Giovani Lavoratori 1974/1988
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Giovani Lavoratori 1974/1988
Fotografie: Jacopo Salvi Testi critici: Campomarzio Attila Bruni Annalisa Murgia Federico Mazzonelli
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Giovani Lavoratori 1974/1988 Trento Gallerie di Piedicastello 11.10 - 11.11.2013
Ideazione, organizzazione e direzione artistica: Campomarzio Fotografie di: Jacopo Salvi Comitato scientifico: Attila Bruni, Annalisa Murgia, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università degli Studi di Trento Contributo critico: Federico Mazzonelli In collaborazione con: Gi.Pro - Tavolo dei giovani professionisti della Provincia Autonoma di Trento Festival delle Professioni 2013 Con il patrocinio di: Comune di Trento Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Trento
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Si ringrazia: Fondazione Museo Storico del Trentino Gallerie di Piedicastello The HUB Rovereto Futur3 srl Un ringraziamento speciale va inoltre a tutti i giovani lavoratori che hanno preso parte al progetto. Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 presso il Centro Duplicazioni della Provincia Autonoma di Trento La presente pubblicazione è realizzata con il contributo di: Provincia Autonoma di Trento I testi riportati sono distribuiti sotto licenza Creative Commons “AttribuzioneNon Commerciale-Condividi Allo Stesso Modo 3.0 Italia” Per informazioni sulle attività di Campomarzio: www.campomarzio.name
Giovani Lavoratori 1974/1988
Giovani Lavoratori 1974/1988 Campomarzio Questo fine settimana non posso, devo lavorare Attila Bruni, Annalisa Murgia Senza titolo/Young workers Federico Mazzonelli
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Jeff Wall, Young Workers, 8 lucidi in lightbox, 1978/1983, dimensioni 1015 x 1015 mm, fotografia cinematografica, ŠEmanuel Hoffmann Foundation.
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Campomarzio Giovani Lavoratori 1974/1988
1. Giovani Lavoratori 1974/1988 prende forma da una reinterpretazione dall’opera Young Workers del fotografo canadese Jeff Wall, attraverso alcune sostanziali variazioni formali, quali la tecnica di riproduzione, il numero dei ritratti e soprattutto la selezione dei soggetti. Giovani Lavoratori 1974/1988 si sostanzia come un’opera autonoma seppur strettamente collegata al suo originale. Utilizzando una metafora musicale Giovani Lavoratori 1974/1988 si caratterizza come una cover. Se tecnicamente, infatti, il termine indica un brano musicale famoso che viene reinterpretato da un autore diverso con un arrangiamento diverso, ampliando la definizione potremmo affermare che la cover non si limita ad essere il brano o l’oggetto rifatto ma si caratterizza come prassi artistica che trova nella storia dell’arte innumerevoli precedenti. La cover quindi, come il remake, non è semplicemente la canzone, l’opera in sé, ma qualcosa di meno definito: un approccio, una pratica che si basa sul paragone e sui rimandi fra la propria identità e l’identità dell’originale1. Come in ogni cover così nelle foto che costituiscono l’opera, è necessario che tutto rimanga uguale affinché tutto cambi: le fotografie esposte devono costantemente richiamare il proprio originale e rimanervi fedeli perché è solo istituendo e sostenendo un gioco di rimandi fra l’identità del qui ed ora fotografico e l’istante storico dell’opera di Wall che Giovani Lavoratori 1974/1988 ha significato. Ogni ritratto, ogni sguardo deve rimanere uguale al suo originale affinché emerga la diversità: una differenza che non si svela nelle piccole variazioni che contraddistinguono la cover dalla copia ma va oltre, si cela nel progetto complessivo dell’opera ed emerge là dove la riflessione sposta il focus dal particolare impresso nella pellicola al mondo che definisce le identità delle due opere.
