con il Patrocinio del Ministero degli Affari Esteri
Premio “Luciana Falotico” 2011 dodicesima edizione
Wine marketing per l’internazionalizzazione: Italia e Francia a confronto Tesi di
Adele Bertozzi
PREFAZIONE DEL CENTRO STAMPA OFFSET DI IMPERIA
In qualità di fedele aderente della Camera di Commercio Italiana di Nizza, sono molto onorato di aver contribuito alla creazione del Premio Falotico, 12 anni or sono, e di aver partecipato come partner attivo a tutte le edizioni. Ritengo che le capacità dei giovani, unite al loro entusiasmo, siano delle risorse fondamentali per il futuro del nostro Paese e che il Premio Falotico rappresenti un riconoscimento alla loro attività e un incoraggiamento a dare il loro meglio. Ringrazio la Camera di Commercio Italiana di Nizza che, condividendo queste mie idee, continua a organizzare il premio, edizione dopo edizione, con lo stesso entusiasmo del primo anno. Ma il principale ringraziamento va, ovviamente, ad Adele Bertozzi, che ha meritato il premio per la qualità del suo lavoro, approfondito ed estremamente interessante, sulla promozione delle aziende vitivinicole, con un paragone tra aziende italiane e francesi molto stimolante. A lei vanno tutti i miei complimenti e gli auguri per una fruttuosa carriera professionale!
Giovanni Amadeo
Riproduzione vietata. Proprietà letteraria riservata. Edizione fuori commercio.
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PREFAZIONE Come ogni anno siamo entusiasti di presentare una nuova edizione del Premio Luciana Falotico, un appuntamento annuale dei più rilevanti per la nostra Camera di Commercio italiana di Nizza che lo creò nel lontano anno 2000 in memoria dell’ ex funzionaria del Ministero Italiano degli Affari Esteri, personaggio indimenticabile, intraprendente e sensibile alle problematiche dei giovani e del loro inserimento nel mondo del lavoro. Per questa dodicesima edizione, il Premio è stato aggiudicato alla tesi di laurea della Dottoressa Adele Bertozzi della Facoltà di Scienze Linguistiche e Letterature Straniere del Sacro Cuore di Milano, dal titolo: “Wine marketing, Italia e Francia a confronto”. Abbiamo voluto scegliere un argomento che pur restando nel settore economico e delle strategie di maketing internazionale, toccasse un tema tanto caro sia agli italiani che ai francesi quale è il vino, che da sempre mette a confronto i due paesi in interminabili discussioni spesso e volentieri divertenti perché dove c’è vino c’è sempre buon umore. Tale lavoro di ricerca si addentra nell’analisi concreta di alcune imprese vitivinicole delle Langhe a confronto con le “colleghe” d’Oltralpe della Côte d’Or, evidenziando le diverse strategie marketing delle Regioni della Borgogna e del Piemonte in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando. Patrocinato dal Ministero degli Affari Esteri, il Premio quest’anno ha l’onore di aver ottenuto il sostegno delle Camere di Commercio di Torino e di Cuneo alle quali vanno i nostri ringraziamenti, entrambe presenti per mettere in luce il comparto vitivinicolo piemontese in occasione di un momento che oramai, si è ritagliato uno spazio importante e atteso tra i media e gli opinion leaders della Costa Azzurra. Ringraziamo sentitamente il Centro Stampa Offset di Imperia, che con fedeltà ed entusiasmo da anni lavora al nostro fianco per la realizzazione di questo importante evento per il mondo istituzionale ed universitario, e porgiamo le nostre sentite congratulazioni ad Adele Bertozzi, con l’augurio che il Premio le porti fortuna per una brillante carriera professionale.
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Il Premio dedicato a Luciana Falotico è per la Camera di commercio di Torino un’occasione importante per sostenere giovani di valore. Quando poi l’elaborato riguarda il settore vitivinicolo, come nel caso della tesi di Adele Bertozzi, l’iniziativa permette di rafforzare l’obiettivo che istituzionalmente appartiene agli enti camerali: favorire lo sviluppo economico dei territori attraverso la promozione e la valorizzazione delle loro eccellenze. In questo lavoro si aggiungono ulteriori elementi comuni tra il nostro approccio al territorio e la modalità di ricerca di questa giovane laureata: l’interesse per le indagini, per i confronti tra territori, lo studio dei casi di successo, spesso rappresentati da piccole e medie imprese, da sempre asse portante dell’economia italiana. Da anni come Camera di commercio di Torino stiamo concentrando la nostra attenzione sul settore alimentare, che rappresenta in modo importante il “Made in Italy” e il “Made in Piemonte”. Lo facciamo in vari modi. Attraverso l’Osservatorio provinciale sulla contraffazione realizziamo indagini rivolgendoci a cittadini, commercianti e aziende. L’indagine più recente riguarda proprio il consumo di vino tra le famiglie torinesi e dimostra come ci sia ancora da fare per diffondere la conoscenza delle denominazioni di origine e dei territori di provenienza tra i consumatori, che pur li considerano elementi essenziali di un vino di qualità. In questo senso abbiamo una responsabilità notevole: alle Camere di commercio, infatti, è affidata la realizzazione degli esami, chimici e organolettici, che consentono ad un vino di ottenere la denominazione di origine controllata. Inoltre, attraverso proposte editoriali dedicate, la Camera di Torino mira a favorire, tra appassionati e semplici curiosi, la scoperta e la valorizzazione delle ricchezze legate ai sapori e ai profumi del torinese. Questo elaborato dedica particolare spazio all’internazionalizzazione. Per la Camera di commercio di Torino l’export si conferma una via prioritaria di sostegno allo sviluppo. Internazionalizzare però richiede a tutti, in particolare alle piccole e medie imprese, di “ fare squadra”, unendo le forze, scambiandosi informazioni ed esperienze, utilizzando servizi e canali comuni. Mi auguro, dunque, che questo volume, frutto di un’attenta analisi tra realtà del territorio italiano e francese, possa arricchire gli strumenti d’indagine e di studio sul settore vitivinicolo, favorendo il confronto di esperienze, lo sviluppo di buone prassi, l’avvio di dibattiti costruttivi e proficui. Alessandro Barberis Presidente della Camera di Commercio industria artigianato e agricoltura di Torino
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Aziende vinicole della provincia di Cuneo e della Côte d’Or francese a confronto nelle loro scelte di marketing mirato all’internazionalizzazione. Il tema della tesi di laurea di Adele Bertozzi, studentessa della Cattolica di Milano, guarda a uno dei pilastri portanti dell’economia a cavallo tra Langhe e Borgogna, coglie affinità e differenze, sottolinea il ruolo determinante della produzione vinicola, evidenzia il legame profondo tra quest’ultima e il territorio. Il tutto in base ad un’analisi attenta del ruolo svolto da tipicità e qualità, del trend espresso nel tempo, del peso dell’esportazione attraverso canali collaudati. Il “Made in Langhe” e il “Made in Borgogna” vengono analizzati nei dettagli e comparati, nell’intento di cogliere analogie e differenze, rafforzate dalla presenza di attori diversi del processo sui due territori considerati. Interessante, soprattutto, al di là delle accorte dissertazioni generali, l’esame di quattro aziende-campione scelte sui due fronti. In Langa, è toccato alla Cantina Gigi Rosso, alla Ceretto, a Fontanafredda e alla Gianni Gagliado; in Francia, ad altrettanti “domaines”, da quello di Lambrays, all’Armelle et Bernard Rion, al Chantal Lerscure, all’André Corton. Di tutte le realtà si sono esaminati, in base a uno schema fisso, modalità di internazionalizzazione e sistema di promozione e distribuzione del prodotto, sino ad approdare al ritratto della situazione competitiva attuale. La comparazione dei risultati ha portato a conclusioni non scontate. Al di là dell’impegnativo lavoro di ricerca, svolto in gran parte sul campo, merita una sottolineatura l’obiettivo alla base dello studio: l’esame di un contesto che, al di qua e al di là delle Alpi, oltre a impegnarsi per mantenere risultati già acquisiti, guarda all’internazionalizzazione come alla grande opportunità di sviluppo, in nome di una modernità di intenti che non può essere trascurata dall’economia d’oggi. Il settore vinicolo è arrivato prima di altri a guardare lontano, verso Paesi e mercati molto diversi da quelli di origine. Questo lo ha spinto sulla via dell’alta specializzazione, della serietà operativa, della cura attenta estesa a tutta la filiera. Pochi prodotti, come il vino, sono apprezzati a livello mondiale e hanno un alto numero di estimatori slegati dai vincoli della nazionalità. Per questo si è lavorato e si sta lavorando sodo, con il supporto determinante della Camera di commercio, per affrontare con decisione i problemi causati dalla concorrenza di aree arrivate di recente sul mercato, beneficiate da costi produttivi meno elevati di quelli delle aziende italiane e francesi e anche europee in genere. Ci sono stati momenti di timore e perplessità, poi il livello di gradimento ha ripreso a salire, avviando la fase di recupero e affermando il ruolo di una qualità che, a tutt’oggi, è ineguagliabile. Le ottimistiche prospettive per il futuro sono, ormai salvaguardate, nel convincimento che il terzo millennio regalerà ulteriori prospettive di sviluppo a tutte le aree vinicole nel cuore dell’Europa Unita. Ferruccio Dardanello Presidente Camera di Commercio industria artigianato e agricoltura di Cuneo
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Introduzione Il sistema vitivinicolo a livello internazionale si trova, da alcuni anni, in una fase di profondo cambiamento. Il presente lavoro si pone anzitutto come obiettivo di fornire una base informativa sull’evoluzione dello scenario competitivo e una chiave di lettura dei fattori che determinano l’evoluzione dei sistemi vitivinicoli, con particolare riferimento a due Paesi produttori: Italia e Francia. A fronte di un mutamento di contesto caratterizzato dalla presenza di nuovi concorrenti, nuovi consumatori e nuovi distributori, si cercherà di individuare quali modelli di business adottano le aziende vitivinicole italiane e francesi e se sono costrette a modificare la loro strategia al fine di mantenere la propria posizione distintiva. La lettura complessiva dell’elaborato mostra che, per quanto il sistema vitivinicolo mondiale sia stato investito da processi di internazionalizzazione dei flussi commerciali, le filiere produttive nei singoli Paesi mostrano un forte radicamento territoriale. Questo è vero soprattutto per il sistema europeo, nel quale la costruzione storica della qualità è sempre stata legata a spazi territoriali ben definiti. Sarà allora interessante comprendere se il territorio rappresenta un vincolo o un’opportunità per le imprese vitivinicole che vogliono internazionalizzarsi. Partendo, infatti, dal presupposto che la localizzazione e il radicamento al territorio costituiscono caratteristiche distintive delle aziende vitivinicole su cui fondano il proprio vantaggio competitivo, l’interrogativo che ci si pone è se tali aziende sono in grado di valorizzare queste caratteristiche senza chiudersi eccessivamente entro i confini nazionali, ma anzi utilizzando le risorse locali come spinta verso un’apertura internazionale. Più in generale, appare chiaro che, per rispondere alle sfide del mercato mondiale, i sistemi produttivi devono essere in grado di organizzarsi secondo una visione strategica che permetta anche la riuscita competitiva del territorio. Il livello competitivo di un territorio non dipende solo dalla sua capacità di attrarre nuove risorse e rigenerare quelle esistenti per orientarle verso la creazione del valore, ma anche dall’intensità delle relazioni che il territorio attiva con le imprese, poiché si vedrà che esse evolvono contestualmente. Ecco allora delinearsi un altro obiettivo di questa ricerca: indagare le tipologie di reti di relazioni che si creano in una data area, individuare quali attori partecipano alla filiera vitivinicola, a che livello sono coinvolti e in che misura apportano vantaggio competitivo sia al territorio sia alle aziende in esso presenti.
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Le relazioni non sono importanti solo a livello locale, ma sempre più è necessario imparare a relazionarsi con i mercati se si vuole sostenere il futuro competitivo dei vini italiani e francesi. In particolare, gli elementi di maggior difficoltà, su cui le aziende dovranno lavorare, riguardano in primo luogo le forti asimmetrie informative tra produttore e consumatore tipiche di uno scenario così complesso come quello del vino; in secondo luogo fanno riferimento alla capacità che le imprese devono avere non solo nel realizzare un prodotto qualitativamente adeguato alle aspettative del target di consumo cui deve rivolgersi, ma anche alle capacità di promuoverlo e distribuirlo adeguatamente in tutto il mondo. A questo proposito emerge un ulteriore interrogativo, di difficile soluzione, a cui, tuttavia, si forniranno spunti di riflessione. Si tratta della modalità con cui gli imprenditori vitivinicoli italiani e francesi cercano di trasmettere all’estero il proprio patrimonio di saperi e di cultura. È possibile, utilizzando come veicolo una bottiglia di vino, far arrivare ai consumatori internazionali i medesimi valori dell’azienda e le peculiarità del contesto in cui produce i suoi beni? Per cercare una risposta a questi quesiti, si è strutturato l’elaborato in tre macro parti. Una prima parte (capitoli 1 e 2), di natura teorica, prevede la spiegazione del processo di internazionalizzazione delle PMI e il loro legame con il territorio. Nella seconda parte (capitoli 3 e 4) si entra nel merito della questione, analizzando il settore vitivinicolo in Italia e in Francia con focus sull’area delle Langhe in Piemonte e sull’area della Côte d’Or in Borgogna. Infine la terza parte (capitolo 5), di natura empirica, raccoglie i casi di alcune aziende vitivinicole italiane e francesi. Più nel dettaglio, il primo capitolo ha lo scopo di illustrare a livello teorico le caratteristiche delle Piccole e Medie Imprese (PMI) italiane e le modalità con cui esse affrontano i mercati internazionali. Si osserveranno le difficoltà a cui devono far fronte e le opportunità che il mercato offre loro per poi valutare, in un secondo momento, se questi elementi sono riscontrabili anche a un più specifico livello, e cioè nelle aziende del settore vitivinicolo.
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Nel secondo capitolo si affrontano due tematiche diverse ma strettamente interrelate: il territorio e la filiera. Dopo aver fornito una definizione di questi due concetti, si analizzeranno, in particolare, il territorio del vino e la corrispettiva filiera vitivinicola, allo scopo di individuare gli attori che vi prendono parte e le relazioni che si innestano per valorizzare l’offerta dei beni prodotti. La seconda e la terza parte sono impostante seguendo uno schema il più possibile speculare, al fine di agevolare la comparazione tra Italia e Francia. Il terzo capitolo offre un quadro dettagliato del settore vitivinicolo descrivendo i trend e le logiche competitive prima a livello globale e poi a livello nazionale, grazie alla consultazione di fonti primarie e secondarie. Si delinea, in questo modo, uno scenario evolutivo in cui poter inserire le aziende vitivinicole del Piemonte e della Borgogna. La situazione competitiva di queste due regioni sarà approfondita nel quarto capitolo, dove verranno altresì analizzate due zone specifiche di tali regioni: le Langhe e la Côte d’Or, al fine di individuare per ciascuna di esse lo stato attuale della filiera e i principali attori che vi operano. Il quinto ed ultimo capitolo consiste nella verifica empirica, su un campione di quattro aziende italiane e quattro francesi, degli elementi emersi nel corso dei capitoli precedenti. Si cercherà di comprendere, mediante l’elaborazione dei dati qualitativi raccolti durante le interviste, in che modo le realtà delle Langhe e della Côte d’Or affrontano le logiche del mercato e vendono i propri prodotti all’estero allo scopo di rafforzare la loro posizione distintiva rispetto ai concorrenti. Si valuterà, infine, la situazione competitiva di ciascuna azienda così da delineare, secondo una logica induttiva, un ipotetico quadro generale della situazione competitiva italiana e francese in campo vitivinicolo.
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Capitolo I L’internazionalizzazione delle pmi italiane L’obiettivo di questo primo capitolo è quello di spiegare, in primo luogo, quali sono le caratteristiche distintive e i fattori di debolezza delle PMI italiane, per poi descriverne in un secondo momento le logiche di internazionalizzazione, le modalità con cui operano nei mercati esteri e le sfide che il contesto attuale le costringe ad affrontare. Saranno infine presentate due tipologie organizzative caratteristiche del nostro Sistema Paese, i distretti ed i consorzi, che, data la loro stretta relazione con il territorio, serviranno ad introdurre le tematiche del secondo capitolo.
1.1. L’attuale scenario economico: globalizzazione e crisi Nel corso dell’ultimo decennio, lo scenario economico mondiale è profondamente cambiato. La globalizzazione dell’economia, il crescente peso sulla scena internazionale della Cina, la sempre più decisiva rilevanza del capitale umano come fattore strategico per lo sviluppo, la crisi della domanda interna e dei sistemi produttivi locali impongono alle imprese piccole, medie e grandi una maggiore presenza sui mercati internazionali all’interno dei quali risulta indispensabile incrementare le proprie capacità di competizione. È importante sottolineare che l’internazionalizzazione non attiene esclusivamente alle imprese di grandi dimensioni; infatti, un’azienda non deve essere necessariamente grande per competere in campo globale. Si ritiene invece che le variabili determinanti l’internazionalizzazione delle PMI siano la risorsa umana e le relazioni che questa riesce a sviluppare non solo all’esterno, ma anche nello stesso territorio in cui è inserita. Informazione condivisa, conoscenza e innovazione sono quindi gli elementi strategici sui quali le imprese italiane dovrebbero puntare per aggredire con successo i mercati internazionali1. Pertanto, la globalizzazione non comporta una mancanza di futuro per le PMI italiane: infatti, nei vari mercati, anziché riscontrare la presenza Esposito G. F., La globalizzazione dei piccoli: fattori di competizione e promozione dell’internazionalizzazione per le PMI, FrancoAngeli, Milano, 2003.
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di consumatori universali ai quali offrire prodotti unici utilizzando politiche commerciali identiche, è possibile individuare segmenti di consumatori con bisogni diversi ai quali offrire prodotti differenziati2. Di conseguenza, le PMI possono continuare ad operare in particolari segmenti sfruttando le risorse e le competenze distintive possedute. Non si può affrontare l’argomento dell’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese italiane senza prima aver fornito un accenno dell’attuale scenario economico ed, in particolare, della crisi scoppiata nell’estate del 2007, che tutt’oggi sta interessando in maniera omogenea e trasversale e con intensità differenziate, tutte le aziende delle regioni italiane. Un breve ed interessante quadro della situazione è offerto dal rapporto 2009 dell’istituto Tagliacarne, che affronta il problema di riposizionamento e riorganizzazione delle PMI “oltre” la crisi. L’Italia chiude il 2009 con un PIL in calo del 4,9% sul 2008, ma si stima un leggero rialzo dello 0,2% nel 20103. Nel rapporto4 si afferma che le criticità più marcate incontrate dal tessuto produttivo sono riconducibili a tre ordini di fattori: la riduzione dei consumi, dovuta anche alla diminuzione dei valori dei risparmi delle famiglie italiane penalizzate dalla crisi delle Borse; la difficoltà delle imprese, in particolare di piccole dimensioni, ad accedere al credito; il rallentamento dell’economia internazionale che deprime l’andamento delle nostre esportazioni. Il 2008 si contraddistingue comunque per una buona performance delle PMI manifatturiere italiane. Il saldo del fatturato, infatti, si attesta al +8,7% a fronte del valore negativo del 2007 (-15,7%). Inoltre, non tutti i settori sono affetti dalla crisi in eguale misura. Ad esempio, le imprese del comparto alimentare e delle bevande sperimentano la crescita più sostenuta sia in termini di produzione (+6%) che di fatturato (+7,1%). Tale andamento dell’industria alimentare si può far risalire al fatto di essere un settore che offre beni di prima necessità, la cui domanda è, quindi, meno influenzabile dal ciclo economico. Infine, il rapporto ha individuato nella riduzione delle spese esterne, nella ricerca della qualità e in un miglior rapporto qualità/prezzo, le principali leve su cui le aziende interverranno per contrastare gli effetti della crisi. Galdini D., L’internazionalizzazione d’impresa. Processi, metodi e strategie, Giappichelli, Torino, 2009. 3 Il Corriere della Sera, 12/02/2010. 4 Istituto G. Tagliacarne (a c. di), Le piccole e medie imprese nell’economia italiana. Rapporto 2009. Riorganizzazione e riposizionamento delle PMI italiane “oltre” la crisi, FrancoAngeli, Milano, 2010. 2
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1.2. Le caratteristiche delle PMI: punti di forza e di debolezza In un Paese come l’Italia, dove le piccole e medie imprese rappresentano il tessuto portante del sistema economico, il tema dell’internazionalizzazione delle PMI assume notevole interesse. Le PMI sono l’asse portante dell’industria italiana ed in particolare delle “4A” dell’eccellenza del Made in Italy. Con questa espressione si intendono quattro grandi aree di attività manifatturiera che pongono l’Italia ai vertici mondiali. Esse sono: arredamento-casa, abbigliamento-moda, automazione-meccanica, agro-alimentare. Dalle PMI dipendevano, nel 2005, il 90,7% dell’occupazione e il 77,6% dell’export del Made in Italy5. Nel 2007, il 90% del tessuto manifatturiero italiano si componeva di aziende con non più di diciannove addetti, l’80% non superava i nove addetti6. Nel corso degli ultimi decenni, le PMI italiane hanno conseguito importanti risultati a livello internazionale. Il loro successo sui mercati internazionali si lega ad una serie di caratteristiche distintive identificabili nella qualità del prodotto, associata ad un competitivo rapporto qualità-prezzo e nella capacità di adattarsi flessibilmente alle variazioni di mercato. Nell’attuale scenario competitivo internazionale, caratterizzato da una domanda sempre più sofisticata e in rapida evoluzione, la flessibilità si rivela un fattore di notevole importanza. Grazie a questa caratteristica le piccole e medie imprese italiane riescono a mutare con efficacia ed in tempi brevi la qualità e la quantità della propria produzione, adattandosi con facilità all’andamento del mercato e al cambiamento dei gusti dei consumatori7. L’attenzione al prodotto è l’elemento caratterizzante dell’offerta delle PMI italiane, soprattutto quelle operanti nei settori tradizionali. Esse, infatti, essendo nate per merito di artigiani in possesso di competenze tecniche, presentano ancora oggi un forte attaccamento al prodotto che permette loro di realizzare beni di alta qualità, con un elevato contenuto di immagine, innovazione e design8. Inoltre, la particolare attenzione delle imprese italiane alla soddisfazione del cliente, Fortis M., Le due sfide del Made in Italy: globalizzazione e innovazione. Profili di analisi della seconda conferenza nazionale sul commercio con l’estero, Il Mulino, Bologna, 2005, p.77. 6 AIP (a c. di), Modelli di crescita delle PMI: ritorno alla competitività tra questione dimensionale, innovazione e internazionalizzazione, Il Sole 24ore, Milano, 2007. 7 Depperu D., L’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, EGEA, Milano, 1993. 8 Brunetti G., Mussati G., Corbetta G. (a c. di), Piccole e medie imprese e politiche di facilitazione, EGEA, Milano, 1997. 5
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le porta a personalizzare e modificare costantemente la loro offerta secondo le esigenze e le specifiche dei diversi acquirenti. Infine, strettamente legato alla qualità del prodotto vi è la capacità delle PMI italiane di ottenere un rapporto qualità-prezzo particolarmente competitivo. Tale rapporto assume connotazioni diverse nelle varie fasi del ciclo di vita del prodotto. Nella fase di lancio e di sviluppo, la politica di prodotto è la più importante, almeno finché riesce a mantenere il proprio carattere innovativo; nella maturità è il prezzo a farsi preponderante9. Invece gli aspetti relativi al marketing, alla commercializzazione, al reperimento di informazioni, alla distribuzione sono oggetto di un’attenzione molto più limitata e ad essi le imprese vi investono scarse risorse. Accanto ai fattori di forza esistono, tuttavia, numerosi punti di debolezza nella crescita internazionale delle imprese minori italiane: scarsa cultura all’internazionalizzazione, carenze di natura informativa, inadeguatezza della struttura organizzativa, mancanza di personale qualificato e scarsi mezzi finanziari. Innanzitutto, va rilevata un’insufficiente cultura all’internazionalizzazione10. Le imprese italiane partecipano attivamente all’esportazione nazionale, ma sono restie ad avviare collaborazioni ed investimenti transnazionali, in quanto temono che esportare tecnologia e know-how in altri Paesi porti a rafforzare la concorrenza esterna. Non si può inoltre trascurare che i vantaggi competitivi delle imprese minori hanno spesso carattere localizzato, nel senso che risiedono in un sistema territorialmente integrato e complementare di clienti, fornitori, servizi e conoscenze (che costituisce appunto il distretto), il quale manifesta carattere di unicità ed è difficilmente replicabile all’estero11. Si riscontrano carenze di natura informativa, concernenti ad esempio i Paesi di riferimento, i potenziali mercati, la distribuzione, gli strumenti di comunicazione, la concorrenza e i clienti. In genere i sistemi informativi delle PMI si caratterizzano per un elevato grado di informalità e risultano essere poco efficaci ed efficienti, risultando inadeguati per la raccolta e l’elaborazione delle informazioni. Per sopperire a queste mancanze, è necessario che l’azienda disponga di un adeguato sistema di informazioni. Tuttavia la raccolta di materiale Pepe C., Lo sviluppo internazionale delle piccole e medie imprese, FrancoAngeli, Milano, 1984, p. 89. 10 Cedrola E., Il marketing internazionale per le piccole e medie imprese, Mc Graw-Hill, Milano, 2005. 11 Mariotti S., Mutinelli M., La crescita internazionale per le PMI. Strumenti, modelli e strategie per conquistare i mercati, Il Sole 24ore, Milano, 2003. 9
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informativo è costosa, richiede tempo e personale qualificato, in contrasto col poco tempo disponibile e la scarsità di risorse manageriali e finanziarie della piccola impresa. Si rilevano, inoltre, difficoltà legate alla gestione e all’organizzazione delle attività internazionali. La conduzione delle piccole aziende è il più delle volte affidata in prima persona all’imprenditore-proprietario o a persone con intuito ed esperienza, ma insufficientemente abilitate al coordinamento di tutte le attività aziendali. La scarsa esperienza e formazione dell’équipe dirigenziale (o del proprietario-imprenditore) può essere all’origine di diversi impedimenti nel momento in cui l’impresa s’internazionalizza. Essa allora si troverà nella necessità non solo di rivedere le strutture organizzative, ma anche la modalità di gestione che dovrà essere caratterizzata dall’impiego di un sistema informativo più efficace e da un’azione commerciale più incisiva12. Per l’impresa internazionalizzata è più difficile gestire dal centro tutte le attività aziendali, in quanto operare direttamente sui mercati esteri significa insediarvi strutture produttive, commerciali, distributive che l’imprenditore non può gestire senza delegare ai suoi collaboratori13. Sicuramente un interessamento in prima persona dell’imprenditore è elemento positivo, in quanto permette decisioni rapide conferendo flessibilità all’azienda, ma può d’altro canto limitare le possibilità di sviluppo internazionale. Infatti, accentrare nelle mani dell’imprenditore la gestione di funzioni e compiti diversi, porta spesso ad un’insufficiente selezione delle informazioni, ad analisi incomplete e all’impossibilità di pianificare lo sviluppo internazionale. Un ulteriore punto di debolezza è rappresentato dalla carenza di risorse umane specializzate14. Spesso, infatti, i dirigenti (o l’imprenditore-proprietario) si pongono di fronte all’attività internazionale con evidenti limiti personali, come l’impreparazione linguistica o la diffidenza verso ambienti culturalmente diversi. Invece, di fronte a mercati sempre più competitivi, l’impresa deve rendersi flessibile e disporre di personale in possesso di adeguate competenze. La difficoltà di reperimento si estende, oltre che alle figure manageriali, anche al personale tecnico. Tuttavia, per le PMI, procurarsi personale qualificato e disponibile a trasferimenti all’estero comporta costi elevati e generalmente possono permetterselo solo quando l’attività internazionale è già consolidata.
Pepe C., op. cit. Depperu D., L’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, EGEA, Milano, 1993. 14 Galdini D., op. cit. 12 13
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Infine, la scarsità di mezzi finanziari di cui dispongono le PMI incide negativamente su tutte le funzioni aziendali. Infatti, la dimensione internazionale può esigere un rinnovamento tecnologico, un potenziamento delle funzioni commerciali, una raccolta di informazioni accurate oltre ad un possibile autofinanziamento almeno in una fase iniziale15. PUNTI DI FORZA
PUNTI DI DEBOLEZZA
flessibilità;
scarsa cultura all’internazionalizzazione;
orientamento al prodotto;
sistema informativo carente;
buon rapporto qualità-prezzo.
struttura organizzativa inadeguata; personale qualificato insufficiente; scarsi mezzi finanziari.
Tab. 1.1: Sintesi dei punti di forza e di debolezza delle PMI italiane In conclusione, le PMI si trovano evidentemente di fronte ad una situazione in cui la scarsità di risorse umane e finanziarie e di conoscenze ostacola il processo di internazionalizzazione, incidendo in particolare sulla possibilità di effettuare un’attenta analisi e valutazione delle opzioni strategiche e sulla capacità di instaurare rapporti stabili con i mercati esteri. Tuttavia, per le imprese che intraprendono questa strada, si intravede la possibilità di raggiungere importanti successi grazie all’accesso a nuove fonti per il reperimento di risorse e competenze16.
1.3. I fattori che influenzano i comportamenti di internazionalizzazione delle PMI Il processo di internazionalizzazione di un’impresa ha origine da una serie di fattori che possono essere di natura interna o esterna all’impresa. Le spinte di origine ambientale comprendono le caratteristiche dei sistemi competitivi in cui l’impresa opera e di quelli in cui vorrebbe operare e possono essere distinte in due categorie17: la prima è formata dalle condizioni che determinano l’apertura dei mercati e dei sistemi produttivi tendenti a collocare Pepe C., op. cit. Caroli M., Lipparini A., Piccole imprese oltre confine. Competenze e processi d’internazionalizzazione, Carrocci editore, Roma, 2002, p. 202. 17 ivi 15 16
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anche l’azienda minore in una dimensione internazionale. La seconda categoria è costituita dall’insieme delle condizioni tangibili e intangibili che caratterizzano l’ambiente e che incidono sulla capacità delle imprese locali di seguire con successo un determinato processo di internazionalizzazione. Nell’ambito dei sistemi competitivi, gli attori che vi prendono parte (fornitori, consumatori, concorrenti) possono, con i loro comportamenti, incentivare od ostacolare l’impresa nel suo processo di internazionalizzazione18. Per fare un esempio, quando i consumatori di diversi Paesi tendono all’omogeneizzazione, le imprese sono indotte a produrre e vendere un prodotto uniforme che risponda in maniera indifferenziata ai bisogni da questi manifestati. Anche i sistemi politici ed economici, sia del Paese di origine sia dei Paesi in cui l’azienda intende operare, rappresentano una forza che può spingere o contrastare l’internazionalizzazione in base alla presenza o meno di barriere normative e a seconda delle scelte di politica economica, monetaria e degli investimenti. Infine, l’evoluzione tecnologica è un elemento favorevole all’internazionalizzazione in quanto consente alle imprese di mettere a punto offerte differenziate o di sviluppare la ricerca nei Paesi di riferimento. L’insieme degli elementi interni che influenzano il processo di internazionalizzazione può essere sintetizzato nella cosiddetta formula imprenditoriale, riconducibile cioè alle caratteristiche dell’imprenditore o dei soggetti che hanno potere decisionale. Più in generale, il processo di espansione estera è influenzato dall’insieme di risorse che la PMI ha a sua disposizione. È necessario che abbia adeguate informazioni circa il mercato di riferimento, che possieda le risorse finanziare necessarie per avviare la propria espansione, che abbia capacità produttiva ed organizzativa. Inoltre, l’orientamento strategico dell’impresa è influenzato dalle variabili aziendali, riconducibili all’assetto istituzionale, agli obiettivi e alla struttura dell’impresa19. Le caratteristiche dell’assetto istituzionale sono determinanti per l’analisi del processo di internazionalizzazione delle imprese e da esse dipendono gli obiettivi aziendali che l’impresa intende conseguire a livello internazionale. La struttura dell’azienda dà un’idea dei punti di forza e di debolezza, delle risorse e delle competenze sulle quali l’impresa può contare per realizzare l’espansione all’estero.
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Depperu D., L’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, EGEA, Milano, 1993. Ibid.
