Manoscritto mai ritrovato

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“Manoscritto mai ritrovato”

l. Prologo 2. Il Caffè e la Fessura 3. LA Saga del Caffè 4. L'Ammazzacaffè 5. Esodo

Spettri orrendi, smorfie tragiche, gorgoglii morali. Friedrich Nietzsche

Il libro andrebbe letto tutto d'un fiato, come è stato scritto. L’ideale, avendo il fiato, sarebbe declamarlo ad alta voce. La musica che dovrebbe accompagnarvi? I Carmina Burana di Karl Orff C.A.F.

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1.

PROLOGO

Questo manoscritto polveroso e roso dai tempi e dalle bassezze degli stessi e dalle mie, non fu rinvenuto nelle immonde macerie di una discarica, né tanto meno resuscitato dalla muffa di una soffitta in una cassapanca, intarsiata sì, ma da tarli dispettosi. Non fu nemmeno trovato in gualche anfratto perduto e dimenticato di una biblioteca fra testi antichi e dotti, obliato per la sua minorità nel casto sapere umano; né mi fu consegnato da qualche agente che mi raccomandava di non darlo alle stampe prima di qualche decennio per la scabrosità del contenuto. Non fu rubato dal sacro scrittoio di qualche letterato troppo timido per darlo in pasto al pubblico, e nemmeno fu il frutto di una rapina morale ai danni di un interlocutore troppo ingenuo. Non venne ritrovato attaccato ai lobi carnosi di una dama intrigante che se ne fregava della decenza, né fu la delicata falsificazione operata per rendere più grande un grande, o un poveraccio ancora più disgraziato. Non fu il galeotto di qualche alcova di esteti omosessuali, o di una corte erotica di nobili edonisti; non venne rintracciato da un famoso papirologo mentre la perpetua di qualche parroco lo stava utilizzando per incartare le interiora di un pollo, né tanto meno venne salvato da un giovane scapestrato ma saggio, mentre veniva utilizzato per scoccare la fiamma di un fuoco da zigani. Non fu la volontà di inviare un messaggio né ai contemporanei né ai posteri che fece questo, neppure fu un eccesso di amore o una richiesta di solidarietà; non venne ritrovato sul leggio di un monaco appena ucciso, né fra i documenti di un politico compromesso dalle rivelazioni di una meretrice, e neppure nella tana puzzolente di un barbone con velleità letterarie. Non fu compreso nella lettera di testamento di un ricco possidente che ne chiedeva la valorizzazione da parte degli eredi, né nell'epistolario di due grandi personaggi. Né tanto meno fu mia invenzione, o invenzione dell'ingegno di un qualunque essere mortale. Infine non fu una Rivelazione Divina a gettare sulla terra questo leggero e afono scritto. Questo manoscritto nudo della sua schiettezza e semplice della sua miseria è niente, è nulla, il nulla che si respira nell'aria, è il vuoto nella sua essenza, è depressione; mi fu consegnato da nulla e da nessuno. Fu soffiato nell'orecchio frastornato dagli otto venti, origliato dal cherubino amico loro, sussurrato dall'Ostro, intessuto dal Libeccio, intarsiato dal Ponente, rilegato dal Levante, riscaldato e reso dolce dallo Scirocco, asciugato delle sue melensità dall'imperioso Maestrale, reso armonioso e classico dal Greco, concluso e trasportato al vespro dalla Tramontana. Di questo è fatto questo minuto memoriale, fatto di aria e di movimento, fatto di nulla, fatto di tenue energia. Chi vorrà trovarci un alcunché si ingannerà prima ancora di voltare la prima pagina; il rozzo che non sa distinguere e saporare il minimo che diventa indistinguibile, quello che non sa trovare nel flebile una forza di tutto rispetto, non si avventuri dove non può. Usi piuttosto queste carte come bersaglio di dardi da osteria, vi disegni la propria effigie e lo colpisca con le frecce del suo arco, sperando di colpire qualcosa almeno; noi sappiamo che le frecce dell'anima per l'arciere onesto non si perdono nel vuoto, i corpi lanciati a rincorrere una meta materiale invece si dissolvono. Fili purissimi, ma deboli, intessono di seta quell'aria sospinta dai venti e dai venti flautata, ogni movimento spezzerà la tela filata dal nulla, ogni

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rumore romperà l'armonia cantata dai lirici soffi che olezzano dagli otri arcani. Una preghiera. Non insultate disprezzando il vuoto di ricordi lontani e prossimi, che ve ne cale? Lasciate che un vecchio, prima di inchinarsi a salutare, racconti una storia e quella del bel mondo che lascia, lasciate che un misero e canuto pazzo si crogioli nella pignatta delle sue fantasie; che fastidio possono dare ormai al secolo mondano le pie farneticazioni di un vecchio? In vita mia fui già vecchio quand'ero ancora adolescente; non pretesi le gioie e i piaceri che potevo cogliere allungando l'allora mia forte e bella mano, non indugiai pretendendo l'onore degli onori, ma solo la dignità di me stesso. Concedete dunque a chi, vuoto ormai del tutto, possa narrare il piacere di raccontare dispiaceri, lasciate che il vuoto si empia di se stesso. Brezze tiepide o fredde, ma solo brezze accarezzarono la mia pelle prima liscia e femminea, poi grezza e ruvida; cose piccole feci e cose minime vissi; che volere, quella fu la mia sorte. Nessuna passione bruciante e romantica si fece avanti chiedendomi di essere materia per la sua fiamma, in quanto alla mia carne a malapena gustai cibi schietti ma frugali e qualche vino gentile e sincero; e anche il mio spirito non fu colto da mistiche visioni e da parossismi divini, da metafisiche ascese, da sentimenti santi. La mia ragione non si spinse a indagare i filosofi e i saggi e la Verità, il mio divertimento non mi fece apprezzare scrittori e letterati, romanzieri e poeti. La mia sordezza mi impedì di ascoltare musici e maestri del suono, la mia vista debole e incerta non mi permise di cogliere i tratti dei pittori e i colpi abili e decisi dei plastici. La mia sensualità arida e fredda non fece di me un erudito del piacere o un esperto della lascivia, il mio coraggio pusillanime non mi fece un condottiero; la debolezza delle mie membra non un cultore del corpo. La mia indecisione non mi fece un saggio. In verità non fui molto nella mia vita, in vero fui nulla o quasi. Imparai, nella mia esistenza, solamente ad ascoltare il vento e i suoi fratelli e a fare della noia il mio passatempo. Anche quello che andrò a raccontare non affascinerà, né colpirà l'immaginazione di chiunque compia il peccato di inoltrarsi fra queste pagine, e per questo chiedo venia prima ancora che l'accusa che serpeggia già sulle labbra contratte, si faccia manifesta. Sono soltanto un vecchio pazzo che non ricevette nemmeno il dono della pazzia, e della sua follia conobbe solo l'ottenebrazione e il non saper discernere, giammai il genio! Non distinsi mai bene e fui incapace di rammendare fra loro anche solo poche pezze di cenci, non seppi dividere, non seppi unire. I grandi possiedono il dono proprio di questo dono, sanno quando è il momento di disgiungere e quando l'attimo da cogliere per smalta.re insieme ciò che tanto facilmente hanno saputo coltivare; il loro dono è il ritmo. Questa costruzione di ossa e pelle screpolata che ormai mi ha reso più simile a una crosta, a un animale non reso putrido ma rinsecchito e disgustoso, non capì mai né la storia né il tempo, perché per esso, e dico esso poiché non meritai mai il nome di persona, tanto fu gretto e stolto che gli sembrò quasi che né il tempo, né tanto meno la storia, potesse esistere. Ma adesso non è ancora tempo, chi seguirà questo vecchio demente in fondo al suo baratro vuoto, capirà. Chiedo solo il minimo della cortesia, quella cortesia che in fondo non è di sacrificio; chiedo compassione per un vecchio incontinente, che non ha mai avuto l'orgoglio e la sfrontatezza da interferire col mondo, la più cruda pietà, ma sempre per me di soddisfazione, di assecondare la bava immonda che scola lenta e umidiccia dalla bocca senza denti con le parole stupide di un povero vecchio. I venti asciugheranno poi la lordura che rischio di gettare, vi netteranno della noia che

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questo libercolo trasuda. Chiedo misericordia e compassione per un vecchio melenso; questo decrepito avanzo di materia vi disturberà solo per poco. I venti, gli unici amici miei, fecero di me una banderuola da trascinare verso i quattro estremi dell'universo; giammai potei restare immobile in un punto per raccapezzarmi e poter organizzare, costruire, dare un po' di terra fertile a un vaso, innaffiare e far crescere una creatura qualsiasi. Se fui soltanto seme, rimasi tale, se non fui nemmeno quello, per tutta la lunga durata della mia esistenza, fui solo nulla e depressione. Ovunque io passassi, gli oggetti, le cose ne erano sconvolte dalla mia vuotezza e cercavano la forza per non cadere nel buio baratro che le attirava a colmare il vuoto. Feci sempre paura e rabbia perché ero nulla e rischiavo di portare via qualcosa agli altri, che qualcosa sembravano. Mi temettero le persone, mi temettero di quel timore dettato dall'odio, del timore di un pozzo senza mai fondo. Rimasi sempre solo e gli altri mi mantennero solo. Ora nulla voi dovete temere perché ormai io non sono neppure nulla, ora non cerco la compagnia che non fui mai capace di accogliere e offrire, solo far apologia della vecchiaia precoce di un giovane, e dell' atavicità inopportuna di una vecchiezza!

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2. IL

CAFFÈ E LA FESSURA

Ero appena morto che mi ritrovai vecchio e stanco in quel lettino di obitorio. La luce freddissima e bianca candeggiava le pareti lucide da sembrare bagnate, c'era odore di medicinali. Un camice bianco, lindo di lavanderia, capeggiava alla mia destra appeso a un attaccapanni di legno scuro; sopra, un cappello. La scrivania sembrava abbandonata da anni, qualche carta spiegazzata con sopra una matita senza punta, un fermacarte di vetro sbertucciato era in bilico sul bordo. Il cassone a scomparsa dove mi trovavo, mi era stretto, e rinchiuso in quello spazio angusto, quasi non riuscivo a respirare così costretto dal sudario bianco che mi ricopriva perfino la testa, lasciando spazio solo per due occhietti freddi e bianchi. Alcune vesciche ai lati del mio viso mi davano fastidio, le gambe e le braccia erano intorpidire come se avessi dormito su un materasso troppo molle, troppo a lungo. Rimasi a pensare a lungo sulla mia difficile situazione, da sempre avevo affrontato i miei problemi con una sorta di timore, e la mia mone non mi aveva reso più risoluto, ma sempre riflessivo e pauroso. La luce già troppo forte abbronzava di candore la mia faccia già troppo bianca, bianca da cadavere. Il lenzuolo bianco non riusciva a proteggermi da quella sensazione sgradevole; era come se intorno vi fosse un che di troppo candido, qualcosa che rendeva indistinguibili le forme e gli oggetti, come se un'improvvisa bufera di neve avesse annullato ogni traccia e ogni linea. Qualche duna distinguevo, ma solo in lontananza e quando sforzavo la mia vista, morta con me, non trovavo che altre impercettibili dune. Stavo bene però, rasserenato dalla mia morte. Non potevo ormai perdere nulla e questo mi dava un'incredibile sicurezza e suscitava un sentimento di onnipotenza nelle incertezze che mi avevano accompagnato da sempre. Qualche rumore soffuso arrivava da lontano, ma non poteva né toccarmi né infastidirmi. C'era odore di disinfettanti. Senza sforzo mi liberai di quel sudario che mi avvolgeva stretto e mi alzai a sedere sul lettuccio con le gambe distese. Mi grattai la nuca nel punto dove ero stato appoggiato, ma non pensai a niente. Quando mi alzai in piedi, nudo, le gambe cedettero e scivolai lentamente a terra senza violenza, come se mi fossi avvitato lentamente su me stesso fino ad accarezzare il suolo. Ascoltai il freddo del pavimento, e quel freddo si fuse col bianco che imperava e con il colorito della mia pelle. Non distinguevo nemmeno il mio corpo né i miei pensieri, tutto si fondeva e tornava a fondersi in un movimento inesistente. Mi guardai dall'alto, come se mi trovassi sul soffitto vicino a quel neon fastidioso, e ruotavo leggermente in senso antiorario, lentamente avvolgendomi in me stesso, fino a turbinare in mezzo a quel bianco che non distingueva nulla e che faceva rivoltare tutto con me. Vortici e spirali, ma non c'erano, né alcunché impediva che io mi divertissi a confondermi e a confondere le cose intorno e lo stanzone e le carte vecchie e il fermacarte sbertucciato. Allora volevo, potevo quello che desideravo, senza movimenti interni, senza pensare, serenamente. Poi mi alzai in piedi e infilai il camice che era appeso all'attaccapanni. Lo allacciai minuziosamente e calzai un paio di zoccoli bianchi e bucherellati che trovai sotto la scrivania; una targhetta con un nome penzolava pigra sul petto: "Dottor ... ". Uscii e mi ritrovai in un corridoio lungo e male illuminato, con tubi scoperti che correvano fino a svoltare con l'angolo in fondo. Incerto sulle

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gambe iniziai a passeggiare verso la svolta più distante. Era piacevole camminare ancora sentendo qualcosa di duro e freddo sotto; non bianco. Incrociai una barella spinta da un infermiere. Questo, indifferente e annoiato e affaccendato, spintonava la barella con la pancia, facendola sussultare ad ogni passo. Sopra un fagotto bianco giaceva immobile. Quando fummo vicini il giovane mi chiese: "Dottore, questo è il 67, lo metto in sala B, o lo sistemo nella A per l'autopsia?" "Lo metta nella C che poi vediamo se resuscita." L'infermiere rise, è dondolò due volte la testa verso i lati, come dire: "che strani questi dottori, ormai con la morte ci scherzano". Mise il fagotto nella B, in uno dei cassoni che poi scomparivano nel muro e se ne andò. Io, una volta svoltato l'angolo, presi l'ascensore e andai al piano terra. Nell'ascensore faceva molto più caldo che in quello stanzone bianco e freddo e nel corridoio. Mi ritrovai nell'ingresso grande ma con il soffitto basso, alcune porte automatiche vomitavano persone in apprensione dentro il vestibolo. Dietro il banco lungo e pesante c'era una giovane infermiera affaccendata. La capigliatura raccolta sopra la testa e fermata da alcune forcine nascoste sotto la cuffia, lasciava libera un'orecchia minuta e rotonda, fatta bene, ma con un lobo stretto e freddo; bianco pensai. In vita mia avevo sempre diffidato delle persone che sorridevano senza mostrare i denti e di chi non avesse lobi carnosi e grandi. Tirai avanti fino a giungere alla macchinetta del caffè e del cappuccino. Il caffè non era bianco e nemmeno freddo, ma caldo e corposo, amaro. Palpabile con la lingua. Mi piacque l'idea di saporarmene uno. Diedi alcuni colpetti alla macchina ma non ottenni risultati. Fissai quella cosa per un po', immobile, e bilanciandomi sulle gambe. Tornai verso il bancone delle signorine affaccendate: "Scusi ma la macchina ... " "Certo dottore; eccone uno." La giovane mi mise in mano una piccola moneta chiara, con una scanalatura da una parte e due dall'altra; io rimasi a fissarla vuoto. Lei mi guardò per un po' stupita, poi sorrise pensando che la stessi a guardare con malizia. Dopo però si imbarazzò molto e con un cenno ampio del braccio mi indicò la macchina. Mi voltai e dissi: "Ah, già." Tentai di infilare il gettone nella fessura, ma non vi riuscivo; più ci tentavo e meno riuscivo. Anche quella moneta era fredda e bianca. Finalmente passò una giovane ricercatrice, visibilmente soddisfatta di sé e di tutta la sua vita. Camminava sicura e dritta, appoggiata ai carteggi che stringeva al petto gelosamente. Era una bella giovane, probabilmente di quelle persone che fin dai primi anni della loro vita già intuivano il proprio futuro e le proprie ambizioni; di quelle persone sempre sorridenti e pronte, di quelle persone che sembrano non avere mai un problema, una navigatrice di acque immobili. Di quelle persone, in sostanza, che mal sopportavo. "Lasci," disse lei. "L'aiuto io, dottore." Mise il gettone nella fessura per me ancora vergine, come se quel gesto non avesse nemmeno la dignità del gesto, così, come se non avesse fatto nulla. Il caffè scese nel bicchieretto con un leggero cianfrotìo; per un attimo ebbi il terrore che fosse freddo e bianco come il gettone e lo stanzone e il corridoio e l'infermiere affaccendato con la barella. Portai alla bocca il caffè con l'abitudine che diventa rito, con una sacralità pagana che mi dava molta gioia. "Le piace?" chiese la giovane ricercatrice. "Spesso viene o troppo amaro o troppo dolce." "Da morire," risposi, ma non avevo ancora finito di parlare che non mi trovavo più

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nell' angolo del vestibolo dov'era incastrata la macchinetta del caffè. Ero nello stanzone di prima, a terra e ancora nudo. Decisamente mi rinfilai gli zoccoli e il camice che avevo visto prima, e riuscii nel corridoio. Mentre passeggiavo verso l'angolo, adesso più vicino, incrociai un infermiere affaccendato che faticosamente tirava un carrello con dentro qualcosa, probabilmente sudati sudari sporchi. Quando mi vide, corse subito verso di me gridando: "Dottore, dottore ... dottore ... aspetti un attimo. Si ricorda del 67 che avevo messo nella B ... Beh non c'è più, non c'è più, scomparso." "Suvvia, un cadavere non può andare in giro per l'ospedale, magari a prendersi un caffè; guardi meglio, forse lo ha infilato nel loculo sbagliato." "No dottore, ho guardato ovunque, anche nella A; le dico che, e non c’è”. "Va be', chiami una di quelle signorine affaccendate del bancone, e chieda a loro." "Se non lo trovo, stavolta mi gioco il posto; bo pure dei precedenti, mi cacceranno con un calcio in culo, mi cacceranno ... " "Suvvia, non si preoccupi così, vedrà che lo ritrova prima o poi. Se no, di morti ce ne sono così tanti al mondo, che vuole che sia… e così sia!” Girai sui miei zoccoli alzando leggermente e con dignità le punte e me ne tornai donde ero venuto. Mi ritrovai davanti all'ascensore. Schiacciai il bottoncino e si accese una luce bianca e fredda, con sopra scritto "in arrivo"; poi una verde e calda con su scritto "presente". Aprii la porta, e successe una cosa strana. Lo specchio all'interno dell'ascensore rifletteva l'immagine di una persona ambiguamente normale; era un vecchio, ma poi non così vecchio. Osservai meglio e nemmeno tanto stupito mi accorsi che non era altri che me stesso, ma leggermente più capelluto e con qualche ruga in meno, meno storto e più ritto sulle gambe. Chiusi la porta dell'ascensore senza entrarvi. La riaprii dopo poco tempo passato in un bianco avvolgente e freddo. Un'onda scura mi travolse, calda e palpabile, persistente continuava a fluirmi addosso ma senza sbalzarmi o gettarmi a terra. Era caffè, un'ondata di caffè, un mare di caffè, caldo e non troppo dolce. Ne bevvi una modica quantità, poiché quello di prima non ero riuscito a sorbirlo, mentre nuotavo immobile nei flutti scuri ma caldi, lasciandomi trascinare dove a loro piacesse; quasi riuscivo a distinguere qualcosa. Il caffè mi cullava sussurrandomi qualcosa che io non capivo, come un salmo responsoriale; ma non me ne importava, mi bastava il calore e il colore scuro. La schiuma densa e saporosa mi faceva da collare o da colletto, solleticandomi e poi granandomi e mi accarezzava contenta. Anch'io ero contento e sereno, non importava se per me era un po’ troppo amaro. Pian piano l'ondata terminò e io potei prendere l'ascensore. Schiacciai piano terra e mentre salivo il caffè si ritirava nelle fessure e anche il camice e tutto il mio corpo si puliva da quel velo scuro, caldo e palpabile. L'ascensore si arrestò bruscamente; io sobbalzai, ma ormai le mie gambe reggevano bene e sentivo più energia in me. Passò un breve periodo dove non successe niente, ma proprio niente né fuori né dentro di me. Come una parentesi sembrava stringermi da destra, un'altra a sinistra invece si limitava a star ferma senza permettere che nulla avanzasse. Non sapendo come passare il periodo, mi misi a discorrere con le parentesi. Scoprii che non andavano d'accordo fra loro e litigavano spesso perché ognuna voleva passare dall'altra parte dell'altra, e ognuna spingeva a più non posso. Entrambe però sapevano che se un giorno ci fossero riuscite, si sarebbero perse nell'infinito e avrebbero

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vagato negli infiniti mondi, senza mai incontrare il migliore possibile; lo stesso però continuavano a spingere. Ma già se ne andarono e finì il periodo. Scesi dall'ascensore a mi trovai nel vestibolo. Dietro il bancone non c'erano più le giovanette tutte carucce e affaccendate, e non c'erano più nemmeno quelle persone ansiose che prima entravano e uscivano in fretta senza guardare. Inghiottiti tutti. Sopra la mia testa sentii un rumore strano e forte. Come dei ticchettii impazienti e metallici strusciavano contro qualcosa, graffiando e raschiando. Sentivo pure un respiro veloce ma calmo e il battito di un enorme cuore il rumore continuò ancora, poi si fermò per un attimo, una voce femminile ... Feci appena in tempo a sollevare lo sguardo verso una fessura nella parete, una fessura non più piccola e dispettosa, ma grande e deflorata. Mi scansai velocemente e di fianco piombò una grande cosa metallica, con una scanalatura da una parte e due dall'altra. Era una grande cosa bianca e fredda di forma rotonda. Rimase in bilico appoggiata a un grande fermacarte sbertucciato, poi cadde di piatto con un tonfo sordo. Io presi a camminarci sopra, seguendo il perimetro e la zigrinatura d'intorno. Avevo le mani allacciate dietro la schiena e compivo ampi cerchi in senso orario, leggermente ricurvo e pensando. Ogni giro mi sentivo meglio e più vigoroso, ogni giro ricresceva sopra la mia testa un capello solitario. Sul gettone ormai eravamo in due: io e un fagotto bianco e imbacuccato comparso dalle lettere incise gettone per il caffè e il cappuccino. Il numero 67 si trovava sempre esattamente dalla parte opposta alla mia, sia che io accelerassi il passo sia che rallentassi, sia che mi fermassi. Però mi seguiva sempre, o io seguivo lui. Era il cadavere scomparso. Intervenne anche l'infermiere di prima. Seguiva tutti e due implorante. "Si fermi 67 la scongiuro; si fermi dottore la prego." Ma anche se noi ci fermavamo, lui non riusciva mai a raggiungerci. "Si fermi dottore; si fermi 67, mi cacceranno dall'ospedale, vi prego fermatevi, ho una famiglia da mantenere, ho pure dei precedenti. Si fermi 67 la prego, si fermi dottore, dottore la scongiuro, mi cacceranno ... ho pure dei precedenti ...” Ma noi nemmeno lo sentivamo. Ascoltavamo solo la bellezza dell'implorazione, il sentimento che lo dettava. Assaporavamo nel caffè quell'amaro e lacrimoso implorare. La dolcezza della speranza, nel bianco e freddo camice dell'infermiere affaccendato. A un certo punto ci incrociammo, io e il 67. "Piacere, mi chiamano sessantasette." "Piacere, mi chiamano dottore." "A proposito," diss'io, "visto che dobbiamo camminare ancora molto prima di scoprire dove inizia il cerchio e dove termina il rotondo, se non la disturbo vorrei discorrere con lei a proposito di una cosa di cui mi sono accorto di recente." "Prego," fece il sessantasette, "non desidero di meglio. È così tedioso menare in questo gettone, ed è sempre bello trovare persone acculturate con cui conversare in questo tempo di passeggio e di passaggio; qualche volta mi sento tanto solo. Le chiedo solamente una cosa, non renda ancora più tediosa la noia, con cose tediose, e renda, se può, divertenti cose interessanti e divertenti." "Certamente, non mancherò, lo prometto. Volevo discorrere a proposito dell'insensatezza di dare un nome e un numero a due cadaveri, uno scomparso e uno che scompare; non le sembra una cosa inutile sprecare e fiato e tempo per preoccuparsi di inventare nomi e numeri a degli scomparibili? Tutta la vita abbiamo avuto un nome e un numero e ce ne impongono uno pure da morti. Se non altro è balzano e strambo; perché non ci lasciano in pace nemmeno nella

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pace. Perché non si dimenticano immediatamente di noi; che ci scordino, ci dimentichino e ci lascino in pace! Non trova? Poi, ‘dottore’ .. ‘sessantasette’, così freddi e bianchi, privi di fantasia!". Ah non lo dica a me, io son dovuto fuggire perché per di più, non paghi di avermi appioppato un numero, volevano pure squarciarmi con i loro ferretti per vedere come ero morto. Non sanno che tutti prima o poi devono morire? Gli uomini sono dei pazzi, guardi, san fare solo cose inutili e pazze." "A proposito come è morto lei?" "Non ricordo bene, probabilmente semplicemente di vecchiaia." "Anch'io son morto di quella malattia. Beh s'è fatto tardi, fra un po' passerà l'impiegato per ritirare i gettoni dalla cassetta della macchina del caffè e del cappuccino; sarà meglio andarsene. Buon proseguimento!" "Arrivederci!" Il gettone fu portato via con grande dignità dall'impiegato e riposto in un cassetto del bancone delle giovani affaccendate. Stranamente una di quelle accarezzò il gettone per il caffè e per il cappuccino e sorrise stringendosi poi le mani al petto. Io intanto mi allontanai tn fretta dalla macchina del caffè e del cappuccino; del caffè ne avevo abbastanza; il cappuccino poi non l'avevo mai amato. Passeggiavo così nei corridoi dell'ospedale cercando di non uscire mai dal tappeto rivestito di plastica che stava in mezzo. Mi divertivo a seguire le linee che ogni tanto si vedevano risaltare da sotto la copertura trasparente; ogni tanto spiccavo un salto facendo sbattere i tacchi degli zoccoli bucherellati. Alcuni pazienti affaccendati, affacciati alle porte delle loro stanze, sogghignavano. "Dottore ... dottore..., corra, un arresto cardiaco alla sessantasette ... dottore, corra, presto..." "Come dice," diss'io inchinando leggermente il busto, "ho sentito sessantasette." "Sì alla sessantasette, un arresto cardiaco." "Ah sì 67, lo conobbi poco fa; ma non era già morto e scomparso?" "Ma che dice dottore, non scherzi, venga presto." Fui spinto generosamente dall'infermiera affaccendata dentro una stanza, al cui lato stava apposta una targhetta: "sessantasette”. "Già, conosco", pensai distrattamene. "Avete già fatto dieci micro di benzoduocuorina?" "Certo dottore come di prassi, ma sembra che il soggetto non risponda positivamente. "Massaggio?" "Ovvio dottore ma il soggetto non tende a riprendersi lo stesso." "Cara mia, penso che vi sia un difetto di fondo nella diagnosi, e non nella cura! Lei, cara mia, ha sbagliato osservazione. Giusto l'arresto cardiaco, giusto i dieci micro di benzoduocuorina, giusto il massaggio ... però ... " "Però?" "Però non trattasi di soggetto, bensì di oggetto. Vogliamo che il paziente sia soggetto a se stesso, suvvia, suvvia, non scadiamo nel solito provincialismo accademico!" "Ma dottore ... la letteratura medica di mia conoscenza ... " "Della letteratura medica me ne fò un bafo, mi sembra evidente, e tenga ben presente che l'evidenza non si dimostra che con una tautologia, che trattasi di oggetto paziente e non di paziente soggetto ... Quindi proferiamo insieme le

