno di centinaia di migliaia di cittadini che esprimeranno la propria rabbia contro il governo e la troika. Ho sentito ieri il nostro Primo ministro - banchiere, rivolgendosi al popolo greco, dire che “siamo arrivati all'ora zero”. Chi, però, ci ha portati all'ora zero in due anni? Le stesse persone che invece di trovarsi in prigione, ricattano i parlamentari per firmare il nuovo accordo, peggio del primo, che sarà applicato dalle stesse persone con gli stessi metodi che ci hanno portato all'ora zero! Perché? Perché questo ordina l'FMI e l'Eurogroup, ricattandoci che se non obbediremo ci sarà il fallimento… Stiamo assistendo al teatro della paranoia. Tutti questi signori, che in sostanza ci odiano (greci e stranieri) e che sono gli unici responsabili della situazione drammatica alla quale hanno portato il paese, minacciano, ricattano, ordinano con l'unico scopo di continuare la loro opera distruttiva, cioè di portarci sotto l'ora zero, fino alla nostra sparizione definitiva. Siamo sopravvissuti nei secoli, in condizioni molto difficili ed è certo che se ci porteranno con la forza, con la violenza, al penultimo gradino prima della nostra morte, i Greci, non solo sopravvivranno ma rinasceranno.
In questo momento presto tutte le mie forze all'unione dinamica del popolo greco. Sto cercando di convincerlo che la Troika e l'FMI non sono una strada senso unico. Che esistono anche altre soluzioni. Guardare anche verso la Russia per una collaborazione economica, per lo sfruttamento delle nostre ricchezze minerarie, con condizioni diverse, a favore dei nostri interessi. Per quanto riguarda l'Europa, propongo di interrompere l'acquisto di armamenti dalla Germania e dalla Francia. E dobbiamo fare tutto il possibile per prendere i nostri soldi, che la Germania ancora non ha saldato dal periodo della guerra. Tale somma ad oggi è quasi 500 miliardi di euro!!! L'unica forza che può realizzare questi cambiamenti rivoluzionari è il popolo greco, unito in un enorme fronte di resistenza e solidarietà, per mandare via la troika (FMI e Banche) dal paese. Nel frattempo devono essere considerati nulli tutti gli accordi illegali (prestiti, tassi d'interesse, tasse, svendita del paese ecc.). naturalmente, i loro collaboratori greci, che sono già condannati nella coscienza popolare come traditori, devono essere puniti. Per l'unione di tutto il popolo sto dedicando tutte le mie energie e credo che alla fine ce la faremo. Ho fatto la guerra con le armi in mano contro l'occupazione nazista. Ho conosciuto i sotterranei della Gestapo. Sono stato condannato a morte dai Tedeschi e sono vivo per miracolo. Nel 1967 ho fondato il PAM, la prima organizzazione di resistenza contro i colonnelli. Ho agito nell'illegalità contro la dittatura. Sono stato arrestato ed imprigionato nel 'mattatoio' della dittatura. Alla fine sono sopravvissuto e sono ancora qui. Oggi ho 87 anni ed è molto probabile che non riuscirò a vedere la salvezza della mia amata patria. Ma morirò con la mia coscienza tranquilla, perché continuo a fare le mie battaglie per gli ideali della libertà e del diritto, fino alla fine.
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OSKAR LAFONTAINE: LA MERKEL E IL SETTORE FINANZIARIO DISTRUGGONO LA DEMOCRAZIA
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un attacco frontale alla cancelliera Merkel quello lanciato da Oskar Lafontaine, ex segretario nazionale del partito “Die Linke” (dopo essere stato negli anni ’80 segretario dell’SPD e Ministro delle finanze del governo Schroeder ndr). Da Kiel, dove si trova per dare slancio alla macchina elettorale del suo partito in vista delle elezioni regionali dello SchleswigHolstein, il Napoleone del Saarland ha accusato Angela Merkel di voler distruggere l‘Europa. Ma non è soltanto la cancelliera Markel ad avere grosse responsabilità per la situazione drammatica in cui si trova l’Europa. Secondo Lafontaine, il settore finanziario è colpevole di voler abolire la democrazia in tutto il mondo. Non usa mezze misure Oskar il rosso, con la testa rivolta alla campagna elettorale nel suo “regno”, il Saarland. Per Lafontaine la “Merkel è in procinto di distruggere l’Europa, e precisamente la democrazia in Europa, ma anche la coesione sociale”. “I fondi salva-stati sono in realtà bombe a grappolo contro la giustizia sociale” ha dichiarato Lafontaine, aggiungendo che: “la guerra delle ban30 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
che contro i popoli dell’Europa va fermata”. Contro la crisi finanziaria Die Linke propone una una serie di ricette. Una tassa patrimoniale per far affluire denaro nelle casse dello stato. Gli Stati devono ricevere crediti da una banca pubblica e questa, a sua volta, dalla Banca centrale europea. Per il vecchio leader, solo con un forte intervento di spesa pubblica sarà possibile fermare la recessione. Lafontaine spara ad alzo zero anche contro l’SPD “per essersi spostato troppo a destra”. Di conseguenza, in vista delle elezioni politiche del 2013, per Die Linke ci sarebbero ampi spazi per raggiungere un risultato a due cifre se “la smettiamo di giocare contro noi stessi. M.D. (Berlino)
LA SANTA ALLEANZA CONTRO IL RISCHIO SOCIALISTA IN FRANCIA
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piegel online, la versione web del settimanale politico di Amburgo, riporta oggi una notizia destinata a suscitare molto scalpore. E non sono in Francia. Secondo Spiegel la cancelliera Merkel avrebbe messo insieme un “cartello” di capi di governo contro il candidato socialista alla presidenza francese François Hollande. Di questa “santa alleanza” contro Hollande e a favore di Sarkozy farebbero parte, oltre ad Angela Merkel, anche Mario Monti, il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy e il premier britannico James Cameron. In un accordo riservato, i leader dei più importanti paesi europei avrebbero deciso di non ricevere Hollande durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali francesi. Come è noto, la Merkel si era già apertamente schierata a favore del presidente uscente, dichiarando pubblicamente di voler sostenere Sarkozy in campagna elettorale e di confidare nella sua rielezione. L’indiscrezione dello Spiegel, se confermata, proietta la scelta della Merkel in una nuova dimensione: una conventio ad escludendum tutta
in ambito conservatore contro il “male socialista” incarnato da Hollande. I conti sono presto fatti. Hollande ha più volte fatto sapere che se vincesse le elezioni francesi sarebbe pronto a rimettere in discussione il patto di bilancio appena sottoscritto da 25 dei 27 paesi dell’Unione Europea, esclusi il Regno Unito e la Repubblica Ceca. Un rischio troppo grande per la Germania, assolutamente da non correre per la Merkel che questo patto ha voluto a tutti i costi. Tanto da spingersi in un terreno molto accidentato e rischioso, l’intromissione nella campagna elettorale di un altro paese. Per di più amico. Anzi il principale alleato europea della Germania. È questo in fondo il timore della Merkel. E cioè non soltanto che Hollande rimetta in discussione il patto di bilancio e forse anche altre decisioni prese nei numerosi vertici europei, ma che metta in discussione addirittura l’asse franco-tedesco guidato in realtà dalla cancelliera tedesca. Articolo originale su Der Spiegel: http://www.spiegel.de/politik/deuschland/0,1518,819095,00.html febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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LA TURCHIA, FOCOLAIO DI CRISI IN MEDIO ORIENTE? di GZ Karl
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egli ultimi giorni si sono moltiplicate le analisi relative alla tenuta economica della Turchia nell’immediato futuro. Peraltro, la Turchia è sempre più immersa nelle crisi che riguardano il Medio Oriente. Proviamo allora a delineare un quadro complessivo della situazione sotto i seguenti profili: - adesione all’Unione Europea; - crisi regionali; - crisi interne; - situazione economica. Quanto al primo punto, vi è veramente poco da dire al momento. La prospettiva di integrazione europea è sostanzialmente ferma e l’opinione pubblica mantiene, nei riguardi dell’idea dell’adesione alla UE, un atteggiamento particolarmente disincantato. In tema invece di crisi regionali, da mesi va avanti la tensione col Governo Assad sulla repressione in Siria. Ciò ha prodotto uno sbilanciamento della politica turca in favore dei sunniti a scapito della politica di equidistanza propugnata originariamente da Davutoglu, il che ha irritato gli sciiti, a partire dall’Iraq dove sono la maggioranza e godono del sostegno delle autorità iraniane. La tensione con l’Iraq negli ultimi giorni si è innalzata vertiginosamente. Nel corso del 2011, poi, si è assistito a un aumento dell’attività internazionale della Turchia che ha prodotto il risultato di una parziale rottura dei rapporti con Israele, in seguito all’incidente della Mavi Marmara al largo delle coste di Gaza nel 2010, e una minaccia di rottura dei rapporti conla Francia per la legge attualmente in
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discussione al Parlamento francese sulla negazione del genocidio armeno. In più,la Turchia ha tentato di accreditarsi come interlocutore privilegiato del mondo arabo in preda alle convulsioni scaturite dalla Primavera Araba. Un primo effetto di questa politica, soprattutto dopo la rottura con Israele, è stato l’assalto all’Ambasciata d’Israele al Cairo lo scorso settembre. Di certo, non si tratta di un atto gestito e pilotato direttamente da Ankara. Ma, a ben vedere, in una situazione perlomeno di confusione quale quella esistente in Egitto, la rottura con Israele è stata il segnale, spedito dalla Turchia al mondo arabo, che prima o poi i conti con gli israeliani potessero essere regolati. È immaginabile che la notte dell’assalto all’Ambasciata, il Presidente Obama, intervenendo direttamente sulla Giunta Militare egiziana del Feldmaresciallo Tantawi, abbia fermato un’azione militare di salvataggio del Governo israeliano che avrebbe, di certo, condotto a una nuova guerra in Medio Oriente. Il che la dice lunga sulle capacità, invero non straordinarie, di analisi strategica e orientamento dell’attuale dirigenza turca. Circa le crisi interne, va osservato che le elezioni politiche dello scorso giugno hanno stabilizzato il potere del Governo Erdogan (intorno al quale, forse con qualche dietrologia, iniziano a circolare voci sul suo stato di salute, ma che appare, onestamente detto, vieppiù alterato sul piano psico-fisico), giunto ormai al terzo mandato. Tuttavia, il quadro politico-parlamentare non si è affatto tranquillizzato. In primo luogo, perché la magistratura, con le sue iniziative altamente politicizzate (da ulti-