1 M. Senaldi, Cover Theory. L’arte contemporanea come re-interpretazione, Libri Scheiwiler, Milano, 1990.
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2 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
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Nelle cover le immagini si sostanziano come insieme di più istanti ed instaurano un rapporto dialettico con l’originale. In esse il passato si unisce al presente per illuminarlo, creando un’apertura verso il futuro. Le fotografie divengono dunque bagliori, aperture che a tratti, nel loro rapporto con il passato, possono forse dire qualcosa sull’oggi2. Le immagini di Giovani Lavoratori 1974/1988 sono un insieme di più istanti dati da una moltitudine di riflessioni che hanno a che fare con il qui ed ora e con il rapporto tra l’oggi e l’ieri delle foto di Wall. Giovani Lavoratori 1974/1988 è quindi, prima che una mostra, un progetto di “coverizzazione” che vuole suggerire il confronto quale categoria interpretativa principale. La pratica artistica non si ferma al dibattito sui prodotti o sulle tecniche fotografiche utilizzate ma ha la precisa finalità di utilizzare l’identità di Young Workers per aprire una riflessione sui Giovani Lavoratori 1974/1988, tematizzare una condizione che senza confronti non avrebbe identità. Il progetto Giovani Lavoratori 1974/1988 porta all’attenzione del pubblico le condizioni sociali, culturali ed economiche in cui vivono ed operano i giovani professionisti di oggi al fine di avviare un percorso dialettico il cui scopo non è giungere ad una chiusura ma, anzi, alimentare il circolo ermeneutico. Le tematiche che vengono di seguito abbozzate, vanno quindi intese in maniera interrogativa in quanto non hanno la finalità di offrire al pubblico il senso definito, chiuso e compiuto del progetto ma più che altro lo scopo di tratteggiare il continuum entro cui si sono mosse le riflessioni degli autori.
2. la classe. Vi è un primo interrogativo, fondante, che apre il progetto: è possibile oggi parlare di classe? Jeff Wall realizzò la lightbox Young Workers sul finire degli anni ‘70, in un’America ove le file dell’immigrazione erano alimentate dal sogno americano, da lavoratori che andavano ad occupare posizioni indispensabili allo sviluppo del sistema produttivo capitalistico occidentale. Una classe non solo così definita teoricamente, ma altresì percepita dalla società. Un insieme di individui che condividono condizioni economiche, sociali, lavorative, che “supportano” un’identità ed una definizione comune, quella di classe appunto. Ciò a cui l’opera di Wall in definitiva rimanda è l’esistenza di una classe operaia, formata da individui uniti da condizioni simili ma soprattutto da quel senso di comunanza, di rivalsa e lotta che, nella terminologia marxiana, ha preso il nome di «coscienza di classe». Giovani Lavoratori 1974/1988 ritrae oggi lavoratori di un mondo profondamente mutato, persone appartenenti alla knowledge class3 o, come viene definita più di recente, creative class4. L’appartenenza a questa nuova classe è stabilita su base professionale: ne fanno parte un ristretto nucleo super-creative e un più ampio gruppo di creative professionals. Imprenditori, dirigenti pubblici, manager e ricercatori, professioni tecniche ed artistiche ad elevata specializzazione, professionisti quali avvocati, architetti, ingegneri, medici, commercialisti5, ecc. che condividono un contesto lavorativo instabile e nuovo in cui l’evoluzione dei processi di produzione verso forme di subcontracting o outsourcing ha determinato il ricorso a forme organizzative particolari, atte a sfruttare al meglio le caratteristiche della forza lavoro.
3 P. Drucker, Landmarks of tomorrow: A Report on the New “Post-Modern” World, Harper & Brothers, New York, 1959. 4 R. Florida, The rise of creative class, Basic Books, New York, 2004. 5 R. Florida, I. Tinagli, L’Italia nell’era creativa, Creativity Group Europe, 2005.
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6 P. Drucker, Knowledge Work and Knowledge Society. The Social Transformations of this Century, Paper presentato alla John F. Kennedy School of Government Conference, Harvard University, 4 aprile 1994. 7 S. Bagnara, Lavoro e sistemi formativi nella società della conoscenza, Programma Education FGA working paper n°31, (4/2010), Fondazione Giovanni Agnelli, 2010. 8 M. Pedroni, P. Volontè, (a cura di), La creatività nelle professioni, Atti del convegno, Bolzano, 14 febbraio 2007.