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magiche parole. Suvvia mi stringa la mano, e la stringa a Imene Trismegisto, il vergine di spirito e di cuore, colui che ci preserva vergine lo spirito e il cuore, tre volte grande. Quindi insieme proferimmo le magiche parole: "soggetto, soggetto, pazienta ancora e quasi per incanto, sarai oggetto….. oggetto". Il monitor di servizio segnalò la ripresa dapprima incerta, poi più sicura del cuoricino del caro paziente. L'infermiera non riuscì a trattenere uno sguardo d'ammirazione verso i miei occhi freddi e bianchi. Quasi si sciolse davanti a quella saviezza imponente, a quel monumento della medicina, oh, come avrebbe voluto potersi laureare pure lei, e assaporare insieme al caffè e al cappuccino anche la gioia del guarire gli oggetti. lo capii subito quello che pensava la giovane affaccendata e le dissi: "Non si preoccupi, c'è sempre tempo per quelli di buona volontà, la prossima volta vedrà che il caffè o il cappuccino verranno zuccherati ottimamente." "Vede dottore, deve essere bellissimo ... " "Certo, ma più che bellissimo, buonissimo, corroborante direi ". "Le piace, eh dottore, curare la geme, i poveri, i ricchi, i borghesi, i medio borghesi, i proletari, i capitalisti, i sotto proletari, gli zigani, gli extracomunitari." "Eccome, da morire." Mi ritrovai io una stanza completamente bianca e fredda, ma piccola e col soffitto appena sopra la mia testa. Tutto intorno era sfuocato e perso come nella lontananza. Ero vestito però e non più io terra sdraiato sopra le mattonelle tanto lisce da sembrare bagnate. Aprii la porta e passai nella stanza dopo. Ancora bianca e fredda, l'attraversai pur non sapendo dove dirigermi tanto era tutto indistinguibile; certe volte scambiavo dello spazio per nuvole, e certe volte nuvole per spazio. Cotone per nuvole, e nuvole per una cascata di un ruscello; la cascata del ruscello per un lago di ottimo latte altoatesino. Scambiai l'ottimo latte per dello spazio e quasi affogavo nei suoi flutti bianchi e freddi. Mi sorpresi a desiderare ancora del caffè; anche un cappuccino andava bene però. Passai poi in una stanza bianca e fredda, ma piccola e col soffitto appena sopra la mia testa, poi io una stanza fredda e bianca, ma piccola e col soffitto appena sopra la mia testa, poi io una stanza bianca e fredda, ma piccola e col soffitto appena sopra la mia testa e così all'infinito; fintanto almeno in cui sentii alla mia destra degli strani gemiti provenire lunghi e morbidi, come il pianto o le risa di un neonato. Spalancai la porta grande e scura che mi stava di fianco ed entrai io uno sgabuzzino dove si trovavano delle scope, alcune damigiane con sopra strani simboli, una bacheca dotata di serratura con alcuni medicinali sparsi disordinatamente, dei sacchetti di caffè e dei bicchieretti di carta per rifornire l'omonima macchinetta del caffè e del cappuccino. La cosa più sorprendente però erano due corpi uno sopra l'altro che si agitavano. Quello sotto, con le gambe spalancate, era vestito di un vestito bianco e freddo, quello sopra con le gambe perfettamente unite, che sembrava mettere nell'operazione maggiore foga e dinamismo, rivestito da un rivestimento scuro e caldo. I gemiti non erano più lunghi e morbidi, ma in modo anomalo stretti e spigolosi; si fecero quindi sempre più veloci e affannosi e poi sempre più e sempre più. Come se volessero scalare una vetta che sapevano non raggiungere mai, e come arrancavano spingendosi, suggestionandosi, spronandosi: AHAHHU.. HAAUUE… IHHEE …EHHUU. I due corpi sembravano non essersi accorti di me, come d'altra parte nemmeno i gemiti. "Posso osservare più da vicino?", chiesi gentilmente, mettendoci tutta la

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cortesia che potevo. Il corpo scuro e caldo si voltò di scatto. Poi imbarazzato sembrò ritirarsi indietro con cura, e una volta libero, si infilò il berretto di pelle, si allacciò alla bene e meglio i calzoni e schizzò fuori dal ripostiglio. Il corpo bianco sembrava sensibilmente più rilassato dell'altro e mi guardava, aspettando come nulla fosse, come se il suo aspettare non fosse qualcosa, ma fosse solamente. "Stia pure," gli dissi. "Vorrei solo osservare la sua fessura. Prima ho incontrato alcune difficoltà con lo sfintere della macchina per il caffè e per il cappuccino, e volevo vedere cosa ci fosse poi di così difficile nel centrare l'orifizio giusto." La ricercatrice affaccendata che prima mi aveva aiutato con la macchina del caffè e del cappuccino, ghignò in un modo strano e animalesco, se avesse ringhiato non me ne sarei stupito. Sembrava pure che la mia vetusta età non l'imbarazzasse. Capii presto perché; non ero più così vecchio e stanco come quando ero morto e mi trovavo nello stanzone freddo e bianco. "Venga dottore, venga, poi discuteremo di uno studio che sto preparando per l'università." "Discuteva di quello studio pure col garzone della cibagay?" "Sempre acuto, eh dottore?" Non capii cosa intendesse dire, ma lo stesso mi avvicinai a lei, sfilando qualcosa. Più mi avvicinavo, più la stanza diventava rotonda e sferico lo spazio d'intorno, più la ricercatrice affaccendata sembrava ringhiare dietro il suo sorriso malizioso. Fulmineamente mi chinai fra le sue gambe giovani, e senza indugio inforcai gli occhiali che avevo sfilato dalla tasca mi avvicinai allo sfintere. Quando ne fui così vicino da sfiorarlo con la montatura sentii un ultimo gemito, e saporai un aspro odore di caffè e di cappuccino. Il vapore della macchina del caffè e del cappuccino, calda e palpabile, si diradò lentamente, e vidi il numero 67 sopra al gettone con una grande scanalatura da una parte e due grandi scanalature dall'altra che passeggiava in senso antiorario. Era cogitabondo e non si accorse immediatamente che lo stavo osservando dalla fessura per introdurre le monete. Sembrava che pensasse a qualcosa di gradevole e doloroso al contempo, ogni tanto metteva fuori la testa dal suo sudario bianco e freddo, e lamentava alcune parole verso l'alto gesticolando. Compiva i giri del perimetro del grande gettone in senso antiorario, e ad ogni giro gli mancava qualche capello e la pelle del viso diventava più flaccida e rugosa; le gambe malferme. "Ho pensato bene, dottore, preferisco che mi diano un numero e un nome anche dopo morto è meglio di niente, è sempre qualcosa. Cosi non mi confonderanno e non mi metteranno nella tomba di un ebreo dove verrebbero i rabbini e i suoi figli a battersi il petto e a cabalare il nome di Dio. Così non mi metteranno nella tomba di un mussulmano dove verranno donne con velo nero a battersi in testa e a tirarsi i capelli, così non verranno gli arancioni coi loro codini da cavallo e i loro tamburelli, così non verranno gli scintoisti a suonare le loro nenie e a dire 'aumh aumh', così non mi inceneriranno nel forno dell'Amsa, e non mi estrarranno un rene per darlo a qualcuno che senz' altro diventerà un delinquente, o sarà un'altra vita inutile con le tante. Perché vede dottore, io non ho firmato; hanno tentato di convincermi, ma io niente, il corpo è mio anche dopo morto gli ho urlato, è mio anche dopo morto, gli ho sputato in faccia a quei bastardi." "Già, già, proprio vero," dicevo io accondiscendente, "però così verranno i suoi parenti a portare fiori e a dire cose belle su di lei.” "A questo non avevo pensato però."

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All'improvviso si apri uno sportelletto, e dalla macchina del caffè e del cappuccino venne tolta una scatoletta con dentro tanti piccoli gettoni, che vennero gettati in un cassetto del banco delle giovani affaccendate. Una ne sfiorò uno con le unghie e sorrise stringendo le mani al petto. Poi me lo porse sfiorando pure la mia mano. Voltandosi ridacchiò in quel modo tipicamente femminile con una sua collega. Ringraziai e mi diressi verso la macchina del caffè e del cappuccino, ma non riuscii, nonostante ce la mettessi tutta, ad infilare la piccola fessura. "Dottore ... dottore ... presto dottore, è urgente, un parto quadrigemellare alla 76." "Come dice," diss'io, drizzandomi fiero sopra i miei comodissimi zoccoli, "il 76? Conobbi non più di un tempo fa il suo inverso, tale 67, non voleva cedere il proprio corpo dopo morto." "Dottore, non si tratta di morte, ma di un evento straordinario, il parto, la nascita, il debutto in vita di quattro piccole canaglie." Entrando nella sala operatoria avvertii come un colore di freddo e bianco di bianco e un vago odore di caffè o cappuccino. "Avete già messo in posizione l'oggetto?" "Certo dottore, come di prassi." "Dieci micro di benzoduocalmina per sedare un po' l'oggetto? L'acqua è sul fuoco? Son pronte le fasce? Mamy si è lavata le mani, Rossella sta facendo la scena isterica, i nordisti son tutti dei bastardi antirazzisti? Viva il generale Lee! Si può orbene cominciare, via col tempo!" "Ma dottore era via col mento!" ''Si sbaglia signorina era via coll'empio, sottinteso tempo. La letteratura medica non lascia dubbi in proposito, acqua bollente, fasce sterilizzate nello sterco che fermenta al sole del Texas, e i nordisti alle porte che stuprano le figlie di buona famiglia con le lentiggini. Avete preparato anche il caffè, senza macchinetta per il caffè e il cappuccino?" "Mi scusi," intervenne un infermiere affaccendato, "ma non si trattava di via con scampo, sottinteso come per i politici c'è sempre una scappatoia." "Non dica corbellerie e stia al suo posto ... Forcipe, per favore. Anello collassiale, martinetto idraulico, divaricatore, lima," ripetevo stanco alle assistenti affaccendate, difatti era un parto difficile, di quelli che se ne vedono pochi nella vita, "tornio e tornitore, morsa e morso, pinza, trapano ... et voilà ecco sistemato tutto." Il parto era finalmente riuscito, quattro pacche sonoramente rimbombarono nell'accogliente e calda sala operatoria: PAK, PAK, PAK, PAK, e subito il suono del gettone che cade nella vaschetta metallica risuonò secco: DENG, DENG, DENG, DENG. Erano venuti alla luce quattro perfettamente rotondi gettoni per la macchinetta del caffè e del cappuccino; respiravano bene, il perimetro era regolare, il suono non fesso, solo alcune imperfezioni sulla piccola e fredda scanalatura di una faccia, mentre le scanalature, calde e due, dell'altra, erano più che soddisfacenti. "Certo dottore che lei è meglio di Mamy, lei sì che ci sa fare." "Nulla piccola, uno scherzo per me!" "Certo che a lei dottore deve proprio piacere operare, e portare alla luce quattro piccole canaglie che andranno a vivere una vita inutile. e nociva come quella di

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tanti altri." "Le dirò, non è che mi entusiasmi poi molto." Le cosce della ricercatrice affaccendata si stavano lentamente chiudendo, come pure il labbro sinistro e quello destro. Avevo capito il difetto nell'introdurre il gettone nella macchinetta del caffè e del cappuccino. Prima va attentamente stimolata affinché entri nel buon umore, acciocché olii e additivi lubrifichino lubricamente per la bisogna. Avrei certamente fatto sentire le mie ragioni al capo del personale, che qualcuno stesse nei pressi della macchinetta e la stimolasse a dovere. Che figura ci facciamo con gli oggetti pazienti che non riescono a saporare il loro caffè? Intanto la ricercatrice affaccendata si stava rialzando e stava finalmente chiudendo le labbra purpuree che tanto aveva tenuto aperte. Sembrava contenta, e anch'io ero contento; amavo studiare e osservare, amavo la scienza, perché la scienza è grande! Stavo giusto pensando quanto fosse divina la contemplazione e il contemplare, che si aprì la porta grande e scura ed entrò il 67. Sembrava affaticato e ansimava vistosamente. Il sudario con cui era stato accuratamente avvolto era e sembrava stracciato e roso, solo qualche macchia del caffè e del cappuccino interrompeva la monotonia del bianco e la freddezza del freddo. "Prego si accomodi," diss'io genuflettendomi compitamente, "si riposi con noi. Stavamo giusto considerando guanto grande fosse l'ingegno umano, e quanto strette le fessure non umide. Si segga sopra i sacchi del caffè e del cappuccino che servono per rifornire l'omonima macchinetta, e ci erudisca. Mi raccomando però, non ci tedi con cose noiose, ma ci sollazzi con cose allegre e divertenti." "Non mancherò," disse il sessantasette, "visto che veggio nel mio pubblico un'attenzione prolifica e una rilassatezza prolifica altrettanto. La signorina affaccendata mi perdonerà, se ogni tanto cade qualche pezzo di membra marcia, ma sa com'è non ci sono più gli obitori di una volta; c'è troppo caldo e scuro da queste parti." "Faccia, faccia," disse la ricercatrice affaccendata, ''sono una scienziata io, e certo non perderò la cesta per dei fenomeni di putrefazione del tutto privi di una qualche arazionalità." "A proposito di testa, permettete che appoggi la mia sopra la bacheca, è ormai dal tempo in cui sono morto che mi pesa pesantemente." Quindi sessantasette del tutto indifferente svitò la testa dal collo e con un stappo di ventosa, PLOPHT, l'appoggiò alla bacheca. La testa non ne voleva sapere di starsene lì ferma e zitta, e intonò la romanza non tornerò mai più da te, traditor. Inoltre, ad ogni ritornello, quello che recita, “oph, oph, oph, faccio un giro e poi vedrò”, la testa faceva un giro della morte imbrattando di lordura noi e il muro e i rifornimenti per la macchinetta del caffè e del cappuccino. 67 iniziò la sua sperequazione con excursus di mendacia estensione. "Vedete giovani affaccendati amici miei, c'è chi crede che la vita dell'oggetto sia tutta lì sopra la bacheca, sia tutta nella testa, chi invece pensa che tutta la vita sia molto più in basso, nei pressi delle fessure e dei gettoni. E chi avrà mai ragione? La testa la si può perdere, e i gettoni possono essere difettosi oppure essere inadeguati per la macchinetta del caffè e del cappuccino, e si rischia che una qualunque scelta in fine sia sbagliata o quanto meno inesatta. Il caffè d'accordo è importante ed anche il cappuccino, ma l'oggetto cerca sempre la brioche. È questo il suo limite, non si accontenta del caffè o del cappuccino, ma vuole

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anche la brioche, e con la panna per giunta. Oppure rende sacro questo blando stimolante tanto da adorarlo come un Dio. Quindi un giorno perderà testa, caffè, cappuccino e perfino la brioche con la panna, per non parlare del gettone… Scendi ti ho detto scendi baldracca ... " Sessantasette si era messo a urlare alla sua testa che aveva preso a girovagare vicino al soffitto facendo la smorfiosa con alcuni gettoni con un scanalatura da una parte e due dall'altra. Addirittura si misero a giocare ai birilli; i gettoni facevano quest'ultimi e la testa da boccia. " ... scendi baldracca ... scendi stronza che non sei altro ...” Ma la testa si stava divertendo un mondo e non gli passava neanche per la testa di scendere, anzi! Avendo lei il singhiozzo godeva un mondo a prendere la rincorsa, correre verso i gettoni e all'ultimo momento saltare ed evitarli. "Senta," diss'io, "chiami all'ordine quella testaccia senza sale, mi sta lordando tutto 'il materiale grigetto sbiadito." "Ma che c'entra il sale," disse la ricercatrice affaccendata, "il caffè è sempre o troppo amaro o troppo dolce." "A me il caffè non piace proprio da morire," diss'io, senza riflettere opportunamente. Ero di nuovo nello stanzone freddo e bianco, immobile sul pavimento e nudo. Certo nel frattempo era sensibilmente migliorato il mio aspetto e mi sentivo più vigoroso, ma il fatto di dover prendere di nuovo l’ascensore, incontrare le giovani al banco affaccendate, e il caffè, proprio non mi andava. Ma io ero timido e non volevo impormi e cambiare lo schema delle esistenze ospedaliere. Giuro, ci avrei anche a fosse stato per me; ma avrei se troppi gettoni nel paniere e io si sa non mi intromettevo mai negli affari altrui. Mi voltai verso la mia sinistra e vidi il sessantasette disteso immobile nel suo cassone. Mi tirai su agilmente pensando OPPLA’, rinfilai il camice freddo e bianco con su la targhettina, gli zoccoli bucherellati e uscii dallo stanzone. Verso l'angolo più lontano scorsi l'infermiere che con la sua barella andava in cerca del sessantasette. "Senta, uomo del popolo, senta." "Sì dottore?" "Credo che lei si stia affannando inopportunamente, il cadavere che cerca, si trova nel proprio loculo, come le avevo detto prima." "Ma ... dottore, avevo visto bene." "Si ... si... si silenzio, vada nella B e controlli." L'infermiere affaccendato si precipitò nella B. Dopo poco si udì un urlo lancinante. "Dottore ... dottore:: ... il sessantasette è stato decapitato!" "Senta buon giovane affaccendato, fra il decapitare e lo svitare, passa una bella differenza. Dobbiamo sempre farci distinguere in provincialismo accademico?" "Ma ... dottore ci andrò di mezzo io, apriranno un'inchiesta ho pure dei precedenti, mi accuseranno di necrofilia, gerontofilia, filodendria, filogenia, ontologia." "Suvvia mio caro affaccendato, cosa vuole che sia, Ci sono cosi tanti uomini senza testa, uno in più uno in meno, che vuole che sia, suvvia!" "Ma io ho dei precedenti ... ho famiglia, mi cacceranno, mi imprigioneranno, mi sodomizzeranno." "Sodoma più, Sodo ma meno, gonorrea più, gonorrea meno, suvvia, che vuol che sia!" E me ne andai leggermente infastidito da tutta quell'apprensione. Un po' di self control per Dio! Mi diressi senza indugio verso l’angolo più vicino dell’infinito

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corridoio con i tubi a vista. Ma prima volli specchiarmi a lungo nello specchio dell'ascensore. Riflesso sulla paretina, vidi il fagotto bianco e freddo del 67 senza testa. Tastai dove prima c'era la mia ma non palpai nulla. Mi venne un gran desiderio di caffè dolce o amaro che fosse: non so per quale motivo, forse tutto quel bianco e quel freddo del corridoio aveva annoiato. Mi girai e vidi nell'angolo distante proprio una tazzina di ceramica bianca e calda, con un bel caffè cremoso e fumigante. Mi diressi frettolosamente sopra i miei zoccoli alla rincorsa della tazzina. Finalmente un caffè senza macchinetta del caffè del cappuccino, e senza cappuccino per giunta: scommisi pure che era dolce al punto giusto, e amaro ottimamente. Stavo quasi per raggiungere l'amato beverone, quando vidi una figura indistinguibilmente bianca e decapita correre più in fretta di me verso l'angolo più lontano. Poi il fagotto si sfagottò, prese la tazzina e la rovesciò nei calzoni, dopo averli allargati alla vita. Vidi fumacchiare il davanti dei pantaloni e vidi l'ombelico scoperto del sessantasette, contrarsi e guaire dalle risate. Mi avvicinai fieramente. "Alt, in nome della scienza, mi faccia osservare il suo ombelico, 67!" "Faccia, faccia, tanto non potrà portarselo via e trapiantarlo, perché io non ho firmato; gli ho detto che il corpo è mio anche dopo morto," gli ho detto a quei bastardi ... venga dottore, venga." Mi chinai bilanciandomi sopra i miei zoccoli bucherellati con la mano sinistra aperta tenevo dilatato orizzontalmente l'ombelico, con la mano destra lo tenevo divaricato verticalmente. Inforcai gli occhiali alquanto stupito, perché non vedevo sfogo alla fessura, né gettoni con una scanalatura da una parte e due dall'altra, né scatolette metalliche di raccolta. Mi alzai dritto, sensibilmente ringiovanito, e guardai negli occhi il 67, ma occhi non aveva, non avendo testa. "Tiri fuori i gettoni e la cassetta metallica e me li dia immediatamente; anzi ne sfiori uno con l'unghia e sorrida stringendosi al petto le mani."' "Giammai. Anche un morto ha la sua dignità!" "Ah sì? Ah sì? Allora io firmo al posto suo per concedere il trapianto della sua testa su di un babbuino." "No.. il babbuino, no, il babbuino no!"' Udii uno scrosciare fragoroso di gettoni veraci provenire dal retro del sessantasette. Incuriosito girai dietro al malcapitato decapitato e vidi con grande gioia, come del tutto semplicemente il 67 cacava un flutto continuo di gettoni con una scanalatura da una parte e due dall'altra. Finalmente la scienza, per merito mio, aveva scoperto il malcapitato decapitato dai gettoni d'oro. Non passò nemmeno il tempo del tempo, che passò un impiegato affaccendato e ritirò i gettoni senza la scatola metallica e li ripose in un cassetto del bancone delle giovani affaccendate. Una di queste ne impugnò uno con grinta incredibile. Si diresse spintonando fortemente la marea di persone ansiose che defluiva verso le porte automatiche, gettò a terra una donna interessatamente in stato interessante a cui era stato appena innestato l'ovulo fecondo di una donna sterile, diede un calcio alla macchinetta del caffè e del cappuccino e gridò: a noi due, brutta troia, vediamo se me ne freghi un altro! Dunque introdusse il gettone dopo aver stimolata. per benino lo sfintere fessura, ringraziando e rifiutando l’addetto del personale che voleva aiutarla. Il caffè scese bianco e freddo, e questo perché non era caffè, ma solo il latte altoatesino e per di più non riscaldato. La giovane affaccendata sfidò nuovamente la macchinetta e disse: "A me il latte altoatesino

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freddo, mi piace da morire." Non l'avesse mai detto! Mi ritrovai nello stanzone bianco e con le pareti che sembravano umide, ma non per terra e nudo. Ero invece nel corpo della giovane affaccendata, ma pur sempre nel loculo che scompariva nel muro e mi sentivo tremendamente bianco e freddo, avvolto come ero nel sudario bianco. Per giunta la signorina affaccendata era riuscita a bere qualche flutto di latte altoatesino bianco e freddo, ed io ora rischiavo di affogare nei sorsi tristi del suo stomaco. Un vortice potente e gorgogliante mi intrappolò dopo poco, tirandomi sempre più verso il centro. Pensai di non aver più scampo, e quasi volevo lasciarmi andare a tutta la pace del bianco, a tutta l'avvolgenza del bianco, e finalmente dimenticare. In lontananza però vidi come un riflesso translucido e ogivale. Con le ultime forze che mi rimanevano, diedi tre o quattro potenti bracciate. Raggiunsi finalmente quell'ombra strana che si proiettava vicino a me. Mi tirai fuori dal latte candido e d'incanto il mio camice e la mia targhetta si asciugarono. Incamminandomi non provavo più freddo, ma mi sentivo scuro e tiepido. Inforcai gli occhiali e osservai chinandomi il barlume abbacinante che proveniva dall'esterno. Con la mano tesa a coltello, spinsi nell'ogiva che aveva forma di bifora e sforzai. Man mano che riuscivo ad aprire uno spiraglio mettevo più forza, poi usai anche l'altra mano finché riuscii ad aprirmi un varco abbastanza grande da far passare il mio cadavere. Misi fuori la testa e subito mi ritirai indietro stupito. Davanti a me c'era un gigantesco volto di uomo anziano ma poi non così anziano, che con dei ridicoli occhialetti stava osservando la fessura da dove io spuntavo. Ero nell'ombelico del sessantasette. Subito infatti dal collo mozzo cadde una grossa goccia di sangue raggrumato che quasi mi travolse scura e fredda. "Scusi, mi permetta di chiederle cosa mai osserva con tanta attenzione " "Certamente, faccia, faccia." "Cosa osserva con tanta attenzione?" "Vede, caro amico affaccendato, poiché io son sempre stato un alfiere della scienza, ma che dico alfiere, piuttosto un ferreo combattente della scienza, stavo osservando l'ombelico del sessantasette cercando il quibus della gnoseologia della fessura, quando tutto ad un tratto ho visto un piccolo strano essere uscire dallo sfintere e mi sono incuriosito." "Come vi capisco, amico caro, la curiosità è tremenda. Vede io invece cercavo la metafisica del gettone e mi vidi costretto a nuotare in un mare di latte altoatesino, per di più freddo e bianco. La scienza non paga in verità." "Certo, non paga per adesso, ma quando pagherà, vedremo che interessi. Poi a me piace da morire." Il mio corpo inspiegabilmente femmineo era seduto sul loculo a scomparsa e non voleva saperne di apprezzare i robusti seni e le gambe giovani che si ritrovava. Scese dal loculo e quasi svenne dal freddo e dal bianco del pavimento che sembrava umido tanto era lucido. Si infilò il camice che era appeso all'attaccapanni e lo stirò con le mani accuratamente. Sul peno rotondeggiante e teso da un finissimo reggiseno a balconcino, nero e corposo, penzolava allegra una targhetta... ‘dottoressa...’. Usci e si ritrovò in un corridoio lungo e freddo con pesanti tubi a vista. Si diresse verso l'angolo più vicino, passeggiando. Basculava il sedere in modo ambiguo, forse perché già sapeva che avrebbe incontrato uno dei qualsiasi affaccendati. "Dottoressa ... dottoressa ... " "Mi dica buon uomo del popolo affaccendato."

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"Senta ... Prima mi è scomparso il cadavere del sessantasette, poi lo ritrovo decapitato, adesso è scomparso anche il dottore …, io tengo pure dei precedenti, pure una famiglia; se tutto non si mette a posto, mi cacceranno con un calcio in culo, mi cacceranno." "Suvvia, buon uomo affaccendato, solo pochi istanti fa li ho visti tutti e due. Non si preoccupi così, di certo non si annoiano, stavano discorrendo di scienza, e se lei avesse avuto la fortuna di sapere, saprebbe che la scienza è infinita e che se ne può discorrere infinitamente, comunque cosa vuole che sia, suvvia, di dottori ce ne sono così tanti, suvvia cosa vuole che sia" Se ne andò molto contenta di aver potuto portare una buona parola a quel giovane affaccendato che sembrava così sconvolto. Prese l'ascensore. Guardandosi allo specchio si ravviò i capelli così incatenati sotto la cuffietta bianca e fredda e si pizzicottò il suo minuscolo lobo. Scese nell'androne pieno di gente ansiosa, e si fece strada verso la macchinetta del caffe e del cappuccino. Vide un anziano dottore, ma poi non così anziano, che armeggiava intorno alla fessura con un gettone senza riuscire a stimolarla adeguatamente. "Lasci dottore, l'aiuto io, dottore." "Oh grazie ricercatrice affaccendata, è così difficile trovare gli sfinteri giusti oggigiorno." "Non si preoccupi dottore, vede anch'io volevo prendere un caffè; mi piace da morire." Strinsi le gambe che avevo tenuto tanto aperte. Prima per il garzone della cibagay, e poi per quel professore così perverso e morboso. “Chissà cosa aveva da armeggiare e da guardare dentro lo sfintere. Che non avesse mai visto una macchinetta per il caffè e per il cappuccino? Comunque per male che mi sia andata oggi, mi sento lo stesso tremendamente rilassata”. Entrò dalla porta scura e pesante il sessantasette alquanto ansante, si svitò la testa e si mise a parlare. Ma in quel momento gracidò l'altoparlante: "Comunicazione di servizio: immobile ruota il motore della macchinetta con soavità superba, spinto da moto di sincronica velleità; sito il suo di terra celeste, iperuranica contrada di sapore ancestrale." Era il segnale dell'inizio della sacra rappresentazione mattutina in onore della macchinetta del caffè e del cappuccino. Mi alzai e mi diressi con tutti gli altri verso l'aula magna. Quando entrai quasi tutti avevano già preso il loro posto e la loro tazzina; il sacerdote intonò: "Regione questa al di là delle lande antologiche oltre le remote arcaicità libidiche, più in là delle terre dell'Amaro Digestivo, avanti i confini di Sir Aperitivo; presso i laghi termali del savio Zucchero, presso il mare tempestoso del folle Gettone. Dove le cime aguzze e abissali, i baratri turgidi e fecondi della sempiterna deità, arse rimangono dal caffeino abbaglio e consolate dal diluvio suo, immobili divengono. Vi dimora Cucchiaino ma non in arme, il Bicchieretto privo del bicchierare, la concavità non è, ma solo accoglie e racchiude. La chimerica Centrale e le dilette sue sorelle non ruggono vomitando fuoco, ma latte copioso donano. Scottanza e Corposità, dal coito uniti in immortal amplesso, come caffeina e le compari sue. Tre volte la Trinità delle essenze loro, giacciono sul talamo nuziale del molteplicemente unico, sette volte la tema assommate in sé sono le sfere della quantità zuccherosa. Del beverone lo spirto filosofale nel