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mo, nei confronti dei militari), attizza continuamente focolai di crisi politica. In secondo luogo, perché l’attuale legislatura si è aperta sì con un quadro parlamentare saldamente in mano al Partito di Erdogan, ma in una simile situazione è altrettanto evidente che i partiti di opposizione all’AKP, sia pure con tutti i loro limiti in termini specialmente di capacità gestionali che li rendono inadatti a rilevare le responsabilità di governo, possono giocare una partita di scontro frontale col Governo, non avendo più nulla da perdere, e che può trasformarsi alla lunga in uno scontro mortale. Per di più, per la prima volta la rappresentanza curda è entrata in Parlamento, con la delegazione del BDP che dispone all’incirca di 30 deputati. Guarda caso, a partire dallo scorso luglio, la situazione nel Kurdistan turco si è incendiata, fino a giungere al recente massacro di 35 contrabbandieri a Usundere, scambiati dall’aviazione per militanti del PKK infiltrati dal Kurdistan iracheno. In questo quadro, dunque, l’obiettivo di aprire una fase costituente, benché all’AKP manchino solo 4 voti in Parlamento per modificare autonomamente la Costituzione, sembra estremamente irrealistico. Oltretutto, al momento sono assenti progetti di riforma che riguardino, da un lato, una riforma del sistema giudiziario finalizzata ad assicurare una migliore protezione dei diritti fondamentali della persona e, dall’altro, progetti volti a definire, una volta per tutte, uno status di tutela delle popolazioni di lingua curda (si badi, però, che non è possibile seguire in questo campo l’approccio tradizionale in tema di protezione delle minoranze, poiché la minoranza curda non ha le dimensioni di una tipica minoranza europea, come in Alto Adige, trattandosi al contrario di una popolazione di venti milioni di persone su 70 milioni di persone) Infine, nubi si addensano sull’economia turca. Giova innanzitutto osservare che i flussi commerciali della Turchia sono al 90% con l’Unione Europea. Conseguentemente, i turchi hanno iniziato a temere fortemente gli effetti della recessione che è tornata ad affacciarsi in Europa. In aggiunta, va rimarcato come alcuni squilibri tipici dell’economia turca abbiano iniziato a ripresentarsi prepotentemente. L’inflazione, probabilmente sospinta da un’ampia bolla creditizia che però non ha prodotto un aumento degli investimenti (è facile sospettare allora che parte dei capitali presi a prestito sia stata trasferita all’estero) ha raggiunto
la soglia del 10%, mentre l’inflazione attesa dalla Banca Centrale turca era del 5% nel 2011. Il tasso di cambio si è così deprezzato nel corso del 2011, ma ciò, quasi paradossalmente, non ha sortito l’effetto di migliorare la bilancia commerciale turca. La Turchia resta, difatti, un paese estremamente dipendente dalle importazioni, che tuttora sopravanzano di gran lunga le esportazioni. Peraltro, negli ultimi mesi, per tentare di mantenere basso il valore di cambio della lira turca,la Banca Centrale turca ha impiegato quasi tutte le proprie riserve di moneta straniera senza però ottenere grandi risultati, tanto che la lira turca si è leggermente riapprezzata, e riducendo in tal modo le proprie riserve in dollari a soli 96 milioni. Negli ultimi tempi, poi, hanno iniziato ad andare deserte le gare turche per i progetti infrastrutturali. A questo riguardo, si ricordi che i turchi non finanziano, di norma, i progetti infrastrutturali, ma assegnano la gestione e quindi i ricavi delle infrastrutture così realizzate alle società che le costruiscono con propri fondi. La carenza di liquidità in Europa si riflette anche per questa via sulla Turchia. Come si vede, la Turchia può definirsi già oggi un focolaio di crisi, sia politica sia economica, nella regione. Nell’ultimo anno, è stato impressionante osservare il cambio di atteggiamento impresso alla politica turca dall’espansione economica degli ultimi anni e dalla vittoria elettorale dell’AKP dello scorso giugno. Galvanizzati, i politici dell’AKP hanno portato avanti una politica dai toni bellicosi, ma alla fine dei conti alquanto inconcludente, comunque irrealistica rispetto alle possibilità del paese e che sta esponendola Turchia a un rischio di isolamento politico nei confronti dell’occidente e, di riflesso, a una chiusura dei rubinetti finanziari in suo favore. Lo spostamento di asse verso est della politica turca, ribaltando l’approccio pro-occidentale seguito in passato, sta immergendo sempre più la Turchia, da protagonista, nelle crisi mediorientali che rischiano, presto o tardi, di combinarsi e di sfociare in una nuova guerra. In conclusione, la Turchia pare aver smarrito il suo ruolo di stabilizzazione nella regione e la sua posizione di equi-distanza riguardo alle crisi mediorientali, il tutto in un quadro economico in peggioramento. Non pare, però, che il Governo Erdogan abbia intenzione di rivedere la politica seguita fin qui. febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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IL NUOVO ELDORADO ARGENTINO Le proteste del Famatina tra sviluppo economico e sostenibilitá ambientale di Adriana Bernardotti (Buenos Aires)
La
ricerca dei metalli preziosi è stato il grande movente dei conquistatori spagnoli che nel XVI si avventuravano in America attirati dalle leggende dell’Eldorado, un luogo mitico costruito su immense quantità di oro e pietre preziose. Wamatinag– “la madre dei minerali” – era il nome in lingua originale del Cerro di Famatina, accanto al quale oggi si trova un pittoresco villaggio i cui abitanti sono riusciti a bloccare (per ora) il saccheggio delle multinazionali dell’estrazione dell’oro. Alla resistenza popolare contro l’istallazione dell’impresa canadese Osisko Mining Corporation nel paese di 6.000 abitanti della provincia della provincia di La Rioja – ai fianchi della Cordigliera e, tra l’altro, culla di nascita e dell’esperienza politica dell’ex presidente Menem – ormai non partecipano soltanto i residenti; essa coinvolge numerosi attivisti sociali, ambientalisti, figure note dello spettacolo e della cultura di tutto il paese, che hanno contribuito a portare il dibattito sui rischi dell’industria mineraria “a cielo aperto” alla ribalta nazionale. L’ammutinamento dei vicini è cominciato alla fine dello scorso anno,
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quando si è saputo dell’accordo del governo provinciale con l’azienda canadese per sfruttare l’oro del giacimento. Il 16 gennaio scadeva il termine pattuito negli accordi per cominciare i lavori d’esplorazione, ma è stato impedito ai tecnici e agli operai dell’impresa di raggiungere la montagna a causa dal picchetto, presto diventato accampamento, dell’assemblea di manifestanti nella strada verso il Famatina dall’inizio delle proteste. Il 26 una folla di cittadini che si oppongono al progetto ha partecipato della manifestazione convocata nella piazza della città capitale della provincia, davanti al Palazzo del Governatore, con la parola d’ordine “Il Famatina non si tocca” e altri slogan che esprimono i contenuti della mobilitazione: “No ai mega- giacimenti, sì all’acqua, alla terra, al lavoro e alla giustizia”; “Se manca acqua pura è perché avanzano miniere contaminanti”; “L’avidità di oro ci lascerà senza acqua”, ecc. Così il governatore Beder Herrera è stato forzato a fare retromarcia. Il giorno seguente in conferenza stampa ha rassicurato la popolazione che i lavori rimarranno momentaneamente sospesi e che promuoverà una campagna d’informazione e un pubblico dibattito sul progetto, convinto di trovare i consensi per avviare finalmente l’opera. Le popolazioni in ogni caso rimangono in stato di allerta e non sciolgono la mobilitazione nell’attesa dell’evolversi degli avvenimenti. In verità questa non è la prima volta che il popolo riesce a fermare i progetti sulla montagna. Nel 2007 era stata mandata all’aria un’altra iniziativa: l’impresa sconfitta era stata la Barrick Gold, multinazionale canadese leader nel settore miniero che sfrutta diversi giacimenti in Argentina e che si proponeva l’estrazione di oro e rame della montagna. Paradossalmente, gli avvenimenti di allora erano serviti a Beder Herrera per arrivare alla prima carica provinciale, assumendo le bandiere ambientaliste per destituire l’ex governatore con il confebbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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El Famatina no se toca!!
senso dei cittadini. Di fatto, come primo atto di governo, aveva proposto una legge per vietare i giacimenti a cielo aperto nel territorio, promulgata nel 2007 e poco tempo dopo stralciata. La ribellione di Famatina, in ogni caso, è soltanto una di una lunga serie di conflitti e rivolte popolari insorte attorno alla questione ambientale, un fenomeno che emerge come caratteristico dell’Argentina dopo la crisi del 2001. Il caso più eclatante, per le sue complicanze internazionali, è stato quello delle massicce proteste dei residenti delle città turistiche della riviera dell’Uruguay contro l’istallazione dell’industria cartiere finlandese Botnia nel paese vicino: il conflitto si è protratto tra gli anni 2005-2010, ostacolando la circolazione e creando difficoltà nei rapporti diplomatici tra la due nazioni sorelle e socie del Mercosur. 36 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
La prima sollevazione di un paese contro l’industria mineraria è del 2003: Esquel, nella provincia di Chubut in Patagonia, è stato il paradigma di una comunità che ha restitito e vinto mediante la mobilitazione, la convocazione di un referendum e il ricorso alla giustizia, riuscendo a chiudere uno stabilimento per lo sfruttamento dell’oro e a strappare una legislazione provinciale contro i mega-giacimenti. Lo sviluppo dell’industria mineraria a grande scala in Argentina è un fenomeno recente. Due sono i fattori che hanno contribuito al suo sviluppo. In primo luogo, la legislazione per il settore promossa dal governo di Carlos Menem nel decennio ultraliberale dei ’90, con il proposito di attirare gli investimenti internazionali garantendo ampli vantaggi e benefici per le imprese: ampie esenzioni fiscali e agevolazioni valutarie per 30 anni, libera trasferta dei capitali e pro-
fitti all’estero e altri vantaggi in cambio di un tributo, da distribuire tra Stato e Provincia, equivalente al 3% del valore del minerale estratto nel giacimento. È stato tuttavia l’aumento internazionale del prezzo dell’oro e di altri minerali metalliferi come l’argento e il rame negli ultimi anni, la ragione alla base dell’incremento esponenziale delle attività estrattive a grande scala, che richiedono importanti investimenti di capitali convocando, dunque, l’insediamento di imprese multinazionali. Il presidente Nestor Kirchner (20032007), avvalendosi della normativa promulgata, diede impulso ad un Piano Nazionale di sviluppo del settore che consentì alla fine del suo mandato di incrementare le esportazioni minerarie tredici volte rispetto al 1995. Negli anni della sua gestione, secondo dati della Segreteria di Governo per l’Industria Mineraria, gli investimenti accu-
mulati sono cresciuti otto volte (da 660 a 5600 milioni di dollari) e alla fine del periodo il numero di progetti in diverse fasi di sviluppo era di 336. Nello scorso anno 2011, sempre secondo dati ufficiali, sono stati investiti circa 3.000 milioni di dollari che rappresentano un incremento accumulato del 1.948% riguardo al 2003, anno d’avvio del Piano Nazionale. La Segreteria di Governo registra 614 progetti, radicati principalmente nelle province di Santa Cruz, San Juan, Salta, Catamarca, Jujuy, Mendoza, Neuquén y La Rioja. La maggior parte delle risorse metallifere argentine si trova, infatti, lungo la Cordigliera delle Andes, in territori strutturalmente aridi dove l’accesso alle risorse idriche non sempre è garantito. Le conseguenze del cambiamento climatico, cioè l’aumento delle siccità e il ritiro delle grandi riserve idriche che sono i ghiacciai cordiglierani, sono ora-
