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I custodi delle vette
CampiglIO 2 - by M. Palmieri
NEL CUORE DEL PARCO NATURALE ADAMELLO BRENTA, L’ESTATE È ANCHE LA STAGIONE DEI RIFUGI CHE COSTELLANO LE NOSTRE MONTAGNE. INSIEME AI LORO GESTORI FANNO VIVERE IL PAESAGGIO ALPINO REGALANDO AI SALITORI DELLE VETTE ESPERIENZE INDIMENTICABILI.
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Una volta mi sono arrivate su delle ragazzine coi tacchi. Dove vi consiglio di andare? Al massimo tornare indietro!”. Ezio Alimonta potrebbe scrivere un libro di barzellette. Non gli servirebbe molta fantasia. Solo un briciolo di memoria, dato che in quarantasei estati ai 2580 metri del “suo” rifugio – inaugurato nel 1969 dal padre Angelo – ha visto (e sentito, al telefono) scene al limite del surreale: gente che voleva prenotare una stanza con bagno, una suite, un posto auto coperto... Lo si dovrebbe sapere: lì, nel cuore del Brenta, non c’è nulla di tutto ciò. Solo fiato e gambe per arrivarci, e un’accoglienza spartana per rimanerci un poco. In compenso, Crozzon e Tosa sembra di toccarli. E la neve perenne della Bocca d’Armi, poco sopra, è segnavia naturale per chi vuole immergersi in uno dei percorsi più affascinanti di tutte le Dolomiti: la “Via delle Bocchette”, ferrata tripartita in “Bocchette” alte, centrali e basse. Poi beh, si parla spesso del Sosat. Ma non è altro che il nome del sentiero attrezzato con cui si identificano le “basse”, dei tre il percorso più semplice. Poco distante, sulla via delle “centrali”, s’innalza una tra le montagne più belle del mondo. Non lo dicono i campigliani, ma generazioni di alpinisti che per scalare il Campanil Basso arrivano da ogni parte del globo (libro di vetta, canta). Eppure, in Brenta “possono andarci tutti, anche le famiglie con i bambini”. Non è pubblicità occulta quella di Alimonta, solo una constatazione di fatto: “In questo gruppo, ad ogni ora di cammino circa c’è un rifugio. Negli altri due no”. Basta pensarci: da Campiglio a Vallesinella sono dieci minuti di auto o di navetta. Poi cammini tre quarti d’ora massimo e arrivi al Casinei. Qui c’è l’imbarazzo della scelta. Un’ora di sentiero a sinistra e sei al Tuckett, poco di più dritto e arrivi al Brentei. In questo caso puoi proseguire, e ulteriormente scegliere se inerpicarti a sinistra verso l’Alimonta, oppure salir dritto verso la bocca di Brenta per scollinare al Pedrotti. E ancora verso l’Agostini o i XII Apostoli. Poi è sottinteso: per molti, questi rifugi sono punti d’arrivo; per altri, invece, “campi base” verso ancor più adrenaliniche esperienze. Poco importa: il Brenta si lascia vivere da ognuno secondo le proprie capacità, a tutti regala il proprio fascino dolomitico. Ma a qualcuno, più fortunato di altri, dona pure fossili marini. E gli ricorda che dove ora è roccia calcarea, fino a sessantacinque milioni di anni fa era l’oceano Tetide.
Ed un oceano esiste ancora, dall’altra parte della Rendena. Un’immensa distesa d’acqua, bianca e gelata. Sempre. Si estende sull’Adamello il maggior ghiacciaio delle Alpi italiane, protegge come una scorza il granito di quelle rocce.
Son ghiacci di confine: ora tra Brescia e Trento, fino al 1918 tra Italia e Austria. Ghiacci bagnati di sangue: teatro della Guerra bianca, porzione in alta quota del primo conflitto mondiale. E ghiacci irrorati di speranza: li solcarono nel 1984 gli sci di Giovanni Paolo II, il Pontefice che quattro anni più tardi vi tornò a celebrare la prima Messa sul granitico altare a lui dedicato. È anche questo il Passo della Lobbia, 3050 metri: un luogo della memoria, dove il filo spinato comparso esattamente cent’anni fa – nella primavera del 1916 – ancora tortura massi e ghiacci, e dove il baraccamento militare del presidio austro- ungarico è divenuto rifugio-museo “Ai Caduti dell’Adamello”. Museo di guerra, certo, ma anche memoria del Papa che vi soggiornò. “Questa montagna non mi stufa mai, la sento parte della mia vita, quando non sono qua mi manca”. Sarà forse perché Romano Ceschini, lì, la prima volta c’è salito a nove mesi. O perché dal 1959 al 1970 è cresciuto mentre il padre accoglieva alpinisti, accendeva la stufa, preparava i pasti, soccorreva chi si trovava in difficoltà. Certo è che quando ha fatto ritorno al rifugio per gestirlo in prima persona, nel 2000, l’emozione gli ha pompato un groppo in gola: “Come riaprire la porta di casa, quella dell’infanzia”. Alle “Lobbie” – ben pochi indicano l’ex caserma con il suo nome ufficiale, preferendo identificarla con le tre cime che la sovrastano – si sale dalla Val Genova. Tre ore circa di cammino per elevarsi dalla piana di Bedole al rifugio Mandrone, e più o