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crogiolo filosofico, discerne il nettare ambrosio dell' esperide stimolante. Sincronici l'Amarezza e la Schiumetta scandiscono l'inesistenza del tempo, concreto il vuoto va facendo da scolta alle tre volte la Trinità per tre volte assommate in sé ingressi, a ciò che l'immondo Decaffeinato non vi possa entrare. La tacita musica del lirico poeta canta dell'anima lo statico sorbire immobile, del bere orchestra solo il misterico presentimento. Scuri prati di uterina istericità del seme di miglior miscela arabica infuso da andrògino animale, placati dalla sete loro, fioriscono .... Quando terminò la sacra rappresentazione, tutti si inginocchiarono e urlarono: "perché a noi il caffè ci piace da morire!" Finalmente mi ritrovai col mio corpo, con la mia testa. Ero contento ma ero di nuovo nello stanzone bianco e freddo con le pareti che tanto erano lucide da sembrare bagnate. Il camice con la targhetta con su scritto ‘dottore’ non c’era più; non c'erano più nemmeno gli zoccoli bucherellati, neanche il sessantasette. Mi sentii veramente solo per la prima volta dopo la mia morte, il caffè non poteva infatti colmare ogni vuoto; anche la mia dedizione non era grande, ma critica perfino. In vita non è che fui un vero e proprio miscredente, ma avevo una teoria tutta mia e il caffè mi piaceva sorbirlo in determinate condizioni e in certune situazioni, che in vero non erano delle più ortodosse. I disagi che dovetti subire furono molti e alcuni veramente sconvenienti, ma io non gli diedi nessuna importanza, convinto com'ero delle mie convinzioni e incerto com'ero delle mie incertezze. Ora in epoca di mio ringiovanimento non trovavo una nuova spinta religiosa, e il caffè cappuccino e la macchina del caffè e del cappuccino ispiravano certune volte sentimenti blandamente santi e pii, ma ve lo confesso alla fine me ne stufavo senza esserne del tutto soddisfatto. Intanto la freddura del bianco candeggiava il freddo e infreddava la bianchezza dello stanzone e io non ne potei più di pensare sempre al freddo e al bianco, al caffè e al cappuccino e risolsi di incamminarmi per il corridoio anche nudo; in fondo ero un uomo di scienza, i venti avrebbero coperto le mie vergogne. Uscii, e non mi ritrovai nel corridoio coi tubi a vista, cadevo invece lentamente ma in modo inesorabile in un baratro fulgido e scuro. Affianco a me cadevano parallelamente alcuni grandi gettoni con una scanalatura da una parte e due dall'altra, il sessantasette affaccendato, la ricercatrice affaccendata e le giovani affaccendate del bancone. Intanto che si cadeva si intavolò una stravagante conversazione: "Dottore" chiese 67, "pensa che prima o poi arriveremo da qualche parte?" "Che vuole che le dica sessantasette, lei ha già perso la testa, e noi non ne sappiamo più di lei." "Vede dottore, è di estrema importanza prevedere: uno, se mai arriveremo, e due, nel caso arriveremo, dove arriveremo. Perché cosi potremo progettare, prepararci, cercare di mutare, evolvere." "Ma signore," disse la ricercatrice, "cosa gliene cale? Si goda piuttosto la caduta, si goda l'ebbrezza della velocità! Personalmente io mi trovo benissimo. È così bello scivolare coi pattini su questo ghiaccio nero e caldo, mi sento tutta avvolta da mille braccia, toccata, accarezzata, ammaliata, sfiorata. Non si crucci con strani enigmi, si lasci andare, si rilassi e cada ... e cada ... e cada ... " "Vorrei, se permettete," diss'io del tutto illuminatamente tollerante, "difendere la posizione del mio amico decapitato affaccendato; non giustificarla bensì difenderla, intendiamoci. Egli ha perso la testa, questo è certo, ma ha ancora a

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disposizione alcuni gettoni e vorrebbe investirli per il futuro. Non vedo in ciò nulla di sconveniente. Egli sa che ancora prima di giungere dove giungeremo, se giungeremo, tutto sarà cambiato mille volte e tutto mille volte sarà ritornato uguale, ma nel frattempo non vuole annoiarsi senza far nulla. Egli sa che se quattro gettoni ha adesso, ne impresterà uno, ne guadagnerà mezzo, ne giocherà due e ne vincerà uno e mezzo e poi ne perderà due e quindi ne possiederà quattro come prima ... ma sa pure che nel frattempo ha vissuto. "Ma sa che lei ha proprio ragione," disse il sessantasette. "Ah, noi proprio non vi capiamo," intervennero le giovanette tutte carucce del bancone, intente nella caduta nera a sfiorarsi tenui e a complimentarsi fra loro mormorando piano, "non è forse vivere questo cadere, non è forse bello? E dionisiaco, è frenetico e dolce al contempo, è eccitante, e a noi piace eccitarci per poi soddisfarci!" "Ma tacete," urlò il sessantasette sempre teso nella sua caduta, "voi donne non sapete nulla. Che ne sapete voi del discorrere? Che ne sapete della teoria e delle scienze? Le scienze sono maschie, la teoria è maschia, solo la guerra è femmina!" "Non direi," disse la ricercatrice affaccendata, "io so conciliare la mia femminilità con la ricerca." "Certo, specialmente con i garzoni della ciba-gay," diss'io. "Impudente! " diss'ella. "Senta dottore," apostrofarono le carucce affaccendate, "com'è che lei cade del tutto nudo? Aveva caldo nella bianchezza, o freddo nella scurezza?" "Ah giovani sconsiderate affaccendate, io non sono nudo, mi veste il Sapere! Sapete cos'è il Sapere? Certo che no! Come potreste? Se sapeste il Sapere, avreste saputo! Dolci mie affaccendate carucce, l'uomo è sempre nudo, vaga nudo per la vita; è nudo il sapiente, è nudo l'ignorante, è nudo il fedele. L'unica veste che ci è concessa è quella che ci doniamo noi medesimi con lo sforzo quotidiano del vestirsi di abiti però afoni. Ahimè non sono nudo, sono vuoto che è peggio, non sono, sono nulla, per questo sono senza vesti. Ma se un giorno mi vestirò sarò ancora più nudo del re nudo, e sarà ancora peggio, sarò vestito della mia nudità e della mia vuotezza, e non sarei più nulla, ma sarei il Nulla." "Ma dottore!" intervenne l'affaccendata ricercatrice, “Mi sembra che lei stia esagerando. C'è tanto nulla nell'ospedale, che vuole che sia; nulla meno, nulla più, suvvia non si preoccupi e si copra al più presto che ciò che troppo si vede viene a noia. E non vorrei mai che i gettoni mi venissero a nausea." "Fermi tutti!" "Vorrei sapere come potremmo fermarci. Stiamo cadendo tutti!" rispose una voce indistinguibile. "Ma no. Fermi, per dire! Vedo in giù qualcosa. Più che qualcosa sembra solo un riflesso ... sì, un riflesso lontano ... un barlume abbacinante ... che affascina nella lontananza ... che ispira sentimenti nuovi ... che stimola al progresso ... " "Ma non faccia il poeta, cretino!" ingiunse ancora una voce indistinguibile. " È solo il riflesso metallico della scatoletta dei gettoni della macchinetta del caffè e del cappuccino!" "Finalmente giungiamo, dove proprio non lo so, ma giungiamo," disse il sessantasette. "Ha visto," protestai, "si giunge sempre da qualche parte, se non altro si giunge dove già si era."

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OHHHH .... OHHHHH ... il baratro nero e il tunnel funesto finì precipitosamente. Sembrò che si asciugasse come il caffè sopra il camice, veniva riassorbito da fessure invisibili. Cademmo tutti senza tanti complimenti l'uno sull'altro; il più sfortunato fu chi cadde sopra il sessantasette e si inzaccherò di sangue coagulato. Nessuno però si fece male. Solo uno dei gettoni si scalfì in un angolo del suo perimetro rotondo, e divenne inutilizzabile per la macchinetta del caffè e del cappuccino poiché non entrava più nella fessura, ma sarebbe bastato stimolarlo un po' perché si raddrizzasse istintivamente. Ora ci trovavamo tutti lì, storditi non dalla botta, sbalorditi piuttosto dalla stravaganza della nostra avventura, perché cadere? Perché stare proprio lì? Perché avere? Ognuno occupò un gettone e iniziò a camminarci sopra seguendo il perimetro in senso orario. Ognuno si aggiustò le mani dietro la schiena e leggermente inclinato, passeggiava cogitabondo. Ad ogni giro che si compiva c'era chi ringiovaniva, chi invece invecchiava; io ringiovanivo vistosamente e le carucce affaccendate ogni tanto mi saettavano sguardi lusinghieri. Tutti, compreso io stesso, si sforzavano di darsi una risposta degna di essere creduta, e tutti si rispondevano senza considerarsi degni di essere veritieri. Circolare sul cerchio, manteneva lo stesso per noi un fascino inusitato, e trovare l'inizio, o se preferite la fine, era un'occupazione tutto sommato degna della nostra condizione di esseri umani. Anzi era tanta la dignità che quel passatempo ci donava che poco dopo ci sentimmo tutti al di sopra di noi stessi, ci sentimmo dei titani abbandonati su una zattera pericolante; ma eravamo felici. Avremmo preferito che la parete della scatoletta dei gettoni non ci limitasse la vista e lo spazio, ma abbassando gli occhi nella posizione del crasso, non la vedevamo più e riuscivamo a immaginarci infiniti mondi e a sentirei nel migliore possibile. "Cred'io che la nostra condizione non sia così disdicevole come potrebbe apparire," argomentò la ricercatrice affaccendata. "Cosa dovremmo desiderare di più; siamo nel cuore della suprema macchinetta del caffè e del cappuccino, abbiamo gettoni e fessure a volontà, siamo in bella compagnia ... ma che volete di più?" "Certo lei ha ragione dottoressa affaccendata," timidamente proferii. "Ma la questione non può risolversi nel benessere, sarebbe troppo semplice o semplicistico. La questione è se possiamo considerarci veramente nostri e se i gettoni stessi li possiamo considerare in nostro possesso. Vede bene anche lei che la fessura li rifiuta se non viene adeguatamente stimolata alla bisogna." "Ma voi ci fate o ci siete," si arrabbiò il 67. "Bisogna sapere per potere poi investire e guadagnare, ipotecare e reinvestire, guadagnare, perdere e rifarsi." "Secondo il nostro modesto parere," si affacciarono dal loro gettone le carucce affaccendate inconcludenti, "noi siamo qui proprio per chiederci perché siamo qui. E questo il fine, lo scopo supremo della macchinetta del caffè e del cappuccino!" Ma non potemmo finire il nostro dialogo. Uno scossone possente ci sradicò dalle nostre convinzioni, dalle nostre incertezze, e dalla nostra solida posizione sopra il gettone. La scatoletta venne, senza alcuna grazia, estirpata dalla macchinetta del caffè e del cappuccino. Ci trovammo tutti l'uno sopra l'altro in una platonica orgia di idee, e non avevamo il coraggio neppure di sfiorarci, di toccarci, di approfittarne insomma. L'affaccendato impiegato con zelo encomiabile ci trasportò nella scatoletta per un tempo singolarmente atemporale, curando di

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tappare la scatoletta fredda e bianca con una mano scura e calda. Poi la rovesciò per terra nel corridoio lungo e con i tubi a vista. Nessun contuso. Sopra di noi si ergeva un fagotto bianco e amorfo e senza testa che sgocciolava grumi di sangue raggrumato, alcuni gettoni con una scanalatura da una parte e due dall'altra, freddi e bianchi, cadevano dall'alto di un enorme sfintere adeguatamente stimolato, investendoci. A nulla valsero le nostre proteste, il sessantasette continuava a cacare gettoni con una scanalatura da una parte e due dall'altra. Tutto sembrava perduto quand'ecco che comparve l'enorme figura dell'infermiere affaccendato che spintonava la barella con sopra me stesso. Passò di fianco al fagotto bianco e freddo del sessantasette decapitato ma senza badarci, come se non l' avesse nemmeno visto. Mi ripose nella B, nel loculo giusto, e se ne andò crudamente indispettito, come volesse dire: "ho famiglia, io, ho pure dei precedenti, figuriamoci se mi faccio fregare da questi quattro cretini che giocano al rimpiattino ... , mi dispiace da morire, ma ... " Mi ritrovai, nudo, nella sala operatoria di fianco a Mamy che aveva preparato i pentoloni di acqua bollente, le fasce e aveva ordinato a Rossella di fare la scena isterica. Fuori i nordisti stavano stuprando in cinque una figliola di buona famiglia, tuttavia senza disturbare troppo; anzi chi faceva più casino era proprio la buona figliola di famiglia terriera con le lentiggini. SHIHHTT, sibilai stringendo le labbra in una posizione ridicola, "la puerpera ha bisogno di tranquillità, maledizione!" "Dottore, approfitti di questo attimo di stasi e si vada a vestire, fra un po' arriverà la televisione per l'evento plurigemellare." "Grazie assistente affaccendata, ma non so se me la sento di abbandonare la puerpera." "Non si preoccupi dottore, ci pensiamo noi!" Mentre mi allontanavo, le assistenti si misero freneticamente all'opera, e si udirono rumori arcani di metallo sbattuto. Quando ritornai, essendomi attardato a cercare una targhetta con su scritto "dottore ... ", trovai la sala operatoria in festa; il parto era perfettamente e già riuscito. Però non erano quattro gemelli, si trattava solo di una piccola canaglia che aveva appena preso a sbraitare silenziosamente le sue proteste. Lo presi in braccio e lo dondolai affettuosamente. Quando alzai la copertina dove era avvolto restai stupito. Quel piccolo malcapitato neonato affaccendato a piangere a dirotto, ero io. Leggermente ringiovanito, ma sempre senza capelli e con alcune rughe espressive di pelle profumata, ma ero proprio io. Se non fossi già morto sarei certamente morto di crepacuore, e vacillai molto. L'assistente affaccendata mi disse: "Attenzione dottore, lei vacilla molto." "Lei pensi alla puerpera," le dissi, non pensando che se il bimbo ero io, lei era mia madre. "La disinfetti con cianuro, così evitiamo che il bambino cresca nelle mani della solita mamma possessiva, apprensiva, oppressiva, egocentrica e limitativa; meglio orfano!" "Ma dottore, la letteratura medica e pedagogica non prevede un caso del genere." "Della letteratura medica me ne fò un bafo, e me ne fò un bafo pure della letteratura in generale, della psicologia, della psicanalisi, della pedagogia, della filosofia, e della realpolitik e della verosimiglianza ... mi sembra evidente." Presi il bambino, che per altro, quando lo avevo avuto fra le braccia aveva smesso di frignare il suo silente pianto. Mi misi a passeggiare per i corridoi

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dell'ospedale seguendo le linee translucide che trasparivano dal copertone di plastica che proteggeva il tappeto. Pazienti affaccendati affacciati alle pone delle loro stanze dicevano in continuo, "che bello, ma è suo", e io rispondevo serio, "più mio di così si muore; io sono mio!". Presi l'ascensore e schiacciai per il seminterrato, intanto mi specchiavo nello specchio freddo e bianco. Ero ancora più giovane di quando cadevo per il baratro scuro e nero e caldo, ma ancora non scendevo sotto il tempo degli anta; il neonato non era più propriamente neonato, acquistava capelli al pari mio e come a me ricrescevano i denti a lui spumavano i primi dentini da latte. Maturavamo insieme. Appena sceso dall'ascensore passai dal magazzino e mi procurai dei ciripà puliti, un biberon e delle provviste di latte altoatesino vitaminizzato. Mi sarei cresciuto con tutti i crismi io! Poi presi a passeggiare lungo il corridoio con tubi a vista; non incontrai nessun infermiere affaccendato in cerca di un malcapitato decapitato. Entrai nella B, mi distesi nel mio loculo col bambino sulla pancia e cominciai a sussurrargli paroline e dolci e paterne e filiali. Il bimbo pian pianino si chetò del tutto e si addormentò felice, ed io con lui. Quando mi svegliai, si svegliò pure il bimbo, mi guardò con uno sguardo saggio e sorrise coi suoi nuovi dentini spuntati del tutto. Anch’io gli sorrisi con i miei denti, bianchi ma non freddi, rigenerati. Era tempo che imparasse a camminare e a parlare, in modo da poter conoscere il bel mondo. Scesi dal loculo, calzai gli zoccoli bucherellati, il camice con la targhetta con sopra scritto "dottor ... ", e uscimmo insieme nel freddo corridoio coi tubi a vista. Ci dirigemmo entrambe verso l'angolo più distante, dato che io ormai avevo già imparato a camminare; di parlare però mi rifiutavo: cosa mai avrei potuto dire che non fosse già stato detto da qualcuno; sia che avessi filosofato, sia che avessi scoperto scienza, sia che avessi inventato nuovi idoli, cosa avrei detto di nuovo? Tutto era stato già detto, tutto già scritto. Forse solo il coraggio di tacere nessuno l'aveva ancora riscoperto. Dall'angolo più vicino spuntò l'infermiere affaccendato che spintonava sempre la sua barella col fagotto amorfo e bianco e freddo. "Dottore ... dottore ... non ne posso più; prima scompare il sessantasette dalla B, poi scompare il dottore e compare la ricercatrice affaccendata, adesso compare lei ed è scomparso il bambino della 76. Cosa devo fare; ho dei precedenti, ho famiglia ... mi cacceranno con un calcio in culo, che gli darò ai miei bambini, che futuro avranno le mie creature?" "Suvvia, suvvia, che vuole che sia, la pedagogia, la filosofia, l'antropologia, la gnoseologia, l'antologia, la neologia, la logia, la crinoterapia, l'oncologia, suvvia troverà qualche altro posto, qualche altro luogo, qualche altro sito, qualche altra vita ... suvvia che vuoi che sia!" "Ma dottore, lei sa che non capisco, e mi prende in giro, che farò? Ho già la nevralgia, la cefalea, la gonorrea." "Le ho già detto gonorrea, più gonorrea meno, bambino più, bambino meno." Me ne andai con me stesso per mano passeggiando allegramente, e non pensando a nulla; nulla avevo da dire, nulla avevo da pensare. Avevo solo un desiderio; un po' di caffè scuro e caldo per la colazione; il bimbo voleva invece per la colazione dello scuro e caldo caffè. Prendemmo l'ascensore che ci elevò fino all'androne del bancone delle carucce affaccendate. Chiesi due gettoni! per la macchinetta del caffè e del cappuccino. L'impiegata affaccendata li porse al bambino, ma prima di farglieli scivolare nella manina avida, li sfiorò con le unghie e poi strinse le mani al petto gioiosa. Quando tentammo di introdurre i gettoni

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nella fessura, ci dimenticammo che la macchinetta per il caffè e per il cappuccino andava adeguatamente stimolata acciocché entrasse nel giusto umore e olii e additivi lubricamente lubrificassero per la bisogna. Nel tentar di introdurre lo stesso i gettoni, sfregando contro l'orifizio della macchinetta del caffè e del cappuccino irrigidita e frigida, provocammo un sordo rumore metallico. "Lasci dottore, lasci, vi aiuto io. È così difficile introdurre negli orifizi giusti, i giusti gettoni." "Grazie," diss'io, perché io mi rifiutavo ancora di parlare. "Lei è molto gentile ad occuparsi di me e di me, con tutte le faccende che da ricercatrice affaccendata avrà da sbrigare." "Si figuri dottore, è un piacere." "Allora se non disturbo, le chiederò pure un altro favore. Vede qui c'è un bambino ed ha, ormai, il tempo per conoscere il bel mondo. Le rincresce se uno di questi tempi lo porto con me ad osservare la sua fessura. Così impara, se non altro." "Ma prego, ma certo, ma come, ma sì ma è ovvio, ma ... A me mi piace da morire mostrare la fessura." Mi ritrovai io e il bimbo silente e silenzioso in una stanza completamente bianca e piccola, fredda e bassa, dove nulla era distinguibile e tutto era incerto. Vedevamo il fondo lontano biancheggiare vicino e scambiavamo lo spazio per il tempo che ci mettevamo a non arrivare mai alle pareti. Desolati e contenti in quel marasma di candida e liscia indifferenza non desideravamo di meglio che allontanarci lontano per arrivare nei pressi. Aprimmo cento porte e altrettante ne oltrepassammo e sempre rimanevamo nella stessa stanza fredda e bianca, dove nulla vi era e tutto era uguale al resto; scivolavamo su nevi eterne e cadevamo su bambagie morbide, nuotavamo in ruscelli schiumosi e candidi e sorbivamo !arte altoatesino, felici di confonderci anche noi nell'indifferenza sfrenata dell'incanutirsi degli oggetti. Stavamo quasi per aprire la prima e ultima porta del bianco e freddo infinito, quando sentimmo gorgogliare la macchinetta del caffè e del cappuccino. Gorgogliava e sbuffava vapore a tutt'andare, alcuni gettoni cadevano nella vaschetta metallica, un impiegato affaccendato riforniva la macchinetta del caffè e del cappuccino con caffè, zucchero, acqua. Quando aprimmo la porta scura e grande al nostro fianco, vedemmo due corpi inspiegabilmente l'uno sopra l'altro che si agitavano. Quello che ci metteva più foga e partecipazione era il corpo bianco con le gambe divaricate seduto su quello scuro. Quello scuro sembrava abbandonarsi del tutto inerme alla possatezza delle spinte di quello di sopra, ed era con le gambe completamente serrate. I gemiti erano timidi e insicuri, come se sapessero di essere soltanto una parte misera di qualcosa di ben più importante. "Ah cara ricercatrice affaccendata..., si ricorda della promessa che mi aveva fatta?" "Ma certo dottore, ci mancherebbe altro, vengano, vengano. Il garzone della ciba-gay riuscì a malapena a liberarsi del peso del fagotto bianco che gli ballettava sopra. Si infilò il cappello di pelle, si chiuse alla bene e meglio la lampo dei calzoni e si affrettò ad uscire. Mentre io e il bambino ci avvicinavamo alla fessura della ricercatrice affaccendata, che si era messa bocconi e con le spalle appoggiate allertino da infermeria, il rumore della caduta dei gettoni si faceva sempre più insistente e ritmico, scandiva quasi i nostri passi felpati. Nuvole scure e profumate di caldo e tiepido velluto si posarono dolcemente su me, su io

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bambino e sulla ricercatrice affaccendata. Avvicinandoci, io istruivo il bimbo muto. "Vedi caro, quella è la fessura della macchinetta del caffè e del cappuccino, va attentamente stimolata affinché entri nel giusto umore acciocché olii e additivi lubricamente lubrifichino alla bisogna. Sta attento è molto importante; nell'introdurre i gettoni devi poi fare attenzione a non provocare rumori metallici imbarazzanti. Vedi ... vedi dentro come è fatta la macchinetta del caffè e del cappuccino. Bisogna conoscerla per apprezzarla veramente." Mi avvicinai con l'io bimbo fino a sfiorare la fessura della ricercatrice affaccendata. Sbirciammo a lungo lì dentro senza scorgere nulla. Poi qualcosa indistintamente nel bianco e freddo, prese e differenziarsi e a donarsi una forma. Era una stanza, uno sgabuzzino, con dentro delle scope, una bacheca con dei medicinali disordinatamente abbandonati dentro, i rifornimenti per la macchinetta del caffè e del cappuccino. Poi v'erano due che vicini alla fessura di una ricercatrice affaccendata scrutavano dentro e vedevano uno sgabuzzino con delle scope una bacheca con dei medicinali disordinatamente abbandonati dentro e i rifornimenti per la macchinetta del caffè e del cappuccino. Poi c'erano due che vicini alla fessura di una ricercatrice affaccendata scrutavano dentro e vedevano uno sgabuzzino con ... L'altoparlante gracchiò: "Il concerto elude immagini con sublime caparbietà, concentrano nel caffè da promiscuità divine." Era il segnale della rappresentazione sacra meridiana in onore della macchinetta del caffè e del cappuccino. Dovevamo abbandonare lo studio e la scienza e andare. Quando prendemmo posto nell'aula magna ci venne servito subito un bicchieretto con del caffè e una brioche ma "senza panna. Il sacerdote intonò senza indugio: "Nella palude che domina femminea sotto la vetta dell'ingordo macinacaffè, le groane parassitiche succhiano la linfa vitale del vero, per creare il bello, in estetica estaticità. La caffeina è fonte dei preziosi stimoli spirituali, la cortigiana dal ventre ospitale che cheta il fallico dubbio. Tre volte la Trinità per tre volte ancora assommata in sé sono i dilemmi della maschia religione, tre volte per tre volte ancora per il nulli fico zero, i quesiti della femminea fede nel pragma decaffeinato. La magia e l'incanto del Caffè trovano qui eterna soddisfazione immediata, nel realizzarsi unisono di poliedriche armonie e contrappunti sensuali, dove il caffè terzo solo al primo, non rende ebbro, ma lucido levigatore. Terra è la sua in cui di afona volontà, umano sorbire non sussiste ad essere tale, né a guisa di diritto l'opinione sul decaffeinato verità rafforza, né del polo macinatore eccentrico il caffè è schiavo. Complessa rete canalare di caffè vitrei e fragranti d'immemore efficacia, servendo calle ponteggiate con sordo tramestio d'invisibilità del dubbio del tè dispensatrice e purga, di caldezza e corposità schiumosa assorta portatrice impube. Nell'effigie triadica, l'araldo onnipotente perennemente uguale nella sua schiumetta chiara, in coerente intermittenza concentra la dimensione dell'eterno. Il nobile seme, ucciso e fuso nella telescopica monade della miglior miscela arabica tante volte quanto il pazzo si decapitò per sfuggire all'immortale suo decaffeinato, è resa di indicibile qualità dal crogiolo ancestrale. L'origine del caffè quale capro di paradisiache espressioni, nell'ano primordiale si scopre pertugio e fessura. Simbolico enigma

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semantico, la fede nella macchinetta del caffè e del cappuccino, in ritroso all'Essere va, patendo la sostanza in vece dell' apparente speme, a cui l'energia dell'angelico beverone, sempiterna vitalità ridona." TI sacerdote finì e tutti si alzarono e gridarono: "Perché a noi il caffè ci piace da morire." Mi ritrovai che stavo passeggiando· stretto al mio piccolo me, nel lungo corridoio con i tubi a vista. Il piccolo che ormai tanto piccolo non era, continuava a tacere, perché tutto era stato già detto e tutto scritto; solo il coraggio di tacere non era stato ancora reinventato. "Dottore, dottor ... dottore." "Mi dica assistente affaccendata, forse teme anche lei per il suo posto? Cerca qualcuno scomparso? Cerca il 67? Il dottore forse? Qualche gettone per la macchinetta del caffè e del cappuccino? Insomma che cosa caso vuole?" "Senta, il posto mio è intoccabile, sa. Il sacerdote è il cugino di un vicino del cognato dell'amico dello zio del fratello del dirimpettaio del consociato della sorella di un mio lontano parente da parte di madre, e sa com'è ... " "Ah, quindi anche lei... " "Io cosa ... ?" "Lei.. " "Io…?" "Lei..." "Io... ?" "Lei … è un appartenente alla Sagrada Familia, alla magnifica schiatta, all'orda nuova?" "Lasci stare dottore... Ah già, un aborto semi spontaneo, un aborto semi spontaneo alla 76! Venga presto!" "E chi abortisce?" "Il signor sessantasette!" "Ah, conosco." Arrivati nei pressi della sala, il bimbo con me ed io con lui non volle proseguire. Non c'era verso di convincerlo. Egli voleva un caffè se no non si sarebbe mosso. Gli fu offerto il caffè da un'infermiera affaccendata ed extracomunitaria di passaggio. Entrammo finalmente. "Sessantasette, cosa le è preso? Che le salta in mente?" "Non discuta dottore questo bambino non s'ha da fare!" "Bravo! È bravo, lei è così che si parla! Ma io che gli dico a Coleottoroni!" "Gli dica di non rompere i coglioni, no?" "Ha ragione. Ma non le sembra che faccia troppo caldo e scuro in questa sala, per fare un aborto semivolontario?" "Non si preoccupi, dopo sarà bianco e freddo." "Avere messo in posizione l'oggetto?" chiesi alle assistenti affaccendate. "Come di prassi!" "Dieci micro di benzoduoabortina per facilitare l'aborto?" "Cerro, come di prassi! " "Bene possiamo cominciare, via col tempo!" "Dottore era via col mento!" "No, via col campo. " "No, era via con sconto, 'i viaggi agevolati'."

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"Senta, in sostanza, Rossella sta facendo la scena isterica, avete preparato le fasce, i nordisti stanno stuprando giovani 'bene' con le lentiggini? I nordisti sono dei bastardi antirazzisti? Viva il generale Lee! Bisturi, aspirafeti, coagulante, sutura, saturazione, pesticida, D.D.T., topicida ... Et voilà, ecco fatto.." "Ma quello sono io," disse sessantasette, non pensando che se quello era lui, lui era sua madre. "Sant'Iddio mi sono autoabortito. Altro che paleofemminista, veterofemminista, neofemminista, io sono un precursore, un genio, un progressista! Ma adesso che farò?" "Non si preoccupi, suvvia, che vuol che sia, ha perso il sé ma cosa vuole che sia, suvvia; sé in più sé in meno, suvvia c'è sempre la filosofia, l'antologia, la genealogia, la geologia, la logia e che vuole che sia, così sia,." "Mi sento morire," recitò il sessantasette. Contemporaneamente scomparve anche il mio piccolo me, il bambino che c'era in me, ed io continuavo a ringiovanire, ed io mi ritrovavo ancora una volta sul loculo dello stanzone bianco e freddo, nudo e seduto con le gambe distese. Il camice dondolava lontano e non più appeso all'attaccapanni; era invece sospeso per incanto al centro dello stanzone e volteggiava libero a passo di valzer per l'etere. Non riuscivo a distinguerlo bene in mezzo al bianco e freddo che circondava tutto, ma lo stesso seguivo il suo movimento testardamente volitivo. E più seguivo e meno distinguevo, e quando distinguevo non seguivo più e mi lasciavo trasportare dai dolci passi di danza che il camice compiva ritmicamente. Il fermacarte sbertucciato sopra la scrivania batteva il tempo e ogni tanto diceva OPPLÀ. Le scartoffie discutevano animosamente, i loculi si agitavano ed io aspettavo; aspettavo che qualcosa prendesse forma, si generasse e si rendesse manifesto. Tutto però continuava a prendermi in giro, a menarmi per il naso e a giocare a nascondersi fra le coltri fredde del bianco. Tutto di nuovo per me era un nulla bianco e freddo e niente possedeva un senso, il fermacarte, i loculi, le scartoffie erano dei controsensi, l'antitesi stessa della loro esistenza e continuavano a eludersi camaleonticamente trasformandosi. Si mimetizzavano scoprendo qualsiasi cosa e fuggivano rincorrendosi, come per inseguire il loro stesso destino, il fato che li rendeva simili a gocce di pioggia in un grande lago secco. Vidi lo stanzone dalle sue mille angolature diverse scoprendo molti aspetti nuovi ma tutti inutilmente banali e futili, tutto si rivoltava e tornava a rivoltarsi nuovamente senza un ordine e senza una geometria. Come tanti uccelli al tramonto, si confondevano con un astro freddo bianco e morto che gli faceva da sfondo, cabrando, impennandosi, schivando gli imponderabili meccanismi del destino, rallentando. Tutto strano e tutto banale tornava ad essere mille volte e ancora mille, senza stravolgere mai l'inefficacia dei miei pensieri, fin quando stanco e annoiato ripresi il camice e l'indossai di malavoglia. Uscii lenta mente e trascinando gli zoccoli che non avevo ai piedi. Li corridoio con i rubi a vista si torceva malamente, sballottandomi di qui e di là senza meta, e godeva a farlo. Come un terremoto fulmineo, vibravano i tubi, le pareti, il pavimento, io, ma tutto rimaneva uguale alla normalità abituale, e nulla ne era stravolto. Come i tempi della vira mortale che passai piattamente ad inseguire la noia dì giornate veloci e interminabili, giocando con mille e mille piccoli insetti che godevano a infastidirmi, nulla cambiava e tutto giocava a sembrarlo.

