Politecnico Di Milano Scuola di Architettura e Società Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura Anno Accademico 2016-2017
D E N T R O
R O S S I
giocattoli, cabine, spazi angusti e altri spazi interni
Relatore: Prof. Arch. Marco Stefano Biraghi Laureando: Carlo Mazzeri #818258 1
2
Indice
Un Nulla Pieno di Storie
1.
Cartella Clinica 29 1.1. Architettura Assassinata 31 1.2. Architettura Umana 39 1.3. Architettura di Memorie 55 1.4. Architettura Politica 65
2.
Anamnesi 2.1. Corridoi 2.2. Torri 2.3. Spazi Sbagliati 2.4. Giocattoli
3.
Sintomi Particolari 3.1. Villa con Interno 3.2. Stanza con lo Strapiombo 3.3. La Cabina dell’Elba
173 175 179 183
Conclusioni
187
Apparati Cenni Biografici Regesto delle Opere principali Bibliografia
195 197 198 204
3
5
75 77 101 127 147
La presente tesi di laurea intende esplorare l’universo di Aldo Rossi, investigando il tema degli interni, spesso dimenticati o non esplicitati dall’architetto e dei suoi principali critici sia prima che dopo la sua morte. Nel corso dell’indagine ci si è allontanati dai binari tradizionali della critica su Aldo Rossi, visto primariamente come architetto della città e nella città, per tentare di ricercare il conflitto interiore che sottende alla (non) progettazione degli interni. Sono stati utilizzati come strumenti investigativi oltre al catalogo dei progetti architettonici realizzati e non - tutti i materiali del vasto corpus prodotto da Rossi: dall’opera grafica al design, dalle relazioni di progetto agli scritti critici di Rossi, oltre che a tutta la vasta bibliografia critica prodotta nel tempo su Rossi fin dai suoi primi progetti degli anni ‘60. Il risultato è un giallo psicologico architettonico sotto forma di saggio che, investigando alcuni lemmi formali ripetuti nel tempo dal Rossi, indaga sul significato degli spazi interni e dell’interiorità spaziale dell’architetto.
4
Un Nulla Pieno di Storie Io sono un nulla che ha sognato molto: un nulla pieno di storie.
Sebastiano Vassalli1
Sull’opera di Aldo Rossi si è largamente scritto e dibattuto, sin dai primi passi nel mondo dell’architettura del maestro milanese, tanto da portare Manfredo Tafuri a parlare nella sua Storia dell’Architettura Contemporanea di un “caso” nel senso scandalistico del termine2. Il metodo progettuale dell’architetto si presta, in virtù del suo stare a cavallo tra arte e architettura, tra onirico e realismo, a essere largamente pubblicato sia con finalità divulgative che critiche. Inoltre, la disponibilità dello stesso Rossi a pubblicare introduzioni, articoli e scritti, nonché la sua attività accademica, hanno aumentato la portata del discorso critico e autocritico, in totale pubblicistico, intorno al suo conto. Il riconoscimento nel 1990 del Pritzker Price lo pone, infine, definitivamente nel gotha architettonico (anche se il nostro si smarcherà spesso, cercando di mantenere una identità artistica indipendente). A fronte di una ipertrofia letteraria su Rossi e sulla sua architettura, si riscontra d’altro canto una atrofia altrettanto importante: è infatti quasi completamente assente nella critica una trattazione esaustiva sugli interni dell’architettura di Rossi. Tale carenza è specchio di una altrettanto silente assenza sul piano dell’approfondimento progettuale degli interni. Tale assenza si pone nel primo periodo (fino agli anni ’80) in contrasto con la tradizione milanese e politecnica che vedeva nello studio raffinato della disposizione interna dell’abitazione un punto di forza: si veda ad esempio la potenza degli interni di Piero Portaluppi, relatore della tesi di Rossi, o ancora di Gio Ponti, Ignazio Gardella, Gae Aulenti, Luigi Caccia Dominioni, Vittoriano Viganò e Vico Magistretti, tra i più significativi3; nella seconda fase (a partire dai primi ’80) tale assenza si pone invece in contrasto con il rinnovato ruolo etico dell’architetto come progettista totale. Le opere rossiane, a parte poche e ragionate eccezioni, appaiono irrimediabilmente vuote; 1
Tesio, Vassalli, 2010.
2
Tafuri, 1986, pagg. 166-171.
3 Si vedano Biraghi, 2009; Biraghi, GIZMO, Lo Ricco, Michieli, 2015; Dal Co, Mazzariol, 2006; Irace, Marini, 2002; Samonà, 1981. 5
Giorgio De Chirico, Piazze d’Italia: Malinconia (part.), 1968. 6
o meglio appaiono piene di vuoto. Una rapida lettura ex-catalogo4 dell’opera progettuale rossiana rivela infatti a prima vista l’assenza del progetto d’interni: e – non essendoci dato sapere se è per decisione meramente editoriale o realmente per una lacuna nel processo progettuale – tale assenza si rivela come un’assenza pesante. Pesante sia nel bene, che nel male. I progetti di Rossi sono pieni di vuoto, pura cortina, totale volume e possiedono decisa liricità ‘di piazza’. Nell’assenza del progetto d’interni l’architettura guadagna una dimensione metafisica che lo stesso Rossi ci invita subliminalmente a affiancare alla pittura dell’ambiente ferrarese dei primi anni ’20, rendendo più lirica l’architettura e la sua rappresentazione. Sembra quasi che il desiderio di Aldo Rossi sia di costruire scene fisse nella loro astoricità e totale non integrazione di interno e esterno, scene in cui la condizione heideggeriana di Das-Ein è totalizzante e totale. Da un lato si pone il soggetto/ attore che fa esperienza della vacuità totale e infinita, e perciò tocca con mano la sua condizione di essere-per-la-morte (si legge nei Quaderni Azzurri che l’architettura è apparecchio per la morte5), dall’altro emerge l’Architettura, che mette in atto il suo esserci, condizione riconducible al modello della lighthouse, ossessione tipologica, formale e esistenziale per il secondo Rossi, archetipo che trova ragione di esistere nel suo essere presente, nel suo Das-Ein. Si può dunque leggere una poetica del vuoto del tutto particolare nell’opera rossiana: la creazione di possibili vuoti, in guisa e funzione di scena che non ha attori, anzi sembra guadagnare forza nella sua invivibilità6. Sono opere che al proprio interno proteggono un senso di nulla pieno di possibilità, pieno di storie. Il caso più emblematico è l’edificio in linea per il Complesso del Monte Amiata a Milano. Pur essendo in linea teorica il ballatoio superiore fondamentale per la questione tipologica e definitorio di una strategia politica, non viene mai rappresentato, se non tecnicamente, né in facciata guadagna importanza. Il medesimo discorso si può applicare al cubo del Cimitero di Modena, la complessa macchina funebre, carica di significato politico e di potenza formale non viene rappresentata in sezione in modo esaustivo, né la facciata tradisce la complicazione del gioco architettonico 4
Ferlenga (a cura di), 1987; Ferlenga (a cura di), 1992; Ferlenga (a cura di), 1996.
5
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 44, 7 Gennaio 1991-31 Marzo 1991.
6 Ricordiamo Rossi, 1966, pag. 11: “L’architettura è la scena fissa delle vicende dell’uomo; L’architettura è la scena fissa delle vicende dell’uomo; carica di sentimenti di generazioni, di eventi pubblici, di tragedie private, di fatti nuovi e antichi. L’elemento collettivo e quello privato, società e individuo si contrappongono e si confondono nella città che è fatta di tanti piccoli esseri che cercano una loro sistemazione e insieme a questa, tutt’uno con questa, un loro piccolo ambiente più confacente all’ambiente generale.” 7
che si innesca all’interno. Nel corso del presente studio verranno analizzati altri esempi. Meno numerosi e sicuramente più interessanti sono gli interventi in cui il progetto d’interni è più rilevante, se non totalizzante l’intero progetto. Il primo intervento architettonico di Rossi, progettato con Leonardo Ferrari7 si situa totalmente all’esterno del discorso architettonico che inizierà effettivamente anche solo dall’anno successivo8. La Villa ai Ronchi in Versilia9 infatti invece fa riferimento all’architettura mediterranea e alle ville di Adolf Loos, manifestando attenzione verso l’interiorità dell’edificio. L’articolazione volumetrica è complessa sia esternamente che internamente, e viene applicata quasi pedissequamente la teoria del raumplan. La sezione, infatti, complessa e a più livelli, ricorda in modo quasi didascalico le sezioni dei progetti dell’architetto austriaco, sebbene esternamente la complessità si adegui maggiormente a un immaginario tipicamente mediterraneo. La disposizione in pianta è raffinata, complessa e lontana dalla matrice funzionalista che verrà applicata già poco dopo con rigore. Le armi che Rossi imbraccia per il primo lavoro sembrano essergli in qualche modo improprie; la complessità in pianta e sezione non gli appartiene, tanto che il progetto scende a compromessi con le forme della casa tradizionale, e rinuncia al silenzio volumetrico loosiano. Un’altra eccezione significativa all’assenza di progetto d’interni sono le due Case in Pennsylvania10. Il gioco tipologico che Rossi innesca lo porta ad avvicinarsi alla tipica casa americana in balloon-frame piuttosto che alle invenzioni architettoniche del PoMo americano. Formalmente c’è un impegno nel dare una interpretazione personale alla tradizione, e quindi “il progetto o la realtà risultano leggermente deformati”11. Nella fase matura – se si può usare questo canone – l’architettura distorce la realtà e le aspettative, mediante la narrazione di un’epopea personale di frammenti e feticci. La disposizione in pianta delle ville è elementare, simmetrica e scarna; il rimando all’architettura del New
7 Leonardo Ferrari è architetto in Milano. Collabora con Aldo Rossi nella progettazione della villa in Versilia. Il suo studio si specializza in interior design; i lavori più notabili sono gli interni per i Missoni Headquartiers e per alcuni negozi della stessa catena. 8 Infatti, nel 1962 Rossi sarà già impegnato con la progettazione del “Cubo di Cuneo” (Monumento alla Resistenza) e del Centro Direzionale per Torino, molto più affini al linguaggio che svilupperà nel percorso professionale. 9
Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 24. Ferrari, Rossi, 1964
10
Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 136-139.
11
Ibidem. 8
Aldo Rossi, Leonardo Ferrari, Villa, Ronchi, Massa, 1958. Esterno. 9
Aldo Rossi, Leonardo Ferrari, Villa, Ronchi, Massa, 1960. Piante e Sezioni. 10
Aldo Rossi, Leonardo Ferrari, Villa, Ronchi, Massa, 1960. Interno. 11
Aldo Rossi, Casa Unifamigliare, Pocono Pines, Pennsylvania, 1988. Esterno. 12
Aldo Rossi, Casa Unifamigliare, Pocono Pines, Pennsylvania, 1988. Piante. 13
Aldo Rossi, Villa Alessi, Pallanza, 1989. Vista. 14
England12 è evidente. La spiazzante semplicità in pianta è accompagnata da un’altrettanto elementarità della sezione, e conseguentemente della forma stessa dell’architettura. Nel novero delle eccezioni si deve sicuramente considerare anche Villa Alessi a Suna di Verbania13. L’architetto, chiamato a ristrutturare una anonima villa con vista sul Lago Maggiore, opera un ridisegno dell’involucro, unitamente alla realizzazione di un basamento e del sopralzo dell’edificio. Se quindi all’esterno risulta un’operazione di reinvenzione dell’immagine dell’edificio in forma di casa-tempio, all’interno la disposizione dei locali non modifica la disposizione esistente, preferndo un diverso approccio progettuale. Nel pensare gli interni, Rossi propone una narrazione, una trama intrecciata da percorsi. La narrazione però non vincola chi la vive a seguire predeterminate routines o modelli di vita. È la narrazione di un fondale, qualcosa che rimanda all’immagine delle finestre con vista sul lago incorniciata dalle colonne rosa del portico14. Con il progetto Rossi disegna dei fondali per le vite, per le storie, per le narrazioni dei suoi abitanti. Gli interni sono trattati come esterni, anche tecnologicamente; la stessa pietra a scagliola15 viene impiegata per la finitura delle pareti esterne e della scala interna, come a suggerire una continuità non solo materiale ma anche di significato tra i percorsi all’interno e all’esterno16. Importante è comprendere come poi l’architetto non arredi l’interno, come chiarisce il suo collaboratore Massimo Scheurer: le scelte che sono effettuate non si devono confondere con “l’architettura di interni”, ma bensì essere interpretate come una conseguenza sull’idea di abitare delle soluzioni adottate per l’esterno17. La cura dell’architetto sta nel generare una cornice per la vita, qualsiasi essa voglia essere, accettandola nelle sue infinite possibili sfumature e cambiamenti. Sono pochi i segni che Rossi ha lasciato nell’arredamento: una vetrinetta, il camino, un tavolo con sedie, ed un orologio; questi pochi segni, che tuttavia caratterizzano fortemente l’interno, ne danno una aura irremovibile, sono tratti di una presenza importante. Per queste tre architetture, a fronte di una ampia pubblicazione di 12
Ibidem.
13
Ferlenga (a cura di),1992, pagg. 166-169. Capritti, 2008. Petranzan (a cura di), 1996.
14 Massimo Scheurer, Le vie parallele, in: Petranzan (a cura di), 1996, pagg. 41-67. Si parla di “Colonne ottagonali realizzate in conci in cotto”. 15 Ibidem. Scheurer parla di una “Particolare attenzione […] dedicata da Rossi alla texture della superficie muraria che viene definita dalla dimensione delle pietre, dal tipo (granito, beola, serizzo ecc.) e dalla loro provenienza (determinante per il colore). Troviamo così pietre del lago, delle velli e del Canton Ticino”. 16
Ibidem.
17
Ibidem. 15
Aldo Rossi, Villa Alessi, Pallanza, Verbania, 1989. Pianta livello Interrato. 16
Aldo Rossi, Villa Alessi, Pallanza, Verbania, 1989. Piante livelli 3 e 4. 17
Aldo Rossi, Villa Alessi, Pallanza, Verbania, 1989. Interno. 18
Aldo Rossi, Villa Alessi, Pallanza, Verbania, 1989. Interno. 19
Aldo Rossi, Ignazio Gardella, Fabio Reinhart, Teatro Carlo Felice, Genova, 1983. Interno della Sala. 20
fotografie di esterni, manca consistentemente una presenza editoriale di piante, sezioni e testimonianze grafiche e fotografiche, nonché letterarie (ad esclusione di Villa Alessi), degli interni. Parallelamente ai pochi interni domestici emergono con forza alcune eccezioni, nelle opere di architettura civile del lungo catalogo rossiano, che considerano il tema dell’interno: il Teatro Carlo Felice a Genova18, il Museo Bonnefanten a Maastricht19 e il Teatro Fenice di Venezia20 (terminato postumo dallo studio Arassociati). Nel primo, lo spazio interno organizzato sembra prendere il sopravvento sulla natura urbana del progetto. La composizione degli ambienti disegna, vincolata alle necessità tipologiche, tecnologiche e tecniche, un transatlantico di ambienti, macchinari e sorprese formali incastrate come potrebbe fare un armatore navale. Oltre a questa ricercatezza nella sezione, lo studio degli interni emerge anche nella sala della platea. Quello che viene a definirsi all’interno dell’ambiente principale della sala è un vero e proprio esterno genovese. In origine, infatti, la radice del teatro greco voleva essere rappresentazione della polis, in cui la partecipazione dei cittadini era attiva sia nella rappresentazione (nel coro) che nella visione (attraverso catarsi collettiva). Nel teatro sette-ottocentesco, poi, le stesse dinamiche interne alla sala (il gioco dei palchi, cioè del vedere\esser visti che più volte Rossi rilegge in varie forme21) sono espressioni tipicamente urbane, collegate direttamente alla vita e ai ruoli fuori la sala. Non è tuttavia dichiarata apertamente da Rossi, nelle relazioni di progetto, la genesi di questo ambiente così sorprendente. Sembra che la città sia permeata fin dentro all’architettura, con una chiarissima fenomenologia propria, quasi di clichè. Nulla è così forte da fare contrappunto ai balaustrini disegnati e alle persiane verdi per ricordare che si è a guardare un spettacolo e non che si è lo spettacolo, che si guarda una scena e non che si è sulla scena. Inoltre, la sistemazione del fondale urbano continua anche sulla scena; non c’è differenza tra le vite dell’uomo e quelle dei personaggi, “il teatro mimetizza la realtà ed è nello stesso tempo l’unica realtà”22: lo stesso tema che più tardi esplorerà in Villa Alessi e in numerose altre opere, qui viene dichiarato fermamente – il desiderio di rendere la vita uno spettacolo, densa di liricità e potenza narrativa. La scelta della sistemazione delle 18
Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 224-234.
19
Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 258-273.
20
Ciacci, 2004.
21
Rossi, 1990.
22
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 45, 4 Aprile 1991-Luglio 1991 21
pareti così assume una nota quasi autobiografica e didascalica: senza passare da una qualche mediazione metaforica, ci suggerisce come la città sia palcoscenico e scena, nella sua lentezza immutabile, nei suoi tratti architettonici tipici, resistenti alla Storia e alle storie. Genova, città di pietra, entra nel Teatro che la rappresenta, che rifugge da qualsiasi velleità internazionalistica, radicandosi nella matericità della sua storia. L’interno per Maastricht23, la “costruzione più importante”24, progettata tra il 1990 e il 1994, invece, sembra pervadere totalmente la vita creativa di Aldo Rossi; la scala, la cupola e la torre diventano segni forti fino a identificarsi con il progetto. La ricerca formale per questi tre elementi porta a una continua sintesi e integrazione tra i segni architettonici che si ripetono come un mantra grafico negli ultimi Quaderni Azzurri25 (“ne disegno mille volte lo schema”26), e nelle stampe stampe. Tali elementi sempre più iconici e gestuali ed inconsci, definiscono una sezione spirituale dell’architettura, una dimensione di flusso di coscienza, che rimbalza tra l’architettonico e lo psicoanalitico. La stessa relazione di progetto assume toni lirici, e nel contempo narrativi di una vita non misurabile. Il Bonnefantenmuseum rappresenta il bilanciamento tra il dicibile e il rappresentabile, tra idea di ambiente e architettura, tra storia e narrazione e monumento e uomo. L’architettura è sospesa nel tempo, nella “ora prima del tramonto”27 e allargandone i confini, all’infinito, fino al sempre, fino a trascendere la dimensione temporale e rimanere sé stessa, nella sua esistenza, nel suo Das-Ein in una dimensione altra. L’ossessione nei confronti di questa sezione per frammenti ritorna continuamente con forza: è l’io a essere interrogato violentemente dalle suggestioni di questo edificio, nella sua dimensione carnale e contemporaneamente in quella psichica (col senso greco di psychè, anima), possibile proprio in virtù dell’ illusoria alterità dimensionale con l’edificio. L’architettura sembra chiedere al profondo: “cos’è la storia? E soprattutto, chi sei tu davanti ad essa?”. Oscillando tra la Torre di Babele e la Cupola Antonelliana, come un pendolo tra vertigine (torre/cupola) e ragione (scala) si innesca la narrazione della vita dell’uomo. Il progetto, dice Rossi, vuole “ripercorrere il 23
Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 258-273.
24
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 45, 4 Aprile 1991-Luglio 1991.
25
Ibidem.
26
Ibidem.
27 Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 45, 4 Aprile 1991-Luglio 1991. Rossi fa riferimento a questa espressione nell’introduzione alla mostra dei suoi disegni al Beaubourg nel giugno 1991, e riferisce la stessa frase in L’Edificio Ambiente a Tokyo. Ovvero l’ora prima del Tramonto, 1989, in Celant (a cura di), 2008, pag.168. 22
Aldo Rossi, Studio Px Maastricht, 1990. 23
Aldo Rossi, 1991. Sezione del Bonnefantenmuseum. 24
Aldo Rossi, Arassociati, Teatro La Fenice, Venezia, 1997. Interno della Sala. 25
Aldo Rossi, Arassociati, Teatro La Fenice, Venezia, 1997. Interno della Sala Rossi. 26
mondo di un paese, il mondo dell’architettura”28 ma in realtà ambisce a ripercorrere il mondo psichico dell’uomo, e a rimarcarne il liminare con la storia, contemporaneamente allargandolo: “[…] ripeteremo i versi del grande poeta portoghese: “Il Portogallo è quel paese dove finisce la terra e inizia il mare””29. Di minore rilievo, ma comunque interessante, è invece l’intervento nel teatro veneziano della Fenice, nato sotto il motto “com’era, dov’era”. Per la sala principale, l’incarico indirizzò il progetto verso una ricostruzione filologica. Di maggiore interesse sotto il profilo del progetto d’interni è invece la Sala Nuova, oggi intitolata allo stesso Aldo Rossi. La sala possiede una zona in piano per l’orchestra, e un ballatoio a gradoni per i coristi o per il pubblico, durante l’esecuzione di concerti da camera o conferenze. Il segno più forte, in cui il progetto di Rossi si manifesta più chiaramente nell’intero intervento, è il fondale scenico: una riproduzione in legno della facciata della basilica palladiana di Vicenza30. Ancora, come a Genova, è la città a essere scena della vita, l’architettura fondale dell’esistenza, come in Villa Alessi. Parallelamente a pochi interni potenti, l’architettura di Rossi, dunque, si compone di pesanti vuoti colmi di silenzi esistenziali: dei nulla alla ricerca costante di narrazioni per poter sopravvivere, dei nulla pieni di storie.
28
Ibidem.
29
Ibidem.
30
Ciacci, 2004. 27
28
1. Cartella Clinica
29
30
1.1. Architettura Assassinata L’architettura assassinata ritorna più volte e in diverse forme nell’attività grafica e teorica di Aldo Rossi. Nella sua veste grafica si manifesta nelle incisioni degli anni ‘70, Architettura Assassinata e Dieses ist lange her/Ora questo è perduto e nei disegni a inchiostro Architettura Assassinata degli stessi anni. Ritorna, invece, in speci più nascoste nella sua attività teorica. Si può considerare l’Autobiografia Scientifica1 del 1990 come una specie di autopsia della stessa architettura assassinata. Ma è un’autopsia di un chirurgo sadico, di un folle bisturi che non si esime dall’infierire sullo corpo steso sul tavolo. Guardando i disegni ci aspetteremmo di vedere, come in Arancia Meccanica, il bastone di Malcom McDowell che riduce in fin di vita l’architettura. Ma chi è il drugo che muove il bastone? Forse Rossi stesso, ma non ci stupiremmo di vedere fuggire la stessa mano del San Carlone che compare in numerosi altri disegni dello stesso periodo. Dietro questo atto di Ultraviolenza c’è un desiderio antimonumentale, rileva Savi ne L’Architettura di Aldo Rossi2. Tale antimonumentalismo è carico di significati: il principale è quello di opposizione al potere del mainstream, mediante l’uso di forme e intuizioni tipiche delle avanguardie novecentesche, rovesciandone però i fini; in questo modo sostituisce la motivazione politica antiborghese con la rivendicazione di una condizione dell’Io –dell’Io Creativo - autonoma e autocontradditoria, lontano dalle integre ideologie puriste che costellavano il firmamento architettonico e morale dell’epoca. Ciò che Rossi rivendica è l’ammissione di un’umanità in grigi, non in bianco e nero, sia dal punto di vista professionale che etico. Emerge un desiderio di perdere i punti di riferimento per dimostrare quale sia la condizione umana, la condizione traumatica di essere gettati tra le cose. Nella storia personale di Rossi tale trauma prende il sopravvento dopo l’incidente di Slavonski Brod3. Da questo momento la dimensione della violenza entra nella autocritica rossiana a gamba tesa, risparmiando pochi frammenti della memoria propria e portata dell’architetto. Aggiunge Rossi: “Forse solo le distruzioni esprimono completamente un fatto”4, davanti alle città straziate dalla guerra o alle rovine dei templi greci. Dall’incidente in poi a guidare la mano dell’architetto si avvicendano due 1
Rossi, 1990.
2
Savi, 1978.
3 Rossi, 1990, pag. 33. Slavonski Brod è la località dell’ospedale dove Aldo Rossi venne ricoverato dopo il grave incidente che ebbe sulla strada tra Belgrado e Zagabria nel 1971. 4
Rossi, 1990, pag. 29. 31
Aldo Rossi, L’Architecture Assassineé, 1974. 32
forze cosmiche che continuamente si scontrano: dolore e gioia. Come nella visione di Simmel che vede le forze rivendicatrici della natura e quelle faustiane dell’uomo creativo trovare equilibrio nell’immagine della rovina (Die Ruine)5, allo stesso modo dolore e gioia trovano nei relitti rossiani, nei frammenti trouvée, equilibrio e manifestazione. Il conflitto interiore si esteriorizza, portando l’architettura insieme al paziente-Rossi sul lettino dello psicanalista6. L’architettura viene menomata, e il Savi vede in questa menomazione il tentativo non tanto di violentare l’architettura in sé, quanto la memoria futura di essa7. Mediante il disegno irriverente (non reverente nei confronti dell’oggetto disegnato), l’architettura perde la monumentalità e diventa quotidiana. Non è soltanto la violenza a portare a termine questo compito, ma tutti gli espedienti che Rossi utilizza per esorcizzare l’architettura stessa: il disegnarla male, lo scarabocchiarci sopra, il prenderla in giro e ironizzare su di essa, il giocare con le scale8. C’è una componente di fuga dall’ossessione, dalla psicosi ossessiva, nell’approccio compulsivo catalogico e ludico all’architettura ed al suo linguaggio: da un lato la prospettiva di un’applicazione di vocabolario accerta la presenza, mediante l’uso dell’identico come paradigma progettuale, di un grumo esistenziale delle cose, dall’altro le restituisce in un eterno presente senza parametri di chiara lettura, mettendone in discussione la stessa esistenza9. Vivendo in un eterno presente, e visto l’approccio a vocabolario, l’intero novero dell’operato rossiano non è rettificabile in un percorso, ma chiede di essere letto sinotticamente, anche accettando di rovesciare i nessi temporali, sopportando contraddizioni e scarti imprevedibili. Il vocabolo architettonico subisce un processo di dilatazione cronologica, geografica e talvolta funzionale: anela all’eternità e all’ubiquità, ma non dimentica la propria irrinunciabile identità istantanea nell’esperienza e nella rappresentazione. Il timpano di Segrate del è lo stesso del monumento a Pertini ma è irrimediabilmente il timpano di Segrate. Quindi il grumo esistenziale delle cose resiste alla catalogicità del linguaggio rossiano (e alla sua crisi, al suo assassinio). L’angoscia dell’ossesso viene placata dalla consapevolezza che il gesto ripetitivo abbia senso, e allevi la rimozione risanando la tensione10. Scrive a riguardo Rossi: “Le terrazze delle vedove sulle case del New England ripetono il rito greco di scrutare nel mare ciò che non è 5
Georg Simmel, Die Ruine, 1919 in: Panza (a cura di), 2014.