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Oggi per una PMI non è possibile inserirsi in un nuovo mercato estero senza svolgere una serie di attività, tra cui20: - analisi delle variabili macroeconomiche del Paese; - analisi della potenziale domanda rispetto al bene/servizio che l’azienda intende commercializzare nel Paese; - analisi dei canali di distribuzione dei beni e servizi oggetto dell’internazionalizzazione; - analisi dei potenziali competitor presenti sul mercato estero, per capire le reali possibilità di penetrazione del mercato; - analisi delle condizioni accessorie/servizi post vendita del nuovo mercato potenziale. Infatti, la decisione di internazionalizzarsi richiede non solo la disponibilità di informazioni differenziate per ciascun mercato estero, ma anche lo sviluppo di adeguate capacità di analisi e valutazione di situazioni disomogenee. Informazione e capacità di elaborazione diventano pertanto fattori strategici di primaria importanza nell’ambito delle scelte di internazionalizzazione21. Le analisi brevemente descritte permettono quindi all’imprenditore di orientarsi in modo concreto verso le possibilità di entrare con successo in un mercato internazionale. Se il processo di internazionalizzazione offre numerose opportunità alle PMI, questo non è certo privo di rischi. Le principali minacce sono22: la necessità di adeguamento delle caratteristiche del prodotto/servizio ai gusti del mercato di riferimento internazionale; la necessità di individuare il canale distributivo più efficace allo sviluppo commerciale desiderato; gli alti investimenti in termini di comunicazione e pubblicità per penetrare il nuovo mercato; la necessità di presidiare il mercato con risorse umane competenti e di fiducia che facciano proprie la cultura e la mission dell’azienda, onde evitare di dare un’immagine sbagliata della stessa. Per quanto riguarda le opportunità, vanno ricordate23: la possibilità di aumentare in modo sensibile il fatturato, ormai difficile sul mercato nazionale; la spinta all’innovazione continua del prodotto/servizio, che può portare benefici anche sul mercato nazionale; la maggiore diversificazione del portafoglio clienti, quindi minori rischi in caso di insolvenze; i vantaggi competitivi che hanno determinato il successo sul mercato domestico possono Moneta A., “Processi di internazionalizzazione delle PMI: minaccia o opportunità?”, in PMI, 2007, n.6, p. 57. 21 Cafferata R., Genco P. (a c. di), Competitività, informazioni e internazionalizzazione delle piccole-medie imprese, Il Mulino, Bologna, 1997. 22 Moneta A., op. cit. 23 Ibid. 20
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essere facilmente replicati all’estero; infine, localizzarsi all’estero consente di aumentare i vantaggi competitivi grazie alla possibilità di accedere a fattori produttivi a più basso costo tra cui le risorse umane e le materie prime, ma anche a risorse intangibili come il know-how o le tecnologie più evolute.
1.4. Modalità d’ingresso sui mercati esteri Una volta presa coscienza delle minacce e delle opportunità offerte dall’internazionalizzazione e dopo aver effettuato un’analisi attenta ed approfondita di tutti gli aspetti inerenti al Paese di riferimento, l’azienda deve considerare alcuni ulteriori fattori, tra cui24: i costi di attuazione e gestione, i benefici previsti nel breve e lungo periodo, il livello di rischio atteso e la capacità dell’impresa di sfruttare le proprie leve competitive. A questo punto può decidere qual è la modalità di insediamento più idonea attraverso cui gestire e organizzare le attività estere. Le modalità d’ingresso sui mercati esteri si suddividono in tre macroclassi: l’esportazione (diretta o indiretta); gli accordi contrattuali; gli investimenti diretti all’estero (IDE). In generale si può affermare che le PMI tendono a minimizzare gli investimenti fissi specifici e scelgono pertanto la modalità di internazionalizzazione caratterizzata dal grado minimo di investimento fisso specifico, cioè l’esportazione. Tenderanno dunque a preferire modalità più “leggere” di crescita internazionale, vale a dire quelle che richiedono un minor impiego di risorse finanziare e manageriali25. Oggi, tuttavia, anche tra le piccole e le medie imprese, le forme di internazionalizzazione diverse dall’esportazione hanno raggiunto una diffusione significativa. Poiché quasi nessuna azienda vitivinicola italiana analizzata ha posto in essere accordi contrattuali internazionali e nessuna effettua investimenti diretti all’estero, di queste due modalità si farà solo un breve accenno, mentre si dedicherà maggiore spazio alla modalità di esportazione.
Cedrola E., op. cit., pp. 89, 90. Mariotti S., Mutinelli M., op. cit., p. 120.
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Fig. 1.1: Modalità di internazionalizzazione: grado di controllo e grado di internazionalizzazione Fonte: Mariotti S., Mutinelli M., op. cit., p. 86.
1.4.1. Esportazione diretta e indiretta Esportare significa vendere all’estero merce prodotta all’interno del territorio nazionale e rappresenta la forma più elementare di internazionalizzazione. Infatti l’ammontare degli investimenti è contenuto e presenta un alto grado di reversibilità. Nel caso delle PMI, l’esportazione indiretta è la modalità di entrata nei mercati esteri generalmente più diffusa. È difatti la scelta più comune tra le aziende intervistate. Gli elementi che la caratterizzano sono: maggiore semplicità strategica e organizzativa; minore assorbimento di risorse soprattutto di tipo finanziario; rapidità nel generare ritorni economici. Il carattere di flessibilità che caratterizza l’esportazione si manifesta nel fatto che le PMI possono dare avvio alla propria espansione estera senza investimenti in capitale fisso e senza apportare cambiamenti nella struttura dell’impresa. Sono stati, tuttavia, osservati anche alcuni ostacoli che rallentano o addirittura bloccano il processo di internazionalizzazione delle PMI. Il principale vincolo è costituito dalla mancanza di informazioni relative al mercato estero,
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che si riflette in un elevato rischio percepito. Un altro fattore di rallentamento deriva dalla situazione finanziaria dell’impresa, che non le permette di realizzare investimenti massicci, né di gestire il credito connesso alle operazioni con l’estero. La componente della strategia di esportazione che appare più delicata riguarda l’organizzazione ed il controllo dei canali di distribuzione nei mercati esteri. Attraverso i distributori, la piccola azienda sopperisce alla mancanza di adeguate informazioni sulla struttura del mercato, di relazioni consolidate con gli attori del contesto geografico estero e di strutture operative e logistiche nel territorio estero26. Allo stesso tempo però, il ruolo dell’intermediario espone l’azienda ad alcuni svantaggi, come il fatto di rimanere lontano dalla domanda e di non avere controllo sulle dinamiche economiche dell’esportazione. Gli intermediari di cui l‘impresa può avvalersi sono molteplici: Buyer internazionali Società di import/export Case di esportazione Importatori - distributori Trading companies Consorzi all’esportazione Nel caso di esportazione diretta, la vendita al cliente finale non è effettuata dall’intermediario, bensì dall’impresa esportatrice. L’impresa dunque si occupa direttamente di organizzare e coordinare le proprie attività all’estero. Può ricorrere ad agenti o a distributori esteri, al personale interno all’azienda dedicato alle vendite, fino a costituire filiali all’estero. Considerando in particolare le aziende selezionate del settore vitivinicolo italiano, si nota dalle risposte del questionario che la principale modalità d’internazionalizzazione utilizzata è l’esportazione: indiretta, cioè attraverso la collaborazione di intermediari, tra cui agenti o distributori presenti sul mercato di interesse. Questo è valido non solo per le piccole aziende familiari sotto i dieci addetti, ma anche per un’azienda medio - grande e internazionale come Fontanafredda27. Un’interessante forma di cooperazione utilizzata da alcune delle imprese individuate, e che sarà approfondità in seguito, è quella dei consorzi export. Caroli M., Lipparini A., op. cit. Fontanafredda opera in circa 63 Paesi, ha più di 100 dipendenti e quasi trenta milioni di fatturato annuo. Fa senza dubbio parte delle grandi aziende del settore vitivinicolo italiano, a differenza della maggior parte delle imprese che operano in questo campo che sono di piccole o piccolissime dimensioni e a conduzione familiare.
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1.4.2. Accordi contrattuali Le aziende che scelgono di perseguire una strategia collaborativa cercano in primo luogo di risolvere problemi strategici che non sono in grado di superare con le loro forze. I vantaggi perseguiti sono soprattutto la condivisione dei costi e dei rischi, il superamento di barriere all’entrata, l’accesso a risorse critiche e l’acquisizione di competenze non possedute. Tuttavia, esistono anche dei problemi che possono sorgere all’interno di aggregati aziendali e sono riconducibili al comportamento delle aziende partner e al rapporto tra i partner. Si individuano due categorie di accordi internazionali: gli accordi commerciali e gli accordi tecnico-produttivi. Gli accordi commerciali hanno per scopo la promozione e la diffusione dei prodotti su un mercato estero attraverso la collaborazione di un produttore con altri soggetti. Tra questi troviamo il franchising e le joint venture. Il franchising è un accordo tra un produttore (franchisor) e un distributore (franchisee) che, dietro pagamento di un corrispettivo, ottiene il diritto di utilizzare know-how commerciale e marchio del franchisor. Il franchising ha il vantaggio di comportare modesti investimenti di capitale e di consentire la ripartizione del rischio. Allo stesso tempo garantisce un coinvolgimento dell’imprenditoria locale. Tra i principali svantaggi si rilevano la difficoltà di controllo della qualità dei servizi ed i continui investimenti in formazione e aggiornamento. Le joint venture sono cooperazioni con partner stranieri che l’impresa può realizzare quando non ha la possibilità di gestire direttamente la distribuzione nel mercato estero. Le joint venture consentono un rapido accesso ai mercati distanti o protetti, con un limitato impegno di risorse e condivisione del rischio. D’altro canto vi è il rischio di conflitti tra i partner in quanto gli obiettivi possono successivamente divergere; il partner locale inoltre può avere accesso al cuore dei vantaggi competitivi dell’azienda; infine è difficile controllare e gestire la qualità dei prodotti. Gli accordi tecnico-produttivi rappresentano un’utile soluzione per delocalizzare produzioni ad elevata intensità di lavoro e tecnicamente semplici. Tuttavia, questi accordi non sono contemplati dalle imprese del settore vitivinicolo italiano, in quanto esse non prevedono la delocalizzazione della loro produzione in altri Paesi.
1.4.3. Investimenti diretti all’estero (IDE) Gli IDE consistono nella partecipazione di un’impresa al capitale di rischio di un’impresa estera e rappresentano la modalità più strutturata per
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l’espansione internazionale, ed ovviamente anche quella più impegnativa in termini finanziari28. La principale motivazione che spinge un’impresa ad insediarsi direttamente sui mercati di sbocco è connessa alla necessità di adattare il prodotto/servizio alle specifiche esigenze del mercato locale. Spesso ciò è possibile solo attraverso il ricorso a risorse e competenze indigene, che consentono un migliore accesso alle informazioni e ad un più agevole contatto coi clienti. La localizzazione all’estero di uno stabilimento può avvenire attraverso l’acquisizione di un impianto già esistente o attraverso la sua costituzione ex novo (o greenfield). L’acquisizione consente un veloce accesso al mercato, lo sfruttamento di risorse locali e ritorni sugli investimenti più rapidi. Permette inoltre di evitare elevati sforzi per la comprensione del mercato e per la formazione dell’organismo personale. Questa modalità richiede però investimenti elevati, presenta la difficoltà dell’individuazione e valutazione dell’impresa da acquisire ed è dunque molto rischiosa. Il greenfield è la forma più complessa di investimento diretto, in quanto implica la costituzione di una nuova organizzazione nel paese estero. Un vantaggio di questo tipo di investimento consiste nel fatto che tale modalità consente di costruire la struttura e l’attività dell’impresa estera in stretta coerenza con la cultura aziendale e con le specifiche esigenze dettate dalla strategia della casa madre. Gli svantaggi principali consistono invece nell’operatività non immediata e nell’ingente impiego di risorse umane e finanziarie. Nonostante gli investimenti diretti all’estero rappresentino la modalità più stabile e coinvolgente, raramente vengono effettuati dalle PMI, e quando avviene si tratta di investimenti di natura prevalentemente commerciale e non produttiva. Cominelli sostiene che29: “Questa riluttanza a delocalizzare la produzione non dipende solamente dalla scarsità di risorse e dalla tendenza a minimizzare l’investimento fisso specifico, ma anche dal fatto che spesso le PMI godono di specifici vantaggi mantenendo la produzione locale, sia perché essa rappresenta il cuore della loro formula imprenditoriale, sia perché, come si vedrà più avanti, essendo immerse in sistemi quali i distretti, godono di particolari economie esterne”. Questo è ancora più vero nel caso del settore vitivinicolo, dove è difficile trovare esempi di aziende che hanno adottato la modalità di IDE, essendo il radicamento al territorio e la localizzazione una caratteristica distintiva imprescindibile. Mariotti S., Mutinelli M., op. cit. Brunetti G., Mussati G., Corbetta G. (a c. di), op. cit.
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1.5. Le sfide delle PMI italiane: Innovazione e delocalizzazione/localizzazione Le sfide che le PMI italiane devono affrontare per sopravvivere nell’attuale contesto economico sono riconducibili a due strategie competitive: l’innovazione e la delocalizzazione. Di seguito sono presentate nel dettaglio. INNOVAZIONE La capacità di innovazione è un fattore critico di successo nel processo di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese italiane. Esse, per riuscire a fronteggiare le sfide dell’innovazione, devono in primo luogo adottare una concezione ampia e coerente dell’innovazione e del cambiamento aziendale. Oggi le nuove competenze richieste dalla tecnologia pretendono nuove abilità e metodi di lavoro maggiorente legati a percorsi di approfondimento formali. La disponibilità locale e la diffusione di conoscenze tacite della tradizione manifatturiera rischiano di diventare un vincolo allo sviluppo se ad esse non si affianca un’azione formativa concreta che permetta di promuovere un’adeguata crescita sociale e culturale. L’innovazione va vista come un’attività complessa che, oltre alla tecnologia, richiede lo sviluppo congiunto dei meccanismi gestionali, degli aspetti organizzativi e di coordinamento del lavoro. La figura 1.2 sintetizza le tre sfide a cui le imprese devono far fronte30. La prima consiste nel gestire le attività correnti realizzando prestazioni competitive in termini di efficienza ed efficacia; la seconda riguarda la ricerca di miglioramenti continui anche se limitati e di carattere incrementale, dei prodotti servizi e delle attività; la terza sfida è quella di essere in grado di realizzare tempestivamente grandi innovazioni e cambiamenti dei prodotti e dei processi aziendali in modo radicale.
Fig. 1.2: Il sistema di gestione dell’innovazione Fonte: Bartezzaghi E., Spina G., Verganti R., op. cit., 1999. Bartezzaghi E., Spina G., Verganti R., Organizzare le PMI per la crescita. Come sviluppare i più avanzati modelli organizzativi per competere: gestione dei processi, lavoro per progetti, sviluppo delle competenze, Il Sole 24ore, Milano, 1999.
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L’innovazione consente quindi di acquisire un vantaggio competitivo perché offre alle imprese l’opportunità di posizionarsi in target di mercato a più alto valore aggiunto, riuscendo a soddisfare le sempre crescenti aspettative del cliente in termini di nuovi prodotti31. DELOCALIZZAZIONE/LOCALIZZAZIONE A partire dagli anni Novanta del secolo scorso i processi di internazionalizzazione delle imprese localizzate in economie avanzate hanno evidenziato una significativa accelerazione. Le pratiche delocalizzative vanno dalla creazione di nuove imprese in territorio straniero all’acquisizione del controllo di imprese estere fino alla stipula di accordi di subfornitura manifatturiera32. La delocalizzazione di fasi produttive sta quindi interessando un numero sempre crescente di imprese che, attratte dai minori costi del lavoro e dalla vicinanza alla domanda e alle fonti di materie prime, spostano all’estero buona parte della produzione. Questo processo permette innanzitutto alle imprese di riconquistare la competitività messa in pericolo dalla concorrenza delle economie emergenti e rappresenta un incentivo a trasferire le competenze rimaste in Italia verso attività a più alto valore aggiunto. E, molto probabilmente, nel contesto attuale rappresenta anche un presupposto imprescindibile per la sopravvivenza stessa dell’impresa33. Tuttavia, se è vero che l’internazionalizzazione produttiva rappresenta una nuova sfida per le PMI italiane, è altrettanto vero che non tutte la percepiscono come una necessità, quanto piuttosto come una delle possibili alternative strategiche. Dalle tabelle seguenti si osserva, infatti, che solo l’1,8 delle PMI italiane ha effettuato nel 2007 delocalizzazioni produttive in Italia ed una percentuale ancora più esigua di imprenditori si è delocalizzata all’estero34. È chiaro, poi, che sono quasi esclusivamente le imprese più grandi a sfruttare la delocalizzazione produttiva in un’ottica competitiva.
De Luca A., Innovazione e competitività delle PMI in Italia. Metodi e modelli di mercato, FrancoAngeli, Milano, 2009. 32 Garofalo G. (a c. di), Capitalismo distrettuale, localismi d’impresa, globalizzazione, Firenze University Press, Firenze, 2007. 33 Brugnoli A., Molteni M., Per un futuro nei mercati globali: sviluppo del capitale umano e internazionalizzazione delle imprese lombarde, Guerini e Associati, Milano, 2007, p. 11. 34 Istituto G. Tagliacarne (a c. di), Le piccole e medie imprese nell’economia italiana. Rapporto 2007. Il dinamismo della ristrutturazione, FrancoAngeli, Milano, 2007. 31
25
Numero addetti
Effettuato delocalizzazioni
Intenzionata
Non intenzionata
Totale
Da 1 a 9
1,6
0,4
97,9
100
Da 10 a 49
2,4
0,7
96,9
100
Da 50 a 249
2,8
1,9
95,3
100
Totale PMI
1,8
0,5
97,7
100
Tab. 1.2: PMI che hanno effettuato delocalizzazioni in Italia per classe dimensionale (valori percentuali sul totale delle imprese) Fonte: Istituto G. Tagliacarne-Unioncamere, Rapporto PMI 2007 Numero addetti
Effettuato delocalizzazioni
Intenzionata
Non intenzionata
Totale
Da 1 a 9
0,1
0,4
99,5
100
Da 10 a 49
1,0
0,8
98,2
100
Da 50 a 249
4,2
1,1
94,7
100
Totale PMI
0,3
0,5
99,2
100
Tab. 1.3: PMI che hanno effettuato delocalizzazioni all’estero per classe dimensionale (valori percentuali sul totale delle imprese) Fonte: Istituto G. Tagliacarne-Unioncamere, Rapporto PMI 2007. Inoltre, il fenomeno di delocalizzazione può essere percepito come un indebolimento del sistema produttivo nazionale e può generare cambiamenti soprattutto nelle imprese collocate all’interno di un distretto industriale. Ad esempio, uno dei principali vantaggi competitivi delle imprese che appartengono al settore vitivinicolo, ma in generale al settore agroalimentare italiano, è costituito dal territorio e dalle materie prime che da questo derivano, asset difficilmente delocalizzabili in altri Paesi. Per queste PMI l’internazionalizzazione non si identifica per forza con la costituzione di proprie unità in Paesi stranieri o con il decentramento della produzione all’estero, ma più semplicemente con la vendita dei propri prodotti sui mercati esteri, alleandosi con partner stranieri o impiegando personale straniero.
26
Pertanto, la localizzazione è particolarmente importante per caratterizzare il profilo internazionale delle PMI italiane, dato che quasi tutti gli elementi della catena del valore mantengono la medesima localizzazione all’interno dei confini nazionali e anche quando le PMI decidono di localizzare all’estero un segmento della catena si tratta per lo più delle attività di commercializzazione e di vendita35. È raro infatti che le piccole e medie imprese internazionalizzino le variabili più vicine al core della formula imprenditoriale, che restano fortemente ancorate al modello locale di produzione del vantaggio competitivo. Il valore è creato su base locale, sfruttando l’originalità e le risorse dell’ambiente locale. È per questo motivo che risulta poco probabile il ricorso a IDE da parte delle PMI le quali continuano ancora oggi a mantenere il legame con l’ambiente locale soprattutto in ragione dell’importanza assunta da quest’ultimo in quanto sistema che fornisce risorse, relazioni e conoscenze peculiari. Il mantenimento dei centri di produzione all’interno dei confini nazionali non è dovuto solo alle ridotte dimensioni e alla scarsità di risorse economiche e umane delle PMI, ma anche ai vantaggi di localizzazione della produzione all’interno della propria realtà dovuti alle specificità del tessuto produttivo e imprenditoriale dell’Italia. La localizzazione e il radicamento al territorio sono senza dubbio caratteristiche distintive delle aziende vitivinicole sulle quali costruiscono il proprio vantaggio competitivo. La sfida che le aziende dovranno affrontare sarà quella di valorizzare queste caratteristiche senza chiudersi eccessivamente entro i confini nazionali, ma anzi utilizzando le risorse locali come spinta verso un’apertura internazionale. Infatti questi elementi distintivi caratterizzeranno il prodotto differenziandolo da quello di altri Paesi. Il made in Italy, con riferimento alla competizione internazionale, ha un significato che va ben oltre quello di marchio d’origine, non solo perché ad esso vengono associati elementi di affidabilità e garanzia, ma soprattutto in quanto portatore di quei valori di tipicità e soddisfazione che vanno a cogliere aspetti immateriali fortemente legati alla soddisfazione del cliente36. L’importanza della localizzazione della produzione all’interno del territorio deriva anche, e soprattutto, dal fatto che le PMI sono spesso immerse in un tessuto di relazioni che le lega strettamente ad altri soggetti. Questa complessa realtà mira a rendere trasferibile il sapere formale o informale posseduto da diverse organizzazioni. Quindi in certi casi, l’internazionalizzazione delle PMI non è da intendersi come un semplice processo posto in essere da un’impresa singola, ma come un processo collettivo. Esempi tipici della realtà italiana che 35
Brunetti G., Mussati G., Corbetta G. (a c. di), op. cit. Garofalo G., op. cit.
36
27
utilizzano questa strategia di condivisione del sapere sono le organizzazioni distrettuali e i consorzi export.
1.5.1. Le organizzazioni distrettuali Il modello distrettuale è un componente fondamentale del sistema industriale italiano. Becattini definisce il distretto industriale come: “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territorialmente circoscritta e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali37”. Questa definizione fa riferimento a due diverse dimensioni del distretto: quella sociale e quella produttiva. La dimensione sociale sottolinea come all’interno della comunità locale del distretto, la condivisione di uno stesso sistema di valori sociali, culturali, politici possa, grazie ad un clima di collaborazione e fiducia, favorire le transazioni produttive e commerciali tra le imprese distrettuali. Dal punto di vista produttivo, il sistema si caratterizza invece per l’elevata concentrazione territoriale di una moltitudine di piccole e piccolissime imprese che producono per lo stesso mercato finale38. Appartenere ad un distretto industriale si è rivelato essere un fattore in grado di influenzare in modo determinante i processi di internazionalizzazione delle imprese minori39. Le condizioni che hanno, infatti, favorito l’affermarsi di molte imprese italiane sui mercati internazionali sono legate alla localizzazione di queste all’interno dei contesti distrettuali ed in particolare al supporto organizzativo, commerciale e relazionale che tale contesto offre loro. Al distretto viene riconosciuta la capacità di farsi promotore e mediatore sul piano internazionale dei valori e dei vantaggi competitivi locali. La flessibilità produttiva ed organizzativa del distretto, la sua capacità di adattarsi in tempi rapidi alle mutate condizioni tecnologiche e dei mercati fanno si che questo sistema produttivo sia particolarmente adatto a far fronte a situazioni caratterizzate da complessità e incertezza40, caratteristiche ormai sempre più presenti nell’attuale contesto internazionale. Becattini G., Modelli locali di sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1989. Centro di Ricerche in Analisi Economica e sviluppo economico internazionale (CRANEC) (a c. di), L’internazionalizzazione del sistema industriale italiano: una sfida vincente delle PMI e dei distretti, Mondadori, Trento, 2008. 39 Musso F., “Internazionalizzazione tra economie distrettuali e filiere estese”, in Sinergie, 2006, n. 69. 40 CRANEC (a c. di), op. cit. 37
38
28
Varaldo afferma che, per cogliere le nuove opportunità, le imprese locali devono mettere in pratica tutte le innovazioni che si rendono necessarie per entrare a far parte di una “squadra” vincente e per rimanervi41. Questa prospettiva assume sempre più rilevanza strategica per un’impresa locale, a cui oggi si presenta l’occasione di un maggior radicamento nel proprio territorio di origine, accompagnato da un contestuale consolidamento delle proprie capacità relazionali e competitive esterne. Si assiste quindi all’affermazione di una visione più integrata del localismo, dove non sono più solo i fattori di tipo materiale, ma anche quelli di tipo immateriale, a condizionare l’efficienza e la competitività dell’impresa locale e dell’impresa esterna che opera in una determinata area42. Si affronterà la questione delle risorse intangibili in maniera più approfondita nel prossimo capitolo. Crescente divisione del lavoro tra imprese locali: creazione di interdipendenze produttive.
Progressiva accumulazione di conoscenze e di competenze tecniche a livello locale, come conseguenza del processo dinamico dei rapporti tra imprese.
Elevato tasso di formazione di nuove imprese che differenzia i comportamenti dei distretti industriali rispetto ad altre aree.
Crescente complessità del sistema economico locale, che dà luogo ad un rafforzamento del sistema delle imprese locali.
Fig. 1.3: Caratteristiche del distretto industriale Fonte: Curzio A. Q., Fortis M. (dir.), Il Made in Italy oltre il 2000: innovazione e comunità locali, il Mulino, Bologna, 2000. Tuttavia, è importante sottolineare che, per alcuni versi, un eccesso di coesione sociale può diventare un ostacolo all’innovazione, specie quando il localismo diventa una barriera culturale per l’integrazione nel tessuto produttivo di nuovi soggetti, nuovi saperi, nuove idee. Corò e Micelli propongono quindi la seguente definizione di distretti produttivi: “un sistema di imprese per le quali il territorio costituisce un’infrastruttura economica, sociale e cognitiva che, oltre a fornire un insieme di economie esterne specifiche, favorisce il processo di integrazione versatile della produzione. In quanto sistema che facilita la condivisione delle conoscenze e che, insieme, alimenta la dinamica 41
Varaldo R., “Dall’impresa localizzata all’impresa radicata”, in Sinergie, 1995, n. 36-37, p. 41. Ibid.
42
29
concorrenziale fra le imprese, il distretto fornisce anche importanti incentivi all’innovazione43”. Un distretto rappresenta perciò un fattore di vantaggio competitivo per l’impresa. Si attiva un processo di apertura che porta l’impresa a relazionarsi con imprese di filiera locali per poi aprirsi ad attori extralocali ed extrasettoriali. Ciò consente di compensare molti limiti individuali e, allo stesso tempo, di amplificare i fattori di successo delle singole imprese, in termini di trasferimento di conoscenze, dinamismo e capacità di adattamento ai mutamenti dei mercati di riferimento44.
1.5.2. Le organizzazioni consorziali Considerati i punti di debolezza che caratterizzano le PMI nella loro espansione internazionale, è evidente come l’aggregazione con altre imprese possa contribuire a superarne alcuni e consentire di praticare strategie che altrimenti sarebbero difficilmente perseguibili. I consorzi tra imprese rappresentano una realtà di struttura reticolare, particolarmente diffusa nel nostro Paese, nella quale numerose imprese convergono per realizzare un’attività e raggiungere un obiettivo comune che le singole imprese partner non sarebbero in grado di conseguire qualora operassero individualmente45. Più nel dettaglio, un consorzio export è un’associazione di imprese che si uniscono per creare sinergie, aumentare la competitività e ridurre rischi e costi connessi al processo di internazionalizzazione. Al consorzio possono aderire tutte le piccole e medie imprese che hanno l’obiettivo di accedere ai mercati esteri attraverso l’esportazione dei loro prodotti. Per queste ragioni l’aggregazione in forma consortile può essere considerata come la soluzione da privilegiare per favorire l’internazionalizzazione delle imprese di minori dimensioni, comprese quelle artigiane46. I consorzi all’esportazione possono essere distinti in: consorzi promozionali, in base agli obiettivi che si prefiggono, e consorzi di vendita, in base alle relazioni produttive e territoriali esistenti fra le imprese consorziate47. Nella realtà consortile italiana, i consorzi promozionali sono i più numerosi. Sono anche denominati consorzi di tutela in quanto hanno il compito di valorizzare Corò G., Micelli S., I nuovi distretti produttivi: innovazione, internazionalizzazione e competitività dei territori, Marsilio, Venezia, 2006, pp. 41,42. 44 Musso F., op. cit. 45 Depperu D., Economia dei consorzi tra imprese, Egea, Milano, 1996. 46 Brunetti G., Mussati G., Corbetta G. (a c. di), op. cit. 47 De Luca P., Il ruolo dei consorzi all’esportazione nel processo di internazionalizzazione delle imprese di minori dimensioni, Trieste Consult, Trieste, 1992. 43
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e promuovere il prodotto che tutelano e non effettuano operazioni di acquisto o di vendita48. I servizi che offrono sono ad esempio: consolidare e promuovere la notorietà del prodotto; costruire l’immagine e il posizionamento del prodotto dove non è adeguatamente conosciuto; raccogliere informazioni sui mercati esteri; curare la partecipazione degli associati a fiere e mostre internazionali; fornire assistenza e consulenza in tema finanziario, valutario, di trasporti e via dicendo; organizzare corsi di formazione per il personale addetto ai servizi di esportazione49. I consorzi di vendita, oltre ai servizi sopra indicati, si occupano anche della commercializzazione dei prodotti dei consorziati sui mercati esteri. In base alle relazioni produttive tra imprese consorziate, i consorzi si possono dividere fra monosettoriali e plurisettoriali: i primi sono costituiti da aziende appartenenti allo stesso settore merceologico, i secondi sono composti da aziende appartenenti a settori merceologici diversi50. I consorzi monosettoriali si possono a loro volta distinguere in semplici, se costituiti da aziende appartenenti ad un unico settore che offrono prodotti concorrenti, e complementari, se costituiti da aziende appartenenti ad un unico settore, ma che producono prodotti appunto complementari. Analogamente, i consorzi plurisettoriali possono essere eterogenei, quando le imprese associate operano in settori fra i quali non esiste nessun tipo di collegamento, né a livello produttivo né a livello di mercati di sbocco, e complementari, quando le aziende associate operano in settori diversi ma complementari tra loro51. Un’ultima distinzione riguarda i consorzi monoterritoriali, molto diffusi, costituiti da imprese che operano nello stesso territorio (ad esempio raggruppamenti di comuni o di province), e i consorzi pluriterritoriali, formati da imprese che non appartengono a territori specifici e che presentano quindi un’area di riferimento più vasta. Tra i vantaggi di cui le piccole e medie imprese che decidono di entrare a far parte di un consorzio export beneficiano, vanno innanzitutto ricordati la possibilità di accedere ad una serie di servizi singolarmente non producibili e la collocazione, a costi ridotti, su nuovi mercati, che sarebbero per la singola impresa difficilmente accessibili. Inoltre la partecipazione ad un consorzio export comporta per l’impresa una diminuzione dei rischi; un maggiore potere contrattuale, UNICOM (indagine a c. di), La comunicazione dei prodotti tipici in Italia. Consorzi, aziende, pubbliche amministrazioni, UNICOM, Milano, 2006. 49 Ibid. 50 Cedrola E., op. cit. 51 De Luca P., op. cit. 48
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e quindi una più forte capacità di dialogo e di confronto, con istituzioni, fornitori e clienti; la riduzione dei costi di trasporto; una più ampia visibilità all’interno del mercato di riferimento. Un consorzio export garantisce la possibilità di incentivare l’interesse di investitori stranieri e la creazione di un marchio comune forte: un consorzio che dispone di prodotti ad elevata complementarità si propone come soggetto ideale per lo sviluppo di relazioni commerciali, presentandosi come un interlocutore con competenze molto elevate52. A fronte di questi potenziali benefici, vanno però menzionati anche alcuni svantaggi. Innanzitutto, la limitata propensione dei consorzi a programmare l’attività nel lungo termine. Infatti, a causa dell’incertezza e dell’irregolarità dei flussi finanziari su cui possono contare, sono portati a privilegiare forme d’intervento i cui effetti si manifestano nel breve periodo. Inoltre, il consorzio è vissuto spesso più come uno strumento di interlocuzione politica a livello locale che non come struttura finalizzata all’offerta di servizi reali53. I consorzi all’esportazione fanno capo, a livello regionale e nazionale, alla Federexport, che rappresenta gli interessi delle piccole e medie imprese esportatrici raggruppate nei consorzi stessi. La federazione svolge varie attività per i consorzi in termini di servizi di coordinamento, promozione e sviluppo, aspetti che assumono un significato strategico notevole per il sostegno delle attività esortative delle PMI. In conclusione, distretti e consorzi sono strumenti di supporto fondamentali al processo di internazionalizzazione delle PMI. Grazie ad essi le imprese italiane possono porsi in maniera competitiva sui mercati internazionali, valorizzando il proprio territorio di origine, fino a renderlo un componente essenziale della loro strategia di penetrazione all’estero. Si vedrà, nel capitolo seguente, quanto sia importante per le PMI rivalutare la risorsa territorio mediante la valorizzazione delle risorse intangibili legate allo sviluppo di relazioni. Il territorio diventa allora un sistema di relazioni aperto per la produzione e la diffusione di capitale sociale tra attori locali e appartenenti alla filiera dell’impresa, ma anche tra attori appartenenti a diversi contesti territoriali54.
http://www.confapiexport.it/consorzi De Luca P., op. cit. 54 Cedrola E., Cantù C., Gavinelli L., Territorio, relazioni e competitività. Verso nuovi percorsi di sviluppo nazionale ed internazionale per le piccole e medie imprese italiane, 8 International Congress Marketing Trends, Parigi, 2009. 52 53
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Capitolo II Il territorio e la filiera Dopo aver illustrato le caratteristiche e le risorse del territorio in un’ottica di competitività ed innovazione, sarà presentato il settore agroalimentare quale eccellenza del made in Italy. Infine, si approfondirà il concetto di filiera, con una specifica sulla filiera vitivinicola, la quale si inserisce nel territorio del vino inteso come milieu innovateur.