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3.

LA SAGA DEL CAFFÈ

"Dottore ... dottore ... presto nello studio c'è un sacco di gente che aspetta ... dottore presto venga ... " "Certo, arrivo. Mi preceda, per favore!" "Naturalmente dottore." La sala d'aspetto dello studio era gremita di gente, ognuno con i suoi mali e le sue piccole gioie, ognuno attendendo speranzoso che io arrivassi. Un odore animale e organico lievitava pigro nella saletta, mille aliti, mille ascelle, mille piedi che emettevano il frutto delle loro combustioni vitali. Mi sedetti dietro all'ampia scrivania scarna e priva di suppellettili ma con un fermacarte sbertucciato. Feci entrare il primo. "Buon giorno dottore, esimio." "Buona giornata a lei oggetto." "Senta dottore sono venuto a protestare." "Prego faccia pure, si accomodi" "Beh, vengo a dirle che sono stufo di voi medici e di tutta la medicina convenzionale. Oggi dite che non bisogna dormire sul fianco sinistro perché si affatica il cuore, domani dite che dormire sul fianco destro fa male al fianco destro. Dite che l'igiene e la profilassi sono la prima cosa per evitare malattie, domani dite che lavarsi rovina la pelle e accresce il rischio di tumori cutanei. Oggi dite che il sale irrigidisce le coronarie, domani dite che il sale stimola non so che cosa, gli zuccheri fanno male però rinvigoriscono, la carne fa male però aiuta a sostenere l'intera giornata di lavoro, fumare fa male, bere fa male, scopare infetta, baciare invecchia, lavorare deperisce, giocare a tennis storce la colonna vertebrale, cacare fa bene ma è un'eccezione ... , il sole fa male, la luna rende licantropi, camminare stanca, correre consuma, alzarsi dal letto nuoce ai calli.... " "Ha ragione caro oggetto e se mi promette che terrà la bocca chiusa le dirò un segreto, una verità eterna." "Si fidi dottore, non parlerò!" "Vede caro oggetto, la questione è semplice, semplicissima. Mi guardi negli occhi, vede ... lei crede che al di là di questi occhi vi sia la scienza, la conoscenza, qualcosa di divino che guarisce, che cura, che può sanare malanni, malattie ... Lei si sbaglia caro oggetto, nulla di tutto questo. Lei e gli oggetti come lei, prendete un grosso abbaglio. Noi abbiamo studiato a lungo, è vero; abbiamo operato, è vero; abbiamo sperimentato, osservato, imparato, è vero. Ma sa in fin fine a cosa arriviamo, cosa capiamo, quale verità scopriamo dietro a medicine, trasfusioni, trapianti, dimissioni ... scopriamo che l'unica vera malattia è la vita ospedaliera, è la vita ospedaliera che ci fa ammalare, è la vita ospedaliera che è patologia, è la vita ospedaliera che è patologica. Anch'io sono stufo poi. Ora vada e non si lamenti troppo e cerchi di curarsi come meglio crede: va via dall'ospedale presto chi è caro agli Dei ". "Grazie dottore, arrivederci!" "Addio oggetto, piuttosto, addio, addio!" La vita ospedaliera aveva iniziato ad annoiarmi, di più a spaventarmi, sempre uguale e sempre bianca e fredda com'era. Anche il caffè aveva cominciato a stufarmi; va be' mi piaceva, ma da Il a farne un soggetto d'adorazione. Decisi che

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oggi stesso mi sarei dimesso. Chiamai il medico di guardia con il telefono di servizio, ma non rispose. Decisi di andare direttamente nella sua saletta. Presi l'ascensore, e schiacciai il bottoncino del piano terra. Lo specchio rifletteva una figura giovane, che si specchiava ammirando la propria prestanza fisica e una certa beltà, ovviamente era completamente sano e risanato. Scesi dall'ascensore e m'incamminai per l'androne. Non c'era nessuno né le carucce affaccendate del bancone, né la gente ansiosa e ansimante che entrava e usciva dalle porte automatiche. Una grande fessura sulla parete dietro me emetteva rumori metallici come di sfregamento; negli intervalli ansimando gridava dei gridolini stolidi. "E no!", gridai spalancando alquanto le mie giovani labbra porpora e carnose, "e no! Io non ci sto più, mi dimetto ... me ne vado ... non voglio più saperne di gettoni, orifizi, fessure, signorine carucce e affaccendate, macchinette del caffè e del cappuccino, sessantasette, e aborti semi volontari. Non voglio neppure saperne più dei nordisti e di Rossella!" Evidentemente però nessuno mi ascoltava o voleva ascoltarmi. Una grande cosa chiara è fredda, con una scanalatura da una parte e due dall'alto cadde di fianco a me con un sordo tonfo. Si appoggiò a un fermacarte sbertucciato, poi cadde di piatto, adagiandosi a sua comodità sul grosso tappeto dell'androne deserto. Io cominciai a camminarci sopra seguendone il perimetro e la zigrinatura. Circolavo in senso antiorario e né ringiovanivo né invecchiavo, restavo immobile e fisso io quello che ero. Dopo un po' comparve dalla scritta gettone per il caffè e per il cappuccino il sacerdote della sacra rappresentazione per la macchinetta del caffè e del cappuccino. Circolavamo passeggiando, esattamente l'uno dalla parte opposta dell'altro. Non ci incontravamo mai. "N ... giorno.” "N. .. giorno." "Cos'è questa storia che lei vuole dimettersi, che se ne vorrebbe andare?" "Vede prete, non ne posso più di morire qui in questo ospedale, non li reggo più; non reggo più le signorine affaccendate, gli infermieri affaccendati, le carucce con fessure affaccendate, di ritrovarmi sempre nella stanza B dell'obitorio ogni volta che qualcuno pronuncia da morire e tutto il resto. Insomma, me ne voglio andare!" "Ma andare dove? La vita è tutta qui. Lei se ne potrà andare solo di là, e solo quando lo decideremo noi!" "Noi chi?" "Noi ... noi non lo sappiamo neppure noi. Noi forse adoratori del caffè e del cappuccino, della macchinetta omonima, delle fessure e dell'affaccendamento. Vede caro dottore, lei è incatenato dal caffè, cosmico fiume diveniente. Esso ci abbevera con la dolce amnesia cosciente, abbevera l'errante cittadino dell'ospedale, e immobilmente ci fa ripercorrere il nostro futuro già passato. L'eterna scurezza trasparente sua, è indolore specularità infernale, il suo colore fonte di diverse temperature caloriche, la sua consistenza palpabile materiale dello spirito, palpabile nullità. Il sonno d'incoscienza, l'illogico paradigma del decaffeinato non decifra la sintassi dell'ideogramma atavico. Aleggiato a guisa di ampio cono è l'ospedale, e strade, e dritte vie maestre e viali e fori e agorà in meccanica mistica caffeinata, allontanano il centro dal perimetro sferico di lievità ascetica! E sfere di sfere in numero pari al rapporto fra zucchero e amarezza, come in principio della miscela in ageometrica stasi, trovano luogo dove le linee

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del peso hanno il loro centro, così gli strati di schiumetta madidi e le categorie delle qualità arabiche. Del sapore un buco nero, fonte di inversa tendenza, il letto nudo e spoglio dell'una volta Trinità dell'uno, ne accoglie il ricordo e ne culla l'avvenire. Dello spirto della caffeina, l'incandescente malleabilità, con onirica visione i luoghi dei vivi in festa di lutto e ditirambi, terrore spegne e aizza. Il decaffeinato mortale, dei suoi unguenti caramellosi schiavo e padrone, trafitto giace a monito sacro, e del dottore mendico di decaffeinata animalità, lo scrigno scardinato e obolo indefesso del libero bevitore. Il caffè, gemello del sapere, orfano mitico, di genealogia privo e saturo, con energia pasce il ventre piatto e ordisce velocità atemporali nel vuoto dell'assenza del bicchieretto, intesse trame di cucchiaini inesistenti e ingenia. Dell'anima, che le volte che il profeta Moka cantò, nelle volte della presenza terziaria visse del secolo immondano e che il coraggio di macinare chicchi tante volte quanto esistette, elevò a spirto allievo, la cui perseveranza fece spirto, il cui amore lo progredì a spirto adepto fino ad essere nel suono del perfettissimo silenzio dello scendere del caffè avvolto, il loco di immune sentimento è l'ospedale. È codesto, loco pure di caffetterie tutte, e nobili e volgari, poiché così si vuole e necessita là dove si beve ciò che si può. Dottore, lei non se ne può andare, fin quando non lo decideremo noi." "Ma voi chi?" "Non lo sappiamo neppure noi!" "Ma io sono un dottore e mi sono curato, mi curerò. Mi dimetto per tanto, perché non vi sono né ragioni accademiche né tanto meno cliniche per trattenermi in degenza." "Ma lei vuole prenderei in giro. Noi sappiamo tutto di lei, morte vita e miracoli. Lei non è un dottore vero, con laurea, specializzazione, tirocinio, apprendistato, mutua e mutuati, master e onorificenze. Lei è nulla, in vita sua lei è stato ben poca cosa, nulla in vero. Lei indossa quel camice in modo fortuito, per un disguido dell'apparato di trapasso. Lei è stato sospinto qui dai venti e con i venti se ne andrà, lei è un nulla è una depressione, un vuoto; noi lo riempiremo coll'amato beverone: il caffè! E soprattutto, caro dottore, lei è malato, profondamente malato!" "D'accordo," gridai io inferocito, "non ho titoli, non ho lauree e onorificenze, non ho studiato. Ma io so un 'unica cosa. So come sapere. Cosa mi serviva studiare, per imparare delle dare, dei nomi, delle opinioni? Io conosco l'essenziale, la sostanza e le forme e so che il bello è la ragione della materia, io ho intuito la vita e la morte, io conosco il silenzio." "Se lo conosce, taccia meschinello. Così si vuole là dove si può ciò che necessita." "No, non starò zitto; urlerò la verità agli otto venti. Loro mi aiuteranno, loro dispenseranno la verità." "Povero illuso, lei è schiavo in questo ospedale, lei è oggetto; dottore certo, ma paziente. Non potrà uscire di qui, non riuscirà a compiere un solo passo fuori di qui. Lei ha bisogno di noi.” "Ma voi chi?" "Non lo sappiamo neppure noi. Vede è tutta un'organizzazione, dove nessuno conosce l'altro e gli altri; conosce solo l'esistenza dell'organizzazione e ubbidisce. È questa la forza, la nostra occulta potenza. Nessuno potrà trovare un appoggio alla propria ribellione, perché nessuno conosce chi siamo veramente; il vicino può essere dei nostri o no, ma nessuno può stabilirlo. È la sfiducia la nostra arma, la

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paura del vicino, la forza del non sapere." ln quel momento mi misi a correre urlando verso la tangente del gettone circolare. Una forza invisibile sembrava trattenermi, come una membrana collosa mi imprigionava. "Torni sessantasette, così è peggio, si curi, guarisca dalla sua malattia. Il caffè è un toccasana!" "Non sono un numero!" urlai terrorizzato. "Sono un uomo, un uomo libero!" Fragorose risa rimbombarono per l'intero ospedale mentre intorno tutto si deformava dinamicamente. Le pareti si flettevano e si contraevano lubrificandosi. Labbra carnose e rosse e verticali si serravano su di me imprigionandomi. Piovevano gettoni da ogni parte, come se improvvisamente fosse scoppiata la scatoletta di metallo della macchinetta del caffè e del cappuccino. Il pavimento si ondulava seguendo onde di sangue raggrumato, infermiere affaccendate e decapitate deambulavano inseguendosi. Si aprivano voragini e tremori insistenti scuotevano la stanza e l'intero ospedale. Le porte automatiche si aprivano e si chiudevano velocissime, impazzite. Sirene d'ambulanza squarciavano il rumore di sotto fondo e i borbottii della macchinetta del caffè li accompagnavano, e io ero in una sfera di cristallo che rotolava con me. Come in una gabbia di criceti, mi trovavo sulla ruota; correvo e quella girava, mettevo tutta la mia forza e ancora quella seguiva ogni mio movimento senza mollarmi. A ogni giro tutto si rivoltava e tutto tornava uguale, mille volte mutava, mille volte tornava ad essere identica. Misi tutta la mia forza e mi scagliai fuori dal gettone rompendo la membrana lattiginosa; alcuni pezzettini, come se fosse stata una ragnatela, mi si appiccicarono al viso. L'altoparlante gracchiava: "Mito, favole e leggenda e ideale, degni di solarità gentile e oneste di schianti lunari, ritrovano dimora di necessaria occasione, poiché tutto è follemente savio, e di causa veritiero effetto, là dove si beve il caffè che occorre e necessita ... salvati dottore, salvati da te stesso." Pur correndo con tutta la forza così nuovamente giovanile che possedevo, camminavo in un pantano molliccio che rallentava ogni mio movimento, un deserto di sabbie immobili mi si stendeva innanzi infinito, desertico, desolato. Io persistevo, correvo camminando, allungavo le mani scheletriche in avanti, cercavo appigli impossibili, invocavo l'aiuto del sole pallido e freddo che spumeggiava a mezz'aria, della luna scura che danzava nascosta. Come imprigionato in mille tenui elastici, riuscivo ad avanzare, ma subito venivo tirato indietro da una folla di braccia di gente decapitata che urlava: "Quali sciamani estatici preveggiamo l'ombrosa luminosità del simpatetico buio e astri e pianeti e galassie e l'universo intiero, trovano dell'impossibilità del caffè: la menzogna. Il doveroso imperativo di decaffeinata irrazionale fallacità crepita di lungi, al ferro del morente segregato ... salvati dottore, salvati da te stesso." La voce melliflua della ricercatrice affaccendata mi richiamava dicendomi che non conoscevo ancora bene la sua fessura e gli orifizi in genere. Con uno sforzo mortale riuscì a liberarmi di tutto e di tutti e imboccai l'attimo che le porte automatiche rimasero aperte e mi buttai fuori dall'ospedale. Mi trovai in uno spazio semicircolare nero ma luminoso, rassicurante. Da piccole fessure invisibile giungeva un tenue soffio caldo, meglio, tiepido. Barluginava quel vuoto scuro in tomo a me, ed io ripresi fiato. Mi sedetti in un angolo tondo per riposarmi. Ero sconvolto e pauroso; pian piano mi acquietai in un torpore di sonnolenza. Mi

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addormentai e dormii per lungo tempo. Mi svegliarono dei sordi rumori metallici di sfregamento, io attonito trattenni il respiro per ascoltare meglio. I rumori si facevano sempre più forti e decisi, delineati finemente. Piovve un piccolo gettone dal buio, solitario e solo e freddo e bianco nell'oscurità. La voce della ricercatrice affaccendata prese a sussurrare: "L'iperbolica parabola del destino ritorna in specie gemellare a se stessa con escurso vano di mentita estensione, al cui diletto ludico spoglie difettose e solitarie rimangono e che orba e cieca, vive clonata da se stessa fonte, sorella sua speranza, così affini. L'oggetto vive spia di Conoscenza e soggetto intermediario speculare, e come specchio di specchi, lenti infinite al visibile interposte sono. Quale anima di tripudiante animalità vive lo dottore dell'ospedale, errante e tollerato malamente dal secolare mondo del caffè, a detta sua, malato. Quale cittadino di lontane e prossime contrade, quale ulisside progenie, vita sua crede di non menare in ospedale, effigie di naufrago impenitente e illuso invece quale bue abbevera in mangiatoia pubblica. Lo dottore ha nome, come persone tutte dette civili, lo dottore ha casa, come Homini tutti detti evoluti, lo dottore ha numero e lavoro e loco sociale come si addice ed è necessità infughevole in vita codesta detta ospedaliera, dove non si può ciò che di natura naturale è eremo, ma artificiosa, a detta sua. Lo dottore andrà rieducato acciocché torni savio, e rinsavisca da illusioni e stravaganti visioni sue.” "Non sono pazzo," sospirai fra le labbra, "sono un uomo, sono un essere ... " Non riuscii a finire, me ne mancò la forza e la volontà. Mi alzai e presi a camminare per l'oscurità luminosa, fin quando andai a sbattere contro qualcosa. Avvertii una sensazione di freddo e bianco. Tastai quella cosa, sembrava non finire e non avere forma se non di piattezza. Le mani mi si erano inumidite al tocco. Trovai una specie di scatoletta appesa a quel qualcosa. La tastai e spinsi un bottoncino. Improvvisamente si accesero mille e mille neon, le pareti di mattonelle lisce da sembrare umide presero materia, così la scrivania abbandonata, i loculi, il camice, gli zoccoli. Mi avvitai sulle mie gambe fino a piombare sul pavimento con le guance. Piansi e piansi ancora lacrime calde e scure. Intorno tutto era di nuovo freddo e bianco. Lentamente le mie lacrime cominciarono ad espandersi per lo stanzone fino a formare un piccolo lago di caffè, e più diventava caffè e più io piangevo dall'amarezza: anch'io ero freddo e bianco e piangevo caffè. Poi mi alzai, e quasi rassegnato indossai il camice, calzai gli zoccoli e uscii sul corridoio con i rubi a vista. Un infermiere affaccendato e decapitato spintonava una barella con sopra una lastra di marmo nero con su scritto un epitaffio strano: "Giace qui, né morto né mai nato, il dottore 67, che volle abbandonare i lidi calmi e sicuri per attraversare la grande acqua; che scordò il bene e il caffè, che non credette alla magnificenza della macchinetta del caffè e del cappuccino, alle fessure, e ai gettoni, che osò mettere in dubbio la verità che regna nell'ospedale. Che la sua colpa ricada sulla sua progenie e i suo avi. Una prece, un caffè e poche opere di bene." "Infermiere ... infermiere ... mi ascolti!" "Prego parli." "Lei da che parte sta?" "Non so dottore; non so che parti ci siano, non so da che parte stia lei, non so se esistano parti o siano solo un'invenzione non so se loro esistano, se non esistano." "Va be' lasci stare; cosa trasporta?"

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"Ma non vede, dottore? È il sessantasette lo porto nella B per l'autopsia." “Ma non era scomparso, insieme al bambino, al dottore ... " Ma scherza dottore? I cadaveri non vanno in giro per l'ospedale, magari a prendersi il caffè." Senza starci a pensare troppo, presi l'ascensore che sì trovava in fondo al corridoio, verso la parte più vicina. Quando aprii porta, fui sorpreso nell’osservarmi a osservare uno specchio che mi osservava con due occhi freddi e bianchi. Solo due occhi, ma grandi e fermi mi. Fissavano immobili, e più giravo la testa e più loro rimanevano fissi e più la testa abbassavo e più loro rimanevano irremovibili. Chiusi la porta dell'ascensore e attesi. Poi la riaprii e un'onda di zucchero caramelloso e tiepido mi investì. Tutto quel dolciume abbondantemente sciropposo mi diede la nausea. Era un flutto solitario e possente di zucchero raffinato e odoroso, che trasportava non so che, verso l'obitorio, sala B. I turbini lievi e gentili mi accarezzavano infastidendomi, mi solleticavano per poi non granarmi, mi stuzzicavano per lasciarmi insoddisfatto. Scherzavano con me e mi insultavano deridendomi ma mi facevano cadere per terra come era loro potere e diritto. Finalmente cessò e io presi posto nell'ascensore. Schiacciai il plano terra. Mi ritrovai in un androne colmo di gente e traboccante di attività. Signorine affaccendate e carucce si affaccendavano dietro un lungo bancone scuro, gente si saettava di qua e di là per lo stanzone; alcuni uscivano, altri entravano ansiosi e ansimanti. Io camminavo indifferente sopra un tappeto con pretese iraniane, ma visibilmente falso e artificioso. Sentii premere sul braccio, e il sacerdote compuntamente vestito con un gessato alla moda con una cravatta grigia e i calzini rossi violacei, incalzò. "Caro dottore l'attendevo. Si è riposato, in tempo passato fu tremendamente affaticato. Abbiamo un ampio programma per lei; un programma preparato con cura dai nostri preparatissimi ricercatori affaccendati." "Vostri di chi?" "Non lo sanno nemmeno loro, questo è certo. Comunque lasci stare sessantasette, non è cosa sua! È tempo che lei sia rieducato? Lei ha sbagliato, ma noi sappiamo perdonare, sappiamo fare tutto in nome del caffè. A proposito, come mai lei non ha mai richiesto un mutuo di varie miscele, o un prestito d'onore di qualità differenti, o una sovvenzione a partecipazione ospedaliera? Questo è male, tutti noi dobbiamo risparmiare ed investire caffè. Ma lasciamo stare lei si adeguerà ... pian pianino, con la persuasione, con la convinzione, con ... " "Prete ma cosa dice? Io non voglio più saperne del caffè e del resto! " "Ah, caro piccolo scellerato. Lei è ancora troppo anziano; si lasci guidare da uno che di strada ne ha fatta. Lei ora mi vede così, col mio completo à la page, con le mie scarpette di vacchetta, con i miei calzini rossi, col mio cipiglio del potere. Ma all'inizio ero solamente il povero figlio del presidente regionale delle U.S.S.L., che era al contempo uno dei maggiori speculatori di caffè e di fessure, di gettoni e di orifizi e di sfinteri. Sapesse che vita di stenti, si figuri che in casa nostra il caffè non mancava mai, e neppure gettoni, e neppure orifizi, e neppure fessure ... Lei guarirà caro dottore, col nostro metodo infallibile, lei infallibilmente guarirà." Nel frattempo intorno al sacerdote si era formato un capannello di giovani affaccendate decapitate, che sgrondolando sangue raggrumato si strusciavano addosso al vestito sacrale. Tutte mormoravano paroline dolci nei confronti del prete, e tutte mi guardavano senza cattiveria, bensì come si guarda un cane che abbia appena pisciato sul tappeto di casa. Fui trasportato in mezzo al vivo flusso dei decapitati fino all'ascensore e fui generosamente spinto dentro insieme alla

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ricercatrice affaccendata deflorata e decapitata. Al posto dello specchio c'era un grande schermo luminoso, al posto della panchetta di legno una soffice poltrona di velluto, al posto dei bottoncini si trovava un apparecchietto nero con tanti pulsantini numerati. La ricercatrice affaccendata mi mise in mano molti gettoni per la macchinetta del caffè e del cappuccino e l'apparecchietto con i tastini numerati. Poi allargò le cosce velate da calze autoreggenti fredde e scure, e accese lo schermo luminoso. "Adesso si rilassi e non pensi a nulla dottore; penserò a tutto io. Quando vuole può osservare e studiare la fessura, senza complimenti. Se non le va quello che appare sullo schermo luminoso, può cambiare coll'apparecchietto coi bottoncini numerati. La macchinetta del caffè e del cappuccino è di fianco a lei, basta che allunghi il braccio e potrà sorbirne quanto ne vuole." Poi si mise in posizione allegramente, con una fragranza insospettata; piaceva molto alla ricercatrice affaccendata e deflorata e decapitata servire la nobile causa del caffè. Lo schermo luminoso lampeggiò il suo programma: la partita. "Senta io non voglio vedere questa cosa, voglio dimettermi.” "Suvvia non faccia il bambino dottore, si acquieti e non faccia i capricci. Qui c'è tutto quello di cui si ha bisogno, lei imparerà che non c'è nulla al di fuori di questo spazio." Intanto lo schermo luminoso continuava a proiettare ventidue decapitati che rincorrevano la testa del sessantasette sul campo; alcuni decapitati con delle bandierine in mano rincorrevano delle linee immaginarie, un austero signore in nero, arbitro in campo del bene e del male, alzava il dito autoritario. Provai a cambiare, pubblicità del caffè, cambiai ancora, pubblicità dello sfintere, cambiai, pubblicità della fessura, e ancora cambiai, partita, cambiai nuovamente, pubblicità della macchinetta del caffè e del cappuccino. Poi mi venne in mente una cosa e dissi: "A me stare qui piace da morire!" Mi ritrovai nudo nello stanzone bianco e freddo, seduto con le gambe distese, il camice era appeso all'attaccapanni, un cappello sopra. In fretta indossai il camice e gli zoccoli bucherellati e corsi fuori. Il corridoio con i tubi a vista era appena illuminato e in giro non c'era nessuno: c'era la partita. Mi affrettai verso l ascensore sbattendo sonoramente gli zoccoli. Ma il rumore non era di legno sulle piastrelle, piuttosto era metallico, come di gettone nella vaschetta di raccolta. Presi l'ascensore e pigiai il tasto del pianterreno. La luce si spense, io rimasi immobile. A un tratto intorno a me si animò qualcosa di scuro e freddo, come un enorme rettangolo definito da lunghi elastici fosforescenti imprigionava qualcosa di freddo e bianco. Alcuni decapitati mi presero a spintonate; uno mi sbattè a terra con uno sgambetto. Subito accorse un signore decapitato affaccendato con una cosa chiara in bocca con un buco davanti e una casa dietro. Mi fischiò lungamente nelle orecchie e mi ingiuriò dicendo che così non si fa. Capii che mi dovevo schierare da una pane o dall'altra perché solo non sarei sopravvissuto. Scelsi i decapitati affaccendati che indossavano la maglietta sporca di sangue raggrumato nero. Cominciai correre anch’io fino a raggiungere un oggetto rotolante. Con orrore vidi la mia testa che veniva contesa da due grossi piedi chiodati e puzzolenti. Mi toccai dove avrebbe dovuto trovarsi la mia, ma non trovai nulla; solo un grosso punto interrogativo allungava la mia colonna vertebrale, vibrando come se fosse stata la corda di un arco che avesse appena

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scoccato. Ripresi a correre e non vedevo il limite della sua corsa, nulla in fondo o all'inizio ostacolava e delimitava niente. "Passa, passa," sentii gridare al mio fianco, "passa la zuccheriera imbecille." "No, passa il cucchiaino deficiente!" "No, passa il caffè idiota." Continuai a correre cercando i miei avversari e i miei compagni. Finalmente li distinsi, anche se non chiaramente, perché il bianco e la freddezza mi impedivano di vedere oltre mille e ancora mille dune davanti a me. Mi schierai con i decapitati affaccendati con la maglietta sporca di sangue raggrumato nero. Con stupore mi accorsi ben presto che pure loro mi inseguivano cercando di calciarmi con le loro scarpe fetenti e chiodate. "Ma cosa fate?!" urlai "Sono dei vostri!" "Nostri chi?" chiese uno dei tanti. "Vostri voi, no?" "Noi non sappiamo chi sei, né chi siamo noi. Sappiamo solo che tu ha1 bestemmiato il caffè e rinnegato la fede. Tu sei il nostro nemico." "Ma no! Vedere io non rinnego nulla, solo non mi sento di passare la vira ad adorare la macchinetta del caffè e del cappuccino; anche perché sono già morto." "La morte non esiste; perché quando c'è lei non ci siamo noi, e visto che noi ci siamo, lei non c'è." "Ma sì, conosco anch'io questa teoria, ma il senso non è proprio questo." "Bestemmiatore, calunniatore, disfattista terrorista antidemocratico… sodomizziamolo!" Mi misi a fuggire in una qualunque direzione, tanto sapevo che non ne esisteva nessuna precisa, o addirittura proprio nessuna, cercavo solo di zigzagare per evitare che mi prendessero tutti in una volta. In fondo al mio orifizio ci tenevo. A un certo punto passò un inserviente affaccendato decapitato ed extracomunitario; si accostò e mi chiese se volessi del caffè. Io decisamente rifiutai ma mi venne in mente una cosa e iniziai ad arrampicarmi lungo le pareri della vaschetta metallica della macchinetta del caffè e del cappuccino. La salita era difficile perché continuavano a cadere delle cose chiare con una scanalatura da una parte e due dall'altra. Finalmente giunsi a un plano solo leggermente inclinato. Presi fiato e proseguii stando attento a non compiere passi falsi; sentivo infatti ancora le grida dei decapitaci affaccendati coni piedi puzzolenti provenire da sotto. Giunsi finalmente a scorgere, non troppo lontano un leggero bagliore. Pensar per qualche istante di essere riuscito finalmente a fuggire dall'ospedale, ma mi sbagliavo. Camminavo in una specie di tugurio molliccio e umido di qualcosa di lattiginoso. Finalmente dopo aver allargato con le braccia due grosse labbra verticali e purpuree, mi affacciai. Vidi di fronte a me un enorme signore affaccendato ma non decapitato del tutto, impoltronato in una poltrona di velluto con in mano un apparecchietto con tanti bottoncini numerati. Era in ciabatte. In alto sopra di me penzolava un camice bianco e freddo arrotolato a grandi pieghe fino all'altezza di imponenti e fini fianchi. Ero nella ricercatrice affaccendata e decapitata; infatti quasi subito cadde una pesante goccia di sangue raggrumato. In quel momento il signore affaccendato ma non ancora decapitato del tutto, cambiò. Mi ritrovai in una pubblicità del caffè, cambiò di nuovo e mi trovai in una pubblicità dello sfintere, cambiò di nuovo e mi trovai in