mai sentite dalle popolazioni. La lotta per proteggere l’acqua accomuna ceti diversi ed è diventato il principale leit-motiv dei movimenti popolari. L’estrazione a cielo aperto, adoperata nei siti dei minerali più pregiati, è una tecnica di sfruttamento delle miniere che richiede, in primo luogo, la rimozione di tutto il terreno e delle rocce che sono in superficie (il sovraccarico) per rendere accessibile i minerali di bassa qualità. Questa procedura comporta un’enorme devastazione del sito, con l’uso di dinamite su larga scala, del cianuro per separare il metallo dalla pietra e di ingenti quantità di acqua per poi lavarlo. Nel 2011 – informa il Segretario dell’Industria Mineraria – sono stati perforati 1.031.600 metri, un 41,3% in più del 2010 e un 664% in più riguardo all’inizio del 2003. La contaminazione delle falde sotterranee con il cianuro e i febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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rischi concreti per la salute, sono un ulteriore motivo per spiegare la compattezza e perseveranza della resistenza popolare. Il caso sicuramente più emblematico è quello dell’Alumbrera, nella provincia di Catamarca, la prima e più grande estrazione a cielo aperto dell’Argentina. Gli abitanti dei vicini comuni di Belen e Aldalgala sono in stato di agitazione permanente e ci sono polemiche e denuncie sugli incrementi delle malattie dall’apertura della mina nel 1997. I fatti dell’Alumbrera arriveranno presto alla Corte Interamericana dei Diritti Umani, alla quale si sono rivolti i querelanti della causa iniziata nel 1998 contro l’impresa nella provincia confinante di Tucuman per inquinamento dei fiumi, istanza che ha sofferto dilazioni giudiziarie dopo un primo invio a processo del responsabile della multinazionale. Il dibattito sulle miniere ha crea38 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
to un muro contro muro tra i governi provinciali – che non sono disposti a perdere una delle poche fonti di investimento e di riscossione tributi per i loro territori - e le popolazioni implicate, che paventano i rischi dell’inquinamento dell’ambiente naturale. Queste ultime trovano crescenti sostegni nella società civile e sono accompagnate da uno spazio sempre più rilevante nell’attenzione dei media nazionali. Gli oppositori al progetto dei mega-giacimenti pongono l’accento, per di più, su altri fattori di criticità e rischi aldilà di quelli ambientali. Tra questi il carattere del modello di sviluppo che sottintende l’industria, che rimane ancorato alla logica esclusivamente estrattiva mirata all’esportazione, creando enclave che non innescano processi di sviluppo locale bensì recano pregiudizio alle economie locali. Sono timori presenti a Famatina e in altre località della
Cordigliera che cominciavano a trovare nel turismo e nell’agricoltura intensiva nuove opzioni di sviluppo in questa fase di crescita per l’Argentina. Un altro tema nel dibattito è la capacità di creazione di occupazione di questa industria. È uno degli argomenti forti dei Governatori in carica, responsabili del futuro di province che soffrono di una cronica mancanza di lavoro. Non è sicuramente un caso che le province che oggi ospitano i principali progetti sono quelle che registrano anche le maggiori quote di dipendenti nel settore pubblico, strategia che in queste realtà è servita come sussidio di disoccupazione mascherato (Santa Cruz 41,4% della popolazione, La Rioja 38,5%, Catamarca 32,9%, contro una media nazionale di 16,8%. Fonte: EAHU, 3º trim. 2010). Gli oppositori cercano di dimostrare come, al contrario, i posti creati dalle industrie estrat-
tive sono limitati e soprattutto di carattere temporaneo, con una tendenza al decremento nella fase di sviluppo delle imprese. Esiste inoltre un altro aspetto fortemente negativo da evidenziare e che riguarda il modus operandi in loco delle imprese transnazionali del settore. Gli attivisti denunciano fatti concreti di intimidazione e persecuzioni nei loro confronti e hanno portato alla luce episodi di connivenza tra dirigenti delle aziende e politici o amministratori locali. Sono stati ritrovati documenti interni delle imprese che rendono conto dell’utilizzo abituale di tangenti e favori per comprare le volontà politiche e la compiacenza dei media. Queste forme di corruzione impattano ancora più negativamente su province dove il funzionamento delle istituzioni democratiche è deficitario e debole, caratterizzate spesso da regimi politici di tipo clientelare febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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e fondati sui caudillos locali. In queste realtà i diritti degli abitanti sono più facilmente vulnerabili, a cominciare dai più deboli come sono i popoli aborigeni, che subiscono usurpazioni di terre e la distruzione del loro habitat naturale e culturale. “Poche attività industriali riescono a impattare così profondamente tutte le sfere della vita di un popolo, come fa il settore minerario”, riassume un rapporto del Servicio Paz y Justicia, l’organizzazione guidata dal premio Nobel Perez Esquivel. “Sostenuta dalla gran maggioranza dei politici e dai media, le compagnie minerarie agiscono impunemente, sfruttando la vulnerabilità delle popolazioni locali. (…) Le imprese minerarie transnazionali fondano la loro politica sull’idea che il denaro compri tutto e che si può fare qualsiasi cosa per aumentare i loro profitti. Tuttavia se il denaro ha successo per acquistare molto, per fortuna non ha comprato ancora tutti. In tutti i villaggi colpiti dai mega giacimenti, sono sorte assemblee di cittadini
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autoconvocati per dire no alle miniere.” (Impacto de la gran mineria sobre las poblaciones locales en Argentina, SERPAJ, 2008). In Argentina, dalla riforma costituzionale del 1994, sono le province le proprietarie del sottosuolo. Molti parlamenti federali hanno promulgato leggi vietando l’estrazione su grande scala a cielo aperto, in diversi casi sotto la pressione della mobilitazione cittadina: Chubut (2003), Río Negro (2005); Tucumán, La Pampa y Mendoza, oltre La Rioja già citata (2007); Córdoba e San Luis (2008); Tierra del Fuego (2011). La sete di risorse nelle province più disagiate e il pressing delle imprese, tuttavia, riescono spesso a imporsi: il governatore della provincia di Rio Negro nella Patagonia ha recentemente derogato il divieto seguendo la stessa strada intrapresa prima da La Rioja. In ogni caso questo non dovrebbe stupire, visto che qualcosa di simile è successo anche in Europa. Vale la pena ricordare la vicenda della “Risoluzione del
Parlamento Europeo sul divieto generale di utilizzo delle tecnologie di estrazione mineraria con il cianuro nell’Unione Europea”, approvata il 5 maggio 2010 ma rifiutata il 23 giugno dal Commissario Europeo per l’Ambiente Janez Potocnik. Nella risposta ufficiale si segnala che “dopo un’analisi approfondita della questione, la Commissione ritiene che un divieto generale di cianuro nelle miniere non è giustificato dal punto di vista dell’ambiente e della salute”. Il funzionario ha aggiunto anche che “l’attuale legislazione in materia di gestione dei rifiuti delle miniere (direttiva 2006/21/CE) contiene dettagli e requisiti severi per garantire un adeguato livello di sicurezza nella gestione dei rifiuti minerari. I valori dei limiti di stoccaggio di cianuro, come definiti nella direttiva, sono i più rigorosi possibili e implicano in pratica la distruzione del cianuro utilizzato”. Il Commissario è andato oltre: “Il divieto generale dell’uso del cianuro comporterebbe la chiu-
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sura delle miniere esistenti che operano in condizioni di sicurezza. Questo sarebbe svantaggioso per l’occupazione e senza valore aggiunto per l’ambiente o la salute “. La Commissione ha chiarito che continuerà a monitorare gli sviluppi tecnologici nel settore per garantire che le “migliori tecniche disponibili” siano applicate nell’attività, come richiesto dalla direttiva europea. Si ritiene che la priorità dovrebbe essere assicurare la completa applicazione della direttiva da parte dei paesi membri, adottando a questo scopo tutte le misure necessarie. (Fonte: Parliamentary questions – 23 June 2010, Answer given by Mr Potoãnik on behalf of the Commission, P-3589/2010. In: http://www.europarl.europa.eu
/sides/getAllAnswers.do?reference=P-2010-3589&language=ES). La proposta di raccomandazione era stata presentata dai deputati popolari János Áder (Ungheria) e László Tokés (Rumania) ed era stata approvata dal Parlamento con 488 voti a favore, 48 contrari e 57 astensioni. Tra i punti si ricordavano gli oltre trenta incidenti gravi che negli ultimi venticinque anni si sono verificati a livello mondiale, il più serio dei quali risale a dieci anni fa e ha colpito proprio i paesi d’origine dei deputati, “quando più di 100.000 metri cubi di acqua contaminata da cianuro sono fuoriusciti dal serbatoio di una miniera d’oro penetrando nel sistema fluviale Szamos-Tibisco-Danubio e causando il maggiore disastro ecologico dell’Europa centrale dell’epoca, e che non vi è alcuna reale garanzia che simili incidenti non si ripetano, soprattutto tenendo conto della sempre maggiore frequenza di condizioni atmosferiche estreme, tra cui forti e frequenti precipitazioni,
come prospettato nella quarta relazione di valutazione del gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico”. I rischi sono oggi molto presenti in Europa Centrale: il governo rumeno ha dato il via al progetto canadese di giacimento aurifero nella località di Rosia Montana (Transilvania Occidentale), dopo 14 anni di durissime controverse tra gruppi politici e ambientalisti (Vale di più l’oro o l’ambiente?, di Paolo Virtuani, «Corriere della Sera», 31 agosto 2011). Un filo conduttore dunque lega le sorti del paese europeo e di quello sudamericano. Tornando in Argentina, i protagonisti in vista del conflitto di Famatina sono la società civile e i governi provinciali. Lontano dalla scena c’è l’impresa, che evita accuratamente contatti con giornalisti o di comparire pubblicamente. Non abbiamo parlato ancora di un altro attore centrale, anche questo defilato dalla scena principale: il governo nazionale. L’atteggiamento del governo centrale è stato quello di evitare
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ogni intervento o pronunciamento diretto su Famatina ma, mentre faceva ciò, i potenti poli mediatici e principalmente il gruppo Clarin – che oggi rappresenta la principale forza dell’opposizione – si sono appropriati del tema che riscuoteva giorno per giorno maggiori consensi e popolarità. Il tema ambientale si presenta come il fianco debole per il kirchnerismo, così come altri problemi – le lotte per la terra dei popoli nativi, in primo luogo –
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che possono creare potenziali ostacoli per guadagnare il tempo perso dall’Argentina sfruttando a fondo questa fase di accelerazione in avanti e di crescita economica. La questione mineraria è una delle politiche che creano maggiori tensioni nella compagine di governo, fino al punto di mostrare crepe e differenze interne che normalmente non vengono a luce nella consuetudine politica del kirchnerismo. Esiste un antecedente importante che è stato il dibattito sulla “legge di protezione dei ghiacciai” a favore della quale si è battuto un ampio movimento della società civile contro i governatori delle province minerarie. Nel 2008 il Parlamento approva una legge proposta dall’opposizione e la Presidente assume il costo politico di sostenere la
posizione dei governi delle province della Cordigliera, ponendo il primo veto presidenziale ad un’azione del Parlamento. La decisione era fondata sulla convinzione che “non si può porre un divieto assoluto di attività” e che si considera “eccessivo vietare miniere o trivellazioni petrolifere nei ghiacciai e nelle zone al confine con i ghiacciai”. Inoltre, il governo ammetteva che “governatori della zona montana hanno espresso preoccupazione per le disposizioni emanate dalla norma” perché avrebbe inciso su investimenti e occupazione. (Fonte: Decreto 1837/2008) Nel retroscena, il vero tema del dibattito è il Pascua – Lama, primo progetto minerario transfrontaliero e binazionale nato dall’accordo firmato tra l’Argentina e il Cile nel 1997, che