6
Tafuri Manfredo, Ceci n’est pas une ville, in: Lotus 13, 1976 cit. in: Biraghi, 2005, pag 196.
7
Savi, 1978.
8
Ibidem.
9
Ibidem.
10
Ibidem. 33
Aldo Rossi, L’Architettura Assassinata, 1979. 34
ripetibile, la sostituzione del rito al dolore, cosi come la fissazione si sostituisce al desiderio. Così questa ripetizione del timpano non ripete l’avvenimento.”11 La teoria freudiana, riguardo al tema della ripetizione, asserisce che è un desiderio di ritorno allo stato pre-vitale, uno stato di non-essere nel quale non esistono tensioni di alcun genere: in altre parole, la Morte12. L’architettura assassinata è, con Francesco Dal Co, “Palcoscenico della memoria” e “metafora di una dialettica a cui i frammenti opposti sono la frantumazione e il feticcio della composizione”13. Ai due antipodi Dal Co pone composizione e frammentazione, fondamenti dell’arte progettuale rossiana, che, a una seconda lettura, ai due antipodi non sono troppo. Come si è già detto, l’architettura di Rossi è data per frammenti di memorie, di storie, di forme. La progettazione a vocabolario occupa tutta la trattazione del settimo Quaderno Azzurro14. Sebbene rimanga sempre più che dedito alla pratica dello schizzo, già nel 1970, sente che “La composizione […] non può essere definita come ‘schizzo’”15 . Un altro riferimento costante per Rossi e i suoi frammenti è Raymond Roussel16. In un certo senso in Roussel si può leggere una ricerca di una dimensione perpendicolare alla narrazione; come un anelare a un senso ulteriore, lasciando anche senza senso la parola scritta, per sublimarla attraverso il gioco (con l’apertura di senso che anni dopo postulerà Gadamer17). Anche Rossi sembra cercare, con le sue architetture, di raggiungere un livello sovrapposto al di-segno, che sia esso grafico (come accade ne La Città Analoga18) o architettonico (i vuoti, come già accennato, hanno un portato ulteriore oltre alla loro vuotezza quanto gli oggetti di design possiedono portato ontologico ulteriore alla loro cosalità), tanto da 11
Rossi, 1990, pag. 96.
12
Savi, 1978.
13 F. Dal Co, Ora Questo è perduto, in Lotus International n.25, cit. in: Ton Quik, La Finestra del Poeta, in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg 39-53. 14
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 7, Architettura Analitica. 28 maggio- 23 giugno 1971.
15
Ibidem.
16 Raymond Roussel (1877-1933) fu scrittore francese. Pressoché sconosciuto presso i suoi contemporanei, Roussel vive una vita da dandy. L’unico romanzo con cui fece scalpore in vita fu Locus Solus (1914), con annesso Comments j’ai écrit certains de mes livres nelle edizioni dal 1975. Rivalutato postumamente dall’ OuLiPo e da Michel Foucault (Raymond Roussel, Parigi, 1963), deve la sua fortuna alla capacità di calembourista e di cesellatore di parole. Ricordiamo anche Impressions d’Afrique (1909/1910) e l’opera teatrale L’Étoile au Front (1925). 17
Panza (a cura di), 2014.
18
Celant, Huijts (a cura di), 2015, pag. 230; Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.118-119. 35
Aldo Rossi, Dieses ist lange her/Ora questo è perduto, 1979. 36
giustificare la famosa affermazione “Credo sempre che, nella vita come in architettura, se cercavamo una cosa non cercavamo solo quella. […] Ma è certo che il compimento andava oltre l’architettura e ogni cosa è soltanto la premessa di ciò che vogliamo fare.”19. L’architettura mai è fine a se stessa, mai è Architecture for Architecture’s sake20. Possiede sempre un livello sub-liminale, narrativo di memorie, recondite o meno, del portato personale di Rossi. Lo stesso assemblare vocaboli riporta alla mente le costruzioni fröbeliane di Roussel, il continuo desiderio – ossessione – di citare, raccontare altre storie e altre vite. Locus Solus è infatti un continuo e ininterrotto flusso narrativo di favole, storie, aneddoti, meccanismi21, tanto quanto la produzione di Rossi è un reiterato ricordare, raccontare storie, citarsi e citare, giocare con riferimenti storici e contemporanei. Rossi pensa a una “unità, o a un sistema fatto solo di frammenti ricomposti”22; quanto Dal Co legge come antitesi, Rossi propone come sintesi, dove aporia e paradosso trovano senso nella creatività e memoria. Infine, come il Marinaio di Coleridge, anche Rossi porterà il suo albatros, l’Architecture Assassinèe al collo, a memoria propria e altrui, condannato a reiterare sulla propria architettura lo stesso gesto da assassino.
19
Rossi, 1990, cit. in: Margiotta, 2013.
20 Coniato da Christopher Hawthorne, in Swiss architect Peter Zumthor, 65, is 2009 Pritzker laureate, in Los Angeles Times, 12 Aprile 2009. Il critico parafrasa qui il celebre “Art is for Art’s sake”, ovvero “Ars Gratia Artis”, “L’arte per l’arte”. 21
Raymond Roussel, 1914.
22
Rossi, 1990, pag. 29. 37
38
1.2. Architettura Umana Uno dei caratteri propri dell’architettura e della Weltanschauung rossiana è un certo disagio verso il mondo degli uomini. Come precedentemente accennato1, le opere di Rossi prendono forza dal loro vuoto, vuoto non di senso, ma di vita. Prendono forza dalla loro teatralità, dalla loro alterità rispetto alla vita reale, anche se l’architettura è per l’uomo e per la città. Rossi raccoglie dalle esperienze moderniste l’attenzione per la dimensione del corpo. Superando il concetto razionalista che sta alla base della sperimentazione lecorbusieriana del modulor, il corpo mantiene una sua dimensione corporea anche se viene fortemente caratterizzato spiritualmente. Anzi, gli spazi per il corpo sono resi disagevoli, tanto che la Cabina delle spiagge (diversamente dal Cabanon di Le Corbusier), con la sua ristrettezza e scomodità diventa un lemma progettuale. Tuttavia in questa scomodità c’è una forte presa di posizione. Il riferimento da cui muove Rossi è l’esperienza infantile di visita al San Carlone di Arona: “Come nella descrizione del cavallo omerico, il pellegrino entra nel corpo del Santo, come in una torre o un carro governato da una tecnica sapiente. Salita la scala esterna, la ripida ascensione all’interno del corpo rivela la struttura muraria e le saldature delle grosse lamiere. Infine la testa è un interno-esterno; dagli occhi del santo il paesaggio del lego acquista contorni infiniti, come un osservatorio celeste.”2. Come in un rito purificatorio, la vertigine del corpo nella risalita porta all’epifania del vero, sotto la sua forma materiale oppure in un disvelamento di senso nuovo. Si tratta di una vera e propria risalita penitenziale (tanto che si parla di “ascensione” e di “pellegrini”), celebrazione di una espiazione attraverso un gesto e luogo archetipico, quello dell’ ascensione/scala, che ritorna nella mitologia rossiana tanto quanto nella sua opera3. La stessa forma del San Carlone ritornerà come ossessione nel corpus rossiano: la sua sezione è un segno chiave per le osservazioni che seguiranno riguardo agli spazi “scomodi” che Rossi richiama lungo la sua vita4. La stessa ritualità dell’ascesa è un archetipo non solo personale ma culturale: 1
Si veda il paragrafo Un Nulla Pieno di Storie.
2
Rossi, 1990, pag. 21.
3
Si veda il paragrafo Torri.
4
Si veda il paragrafo Spazi Sbagliati. 39
Cappella della Veronica, Sacro Monte di Varallo, XVII secolo. 40
dal citato cavallo di Troia, ai sacri monti, alla torre babelica, l’arrivo alla sommità porta con sé la soluzione della vicenda narrata. La narrazione della Passio Christi, eternamente sotto lo sguardo rossiano, si conclude con la morte nel punto più alto, la croce, e la successiva deposizione nel ctonio sepolcro, ovvero la manifesta corporalità del Dio. Tutto, nel momento della crisi ultima, diventa corpo, anche l’anima, rimessa al Padre5. L’immagine e la metafora del cadavere tornano numerose volte e sotto varie forme nell’opera dell’architetto, come a manifestare, in una ricerca così legata al senso teorico prima che alla sua dimensione pragmatica, la necessità di un corpo, una fisicità. Inoltre l’esperienza di vita (e quella di morte) obbligano a misurarsi col dolore, le fratture scomposte, i traumi6. Dagli anni ‘80 disegni cominciano a popolarsi di cavalli fuseliani, ridotti a scheletri, come negli studi del pittore Stubbs7: “I cavalli di Stubbs mi interessavano più per la struttura dello scheletro che per la loro forma. Un interesse principalmente clinico […] ma che forse è anche risultato di antiche e interne deformazioni.”8. Gli scheletri equini, insieme al granchio/aragosta cominciano a entrare nel ragionamento analogico di Rossi dal 19839, intrecciandosi con i disegni delle opere, per poi trovarsi nelle fotoincisioni Reliquie e Reliquie su un’antica carta francese nel 1989, nonché trovare spiegazione10 sulla celeberrima stampa Sine Titulo del 199011. Forma omerica, il cavallo, e forma archetipica, l’uterino disegno dell’aragosta, sintetizzano il dramma dello scheletro, che narra in sé una storia, che sia terminante o incipiente. Anche nella forma architettonica ritornano le ossa, lo scheletro e il relitto: “Alla forma osteologica […], si accompagnava il senso della deposizione. La deposizione non è un tema tipico dell’architettura eppure nel periodo di Slavonski io mi proponevo di rappresentare una 5 “Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio». Detto questo, spirò.”, (Lc, 23:46) 6 Come si è dimostrato nel paragrafo Architettura Assassinata, il dolore è una delle componenti fondamentali per la poetica rossiana. 7 George Stubbs (Liverpool, 25 agosto 1724 – Londra, 10 luglio 1806) è stato un pittore inglese divenuto famoso per i suoi quadri di cavalli. L’opera più celebre è Whistlejacket (1762?) conservata alla National Gallery di Londra. 8
Rossi Aldo, Architetture Padane, Panini, Parma, 1984, cit. in: Celant, Huijts (a cura di), 2015.
9
Celant, Huijts (a cura di), 2015, pag. 140.
10 Appunta Rossi a mano su una stampa di Sine Titulo: “[…] 5. Paesaggio urbano con scheletro di cavallo | 6. Aragosta o probabilmente Lobster di natura e funzione ambigua.”. In: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pag. 185. 11
Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 170-187. 41
Georges Stubbs, Whistlejacket, 1762 circa. 42
Aldo Rossi, Progetto Px Scuderia, 1985. 43
Aldo Rossi, Senza Titolo, 1983. 44
forma deposta: l’architettura deposta era per me solo parzialmente antropomorfica. La deposizione in pittura […] studia le possibilità meccaniche del corpo e ho sempre pensato che essa attraverso questa anormale posizione che un corpo morto assume nel trasporto arrivi a comunicarci un pathos particolare. Queste posizioni possono essere collegate a quelle dell’amore, ma non avvengono per un movimento interno ed esse inoltre presentano tutto ciò che nel corpo vi è di oggetto. E questo essere oggetto è particolarmente penoso e doloroso per lo spettatore […] D’altra parte la deposizione accetta un sistema, un edificio, un corpo, volendone nel contempo spezzare il quadro di riferimento e cioè costringendoci a un diverso significato, certamente più inquietante nella sua inverosimiglianza.”12. L’opera che maggiormente permette di leggere questa dimensione corporale è il Cimitero di San Cataldo a Modena13, non solo simbolicamente, ma dichiaratamente: “Questi due elementi14 sono collegati alla spina centrale degli ossari mediante una configurazione osteologica. […] Al centro dell’area sono collocati gli ossari […] si configura così una forma analogica alla colonna vertebrale, o comunque una conformazione osteologica.”15. L’architettura diventa scheletro, corpo deposto in un sepolcro, o meglio, cadavere in un teatro anatomico16. Nella sincera evidenza della condizione del cadavere, mostrata nella cruda funzionalità del cimitero, si accosta la natura tenera, pietosa, che si legge nel “volto dell’orfano”17. La memoria di ciascuno dà energia al corpo deposto, alle vertebre allineate sul prato, che però mantengono una forte aura di rassegnazione davanti al mistero della morte. Il corpo morto trova la sua forza nell’istituzione che incarna. In altri casi, invece, Rossi sembra evocare delle presenze immateriali. Come fantasmi architettonici, fuochi fatui e ombre, esse abitano le stesse architetture disegnate: il celeberrimo Il cortile di Broni18, o La finestra del poeta19, sono infestate da fantasmi, 12
Rossi, 1990, pagg. 33-34.
13
Cimitero di San Cataldo a Modena, 1971-78, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.54-68.
14
Il cubo del sacrario e il cono mai realizzato della fossa comune.
15
Ibidem, pag. 54.
16 Numerosi sono i riferimenti all’interno dell’Autobiografia Scientifica riguardo alla tipologia del teatrino anatomico. 17
Ibidem.
18
Celant, Huijts (a cura di), 2015, pag. 145.
19
Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 228-229. 45
Aldo Rossi, Studio con Pesce, 1982. 46
Aldo Rossi, Disegno per il nuovo Cimitero, 1971. 47
Aldo Rossi, Il Cortile di Broni, 1987. 48
silhouettes nere premonitrici di una apocalisse post-nucleare20, memorie di un passato ormai senza volto – o mai stato con un volto21. Mai più il corpo potrà essere ri-presentato nella sua interezza e nella sua fisicità, nemmeno nella Autobiografia. Sublimato a livello di fantasma (più volte troviamo questa impressione negli scritti) riassume in sé tutta la storia dell’uomo: “Sunday 23rd. Passed within a third of a mile of Cape St. Vincent. Lighthouse & monastery on bold cliff. Cross. Cave underneath light house […] Melville had stared a ghost. What he sees on the cliff is, quick, his life: HEIGHT and CAVE, with the CROSS between. And his books are made of these things: light house, monastery, Cross, cave, the Atlantic, an afternoon, the Crimea: truth, celibacy, Christ, the great dark, space of ocean, the senses, man’s past.”22. Il fantasma che Melville vede è dunque una rappresentazione, un’impressione retinale, esistenziale e personale. Disvelamento del Das-Ein nell’anima è “l’enumerazione delle cose viste [che] si identifica con la sua vita e i suoi scritti”23, una certa cura delle cose di heideggeriana memoria. Quelli di Rossi non sono fantasmi ossessivi, forme d’incubo come i pesci di Gehry. Sono fantasmi esistenziali, precòni o memorie come i fantasmi dickensiani del Natale. Interessante è una notazione nei Quaderni Azzurri: “Paura di Fausto [figlio di Aldo Rossi, ndr] allo Schwartzsee non perché si fosse nella nube senza visibilità ma per le forme che si intravedevano nella nube”24. I fantasmi sono esistenze fuori fuoco, ma con un portato di verità ulteriore, epifanico. Sono corpi opachi, nascosti o intuiti dietro l’ombra delle persiane: “le persiane che filtrano la luce del sole o la linea dell’acqua costituiscono all’interno un’altra facciata, insieme al colore e alla forma dei corpi che dietro la persiana vivono, dormono, si amano. Anche questi corpi hanno un loro colore e una loro luce […] come una specie di stanchezza o spossatezza
20 Alcuni critici usano il termine Postatomico per definire l’architettura rossiana. Cit. in: Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 47, 18 Dicembre 1991-5 Dicembre 1992. 21 Aldo Rossi identificherà le due figure dietro la finestra della Scuola di Broni in Il Cortile di Broni come i colleghi Luca Meda e Stefano Fera. Viene appuntato a margine della stessa stampa di Sine Titulo di cui in nota 9: “Il cortile di Broni con Luca e Stefano che osservano dalla finestra”. Le altre due silhouette - una delle quali assente nella stampa del 1987, ma presente in Sine Titulo – appartengono al passato autobiografico del Rossi: “L’Ex Maestra della scuola d’Azeglio di Voghera [alla finestra della torre di sinistra, ndr]| Un mio amico di Pavia [riferito alla silhouette che esce dal porticato a destra, ndr]”. In: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pag. 185. 22 Rossi, 1990, pag. 45, in inglese nell’originale. In questo passo Aldo Rossi cita a sua volta un libro di Charles Olson, poeta americano, su Herman Melville, Call Me Ishmael (1947). 23
Ibidem.
24
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 7, 28 Maggio 1971-23 giugno 1971. 49
Aldo Rossi, Senza Titolo (La Finestra del Poeta), 1994. 50
fisica dell’estate, di un bianco abbagliante nei toni invernali.”25. Fantasmi di una storia, della stessa che si è infiltrata nelle costruzioni dei pescatori sul delta del Po, nella nebbia del Sant’Andrea a Mantova, nei disegni delle illuministiche visioni di Boullèe, o ancora il grande fantasma del San Carlone. Fantasmi di ombre sulle pareti bianche delle case della Grecia e del sud Italia, o i fuochi fatui dei fari americani. Anche il silenzio che pervade questi luoghi dell’essere è un segno di malinconia, come nota Guglielmo Bilancioni26. Una malinconia per un’altra vita, una malinconia che sappiamo portare alla mania. Quella stessa mania nei confronti della distruzione e ripetizione della forma nasce da una malinconia silenziosa che permea i progetti rossiani, dal giovanile monumento per Cuneo fino alle ultime opere. Fantasma è anche quello dell’illuminismo, del discorso non frammentato che Manfredo Tafuri individua ritornare spesso nell’opera del primo Rossi, nel desiderio della scuola di Broni, nel sollevare un discorso unificato contro la decostruzione della realtà e del progetto27. Immagine spirituale è anche l’unico volto compiuto che troviamo nella produzione grafica di Rossi (oltre al proprio): il David angelico di Tanzio da Varallo ne La Città Analoga28. Le due dimensioni, corpo e spirito, non sono separabili, nella vita terrestre. L’architettura è per l’uomo, che è fatto di corpo e di anima. Rossi, staccandosi dall’universo razionalista, rifiuta la riduzione del progetto alla sua funzionalità. Costruire per l’uomo non significa applicare il nuovo umanismo dei Maestri Moderni, non significa neppure pensare l’architettura per i Puri Spiriti come Boullèe. Non si tratta tuttavia di trovare una via di mezzo, quanto di cambiare paradigma: il progetto non è per l’uomo, ma è appena fuori dall’uomo. La figura enigmatica ma fondamentale della Cabina dell’Elba è uno spazio scomodo, ma anche di piacere29: una specie di vestito scomodo, dove l’uomo entra in contatto con i suoi limiti. Come nel confessionale l’uomo manifesta il suo limite morale di peccatore, nella Cabina, tempio di un rituale laico di conoscenza del sé, l’uomo dichiara il proprio limite fisico e mortale. Nell’esperienza della Cabina, e negli scomodi topoi progettuali rossiani analizzati più avanti, l’uomo tocca i suoi manifesti limiti, e dunque comprende la propria finitudine, il proprio essere-per-la-morte. Per questo l’architettura umana di Rossi si differenzia da 25
Rossi, 1990, pag. 48.
26
Bilancioni Guglielmo, Aldo Rossi: Semplice Ontologia, in: AAVV, 1998, pagg. 39-47.
27
Tafuri, 1970.
28 Celant, Huijts (a cura di), 2015, pag. 230. Il quadro a cui si fa riferimento è Davide e Golia, 1625 ca., conservato alla Pinacoteca Civica di Varallo Sesia. 29
Rossi, 1990, pag. 67. 51
Luigi Ghirri, Riccione, 1984 (part.) 52
quella modernista, e in realtà anche dalla totalità delle altre: non vuole mettere in luce la grandezza dell’uomo che sconfigge la natura, quanto l’impotenza dell’uomo davanti alla Storia, allo Spirito, a Dio, al Tutto. In questa condizione esiste comunque, la possibilità di redimersi. L’architettura di Rossi è esperienziale, ricalca quella risalita espiatoria nel San Carlone, restituisce la condizione di esser-ci in maniera epifanica, come l’entrare nella statua rivela la sua vera realtà e rende una vista inedita, quasi mistica, del Lago Maggiore. È strumento per la vita terrena e apparecchio per la morte: “[…] Non conosciamo l’elemento centrale, cioè l’imprevedibile, ed è proprio l’imprevedibile che dona gioia o tristezza alla nostra vita. E mi sembra bello e terribile ad un tempo che esso possa manifestarsi all’interno di certe linee o di un programma definito. […] è così chiaro il messaggio “Estote Parati”, perché ogni tempo, ogni ora può essere quella finale. E spesso abbiamo il rimorso di avere sciupato il tempo nel suo passare delle ore. E nel non tenere conto che la vita è proprio questo “apparecchio alla morte”. Perché certo non vi è fondamento più bello, più triste e più limitante di quello che dice: “Pulvis est et in pulverem reverteris” cioè, considera che sei terra ed in terra hai da ritornare, tempus non erit amplius. O come dice S. Alfonso citando Basilio: “contemplare sepulcra, vide num poteris discernere quis servus, quis dominus fuerit”. È strano ma giusto […] non dirò il significato della vita, ma il significato in senso generale | di noi stessi, delle relazioni, dello stesso lavoro. Proprio il lavoro riprende significato e speranza | se lo spogliamo anche da quanto vi è in esso di estetico, e quindi di gratuito […] E invece di affermare, come ho scritto più volte “dimenticare l’architettura” mi sembra che essa possa costruire un segno fisso. E che guidati da questa convinzione noi possiamo costruire cose più belle, di una bellezza che è oltre il senso estetico, ma che forse può esprimere il concetto sacro del tempo: tempus non erit amplius, ma l’opera dell’uomo può almeno testimoniarlo”30. Corpo e anima si toccano, dunque negli spazi scomodi che Rossi mette a disposizione per comprendere i propri limiti, per avvicinarci meglio alla comprensione della nostra condizione di mortali, e di abitanti della quadratura. Terra, Cielo, Divini e Mortali sono armonici, e la nostra corporalità ne è garanzia. Rossi ci mette a disposizione gli strumenti per meglio comprendere il nostro ruolo chiave, di garanti e preservanti della bellezza del giardino, e di abitanti31.
30
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 44, 7 Gennaio 1991-31 Marzo 1991.
31 Heidegger Martin, Costruire. Abitare. Pensare, 1954. Per una chiave di lettura, si veda Panza (a cura di), 2014. 53
54
1.3. Architettura di Memorie Fondamentale per comprendere il ruolo dell’architettura nella Città e nella Storia è il libro L’Architettura della città pubblicato nel 1966. Pur essendo uno scritto giovanile e per stessa ammissione di Rossi ancora poco organico1, contiene un novero di ragionamenti che accompagnerà tutta la carriera dell’architetto. Un passo è emblematico per comprendere quale sia l’idea di storia e memoria per Rossi, tanto che viene largamente ripreso nella Autobiografia Scientifica: “Guardate le sezioni orizzontali della città che ci offrono gli archeologi; esse sono come una trama primordiale e eterna del vivere; come uno schema immutabile. Chi ricorda le città d’Europa dopo i bombardamenti dell’ultima guerra ha di fronte a sé l’immagine di quelle case sventrate dove tra le macerie rimanevano ferme le sezioni dei locali familiari con i colori sbiaditi delle tappezzerie, i lavandini sospesi nel vuoto, il groviglio delle canne, la disfatta intimità dei luoghi. E sempre, stranamente invecchiate per noi stessi, le case dell’infanzia nel finire della città. Così le immagini, incisioni e fotografie, degli sventramenti, ci offrono questa visione; distruzioni e sventramenti, espropriazioni e bruschi cambiamenti nell’uso del suolo così come speculazione e obsolescenza, sono tra i mezzi più conosciuti della dinamica urbana; cercherò per questo di analizzarli compiutamente. Ma oltre ogni loro valutazione essi restano come l’immagine del destino interrotto del singolo, della sua partecipazione, spesso dolorosa e difficile, al destino della collettività. La quale, come insieme, sembra invece esprimersi con caratteri di permanenza, nei monumenti urbani. I monumenti, segni della volontà collettiva espressi attraverso i principi dell’architettura, sembrano porsi come elementi primari, punti fissi della dinamica urbana.”2. Architettura, Storia e Memoria sono legate da una relazione inscindibile, ed è nella crisi della città (la Seconda Guerra Mondiale nel testo rossiano) il momento di ri-soluzione di questo rapporto: la relazione si conclude, si interrompe più o meno bruscamente. Le parti tuttavia rimangono segnate dal rapporto: “restano come l’immagine del destino interrotto del singolo.”. L’individuo è il luogo dove si consuma questa relazione, centro dell’Architettura, della Storia e della Memoria. L’individuo insieme alla collettività genera il locus, ovvero una serie di riferimenti urbani e culturali condivisi a sulla base di una memoria collettiva,
1
Moneo, 2004.