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Nella società della conoscenza6, dove i mercati sono caratterizzati dall’incertezza, gli obiettivi non sono mai chiari e definiti e il valore del lavoro è dato dal livello di novità. Certamente bisogna sapere fare bene il proprio mestiere, ma non basta: occorre sviluppare competenza nella lettura dei contesti, una capacità culturale che si fonda su conoscenze ed esperienze antropologiche e storiche. Occorrono capacità cognitive di analisi, diagnosi, pianificazione, decision making; diventa essenziale capire e gestire le interazioni e le relazioni sociali per la negoziazione e la cooperazione così come saper gestire conflitti ed emozioni in modo efficace e coerente. Le richieste poste dal sistema produttivo non sono solo molteplici ma risultano variegate e talvolta contrapposte tra loro7. La creative class in questo contesto ha sviluppato un ethos improntato alla commistione di lavoro e tempo libero, all’individualismo, all’anticonformismo, al merito perché solo questi valori possono dare – almeno all’apparenza – l’idea, ai singoli, di una classe emergente in ascesa8. Ma se accettiamo di definire la classe creativa come contraddistinta dall’individualismo o dall’anticonformismo, com’è possibile parlare di classe? Trattare la classe creativa come classe occupazionale o come classe sociale comporta preoccupazioni e finalità analitiche molto diverse. Il problema della coscienza di classe emerge quando si considera una classe sociale come collettività concreta che, in modo più o meno consapevole, contribuisce a mantenere o trasformare l’ordine sociale; perché questo sia possibile, i membri di una classe devono condividere quel senso di comunanza che sembra mancare oggi. La trasformazione che la forza creativa dovrebbe portare nella società si sostanzia, in altre parole, in un mero volano economico, lasciando al margine i processi sociali, culturali ed economici che dovrebbero attraversare un gruppo di persone per tra-
sformarle in una classe9. Nessuna coscienza di classe quindi, piuttostosto una “incoscienza di classe” che davanti al confronto portato avanti dalla cover Giovani Lavoratori 1974/1988 chiede con forza una riflessione che a partire dall’individuo possa arrivare ad essere politica10. 3. la conoscenza, la creativita. À È difficile oggi sentirsi parte della classe creativa e forse, prima che nella difficoltà insita nello sviluppo di un sentimento di appartenenza, questa difficoltà può essere rintracciata nell’eterogeneità delle persone toccate dalla definizione. L’origine del termine “lavoratori della conoscenza” è coeva all’avvento della società postindustriale, sebbene espressioni come Kopfarbeiter in Germania o brain worker in Inghilterra emergano da alcuni scritti precedenti, ed attesta l’emergere del lavoro professionale come alternativa storica al lavoro manuale11. Il requisito principale che insiste per poter classificare una persona come lavoratore della conoscenza è il suo essere dotato di un determinato curriculum di studi: è la formal education che contraddistingue questa figura professionale. Ci deve essere un investimento preventivo e consapevole in un livello elevato di studi da parte di un individuo – dunque di una famiglia – per entrare nel mondo dei knowledge workers. Inoltre, la conoscenza di cui questa persona dovrebbe essere dotata deve permettergli non solo una grande familiarità con il pensiero astratto, ma anche una conoscenza il più possibile universale in grado di consentire al futuro lavoratore di esercitare la sua leadership negli ambienti lavorativi più disparati, di rispondere alle sfide più diverse, di muoversi con naturalezza in un’economia globale12. Insita nella definizione di lavoratore della conoscenza vi è dunque l’idea
9 P. Marcuse, Review of «The Rise of the Creative Class» by Richard Florida, in «Urban Land» vol. 62 n°8, 2003. 10 A. De Nicola, C. Vercellone, G. Roggero, Contro la creative class, disponibile all’indirizzo: http://eipcp.net/transversal/0207/ denicolaetal/it, consultato il 20/09/2013. 11 Sulle principali opere che per prime hanno indicato i caratteri di fondo di quel tipo di società rendendola comprensibile a se stessa cfr: J. Kenneth Galbraith, The new industrial Stat (1967). A. Toffler, Future shock (1970). A. Touraine, La société postindustrielle (1969). D. Bell, The coming of the post-industrial society (1973). 12 S. Bologna, I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli, in L’ospite ingrato, Quodlibet, Bologna, 2005.