2.1. La piccola impresa nel territorio Nel capitolo precedente abbiamo costatato che la maggior parte delle imprese italiane si distingue per le dimensioni medio - piccole. Tale caratteristica, se da una parte conferisce alle aziende flessibilità, dall’altra non permette sempre una disponibilità finanziaria e gestionale necessaria per affrontare con successo l’internazionalizzazione. Tuttavia, le imprese italiane possono far leva su un elemento distintivo unico e non replicabile altrove: il territorio55 su cui sono insediate. Infatti, si può affermare che il motore dello sviluppo regionale va ricercato all’interno delle forze locali presenti nel territorio studiato. La piccola impresa italiana si colloca quindi, più o meno consapevolmente, in una rete territoriale: rete, in quanto sistema di relazioni di fornitura o di partnership creato dalle imprese per comunicare, organizzare la logistica degli scambi, rendere affidabili gli impegni presi; territorio, quale contesto comune di esperienza che consente la circolazione e l’imitazione delle informazioni, la divisione del lavoro e la moltiplicazione delle professionalità imprenditoriali56. Una differenza essenziale tra grandi e piccole imprese sta proprio nel ruolo del territorio: la piccola impresa ha bisogno del rapporto col territorio per affrontare una complessità che supererebbe le sue capacità individuali. Essa non potrebbe moltiplicarsi in numero e in esperienze se il territorio non fornisse un abbassamento delle barriere all’entrata in termini di investimento minimo iniziale, di base di conoscenza per partire e in termini di rischio da affrontare. Territorio inteso qui nella sua accezione generica riferita all’ambito spaziale, più avanti ne verrà data chiara definizione. 56 Rullani E., La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza, Carocci, Roma, 2004. 55
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Grazie a questi vantaggi, che il territorio mette a disposizione, le PMI italiane riescono ad affrontare la complessità. Infatti, le capacità strategiche, sia in termini di posizionamento sul mercato, sia in termini di abilità innovativa delle piccole imprese, sono fortemente legate alla capacità di mettere in rete conoscenze e competenze complementari e ciò garantisce comportamenti virtuosi dell’impresa minore57. L’attuale paradigma industriale rende il “saper fare”, inteso come capacità di cogliere le mutevoli necessità del consumatore, molto più importante di altri fattori maggiormente legati a processi produttivi standardizzati. Tale forma di conoscenza è in parte relativa all’impresa, ma spesso deriva dai rapporti complessi che l’impresa ha con il contesto territoriale in cui opera. La rilevanza e la peculiarità dei processi di apprendimento di nuove conoscenze deriva, infatti, dalla continua integrazione tra conoscenze codificate, disponibili ed acquisibili a livello internazionale, e conoscenze contestuali, legate al territorio e alla cultura produttiva che caratterizza l’intero sistema produttivo locale58. In conclusione, la forza competitiva dell’azienda dipende si dalle sue idee, ma è anche dovuta alla qualità del contesto che la circonda, ossia al sapere, agli investimenti, alle scelte di comportamento fatte da soggetti che lavorano per l’impresa. In queste condizioni è evidente che il territorio e la filiera sono il necessario retroterra per ogni strategia impegnativa di innovazione59. Nel corso del capitolo si illustreranno nel dettaglio queste due componenti che fanno parte del vantaggio competitivo delle PMI italiane.
2.2. Definizione e componenti del territorio Non esiste un’unica definizione del termine “territorio”, in quanto è in realtà formato da una pluralità di significati. Si possono, tuttavia, indicare tre accezioni60: il territorio come spazio fisico, delimitato geograficamente e caratterizzato da un paesaggio fisico; il territorio come spazio antropico, caratterizzato dalla presenza dell’uomo e dal suo modo di insediarsi in una certa area; Rullani E., “Complessità sociale e intelligenza localizzata”, in Impresa e territorio, Il Mulino, Bologna, 2003. 58 ivi 59 Bonomi A., Territorio e sfide globali. I talenti dell’Italia e la sua missione, Relazione introduttiva, Symbola, Bevagna, 2007. 60 R. Pastore, Marketing del vino e del territorio: istruzioni per l’uso, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 99-100. 57
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il territorio come insieme di valori, cultura, storia, come conseguenza della presenza antropica nel tempo in un determinato spazio fisico. In questo senso verrà in seguito usato il termine territorio, inteso in quanto spazio trasformato della società che vi è insediata, cioè un prodotto storico-sociale la cui componente fisica è mediata dai valori, e perciò dalle scelte, della società stessa61. Gli attori hanno dunque un ruolo fondamentale per la sua definizione perché la densità dei rapporti che allacciano tra loro e le differenze qualitative che li caratterizzano delimitano il territorio stesso. Quest’ultimo infatti è oggi percepito come un ambito più ampio della realtà urbanistica, e cioè un ambito allargato ai territori limitrofi, al sociale, e persino ai comportamenti degli insediamenti umani. Se, quindi, lo spazio assume queste connotazioni, diventa esso stesso motore dello sviluppo attraverso l’estendersi e l’approfondirsi delle relazioni che rendono un territorio unico e specifico: diventa un catalizzatore delle forze locali capace di contribuire ad attivare processi cumulativi positivi che spiegano i vantaggi di certe aree rispetto ad altre. Sicuramente la dimensione fisica è un elemento necessario nel processo di identificazione del territorio, ma altrettanto importanti sono l’aggregazione delle risorse su di esso presenti e le relazioni tra gli attori. Si ha, così, un territorio concepito come organizzazione sociale in cui si creano relazioni tra attività, attori e risorse che evolvono nel tempo, ridefinendo di volta in volta il territorio, la sua vocazione, la natura e l’identità distintiva62.
Fig. 2.1: I componenti del territorio: intersezione di attori - risorse - attività Fonte: rielaborazione personale Storper M., “Le economie locali come beni relazionali”, in Sviluppo rurale: società, territorio, impresa, FrancoAngeli, Milano, 2002. 62 Golinelli C. M., Il territorio sistema vitale. Verso un modello di analisi, Giappichellli, Torino, 2002. 61
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In uno scenario concorrenziale globale, il vantaggio competitivo di un territorio, consiste quindi nella sua capacità di fare rete fra imprese, fra queste e le istituzioni, il sistema della ricerca pubblica, i fornitori, i bacini locali di manodopera qualificata, la dotazione locale di servizi reali e finanziari. La rete mette a disposizione delle imprese, sul territorio, fattori immateriali trasversali, rappresentati dai beni relazionali e fiduciari tipici delle relazioni distrettuali tradizionali (che rimangono di importanza assolutamente centrale, per ridurre i costi di transazione, e creare i presupposti fiduciari per la cooperazione fra i vari nodi della rete), nonché dalle intelligenze e dalla creatività, trasformati in processi materiali di sviluppo attraverso un’idonea offerta di servizi63. La rete è aperta verso l’esterno, dispone pertanto di strumenti atti ad integrare soggetti e risorse extra-territoriali in grado di incorporare le esternalità potenziali che provengono dal contesto globale esogeno al territorio.
2.2.1. Gli attori In ogni regione, la collaborazione tra attori politici, economici e sociali è indispensabile per formulare e contribuire allo sviluppo. Questa coesione è possibile perché l’ambiente, inteso come entità territoriale, è governato da norme, regole e valori, i quali costituiscono altrettante linee guida per il comportamento degli attori ed i rapporti che coltivano64. Gli attori del territorio, con i quali l’impresa può interagire, hanno origine diversa in funzione della loro natura giuridica, della finalità istituzionale, dell’importanza economica e sociale e anche dell’intensità del legame che attivano con il contesto di riferimento. Gli attori si possono dividere in: locali ed extralocali. I primi sono legati all’impresa da reti brevi di relazione (istituzioni locali, associazioni, istituti di formazione, produttori locali, privati), i secondi costituiscono reti lunghe di relazioni (istituzioni pubbliche, associazioni, imprenditori e privati appartenenti o attivi in altri ambiti territoriali)65. In base a questa distinzione, nella tabella 2.1 sono illustrati i possibili interlocutori dell’impresa.
Osservatorio Nazionale Distretti Italiani, I Rapporto, 2010. Maillat D., Kebir L., Bailly A. S., “Sistemi produttivi territoriali e sviluppo endogeno”, in Impresa e territorio, Il Mulino, Bologna, 2003. 65 Cantù C., Gavinelli L., Reti di territorio: la valorizzazione delle risorse intangibili in un orizzonte internazionale, paper, Macerata, 2008. 63
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Ambito
Categoria
- Provincia e comune - Azienda accoglienza turistica - Agenzia sviluppo territorio - Agenzia marketing territoriale
Istituzioni locali
- CCIAA - associazioni di categoria - cooperative e fondazioni - organizzazioni di volontariato e ONLUS
Altre istituzioni e associazioni Locale (comunale, metropolitano) Istituti di formazione
- scuole, laboratori didattici - istituti preposti - imprenditori - artigiani - artisti, associazioni, sedi culturali
Produttori
Privati
Extra locale (regionale, nazionale, internazionale)
Attori principali
- esperti, tecnici, consulenti, abitanti
Istituzioni pubbliche:
- Provincia e Assessorati - Stato e Ministeri - istituti ad hoc
Associazioni:
- regionali, nazionali, internazionali
Imprenditoria:
- aziende, associazioni
Privati
- consulenti, esperti di settore
Tab. 2.1: I possibili interlocutori dell’impresa Fonte: Cantù C., Gavinelli L., 2008. Gli attori creano relazioni all’interno e all’esterno del territorio; utilizzano le risorse che il territorio offre loro (ad esempio le caratteristiche morfologiche e climatiche) e allo stesso tempo forniscono loro stessi risorse al territorio (come le infrastrutture o le reti di trasporti).
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2.2.2. Le risorse materiali e immateriali Gli attori risiedono quindi in un territorio, interpretato come insieme di risorse materiali ed immateriali, tra di loro interrelate. Le risorse di tipo materiale riguardano tutti gli elementi “visibili” e direttamente valorizzabili che caratterizzano un ambito geografico; le risorse immateriali sono costituite da elementi non tangibili che caratterizzano il potenziale di attrattività del territorio66.
Fig. 2.2: L’articolazione delle risorse di un territorio Fonte: Caroli M., 2006. Le risorse materiali che risultano dalla specifica offerta di soggetti del territorio sono, ad esempio, il sistema di servizi pubblici, il tessuto produttivo, l’apparato finanziario ed amministrativo. Tra le risorse materiali che sono, invece, “dotazione” del territorio derivanti dalle sue specificità, ricordiamo: la posizione geografica e le caratteristiche morfologiche, la struttura urbanistica, il patrimonio infrastrutturale, artistico, culturale. Le risorse immateriali sono fortemente specifiche dell’area geografica in cui si manifestano e difficilmente imitabili in altri contesti. Le risorse di base dei vantaggi competitivi del territorio sono rappresentate dalle capacità esclusive presenti nella società che viene messa a lavoro sul territorio, cioè le capacità cognitive, le conoscenze sedimentate e stratificate che si accumulano nei luoghi67. Caroli M., Il marketing territoriale. Strategie per la competitività sostenibile del territorio, FrancoAngeli, Milano, 2006. 67 Rullani E., “L’impresa e il suo territorio: strategie di globalizzazione e di radicamento sul territorio”, in Sinergie, 1999, n. 49, p. 27. 66
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Quindi, tali vantaggi sono funzione delle abilità possedute dalle imprese e delle capacità di queste ultime di creare, accumulare ed incrementare alcune risorse intangibili fondamentali tra cui, appunto, la conoscenza e il capitale sociale da essa alimentato. Quanto detto finora contribuisce a dimostrare che la configurazione spaziale e le specificità di un territorio possono essere elementi fondamentali dello sviluppo economico di un’area. La maggior parte degli attori economici che si inserisce in questo tipo di aree sono, come già abbiamo visto, le piccole e medie imprese italiane, le quali sono ben radicate nel territorio e rimangono strettamente collegate alle caratteristiche dell’ambiente e della società in cui sono inserite e producono uno sviluppo principalmente endogeno, cioè interno allo stesso milieu. Vedremo nei prossimi paragrafi come si diffondono la conoscenza e l’innovazione all’interno di uno specifico territorio.
2.2.3. La conoscenza L’organizzazione fordista era un sistema chiuso, costruita intorno ad un preciso centro di comando e dotata di confini proprietari ben definiti. Le conoscenze che impiegava avevano natura firm specific e si propagavano all’interno dei confini proprietari. Invece, i sistemi che usano il territorio sono sistemi aperti, nel senso che le conoscenze ed il potere sono distribuiti tra un gran numero di imprese e di persone. In questo modo, la conoscenza esce dai confini proprietari e circola in filiere che non dipendono da un unico decisore, ma dall’interazione tra molti68. L’affermarsi di un approccio al territorio che considera e valorizza le risorse intangibili, consente alle PMI di sprigionare quella capacità all’adattamento e all’innovazione che i processi di internazionalizzazione richiedono. Il territorio è depositario di conoscenze localizzate che, essendo legate all’esperienza di chi vive od opera nel contesto locale, sono condivise da produttori, lavoratori, consumatori locali. La natura del vantaggio competitivo dei sistemi locali, definiti da Becattini come “un luogo di accumulazione di produzione di nuova conoscenza69”, risiede nel modo in cui le singole unità interagiscono significativamente con il contesto locale e, in particolare, con le conoscenze ed esperienze produttive ivi sedimentate. Ogni sistema locale realizza un’integrazione di conoscenza Rullani E., La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza, Carocci, Roma, 2004. 69 Becattini G., Modelli locali di sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1992. 68
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esplicita (o codificata) e di conoscenza tacita (o contestuale). La prima è di natura astratta ed è facilmente trasferibile, la seconda ha natura localizzata ed è intrinsecamente legata alle esperienze di una determinata realtà produttiva. Le conoscenze tacite si traducono nelle azioni di colui che le detiene ed è difficile esprimerle a parole; spesso chi le possiede addirittura ignora di farlo o non lo considera importante70. All’interno del territorio, le conoscenze distintive che vi circolano sono prima di tutto di tipo tacito, cioè di quel tipo di conoscenze che si formano nelle relazioni face-to-face, ripetute di frequente e supportate da un clima di fedeltà71. Una parte sempre più importante della conoscenza è localizzata, ossia legata ai luoghi in cui viene riprodotta nel corso del tempo. Si può affermare allora che l’economia riscopre il territorio perché ne riscopre il ruolo cognitivo. L’economia stessa è cognitiva, essendo mossa da lavoro che trasforma in conoscenza e, in seguito, da conoscenza che si traduce in utilità, ossia valore. Tutto o quasi il valore prodotto è mediato dalla conoscenza72. La conoscenza può essere prodotta o usata da singoli individui, ma è indivisibile dal processo sociale che sta a monte e a valle di ciascuno di essi. L’economia della conoscenza non riguarda quindi i processi cognitivi della singola impresa, ma quelli della filiera cognitiva, ossia dell’insieme di operatori che si scambiano la conoscenza attraverso le diverse fasi della catena73. Nella filiera, la conoscenza si propaga e si moltiplica: non si consuma con l’uso, come invece accadrebbe ad un bene materiale. Anche l’internazionalizzazione che si sviluppa oggi nell’economia globale è, prima di tutto, un fenomeno cognitivo74: le conoscenze si spostano infatti molto rapidamente da un luogo all’altro del mondo. La facilità di accesso alle conoscenze presenti in un luogo da parte di attori locali permette una diffusione delle conoscenze contestuali. Camuffo e Grandinetti individuano tre meccanismi che consentono il trasferimento interaziendale delle conoscenze tra le imprese Foray D., L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna, 2006. Marchisio O. (a c. di), Sistemi locali e reti lunghe. Crisi e problemi della geografia dell’industria italiana, FrancoAngeli, Milano, 2006. 72 Rullani E., Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, Carrocci editore, Roma, 2006. 73 Rullani E., La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza, Carocci, Roma, 2004. 74 Rullani E., “L’internazionalizzazione invisibile. La nuova geografia dei distretti e delle filiere produttive”, in Sinergie, n. 69, 2006. 70 71
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distrettuali75. Il primo è l’osservazione finalizzata all’imitazione: l’impresa deve cioè riuscire a carpire il maggior numero possibile di conoscenze, riguardanti in particolare le innovazioni di prodotto. Il secondo meccanismo consiste nelle relazioni di vario tipo che si intrecciano all’interno del contesto distrettuale, tra imprese concorrenti o complementari. L’ultimo procedimento consiste nella mobilità delle risorse umane da impresa ad impresa: le persone sono infatti portatrici intrinseche di conoscenze che possono riguardare ogni attività della catena del valore dell’impresa.
Fig. 2.3: Il ruolo della conoscenza nella tessitura distrettuale Fonte: Marchisio O., 2006. La dimensione comunitaria opera come una risorsa immateriale, collettiva e district specific. La sua presenza, infatti, facilita l’avvio di dialoghi all’interno del contesto distrettuale e agevola la comprensione e l’adattamento reciproco tra i soggetti che dialogano76. L’apertura cognitiva del distretto comporta per l’impresa due implicazioni: la riorganizzazione delle modalità di divisione del lavoro e l’estensione delle reti di relazione all’interno della catena del valore. Alla Camuffo A., Grandinetti R., “I distretti industriali come sistemi locali di innovazione”, in Sinergie, n. 69, 2006. 76 Ibid. 75
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capacità del distretto di creare e trasmettere conoscenze attraverso i processi di learning by doing e di spin-off, si affianca quella di partecipare a sistemi di valore, a reti di relazioni di scala internazionale77. Le PMI inserite in un distretto industriale sono dunque immerse in un sistema di relazioni, possono giovare di una rete inestricabile di economie e di conoscenze esterne all’impresa, ma interne all’area, con tutti i vantaggi connessi derivanti dalla concentrazione. Bisogna domandarsi, tuttavia, se realmente le piccole imprese che operano in un territorio siano in grado di sfruttare tali risorse, anche in una logica di internazionalizzazione. Non è così scontato, infatti, che le aziende presenti in un’area specifica comunichino e si scambino conoscenze tra loro. Spesso, anzi, prevalgono individualità e diffidenza.
2.2.4. Il capitale sociale La conoscenza viene generata dall’impresa attraverso la sua storia e la sua esperienza, ma soprattutto dallo sviluppo di relazioni che le consentono di accedere e condividere una conoscenza collettiva. Il territorio diventa allora un sistema di relazioni aperto per la produzione e la diffusione del capitale sociale. Uno dei primi studiosi ad aver dato una definizione di capitale sociale è Putnam, il quale, negli anni ‛90, afferma che: “per capitale sociale intendiamo la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo78”. Attualmente lo sviluppo sociale ed economico può essere visto come il prodotto congiunto dell’utilizzo di tre tipi di capitali79: tecnico-economico, che raggruppa gli elementi basali degli input di produzione; umano, inteso come competenze qualitative della forza lavoro; sociale, inteso come complesso di relazioni sociali e delle norme formali e informali che descrivono il potenziale di azione dell’attore sociale. Il capitale sociale aumenta la capacità degli attori locali di incidere sullo sviluppo di un territorio. Quest’ultimo, non dipende più necessariamente da incentivi o altri vantaggi di costo che attirano imprese esterne, ma dalla capacità di usare il capitale sociale per sviluppare un insieme di conoscenze e specializzazioni che sono la garanzia più importante per il futuro dell’area80. Cedrola E., Cantù C., Gavinelli L., op. cit. Putnam R. D., La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993. 79 Marchisio O. (a c. di), op. cit., pp. 124-125. 80 Varaldo R., Il marketing territoriale. Sfide per l’Italia nella nuova economia, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 47. 77 78
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Secondo Bonomi “le caratteristiche virtuose di un sistema locale, di una tradizione produttiva o di un insieme di relazioni, sono le qualità collettive che un territorio ospita e che nei casi migliori intende promuovere81”. In quest’ottica il capitale sociale, inteso come potenziale di azione cooperativa che un territorio mette a disposizione delle persone, assume un ruolo centrale. Poiché stiamo parlando di territorio, è interessante osservare che esiste una relazione tra capitale sociale e risorse territoriali. Considerato il fatto che le risorse territoriali possono condizionare le attività culturali, economiche, politiche di un’area, la definizione di capitale sociale non può ridursi a considerare solo le suddette attività. Il rapporto con la dimensione territoriale, infatti, può migliorare le potenzialità insite nel concetto di capitale sociale82. Una definizione di capitale sociale territoriale potrebbe essere la seguente: “il luogo delle interrelazioni tra risorse territoriali e socio-culturali, funzionale alla loro reciproca valorizzazione, alla crescita dell’identità e allo sviluppo locale83”. Il capitale sociale territoriale è costituito dall’insieme delle conoscenze tramandate, delle informazioni, delle specificità culturali; tutti elementi che nascono e si sviluppano in relazione ai luoghi di origine. Esso quindi rappresenta l’esito di un processo lento e graduale di sedimentazione di risorse che sono di per sé immateriali, ma che si legano in modo indissolubile alla materialità di ciascun territorio. Questo fattore rappresenta, pertanto, una risorsa utile al processo di sviluppo, ma deve essere adeguatamente riconosciuta e percepita come tale dai soggetti locali. Affinché il capitale sociale si attivi, occorre perciò che si verifichi un radicamento e un rapporto con le risorse territoriali locali. Le imprese che fanno parte dei distretti industriali sono in grado di combinare efficienza economica, competenza tecnica e alti livelli occupazionali. Con queste caratteristiche distintive, i distretti industriali si propongono come contesti ad alta intensità relazionale e quindi ad alto potenziale per lo sviluppo ed il mantenimento del capitale sociale. Altri fattori che concorrono nello sviluppo del capitale sociale sono la rapida circolazione delle informazioni che porta ad una migliore conoscenza reciproca, e le transazioni che avvengono fra soggetti tra i quali intercorrono relazioni di fiducia e di conoscenza84. Il capitale sociale apporta direttamente benefici all’intera comunità e, in via secondaria, agli individui o alle singole organizzazioni che ne fanno parte. Bonomi A., op. cit. Gastaldi F., “Capitale sociale territoriale e promozione dello sviluppo locale”, in Archivio di studi urbani e regionali, n. 72, 2003. 83 Ivi, pp. 16, 17. 84 Lipparini A., La gestione strategica del capitale intellettuale e del capitale sociale, Il Mulino, Bologna, 2002. 81
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Nella figura 2.4 sono descritte le attuali condizioni dei distretti e le strategie che devono adottare per far fronte ai cambiamenti del contesto economico nel quale competono. La soluzione principale affinché i distretti possano sopravvivere, sembra essere quello dell’innovazione, come verrà illustrato nel prossimo paragrafo. L’attuale crisi spinge ad interrogarsi sul futuro dei distretti, sulla valenza di questa modalità organizzativa, sull’opportunità di politiche ad hoc. La domanda da porsi è la seguente: alla luce dei recenti mutamenti del panorama economico, quali criteri consentono di alimentare la competitività ed un eventuale riposizionamento dei distretti industriali nel commercio internazionale? Varrebbe la pena di dare delle risposte tenendo conto di ciò che sta accadendo realmente nei territori, dei molti casi in cui le imprese di distretto stanno reagendo alle difficoltà del momento, ma anche prendendo atto che alcuni modelli organizzativi consolidati, o che si ritengono tali, sono obsoleti e necessitano di essere modernizzati e attualizzati, rivisitando sostanzialmente le strategie aziendali, le leve della competizione (strategie finanziarie, strategie di mercato e commerciali, logistica) ed il ruolo dei soggetti di rete, ovvero dei soggetti intermedi che per decenni hanno animato e sono stati parte integrante dei distretti produttivi. L’opinione manifestata da più parti è quella che riconduce all’innovazione come unica alternativa del processo di sviluppo. Innovazione intesa non esclusivamente nella sua accezione tecnologica, ma pensata come “visione” imprenditoriale volta alla soluzione dei conflitti esistenti tra la cooperazione imprenditoriale e la gestione della domanda. A tal proposito, non è possibile negare l’importanza della funzione di imprese capofila, né affermare che l’innovazione sia concepibile esclusivamente all’interno del distretto. Sono questi i presupposti che impongono la progressiva riduzione delle barriere esistenti tra distretto ed ambiente esterno e che spingono i sistemi produttivi verso una trasformazione, basata sulla creatività relazionale e sulla fertilizzazione delle vocazioni specialistiche.
Fig. 2.4: Le difficoltà attuali dei distretti e le possibili reazioni Fonte: Istituto G. Tagliacarne (a c. di), Le piccole e medie imprese nell’economia italiana. Rapporto 2004 e Osservatorio Nazionale Distretti Italiani, I Rapporto, 2010.
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2.2.5. La diffusione di innovazione in un sistema territoriale La nuova innovazione, facendo leva sul capitale umano e sul capitale sociale del contesto in cui essa opera, si sposta dal sistema tecnologico a quello del capitale cognitivo e all’intera organizzazione dell’impresa85. Ne consegue che la capacità innovativa si lega strettamente alla capacità di apprendimento (learning organization) e questo legame risulta essenziale per le imprese che vogliono mantenere le loro posizioni nel mercato globale. L’apprendimento interattivo e il trasferimento del sapere si realizzano all’interno di luoghi specifici e le competenze/conoscenze che vi circolano non possono essere né trasferite facilmente né imitate altrove. Da questo punto di vista l’attività innovativa può anche diventare un fenomeno territoriale, nel senso che viene stimolata attraverso la cooperazione tra gli attori locali e le risorse specifiche del posto. Questa stretta collaborazione delle imprese con i fornitori, gli utenti e le istituzioni regionali può creare un tessuto innovativo favorevole al costante miglioramento e all’innovazione, quest’ultima intesa come un processo radicato socialmente, cioè un processo di apprendimento interattivo, istituzionalmente e culturalmente contestualizzato86. Per le imprese isolate o con poche collaborazioni sarà più difficile usare input locali nel loro processo di innovazione; invece le PMI che si trovano all’interno di sistemi produttivi locali, come ad esempio i distretti industriali o altre forme di concentrazioni regionali, ne faranno un uso maggiore. I sistemi produttivi locali possono offrire condizioni e stimoli per l’innovazione incrementale attraverso le già citate forme di learning by doing e learning by using, principalmente basate sul sapere esplicito. La capacità di apprendere nel tessuto regionale industriale può svolgere un ruolo importante nella stimolazione delle capacità innovative delle imprese, in quanto esse possono attingere alle idee e al know-how di utenti, fornitori, consulenti, università. Tuttavia, un aspetto problematico di questa organizzazione è la concentrazione sul raggiungimento del sapere (cioè imparare attraverso l’uso della pratica) basato principalmente su innovazioni incrementali, e non centrate su innovazioni radicali che richiedono la creazione di nuovo sapere. Affinché le PMI possano intraprendere quest’ultimo tipo di innovazioni, è necessario che affianchino il know-how informale, implicito e localizzato con competenze di R&S e altre Cedrola E., Cantù C., Gavinelli L., op. cit. Asheim B. T., Isaksen A., “Sistemi innovativi locali, PMI e politiche per l’innovazione”, in Impresa e Territorio, Il Mulino, Bologna, 2003.
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attività di ricerca più sistematicamente realizzate, che possono avvenire negli istituti di ricerca o nelle università87. Non si deve dimenticare, infine, che le imprese sono in costante confronto sia con l’impresa leader dello stesso territorio, sia, a livello extra-territoriale e tramite le reti lunghe, con imprese di altre realtà. Il paragone e l’insegnamento che ne possono trarre funge da stimolo alle PMI, che saranno più bendisposte nell’affrontare un processo di innovazione radicale avendo davanti agli occhi dimostrazioni di interventi di successo.
2.2.5.1. Il milieu innovateur È opportuno a questo punto fornire una spiegazione del termine milieu innovateur88, in quanto si tratta di un contesto locale favorevole all’introduzione dell’innovazione e che ne facilita la diffusione. Tale concetto, sviluppato dal gruppo GREMI (Groupe de Recherche Européen sur les Milieux Innovateurs), interpreta i fenomeni di sviluppo spaziale come effetto dei processi innovativi e delle sinergie che si manifestano su aree territoriali limitate. Esso è definito da Camagni (1991) come: “un insieme di relazioni che portano ad unità un sistema locale di produzione, un insieme di attori e di rappresentazioni ed una cultura industriale e che genera un processo dinamico localizzato di apprendimento collettivo89”. Secondo i teorici del milieu innovateur, lo spazio ricopre un ruolo fondamentale nei processi economici in quanto costituisce un ambiente fatto di rapporti in grado di coordinare, attraverso l’apprendimento collettivo, un sistema produttivo fortemente orientato all’innovazione. Grazie alle sue specifiche dotazioni di risorse materiali e immateriali, lo spazio ha un ruolo preponderante all’inizio di una dinamica economica, perché riesce ad attrarre e a polarizzare su se stesso un particolare insieme di attività che ne possono beneficiare. Si distinguono due fasi nelle quali il sistema territoriale manifesta tale capacità innovativa diffusa90. La prima riguarda la procedura di riconoscimento, dove spesso l’azione di alcuni attori, ad esempio le istituzioni locali, facilita e stimola l’adesione degli operatori del territorio all’iniziativa; la seconda fase, Ibid. Aydalot, 1986; Perrin, 1986; Aydalot e Keeble, 1988; Maillat, Crevoisier e Vasserot, 1992; Gordon, 1989 e 1991; Camagni, 1989 e 1991; Quevit, 1991; Camagni e Quevit, 1992. 89 Camagni R., Capello R., “La città come milieu e i milieux urbani: teoria e evidenza empirica”, in Sviluppo rurale: società, territorio, impresa, FrancoAngeli, Milano, 2002, p. 237. 90 Nomisma e Palomba P. (a c. di), Marketing dei prodotti tipici. La valorizzazione dei prodotti agroalimentari “del territorio”: criticità, prospettive e rapporti con la Grande Distribuzione, Agra, Roma, 2009. 87
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quella del consolidamento e dello sviluppo, è la più difficile, dove il milieu locale deve dimostrare la propria capacità innovativa diffusa. Inoltre, il milieu locale può essere caratterizzato sia da una prossimità geografica, che consente alle piccole imprese di ridurre lo svantaggio in termini di costi e di aiutarle nei processi innovativi, sia da una prossimità socio-culturale, definibile come presenza di modelli di comportamento, fiducia reciproca e rappresentazioni comuni. All’interno di un distretto, il condizionamento socioculturale si esercita anzitutto nel senso che ogni comportamento nocivo all’impresa distrettuale tipica viene automaticamente scartato. Secondo Becattini, “il modello distrettuale prende forza e si espande fino a caratterizzare un luogo, grazie al combustibile di conoscenze produttive, ambizioni, aspirazioni radicate nel luogo stesso, cioè di fattori locali di sviluppo. Questo è il caso di tanti distretti italiani della metà del secolo scorso, che sono partiti da tradizioni di imprenditorialità diffusa, da attitudini di cooperazione a livello locale, dall’accumulazione di competenze commerciali”91. I due tipi di prossimità individuati possono favorire l’interazione e la sinergia tra agenti economici, l’assenza di comportamenti opportunistici, l’elevata divisione del lavoro e la cooperazione all’interno del milieu: quello che viene definito il suo capitale relazionale. Si è già accennato, comunque, al fatto che queste conseguenze non sono sempre così evidenti ed automatiche in un territorio; anzi, un luogo in cui sono assenti comportamenti opportunistici e si dia per scontata la cooperazione tra gli attori, sembra quasi utopistico e difficilmente rintracciabile nella realtà. Infine, in termini di economia dei processi cognitivi, il milieu svolge tre funzioni essenziali92. Innanzitutto, la funzione di riduzione di incertezza nei processi innovativi: la raccolta e la valutazione dell’informazione, il controllo e il coordinamento, nel caso del milieu innovateur sono svolte in modo collettivo e socializzato dal milieu stesso. In secondo luogo, ha la funzione di fornire il substrato per i processi di apprendimento collettivo e di trasferimento tacito di know-how e di assets immateriali non codificati fra imprese. Se nelle grandi imprese queste funzioni sono assicurate dalla presenza di dipartimenti di R&S, nelle piccole imprese queste funzioni si svolgono collettivamente all’esterno della piccola impresa. Infine, una terza funzione più generale è la creazione di identità locale. Senso di appartenenza e orgoglio locale sono, infatti, elementi che rafforzano le propensioni cooperative e sinergiche, incrementando il potenziale di creatività locale. Becattini G., Ritorno al territorio, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 63. Camagni R., Capello R., op. cit.