2
Rossi, 1966, pagg. 11-12. 55
Aldo Rossi, Eraldo Consolascio, Bruno Reichlin, Fabio Reinhart, La CittĂ Analoga, 1976. 56
figurata come comunione delle memorie personali3. Al contrario di Robert Venturi, che negli stessi anni arriva a puntare sulla memoria condivisa dei simboli (in: Imparare da Las Vegas, e Complessità e Contraddizione nell’Architettura4), il punto fondamentale per Rossi è la memoria individuale, se non la sua propria memoria. Tuttavia, i punti di contatto teorico con l’architetto americano sono molteplici: il più importante è l’uso della Storia nel processo progettuale e nello stesso concepire l’architettura. Come si è già visto, Storia e Architettura sono due concetti separati in Rossi, neo-razionalista vagamente platoniano, mentre l’una permea e plasma l’altra nel pensiero della coppia Venturi-Scott Brown, annoverabili tra i neo-realisti5. In entrambi i casi, però, la città è punto di riferimento per lo studio di questi rapporti. Pur mantenendo una relazione di stima e amicizia reciproca6, le loro strade di ricerca si dividono. La Storia per Venturi diventa simbolo condiviso e ripetuto di sé stessa per nulla significante: segno su un decorated shed, sfinge sulla Strip. L’icona pop di Venturi si contrappone al logocentrico ragionamento rossiano, che trova nella Città Analoga punto di apice. Storia è sovrapposizione e combinazione, si racconta con le sezioni archeologiche de L’Architettura della Città: “Guardate le sezioni orizzontali della città che ci offrono gli archeologi; esse sono come una trama primordiale e eterna del vivere; come uno schema immutabile.”7. Successivamente, nell’ Autobiografia Rossi parla del rilievo archeologico del castrum lunatum di Solothurn: “Solothurn, come Colmar, come Trieste era legata al punto limite dell’architettura”8. Storia è sopravvivenza, più o meno latente, di alcune forme, tipologie, monumenti, che sono strettamente collegati alla memoria collettiva e personale9: “[…] Le immagini continuano in noi stessi e nella collettività […]”10. 3
Rossi, 1966.
4
Izenour, Scott Brown, Venturi, 2010. Venturi, 1980.
5 Stierli Martino, Congruenze nascoste. Differenza e analogia in Aldo Rossi e Robert Venturi, in: AAVV, 2008. 6 Ibidem. Stierli riferisce come Rossi abbia scritto “per profonda ammirazione nei confronti di Roberto [sic] Venturi, […] recentemente trasformata in un’affettuosa amicizia” la prefazione alla monografia Mother’s House sulla Vanna Venturi House (1992); Venturi invece tiene molto a indossare l’orologio da polso Alessi Momento, disegnato da Rossi. 7
Rossi, 1966, pag. 11.
8
Rossi, 1990, pag. 77.
9 Rossi, 1966. Questa visione è perfettamente in linea con la visione post-moderna gadameriana (Panza, (a cura di) 2014). 10
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 41, 10 Giugno 1989-27 Dicembre 1989. 57
Aldo Rossi, Eraldo Consolascio, Bruno Reichlin, Fabio Reinhart, La CittĂ Analoga (part.), 1976. 58
Il rapporto analogico tra Memoria e Storia trova finalmente chiave di apertura ne La Città Analoga. Al centro della composizione ci sono quattro figure d’uomo quasi invisibili: Aldo Rossi, e i suoi collaboratori Eraldo Consolascio, Bruno Reichlin, Fabio Reinhart: “Tornati a Zurigo fu subito trovata l’immagine da collocare al centro, quella attorno alla quale tutto ruota. Prendemmo le piccole figure inserite nella prospettiva per San Nazario dei Burgundi: quattro figure (quattro come gli autori) e le abbandonammo in un deserto. Da allora camminano lungo un orizzonte, sotto le Pleiadi annotate da Galileo. Sono stelle indifferenti come tutte le altre ma sono stelle illuminate dal desiderio di conoscenza”11. Al centro del grande gioco dell’analogia, che nel Cimitero di Modena diventa un vero gioco dell’oca12, c’è l’uomo umile, in preda alla forza compositiva di ciò che lo circonda. Storia e Memoria si toccano, si fondono con l’Architettura e l’individuo, nella sua piccolezza è abbandonato al centro, nel deserto, guidato dall’ordine delle stelle. Nonostante tutto, la somiglianza a vari sistemi simbolico-meccanici (astrolabi, oroscopi, macchine universali ecc…13) viene fugata dallo stesso Rossi: “Per togliere ogni valore meccanico o di meccanismo a questa costruzione gli autori, più o meno automaticamente hanno introdotto cose, oggetti, ricordi cercando di esprimere una dimensione dell’intorno e della memoria […] si sono indicati alcuni aspetti della memoria, di una memoria circoscritta a un territorio, o meglio ad una patria (l’Alta Lombardia, il Lago Maggiore, il Canton Ticino) con i suoi segni e i suoi emblemi.”14. L’opera è un grandissimo esercizio di ars combinatoria di segni e memorie, un calembour rousseliano di narrazioni diverse, intrecciate e concatenate, che, sebbene manchino di coerenza reciproca, ne acquistano una nel quadro generale. La memoria personale passa anche attraverso l’immagine fotografica. Le Polaroid di Rossi accompagnano frequentemente la relazione dei Quaderni degli anni ‘89-’9115. La memoria 11 Dall’intervista di Annalisa Trentin a Fabio Reinhart, in D’Architettura. Dopo Aldo Rossi, cit. in: Bortolini, Visentin, 2006. 12
Rossi, 1990, pag. 31. Si veda inoltre il paragrafo Giocattoli
13
Bortolini, Visentin, 2006.
14 La Città Analoga, 1976, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.118-119. Ivi si rimanda per una critica autografa di Rossi riguardo l’opera. 15 In quegli anni Rossi acquista una Polaroid e comincia a usarla sovente. Appunta, sul retro della copertina del quarantaquattresimo Quaderno azzurro (Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 44, 7 Gennaio 1991-31 Marzo 1991.): “Fare un quaderno solo di Polaroid. Non credo che sia più facile trovare loro un senso. Ma come mi affascina l’idea di questa vita tra immediata e forse pochissimo mediata”. 59
dei progetti è affidata, invece, all’amico Luigi Ghirri16. La fotografia permette di salvare la vita “Tra immediata e pochissimo mediata”17. Una fotografia emblematica si trova nel quarantaquattresimo Quaderno Azzurro, e rappresenta un muro, ormai scrostato dal tempo e decorato da un adesivo “Napoleon Cigars”, l’unica ombra quella portata da una lampadina nuda appesa al soffitto, un mazzo di fiori ormai secchi in primo piano. La fotografia porta con sé una didascalia: “Queste pareti bianche delle case con le lampadine e qualche oggetto o souvenir, che qua fotografai, non sono diversi da quelle della mia cucina, non so se dal mio mondo formale, che non so cosa sia”18. A parte l’insicurezza sul proprio “mondo formale”, Rossi salva nella propria memoria l’apparente banalità delle cose, la normalità dei pochi oggetti delle pareti delle case. Già nel 1987 scriveva, per la raccolta di Ferlenga: “Le più belle case sono ancora gli interni di Carpaccio o di Vermeer, di Mantegna o Hopper. O qualsiasi casa di un nostro amico, da qualche parte. […] Perché l’architetto predispone i luoghi, li costruisce ma non può dar loro la vita. Il significato di questo era chiaro agli antichi e forse pochi lo espressero così chiaramente come Marziale nel libro di versi dedicati a Domiziano: qui fingit sacros vel auro vel marmore vultus non facit ille Deos. Qui rogat ille facit”19. In questa considerazione Rossi svela un punto fondamentale con le parole del poeta latino20: non è chi costruisce la statua a fare il Dio ma chi lo prega, non è chi progetta ma chi vive a dare senso agli spazi. Il silenzio della scena all’interno è in realtà lo stesso silenzio dell’esterno, quel silenzio esistenziale, di cui si è parlato al paragrafo Un Nulla Pieno di Storie. Crudamente spoglio, ma reso vivo dalla vita e dalle memorie, dai desideri, dal rogat di chi la abita, lo spazio interno è in attesa di essere abitato, al limite anche solo da “lampadine e qualche oggetto o souvenir”21, caffettiere, orologi, burattini, che diano inizio a possibili storie di cui si riempie il nulla. Al contrario, gli esterni sopportano l’assenza di vita, visto che il loro senso deriva non dalla ricerca di narrazione, ma dal loro esser-ci. Vita e memoria guadagnano un’identità istantanea, nell’interno delle architetture che Rossi non vuole nemmeno descrivere. Scrive infatti: “In questo privato poco ed essenziale deve 16 Luigi Ghirri (1943-1992) fu fotografo italiano; lavorò con celebri architetti italiani (tra gli altri, Aldo Rossi e Antonio Monestiroli), nonché come ritrattista. 17
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 44, 7 Gennaio 1991-31 Marzo 1991.
18
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 44, 7 Gennaio 1991-31 Marzo 1991.
19
Rossi Aldo, Questi Progetti, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.165-166.
20
Rossi cita Marziale, Epigrammi, Liber VIII.
21
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 44, 7 Gennaio 1991-31 Marzo 1991. 60
essere l’intervento dell’architetto”22 e ancora “in verità ritengo che ciascuno dovrebbe disporre la propria casa secondo i propri gusti, cosiì come sceglie le tappezzerie e i quadri”23. Chi occuperà l’interno avrà la libertà di trovare delle memorie proprie nello spazio, negli objects trouvèes, nei propri desideri e nelle proprie aspirazioni. Nei numerosi progetti di edifici residenziali, dal Quartiere Gallaratese24 agli ultimi disegni per i complessi di fine anni ’90, passando per le commesse private più piccole (la Villa a Borgo Ticino25 ad esempio) raramente si trovano descrizioni più che generiche per la destinazione e le modalità d’uso degli spazi. Solo i bagni, memorie dei “lavandini sospesi nel vuoto, il groviglio delle canne” 26e vincoli tecnici, sono definiti nella loro normalità, nella loro qualsiasità27. Dunque la vita all’interno, come si è accennato per Villa Alessi28, è accompagnata da un fondale, da una scena fissa da teatro classico. La potenza di questi fondali viene amplificata dai significati che essi assumono nella vita e nella memoria degli abitanti. Alla fine, Rossi disvela il fatto che siamo tutti abitanti di una casa: ogni casa è nel novero delle più belle, sia quelle rappresentate che quelle reali, nelle quali una proustiana memoria sia accesa, una analogia scoperta. Abitare è scoprire o scrivere la storia segreta degli oggetti nell’infinito presente della memoria, nel neutro esistenziale del ricordo (che è la stessa condizione del catalogo29 e del museo30): “Se tutto era fermato per sempre vi era qualcosa da vedere; i piccoli sfondi delle foto giallastre, l’imprevisto di un interno, la stessa polvere dell’immagine dove si ritrovava il valore del tempo”31. Il metodo progettuale rossiano, dunque, non può che essere mosso da una fortissima 22
Rossi Aldo, Questi Progetti, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.165-166.
23
Rossi Aldo, Alcuni miei progetti, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.13-14.
24
Unità d’abitazione al Quartiere Gallaratese, 1969-70, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.46-51.
25 Progetto per una villa e padiglione nel bosco a Borgo Ticino, 1973, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.92-96. 26
Rossi, 1966, pag. 12.
27 Si rimanda ancora all’ opera di altri architetti contemporanei, Luigi Caccia Dominioni, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa tra gli altri, per notare come la ricerca sugli interni di Aldo Rossi sia totalmente sui generis. Si vedano Biraghi, 2009; Biraghi, GIZMO, Lo Ricco, Michieli, 2015; Dal Co, Mazzariol, 2006; Irace, 1988; Irace, Marini, Basilico, 2002; Samonà, 1981. 28
Si veda paragrafo Un Nulla Pieno di Storie.
29
Si veda paragrafo Architettura Assassinata.
30
Rossi Aldo, Architettura per Musei, in Rossi, 1975.
31
Rossi, 1990, pag. 74. 61
Casa di Aldo Rossi a Ghiffa, Novara. 62
propensione a considerare la Memoria, propria e altrui, come fonte e fine del progetto: numerosi sono i passaggi della Autobiografia in cui rende questo pensiero palese32. La Memoria come strumento progettuale e di senso trascende spazio e tempo: “Come scrivevo ne L’Architettura della città, il locus in senso palladiano ha una grande importanza. Il luogo o i ricordi, o la bellezza del tema. Adesso sto facendo un albergo sull’Oceano, in Giappone33, e ho pensato subito di chiamarlo Hôtel de l’Océan, poi mi è venuto in mente che la mia idea era legata alla Normandia, alla Bretagna, a tutto un mondo del mare che mi piace moltissimo e via via che pensavo a questo ho fatto un disegno che alla fine è diventato come un quadro dell’architettura. […] In questo caso, diciamo, che la memoria, il vivere, ha il sopravvento su tutto il resto, e direi che sono i casi più felici”34. Nella memoria sono consolidati i vocaboli. Nel rievocare le costruzioni infantili, i giocattoli e le caffettiere si trova la chiave di comprensione per il lessico e il linguaggio rossiano. I luoghi d’affezione dell’architetto rimangono pietre miliari nella sua geografia personale35 che diventa geografia trasmessa all’atto del mettere su carta le impressioni mnemoniche epifanie del progetto. Non si può prescindere dai ricordi autobiografici dell’Albergo Sirena, de Rosanna o Rossana36, degli interni della casa di Ghiffa37, tanto da portare il problema del neutro esistenziale anche alla realtà. “Dove Vivo?” si chiede Rossi nel quarantaquattresimo Quaderno38, ovvero, parafrasando, “quali memorie danno senso ai miei spazi?”; “Sono tali i frequenti cambiamenti che spesso non distinguo N.Y. da Milano, cioè dai quartieri dove vivo. Dove vivo? Penso a Ghiffa e al Lago, ma anche perché questi luoghi sono oramai un’astrazione, o forse tutti i luoghi sono astrazioni.”39. Il luogo è astrazione, è narrazione e Memoria. Ognuno ha i propri luoghi, di memoria e di affezione: il desiderio di Rossi, nella progettazione degli interni, è di astrarli senza lasciare traccia della sua presenza, perché diventino, attraverso memoria e narrazioni di ciascuno, luoghi di vita, Loci Soli. 32 Ci limitiamo, a indicare: Rossi, 1990, pagg. 47-68, per la vicenda progettuale della Cabina dell’Elba e del Cimitero di Modena. 33 Rossi fa riferimento al progetto per l’Hotel Ocean presso Chikura con Morris Adjmi e J. Greben (Ferlega (a cura di), 1996). 34
Rossi, Di Battista, Magnago Lampugnani (a cura di), 1990.
35 Trisciuoglio Marco, L’Atlante. Per una rilettura dell’Autobiografia Scientifica, in: AAVV, 2008, pagg. 194-199. 36
Rossi, 1990, pag. 48.
37
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 44, 7 Gennaio 1991-31 Marzo 1991.
38
Ibidem.
39
Ibidem. 63
64
1.4. Architettura Politica Un tratto distintivo della vita professionale di Rossi, che per la maggior parte dei suoi progetti viene messa da parte dalla critica, è la natura politica degli interventi architettonici. Politica non è solo una scelta partitica, ma anche una visione del mondo. Entrambe le componenti plasmano il lavoro di Rossi. La Politica è intesa nel senso greco, di servizio per la città. Nel caso di Rossi, una città slabrata, dilaniata1, interrotta (come la Roma Interrotta del concorso di Argan2), ha in sé la potenza adatta a dare senso all’architettura. La stretta correlazione tra architettura e città è il cuore de L’Architettura della Città3, e in generale della vita progettuale dell’architetto. La città è presa come esempio e come fine, come caso studio4 e come destino dell’architettura. Politici sono gli Scritti Scelti, con la loro critica ai modi della città progettata5. La forza politica, nel senso lato, trova forma anche nei grandi progetti di architettura civile: “Della città noi viviamo l’architettura civile: ogni giorno come pedoni, come inquilini, come clienti, come turisti. Ci consumiamo nella città come la città si consuma con noi”6. In una maniera del tutto analoga a come si è già constatato con la Storia, l’individuo e la Città sono legati a doppio filo. Quando l’uno di consuma, anche l’altro si consuma. L’architettura ha dunque un ruolo civile, e quindi politico, particolarmente importante: l’architettura deve essere città, ma non in maniera rumorosa ed eclatante; deve essere città in modo silenzioso e scenografico (non nel senso di spettacolare ma nel senso di fondale). Una volta realizzata, rimane solo l’architettura, sparisce il nome dell’architetto, paradossalmente può sparire anche la funzione: “il monumento, superato il suo rapporto con la storia, diventa geografia”7. Come un guscio vivo, l’architettura mette fuori fuoco le questioni di paternità, guadagna l’indipendenza e dialoga da sola con gli 1
Rossi, 1966, pag.11.
2
AAVV, Argan (a cura di), 1978.
3
Rossi, 1966.
4
Celebre è la descrizione di Atene in Rossi, 1966.
5 Tra gli altri citiamo Città e territorio negli aspetti funzionali e figurativi della pianificazione continua, in: Rossi, 1975. 6
Rossi Aldo, Elogio dell’Architettura civile in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 237-38.
7
Rossi, 1975, pag. 360. 65
Aldo Rossi, UnitĂ di abitazione al Quartiere Gallaratese, Milano, 1970. Ballatoio. 66
altri fondali architettonici. Quello che Rossi essenzialmente separa è il reame politico e civico (res publica) da quello intimo e personale (res privata) dell’architettura, applicando la massima di Wittgenstein: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. La res privata dell’architettura, come già accennato nel paragrafo Architettura di memorie è indicibile, perché personale. Invece, l’architetto risolve il suo ruolo specialmente nella res publica. Bisogna comunque porre l’accento sul fatto che i due reami civico/intimo non sono direttamente relazionati alle nozioni di interno ed esterno. Nel paragrafo Un Nulla Pieno di Storie sono stati evidenziati alcuni casi di interni pubblici, ovvero interni in cui le dinamiche e le forme suggerite sono quelli della vita civile. Allo stesso modo possiamo identificare alcuni spazi che sono esterni, ma privati. Uno dei casi più emblematici è il ballatoio dell’Unità al Quartiere Gallaratese8. Fratello delle smithsoniane Streets in the sky, figlie delle strade dell’Unitè d’Habitation di Le Corbusier, il ballatoio rossiano è fondamentale per la chiarezza della scelta architettonica: “Qui [la tipologia] è costituita dalla galleria o ballatoio. […] la forma tipologica del ballatoio è molto importante per l’architettura moderna, essa significa una strada interna sopraelevata”9. Come il celeberrimo porticato, che tradisce una certa angoscia, anche il ballatoio si pone come interfaccia tra il reame civico e quello intimo, guadagnando un ruolo politico di grande rilevanza: si tratta di uno spazio inedito, le cui potenzialità derivano da questo conflitto, dalla contraddizione in termini di un esterno intimo. Al contrario delle streets dei Robin Hood Gardens, questi spazi sono chiusi, ma in maniera tale da fornire comunque un contatto con l’intorno; inoltre l’immagine forte della divisione in “campate” del fronte risulta vincente sulla confusione disegnata degli Smithson: “molte architetture sono brutte perché non sono riportabili a una scelta chiara”10. La dimensione e la mediatezza del rapporto con l’esterno sono punti forti della soluzione, e danno a chi vive questi spazi il sentimento di potersene appropriare, e utilizzarli. Fondamentale per l’architettura civile è l’uso, l’ utilitas: “L’utilità che era intesa dall’Alberti come significato dell’opera, ed un’opera senza possibilità di essere o divenire parte della storia dell’uomo non ha significato. […] L’utilità dell’Alberti non è quindi il binomio forma/funzione ma la coincidenza del reale o della sua immaginazione con il possibile e con l’utile”11. 8 46-51.
Unità d’Abitazione al Quartiere Gallaratese, Milano, 1969-70, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Rossi Aldo, Elogio dell’Architettura civile in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 237-38. 67
Aldo Rossi in un viaggio a Mosca, 1955. 68
La scelta di connotare il contrasto civico/intimo come paradigma di progetto dichiara che fin dagli inizi del percorso progettuale di Rossi troviamo il continuo dilemma della funzione e del ruolo dell’interno, e del suo rapporto con l’esterno. Il ballatoio e il portico sono soluzioni ancora embrionali del problema, a dispetto della sicurezza delle loro forme, che matureranno, ad esempio, nei progetti a Chieti, a Berlino, a Verbania e a Genova. La scelta politica di inscenare la vita all’esterno e farla vivere all’interno sembra essere un leitmotif che riassume, per tutto il percorso progettuale di Rossi, soprattutto nella sua parte matura, l’approccio alla questione. Non c’è tuttavia da dimenticare anche la natura politica, nel senso stretto del termine. È comprovata e pubblica la sua adesione al Partito Comunista Italiano, sebbene non si allineasse alle guide proposte. In un periodo in cui il PCI appoggiava le ipotesi urbanistiche di De Carlo e le teorie sulla storia di Zevi, l’approccio e la resa formale di Rossi non esitarono a farlo additare come fascista: “Il partito stesso lo considerava fascio-stalinista, le sue forme non erano allineate all’ideologia corrente degli architetti che costituivano la linea di corrente culturale architettonica del partito comunista.”12. La sua personale amicizia con Carlo Aymonino lo avvicinò al PCI proprio nell’occasione della progettazione del Complesso del Monte Amiata. Tuttavia, Rossi non ascoltò mai le critiche del Partito al suo modus operandi13, la più celebre in occasione della Biennale ’73 da parte di Zevi che lo apostrofò: “Sei un porco! Sei un meraviglioso porco, ma sei un porco!”14. L’apprezzamento di Rossi nei confronti della Russia Comunista e del mondo sovietico è vastamente documentato da fotografie, memorie e commenti. Tuttavia, la più grande prova si trova nell’approccio progettuale: si può vedere lo stesso punto di vista che il realismo socialista e il neo-realismo applicano alla realtà. La teoria di Bloch, e soprattutto di Lukasč15 trovano un corrispondente costruito nelle opere di Rossi: l’uomo non si salva dall’oblio se non trova il suo posto nella Storia. In aggiunta a questo paradigma pasoliniano in cui solo la Storia salva l’uomo, Rossi aggiunge anche la dimensione intima, personale: l’uomo si salva nelle storie, nelle proprie vicende personali. Gli interni, lasciati liberi di raccontare e di creare memorie, portano all’unica salvezza dell’uomo. In un certo senso, salvano l’uomo dalla messinscena della vita civile. L’architettura, dunque, guadagna un ruolo escatologico 12
Cantafora, Ornaghi, Zorzi (a cura di), 2015.
13 Al contrario di Gianni Braghieri che ne teneva grande considerazione, causando dissapori tra i due collaboratori. 14
Ibidem.
15
Panza (a cura di), 2014. 69
Aldo Rossi, Edificio residenziale e a uffici in SchĂźtzenstrasse, Berlino, 1992. Modello. 70
e salvifico. Per le prime opere, ascrivibili al novero delle architetture civili, le relazioni di progetto sono laconiche, nascondono dietro una veste razionalista i veri significati politici e ontologici delle stesse: le relazioni per il monumento di Segrate16, ma anche per il Gallaratese17, si riducono a rielaborare razionalmente i contenuti architettonici, senza individuare i margini più ampi. Dopo i primi ’70, con l’utilizzo ricorrente dell’analogia come strumento progettuale, anche le relazioni guadagnano spessore. I significati di alcuni temi cominciano a disvelarsi fin dalla relazione per il Cimitero di San Cataldo18: si comprende, in questo documento, l’idea di istituzione, e il suo rapporto con i temi della morte (e dunque, trasponibile su ogni altro tema). Il sacrario, la casa dei morti senza tetto e finestre, è “un monumento urbano, e rappresenta il rapporto dell’istituzione con la morte”19, e ancora la ciminiera della fossa comune è un monumento che la città offre agli oppressi20. L’idea che l’istituzione, ovvero in senso lato, la città, costruisca sé stessa per monumenti, pone la visione di Rossi in una posizione antitetica rispetto all’idea modernista della città contemporanea. A fronte della ville radieuse, costruita attraverso macchine autoripetibili e identiche a sè stesse, prive di personalità e solamente arroganti nel dialogo architettonico, la città di Rossi aspira a contrapporsi alla dissoluzione dei luoghi con la costruzione di monumenti, simboli di un possibile salvataggio civico. Per arrivare a ciò, il passaggio per la figura dell’utopia è fondamentale: un’utopia positiva, realizzabile, che tuttavia condivide il mezzo dell’utopia negativa, il disegno21. Superata l’utopia, l’altro fondamento è la lezione della Storia, la riscoperta dei luoghi, senza tuttavia dimenticare che l’architettura ha anche una vocazione ubiqua22. Straordinario esempio è il palazzo rinascimentale come parte del complesso alla Schützenstrasse a Berlino23. Parallelamente alla nozione di ubiquità la 16 Sistemazione della piazza del Municipio e Monumento ai partigiani a Segrate, 1965, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 33-37. 17 46-51.
Unità d’Abitazione al Quartiere Gallaratese, Milano, 1969-70, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.
18
Cimitero di San Cataldo a Modena, 1971-78, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.54-68.
19
Ibidem.
20
Ibidem.
21
Rossi, Di Battista, Magnago Lampugnani (a cura di), 1990.
22
Stella Franco, La ricerca dei luoghi perduti, in: AAVV, 1998, pagg. 47-52.
23 Edificio residenziale e a uffici in Schützenstrasse a Berlino, 1992, in: Ferlenga (a cura di), 1996, pagg. 294-317. 71
Arduino Cantafora, La CittĂ Banale, 1980. 72
Storia propone anche una situazione di alterità, riassumibili nell’a-topia, cioè l’esser-ci nel neutro esistenziale della Città Analoga (e della cantaforiana Città Banale24). Superato il doppio paradosso utopia\ubiquità, l’architettura di Rossi può dunque approdare alla realtà, provando, con la propria monumentalità (paradosalmente antimonumentale25), a redimere il genus cittadino (umano e architettonico) dall’oblio.