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13 Voce: Professioni, G. P. Prandstraller (a cura di), in III Supplemento all’Enciclopedia del Novecento, Treccani, 2004.
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di un lavoratore che deve essere formato in modo da poter affrontare una permanente instabilità del suo posto di lavoro, deve poter sviluppare un’elevata capacità di conversione, deve essere capace di riciclarsi. È poi a partire dagli anni 2000, quando viene pubblicata l’opera di Richard Florida, The rise of the creative class, che appare la definizione creative class, termine che comprende in senso lato scienziati, ricercatori, architetti, medici, giornalisti, scrittori, stilisti, artisti, designer, musicisti, esperti di finanza e di varie tecnologie, di banca, borsa, direzione di aziende, ecc. e che designa in sostanza il gruppo sociale espressione del più alto livello intellettuale dei knowledge workers. Knowledge workers e creative workers divengono così termini simili utilizzati per designare una classe sociale in piena ascesa, che concentra su di sé le maggiori funzioni derivanti dalla creazione, distribuzione e uso della conoscenza, affiancata dalle tecniche più avanzate nonché dall’arte nelle sue varie manifestazioni, ma soprattutto contraddistinta dall’aspirazione al successo e alla realizzazione13. Ed è lo stesso termine creatività, adottato per designare questi “nuovi” professionisti a cui viene affidato il compito di risvegliare il destino dell’economia occidentale, che contribuisce a diffondere l’immagine aurea di una classe emergente, in espansione. Tuttavia anche il termine creatività, come è stato quello di conoscenza, confonde i piani di analisi e comprensione del fenomeno. La creatività dà origine a tre concezioni coesistenti: una creatività antropologica come tratto fondante dell’attività umana, una creatività sociale cui è attribuito il motore del cambiamento economico ed una creatività professionale che sostanzia la definizione di creative class. Ai margini di questa categorizzazione possiamo però rintracciare molteplici approssimazioni
che, pur avvicinandosi alla nozione di creatività, non rintracciano un termine che possa arrivare a definirne compiutamente il campo semantico. Etimologicamente il termine trascina il “creare”, attività riservata alle entità sovraumane: il Dio biblico come il Demiurgo platonico che, artefice e padre dell’universo, modella la materia preesistente conferendovi ordine. Nel mondo antico la creatività è legata al divino: dalla mitologia alle definizioni di Leibniz14 essa rimane ancorata al sovrumano, ad una sfera che appartiene ad un ordine altro che “tocca” l’uomo concedendogli rari momenti d’illuminazione; momenti che se da un lato gli garantiscono la possibilità di creare, allo stesso tempo ne sottolineano la distanza dalla potenza creatrice di Dio. L’incarnazione delle qualità creatrici nel genio romantico segna il passaggio della creatività da un ordine prettamente divino ad un universo umano: la creatività in epoca romantica rimane sì una prerogativa di Dio, ma la possibilità di farla propria concessa al genio artistico ne spezza l’aura sacra. Scalfito il tabù, la creatività diviene alle soglie del XX secolo oggetto dello studio scientifico di Freud che ne sancirà l’ordinarietà, rompendo l’equazione genio – follia e vedendo nell’impulso creativo nient’altro che l’espressione pubblicamente accettabile della lotta tra inconscio e realtà conscia15. Così definita la creatività cessa di essere “riservata agli eletti” e diviene caratteristica presente in ogni uomo. Saranno i cognitivisti a certificare che ogni individuo è dotato di quel particolare tipo di intelligenza cosiddetto divergente che consente ad ognuno di trovare i problemi ponendosi le giuste domande, di produrre un grande numero di idee grazie alla flessibilità e alla fluidità del pensiero, di riorganizzare gli stimoli in modo da poter avere una visione nuova degli oggetti quotidiani16.