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2.2.6. Il tessuto relazionale del sistema territorio Grazie agli intensi processi di innovazione tecnologica nell’informazione e nella comunicazione, i flussi relazionali hanno assunto una sempre maggiore rilevanza nella creazione del valore. Oggi il vantaggio competitivo non è più legato a capacità tecniche esclusive, relative al prodotto o al processo, ma è sempre più rivolto alla capacità di gestire relazioni, di comunicare con gli interlocutori, di assumere con questi ultimi rischi condivisi93. Attori, risorse e attività in un sistema-territorio sono entità strettamente interconnesse; le reciproche interazioni che si sviluppano nel tempo influenzano fortemente la loro natura. Le potenzialità evolutive di un territorio sono, quindi, fortemente legate al modo in cui si manifestano concretamente queste interazioni. Tenendo presente che l’azione economica è legata indissolubilmente al contesto sociale in cui si esplica (embedded), è necessario fare riferimento ad esso per comprendere le dinamiche di sviluppo che si manifestano nei territori: i rapporti interpersonali fra gli attori portano dunque ad unità un sistema produttivo. L’appartenenza dei soggetti ad una comunità sociale e geografica e la continua interazione all’interno di questa, fornisce, per così dire, ad ogni suo membro un insieme di relazioni di varia natura, più o meno strutturate, con le altre persone che vi vivono e operano. Questo stock di relazioni dipende in gran parte dall’interazione di soggetti diversi, per cui i vantaggi che ne derivano ricadono su tutti gli attori che partecipano ad un processo produttivo radicato nel territorio. Il territorio è caratterizzato da un doppio sistema di relazioni, quello interno, costituito dalle connessioni degli attori presenti in uno stesso territorio, e quello esterno, tra attori appartenenti ad aree geografiche diverse. All’interno dell’area, i legami che si sviluppano sono di tipo “forte”, nel senso che tendono ad essere consolidati e a concernere imprese ed istituzioni che si caratterizzano per la prossimità fisica. Per contrasto, i legami “deboli” si creano tra aziende di un distretto con altre aziende ed istituzioni al di fuori del contesto locale94. Granovetter definisce la forza di un legame come la combinazione della quantità di tempo, dell’intensità emotiva, del grado di intimità e dei servizi reciproci che caratterizzano il legame stesso95. Ognuna di queste dimensioni è indipendente dalle altre, ma allo stesso tempo sono in stretta interconnessione. Secondo l’autore, i legami deboli riescono a collegare i membri di differenti piccoli Bonomi A., op. cit. Boari C., “Legami forti e legami deboli nelle aree locali”, in Sinergie, n. 49, 1999. 95 Granovetter M., La forza dei legami deboli e altri saggi, Liguori, Napoli, 2002. 93
94
48
gruppi più facilmente di quanto non possano quelli forti, che tendono piuttosto a concentrarsi all’interno di gruppi particolari. La funzione dei legami deboli è, infatti, quella di consentire ai membri di un reticolo di estendere e di diversificare la propria rete di contatti, e quindi ottenere informazioni nuove non altrimenti accessibili. Sempre Granovetter sostiene che un individuo situato in un reticolo denso (colmo di legami forti) riceve informazioni ridondanti perché possono essere fruite da tutti i membri del reticolo, strettamente legati gli uni agli altri. Al contrario, un individuo situato in un reticolo sparso (caratterizzato da legami deboli) si trova avvantaggiato, nel senso che ha maggiori probabilità di ricevere informazioni nuove ed esclusive96. Il tessuto relazionale di un sistema territoriale può essere analizzato su tre piani97. Innanzitutto, in base alla sua qualità attuale, che va valutata in funzione del numero degli attori legati da significative relazioni, dalla frequenza con cui sono attivate le relazioni, dalla natura cooperativa o conflittuale della relazione e dalle risorse scambiate attraverso il rapporto. In secondo luogo, esaminando i fattori determinanti il tessuto territoriale, riconducibili a cinque elementi principali: attori, tradizioni, assetto fisico e infrastrutturale del territorio, tecnologie e strategie degli attori per favorire lo sviluppo del sistema relazionale. Da ultimo, osservando le probabili modalità evolutive, in base al grado di coesione interna tra gli attori, al livello di coinvolgimento degli attori del territorio e al rilievo delle connessioni con soggetti esterni all’area considerata. Qualità attuale
Fattori
Modalità evolutive
numero di attori legati da relazioni;
attori;
coesione interna tra gli attori;
frequenza di attivazione delle relazioni;
tradizioni
livello di coinvolgimento degli attori;
natura della relazione (cooperativa o conflittuale);
assetto fisico e infrastrutturale del territorio;
connessioni con soggetti esterni.
risorse scambiate attraverso la relazione.
tecnologie e strategie degli attori.
Tab. 2.2: I tre piani del tessuto relazionale di un sistema territoriale e le relative caratteristiche Fonte: rielaborazione personale 96
Ibid. Caroli M., op. cit.
97
49
Anche l’impresa si identifica in quanto nesso di una molteplicità di relazioni e fa parte di un network di relazioni che le consente di accedere a risorse controllate da altri attori. Il sapere implicito ed esplicito necessario per sostenere il continuo flusso d’innovazioni può essere scambiato attraverso network di rapporti inter-aziendali a lungo termine98. Collaborazioni basate sulla fiducia reciproca e di lunga durata con altre imprese locali e con lavoratori specializzati, possono stimolare le attività innovative da parte delle imprese. È attraverso la cooperazione che le aziende riescono ad ottenere migliori performance ed innovazioni. Si delinea in questo modo l’area sistema, cioè un bacino di specializzazione produttiva caratterizzato da un insieme di interdipendenze99. Il modello evoluto dell’area sistema è appunto il distretto. I pilastri fondamentali del modello organizzativo dei distretti industriali sono legati al funzionamento di sistema e alla dimensione territoriale dei processi dinamici che determinano la formazione dei vantaggi competitivi del modello. La sedimentazione di valori, conoscenze e competenze professionali e il meccanismo relazionale tra gli attori rappresentano le condizioni per la produzione di risorse specifiche non trasferibili ad altri territori perché strettamente ancorate al territorio, ai processi di valorizzazione di saperi, di scambi di informazioni, di condivisione di valori, di relazioni sociali e di meccanismi di coesione sociale e di identità locale100. Si è visto, quindi, che i sistemi territoriali sono importanti perché consentono alle imprese che vi sono localizzate di utilizzare vantaggi competitivi. Tra questi si ricordano lo sviluppo di risorse materiali e immateriali, lo scambio conoscenze e di capitale sociale attraverso relazioni informali tra gli attori locali o extralocali, lo sfruttamento di risorse non replicabili all’esterno. A questa punto risulta lecito domandarsi se tutto questo è sufficiente per confrontarsi con il contesto socio-economico, con le evoluzioni del mercato e con l’espandersi della globalizzazione. A una PMI italiana basta essere radicata in un territorio da cui trae le risorse e in cui intesse reti di relazioni anche extra-territoriali per potersi confrontare con l’ambiente esterno? Certamente, questa condizione da sola non può essere sufficiente, ma è sicuramente fonte di vantaggio competitivo che non può e non deve essere trascurata, ma al contrario valorizzata.
Garofoli G., op. cit. Quintieri B., I distretti industriali dal locale al globale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006. 100 Ibid. 98
99
50
Il radicamento all’interno del territorio è importante anche dal punto di vista della produzione; infatti, le PMI sono spesso immerse in un tessuto di relazioni che le lega strettamente ad altri soggetti. La territorialità ha una valenza essenziale nel determinare le caratteristiche di alcuni prodotti, soprattutto di quelli derivanti dall’agricoltura. Il recupero della memoria storica genera competenze e saperi tradizionali incorporati nel prodotto stesso anche grazie al capitale umano, che trattiene il know-how locale e lo traduce nella manifattura del prodotto rendendolo unico: la conoscenza incorporata nel prodotto è spesso contestuale e questo rende il prodotto poco imitabile101. La localizzazione dei prodotti e delle attività in un territorio specifico, può condizionare i consumatori nel loro processo di acquisto. Questo processo prende il nome di country of origin effect, che sta alla base del made in Italy, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo. Il made in Italy rappresenta oggi il brand più importante del mondo, con un valore commerciale assimilabile ad una griffe, e si tratta di un enorme vantaggio competitivo per i nostri prodotti, specie per le piccole e medie imprese. Per made in Italy è da intendersi l’insieme dei settori operanti nelle aree “moda”, “arredocasa”, “meccanica” e “alimentazione”. Elementi distintivi di queste attività sono il collegamento delle relative produzioni industriali con specializzazioni tradizionali di tipo artigianale. Il made in Italy è un patrimonio socio-economico e di immagine fondamentale per il nostro Paese, poiché aiuta le aziende a diffondere un’idea positiva dei prodotti tipici italiani, promuovendone la qualità e concorre nel determinare il country of origin effect.
Fig. 2.5: Il marchio “Italia” Fonte: Fortis M., Le due sfide del Made in Italy: globalizzazione e innovazione. Profili di analisi della seconda conferenza nazionale sul commerci con l’estero, Il Mulino, Bologna, 2005.
2.3. Il country of origin effect Da quanto affermato finora, risulta evidente che le risorse immateriali possono costituire elementi distintivi importanti, condizionando e chiarendo la percezione che i pubblici interni ed esterni hanno del territorio e dei suoi prodotti102. È quello che si può definire con il termine country of origin effect. È comune, infatti, pensare che più forte è l’immagine di un Paese, tanto Nomisma e Palomba P. (a c. di), op. cit. Cedrola E., Cantù C., Gavinelli L., op. cit.
101
102
51
maggiore sarà il suo ruolo come strumento di marketing nella promozione dei prodotti esportati. Riferendoci in particolare all’Italia, la sua riconosciuta superiorità in alcuni settori (vedi made in Italy) potrebbe favorire l’utilizzo strategico del country of origin effect attraverso la piena valorizzazione dell’origine nei sistemi di marketing delle imprese nazionali. In uno scenario in cui mercati e prodotti diventano sempre più complessi, il consumatore cerca strumenti che gli consentano di semplificare il processo decisionale senza compromettere l’efficacia delle scelte d’acquisto. L’origine può rispondere pienamente a quest’esigenza, identificandosi quale indicatore ideale della qualità e dell’accettabilità di una specifica offerta. Gli studi condotti su questa tematica evidenziano il valore che viene assegnato dai consumatori ai concetti di tipicità e di origine ed, in particolare, l’impatto della provenienza geografica (l’immagine, quindi, di un territorio), sulle percezioni, sulle attitudini e sulle intenzioni di acquisto dei consumatori nei confronti di prodotti realizzati in un determinato paese103. Il country of origin (Coo) è chiamato a riferire con maggior credito sulle vocazioni del paese, recuperandone l’identità distintiva. Quindi, il posizionamento competitivo dell’offerta è sempre più legato alla reputazione del Coo, intesa quale cruciale risorsa immateriale e non imitabile, che coglie il punto di vista degli stakeholder, nazionali ed esteri, e ne sintetizza il giudizio di valore confermato dagli eventi passati e presenti. La reputazione del Paese non deve essere confusa con la country image, derivante quest’ultima dalle percezioni dei pubblici in un determinato arco temporale104. Invece la reputazione, così come la cultura e il sistema relazionale di un Paese, è il risultato di un processo di formazione lento e socialmente complesso in cui le opinioni dei diversi pubblici si trasformano in giudizi sedimentati. In generale, i prodotti possono essere classificati secondo quattro gradi di differenziazione105: 1. prodotti omogenei: sono quei prodotti percepiti identici dai consumatori; 2. prodotti scarsamente differenziati: sono percepiti come aventi un valore aggiunto e i consumatori sono quindi disposti a spendere di più per averli; Bilkey, “Country of origin effect on product evaluation”, in Journal of International Business Studies, vol. 13, n.1, 1982. 104 Pepe C., Zucchella A. (a c. di), L’internazionalizzazione delle imprese italiane. Contributi di ricerca, Il Mulino, Bologna, 2009. 105 Lampert S. I., Jaffe E. D., “A dynamic approach to country of origin effect”, in European Journal of Marketing, vol. 32, n. 1/2, 1998, pp. 61- 78. 103
52
3. 4.
prodotti mediamente differenziati. I consumatori percepiscono questi prodotti diversi tra loro per determinate caratteristiche e sono quindi desiderosi di spendere di più per acquistarli; prodotti altamente differenziati: sono percepiti come prodotti molto diversi tra loro in termini di offerta o brand e i consumatori sono disposti a spendere considerevolmente di più per avere quel valore aggiunto.
Il Coo, unitamente al prezzo, alla confezione ed alla marca, è un attributo estrinseco del prodotto, a differenza invece delle componenti fisiche e tangibili (ad esempio: colore, materiali, prestazioni) che ne rappresentano gli attributi intrinseci. I consumatori che non hanno avuto esperienze dirette con il prodotto, tendono a formulare una propria valutazione basandosi esclusivamente sugli elementi estrinseci. Il paese di origine, per esercitare efficacemente un ruolo di orientamento nelle scelte di consumo della clientela globale, non può affidarsi esclusivamente all’immagine nazionale, intesa quale percezione del pubblico in uno specifico momento temporale, ma deve necessariamente recuperare un’ottica più ampia che vede nella reputazione del singolo sistema Paese il criterio interpretativo alla base dei differenti influssi esercitabili dal Coo sui giudizi dei consumatori esteri106. Le relazioni tra prodotto e paese possono essere analizzate utilizzando due modelli empirici diversi: l’halo construct e il summary construct107. La prima situazione è quella in cui un individuo non conosce il prodotto, ma ha un’idea generale del paese, per cui la valutazione della qualità del prodotto avviene solo in funzione della provenienza. Quando, invece, i consumatori hanno già sperimentato i prodotti e utilizzano la propria esperienza per costruire l’immagine del paese estero, si è in presenza del modello summary construct. La familiarità e l’esperienza col prodotto sono fattori condizionanti l’impatto del Coo sulla valutazione dei prodotti, così come lo sviluppo economico del paese di origine. In generale, infatti, i consumatori percepiscono una qualità superiore nei prodotti realizzati nei paesi sviluppati, mentre a quelli ottenuti in paesi meno sviluppati associano un livello di rischio più elevato. L’effetto country of origin è misurato da un indicatore: l’Anholt Nations Brand.
Pepe C., Zucchella A. (a c. di), op. cit. Han C. M., “Country image: Halo or summary construct?”, in Journal of Marketing Research, n.26, 1989, pp. 222–229.
106 107
53
2.3.1. Anholt Nations Brand Index L’indice di Anholt è l’unico indicatore di sintesi riconosciuto a livello internazionale che, attraverso sei dimensioni fondamentali, misura l’immagine di cinquanta Paesi e, con i risultati ottenuti, classifica le nazioni in base al livello di godimento ottenuto da diversi pubblici.
Fig. 2.6: Le sei variabili di Anholt Tourism: individua il potenziale turistico e la ricettività di un Paese. Le aree considerate sono la bellezza naturale, i monumenti e le attrazioni urbane. Exports: è il cosiddetto effetto country of origin, cioè in che misura conoscere la provenienza di un prodotto aumenta o diminuisce il desiderio di acquistarlo. Governance: questo aspetto comprende la competenza e l’onestà di un governo, il rispetto per i diritti dei cittadini, l’atteggiamento verso decisioni per garantire la pace e la sicurezza nazionale e il comportamento del governo in tema ambientale e di riduzione della povertà. Investment & immigration: la possibilità di un Paese di attrarre capitale e talento non si rileva solo da quanto le persone vogliono o meno lavorare, studiare, vivere in quel Paese, ma anche dalla prosperità economica a dalle opportunità che una nazione è in grado di offrire. Culture: gli aspetti culturali misurati sono la percezione del patrimonio culturale del Paese e della cultura contemporanea (musica, film, arte, letteratura). People: in che misura gli abitanti del Paese sono in grado di accogliere e far stare bene i visitatori per loro apertura e socievolezza.
54
L’indagine è condotta su un panel di 20.000 persone che devono fornire risposte inerenti le sei variabili sopra esposte usando una scala da 1 a 7. La classifica del 2009 e del 2008 delle prime 10 nazioni è la seguente:
Anholt Nation Brands Index Overall Brand Ranking (Top 10 of 50 Nations) 2009
2008
1
Stati Uniti
Germania
2
Francia
Francia
3
Germania
Regno Unito
4
Regno Unito
Canada
5
Giappone
Giappone
6
Italia
Italia
7
Canada
Stati Uniti
8
Svizzera
Svizzera
9
Australia
Australia
10
Spagna, Svezia
Svezia
Tab. 2.3: Classifica delle prime dieci nazioni nel 2009 e nel 2008 in base all’indice di Anholt Fonte: www.simonanholt.com/Publications I prodotti tipici del settore agroalimentare italiano, compresi quelli vitivinicoli, sono riconosciuti ed apprezzati in tutto il mondo. Quest’immagine di cui si caricano porta i consumatori ad avere di conseguenza una concezione positiva del Paese da cui derivano, anche se non ne hanno familiarità (summary construct). Grazie a questa immagine, l’ Italia rimane nel 2009 fissa al 6° posto, tuttavia, gli organi istituzionali italiani possono mettere in atto un’efficace strategia per rivalorizzare la marca Paese e scalare così la classifica, come quella di puntare sulle caratteristiche distintive del nostro Paese e di sfruttare la percezione positiva che i consumatori esteri hanno di alcuni nostri prodotti.
55
Uno dei settori di eccellenza del made in Italy, che permette di raggiungere quest’obiettivo, è quello dell’agroalimentare108. L’Italia è infatti il Paese che nel mondo può vantare il maggior numero di prodotti tipici enogastronomici con una realtà produttiva variegata e composta, in gran parte, da una moltitudine di piccole aziende. Questo, se da un lato rende difficile una loro completa identificazione e conoscenza, dall’altro garantisce la presenza di prodotti non standardizzati, spesso caratterizzati da un forte legame con il territorio. È la sinergia di alcuni imprescindibili fattori che rendono il made in Italy alimentare unico ed inimitabile: il rispetto della tradizione, la qualità costante delle materie prime, la ricercatezza nel gusto e nell’estetica e il radicamento al territorio. La grande varietà dei prodotti italiani di qualità, agroalimentari e vinicoli, è in grado di rispondere efficacemente e competitivamente alle nuove opportunità offerte dal mercato globale. Nei prossimi paragrafi verrà presentata la situazione dell’industria alimentare e della filiera vitivinicola nel nostro Paese.
2.4. Il settore agroalimentare Il comparto agroalimentare in Italia, con un fatturato 2009 pari a 120 miliardi di euro, è il secondo settore manifatturiero (12%) dopo il metalmeccanico e costituisce uno dei pilastri dell’economia nazionale.
108
Le altre tre A dell’eccellenza italiana, oltre all’alimentare sono: “abbigliamento-moda”, “arredo-casa”, “automazione-meccanica”. I primi due macrosettori producono insieme un valore aggiunto di 42,4 miliardi di euro, mentre il terzo esprime un valore aggiunto di 54,3 miliardi di euro. Le esportazioni dei prodotti manifatturieri italiani sono pari al 57% dell’export nazionale (151 miliardi di euro). Secondo una ricerca della Fondazione Edison, nel 2005 il saldo della bilancia commerciale italiana per i prodotti di punta del made in Italy ha superato i 100 miliardi di dollari, con la seguente ripartizione: alimentare-vini, 5,5 mil. di dollari; abbigliamento-moda, 27,1 mil. di dollari; arredo-casa, 14,5 mil. di dollari; automazione-meccanica, 53,2 mil. di dollari. (Fonte: Fortis M., “L’Italia ai vertici mondiali nelle 4 A”, in Approfondimenti statistici Fondazione Edison, n. 7, 2006).
56
INDUSTRIA ALIMENTARE ITALIANA - LE CIFRE DI BASE (valori in €)
2007
2008
2009
Fatturato (valore)
113 miliardi euro (+2,7%)
120 miliardi euro (+6,2%)
120 miliardi euro (+0,0%)
Produzione (quantità) a parità di g. lavorative
-0,8%
-0,6%
-1,5%
Numero imprese
6.450 industriali (con oltre 9 addetti)
6.400 industriali (con oltre 9 addetti)
6.350 industriali (con oltre 9 addetti)
Numero addetti
390.000 di cui 256.000 dipendenti
386.000 di cui 253.000 dipendenti
378.000 di cui 248.000 dipendenti
Esportazioni
17,84 miliardi di euro 19,84 miliardi di euro 18,87 miliardi di euro (+7,1%) (+9,3%) (-4,9%)
Importazioni
14,93 miliardi di euro 16,26 miliardi di euro 14,59 miliardi di euro (+8,0%) (+5,7%) (-10,3%)
Saldo
2,91 miliardi di euro (+2,8%)
3,58 miliardi di euro 4,28 miliardi di euro (+29,5%) (+19,6%)
Totale consumi
203 miliardi di euro (+3,0%)
209 miliardi di euro (+3%)
206 miliardi di euro (-1,5%)
Posizione all’interno dell’industria manifatturiera italiana
2° posto (12%) dopo settore metalmeccanico
2° posto (12%) dopo settore metalmeccanico
2° posto (12%) dopo settore metalmeccanico
Tab. 2.4: Le cifre di base dell’industria alimentare italiana Fonte: elaborazione Federalimentare su dati Istat, 2009. Come si evince dai valori della tabella 2.4, la crisi in atto sta mettendo a dura prova tutti i sistemi economici nazionali (Il PIL del 2008 ha registrato in Italia una flessione pari al -1%), sebbene ovviamente con intensità diverse a seconda delle peculiarità dei modelli di sviluppo perseguiti. Nonostante il ciclo economico negativo, il 2008 si contraddistingue comunque per una buona performance delle PMI manifatturiere italiane. Il saldo del fatturato, infatti, si attesta al +8,7%, a fronte del valore negativo del 2007
57
(-15,7%)109. A segnalarsi favorevolmente sono, in particolare, le imprese del comparto alimentare e delle bevande, le quali crescono sia in termini di fatturato (+6,2%) sia in termini di esportazioni (+9,3%). Anche nel 2009, nonostante la diminuzione (-4,9%), l’export continua a rappresentare una cifra significativa (quasi 19 miliardi di euro). Ciò è dovuto al fatto che l’agroalimentare è considerato ancora oggi uno dei principali comparti che contribuiscono all’immagine positiva del made in Italy all’estero. I legami della produzione alimentare italiana con il territorio e il patrimonio culturale del paese e i suoi elevati target qualitativi riconosciuti, fanno si che l’industria alimentare italiana riscuota un elevato e ormai consolidato prestigio all’estero ed agisca anche su segmenti di mercato di altissima qualità110. Infatti, l’aggregato made in Italy del settore alimentare incide per il 62% sulle esportazioni totali del settore nel 2007. Il made in Italy è costituito da un paniere di prodotti, sia freschi sia trasformati, che rappresentano l’eccellenza nell’agroalimentare nazionale, ai quali viene riconosciuta una forte tipicità, dato il loro stretto legame con il territorio, e per i quali l’Italia può godere di vantaggi competitivi legati a fattori come l’ambiente, i sistemi produttivi e le tradizioni locali. Il 2007 è risultato particolarmente favorevole per le esportazioni di questo aggregato che sono cresciute del 7,6%; un incremento superiore a quello delle esportazioni del settore agroalimentare considerato nel suo complesso (+6,4%) ed in linea con il totale delle esportazioni nazionali (+8%). Le esportazioni del made in Italy sono trainate in valore dal vino (23% dell’aggregato), che ha fatto segnare un incremento ragguardevole (+9%) e doppio rispetto alla variazione media annua del quinquennio (pari al 4,5%)111. Questo parallelo incremento delle quantità e del valore unitario ha caratterizzato la quasi totalità dei comparti del made in Italy, che risultano competitivi sul mercato internazionale non in virtù di strategie legate alla riduzione del prezzo di vendita, ma all’elevato valore aggiunto e al livello qualitativo delle produzioni nostrane.
Istituto G. Tagliacarne, rapporto 2009. Perotti S., “Logistica distributiva per la filiera agro-alimentare”, in Logistica Management, n.178, 2007, pp. 69-75. 111 ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), Outlook del’agroalimentare italiano, rapporto annuale, 2008. 109 110
58
Milioni di euro (2007)
Quota %* (2007)
Variazione % (2007/2006)
Tvma % (2002-‘07)
Vino
3.478
23,7
8,9
4,4
Frutta fresca escl. agrumi
2.099
14,3
11,9
1,7
Pasta
1.542
10,5
12,0
3,7
Prodotti dolciari
1.328
9,0
27,9
10,9
Formaggi e latticini
1.323
9,0
9,3
5,1
Legumi e ortaggi inscatolati
1.300
8,8
12,4
1,7
Olio di oliva
1.053
7,2
-17,3
8,3
Prodotti panetteria e biscotteria
967
6,6
-11,7
2,9
Carni suine prep. e salumi
790
5,4
6,8
5,5
Succhi di frutta e ortaggi
429
2,9
19,1
3,2
Risi
389
2,6
13,4
4,7
14.700
62,3
7,6
4,4
Prodotti
Made in Italy
(*) per i prodotti, le quote sono calcolate sul totale made in Italy, per l’aggregato made in Italy sul commercio estero agroalimentare totale. Tab. 2.5: Esportazioni in valore del made in Italy Fonte: ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), Outlook del’agroalimentare italiano, rapporto annuale, 2008. Infine, dando un ultimo sguardo al fatturato dell’industria agroalimentare diviso per settori in tabella 2.6, si osserva che il comparto del vino occupa il terzo posto dopo i settori lattiero-caseario e dolciario, con un fatturato nel 2009 di 10,6 miliardi di euro.
59
Fatturato 2006
Fatturato 2007
Fatturato 2008
Fatturato 2009
Var. % 09/08
Var. % 08/07
Lattiero – Caseario
14.200
14.350
14.500
14.425
-0,5
1,1
Dolciario
10.146
10.813
11.290
11.544
2,2
4,4
Vino
10.700
10.900
10.900
10.600
-2,8
0,0
Salumi
7.370
7.554
7.578
7.601
0,3
0,3
Carni bovine
5.800
5.920
5.900
5.900
0,0
-0,3
Comparti
Alimentazione animale Olio di oliva e di semi Avicolo
4.950
6.050
6.500
5.700
-12,3
7,4
4.200
4.300
4.200
4.000
-4,8
-2,3
3.900
5.300
5.300
5.320
0,4
0,0
Pasta
3.519
3.730
4.600
4.500
-2,2
23,3
Conserve vegetali
3.220
3.413
3.700
3.700
0,0
8,4
Infanzia, dietetici e integratori alimentari
2.600
2.690
2.800
3.000
7,1
4,1
Birra
2.450
2.500
2.450
2.400
-2,0
-2,0
Molitorio
2.392
3.168
3.636
2.560
-29,6
14,8
Acque minerali
2.200
2.300
2.300
2.300
0,0
0,0
Caffè
2.200
2.300
2.350
2.400
0
2,0
Surgelati
2.100
2.200
2.225
2.237
0,5
1,0
Bevande gassate
1.750
1.780
1.800
1.800
0
1,1
Ittici
1.223
1.256
1.306
1.387
6,2
4,9
Zucchero
1.100
650
650
630
-3,1
0,0
Succhi di frutta/Elab.
1.060
1.090
1.086
1.064
-2,0
-0,4
Riso
870
910
1.200
1.050
-12,5
31,9
Varie
22.050
19.826
23.729
25.882
9,1
19,7
TOTALE
110.000
113.000
120.000
120.000
0,0
6,2
Tab. 2.6: Fatturato dell’industria alimentare italiana suddivisa per settori in milioni di € Fonte: stime Federalimentare, 2009.
60
Dopo queste riflessioni, ci si rende conto di quanta importanza assuma il settore vitivinicolo, e la relativa filiera, all’interno dell’industria agroalimentare. Si entrerà nel merito del settore vitivinicolo italiano nel terzo capitolo, mentre nei paragrafi seguenti verrà illustrato il concetto di filiera portando come modello la filiera vitivinicola e il territorio del vino in cui tale filiera s’inserisce. Prima, però, è necessaria una parentesi sull’impatto della crisi economica nel settore dell’agroalimentare.
2.4.1. L’effetto della crisi economica SUL settore agroalimentare Dato che la crisi economica del 2007 ha avuto, e sta avendo, ripercussioni in tutti i settori, risulta necessario fare un excursus sugli effetti che ha provocato, in particolare, nel settore agroalimentare ed agricolo. Rispetto a ciò, sembrano emergere due diverse interpretazioni. Una che tende a ritenerlo un settore relativamente al riparo dagli effetti più pesanti della crisi in quanto tipicamente anticiclico112. Un’altra, invece, sottolinea come la sua debolezza strutturale, continuamente aggravata da processi di lungo periodo che sembrano inarrestabili (per esempio l’invecchiamento) e la predominanza assoluta di piccole e piccolissime imprese, rendano il settore particolarmente esposto alla stretta creditizia che si è repentinamente palesata, spesso combinandosi con un contemporaneo crollo dei prezzi. Facendo soprattutto leva sulle difficoltà acute di particolari comparti e territori, peraltro non necessariamente causate dalla crisi economico-finanziaria o da essa solo esasperate, indubbiamente una parte del mondo agricolo sottolinea con forza quanto l’attuale congiuntura venga a colpire pesantemente un settore già prostrato da difficoltà e limiti che si porta dietro ormai da troppo tempo113. Se è, dunque, certamente vero che il settore agricolo presenta alcune caratteristiche che lo rendono più resistente agli effetti della crisi sotto il profilo degli andamenti del valore aggiunto, certamente così non è sul versante dei prezzi. Essi, infatti, mostrano una variabilità molto più accentuata rispetto agli altri settori. Dunque, se l’agricoltura sembra resistere meglio di altri settori alla crisi, ciò va comunque letto in termini relativi: la performance dell’agricoltura Ossia un settore che per le sue caratteristiche sarebbe in grado di assorbire e attutire gli shock macroeconomici e che, dunque, finirebbe con l’andare in controtendenza rispetto al ciclo economico generale: crescendo di meno quando l’economia tira e soffrendo di meno nelle fasi di recessione. 113 De Filippis F., Romano D. (a c. di), Crisi economica e agricoltura, Gruppo 2013, Edizioni Tellus, 2010. 112
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peggiora, ma non tanto quanto quella degli altri settori economici. Soprattutto, gli effetti del ciclo si avvertono con un certo ritardo, a causa della maggiore rigidità dell’offerta e della domanda di beni agroalimentari; ma ciò non vuol dire che gli effetti della crisi in agricoltura non si facciano sentire114. L’agricoltura risentirebbe pertanto meno del ciclo economico rispetto agli altri comparti per due motivi principali. In primo luogo, le interpretazioni di questa specificità si ricollegano al fatto che la produzione agricola soffre di oscillazioni stagionali della produzione, in larga parte imprevedibili e imponderabili, spesso assai sensibili e che sistematicamente “scollegano” l’agricoltura dalla congiuntura. In secondo luogo, l’agricoltura produce in prevalenza beni di prima necessità, e ciò metterebbe i prodotti agroalimentari al riparo da grandi diminuzioni di domanda quando il reddito diminuisce115. A conferma di ciò si aggiunge il fatto che, in un quadro di notevole sofferenza dei comparti manifatturieri, fa eccezione proprio l’industria alimentare, che non sembra riscontrare particolari cali di produzione e fatturato negli ultimi trimestri. In realtà, però, l’agroalimentare italiano si caratterizza nell’arena internazionale per la produzione di beni di qualità (il “lusso” dell’agroalimentare,). E, d’altro canto, i dati relativi ai consumi in questi tempi di crisi sottolineano come le famiglie tendano ad operare risparmi anche negli acquisiti di generi alimentari. Perciò, tale chiave interpretativa, in questo frangente e per un paese come l’Italia, sembra meno efficace che in passato. Nelle due figure seguenti (2.7 e 2.8) sono sintetizzate le note di congiuntura dell’ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) relative al secondo trimestre 2009 e al secondo trimestre 2010, così da avere un’idea dell’evoluzione dell’impatto della crisi nel settore agroalimentare nell’arco di un anno. Infine, nella tabella 2.7 sono sintetizzate le tendenze del settore illustrate nelle figure per il periodo di tempo considerato.
ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), “Agroalimentare. La congiuntura in sintesi”, in Tendenze, II trimestre 2009. 115 Esposti R., “La crisi vista dall’agricoltura: cosa dicono i numeri”, in AGRIREGIONIEUROPA, n. 18, 2009. 114
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Il mercato in Italia Nel secondo trimestre del 2009 l’agricoltura italiana, secondo le stime ISMEA, dovrebbe subire una contrazione del valore aggiunto del 2,5% e della produzione del 2,4% rispetto al primo trimestre. Questo andamento è accompagnato da una netta riduzione dei prezzi all’origine, a fronte di una maggiore stabilità dei mezzi di produzione dell’agricoltura; si è quindi determinato un peggioramento della ragione di scambio e potenzialmente della redditività degli agricoltori. La produzione industriale ha segnato, al contrario, un lieve incremento, in controtendenza rispetto al resto del settore manifatturiero ancora in affanno: segnali di ripresa anche sul fronte del clima di fiducia degli operatori dell’alimentare, grazie all’incremento delle vendite e delle aspettative di vendita. Riguardo ai consumi, le stime evidenziano nel complesso una stasi sia per gli acquisti in volume che per la spesa grazie alla stabilità dei listini di cui sta godendo attualmente il mercato. Gli scambi con l’estero Gli scambi commerciali dovrebbero essere caratterizzati, in termini tendenziali, da una contrazione piuttosto accentuata dei flussi, più marcata per le esportazioni rispetto alle importazioni, soprattutto in termini di volumi: il saldo commerciale del semestre dovrebbe migliorare in valore con una riduzione del disavanzo del 3,7%, ma peggiorare in modo significativo in quantità (+10%). L’andamento è negativo anche per l’aggregato del made in Italy, in confronto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Fig. 2.7: La congiuntura in sintesi, II trimestre 2009 Fonte: ISMEA, “Agroalimentare. La congiuntura in sintesi”, in Tendenze, II trimestre 2009. Il mercato in Italia Il 2010 si preannuncia essere un anno in salita: secondo le stime ISMEA, il secondo trimestre dovrebbe mostrare una flessione congiunturale sia del valore aggiunto che della produzione agricola. Tuttavia, la redditività degli agricoltori mostra timidi segnali di ripresa congiunturale, con i prezzi all’origine in crescita maggiore rispetto ai prezzi dei fattori produttivi. Nel complesso, nel 2010 sia la produzione agricola che il valore aggiunto reale sono previsti in leggera riduzione. L’indice della ragione di scambio si è stabilizzato negli ultimi tre trimestri; comunque, in media nei primi sei mesi del 2010 resta inferiore rispetto allo stesso periodo del 2009. Sul fronte industriale, nel periodo aprile-maggio 2010, i dati Istat evidenziano una sostanziale stabilità della produzione dei beni alimentari, delle bevande e del tabacco.
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Per il 2010 i consumi alimentari domestici delle famiglie italiane non dovrebbero, secondo le ultime stime ISMEA, discostarsi dal livello rilevato nel 2009, mentre si prevede un ulteriore calo della spesa. Gli scambi con l’estero Nel secondo trimestre del 2010, in base alle stime ISMEA, il disavanzo della bilancia commerciale del settore dovrebbe migliorare notevolmente sia in quantità (-38%) che in valore (-21%) rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno.
Fig. 2.8: La congiuntura in sintesi, II trimestre 2010 Fonte: ISMEA, “Agroalimentare. La congiuntura in sintesi”, in Tendenze, II trimestre 2010. Var. % 10/09
Var. % 09/08
Var. % II trim. 10/ II trim. 09
Var. % II trim. 09/ II trim. 08
Produzione agricola tot (valori costanti)
-1,9
-1,7
-2,9
-5,0
Prezzi agricoli alla produzione
-3,1
-12,8
O,8
-13,3
Prezzi dei mezzi correnti in agricoltura
-1,5
0,4
-1,1
-0,8
Import agroalimentare (quantità coeff.)