24
Cantafora, Ornaghi, Zorzi (a cura di), 2015.
25
Si veda paragrafo Architettura Assassinata. 73
74
2. Anamnesi
75
76
Come discusso1, l’architettura di Rossi si concepisce per vocaboli. Come accade per qualsiasi linguaggio, i sintagmi si combinano in frasi con una sintassi propria rispondendo a una logica legata al messaggio da trasmettere2. Nascono così delle figure compositive dotate di senso (frasi). Questo procedimento succede naturalmente nel processo di crescita professionale e artistica di un architetto: all’atto della cristallizzazione del linguaggio, esso perde forza ma guadagna chiarezza e potenza combinatoria e riconoscibilità di brand3. Tale atto può essere più o meno palese, più o meno esplicito: dalle vacuamente sinuose linee di Dame Hadid alla schizofrenia di Libeskind, passando per la “leggerezza” di Foster o di Piano come per la bianchezza della austera firma portoghese, sembra che il periodo post-moderno non possa fuggire da un desiderio di mostrare la paternità dell’opera. Pur essendo parte del gotha del postmodernismo, Aldo Rossi rifugge scherzando questa denominazione, vantandosi di non essere mai stato moderno4. In effetti, il suo metodo a vocabolario lo pone in una condizione di neutro esistenziale e progettuale in cui la logica propria della realtà non attecchisce5. Pertanto la generazione di figure stilistiche nell’opera rossiana è tutt’altro che una velleità di brand, quanto una naturale fase del processo progettuale. Infatti, l’identico ha un significato esistenziale fondamentale6. Inoltre si profila un ulteriore filone di indagine, legato fortemente alla questione compositiva, ovvero quello che riguarda la progettazione degli interni. Come evidenziato7, il tema è affrontato da Rossi in maniera elusiva, quasi cercandone la negazione. Questo comportamento si trova in controtendenza con la prassi milanese dell’epoca, dove l’appartamento, luogo del non-lavoro guadagna sempre più valore nella sua retorica spaziale8. Tuttavia, osservando progetti dei maestri BBPR, Albini, Ponti, Gardella e degli allievi Viganò, Sottsass, Aulenti e Gregotti9, per noverarne alcuni, il silenzio di Rossi 1
Si veda paragrafo Architettura Assassinata e Architettura di Memorie.
2 Tra i principali assertori di un’interpretazione semiologica dell’Architettura si vedano Umberto Eco (La Struttura Assente, 1968) e Renato de Fusco. Per una chiave di lettura si veda: Panza (a cura di), 2014 3
Panza, 2016.
4
Cit. in: Stabile, 1987.
5
Si veda paragrafo Architettura di Memorie.
6
Rossi Aldo, Elogio dell’Architettura civile in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 237-38.
7
Si veda paragrafo Un Nulla Pieno di Storie.
8
Gasparin Alberto, La nuova centralità dell’abitazione, in: Rassegna 35, 1988, pagg. 51-55.
9
Si veda: Rassegna 58, Marzo 1994. 77
pare essere una scelta puramente architettonica. Di fronte alla nuova professione a cavallo tra designer d’interni e architetto, Aldo Rossi prende una posizione forte, di contrapposizione, e di alternativa. La sua stessa ammissione di disegnare gli appartamenti secondo la norma vigente10, indica come l’organizzazione spaziale degli interni sia non tanto marginale quanto da delegare a chi ci vive, per generare un paesaggio domestico proprio, colmo di memorie significanti. Alla luce di queste condizioni, analizzate nel primo capitolo, procederemo all’analisi di alcune forme vocaboliche ricorrenti nella progettazione spaziale di Aldo Rossi, indagando come queste entrino nel progetto di interni e lo plasmino, in qualche modo legandolo indissolubilmente all’immaginazione e alla storia personale dell’architetto milanese. Nasce così un inventario critico di spazi e percezioni, riferimenti e idee, per comprendere la messa in opera dell’architettura analogica di Rossi. Hegelianamente dalla tesi all’antitesi, dall’idea alla realizzazione.
10
Rossi Aldo, Alcuni miei progetti, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 13-14. 78
Gio Ponti, Villa Planchart, Caracas, Venezuela, 1953. Pianta. Aldo Rossi, Progetto per casa unifamigliare, Bracchio, Verbania, 1976. Pianta. 79
Vittoriano Viganò, Casa La Scala, Portese, Brescia, 1958. Pianta. 80
Aldo Rossi, Progetto per Villa Bay, Borgo Ticino, Novara, 1973. Pianta. 81
Luigi Caccia Dominioni, Casa in via Vigoni, Milano, 1961. Pianta. 82
Aldo Rossi, Progetto per Complesso Residenziale, Viadana, Mantova, 1983. Pianta. 83
84
2.1. Corridoi
L’Enciclopedia Treccani definisce corridoio l’“Ambiente, generalmente stretto e lungo, che serve di passaggio, comunicazione o disimpegno nelle case d’abitazione, [che] assume particolare importanza e sviluppo nei fabbricati di abitazione collettiva (alberghi, scuole, uffici e sim.) dov’è necessario che i singoli locali risultino reciprocamente indipendenti”. Il tema del corridoio nell’architettura è di recente sviluppo, considerandone l’assenza nelle modalità compositive pre-moderne. Infatti, all’idea di una sequenza mediata di stanze, è stata sempre preferita quella di sequenza diretta: basti pensare alle enfilades delle tenute regali francesi. Le radici di questo topos affondano, però, nella storia più antica, risalendo alle sepolture del Medio Regno egizio e all’epoca Micenea. Così come per le catacombe, il corridoio era un dispositivo funebre, da un lato celebrativo e dall’altro di protezione per il Tesoro che la tomba custodiva1. Rimane come sottotesto architettonico per la realizzazione dei monasteri e delle case a corte, ma non si esplicita mai fortemente come nel periodo moderno. Anche a livello urbano il corridoio, il Passage, guadagna importanza solamente a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Walter Benjamin ne fu un osservatore attento2, raggiungendo una conclusione pregnante, ovvero la ratio existentialis del corridoio. Il corridoio assume una funzione nel momento in cui viene percorso3. Il corridoio, per sua definizione, è “generalmente stretto e lungo”, e mediante questa sua peculiare forma si dimostra vincolante per il movimento e la percezione spaziale. Il corridoio propone solo l’alternativa avanti\indietro per il movimento, e costringe a una prospettiva centrale chi si sposta al suo interno. Il vincolo che il corridoio implica lo accomuna al topos del labirinto: Borges infatti scrive che questo è una incessante linea retta4. Dunque, alla base della forma imposta del corridoio ci sarebbe un desiderio demiurgico se non di dominazione da parte di chi controlla il corridoio (o chi lo progetta) su chi lo percorre. Diventa così un luogo architettonico ma anche etico\esistenziale nelle sue innumerevoli
1
D’Itri, 1999, pagg. 106-120.
2 Benjamin Walter, Parigi, capitale del XIX secolo. I «passages» di Parigi, 1986, cit. in: D’Itri, 1999, pag. 114. 3
Ibidem.
4 Jorge Luis Borges, La morte e la bussola, in: Jorge Luis Borges, Finzioni, 1982, cit. in: D’Itri, 1999, pag. 119. 85
Aldo Rossi, Luca Meda, Mostra nel Parco per la Triennale, Milano, 1964. Assonometria e sezione del ponte in ferro. 86
rappresentazioni e manifestazioni. Dal tunnel di 2001: Odissea nello Spazio5 al corridoio visuale del panopticon di Foucault, alle uscite dalla metropolitana, il corridoio ha sempre un significato di forzatura, di trappola, di obbligo o comunque di limitazione della libertà di movimento, in favore di un comportamento velatamente suggerito – e dunque controllato. Il corridoio è, in tal senso, un non-luogo domestico, per dirla con Augè6. Il sintagma-corridoio nel linguaggio di Rossi non si discosta totalmente da questo significato, o meglio, lo ripropone inconsciamente. I primi corridoi che nella cronologia rossiana si incontrano sono nel progetto per la sistemazione della mostra nel parco della Triennale 19647: il celeberrimo ponte a sezione triangolare e il lungo muro. Entrambi gli oggetti prevedono un qualche tipo di vincolo al movimento. Il progetto si propone senza un significato estetico, quanto prevede un fine immaginifico, un’esportazione di immagini proprie all’inventario personale degli architetti. Allora ecco i rimandi alle passerelle aeree degli edifici industriali o alle sezioni archeologiche8, nonché l’utilizzo di forme proprie di quello che sarà il vocabolario rossiano, ancora in nuce. La laconica relazione per il progetto del 1964 è però approfondita nel 1981, per l’allestimento della mostra “Architettura\Idea” alla Triennale di Milano9. Nella seconda relazione Rossi chiarisce alcuni punti di quella che si potrebbe definire una vera e propria poetica del corridoio, che resterà comunque un punto fermo nella composizione da lì in poi. Rossi inizia con l’affermare che l’impianto a corridoio (sperimentato nel ‘64 e nel ‘7310) si compone logicamente e sintatticamente di un muro con parecchie porte, da ciascuna delle quali si accede a un nuovo corridoio e a una sola stanza. Subito si può vedere come quell’ansia 5 Interessante come il luogo del corridoio della Discovery One, monodimensionale e forzato nella sua percorribilità anulare, sia contrapposto allo spazio del computer HAL9000, liberamente percorribile nelle sue tre dimensioni spaziali. 6
Marc Augé, Nonluoghi, 1993, cit. in: D’Itri, 1999, pag. 116.
7 Ponte in ferro e sistemazione di una mostra nel parco per la Triennale di Milano, 1964 in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 29. 8
Ibidem.
9 Allestimento per la mostra della Triennale di Milano, “Architettura/Idea”, 1981, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 190-191. 10 Per la mostra del 1973 “Architettura Razionale” Aldo Rossi è incaricato insieme a altri architetti, tra cui figurano Massimo Scolari e Gianni Braghieri di curare l’allestimento. Non rimangono tracce del progetto nella bibliografia consultata, ma possiamo evincere dalle dichiarazioni che Rossi porta nella relazione per la mostra Architettura\Idea che si trattasse di un allestimento che riproponeva il tema del corridoio e delle stanze, come nel 1964 e nel 1981. 87
Aldo Rossi, Progetto per Villa Baj, Borgo Ticino, Novara, 1973. Veduta Prospettica. 88
per l’identico che porta a ripetere il vocabolo sia presente anche in questo progetto11. Il percorso disegnato rimanda ancora, come già evidenziato per il progetto del 1964, alle sezioni archeologiche, a un certo tipo di stratificazione storica, di sedimento minerario. Il corridoio, tuttavia, instaura una narrativa propria, legata a una mitologia dell’attesa: “Ma la vita del corridoio ha una sua autonomia, fatta di incontri, attese, la sigaretta fumata nervosamente davanti ad una porta che si deve aprire, tempo perduto, parole dimenticate, un percorso compiuto velocemente e tante altre cose”12. Il corridoio pone la sua ragione, dunque, non solo nell’essere attraversato, ma anche nelle storie che si scrivono al suo interno, affiancando al punto di vista demiurgico “dall’alto”, che legge le stratificazioni minerarie nella forma dell’architettura, quello umano “dal basso”, che prova ansia, attende, racconta la sua storia. In ogni caso, entrambi i punti di vista sembrano essere all’attenzione dell’architetto. Rossi fa specchiare alla condizione di Dedalo, costruttore del labirinto, la condizione di Teseo, intrappolato. Solo la narrazione di una storia, sotto la forma dell’esposizione e del racconto, in questo caso mitico filo di Arianna riesce, a trasportare fuori dal corridoio il Teseo di turno. Il logocentrismo rossiano, dunque, trova nuovo terreno, nuovo spazio di azione. Lo spazio che viene costruito è tutt’altro che legato alla libertà narrativa: il soffitto basso e il celeste delle pareti ritmicamente interrotte lo fanno assomigliare più a un carcere infantile che alla Biblioteca di Boullèe, riferimento principe per l’allestimento13. Lo spazio è dunque angosciante e claustrofobico, scomodo, in cui, come nella Cabina dell’Elba, l’individuo fa i conti con le dimensioni del suo corpo, con la fisicità dello spazio ridotto. Si assiste dunque, in questi progetti, a un allargamento di prospettiva che fa capire come la narrazione della storia sia da effettuarsi su più piani sovrapposti, sia quelli propri di un narratore onnisciente, che quello del protagonista della vicenda individuale. Come per la narrazione di Roussel, non c’è soluzione di continuità tra i vari piani, sono tutti collegati da una storia più grande, che ha la forma del corridoio stesso. Rossi è dunque Dedalo e contemporaneamente Teseo, captor e captivus del suo labirinto narrativo: ne vive le storie tanto quanto ne tira le fila. La medesima frase architettonica si ripete nella pianta della Villa a Borgo Ticino14. Da un corridoio, ne scaturiscono altri quattro, che portano rispettivamente a quattro camere da 11
Si veda paragrafo Architettura Assassinata.
12 Allestimento per la mostra della Triennale di Milano, “Architettura/Idea”, 1981, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 190-191. 13
Ibidem per riferimenti iconografici.
14 Progetto per una villa e padiglione nel bosco a Borgo Ticino, 1973, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 92-96. 89
letto. La tipologia a pettine viene arricchita da un interessante soluzione in sezione a palafitta con copertura semicilindrica, legata alla tipologia delle case lacustri e fluviali15. Precedente alla dichiarazione “poetica” del 1981, la villa contiene in nuce già otto anni prima la soluzione basica del problema – il collegamento di storie parallele su un piano perpendicolare a esse, sia spazialmente, il pettine, sia narrativamente, la rousseliana narrazione perpendicolare16. L’esasperazione della narrazione del corridoio avviene nella proposta per il Municipio a Scandicci17. In tale progetto, la trave reticolare triangolare della prima mostra a Milano cambia solo forma – ma non riferimento - e diventa l’elemento cardine della narrazione. Il corridoio sospeso è filo rosso per una serie di forme semplici (cupola, timpano, volume pieno e corte) che grazie alla presenza di questo dispositivo narrativo prima ancora che architettonico guadagnano senso e relazioni; il corridoio come un nastro che collega la cittadinanza alla sua rappresentazione, che ne racconta liricamente lo scorrere del tempo, delle decisioni. Il dedalo narrativo del labirinto lascia spazio alla chiarezza descrittiva del corridoio: Rossi abbandona le spoglie di Dedalo e di Teseo, per indossare quelle molto più benevole di Steve Zissou che descrive con chiarezza narcisistica le componenti della sua nave Belafonte18, o di Ahab nei suoi impetuosi fiumi descrittivi19. Passa dalla narrazione in prima persona del dedalo alla didascalica descrizione di una serie. L’annullamento, della narrativa del corridoio viene effettuato nel Centro di Arte Contemporanea a Vassivière20. La forma è quella evidente di un corridoio, ma la sua narrazione avviene all’interno, con gli oggetti d’arte esposti, e soprattutto all’esterno, con il rapporto che questo edificio intrattiene con la natura circostante. L’ambizione è quella di annullare l’architettura e la sua narrazione: “Presto si identificherà con la natura circostante, realizzando quello che è forse l’obbiettivo più alto dell’architettura: ritornare essa stessa Natura”21. 15
Ibidem.
16
Si veda paragrafo Architettura Assassinata.
17
Progetto per il municipio a Scandicci, 1968, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 41-43.
18 Il riferimento è alla sequenza Voglio parlarvi della mia nave nel film Le Avventure Aquatiche di Steve Zissou (Wes Anderson, USA, 2004). 19
Melville, 1851.
20 Centro d’Arte Contemporanea a Clermont-Ferrand, Vassivière, 1988, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 114-124. 21
Ibidem. 90
Aldo Rossi, Progetto di un Municipio, 1973 91
Aldo Rossi, Vassiviere en Limousin, 1988. 92
Aldo Rossi, UnitĂ di abitazione al Quartiere Gallaratese, Milano, 1970. Porticato. 93
Aldo Rossi, Case Unifamigliari, Pegognaga, Mantova, 1979. Porticato. 94
Coerente alla figura del corridoio ritroviamo la figura del porticato, che altro non è se non l’apertura - permeabile o meno- da uno o due lati del corridoio. Esso mantiene il vincolo di percorrenza, ma la percezione che ne deriva è più aperta. Non sempre sfugge alla dichiarazione della narrativa, anzi, sembra ancor di più accentuarla. Il porticato-prototipo per l’opera di Rossi è certamente quello al Quartiere Gallaratese22, sebbene non venga mai più ripetuto nella sua forma iconica. Il porticato viene sostenuto dalla figura strutturale del setto sottile, ovvero del pilastro allungato in maniera tale che la percezione del vuoto tra i pilastri sia ridotta alla visione perpendicolare dell’apertura. L’effetto ottico che ne scaturisce è effettivamente quello di un corridoio dalle infinite porte, dal disegno cangiante, a seconda della luce, della posizione e dell’utilizzo. In questo caso, si intrattiene un interessante gioco costrittivo, che cambia regole a seconda della posizione di accesso al porticato: se si accede direttamente, nel senso longitudinale, si è invitati dalla continuità del segno-muro (che non è altro che un’illusione) a percorrerlo lungo la dimensione maggiore, come un corridoio vero e proprio; se l’accesso avviene trasversalmente, attraverso le aperture tra i setti, il movimento suggerito sarà invece esattamente l’opposto del precedente, perpendicolare alla dimensione maggiore, verso l’altra apertura che si trova di fronte. Rossi riprende le vesti di Dedalo e intrappola Teseo nella narrazione illusoria del dispositivo architettonico. Insieme al porticato, troviamo, ai piani superiori, i corridoi aperti, i ballatoi, di cui si sono accennate le potenzialità sociali nel paragrafo Architettura Politica. Per loro costituzione architettonica, i ballatoi sono fortemente prospettici, e sembrano, nella loro stretta prospettiva centrale, funzionare esattamente come il porticato: al percorso longitudinale se ne accosta uno trasversale (questa volta solo percettivo) riservato a chi lo abita. Il riferimento principale per Rossi è la casa lombarda, con i suoi porticati e i suoi passaggi coperti; non lo nasconde, lo ripete più volte nell’Autobiografia, e lo rende esplicito nel progetto per le case per operai a Pegognaga23. Ancora un porticato, ma decisamente meno denso rispetto a quello del Gallaratese, e con una genesi differente: non chiuso ma aperto, permeabile al paesaggio, votato più alla perpendicolarità che alla longitudinalità. Anche a livello urbano Rossi, quando chiamato a operare su un tessuto slabrato come quello della zona di Porta Garibaldi, oggi terreno del branding degli studi più luccicanti a livello internazionale, propone la stessa narrazione di corridoio24. D’altro canto, la scala urbana era già presente nella relazione di progetto del 1981: “Il corridoio è la strada, la camera è 22
Unità d’abitazione al Quartiere Gallaratese, 1969-70, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.46-51.
23
Case unifamigliari a Pegognaga, 1979, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 150-151.
24 321.
Progetto per l’area Garibaldi-Repubblica a Milano, 1991, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 31695
la casa”25. Il corridoio, dunque, affonda le sue radici nella cultura dell’edilizia classica milanese e padana, e viene usato come strumento narrativo, prima ancora che architettonico da Rossi. La tipologia a pettine che ne deriva porta su piani perpendicolari la narrazione. Rossi gioca con l’esasperazione e l’annullamento del modello narrativo del corridoio per generare tensioni tra parti o far scomparire l’architettura nella natura.
25 Allestimento per la mostra della Triennale di Milano, “Architettura/Idea”, 1981, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 190-191. 96
Aldo Rossi, UnitĂ di abitazione al Quartiere Gallaratese, Milano, 1970. Porticato. 97
Aldo Rossi, Cesar Portela, Museo del Mare, Vigo, 1992. Disegno di Studio. 98
Aldo Rossi, Progetto per l’Area Garibaldi - Repubblica, Milano, 1991. Planivolumetria. 99
100
2.2. Torri Con Treccani si definisce Torre “una costruzione di vario tipo, a sviluppo verticale più o meno accentuato”. La tipologia affonda le proprie radici ancora prima che nella storia, nel racconto, nel logos. Fondamentale, infatti, per capirne il significato nella visione rossiana, è la narrazione della vicenda della Torre di Babele1. La biblica torre causa dell’ira divina che disperse le genti è parallela, innanzitutto, all’Arca del diluvio: al simbolo dell’alleanza con Dio, si oppone il simbolo della Sfida a Dio2. Tuttavia, la dispersione delle genti non è tanto insostenibile, quanto lo sarebbe raggiungere il divino: la dimensione della terra, per quanto estesa, non è incommensurabile e ineludibile quanto quella celeste; insomma, Dio previene la perdizione dell’Uomo davanti alla propria contemplazione diretta3. Lasciando alle spalle l’esegesi Talmudica, la tipologia della torre permane come costante nell’architettura dall’antichità alla contemporaneità come simbolo di potere, sinonimo di presa di posizione sopra il territorio. Dalle torri di guardia nelle fortificazioni di ogni epoca, si passa rapidamente alle torri campanarie o ai minareti e ai grattacieli: ognuna di queste tipologie è la manifestazione di un determinato tipo di potere, che sia esso temporale, spirituale o economico. La torre impone un punto di vista differente, più affine a quello demiurgico e divino che a quello umano, e si offre come landmark definitorio dello status di dominante, riservato a chi abita la torre, e di sottomesso, destinato a chi guarda la torre. Non per forza è una relazione di potere nel senso tradizionale del termine: può applicarsi anche nel senso di relazione del guardare\essere guardati, del far rispettare le regole\rispettarle. Insomma, la torre genera una tensione tra due categorie opposte (ma non liquide), in cui una delle due guadagna ruolo spazialmente dominante e l’altra un ruolo spazialmente sottomesso. Per la sua natura “a sviluppo verticale più o meno accentuato”, la torre, quanto il corridoio, implica un movimento suggerito, ovvero quello di salita/discesa. Questo movimento viene accentuato da soluzioni architettoniche come scale e ascensori, che ne dichiarano l’intento di spostamento perpendicolare al suolo4. Al contrario del corridoio, la torre si propone 1
Gen 11, 1-9.
2
Claro, 2011.
3
Ibidem.
4 Koolhaas, 1978. Si fa risalire alla nascita dell’ascensore di Otis lo sviluppo della torre moderna, ovvero del grattacielo. 101
Alessandro Antonelli, Cupola per la Basilica di San Gaudenzio, Novara, 1887. Vista. 102
anche come luogo del sostare, e non è un puro interno, quanto è un organismo completo di interno e esterno, più o meno importanti ai fini della architettura. La torre, anche nel Rossi maturo, però, mantiene una certa natura fondalistica, e una certa indeterminazione: “La torre, tolta dagli sfondi dei miei disegni, è questo elemento verticale: forse il ricordo di una torre del Filarete, o una costruzione lombarda o qualcosa di più esotico.”5 Affine alla tipologia/lemma torre si trova la cupola. Nata da esigenze puramente tecniche (coprire una maggiore luce con il minore materiale possibile) in epoca romana, col passare del tempo ottiene un significato retorico legato al culto religioso e al suo spazio, per poi staccarsene in epoca pre-moderna e diventare un segno architettonico assolutamente retorico6. L’idea costruttiva di cupola si solidifica con il Seicento e il Barocco, come una costruzione a più strati, ciascuno anche dalla forma differente e dalla funzione differente7. La fascinazione per le cupole di Aldo Rossi si alimenta anche grazie all’interesse per il lavoro di Alessandro Antonelli8: “Tra le le prime passioni per l’architettura vi è certamente Alessandro Antonelli; di Antonelli ho sempre ammirato la coerenza ossessiva e la passione per la costruzione verticale […] egli portava all’estremo un sistema di costruzione tradizionale, le cupole in laterizio, che fatalmente dovevano essere abbandonate. Antonelli si opponeva a rompere delle regole antiche, quasi non potesse confrontarsi con le tecniche moderne per la loro elementarità.”9. L’interesse di Rossi per la costruzione verticale, è tutt’altro che secondario, anzi la statica assurda di queste costruzioni lo affascinava: “In effetti ho imparato da Salvador [Tarragò, ndr] la grandezza di Gaudiì, ma mi erano proprie le regole costruttive, la conduzione fino all’assurdo delle possibilità statiche, il bosco di colonne di Parque Güell dove gli elementi portanti si piegano in base a leggi statiche o surreali, la mezcla straordinaria tra ingegneria e fantasia, […] certo, era la statica. Il Colosso di Rodi, l’Empire State Building, il San Carlone, la Mole 5
La Macchina Modenese, 1983, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 251.
6
Bartolini Salimbeni, Bruschi, Miarielli Mariani, 2000.