meno altrettante da lì alla meta. Ma attenzione: chi non ha corde, picche e ramponi, è bene che non si avventuri oltre. Il ghiacciaio inizia poco sopra, i suoi crepacci non perdonano. “Una volta arrivati qui – spiega Ceschini – si può fare la traversata fi no al Carè Alto, dove c’è il secondo e unico rifugio della zona. Oppure si possono conquistare i 3539 metri di cima Adamello, la più alta del gruppo. Grande fascino ha poi sempre Cresta Croce, più veloce da raggiungere, ma non meno remunerativa”. Già. Se non altro, per ciò che da cento anni esatti custodisce: un cannone, elevato a 3300 metri sopra un oceano di ghiaccio. Ma anche una grande croce, che dal Giubileo del 2000 ha preso il posto di un vecchio manufatto ligneo. Insomma, da restare a bocca aperta. Cosa che una volta è successa davvero, e non metaforicamente. Prime luci dell’alba, ora della sveglia. Un’ospite del rifugio si alza dal letto e non riesce più a chiudere la bocca. Faccenda seria. Elicottero, ospedale. Ceschini ricorda e sorride: “Di voli per gente con braccia e gambe rotte ne ho visti a decine, ma mai mi sarei immaginato di dover chiamare l’elisoccorso per uno sbadiglio galeotto”. Che dire: tutto può capitare, sopra una certa età. E alle Lobbie, d’estate, l’avventore medio supera il mezzo secolo. Ma provate a inforcare un paio di sci d’alpinismo, e tornar lì in primavera scendendo dal Presena: tra leggiadre fanciulle e corpulenti ragazzotti, un’estate in riviera (romagnola) non sembra poi così diversamente popolata. Una cosa è certa: lì (alle Lobbie), di bambini neanche l’ombra. Tra sé e sé, pensando a Ceschini, potrebbe forse uscirsene in un “fortunato lui!” Egidio Bonapace. Che attenzione: nei piccoli vede sì il futuro della montagna, tanto che a loro – nel “suo” rifugio Segantini, quota 2373 – per qualche tempo aveva addirittura offerto la gratuità. Il problema è questo: lasci l’auto in malga Amola, sopra la Val Nambrone, e in un’ora di facile sentiero arrivi a destinazione. Ma sei pur sempre ai piedi della Presanella, nell’unico punto d’appoggio – insieme al rifugio Denza – per gli alpinisti che vogliono solleticare quella vetta da primato: 3558 metri, la più alta interamente trentina. Dunque?
“Rocciatori e bimbi, sotto lo stesso tetto, non sono incompatibili”. Ma, nell’esperienza del “padrone di casa”, ai primi “serve un po’ di pazienza”, i secondi “devono invece avere dei genitori consapevoli di non essere a Gardaland”. Insomma: era capitato che qualche esuberanza dei piccoli avesse minato il riposo degli alpinisti. E che il gestore si fosse trovato sempre lì in mezzo, a cercar di conciliare le due opposte esigenze. Ma Bonapace non è solo il rifugista del Segantini. In quel di Trento presiede l’Accademia della Montagna. E, lì, il suo mestiere è quello di sperimentare formule sempre nuove per avvicinare grandi e piccoli al fascino delle terre alte. Ecco allora che la soluzione è presto arrivata: “Abbiam tolto le singole gratuità per i bimbi accompagnati in estemporanea, ma contemporaneamente incrementato gli incentivi per i gruppi d’alpinismo giovanile”. Chiaro il messaggio: tutti sono ben accetti al rifugio, purché rispettino le regole della montagna. Ed è facile immaginarlo: lì attorno, per chi si mette in quest’ottica, Bonapace ha creato una selva di strutture didattiche. La palestrina di roccia, per esempio, ma non solo. “Sul monte Nero – spiega – una delle dorsali sotto la Presanella, ho attrezzato diverse vie di misto”. Per capirci: ora, alcuni percorsi su roccia e ghiaccio sono notevolmente più sicuri. “E a sperimentarli – aggiunge – è arrivata gente fin dall’estero”. Merito (anche) di internet, video di youtube in particolare. Fa strano. Ma capita che un gestore non abbia mai visto il rifugio del collega. A volte è solo una questione pratica: d’estate, funzionano più o meno tutti nello stesso periodo.
E il loro responsabile deve lavorar sodo, non potendo certo bighellonare per i monti. In ogni caso, non si sentono in concorrenza tra loro i “custodi” di Brenta, Adamello e Presanella. Quando gli fai la domanda, solitamente la risposta si accompagna a un cenno del capo: “No, siam troppo diversi”. Eppure, a ben pensarci, sono anche così uguali: votati tutti alla stessa causa, far “vivere” le montagne della Rendena. Uguali e diversi come il Sarca. Che nasce sbarazzino in mille rivoli, solleticando un po’ ovunque le rocce dei tre gruppi. Che pian piano vede ingrossare i due rami principali. E che a Carisolo, ormai maturo, si abbandona definitivamente all’abbraccio di un unico corso. È quasi un atto d’amore: sessanta chilometri in direzione sud-est, sboccerà nel Garda, il maggior lago italiano. •