1,7
-3,8
-0,1
-5,0
18,4
-6,7
20,2
-9,3
-0,1
0,3
-0,6
-0,2
-2,8
0.6
-0,9
-1,4
Export agroalimentare (quantità coeff.) Consumi domestici alimentari delle famiglie (indice delle quantità) Prezzi al consumo dei prodotti alimentari
Tab. 2.7: Le tendenze del settore nazionale agroalimentare in sintesi Fonte: ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), “Agroalimentare. La congiuntura in sintesi”, in Tendenze, II trimestre 2009 e II trimestre 2010. Ora che la situazione congiunturale dell’agroalimentare italiano risulta più chiara, si può passare a descrivere il concetto di filiera ed entrare nel merito della filiera vitivinicola.
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2.5. Il concetto di filiera La filiera è un possibile modello di rappresentazione e valorizzazione della fitta trama di relazioni e interazioni che qualificano le attività economiche. Si usa, infatti, come unità d’indagine intermedia tra il processo produttivo e il sistema economico, ogni qualvolta acquistino rilevanza le relazioni di scambio verticali tra unità produttive, imprese, settori e quindi anche i fenomeni di integrazione verticale116. Esistono diverse accezioni del termine “filiera”. Eccone alcune. Il concetto più intuitivo di filiera è quello di una successione obbligata di operazioni o di stadi intermedi legati dal passaggio di un materiale oggetto di trasformazione. Essa è intesa come strumento di descrizione tecnico-economica che prevede l’esame delle tecnologie messe in atto per produrre un determinato bene, l’analisi della natura del prodotto finale e di quelli intermedi, lo studio dei mercati di consumo. Tra i sostenitori di questa accezione troviamo Jean Monfort, secondo il quale il concetto di filiera fà riferimento all’idea che un prodotto, bene o servizio è messo a disposizione del suo utilizzatore finale grazie ad una successione di operazioni effettuate da unità aventi funzioni diverse. Ciascuna filiera è quindi costituita da una catena di attività complementari, legate tra loro da operazioni di acquisto e di vendita117. Malassis, dal canto suo, sostiene che: “l’analisi di filiera consiste, in primo luogo, nel ricostruire i percorsi di specifiche merci all’interno del sistema economico e nell’individuare gli agenti che intervengono lungo tali percorsi e le operazioni da essi svolte; in secondo luogo, riguarda lo studio dei meccanismi di regolazione: struttura e funzionamento dei mercati, intervento dello Stato, pianificazione”118. In sostanza, l’obiettivo della filiera consiste nel realizzare una soluzione che abbia maggior valore sul mercato. Per migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’offerta, gli elementi che costituiscono la filiera devono cooperare. Questo è ottenibile grazie all’integrazione non solo delle loro prestazioni, ma anche di quelle risorse che non vengono completamente utilizzate: i vantaggi si hanno sia nei ricavi attesi che nei costi sostenuti119. De Muro P., “Sul concetto di filiera”, in La Questione Agraria, n. 46, 1992, pp. 15-64. Monfort J., “A la recherche des filières de production”, in Economie et Statistique, n. 51, 1983, pp. 3-12. 118 Cecchi C., De Muro P., Favia F., “Filiere, sistemi agricoli, distretti: mezzi e fini nell’analisi dell’agroindustria” in La Questione Agraria, n. 46, 1992, p. 10. 119 Giacomotti A., Giuliattini G., Il comarketing, la nuova gestione del business di filiera, Guerini e Associati, Milano, 2000. 116 117
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Possiamo individuare tre attori della filiera: il produttore, il distributore e il cliente. Con il termine produttore s’intende qualsiasi organizzazione che, avendo a disposizione un manufatto o un servizio, decide di venderlo ai clienti e che si avvale di intermediari, appunto i distributori. Il distributore comprende l’intera gamma di strutture operative (logistiche, commerciali, assistenziali) che si interpongono tra produttore e cliente. L’anello finale della filiera è il consumatore, il quale si aspetta di ottenere che lo scambio cui aderisce gli apporti un maggior valore rispetto alla situazione di partenza ed in particolare soddisfi le sue esigenze, ottimizzando il rapporto qualità-prezzo120. La filiera è, per così dire, un insieme di frazioni di ognuna delle attività che partecipano alla produzione di una merce. Quindi, è il prodotto di una sempre crescente divisione del lavoro sociale, cioè una sempre maggior specializzazione del prodotto che viene fabbricato come merce. Le filiere che così si ottengono non descriveranno più soltanto le relazioni tra i settori produttivi, ma anche quelle tra questi e le unità socio-istituzionali, quali famiglie, imprese e pubblica amministrazione121. Un modello di sviluppo vincente è quello di integrare la strategia di filiera e la strategia territoriale. Nella prima, il modello produttivo ruota attorno al prodotto stesso e l’obiettivo diventa quello della competitività della filiera tipica; nella seconda, invece, i fattori critici di successo sono da ricercare non solo nella filiera tipica, ma anche nelle risorse di contesto che, unitamente a quella, generano modelli di sviluppo integrato122.
2.5.1. La filiera vitivinicola La filiera vitivinicola si può analizzare a tre diversi livelli di approfondimento123. La filiera vitivinicola in senso stretto considera i soli contributi intersettoriali necessari per realizzare i prodotti vitivinicoli intesi come mera trasformazione dell’uva. Sono considerate esclusivamente le attività agricole di coltivazione della vite e quelle industriali di trasformazione fisica dell’uva in vino. Quindi, i rapporti analizzati sono quelli verticali, tra imprese agricole e imprese di trasformazione industriale. Ibid. Cecchi C., De Muro P., Favia F., op. cit. 122 Marescotti A., “Prodotti tipici e sviluppo rurale alla luce della teoria economica delle convenzioni”, in Sviluppo rurale: società, territorio, impresa, FrancoAngeli, Milano, 2002. 123 Vagnani G., Volpe L., “Alla ricerca del valore della filiera vitivinicola: verso la formulazione di un modello di analisi”, in Rivista SIM, Mercati e Competitività, n°4, FrancoAngeli, Milano, 2009, pp. 21-43. 120 121
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La filiera vitivinicola in senso ampio considera, invece i rapporti con le filiere collegate e apre il campo alla considerazione di contributi intrasettoriali necessari per realizzare un’unità di prodotto vitivinicolo e poi per distribuirlo al consumatore finale. Rientrano in questo ambito i rapporti con i fornitori di tappi, bottiglie, etichette e confezioni, eccetera, sino ai servizi della distribuzione commerciale al dettaglio. L’analisi è incentrata, anche in questo caso, sui rapporti verticali fornitore-cliente; infatti, nonostante l’intervento di soggetti erogatori di beni o servizi, tale azione risulta strumentale all’ottenimento della singola unità di prodotto finito. Infine, la filiera vitivinicola in senso allargato estende l’analisi alla considerazione delle filiere cosiddette correlate e esamina, quindi, i molteplici rapporti intersettoriali che contribuiscono alla creazione di valore legata ai prodotti vitivinicoli e/o che beneficiano, a loro volta, della presenza e valorizzazione di tali prodotti (ad esempio: enogastronomia, turismo, editoria specializzata). In questo terzo livello i rapporti sono orizzontali e trasversali tra imprese ed altre organizzazioni. La complessità economica, la forte interazione tra un settore economico e l’altro, la maggiore influenza degli ambienti internazionali ed una fortissima connotazione territoriale determinano l’esigenza di giungere a definire e misurare il valore della filiera vitivinicola allargata all’interno del sistema paese. La quantificazione del valore connesso alla produzione vitivinicola si sposta dalla filiera in senso stretto a quella allargata, si passa da un approccio rigidamente di filiera (rapporti verticali) a uno di stampo più reticolare, sistemico, segnato dalla crescente varietà di attori coinvolti e di rapporti. Il modello di rappresentazione della filiera allargata è frutto di uno studio condotto da Federvini e dal CUEIM (Consorzio Universitario di Economia Industriale e Manageriale)124, il cui obiettivo è anzitutto mettere a punto un modello di rilevazione del valore allargato prodotto dalla filiera vitivinicola in Piemonte, attraverso la qualificazione delle tre sue componenti: valore della filiera in senso stretto; valore delle filiere in senso ampio; valore delle filiere collegate. I risultati dell’analisi condotta hanno rilevato che, se si considera il peso del solo valore tecnico-economico in senso ampio (filiera stretta e ampia) sul PIL piemontese, il valore della filiera complessiva raggiunge il 2%. Aggiungendo, tuttavia, anche la terza componente (filiera allargata), l’incidenza del valore della filiera complessiva diviene assai più rilevante, raggiungendo quasi il 13%. In altri termini, l’incidenza percentuale del valore della filiera sul PIL regionale si 124
Rapporto CUEIM, “Analisi sistemico territoriale della filiera vitivinicola estesa italiana: alla ricerca del valore specifico del modello Italia”, in Convegno La filiera vitivinicola “allargata” - Il modello italiano, valori e impatto sul territorio piemontese, Torino, 2008.
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incrementa di circa 13 volte ove si passi dal valore ampliato al valore allargato. Ciò serve a dimostrare l’importanza anche di quei settori che non hanno direttamente a che fare con l’uva o il vino, ma che sono fondamentali per la promozione e la valorizzazione dei prodotti e del territorio125. Nella figura a pagina seguente (fig. 2.9), si osserva che i rapporti interfiliera hanno natura bidirezionale e si auto-alimentano. In alcuni casi, possono essere la notorietà e il valore (immagine, reputazione, ecc.) dei vini italiani a promuovere e supportare altre economie o attività (ad esempio i beni culturali, il settore immobiliare, il turismo, la tutela del territorio), con successive ricadute anche sulla filiera vitivinicola ristretta. Altre volte, sono le attività economiche correlate a svolgere per prime un ruolo di traino per la valorizzazione dell’offerta strettamente vinicola, traendone a loro volta valore aggiunto126.
Fig. 2.9: Modello di rappresentazione della filiera allargata Fonte: Rapporto CUEIM, 2008. Ringrazio il Prof. Alberto Mattiacci dell’Università La Sapienza di Roma per i suggerimenti. 126 Vagnani G., Volpe L., op. cit. 125
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A questo punto è utile analizzare il percorso della filiera ed il passaggio tra i vari stadi della stessa. Nella produzione di vino, tale percorso è tracciato dalla materia prima principale, l’uva, poi dal mosto ed infine dal vino nelle varie fasi di finitura, invecchiamento e miscelazioni fino al confezionamento ed alla distribuzione127. Prima fase: Processo di produzione delle uve (conduzione del vigneto: dall’impianto del vigneto alla coltivazione e vendemmia). Risponde alle logiche della produzione primaria e quindi del mondo dell’agricoltura. Il prodotto (uva) in uscita dal processo è da considerarsi a tutti gli effetti un prodotto finito che può essere venduto ad altre imprese per la trasformazione in vino o trasformato dall’impresa stessa. Seconda fase: Processo di produzione dei prodotti vinicoli (vinificazione, o operazioni di cantina). I processi di trasformazione sono fisicamente identificabili con la cantina. Si riassumono sotto questa voce tutte le attività che vanno dalla realizzazione del mosto allo stoccaggio del vino. Il processo è caratterizzato da alcune fasi intermedie di trasformazione che portano alla realizzazione di stati ben identificati del prodotto. I prodotti in uscita dal processo (mosti e vini nelle diverse categorie e tipologie) sono da considerare prodotti finiti che possono essere confezionati dalla stessa impresa o venduti in forma di prodotto sfuso, oltre che al consumatore finale, ad altre imprese che provvederanno ad ulteriori pratiche o trattamenti enologici, al confezionamento o a ulteriore vendita. Terza fase: Confezionamento. Le logiche sottese sono di tipo industriale e vanno dal ricevimento del vino dalla cantina allo stoccaggio delle confezioni di prodotto finito. È un processo generalmente a forte grado di automazione. Il prodotto finito è costituito dal vino nelle differenti categorie e tipologie confezionato nei diversi tipi di contenitori e in diversi formati (bottiglia, fusto, damigiana, bag in box, brik). Il prodotto confezionato può essere venduto direttamente al consumatore o ai diversi canali della distribuzione tradizionale e moderna. Quarta fase: Processo di vendita, consegna e commercializzazione dei prodotti. Comprende le logiche di erogazione di servizi per ciò che concerne l’immagazzinamento e la consegna dei prodotti finiti. Il prodotto in uscita dal 127
http://sadecal.deis.unical.it/dmdocuments/Filiera_Vino.pdf
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processo è costituito ovviamente dai prodotti finiti resi disponibili al cliente, consegnati con mezzi propri o attraverso trasportatori e filiere distributive. Generalmente, la fase agricola e quella della prima trasformazione (la vinificazione) risultano, nella filiera del vino, fortemente integrate; il processo di vinificazione è svolto quasi esclusivamente dai viticoltori, dalle cantine sociali e dalle cooperative che commerciano il loro prodotto in formato sfuso o in bottiglia, attraverso il canale diretto o attraverso l’intermediazione di commercianti (i grossisti). La seconda trasformazione, e in particolare le fasi di imbottigliamento e confezionamento, vede invece protagoniste le imprese enologiche e i consorzi di tutela. È evidente che esistono relazioni intense tra il sistema territorio e il sistema della filiera vitivinicola e queste relazioni possono produrre un contestuale sviluppo del territorio e delle imprese su di esso radicate. Il prodotto-vino è il risultato di un articolato complesso di fattori materiali e immateriali che, integrandosi, esprimono, in una determinata area, condizioni di produzione uniche128. La singola azienda, dove materialmente avviene la produzione (cioè sul territorio locale dove si inserisce la filiera vino), impiega ed elabora, in modo significativo e determinante, questi fattori localmente caratterizzati (materie prime, competenze, servizi) ed è condizionata da altri (ambiente fisico-climatico, cultura, valori sociali) che, pur rimanendo esterni all’azienda, ma interni al sistema, ne influenzano le capacità produttive129. Nasce e si sviluppa allora un legame inscindibile tra il vino e il territorio in cui viene prodotto.
2.6. Il territorio del vino Il legame vino-territorio passa dalle specificità delle risorse che, se opportunamente valorizzate, possono determinare vantaggi difficilmente imitabili per via della loro originalità ed appartenenza ad una determinata area geografica. Infatti, l’ambiente fisico-climatico determina in modo significativo la specificità territoriale della produzione agroalimentare. L’area geografica assume rilevanza quando è in grado di cedere al prodotto le sue caratteristiche fisiche, la cultura di produzione, gli elementi immateriali che scaturiscono dalla storia e dalla cultura di un luogo, nonché i valori sociali connessi con la propensione al rispetto dell’ambiente. Pertanto, le produzioni 128
Pastore R., op. cit. Endrighi E., “Le produzioni tipiche locali tra strategia d’impresa e promozione del territorio”, in Sviluppo rurale: società, territorio, impresa, FrancoAngeli, Milano, 2002, pp. 444-462.
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vinicole ancorate a specifiche aree geografiche possono essere competitive nel momento in cui il loro territorio di origine riesce ad esprimere qualità (intesa anche come capacità di garantire e rafforzare il legame fiduciario con il cliente) e notorietà, quindi identità130. Questi due elementi risultano essere difficilmente conseguibili dalle singole imprese e i loro confini sono raramente identificabili perché sono in costante cambiamento. Si ha così che il legame che genera il territorio del vino, trova origine nell’esistenza di una specificità territoriale, interpretata in termini di vocazione verso determinate categorie produttive. Vocazione intesa come risultante delle risorse tangibili e intangibili, dei fattori sociali, paesaggistici, antropologici, storici di un territorio.
Fig. 2.10: La vitivinicoltura tra cultura, impresa territorio Fonte: Proietti L., Convegno “La filiera vitivinicola “allargata” - Il modello italiano, valori e impatto sul territorio piemontese”, Torino, 2008. Le variabili competitive di molti territori italiani possono riconoscersi nell’esistenza di caratteristiche pedoclimatiche particolarmente favorevoli per la vitivinicoltura, nell’adozione di criteri di cura del territorio, nella riscoperta del legame tra vino e storia, cultura, arte. Affinché questi fattori continuino a rappresentare dei punti di forza, è necessario realizzare un ammodernamento delle tecniche di coltura e raccolta, senza che questo implichi l’abbandono delle Fait M., op. cit.
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tradizioni. Per far ciò è richiesta una visione comune, la condivisione di regole e valori, la creazione della territorialità, come senso di appartenenza, al fine di pervenire a una reale identità territoriale131. Inoltre, per attivare un percorso competitivo comune, è necessario riconoscere che il legame territorio-vino non risiede semplicemente nel concetto di sito di coltivazione (si veda il prossimo paragrafo sul concetto di “terroir”), ma si deve giungere alla realizzazione di un territorio del vino, nel quale lo spazio fisico ha valore in funzione della sua identificazione materiale e della rilevanza della componente relazionale. I drivers per attuare il predetto percorso sono la vocazione vitivinicola ed il capitale sociale. La vocazione è indicativa del percorso evolutivo che il territorio può intraprendere ed è anche la prima immagine che viene percepita dagli attori sia interni che esterni132. Il capitale sociale è, invece, come già visto, il fattore che qualifica le risorse relazionali facendole diventare beni intangibili distintivi difficilmente riproducibili altrove. Secondo questa prospettiva e in base a quanto affermato in precedenza, il territorio del vino può essere interpretato come un milieu innovateur (paragrafo 2.2.5.1), nel senso che viene concepito come un insieme unitario formato da un sistema locale di produzione, da differenti tipologie di attori, da una cultura e da un processo di apprendimento condiviso. L’adattabilità di questo concetto al territorio del vino emerge dal fatto che viene recuperata la semplice visione spaziale dello stesso (terroir) e gli viene assegnata una valenza relazionale, fonte di un processo di apprendimento e di innovazione. La dimensione relazionale crea fiducia, cooperazione e senso di appartenenza, in altre parole rigenera il capitale sociale originario indirizzandolo verso obiettivi condivisi. Riassumendo, il legame vino-territorio passa attraverso i concetti di terroir e di tipicità. Il terroir deve essere inteso in senso allargato, come l’insieme delle risorse locali e dei tratti distintivi dei luoghi di produzione. Il concetto di tipicità è legato al recupero della cultura e dell’identità locale dei luoghi di produzione. Terroir e tipicità aumentano il vantaggio competitivo delle imprese vitivinicole, in particolar modo di quelle italiane e francesi, nel senso che possono essere valorizzati come elementi unici che li distinguono dagli altri competitor. Infatti, i concorrenti del Nuovo Mondo (questo argomento sarà approfondito nel terzo capitolo, qui basti pensare a Paesi come Australia, Argentina, Sud Africa, Nuova Zelanda) non hanno una storia da trasmettere ai consumatori, per questo puntano sulla standardizzazione e la massificazione del prodotto. Italia e Francia possono invece contare su un patrimonio territoriale e su una cultura dei fattori intangibili basati sui valori simbolici del vino e sul forte legame col territorio. Pastore R., op. cit. Caroli M., op. cit.
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2.6.1. Sul concetto di “terroir” Il termine terroir è polisemico, di difficile traduzione e spesso si sceglie di conservarlo nella lingua di origine. Per questo motivo è opportuno cercare di darne una spiegazione. Innanzitutto, terroir è un termine proprio per l’analisi dello spazio rurale e per la descrizione dei sistemi agrari; è inteso quindi come un insieme costituito dal suolo, dall’ambiente, dal microclima e dai vitigni di una zona di produzione vitivinicola133. La definizione istituzionale fornita dall’INAO (Institut National de l’Origine et de la Qualité), definisce il terroir come un insieme di terreni che per la natura più o meno variabile dei loro suoli, la loro situazione e il loro ambiente si sono rilevati, tramite l’esperienza e gli usi, propizi alla produzione dei vini fini. Oggi il processo di qualificazione territoriale dell’agricoltura dei sistemi locali rurali è funzione della capacità degli attori di utilizzare la valenza informativa del terroir nelle sue dimensioni naturale, sociale, patrimoniale, e può fare leva sull’origine dei prodotti che, di fronte alla complessificazione dei canali tra produzione e consumo, rappresenta per il consumatore un fattore di identificazione e fiducia, e per i produttori un supporto di notorietà e reputazione134. Il vino e, in generale, i prodotti agroalimentari tipici, sono inscindibilmente legati al proprio terroir in quanto da esso derivano la loro specificità e riconoscibilità sul mercato. È chiaro che il legame vino-territorio non può essere limitato al concetto di terroir inteso come sito di coltivazione, ma deve essere allargato fino a comprendere tutti quei fattori storico-culturali che ne costituiscono un suo valore aggiunto. In altri termini, detto legame deve considerare anche lo spazio organizzato e progettato dall’uomo (si pensi alle zone a denominazione di origine, che affronteremo nel prossimo capitolo). Se è vero, infatti, che un vigneto può essere trasferito e coltivato in luoghi diversi, le caratteristiche specifiche di un sito sono sempre uniche e non replicabili altrove.
Vaudour E., I terroir. Definizioni, caratterizzazione e protezione, Edagricole, Bologna, 2005. 134 Belletti G., “Sviluppo rurale e prodotti tipici: reputazioni collettive, coordinamento e istituzionalizzazione”, in Sviluppo rurale: società, territorio, impresa, FrancoAngeli, Milano, 2002. 133
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Il vantaggio competitivo delle imprese vitivinicole non deriva di per sé dalle condizioni di produzione, ma dalla natura stessa del prodotto, il quale è ancorato ad un territorio, ad un insieme di peculiarità pedoclimatiche, tecniche e organizzative ad esso proprie, e a un insieme di produttori selezionati nel corso del processo storico di specificazione del prodotto stesso, elementi sintetizzabili nel concetto di terroir. La conoscenza dei terroir, dei fattori durevoli della qualità, e della loro interazione con l’annata e le varietà, è, per i produttori, una condizione indispensabile per gestire gli aspetti commerciali e giuridici legati al mercato vinicolo, permettendo l’elaborazione di strategie di gestione geografica delle potenzialità di produzione. Si vedrà più avanti, nei capitoli 4 e 5, quanto è importante per i viticoltori la valorizzazione del terroir. In Francia, ad esempio, la cultura del terroir è fondamentale e strategica in un’ottica di promozione e vendita del proprio prodotto. Basti pensare che sulle etichette delle bottiglie francesi viene sempre indicato il nome della denominazione (che disciplina e definisce il terroir) prima del nome dell’azienda che ha vinificato quel vino. Questo ha una sua logica ben precisa, di far conoscere ai consumatori nazionali e internazionali prima il territorio e poi il singolo produttore, mostrando il profondo rispetto che la gente del luogo nutre per il proprio territorio e tradizioni. Tale logica, che si espliciterà anche successivamente quando verrà affrontato il mercato francese e le sue denominazioni, è stata la fortuna di molti vini, sempre ricordati più per il terroir di origine che per chi l’ha prodotto. Adesso che il significato di terroir è più chiaro, manca da approfondire il concetto di tipicità, anch’esso legato al recupero dell’identità locale dei luoghi di produzione vitivinicola.
2.6.2. La tipicità come espressione del legame territorio- prodotto La tipicità esprime una delle componenti più rilevanti per la differenziazione dei prodotti agroalimentari e vinicoli. In genere il concetto di tipicità è collegato al forte e storico legame che il prodotto ha con il territorio d’origine. Il fattore geografico è fondamentale quando si considerano le materie prime e le condizioni climatiche che influenzano il processo produttivo. Un bene non si compone però solo di fattori tangibili, ma anche di elementi intangibili che possono influenzare le scelte dei consumatori. Quindi, anche il fattore storico e il fattore culturale concorrono nel determinare la tipicità135. Il primo elemento si ricollega prevalentemente al valore cognitivo che un prodotto può possedere in Fait M., op. cit.
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quanto portatore di conoscenze e di percorsi di apprendimento sedimentati nel tempo. Il secondo elemento si riferisce al complesso di simboli e consuetudini trasmessi nel tempo e caratterizzanti il comportamento di un popolo relativamente ad alcune abitudini di vita. Le produzioni agroalimentari di qualità, così come le produzioni vitivinicole a marchio registrato, rappresentano un aspetto peculiare dell’identità del nostro Paese e possono essere elemento di continuità nel tempo e di istintività rispetto alle altre offerte presenti sul mercato, sia a livello nazionale che mondiale. Indiscussa è la valenza territoriale per qualificare i prodotti tipici in termini di unicità ed irriproducibilità. Il territorio, inteso come testimonianza di una specifica tradizione fatta di cultura, abitudini, saperi e sapori136. La percezione di eccellenza di questo tipo di produzioni avviene per inferenza ed estensione associati alle “cose buone di una volta” e, ad un livello più razionale, in virtù del rispetto dei disciplinari di produzione. Nella figura 2.11 vengono evidenziate due tipologie di prodotti. I prodotti tipici di nicchia godono di un ulteriore fascino derivante dall’esclusività percepita che tende ad attribuirne un valore aggiunto di unicità. Sono anche detti prodotti “da ricorrenza/ grandi occasioni”. Il loro legame con il territorio è vissuto in termini più restrittivi, mentre i prodotti di massa (o quotidiani) vivono il legame col territorio in termini più estensivi. Questi prodotti vengono anch’essi percepiti come prodotti di alta qualità, dal forte legame con la storia e le abitudini alimentari italiane, ma sono prodotti tipici a maggior diffusione e di uso più quotidiano. Sorge naturale chiedersi se questo modello regga ancora, soprattutto per quanto riguarda il legame tra marchio e qualità. Negli ultimi anni, infatti, si assiste a una vera e propria “corsa alla certificazione” delle produzioni che, se da un lato può essere vista come un riconoscimento e una valorizzazione significativi per l’economia e per l’immagine italiana, dall’altro non è sempre giustificato l’utilizzo di queste qualificazioni come sinonimi del concetto di “prodotto tipico” (per esempio utilizzare indistintamente i concetti di prodotto artigianale o di prodotto locale per indicare i prodotti tipici), né corrette risultano alcune inferenze ad attribuzioni (se tutti i prodotti a marchio sono necessariamente tipici e tradizionali non necessariamente è vero il contrario). La ricchezza semantica e il potere evocativo dei prodotti tipici non solo alimentano confusioni e fraintendimenti, ma rischiano di generare apparenti contraddizioni per via della coesistenza di opposti significati, come modernità e tradizione; quotidianità ed esclusività; unicità e standardizzazione. UNICOM (a c. di), La comunicazione dei prodotti tipici in Italia. Consorzi, aziende, pubbliche amministrazioni, UNICOM, Milano, 2006.
136
75
Fig. 2.11: Il vissuto della tipicità Fonte: UNICOM (a c. di), La comunicazione dei prodotti tipici in Italia. Consorzi, aziende, pubbliche amministrazioni, UNICOM, Milano, 2006. A questo punto, è possibile definire un prodotto tipico come l’esito di un processo storico collettivo e localizzato di accumulazione di conoscenza contestuale che si fonda su di una combinazione di risorse territoriali specifiche sia di natura fisica sia antropica, che dà luogo ad un legame forte, unico e irriproducibile col territorio di origine137. Il coinvolgimento e l’emozionalità positiva che caratterizza il vissuto del prodotto tipico sembrano in gran parte originare dalla sua ricca, sfaccettata e forte identità territoriale. A ciò contribuisce anche l’orgoglio di appartenenza ad un Paese in cui il prodotto tipico è un elemento inscindibile dall’identità stessa del Paese. Questa definizione conferma la duplice valenza del territorio: la prima concepisce il territorio come supporto pedoclimatico; la seconda lo definisce come uno spazio di saperi e di pratiche locali condivise. Vedremo nel terzo capitolo, che i prodotti tipici, compresi i vini, sono legati a una specifica terminologia dettata da regole normative (disciplinare di produzione). L’organo che disciplina e controlla l’applicazione del marchio di tipicità ed effettua attività di promozione è in genere il consorzio di tutela.
Nomisma e Palomba P. (a c. di), op. cit.
137
76
Prima di passare alla descrizione dei consorzi, occorre tuttavia notare che le produzioni tipiche sono certamente un ottimo mercato, ma rischia di essere compromesso se non viene fatta chiarezza sui criteri che lo regolamentano. Appare, infatti, necessario intervenire su tre livelli: chiarire e disambiguare il contesto di riferimento e il significato dei marchi di tutela; differenziare e posizionare i prodotti; comunicare e creare cultura e consapevolezza maggiore sulle varie declinazioni esistenti. Queste azioni devono essere intese anche in una logica di internazionalizzazione, affinché il consumatore possa crearsi una conoscenza sul mondo della tipicità, ancora oggi molto superficiale, e comprendere il rapporto qualità-prezzo di questi prodotti per saperli distinguere ed apprezzare. Sarebbe opportuno orientare dunque lo sviluppo futuro dei prodotti tipici italiani secondo due criteri. Il primo è il rispetto della loro natura e originalità: questi prodotti devono svilupparsi senza che ne sia compromessa l’identità e il legame col territorio; il secondo è l’accessibilità: devono cioè essere raggiungibili da chiunque, trovando il giusto equilibrio tra il massimo della produzione possibile senza snaturare il prodotto138. In definitiva, se si vuole che il marchio DOP/IGP assuma una valenza di marketing, risulta di fondamentale importanza attivare sinergie e relazioni commerciali con il sistema economico locale (ad esempio: ristorazione, turismo, commercio), al fine di consolidare il legame territoriale della denominazione in maniera attiva e valorizzare i prodotti made in. Tra gli attori che possono svolgere questi compiti, oltre alle istituzioni come università, enti regionali e provinciali, associazioni di categoria, vi sono i consorzi di tutela.
2.6.3. I consorzi di tutela I consorzi di tutela presenti sul territorio nazionale sono molteplici, così come le realtà che essi rappresentano. Per tale motivo, in questo paragrafo si darà solo un accenno delle principali evidenze che caratterizzano l’operato dei consorzi finalizzato alla promozione dei prodotti tipici, mentre un esempio pratico di consorzio di tutela relativo al settore vinicolo (Consorzio di tutela “Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero”), verrà affrontato nel quarto capitolo. La valorizzazione e la commercializzazione di prodotti ad alto valore di tipicità è un percorso in generale difficile, ma lo è ancor di più quando questo deve essere attuato al di là dei confini territoriali di origine. Ciò è dovuto anche al fatto che il mercato del prodotto tipico in Italia si caratterizza per un’elevata frammentazione delle PMI e per un clima imprenditoriale poco avvezzo, salvo alcune eccezioni, ad alleanze ed accordi, con un orizzonte competitivo limitato, 138
Ibid.
77
caratterizzato da condotte opportunistiche e rivalità. Ciò contrasta con la necessità di realizzare progetti di marketing congiunto ed alleanze interaziendali in grado di consentire un’adeguata capacità competitiva sui mercati esteri. Perché ciò si concretizzi, diventa necessario adottare modelli di governance dei progetti da attuare in strutture organizzative adatte ad una gestione comune di una marca collettiva. Il ruolo dei consorzi di tutela diventa allora fondamentale per agevolare tale processo complesso ed articolato che, tra l’altro, necessita di un’adeguata attività di comunicazione che coinvolge attori pubblici e provati. Il consorzio ha, da statuto, il compito di valorizzare e promuovere il prodotto che tutela. Essendo il principale responsabile della promozione del marchio di cui detiene la proprietà e del prodotto di cui ha la responsabilità della tutela, è chiaro che, in termini generali, tutte le attività del consorzio hanno per oggetto il prodotto e il brand consortile. In Italia, gli obiettivi dei Consorzi di tutela sono soprattutto orientati a: consolidare e promuovere la notorietà del prodotto; qualificare e caratterizzare il prodotto; ridefinirne l’immagine e il posizionamento; legare il prodotto al nome e all’immagine del territorio in un’attività sinergica di promozione reciproca; favorire opportunità per una estensione del mercato139. Gli obiettivi delle iniziative realizzate all’estero sono mirate a: costruire l’immagine ed il posizionamento del prodotto nei mercati in cui non è adeguatamente conosciuto; difendere l’originalità del prodotto e legarlo al territorio Italia valorizzando così un insieme di valenze positive associate al made in Italy; aprire la strada per la commercializzazione sui nuovi mercati.
139
UNICOM (a c. di), op. cit.
78
Fig. 2.12: Gli obiettivi del consorzio di tutela in Italia (linea continua) e all’estero (linea tratteggiata) Fonte: rielaborazione personale Entrando nello specifico del territorio del vino, analizzato nei precedenti paragrafi, il consorzio di tutela funge da struttura operativa costituita dall’insieme delle componenti umane, territoriali, finanziarie, imprenditoriali, dei singoli sistemi di provenienza; ad essi vengono assegnati ruoli ed attività il cui fine comune è la creazione di un’identità vino-territorio riconoscibile anche all’esterno. Applicando gli obiettivi generali precedentemente esposti a questo caso specifico, si possono individuare quattro macro-obiettivi140: La creazione di un sistema di qualità non solo produttiva, ma anche culturale. Ciò può essere raggiunto attraverso azioni di comunicazione tendenti a creare uniformità di comportamento ed una corretta percezione dell’utilità della vocazione alla qualità; attività di formazione per uniformare le tecniche colturali; condivisione di meccanismi di controllo di tutte le fasi della filiera; Il consolidamento del binomio territorio/vino attraverso la creazione dell’identità/notorietà. Tale obiettivo necessita di azioni tendenti alla 140
Fait M., op. cit.