7 Ibidem. Si ricorda come pioniere Brunelleschi a Firenze, per poi consolidarne la tecnica nell’opera di Michelangelo a Roma, Wren a Londra. 8 Alessandro Antonelli (1798-1888) fu architetto piemontese. La sua formazione neoclassica traspare nelle prime opere, principalmente palazzi in Torino e Novara. Le grandi commesse arrivano dopo la sfida alla gravità del Santuario di Boca (1830-1942), che lo porta alla visibiltà sul territorio novarese, dove lo troviamo a realizzare edifici di culto. Le opere più importanti furono il rifacimento del Duomo di Novara (1857-1869) e le due ardite Cupole che Rossi troverà quasi ossessive: la Cupola di San Gaudenzio a Novara, detta Pantheon Aereo (1841-1887) e la Cupola per la Sinagoga di Torino detta Mole Antonelliana (1863-1889). 9
Rossi, 1990, pag. 61. 103
Faro del New England, USA. 104
Antonelliana, l’Acquedotto di Còrdoba, i Missili di Huston, le Piramidi, le Torri Gemelle del World Trade Center e altre cose che non posso descrivere, come il pozzo di Orvieto”10. Le tipologie a torre e a cupola rientrano nell’indagine degli interni rossiani, poiché, come accennato, generano interni legati alla natura vertiginosa dell’architettura. Non rientrano nel novero dell’indagine, anche se sono fondamentali per comprendere la concezione della torre per l’architetto milanese, le ciminiere ma soprattutto le lighthouses. Scrive Rossi: “Il Faro […] è fatto per osservare ma anche per essere osservato […] tutte le torri erano fatte per osservare, ma ancora di più per essere osservati”11. Il faro esprime la sua natura nell’esterno, osserva l’esterno e viene osservato dall’esterno: l’interno è puro macchinario, tecnologia rotante, giocattolo sovradimensionato. La funzione del faro è l’esser-ci (Das-Ein), come è quella della ciminiera. Le vestigia memorande di un passato industriale si collocano come object trouvèe, senza ambire a una natura interiore, vista la loro dimensione. La storia collettiva si intreccia con gli oggetti impressi sulla retina della vita personale di Aldo Rossi, che platonicamente non riesce a fuggire, ma intrappola nel disegno12, e le ciminiere sono forme che catalizzamo la sua narrazione, come punti fissi nel flusso narrativo13. Si può notare, lungo l’arco professionale del Rossi una modifica fenomenica del sintagmatorre. Esso evolve, infatti, dalla forma della ciminiera verso la forma della Torre di Babele e infine della cupola post-antonelliana. Dalla ciminiera di Fagnano Olona14 avviene 10
Ibidem.
11
Rossi, 1990, pag. 96.
12
Moneo, 2004, pag. 135.
13 Per il tema del faro si rimanda ai seguenti progetti: Arco Trionfale a Galveston, 1987, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pag. 84; Fari nel porto per una esposizione temporanea a Rotterdam, 1988, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pag. 85; Teatro Faro a Toronto, 1988 in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 108-113; Centro d’arte contemporanea a Clermont-Ferrand, Vassivière, 1988 in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 114-124; Yatay di Pinocchio, architettura mobile per la Japan Design Expo ’89 a Nagoya, Giappone, 1989, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 174-175; Museo del Mare della Galizia a Vigo, Spagna 1992, in: Ferlenga (a cura di), 1996, pagg. 90-93. Nell’opera grafica: The Lighthouse, 1980 e Lighthouse con cornice Rosa, 1981 in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 110-113. Per il tema della ciminiera si rimanda ai seguenti progetti: Scuola elementare a Fagnano Olona, 1972, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 80-89; Progetto per una casa dello studente a Chieti, 1976, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 112-115; Progetto per la Landesbibliotek a Karlsruhe, 1979, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 142-147. Nell’opera grafica, tra le altre citiamo: L’architettura assassinata, 1976, in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 98-99; Citazioni Urbane, 1992, in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 208-209. 14
Scuola elementare a Fagnano Olona, 1972, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 80-89. 105
Aldo Rossi, Scuola Elementare, Fagnano Olona, Varese, 1972. Vista. 106
Aldo Rossi, Progetto per la Landesbibliotek, Karlsruhe, Germania, 1979. Prospetti. 107
Aldo Rossi, Progetto per una torre nel giardino di casa Alessi, Lago d’Orta, 1986. Vista, prospetti, sezione, piante. 108
Aldo Rossi, Progetto per il Museo Nazionale di Scozia, Edimburgo, 1991. Sezioni. 109
Aldo Rossi, Progetto per una torre civica, Pesaro, 1979. Prospetto, sezione, piante. 110
una lenta metamorphosis: il primo segnale sono i turriti progetti per Setùbal15 e per il Centro Direzionale di Firenze16; tuttavia, la potenza della ciminiera (creata ad hoc o già presente) rimane nei coevi progetti per Chieti17 e Karlsruhe18, nonché – mascherata da silos - nell’osservatorio per Villa Alessi19. Interessante è anche la soluzione adottata per il Museo di Scozia a Edimburgo20, memore dell’osservatorio lacustre, dove un forte processo analogico porta a accostare una Torre di Babele in miniatura, a una ciminiera-galleria che fuoriesce in un giardino Adamico nascosto da una quinta neoclassica non dissimile dalle prime gallerie del Pantheon Aereo dell’Antonelli a Novara. La forma della torre, somigliante sempre più spesso al topos estetico del giocattolo e della costruzione temporanea sembra trovare spazio nei primi anni ’80. La prima torre – stande-alone – che Rossi progetta è quella per Pesaro21, a chiusura di un progetto di centro urbano di Carlo Aymonino. La torre progettata da Rossi si pone formalmente a cavallo tra l’ambito del Faro, della Torre di Babele e dell’impalcatura provvisoria. Risponde, comunque al paradigma della torre che Rossi ha espresso nell’Autobiografia: vedere e essere visti. L’unica funzione ospitata è quella di terrazza, di punto privilegiato di osservazione, attiva e passiva. La struttura è un guscio in cemento armato, percorribile mediante una scala perimetrale in parte interna e in parte esterna. Quello che dunque l’architetto milanese propone è un rituale, un’esperienza ascetica, che platonicamente porta dal buio alla luce, accomunabile all’ascensione nel San Carlone accennata alcuni paragrafi addietro22. Interno e esterno si confondono, si continuano a vicenda pur restando dichiaratamente separati. Ecco che dunque, come nel caso del corridoio, la torre guadagna senso se scalata; solo all’atto dello scalare la torre acquista il significato ascetico del San Carlone. Il progetto per Pesaro, sebbene non costruito, rimane un forte riferimento nell’immaginario 15
Progetto per una unità residenziale a Setùbal, 1975, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 110-111.
16
Progetto per il Centro Direzionale di Firenze, 1977, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 122-127.
17
Progetto per una casa dello studente a Chieti, 1976, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 112-115.
18
Progetto per la Landesbibliotek a Karlsruhe, 1979, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 142-147.
19 Progetto per una torre nel giardino della Villa Alessi sul Lago d’Orta, 1986, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 292. 20 Progetto per il Museo nazionale di Scozia, Edimburgo, 1991, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 300-303. 21 Progetto per una torre nel nuovo centro civico a Pesaro, 1979, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag.152 22
Si veda paragrafo Architettura Umana. 111
Aldo Rossi, Portale per la Biennale di Venezia, 1980. Modello di studio. 112
rossiano, specialmente gli anni successivi. Vediamo spuntare la torre sullo sfondo delle tavole del Teatro del Mondo, ad esempio23. La torre di Pesaro, sempre più trasfigurata e virata verso essere immagine della Torre Babelica, assume un tono assolutistico che dichiara quell’ambizione mondiale, quindi collettiva, del Teatro. Spiega una delle infinite sfaccettature di senso che il teatro del mondo nasconde: come la Torre di Babele, o di Pesaro, il teatro è un’impresa di tutti, una sfida alla storia, punto di catarsi prima della dispersione del verbo e delle genti. Inoltre, la prima rappresentazione, L’Aleph24, opera tanto criptica quanto universale, rinforza questa aspirazione universale. Nel portale per la Biennale ‘8025 la ciminiera sembra aver ceduto il passo alla torre. Tre impalcature marinare troneggiano sulla quinta dotata di contrafforti, che lascia trasparire una dichiarata ispirazione: “In questo progetto della porta della Biennale di Venezia ho accentuato questo aspetto costruttivo che amo chiamare gotico – Tra i monumenti di questo carattere che mi hanno sempre attirato vi è certamente il Duomo di Milano”26. A una più attenta analisi, notiamo però che le tre torrette non sono abitabili: non soddisfano il requisito della torre, pur essendone la quanto più plastica e iconica nonché elementare rappresentazione. Sono puro landmark, esistono solo per essere viste, fari. Abbandonata la ciminiera, virata attraverso la torre-giocattolo verso la figura della Torre di Babele, il lemma si manifesta ormai ossessivamente. La torre più significativa si trova nel progetto per il Deutsches Historisches Museum (DHS) del 1988-8927. Quella proposta è in realtà una doppia torre: una, in mattoni e dalla forma babelica, ospita una birreria, un locale per mostre e le terrazze belvedere, l’altra, impalcatura prismatica semplice e sferoconclusa, contiene le scale e l’ascensore. Rossi arriva alla sublimazione della torre, definendone ulteriormente il limite ontologico massimo: dalla torre che ha senso solo se scalata, come il San Carlone, raggiunge la torre che ha senso se viene occupata a un livello
23
Il teatro del Mondo a Venezia, 1979, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.153-162
24
Cantafora, Ornaghi, Zorzi (a cura di), 2015.
25 Portale d’ingresso alla mostra di Architettura all’Arsenale, Biennale di Venezia, 1980, in: Ferlenga (a ccura di), 1987, pagg. 174-175. 26
Ibidem.
27 107.
Progetto per il Deutsches Historisches Museum, 1988-89, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 98113
Aldo Rossi, Progetto per il Deutsche Historisches Museum, Berlino, 1988-89. Modello. 114
Aldo Rossi, Progetto per il Deutsche Historisches Museum, Berlino, 1988-89. Sezione e Prospetto della Torre. 115
Aldo Rossi, Progetto per il Deutsche Historisches Museum, Berlino, 1988-89. Vista. 116
Aldo Rossi, Progetto per la piazza di ĂœskĂźdar, Istanbul, 1987. Assonometria. 117
Aldo Rossi, Monumento Urbano, Zaandam, Olanda, 1989. Esterno. 118
Aldo Rossi, UnitĂ di abitazione a La Villette Sud, Parigi, 1992. Disegno di Studio. 119
Aldo Rossi, Bonnefantenmuseum, Maastricht, Olanda, 1994. Esterno della cupola. 120
superiore. Separando la componente tecnica e mostrandone la subalternità28, la torre si manifesta puramente come luogo dello stare, del guardare e dell’esser visti, punto di riferimento visuale attivo e passivo sul nuovo profilo della Sprea. Alte torri sono proposte anche nel progetto per la nuova piazza di Üsküdar a Istanbul29. Quattro uguali rettangolari, con sommità vitrea (proposte come residenze e uffici), una babelica ottagonale, che dialoga direttamente con i minareti circostanti, che tradisce il desiderio di dominare terre e mari. Unica, geometrica e sospesa nel tempo è la Babele di Zaandam30, ma anche qui la sua preclusione ne dichiara la natura di landmark urbano. Incastonato nell’angolo di un lotto è invece la torre-silos per l’edificio a La Villette31, percorribile e vivibile all’interno, fortemente caratterizzata all’esterno dalla lamiera color blu elettrico. Non si analizzeranno le torri (nel senso di grattacieli) che Rossi viene invitato a progettare nel tempo, in quanto trovano ragione nel teorema koolhaasiano della ripetizione del piano32, rimandandone in nota alcuni esempi33. Nelle ultime realizzazioni del Rossi, la torre lascia spazio alla cupola. Il lemma ha memorie varie: ricalca la forma antonelliana, quella michelangiolesca e non è privo di suggestioni fantascientifiche34. Lo spazio di Maastricht35, descritto nel capitolo Un Nulla Pieno di Storie,
28 La torre, in realtà, non viene totalmente spogliata dei dispositivi di risalita, ma si ritiene che il corpo scale affiancato, ne catalizzi l’attenzione e la rilevanza architettonica. Si vedano i disegni per la torre, nonché i modelli in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 105-107. 29
Progetto per la piazza di Üsküdar a Istanbul, 1987, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 86-89.
30
Monumento Urbano a Zaandam, 1989, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 125-127.
31
Di Battista, Denence, 1992.
32
Koolhaas, 1978.
33 Si veda: Progetto per un palazzo di uffici a Buenos Aires, 1984 in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 252-257; Progetto per la “Torre del Sole” a Chiba City, Tokio, 1991, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 280283; Progetto per il nuovo Centro Direzionale di Kuala Lumpur “Il Castello”, Malesia, 1991, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 284-287; Progetto per l’Area Garibaldi-Repubblica a Milano, 1991, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 316-321. 34 Si veda Rossi, 1990, pag. 61, per comprendere le varie ispirazioni dell’architetto per la costruzione verticale. 35 Progetto per la nuova sede del Bonnefantenmuseum a Maastricht, Olanda, 1990, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 258-273. 121
Aldo Rossi, Bonnefantenmuseum, Maastricht, Olanda, 1994. Interno della cupola. 122
Aldo Rossi, Bonnefantenmuseum, Maastricht, 1990. Sezione 123
Aldo Rossi, Bonnefantenmuseum, Maastricht, Olanda, 1994. 124
prima apparizione della cupola36 nel catalogo rossiano, è “[lo spazio] più ambizioso”37del complesso, destinato a una natura non solo terrena ma mistica, in cui la luce, proiettata dalle piccole aperture direttamente e indirettamente rilega le dimensioni38. Correttamente concepita come cupola barocca, dimostra in sezione il distacco tra l’apparenza interna e quella esterna, matericamente incarnata dalla distanza cromatica tra l’Azzurro del cielo dell’interno e il grigio della lamiera esterna. Questa cupola però rivela il suo affiancarsi al lemma-torre di cui si è appena dimostrata la natura perversa legata all’osservazione attiva e passiva. Infatti, come per la torre di Berlino mai costruita, questa cupola possiede una terrazza -quasi un camminamento di ronda- raggiungibile mediante due silos (uno per le scale, l’altro per l’ascensore) posti all’inizio della passerella che cinge la sommità ogivale della cupola. Infine, due cupole gemelle, barocche, sono presenti a sommitare il progetto per un edificio a Friedrichstrasse a Berlino39. Nel linguaggio rossiano la torre e la cupola sono lemmi talmente forti che possono mantenere un’identità formale e iconica anche se rovesciati, ovvero se letti “in negativo” nel volume architettonico. È tale il caso del Teatro Carlo Felice40, dove la torre, trasfigurata in cono, taglia il volume sul foyer del teatro; un altro foyer vacuoturrocoperto è quello per il Bonnefantenmuseum41, cui sezione riporta alla Torre di Babele42. Il significato per Rossi del lemma-torre è quello del luogo dove vedere, ed essere visti43; assume, nel tempo, diversi connotati fisici e diversi significati: partendo da ciminiera, memoria di un passato operaio o simbolo di un ritorno a un arcadia industriale, trasfigura prima in torre-giocattolo e poi in Torre di Babele, con la velleità di rappresentazione 36 Lo spazio a cupola è presente in nuce nei primi schizzi di progetto per il nuovo Palazzo dei Congressi di Milano, si veda: Progetto per il nuovo Palazzo dei Congressi di Milano, 1990, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 214-223. 37
Van Grevenstein, 1994.
38
Ibidem.
39 305.
Progetto per un edificio in Friedrichstrasse, Berlino, 1991, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 304-
40 Progetto per la Ricostruzione del Teatro Carlo Felice a Genova, 1983, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 224-234. 41 Progetto per la nuova sede del Bonnefantenmuseum a Maastricht, Olanda, 1990, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 258-273. 42
Si veda paragrafo Un Nulla Pieno di Storie.
43
Rossi, 1990, pag. 96. 125
126
2.3. Spazi Sbagliati Paradigma fondamentale per la progettazione del gruppo di architetti che Rossi “guida” negli anni ‘70-‘80 e che egli stesso battezza Tendenza1 è la superimposizione di una ragione alla realtà. La matrice illuministica di tale comportamento è chiara2, e rinforzata dai non pochi indizi che Aldo Rossi dissemina sul suo apprezzamento al periodo settecentesco. Nel discorso architettonico, questa idea si manifesta mediante l’utilizzo di forme pure e geometriche, enfatizzandone la natura astratta e razionale3. Si è parlato, tuttavia, di una ragione. A guidare la forma non esiste un principio assoluto né forzatamente condiviso dal gruppo: è però è fondamentale che questo principio sia di natura razionale, e ciò si pone in opposizione dialogica con la tendenza organico/decostruttivista che negli stessi anni prendeva forma sulle due sponde opposte del Pacifico, in Giappone e sulla East Coast Americana, nonché negli ambienti newyorkesi sotto l’egida da Philip Johnson4. Il dialogo tra forma e realtà è spesso al limite del tentativo di una rifondazione professionale e politica, e sicuramente legato allo strutturalismo5. Il prodotto che ne deriva è, come sottolinea Ignasi de Solà-Morales “Un procedimento fortemente intellettualizzato e astratto: non ricorre né ai suggerimenti di altri campi del reale né trova nel mondo tecnico e artificiale della città moderna l’antinatura da assumere come riferimento figurativo nel momento di concepire la nuova architettura.”6. La natura puritana dell’approccio al progetto espressa da Solà-Morales viene messa in crisi dal metodo rossiano. L’autobiografismo, apparentemente, 1 Monestiroli, Maglica (A cura di), 2001. Una sintesi dei contributi alla Tendenza con la partecipazione dei principali architetti ad esse riferibili si ha avuta nella mostra “La Tendenza Architectures italiennes 1965-1985” al Centre Pompidou nel 2012. 2
Biraghi, 2008.
3 Si vedano i progetti dei maestri della Tendenza, quali Giorgio Grassi (Crespi, Dego (a cura di), 2004), Vittorio Gregotti (Colao, Vragnaz (a cura di), 1990), Antonio Monestiroli (Ferrari (a cura di), 2001), Guido Canella, Arduino Cantafora e, fuori dall’orbita milanese, Mario Botta (Dal Co (a cura di), 1985) e Franco Purini. 4 Si veda Birgahi, 2008. Per l’ambiente nipponico, la via della organic architecture prende il nome di Metabolismo e viene inaugurata da Kisho Kurokawa; sulla East Coast comincia negli stessi anni ‘80 la maniera di Mayne e Gehry, contemporaneamente al trend che vede i New York Five, e poi l’ondata decostruttivista dopo la mostra “Deconstructivist Architecture”, cavalcare sulla West Coast. 5
Solà-Morales, 2001.
6
Ibidem, pag. 118. 127
non potrebbe accostarsi alla razionalità dell’astrazione alla base del processo, a meno che la ragione che si pone in fondamento sia dimostrabile more non logico, con una coscienza freudiano/analogica, che accetta controsenso e salti nel vuoto, come li definisce il critico catalano7. In ogni caso, la forma ha la tirannia8 su ciò che non è forma, in primis sulla vita sia di Rossi che di chi poi si troverà ad abitare le sue architetture. Il distacco tra teoria e pratica risulta incolmabile, come avvertito da Ignasi de Solà-Morales9, in quanto l’utopia della forma porta alla generazione di forme insostenibili per chi abita10, o per gli stessi componenti architettonici – non solo quelli retorici, ma anche quelli tecnici. Se tutto è sottoposto alla forma, allora non è neppure importante la sua percezione da parte dell’osservatore. Platonicamente viene astratta e ri-inserita nel mondo. Questa astrazione porta a un “momento in cui uno si chiede se ha avuto senso costruire quegli spazi giganti, una volta privati del loro significato sacrale, in cui tutte le connessioni sincere e autentiche con la realtà sono perse, come Rossi stesso desidera. Rossi propone una auctoritas per la sua architettura che, se accettata, ci obbligherebbe a vivere nello strano mondo che ha generato.”11. Spazi enormi, come suggerisce Moneo, ma anche spazi angusti, sono all’ordine del giorno nella progettazione della Tendenza tra gli anni ’70 e ’80. Allontanando lo sguardo dal progettista milanese, troviamo esempi di questo fuorimisura12 nei progetti di Gregotti (come i progetti dello Zen, dell’università della Calabria, nel progetto della Bicocca), di Purini (si veda la piazza nuova di Gibellina), Grassi (la Casa per lo Studente di Chieti), Canella (il progetto per il Centro Direzionale di Novara) e altri. Lo spazio viene sospeso, surrealisticamente, in un universo dove la ragione geometrica detta le regole: “Oltre alla geometria vi è solo il naufragio”13, scrive Rossi. Tafuri, a proposito, scrive nel 1986: “Ma chi oggi si immerge in esso [nell’immaginario di Rossi, ndr] […] è costretto ad annullare spazio e tempo, a farli sprofondare nel nulla
7
Ibidem, pag. 124.
8
Moneo, 2004.
9
Solà-Morales, 2001.
10
Esattamente quanto l’approccio organicista porta alla non-generazione di forma.
11
Moneo, 2004.
12
Ancora lontana dalla bigness koolhaasiana (Koolhaas, 2001).
13 Progetto per la nuova sede del Bonnefantenmuseum a Maastricht, Olanda, 1990, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 258-273. 128
Vittorio Gregotti, quartiere San Filippo Neri (ZEN), Palermo, 1969. Planivolumetria. 129
Gregotti Associati, Progetto per l’Area Bicocca, Milano, 1986. Planivolumetria. 130
Vittorio Gregotti, UniversitĂ della Calabria, Rende, 1977. Passaggio. 131
Franco Purini, Laura Thermes, Sistema delle Piazze a Gibellina Nuova, Trapani, 1982-90. Vista. 132
Giorgio Grassi, Casa dello Studente a Chieti, 1976. Vista. 133
Aldo Rossi, Gianugo Polesello, Progetto per il Centro Direzionale di Torino, 1962. Planivolumetria (part.) 134
dello “spazio letterario”. Indecente e provocatorio, tale annullamento.”14. La questione del progettare appena fuori dall’uomo porta a considerare le dimensioni dell’individuo, e la sua percezione di sé e del mondo che lo circonda, e contemporaneamente la via della Tendenza porta a riconsiderare le dimensioni, le forme e le percezioni dell’architettura. Si manifesta così una contraddizione tra il fortissimo umanesimo del fondamento architettonico15 e la sua crisi davanti alla forma e alla sua surreale scalarità, che porta all’insostenibilità di qualsiasi riferimento as known, e al ripensamento dei fondamenti di senso, prima di tutto la dimensione e la percezione dello spazio in funzione della ragione formale. Il fuori-misura si propone fin da subito come leitmotif progettuale del Rossi, fin dal progetto per il Centro Direzionale di Torino16. Il progetto, sotto il motto Locomotiva 2, sviluppato con Gianugo Polesello, si rivela davvero fuori dalla scala: “L’unità direzionale è formata da un grande anello quadrato; il corpo di fabbrica ha una profondità di 20m. la struttura è formata da pilastri circolari che contengono i trasporti verticali e i servizi; questi pilastri sono liberi per 30m; al disopra di questa quota comincia l’involucro del grande edificio”17. L’intervento “radicalmente metropolitano”18, tradisce quella istanza dominatoria dell’architettura di Rossi19. Lo squilibrio tra enorme e minimo si delinea, col passare del tempo, parallelo alla contrapposizione tra esterni e interni. Emblematico è l’intervento al Quartiere Gallaratese20. Alla minimalità spaziale degli appartamenti (moduli di circa 50m2) si contrappone l’enormità degli spazi aperti, della piazza rialzata e dell’anfiteatro. La bandiera dello spazio pubblico fruibile è semplice da far garrire sopra a queste piazze, ma c’è qualcosa di più: la creazione di un orizzonte architettonico, la volontà di delimitare uno spazio aperto in scala metropolitana, come accadeva per Locomotiva 2. La nuova piazza urbana, in un luogo che urbano – prima del passaggio dei demiurgici Rossi e Aymonino non era, simbolo della civiltà nella periferia ultima di Milano. L’insostenibilità (meta)fisica rimane presente lungo tutta la parabola professionale del Rossi. Tutti i progetti di architettura civile parlano di una certa metafisicità, di una certa propensione al 14
Tafuri, 1986, pag. 169.
15
Si vedano i paragrafi precedenti.
16 Progetto per il centro direzionale di Torino, 1962, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 28. Si veda anche Moneo, 2004, pagg. 107-108. 17
Progetto per il centro direzionale di Torino, 1962, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 28
18
Ibidem.
19
Moneo, 2004, pag. 107. L’architetto spagnolo parla di totalitarismo, nel senso orwelliano del termine.
20
Unità d’abitazione al Quartiere Gallaratese, 1969-70, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.46-51. 135
Planimetria generale. Pianta generale del piano terreno. 47
Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Unità d’abitazione al Quatriere Gallaratese, Milano, 1970. Planimetria del piano terra. 136
Aldo Rossi, Unità d’abitazione al Quatriere Gallaratese, Milano, 1970. Vista dalla piazza rialzata. 137
Aldo Rossi, Progetto per l’Area Fiera-Catena, Mantova, 1982. Prospettiva (part.). 138
Aldo Rossi, Tecnoparco del Lago Maggiore, Verbania, 1994. Modello di Studio. 139
Cartolina dal San Carlone di Arona, Anni ‘60. 140
considerare lo spazio aperto piano democratico, come lo chiamerebbe Alberto Campo Baeza. Uno spazio aperto dove l’orizzonte è architettonico, le storie che si raccontano sono quelle della grande landa dell’architettura, un universo interno alle stecche. Le Piazze d’Italia rossiane sono molte, progettate e costruite: da Chieti21 a Firenze22, Mantova23 Perugia24, passando per Verbania25 e per il Giappone26. Contrapposti a questi spazi enormi troviamo degli spazi minimi, addirittura angusti, claustrofobici. I primi sono gli spazi tecnici, logistici: le scale. Spesso inscatolate in torrette aperte o semiaperte, soffrono la costrizione della forma. Iconica è la resa che questa scelta lascia nel progetto per lo studentato di Trieste27. Le scale sembrano costrette a collocarsi in uno spazio troppo piccolo per loro, uno spazio scomodo, volontà di un demiurgo che ha sbagliato le misure, o che forse desidera ancor di più costringere la percezione dello spostamento e dello stare di chi vive lo spazio. La stessa situazione costringe le false scale dell’allestimento del Teatro Domestico per la Triennale ‘8628. L’immagine che sembra guidare la mano di Rossi nel disegnare queste scale è quella del San Carlone delle cartoline che, fin dagli anni ’30, riproducono – più o meno fedelmente - il meccanismo di risalita nel corpo vacuo del santo: “Ripresa del disegno del San Carlone con sezione in mattoni e scala interna”29. Infatti nella classica iconografia popolare della statua l’immagine delle scale è pressochè identica a quella delle scale del Teatro domestico; inoltre Rossi continua a ripetere nella sua opera grafica questo spazio angusto, scomodo: sia nelle stampe che nei disegni, la figura meccanoscheletrica dello statuario santo ritorna, come un fantasma
21
Progetto per una casa dello studente a Chieti, 1976, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 112-115.