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una pubblicità della fessura, cambiò di nuovo e mi ritrovai inseguito in un campo non delimitato con alcuni signori decapitati e affaccendati che sventolavano delle bandierine a scacchi. Fortunosamente il signore affaccendato, ma non del tutto decapitato, spense lo schermo luminoso. Udii strane e lontane parole: "a me stare qui piace da morire". Mi ritrovai appoltronato su di una poltrona di velluto, un apparecchietto in mano, l'affaccendata ricercatrice decapitata con le gambe divaricate e con le spalle appoggiate sul lettuccio da ambulatorio e il camice arrotolato a grandi pieghe fino a degli stretti e fini fianchi. "Bravo dottore, comincia ad imparare. E salubre stare nell'ascensore a vedere lo schermo luminoso col caffè di fianco e con l'apparecchietto dai tastini numerati in mano. Lei fa sorprendenti progressi. Ma ora prosegua il suo indottrinamento caro dottore e non si distragga." "Ma veramente io sarei andato ... " "Su, su, dottore non ricominci a fare i capricci, se no dovrò chiamare il sacerdote; stavamo andando così bene. A tutti deve piacere da morire quello che facciamo noi." Mi ritrovai disteso sotto qualcosa di veramente pesante e freddo e bianco. Quel qualcosa mi schiacciava quasi da non farmi respirare, e mi infreddoliva tanto da non avvertire più la presenza del mio cadavere. Qualcuno affaccendato e decapitato spintonava la barella sulla quale giacevo, ma in modo annoiato e stancamente. All'orecchio aveva un apparecchio che vociferava concitato: "quindi la testa viene passata all'attaccante affaccendato e decapitato che si era nel frattempo smarcato, segue un ottimo assist alla mezz'ala affaccendata e decapita, che alza la testa a pallonetto sopra il collo del portiere evidentemente troppo affaccendato e troppo decapitato ... RETE!" L'infermiere diede un'ultima-e decisiva spinta alla barella che fuggì velocissima verso l'angolo più distante, e alzò le braccia al cielo per ringraziare il Supremo, saltellando con le gambe divaricate. La barella intanto si schiantò contro il muro e la lastra di marmo con sopra l'epitaffio cadde disintegrandosi e mille e mille pezzettini ed io con lei. "Dio mio cosa ho combinato. Ora mi sbatteranno fuori, ho pure dei precedenti, tengo pure una famiglia…, cosa darò alle mie creature, cosa darò alla mia famiglia." "Suvvia", dissi senza ricompormi in una unità i mille e mille pezzettini che ero, "c'è sempre la demagogia, la clientelia, il demopartitismo, la plutocrazia e così sia, suvvia!". "Ah caro epitaffio, se lei sapesse quanto è brutto non avere istruzione, sentirsi ignoranti, non conoscere le cose basilari ed essenziali." "Si sbaglia caro infermiere affaccendato e decapitato, si sbaglia grossolanamente. Conoscere non è ormai un privilegio, una virtù, una verità. Se promette di non rivelarlo nemmeno al sacerdote, le dirò una grande realtà. A proposito lei da che parte sta?" "Dalla sua è ovvio, almeno per adesso. Fra un minuto non saprei, ma per adesso dalla sua, senz' altro." "Beh, veda caro infermiere affaccendato e decapitato, conoscere la Conoscenza non è più bello, se mai lo è stato. Lei vede i miei occhi, e crede che dietro questi occhi scuri e caldi, profondi e abissali, vi sia qualcosa di divino, qualcosa che possa rispondere a mille e mille domande, che possa chetare i

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dubbi, che possa guarire anime travagliare. Nulla di più sbagliato caro infermiere affaccendato e decapitato. Quello che c'è dietro e dentro questi miei occhi ormai morti, è solo disperazione, la disperazione di non potersi adeguare al caffè. È angoscia. A me il caffè può andare anche bene, ma solo un pochino, proprio pachino, il giusto indispensabile, ma da qui a farlo soggetto d'adorazione. Veda, ora io conosco, ma questa conoscenza è solo tristezza, amarezza, impotenza, alienazione, sa cos'è l'alienazione, non glielo hanno spiegato i sindacati, Groucho Marx e i suoi fratelli? Io non posso fare nulla e però non posso nemmeno cambiare quello che c'è dietro questi miei occhi freddi e bianchi Dovrò continuare a fuggire il caffè, orifizi e fessure e gettoni, ma senza trovare mai scampo; così per sempre. Mi capisce infermiere decapitato e affaccendato?" "Certo dottore, ma io ho anche dei precedenti, cosa darò alla mia famiglia, alle mie creature?" L'infermiere si chinò a raccattare i mille e mille pezzettini della lastra di marmo; alcuni erano schizzati perfino fino all'ascensore, perfino oltre l'angolo più distante. Ci mise una quantità di tempo inimmaginabilmente eterno, quasi sembrava che ad ogni pezzettino raccolto, egli invecchiasse a vista d'occhio morto. Ogni pezzettino era un capello in meno, ogni volta che piegava rigidamente la schiena era un ruga flaccida in più sul viso e instabilità delle gambe. Quand'ebbe finito si trovò ormai vecchio e decrepito, dopo un po' mori ed io lo caricai sulla barella e presi e spintonarla fiaccamente lungo il corridoio con i tubi a vista. A un certo punto incontrai un dottore affaccendato. "Dottore... dottore. .. Si fermi per favore... dottore. " "Dica caro infermiere affaccendato." "Dottore dove metto l'infermiere, nella A o nella B per l'autopsia?" "Lo metta nella C, che vediamo se resuscita!” Io dondolai due volte la testa verso i lati, pensando che questi dottori ormai con la morte ci scherzano, e forse è proprio questa la loro forza. Poi misi il 67 nella B e tornai ad ascoltare la partita alla radio dentro l'ascensore. Dopo un po' sentii che qualcuno aveva chiamato dall'alto. L'ascensore si mosse a scatti e io traballavo sulle gambe incerto. L'ascensore prese a salire sempre più velocemente, tanto più vorticosamente che mi girava la testa che avevo ormai perduto. Spensi la radiolina per non essere eventualmente colto in flagrante. Le pareti si contraevano e si flettevano come se respirassero, ad ogni aspirazione venivo colpito da un venticello caldo e scuro, ad ogni inspirazione da-una brezza fredda e bianca. Il pavimento si ondulava in mille e mille ondine di sangue raggrumato, nero e bianco. La velocità con cui l'ascensore saliva era impressionante e mi toglieva il respiro, io ansimavo preoccupato. Si aprirono le porte, scesi con circospezione e mi trovai nello stanzino con le scope e i rifornimenti per la macchinetta del caffè e del cappuccino. La stanza era completamente avvolta in una nebbia bianca e corposa, palpabile e vivente. Sembrava che respirasse vivamente. La nebbia bianca e fredda nascondeva velandole dune bianche e altra nebbia, che a sua volta rendeva indistinguibile un'unità lontana e afana. Impercettibili e uguali dune si susseguivano senza fine fino a straripare in un lago di bianchezza madido di identica materia. Latte altoatesino sgocciolava indifferente lungo le pareti inesistenti di una vaschetta metallica cose bianche e fredde con una scanalatura da una parte e due dall'altra tintinnavano scontrandosi l'una con l'altra, fessure che si baciavano sospese in lievitazione turbinavano come prese da

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un uragano improvviso , la ricercatrice affaccendata e decapitata accovacciata in un tondo angolo nero e buio, si masturbava con un cucchiaino bianco e freddo. Attraversai immune le umide particelle che mi gongolavano davanti fino oltrepassarle per proseguire fra medesime molecole per poi incontrarne altre e altre ancora, fin quando medesima essenza si parò davanti impedendomi la vista ma facendosi trapassare adeguandosi e lasciando che io ne vedessi ancora e ancora altra e nulla più in là. Poi sentii un tramestio di bottoncini schiacciati e rischiacciati, trilli di telefono e BIT di computer, segretarie affaccendate e decapitate. Aprii una porta ed entrai piegandomi sotto un arco acuto che troneggiava un'entrata. Un tappeto rosso indicava la strada. Le pareti di uno stretto condotto erano di pietra murata a secco o di mattoni, le luci fredde e abbacinanti. Non vidi tubi a vista. "Venga dottore, venga, non abbia soggezione, avanzi deciso, l’aspettavo. Le devo dare una tiratina d'orecchio, sa! Le sembra quello il modo di parlare a un povero lavoratore; le sembra giusto eliminare il sogno, togliere l'illusione di un'esistenza più elevata, la speranza di qualcosa di migliore. Non si ostini a renderei il nostro lavoro così complicato. Non è semplice gestire il mercato del caffè, sa." "Ma lei come lo sa che io ho parlato?" "Semplice. L'infermiere affaccendato e decapitato, appena risuscitato dalla B è corso qui e mi ha riferito. Questa è onestà, fedeltà." La stanza dove mi trovavo era completamente rivestita di panno morbido e multicolore, sopra al panno tantissimi bottoncini numerati spuntavano come se fossero elemento naturale e non di decorazione. Piccoli schermi luminosi lampeggia vano emettendo un ronzio sottilissimo sorvegliati a vista da segretarie affaccendate e decapitate che si limavano le unghie e si mettevano rossetti sopra labbra che non avevano, non avendo testa. Un odore e un fumo di incenso e di caffè si propagavano da bocchette di strana forma: un elemento lungo e cubiforme terminante con una cupola, con sotto due rotondità pelose. Un'enorme macchinetta del caffè capeggiava da dietro la scrivania lunga e liscia da essere umida, attaccata alla parete. Telefoni di varie fogge e colori trillavano insistenti senza che nessuno mai rispondesse. Nessuna carta, niente penne o matite né gomme o scolorina, ma tanti bicchieretti di carta e cucchiaini di plastica e bustine di zucchero. Alcune croste attaccare alla parete, delle nature di caffè morto, fondi di caffè impressionisti e moka postmoderni, rendevano ancora più insignificante l'ambiente. "Ahité ahité ahité dottore questo non doveva farmelo, proprio no, non doveva farlo. Ma le sembra bello, a me poi, che in rutta la mia vita ho dovuto solo approfittare delle conoscenze di papà, delle amicizie di papà, dell'influenza di papà; a me che ho dovuto farmi costruire tutto da solo, no non doveva proprio farmelo." "Ma prete, io voglio solo morire in pace la mia vira, senza adorare feticci fittizi, idoli dolosi, o miti mistifici." "E non può caro dottore, e non può ... lei è un germe nocivo alla gloriosa civiltà ospedaliera del caffè ... o si rieduca o noi saremo costretti a macinar la nella peggior miscela di cicoria." "Noi chi?" "Noi, non lo sappiamo neppure noi!"

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Mentre proferiva le ultime parole schiacciò uno dei numerosissimi bottoncini numerati, ghignando come un bambino che si diverte a bruciare un formicaio. Mi ritrovai in mezzo a quelle belve inferocite, decapitate e affaccendate che inseguivano la testa del sessantasette lungo e largo il rettangolo bianco indefinito da elastici fosforescenti. E PICCHIALO, PIGGHIALO, PIGGHIALO OOHOHHOOHHH!, cantava un siciliano con una zanca da tonnara in mano. "E passa, e passa il caffè scemo!" "No, passa la zuccheriera imbecille!" "No, passa il cucchiaino!" Infatti dopo poco scorsi non troppo vicino e non troppo mimetizzato al bianco, un bianco e freddo cucchiaino. Lo afferrai con entrambe le braccia poiché era di dimensione eccezionale e mi misi a correre verso la porta avversaria. Scartai agevolmente uno o due o tre difensori affaccendati. Uno lo stesi con la capocchia del cucchiaino. L'arbitro in campo del bene e del male fischiò prolungatamente. Gli diedi un ceffone e gli feci inghiottire il fischietto, con un buco davanti e una cassa tonda dietro. I miei compagni cominciarono a plaudire il mio gesto autoritario e ribelle insieme. Sgomitai a più non posso attraverso il campo, malmenando, insultando, frodando, collaborando ad assassinii, rubando, commettendo abigeati, finché non giunsi alla rete avversaria. Stavo per imboccare la porta, quando una grossa mano con lunghe unghie rosso colorate, mi afferrò, buttò via il cucchiaino che tenevo stretto fra le braccia e mi diede uno scrollone che mi irrigidì tutto. Poi vidi un grande vapore bianco e caldo alzarsi meccanicamente tutto d'intorno, sentii lo scrosciare di un liquido lattiginoso, e avvertii due grandi labbra verticali sfiorarmi per tutto il corpo umidicce. La mano si agitava avanti e indietro, contorcendosi e stringendomi come un bambolotto di pezza, facendomi avanzare e indietreggiare dentro una lubrica fessura. Udivo le risa o il pianto di un neonato. Io approfittai di un attimo in cui aveva allentato la presa e aiutato dal liquido lattiginoso e dal buon umore sgusciai da quelle dita scarne e tozze. Mi incamminai verso il tugurio caldo e umidiccio, con le pareti talmente lucide da sembrare umide; invece erano bagnate. Ero nel buio più completo, ma proseguivo ugualmente, a tentoni, a tentativi, a dubbi ma non metodici, per ipotesi. Era già un po' che camminavano quando improvvisamente il pavimento sotto di me si aprì di scatto e caddi nel vuoto nero e luminoso. Vidi la mia testa precedermi con una rapidità maggiore della mia e feci di tutto per raggiungerla annaspando e nuotando nell'aria fredda e nera; ma la testa si ostinava a cadere più in fretta di me. "Sciagurata fermati… baldracca ..., troia di una testaccia infame! " "Sciagurato a te, imbecille e traditor." "Perché mai traditor?" "Perché mi hai abbandonata al piedi chiodati e puzzolenti di quei giocatori affaccendati, mi hai perso fra le gambe di una top mode!, fra la pasta di uno spot, nei bottoncini numerati di un apparecchietto." "Ma ti giuro, non è colpa mia...; è il sacerdote che mi obbliga, la ricercatrice affaccendata, la macchinetta del caffè e del cappuccino, il caffè stesso!" "Storie, tutte palle. Se tu volessi veramente sapresti e porresti rifiutarti." "Ma no cara, perdonami, non dipende da me, è tutta colpa loro!" “Non ti piaceva anche a te il caffè, subito dopo morto, non hai partecipato alle sacre rappresentazioni, non studiasti la fessura della ricercatrice affaccendata, e

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allora ... e allora anche tu sei colpevole.” “Va be mi piace il caffe, anche la fessura in fondo non mi dispiace, ma da qui ad adorarlo ce ne passa, sii indulgente, torna da me!" "Vedrò, a me piace da morire cadere nel vuoto." Ci trovammo nel campo rettangolare freddo e bianco, delimitato da elastici fosforescenti. Decapitati chiodati sembravano compiere i riti di un sacrificio tribale; si rincorrevano urlando, si calpestavano, si inchinavano al signore in nero, arbitro in campo del bene e del male. Spettatori non certo inermi, li incitavano con poesie sciamaniche create all'uopo, sventolando stoffe variopinte e acclamando per mezzo di apparecchierei bitonali. La mia testa rotolò fino nel centro segnato appositamente da una cosa con una scanalatura da una parte e due dall'altra, e D si fermò. Subito un'orda vandalica di chiodati decapitati fece: per calciarla, ma io riuscii fortunatamente ad anticiparli. Presi la testa fra le braccia e mi misi a correre nella direzione opposta a quella contraria. "Passa, passa, sei dei nostri!" "Nostri chi?" chiesi, per un attimo speranzoso. "Nostri non lo sappiamo nemmeno noi, ma tu intanto passa." "Ma no, no, passa la zuccheriera." "No; il macina caffè e la moka." "No, il cucchiaino di plastica." Io ripresomi da quell'attimo in cui credetti di aver trovato finalmente qualcuno capace di dirmi chi fosse non mi lasciai convincere e continuai a dirigermi verso la rete più lontana. La folla scalpitava e chiedeva giustizia. Qualcuno in piedi tendeva il pollice verso. Alcuni scandivano: MA-TA-LO! MA-TA-LO! Giunsi finalmente alla. rete contraria all'opposta' e tentai di gettare la mia testa oltre il collo mozzo del portiere affaccendato, ma non ci riuscì Ia testa fece un looping magistrale, tornò indietro e si avvito da sola sul mio collo appositamente predisposto. Un coro si levò dagli spalti metallici della cassetta metallica della macchinetta del caffè e del cappuccino: "buffo-ne - bu-fo-ne - buf-fo-ne". Imboccai allora le scale degli spogliatoi e scomparvi nel buio e nero luminoso, mi sentii risucchiato come da una grande aspirapolvere affamata. Lievitavo, ora, in antitesi alla gravità, dondolando tremendamente verso destra e sinistra verso sopra e verso sotto un po' nauseato, come col mal di mare. L’aspirapolvere continuava ad aspirarmi verso l’alto, quando mi accorsi che non era un potente risucchio invisibile che mi trascinava verso l'alto ma erano dei grossi cavi d'acciaio ingarbugliati sui miei fianchi. Questi erano umidi e sporchi di un grasso nero e appiccicaticcio e mi davano un tremendo fastidio cigolando e stridendo come cigni in punto di morte. Erano i cavi dell'ascensore che mi si avvilupparono come serpi intorno al bacino trascinandomi su. La corsa prosegui a lungo, ma sembrava che i cavi facessero attenzione a non stritolarmi del tutto; un martire è sempre nocivo e gravido di conseguenze inaspettate e pericolose per l'ordine costituito. L'ascensore si fermò e udii dei passi che si allontanavano dalla cabina che poi divennero soffici e felpati, come su di un tappeto rosso e caldo. Sentii "L'aspettavo, dottore, venga, venga, non si intimidisca. Le devo dare una tiratina d'orecchi, sa. Ma le sembra il modo di parlare a un onesto lavoratore; questo non doveva farmelo, questo non doveva farselo." Poi udii dei CLIK, come di un bottone schiacciato ripetutamente e mi ritrovai nella poltrona di velluto con in mano una tazza di caffè e un apparecchietto con i

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bottoncini numerati. La ricercatrice affaccendata era visibilmente rilassata e languida di un piacere trascorso. "Bravo dottore, fa progressi; ha imparato a stimolare bene la fessura acciocché entri nel giusto umore e olii e additivi lubricamente lubrifichino alla bisogna. Però le devo dare una tiratina d'orecchi, sa? Le sembra bello parlare così a un onesto lavoratore; è lui poi che rischia il posto, ha pure dei precedenti, pure una famiglia; poi cosa darà alle sue creature, a sua moglie?" "Ma io non volevo porlo in pericolo, gli spiegavo solamente alcuni fatti." "Taccia! Non è cosa sua parlare con i lavoratori; ci sono i nostri esperti consulenti per questo, noi e solo noi possiamo indottrinare.” "Voi chi?" "Noi non lo sappiamo neppure noi. Che bisogno c'è di sapere chi siamo noi? Basta che noi siamo: ‘Sumus ergo sumus’ no?" "Beh, veramente non era proprio così." "Lasci stare dottore, non faccia il bambino, noi e solo noi possiamo stabilire se sia così o cosà!" "Voi chi?" "Noi che decidiamo se sia così o cosà! E adesso basta parlare, dobbiamo proseguire nel nostro programma di rieducazione. Schiacci quel pulsante con su scritto: mangime per dottori d'allevamento." Schiacciai e mi ritrovai in uno stanzone grande e ombroso, dove tutto sembrava essere avvolto da un freddo e bianco, ma dorato, odore di soffritto decennale. Pesanti transenne circoscrivevano una pista stretta e labirintica dove affamati decapitati facevano una lunga coda cercando di sorpassarsi, sgomitando, rendendosi complici di abigeati, di assassini, di peculati, di camorristiche rappresaglie. L'odore di soffritto misto e di carne putrefatta ammorbava perfino il soffitto, basso, scuro e caldo. "Si metta in fila, non faccia il furbo," mi dissero concitati una folla di decapitati, "noi siamo qui da mezzora, sa." "Voi chi?" "Noi, non lo sappiamo neppure noi, cosa crede? Che tutti siano dei blasfemi come lei? Noi problemi non ce li facciamo, è contro la morale del caffè!" La fila si dipanava per lunghe spire concentriche slanciate e fitte, come un serpentone sacrificale adorato da camusi e stolidi veggenti orbi. Ogni passo che veniva compiuto dai decapitati in avanti, era sempre, o quasi, seguito da improperi ed epiteti verso quelli che tentavano di superare il vicino o quello davanti. Poi quelli che protestavano, a loro volta tentavano di superare il vicino o quello davanti, pensando che non era colpa loro, ma esigenza dei tempi. Alla fine della coda giovani affaccendate coi capelli coronati sopra la testa che non avevano, si affaccendavano a distribuire degli involucri scuri e caldi, dei bicchieretti con un beverone di rane altoatesino e delle tazze di caffè da riciclo. Tutta questa roba era poi accuratamente depositata su un cabaret freddo e bianco, lucido da essere umido; invece era solo sporco di grasso e di una patina uniforme di zozzura scivolosa. Le giovane affaccendate con i capelli coronati ad ogni cabaret si inchina da tradizione neonata ma madida di arcaicità remota: il segno dell'hamburger strafitto. Pesanti macchinari vomitavano a ogni piè sospinto involucri caldi e scuri, ripetendo un rumore come di stantuffo vecchio e slabbrato. Ogni tanto un impiegato affaccendato stimolava le macchine acciocché

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entrassero nel giusto umore e fornissero olii e additivi per friggere patatine e pezzi di carne del Texas appena impallottolati in forme piatte e fredde, ma non bianche. Sciacquii di lungi crepitavano pisciando il beverone al latte altoatesino, frammistandone ogni tanto pezzi di frutta secca e surgelata in modo da rendere sapida la freschezza bianca e indistinguibile delle ondine dunose del bicchieretto ricolmo. Un sacerdote in giacca di Tweed e pantaloni in tinta e calzini rossi violacei, faceva scoccare una frusta da colossal americano, scandendo il ritmo della masticazione e del consumo degli alimenti. Chi sgarrava, non andava a tempo o mangiava troppo lento, fuori fast, veniva colpito tre volte nello stesso punto. Chi invece si attardava a portare alla bocca il pezzo di carne rancida, magari osservando un secondo di pausa, veniva direttamente rifornito di altri hot dog alla maionese e salsa tartara da una speciale snorkel flessibile. In più, per essere punito dell'oltraggio che aveva fatto al nome e alla velocità del caffè, a fine pasto gli si negavano i dieci micro di benzoduogastrina, i dieci micro di benzoduodigerina e i dieci micro di benzoduoalkaselzerina, cosicché per digerire erano tutti casi suoi. Venne il mio turno al bancone metallico delle inservienti affaccendate. "Vorrei del sedano col pinzimonio, delle olive dolci di Grecia, focaccia ligure alle cipolle, e un quartino d'aglio." "Ecco a lei, un burgher, un big burgher, patatine e caffè shake al latte altoatesino con i cicchetti. Ventimila e settecento + tremila di imposta caffè aggiunto, e seimila di ipoteca sul cabaret, che ieri se ne sono fregati quattrodici. Sono trentaseimila." "Ma scusi, fa ventinovemila settecento!" "Quanto fa lo decidiamo noi!” "Voi chi?" "Noi non sappiamo neppure noi, ma non vorrà mettersi contro la conf.comm.ladr.emerit. Non è salutare, potremo avvelenarle il pasto la prossima volta che ci capita fra le sgrinfie." "Ma a me questa roba mi fa schifo!" "A lei invece piace da morire, piace a tutti da morire!" Mentre proferiva quelle parole infatti tutti si alzarono in piedi e urlarono: "perché a noi oltre al caffè, questa roba ci piace da morire. ''

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4.L'AMMAZZACAFFÈ

Ero nello stanzone bianco e freddo coi mille e mille neon accesi. Il camice ballava il suo valzer inanimato, il fermacarte sbertucciato diceva OPPLÀ, gli zoccoli tenevano il tempo, sussurrando per non disturbare la musica che non c'era, "un due tre; un due tre, un due tre". La targhetta con su scritto dottore si annoiava tremendamente e cercava rifugio io uno scuro, tiepido e luminoso nero; senza riuscirei. Io nudo e avvitato dalla caduta su me stesso, piangevo caffè e lacrime calde, e più piangevo e più piangevo, tanto che lo stanzone si era trasformato in una piscina riscaldata con ramo di trampolino e strisce nere sul fondo; i loculi navigavano alla superficie ricolmi di cadaveri inanimati. Intorno tutto era scuro e caldo, da scurare e intiepidire perfino i freddi neon accesi e la luce fredda che cospargeva il caffè ribollente come fosse zucchero velato. Feci due o tre bracciate stancamente, tanto per avvicinarmi alla riva, ma ad ogni bracciata sprofondavo sempre più, e ad ogni battito di gambe mi ritrovavo sempre più infangato e sempre più profondo. Toccai il fondo e non pago, cominciai a scavare, e scavare ancora; angosciato. Raspavo con le mani e con i denti. Ogni tanto gettavo un gettone che trovavo, dietro alle mie spalle, ma non sentivo il classico suono metallico avvertirmi della caduta. Ma proseguivo impavido a scavare sul fondo per non tornare più a galla. Dopo poco tempo di lavoro, ebbi costruito un discretamente lungo, a mio parere, tugurio; le pareti erano di pietra tirata a secco o di mattoni a vista, chissà! Non vedevo tubi. A terra un tappeto rosso felpava i miei passi e insonorizzava il mio respiro pesante. Avvertivo un tremore per tutto il tugurio; era l'ascensore che scendeva velocissimo scuotendo il loculo. Udivo come delle grida lontane, non del tutto soffocate dal tappeto e dai mattoni a vista. A un certo punto ruppi l'ultimo diaframma, il primo imene di una vergine barriera. Misi fuori la resta dalla fessura e vidi un grande androne pieno di gente. Telefoni impazziti squillavano in continuazione senza che mai nessuno rispondesse; affaccendate impiegate decapitate e deflorate si facevano le unghie guardando uno schermo pieno di simboli e schemini da appunti liceali. Un'enorme macchinetta del caffè capeggiava dietro un grosso bancone gorgogliando. "Venga, venga, dottore non si intimidisca. Si è rifocillato, ha mangiato bene? Io mi sono concesso poca roba oggi: due dozzine di ostriche (così eroticamente plasmate), tre coppette a forma di tette di champagne marca Molotov, fagiano frollato e un chicchino, giusto un chicchino di paté; sa non bisogna rovinarsi la bocca per il caffè; è un peccato!" "Scusi," diss'io, improvvisamente illuminato, "l'ammazzacaffè l'ha preso?" Udii un potente e inumano urlo scuotere tutto l'androne, le pareri tremarono, i pavimenti si ondularono, la macchinetta del caffè e del cappuccino smise di gorgogliare, gli schermi dei computer si incrinarono, le limette delle impiegate affaccendate e decapitate si spezzarono, i tappeti rossi lungo il corridoio si arrotolarono su se stessi, le fessure si serrarono, i liquidi lattiginosi si asciugarono, i bicchieretti si ruppero e i cucchiaini di plastica si sciolsero e ci fu un grande crepitìo come di fiamme immortali. Poi tutto si chetò dolcemente, con la danza di