79
creazione di un’identità, comunicata tramite un brand che sia realmente identificativo del detto binomio, ed alla scelta di azioni di comunicazione e valorizzazione di tipo integrato tali da generare contestualmente attenzione verso il prodotto, il territorio e le aziende. Ciò comporta la realizzazione di attività promozionali, lo sviluppo dell’enoturismo, l’internazionalizzazione (realizzazione di attività formative, creazione di consorzi export, organizzazione di eventi con operatori esteri); La rigenerazione del capitale sociale tramite la diffusione della conoscenza e la condivisione di valori e tradizioni, ottenibile sviluppando la dimensione relazionale e cognitiva del territorio grazie alla creazione di sistemi di diffusione delle informazioni e di conoscenza, all’organizzazione di eventi tesi a diffondere la cultura del vino e all’attivazione di legami con istituzioni e attori locali o extralocali ma operanti nel medesimo settore; Lo sviluppo sostenibile, che comprende da un lato la realizzazione di eventi utili a determinare lo sviluppo economico, sociale ed ambientale (quali la partecipazione a piani di sviluppo, progetti per la salvaguardia ambientale e del patrimonio storico-culturale del territorio, progetti di formazione professionale); dall’altro prevede la valutazione dei benefici, in termini di costo-opportunità, che tali azioni hanno prodotto.
Fig. 2.13: Percorsi ed azioni da attivare per generare un differenziale competitivo del territorio del vino Fonte: Fait M., op. cit., p. 107.
80
Dalla sinergia di queste variabili deve scaturire l’emersione del sistema territorio del vino a cui partecipano anche diversi altri attori oltre al consorzio, come le università, le fondazioni, le camere di commercio e gli assessorati competenti. È ovvio quindi che i consorzi dovranno attivare specifiche relazioni con le istituzioni locali incaricate della valorizzazione del territorio. In questo capitolo è stato fornito un inquadramento teorico di due concetti importanti, anche ai fini dell’esposizione dei casi aziendali: quello di territorio e quello di filiera. Riguardo al primo aspetto, sono stati definiti gli attori e le relazioni che questi creano all’interno e all’esterno del territorio, nonché le risorse materiali e immateriali che possono sfruttare per le loro attività. Si è inoltre osservato come avviene lo scambio di conoscenza e la diffusione di innovazione in uno spazio territoriale, non solo in un’ottica distrettuale, ma anche di internazionalizzazione. Infine, è stato illustrato un particolare tipo di territorio, quello vitivinicolo, descrivendone le qualità, le strategie competitive e il consorzio di tutela quale attore principale per la valorizzazione del prodotto tipico vino. Per quanto attiene al concetto di filiera, le sue varie accezioni sono state esposte solo dopo aver delineato un quadro del settore agroalimentare quale comparto di eccellenza del made in Italy. Questo secondo capitolo è quindi fondamentale per poter affrontare, nel quarto capitolo, i territori del Piemonte e della Borgogna, di cui si approfondiranno due micro aree a forte vocazione vitivinicola: le Langhe per l’Italia e la Côte d’Or per la Francia. Prima, però, è necessario descrivere il panorama del settore vitivinicolo italiano e di quello francese, analizzandone i trend di produzione, consumo e scambi internazionali, in modo da capire con quali dinamiche si devono confrontare le imprese del Piemonte e della Borgogna e quali strategie devono attuare per rimanere competitive nell’attuale contesto economico.
81
Capitolo III Il settore vitivinicolo in italia e in francia Il terzo capitolo può essere diviso in tre parti principali. Nella prima parte verranno analizzati i trend del mercato globale e le variazioni avvenute a livello di vigneto mondiale, di produzione, di consumi e di scambi internazionali, in modo da fornire un quadro di sintesi del settore vitivinicolo. Nella seconda e nella terza parte si cercherà di capire, attraverso lo studio dei mercati dei due principali Paesi produttori di vino (Italia e Francia), le leve competitive e le strategie commerciali maggiormente attivate dalle imprese vitivinicole di questi Stati per rispondere ai mutamenti del mercato mondiale del vino.
3.1. I trend del mercato mondiale del vino Il sistema vitivinicolo a livello internazionale si trova, da alcuni anni, in una fase di profonda riconfigurazione della geografia dei consumi, della produzione dei protagonisti del mercato. Sul fronte della produzione, questa evoluzione ha coinciso con l’affermazione di un’ampia schiera di nuovi competitor (basti pensare all’incredibile sviluppo internazionale dei produttori del “Nuovo Mondo”). La struttura del settore è cambiata per rispondere all’espansione dei mercati internazionali e si assiste ad una maggior propensione al consolidamento a livello di business, di distribuzione e di dettaglio, per meglio affrontare la pressione competitiva. In seguito all’intensificarsi del processo di globalizzazione, la struttura della domanda e dell’offerta ha subito una profonda trasformazione; anche il ruolo degli attori (come l’ingresso di nuovi produttori e intermediari di dimensioni globali) e dei territori si è andato trasformando. La produzione e il consumo sono stati relativamente localizzati fino agli inizi degli anni Novanta con uno scambio limitato ai paesi limitrofi. Il duplice effetto della globalizzazione sul consumatore, da un lato l’omogeneizzazione del gusto e la convergenza culturale nel comportamento di acquisto, dall’altro la ricerca di identità locale, qualità e tipicità con la riscoperta del ruolo dei territori di origine, ha portato le regioni e
82
le aziende a posizionarsi in modo completamente diverso sul mercato141. Infatti, sebbene il sistema vitivinicolo mondiale sia stato investito da straordinari processi di internazionalizzazione dei flussi commerciali e della governance dei sistemi di impresa, le filiere produttive mostrano nei singoli Paesi un forte radicamento territoriale. Le specificità del territorio devono rappresentare uno stimolo all’individuazione di un nuovo modello organizzativo dell’attività produttiva e commerciale che possa rispondere alle sfide del mercato mondiale. In questo scenario, quindi, le imprese europee, e soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, si trovano ad affrontare un forte incremento della tensione competitiva nei mercati esteri, ma anche in quello interno. La costruzione della filiera si deve porre come un processo di mutamento continuo nella ricerca di risposte a un mercato in evoluzione che pone sempre nuove sfide142.
3.1.1. La produzione globale di vino Le congiunture sfavorevoli del mercato mondiale del vino del 2006 e del 2009 conducono ancora una volta alla diminuzione della superficie viticola mondiale, che perde, tra il 2008 e il 2009, 93 milioni di ettari (d’ora in avanti mha), attestandosi intorno ai 7,6 mha. In particolare, l’Europa, che rimane l’area dove è maggiore la concentrazione di coltivazioni a vite, è passata da una quota del 61% del vigneto mondiale nel periodo 1996-2000 al 55,6% nel 2007. L’Oceania, invece, pur partendo da un limitato peso della coltivazione sul totale mondiale, ha visto la sua quota triplicarsi passando dall’1% al 3% (+171% 1996-2007)143. Complessivamente, la costante crescita nelle aree emergenti ha compensato il declino del vigneto Europeo e molti dei Paesi che rappresentano queste aree si stanno affermando come nuovi competitor sullo scenario globale del mercato del vino. La crescita dell’America è stata sostenuta, nel periodo considerato, dalla dinamicità dell’America del Nord (+16%) e, soprattutto, dell’America del Sud (+26%).
UNIONCAMERE e Istituto G. Tagliacarne, Rapporto nazionale sul settore vitivinicolo, 2009. 142 Cesaretti G. P., et alii (a c. di), Il mercato del vino. Tendenze strutturali e strategie dei concorrenti, FrancoAngeli, Milano, 2006. 143 OIV (organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), Nota di congiuntura mondiale, 2010. 141
83
Fig. 3.1: Il vigneto mondiale nel 2007 diviso in zone di produzione (superficie totale: 7,6 milioni di ettari) Fonte: OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), 2007. Fino al 2006, la produzione vinicola mondiale si è mantenuta ad un livello superiore ai 27 milioni di tonnellate; nel 2007 è scesa a 26,5 (-7% dal 2000) e nel 2008 è risalita a 26,9 milioni di tonnellate e si stima una vinificazione quasi identica per il 2009144. In linea con l’evoluzione delle superfici mondiali a vigneto, si assiste ad una perdita dell’incidenza della produzione europea su quella mondiale, con una quota che, dal 74,9% del 1996, si attesta al 63,7% nel 2007. Nonostante ciò, l’Europa continua a rimanere la principale produttrice di vino, con un valore complessivo superiore a 16 milioni di tonnellate.
Fig. 3.2: La produzione mondiale di vino (2007) Fonte: FAO (Food and Agriculture Organization), 2007. Del rimanente 40%, una quota importante,oltre il 19%, si localizza nel continente americano ed, in particolare, in Nord America, Argentina e Cile. L’Asia e l’Oceania risultano in forte crescita nel periodo 1996-2007, 144
Mediobanca, Indagine sul settore vitivinicolo, 2010.
84
rispettivamente passando dal 4,1% all’8,1% e dal 2,7% al 4,1% relativamente alla quota di produzione di vino. 2000
2006
2007
VAR % 07/06
VAR % 07/00
QUOTA % 2007
Francia
5.754.100
5.307.940
4.673.280
-12
-18,8
17,7
Italia
5.408.752
4.963.297
4.251.383
-14,3
-21,4
16,1
Spagna
4.179.000
3.462.751
3.400.000
-1,8
-18,6
8,7
USA
2.487.000
2.250.000
2.300.000
2,2
-7,5
8,7
Argentina
1.253.700
1.539.600
1.550.000
0,7
23,6
5,9
Cina
1.050.000
1.400.000
1.450.000
3,6
38,1
5,5
Sud Africa
694.917
939.779
978.269
4,1
40,8
3,7
Australia
806.300
1.429.788
961.972
-32,7
19,3
3,7
Germania
1.008.083
891.600
950.000
6,6
-5,8
3,6
Cile
667.403
802.441
791.794
-1,3
18,6
3
Portogallo
784.400
732.480
600.000
-18,1
-23,5
2,3
Nuova Zelanda
60.200
106.000
110.000
3,8
82,7
0,4
PAESE
Tab. 3.1: Produzione di vino per Paese (in tonnellate, anni 2000-2007, valori assoluti, variazioni ed incidenze percentuali) Fonte: Elaborazione su dati FAO (Food and Agriculture Organization). Il calo della produzione ha interessato in particolare i paesi tradizionalmente produttori come Italia, Francia e Spagna, che detengono complessivamente il 46,7% della produzione mondiale. La diminuzione di produzione dei paesi europei è compensata dai paesi emergenti (Argentina, Cile, Sud Africa, Australia, Nuova Zelanda). La Nuova Zelanda prosegue il trend di forte crescita osservato già a partire a partire dal 1996: l’industria del vino neozelandese occupa un’importante posizione di nicchia nel segmento premium, basata sulla qualità e sul prodotto distintivo. La strategia dell’Australia è, invece, rivolta alla penetrazione dei mercati internazionali con strategie aggressive di marketing e con la pianificazione strategica a lungo temine145. 145
UNIONCAMERE e Istituto G. Tagliacarne, Rapporto nazionale sul settore vitivinicolo, 2009.
85
3.1.2. Il consumo globale di vino e la distribuzione internazionale Il consumo globale di vino risulta anch’esso particolarmente influenzato dalla crisi economica mondiale. L’UE registra un calo particolarmente marcato tra il 2008 e il 2009 (-5,8 Miohl*); nello specifico, i paesi tradizionalmente grossi produttori e consumatori hanno accentuato il ritmo del calo del loro consumo e registrano importanti cali nella domanda tra il 2008 e il 2009: -1,7 Miohl in Italia, -1,5 Miohl in Spagna, -0,9 Miohl in Francia. Anche fuori dall’UE l’influenza della crisi si fa sentire: negli USA, si registrerebbe in prima stima un calo della domanda abbastanza importante attestatosi a -2,5%, tra il 2008 e il 2009. Se il consumo neo-zelandese si mantiene ad un livello elevato subendo un lieve sfaldamento, sensibili cali della domanda vengono registrati invece in Argentina (-0,4 Miohl) e Sudafrica (-0,15 Miohl)146. La crisi si ripercuote anche sulla domanda di alcuni paesi importatori, primi tra tutti la Germania (-0,5 Miohl / 2008) e il Regno Unito (-0,8 Miohl). Tali evoluzioni portano ad attestare il consumo mondiale di vino nel 2009 tra 230,6 e 242,5 Miohl: in 2 anni il settore avrà subito, in termini di ordine di grandezza, un calo di circa 10 Miohl del consumo mondiale di vino verosimilmente legato alla generale crisi economica.
Fig. 3.3: Consumo mondiale di vino dal 1980 al 2009 (in milioni di ettolitri) (s) stima Fonte: OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), nota di congiuntura, 2010. ∗ milioni di ettolitri 146 OIV, Nota di congiuntura mondiale, 2010.
86
L’evoluzione dei consumi porta ad un’evoluzione della distribuzione internazionale, i cui fatti salienti sono riconducibili principalmente alla concentrazione a livello internazionale della distribuzione dei vini e all’espansione della Grande Distribuzione. Nel mondo, quasi il 70% dei volumi di vino commercializzato giunge, infatti, al consumatore attraverso il canale della GD. Aree
Volume
Valore
GD
ho.re.ca.
GD
ho.re.ca.
Europa Occid.
65,2%
34,8%
56,4%
43,6%
Europa Orient.
79,3%
20,7%
37,5%
62,5%
Nord America
79,4%
20,6%
45,2%
54,8%
Sud America
76,0%
24,0%
46,8%
53,2%
Asia
66,1%
33,9%
58,7%
41,3%
Oceania
83,9%
16,1%
38,5%
61,5%
Africa
66,8%
33,2%
51,6%
48,4%
Totale
69,9%
30,4%
46,8%
53,2%
Tab. 3.2: Canali distributivi per area geografica (dati 2001) Fonte: Nomisma, 2001. Osservando le diverse regioni geografiche, si nota innanzitutto come la quota di volumi destinata al consumo domestico (GD) sia maggiore in Oceania (84%), America (quasi l’80%) ed Europa Orientale (79,3%), mentre in Europa Occidentale mostra un riposizionamento delle vendite di vino verso il canale ho.re.ca. (hotel, ristoranti, catering), aumentate dal 1997 al 2001 del 2,7%. Nei paragrafi 3.2.3. e 3.3.3. si osservanno nel dettaglio il sistema distributivo italiano e francese.
87
3.1.3. Gli scambi internazionali: importazioni ed esportazioni All’inizio degli anni Ottanta l’industria del vino poteva essere considerata come un insieme di mercati nazionali dove il vino era prodotto e venduto nello stesso paese. La globalizzazione ha portato ad una maggiore unificazione dei mercati, con un aumento della propensione all’export e un nuovo accesso ai mercati internazionali, rappresentato da tariffe, costi logistici e barriere al commercio più basse. Queste evoluzioni nel mercato hanno cambiato il modo di produrre e di consumare vino nel mondo e il modo e le strategie con le quali le aziende e i territori affrontano il mercato per ottenere un vantaggio competitivo. Considerando il periodo 1997-2007 si può osservare come le esportazioni mondiali di vino siano aumentate del 95% in valore, passando da 11,5 a 22,4 miliardi di dollari, con un picco nel 2003 (+21,9%) e con un rallentamento nel 2005 e 2006147. La leadership comunitaria in termini di produzione e di consumo si conferma anche in relazione al commercio estero. L’UE rappresenta, infatti, il principale mercato di scambio vinicolo mondiale. Guardando, in dettaglio, quali sono i principali esportatori di vino a livello internazionale, si nota che appartengono ai Paesi del Vecchio Mondo (tab. 3.3): i due leader storici, Italia e Francia, si caratterizzano però diversamente per quanto riguarda l’export, considerando separatamente le quantità ed il valore del prodotto commercializzato. Se la quota di mercato in termini quantitativi è sostanzialmente la stessa per entrambi i Paesi (leggermente superiore quella italiana), dall’altro lato emerge come il giro d’affari attivato dagli scambi internazionali francesi è superiore rispetto a quello italiano, a causa evidentemente del differente prezzo medio del vino francese e di quello italiano a livello mondiale.
Francia
1.492.933
Valore (1000 $) 5.837.180
Italia
1.826.635
4.222.609
2.596
19,3%
781.419
2.420.462
3.185
11,1%
Cile
1.157.808
2.414.119
2.085
5,7%
Spagna
1.433.966
2.395.881
1.671
8,8%
344.412
990.021
2.875
4,1%
Area
Australia
Germania
147
Quantità (ton)
Unità in valore ($/ ton) 6.199
26,7%
Peso
UNIONCAMERE e Istituto G. Tagliacarne, Rapporto nazionale sul settore vitivinicolo, 2009.
88
USA
423.118
902.852
2.134
4,0%
Portogallo
341.935
818.494
2.394
3,7%
Sud Africa
499.869
668.629
1.338
3,0%
Nuova Zelanda
84.171
559.343
6.645
2,5%
Tab. 3.3: I maggiori esportatori di vino nel 2007 Fonte: Dati ICE (Istituto Nazionale per il Commercio Estero) e FAO (Food and Agriculture Organization). Alle spalle dei primi due esportatori mondiali, si collocano i nuovi competitor (Australia e Cile), i quali hanno evidenziato ritmi di crescita impressionanti. Basti considerare, a titolo esemplificativo, che il terzo esportatore mondiale è stato fino al 2003 la Spagna, nel 2004 è superata in valore dall’Australia e nel 2006 anche dal Cile. Nel giro di un decennio (1994-2004), gli incrementi percentuali dell’export di vino dei nuovi competitor hanno superato, in alcuni casi, il 440%148. La leadership mondiale dei tre Paesi Europei (Francia, Italia, Spagna) è già stata intaccata, con la Spagna che ha perso nel giro di tre anni due posizioni nella classifica dei maggiori esportatori: questo dovrebbe destare preoccupazione negli altri due Paesi, nonostante i significativi differenziali ancora esistenti in valore assoluto nelle quantità di vino esportato rispetto a quelle dei paesi del Nuovo Mondo. Sul fronte delle importazioni, i principali mercati di destinazione del commercio internazionale sono Regno Unito, USA e Germania. In particolare, l’import del mercato britannico è risultato nel 2007 il più importante a livello mondiale in termini economici, raggiungendo, con oltre un milione di tonnellate di vino, un valore pari a cinque miliardi di dollari. Seguono gli Stati Uniti, con un import di quasi 850 tonnellate e un valore di quattro miliardi e mezzo (attestandosi dunque come il Paese con il più alto livello di prezzo unitario tra i Paesi considerati, pari a 5,47 $ per tonnellata) e la Germania, che si distingue come il maggior importatore mondiale per quantità (1,4 milioni di tonnellate), ma con un valore unitario piuttosto ridotto (1,9 $ per tonnellate). La Cina può essere a tutti gli effetti definita come un mercato di consumo emergente: è passata da un import di 56 mila tonnellate e un valore di 110 milioni di dollari nel 2004, ad un import di tre volte superiore in termini sia di quantità (110 mila tonnellate) sia di valore (374 milioni di dollari)149. Nomisma (Società di Studi Economici), 2003. www.fao.org
148 149
89
Fig. 3.4: I maggiori importatori di vino nel 2007 Fonte: FAO (Food and Agriculture Organization), 2007. Dopo aver osservato i trend del settore, le evoluzioni della produzione, del consumo e degli scambi internazionali, è opportuno precisare quali fattori causano questi cambiamenti. Tali elementi di definizione del mercato sono: il consumo, la domanda, la distribuzione, il sistema produttivo e la concorrenza. Una volta chiarite queste forze, si discuterà delle strategie dei diversi competitor e dei loro approcci al mercato a seconda che si tratta di produttori del “Vecchio Mondo” o del “Nuovo Mondo”.
3.1.4. Le linee di evoluzione del contesto competitivo e i nuovi attori Per comprendere l’evoluzione del mercato del vino, è necessario precisare le forze che determinano le trasformazioni nella ripartizione geografica della produzione e nella posizione competitiva dei singoli Paesi. Tali forze si possono raggruppare nell’evoluzione del consumo e della domanda, nella crescita del potere della distribuzione e nell’aumento della competizione. Un primo elemento di caratterizzazione del mercato viene dal consumo. Nei grandi Paesi vitivinicoli tradizionali d’Europa (Francia, Italia, Spagna), si
90
osserva un’importante caduta del consumo pro-capite, mentre in molti Paesi non produttori, come il Regno Unito, il consumo tende al contrario ad aumentare150. L’evoluzione della domanda, già analizzato nei paragrafi precedenti, ha determinato una richiesta di qualità, di valore (ossia di rapporto qualità/ prezzo), di diversificazione delle esperienze sensoriali e di riconoscibilità dei prodotti. Queste nuove esigenze dei consumatori, che saranno affrontate più approfonditamente nella seconda parte del capitolo, sono poi state mediate da un sistema della grande distribuzione che, nel commercio del vino come in generale per tutti i prodotti agroalimentari, ha ampliato il suo ruolo. Si vedrà in seguito che nel mercato italiano e francese che la quota delle vendite di vino della grande distribuzione è nel 2008 superiore al 70%. La grande distribuzione è stata in grado di giocare un ruolo dominante nei rapporti di filiera, potendo imporre alle imprese di produzione gli standard di fornitura151. Un ulteriore aspetto è il processo di cambiamento del sistema produttivo. In tutti i Paesi produttori si delineano due ambiti competitivi distinti: il primo è quello dei vini commerciali, dove i principali fattori competitivi sono il potere distributivo e la leadership di costo; il secondo è quello dei vini di alta gamma, dove i fattori di competitività sono più differenziati e le piccole imprese possono godere di vantaggi competitivi distintivi non erodibili. Infine, la crescita della competizione, si caratterizza per essere il risultato di una profonda innovazione delle scelte di marketing attuata dai nuovi soggetti imprenditoriali che, negli ultimi trent’anni, sono entrati nel mercato del vino. Accanto alla dicotomia tra produttori del “Vecchio Mondo” (Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Germania) e produttori del “Nuovo Mondo” (Australia, Nuova Zelanda, Cile, Argentina, USA e Sudafrica), si viene a creare un’ulteriore categoria di Paesi che non fanno parte né del Nuovo né del Vecchio Mondo, e sono la Cina e l’India. Dall’osservazione dei comportamenti strategici dei paesi tradizionalmente produttori e dei paesi emergenti si può individuare la caratterizzazione di due approcci principali, l’orientamento al prodotto e l’orientamento al marketing.
Mariani A., et alii, “Valutazione della competitività del settore vitivinicolo italiano: un contributo all’analisi”, in Economia e Diritto Agroalimentare, n.3, 2005. 151 Cesaretti G. P., et alii (a c. di), op. cit. 150
91
Fig. 3.5: Paesi tradizionalmente produttori e Paesi emergenti: due strategie a confronto Fonte: UNIONCAMERE e Istituto G. Tagliacarne, 2009. Le caratteristiche del primo orientamento sono tipiche della produzione vitivinicola europea, mentre quelle dell’approccio al marketing sono proprie della filosofia produttiva dei Paesi emergenti. La nascita di questi soggetti e il loro impegno nel mercato internazionale del vino deriva da una forte propensione al mercato basato sull’innovazione nella tecnologia e nella comunicazione. Il combinarsi di questi processi determina lo sviluppo di un contesto competitivo caratterizzato dalla presenza di alcune imprese di grandi o grandissime dimensioni, capaci di sviluppare vere politiche di marca152. Lo scenario competitivo in continua evoluzione spinge le aziende vitivinicole ad adottare un approccio strategico al marketing, con un’attenzione sempre maggiore al consumatore, alle sue preferenze e comportamenti di acquisto. Questo trend risulta essere piuttosto lento nel mercato del vino, a causa dell’eccessiva frammentazione del settore. Tuttavia, alcune aziende leader nell’innovazione, si posizionano nel settore scegliendo un orientamento che risulta come il più avanzato in quanto volto al marketing e all’esperienza e ad un approccio olistico di relazione con il mercato. 152
Pomarici E., Il mercato mondiale del vino: tendenze, scenario competitivo e dualismo tra vecchio e nuovo mondo, Working Paper n.7, Università degli Studi di Napoli Federico II, 2005.
92
Fig. 3.6: Gli approcci strategici al prodotto (Vecchio Mondo) e al marketing (Nuovo Mondo) Fonte: UNIONCAMERE e Istituto G. Tagliacarne, 2009. Dopo aver fornito una panoramica generale del contesto competitivo e dei trend del mercato vinicolo globale, si passerĂ ad esaminare nel dettaglio i due settori di riferimento, italiano e francese, evidenziandone gli elementi distintivi, i punti di forza e di debolezza e le sfide che le aziende che vi operano devono affrontare per mantenere e migliorare la loro posizione competitiva.
93
3.2. Il settore vitivinicolo in Italia Il sistema produttivo vitivinicolo italiano ha in larga misura scelto di affrontare le sfide del mercato puntando soprattutto sulla qualità, in modo da evitare un confronto competitivo troppo legato ai costi di produzione, che evidenzierebbero le fragilità strutturali che contraddistinguono la filiera nazionale. Le imprese italiane hanno risposto alla sollecitazione del mercato ampliando la gamma dei vini offerti e cercando di soddisfare le esigenze di un sempre più ampio ed eterogeneo gruppo di clienti, decisamente più disponibili ad acquistare vini di maggior pregio153. Tuttavia, è evidente che il confronto con il mercato non offre soltanto vantaggi, ma impone anche sfide pericolose, soprattutto a causa della variabilità e complessità della struttura della domanda e dell’offerta. Con la crescita dell’offerta, ed una più ampia varietà di beni proposti e di prezzi praticati, il consumatore si trova oggi a poter esercitare sempre più incisivamente le proprie scelte. Di fronte a questa situazione, le imprese sono costrette a rivedere le loro strategie sui mercati, nella consapevolezza che in futuro sarà sempre più difficile vendere quello che si produce. Nella figura 3.7 è rappresentato un quadro di sintesi del sistema vitivinicolo italiano: principali opportunità e minacce con cui il sistema vitivinicolo italiano si trova confrontato e principali forze e debolezze che lo caratterizzano in rapporto alla concorrenza internazionale vecchia e nuova.
Menghini S., “Presentazione: vecchi problemi, nuovi scenari”, in Menghini S. (a c. di), Il mercato del vino. Le leve per il futuro, Franco Angeli Milano, 2007.
153
94
Fig. 3.7: Analisi SWOT del sistema vitivinicolo italiano Fonte: Pastore R., op. cit., pp.80-90. Alla luce di queste considerazioni, si può affermare che le più importanti leve per sostenere il futuro competitivo dei vini italiani sono da individuarsi nella sempre maggiore capacità che le imprese avranno di relazionarsi coi mercati. In particolare, dovranno migliorare non solo le capacità di analisi dell’ambiente
95
esterno, ma anche le abilità commerciali che consentono alle imprese di veicolare efficacemente i vini prodotti fino al consumatore finale. Per concludere, il successo competitivo del sistema produttivo italiano sarà legato all’abilità di sapersi migliorare tanto sul piano della qualità delle produzioni realizzate, che in termini di capacità commerciali. Per la filiera vitivinicola italiana sarà fondamentale essere in grado di modernizzarsi nel rispetto delle tradizioni di qualità e cultura locale. Infatti, la sempre maggiore rilevanza delle capacità di vendere su quelle di produrre bene, comportano una diversa ripartizione del valore aggiunto lungo la filiera, facendo della qualità legata a contenuti intangibili del prodotto un vantaggio competitivo imprescindibile. Si analizza ora nel dettaglio la situazione del settore vitivinicolo italiano, la produzione, gli scambi commerciali e la distribuzione di vino, con l’utilizzo soprattutto di dati aggiornati al 2007 e talvolta anche al 2009.
3.2.1. I principali trend del settore L’Italia vanta un’antica tradizione nella produzione vitivinicola ed è attualmente il secondo produttore di vino al mondo dopo la Francia. La superficie italiana investita ad uva da vino risultante dall’inventario vitivinicolo del 2007 è pari a quasi 735.000 ettari, sui quali sono stati prodotti 43 milioni di ettolitri di vino, il 14% in meno rispetto al 2006154. L’offerta italiana di vino si ripartisce in due categorie principali: i vini da tavola e i vini a denominazione di origine. I primi si suddividono in vini da tavola senza altre qualificazioni e vini da tavola con Indicazione Geografica Tipica (IGT); i secondi si suddividono in vini a Denominazione di Origine Controllata (DOC) e a Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG). Il vino da tavola continua a costituire una quota rilevante della produzione complessiva di vino, ma la sua incidenza si sta riducendo. Nel 2007, in particolare, i vini a denominazione di origine e a indicazione geografica hanno rappresentato rispettivamente il 35% e il 29% del totale, relegando i vini da tavola al restante 36%. (Il comparto dei vini di qualità e i relativi disciplinari verranno approfonditi nel paragrafo 3.2.5).
ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), L’andamento delle principali filiere agroalimentari, rapporto 2008.
154
96
Fig. 3.8: Ripartizione della produzione italiana di vino Fonte: ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), 2008. Il numero delle imprese vinicole registrate alle Camere di Commercio risultano nel 2008 pari a 165.923, di cui il 99% attive (164.554). Nella ripartizione geografica delle imprese si assiste alla netta prevalenza delle imprese nel Sud e nelle Isole, dove sono localizzate circa 90.000 imprese, ovvero il 55% del totale delle imprese vinicole italiane. Il Nord-Est mantiene la seconda posizione, anche se ad una certa distanza, facendo registrare poco più di 36.000 imprese attive. Le regioni in cui risulta la maggiore densità d’imprese nel settore sono la Puglia (con più di 30.000 unità) e la Sicilia (con più di 27.000 unità). Seguono il Piemonte, il Veneto e l’Emilia Romagna con un numero di imprese compreso tra 14.000 e 11.000155.
Regione 155
Soc. Cap.
Soc. Pers.
Impr. Indiv.
Altre forme
Tot
ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), Outlook dell’agroalimentare italiano, rapporto annuale, 2008.
97
Piemonte
261
794
12.643
104
13.802
0
15
239
7
261
41
97
994
11
1.143
Lombardia
357
549
3.817
48
4.771
Trentino Alto-Adige
109
173
7.385
43
7.710
Veneto
384
1.323
11.794
61
13.562
Friuli Venezia Giulia
109
338
1.975
13
2.435
Emilia Romagna
234
1.362
10.897
56
12.549
Marche
61
189
1.422
16
1.688
Toscana
468
918
6.970
42
8.398
Umbria
53
102
884
14
1.053
Lazio
323
231
6.647
46
7.247
Campania
251
196
10.450
33
10.930
Abruzzo
94
117
11.635
51
11.897
Molise
11
7
435
7
460
Puglia
305
404
30.244
150
31.103
Basilicata
32
27
2.079
16
2.154
Calabria
50
68
2.821
28
2.967
278
338
26.321
188
27.125
63
101
3.095
40
3.299
Nord Ovest
659
1.455
17.693
170
19.977
Nord Est
836
3.196
32.051
173
36.256
Centro
905
1.440
15.923
118
18.386
Sud e Isole
1.084
1.258
87.080
513
89.935
Italia
3.484
7.349
152.747
974
164.554
Valle d’Aosta Liguria
Sicilia Sardegna
Tab. 3.4: Imprese attive nel settore vitivinicolo per regione e natura giuridica (valori assoluti anno 2008) Fonte: UNIONCAMERE e Istituto G. Tagliacarne, 2009. La lettura dei dati relativi alla natura giuridica delle imprese ci consente di acquisire importanti informazioni per la comprensione del tessuto imprenditoriale caratteristico del settore. Il dato di maggiore rilievo riguarda l’elevato numero di imprese individuali pari al 92,8% delle imprese attive. L’impresa individuale
98
è tradizionalmente la forma giuridica preferita nel settore agricolo, in quanto permette di ridurre al minimo oneri e adempimenti. Le società di capitali e le società di persone rappresentano rispettivamente il 2,1% e il 4,7% del totale; lo 0,6% è costituito dalle altre forme giuridiche che nell’ambito del settore vitivinicolo svolgono una funzione di grande rilievo sia dal lato della produzione che delle vendite in quanto includono le cooperative e i consorzi. Infine, le aziende vitivinicole italiane, come numero, si concentrano soprattutto nelle classi di dimensione inferiore: le aziende censite con meno di un ettaro sono l’80% del totale, ma rappresentano solo il 20% della superficie. In particolare, un terzo della superficie italiana è espressa da aziende di più di 5 ettari, il 15% da aziende di dimensione compresa tra 5 e 10 ettari e circa il 20% da aziende di più di 10 ettari. A livello strutturale, l’eccessiva frammentazione aziendale e le limitate dimensioni rappresentano ancora un punto di debolezza del settore vitivinicolo italiano, benché, a partire dalla fine del 2007 e in particolare al Nord, si è notata una tendenza alla concentrazione produttiva che ha coinvolto strutture di dimensioni economico-produttive rilevanti. Si tratta di cantine sociali, la cui aggregazione appare evidentemente finalizzata al raggiungimento della massa critica necessaria per vincere le sfide della competizione globale156.
