COLLANA LE MUSE
Non dicere ille secrita abboce
© Cartman Edizioni 2015 Cartman Edizioni corso M. d’Azeglio, 102 – 10126 Torino (Italia) tel./fax +39.0118905849 www.cartmanedizioni.it – redazione@cartmanedizioni.it ISBN 13: 9788889671566
Realizzazione grafica di copertina: Dorina Xhaxho In copertina: Ave Appiano, Onda forma, 2014 (dettaglio) Finito di stampare nel mese di dicembre 2015
Edoardo Razzini (a cura di)
LO PSICODRAMMA IN TERAPIA E FORMAZIONE Nuovi modelli applicativi
CARTMAN
Indice Introduzione di Edoardo Razzini
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Scheda sullo psicodramma di Edoardo Razzini
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Il trattamento istituzionale di pazienti adulti 23 Il teatro della follia: lo psicodramma nell’istituzione psichiatrica 25 di Edoardo Razzini, Sabrina Dolcini Le tecniche psicodrammatiche: dalla tradizione all’innovazione 51 di Giovanna Marrone, Edoardo Razzini, Emanuela Pagliarulo Il lavoro terapeutico con bambini e adolescenti 75 Lo psicodramma in una psicoterapia infantile 77 di Clotilde Rossi La scena del debutto. Lo psicodramma di gruppo con adolescenti 107 di Stefania Baldo, Gabriella Masotta Trattamento breve di giovani affetti da disturbi alimentari 127 di Edoardo Razzini, Alice Passarini, Sabrina Dolcini Un’esperienza di psicodramma con pazienti autistici ad alto funzionamento 157 di Edoardo Razzini, Giovanna Marrone, Valeria Pace Lo psicodramma in formazione Il lavoro sul burnout con operatori di comunità di Gabriella Masotta
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La formazione relazionale dei medici di medicina generale 203 di Edoardo Razzini, Claudia Giangregorio Emozioni in psichiatria. L’uso della drammatizzazione con operatori di un dipartimento di salute mentale 219 di Claudia Giangregorio, Edoardo Razzini Conclusioni 237 di Edoardo Razzini
Introduzione di Edoardo Razzini
Nel lavoro istituzionale con soggetti gravi, ma anche con pazienti in età evolutiva, è da tempo invalso l’utilizzo di attività e proposte terapeutiche che non si basano solo sul linguaggio e sulla comunicazione verbale ma anche e soprattutto sulla dimensione della rappresentazione drammatica. Il principio che sottende questa scelta è che in molte situazioni, sia per una alterazione sul piano psicopatologico sia per una immaturità nei processi di pensiero e nella funzione comunicativa, la parola, il linguaggio verbale astratto, non veicoli adeguatamente dei messaggi comunicativi significativi. Pensiamo al soggetto psicotico che transita velocemente dal pensiero concreto (nel quale, come diceva Bion, le parole assumono la caratteristica di pietre, cioè di oggetti concreti che non portano con sé un significato leggibile) al razionalismo morboso di Minkowski che vede, nel suo discorso, giustapporsi parole apparentemente logiche ma vuote di contenuti affettivi. Ma pensiamo anche a bambini e adolescenti che sicuramente si esprimono al meglio con l’azione e nutrono nei confronti del linguaggio verbale una sorta di diffidenza, come se si trattasse dell’ennesimo trucco inventato dai loro genitori per sottometterli. E che dire, infine, di quella tipologia di casi che affollano ambulatori, pronto soccorsi e anche reparti psichiatrici utilizzando avidamente, ma spesso senza costrutto, tutte le proposte che vengono loro rivolte senza molta convinzione da operatori che si sentono letteralmente assediati: mi riferisco al campo ampio e magmatico occupato dai disturbi di personalità tra i quali giganteggia la figura dell’‘uomo senza inconscio’,