14 cfr: F. Tomasi, La bellezza e la fabbrica del mondo. Estetica e metafisica in G. W. Leibniz, ETS, Pisa, 2002. 15 cfr: S. Freud, I Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1991. 16 M. Pedroni, P. Volontè, (a cura di), La creatività nelle professioni, Atti del convegno, Bolzano, 14 febbraio 2007.
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Alle soglie del XXI secolo la creatività è dunque posseduta in gradi e forme diverse da ogni uomo ed è non solo laica in quanto lontana dal divino ma anche democratica in quanto abilità umana prerogativa di tutti. La creatività è inoltre divenuta collettiva: l’immaginario del genio solitario che crea dal nulla è sostituito dalla prassi della creazione attraverso il lavoro di un’equipe. Si direbbe che l’evoluzione che ha portato la creatività da prerogativa degli eletti a componente laica, democratica e collettiva sia indubbiamente positiva. La creative class è destinata a cambiare la società, ad essere il volano di sviluppo per città abbandonate dalle logiche industriali che necessitano di nuovi motori socio-economici. È destinata, in altre parole, ad essere la classe cui ogni giovane laureato appartiene semplicemente svolgendo la professione per cui ha lungamente studiato, la classe che risolleverà le sorti dell’economia postindustriale gestendo al meglio la società dell’informazione. Ma, se da un lato è innegabile che la classe creativa possa essere origine di alcuni processi di sviluppo, riconversione e riqualificazione, dall’altro è evidente che solo una bassa percentuale di giovani professionisti possa sentire nel profondo di riconoscervisi. Crediamo infatti che la condizione sociale, economica e culturale che gran parte dei lavoratori appartenenti a questa classe vive quotidianamente sia distante dall’immagine della creative class e che pensare di appartenervi rappresenti per molti più un’illusione che un dato di fatto. Il progetto Giovani Lavoratori 1974/1988 ha quindi lo scopo di stimolare il pubblico ad una riflessione critica che sappia considerare da un lato l’innegabile forza dell’immagine di creative class e dall’altro anche la reale condizione dei professionisti che, almeno formalmente, vi appartengono. Dall’aumento del lavoro autonomo al boom delle “partite iva dei mini-
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mi” sino al fenomeno delle “false partite iva”, dall’esclusione dal sistema del welfare all’obbligo di versamenti previdenziali elevati, dallo sfruttamento delle proprie idee da parte delle imprese alla nascita ovunque di movimenti associativi che si confrontano direttamente con lo stato e il mercato su questioni fiscali, previdenziali, normative: il nuovo mondo delle professioni è fatto di freelance, milioni di lavoratori in perenne tensione tra libertà e vincoli, tra creatività e conformismo, tra sapere tacito e saperi standardizzati17. Giovani lavoratori che in questo progetto possono trovare un luogo dove essere considerati non solo dal punto di vista economico ma anche sociale, culturale, antropologico da una riflessione che a partire dal singolo possa divenire pubblica, collettiva, politica.
17 S. Bologna, D. Banfi, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011.
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Attila Bruni, Annalisa Murgia Questo fine settimana non posso, devo lavorare
1 S. Bologna, A. Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano, 1997. 2 A. Bruni, A. Murgia, Atipici o flessibili? San Precario salvaci tu!, in «Sociologia del lavoro 105», 2007. 3 G. Standing, The Precariat. The New Dangerous Class, Bloomsbury Academic, New York-Londra, 2011. 4 S. Bologna, D. Banfi, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011. 5 U. Beck E. Beck-Gernsheim, Individualization. Institutionalized Individualism and its Social and Political Consequences, Sage, Londra, 2002. 6 E. Rullani, Economia del rischio e seconda modernità, in AA.VV., Il rischio e l’anima dell’Occidente, Cafoscarina, Venezia, 2005.