3.2.2. Le esportazioni e le importazioni Come già indicato nella prima parte del capitolo, l’Italia ha raggiunto nella seconda metà del 1900 una posizione importante nel mercato internazionale del vino. Nel corso dell’ultimo decennio le esportazioni hanno, però, mostrato una dinamica dei valori e dei volumi molto differenziata. Il valore delle esportazioni è, infatti, cresciuto fino al 2003, quando si è verificata una significativa riduzione (-3,1%), seguita, comunque da un pieno recupero nel 2004 (+5,4%) cui è seguito un ulteriore aumento nel 2008 (+3,4%)157. Le quantità esportate hanno anch’esse avuto un andamento piuttosto irregolare e, dal 1999 al 2003, si è registrato un trend negativo. Solo nel 2006 si è nuovamente raggiunto il volume totale esportato nel 1999 di 18 milioni di ettolitri. In generale, si può affermare che la presenza italiana sui mercati esteri è aumentata nel quinquennio 2004-2008 con l’export che passa dal 43,3% del fatturato nel 2004 al 46,7% nel 2008158, ma certamente questo non consente di Ibid. OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), op. cit. 158 MedioBanca, Indagine 2010. 156 157
99
sottovalutare la difficoltà del mercato internazionale. Nel dettaglio, il 55,1% dell’export è destinato ai paesi dell’Unione Europea, con la Germania come primo paese di destinazione con una quota del 21,3%, seguita dal Regno Unito (13,7%). Il primo mercato per le esportazioni di vino italiano è quello degli Stati Uniti con una quota del 22,2% nel 2008, resa possibile da una crescita, nel periodo considerato tra il 2000 ed il 2008, pari al 42,7%. La Germania, secondo Paese per importanza con una quota pari al 21,3% dell’export del 2008, si conferma come mercato più statico rispetto agli Stati Uniti; infatti, dopo una riduzione delle proprie importazioni di vino italiano rispetto ai valori registrati nel 2001, ha ripreso a crescere in modo significativo nel 2007, con un lieve aumento dello 0,8% nel 2008. Considerando il colore, si osserva che i vini rossi pesano sulle esportazioni più dei bianchi e rappresentano il 64% del totale in valore e il 56% in quantità.
Fig. 3.9: Le principali destinazioni dell’export del vino italiano (quote percentuali, 2008) Fonte: elaborazione su dati ICE (Istituto nazionale per il Commercio Estero) Le importazioni vinicole italiane, pur essendo di scarsa entità in termini assoluti, evidenziano tassi di crescita positivi sia in valore sia in volume. In valore sono passate da 207 milioni di euro del 2000 a 253 nel 2005 e in quantità da 640 mila ettolitri a 1,7 milioni159. Le importazioni dei Paesi partner dell’UE sono prevalenti (circa il 90% in valore e in quantità), in particolare il ruolo di principale fornitore è svolto dalla Francia in termini di valore (la voce più significativa resta lo 159
I dati non sono recenti in quanto non ne sono stati trovati di più aggiornati.
100
Champagne), ma il primo fornitore in volumi è la Spagna. Sono in aumento anche le importazioni da Paesi extra-comunitari, tra cui Australia, Cile e Argentina. Ne è una dimostrazione la consistente visibilità di etichette straniere negli stand del Vinitaly 2010. Comunque, ad eccezione dello Champagne, gli acquisti italiani dall’estero riguardano, per ora, prevalentemente vini sfusi in contenitori superiori a 2 litri che vengono, poi, lavorati in Italia160. Questo fenomeno può essere interpretato diversamente come una perdita di competitività nel segmento dei vini più economici, oppure come l’inevitabile conseguenza di un riposizionamento del sistema vitivinicolo italiano verso l’offerta di vini di più elevato pregio.
3.2.3. La distribuzione e i consumi Il cambiamento delle abitudini del consumatore italiano negli ultimi anni verrà descritto nel prossimo paragrafo, mentre in questo si fornisce un breve accenno sull’evoluzione dei consumi, per poter così presentare il sistema distributivo italiano e i principali canali di vendita. Nonostante l’esportazione assuma un ruolo importante a cui viene destinata parte della produzione, sono i consumi interni che costituiscono tuttora la principale destinazione della produzione. Negli ultimi anni hanno, tuttavia, mostrato un trend decrescente legato probabilmente a fattori strutturali, ossia alla modifica degli stili di vita che, nel caso del vino in particolare, ha determinato la perdita della connotazione di alimento, per l’acquisizione invece di funzioni edonistiche e culturali. Così, nell’ultimo trentennio, il consumo per persona è passato da quasi 100 litri agli attuali 46161 (rimane comunque il livello più alto del mondo insieme alla Francia). Il calo degli acquisti appare sostanzialmente ascrivibile al vino da tavola e IGT (-4%), mentre i vini a denominazione d’origine hanno consolidato le posizioni raggiunte nel 2006 (+1%)162. Nel complesso, i consumi conservano un netto orientamento verso i rossi, che in quantità hanno rappresentato nel 2007 il 63% dei vini da tavola e a denominazione di origine acquistati dalle famiglie. Il sistema vitivinicolo italiano provvede alla distribuzione del prodotto in Italia e all’estero attraverso un sistema distributivo complesso, in quanto esiste Cesaretti G. et alii, op. cit. Idda L. et alii, Sviluppo rurale, capitale sociale, vitivinicoltura multifunzionale, FrancoAngeli, Milano, 2007. 162 ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), L’andamento delle principali filiere agroalimentari, 2008. 160 161
101
un elevato numero di canali di distribuzione, ognuno con proprie caratteristiche. Ad esempio, i canali di vendita di vino attraverso internet, l’organizzazione del canale commerciale gestito dalla grande distribuzione, o le strutture di commercializzazione delle grandi imprese multinazionali di bevande. Le differenti funzioni commerciali e logistiche dei canali di distribuzione non sono suddivise in modo netto tra i differenti elementi che fanno parte della filiera. I diversi produttori di beni e servizi sono uniti da una logica sequenziale di catena di approvvigionamento (supply chain) e ricercano la forma di organizzazione migliore, in termini di costi e servizi, rispondendo in modo adeguato alle esigenze di ciascun canale di distribuzione163. L’approvvigionamento dei punti di vendita, così come molte altre attività realizzate all’interno dei canali logistici, possono essere un’importante fonte di competitività, a seconda del tipo di rapporto che si stabilisce all’interno dei canali di distribuzione. Per quanto riguarda l’approvvigionamento del canale interno, avendo le imprese come potenziali interlocutori un numero elevato di punti di distribuzione al dettaglio, si è sviluppato un sistema distributivo molto articolato, nel quale convivono diverse tipologie di canale. Nell’approvvigionamento della ristorazione commerciale e del piccolo dettaglio le figure tradizionali sono la rete di vendita aziendale e i grossisti164.
Fig. 3.10: Modello distributivo storico del vino Fonte: Elaborazione personale Questo modello è stato affiancato da nuove tipologie di canale come le società di distribuzione, che gestiscono, con contratti pluriennali, tutta la Green R., “La logistica del vino”, in Il mercato del vino, le leve per il futuro, FrancoAngeli, Milano, 2007. 164 LAORE (Agenzia regionale per l’agricoltura e lo sviluppo regionale), Osservatorio vitivinicolo della Sardegna, Rapporto trimestrale, 2007. 163
102
produzione di un’azienda vinicola e il cash&carry, elemento innovativo della distribuzione di vino i cui punti di forza sono l’ampiezza della gamma trattata, la flessibilità della fornitura dei clienti e la competitività di costo. Tuttavia, non tutte le imprese esternalizzano la funzione commerciale e distributiva, tentando in questo modo di ottimizzare i costi commerciali e logistici, che sono percepiti come un elemento chiave della competitività. Tipologia
Unità*
Ipermercati
220
Supermercati
7.017
Libero servizio piccolo
24.500
Enoteche e wine bar
9.500
Drogherie e gastronomie
30.000
Negozi generi alimentari vari
50.000
Bar e caffè
114.000
Ristoranti, trattorie, pizzerie
64.000
Ristorazione alberghiera
20.000
Fast food
3.000
Ristorazione collettiva e catering
3.000
Pub e discoteche
16.500
* dati approssimativi Tab. 3.5: Punti di distribuzione del vino in Italia (2007) Fonte: Pomarici E., op. cit., 2005.
3.2.3.1. Il ruolo della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) Poiché la grande distribuzione organizzata gioca, ormai, in Italia, un ruolo di primissimo piano nella distribuzione del vino, si ritiene opportuno fornire qualche dato specifico. Attualmente, infatti, l’assortimento dei vini nella grande distribuzione è una leva importante nello sviluppo della strategia commerciale dell’intero canale per diversi motivi. Innanzitutto, il miglioramento della gamma vinicola stessa e la sua presentazione sono funzionali alla GD per accreditarsi come competente
103
sul tema; in secondo luogo, i vini sono richiesti, dai consumatori, in maniera qualitativamente sempre più elevata; infine, il cliente nella GD riconosce la possibilità di trovare prodotti offerti ad un prezzo di vendita adeguato alla loro qualità165. Questi fattori hanno permesso alla GD, in un percorso lungo 40 anni, di attestarsi come il principale canale di vendita in Italia per il vino confezionato. La GDO, infatti, veicola più del 70% del vino acquistato per i consumi domestici. I principali canali di vendita restano i supermercati, con una quota del 35% sui volumi totali, seguiti da ipermercati (29%) e discount (11%)166. Da uno studio IRI, presentato nel corso di Vinitaly 2010, si evince che il mercato della GDO nel 2009 è aumentato sia in valore (+2,5%) sia in volume (+0,1%).
Fig. 3.11: Totale vino confezionato in Italia: dimensioni mercato GDO (Iper+Super+Libero Servizio Piccolo)- Volume e Valore Fonte: Studio SymphonyIRI Group, ricerca condotta per Vinitaly, 2010. In particolare, si osserva che, sempre nel 2009, il 68% del fatturato deriva dalla vendita di vini in bottiglia da 0,75 litri e l’87% dei volumi sono a Latini M., “Il mercato del vino nella GDO: una testimonianza diretta”, in Il mercato del vino, le leve per il futuro, FrancoAngeli, Milano, 2007. 166 ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), rapporto 2008. 165
104
denominazione di origine. I vini di qualità crescono, infatti, del 3,9% e crescono soprattutto quelli compresi nella fascia di prezzo superiore ai 5€. Nonostante questo, la fascia di vini sotto i 3€ comprende due terzi delle vendite167. Quindi, riassumendo, il mercato è trainato dalle bottiglie da 75 cl e quasi il 90% di queste è rappresentato da DOC-DOCG e IGT.
Fig. 3.12: Vini fino a 0,75 litri: segmentazione tra DOC-DOCG, IGT, Altro Fonte: studio SymphonyIRI Group, ricerca condotta per Vinitaly, 2010. Si deduce, da questi grafici, quanta importanza abbiano assunto, nell’ultimo decennio, i vini a denominazione. Il motivo della crescita del comparto dei vini di qualità si può ricondurre al cambiamento delle abitudini d’acquisto e di consumo del consumatore: se è vero, infatti, che i consumatori hanno ridotto i propri consumi, è altresì vero che essi non hanno diminuito la qualità del cibo che acquistano. È quanto emerso da un’indagine ASTRA presentata nel corso SymphonyIRI Group, Grande distribuzione, produttori e prospettive di ripresa. Come promuovere il vino italiano sui mercati interno ed estero, ricerca condotta per Vinitaly, 2010.
167
105
dell’assemblea del settore vitivinicolo di Fedagri-Confcooperative168, da cui è risultato che questa tendenza vale anche, ed in particolar modo, per il vino: chi consuma vino lo fa per una genuina passione e quindi lo sceglie in maniera meno abitudinaria. Anche la Grande Distribuzione ha tentato di dare risposte ai cambiamenti delle opinioni, necessità e abitudini dei consumatori, mutando alle radici l’assortimento dei vini. Essa ha profondamente modificato gli approcci a tale prodotto, sia in termini di qualità che di presentazione. Nel primo caso, si è passati da uno scaffale indifferenziato ad uno scaffale che si presenta come specializzato; nel caso del cambio di presentazione, si è passati da un assortimento fatto da un insieme di articoli su di uno stesso livello che mirava a coprire i bisogni primari, ad un assortimento adeguato ad una scelta più evoluta169. Le modifiche apportate hanno riguardato anche la politica dei prezzi di vendita, tesa a garantire prezzi più convenienti anche per i vini di alto pregio, in linea con la tendenza alla riduzione dei consumi. Circa l’80% dei vini venduti nella GDO si colloca sotto i 5€, il 95% sotto i 10 €. Nel prossimo paragrafo si descrive in che modo stanno evolvendo le abitudini degli utenti nel consumare il vino.
3.2.4. L’identikit del consumatore italiano Negli ultimi anni, l’approccio dei consumatori al vino è radicalmente mutato. Accanto al tradizionale consumo di accompagnamento quotidiano ai pasti, si affianca, infatti, un consumo crescente di carattere culturale ed edonistico, che attribuisce al prodotto nuovi significati e nuovi valori. Da un’indagine condotta nel 2009 da BocconiTrovato&Partners e promossa dal Centro Studi Vinitaly, emerge che su un campione di 1000 italiani, per quasi la metà bere vino è un’abitudine quotidiana170. In particolare, il consumo è distribuito a livello territoriale, soprattutto nel Nord, e vede una leggera prevalenza percentuale da parte degli uomini (55,7% contro il 44,3% delle donne).
Acqua Market Research e Partesa, Il consumo del vino in Italia. Tendenze e confronti, Vinitaly, 2010. 169 Latini M., op. cit. 170 BocconiTrovato&Partners, Gli italiani e il loro rapporto con il vino, indagine 2009. 168
106
Consuma oltre 1/2 l di vino al giorno
Consuma 1-2 bicchieri di vino al giorno
Consuma vino più raramente
AREA
Consuma vino
Italia Nord Occid.
57,8
5,0
25,3
24,0
Italia Nord Orient.
63,1
5,5
26,8
27,0
Italia Centrale
58,0
5,2
27,3
22,9
Sud Italia
51,2
3,6
23,5
20,8
Isole
45,6
2,2
17,7
21,1
Italia
55,9
4,5
24,7
23,3
Tab. 3.6: Frequenza dei consumatori di vino in % su persone di oltre 14 anni (dati 2005) Fonte: Cesaretti et alii, op. cit., 2006. Gli italiani destinano in media 4€ della loro spesa per i vini a denominazione e circa 1,5€ per i vini da tavola171. Nelle preferenze dei consumatori permane un forte localismo; il vino più venduto in ogni regione è quello che caratterizza la vitivinicoltura della stessa. Ad esempio, il vino più venduto in Toscana è il Chianti, in Emilia Romagna il Lambrusco, in Piemonte il Barolo. Questo fenomeno si verifica nonostante, a differenza di quanto accadeva nel passato, l’assortimento nei punti vendita preveda comunque i prodotti più caratteristici di tutte le regioni italiane. Appare chiaro, dunque, che i consumatori in Italia costituiscono un gruppo molto eterogeneo per età e per abitudini di consumo. Un’indagine condotta nel 2006 da ASTRA per conto del consorzio Valpolicella ha consentito di individuare cinque categorie principali di consumatori172, sintetizzate nella tabella 3.7.
SymphonyIRI Group, ricerca condotta per Vinitaly, 2010. Pomarici E. (a c. di), Analisi della filiera vitivinicola del vino Valpolicella Doc, L’informatore Agrario, Verona, 2006.
171
172
107
CATEGORIA
PESO
CARATTERI PRINCIPALI
15%
15-34 e 55-64 anni; Centro-Nord; maggioranza donne; famiglia 2-3 persone; classe <media; dopocena e occasioni; frizzanti; non conoscenza varietà.
Semi-lontani (neo-consumatori saltuari)
26%
18-24 anni; grossi centri urbani; soprattutto donne; classe media; famiglia >4 persone; occasioni; prezzo onesto; solo DOC/IGT di marca; dolci, bianchi e leggeri.
Semi-lontani semplici (gran bevitori)
16%
>64 anni; Sud; classe <media; pensionati, agricoltori; soprattutto uomini; quotidiano ai pasti; vini di zona; rossi, fermi e secchi.
35%
55-64 anni; Centro -Sud; maggioranza uomini; pensionati/single; conoscitore; classe <media; quasi quotidiano; fuori casa/occasioni; solo DOC/IGT di marca; vini di zona; rossi, secchi e piacevoli.
8%
35-54 anni; grandi centri urbani; soprattutto uomini; classe >media; diploma/laurea; conoscitore; quotidiano ai pasti/occasioni/wine bar/aperitivo; vini rossi, fermi, morbidi, secchi.
Lontani (saltuari- ininfluenti)
Buoni consumatori (esperti medi e attenti)
Super consumatori (top e “wine maniacs”)
Tab. 3.7: Tipologie di consumatori (> 17 anni, su un totale di 37, 3 milioni)Fonte: Pomarici E. (a c. di), op. cit., 2006. Si può osservare che nella popolazione italiana si delinea un gruppo importante di consumatori che ha rapporti solidi con il prodotto (buoni consumatori, 35%) e un gruppo significativo di soggetti con una forte e competente attenzione ai prodotti di maggior pregio (super consumatori, 8%). Importante è anche la presenza di nuovi consumatori, i semi-lontani (26%), che per le loro caratteristiche socio-demografiche potranno essere i protagonisti dello sviluppo del mercato interno nei prossimi venti anni e vanno, quindi, considerati come un gruppo cui dedicare particolare attenzione nella definizione delle strategie di marketing. Riassumendo, in Italia il vino sembra ancora assumere la fondamentale funzione di accompagnamento dei pasti quotidiani: il consumo di vino diventa regolare in quanto entra a far parte di una più ampia cultura alimentare in cui questo prodotto integra e completa i piaceri della tavola173. La tipologia di vino Nomisma (Società di Studi Economici) (a c. di), op. cit.
173
108
più consumata è il rosso; infatti oltre due terzi degli intervistati dell’indagine della Bocconi ha dichiarato di bere prevalentemente vino rosso. Naturalmente, il consumo di vino in Italia si indirizza principalmente sulle produzioni nazionali, e solo marginalmente si consuma vino estero. Infine, il grado di penetrazione ha raggiunto in Italia un livello tale che per gli acquisti di vino da consumarsi quotidianamente, la variabile prezzo non rappresenta un fattore discriminante nella scelta d’acquisto. Anzi, abbiamo visto che negli ultimi anni i consumatori italiani tendono a prediligere la qualità sulla quantità, preferendo acquistare vini più cari la cui qualità è garantita dalla certificazione di origine. Quanto è importante, allora, il comparto dei vini DOC e DOCG e quanto pesa sul totale dei vini italiani? Prima di rispondere a questa domanda, occorre spiegare le denominazioni dei vini.
3.2.5. Le denominazioni di origine Nell’Unione Europea, i vini vengono classificati in due macro-categorie: i vini da tavola e i vini di qualità prodotti in regioni determinate (VQPRD). In Italia, i primi si dividono in vini da tavola senza altra denominazione, e vini a indicazione geografica tipica (IGT); mentre i VQPRD si dividono in vini a denominazione di origine controllata (DOC) e a denominazione di origine controllata e garantita (DOCG). Nella tabella a pagina seguente è illustrata la legislazione italiana in materia di vino, che fa però riferimento alla legge n. 164/1992, ormai sostituita dalla nuova riforma OCM (Organizzazioni Comuni di Mercato) che uniforma le categorie di vino a livello europeo. Questa legge è entrata in vigore il 1 agosto 2009, ma si continuerà, in via transitoria, con la preesistente procedura nazionale, fino al 31 dicembre 2011.
109
VINI DA TAVOLA
VINI VQPRD
VDT (Vino Da Tavola), prodotto al di fuori dei disciplinari con il rispetto di regole minime, nessuna indicazione del vitigno, obbligatoria la menzione del colore. Il prodotto in questione è piuttosto semplice, può essere il risultato di un uvaggio oppure di un taglio, con uve o vini provenienti da diverse zone geografiche, da varietà differenti e da vendemmie differenti. Ciò non significa per forza una minore qualità, semplicemente si tratta di vini con meno vincoli produttivi.
DOC (Denominazione di Origine Controllata). La legge prevede il costante controllo per le DOC, in sostanza tutto il ciclo produttivo (dalla vigna fino alla bottiglia) deve essere conforme a quanto stabilito dal disciplinare di produzione (ad esempio, la zona di produzione, i vitigni, la resa per ettaro, il titolo alcolometrico minimo, le pratiche autorizzate, ecc.). I vini a DOC sono controllati anche sotto il profilo qualitativo: prima della commercializzazione vengono sottoposti ad un’analisi chimica ed organolettica da parte di “Commissioni di Degustazione”, appositi organismi istituiti presso le Camere di Commercio, per verificare che sussistano i requisiti prescritti dal protocollo di produzione.
IGT (Indicazione Geografica Tipica), per la quale si intende il nome geografico di una zona utilizzato per designare il prodotto che ne deriva. I requisiti sono meno restrittivi di quelli richiesti per i vini a denominazione di origine controllata. Questi vini provengono per almeno l’85% dalla zona geografica di cui portano il nome, possono riportare l’indicazione del vitigno e dell’annata, e sono regolati dal proprio disciplinare di produzione (territorio, vitigni, resa per ettaro, titolo alcolometrico minimo, pratiche autorizzate, ecc.).
DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita), sono riservate ai vini già riconosciuti DOC da almeno cinque anni che siano ritenuti di particolare pregio, in relazione alle caratteristiche qualitative intrinseche, rispetto alla media di quelle degli analoghi vini così classificati, per effetto dell’incidenza di tradizionali fattori naturali, umani e storici e che abbiano acquisito rinomanza e valorizzazione commerciale a livello nazionale ed internazionale. Vengono sottoposti a regole più severe rispetto ai vini a DOC: prima della loro commercializzazione devono sottostare ad un controllo chimico/organolettico nella fase di produzione, analogo a quello delle DOC, e ad un controllo organolettico, effettuato prima dell’imbottigliamento.
Fig. 3.13: I disciplinari di produzione in Italia Fonte: www.aiscanavese.it
110
A livello comunitario, tutti i prodotti del settore agroalimentare sono già disciplinati dalle denominazioni DOP e IGP174, mentre ne restano esclusi i vini e le altre bevande spiritose. La riforma ha, pertanto, deciso di inserire in un’unica categoria disciplinare i vini DOP (Denominazione di Origine Protetta), che corrispondono ai vini DOC e DOCG; e i vini IGP (Indicazione Geografica Protetta), che comprendono i vini IGT. Prima, invece, per i vini di qualità (VQPRD) vi era una disciplina ben distinta da quella assegnata ai vini da tavola175. Quindi, in conseguenza della riforma, gli elementi di regolazione ed identità, che in passato marcavano nettamente la differenza tra IGT e VQPRD assegnandoli a due classi di prodotto fortemente diverse, sono oggi molto attenuati tra vini IGP e DOP, in ragione della comune appartenenza ad un unico ambito disciplinare. Nella figura 3.14 sono descritte le principali innovazioni della riforma. La nuova riforma OCM vino Le organizzazioni comuni di mercato (OCM) rappresentano il primo pilastro della politica agricola comune (PAC). Le OCM costituiscono lo strumento fondamentale di regolazione dei mercati nella misura in cui disciplinano la produzione e il commercio dei prodotti agricoli di tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Dal 1 agosto 2009 è entrato in vigore il nuovo regolamento CE applicativo n. 607/2009, che sostituisce il n. 1493/1999. Le innovazioni principali sono: • l’abbandono delle formule VQPRD e IGT in favore dell’adozione delle formule DOP (per i vini DOC e DOCG) e IGP (per i vini IGT). I vini DOP e IGP partecipano ad un’unica categoria disciplinare, con la conseguenza che l’ambito dei vini di qualità si estende a comprendere anche gli IGP, cioè vini che, come i vecchi IGT, possono essere ottenuti anche con uve provenienti per l’85% e non esclusivamente da un certo territorio. Il rischio evidente è quello di dilatazione della classe vini di qualità, con la conseguente banalizzazione dei prodotti di maggior pregio, a vantaggio di quelli più economici, che possono però vantare l’appartenenza al medesimo ambito disciplinare;
Nel caso della DOP, tutte le fasi del processo produttivo avvengono in un territorio limitato, le cui qualità e caratteristiche sono dovute all’ambiente geografico. Invece, per l’IGP, non tutti i fattori che concorrono all’ottenimento del prodotto provengono dal territorio indicato. L’area geografica delimitata determina la qualità, la reputazione e le caratteristiche del prodotto, attraverso alcune fasi o componenti della produzione, trasformazione o elaborazione. 175 Albisinni F., “La OCM vino: denominazioni di origine, etichettatura e tracciabilità nel nuovo disegno disciplinare europeo”, in Agriregionieuropa, n. 12, 2008. 174
111
• la procedura di riconoscimento delle DOP e IGP, che si concluderà con l’iscrizione nel registro Comunitario delle DOP e IGP dei vini, avverrà mediante una preliminare procedura nazionale ed una successiva procedura Comunitaria; • il sistema dei controlli di filiera sarà previsto anche per i vini IGT e dovrà essere effettuato da un Organismo terzo. Questo sistema garantirà una maggiore tutela del consumatore e salvaguarderà gli interessi dei produttori che vedranno sicuramente rafforzata la reputazione dei loro prodotti. • l’emanazione di una lista che esclude vini varietali senza DOP e IGP al fine di non banalizzare l’uso dei vitigni autoctoni e garantire così la protezione dei nostri vini DOC, DOCG e IGT.
Il principale effetto positivo della riforma è la semplificazione della classificazione dei vini e il suo allineamento con la disciplina generale dei prodotti di qualità. L’attuale classificazione, derivante da un’eredità storica, è farraginosa e non fornisce al consumatore, soprattutto a quello meno preparato, una chiarezza di indicazioni di qualità e/o di tipicità. C’è chi afferma, invece, che questo provvedimento appiattirà l’offerta delle denominazioni creando ulteriore confusione nel consumatore che non ha più elementi per differenziare i vini in base alla qualità. Tuttavia, non esiste ancora un limite di tempo per il superamento delle DOC/ DOCG/IGT e il produttore è libero di scegliere il sistema di qualificazione che preferisce, lasciando la menzione tradizionale a sostituire completamente la sigla europea o associandola ai simboli comunitari di protezione. Ciò lascia configurare una situazione estremamente disomogenea che, se da un lato può costituire un vantaggio per le imprese, dall’altro può generare confusione nel consumatore. Per rispondere positivamente alla riforma, bisognerebbe stabilire un limite di tempo per l’adeguamento alla normativa europea, che porti ad un graduale superamento delle attuali DOCG e DOC. Questo, non perché si debba appiattire il valore qualitativo delle attuali denominazioni italiane, ma perché si giunga ad un effettivo innalzamento del concetto qualitativo legato alle future DOP: in sostanza quello che prima veniva considerato un problema deve essere trasformato in un vantaggio. Infatti, è lecito pensare che in un prossimo futuro le nuove DOP potranno essere quello che oggi sono le DOCG, e le nuove IGP quelle che sono le DOC, e questo, in un’ottica di semplificazione, porterebbe notevoli vantaggi anche nella comunicazione.
Fig. 3.14: La nuova riforma OCM (Organizzazioni Comuni di Mercato) vino Fonte: www.winenews.it
112
Le denominazioni relative ai vini registrate in Italia nel 2008 sono 477. Questo numero non corrisponde al totale di 490 denominazioni regionali indicato in tab. 3.8, in quanto 8 DOC e 4 IGT risultano essere interregionali. L’offerta dei vini a denominazione di origine incide per circa il 30% sul volume complessivo della produzione vinicola nazionale. In particolare, i vini DOC sono 316 e rappresentano il 66% del totale delle denominazioni, le IGT sono 120 (25% del totale) e le DOCG rappresentano il 9% del totale con 41 riconoscimenti176. La gerarchia dei contributi regionali alla produzione di questi vini vede il Piemonte in prima posizione (56 denominazioni), seguito da Toscana (49), Veneto (39), Sardegna (34) e Lombardia (32). In fondo alla graduatoria delle regioni italiane per numero di certificazioni, si rileva la presenza della Basilicata e del Molise, entrambe con cinque denominazioni, e, infine, della Valle d’Aosta, con appena una denominazione. Regione Piemonte Valle d’Aosta Liguria Lombardia Trentino Alto-Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna Marche Toscana Umbria Lazio Campania Abruzzo Molise Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Italia
DOCG 12 4 4 2 1 2 7 2 1 3 1 1 1 41
DOC 44 1 8 15 8 25 9 20 15 36 11 26 17 4 3 26 3 12 22 19 324
IGT 3 15 4 10 3 10 1 6 6 4 9 10 2 6 2 13 6 15 125
TOT 56 1 11 34 12 39 14 31 18 49 19 31 29 15 5 32 5 25 29 35 490
Tab. 3.8: Quadro regionale vini DOCG, DOC, IGT riconosciuti (2008) Fonte: MiPAF (Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali) ISMEA, Sintesi vini DOC-DOCG, Report economico-finanziario, 2006.
176
113
Come si deduce dalla tabella, l’incidenza delle produzioni di qualità varia sensibilmente a livello di area geografica. Nel Nord Italia, supera, in media, l’80%, evidenziando che la produzione di vino nel Nord del Paese è essenzialmente basata sulla qualità. Il prossimo paragrafo è focalizzato esclusivamente sui vini DOC e DOCG, in quanto la produzione di IGT è assente nella regione di riferimento, il Piemonte, che sarà analizzata nel capitolo 4.
3.2.5.1. L’importanza del comparto dei vini DOC-DOCG I consumi domestici di vini DOC-DOCG, nel 2006, hanno superato in valore i 772 milioni di euro, con un incremento, rispetto al 2005, del 10,3% in valore e del 6,8% in quantità, superando i 212 milioni di litri177. Anche nel 2008, è stato registrato un aumento degli acquisti dell’1,5% in volume e del 5,3% in valore in confronto al 2007. La crescita in valore, superiore a quella in quantità, mostra come i consumatori abbiano orientato le loro preferenze sui vini di qualità, nonostante la dinamica abbastanza sostenuta dei prezzi. Infatti, il comparto dei vini a denominazione è stato caratterizzato da una crescita dei prezzi al consumo del 3,4% tra il 2007 e il 2008 (si è passati da un prezzo medio di 4,19€ a 4,33€), ma vi è stata, nel 2009, una riduzione del 3,6% (prezzo medio: 4,18€)178. Var. % 08/07
Peso % su totale vini e spumanti
In quantità
In valore
In quantità
In valore
Totale vini e spumanti
-1,7
3,4
100
100
Totale vini
-1,8
4,1
94,6
87,1
DOC-DOCG
1,5
5,3
25,2
39,2
IGT
2,9
7,7
18,8
19,5
di cui:
Tab. 3.9: Andamento degli acquisti domestici di vini nel 2008 Fonte: ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), 2008. ISMEA, Aspetti strutturali e di mercato nel comparto dei vini DOC-DOCG, 2008. Acqua Market Research e Partesa, op. cit.
177 178
114
In termini di incidenza di consumo, i vini DOC-DOCG pesano sul totale dei vini per il 25% in volume e per il 39% in valore, con un incremento in entrambi i casi, rispetto al 2007, di circa un punto in valore assoluto. Questi dati confermano quanto già affermato sul maggior orientamento del consumatore verso i vini di qualità. Considerando la ripartizione per area geografica, il Nord Ovest concentra circa il 45% dei consumi. Ciò è dovuto anche alla presenza in quest’area di una regione importante come il Piemonte, grande produttore e fornitore di vini di qualità.
Fig. 3.15: Peso in volume e in valore delle aree geografiche negli acquisti di vino DOC-DOCG (2008) Fonte: ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), 2008. Infine, i principali acquirenti del comparto comprendono il dettaglio alimentare (GDO e dettaglio tradizionale), che presenta il maggior potere contrattuale; gli intermediari commerciali (grossisti, cash&carry) e la ristorazione commerciale e collettiva (ho.re.ca), piuttosto importante per la distribuzione dei vini a denominazione179.
ISMEA, Sintesi vini DOC-DOCG, Report economico-finanziario, 2006.
179
115
Per quanto concerne la stratificazione degli acquisti per canale distributivo, emerge ancora il forte peso sul totale dei consumi che possiedono i super e gli ipermercati, che insieme coprono il 69% in quantità e il 78% in valore dei consumi. Var. % 08/07
In quantità
In valore
Peso % 2008 In quantità
In valore
Ipermercati
2,8
6,9
36
40,4
Supermercati
0,3
5,1
33
38
Discount
12,4
23,5
11,7
6
Cash&carry+grossisti
35,9
48,5
7,7
5
Ricevute in regalo
-22,8
-29,5
1,9
1,7
Negozi tradizionali
-3,3
28,1
1,7
1,7
-38,3
-37,4
1,8
1,2
Ambulanti/mercati rionali
5,4
-4,8
0,2
0,1
Vendite porta a porta
686
9,2
0,1
0
-17,3
-16,4
6
5,9
1,5
5,3
100
100
Superette
Altre fonti Totale Italia
Tab. 3.10: Andamento e peso degli acquisti domestici di vini DOC-DOCG per canale distributivo nel 2008 Fonte: ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), 2008. Osservando le dinamiche degli acquisti per canale nel 2008 riportate nella tabella 3.10, si nota che aumentano i consumi più negli ipermercati che non nei supermercati e si riscontrano significativi incrementi nel discount. Per concludere, nel breve periodo, in un contesto che risulta contraddistinto da una sostanziale stabilità del potenziale produttivo, ci si attende di conseguenza anche una solidità della produzione complessiva di vino, accompagnata da una crescita dell’incidenza del segmento DOC-DOCG in seguito alle dinamiche finora considerate. In figura 3.16 sono riassunti, in una SWOT Analysis, i principali elementi che incideranno maggiormente sull’evoluzione del settore dei vini a denominazione.
116
Fig. 3.16: Analisi SWOT del comparto dei vini DOC-DOCG Seguendo la stessa struttura utilizzata per illustrare il settore vitivinicolo italiano, si passa ora a presentare quello francese, così da comprendere le differenze e le somiglianze tra i due mercati, alla luce di quanto finora esposto.