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quel nuovo tipo psicologico che vive solo nell’immediato, non sa tollerare attese e differimenti, non pensa ma agisce, vive in una superficie piatta e angosciante. Credo che sia una esperienza comune affrontare, in ambulatorio o in ospedale, soggetto tossicodipendenti o persone portatrici di un grave disturbo alimentare che parlano ‘come libri stampati’ dei loro problemi dando nel contempo la sensazione di essere lontani anni luce dal loro interlocutore o, perlomeno, dimostrandosi interessati unicamente a evitare come la peste una relazione significativa. In questi casi ci può aiutare il concetto di pseudomentalizzazione elaborato, in particolare, dalla scuola di Fonagy, con il quale viene connotata quell’attitudine alla intellettualizzazione che rifugge da un reale contatto emotivo con gli altri perché manca di spessore ed esclude ogni coinvolgimento empatico. Ma la mancanza di contatto può essere riconducibile anche a particolari disabilità che possono ostacolare specificamente la comunicazione e la relazione: ci riferiamo alle varie forme di autismo di cui verremo a conoscere, in questo libro, alcuni simpatici esponenti, i soggetti Asperger con la loro chiusura, le loro goffaggini comunicative, ma anche la grande voglia di superare quelle barriere che loro stessi si sono costruiti intorno. Ma torniamo alle questioni iniziali. La nostra impressione, suffragata da tante esperienze cresciute talora spontaneamente nei servizi preposti alla cura delle categorie dei soggetti succitati, è che molti pazienti siano raggiungibili solo attraverso il fare, un fare, intendiamoci, che deve avere una forte connotazione simbolica in modo da veicolare ed esprimere i contenuti del mondo interno del paziente stesso permettendone, laddove sia il caso, la decodifica e la interpretazione. Lo psicodramma, nelle sue varie forme che includono il sociodramma, il role playing, e la possibile integrazione con altre attività espressive come la musica, la figurazione e il movimento può costituire un importante strumento per avvicinarsi in modo autentico a vecchie e nuove patologie
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imperniate, appunto, su una specifica impasse della comunicazione simbolica. Se ne è accorta da tempo la scuola francese che da più di cinquant’anni si è adoperata per integrare la drammatizzazione con la psicoterapia analitica creando un ponte tra Moreno e Freud; ma anche in ambito anglosassone le tecniche psicodrammatiche, più spesso apparentate alle teorie e alle metodologie cognitiviste, hanno assunto una importanza crescente in campo terapeutico e, soprattutto, riabilitativo. Se, con Alessandrini che espone i meccanismi di funzionamento delle terapie espressive in un bell’articolo su Psychomedia, noi pensiamo che il linguaggio, qualsiasi tipo di linguaggio verbale e non, sia fondato su due modalità di pensiero: il pensiero riflessivo, astratto, logico, e quello simbolico, immaginativo, emotivo, dobbiamo certamente concordare che molte persone si muovano con più agio o con meno dolore nel secondo ambito, quella popolato da rappresentazioni, immagini, emozioni e sensazioni. Ma allora, seguendo il principio aureo esposto con vigore e onestà intellettuale da Zapparoli, secondo il quale non sono i pazienti a doversi adattare alle nostre proposte ma noi terapeuti a doverci piegare alle regole di pensiero e alle esigenze dei nostri utenti, possiamo arrivare a pensare che proprio le tecniche psicodrammatiche possano essere, talora, lo strumento elettivo per raggiungere quella piccola folla di soggetti che non hanno acquisito la capacità di muoversi con disinvoltura e autenticità nei meandri della comunicazione verbale. E il pensiero, a questo punto, va a un grande clinico come Sassolas che interpreta la frammentazione dello schizofrenico come l’estremo tentativo, appunto, di evitare il dolore procurato, in questi soggetti, dall’attività mentale. Lo psicodramma e le tecniche rappresentazionali sono caratterizzate dalla adozione di codici comunicativi che poggiano specificamente sul pensiero irriflessivo, emotivo e immaginativo.