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dovrebbe diventare il giacimento più grande per entrambi i paesi. Il sottosuolo d’oro, argento e rame in mezzo alla cordigliera è proprietà, per la parte argentina, della provincia di San Juan e sarà sfruttato dall’impresa canadese Barrick Gold, leader del settore. La mobilitazione locale e una campagna internazionale accompagnarono questo dibattito, durante il quale una parte dei parlamentari del partito di governo si avvicinarono alle posizioni ambientaliste cercando una difficile mediazione che, dopo diverse peripezie, ha condotto all’approvazione di una legge per il settore nel settembre del 2010 (Legge No. 26.639). Le organizzazioni ambientaliste, malgrado ciò, denunciano dilazioni nella regolamentazione e nell’applicazione della norma, che stabiliva la realizzazione di
un censimento dei ghiacciai e delle riserve idriche della Cordigliera entro marzo dello scorso anno che non è ancora cominciato. San Juan, La Rioja, Catamarca e tutte le province che oggi ospitano imprese minerarie hanno in carica governatori che aderiscono al kirchnerismo, tuttavia conservare queste lealtà politiche nel delicato gioco di poteri federali è soltanto uno degli aspetti del comportamento del Governo Nazionale e forse non il principale. La Presidente sembra convinta che l’industria mineraria sia un’occasione per questa fase dell’Argentina e non ha paura di polemizzare con gli ambientalisti. In piena effervescenza del caso Famatina, mentre né la Presidente né gli altri funzionari nazionali si pronunciavano sui
fatti, in occasione del discorso di riassunzione dopo l’intervento chirurgico, Cristina colse l’occasione per criticare le organizzazioni ambientaliste. Parlando sul conflitto riacceso in questi giorni con il Regno Unito sulle Malvinas e riferendosi allo sfruttamento del petrolio e della pesca, affermava “veramente non ho sentito nessuna ONG ambientalista criticare il Regno Unito per quello che stanno facendo nelle Malvinas, né nazionale né internazionali (…) mi piace tanto che difendano le balene perché sono bellissime, ma sarebbe bene che difendessero anche tutti i calamari e tutte le cose che si stanno portando via da lì che è una vera depredazione”, quasi in un motto di rabbia. (25/01/2011). L’episodio ha meritato una risposta ufficiale della direttrice di Greenpeace nel quale celebra il nuovo interesse manifestato dalla Presidente sulla questione ambientale “così lontana a tanti aspetti del suo governo” e la invita a rompere il silenzio e intervenire su un “conflitto che oltre ad essere ambientale é sociale” come quello di Famatina. Nello stesso discorso la Presidente ricordava che il paese possiede il 22% delle risorse
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naturali di litio – un minerale molto ambito in diverse industrie, tra cui quelle elettroniche – e che con la Bolivia e il Cile si hanno il 90% delle riserve mondiali. L’Argentina scommette sull’industria mineraria, e punta ad un destino di leader nel settore. La scorsa settimana – ancora in mezzo alle polemiche per i Famatina – il Segretario dell’Industria Mineraria della Nazione ha pronosticato in forma entusiasta che “nella seconda metà del 2020 l’Argentina diventerà il grande giocatore del settore dell’industria mineraria mondiale; si costruiranno almeno 15 grandi progetti” e “saremo tra i cinque principali paesi produttori di rame, tra i tre primi di argento, uno dei sei principali per l’oro e tra i primi per il litio, il potassio e il borato”. (Cuestion de minas, Marcelo Zlotogwiazda, «Revista Ventitres», 25/01/2012 ) Lo sviluppo minerario è una strategia di governo fin dall’inizio del mandato di Nestor Kirchner. Nella fase che si è aperta in questi anni – di approfondimento dei legami e dei rapporti con i paesi vicini e di formazione di un blocco regionale 44 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
che presenta una nuova capacità di negoziazione a livello globale – diventa cruciale lo sfruttamento delle proprie risorse strategiche e anche le industrie estrattive possono essere occasione di integrazione. C’è l’intenzione di firmarare un accordo binazionale con la Bolivia, sulla stessa linea di quanto fatto con il Cile. Assumendo la presidenza protempore del Mercosur il dicembre scorso, Cristina ricordava che “abbiamo molte cose da fare e l’industria mineraria, che ad alcuni sembra quasi una parolaccia, se resa sostenibile rispettando le norme che si fanno in altri paesi, è ancora un’attività sotto-utilizzata nella Regione.” (Fonte: Presidencia de la Nación – 42° Cumbre Mercosur, 20/12/2011). La risposta alle questioni poste dagli ambientalisti è dunque quella della Commissione Europea e in questo senso ci sono norme, create altrove e con più esperienza, da poter applicare. Il ciclo economico in Argentina e le caratteristiche del modello di sviluppo scelto, d’altra parte, non possono facilmente prescindere dagli investimenti per estrazioni minerarie. In un panorama come quello argentino post-default di allonta-
namento dai mercati internazionali di capitali, mantenere un’economia in superavit con le proprie forze è stata la strategia del recupero. Uscita dal giogo dei prestiti e salvataggi delle banche e istituzioni finanziarie internazionali mirati a saldare e rifinanziare altri debiti, l’incremento delle esportazioni ha rappresentato la via principale d’ingresso di valute. Valuta forte per l’erario, per avviare politiche di salvaguarda in momenti di crisi, per controllare il mercato valutario e resistere agli attacchi della speculazione finanziaria che un giorno sì e l’altro no ci provano ancora. Valuta – molta – per saldare i compromessi assunti con i creditori internazionali, visto che la strada scelta dai governi argentini nella crisi di inizio millennio non è stata mai di uscire dal sistema capitalista. È inevitabile che l’attuale crisi internazionale abbia anche qui un suo impatto e
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comincia a sentirsi la stretta della domanda esterna. A ciò è correlata la diminuzione dei prezzi dei prodotti primari d’esportazione come la soia, che è stata la principale fonte di valute di questi anni, ostacolo al quale si aggiunge la questione climatica che si è manifestata nella forma di una gran siccità che ha costretto il governo a dichiarare lo stato di emergenza in diverse province. Gli attuali indirizzi del governo sembrano mirare ad una maggiore partecipazione e controllo sui affari del settore minerario da parte dello Stato. Uno strumento già in marcia è la formazione di aziende pubbliche ad hoc nelle province, con partecipazione dello Stato nazionale e provinciale. L’esperienza più consolidata – ma anche molto dibattuta – è quella dell’impresa YMAD (Yacimientos Minerales de Agua Dionisio) titolare dei diritti di esplorazione e perforazione della
miniera dell’Alumbrera della provincia di Catamarca, alla quale partecipa lo Stato nazionale, la provincia e anche l’Università di Tucuman. Parte dei proventi, secondo gli statuti, devono essere corrisposti alle università nazionali, tuttavia un numero importante dei senati accademici ha votato per rifiutare questo beneficio. Il Segretario di Governo per l’Industria ha convocato lo scorso dicembre i rappresentanti delle nove imprese pubbliche finora esistenti per creare un luogo per il coordinamento e la qualificazione degli interventi. Un altro orientamento – più secondo voci che circolano che da dichiarazioni ufficiali – punterebbe ad aumentare le imposizioni e i tributi sulle imprese del settore. Da più parti si sollecita una riforma della normativa, visto che gli enormi guadagni ricavati attualmente dalle aziende non giustificano più certi vantaggi per la promozione industriale del ventennio scorso. I governi provinciali, d’altra parte, premono per aumentare le loro quote di partecipazione ai benefici e tributi che vedono finora spartiti sempre a vantaggio dello stato nazionale.
Sicuramente un ruolo forte di questi consorzi pubblici potrebbe facilitare il controllo responsabile sui rischi ambientali che pone l’attività delle imprese, come dicono voci ufficiali. Rimane comunque il fatto che l’attenzione su questi problemi è incostante e sicuramente non prioritaria. Questo vale anche per gli altri paesi della Regione dove, di volta in volta, si ripropone il problema dello sviluppo ambientalmente sostenibile. Nel caso argentino i temi pendenti sono diversi –la coltivazione con ogm che avanza nel territorio a scapito di altre coltivazioni, l’uso dei pesticidi velenosi come il glifosato vincolato collegato agli OGM, la deforestazione, il cambiamento climatico e l’aumento della siccità, la riduzione dei ghiacciai – e manca soprattutto un’agenda politica in materia ambientale, capace di innescare spazi per un dibattito pubblico aperto, necessario per fare circolare l’informazione e aiutare a prendere decisioni responsabili e condivise.
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Intervista a
JORGE GIORDANI di Geraldina Colotti
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Mio padre – racconta – fu membro della Brigata Garibaldi, nella guerra civile spagnola perse una gamba combattendo contro i fascisti. Mio fratello nacque in Spagna, quando Franco prese Barcellona e i miei scapparono, un soldato lo mise sotto la camicia per fargli passare il confine con l’Italia, dove mio padre partecipò alla resistenza. Durante l’avanzata di Hitler, che stava chiudendo l’Europa, fuggirono di nuovo. Non potevano andare né in Argentina, né in Messico, perché le due frontiere erano chiuse. Così finirono a Santo Domingo, dove sono nato io. Con l’arrivo del dittatore Trujillo, la cui specialità era gettare gli oppositori in pasto ai pescecani, siamo venuti in Venezuela. Nel ’59 noi studenti accogliemmo Fidel che aveva vinto con la rivoluzione cubana e che portava con sé un vento di liberazione. Insieme al capitano Jimenez Moya, che aveva combattuto nella Sierra con lui, organizzammo un’invasione a Santo Domingo partendo da Cuba. L’evasione fallì e così io, che facevo parte del secondo gruppo, non partecipai. Avevo 18 anni. Subito dopo, lasciai una lettera a mio padre e partii per l’Italia con un passaporto falso su cui era scritto “apatride”». Dalle strade di Caracas arrivano gli echi degli imminenti festeggiamenti per il 4 febbraio, che ricorda la ribellione armata dell’allora tenente colonnello Hugo Chavez al governo del socialdemocratico Carlos Andres Perez, nel 1992. Come ha conosciuto il comandante Chavez? «Il 26 marzo ’93 insegnavo all’università. Insieme a un gruppo di persone preoccupate per l’avvenire del paese dopo la rivolta dell’89, il Caracazo, discutevamo sul da farsi e stilammo una proposta. Qualcuno di noi aveva già conosciuto Chavez, che era in prigione dal 4 febbraio dell’anno prima dopo il fallimento dell’operazione Ezequiel Zamora. Chavez ci invitò a discutere. Lo andammo a trovare in carcere. Prima di uscire, lui mi disse che aveva letto
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Jorge Giordani (di origini italiane nrd), ministro della pianificazione e della finanza, è unanimemente considerato l’autorità più importante del governo venezuelano dopo il presidente Chavez. Ci riceve nel suo studio al ministero, tra un quadro del «comandante» e uno di Bolivar, tra un ritratto seppiato di Lenin e una pila di grafici, formule e proiezioni a cui attinge a ogni nostra domanda. Economista, scrittore e saggista, studioso di Gramsci, ha scritto numerosi libri e costruito l’ossatura della politica economica bolivariana. Buon conoscitore dell’Italia, ricorda volentieri il periodo di studi a Bologna e l’impegno politico del padre italiano.