22
Progetto per il Centro Direzionale di Firenze, 1977, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 122-127.
23 199.
Progetto per la zona di Fiera-Catena a Mantova, 1982, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 196-
24
Progetto per l’area di Fontivegge a Perugia, 1982, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 199-209.
25 173.
Parco Tecnologico sul Lago Maggiore, Fondo Toce, 1993, in: Ferlenga (a cura di), 1996, pagg. 154-
26 Complesso alberghiero e ristorane “il Palazzo” a Fukuoka, Giappone, 1987, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 74-83. 27
Progetto per una casa dello studente a Trieste, 1974, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 104-107.
28 Il teatro Domestico, per la mostra “Progetto Domestico” della Triennale a Milano, 1986, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 285. 29
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 31, 13 Novembre 1985 – 29 gennaio 1986. 141
Aldo Rossi, Progetto una casa dello studente a Trieste, 1974. Prospettiva. 142
Aldo Rossi, Progetto una casa dello studente a Trieste, 1974. Prospettiva. 143
del passato e dell’infanzia30. Il progettare appena fuori ritorna nel progetto urbano delle grotte di Napoli31. La proposta prevede un’infilata di grotte sotterranee, a disegnare una specie di “Radiografia Urbana”32. Un progetto non legato a una funzionalità quanto a un’esperienza, che scopre ciò che l’immagine della città nasconde. Una sua componente sepolta, una dimensione nascosta: “Quale altra città può avere mantenuto il senso dell’“Antro”, questo luogo umbratile e misterioso, sinistro e divino?”33. Il progetto di cunicoli e cupole sotterranee, anche nella sua rappresentazione fisica di modello tradisce questa sua natura di angusto passaggio: un corridoio-canyon che taglia il tessuto urbano della città partenopea. In questa visione in cui storia e geologia si intrecciano Rossi immagina un San Carlone orizzontale, cunicolo dall’aura peregrinica ed escatologica. Un altro spazio urbano possiamo annoverare tra gli spazi “scomodi” di affezione rossiana: la terrazza sul Duomo di Milano. Viene citata nella Autobiografia, alla stregua di un progetto proprio: “Notevole esperienza dell’architettura del Duomo di Milano dove non salivo da molto tempo. Essa è collegata alla questione dell’allineamento degli elementi e, naturalmente, alla verticalità. Usciti dalla scala si percorre un lungo corridoio all’aperto. Il corridoio taglia gli archi rampanti mediante strette porte rettangolari che si succedono con il ritmo degli archi […] il piano della copertura è come una piccola piazza in pietra. Studiare le dimensioni della pietra. […] Questa struttura quasi elementare di fondo […] offre la possibilità di progredire dentro e sopra la città; la passeggiata sulla copertura del Duomo è infatti un’importante esperienza d’architettura nel senso urbano.” 34. Qui lo spazio che Rossi descrive è il termine di un climax di straniamento: la scala, il corridoio (già lemmi interessanti per la progettazione di Rossi) e infine la piazza sospesa sulla città, sopra uno scheletro portante. Come nel ventre di una balena scheletrica, o nel relitto di una nave, la piazza è attorniata da archi rampanti, costretta in uno spazio troppo piccolo per la sua vocazione di piazza. Lo spazio è rituale; l’accesso è possibile solamente 30 La riproduzione della statua del Santo o di parti di essa è davvero smisurata; a titolo di esempio si riportano Architettura e Immagini celesti, 1974, in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 86-87; Reliquie, 1989, in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 178-179; Senza Titolo, [1997], 6/10, 7/10, in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 242-243. 31
Progetto per l’area di monte Echia, Napoli, 1988, in: in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 134-135.
32
Ibidem.
33
Ibidem.
34
Rossi, 1990, pag. 89. 144
dopo una risalita purificatoria; l’esperienza è del tutto simile a quella del San Carlone: un’architettura catartica, scomoda, uno spazio minimo. Infine il Bonnefantenmuseum35, con la sua scala stretta tra due muri. Sintatticamente, la scala si propone come dispositivo di passaggio tra la Torre di Babele e la Cupola. Tuttavia all’interno della frase prospettica in cui si esprime (muro/scala/lucernario), la scala rimane elemento sottomesso. La massività dei due muri, ciechi ma poeticamente potenti, costringe la scala a un’immobilità impropria, a una memoria olandese, marinara, paradossalmente naufragante: “Ora saliamo la scala. È inutile ricordare quanto questa scala, ripida e poco agevole, di antica tradizione olandese, sia legata al mondo gotico delle taverne shakespeariane, come ai traballanti personaggi di Josef Conrad e di tutti i nordici naufragi nei mari del sud.”36. Naufragare è essere fuori dalla geometria, è entrare nel ricordo mediante il risalire della scala; è l’esperienza del minimo, della scomodità della Cabina dell’Elba.
35 Progetto per la nuova sede del Bonnefantenmuseum a Maastricht, Olanda, 1990, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 258-273. 36
Ibidem. 145
146
2.4. Giocattoli Il processo progettuale che Rossi utilizza, come spiega lo stesso autore e come precedentemente indagato, è basato sulla “addizione tra logica e biografia”1. La componente autobiografica ed auto-referenziale è fondamentale per la progettazione, al punto da renderla spesso criptica e a tratti oscura. Se la logica che fonda l’architettura di Rossi, e in generale della scuola milanese2 è la linea neorazionale del dominio della forma, la biografia che Rossi aggiunge rende la sua opera più densa di significati, più potente e in qualche modo l’unica nel panorama italiano che sia assunta a riferimento tuttora autorevole3. “Sapere e sentire”4 è la formula che Rafael Moneo utilizza per riassumere il locus progettuale in cui si colloca la proposta rossiana. Dopo essere stato schiavo della conoscenza, nel secondo periodo della sua storia professionale Rossi si abbandona al servizio del sentimento5. La memoria personale permea ogni singolo disegno, progetto, analogia. I Quaderni cominciano a riempirsi di memorie personali, le relazioni a densificarsi di contenuti metaprogettuali. La derivazione di questo affondo nel mondo della analogia è da ricercare dai tardi anni ’70, dal momento in cui lo storytelling rossiano raggiunge la dimensione perpendicolare rousseliana6. Infatti dalla dilatazione proustiana del tempo, Rossi scivola verso una costruzione a sovrapposizione, tipica del calembourista parigino. Sovrappone immagini, significati, memorie, icone e narrazioni per generare una struttura di senso perpendicolare. Questa sovrapposizione implica per forza contraddizioni e straniamenti. Il più evidente riguarda la forma: Rossi sembra virare dalla liricità dei primi progetti, che amplificano il loro significato nel tempo ponendosi come assoluti, verso forme più esistenziali. Dall’ente si passa all’esser-ci. Dal manifestare la propria cosalità come paradigma, le forme passano a significare altro (DasEin), un senso direttamente fuoriuscito dall’autobiografia esperienziale di Rossi. Se il neorazionale sembra perdere potenza a livello teorie della progettazione, non perde potenza nel mondo delle forme. Sono comunque necessarie delle forme geometriche, chiare e logiche. Il passaggio di senso avviene sub-liminalmente, nella dimensione del pensiero 1
Rossi, 1990, pag 29.
2
Si veda paragrafo Spazi Sbagliati.
3
Moneo, 2004.
4
Ibidem.
5
Ibidem.
6
Si veda in particolare Roussel, 1979. 147
Aldo Rossi, Teatrino Scientifico, 1978. 148
dell’architettura, e poi si manifesta fenomenicamente con un nuovo modo di utilizzare i lemmi formali che già esistevano nel vocabolario rossiano. Finestre quadrate a quattro vetri, rimando alle finestre crociate rinascimentali, timpani, colonne cilindriche, torri e corridoi non sono abbandonati da Rossi, anzi tornano ancora, con più potenza, all’atto del cambio di paradigma, poiché assumono significati altri, memoria, citazione, analogia. La memoria che Rossi ripesca è principalmente quella infantile. Numerosi sono nell’Autobiografia i ricordi puerili che l’architetto ripropone, dalle gite sui Sacri Monti ai pomeriggi al Lago Maggiore. La forma del giocattolo è quella che pervade la fenomenologia rossiana. Non è il primo architetto a approcciarsi alla progettazione usando lo strumento ludico. L’illustre precedente Frank Lloyd Wright7 non nasconde l’influenza dei giochi di Froebel come scintilla genetica della forma dell’architettura. Nel caso di Rossi, non solo si parla di giocattoli come mezzo ma anche come fine: c’è il desiderio di far ricordare alle proprie architetture le costruzioni di legno. L’infanzia di Rossi non è solo fatta di giocattoli; sono memorie del piccolo Aldo anche la teatralità delle cappelle delle narrazioni dei Sacri Monti, le caffettiere e gli utensili domestici che rimangono indelebili nel progettare della maturità dell’architetto Rossi. Questa memoria, però, nota Tafuri, è silenziosa: “La mèmoire di Rossi è erede dell’autobiografismo straripante della cultura italiana degli anni cinquanta; ma all’opulenza delle affabulazioni di Gadda, essa preferisce un’arcaica silenziosità.”8. Queste suggestioni sono tutte presenti nel Teatrino Scientifico9. Scrive lo stesso Rossi che “Il teatrino è la costruzione di un oggetto tra la macchina, il teatro e il giocattolo”10. Il piccolo dispositivo che Rossi costruisce nel 1978 lo rende il demiurgo della sua piccola nuova realtà. Tafuri nota che lo spazio della rappresentazione e la rappresentazione dello spazio coincidono, in un luogo sospeso nel tempo, fermo per sempre e da sempre alle cinque del pomeriggio (colorate dall’Azul de Atardecer)11. Il ritornare a una dimensione infantile, sospesa, è evidente in questo device, che Rossi definisce “Una macchina per esperimenti architettonici”12, un laboratorio di prototipi di memorie, prima che architettonici13. Scrive 7
McCarter (a cura di), 2012.
8
Tafuri, 1986, pag. 169.
9
Il teatrino scientifico, 1978, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 128-129.
10
Ibidem.
11
Tafuri, 1986, pag. 169.
12
Il teatrino scientifico, 1978, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 128-129.
13
Ibidem. 149
Aldo Rossi, Teatrino Scientifico, 1978. 150
infatti Rossi “[il teatro] si convertirà in un laboratorio nel quale il risultato dell’esperienza più lucida sarà sempre imprevisto”14. La forma è quella di una casa, unico topos architettonico in grado di concentrare la potenza narrativa del vuoto rossiano. Il piccolo teatro è figlio di Roussel15, e del suo enorme teatro di marionette di Impressions d’Afrique, che ha la capacità di essere la città esso stesso. Archetipicamente rappresentata dalla forma della Cabina, la piccola casa dell’architettura è un universo parallelo, uno scombinamento delle relazioni naturali di interno e esterno, come accade per il Teatro Carlo Felice a Genova, o in parte a Venezia per la Fenice16. Il paradosso spaziale del teatro porta Rossi alla creazione di uno spazio interno che ospita a sua volta un esterno, falso fondale per esperimenti poetici. Tafuri scrive che Rossi vuole convincerci della coincidenza tra rappresentazione dello spazio e spazio della rappresentazione17, ma, leggendo in filigrana si può comprendere come Rossi intenda sovrapporre narrazione e realtà. L’architetto ci porta nella sua realtà sospesa alle cinque del pomeriggio, dove bisogna ubbidire alla auctoritas che, nel paradigma paradossale, l’architettura ottiene con la sospensione del tempo e dello spazio as known18. Quello che Rossi ha tra le mani (letteralmente, viste le dimensioni limitate a 65x55x62cm) è uno strumento potentissimo, che gli permette di strappare dai fogli i disegni, per immergerli in una dimensione ulteriore. Avvicendandosi sul palco, scenari architettonici ipotetici guadagnano una differente condizione ontologica, a cavallo tra il reale e il rappresentato. Scrive Johan Huizinga, teorico dello studio dei giochi: “Gioco è un’azione che si svolge entro certi limiti di luogo, tempo e senso, in un ordine visibile, secondo regole liberamente accettate e fuori dalla sfera dell’utilità o necessità materiali”19. Tale può benissimo essere la definizione di questo Teatrino: un macchinario per giochi architettonici, dove il Rossi (o chi crea la scena) diventa demiurgo, autore della commedia in scena. Dispositivo di onnipotenza in mezzo metro quadrato. Scrive Moneo a riguardo: “Il “Teatrino Scientifico” sarà, poi, il luogo nel quale l’architettura compare, nel senso che si usa quando si parla di apparizioni e fantasmi. […] Vediamo poi materializzarsi in scena tutta quella iconografia rossiana che già ci è familiare e che sembra acquisire, per mezzo della sua condizione 14 Rossi Aldo, Braghieri Gianni, Freno Roberto, Teatrino Cientifico (trad. dell’autore), in: 2C. Construcción de la ciudad, 1979. 15
Ibidem.
16
Si veda paragrafo Un Nulla Pieno di Storie.
17
Tafuri, 1986, pag. 169.
18
Moneo, 2004.
19 Johan Huizinga, Homo Ludens, 1939, cit. in: Brovelli, Digregorio, Perondi, Editoriale in: Progetto Grafico 27, 2015. 151
Aldo Rossi, Teatro del Mondo, Venezia, 1980. Interno. 152
teatrale, il valore di “opere complete”. Le colonne del Gallaratese, il San Carlone, le ciminiere di Modena, le costruzioni industriali, le caffettiere alla Morandi, le ringhiere con la Croce di Sant’Andrea, palme, le casette delle spiagge come quelle di Chieti, torri ottagonali infinite o tagliate. Tutto ciò sotto la luce del pomeriggio, che ci ricorda quella dei quadri di Hopper. […] Il “Teatrino” sarà il paradigma della città, al convertirlo a sua rappresentazione, al materializzarsi della sua memoria. Teatro della Memoria, Teatro dell’Architettura. […] Rossi disegna – o costruisce, è uguale – diverse scene per il suo teatro: una città completa; però, quali sono i sogni di Rossi? Qual è il risultato di convertire in realtà i desideri attraverso la miracolosa “macchina milanese” capace di “fare architettura”? […] A mio modo di vedere, però, “il Teatrino Scientifico” non è l’occasione per costruire tutto quello che l’architetto, dimenticato e abbandonato dalla società, desidera: la macchina da sempre la stessa risposta. Tutte le strade portano alla Roma dell’Architettura e il teatro restituisce sempre la stessa immagine, quella della Architettura, sia che si tratti della “piazza di un villaggio padano” che se si tratti di evocare l’atmosfera di uno stabilimento balneare. Nessuno che abbia seguito il percorso di colui che ha inventato la macchina si può sorprendere del modo in cui è stato assemblato il meccanismo, perché tale è per forza”20. Il Teatrino, per Moneo ha dunque un vizio di forma; macchina per creare Architettura, non può che creare Architettura. Le memorie, le forme e tutto quello che Rossi inserisce come input nella sua macchina non possono dare altro che un unico output, l’Architettura. Visto il presupposto teorico che Rossi dà agli input lavorati dagli ingranaggi teatrali, essi non possono che fornire l’immagine dell’Architettura come risultato. Null’altro, secondo Moneo. Non restituisce memorie, tantomeno può concorrere a crearle. Altro esempio di progettazione di giocattoli a scala urbana è il Teatro del Mondo, preparato per la Biennale ‘8021. Di questa architettura il primo rimando al giocattolo è la sua stessa forma: una più che elementare scatola sormontata da un tetto a falde, coronato da una sfera e una bandiera. Mai nulla di così infantile la penna di Rossi disegnò. Il faro galleggiante per la laguna si impone formalmente sullo sfarzo dei palazzi dei mercanti e dialoga invece con la Punta della Dogana e con la chiesa del Redentore in Giudecca, creando suggestioni mutevoli, discorsi d’ombre e di luci intercorsi tra i vicini. Anche la materialità del teatrino suggerisce una natura ludica. Rossi imputa la scelta del legno a una necessità di una
20 Moneo Rafael, La Obra reciente de Aldo Rossi: Dos Reflexiones (trad. dell’autore), in 2C. Construcción de la ciudad, 1979. 21
Il Teatro del Mondo a Venezia, 1979, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 153-162. 153
Teatro del Mondo, Genova, 2004 (ricostruito dal progetto originale di Aldo Rossi). Montaggio. 154
Aldo Rossi, Teatro del Mondo, Venezia, 1980. Vista. 155
Aldo Rossi, Teatro del Mondo, Venezia, 1980. Interno. 156
rapida costruzione22, contestualmente rimanda a un certo tipo di immaginario puerile, a un montessoriano gioco ligneo. Inoltre, la sua struttura, in tubi Innocenti, richiama ancora lo stesso immaginario meccanico, di montaggio e smontaggio, delle scatole Meccano: la sua effimericità, come quella di Sofronia raccontata al Khan da Marco Polo, memore delle stagioni balneari e dei barconi sul Ticino dell’infanzia23, diventa un pretesto per una scelta formale forte, poetica e prototipica. Chi assiste allo spettacolo viene invitato a entrare in questo universo parallelo, in questo altro-spazio24 infantile, che inquadra una realtà alternativa. La struttura galleggiante poteva ospitare fino a 400 spettatori: a differenza del Teatrino del 1978, solo paradossale scena, il Teatro del Mondo si esprime in tutta la sua potenza nella sua scala umana, quindi abitabile. La realtà parallela che l’architetto propone è un gioco: al suo interno, sulla scena avviene una azione, con una normativa bilateralmente accettata e senza una diretta utilità. A differenza del Carlo Felice, manifesto del teatro del vedere e essere visti, il Teatro del Mondo si pone come un altro-spazio, che trascende le sue dimensioni e approda al porto del memorabile. Non si astrae dal contesto (esattamente come i foucaultiani altri spazi): le finestre inquadrano ancora la Giudecca e la Laguna, la nausea dondolante è parte dell’esperienza, le finestre a croce proiettano – quasi meridiane – il lento passare del tempo25. La memoria storica del teatro veneziano, quella personale delle imbarcazioni raminghe sul Ticino e dei fari della costa Atlantica dell’Europa e degli Stati Uniti, concorrono a dare forma a questa che prima di essere una architettura è già memoria, clichè: “Nella sua breve vita esso stava diventando parte di quella Venezia turistica, da souvenirs, da foto di gruppo; che poi è una parte della realtà di Venezia.”26. Con quest’opera Rossi si colloca definitivamente nel gotha del Postmodern colorato, iscrivendolo nel novero – mai veramente sopportato - insieme a Stirling, Venturi, Moore, Graves. Tre sono i meccanismi che Aldo Rossi mette in atto per scivolare da realtà a gioco e viceversa: composizione, proiezione e cambio di scala. La progettazione dei primi anni, procede all’accostamento di vocaboli semplici, come Rossi racconta nel settimo Quaderno Azzurro27; l’aspetto che ne esce, spesso, è fortemente legato all’immagine del giocattolo. La composizione per vocaboli porta a qualcosa di più, a un 22
Ibidem.
23
Ibidem.
24
Foucault, 1984.
25
Il Teatro del Mondo a Venezia, 1979, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 153-162.
26
Ibidem.
27
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 7, Architettura Analitica. 28 maggio- 23 giugno 1971. 157
Aldo Rossi, Monumento ai Partigiani, Segrate, 1965. Vista. 158
senso unitario, ma la sua rappresentazione spesso ne è semplificante, e più affine all’idea delle facciate delle chiese barocche che a una rappresentazione “regolare” dell’architettura. La sintassi non è altro che paratassi di vocaboli: ognuno in relazione con l’altro, ma senza guadagnare senso da questo accostarsi se non strutturale. Eppure Rossi cerca un senso ulteriore: “Credo però che si possa stabilire ancora una arch. Diversa sia dal montaggio dei singoli pezzi sia dalla ulteriore definizione che in queste composizioni acquistano determinati elementi dell’architettura [naturalmente le composizioni acquistano poi un senso in sé ma di questo non vorrei occuparmi per ora, dal punto di vista della teoria architettonica questo è un limite.”28. Rossi manifesta la sua natura di giocattolaio fin da subito: nel monumento alla Resistenza di Cuneo29, nel progetto per la fontana del Centro Direzionale di Milano30, e ancor di più nella fontana di Segrate31. In quest’ultima opera è latente un senso di compresenza della forma astorica della costruzione e della funzione della fontana, come lo stesso Rossi individua essere non percepita dal critico Costantino Dardi: “Singolare che anche Dardi nell’analisi di Segrate (il Gioco Sapiente) insista sulle componenti geometriche, monumentali dimensionali ecc. e non accenni a un certo carattere di macchina della fontana in sé. A me questo carattere sembra molto evidente anche nel disegno pubblicato. Forse perché si tratta di un elemento non dichiarato”32. Un giocattolo a scala urbana, composto di un cilindro, un prisma e una scala, costruzione di un demiurgo che studia le opere di Alberto Savinio. Elementi semplici che nel settimo Quaderno tornano come fondanti l’architettura, uniti a un meccanismo, cui Rossi appunto accenna nel tratto di memoria appena riportato. Come le caffettiere, compagne dei pomeriggi infantili33, anche i giocattoli urbani hanno qualcosa di mobile, come un’anima meccanica. Questa allure di gioco rimane per tutta la storia architettonica del Rossi, come una vena riaffiora in alcuni momenti più manifestamente ma mai viene dimenticata. Come nei quadri di Savinio, Rossi cerca di far reagire la realtà – dal pittore usata infatti come sola scenografia – con una massa lirica di giocattoli colorati, 28
Ibidem.
29 26.
Progetto per il monumento alla Resistenza a Cuneo, 1962 in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 25-
30 Meda Luca, Rossi Aldo, Fontana monumentale nel centro direzionale di Milano, in: Casabella\ Contuinuità 276. 31 Sistemazione della piazza del Municipio e Monumento ai partigiani a Segrate, 1965, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg. 33-37. 32
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, Quaderno 8. 10 luglio - 31 luglio 1971.
33
Rossi, 1990. 159
Aldo Rossi, Monumento a Sandro Pertini, Milano, 1988. Vista. 160
portatrice del senso metafisico dell’opera. In generale tutto il corpus progettuale del Rossi può essere annoverato nel gruppo dei giocattoli, vista la sua evidente propensione alla semplificazione della forma fino al ridurla a oggetto composto di forme semplici. Alcune opere sono esemplari: già si è parlato del Teatro del Mondo e del teatrino Scientifico, nonché del portale della Biennale ‘8034. Evidente è anche il ritorno al lessico primordio del Monumento a Pertini in piazza Croce Rossa a Milano35. Scala, timpano, muro pieno tagliato e acqua sono elementi che riemergono dagli anni ’60, e gioiosamente trovano la loro forma nel monumento: “Il monumento di piazza o largo Montenapoleone è terminato. Purtroppo non la piazza. Mi sembra molto bello anche se suscita le solite reazioni | ma io penso che in poco tempo sarà parte della città. È strano che io non riesca a comunicare la gioia del suo significato e sia invece quasi inteso come opera fredda ecc. | per non dire il peggio”36. Al contrario delle opere di Savinio, la massa lirica non è estranea, ma desidera essere metabolizzata nella città: “Concepita come una tranquilla piccola piazza lombarda, un luogo per incontrarsi, mangiare un panino o farsi una foto di gruppo”37. Un’altra manifestazione di questo tema è lo Yatay38 di Pinocchio per il centenario di Nagoya39. Avvicinandosi alla tradizione giapponese, Rossi propone una delle realizzazioni più interessanti della sua parabola progettuale. A cavallo tra teatro, carro e bancarella, questo Yatay si compone paratatticamente di più elementi ascrivibili alle categorie di Torri e Cabine. Come in un trenino, in fila dietro al trattore guidato da Pinocchio, si colloca una Torre-Faro circondata da alcune Cabine; il secondo vagone è un teatrino coperto da una volta a botte, il terzo una cabina, come pure il quarto. Il secondo strumento creativo è quello della proiezione: con proiezione intendiamo lo 34
Si veda paragrafo Torri.
35 Monumento a Pertini in piazzetta Croce Rossa a Milano, 1988, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 146-150. 36
Rossi, Dal Co (a cura di), 1999, cit. in: Celant (a cura di), 2008, pag. 158.