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Sono passati più di quindici anni da quando Sergio Bologna e Andrea Fumagalli1, a fronte del proliferare di situazioni lavorative differenti dall’occupazione stabile e a tempo indeterminato, teorizzavano la nascita di un lavoro “autonomo di seconda generazione”, tendenzialmente massificato, flessibile e di conseguenza debole sul mercato del lavoro. E più di dieci da quando un collettivo di attivisti milanesi dava vita a San Precario (http://kit.sanprecario.info), al fine di porre all’attenzione pubblica il proliferare di lavori e lavoratori/trici le cui caratteristiche e bisogni non trovavano – e non trovano tuttora – uno spazio proprio nelle usuali associazioni di rappresentanza sindacale2. Le condizioni di stabilità lavorativa, infatti, lasciano oggi il posto ad una maggiore eterogeneità di lavori e l’instabilità e l’insicurezza, un tempo confinate a settori circoscritti del mercato del lavoro, si allargano all’intero sistema di occupazione3, non escludendo le posizioni ricoperte da manager e professionisti ad alta qualificazione4. Nei settori dove nascono nuovi lavori e professionalità (ad esempio, quello dell’alta tecnologia, o della cosiddetta industria creativa) sono proprio le aziende più importanti a fare ampio ricorso a formule di occupazione altamente flessibili, richiedendo alti livelli di mobilità e capacità di auto-organizzazione del lavoro. È questo, peraltro, uno degli effetti (ed allo stesso tempo dei sintomi) di una società sempre più individualizzante e individualizzata5, in cui i singoli soggetti, con il loro lavoro immateriale e relazionale, e con le competenze sociali ed emotive di cui dispongono, devono farsi carico, soggettivamente e creativamente, del rischio di impresa6 e della gestione delle proprie traiettorie di vita professionale (e non solo)7. Specie nei paesi altamente terziarizzati, chi lavora nelle filiere del lavoro creativo della knowledge society8 fa parte di un universo eterogeneo e par-
ticolarmente interessante proprio perché protagonista dei mutamenti sociali in corso e di quello che è stato definito il nuovo spirito del capitalismo9. Ci riferiamo a coloro che hanno desiderato e al contempo subìto l’esperienza di lavori task oriented, a progetto, connotati da un’elevata autonomia e creatività10. L’obiettivo di liberarsi dall’uniformità della società di massa, per rivendicare l’espressione della propria creatività e autonomia individuale, è stato infatti incorporato anche dalle logiche aziendali e di mercato, che hanno strategicamente compreso quanto dall’inventiva e dall’immaginazione dipenda larga parte delle forme di produzione contemporanea11. In questo quadro, il “lavoro per progetti” di professionisti, consulenti e freelance prende forma intorno al processo di immedesimazione nelle attività svolte (siano esse retribuite o meno) e si articola attraverso il fenomeno della domestication, che segna la fine della distinzione tra casa e ufficio, tra persona e ruolo lavorativo, per “mettere al lavoro” volontariamente – e flessibilmente – tempo, saperi, risorse e relazioni soggettive12. Siamo dunque di fronte a contesti professionali e lavorativi in cui districarsi tra i dispositivi di assoggettamento a un mercato sempre più pervasivo e imperniato sui processi di precarizzazione da un lato e le forme di soggettivazione e produzione di identità dall’altro, diviene sempre più complicato. Peraltro, la diffusione dell’espressione “flessibilità del lavoro”, non solo in analisi e ricerche di natura scientifica, ma anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa, ha contribuito a costruire la flessibilità – che spesso si traduce in precarietà – come paradigma al quale necessariamente adeguarsi13. Le attuali trasformazioni del lavoro vanno di conseguenza collocate all’interno di uno scenario particolarmente complesso e la cui interpretazione non può essere limitata alla
7 A. Ross, Nice Work if You Can Get It: Life and Labor in Precarious Times, NY University Press, New York, 2009. 8 P. Drucker, Knowledge Work and Knowledge Society. The Social Transformations of this Century, Paper presentato alla John F. Kennedy School of Government Conference, Harvard University, 4 aprile 1994. 9 L. Boltanski, E. Chiappello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Parigi, 1999. 10 C. Formenti, Felici e sfruttati, Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, EGEA, Milano, 2011. 11 M. Lazzarato, L’uomo indebitato, Derive Approdi, Roma, 2012. 12 S. Bologna, A. Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano, 1997.