alcuni miei libri e che mi stava cercando da tempo. Io risposi: meno male che non mi ha trovato, altrimenti sarei anch’io dietro le sbarre… Dottore in scienze politiche, l’allora tenente colonnello stava per finire il suo corso post-laurea all’università Simon Bolivar. Mi chiese se volevo seguirlo nella tesi. Accettai, e quello fu il mio secondo sbaglio, dopo quello di andarlo a trovare. E da lì, una catena di “sbagli” intenzionali: quando l’anno dopo uscì di prigione, lavorai con lui. Mi propose di coordinare il programma di governo che lo porterà a vincere le elezioni, nel ’98, a cui abbiamo lavorato insieme al professor Hector Navarro. Come si è costruita la politica economica bolivariana? Il primo documento, a cui abbiamo lavorato insieme al comandante, è stato pubblicato nel luglio 96. S’intitolava “Un’alternativa bolivariana”. Poi è venuto il primo programma di governo per le elezioni, vinte nel dicembre del ’98 e che hanno portato Chavez alla presidenza il 2 febbraio del 99. Sono già 13 anni… Allora ereditammo una situazione economica disastrosa, non avevamo neanche i soldi per il bilancio. Guarda questo grafico. Guarda lo sviluppo che abbiamo realizzato sul piano economico, politico, internazionale. Nonostante il golpe del 2002, il sabotaggio petrolifero e gli effetti della crisi internazionale, per 22 trimestri successivi la crescita dell’economia venezuelana è stata continua. Nei prossimi 6-7 anni prevediamo una crescita tra il 5 e il 6%. Nel 2000 abbiamo presentato un’altra proposta, con la quale Chavez ha rivinto le elezioni. Dopo un primo piano socialista per il 2001-2007, c’è stata una seconda proposta che ha programmato la politica economica fino al 2011. In questa settimana sarà resa pubblico il piano 2013-2019. I punti fondamentali sono sette: una nuova etica socialista, la felicità sociale (un concetto che ci viene da Bolivar), la democrazia «protagonica» rivoluzio-
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naria che è un portato della nostra costituzione, la costruzione di un modello produttivo socialista, una nuova geopolitica nazionale, la consapevolezza di essere una potenza energetica a livello mondiale e una nuova geopolitica internazionale. Quali sono i motori del “processo bolivariano”? Per prima cosa il petrolio, il nostro continua a essere un paese rentier. Per quest’anno, si prevede una forte rendita del petrolio, anche con una tecnologia al 20% com’è la nostra. In secondo luogo, la costruzione di case che – oltre alla soddisfazione di avere un tetto sulla testa – ha consentito una crescita del 10%. Il terzo punto, e per noi il più importante, è la crescita qualitativa in termini di investimento totale sulla salute, l’educazione, la casa. Il totale dell’investimento sociale nei dieci anni precedenti il governo Chavez era di circa il 37%, il nostro è il 62%. Questo si riflette nella realizzazione dei cosiddetti obbiettivi per il millennio, in primo luogo la diminuzione della povertà estrema e nell’indice di Gini, che misura le disuguaglianze sociali: il 48 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
Venezuela è il paese dell’America latina in cui la distribuzione del reddito è la meno diseguale. Lo zoccolo di povertà estrema, al 7%, è comunque difficile da intaccare, per questo sono state recentemente create altre grandi missioni sociali, come Amor mayor, rivolta a fornire assistenza pensionistica a tutti gli anziani, anche a quelli a cui non erano stati versati i contributi, e corrispondente al salario minimo. Per favorire tutto questo, dopo la crisi finanziaria del 2009, abbiamo varato nuove leggi per il mercato della valuta, dell’assicurazione, della banca, una riforma finanziaria per consentire al flusso di valuta esterna di essere reinvestito nell’infrastruttura e nei progetti sociali. Abbiamo riconvertito una banca privata in un fondo per lo sviluppo. Aprendo un credito speciale con la Cina, in gran parte pagato, abbiamo incrementato lo sviluppo industriale, le infrastrutture, foraggiato il settore privato che non ripaga in termini di investimento e produttività. Se l’opposizione tornasse al potere, tutto questo verrebbe spazzato via. Gli Usa non possono permettersi di vederci crescere con un
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modello alternativo. Oggi abbiamo finito di riportare in patria tutto il nostro oro. Questo forma la nostra base sociale, i fondamenti della nostra società e ci permette di pensare a un secondo gradino, allo sviluppo delle infrastrutture, alla modernizzazione del paese, allo sviluppo della sovranità e dell’indipendenza nazionale e continentale. Anche l’inflazione è un fatto strutturale, dipende da molti fattori. Noi la definiamo inerziale, nel senso che è un portato degli anni precedenti in cui nessun governo – dagli anni ’80 a oggi – ha potuto fare niente. Guarda questo grafico, che fotografa bene la situazione in termini di tendenze economiche nell’arco di sessant’anni. All’inizio degli anni ’80 s’è prodotto un punto di frattura determinante per via della partenza dal paese dei grandi capitali finanziari, che non è iniziata con il governo Chavez. Questi capitali non torneranno più, si sono integrati a quelli internazionali. È quello che possiamo definire il collasso del capitalismo rentier, uno smottamento sismico che ha ridotto l’investimento del settore privato, la rendita petrolifera ne
ha subito gli effetti. Noi abbiamo subito gli effetti del “venerdì nero” venezuelano, dell’economia neoliberista nelle due decadi perdute degli anni ’80-90. Eppure negli ultimi 22 mesi, la nostra economia ha continuato a crescere. Mentre il capitalismo licenzia e taglia le pensioni, dagli Stati uniti all’Europa, noi abbiamo anteposto gli interessi dell’essere umano a quelli del profitto. E non torniamo indietro. Malgrado lo sforzo del governo per sviluppare le nostre vaste aree agricole, purtroppo non siamo ancora autonomi nel settore alimentare, sono 40 gli alimenti che producono l’inflazione a livello nazionale. Da noi si dice “sembrar petrolio”: si è preferito comprare all’estero e spostarsi nelle città piuttosto che rendere produttive le campagne. Ora cerchiamo di invertire la tendenza, anche sviluppando un’economia, tendenzialmente alternativa al petrolio, che favorisca la produzione di beni intermedi. Che cos’è il socialismo bolivariano che tanto spaventa i poteri forti internazionali? Un sistema misto. Nel nostro
ultimo piano abbiamo previsto uno spazio per l’economia privata: per quella produttiva, non speculativa. Da noi il settore privato è un settore parassitario, che negli ultimi trent’anni ha mantenuto un livello produttivo che non supera il 10%. Per questa fase di transizione al socialismo, vorremmo mantenere un certo equilibrio fra l’investimento privato – nella piccola e media impresa e nelle cooperative-, la proprietà di stato e quella comunale. Vorremmo che quest’ultima, in tendenza, crescesse fino a ridurre e sostituire le altre due. Nel frattempo, cerchiamo di favorire un’alleanza virtuosa fra lo stato e i piccoli imprenditori che intendono investire nel paese. In una prospettiva gramsciana.
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VENEZUELA
Il resoconto annuale del Presidente della Repubblica, Hugo Chavez di Attilio Folliero, Caracas
Il
presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Hugo Chávez, ha presentato al Parlamento il resoconto annuale. Con un discorso trasmesso a reti unificate da tutte le televisioni venezuelane (pubbliche e private), Hugo Chávez ha fornito un quadro dettagliato della situazione economica, politica e sociale del paese. Il discorso di Chávez, come ogni anno, ha letteralmente paralizzato il paese, immobilizzando davanti alle TV milioni di venezuelani. Del lungo intervento, durato circa dieci ore, ci limitiamo a mettere in evidenza gli aspetti di maggiore interesse. Il settore sociale Dalle tante cifre snocciolate è emerso chiaramente l’impegno sociale del governo; gli investimenti nel settore sociale (educazione, salute, previdenza, ecc…), durante gli ultimi tredici anni sono stati pari a 468.618 milioni di dollari, oltre il 62% del bilancio statale; in precedenza tutti gli investimenti pubblici nel settore sociale non superavano il 30% del bilancio. Gli investimenti nel sociale
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influiscono direttamente sull’indice di Gini. L’indice che misura la disuguaglianza di un paese; oggi, tale indice è sceso a 0,39 e fa del Venezuela il paese meno disuguale dell’America Latina. Ma sono tanti gli indicatori positivi del Venezuela. Con oltre due milioni di iscritti all’Università, il Venezuela è al secondo posto tra i paesi del continente americano e al quinto posto in assoluto al mondo per quanto riguarda gli indici di frequenza universitaria; tale obiettivo è stato raggiunto grazie a una capillare diffusione delle università sull’intero territorio nazionale. Oggi esiste almeno una sede universitaria in ogni municipio (equivalente alla nostra provincia). Un altro dato importante è quello relativo all’indice di povertà che riguarda oggi il 27% delle famiglie a fronte del 60% iniziale; anche la povertà estrema è scesa dal 30% al 9%. Chavez, sottolineando la difficoltà di diminuire ulteriormente tali indici, ha lanciato quattro importanti iniziative per sradicare la povertà dal Venezuela. Per alcune fasce sociali, come anziani e ragazze madri sono
partite, sul finire del 2011, due iniziative specifiche: garantire agli uomini con almeno 60 anni e alle donne con almeno 55 anni una pensione, anche se non hanno mai versato contributi, e alle ragazze madri, con figli minorenni a carico, un sussidio economico e piani di formazione professonale. Alle famiglie con figli portatori di hándicap è garantita l’assistenza economica dello stato. Infine, è stata avviata l’ultima grande missione, quella tendente a sradicare la disoccupazione. Sebbene la disoccupazione in Venezuela non rappresenti un problema grave, aggirandosi attorno al 6-7%, l’obiettivo è quello di arrivare alla piena occupazione. Venezuela, paese in crescita economica Il Venezuela è un paese in forte crescita economica. Nell'ultimo anno, il PIL è cresciuto di oltre il 4% e nei prossimi 5 anni, il governo punta ad una crescita di almeno il 7% annuo. Lo sviluppo economico del paese è incentrato su quattro grandi settori: il settore agricolo, con l’obiettivo di raggiungere la piena indipendenza alimentare e
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di non dipendere più dalle importazioni, almeno per quel che riguarda i principali prodotti agricoli; il settore petrolchimico, in cui il Venezuela ha grandi potenzialità; il settore minerario con le enormi riserve di alcune tra le più importanti materie prime come bauxite, ferro, oro, diamanti, ecc; e, ovviamente il settore che apporterà il maggiore sviluppo economico al paese, quello petrolifero. Nel 2011 il Venezuela è diventata ufficialmente la prima riserva petrolifera del mondo, con 297 miliardi di barili, riserva destinata a crescere ulteriormente nei prossimi mesi/anni, essendo in corso altri studi per certificare le effettive riserve della zona dell’Orinoco. Oggi il Venezuela produce 3 milioni di barili al giorno, che diventeranno 3,5 milioni nel corso del 2012, 4 milioni nel 2014 e 6 milioni nel 2019. A tal fine saranno investiti nel settore petrolifero 200.000 milioni di dollari da qui al 2019, sia attraverso investimenti venezuelani, che attraverso imprese straniere; tutte le principali imprese del mondo stanno sviluppando piani di investimento in Venezuela, compresa
la ENI italiana. Anche l’incremento del turismo internazionale inciderà sullo sviluppo del paese. Nell’ultimo anno sono stati quasi 600.000 gli stranieri che hanno visitato il paese e l’obiettivo dichiarato dal presidente è di arrivare quanto prima al milione. Il discorso di Chavez ha toccato ogni settore della vita economica e sociale del paese. A noi pare importante segnalare il successo raggiunto nel far scendere gli indici dell’inflazione. Oggi in Venezuela l’inflazione è ancora molto alta, con una media del 22%; tuttavia, come evidenziato dallo stesso Chavez, negli anni precedenti alla sua gestione l’inflazione era del 6080% annuo, con punte, in alcuni periodi, che superavano il 100%. Il problema della delinquenza e dell’impunità Uno dei gravi problema del paese è quello della delinquenza per affrontare il quale, oltre ai massici interventi sociali, si ritiene di intervenire con la nuova Polizia Nazionale, creata due anni fa ed in fase di diffusione capillare su tutto il territorio. Precedentemente non esisteva
una polizia nazionale ma diverse polizie, cittadina, municipale e statale. Tanti corpi di polizia locale, facilmente infiltrati dalla delinquenza e centri di illegalità e crimini: estorsioni, rapine, sequestri di persone. Una serie di misure puntano a ridurre fortemente gli indici del crimine per i prossimi mesi/anni come ad esempio quelle relative alla distruzione delle armi sequestrate. Nel 2011 queste misure hanno già dato risultati positivi con il sequestro e la distruzione di oltre 140.000 armi, contro le circa 30.000 degli anni precedenti. Inoltre, è stata avviata una nuova politica carceraria attraverso la creazione di un apposito Ministero che punta all’umanizzazione delle strutture penitenziarie. Una delle principali cause della delinquenza è, tuttavia, da ricercare nell’impunità. Chi commette un delitto, a qualsiasi livello, sa di avere grosse probabilità di farla franca.