37 Monumento a Pertini in piazzetta Croce Rossa a Milano, 1988, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 146-150. 38 Uno Yatay (屋台) è una bancarella-ristorante temporanea, mossa da un mezzo esterno (animale, bicicletta, motocicletta, automobile). Popolari dal periodo Meji (1868–1912), con il boom dell’economia nipponica si diffusero largamente in tutte le città. Per le Olimpiadi del 1964 vennero introdotte nuove norme sull’igiene, portando al declino di queste attività che vennero costrette a chiudere; oggi rimangono diffuse in poche città. 39 Yatay di Pinocchio, architettura mobile per la Japan Design Expo ’89 a Nagoya, Giappone, 1989, in: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 174-175. 161
Aldo Rossi, Yatay di Pinocchio, Nagoya, 1989. 162
Aldo Rossi, Cimitero di San Cataldo, Modena, 1971. Tavola di concorso. 163
Aldo Rossi, Piazza, per Alessi, 1983. Disegni. 164
spostamento della forma dalla dimensione reale o realistica a quella astratta sotto una forma grafica (l’opposto della costruzione); avviene nei vari teatri, soprattutto nel Teatrino, di cui abbiamo avuto modo largamente di dissertare: le scene che Moneo dichiara a cavallo tra il disegnato e il costruito sono un esempio40. Avviene anche in un altro caso, emblematico, il Cimitero di Modena41. Più volte, nella Autobiografia e nelle memorie dei colleghi si fa riferimento al Gioco dell’Oca. “Questa tavola era destinata a una mostra e, nel disegnarla, ci rendevamo conto di abbandonare il percorso originale per seguire una sorta di labirinto costruttivo. In realtà questo labirinto ci divertiva perché trovavamo in esso il gioco dell’oca, pensando di farne un gioco per bambini. Ma come non ricordare che, proprio da bambini, l’elemento sinistro di questo gioco era rappresentato dalla casella della morte e quindi il contenuto era qualcosa di automatico nella progettazione?”42 scrive Rossi nella Autobiografia, riguardo al Cimitero. “Pezzi, frammenti, briciole, delle più svariate origini, convergono per comporre un atlante con cui giocare e montare ad esempio “Il gioco dell’Oca” coi frammenti del Cimitero di Modena.”43 invece ricorda Cantafora. Il passaggio tra realtà (e progetto) e irrealtà permette l’accesso del progetto al novero degli oggetti d’affezione, e di guadagnare in tal modo ulteriore senso. Il terzo meccanismo è il gioco di scala44: con esso si intende il riproporre temi, forme e approcci tipici di una scala in un’altra. Che esso avvenga a livello grafico, progettuale o realizzativo, ormai non conta più: la realtà di Rossi trascende il supporto. Gli esempi più chiari di questo gioco di scala si incontrano nella Conica, nella Cupola45e nella Piazza46 disegnate per Alessi. L’approccio per il progetto di design era il medesimo che veniva usato per l’architettura, come spiega Alberto Alessi: “Aldo Rossi aveva un modo di rapportarsi con i tecnici totalmente diverso da quanto avevamo sperimentato fino ad allora: faceva degli schizzi, poi li presentava e aspettava che i tecnici facessero tutte le osservazioni e le correzioni, anche importanti. Sembrava che gli andasse tutto bene! Per lo zio [Ettore Alessi, ndr] e Casalino [collaboratore Alessi, ndr], reduci dal rapporto con Sapper era un atteggiamento scandaloso, tanto che un giorno lo zio glielo disse, con il suo modo burbero: 40
Moneo, in: 2C. Construcción de la ciudad, 1979.
41
Cimitero di San Cataldo a Modena, 1971-78, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.54-68.
42
Rossi, 1990, pag. 31.
43
Cantafora Arduino, Per Gioco, in: AAVV, 2008.
44 In modo diverso, lo stesso strumento progettuale dello scaling verrà utilizzato da Peter Eisenman – con finalità e forme differenti. 45
Rossi Aldo, La Conica, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 294-296; Alessi, 2001.
46
Officina Alessi, 1983. 165
Aldo Rossi, Cupola, per Alessi, 1988. Disegni. 166
Aldo Rossi, Il Ritorno da scuola. 1984. 167
Aldo Rossi, Teatro Domestico per la Triennale, Milano, 1986. 168
“Ma architetto, non può portarci dei disegni esecutivi invece di questi schizzi da cui non si capisce niente?” Fu quella l’unica volta che vidi Rossi arrabbiato. Rispose seccatamente che se volevamo dei disegni tecnici in bella copia potevano chiederli a Zanuso, ma non a lui.”47. Partendo da orgogliosi schizzi, Rossi sposta la scala da macro a micro. Essenzialmente non c’è differenza tra Architettura e Design. La Piazza che disegna per Alessi nel 1983 è un altare al rito del caffè in forma architettonica, letteralmente un tempietto; la Cupola è direttamente figlia della cupola dell’Antonelli a Novara. Rossi non si limita al design da tavola: per Molteni disegna, tra gli altri, Carteggio48 e Piroscafo49; il primo, mobile da ufficio elegante e silenzioso, non è dissimile dal linguaggio giapponese che adotta dagli anni ’80; il secondo, è un vero e proprio mobile-architettura. Rossi, con Meda, disegna un fronte a cavallo tra il navale e l’urbano, sospendendo Piroscafo tra l’orientale universo delle feste e l’occidentale Tendenza. Scrive Moneo, riguardo al design di Rossi: “Paradossalmente, Rossi divenne un maestro nel costruire oggetti. Era capace di mettere i suoi sentimenti all’interno di un oggetto senza danneggiarne la sua costruzione, soddisfacendo completamente le necessità d’uso dello stesso. […] nell’oggetto vive l’iconografia, l’immagine, ma rimane la libertà da tutti i problemi dell’architettura. L’edificio è qualcosa di molto più complesso. Resiste al processo di semplificazione cui Rossi ha provato a sottoporlo durante tutti gli anni. Un oggetto, invece, ammette la tirannia della forma. Un edificio non può.”50. La cosalità dell’oggetto riesce a essere la manifestazione del non-più-riducibile della forma. L’oggetto manifesta il Das-Ein della Forma. Il gioco di scala funziona anche al contrario: gli oggetti possono essere gigantificati, sia nell’ambito dell’opera grafica, che dell’architettura. Le caffettiere – fin dai primi disegni – diventano torri, edifici, parti di città, per esempio in L’Architettura Domestica51, o Sine Titulo [1990]52. Nell’allestimento per lo Scalone d’Onore della Triennale 1986, il Teatro Domestico53, le caffettiere si gonfiano, prendono il posto dell’uomo nello spazio domestico. Ma tutto è teatro. La proporzione, i riferimenti as known vengono a mancare: “Non vi sono indicazioni capaci di spiegare questo fuori scala che è presumibilmente sia puramente teatrale 47
Alessi, 2001.
48
In: Ferlenga (a cura di), 1992, pag. 346; AAVV, 2016.
49
AAVV, 2016.
50
Moneo, 2004, pag. 142.
51
L’architettura domestica, 1974, in: Celant, Huijts (a cura di), 2015, pagg. 82-83
52
Sine Titulo, 1990, in: Celant (a cura di), 2008, pagg. 192-193.
53 Il teatro domestico per la mostra “Progetto omestico” della Triennale di Milano, 1986, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pag 285. 169
Aldo Rossi, Scena per l’”Elettra”, Taormina, 1992. 170
trattandosi nell’insieme di una rappresentazione, o luogo di rappresentazione chiamato appunto teatro domestico”54. Ancora Rossi cerca di far collidere realtà e rappresentazione. Cosa è reale? Cosa è rappresentato? Cosa è scena, e cosa personaggio? Neanche Rossi sembra riuscire a dare una risposta a questo paradosso. Gli sfugge dalle mani: come in La Panne di Dürenmatt il gioco – ormai totalizzante - scivola nella realtà e la danneggia. È sopportabile questa incoerenza? Lo sarebbe se avesse un senso esplicito? Invece di chiudere delle questioni, il Teatro Domestico spiazza l’osservatore e apre ancora più problemi. Punto apicale dell’analogia nella progettazione è l’elogio dell’oggetto, e si contrappone a un’altra scenografia, quella dell’Elettra55, di sei anni dopo. Dopo l’apologia dell’ente, il dramma dell’uomo: non resiste al gioco, non resiste agli oggetti, non resiste a sé stesso. Non a caso l’Elettra, dramma degli Atridi, si innalza a metafora della perdizione dell’umanità: la tragedia è fondata sulla narrazione mendace di Oreste. “Vi è una storia obliqua in queste pietre anche se scarsi sono i segnali”56, la stessa storia di follia e distruzione di Blade Runner57, posta fuori dal tempo degli uomini (azione possibile perché rappresentazione) esattamente come nel film di Ridley Scott. Il palazzo è un manicomio, una clinica sadica da cui escono cadaveri. Il muro scenico è aperto rossianamente con poche aperture regolari (due enfatizzate dal portale giallo che da diversi anni è un nuovo vocabolo nel dizionario), e squarciato da una ben poco laconica fenditura rosso sangue. Ma tutto si basa sulla storia, sul logos. Il logos che crea memorie e narrazioni può portare alla distruzione, di Los Angeles come del Palazzo degli Atridi, di Alex DeLarge da Arancia Meccanica come di Elettra. E allora, sei anni dopo, Rossi esce dal vortice del Teatro Domestico: non importa la forma, la natura, il soggetto della narrazione; l’importante è che ci sia. Scrive negli stessi anni David Foster Wallace: “Credo che non sia esattamente che la vita va raccontata anziché vissuta; è piuttosto che la vita è il suo racconto, e che in me non c’è niente che non sia o raccontato o raccontabile.” 58, rivisitando il Pirandelliano “La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola”59. È uno spietato logocentrismo che porta Rossi a visualizzare il mondo come narrazione del mondo, e la realtà come rappresentazione della realtà, rileggendo Wittgenstein e anche Schoepenhauer. Ciò che non è rappresentato, non è. 54
Ibidem.
55 Scenografia e costumi per l’”Elettra”, Taormina, 1992, in: Ferlenga (a cura), 1992, pagg. 336-340; Rossi, Dal Co (a cura di), Quaderno 47. 18 Dicembre 1991 – 5 Dicembre 1992. 56
Rossi, Dal Co (a cura di), Quaderno 47. 18 Dicembre 1991 – 5 Dicembre 1992.
57
Rossi stesso cita il film nella relazione di progetto. In: Ferlenga (a cura di), 1992, pagg. 336-340.
58
Wallace, 1987, pag. 145.
59
Pirandello, 1904. 171
172
3. Sintomi Particolari
173
174
3.1. Villa con Interno Un’architettura Impossibile che incontriamo nella Autobiografia è la “Villa con Interno”: “Questo presiedeva al progetto più volte descritto in modi diversi e che ho chiamato “progetto di villa con interno”: esso è forse qualcosa di molto vicino a ciò che potrei chiamare “dimenticare l’architettura”. A questo progetto mi sembra di aver rinunciato da tempo anche se spesso ne parlo e si trova nelle mie carte in disegni incompiuti o schemi o in cartoline e fotografie già ingiallite dal tempo. Erano materiali con cui volevo costruirlo; erano forse il film che volevo realizzare ma che sempre più confondeva le persone, le luci e le cose. E anche questo interno dapprima era forse solo qualcosa come un arredamento, ma poi diventava anche persone, come presenza di corpi; e a volte amo pensare di aver perso per sempre le testimonianze di questo progetto se non fosse che esso si ripresenta in occasioni diverse. Ho detto che la villa non ha nulla a che vedere con la piccola casa; indipendentemente dalle dimensioni, e gli antichi maestri ci hanno spiegato tutto questo. […] Sulla scorta di questi concetti l’architettura della vila era quella destinata a dissolversi e quasi scomparire, quasi a non lasciar segno delle sue sempre più fantastiche tipologie. L’idea del luogo palladiano ha estraniato il luogo della villa dal suo contesto; si tratta di un luogo che sapevamo già e può trovarsi indifferentemente lungo il Rio Paranà o sul Lago di Como, nel New England o sul Mediterraneo o dove voi volete. Gran parte della bellezza dei racconti di Chandler è basata sulla sua profonda conoscenza della villa tanto da farne un elemento che descrive la vicenda in California, ma con piccoli spostamenti potrebbe descriverla in altri luoghi. Anche gli interni di Cechov sono piuttosto delle ville che delle case di campagna e sono sempre estremamente sensibili alle stagioni. Ritrovate sempre gli elementi del cancello, le ortensie, i segni delle gomme dell’automobile sulla ghiaia, un tavolo che sta per essere apparecchiato, dei saluti e delle parole abbastanza lontane. L’architettura rimane in pochi particolari come sempre aspettando il colpo di pistola del Gabbiano, la luce della scala, i battello che percorre il lago come in una cupola di vetro. Il progetto è forse ritrovare questa architettura dove filtra la stessa luce, il fresco della sera, le ombre di un pomeriggio di estate. Azul de atardecer. Ma nel progetto il lungo e stretto corridoio chiuso da due porte di vetro; la prima su una strada stretta, la seconda diretta sul lago da dove penetra l’azzurro dell’acqua e del cielo. Certo, corridoio o sala, è predisposto il luogo dove qualcuno chiederà primo o poi: “È necessario parlare di tutto questo” o “Vedete, le cose sono cambiate” e altre frasi della sceneggiatura o commedia. 175
E lunghi pomeriggi e grida di bambini e il tempo familiare. Perché il costruttore aveva previsto nel progetto che la continuità della casa, non solo distributivamente, fosse il corridoio. Quando traccio la linea di un corridoio ne vedo questo aspetto di sentiero e forse per questo progetto non andava oltre; era un percorso come attanagliato e circondato da fatti privati, occasioni imprevedibili, amori, pentimenti. Anche immagini che non rimanevano impresse sulla lastra fotografica e che si accumulavano nelle cose; per questo l’interno è importante e dovete sempre immaginare l’effetto che produce una persona che esce da una stanza imprevista; e chiedervi se le camere dovranno comunicare tra loro e questioni di questo tipo che si mescolano alla difesa dall’umidità, ai livelli delle acque, alle coperture e infine al buon stato della costruzione. Finisce che questo interno, come il verde del giardino, è più forte della costruzione. Potete leggere il progetto semplicemente nelle case esistenti, sceglierlo da un repertorio che vi procurate facilmente; inseguirlo nelle varianti della regia, nelle battute dell’attore, nel clima del teatro e sempre sorpresi dalle incertezze del principe Amleto di cui non sapremo mai se era veramente un buon principe come tutto sembra farci credere. Forse sarebbe solo questo il progetto dove le analogie identificandosi con le cose raggiungono di nuovo il silenzio. […] Il progetto insegue questa trama di nessi, di ricordi, di immagini pur sapendo cha alla fine dovrà definire questa o quella soluzione; dall’altra parte l’originale, vero o presunto, sarà un oggetto oscuro che si identifica con la copia. […] Cosiì questa villa cresceva nel moltiplicarsi delle stanze e nella rigidità di un percorso rettilineo e diventava ospedale, convento, caserma, il luogo di una incomunicabile e presente vita collettiva.”1. Quello che Rossi presenta è la sublimazione del corridoio, di cui si è già discusso al paragrafo Corridoi. La paratassi architettonica, dunque l’affiancamento reiterato, in questo caso fino a un potenziale infinito, viene utilizzata come espediente narrativo, come fondale di un film ipotetico, o di una pièce teatrale. Sospeso alle ossessive cinque del pomeriggio, il progetto non si può rappresentare graficamente: “In un “progetto di villa con interno” […] non raggiungevo nemmeno una logica che finisse il disegno”2. L’interno, che è il cuore del progetto, non è disegnabile. L’esterno della villa, non viene considerato, non è importante, non esiste. Ma per la sua rappresentazione – in questo caso solamente
1
Rossi, 1990, pagg. 56-60.
2
Rossi, 1990, pag. 60. 176
verbale – esiste3. Come gli interni di Cechov, o le Stanze di Cantafora4 la Villa con interno esiste solo nella narrazione, e fa di questa non-disegnabilità la sua potenza. La potenza di questa architettura sta nel suo essere raccontata, esistere nella mente di Rossi e di chi legge le righe in cui viene descritta. Così si dimostra ulteriormente il logocentrismo della progettazione dell’universo di Aldo Rossi. Le parole descrivono un corridoio, come quello per la Triennale di Milano del 1964, o anche per la mostra “Architettura/Idea”, esteso potenzialmente all’infinito. Questo oggetto diventa una macchina misteriosa, essendo vissuto da Rossi solo nella sua componente di corridoio: non si sa la sua funzione, né quale sia la morfologia dello spazio oltre il muro. Ciò che viene dato a sapere è che c’è un inizio e una fine a questo corridoio, orientato tra una strada e un lago (condizione molto simile a Villa Alessi5). Il corridoio innesca la sua narrazione inattesa, fatta di sigarette fumate nervosamente fuori da stanze d’ospedale, di silenziosi incontri nei corridoi di un monastero, e ancora amori, ansie, risentimenti. Narra di tempo perduto, come tutta l’opera rossiana. A un certo punto, però, ciò che non è l’architettura entra violentemente nella sua narrazione: i dialoghi, il momento del tramonto, il verde dell’esterno. I margini di questa architettura si mescolano con quanto ne sta fuori, e forse non esistono nemmeno. La presa in prima persona fa capire come anche il narratore-Rossi sia all’interno della sua stessa opera, della sua stessa trappola angosciante, nel labirinto borgesiano della linea retta. L’architetto è succube, è sottomesso alla sua opera, non ne vede confini né riesce a gestire con i mezzi della professione la forma, né con quelli della narrazione la storia che immagina al suo interno. Propone dei flash, probabilmente grafici6 ma sicuramente scritti, tra le pieghe della descrizione. Pur nascendo da una paratassi joyceana, l’interno si esprime con sintesi ermetiche di vita vissuta. La Villa con Interno è un sempre-interno, nel senso che non può essere altro che un interno. La sua esistenza risiede oltre il limite – solo dicibile7 – dell’esistenza.
3
Si veda paragrafo Giocattoli.
4
Cantafora, 1988.
5
Si veda paragrafo Un Nulla Pieno di Storie.
6 Dal tratto citato si può evincere che Rossi ha provato a disegnare questa architettura, ma non ci sono prove nella bibliografia consultata riguardo a questi disegni. 7
Biraghi, 2005 177
178
3.2. Stanza con lo Strapiombo La seconda architettura impossibile che incontriamo nell’Autobiografia Scientifica è la “Stanza con lo Strapiombo”: “Potrei chiedermi cosa significa il reale in architettura. Per esempio un fatto dimensionale, funzionale, stilistico, tecnologico: potrei scrivere un trattato […] Come stabilire la dimensione e quale dimensione? In questa estate del 1977 stavo all’Osteria della Maddalena quando nel corso di una conversazione poco afferrabile ho colto una definizione architettonica. L’avevo trascritta: “C’era uno strapiombo di dieci metri nel punto più alto della stanza”. Ignoro a quale contesto si riferisse questa frase ma trovo che una nuova dimensione si era stabilita: è possibile vivere in camere con uno strapiombo? Esiste la possibilità di un progetto di questo tipo che sia rappresentabile oltre la memoria e l’esperienza? È inutile che io dichiari che ho tentato inutilmente di disegnare questo progetto o questa camera: potrei farlo ma sempre si arresta a un vuoto che non si può rappresentare. Per molti versi questo vuoto è la felicità e la sua assenza […] così comprendo l’osservazione misteriosa che avevo colta nell’Osteria della Maddalena: cioè comprendo che in ogni stanza vi è un precipizio, solo che sarebbe sciocco costruire quel precipizio come costruire l’intimità, la felicità e lo sfacelo […] Quando ricordavo la citazione nell’Osteria della Maddalena la riportavo certamente a un problema di ingegneria, di statica, o di pomeriggio di mezza estate, o a quello che volete per esprimere una situazione, ma anche la riportavo a Lord Jim, che Conrad dice essere uno dei nostri “… perché era caduto da un’altezza che mai più avrebbe potuto scalare”. Ora credo che per un ingegnere il senso di quest’altezza non era altrimenti esprimibile. La sua non rappresentabilità la riporto allo strapiombo descritto nell’Osteria della Maddalena […] ma l’architettura, superata la funzione e la storia e il sogno e il sentimento, e la carne e la stanchezza, aveva raggiunto una luce rosa verde, ma una luce filtrata da tante cose da tornare al bianco, o il lago, o la lontananza del lago. Questa lontananza era all’incirca come dimenticare l’architettura ma dove il dimenticare acquista per me un senso quasi progressivo; è come aver esplorato a lungo in una direzione tanto da avere dimenticato le premesse […] e se anche alla fine il senso di quello che volevamo sapere non è svelato rimane come il piacere della fatica. Abbiamo tentato di rappresentare lo strapiombo di una camera leggendaria, e questo è molto anche se non ci siamo riusciti. Queste altezze e luoghi non misurabili non appartengono solo a un mondo onirico o etico; il problema della misura è uno dei problemi fondamentali dell’architettura. […] Come misurare 179
la quantità e la qualità dello strapiombo della camera di cui ho parlato in questo libro? Come misurare la qualità della caduta di Lord Jim, proprio perché si tratta di un caduta da cui non avrebbe mai potuto risalire? Come misurare gli edifici se un anfiteatro può diventare una città e un teatro una casa?”1. Con questa stanza leggendaria Rossi arriva a mettere in discussione i fondamenti dell’architettura: Cos’è la misura? Cos’è la forma? E la funzione? Alle stesse domande arriva nello stesso periodo Jacques Derrida, che mette in discussione le nozioni basilari della disciplina2. Le questioni derivano dal lungo peregrinare nell’arte architettonica di Rossi. Il problema non si limita alla architettura, ma – come è norma negli interni di Rossi - si espande nell’universo del vissuto: infatti, si chiede l’architetto se sia possibile vivere nella Stanza con lo strapiombo; e ancora, il dualismo reale/rappresentazione viene approfondito e reso più complesso, accostandolo al problema della memoria: è possibile rendere progetto qualcosa che è oltre l’esperienza? Con questa domanda si mette in discussione la posizione humeana della tabula rasa. Ancora una volta, come per la Villa con Interno3, il progetto è non disegnabile, ma rappresentabile con linguaggi diversi da quelli tipici dell’architettura. Solo il logos, in questo caso, può realizzare l’impresa delle rappresentazione. Queste due architetture sembrano superare la dimensione architettonica per sublimare nella dimensione del neutro esistenziale, con due significati differenti. Considerando comunque il fatto che si trovano in un’altra dimensione da quella reale o rappresentabile graficamente, la Villa con Interni è un sempre-interno, mentre la Stanza con lo Strapiombo è un mai-interno. Proprio per il fatto che non si può vivere, non può essere un interno: quali storie, quali memorie, quali vite possono esistere nello strapiombo? Inoltre il problema si ibrida, diventa citazione e epifania. La caduta di Lord Jim, di cui non si può conoscere la qualità: Conrad narra che è “caduto da un’altezza che mai più avrebbe potuto scalare”4. Caduta e perdizione, fisica e psicologica. Insieme arriva la presa di consapevolezza dell’impossibilità di costruire l’intimità, la felicità e lo sfacelo. La medesima consapevolezza viene espressa in Questi Progetti per la raccolta di Ferlenga: “Perché l’architetto predispone i luoghi, li costruisce ma non può dar loro la vita. Il 1
Rossi, 1990, pagg. 45-46, 60, 75-76, 111
2
Derrida Jacques, Psychè. Inventions de l’autre, 1987, in: Panza, 2014.
3
Si veda paragrafo Villa con Interno
4
Conrad, 1900. 180
significato di questo era chiaro agli antichi e forse pochi lo espressero così chiaramente come Marziale nel libro di versi dedicati a Domiziano: qui fingit sacros vel auro vel marmore vultus non facit ille Deos. Qui rogat ille facit.5”. È impossibile per l’architetto creare un paesaggio domestico. Tuttavia, anche questa rimane architettura: alla medesima stregua di Boullèe, l’architettura basta che esista nell’idea6. Raggiunge quella distanza, quel colore bianco, rosa. Inoltre, il solo fatto di essersi approcciati al problema della stanza leggendaria, ne amplifica il valore. Il tentativo di rappresentarla graficamente fallisce, ma – come per la Villa con interno – il fatto di essere presente una narrazione ne garantisce l’esistenza.
5
Rossi Aldo, Questi Progetti, in: Ferlenga (a cura di), 1987, pagg.165-166.
6 Si fa riferimento alla filosofia estetica di Benedetto Croce; per una chiave di lettura si rimanda a: Panza, 2014. 181
182
3.3. La Cabina dell’Elba L’architettura – se tale si può definire- più iconica, che riassume quasi interamente la poetica di Aldo Rossi, è la Cabina dell’Elba. Troppo gravoso sarebbe citare i passi in cui questa “architettura” compare. In effetti, quello che la Cabina porta con sé non è solo una forma o una matericità, quanto un feeling. La Cabina è un fenomeno del tempo perduto, più che della realtà. È una manifestazione del paradosso che è alla base della progettazione di Rossi: da un lato la vocazione eterna, dall’altra la natura temporanea, tipica della stagione balneare1. Luogo sospeso nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Le cabine derivano da un paesaggio temporaneo estivo: proprio questa allure estiva di immagini chiare, viene spesso rievocata da Rossi. L’estate è madeleine di diverse sensazioni, ricordi d’infanzia, di felicità; la memoria dell’estate oscilla tra il Lago Maggiore e l’Albergo Sirena, l’Elba e le Marche. L’estate è il simbolo primo, nel lessico rossiano, del tempo perduto, delle cinque del pomeriggio, leggendarie, alla Feira di Siviglia. In questo immaginario atopico e atemporale la Cabina pone le sue radici. Rossi vuole, comunque, rinforzare l’immagine, legandola a un preciso punto nello spazio: l’Isola d’Elba, delle sue vacanze estive da bambino,: “In realtà mi ero semplicemente accorto del carattere particolare e universale delle cabine poste sulle spiagge. Non solo dell’Elba. Il problema non è quello di vedere ma di guardare, fino ad appropriarsi dell’immagine, e attraverso l’immagine della cosa. Così ho incontrato migliaia di cabine, dalle spiagge del Mediterraneo alla California, all’Argentina. E con piacere ho visto ripetizioni della mia cabina, ma non le considero copie, anzi è come rivedere le cose e riscoprire la sorpresa. La cabina è una piccola cosa, è la riduzione della casa, è l’idea della casa.”2. La memoria così evidentemente infantile trascende in un luogo progettuale indefinito, ovvero un neutro esistenziale. Tafuri addirittura parla di un “Alfabeto esoterico […] manipolato da un mago ostinato nel suo rifiuto di guardare nel cannocchiale galileiano.”3. C’è un rifiuto di Rossi a abbandonare il suo immaginario, anzi piuttosto lo rinforza. In effetti, la rappresentazione della Cabina è sempre fuori da spazio e tempo, ma mantiene sempre la sua scala. Che essa sia Cabina, Armadio o unità di Abitazione, si tratta sempre del minimo appena fuori. Lo spazio della cabina è, come trattato nel paragrafo 1
Rossi, 1990.
2
Rossi, 10.I.92, cit. in anonimo [1], s.d.