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13 E. Armano, A. Murgia (a cura di), Mappe della precarietà Vol. II. Knowledge workers, creatività, saperi e dispositivi di soggettivazione, Odoya, Bologna, 2012. 14 A. Bruni, A. Murgia, Atipici o flessibili? San Precario salvaci tu!, in «Sociologia del lavoro 105», 2007. 15 L. Samek, M. Semenza, R. Semenza (a cura di), Precarious Work and Young Highly Skilled Workers in Europe. Risk Transitions and Missing Policies, Angeli, Milano, 2012.
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proliferazione dei contratti di lavoro definiti “atipici”, spesso descritta quale unica e principale causa della rottura con il modello tradizionale standard della forma-lavoro. Infatti, data l’estensione del fenomeno e gli elementi che esso coinvolge, sembra ormai limitativo continuare a definire “atipiche’”le forme di lavoro emergenti, sulla base di una supposta normalità di lavori tradizionali che tendono però a farsi sempre più rari14. Una caratteristica rilevante del lavoro della conoscenza è, ad esempio, il fatto che sia costituito per larga parte da lavori (almeno formalmente) autonomi, fatti di prestazioni occasionali, collaborazioni, contratti a progetto e partite iva15. In un panorama occupazionale tanto eterogeneo, diventa indispensabile elaborare letture capaci di cogliere le dinamiche di socialità che si innescano attorno alle nuove forme di lavoro. In altre parole, gli aspetti di maggior interesse non riguardano tanto la posizione fiscale e/o giuridica dei soggetti, quanto il gioco di relazioni che permette di stabilizzare e rendere socialmente sostenibili traiettorie di lavoro discontinue e frammentarie. Se infatti ciascun lavoro possiede una sua specificità, una lettura del lavoro quale fenomeno sociale espande i confini ed i significati del lavoro e del lavorare alle sfere del simbolico, dell’immaginario collettivo e delle pratiche sociali. Quali sono, dunque, oggi, le pratiche di affermazione del sé innescate dal proliferare delle nuove ed emergenti identità professionali?
Federico Mazzonelli Senza Titolo/Young workers
A più di un secolo dalla realizzazione di quello che si potrebbe definire come il manifesto della pittura moderna, il Dejeuner sur l’herbe di Eduard Manet, l’opera del canadese Jeff Wall sembra essere il punto di arrivo di un processo che ha portato all’inversione dei rapporti di forza esistenti tra mezzo pittorico e mezzo fotografico; un processo che non riguarda solo la sfera artistica ma finisce con l’attraversare la contemporaneità trasversalmente, ai suoi diversi livelli, economici, sociali, comportamentali. Se la fotografia di fine Ottocento aveva infatti creduto di poter essere la risposta, definitiva o presunta tale, ad ogni questione realista o naturalista, il suo errore divenne sempre più manifesto al cospetto di una pittura che, a partire da un rapporto dinamico ed intelligente rispetto dalla nuova ottica, riuscì a mutare profondamente le sue caratteristiche interne, il suo modo di gestire le immagini e le loro forme, assieme ai contenuti ed ai concetti che ad esse si accompagnavano, mettendo in atto quello scarto concettuale che la fotografia non era stata – allora – in grado effettuare. Nei lavori di Wall, che si pongono in tal senso come uno dei massimi vertici della ricerca fotografica, il rapporto sembra essersi invertito. Confrontandosi con le tematiche più differenti – dal rapporto tra la natura e lo spazio urbano, alla istanze politiche e sociali, fino all’interesse per la condizione umana intesa tanto nella sua fisicità quanto nella sua drammatizzazione psicologica – il mezzo fotografico viene messo al servizio d’una poetica complessa, attraverso un lavoro di costante riflessione sulle possibilità narrative ed espressive dell’immagine, sulle dinamiche del suo linguaggio, della sua costruzione e della sua messa in opera. Al di là di ogni evidente e quasi scontato rapporto iconografico o com-
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1 Alain Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano, 2005. 2 Ibid.