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Opzione preferenziale per i ricchi
Privatizzare gli utili, nazionalizzare le perdite dell’elite globalista di Tito Pulsinelli (Venezuela)
S
ono gli stessi, sempre gli stessi che ieri l’altro promettevano la moltiplicazione dei pani, dei pesci e delle caldarroste, oggi impongono l’etica anoressica e rigori spartani a destra, a manca e in basso. Solo in basso, mai in alto. I vedovi precoci della ”globalizzazione” redentrice, sono gli attuali apologeti delle penitenze coattive e progressive, su scala di massa. Con immutato fervore mistico, i prestigiatori - diventati becchini affondano i ferri teraupeutici che, secondo loro, hanno valenza e versatilitá universale. Applicabili in ogni tempo e luogo del globo terracqueo, in Africa e nella periferia europea. A Buenos Aires, a Mosca, a Cittá del Messico, a Cittá del Capo, Atene e Roma. Sarebbe lo spirito dei “nuovi” tempi, compiaciuto di rappresentarsi come ineluttabile e inquestionabile, come una nuova legge di gravità. La congerie di “rappresentanti” che ormai non si cura piú di fare il minimo indispensabile per conservarsi come “opposizione” apparente, partecipa voluttuasemente allo spettacolo della penuria e del disinganno. Dopo l’apologetica delle vacche grasse globalizzate, eccoli ora con il saio dei salvatori e la spocchia dei rifondatori, mentre si danno alla spoliazione della terza età e del terzo Stato. Se ne fottono persino della logica e sfidano il senso del ridicolo. Come sia possibile “creare lavoro” minimizzando la quantitá di salariati e falcidiando il reddito delle 52 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
famiglie, non è dato di sapere. È indispensabile la fede, una granitica fede nelle virtú teologali della “liberalizzazione”, che tutto vede e tutto può. Anche promettere la “ripresa” nel mentre abbatte i consumi e bastona la domanda. Può tutto e il contrario di tutto. Può spararle davvero grosse il dotto pifferaio magico: farò crescere l’economia del 10% ! Ullalá, davvero? Peccato che il FMI lo bacchetti immediatamente: “please, stai schiscio, se tutto va bene, meno 2,2%”. La Teologia della Liberalizzazione si fonda sulla regola aurea di privatizzare gli utili e socializzare le perdite dell’elite. Concentrare i guadagni, collettivizzare i deficit delle banche e delle borse. La Giunta Provvisoria Globalista dopo aver nazionalizzato i danni prodotti da questa devianza sociale d’alto bordo, a colpi di decreti d’emergenza -stile Menem in Argentina o Salinas de Gortari in Messico - si appresta a portare fino alle estreme conseguenze la sua opzione preferenziale per i ricchi. Privatizzare, pardon “liberalizzare”, deregulation, poi di nuovo concentrazione monopolistica privata. Il liberismo è incapace di creare lavoro e sviluppo. La breve e infausta storia della “globalizzazione” lo dimostra. L’espatrio delle strutture produttive ha ingigantito e concentrato il potere in mano a pochi grandi monopoli bancari privati. Cittadini e consumatori ne pagano il prezzo, ancor piú sala-
to d’ora in avanti. Il pifferaio magico agita il drappo rosso contro tassisti, avvocati, camionisti, farmacisti, e come un improvvisato torero spera che si scornino tra di loro. In realtá, il nucleo strategico della contesa sta in tutto quello che passerà in sordina sotto l’arbitrio discrezionale, ovattato e assoluto di imprecisate “authority” (sic). Catricaqui catricalá, l’arrosto sta tutto lá. Questi club osannati dai globalisti e dai loro servi piú sciocchi avranno mano libera per la deregulation. Banditori di aste per aggiudicare gli ultimi settori portanti dell’economia pubblica. Eliminarli, significa cancellare l’unica vera concorrenza per i monopoli e multinazionali private, l’unica che differenzia una nazione da un “espressione geografica” (Metternich dixit), la sovranità relativa dal vassallaggio nel decadente protettorato atlantico. L’utopia oligarchica degli “Stati Uniti d’Europa” (sic) è un’eclisse marcata dalla luna irrimediabilmente mancante. Solo i fessi comprano cose inutili o inservibili. Gli altri, ingurgitano solo roba sostanziosa di gran valore, dopo indispensabili deregulation, durante svendite all’asta con imprimatur omnicomprensivo delle ”authority”. Poi c’é la fase-due: scorporare, spezzettare, depurare, trasferire, decimazione dei salariati, finalmente fusioni, sinergie, “delocalizzazioni” e... riaccorpare in nuovi e rigogliosi monopoli privati, generalmente stranieri. Nell’ultimo ventennio è avvenuto a Buenos Aires, Brasilia, Caracas e altrove. A Mosca, un oligarca
venuto dal nulla comprò con la miseria di 600 milioni di svalutati dollari le maggiori riserve di idrocarburi del pianeta, con i relativi impianti di estrazione, raffinerie ed oleodotti. Questo è “fare impresa”? Oggi, peró, dopo aver messo le varie Giunte (militari e non) nella condizione di non nuocere, buttando nel cestino il lessico concettuale dei bassifondi della finanza, l’America latina – al pari di tutte le potenze emergenti dei BRIC - continuerà a crescere del 3,5% nell’anno attuale. Parola del FMI. Nel 2011 i venezuelani hanno ricevuto salari e pensioni rivalutate automaticamente del prezzo dell’inflazione. Percepiscono pensioni anche le casalinghe e coloro che non avevano tutti i contributi in regola. In Brasile, con il programma “Borsa per la famiglia”, 12 milioni di famiglie hanno ricevuto un reddito minimo, accedendendo al ruolo di consumatori, a sostegno della produzione nazionale. La redistribuzione sociale è possibile, basta nazionalizzare le banche e smettere di sovvenzionarle. Bisogna ridare diritto di cittadinanza a parole come popolo, sovranità, diritti collettivi, alle banche centrale sotto il controllo statale, ecc. Nell’Europa ridotta a campo di sperimentazione della BCE, con una classe dirigente autoeletta, puro e semplice esecutore della dittatura finanziaria, persino il povero Keynes è assimilato a un pericoloso sovversivo. Ahinoi, beati i popoli che non sono governati dagli economisti. Beati i popoli che li mandano a casa al più presto. febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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Joa Pedro Stedile sul Forum Social di Porto Alegre 2012
Abbiamo bisogno di unità e di mobilitazione sociale a livello nazionale e internazionale 1. I l For u m s o c i a l e Per 5 giorni centinaia di militanti sociali, organizzazioni e intellettuali si sono riuniti a Porto Alegre per dar vita a numerose discussioni e dialoghi tutti centrati sulla crisi capitalista mondiale e le sue conseguenze su ambiente e popolazioni.
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L'evento realizzato tra il 24 e il 29 di gennaio non ha avuto la stessa risonanza né la partecipazione di massa di altre occasioni. Non era un Forum mondiale, era solo un forum internazionale, tematico, focalizzato su crisi e ambiente. La partecipazione è stata quindi più militante e rappresentativa.
Ci sono state decine di riunioni, laboratori, seminari e discussioni, tra le più diverse reti internazionali e articolazioni sociali. Da qui è scaturita la sua importanza nel continuare a essere uno spazio di esposizione di idee, di discussione e dialogo tra diverse organizzanizzazioni e visioni del mondo.
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A sinistra, foto di Gaia Squarci: In the Land of the Landless (Miranhao, Brasil)
MOVIMENTO SEM TERRA
Brasile, gennaio 2012
2. U n i t à n e l l ' a n a l i s i d e l l a c o n g i u n t u ra Il risultato del dialogo è che si è trovata una profonda coincidenza nelle analisi e valutazioni tra i più diversi movimenti sociali presenti (di Brasile e America Latina e alcuni europei), intellettuali impegnati con il popolo, organizzazioni della società civile e militanti anonimi, ma molto combattivi. Tutti hanno concordato sul fatto che siamo all'inizio di una crisi, che durerà a lungo, una crisi strutturale del capitalismo, ora globalizzato, capitanato dal capitale finanziario e dalle sue corporazioni transnazionali. Che gli stati nazionali e i loro governi sono alla mercè degli interessi
del grande capitale, e, in certo modo, con le mani legate di fronte alla necessità di prendere misure effettive che possano risolvere la crisi senza colpire i lavoratori. Tutti hanno concordato sul fatto che, di fronte alla crisi, le grandi imprese capitaliste, le loro banche e corporazioni e i loro governi nazionali stanno adottando le seguenti strategie: a) Utilizzare le risorse pubbliche a loro vantaggio e così mitigare la crisi; b) Provocare conflitti bellici regionali per generare domande al complesso industrialemilitare; c) Reprimere possibili mobilitazioni popolari, come si sta facendo in tutti i paesi dove ci
sono mobilitazioni, compresi Stati Uniti e Europa; d) Appropriarsi di risorse naturali, privatizzandole a favore delle imprese, per trasformare il capitale fittizio in patrimonio, beni effettivi, e, nella prossima tappa, trasformarli in profitti straordinari; e) Trasformare i paesi dell'emisfero sud in meri esportatori delle materie prime per le loro necessità; f) Accrescere la disoccupazione nell'emisfero nord, soprattutto tra i giovani e i lavoratori delle industrie; g) Progettare di utilizzare la conferenza di Rio + 20 come palcoscenico internazionale per dire che sono interessati alla sostenibilità e creare un nuovo
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marchio legale che gli dia credibilità per appropriarsi delle risorse naturali, con quella che è stata chiamata "economia verde" e continuare ad accumulare profitti, colorati di verde. 3. L e p r o p o s t e u n i t a r i e per af fr o n t a r e l a c r i s i . Di fronte a questa situazione, si è realizzata a Porto Alegre, come ultima attività del Forum, una importante assemblea internazionale dei movimenti sociali, che ha prodotto un documento di analisi e un accordo unitario per: a) Denunciare gli stati e i governi che stanno operando solo in favore del capitale; b) Denunciare questa maschera dell'economia verde, che è un'esca per nascondere la vera causa dei problemi ambientali che sono presenti in tutto il mondo; c) Avere chiaro che i principali nemici del popolo, in questa tappa del capitalismo, sono il capitale finanziario, le imprese transnazionali e i processi di militarizzazione e repressione che ci sono nei paesi; 56 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
d) Lottare per una vera democrazia, che superi la mera rappresentatività formale, la manipolazione che i capitalisti stanno realizzando in relazione ai governi e costruisca nuove forme di partecipazione popolare ai destini dei paesi: e) Sforzarsi per realizzare grandi mobilitazioni di massa in tutti i paesi, contro i nemici comuni, unica forma per poter modificare la correlazione di forze attuali; f) Difendere le risorse naturali dei nostri paesi, come questione di sovranità nazionale e popolare, di fronte all'offensiva e all'appropriazione privata del capitale; g) Esigere dai governi politiche pubbliche di protezione degli interessi della maggioranza della popolazione, in particolare i più poveri e i lavoratori; h) Realizzare sforzi per affrontare il monopolio dei mezzi di comunicazione di massa, che in tutti i paesi manipolano le masse e distorcono le vere cause della crisi e le sue gravi conseguenze per l'umanità; i) Raddoppiare gli sforzi per costruire l'unità tra tutte le forze sociali nei nostri paesi e
a livello internazionale, unica forma per affrontare la forza del capitale; j) Programmare il 5 giugno come grande giornata mondiale in difesa dell'ambiente e contro le transnazionali; k) Organizzarsi per realizzare, tra 18 e 26 giugno, a Rio, una grande mobilitazione mondiale, con un accampamento permanente, dando vita a un vertice dei popoli, in contrapposizione al vertice dei governi e del capitale. Come potete vedere, gli spazi a Porto Alegre sono stati molto fertili per la costruzione di convergenza a unità di propositi. Ora, si spera che tutte le forze coinvolte in Brasile, in America Latina e in tutto il mondo realizzino gli accordi programmatici. Joao Pedro Stedile Portavoce dei Movimento dei Sem Terra brasiliano, discendente di emigrati italiani del Trentino nel Rio Grande Do Sul
(Traduzione di Serena Romagnoli)
APPROPRIAZIONE INDEBITA DI UNA LINGUA E DISSIMULAZIONE DELLA REALTÀ
di Daniela Ricci
L’ideologia neoliberista in salsa italiana, nel tentativo di imporsi definitivamente come pensiero unico dominante, sta mettendo in atto una colossale opera di appropriazione indebita della lingua italiana, usando lo strumento linguistico a fini mistificatori.