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Pensiamo a una scena psicodrammatica nella quale un paziente, con aspetti fortemente schizoidi, rievoca un trauma dell’infanzia, una caduta apparentemente banale, con poche conseguenze pratiche (due-tre punti di sutura). Nella scena il piccolo incidente produce una reazione (volutamente spropositata) dei genitori che se la prendono con la maestra e, nel contempo, riempiono di attenzioni il figlio ferito. Alla fine, lo stesso soggetto, fino ad allora assolutamente impermeabile a qualunque coinvolgimento affettivo ma abituato a comunicare per teorie, come una sorta di psicologo da rotocalco, mostra gli occhi lucidi e riesce a parlare in modo finalmente accorato di quanto si è sentito poco curato dai suoi. Cosa è successo? Evidentemente la partecipazione a una messa in scena fortemente connotata sul piano emotivo ha riattivato tracce mnestiche rimosse, soprattutto, scisse dal loro contenuto affettivo, dando al paziente la possibilità di riappropriarsi di una parte significativa della propria storia. Ma rievochiamo anche un’altra vignetta clinica, questa volta ambientata in una comunità dove una paziente molto regredita e disorganizzata ha assunto il ruolo della ‘pecora nera’, spesso derisa dagli altri degenti per le sue condotte bizzarre e inconcludenti. È il caso di Maria, inserita in un gruppo di psicodramma aperto a tutti gli ospiti, che si è scelta ancora una volta il ruolo della guastafeste, interrompendo spesso la rappresentazione e non riuscendo mai a calarsi nella sua parte. Ma in una occasione, quando il gruppo decide di rappresentare la scena di una festa in una villa principesca, la anziana psicotica si propone inopinatamente per il ruolo di una giovane cameriera, a nome Sofia Loren, e inizia a incedere con passo regale sui bordi di una piscina immaginaria sorreggendo un altrettanto virtuale vassoio colmo di bicchieri. È la prima di una serie di interpretazioni, sempre più coinvolgenti
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e complesse, che gradualmente conducono il gruppo a rivedere radicalmente il giudizio precedentemente formulato su Maria, riuscendo a cogliere le sue ricchezze e ad accettarne i deficit. Lo psicodramma, in questo caso, ha riattivato quelli che Moreno definiva i ‘ruoli latenti’ di questa paziente, quella parte sana che la vita di comunità non era riuscita in precedenza a stanare. La rappresentazione scenica come strumento indispensabile per esprimere l’inesprimibile. Ma anche come una forma di terapia per attivare un cambiamento seppur piccolo nella economia emotiva e nello stile di pensiero del paziente. Nello psicodramma questo si può rivelare attraverso la evoluzione da modalità cognitive povere di astrazione e prive di un alone affettivo a un pensiero ricco, sfumato, attento alla relazione e carico di emozioni. I pazienti che all’inizio tendono a rappresentare scene che sono la pallida e stereotipa copia di quelle avvenute in realtà, ampliano progressivamente il loro repertorio, sviluppano una impensata capacità immaginativa, riescono a muoversi sempre più agevolmente nella dimensione ‘come se’ e più si discostano dalla semplice ripetizione di una realtà apparentemente immutabile più si mostrano capaci di rivelare se stessi e di integrare, conseguentemente nel loro sé, parti precedentemente misconosciute. Ma non vi è solo la pratica clinica a suffragare l’importanza di attività e di terapie fino a qualche tempo fa considerate come accessorie, utili soprattutto in ambito riabilitativo e con pazienti irraggiungibili da proposte tecniche più raffinate e basate sulla parola. Anche le evidenze in campo neurofisiologico, e ci riferiamo alla presenza e al funzionamento dei tanto citati neuroni mirror, stanno a testimoniare i meccanismi di azione di queste tecniche e il loro ruolo fondamentale nel lavoro psicoterapico. Sappiamo che i neuroni mirror ci permettono di percepire il movimento altrui e di riconoscerne le intenzioni attraverso l’attivazione, da parte
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nostra, degli stessi schemi motori in funzione nella persona che abbiamo davanti. Quindi un atto squisitamente cognitivo può essere avviato senza scomodare le aree cerebrali preposte al pensiero ma con il semplice coinvolgimento del corpo. Lo stesso meccanismo permette il riconoscimento delle emozioni altrui e l’attivazione di una risposta empatica. Sembra infatti che anche la vista di un soggetto che dimostra una reazione emotiva (di paura, disgusto o altro) possa attivare in colui che la percepisce le stesse aree corticali che stanno alla base di quelle emozioni innescando le vie neurali visceromotorie competenti. Stiamo parlando di teorie assolutamente fondate che dimostrano come, anche senza il pensiero cosciente e la parola, possano essere veicolati messaggi anche molto raffinati e si possano creare risposte di empatia e relazioni affettive interindividuali capaci di produrre forti effetti nei soggetti coinvolti. Ricerche attualmente ancora iniziali stanno ipotizzando la presenza di un deficit nel funzionamento dei neuroni mirror in soggetti psicotici che, generalmente, sono infatti meno capaci di decodificare le emozioni altrui e di manifestare una intenzionalità nelle loro azioni e nelle loro manifestazioni affettive. La mia impressione, puramente soggettiva ma verificabile nella pratica clinica, è che proprio in base a questi meccanismi (il riconoscimento delle azioni e delle emozioni proprie e altrui, la risposta empatica, la creazione di una risonanza, la evoluzione della capacità relazionale) le tecniche psicodrammatiche (accanto agli altri dispositivi implementati dai servizi) possano svolgere una funzione fondamentale producendo un miglioramento graduale ma molto sensibile che si ripercuote sulla vita di relazione e sulla capacità di autonomia del soggetto. Da qui a dire che queste pratiche possano incidere positivamente su questo sistema neuronale ce ne corre: ma chissà…
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