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una piuma d'oca che cade dondolando, tutto ritornò al suo contrario posto; tutto era mutato e nulla era cambiato. Il sacerdote con la giacca di Tweed, i calzoni in tinta e i calzini rossi violacei, inginocchiato tenendosi una mano sul collo mozzo, ansimava asmatico, boccheggiava cianotico nonostante non avesse volto; così tutte le impiegate e anche la macchinetta del caffè. Si alzò incerto e tremolante sulle gambe, fece due passi traballante e si appoggiò alla macchinetta del caffè e del cappuccino. Rovistò in una fessura fredda e bianca dei pantaloni cercando una cosa con una scanalatura da una parte e due dall'altra. La estrasse con lievi singhiozzi. Stimolò la fessura; emise un rumore di sfregamento metallico, e finalmente centrò il segno. Il caffè scese fumando vaporoso. Calcolò il rapporto fra amarezza e zucchero e l'aliquota della costante di corposità dividendo il delta dell'equazione fra il volume del bicchieretto e i giri di cucchiaini d'uopo, quindi sorbì il caffè. Dopo poco riuscì a dire qualche parola. "Non dica ... non dica mai ... non dica mai ... quella parola. Potrebbe crollare tutto ... stia attento, nella rovina anche lei sarebbe trascinato nei baratri abissali." Allora con la mano contratta da spasmi nervosi, cercò un pannello vicino al bancone. Trovò il bottoncino numerato giusto, e lo schiacciò. Mi ritrovai nello stanzone freddo e bianco, ancora dei lievi tremori si avvertivano sulle pareti, ancora il pavimento si ondulava, ancora si udiva il suono secco delle limette delle impiegate affaccendate che si spezzavano, ancora non si udiva la macchinetta del caffè e del cappuccino gorgogliare; il camice danzava a un ritmo esotico e sconosciuto, il fermacarte sbertucciato non diceva più OPPLÀ e gli zoccoli se ne stavano con la coda fra le gambe molto spaventati. Come un dionisiaco e misterioso ditirambo veniva recitato a bassa voce dai cadaveri nei loculi: "Il senso sincronico al moto circolare che impone la maestà del caffè, non più patisce delusioni eterne di volgar incomprensione, e nobile come la fierezza del boia, anima di sé in toro, ritrova oltre il sette volte unitario tremore, dimora fulgente. E scie e lampi e scarti e contrappunti e fughe e adagi e pianissimi, danzano amorali e nudi al suono del suo scrosciare vaporoso, ebbri e cantano e urlano e lacerano se stessi, velati dall'informe tripudio di amorfe sensazioni, e che del perfetto e del cadere del gettone colmi di privazioni, originano. Ombre di idiotismo idiomatiche scure e calde rifuggono inesistenti, poiché nell'ospedale il solido non ostacola la luce bianca e fredda del caffè, né dell'impercettibile profumo suo devia il traguardo, né dell'iroso disprezzo del dottore muta di sonoro echeggio la meta. Indifferente la caffeina, di freschezza colma, insonnie asincrone sopporta, poiché del diamante volle la perfezione e la sterilità, e non seppe dalla criselefantinità della torre sua donarsi al decaffeinato. Dove si può ciò che necessita, giometriche costruzioni esistenziali roteano impavide sulla rotta del caffè, e sondano e spremono e sorbiscono, ma giammai analizzano, che della sintesi di blasfema bestemmia non oltraggino la trinacricità dell'unitario caffè, con fiammate flautolenti di obbrobriosa mancanza. Risposero gli oggetti dello stanzone in un unico stàsimo tragico: "Il caffè elude immagini e icone con sublime caparbietà, concentrato nella macchinetta da promiscuità divine. Nel palazzo fluttuante di ritmo, giovani slanci infantili di connessioni trasmigrano sonori attraverso armoniche melodie, senza incanutirsi giammai nel decaffeinato. Concentriche le elevazioni si susseguono in ogni dove, incalzati dalla solitaria tenzone del gettone, apocrifo progetto di superamento profano. Architetto della macchinetta è l'immaginoso contrasto di

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un latte visionario, il quale indovina nel bicchieretto una zuccherosa uscita; nel liofilizzato un ineluttabile ritorno, nella cupola una fierezza oltremodo amara e aguzza." Mi infilai come sempre il camice bianco, gli zoccoletti bucherellati a mi incamminai nel corridoio scuro e caldo con i tubi a vista. Arrivato all'ascensore, schiacciai un pulsantino bianco; curiosamente non era numerato. Poi si accese un bottoncino verde ed io entrai nell'abitacolo. La ricercatrice affaccendata fece sorridere la sua fessura con le labbra verticali rosso purpureo e carnose. Era ancora distesa con le spalle appoggiate sul lettino da ambulatorio. "Ha mangiato bene dottore, si è rifocillato? Bene! La trovo perfino ringiovanito. Io mi sono tenuta leggera: una mela verde verde, una tazzina di yogurt al caffè con chicchi spezzettati dentro, un pacchettino di crackers integrali. Sa com'è anche l'occhio vuole la sua parte; ed io sono costantemente a dieta e denutrita. Sa i lipidi sapidi, gli zuccheri liquidi, gli amidi umidi, le proteine protettive, i grassi lubrici, i carboidrati carburanti, oggi non fanno bene alla linea, domani ... non si sa. Ah dimenticavo, lei non ha fatto in tempo a prendere il suo caffè. Prego si avvicini, venga, venga." Io mi avvicinai alla sua fessura, sfilando qualcosa. Giunto nei pressi dello sfintere che era già stato adeguatamente stimolato dalla ricercatrice affaccendata con un cucchiaino, mi infilai gli occhiali. Arrivato quasi a sfiorare lo sfintere umidiccio, di umidità lattiginosa, con la montatura, un vapore bollente mi investì nebbioso. Oltre quella nebbia, vi erano numerosissime particelle sature d'acqua che mi impedivano di vedere, poi altre e altre ancora che lasciavano intendere che dietro ancora ce ne fossero e una bianchezza calda e fredda lasciò scorgere della foschia fitta, e dietro della nebbia che andava diradandosi. Diradatasi del tutto, mi accorsi che in mano mi era piovuta una cosa chiara con una scanalatura da una parte e due dall'altra. "Maledetto il giorno in cui volli del caffè per fuggire dalla noia del bianco e del freddo", mi sorpresi a pensare. Davanti a me si era materializzata una ricercatrice affaccendata bocconi e colle spalle appoggiate al lettuccio da obitorio. Io stimolai adeguatamente la fessura e introdussi il gettone nella stessa; udii dei rumori metallici come di sfregamento. La ricercatrice affaccendata aprì la bocca di scatto, e meccanicamente rigurgitò lo yogurt al caffè coi pezzettini di chicco frantumati, dentro un bicchieretto nel quale era caduto dall'alto un cucchiaino di plastica. Io presi il bicchieretto fra le mani, tolsi un pezzettino di cracker che inopportunamente si era mischiato allo yogurt caffeinato e bevvi l'insano beverone. Ruttai disgustato, poi vomitai anch’io dentro un biechi eretto di plastica dove prima era caduto un cucchiaino freddo e bianco d'argento, e venne il sessantasette che bevve l'insano beverone. Poi anch'esso rigurgitò in un bicchieretto dove era caduto un cucchiaio caldo e scuro, e venne il mio me bimbo che bevve l'insano beverone. Poi ruttò e ammorbato vomitò in un bicchieretto dove anticipatamente aveva già vomitato un cucchiaino di plastica argentata fredda e bianca e venn'io che bevvi l' insano beverone. Ruttai disgustato ma non rigettai più e deglutii anche il pezzettino di cracker intruso. "Bravo dottore, vede come è facile e genuino, bere così un prodotto di prima mano. Direttamente alla fonte, coltivato da tua mano, colto dalla ricercatrice affaccendata e decapitata dell'orto di casa tua." Poi la ricercatrice affaccendata e decapitata ruttò e continuò a masturbarsi col

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cucchiaino, invitandomi a sedermi nella poltrona di velluto, con in mano l'apparecchietto con i tasti numerati e la macchinetta del caffè e del cappuccino di fianco. Lo schermo luminoso si era acceso come spinto da un'intelligenza superiore, un ordine prestabilito, un'armonia mitica, un motore immoto, un alcunché di divino. Primo canale pubblicità, secondo pubblicità, terzo pubblicità, quarto pubblicità, quinto pubblicità, sesto tribuna politica. "Dottore ne approfitti per addottrinarsi," disse la fessurante affaccendata e masturbante, "questa è Teoria, Scienza, Religione”. Nello schermo luminoso prese forma ma non tanta materia un figuro in completino gessato, con una cravatta cashmere e i calzini rossi violacei e il cipiglio dello strapotere. Era calvo e col mento volitivo, chiaramente nordico e di aspetto e di aspetto stesso. Leggermente crasso. "Cari ospedalieri, dottori, infermieri, portantini, impiegati, ricercatori, sacerdoti, ovviamente tutti affaccendati e decapitati, oggi son qui ad insegnarvi tutto. Statemi attentissimi. Noi viviamo in una libera! repubblica ospedalcostituzionale democratica, pluralistica e social religiosa, e tutti adoriamo il caffè che è il Supremo, e dico supremo con la ‘si' maiuscola. Noi che siamo il potere rappresentiamo non solo la volontà della sanità intiera, e soprattutto la nostra. Per questo siamo democratici e liberal social religiosi costituzional ospedalieri, perché vi evitiamo di ammalarvi a decidere, quando possiamo decidere benissimo noi ... e da soli. Pluralisti lo siamo perché ammettiamo che tutti dicano la propria ma sorbiscano lo stesso identico caffè, che è la sintesi stessa della nostra unità. Chi ha maggiori stoccaggi di caffè è più importante perché ha maggiori probabilità di dissetare il popolo, chi invece non ha disponibilità di liquidità caffeinica non può dire la sua, ovviamente perché manca di media; per media intendo la media o il media, del nove e del ventisette. Il media è importantissimo per educare e accrescere la vostra santa abulia, il caffè per eccitarvi, i gettoni per tappare le fessure aperte ed evirare spifferi d'aria fredda. Repubblica si dice perché ogni cosa pubblica è cosa pubblica, 'res publica' ospedaliera, perché voi siete tutti malati, e noi vi dobbiamo curare, social perché si intona col resto della dizione, religiosa perché così non ci mettiamo contro i sacerdoti ed anzi diventiamo noi stessi tali, democratica perché è essenziale la partecipazione della popolazione ospedaliera, se no noi, e per noi non so che cosa intendo, chi mungiamo per ottenere latte altoatesino? Quindi votate, votate, votare e il caffè beverete, ops pardon, berrete. I miei più sinceri saluti, social religiosi ed extracomunitari. Vi amo, je vous aime, ich liebe euch, I love you, yo os quero et cetera et cetera.” Pubblicità. Io schiacciai un pulsantino numerato qualsiasi e mi ritrovai io un grande stanzone bianco e freddo, con tanti riflettori neri e caldi che emettevano una luce fredda e bianca. Una voce elettronica contava alla rovescia: cinque, quattro, tre, due, uno, AZIONE! Il fascio di luce bianca venne improvvisamente girato e puntato sui miei occhi caldi e scuri, profondi. Non vedevo niente tanto mi abbagliavano con quegli apparecchi diabolici. Subito un figuro, crasso, col gessato, la cravatta cashmere e i calzini violacei prese una sedia e mi si piazzò di fronte compiaciuto. "Dica sessantasette, è vero che lei non adora il caffè?" "Beh io ... non è che non mi piaccia o lo disprezzi proprio del tutto, ma in verità non credo che vada adorato ... " "Non tergiversi, risponda a tono! Sì o no!?"

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"Beh io…, ...ma ... cred . .. " "Non faccia il furbo, sessantasette," disse il crasso figuro, scagliandomi addosso una tazzina di caffè bollente, "non siamo qui per scherzare; lei è seriamente compromesso, sa? Risponda: è vero che non adora il caffè?" "È vero!" "Ed è ancor altro vero che parlò al lavoratore di alienazione, citando i tre criminali più efferati degli ultimi secoli?" "Ma no! Quello assolutamente no, non voleva essere criminoso, parlavo così del più e del meno." "Basta, la smetta o la faccio abbonare per un anno al ‘Carriera della Sala’. Risponda!" "No! No! Al ‘Carriera della Sala’ no! Confesso tutto. Sì, non adoro il caffè, anzi mi fa venire la nausea, gli hamburger mi fanno vomitare, le fessure mi deprimono, i gettoni li fonderei tutti per farne profilattici corazzati, a tutti gli affaccendati decapitati gli rimetterei la testa e lo spirito critico!" "Ahitè mascalzone terrorista, confessi, ahi tè fellone apostata antidemocratico, dunque riveli le tue nefandezze, ahitè vigliacco anti social religioso esponi le tue eresie, ahitè sovversivo destabilizzatore e problematico non ti vergogni allora della tua malattia infetta, delle tue piaghe immonde, della tua pericolosità insana." "No, non mi vergogno, anzi me ne vanto, lo urlo agli otto venti.” "Urla, urla, che il sacerdote ha preparato gli gnocchetti alla romana." "Magari, con tutte le schifezze che si mangiano adesso." "Si fa per dire, sessantasette." "Non sono un numero," gridai verso la freddissima e bianchissima luce che mi abbagliava abbacinante, "sono un uomo libero ... " Non proseguii perché me ne mancò la forza e la volontà. Intanto il figuro crasso e ingessato e con i calzini rossi violacei e la cravatta cashmere, aizzava i video spettatori dicendo che un atteggiamento allarmistico e disfattista come il mio andava troncato, punito; un comportamento così non era lecito nemmeno "in modica quantità", e neppure in dose media giornaliera, checché se ne legiferi. Testuali sue parole, poi schiacciò un numero abbottonato sopra un grande apparecchietto. Nero e ancora nero tutto d'intorno, come in una cupola semisferica e delimitata da tensioni indefinite e afone mi teneva prigioniero in una bacheca da quarantena animale. L'odore del metallo limaccioso si sollevava amalgamandosi con il nero e colla tiepidezza di una stagione mite, creando le condizioni atmosferiche migliori per la crescita incondizionata di piantagioni di caffè in vuoti a perdere umani. Afosi venti di materialità impregnati soffiavano come a scacciare gli alisei, umidicci venti, d'umidità lattiginosa, di acriticismo madidi inseguivano monsoni come a rincorrerli. Voci di decapitati si fecero sempre più insistenti, tramestio di affaccendamento sempre più zelante, lo scrosciare del caffè sempre più pauroso. Io svenni abbracciandomi stretto e mi ritrovai sulla poltrona vellutata dell'ascensore, la ricercatrice aveva appena· inghiottito il suo cucchiaino scuro e caldo nelle labbra verticali e rosse purpuree, lo schermo luminoso aveva appena finito di trasmettere l'ennesimo dibattito democratico a proposito del caffè. "Vede dottore, non deve ostinarsi, è per il suo bene. Lei sbaglia, è certo, noi lo sappiamo benissimo."

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"Voi Chi? " "Noi che lo sappiamo, no? Cosa crede che la costituzionalità della social repubblica ospedaliera sia stata fatta a caso? No! E stata impostata acciocché i malati siano fulmineamente curati, affinché olii e additivi lubricamente lubrifichino la sua stanca testa presa a calci nella partita, e gettoni del caffè penetrino indolori per indottrinarla. Si curi dottore, si addottrini! A noi tutti deve piacere da morire vivere· nell' ospedale che paternamente ci educa!" Mi trovai nello stanzone bianco e freddo con mille e mille neon accesi, i loculi ripescati dalla piscina caffelatte, (oserei cappuccino), si erano asciugati del tutto. Così pure i cadaveri inanimati. Il camice con sopra la targhetta annoiata sgocciolava ancora, ma presto si sarebbe rinsecchito anch'esso; solo gli zoccoli bucherellati sembravano non avere subìto nessuna contaminazione. Probabilmente perché avevano galleggiato alla bene e meglio sopra il liquido scuro e ribollente. Io ero seduto sul loculo sessantasette con le gambe distese e leggermente indolenzito da tutto il trambusto passato. Mi alzai ed evitai accuratamente di avvitarmi sulle gambe per non cadere su me stesso e accarezzare il pavimento talmente lucido da essere bagnato. Mi infilai alla meglio il camice e gli zoccoletti, nonostante non fossi nudo e uscii nel corridoio. "Dica infermiere affaccendato, che le succede?" "Dottore non c'è più religione. Io lavoro da mane a sera per portare alla mie creature e a mia moglie il pane quotidiano e cosa succede? Suvvia ... mi chieda cosa succede!" "Cosa succede?" "Che il giorno che c'è la partita, manco quella mi fanno ascoltare alla radiolina portatile. Ero lì che ascoltavo chiuso nell'ascensore per non farmi beccare, quando ecco che arriva la ricercatrice affaccendata che mi dice: 'gettonami all'istante o ti denuncio al D.l.O.* (Disciplinare Inter Ospedaliera) Io volevo solo ascoltare la partita e di fottere non avevo proprio voglia e le ho detto di andare a farsi fottere. Non mi ha mica denunciato quella straffaccendata, impalmata e masturbata e deflorata e decapitata. Ora cosa darò alle mie creature, a mia moglie? Mi cacceranno con un calcio in culo. Io ho pure dei precedenti!" ''Suvvia, che vuol che sia, rimane sempre la calciomania, la caffèmania, la clientelìa, l'eutanasia, la endocrinologia, una partita che vuoi che sia, e così sia!" Presi il corridoio nella direzione più distante, fino ad arrivare all'ascensore. Quando l'aprii mi investì un ruggente carnemoto di hamburger fetidi che rotolavano come ghiaia verso la B. Capii dalla direzione che presero da dove si rifornissero di carne texana: nella Be nella A di carne d'hamburger inanimata ce n' era tanta. A stento riuscii a richiudere la porta, bloccando il flusso di rancide membra texane, ma lo stesso qualche hamburger mi si era infilato in una fessura bianca e fredda del camice. Riaprii la porta ed entrai nell'abitacolo dell’ascensore. Dallo specchio mi guardavano due occhi infiniti di scurezza e tremendi di freddezza; solitari e senza viso. Un alone giovanile faceva da contorno a quei lampi intermittenti che scrutavano, una folta chioma ondulata faceva da cornice; un nasino camuso spuntava soletto. Arrivai poi all'androne del bancone delle giovanette affaccendate. Tutti correvano affannati e ansiosi; chi entrava, chi usciva, chi restava immobile aspettando la propria ora. Mi avvicinai al bancone e dissi: "scusi signorina affaccendata, la macchinetta ... ". Mi mise in mano due cose chiare con una scanalatura da una parte e due dall'altra, ma prima li sfiorò con le unghie e

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poi strinse le mani al petto. Mi appropinquai alla macchinetta del caffè, dove dovetti fare una lunga fila. Mille e mille persone affaccendate e decapitate infarti aspettavano il loro turno per inchinarsi devotamente e insozzare di sangue raggrumato il pavimento, che cominciava ad ondularsi proprio di tal materia raggrumata ma non coagulata del tutto. Finalmente giunse: il mio turno. Stimolai adeguatamente la fessura, acciocché entrasse nel giusto umore e olii e additivi lubricamente lubrificassero alla bisogna. La ricercatrice affaccendata chiusa nell'ascensore gemette più volte, ma non venne ... nei pressi della macchinetta del caffè ad aiutarmi. Sfregai ancora provocando rumori metallici, e la folla ansiosa e ansimante si fermò d'incanto. Si voltò, mi scrutò e con disappunto emise il classico e onomatopeico suono per zittire: SCHIHHIITTH. Io non mi imbarazzai, anzi mi gettai a capofitto tra le cosce della ricercatrice affaccendata dietro i gettoni chiari e freddi nella fessura della macchinetta del caffè e del cappuccino. Caddi infinitamente in un tremore chiaro e non abbagliante, come se scivolassi lungo uno scivolo verticale adeguatamente lubricamente lubrificato alla bisogna. L’umidità, umidità di un umido bagnato e lattiginoso talmente chiaro da essere freddo e bianco mi infreddoliva e raffreddava il mio cadavere morto. Perché io infarti ero ancora morto, e non c'era verso di menare il mio morire in pace. Di fianco a me cadeva nella luminosa e non abbagliante caduta anche il mio me bimbo e l'aborto fetale o il feto abortivo del sessantasette. "Visto che si cade insieme," disse il feto abortivo, dato che il mio me bambino si rifiutava ancora di parlare, visto che tutto era stato detto e tutto già scritto e solo il coraggio di tacere e fare non era stato ancora reinventato, "e la caduta potrebbe essere molto lunga e noiosa, proporrei di intavolare una discussione che però non sia tediosa di noiosa noia, ma divertente di interessanti passatempi." "Con piacere," diss'io compiaciuto e compiacente," potremo stabilire se arriveremo, dove arriveremo, quando arriveremo, se è utile arrivare, se è meglio non partire del tutto, e in ultimo ma non per ultimo se arrivando per caso non ci troveremo di dove siamo partiti. Prego inizi lei sessantasette, che il mio bimbo me non vuole parlare perché tutto è stato già detto e tutto scritto e forse solo il coraggio di tacere e agire nessuno l'ha ancora riscoperto. "Il bimbo mi sembrò annuire." "Vede caro dottore, a me sembra che cercare l'inizio della fine e la fine dell'inizio come in un continuo cerchio da gettone turgido, non sia poi così privo di senso come all'apparenza può sembrare. Se non altro così facendo si possono smascherare ‘loro’. Loro che vorrebbero farci intendere che l'ospedale possiede un senso e una direzione, e che quando tutto cambia qualcosa veramente muti." "Loro chi?" "Non lo sappiamo neppure noi. Loro ... loro." "Noi chi?" "Ah questo lo so! Noi che cadiamo nella luce soffusa e non abbagliante della caduta. Vede che qualche risposta esiste, non sarà filosofica, gnoseologica, fisiologica, metafisica, però non è neppure demagogica come la loro. Bisogna sapersi accontentare e sfruttare al massimo la minima Conoscenza, che è minima, ma essenziale." "Loro chi?" "La pianti dottore, così non giungeremo mai a nulla.” "Ah, allora lei intende dire che mai giungeremo, forse che addirittura non siamo

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nemmeno mai partiti?" "No! Non intendevo questo. Dicevo solo che bisogna lasciare l'irresolubile, e risolvere il risolvibile, ovvero accertare se tutto cambia quando cambia, o se è solo apparenza, e in tal caso perché!” "Ma bravo sessantasette, e una volta che l'avremo stabilito cosa avremo ottenuto? Sempre una delusione; infarti se tutto cambia veramente noi siamo in torto, se non cambia nulla avremo ragione ma cosa potremo mai cambiare noi? Nulla!" "Non è vero dottore, potremo almeno cambiare il caffè in qualcosa di più salubre come ad esempio il pane, tanto per dirne una; ma potrebbe essere anche il sedano in pinzimonio o le olive dolci greche. Una qualsiasi cosa che non intacchi il sistema nervoso. Un tale un giorno disse che sono delle persone affaccendate che sono solo dei fascio di centri nervosi, con un cervello per decorazione.” "Un tale chi?" "Bah, un cale non sapeva nemmeno lui." “Il mio bambino me bimbo taceva sempre”. "Io non so. Però ritengo che vi sia un'unica via d'uscita per risolvere la questione. Non importa il caffè, il pane o il sedano in pinzimonio, ma come lo si consuma e come lo si gestisce. Se si è onesti pure il carbone nero della Befana va bene; sono la disonestà e la pretenziosità che avvelenano tutto… forse anche il caffè andrebbe bene se non ci fossero sacerdoti dogmatici a gestirlo, o forse no. Il potere o e un Sacro Servizio, o è Tirannia!” Il bambino continuava a tacere, ma sembrava che annuisse in assenso. Arrivammo in fine, al fine della caduta o all'inizio dello scivolo, non so. So però che qualcosa di metallico e freddo e bianco ci raccolse come in una cassetta della macchinetta del caffè e del cappuccino. Sopra di noi continuavano a cadere degli oggetti scuri e tiepidi con una scanalatura da una parte e due dall'altra. Quando il qualcosa fu ricolmo venne un impiegato affaccendato e decapitato, levò la cassetta dalla macchinetta del caffè e del cappuccino e svuoto il contenuto in un cassetto del bancone dell'androne delle giovanette affaccendate e decapitate. Poi se ne andò. Una di esse con i capelli raccolti sono una cuffietta e con i lobi carnosi ci prese in mano, ci sfiorò con le unghie e poi ci strinse al suo abbondante e teso petto racchiuso dentro un reggiseno a balconcino. Poi venne un'altra caruccia affaccendata con aria da Madame di bordello, ci strappò dalle mani di quella e ci ficcò tutti sotto l'elastico delle auto reggenti nere che gli velavano le gambe di freddezza e scurezza artificiale. Rimanemmo in quella posizione imbarazzante per qualche tempo, posizione resa ancora più imbarazzante dal fatto che la Madame se ne andava in giro per il corridoio dell'ospedale a riscuotere gettoni disinvolta. Alla fine del giro ci trovammo uniti fra il silicone delle calze e sottili peli biondi della coscia, io, il sessantasette, il me bambino, il feto aborrivo del sé del sessantasette, un impiegato affaccendato capitatogli fra le mani per caso, il figuro crasso della tribuna politica e alcuni altri indistinguibili. Stavamo quasi per soffocare quando insperatamente la Madame ci cirò fuori ci sfiorò con le unghie, ci strinse al petto e sospirò di gioia consegnandoci al pappa, che altri non era se non il sacerdote con il gessato completo, i calzini rossi violacei e il cipiglio dello strapotere. Il sacerdote intonò vicino alle nostre piccole orecchie: "Di questa landa il periodo è il luogo anteriormente a creazione e posposto ad

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apocalisse, poiché la lacerazione e la centrifuga della miglior miscela lambisce gli arcani, empiendosi in parallelo della propria sua frattura macinata, così si vuole dove l’infinitezza. converge la parallela, dove il cerchio perfetto risiede sulle linee del quadrato, dove le spire del gorgogliante caffè trovano principio nel termine. Così vuole la maturità del candido chicco scuro, del sogno sognante disvelante realtà. L'Essere giace né morto né mai stato nel ventre di fetazione assente, disciolto e annullato dalla fermentazione dell'inessenziale, così vita ridente autoponentesi solo nell’astratto di un concepimento impossibile, gioisce di non esistere. Il germe della critica non trova dimora in queste terre, piane e coltivate a caffè labirintiche e intrigate, poiché asettica è l'ispirazione delle lande dove si sorbisce ciò che necessita . Nobile è il caso rispettato per l eccelsa sua originalità, gli si inchina riverente l'ospedaliero, quale nemico amoroso, poiché egli è addottrinato a sapere che tutto ha una ragione, tutto uno schema, tutto avviene in nome del caffè… “Impari dottore; impari sessantasette!" "Non sono un numero, sono un uomo libero io!" “AH, AH, AH, AH, AH” Il sacerdote schiacciò uno dei tanti numeretti abbottonati sopra il suo mini apparecchietto portatile, cercandolo prima con cura e con sussiego. Mi ritrovai in una stanza piccola e calda, col soffitto bianco e appena alto sopra la mia testa, che si affacciava su di una stanzetta completamente incanutita dalla vecchiaia da cui si imboccava un loculo tugurioso straripante di chiarezza abbagliante, poi un androne con il soffitto appena alto sopra la mia testa completamente ricolma di nebbia e di foschia vaporosa. Urtai nella mia cecità contro un pomolo rotondo con un bottoncino da un lato. Spinsi il bottoncino e girai la manopola ed entrai nell'ascensore. La ricercatrice affaccendata e decapitata in quel momento stava abbassando il suo camice arrotolato a grandi pieghe fino a dei piccoli e fini fianchi, e una testa piccola e curiosa si stava affacciando dalla sua fessura verticale. Poi quella cestina piccola come la conchetta di un cucchiaino si ritirò veloce e La fessura smise di sorridere con le labbra rosse purpuree. "Dottore, ora si deve arrangiare per cinque minuti, io devo andare a discutere di un certo studio con il garzone della cibagay. Mi raccomando non combini nulla di male." "Faccia, faccia, non si preoccupi. Mi siederò qui buono buono e sorbirò il mio caffè." "A proposito le lascio alcuni gettoni chiari e freddi. Ma prima li sfiorerò con le unghie e me li stringerò al petto come desidera che si faccia sempre Madame" "Molto gentile da parre sua." La ricercatrice affaccendata uscì dall'abitacolo dimenando un po' il suo fondoschiena decapitato, agitando la manina come un pudico ventaglio. Mi piace da morire studiare con il garzone della ciba-gay!” Mi ritrovai nello stanzone bianco e freddo con i loculi a scomparsa; nudo. Il camice inamidato e rigido sopra la scrivania abbandonata, sembrava aizzare gli oggetti contro qualcuno o qualcosa. Gli oggetti ogni ramo applaudivano sbattendo loro stessi contro qualcosa di freddo e di bianco qualunque per fare un rumore scuro e tiepido. Tutto turbinava preso dal vortice della sua retorica stantia e alquanto banale, che comunque faceva presa sulla folla degli oggetti che si ingegnavano a disperdersi ancor più nelle selve canute di bianche dune