“
All’inizio era il verbo”, potremmo chiamare così questo sfacciato piano di mistificazione sostenuto dai media embedded al servizio delle elites finanziarie, che vuole “ribattezzare” le cose chiamandole non più con il loro nome, ma con vocaboli non pertinenti, proprio al fine di dissimularne la vera sostanza. Servirsi delle parole per nascondere la realtà significa, di fatto, renderle un semplice involucro, atto a coprire una sostanza che spesso le contraddice. Il tutto per arrivare a propinarci anche l’inverosimile. È un vero e proprio sequestro del vocabolario italiano a fini di lucro, dove la posta in gioco è la salvezza di un sistema economico in crisi, quale febbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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Foto: dettaglio di un’opera di Alighiero Boetti (www.alighieroboetti.org)
è quello capitalistico, e degli enormi interessi economici e finanziari ad esso correlati. Gli albori di questo processo di stravolgimento della nostra lingua furono ai tempi della “guerra umanitaria” in Kossovo , combattuta nel 1999, anche in nome del popolo italiano, nostro malgrado, proprio facendo leva su quell’ossimoro permanente che associa la guerra alla difesa dell’umanità e che consentì al governo D’Alema di aggirare l’articolo 11 della Costituzione, (“L’Italia ripudia la guerra”). Nel 2001 e nel 2003 è stata poi la volta della “guerra preventiva”, dichiarata, anche in nome del popolo italiano, rispettivamente, contro Iraq ed Afghanistan, prima che “il nemico” (Saddam Hussein nel primo caso, Bin Laden, nel secondo) potesse nuocere all’Occidente. Si è trattato, in entrambi i casi, di guerre giustificate come interventi necessari, per difendersi da un “nemico” che, si diceva, fosse in possesso di armi di distruzione di massa (nel primo caso) o che si additava come il responsabile degli attentati alle Torri Gemelle di New York (nel secondo caso) e che, quindi, doveva essere attaccato prima che potesse agire contro di noi. Poco importa se poi non si sia riusciti a dimostrare né che Saddam Hussein possedesse quel tipo di armi, né che Bin Laden fosse il mandante dell’attentato alle due Torri, l’essenziale era far passare la guerra come cosa buona e giusta. In realtà, queste due guerre si sono rivelate, negli anni, due terribili esperimenti sull’umanità, che hanno costato moltissimo, non solo in termini di vite umane, ma anche in termini di annichilimento delle coscienze, neutralizzate proprio grazie ad una campagna mediatica, che ha fatto del linguaggio uno dei principali strumenti di distorsione della realtà. Guerre micidiali, che hanno provocato milioni di vittime, sono state fatti passare, infatti, agli occhi dell’opinione pubblica italiana e mondiale, come 58 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
inevitabili, grazie non solo alla falsificazione degli eventi, ma anche alla mistificazione linguistica. Lo stesso copione è stato replicato recentemente con la guerra in Libia, altra “guerra umanitaria”, combattuta, di fatto, anche dall’Italia, in difesa dei “civili libici” “bombardati”, si diceva, dal dittatore Gheddafi. Poco importa se quest’ultima cosa non sia stata mai dimostrata, né che altri civili libici siano morti sotto le nostre, innumerevoli, micidiali, bombe, perché l’appellativo di “umanitaria” è in grado non solo di giustificare, ogni volta, l’inizio di una guerra, ma anche di coprire la drammaticità che è connaturata ad essa. Ed è importante dire che se le guerre in Kossovo, in Afghanistan e in Iraq, hanno suscitato un coro di reazioni contrarie da parte dell’opinione pubblica, lo stesso non può dirsi per la guerra in Libia, che è stata combattuta nel silenzio, pressoché totale, del mondo pacifista, a riprova di come, a distanza di nove anni dalla guerra in Iraq, si sia prodotto, nel tempo, un forte annichilimento delle coscienze, che risultano ormai, evidentemente, prive di qualsiasi strumento di analisi obiettiva della realtà, tanto che quest’ultima è stata riconosciuta come “guerra necessaria”, quasi all’unanimità dall’opinione pubblica italiana e mondiale. Come tutte le guerre, anche quelle combattute in questi ultimi tredici anni, oltre a portare distruzione e morte, hanno gettato le basi per la ricostruzione, sia in termini di infrastrutture, scuole, ospedali, ecc.., nei paesi interessati, sia in termini di ristabilimento di condizioni favorevoli per chi le ha volute e progettate: USA, Francia, Inghilterra. Si sono gettate, cioè, le basi per nuovi colonialismi, anticamera di un nuovo ordine mondiale, e tutto questo è passato davanti ai nostri occhi, ogni volta, come un’operazione “umanitaria”, grazie al supporto dei media, che avvalendosi di immagini e parole falsate coprono quello che appare, a tutti gli effetti, un tentativo di restaurazione di vecchi
modelli di sviluppo, di vecchi rapporti di potere, sebbene ammantati di nuovo. La mistificazione linguistica gioca un ruolo importantissimo in tutto questo, contribuendo alla falsificazione delle cose e degli eventi, alla tessitura del nuovo abito con cui si cerca, ad ogni costo, di imbellettare il capitalismo (e i suoi risvolti imperialistici) e di renderlo accetto ai più, nonostante sia ormai evidentemente un sistema economico fallito. Questo ruolo di persuasione delle masse è affidato alla mistificazione linguistica, non solo per convincerle della necessità/inevitabilità di un conflitto, ma anche per far loro accettare manovre finanziarie “lacrime e sangue”, come quella, nel contesto italiano, voluta dal governo Monti, che di quel pensiero unico, che vuol farsi dominante incontrastato, è uno dei principali paladini. Con la manovra “Salva Italia” ha preso forza, infatti, non solo il ricorso a neologismi che nascono dall’accostamento di sinonimi e contrari, a cui siamo ormai, sembra, assuefatti, ma anche l’uso improprio del lessico, che è chiamato, spesso, ad esprimere cose che non corrispondono, nella sostanza, al suo significato. Così, il sostantivo “equità”, dal latino equus (=eguale), sinonimo di giustizia, è usato dal Presidente del Consiglio e dal ministro del Lavoro Fornero per esprimere un concetto che nulla ha a che vedere con l’etimologia della parola. Con la manovra “Salva Italia”, infatti, la parola “equità” significa “equiparare”, “uguagliare”, abbienti e meno abbienti, lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari, ma non secondo giustizia e reale uguaglianza, come suggerirebbe la parola, perché, se così fosse, ci dovrebbe essere una equa ridistribuzione della ricchezza. Invece, questo uso fuorviante del lessico, fa diventare“equo” togliere un po’ di soldi a tutti, abbienti e meno abbienti; poco importa se sottrarli ai primi non abbia lo stesso valore che toglierli ai secondi, vista la disparità dei redditi, ciò che conta è propi-
nare questa operazione come cosa buona e giusta, proprio ricorrendo all’appellativo di “equa”. Allo stesso modo si mira ad “equiparare” lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato, preannunciando un contratto unico a tempo indeterminato per tutti (detta così la cosa sembra estremamente vantaggiosa agli occhi dei milioni di precari italiani!); ma, in realtà, questo tipo di contratto non darà più garanzie a nessuno, chiedendo, in cambio, ai lavoratori, maggiore flessibilità, sia in entrata che in uscita. Ciò che conta è sempre e solo propinare questa come cosa “equa”, sebbene si tratti di un’ equità al ribasso, ossia significhi, in realtà, meno diritti per tutti. Il concetto di equità, nell’accezione voluta dal governo Monti, si riallaccia a quello di privilegio: equiparare, per esempio, lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari significa, dal punto di vista neoliberista, sanare il dislivello tra chi è detentore di “troppi” diritti e, quindi, secondo questa ottica, è un “privilegiato”, e chi non ne ha affatto; di conseguenza, ristabilire una situazione “equa” viene a significare togliere i diritti a chi ne ha e non estenderli a chi non ne ha. Per propagandare questo grande passo verso l”uguaglianza sociale” la ministra Fornero e tutti quelli che la consigliano e la sorreggono in questa ardua impresa sono ricorsi ad un altro neologismo, questa volta d’importazione: flexsecurity, ossia flessicurezza, che coniuga ancora una volta due termini antitetici come flessibilità e sicurezza. Nello specifico: flessibilità nei contratti di lavoro e sicurezza del reddito. In realtà, per i giovani, e non solo, ciò significherebbe sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo indeterminato, sapendo, però, già in partenza di poterlo perdere da un momento all’altro(?!). Un neologismo, dunque, che nasconde un’amara realtà e illude i giovani disoccupati che troverebbero il posto di lavoro “semplicemente” rendendosi flessibili a vita, in cambio di un sussidio di disoccufebbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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pazione che durerebbe solo pochi anni e solo accettando di sottoporsi ad una formazione continua non legata alla “libera” esigenza di apprendere e di progettare la propria esistenza, ma finalizzata esclusivamente al fabbisogno a breve termine dell’impresa, ovvero dei mercati che tutto dirigono: una vera e propria precarizzazione della vita di milioni di persone (come se già non lo fossero abbastanza!).Ma ciò che conta, come al solito, è far passare questa come cosa buona e giusta e, soprattutto, necessaria, per aumentare la competitività e l’ammontare di merci prodotte e dare così (sic) un futuro ai giovani. Per completare l’opera, cioè sempre per favorire crescita e sviluppo, si va all’attacco dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che, si dice, impedendo i licenziamenti senza giusta causa, rappresenta un “laccio” alla competitività delle aziende, facendo così passare l’idea che se in Italia non si trova lavoro la colpa è della rigidità del nostro mercato e la mancanza di competitività dipenda da questo e non da delocalizzazioni e mancanza di investimenti nella produzione di beni reali! Tuttavia, questa campagna mediatica, che si nutre di neologismi e di un uso “illegittimo” del lessico, è in grado di dissimulare la realtà delle cose, ossia che entro il 2012 si perderanno ben 800.000 posti di lavoro, grazie a delocalizzazioni e fughe di capitali… Allo stesso modo si è proceduto con la riforma delle pensioni, costringendo milioni di lavoratori a prolungare di cinque anni la loro permanenza al lavoro, per favorire, si è detto, l’ingresso dei giovani: una cosa assolutamente priva di logica; ma chi non vuole bene ai propri figli e ai propri nipoti? Ed è proprio su quest’ultima cosa che hanno fatto leva i nostri governanti: l’ importante è che falsando la realtà, contro ogni logica, questa operazione sia passata come cosa buona e giusta. Si è proceduto, poi, col “Decreto Liberalizzazioni”. Liberalizzare. Dall’enfasi e dall’entusiasmo con cui si pronuncia questa parola sui media, sembra che potremo diventare tutti più liberi: il tassista potrà avere più licenze, l’edicolante potrà vendere anche bibite e caramelle, i fornai potranno aprire anche la domenica e noi consumatori potremo uscire a tutte le ore a fare shopping e