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positivo che l’opera di Wall intesse con i maestri della pittura moderna di fine Ottocento, risulta forse più interessante, anche al fine di comprendere l’operazione-progettualità che sta alla base di questa mostra, l’importanza che la nozione di teatralità ricopre all’interno del suo lavoro. È, quella delle immagini di Wall, una teatralità che potremmo definire brechtiana. Nelle sue fotografie, nelle quali il processo di costruzione degli elementi costitutivi (soggetti, pose, spazi, luci), anche se costantemente celato, è in realtà sempre frutto di un lunghissimo lavoro di messa in posa e di post-produzione, l’immagine risulta per lo spettatore impercettibilmente sospesa, ambigua, come attraversata da una sorta di lieve ma irriducibile straniamento. E se per Brecht lo “straniamento” consisteva nel mettere in evidenza, nella recitazione stessa, lo scarto tra la recitazione ed il reale, nel lavoro di Wall esso diviene «in senso più profondo, una tecnica di smontaggio dei legami intimi e necessari che uniscono il reale alla finzione, legami risultanti dal fatto che la finzione è il vero principio di collocazione del reale, ciò che localizza e rende visibili i brutali effetti della contingenza del reale»1. L’opera Young Workers è costituita da otto fotografie di giovani lavoratori, i cui volti, ritratti di tre quarti e posizionati su di un fondo bianco retroilluminato in ordine seriale, sembrano sospesi in uno spazio senza tempo. La posa e l’espressione sono quelle della pittura di storia, il lightbox che li ospita quello dei cartelli pubblicitari delle città americane, mentre i loro volti non sono più ne dentro ne fuori, hanno perso la dimensione privata ma non appartengono neppure a quella pubblica, sono qui di fronte a noi, ma sono anche altrove. La dimensione che interessa Wall sembra essere quella di una «distanza indefinita» che può divenire «prossimità»2,
attraverso un senso di immedesimazione con l’immagine, non con il soggetto, una vicinanza con la sospesa inquietudine che l’opera mette in atto e che rende questa serie di volti quasi un’astrazione, anche fronte di una condizione esistenziale comune. Alla base del progetto messo in atto dal collettivo Campomarzio, oltre la citazione di un’opera così famosa che diviene in tal senso un pretesto, un semplice punto di partenza, credo vi sia proprio questa necessità di compiere un atto di astrazione sul reale e nel reale, la volontà di tracciare un nuovo profilo, la mappatura quasi anonima, nella ripetitività del soggetto, nella posa sempre identica, di una condizione contemporanea accomunata tuttavia dalla necessità, oltre che economico-sociale anche esistenziale, di ripensare costantemente il rapporto tra singolo individuo e collettività, della quale è parte integrante. Tale rapporto, per quanto le situazioni contingenti possano di volta in volta determinare problematiche differenti e di differente natura – dalla dimensione sociale all’intimità della nostra visione del mondo – sembra ritrovare un senso e una ragion d’essere proprio in relazione ad un atto, un pensiero, un’immagine – quella dell’arte in questo caso – capaci di ripensare e di far affiorare ancora una volta quelle relazioni apparentemente oscure, ma che costituiscono la dimensione quasi archetipica del nostro essere al mondo, e che finiscono col determinare il rapporto irriducibile e sempre irrisolto tra la verità del nostro volto e la necessità della sua maschera, le sue nudità ed i suoi travestimenti, tra la violenza del reale e le finzioni della sua storia.
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