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convesse seguendone le linee strisciandoci lubricamente sopra. Fiotti di sangue raggrumato ogni tanto si infrangevano sulle corpose curve acute di un deserto abbagliante e mille e mille ancora volte riribaltare gli oggetti riportandoli alla loro normale verticalità. L'ospedale intero da sempre gravido delle conseguenze di una posizione eretta sembrava ergersi e tendere verso infinite altezze le braccia di mille e mille decapitati affaccendati, tracciare solo linee sospinte alla ricerca di cime tremende e ascese indicibili, e aborrire la quiete di un lago in piano, ma pure quello voleva innalzare e verticalizzare per giungere alla sede del caffè e al suo castello e ottenere parallele luminose incidenti su perpendicolari abbandonate alla lievitazione di loro stesse. Il camice voluminoso e attento a scegliere le parole migliori dondolava al ritmo di una mazurca della Mazuria pestando violentemente il piede che non possedeva, ottenendo un effetto efficacissimo; tutti gli oggetti acclamavano metallicamente il loro retore senza fondo né braccia né viso né corpo né testa, del tutto estasiati. "Basta! basta! basta!" diss'io con un afflato purulento di alito da hamburger e patatine, "o pronuncio la parola distruttiva... l' ammazzacaf ... " "No, no, quella parola no, mai! Ci sediamo, nel senso dei sedativi lo giuriamo, ma tu non osare pronunciare quella parola ... ti preghiamo ... " "Così va bene!" Tutto nello stanzone rallentò meccanicamente, come se fosse un automa cibernetico fatto spirituale a cui scemasse improvvisamente l'energia cosmica. Poi tutto fu immobile per un lungo, lunghissimo tempo, il lungo tempo di uno stasimo tragico di un coro ammutolito. Ma ci fu il colpo di scena. Per togliere i suoi devoti dall'imbarazzante situazione drammatica, dalla scena senza possibilità di soluzione, il sacerdote direbbe una stasi senza soluzione di continuità, si squarciò il soffitto freddo e bianco dei mille e mille neon necrofori e messaggeri di luce velenosa e acrilica, e calò da imponderabili altezze l'enorme macchinona del caffè e del cappuccino che si trovava nella stanza dei bottoni del sacerdote. Sopra di essa, in piedi e con le gambe allargate simmetricamente, il sacerdote col gessato completo, la cravatta cashmere e i calzini rossi violacei alzava le braccia per accogliere degnamente le ovazioni degli oggetti. La macchina del caffè Ex Machina! Una cascata di gettoni preziosamente intarsiati di ori d’Oriente e miniature senegalesi zampillò dalla cassetta metallica della macchinetta del caffè e del cappuccino, distribuendosi e seppellendo gli oggetti devoti, e fiotti e fiotti di mille e mille succulenti caffè andavano a centrare i mille e mille bicchieretti con dentro i mille e mille cucchiaini di plastica intarsiata da rari bassorilievi olandesi. La folla degli oggetti era impazzita dalla felicità, qualcuno colto da mistiche visioni si mortificava colpendosi più volte sulla testa che non aveva con gli zoccoli bucherellati, altri penitenti si ficcavano nel collo mozzo la spilla della targhetta con su scritto "dottor..." la ricercatrice affaccendata tappava la sua fessura con ogni sorta di gettoni turgidi, dai bifailici ai trifasici, dai transautomatici ai monostatici. L'infermiere affaccendato con la barella colma di cadaveri inanimati si schiantava contro i muri sfracellandosi in mille pezzettini di marmo, la Madame si pizzicottava leggiadra le autoreggenti gridando: "a me, a me, che me li metto fra la coscia e le calze, a me, a me…". Le carucce affaccendate leccavano la metallica e turgida presenza della macchinona del caffè e del cappuccino strusciando voluttuose come malate di un morbo psichico. La macchina del caffè Ex Machina cercava intanto di schiacciarmi zompando di qua e di là nello

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stanzone bianco e freddo; ma io restavo immobile e lei non riusciva a colpirmi ma continuava a zompare mietendo vittime fra le sue stesse file. Il sessantasette abbracciava il suo feto abortivo del sé, io chiamavo il mio me bimbo senza ottenere risposta, perché tutto era già stato detto e tutto scritto. Non rimaneva che tacere, ed io feci il classico rumore onomatopeico per azzittire: SSSCHSSSIHITHH. Tutto si zittì, e nulla tacque, ma tutto piombò in un emisfero scuro e nero, corposo, e nulla rimase nella luce fredda e bianca dello stanzone coi mille e mille neon assassini. Qualcuno degli oggetti disse: "me mi piace da morire." Mi ritrovai sempre nello stanzone freddo e bianco e scuro e tiepido, ma tutto giaceva al suo posto originale, lo squarcio nel soffitto rimarginato, i mille e mille caffè scomparsi con i mille e mille bicchieretti e i mille e mille cucchiaini. Il camice penzolava indifferente appeso all'attaccapanni, gli zoccoli si tenevano sotto la scrivania abbandonata, la targhetta era sempre al suo posto. Mi rivestii alla bene e meglio del camice e degli zoccoli e uscii nel corridoi coi tubi a vista. "Dottore, dottore ... si fermi dottore, prego!" "Mi fermo infermiera affaccendata e decapitata; cosa vuole di grazia?" "Presto venga, alla 76 un arresto cardiaco a una persona anziana, tale 67." "Ah, conosco." "Venga presto." Entrando nella 76 mi accorsi subito che nell'aria c'era qualcosa di strano· un ronzio sordo come di una cinepresa mugolava nascosta da qualche parre. Tutto però sembrava al suo posto, o meglio tutto era cambiato ma nulla mutato. "Avete fatto il massaggio?" "Certo come di prassi." · "Respirazione fessura fessura, orifizio orifizio?" "Certo come di prassi." "Dieci micro di benzoduocuorina?" "Ovvio dottore!" "Bene possiamo orbene cominciare: affinché nell'operazione l'oggetto non si perda, diamogli un po' di merda…” "Dottore non era così; era acciocché al confronto nessun ci perda, diamogli un po' di merda…” "No mia cara affaccendata era, acciocché l’oggetto a soggetto non si erda, diamogli un po' di merda.” "Ma no dottore, si sbaglia. Era, affinché il sessantasette la vita ci perda, iniettiamogli un po' di merda…” "Mi dispiace signorina affaccendata, ma era acciocché il 67 da numero a Uomo non si erda, nutriamolo con fa merda. Tutti d'accordo adesso?" "Certo dottore, lei è come il pappa, è infallibile." "Bene! Bisturi, taglia pane elettrico, tosta cuori, burro, marmellata, estrattore, decodificatore ... et Voilà, tutto fatto." Il cuore del sessantasette venne estratto con un sordo e impercettibile rumore di metallo, e logicamente sostituito da un potente gettone a pressione; il ‘coin maker’. Il cuore venne riposto io un'apposita scatolina metallica di raccolta a temperatura -35, e venne consegnato al sacerdote con i calzini rossi violacei, la cravatta cashmere e le scarpe di vacchetta, che l'avrebbe mangiato il giorno appresso insieme alle ostriche, allo champagne Molotov, al paté e al caffè. Il sessantasette si svegliò dalla letargica anestesia, si sedette con le gambe distese

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sul lettuccio da obitorio e si grattò la nuca nel punto in cui era stata appoggiata. Nel suo petto batteva forte il gettone chiaro e freddo, il suo corpo sembrava sensibilmente invecchiato. "Ma che cosa avete fatto disgraziati?" "Le abbiamo sostituito il cuore con un gettone della macchinetta del caffè e del cappuccino; è più salutare e in linea col sacro caffè!" "Ma voi non potevate, io non avevo firmato per la donazione degli organi, gli avevo detto a qui bastardi: 'il corpo è mio pure dopo morto ... pure dopo morto!" "Ma vede sessantasette, non abbiamo donato il suo cuore, le abbiamo solo sostituito una vecchia pompa, con un fiammante gettone, il ‘coin maker’. Lei ora ha un gettone al posto del cuore, come tutti d'altra parte." "Mi sento morire," disse il sessantasette, visibilmente sconvolto. Mi ritrovai appoltronato io una poltrona nera rivestita di velluto nero, in mano avevo un apparecchietto nero con tanti bottoncini numerati sopra, una macchinetta del caffè e del cappuccino di fianco. La ricercatrice affaccendata stava rientrando proprio allora dopo un'animata discussione col garzone della ciba-gay. Era visibilmente rilassata, deflorata, impalmata, decapitata e disordinatamente disadorna. Mi mise in mano alcuni gettoni della macchinetta del caffè e del cappuccino e si sdraiò sopra il lettuccio da infermeria, vistosamente distrutta e compiaciuta di un piacere passato appena, ma vivo ancora nella carne. "Dottore, dottore! Non la posso lasciare un attimo per sbrigare le mie faccende universitarie, che lei mi combina tutto quel casino con la macchina del caffè Ex Machina e tutto il resto. Ma lo sa che io ho famiglia, tengo delle creature, due cani, un canarino, un nonno a carico, un marito alcolizzato, i pesciolini rossi, il gatto, le tartarughette nane, il mio amante affaccendato, le sue due figlie e l'appartamento a Cortina?! Se lei continua così, mi sbatteranno in amministrazione a fare fotocopie. Non faccia il bambino, guarisca dalla sua insana insania. Sistemò le ciabatte, togliendomi gli zoccoli bucherellati, sui miei freddi piedi bianchi e puzzolenti. Accese lo schermo luminoso e mi accarezzò maternamente la testa e i miei riccioli. Infatti ero talmente ringiovanito che i miei boccoli, di cui ne ero andato così fiero in vita nonostante non li utilizzassi per far colpo sulle giovanette, erano ricresciuti forti e sani; tanto sani da lasciar intendere mendacemente che non dovessero cadere mai. Io schiacciai uno dei pulsantini dell'apparecchietto nero che avevo in mano e mi ritrovai in uno stanzone bianco e freddo con dei neon necrofori. Ne schiacciai un altro e mi ritrovai in una piscina di caffè nero e bollente. Ne schiacciai un altro ancora e mi ritrovai in caduta libera in compagnia del sessantasette abortivo e del mio bimbo me. Ne spinsi un altro vicino e mi ritrovai a colloquio col sacerdote in gessato completo e cravatta cashmere. Ne spinsi ancora un altro e sullo schermo luminoso apparve la stanza 76, sala operatoria ... "dove in diretta viene trasmessa la sostituzione di cuore in gettone del signor sessantasette che finalmente e spontaneamente ha preferito abbandonare la sua critica distruttiva e terroristica, farsi sostituire il cuore con un gettone del caffè e del cappuccino ed entrare a far patte a tutti gli effetti della grande civiltà repubblicana ospedalcostituzionalesocialreligiosa del caffè... " Così recitava una voce di sottofondo alle immagini. Fui sorpreso da un sentimento angoscioso di paura e di apprensione, il mio gettone batteva forte, il polso sgocciolava caffè ... il GETTONE ... avevo detto proprio il GETTONE!

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Fulmineamente e coraggiosamente porrai la mano sul petto dalla parte sinistra ... nulla batteva, tutto invece sembrava emettere degli squittii metallici, come di uno stantuffo slabbrato e vecchio. Non vi dico in quale cima abissale e io quale baratro elevato finii. Ero disperato e sperso in un lago infinito di latte altoatesino molliccio e raggrumato, bianchezza irrefrenabile ed indistinguibilità di canuta candidezza, soffice tagliente bambagia di lana di vetro, ruscelli schiumosi scuri e tiepidi, nuvole pesanti e cariche di tensioni invisibili, carnici laceri e strappati che morsicavano, ghiacciai perenni che stritolavano stridendo con suoni meccanici e metallici, e poi bianco infinito e nebbia ... Nella coltre nebbiosa frammistata da spruzzi palpabilissimi di densa umidità da reggia fetente, si delineò una figura maestosa e fiera nel passo, l'incedere possente, gli zigomi aguzzi, il volto statuario. Come se volasse a qualche centimetro da terra, la sua cappa di tessuto pesante strusciava silenziosamente su un pavimento inesistente di fumo. Si avvicinava a grandi curve, e ogni volta che mi arrivava vicino un 'improvvisa ed altra curva lo allontanava come se invece di andare rimanesse immobile. I mille passettini che compiva sorto le sue nascoste vesti sacre, non erano passi ma rotolare flebile di mille e mille rotelline sferiche. In mano un bastone con la punta ricurva, alla sua destra un grosso mastino del Tibet con occhi di ghiaccio e zampacce da toro. TI senso del suo moto, pur non avendo direzione esprimeva perfettamente il senso della maestosità e dell'immobilità del camminare, il suo incedere pur non avendo meta lasciava intendere che ogni luogo sarebbe stato ideale e con un fine intrinseco. Così continuò per lungo tempo meditando, finché non si avvicinò indefettalmente a me accostandosi silente. Il cane coi suoi occhi chiari e profondi si acquietò ai suoi piedi ordinatamente, il suo bastone sospeso nell'aria immobilmente dinamico. "Uomo! Uomo! Hai perso il cuore! Male, male e tre volte male, non si vive la Via senza cuore. La strada del cuore è la giusta Via, e il giusto uomo è misura del giusto. Hai perso il cuore, male, male, tre volte male. Il cuore è la Via, la Via del cuore. La Via è la misura della Via, l'uomo buono misura della bontà. Perdendo il cuore hai perso la Via, perdendo la Via hai perso il cuore, questo è male, male, tre volte male." "Imene tre volte grande che tre volte preservi la verginità del mio cuore e della mia mente, figlio della schiatta innata, dell'orda schietta dell'oltre i sette misteri e il lago della materia, figlio del teosofo Sayfa, appartenente alla stirpe degli Houzre, perdonami. Così in questo ospedale, cosi in questo tempo si deve menare, mercé la vita della testa e del corpo…” "Taci scellerato, male, male, tre volte male. All'arciere onesto non si rubano le frecce, al guerriero del Sapere non si rubano le armi, al viandante umile non si rapina la strada, all'uomo giusto non si ruba il cuore né la misura della sua giustizia. Svergognamento e onta all'uomo senza cuore! Svergognamento all'arciere senza frecce! Svergognamento al guerriero del Sapere senza Sapienza." "Trismegisto, savio fra i savi, conoscitore di tutte le uguaglianze e di tutte le differenze e di tutte le omogeneità delle cose e del Cosmo, perdono. Tu figlio dello gnostico Sayfa, tu appartenente all'orda schietta, alla schiatta innata, guarisci con l'arte del cuore, il mio cuore." "Taci scellerato; svergognamento ed onta alla femmina che si concede prima che sia stata chiesta come amante, svergognamento ed onta all'arciere che scocca prima che l'arco scocchi, svergognamento al guerriero del Sapere che

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insegue al posto di attendere." "Prego grande Imene, tre volte grande e tre volte savio, monda la mia onta e il mio svergognamento." "E SlA!" La figura ampia e plastica mi si avvicinò, mi scrutò gli occhi rapendomi in lande desolate e brulle. Allungò la mano al mio petto e senza dolore né sangue infilò la mano all'interno, strappò il gettone e lo trasse fuori. La ferita si rimarginò subito, il gettone si trasformò subito in cuore. "Per tre tempi e per tre ere ancora, porterai il tuo cuore in mano, finché monda non sarà la tua onta e il tuo svergognamento!" Il mastino tibetano si alzò di scatto e il bastone dolcemente si posò nella mano del tre volte grande Imene; scomparvero poi nel nulla, senza fare rumore e senza fare movimento, così come Imene era apparso venne inghiottito ancora. Io mi ritrovai appoltronato sopra una poltrona dentro l'abitacolo dell'ascensore, un cuore in mano sulla sinistra, un apparecchietto con tanti pulsantini numerati sulla destra. La ricercatrice affaccendata e decapitata era bocconi sul lettino da ambulatorio. Cadde l'apparecchietto nero con i bottoncini numerati e si schiacciò uno dei tanti, non so quale, ed io mi ritrovai nella grossa stanza dell'enorme fila di decapitaci spintonanti e spintonati. Grosse macchine meccanicamente emettevano uno stridio come di stantuffo slabbrato; zelanti impiegati affaccendati e decapitaci titillavano fessure acciocché si stimolassero adeguatamente affinché olii e additivi lubricamene lubrificassero alla bisogna. La fila che serpeggiava in grosse spire concentriche rumoreggiava stolidamente, ogni tanto qualche epiteto grossolano e volgare saettava da un capo all'altro dello stanzone, ogni tanto il rumore freddo e bianco di qualche hamburger del Texas che si schiantava a terra vibrava il pavimento come in un gelone polare. La fila si muoveva sincronicamente un passo alla volta, e tutti alzavano il piede destro e tutti il sinistro, e tutti il sinistro e tutti il destro, come se fossero incatenati da anelli stretti e taglienti gli uni agli altri. Un sacerdote in cravatta cashmere, calzini rossi violacei e gessato completo brandiva fallicamente una frusta da colossal americano. Quando entrai a far parte della fila successe quel che successe. Appena infarti i decapitati affaccendati si accorsero del mio cuore in mano, cominciarono ad azzuffarsi l'un l'altro per evincere il diritto di sbranarselo. La rissa iniziò dalla propaggine più distante dal centro, centro dove venivano serviti su cabaret così unti da sembrare bagnati, gli hot dog, per poi proseguire in un vorace, come un onda schiumosa di caffè scuro e caldo, fino all'estremità più lontana. Io non tentai né di scappare né di difendermi; sapevo che al corpo immobile. non si può rubare spazio e movimento, e più rimanevo immobile indifferente e più i decapitati affaccendati se le davano di santa ragione; la ragione santa del caffè. Qualcuno più intraprendente si era messo a lanciare lo shake al caffè frammistato con pezzettini di frutta congelata, ferendo numerosissimi impiastricciati decapitati. Altri più furbescamente tentarono di spodestare il sacerdote dal suo trespolo e impadronirsi della frusta fallica da colossal americano; ma il sacerdote non si intimidì. Abbassò con una manovra speculativa il prezzo lordo del caffè, provocando panico e terrore io valigia e nello stanzone. Quegli intrepidi desistettero. Il sacerdote ne approfittò e giocò al rialzo fino a giungere a due punti io più del pollice B.P.M. (Borscaffettistico Pollice Medio). La rissa però non accennava a scemare e anzi sempre con maggiore foga i decapitati

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affaccendati se le davano con santo raziocinio, il raziocinio santo del caffè. La situazione sembrava disperata, e lo era ancor di più poiché io rimanevo immune alla loro guerriglia da fast food. Improvvisamente il soffitto basso e bianco e freddo si squarciò, mille e ancora mille neon scoppiarono spargendo tossico e radioattivo gas luminoso, una grossa fessura si aprì e calò un'immensa cosa con una scanalatura da una parte e due dall'altra; sopra, con le gambe divaricate simmetricamente troneggiava il santo sacerdote con la cravatta cashmere, i calzini rossi violacei e il completo gessato, tenendo beo ferme in mano due grosse briglie che terminavano nel morso del gettonane. Il gettone Ex Macchina! Piccoli ma dorati e chiari e freddi gettoni intarsiati di preziose miniature afgane da una parte, e cabale decorate da figure sacre del caffè in diamanti e smeraldi dall'altra, andarono a centrare le mille e ancora mille fessure, opportunamente stimolare, di mille e ancora mille piccole macchinette del caffè e del cappuccino, facendo scendere con fragore santo mille e ancora mille caffè in mille e mille ancora bicchieretti dì cristallo di Boemia decorati da icone sacre, con dentro mille e ancora mille cucchiaini, stranamente solo di plastica dell'Alsazia occidentale. La folla si estraniò in una meditazione ascetica ma non lievitava, chi invece voleva mortificarsi si ingozzava di burger, big burger, cheese burger, senza assumere in quantità notevole la benzoduodigerina, la benzoduogastrina, la benzoduoalkaselzerina, così, poi, per digerire erano tutti casi suoi. Stiliti ascetici salirono sopra le pesanti macchine che emettevano un sordo stantuffare slabbrato, e non vollero scendere neppure per il consono caffè; loro avrebbero sacrificato al dio il Dio stesso. Il gettone Ex Machina, dopo alcuni zompi cercando di prendermi, riuscì ad afferrarmi per il collo, prese la mia mano col cuore, ci versò dentro del caffè e disse: "Bevi sessantasette, nel cuore di tua madre." "Ma no," dissi, "era: bevi Rosmunda nel teschio di tuo padre." "No, era: bevi dottore dalle coltri leggiadre." "No, era: bevi Rosmunda, se no te rode." "Basta!" disse il gettone Ex Machina. "Era: bevi sessantasette nel gettone, se no ti cade!" Il sacerdote sul trespolo mi colpì tre volte nello stesso punto intimandomi di bere. Io bevvi, ma il caffè non entrò nel mio corpo e scivolò direttamente fuori per le vie urinarie; e questo perché sapevo che il bevitore onesto regge pure il Pernod senz'acqua o senza selz. Subito uno dei decapitati si gettò sotto di me con una tazzina di cristallo di Boemia e raccolse il prezioso nettare, poi lo bevve e disse: "a me bere il caffè mi piace da morire". Mi ritrovai nella stanza tuguriosa col tappeto rosso che attutiva i rumori e le pareti tirate a secco che respiravano. I telefoni si erano zittiti, gli schermi dei computer rabbuiati tristi e freddi e scuri, i pulsantini che prima tappezzavano tutta la tappezzeria di panno multicromatico invece si erano ritirati nelle loro rispettive tane, la macchinona del caffè era assente, era andata a risolvere una stasi senza soluzione di continuità nello stanzone coi mille mille neon necrofori. L'assenza si faceva sentire, mancava infatti il solito e prepotente gorgoglio vaporoso. Le giovinette affaccendate e decapitate non si limavano più le unghie, si misuravano invece nuovi tipi di autoreggenti bianche e calde, più voluminose che avrebbero consentito di incamerare in una sola volta più gettoni della macchinetta del caffè e del cappuccino, più sessantasette, più feti abortivi del sé,

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più bimbi me del dottore. Le limette delle unghie erano scomparse in qualche anfratto fessurioso e lussurioso. Anche il sacerdote era assente, ma lo si sarebbe potuto rintracciare col suo BIP telematica idiosincratico e comunque aveva lasciato un messaggio agli ospedalieri in caso di grosso ritardo nella fornitura delle razioni kappa di caffè e caffetteria in genere. Io non avevo da fare nulla col mio cuore in mano e mi diressi verso l'ascensore. Aprii la porta e un potente flusso di aria calda quando espiravo, e di aria fredda quando inspiravo mi faceva volare orizzontalmente attaccato al pomolo rotondo della porta dell'ascensore. Il respiro cessò ed io entrai, ma non c'era la pedana, bensì nulla, caddi nel vuoto e mi ritrovai con i fianchi ingarbugliati nei pesanti cavi dell'ascensore che mi avvolgevano la vita; senza stringermi troppo però, perché un martire è sempre nocivo e gravido di conseguenze pericolose ed imprevedibili per l'ordine costituito. I cavi, come se fosse un potente risucchio ascensionale, in piena resi di gravità, mi trascinavano implacabilmente verso il basso. La cavità dell'ascensore era nera e luminosa, non abbacinante, colma di qualcosa di palpabile e diafano allo stesso tempo, come se fosse del plasma spirituale e scuro che da bocchette invisibili defluisse dentro cercando di riempire tempi ed ere astoriche, nel tentativo di saturare vuoti improvvisi e ricolmezze inopportune, corsi e ricorsi, decadenze e aurei tempi, ascese e inesorabili cadute, Yuga di ferro e Yuga spirituali. La discesa continuava dondolandomi quale pezza cenciosa di una bandiera ormai sorpassata. A un tratto i cavi si fermarono di colpo, dando uno strattone violento, ma senza ferirmi perché ormai le mie carni si erano fatte forti e vigorose di giovinezza. Mi guardai un po' in giro senza distinguere nulla di plasmato e con una forma in giro. Ripeto giro perché ero proprio in un giro circolarmente semisferico e luminoso con grandi sfere bianche e fredde disseminare tutte d'intorno. Un astro spento e caldo illuminava un'alba da tramonto ucciso e l'Universo secco e desertico inibiva ogni vita, dune di dune in sequenza irregolare e con dimensioni aritmiche compivano percorsi irrisori, ma concentrici, rimanendo immobili di dove erano arrivati e mai più ripartivano ali'inseguimento di una meta già raggiunta. Gettoni chiari e freddi delimitavano irregolari figure giometriche, forse rettangoli, dove assatanati decapitati con scarpe chiodate e ferenti si rincorrevano l'un l'altro per carpirsi mille e mille teste del sessantasette, un sacerdote in calzini rossi violacei, cravatta cashmere, gessato completo o completo gessato, schioccava una frusta, intimando: arbitro sono in campo, del bene e del male. Una macchinona del caffè e del cappuccino gorgogliava fumando vapore a tutt'andare, la folla sugli spalti acclamava i giocatori decapitati citando versetti angelici e sciamaniche melodie appena composte dal sauro crasso poeta. La semi sfera rondeggiante e calda e scura sembrava espandersi ad ogni respiro, e contrarsi ad ogni aspirazione, le teste concentrarsi e poi ritornare, le macchinette del caffè e del cappuccino gorgogliare e ringorgogliarsi, il Cosmo espandersi e tornare a se stesso; l'Universo sembrava respirare vivamente. "Passa il cucchiaino stupido!" "No, passa la zuccheriera idiota." "No, passa il macinino della nonna, cretino!" "Ma a chi devo passa do, almeno ditemi questo a chi” "Ma a noi, sciocco! " "Noi chi?" "Noi non Io sappiamo neppure noi; se lo sapessimo credi che veramente ti

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chiederemmo di passarcelo? A noi piace da morire non sapere chi siamo!" Mi ritrovai nell'abitacolo freddo e bianco dell'ascensore la ricercatrice affaccendata era china sul lettino da obitorio lo schermo luminoso era acceso su di un canale qualsiasi e apparecchietto dei bottoncini i giaceva rotto per terra avvolto in un’atmosfera tragica. Il mio cuore in mano palpitava espandendosi e ritirandosi ad ogni sistole e ad ogni diastole, così pure l’abitacolo e l’ospedale intero. Solo la ricercatrice affaccendata e decapitata sembrava rimanere nelle stesse dimensioni e proporzioni, stolidamente immune. "Dottore, dottore, ma che mi combina; ma le sembra onesto tentare di impietosire gli ospedalieri affaccendati e decapitati, andando in giro con cuore in mano? Con lei ci vogliono le maniere forti. A lei piacerà da morire ... " Mi ritrovai nello stanzone freddo e bianco con i loculi a scomparsa e i mille e mille neon necrofori accesi. Ero nudo; un camice appeso all'attaccapanni si contraeva e si espandeva a suo piacimento, la targhetta con sopra scritto ‘dottor...‘ rimaneva scarica nei suoi pensieri, gli zoccoli bucherellati tamburelleggiavano impazienti. Il lettino a scomparsa avvolgermi per poi liberarmi ad ogni mio sospiro. Il sessantasette giaceva cadaverico e immobile in un Iaculo di fianco. Mi alzai a sedere con le gambe distese, mi toccai la nuca indolenzita dalla posizione supina, stranito. Mi misi in piedi e mi avvitai sulle gambe come un dado d'acciaio freddo e bianco sopra una vite scura e calda, che girava ad ogni respiro, ionico. Accarezzai con le guance il pavimento di mattonelle talmente lucide da sembrare bagnate; invece erano solo umide. Mi rialzai incerto ma con una prontezza inaspettata e mi vestii del camice e mi calzai degli zoccoli e mi intarghettai della targhetta. Il camice mi tirava sul petto, come se si fosse ristretto, e anche gli zoccoli comprimevano maggiormente i miei piedi. Uscii dallo stanzone freddo e bianco e umido e bagnato, e cominciai a passeggiare per il corridoio con i tubi a vista; insomma la solita vita ospedaliera. "Dottore, dottore ... si fermi... dottore." "Mi dica infermiere affaccendato, forse le è sparito un cuore, destinato al trapianto di un riccone in Svizzera." "Sì..., ma lei come lo sa?" "Lo so, perché so che fugge il cuore dal corpo indegno di possederlo, che il Pernod senza selz lo reggono solo i marinai francesi, e che una notizia un po' originale non ha bisogno di alcun giornale, come la freccia dall'arco scocca, vola veloce di bocca in bocca ... come diceva l'adagio." "Va be' dottore ... ma come farò io, ho famiglia, tengo dei figli, una moglie, delle responsabilità." "Suvvia gentile affaccendato e decapitato, per la via si perdono tanti di quei cuori; cuore più cuore meno, che vuol che sia, suvvia, c'è sempre la cardiochirurgia, la gettomania, la teosofia, la gnosipranoterapia, la magia, suvvia!” "Ah dottò con sti ‘ia’ m’ha un po' scocciato, se faccia una cultura de sodomia, de vaffancùlia, de mortacci tua." Mi diressi inesorabile verso l'angolo più vicino e mi avvicinai all' ascensore. Aprii la parca e rimasi attonito a guardare la mia figura che si specchiava riflettendosi dentro uno specchio. Ero giovanissimo e bello, la pelle liscia, proporzionato e aitante; luoghi capelli incorniciavano il mio volto, sopracciglia folte e scure imbrigliavano occhi profondi e intensi, un nasino ben tagliato si ergeva soletto. Ero