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avere l’imbarazzo della scelta della farmacia dove acquistare le medicine o dell’avvocato a cui rivolgerci in caso di necessità; così cresceranno PIL, salari e consumi. Ma dove sono i consumatori che acquisteranno questa pluralità di offerte di beni e servizi? Dunque: cosa c’è dietro quest’altro bel quadretto che appare quasi ogni giorno su giornali e TV? Le liberalizzazioni, in realtà, non produrranno niente di socialmente utile, ma prepareranno solo l’arrivo di multinazionali e grandi monopoli, per lo più stranieri, che distruggeranno la microeconomia e costringeranno tutte queste categorie di “privilegiati” (tassisti, farmacisti, ecc..) a chiudere i battenti e a trasformarsi in salariati a basso costo, per poter sopravvivere. Come già è avvenuto con il commercio al dettaglio. Ma questa amara realtà, che incombe alle nostre porte, ci viene, ogni giorno rivenduta attraverso l’uso improprio dei vocaboli, attraverso, cioè, la fondazione di un nuovo linguaggio, completamente falsato, una vera e propria “appropriazione indebita” della nostra lingua, che ci fa apparire come necessarie e inevitabili certe scelte, proprio come quando è stata dichiarata guerra in nostro nome, dietro lo slogan di “guerra umanitaria” o “preventiva”. Purtroppo, anche questa volta, di guerra si tratta, una guerra economica, però, scatenata dal cosiddetto libero mercato (sarebbe meglio dire da chi lo guida e lo dirige), che di fatto è padrone assoluto del globo; esso (essi) si muovono abilmente su due fronti: quello della guerra combattuta con armi vere (Afghanistan, Iraq, Libia e poi… chissà! Siria, Iran?) e quello della guerra del debito, che prima ha contribuito a incentivare e a creare e che ora sta usando per arrivare ad impadronirsi definitivamente dei beni pubblici, della vita (e della capacità di pensare) di ognuno di noi. Se, come dice Wittgenstein, gli esseri umani sono fatti di lingua, una grande azione di demistificazione – e di salvaguardia della linguaggio e della logica – sarebbe una delle azioni di autodifesa sociale e biologica da mettere in campo al più presto. A partire dalle scuole. Daniela Ricci, insegnante
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segnalazioni
FRANCOIS MORIN, UN MONDO SENZA WALL STREET? di Andrea Sartori Quando nel 2008 il Fondo monetario internazionale valutò le perdite globali durante la crisi dei subprime in 400 miliardi di dollari, e alzò la valutazione, già all’inizio del 2009, a ben 4.000 miliardi per il solo mercato americano, era chiaro che la massima istituzione monetaria non aveva chiare le proporzioni di quanto stava accadendo. La sottovalutazione del fenomeno ha condotto a fornire delle spiegazioni della sua origine, che non ne hanno colto la portata strutturale e hanno limitato fortemente le contromisure. François Morin, professore emerito di scienze economiche all’Università Touluse-I ed ex membro del Consiglio Generale della Banca di Francia, scrive cha va messa a fuoco l’autentica radice del problema: la finanza ha cessato da tempo di essere una risorsa per l’economia reale ed è divenuta un generatore di bolle speculative, dipendente dagli interessi di precisi oligopoli bancari e delle più agguerrite società di borsa. Wall Street avrebbe pertanto perso la sua funzione principale, al punto che solo smantellarla e sostituirla con una politica monetaria e fiscale internazionale, e con una profonda revisiofebbraio 2012, CAMBIAILMONDO
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ne della governance delle imprese di capitali, metterebbe al riparo gli Stati, le aziende e il lavoro dalle smodate pretese di arricchimento di una finanza ipertrofica. Un’utopia, certo, ma «concreta», come Morin non cessa di ripetere, poiché attrezzata sia sotto il profilo diagnostico, sia sotto quello propositivo. Le liberalizzazioni dei tassi di cambio e d’interesse, avvenute rispettivamente negli anni settanta e ottanta, sono state la premessa della nascita di un mercato connesso alla copertura dei rischi, consistente nel trading di quei prodotti derivati rispetto ai quali ancor oggi il G20 non ha preso delle decisive risoluzioni, pur essendo divenuti proprio essi – in particolare i Credit default swaps – il primo «focolaio d’infezione» che tiene in scacco gli Stati e che ne mette a rischio la solvibilità. Sono d’altra parte proprio i derivati, in origine nient’altro che dei contratti d’assicurazione contro i rischi di fluttuazione dei tassi, a fungere circolarmente da riferimento per fissare il livello dei medesimi tassi di interesse ai quali gli Stati devono prendere a prestito le loro risorse sul mercato finanziario: qui è evidente che il capitalismo finanziario è divenuto del tutto autoreferenziale, e che un intervento regolativo una tantum non è risolutivo della sua patologia. L’altro aspetto fuori controllo di questo capitalismo, secondo Morin, è lo strapotere assunto dai grandi azionisti delle aziende capitalizzate, i quali possono pretendere a priori delle rendite insensatamente elevate, da tra62 CAMBIAILMONDO, febbraio 2012
durre a proprio esclusivo vantaggio in corposi dividendi. É la sottomissione della creazione del valore aggiunto alla logica dello shareholder value, dove lo shareholder – l’azionista – è per lo più espressione, in ultima istanza e ancora una volta, di un’oligarchia bancaria. Ritenere che la crisi, esplosa in Europa in concomitanza con il fallimento di Lehman Brothers, possa essere superata tenendo a bada le banche too big to fail, cioè ripristinando una sana concorrenza nel settore, è per Morin una pia illusione, poiché la finanziarizzazione dell’economia ha reso quest’ultima un fine in se stessa, non un mezzo per degli scopi, falsando a vantaggio di pochi la nozione stessa di concorrenza. Anche l’idea secondo cui la crisi è stata causata da un’eccessiva assunzione di rischi da parte degli speculatori, e che quindi basterebbe rendere più trasparente il mercato dei derivati per ritornare a una situazione di equilibrio, non revoca il contestabile dogma, secondo Morin, del neoliberismo contemporaneo: «non esiste finanza liberalizzata senza mercati di prodotti derivati». Quello richiesto non è dunque un ritorno alla «concorrenza» o all’«equilibrio», come vuole la teoria economica standard, fiduciosa nella capacità auto-regolativa dei mercati, ma un radicale cambiamento di paradigma, che incida davvero sulle pratiche dell’economia. In caso contrario, le soluzioni potrebbero tutt’al più apporre una pezza ai problemi del presente, consentendo allo status quo di sopravvivere in
qualche modo fino alla prossima letale crisi, in una sorta di automatismo post-mortem dell’economia mondiale, come accade a «un’anatra zoppicante a cui è stata tagliata la testa, ma che continua a correre». Il punto è: fino a quando? Morin non si limita a vagheggiare una riprogrammazione intellettuale degli economisti, e ad auspicare che la politica democratica diventi il faro della sfera economica, anziché esserle subordinata, ma dice anche come. Intendere la moneta come un «bene comune», giungendo per tappe a una moneta internazionale ma non necessariamente unica, basata su un paniere di monete, permetterebbe intanto di limitare i rischi di deprezzamento drastico e sgonfierebbe alla radice le manovre della speculazione finanziaria, poiché la sua costituzione non potrebbe prescindere dalla elaborazione di regole condivise sulla formazione dei tassi di interesse e di cambio, che tengano in egual conto i diritti dei creditori e quelli dei debitori. Contestuale alla riforma monetaria internazionale, dovrebbe poi essere l’avvento di una fiscalità altrettanto internazionale, che preveda l’abolizione dei paradisi fiscali e del segreto bancario, nonché la tassazione delle operazioni finanziarie sul modello dell’idea di Tobin. Secondo i dati della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), l’ammontare di queste transazioni era pari, alla fine del 2007, a circa 3.500 trilioni di dollari, di cui poco meno dell’1,6% frutto dell’economia
reale: una tassa dell’uno per mille frutterebbe pertanto 3.500 miliardi l’anno, che potrebbero essere distribuiti in modo da affrontare le sfide energetiche e ambientali globali, sostituendosi ai controproducenti esiti della cosiddetta carbon finance, ovvero del mercato correlato alle quote di emissione di carbonio, giunto a speculare anche sulla «volatilità climatica». Per quanto riguarda il superamento della logica della creazione di valore per l’azionista (shareholder value), la posizione di Morin è non meno radicale, e chiama in causa la riformulazione dei rapporti di proprietà nelle società di capitali, in modo che in una «impresa partenariale alternativa» gli utili siano equamente distribuiti tra chi apporta i fondi, il top management e i salariati, senza che una parte sia costretta ad assumersi più rischi dell’altra, come accade attualmente a scapito del lavoro. Quali sono i tempi di questa utopia concreta? Inevitabilmente lunghi, tuttavia i contraccolpi della realtà sono sempre più pressanti, e proprio per questo il libro di Morin dovrebbe essere portato rapidamente all’attenzione di un pubblico multidisciplinare, per innescare un ragionamento comune tra cittadini, politici, economisti, scienziati sociali e studiosi di diritto dell’ambiente. Recensione pubblicata su: www.sinistrainrete.info François Morin, Un mondo senza Wall Street?, Marco Tropea Editore, Milano 2011, pp. 157, 15 euro
Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società. di Valentino Parlato Nella crisi, Carlo Marx si rifà vivo. Questo di Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società, è un libro oserei dire prezioso. In ogni caso di straordinaria utilità, non solo per me che da più di quarant'anni faccio il giornalista al manifesto, ma per tutti i cittadini che vogliano capire qualcosa, non solo del mondo (Italia compresa) ma anche della propria vita. Dato per scontato che a pagare le conseguenze della bancarotta del capitale, siano sempre i lavoratori e i ceti più deboli e i singoli che non hanno un santo in paradiso (oggi l'importante di questi santi e del potere clientelare è cresciuta di molto). Ma Ciofi non si ferma, anche se analizza le conseguenze di questa crisi capitalistica, ci segnala che il capitalismo va spesso in crisi. Qualcuno pensa che non ce la faccia più, invece, dopo avere provocato danni enormi e magari guerre e, soprattutto, ridotto alla disperazione milioni di lavoratori e anche di ceto medio benpensante, poi ripiglia e torna sano e forte. Viene da dire che le crisi sono connaturate al capitalismo, come tante persone che hanno febbroni gravi e ricorrenti, ma poi si ripigliano senza neppure pagare le spese d'ospedale, tanto a pagare è sempre il povero Pantalone. Peraltro anche quando il capitalismo sta in buona salute e può frequentare alberghi di lusso non è mai lui a pagare. A governare come ha detto Chomsky è "il senato virtuale", la grande finanza, Wall Street, che tiene a bada il Congresso americano. Ma leggete questo libro, sarete presi, io, leggendolo non so più quante sottolineature ho fatto e che mi vado a rivedere. Ma a Paolo Ciofi debbo riconoscere un altro grande merito. Forse esagero, ma dico che ha resuscitato Marx. Il Marx, intensamente citato (Capitale, Critica al programma di Gotha, Il capitalismo e la crisi, Manifesto del partito comunista, L'iedologia tedesca, Grundrisse, Miseria della filosofia e ancora ) è assolutamente attuale, interviene nel nostro dibattito. Tutto il contrario di una certa, ossificata, venerazione del santone. E ancora, venendo al nostro paese, Ciofi ci richiama alla forza propulsiva che dovrebbe avere la nostra Costituzione, mutilata a piuttosto messa da parte, nel corso di questi anni, soprattutto in quelli più recenti, e quindi alle lotte della Cgil e del quasi dimenticato Pci, che pur in un mondo bipolare e in presenza della grande forza dell'Unione sovietica, non lottava per la realizzazione in tempi brevi del comunismo, ma per la realizzazione appunto della Costituzione di una repubblica "fondata sul lavoro". Insomma non voglio farla troppo lunga, leggete e rileggete questo libro sarà molto utile al vostro penare e al vostro che fare. Recensione pubblicata su «Il Manifesto», 1 marzo 2012 Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società, Editori Riuniti 2012, euro 15,00)
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