3
Tafuri, 1985, pag. 170. 183
Aldo Rossi, Armadio Cabina dell’Elba, per Molteni, 1982. Prototipo. 184
Architettura Umana, lo spazio del confessionale laico. Nella Autobiografia la cabina viene accostata a questa immagine: lo spazio dello spogliarsi spirituale è letto paratatticamente allo spazio dello spogliarsi fisico4. Il paradigma passa dallo spirito al corpo: la scomodità come metafora della purificazione. La Cabina prende forma fisica nel 1980, con i 4 prototipi per un armadio prodotto da Molteni5, e poi tra l’ ’83 e il ‘93 coi prototipi di Bruno Longoni6. Ma la ricerca rossiana sul tema comincia quasi all’inizio della sua carriera, nel 1973: “Esiste tutta una terminologia tecnica per definire questa che chiamo piccola casa. Ma io l’ho vista per la prima volta nei disegni Le Cabine dell’Elba che risalgono credo al 1973. Le ho chiamate cabine perché lo sono effettivamente nell’uso e nel linguaggio parlato ma anche perché mi sembrano una dimensione minima del vivere, un’impressione dell’estate.”7. Il minimo dimensionale per Rossi oscilla tra gli 83x60x217cm del prototipo di Longoni ai 255x500x270cm8 delle abitazioni per studenti a Chieti. Dunque la questione dell’interno, nella Cabina dell’Elba, diventa un problema etico o morale, contemplando il Teorema9 rossiano dell’appena fuori.
4
Rossi, 1990.
5
anonimo [3], s.d.
6
anonimo [1], s.d.
7
Rossi, 1990, pag. 66.
8
Stima dell’Autore da: Ferlenga (a cura di), 1987, pag. 114.
9
À la Koolhaas; Koolhaas, 1978. 185
186
Conclusioni
187
188
La progettazione rossiana è fondata e trova forza nella contraddizione. Tafuri, nella Storia dell’Architettura richiama un lemma formale che Rossi ripete, specialmente nelle prime opere: il ponte. “Il “Ponte”, figura metafisica sovrasignificante, che dal progetto per la Triennale del ’64 al monumento a Segrate, al blocco del Gallaratese si proponeva come connessione di estremi indicibili – memoria e storia, segno e senso, soggetto e alterità”1. Rinforzando i continui rimandi transdimensionali, il paradosso rinforza l’idea. Realtà e rappresentazione, Storia e storie, nel momento in cui collidono permettono il raggiungimento di quella narrazione perpendicolare rousseliana. Il ponte, figura che compare spesso nei primi progetti, si propone come lemma formale in bilico e in tensione. Quel bilico è specchio dello stesso bilico che porta Rossi sull’orlo dello strapiombo, la tensione è la stessa che racconta la vita del corridoio. Bilico e tensione sono, oltre che topos psicologico, anche topos narrativo. Il bilico è lo stesso che Lord Jim prova prima della caduta, la tensione la stessa che vibra nelle mani di Ahab davanti alla Balena Bianca, richiamando riferimenti letterari dello stesso Rossi. È chiaro, dunque, come nell’universo ipermnemico di Rossi, l’unico supporto possibile per il paradosso sia la parola. Solo il logos può salvare o può distruggere, prima ancora del tratto della penna. La narrazione è garanzia esistenziale – prima che strumento progettuale. E nella narrazione il paradosso di una villa infinita, o di una stanza profondissima, nonché di una cabina sospesa nello spazio e nel tempo, sono resi con la stessa presenza ontologica di ciò che effettivamente esiste. A questo punto si può affermare come Rossi utilizzi l’immagine, o con Moneo l’iconografia2, solo in maniera funzionale alla narrazione o alla creazione di fondali per la narrazione: “Ma di fronte a questa massa di opere mi sento più simile a un regista”3. Le immagini che Rossi proietta sullo schermo della realtà (perché in effetti, realtà e rappresentazione sono coincidenti) chiamano in causa il grumo esistenziale dell’individuo, quasi in maniera ingombrante: “[Rossi, ndr] Chiede di scovare relazioni attraverso cui interferire nella costruzione di un paesaggio indifferenziato, di continuare a evocare e a coinvolgere persone e cose, di suscitare emozioni. Infine ricomporre, dopo l’orgia dei frammenti, livelli di unità possibili.”4. È l’individuo che, chiamato in causa in prima persona, ricostruisce, come in un puzzle, i livelli perpendicolari di senso, che ricompone la Storia 1
Tafuri, 1985, pag. 171.
2
Moneo, 2004.
3
Rossi Aldo, Premessa, in: Ferlenga (a cura di), 1996, pag. 7.
4
Ferlenga Alberto, Ascoltando le voci del Mondo, in: Ferlenga (a cura di), 1996, pag. 13. 189
Aldo Rossi, Uffici Disney Develpoment Company, Orlando, 1991. Vista. 190
e ne restituisce una parafrasi personale, mescolandola con le proprie storie. È l’unità del discorso che – in frantumi - trova senso solo nel rigoroso lessico inflessibile che solamente consiste: “Il consistere di Rossi è, contradditoriamente, alla disperata ricerca di un ‘luogo’ in cui depositare la propria ‘fermezza’”5 È comunque certo che l’utilizzo di determinati lemmi formali racconta di una narrazione interna a Rossi, tutta psicologica e degna di un divanetto freudiano6.
5
Tafuri Manfredo, Ceci n’est pas une ville, in: Lotus 13, 1976 cit. in: Biraghi, 2005, pag 196.
6
Ibidem. 191
Aldo Rossi, Monumento ai Partigiani, Segrate, 1965. Vista. 192
Aldo Rossi, UnitĂ di abitazione al Quartiere Gallaratese, Milano, 1970. Vista del prospetto. 193
194
Apparati
195
Attilio Del Comune, Ritratto Maschile - Aldo Rossi, Architetto, 1984. 196
Cenni Biografici Aldo Rossi nasce a Milano il 3 maggio 1931. Intorno al 1940 si trasferisce a causa della guerra sul Lago di Como, dove studia presso i Padri Somaschi, e dunque al Collegio Arcivescovile Alessandro Volta a Lecco. Nel 1949 si iscrive al Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1959, avendo come relatore Piero Portaluppi. Nel frattempo collabora con Ernesto Nathan Rogers alla redazione di CasabellaContinuità (1955-64) e negli studi di Ignazio Gardella e Marco Zanuso. Nel 1963 è assistente di Ludovico Quaroni a Arezzo e di Carlo Aymonino allo IUAV. Nel 1965 diventa Professore incaricato al Politecnico di Milano. Nel 1966 viene pubblicato L‘Architettura della Città. Insegna a Palermo e Milano. Nel 1971 è vittima di un incidente d’auto a Slavonski Brod, e nello stesso anno vince il concorso per il Cimitero di Modena. Nei primi anni ’70 insegna a Zurigo al Politecnico Federale. Il suo lavoro teorico viene presentato nel libro Scritti scelti sull’Architettura e la città. 1956-1972. Nel 1975 insegna a Venezia. Nel 1976 è direttore del Seminario Internazionale di Santiago de Compostela, e inizia l’insegnamento negli Stati Uniti, presso la Cornell University e alla Cooper Union. Da questo anno partecipa a concorsi internazionali e promuove mostre personali, le più importanti a Mosca, a Londra, Venezia, Berlino. Nel 1980 Philip Johnson pubblica in America A Scientific Autobiography, pubblicata in Italia dieci anni dopo col titolo Autobiografia Scientifica. Nel 1983 comincia la ricerca con Alessi. Nel 1988 è nominato membro dell’Aia. Nel 1990 viene insignito a Palazzo Grassi del Premio Pritzker per l’Architettura; l’anno successivo vince l’Aia Honor Award, e la sua opera è presentata in una mostra monografica al Centre Georges Pompidou a Parigi. Partecipa a concorsi, convegni, mostre e lezioni finchè non muore improvvisamente a Milano dopo un incidente d’auto sul Lago Maggiore il 4 settembre 1997.1
1
Da: Biografia, in: Ferlenga (a cura di), 1996, pag. 351. 197
Regesto delle Opere principali − 1958: Villa ai Ronchi, Massa, con Leonardo Ferrari − 1959: Progetto per un Centro Culturale a Milano, Tesi di Laurea, con Piero Portaluppi (relatore), Politecnico di Milano. − 1962: Progetto di concorso per il monumento alla Resistenza a Cuneo, con Luca Meda, Gianugo Polesello; Progetto per il Centro Direzionale di Torino, con L. Meda, G. Polesello; Progetto per una fontana monumentale nel Centro Direzionale di Milano, con L. Meda. − 1964: Ponte e sistemazione del parco per la XII Triennale di Milano, con L. Meda. − 1965: Piazza del Municipio e fontana monumentale a Segrate. − 1966: Progetto di concorso per il complesso residenziale San Rocco a Monza, con Giorgio Grassi. − 1968: Progetto di concorso per il Palazzo comunale di Scandicci, con Massimo Scolari et al; Scuola a San Sabba, Trieste, con G. Grassi et al. − 1969: Restauro e ampliamento della scuola De Amicis a Broni; Unità di abitazione al Quartiere Gallaratese 2 a Milano. − 1971: Cimitero di San Cataldo a Modena, con Gianni Braghieri. − 1972: Scuola Elementare a Fagnano Olona. − 1973: Allestimento per la XV Triennale di Milano, con G. Braghieri et al; Progetto per villa con padiglione, Borgo Ticino, Novara, con G. Braghieri. − 1974: Progetto di concorso per la casa dello studente di Trieste, con Max Bosshard, G. Braghieri, Arduino Cantafora; − 1975: Progetto di concorso per una unità residenziale a Setùbal, Portogallo con G. Braghieri, M. Bosshard, A. Cantafora et al. − 1976: Progetto di concorso per la casa dello studente di Chieti, con G. Braghieri, A. Cantafora; − 1977: Progetto di concorso per il Centro Direzionale di Firenze, con Carlo Aymonino, G. Bragheri; Progetto per Roma Interrotta, con G. Braghieri, M. Bosshard, A. Cantafora et al; La città Analoga, collage per la Biennale di Venezia. − 1978: Teatrino Scientifico, con G. Braghieri et al. − 1979: Case unifamiliari a Goito, con G. Braghieri; Case unifamiliari a Pegognaga, con G. Braghieri; Progetto per una torre nel nuovo centro civico di Pesaro; Teatro del Mondo a Venezia. − 1980: Portale di accesso alla Biennale di Venezia. 198
− 1981: Allestimento della mostra “Architettura/Idea” per la XVI Triennale di Milano, con L. Meda; Complesso Residenziale per la Sudliche Friedrichstadt a Berlino, IBA ’84, con G. Braghieri, Massimo Scheurer et al. − 1982: Progetto per la zona Fiera-Catena a Mantova, con G. Braghieri; Edifici pubblici, teatro e fontana nell’area Fontivegge a Perugia, con G. Braghieri, M. Scheurer, Giovanni Da Pozzo et al. − 1983: Macchina Modenese; La Piazza per Alessi; Nuovo Municipio a Borgoricco, con M. Scheurer et al; Ristrutturazione del Teatro Carlo Felice a Genova, con Ignazio Gardella, Fabio Reinhart, Angelo Sibila. − 1984: Progetto di concorso per un palazzo di uffici a Buenos Aires, con G. Braghieri, M. Scheurer et al; La Conica per Alessi; Allestimento Pitti Uomo a Firenze; Palazzo per uffici per il Gft “Casa Aurora” a Torino, con: G. Braghieri, M. Scheurer et al. − 1985: Complesso commerciale Cento Torri a Parma, con G. Braghieri, M. Scheurer et al; Unità residenziale per la zona di Via Vialba a Milano, con G. Braghieri et al. − 1986: “Teatrino Domestico” per la mostra “Progetto Domestico” alla XVII Triennale di Milano, con M. Scheurer; Progetto per una torre nel giardino di Villa Alessi, con G. Da Pozzo; Il Conico per Alessi; Caffettiere Pressofiltro per Alessi; Carteggio per Molteni; Case per l’area la Villette sud. − 1987: Progetto di concorso per la piazza di Uskdar a Istanbul, Turchia, con G. Da Pozzo, M. Scheurer et al; Complesso alberghiero e ristorante “Il Palazzo” a Fukuoka, Giappone, con Morris Adjmi et al. − 1988: Progetto di concorso per il Deutsches Historisches Museum di Berlino, con G. Da Pozzo, M. Scheurer et al; Concorso per il laboratorio internazionale “Napoli Sotterranea”; Progetto per l’Area del Monte Echia a Napoli; Momento per Alessi; La Cupola per Alessi; Teatro Faro a Toronto, con M. Adjmi; Case unfamiliari a Pocono Pines, Pennsylvania, con M. Adjmi; Monumento a Pertini in Piazzetta Croce Rossa a Milano, con M. Adjmi; Monumento Urbano a Zaandam; Ristrutturazione e ampliamento dell’Hotel Duca di Milano, con G. Da Pozzo, M. Scheurer. − 1989: Yatay di Pinocchio a Nagoya, Giappone, con M. Adjmi; Showroom Ambiente, Tokyo, con M. Adjmi; Libero Istituto Universitario Carlo Cattaneo a Castellanza, con Marco Brandolisio et al; Ristrutturazione di Villa Alessi a Suna di Verbania, con M. Scheurer (esecutivi e realizzazione) et al. − 1990: Progetto per l’Hotel d’Ocean a Chikura, Giappone, con M. Adjmi; Progetto di concorso per il palazzo del Cinema al Lido di Venezia, con G. Da Pozzo, L. Meda, M. Scheurer et al; Progetto di concorso per Potsdamerplatz e Leipzigerplatz a Berlino, con M. Scheurer; Nuova sede del Bonnefantenmuseum a Maastricht, Olanda, con G. Da Pozzo, Marc Kocher 199
−
− −
− − − −
et al. 1991: Progetto di concorso per il nuovo centro direzionale “Il Castello” a Kuala Lumpur, Malesia, con M. Adjmi et al; Progetto di concorso per il museo Nazionale di Scozia a Edimburgo; Progetto per un edificio in Friedrichstrasse a Berlino, con M. Kocher; Progetto per la sistemazione dell’area Garibaldi-Repubblica a Milano, con G. Da Pozzo et al; Ampliamento dell’Aeroporto Forlanini a Linate, Milano, con M. Brandolisio, G. Da Pozzo, M. Kocher et al; Piroscafo per Molteni, con L. Meda. 1992: Scenografia per l’“Elettra”, Taormina, con M. Kocher; Lux per Alessi; Museo del Mare della Galizia a Vigo, Spagna, con M. Brandolisio; Edificio Residenziale e di uffici in Schutzenstrasse a Berlino, con M. Kocher, M. Scheurer et al. 1993: Progetti per Bari, con: C. Aymonino, M. Brandolisio, Guido Canella, G. Da Pozzo, Michele Tadini; Progetto per un complesso turistico aa Kyongju, Corea, con M. Adjmi, M. Tadini et al; Complesso alberghiero e residenziale nel porto di Moji, Giappone, con M. Adjmi, M. Tadini et al; Progetto per la piazza del Mercato a Verbania, con G. Da Pozzo, M. Tadini; Tecnoparco di Fondotoce, Verbania, con G. Da Pozzo, M. Tadini. 1994: Uffici per Walt Disney a Los Angeles, con M. Adjmi; Torre per uffici a Città del Messico, Messico con M. Adjmi, M. tadini et al; Edificio per uffici a Broadway (ora Scholastic), New York, con M. Adjmi et al. 1995: Edificio per uffici su Leipzigerplatz, Berlino, con M. Brandolisio, G. Da Pozzo, M. Kocher, M. Scheurer, M. Tadini; Progetto per il Politecnico di Milano alla Bovisa, con M. Brandolisio, G. Da Pozzo, M. Tadini; Cartesio per Molteni. 1996: Progetto per l’Aeroporto di Kalingrad, con M Tadini et al; Progetto per il Rifugio a Passo Grostè, Madonna di Campiglio, Trento, con M. Tadini et al; Prometeo per Artemide. 1997: Progetto per il restauro del Teatro la Fenice, terminato da Arassociati (M. Brandolisio, G. Da Pozzo, M. Scheurer, M. Tadini).
La data utilizzata per il regesto delle opere è quella di inizio del progetto. 200
Federico Brunetti, Nello studio - Milano, 1989 circa. 201
1940-45 1959 1965 VITA DI ALDO ROSSI
1931
Aldo Rossi Nasce a Milano
Laurea al Politecnico di Milano
Studi superiori al a Como dai Padri Somaschi
1971
Sposa Sonia Gessner
Incidente di Slavonski Brod Gianni Braghieri
COLLABORATORI
Massimo Scheurer Giovanni “Ghe
Arduino Cantafora Luca Meda
1962 1965 1968 1968 1971 1972 ARCHITETTURE DI ALDO ROSSI
1958
Villa ai Ronchi, Triennale Milano Massa 1962
Monumento ai Partigiani di Segrate
[Municipio, Cimitero, Scandicci] Modena Unità di abitazione al Gallaratese, Milano
1966 SCRITTI DI ALDO ROSSI L’Architettura della Città
1962 1948 1956 1957 1964 1967 STORIA DELL’ARCHITETTURA INA Casa
Museo Castelvecchio a Verona, C. Scarpa
Grattacielo Pirelli, G. Ponti
1968
1970
1980
1982
Teatro del Mondo
Case Pennsylv Centro Direzionale di Perugia
1975
1980
Introduzione a ‘Architettura Razionale’
Scritti Scelti sull’Architettura e la Città
A Scientific Autobiography (USA)
1977
1978
1982
1980
1984
V. Venturi House, Five Architects, House II, Staadstgalerie Strada Novissima, Centro Georges Roma R. Venturi MoMa, P. Johnson P. Eisenman Stuttgard, Venezia, Pompidou, Interrotta, Piscine Facoltà di magistero, J. Stirling R. Piano/ R. Rogers G.C. Argan C. Dardi / P. Portoghesi a Mathosinos, G. De Carlo A. Siza
L’esperienza dell’architetturaE.N. Rogers
1968
1969
1968
Locus Solus, Una Vita Vita di De la Hey 2001: Orlando I Nostri Galileo, Gramatologie, Jude, A Space Furioso, R. Roussel Esercizi Violenta, di Stile P.P. Pasolini Antenati, G. Strehler J. Derrida The Odissey, L. Ronconi R. Quenau I. Calvino Beatles S. Kubrik
1945 1962 1962 STORIA DELL’UMANITA’ Olimpiadi Crisi dei a Roma Missili di Cuba
1960
1965
1972
La Sfera Learning from Las e il Labirinto, Vegas, M. Tafuri R. Venturi
Il Territorio dell’Architettura, V. Gregotti
1914 1947 1959 1960 1963 1967 STORIA DELLA CULTURA
Resa di Caserta Liberazione dal Nazifascismo
1978
1973
1974
1923 1958 1966 1970 TEORIE E CRITICA DELL’ARCHITETTURA Vers une architecture, Le Corbusier
1976
[Villa Bay, [Casa B. Ticino] dello Studente, Scuola Chieti] Teatrino Elementare, Scientifico F. Olona
1955-64
Redattore di Casabella-Continuità
1973
1968
Occupazioni Papa Paolo V chiude il Concilio universitarie; Vaticano II terremoto del Belice
202
1973
1978
1980
1981
Progetto e Utopia, M. Tafuri
Delirious New York, R. Koolhaas
Complexity and Contraddiction... R. Venturi
Introduzione a Tessenhow, G. Grassi
1971
1971
1972
1979
Il Decameron, P.P. Pasolini
A Clockwork Orange, S. Kubrik
L’opera da Tre Soldi, G. Strehler
The Wall, Pink Floyd
1976
1978
1971
1974
1980
1980
1982
Il Nome Glasswo Mille della Rosa, P. Gla Plateaux, U. Eco G. Deleuze/F. Guattari
1980
Strage di Aldo Moro viene Strage di Piazza della Loggia sequestrato e Bologna La Cina viene ucciso dalle BR ammessa all’Onu Compromesso PCI/DC
1970
Mosc di Ro P. Porto
1980
1983
Bettino Craxi (PSI del Consi
1990
1997
Aldo Rossi riceve il Premio Pritzker
Aldo Rossi Muore a Milano dopo un incidente automobilistico
Morris Adjmi
Michele Tadini
mo Scheurer Giovanni “Ghego” Da Pozzo Marco Brandolisio Marc Kocher
1982
1982
1982
1983
1986
Case in Uffici GFT, Torino Pennsylvania
Centro ezionale di Perugia
1986
Hotel “Palazzo” a Tokyo
Teatro Carlo Felice, Genova
1989
1988
1991
Bonnefanten Museum, Maastricht
Monumento a Sandro Pertini, Milano
Edificio a La Villette, Parigi
1990
Villa Alessi, Verbania
1984
esi
1985
1988
1988
1989
Teatro La Fenice, Venezia
Tecnoparco, Verbania
[Residenze a Leipzigerplatz, Berlino]
Museo del Mare, Vigo
Autobiografia Scientifica
Quaderni Azzurri
1991
1993
1997
Piroscafo (Molteni)
Momento (Alessi)
AR01 (Alessi)
Sedia Parigi (Molteni)
Carteggio (Molteni)
1997
1994
1999
La Cupola (Alessi)
1988
1993
1990
1987 1988 1989 1985 DESIGN DI ALDO ROSSI
La Piazza (Alessi)
1992
Elettra, Taormina
Ampliamento Aeroporto, Linate
1983
La Conica (Alessi)
1992
1990
1992
1992
1993 1994
1995
1995
Ricostruzione di Moschea Cimitero Gugghenheim Barcelona Centro Cultural Belem, Decostructivist Lillexpo, Tate Silodam Sony Potsdamer Platz, di Roma, di Igualladà, building, Architects, MoMA Bilbao, Olympic Parc, V. Gregotti OMA Modern, Houses, P. Portoghesi E. Miralles P. Johnson P. Johnson F. Gehry E. Miralles et al. R. Piano, G. Grassi et H&dM MVDRV Vitra al. Jüdisches Museum Feuerwehrhaus, Berlin, Z. Hadid D. Libeskind 1985 1981 1984 1994
Introduzione a Tessenhow, G. Grassi
1980
1982
Architetture Padane, L. Ghirri St. architettura italiana, 1944-85 M. Tafuri
1982
1983
1984
1985
1987
Glassworks, Blade Il Pensiero Thriller, Esce The Broom of the Mille P. Glass Runner, debole, M. Jackson Windows 1.0 Sistem, ateaux, R. Scott AAVV D.F. Wallace ze/F. Guattari
Muore Manfredo Tafuri
1989 Campagna Elettorale, M. Cattelan
1990
1993
Powerbook, Apple
1983
1985
1988
1989
ettino Craxi (PSI) Presidente del Consiglio
Michail Gorbacev segretario del Partito Comunista Sovietico
George Bush Presidente degli Stati Uniti
Crollo del Muro di Berlino
Tim Berners-Lee mette online il primo sto internet
1990
1993
1994
1992
1993
1994
Pritzker Price a R. Piano
1998 S M L XL, R. Koolhaas
1994
Trainspotting, Oceano Mare, Pulp Fiction Branchie, New Italian A. Baricco I. Welsh Q. Tarantino N. Ammaniti Epic, Wu Ming
1991
203
1993
1998
1995
Si scioglie la DC Inchiesta Silvio Gianfranco Fini “Mani Pulite”; Berlusconi scioglie il MSI; Trattato di Presidente del Romano Prodi Maastricht Consiglio fonda l’Ulivo
Bibliografia Bibliografia di Aldo Rossi: − Rossi Aldo, L’architettura della città, 1 ed. 1966. Per i riferimenti nel testo: Rossi Aldo, L’architettura della città, Milano, CLUP, 1978. − Rossi Aldo, Introduzione a Architettura Razionale. XV Triennale di Milano, Sezione Internazionale di Architettura, Milano, Franco Angeli, 1973. − Rossi Aldo, Scritti Scelti sull’Architettura e la città. 1956-1972, Milano, CLUP, 1975. − Rossi Aldo, Autobiografia Scientifica, 1 ed. italiana 1990. Per i riferimenti nel testo: Rossi Aldo, Autobiografia Scientifica, Milano, Il Saggiatore, 2009. − Rossi Aldo, Bonnefantenmuseum a Maastricht in Olanda, in Domus 762, Luglio-Agosto 1994. − Rossi Aldo, La diversità di Berlino, in Casabella 632, Marzo 1996. − Rossi Aldo, Isolato in Schützenstrasse a Berlino, in Casabella 632, Marzo 1996. − Rossi Aldo, Dal Co Francesco (a cura di), Quaderni azzurri, 47+1 volumi, Milano, Electa, 1999. − Rossi Aldo, Di Battista Nicola, Magnago Lampugnani Vittorio (a cura di), Colloquio con Aldo Rossi, in Domus 722, Dicembre 1990. − Rossi Aldo, Ferrari Leonardo, Villa ai Ronchi in Versilia, in Casabella-Continuità 291. Ville Italiane, Settembre 1964. Bibliografia essenziale su Aldo Rossi: − 2C. Construcción de la ciudad 14. Aldo Rossi, Dicembre 1979. − AAVV, Complesso residenziale Monte Amiata, nel quartiere Gallaratese 2, Milano, in: AAVV, Gallaratese Corviale Zen, Parma, Edizioni Festival Architettura Parma, 2008. − AAVV, COPRAT 1977-2007, Mantova, Publi Paolini, 2007 − AAVV, Dining#2. Molteni & Co, Catalogo 2016. − AAVV, La lezione di Aldo Rossi, Bologna, Bononia University Press, 2008 − AAVV, Officina Alessi. Catalogo 2006, Crusinallo, Alessi, 2006. − AAVV, Per Aldo Rossi, Venezia, Marsilio, 1998. − Alessi Alberto, La Fabbrica dei Sogni. Alessi dal 1921, Milano-Crusinallo, Electa-Alessi, 2001. − Anonimo [1], Aldo Rossi. Cabina dell’Elba, su www.longonibruno.it − Anonimo [2], Aldo Rossi. Monumento Urbano. Een monument voor Zaandam, brochure 204
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Stampato nel mese 208di Settembre 2016