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quasi in età di studente, anzi sotto braccio pendevano dei libercoli scolastici e dei quaderni da appunti liceali. Chiusi la porta dell'ascensore, e aspettai nel mezzo di due parentesi un tempo né lungo né breve e poi riaprii. Una saletta scura e calda con tanti banchi freddi e bianchi era dipinta e intelaiata e scolpita nell'ascensore; molti giovani decapitati disciplinati erano compostamente seduti sugli sgabelli ad altezza variabile con le braccia conserte, la ricercatrice affaccendata e decapitata regnava dalla cattedra leggermente rialzata sopra una pedana. Una cartina dell'ospedale, completa di tuguri, corridoi con i tubi a vista, la dislocazione delle varie macchinette del caffè e del cappuccino era indicata con una X. La fotografia del viso del sacerdote a grandezza naturale ci guardava paterno; ogni tanto sembrava che schiacciasse l'occhiolino, altre volte che si scaccolasse il naso con un movimento repentino. La lavagna era di un materiale inusuale, probabilmente fondi di caffè, il gessetto era un gettone con una scanalatura da una parte e due dall'altra bianco e freddo e gessoso. La lezione iniziò! "Cari oggetti oggi faremo lezione di educazione civica, morale, politica social religiosa ospedal repubblicana costituzionale. Innanzi tutto due regole fondamentali: un buon social repubblicano costituzional ospedaliero è moderatamente massimalista e accanitamente minimalista; due, un buon ospedalsocialreligioscostituziooalrepubblicano non mette mai in discussione il valore stesso della ospedalsocialreligiosrepubblicaneità del caffè. Detto questo, detto molto. Voi siete giovani e siete quindi la colonna vertebrale della nostra comunità, hanno loro grandi progetti per voi, grandi imprese, fantastici progetti, mille e mille avventure." "Scusi professoressa affaccendata, loro chi? chiesi io cortesemente. "Loro, non lo sanno neppure loro, no? E poi chi le dà il diritto di interrompere e di fare domande; lei si trova qui per riessere educato e così reintegrato nella sodalità dell'ospedale. Si attenga quindi ai nostri precetti: e niente domande inutili, e niente pensieri balzani, e nessuna curiosità se non per quello che diciamo noi, e massima assimilazione e indottrinamento." "Voi, chi?" "Ah sessantasette, come devo fare con lei. Lei è un irriducibile, un diffamatore, un antidemocratico. Lei non può porre domande, deve solo attenersi ai nostri precetti. Democrazia vuol dire governo del popolo, non popolo al governo, ci siamo intesi? Repubblica vuol dire che è cosa pubblica, che insomma noi non ci curiamo neppure di nascondere i nostri peculati, non pubblica cosa. Social vuol dire che viene gestita da un gruppo di soci benemeriti con contratto di ferro, religiosa perché lei deve pregare per ottenere qualcosa, costituzionale, vuoi dire che è venuta fuori benino, dovremo dire meglio di buona costituzione, niente altro. Il bene comune è il caffè, e tutti devono rispetta rio e adorarlo, sacro è il valore del caffè. A tutti deve piacere da morire il caffè." Mi ritrovai appoltronato su di una poltrona di velluto nero con in mano un cuore e un apparecchietto con tanti numeretti su altrettanti bottoncini; lo schermo luminoso era acceso, la macchinetta del caffè e del cappuccino gorgogliava. La partita era finita con la sconfitta di una squadra, con quella dell'altra, quella del pubblico sciamanico e dionisiaco, il signore in nero arbitro in campo del bene e del male, con le bandierine in mano. Anche i cani del servizio di sicurezza sembrava che avessero perso; se non altro avevano perso olfatto e udito e latrato. Tutti se le davano di santa ragione, la santa ragione del caffè, e tutti ci

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mettevano un'intelligenza inaudita, l'inaudita intelligenza del caffè, e tutti ci godevano un sacco, la goduria a sacchi del caffè di ottima miscela arabica. Ogni canto senza che si mettessero d'accordo né canto meno fosse ordinato da qualcuno, tutti in coro urlavano: PERCHÉ A NOI IL CAFFÈ PIACE DA MORIRE. Poi tutti cambiarono canale e si ritrovarono ognuno nel proprio loculo privato, ognuno a sorbire il proprio caffè, a sgranocchiare le proprie prelibatezze scongelate, ognuno con le proprie ciabatte calde e scure che mordevano i piedi; ed io ero sempre più stanco di vivere la mia morte nell'ospedale, sempre più mi trascinavo per quelle assurdità impotente, sempre più strascicavo i miei piedi su pavimenti mollicci e appiccicosi, sempre più diventavo immobile e sempre identico, sempre più cambiavo mille volti e mi ritrovavo sempre con la stessa espressione di raccapriccio sul volto. Ero appena morto che mi risvegliavo più stanco che mai in mezzo a quei loculi freddi e bianchi, a quei camici intasati e malconci, all'affaccendamento e alla domina del consumo del caffè. Una stanchezza atavica si appoggiava alle mie spalle come per appoggiarsi un attimo solo ad un'illusione e aspettava, aspettava che un attimo passasse per appiccicarne un altro dietro inseguendo un tempo che non esisteva e una storia che stentava a rumoreggiare. Faceva capolino dietro la mia nuca spiando per non farsi ascoltare dalle mie orecchie svogliate, che tanto non avrebbero udito, e arrendeva la vecchiaia che stanca come lei stessa indugiando avanzava, anch'essa esausta e distratta e tutto cambiava mille volte al mio risveglio e tutto mille volte tornava ad essere identico a prima, per ritornare a confondersi in un bianco infinito e indifferente. Trascinavo i miei zoccoli bucherellati un passo dietro l'altro cercando di non inciampare in conseguenze sbagliate e così passavo il mio tempo, tentando di allentare un attimo dietro l'altro senza che nulla cambiasse e tutto invece cercasse di sfuggirmi per poi inseguirlo. Quei quadri anch'essi stanchi e sbiaditi che s'incollavano l'un l'altro senza un senso che non fosse un controsenso, senza una via che non fosse senza uscita, quelle stanze d'ospedale, quei figuri affaccendati e decapitati, quelle belle giovani belve che svendevano la propria giovinezza adorando sacerdoti di una religione macabra e luttuosa, La dignità mancata di ogni esistenza, le menzogne, le ipocrisie di bordello, le dolci parole sussurrare per riempire vuoti e tempi, il contenitore nullo di nullità, l'apparenza di sole ombre cinesi, niente immagini magari! solo scoloriti riverberi lontani e persi, solo vividi livori pavidi, movimenti inutili di inutili barbaglii, odori acrilici e sintetici di miscele indistinte, fumi, nebbie che non erano, magari una qualunque cosa fosse, ogni cosa solo appariva e scompariva senza errore e senza gloria, tutto indistinto in uno Sfero di pantano da roggia fetente ... e io col mio cuore in mano che vagavo misconosciuto e oltraggiato, ma che senso? Ma che direzione? Ma che qualunque cosa, gettoni, scanalature, fessure, orifizi, erezioni, umidità lubriche, e secrezioni ... che cosa mai? Così pensavo, ripensavo da tanto tempo, fino a quando non potei andare più avanti in nulla né in conseguenze né in ipotesi né in congetture, perché nemmeno un baratro nero e luminoso c'era davanti a me né una alcuna cosa, ma propriamente Nulla. Lasciavo la Saga del Caffè in una scena in stasi senza soluzione di continuità, perché niente di drammatico poteva ancora avvenire, si aprì nel nulla una grande fessura e la stessa grande fessura che si era aperta da sola e misteriosamente, con odore acre di umidità lubrica, prese a discendere sopra di

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me, socchiudendo e riaprendo le labbra carnose e verticali ad ogni mio respiro. La fessura Ex Machina! Mille gettoni furono avvolti in mille e altrettante più piccole fessure, mille orifizi si schiusero e mille vagine si contrassero come per danzare, e mille ancora dispensarono piaceri vari, e mille ancora si fasciarono di calze autoreggenti sulle cosce, almeno qualcosa accadeva, almeno un gesto che dignità di gesto non aveva, ma almeno era qualcosa. Poi la fessura Ex Machina mi accolse amorosamente e rigidamente in lei, sfregandomi in lei avanti indietro gemendo e contraendosi come le vulve di vongole veraci, e umidità lubrica, e lubrici additivi mi ungevano il corpo e il cuore, e patatine friggevano con quegli olii, e mille teste decapitate si imbrillantinavano, e mille hamburger cuocevano in quegli additivi in buon umore, ottenuti da una adeguata stimolazione, e gettoni cadevano dentro senza procurare rumori metallici, e impiegati portavano via cassette contenitori di metallo prefuso, e infermieri oliavano cigolanti ruote di barelle che scomparivano col loro contenuto, e tutti nuotavano nel liquido umido e lubrico della fessura Ex Machina, e tutti affogavano, e tutti morivano vivendo nell'ospedale del caffè, nel socialreligiosocostituzionalrepubblicano stato del caffè, e tutti guardavano la partita e tutti si inferocivano verso il signore in nero in campo, arbitro del bene e del male, e tutti adoravano i sacerdoti in completo gessato, cravatta cashmere, e calzini rossi violacei. Io indossai un camice bianco e freddo che trovai appeso a un attaccapanni con sopra anche un cappello; una targhetta con su scritto dottore penzolava come svenuta; zoccoletti bucherellati giacevano sotto una scrivania che sembrava abbandonata. Uscii e mi ritrovai in un corridoio male illuminato e con dei tubi spessi e scuri e caldi a vista, che correvano per tutto il perimetro. Passeggiando verso l'angolo più distante, l'angolo dell'ascensore, incontrai un infermiere affaccendato e decapitato che spintonava una barella cigolante; evidentemente non era stata adeguatamente stimolata . "Dottore... dottore. .. oggetto ... oggetto…" "Mi dica infermiere affaccendato e decapitato, che cosa l’è accaduto...?” "Ah nulla di particolare. Si ricorda che spesso le dicevo, dottore, che tenevo delle creature, una moglie, una famiglia ..., beh li ho mandati tutti a casa della sorella di mia moglie senza tanti complimenti, così non mi rompono più i coglioni. Adesso non ho più famiglia, creature, moglie; posso non vedere tutte le partite che voglio, e pure ruttare e scoreggiare quando mi va. Poi se la ricercatrice affaccendata fa troppo la stronzetta, la mando a fare in culo; e così sia. E poi sa cosa le dico, io del sessantasette, del dottore, del feto abortivo del sé e del bimbo suo me, me ne strafotto, me ne frego, me ne impippo, me ne fò un bafo, me ne strabatto, me ne impippo pure del sacerdote e delle sue stronzate, me ne frego dell' ospedale e se mi fanno incazzare mi prendo pure l'ammazza caffè! Le pareti tremarono potentemente, alcune perfino si incrinarono facendo cadere dei calcinacci freddi e bianchi, i pavimenti si ondularono seguendo dune di sangue raggrumato, tutto si dilatava e si contraeva seguendo respiri inesistenti. Sirene ululavano e tonfi e scoppi e botti echeggiavano come lamenti e gemiti lontani, quasi l'ospedale fosse in orgasmo; tutto in un istante si lubricamente lubrificò e tutto divenne viscido e scivoloso e falso e ancora tutto si scuoteva e si incrinava lamentandosi col pianto o il riso di un neonato. Le macchinette del caffè e del cappuccino ubicate sulla cartina della classe con delle X rosse cedettero alla tensione e smisero di gorgogliare, di fare caffè, di accogliere nelle proprie fessure umidicce cose chiare

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con una scanalatura da una parte e due dall'altra. Tutti gli affaccendati decapitati deflorati e addottrinati correvano impazziti di qui e di là, andando a sbattere contro le pareti e le porte automatiche si aprivano e si chiudevano con una velocità folle e inaudita. I pazienti che altri non erano che i dottori, che altri non erano che sacerdoti, che altri non erano che degli oggetti, che altri non erano se non affaccendati decapitati e deflorati mentalmente, che insieme altro non erano che l'intera popolazione dell'ospedale, la repubblica ospedalsocialcostituzionalreligiosa del caffè, erano sconvolti e tesi più ancora di quando il caffè nella valigia subisce una flessione del B.P.M (Borscaffettistico Pollice Medio); c'era chi pregava e chi si mortificava zoccolandosi la testa che non aveva, chi da buon penitente prometteva penitenze ascetiche. Tutto questo finché non giunse Lui in persona, il Sommo, il Creativo Alternativo, l'Onnipotente Caffè Ex Machina, degnatosi di apparire per bloccare tanto scempio e convertire i miserabili miscredenti. Flauti fatati e liuti dolcissimi crearono istantaneamente melodie affascinanti, annunciando il Supremo, il Padre, il Creativo alternativo, il Caffè Ex Machina in persona; in miscela, pardon. "Fermi lubrici inferiori. Fermatevi oggetti miei folli, rinsavite dalla pazzia vostra, sedatevi. Ve lo ordino! Non date peso agli sconsiderati gesti e pensieri di poveri meschinelli che osano criticare il Supremo; lo fanno più per incoscienza che per coraggio. Anch'essi non potrebbero vivere senza di me, perché io sono il Creatore Alternativo, io la forza universale, io il motore immoto oltre le sessantasette sfere elicoidali. Sedatevi dunque e prostratevi a terra, sorbitemi dunque in mille e mille tazzine d'oro e di ogni preziosità, che io mi doni in nome di me stesso. Alimentate la vostra sete di stimolante caffè, nessuno riuscirà a disturbare il sacro rito; sacerdoti, miei ministri, intonate i canti e i salmi, che il popolo ospedalcostituzionalrepubblicano pluralista e democratico non abbia da temere che nessuno scampi alla nostra Legge e alla nostra Verità." Mentre proferiva le sacre parole, il caffè Ex Machina, zompava da una parte all'altra cercando di schiacciare me, il 67, e l'infermiere decapitato e affaccendato; e pure il mio cuore che ancora saldo in mano, palpitava sistole diastole ora fredde e scure, ora calde ora bianche. Il caffè Ex Machina non ebbe successo, come il gettone Ex Machina, la macchinona del caffè e del cappuccino Ex Machina, la fessura Ex Machina, però incredibilmente insisteva e zompava e saltava e insisteva e zompava. Io mi ricordai di una cosa e dissi: "a me tutto sto casino piace da morire". Mi ritrovai seduto e bloccato in un banco freddo e bianco in una non grande aula scolastica, con alcuni altri banchi, e una grossa cattedra rialzata da una pedana scura e calda. "Dottore, ragazzo, ma lei è incurabile, lei è un assassino, un traviatore, ci ha rovinato pure l'infermiere affaccendato e decapitato; fino a prima così fidato, lei è un terrorista, un ‘Cattivo Maestro’, un antidemocratico. Si metta ora nell'angolino rivoltato verso il muro e si metta le orecchie da asino. Noi abbiamo metodi educativi all'avanguardia in questo ospedale, e tecniche di indottrinamento essenziali." "Voi chi?" chiesi io del tutto ingenuamente. "Noi non lo sappiamo neppure noi; forse noi ospedalcostituzionalisocialreligiosi amanti del caffè." "Ma voi, chiunque voi siate, se mai siete qualcosa, l'ammazzacaffè, non lo sorbite

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proprio mai?" Mentre ancora una volta le pareti tremarono e si incrinarono, mi ritrovai in un'ampia scatoletta metallica indefinita da lunghi elastici fosforescenti, alcuni oggetti con una scanalatura da una parte e due dall'altra cadevano a peso morto; parallelamente cadeva il sacerdote con i calzini cashmere, la cravatta rossa violacea, il gessato incompleto e la ricercatrice affaccendata e decapitata che si stava ancora masturbando con un cucchiaino con la capocchia argentea e turgida, scura e calda. A ben vedere poi non era un cucchiaino, bensì un homunculus irrigidito da un pesante strappo, che lei come una cagna affamata stringeva e stropicciava avanti e indietro per la sua fessura; fessura che essendo stata preventivamente e adeguatamente stimolata, lubricamente lubrificava con olii e additivi alla bisogna. "Ah, lei dottore ragazzo, ah lei terrorista' infantile, ah lei abortivo feto di se stesso, ah lei antidemocratico e miscredente, come osa pronunciare la parola diabolica, la bestemmia immonda, il risultato malvagio di cabale infernali. Sciagurato, ahitè perduto, ahitè servo del Malvagio, condannato sarai a giacere per l'eternità nei flutti candidi del latte altoatesino. E non ci sarà Imene Trismegisto di sorta che potrà salvare la verginità del tuo cuore e della tua mente, deflorata sarà da mille e mille gettoni, da mille e mille spot, da mille e mille partite. Beva il caffè e l'adori, razza di mascalzone!" "Va be', va beh, lo berrò, ma voi ce l'avete l'ammazzacaffè?" Le pareti si squarciarono socchiudendosi umide e appiccicaticce, io riuscii a sfuggire dalle mani tozze e screpolate della ricercatrice affaccendata e a scavare un lungo e asciutto tugurio tappezzato da tappeti rossi nel suo orifizio. Scavai e riscavai per un tempo insolitamente atemporale, sempre con il mio cuore in mano, finché non giunsi alla porta dell'ascensore. L'aprii e un flusso poderoso di caffè, latte altoatesino, hamburger fetidi, zucchero raffinato mi investì; senza farmi cadere comunque, come era suo diritto e potere. Richiusi la porta, e la aprii solo dopo un periodo passato con le due parentesi a vagare per gli infiniti mondi, cercando quello migliore. Non lo trovammo perché intuivamo che tutto muta ma tutto rimane identico e nulla cambia. Poi aprii la porta ed entrai nell'abitacolo. La ricercatrice affaccendata stava insegnando ad alcuni scolari e studenti affaccendati e decapitati le moderne teorie gnoseologiche, ontologiche, metafisiche, epistemologiche sul caffè e sui suoi caffeinati derivati. Una musichetta di sottofondo cantava: SUDA, STUDIA, SUDA, STUDIA; PENSA? No! STUDIA, SUDA, STUDIA, SUDA, PENSA? No! STUDIA, SUDA! Gli studenti scolari decapitati e affaccendati effettivamente sudavano e studiavano; pensavano? No! Studiavano e sudavano, sudavano e studiavano! "Venga avanti sessantasette, e si segga, e studi, e sudi, e studi e sudi, e pensi? No! E studi e sudi, e sudi e studi!" "Cara ricercatrice affaccendata, io penso e basta! Non sudo e non studio. Cerco solo l'ammazzacaffè, l'ammazzacaffè e basta, capisce." Inutile dire che le pareti si squarciarono, le sirene ulularono, il pavimento si ondulò in tante piccole dune di sangue raggrumato, i gettoni si incrinarono, le fessure si essiccarono, tutti i decapitati e affaccendati impazzirono. Io mi ritrovai davanti a un grande semidecapitato e semiaffaccendato impoltronato sopra una poltrona di velluto nero, con in mano un apparecchietto nero e con tanti bottoncini numerati sopra; freddo e bianco. La macchinetta del caffè e del cappuccino era

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al suo fianco. Sopra di me un camice da ricercatrice affaccendata era stato arrotolato fino a dei fianchi minuti e fino. Alla sinistra e alla destra della mia testa c'erano rispettivamente un grande labbro purpureo verticale, e un grande labbro pure purpureo e verticale. Leggermente viscidi, erano. Il dottore appoltronato mi notò e si fece nei pressi della fessura della ricercatrice affaccendata, ma prima si calzò dei ridicoli occhiali rotondi. "Sessantasette cosa fa lì?" "Cerco l'ammazzacaffè, non è che l'ha visto, tante volte." "Ma allora lei non ha capito nulla. L'ammazzacaffè non esiste, è una pia illusione. Ci saranno sempre sacerdoti, macchinette del caffè, messe più o meno pagane, ricercatrici affaccendate che venderanno la propria fessura per il successo, sempre decapitati, sempre affaccendati, sempre partite e giochi da circo, sempre caffè; magari con un altro nome. Così sarà finché non tornerà fra gli uomini Imene Trismegisto, il vergine di cuore, finché l'Aurea Era non tornerà sul Cosmo. Nulla è cambiato e tutto è mutato, nulla cambia e tutto muta, nulla cambierà e tutto muterà, o forse ... chissà ... " "Grazie lei è sempre prezioso, e preziose le sue parole. Ora però devo andare. Comunque, comunque sia, viva l'ammazzacaffè!" Mi ritrovai a nuotare in grande e indifferente lago di latte altoatesino, dove dune bianche si incontravano con altre dune bianche e indistinte per poi diventare nebbia e dopo folta foschia e dopo ancora saturazione acquosa massima dell'aria, quando vidi non troppo distante un'ogivale trifora translucida barluginare. Mi diressi in quella direzione, ma per la verità senza una meta precisa, così a dubbi, ma non metodici, per ipotesi e teorie azzardare, perfino per pregiudizi. Arrivai alla bifora ogivale, andai a sbattere contro due labbra verticali e purpuree. A stento riuscii a divaricare quelle labbra, e mi affacciai dall'ombelico del sessantasette che cacava i gettoni con una scanalatura da una parte e due dall’altra. Una pesante goccia di sangue raggrumato mi sfiorò appena, se mi avesse colpito sarei rovinato su di un pavimento talmente lucido da essere umido, bagnato direi. Il dottore si avvicinò inforcando i suoi ridicoli occhiali rotondi. "Che piacere sessantasette. Ora lei mi porrà spiegare il mistero gnoseologico degli sfinteri in genere, e della fessura in particolare!" "Ah non c'è aporia. Acciocché olii e additivi lubricamente lubrifichino alla bisogna, è necessario stimolare adeguatamente e preventivamene la fessura, affinché il caffè scenda del calore e della dolcezza voluta." "Grazie lei è sempre molto gentile, e le sue parole sono preziose al pari suo. Ora però devo andare. Viva l'ammazzacaffè, l'ammazzacaffè!" Mi ritrovai nella stanza tappezzata di tappezzeria multi colore con tanti bottoncini numerati che più che essere decorativi, sembravano essere nella loro freddezza bianca, naturalmente essenziali. Il sacerdote col vestito cashmere, la cravatta gessata, e il completo rosso violaceo era terribilmente nervoso. I computer emettevano dei sonori BIT che più che BIT erano dei gemiti o delle risa di un neonato. Le impiegate affaccendate si rosicchiavano le unghie con i denti che non avevano non avendo resta e avendo prima rotto tutte le limette d'uopo alla bisogna. Qualcuna in verità si stimolava adeguatamente con un cucchiaino, la macchinona del caffè e del cappuccino gorgogliava ad ogni mia aspirazione, e rigorgogliava ad ogni mia ispirazione. "Ah dottore ... ah sessantasette, ah bimbo di se stesso, ah feto abortivo, lei è la mia

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piaga nella Saga del caffè. Vede lei, non è nulla, non conta nulla nella nostra civiltà, lei è poco e nulla, niente in vero. Ma lei è un cruccio, un'imperfezione nella perfetta civiltà ospedalsocialrepubblicana costituzionale e democratica del caffè. Lei da niente si è trovato a rappresentare un'incognita, una domanda, un alcunché che ci imbarazza: Lei non può nulla, è nulla, eppure noi la temiamo perché lei è un oggetto non riuscito perfettamente, lei è un imponderabile arazionale." "Noi chi?" "Noi non lo sappiamo neppure noi, ci mancherebbe pure questa adesso, che venisse a mancare il pilastro della diffidenza.” "Ha mai pensato all'ammazzacaffè?"

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5.ESODO

Ero appena morto che mi ritrovai infante e poppante, in uno stanzone bianco e freddo e scuro e caldo con mille e mille neon necrofori accesi Le pareti e il pavimento di piastrelle erano così lucide da sembrare bagnate, in verità erano solo umide, ero nudo e seduto in un loculo con le gambe distese, il sessantasette di fianco, e non pensavo a niente. Quando mi alzai le mie gambe cedettero, e io mi avvitai su me stesso cadendo per terra. Le mie guance accarezzarono il suolo e tutto si confuse in un bianco e torbido sentore di indistinguibile. Tutto si confondeva e si plasmava e tornava ad essere inseparabile dal resto delle cose, come io uno Sfero freddo e bianco. Dune e dune ancora si susseguivano senza tempo né spazio all'infinito, e tutte sembravano uguali e tutte diverse ma identiche, e tutti i ritmi inesistenti come tutti i tempi e tutte le diversità. Io ormai ero al culmine della mia giovinezza, ero un neonato ancora grinzoso e spelacchiato, non piangevo solo perché tutto era stato già pianto e tutto detto e tutto già scritto; solo il coraggio di tacere non era stato ancora reinventato, e allora io tacevo e non piangevo nemmeno. Il camice non c'era più, né appeso all'attaccapanni sotto il cappello né da qualsiasi altra parte, gli zoccoli bucherellati erano scomparsi; pure la targhetta sembrava non esistere più. Uscii nudo e infante come ero e mi diressi per il corridoio male illuminato, verso l'angolo più vicino. Presi l'ascensore e a fatica schiacciai piano terra. Scesi nell'androne dove ormai non c'era nessuno né oggetti affaccendati e decapitati né impiegate masturbanti e affaccendate, né ansiosi omuncoli che entravano e uscivano dalle porte automatiche né sacerdoti né cose chiare con una scanalatura da una pane e due dall’altra ne macchinette del caffè e del cappuccino. Mi incamminai passeggiando sui miei piedini paffuti che emettevano ad ogni passo un CIK CIAK sonoro, verso la sala parto, la sala 67, ormai deciso ad abbandonare la mia morte per sempre, e con essa il caffè e i suoi adepti. Aprii la porta e vidi mia madre con le gambe in posizione che aveva già assunto i dieci micro di benzoduopartorina come di prassi. Non c'erano né dottori affaccendati né infermieri decapitati. Poi guardai meglio, e non è che fosse proprio mia madre, era mio padre, io stesso, il feto abortivo del sé, il mio bimbo me, mia sorella, mia nonna, la mia amante, la mia sposa, mio fratello, mia figlia, i miei avi, i miei posteri, tutto e tutti concentrati e plasmati io una sola persona e figura. Il tempo della mia morte era finito. Finalmente avrei trovato di nuovo la pace oltre il lago della materia e del caffè e del cappuccino, delle macchinette e degli affaccendati decapitati, delle fessure e degli orifizi, dei sacerdoti e di tutto il resto. Finalmente sarei stato libero e salvo. Presi la rincorsa sui miei piedini paffutelli che facevano CIK CIAK , corsi velocissimo e mi tuffai nell’utero caldo di mia madre, di mio padre, della mia amante, di mia figlia, di mia nonna, dei miei fratelli, dei miei avi, dei miei posteri e scomparsi in un nero caldo, soave, suadente e sereno nero. Finalmente la pace e il nero, il caldo corposo nero dell'oblio, dell'inessenza, della non presenza, dell'ipercoscienza. Ero ormai giunto alla mia morte verace, alla mia nascita oltre il caffè da qualche tempo, e ancora assaporavo la gioia che quel tepore e quella serenità mi

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davano, quando atterrito udii come dei rumori di sfregamento metallico, come dei passi strascicati. Da un alone indescrivibile comparve qualcosa. Il qualcosa si avvicinò, mi guardò a lungo e poi disse: "Ti aspettavo sessantasette! Io sono il Supremo in persona. Io sono il Creativo Alternativo; io ti curerò!" Effettivamente era il caffè in persona, o io miscela arabica, non so. So però quale fu il mio grande stupore. Credevo di essermi finalmente salvato, e invece nulla. Mi ritrovai di nuovo in uno stanzone con le mattonelle talmente lucide da essere bagnate, ma effettivamente erano solo umide. Il camice era ancora lì, appeso sull'attaccapanni sotto il cappello, la targhetta con sopra scritto ‘dottore’ penzolava ancora pigra. Svenni avvitandomi, e poi mi vestii e uscii nel corridoio male illuminato e con i tubi a vista e mi ricapitarono le esatte stesse cose per mille e mille e mille altre volte, sempre nello stesso modo eppure sempre diverse. Ancora adesso mi stanno capitando ed io quasi me ne sono rassegnato, ma ho voluto lo stesso raccontarvi questa mia storia un po' strana, che poi tanto strana non è, e ora l'affido agli otto venti, alla Tramontana, all'Ostro, al Greco, al Ponente, al Libeccio, al Levante, allo Scirocco, al Maestrale e al cherubino loro, in modo che dagli otri arcani giunga il lamento di un povero giovane pazzo, che non ebbe nemmeno il dono della pazzia, ma della follia conobbe solo l'ottenebrazione e il non saper discernere. In vita e in morte mia, non capii mai bene, e non riuscii mai a distinguere le cose e gli avvenimenti tanto da vivere mille e mille volte la stessa avventura e le stesse cose, strane sì, ma banali. I venti asciugheranno la noia che ho gettato su di voi, e la bava immonda che insieme alle mie parole ha lordato questo libercolo mai ritrovato. Ancora io fuggo e mi ritrovo negli stessi luoghi e spazi, ancora non credo nell'esistenza del tempo e della storia, ancora cerco l'ammazzacaffè! Questo manoscritto non verrà mai ritrovato perché non è degno di avere questo onore; ma se voi in fare della sera, quando i venti si fanno più distinguibili e forti e potenti, voi vi rivolgerete verso il tramonto, forse udirete ancora il lamento e l'apologia di un misero visionario, che ebbe una giovinezza atavica e già canuta, e una vecchiaia precoce e inopportuna!

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