3.3. Il settore vitivinicolo in Francia Il vino in Francia si organizza in due grandi settori, lo champagne e i vini fermi. Il settore dello champagne è un settore estremamente dinamico che ruota intorno a grandi marche, a notorietà internazionale, ed è costituito da un numero relativamente basso di aziende. Tre quarti del valore delle vendite sono realizzati dalle grandi marche (ad esempio, Moët & Chandon, Perrier, Lanson) e un terzo delle vendite sono destinate all’esportazione. L’altro grande settore del vino presenta una struttura completamente diversa rispetto a quella dello champagne. È infatti caratterizzato da un numero limitato di grandi aziende (Castel Frères, 980 milioni di euro di fatturato, Domaine Baron de Rotschild, 185 milioni di euro) che coesiste con numerose aziende di media grandezza e con un gran numero di piccole aziende.
117
In Italia, il sistema delle imprese vitivinicole è più complesso e articolato. Inoltre, le imprese cooperative svolgono ancora un ruolo importante nell’approvvigionamento di imbottigliatori del settore privato. Infatti, le prime tre aziende per fatturato sono delle cooperative che operano con più marche su tutti segmenti: Gruppo Italiano vini, con 295 milioni di euro (dati 2008); Caviro, con 282 milioni di euro di fatturato (dati 2007), e Cantine Riunite-CIV, con 170 milioni di euro di fatturato (dati 2008)180. Si possono riassumere le caratteristiche del settore vitivinicolo francese attraverso tre principali tendenze di fondo181. La prima è la condizione di permanente instabilità che caratterizza la vita del settore. Questa instabilità ha molteplici cause, che vanno dalle condizioni proprie della produzione, alla rilocalizzazione dei vigneti verso terreni di migliore qualità e migliori rese, all’aumento della produttività e alla diminuzione delle superfici di produzione. Certamente, hanno influito anche fattori politici o economici esterni al settore, così come i comportamenti dei consumatori tra cui, ad esempio, la lunga tendenza verso la diminuzione del consumo di vino che dura dagli anni ’60. La seconda tendenza di fondo è la costante ricerca della protezione della qualità della produzione. Questo processo rappresenta un fenomeno importante che dà corpo alla volontà del settore di uscire dalle crisi con la difesa dei prodotti di maggiore qualità. La terza tendenza è la forte accelerazione del processo di ristrutturazione che caratterizza le imprese vinicole iniziato già nella seconda metà degli anni Novanta. Nel 2003, le operazioni che hanno riguardato gli accordi interaziendali, per i vini e alcolici, sono state 45 su un totale nazionale di 145, rappresentando quasi un terzo delle operazioni realizzate nell’anno. Se l’industria vinicola italiana è praticamente assente dal mercato dei capitali (Campari è l’unica struttura quotata in borsa), la Francia ne conta invece ben 16182. Nonostante le aziende francesi del settore vinicolo stiano attraversando un periodo di cambiamento, manifestatosi nelle varie operazioni di ristrutturazione realizzate negli ultimi anni, non sono ancora riuscite a trovare un modello aziendale che permetta loro di affrontare la duplice crisi di una caduta del consumo interno e di una forte competizione nel mercato internazionale con i Paesi del Nuovo Mondo183. www.inumeridelvino.it e www.bereilvino.it Cesaretti G. et alii, op. cit. 182 ISMEA (a c. di), “Assetti e nuove tendenze dell’industria del vino in Italia e nel Mondo”, in Quaderni di filiera, 2003. 183 Cesaretti G. et alii, op. cit. 180 181
118
I prossimi paragrafi illustreranno i principali trend del settore francese, cercando di mantenere il livello di analisi, per quanto possibile, simile a quello italiano. Talvolta i dati non sono molto aggiornati (i meno recenti datano al 2004), in quanto non è stato sempre facile reperirne di attuali.
3.3.1. I principali trend del settore La superficie totale del vigneto francese è, nel 2008, di circa 850.000 ettari, suddivisa tra le diverse categorie di vino: i Vins de Table (VDT, vini da tavola) occupano l’11% della superficie; i Vins de Pays (VDP, vini a indicazione geografica tipica equivalenti ai nostri IGT), che fanno sempre parte dei VDT, detengono il 28% della superficie; e i e vini con Appellation d’Origine Controlée (AOC, vini a denominazione d’origine controllata, cioè i nostri DOC e DOCG), che realizzano il 52% della produzione sul 45% della superficie. Esiste anche una qualità intermedia tra gli AOC e i VDP, i cosiddetti Vins de Qualité Supérieure (VQDS) che, assieme agli AOC, formano la categoria dei VQPRD (Vini di Qualità Prodotti in Regioni Determinate). Tuttavia, questa categoria è raramente utilizzata (si veda il paragrafo 3.3.4 per approfondimenti). Dal censimento 2007, risultano 506.926 aziende agricole, di cui 95.042 sono a vino. In particolare, il 29% delle imprese vitivinicole possiede un vigneto maggiore di 10 ettari. La Francia è il primo produttore mondiale di vino, nonostante abbia anch’essa risentito della crisi e del calo di produzione globale. Infatti, nel 2008 sono stati prodotti 42,6 milioni di ettolitri, con un calo del 18% rispetto alla media quinquennale e dell’8,5% rispetto al 2007 (tab. 3.11). Il valore della produzione vinicola è stimato dall’INSEE (paragonabile al nostro ISTAT) in 9,5 miliardi di euro nel 2007184.
184
ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), Dans l’agriculture nationale d’après l’enquête structure 2007 du SSP. (Disponibile online sul sito: http://www. onivins.fr/pdfs/164.pdf).
119
Rossi e rosati
2007
2008
VQPRD
15.031
13.377
-1.654
-11,0%
non VQPRD
13.217
11.120
-2.097
-15,9%
di cui VDP
10.701
9.470
-1.231
-11,5%
di cui VDT
2.516
1.650
-867
-34,4%
28.249
24.497
-3.752
-13,3%
8.175
7.689
-485
-5,9%
10.124
10.416
292
2,9%
di cui VDP
6.233
2.917
-97
-3,2%
di cui VDT
878
795
-83
-9,4%
altri
6.233
6.704
471
7,6%
Totale Bianchi
VQPRD non VQPRD
Var. 08/07
Var. 08/07 %
Totale
18.299
18.105
-193
-1,1%
Totale colori
VQPRD
23.206
21.066
-2.140
-9,2%
Non VQPRD
23.341
21.536
-1.806
-7,7%
di cui VDP
13.714
12.387
-1.327
-9,7%
di cui VDT
3.395
2.445
-950
-28,0%
altri
6.233
6.704
471
7,6%
46.547
42.602
-3.945
-8,5%
Totale
Tab. 3.11: Variazione della produzione francese per tipologia di vino nel biennio 2007-2008 in milioni di ettolitri Fonte: ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2008. Dalla tabella 3.11, si nota che il calo di produzione è simile per i vini VQPRD e i VDP, rispettivamente -9,2% e -9,7%, mentre la diminuzione più consistente si è avuta per i vini da tavola (VDT), la cui produzione è scesa a 2,4 mhl (-28% rispetto al 2007). Dando uno sguardo alle singole regioni, ad eccezione dell’Alsazia, la cui produzione è salita del 2,5%, tutte le regioni hanno subito una contrazione nel biennio 07/08: maggiore per regioni come l’Aquitania, che ha perso 1,3 milioni di ettolitri o la Linguadoca, che ne ha persi 1,4; minore per la Borgogna e il Rodano (mezzo milione di ettolitri).
120
Regioni
2007
2008
Var. 08/07 %
Languedoc-Roussillon
14.468
13.046
-9,8%
Provence-Cote d’Azur
4.271
3.968
-7,1%
Aquitaine
7.070
5.780
-18,2%
339
312
-8,0%
Midi-Pyrénées
2.050
2.013
-1,8%
Centre
1.181
1.021
-12,8%
Pays de Loire
1.825
1.325
-27,4%
Rhone-Alpes
2.698
2.149
-20,4%
Bourgogne
1.744
1.600
-8,3%
Champagne
2.905
2.875
-1,0%
Alsace
1.205
1.235
2,5%
Poitou-Charentes (Cognac)
6.614
7.034
6,3%
177
186
4,9%
46.547
42.062
-8,5%
Corse
Altre regioni Totale
Tab. 3.12: Variazione della produzione francese per regioni nel biennio 20072008 in milioni di ettolitri Fonte: ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2008.
3.3.2. Le esportazioni e le importazioni La Francia è il primo esportatore mondiale in valore e il secondo dopo l’Italia in quantità (cfr. tab. 3.3). Nel 2007, il fatturato ha superato, in valore, i 6,7 miliardi di euro (+8% rispetto al 2006), a fronte di spedizioni per 15,2 milioni di ettolitri. La tendenza di crescita iniziata negli anni ‛50 è stata però frenata dall’attuale crisi economica, che ha portato, nel 2008, il livello del volume delle esportazioni a 12,5 milioni di ettolitri (-9%). Tuttavia, il valore delle esportazioni si è mantenuto allo stesso livello del 2007, attestandosi a 6.793 milioni di euro185. Si noti che le esportazioni sono quasi interamente di bottiglie da 0,75 litri (80% volumi e 96% valore). 185
OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), Nota di congiuntura, 2010.
121
Fig. 3.17: Evoluzione delle esportazioni francesi in valore e in volume per campagne Fonte: UBIFRANCE (Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese), 2008. Per un’analisi più dettagliata del posizionamento dei vini francesi nel mercato mondiale, si osservi la tabella 3.18, in cui sono elencati i principali prodotti francesi esportati. Questo è utile per capire che il comportamento di ogni categoria risulta abbastanza differente. PRODOTTI
VOLUME in migliaia di hl
VALORE in milioni di €
Champagne
1.020
2.215
Bordeaux
1.789
1.681
Bourgogne
664
619
4.037
611
643
268
Vins de Pays Côtes du Rhône
Fig. 3.18: Principali prodotti francesi all’estero nel 2008 Fonte: UBIFRANCE (Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese), 2008. Dopo due anni di crescita, il 2008 ha segnato una rottura nelle spedizioni di vino francese all’estero, tanto in valore quanto in volume. La congiuntura economica internazionale ha avuto effetti su tutte le categorie di vino francesi, seppur con intensità diverse.
122
Innanzitutto, i vini frizzanti, ed in particolar modo lo Champagne, vedono una contrazione del volume di -2,9%, ma mantengono stabile il valore a +1,3%. Anche i VQPRD, a causa dell’aumento generale dei prezzi, subiscono un calo del volume dell’1,7, ma resistono in valore (+13,4%), soprattutto grazie al Bordeaux annata 2005, fortemente valorizzato. Infine, i Vins de table e i Vins de Pays (ricordiamo vini da tavola e IGT) fanno parte della categoria che ha registrato il risultato peggiore: -12,5% in volume e -1,9% in valore. Ciò è dovuto soprattutto alla decisione della Russia di riprendere le importazioni con la Moldavia, lasciando così 300 mila ettolitri di VDT invenduti186. Nonostante la Francia esporti in oltre 190 Paesi, le esportazioni di vino restano sempre molto concentrate. Infatti, i primi dieci mercati rappresentano più dell’80% sia dei volumi sia dei valori e i primi tre Paesi realizzano il 45% del fatturato totale delle esportazioni francesi. L’Unione Europea rappresenta una parte ancora più importante negli scambi commerciali francesi, con il 70% dei volumi e il 60% dei valori esportati. PAESI
QUOTA DI MERCATO DELLA FRANCIA
Belgio Giappone Regno Unito Germania Stati Uniti
65% 27% 22% 12% 1,9%
Tab. 3.13: Primi cinque mercati di destinazione dei vini francesi nel 2008 Fonte: UBIFRANCE (Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese), 2008. La Francia, oltre ad essere un Paese esportatore, è storicamente un Paese importatore. Per un lungo periodo di tempo le importazioni sono state di provenienza algerina (colonia francese fino al 1962), ma successivamente, Italia e Spagna sono diventati i principali fornitori, rispettivamente con il 19% e il 53% della quota di mercato. Seguono il Portogallo (10%), il Cile (4%) e gli Stati Uniti (2%).
186
Viniflhor infos, Commerce extérieur des vins français, bilan 2007/2008, n. 158, 2008.
123
Fig. 3.18: Evoluzione della quota di mercato in volume delle importazioni per Paese di origine Fonte: ONIVINS/VINIFLHOR (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2008. Nel 2008, la Francia ha importato più di 5,5 milioni di ettolitri di vino per un valore di 550 milioni di euro. È importante, tuttavia, segnalare che, se in volume le importazioni rappresentano quasi un terzo di quanto si è esportato, in valore non raggiungono il 10%. In effetti, la Francia tende ad importare vino da tavola ed esportare vino AOC. Infatti, nel 2008 l’89% delle importazioni sono state di vino da tavola (4,6 milioni di ettolitri), l’8,5% di VQPRD e il 2,5% di vini frizzanti.
Fig. 3.19: Mercato d’importazione diviso per categorie in volume e in valore Fonte: ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2008.
124
A causa del generale aumento dei prezzi, tutte le categorie crescono in valore rispetto al 2007: i VQPRD aumentano del 3,7% (164 milioni di euro), i VDT+VDP del 6,8% (250 milioni di euro) e i fini frizzanti del 22% (50 milioni di euro).
3.3.3. La distribuzione e i consumi Come l’Italia, anche la Francia ha visto ridurre i consumi pro capite da 155 litri/abitante/anno nel 1955, a 55 nel 2007. Nonostante il mercato francese resti il primo mercato interno al mondo con un consumo di 33 milioni di ettolitri, di cui 17,6 in AOC e 15,5 in VDT/VDP, le sole significative possibilità di sviluppo sono all’export. Questo calo dei consumi può essere fatto ricondurre, tra le altre cause, all’evoluzione del ruolo del vino come bevanda di accompagnamento ai pasti. Se, infatti, negli anni ’80 occupava il primo posto nelle bevande da pasto, dal 1995 questo posto è occupato dall’acqua in bottiglia. La figura 3.21 illustra le frequenze di consumo a partire da un’indagine effettuata da INRA-ONIVINS nel 2000187, dividendo i fruitori, a seconda della frequenza di consumo, in: regolari, frequenti, rari e non consumatori.
Fig. 3.20: Frequenza di consumo di bevande in Francia nel 2000 Fonte: ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2002. 187
INRA-ONIVINS, “Quelle place pour le vin dans la société française ?”, in Colloque Vin, santé et alimentation, 2002.
125
Ne si deduce che solo quattro tipologie di bevande sono dichiarate “consumate regolarmente” (bevande rinfrescanti non alcoliche, acqua del rubinetto e in bottiglia, vini fermi) e sono quelle preferite dai francesi come accompagnamento ai pasti. Gli aperitivi (categorie che comprende gli spirits, i vini liquorosi, e prodotti intermedi) e la birra hanno una quota non indifferente di consumatori frequenti (27% e 15% rispettivamente). Le altre bevande alcoliche a gradazione diversa hanno la percentuale maggiore tra i consumatori rari e i non consumatori (si vedano, a titolo esemplificativo, i digestivi con il 68% di non consumatori, o il sidro con il 44% di consumatori rari). È opportuno sottolineare, per quanto riguarda i vini fermi, che la fascia dei consumatori abituali di questa bevanda erano, nel 1985, più della metà dell’intera popolazione, mentre nel 2005 sono calati in misura consistente, scendendo al 22%. I circuiti della distribuzione, dipendendo dall’evoluzione dei consumi, sono anch’essi soggetti a due cambiamenti significativi. Il primo è l’importanza che ha assunto il consumo di vini nel circuito ho.re.ca., che nel 2001 ha raggiunto il 33% del volume di vino consumato in Francia, mentre il rimanente 67% è consumato a domicilio. Il secondo riguarda l’importanza che la grande distribuzione (GD) ha assunto nel circuito di vendita dei vini per il consumo a domicilio.
2005
2006
2007
2008
Distribuzione moderna
83,5
85,6
85,3
84,6
Ipermercati
35,3
36,2
37
36,1
Supermercati
26,6
27,3
26,7
26,3
Hard Discount
20,3
20,9
20,5
20,2
1,3
1,2
1,1
2,1
Superette Altri circuiti
16,5
14,3
14,6
15,3
Negozi specializzati
6,4
6,7
6,6
6,8
Vendita diretta
5,3
3,3
3,8
4,2
Altri canali
4,8
4,4
4,3
4,3
Tab. 3.14: Ripartizione delle vendite di vino nei diversi tipi di canali distributivi in volume (%)Fonte: ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2008.
126
Tra le diverse tipologie della distribuzione al dettaglio, la filiera del vino sembra avere raggiunto una certa stabilità nella ripartizione delle vendite. La distribuzione moderna rappresenta, nel 2008, l’84,6% delle vendite di vino consumato a domicilio. Gli ipermercati occupano il 36% delle vendite, i supermercati il 26% e l’Hard Discount il 20%. Le vendite totali di vino in supermercati e ipermercati sono state stimate, sempre nel 2008, intorno ai 3.300 milioni di euro. Nel 2009, la vendita di vini fermi nella GD in Francia, si attesta, in quantità, a 9,5 milioni di ettolitri per un fatturato complessivo di 3,4 miliardi di euro, con un aumento sia in volume (+1,2%) sia in valore (+2,9%) rispetto al 2008. La categoria di vini più venduta è quella dei VQPRD, che rappresentano il 52,4% delle vendite in volume e il 72,6% in valore.
Fig. 3.21: Il mercato dei vini fermi per categoria (2009) Fonte: ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2008. Dando uno sguardo, nel dettaglio, alle vendite di vini VQPRD nella grande distribuzione, osserviamo che questo comparto rappresenta, nel 2009, 5 miliardi di ettolitri per un fatturato di 2,5 miliardi di euro. In particolare, si assiste, rispetto al 2008, ad una diminuzione dei volumi venduti dell’1,6%, ma ad un aumento in valore dell’1%, in un contesto di aumento dei prezzi di vendita del’2,5% a 5€/lt. Nel 2009, come nel 2008, sono i VQPRD rossi a realizzare due
127
terzi delle vendite (in valore e in volume) dei vini di qualità188. Il comparto dei vini VQPRD sarà analizzato nel paragrafo 3.3.4.1.
3.3.3.1. Il ruolo del circuito ho.re.ca. Uno dei cambiamenti che si è realizzato nell’ultima decade, e che assume sempre più importanza nel settore vitivinicolo, è la crescita del numero delle imprese dedite ad attività commerciale di ristorazione e i conseguenti cambiamenti nella loro logistica di approvvigionamento. In Francia, il consumo di vino in ambito extradomestico ha raggiunto quasi un terzo dell’intero consumo nazionale. La ristorazione extradomestica comprende due grandi attività: la ristorazione collettiva (mense aziendali, scolastiche, ospedaliere) e quella commerciale tradizionale (R.C.T.). È soprattutto quest’ultima, composta da ristoranti, hotel e caffè-bar, che presenta maggiore interesse per il settore qui considerato. Uno studio realizzato nel 2005 da ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare) dimostra che tutti i ristoranti hanno acquistato vini fermi almeno una volta all’anno. La media è di 1.713 litri per ristorante con un budget di 6.500 euro all’anno. Nella tabella 3.15 è illustrata la ripartizione di vino in base al colore e alla categoria189. Volume % Valore %
RCT* vol. %
Caffè-bar
Vini rossi
57,5%
60,3%
val. % vol. % val. %
Vini rosati
18,0%
13,0%
VQPRD
54%
78%
25%
50%
Vini bianchi
23,0%
26,0%
Vins de table
29%
10%
45%
20%
VQPRD
52,0%
77,3%
Vins de Pays
13%
8%
29%
29%
Vins de table
30,0%
11,0%
Vini esteri
5%
4%
-
-
Vins de Pays
13,0%
8,0%
* Ristorazione Commerciale Tradizionale
Tab. 3.15: Ripartizione degli acquisti di vino nel 2005 nel circuito ho.re.ca. Fonte: ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), 2006.
FranceAgriMer Infos, Les ventes de vins tranquilles en grande distribution. Bilan 2009, n.168, 2010. 189 ONIVINS (Istituto Nazionale dei Prodotti dell’Agricoltura e del Mare), “La consommation de vin dans la restauration en France”, in Faits et chiffres, 2006. 188
128
La ristorazione commerciale tradizionale (RCT) ha rappresentato circa l’88% in volume degli acquisti di vini fermi, per più del 92% di valore totale. In particolare, la categoria dei VQPRD è la più redditizia, con un valore di 78% a fronte di un volume del 54%. Invece, il circuito dei caffè e bar rappresenta poco più del 4% degli acquisti di vini fermi e meno del 2% in valore. La maggioranza del fatturato è ottenuta, anche in questo caso, dai VQPRD (50%), ma i volumi più elevati si registrano nei vini tavola (45%). La restante percentuale degli acquisti (cioè l’8%) comprende la ristorazione aziendale. Nel caso francese, il circuito ho.re.ca. (hotel, ristoranti, catering) è approvvigionato da grossisti per il 34%, da distributori di più tipi di bevande (47,5%) e dai cash&carry per il 9,5%. Attualmente, in Francia, ma in generale in Europa, tende a consolidarsi il processo di costruzione di grosse reti nazionali di distribuzione. Le grandi imprese della birra si stanno affermando in maniera molto netta nell’attività della logistica della distribuzione delle bevande, dedicandosi anche al settore del vino190. Heineken, in particolare, occupa uno spazio essenziale nel sistema di distribuzione del vino nel circuito ho.re.ca. In Francia, la filiale France Boissons rifornisce 40.000 aziende per un totale di 890 milioni di euro di vendite. In Italia, la filiale Heineken è Partesa, che fornisce 70.000 punti vendita ho.re.ca. realizzando un fatturato totale di 530 milioni di euro, del quale 75 milioni corrispondono a forniture di vino.
3.3.4. Le denominazioni di origine In Francia esiste un sistema molto elaborato di leggi relative alle denominazioni di origine, iniziato nel corso del XIX secolo e datato all’inizio del XX secolo. La disciplina francese delle denominazioni di origine dei vini è di molti decenni antecedente l’emanazione dei regolamenti comunitari relativi all’organizzazione del mercato vitivinicolo. Il primo codice francese del vino instaura nel 1935 la categoria delle denominazioni di origine controllate191. L’AOC (Appellation d’Origine Controlée, cioè DOC) costituisce a giusto titolo una delle forme più complete di protezione giuridica del terroir e della qualità dei prodotti del terroir. La tipicità legata al terroir è la proprietà di appartenenza di un prodotto proveniente dall’agricoltura ad una particolare categoria, costruita nel tempo su un determinato terreno. Il prodotto contribuisce a definire ed identificare un particolare terroir; è, quindi, legato a un’origine geografica comprendente fattori ambientali ed umani localizzati e rivendicati da una comunità. Le caratteristiche Green R., op. cit. Vaudour R., op. cit.
190 191
129
di una categoria sono, pertanto, specifiche del territorio e difficilmente delocalizzabili192. Oggi la legislazione francese, così come quella italiana, deve rifarsi al regolamento europeo previsto dalla riforma OCM, cioè l’Organizzazione Comune di Mercato (cfr. fig. 3.14), per quanto riguarda le denominazioni di origine. La nuova classificazione comunitaria dei vini di qualità in vini a denominazione di origine protetta (DOP) e indicazione geografica tipica (IGT), trova in Francia corrispondenza rispettivamente nelle categorie dei Vins d’Appellation d’Origine (AOC e i meno usati VQDS), e in quella dei Vins de Pays. Come previsto in Italia per le IGT, i Vins de Pays sono soggetti ad una specifica procedura di riconoscimento e, diversamente dai vini da tavola, rispondono a standard di produzione relativi, oltre che all’area di produzione, alla resa dei vigneti, alle varietà delle uve, al titolo alcolometrico e a specifici parametro di tipo analitico e organolettico. Attualmente in Francia esistono 152 indicazioni geografiche attribuite ad altrettanti Vins de Pays. I VQPRD ammontano ad un totale di 472 denominazioni193, e costituiscono gran parte della produzione vitivinicola nazionale. Ai vini AOC e VQDS sono riconosciute caratteristiche qualitative superiori rispetto ai vini da tavola ad indicazione geografica; la loro area di produzione è, infatti, più ristretta e gli standard produttivi sono generalmente più rigidi. Italia
Francia
Riforma OCM
IGT
Vins de Pays
IGP
AOC
DOP
DOC DOCG
Tab. 3.16: Sintesi delle denominazioni di origine in Italia/Francia/Europa Le procedure per le attribuzioni delle denominazioni fanno capo a due istituzioni pubbliche: VINIFLHOR, sotto diretta tutela del Ministero dell’Agricoltura, sovrintende e garantisce tutte le fasi di accreditamento e di controllo dei Vins de Pays, mentre la legislazione dei VQPRD fa capo all’INAO, a cui compete, tra l’altro, anche la gestione delle procedure nazionali delle DOP e IGP riservate ai prodotti alimentari diversi dal vino. I consorzi di tutela hanno quindi un ruolo minore rispetto a quelli italiani (i quali si fanno carico delle INAO (Istituto Nazionale dell’Origine e della Qualità), Guide du domandeur d’une appellation d’origine (A.O.C./A.O.P.), versione n. 5, 2009. 193 http://blog.midi-vin.com 192
130
funzioni assolte qui da organi nazionali): ad essi è lasciata l’iniziativa di proporre i disciplinari di produzione o richiederne la loro modifica; inoltre, stabiliscono quali sono i requisiti minimi affinché le aziende possano poter accedere alla filiera tutelata, oltre che le condizioni per mantenere la certificazione e il diritto all’utilizzo della denominazione194.
3.3.4.1. L’importanza del comparto dei vini VQPRD La produzione ai prezzi di base della viticoltura francese, che per l’anno 2007 è stata stimata superiore a 9 miliardi di euro, rappresenta il 15% dell’intero valore della produzione agricola. Quello vitivinicolo costituisce, al pari del lattiero-caseario, il terzo comparto dopo l’allevamento del bestiame e il comparto cerealicolo. I soli VQPRD, con circa 7 miliardi di euro, costituiscono l’82% del valore espresso dal settore, mentre i vini da tavola e quelli destinati alla distillazione concorrono per le rimanenti quote pari rispettivamente all’11% e al 7%. 1995-1999
1.000 hl
AOC
%
2000-2004 1.000 hl
%
2005 1.000 hl
Var. 05/95 %
%
26.644
42,8%
24.468
44,7%
23.435
44,0%
-4,9%
515
0,9%
448
0,8%
409
0,8%
-20,6%
VQPRD
25.159
43,7%
24.916
45,6%
23.844
44,7%
-5,2%
Vins de Pays
14.575
25,3%
14.626
26,7%
900
27,9%
2,2%
7.938
13,8%
6.774
12,4%
5.145
9,7%
-35,2%
47.671
82,9%
46.317
84,7%
43.889
82,3%
-7,9%
9.844
17,1%
8.365
15,3%
9.425
17,7%
-4,3%
53.314 100,0%
-7,3%
VDQS
Vini comuni da tavola Totale vini Vino distillato (Cognac, Armagnac) Totale
57.515 100,0%
54.682 100,0%
Tab. 3.17: Distribuzione della produzione di vino per le denominazioni di origine e per i vini da tavola in Francia (media dei periodi 1995-1999 e 2000-2004) Fonte: INAO (Istituto Nazionale dell’Origine e della Qualità), 2005. ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), Aspetti strutturali e di mercato nel comparto dei vini DOC-DOCG, 2008.
194
131
I dati relativi al 2005 mostrano che la produzione di vino certificato all’origine si attesta all’88%, escludendo i vini per la distillazione. È opportuno sottolineare che dal 1995 la quota di produzione dei VQPRD non ha conosciuto variazioni di rilievo, fatta eccezione per le oscillazioni tra un anno e l’altro dovute più che altro a cause di natura congiunturale. Per quanto concerne il cambiamento della domanda di VQPRD, si è riscontrato, nel paragrafo relativo ai consumi, che i risultati di una ricerca di mercato pubblicata nel rapporto annuale INRA-ONIVINS (2005) indicano una forte riduzione dei consumatori di vino, che nel periodo 1985-2005 sono scesi dal 74% al 62% della popolazione. La contrazione dei consumi è stata accompagnata, tuttavia, da una maggiore richiesta di vino di qualità, come prova appunto l’evoluzione della domanda dei VQPRD. La quota di mercato rappresentata dalle denominazioni di origine è, infatti, salita, nel medesimo periodo, dal 10 a circa il 50% del totale delle richieste di vino195. La trasformazione dell’immagine del vino, non più concepito esclusivamente come un semplice alimento, ha quindi contribuito allo sviluppo della produzione di qualità, alimentando la domanda per il prodotto certificato. Questo è anche quello che succede ai consumatori italiani, che si stanno orientando sempre di più verso l’acquisto di prodotti con marchi di origine. La maggiore richiesta di vini di qualità, tuttavia, si accompagna anche alla disponibilità a spendere cifre molto più consistenti per le AOC rispetto alle altre categorie di vino. Il prezzo medio per i VQPRD è pari, nel 2004, a 3,71 €/ lt (nel 2009 invece questa cifra è aumentata a 5 euro al litro), mentre la cifra complessiva annua spesa è di 95 € per famiglia, ovvero più del triplo della spesa sostenuta per vini comuni da tavola, pari a 27 euro (tabella 3.18). Inoltre, se si considerano i vini frizzanti, la qualità percepita dello Champagne porta la disponibilità di spesa per questa AOC ad 80 euro all’anno, rispetto ai circa 20 euro riservati agli altri vini frizzanti.
195
Ibid.
132
Famiglie
Acquisto per
Prezzo
Spesa
acquirenti (%)
famiglia (lt/anno)
medio (€/lt)
totale (€)
VQPRD
81,9
25,5
3,71
94,7
Vins de Pays
45,4
20,4
1,83
37,4
Vins de table
41,8
18
1,5
26,9
Totale vini fermi
88,4
45,1
2,74
123,4
Champagne
30,4
4,4
17,44
80
Altri spumanti AOC
19,1
3,9
5,99
23,7
Altri spumanti
17,5
6,9
2,78
19,2
Totale vini frizzanti
50,4
7
9,32
64,8
Tab. 3.18: Gli acquisti di vino delle famiglie francesi per il consumo domestico (2004) Fonte: ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), 2008. Infine, poiché nel prossimo capitolo ci si focalizzerà su una regione specifica della Francia, la Borgogna, si anticipa in questa sede la vendita di vini VQPRD nelle varie regioni, mostrando la variazione delle percentuali in volume e in valore tra il 2009 e il 2008 (cfr. figura 3.23). Per quanto riguarda i volumi, in alcune regioni si registra un calo della vendita, come nella Loira (-16,5% rispetto al 2008), in Borgogna (-2,2%), e nel Bordolese (-2%).; mentre, in altre, si ha, invece, un aumento delle vendite, come nel Rodano (+4,9%) e in Alsazia (+0,9%)196. Considerando le percentuali in valore, si osserva una crescita dei valori in Corsica (-13,2%), in Rodano (+7,2%), in Alsazia (-3,9%), in Linguadoca Rossiglione (+3,7%) e in Aquitania Sud-Ovest, cioè escluso il Bordolese (+2,4%). Al contrario, si assiste ad una diminuzione delle vendite in valore in Borgogna, nel Beaujolais, nel Bordolese e nella Loira, con rispettivamente -1,2%, -3%, -3%, -3,7%.
196
FranceAgriMer Infos, op. cit.
133
Fig. 3.23: Evoluzione delle vendite di vini VQPRD in volume e in valore per regione Fonte: ONIVINS-FranceAgriMer, 2009.
3.4. La competitività delle aziende italiane e francesi Globalizzazione dei mercati, ampliamento del commercio internazionale e concentrazione del settore obbligano oggi le imprese europee a concorrere in un contesto competitivo enormemente più complesso e turbolento che in passato. Si possono individuare alcuni elementi che non possono essere ignorati nell’individuazione di un disegno strategico di medio e lungo termine, coerente con lo scenario e con le caratteristiche strutturali e competitive che contraddistinguono la maggior parte delle imprese europee197. Il primo elemento, come è già stato più volte sottolineato nel corso del capitolo, è l’evoluzione dello scenario competitivo. I mercati europei erano caratterizzati, fino a pochi decenni fa, da una dimensione prettamente nazionale, dove i circuiti di produzione, commercializzazione e consumo si risolvevano, per la maggior parte, in aree geografiche abbastanza ristrette. Da qualche anno, invece, si assiste all’ingresso, nel mercato interno europeo, di prodotti provenienti dai Paesi del Nuovo Mondo, che minacciano la leadership dei produttori locali. Questo significa assumere un’ottica competitiva enormemente diversa rispetto al passato, soprattutto 197
Mariani A., et alii, op. cit.
134
per gran parte delle imprese europee abituate, appunto, a confrontarsi con sistemi competitivi ristretti198. Peraltro, il panorama produttivo europeo appare ancora oggi particolarmente frammentato e la maggior parte dei produttori non sembrano disporre delle risorse finanziarie, manageriali e organizzative per competere su un mercato globale. I piccoli produttori devono sviluppare una strategia competitiva che, proprio a partire dalle loro dimensioni, intercetti i bisogni di ristrette nicchie di consumatori globali sviluppando e valorizzando le proprie caratteristiche produttive distintive. Tali nicchie di consumo possono, infatti, garantire un potenziale di mercato ampiamente adeguato al successo di una piccola azienda. La prima e fondamentale leva competitiva per le PMI europee del vino rimane quindi proprio il vino che esse producono. Anzi, la forza delle piccole imprese va cercata nella loro capacità di offrire prodotti diversi e di mettere a frutto l’esperienza millenaria della miriade di territori a vocazione vinicola che l’Europa esprime. Solo questa diversità, unita all’abilità di differenziarsi, permetterà di competere con le multinazionali orientate verso prodotti globali standardizzati. Puntare sulla tradizione non significa ricalcare in maniera miope prassi produttive quando queste non coincidono con le esigenze del consumatore. Occorre invece, pur partendo dalla tradizione, innovare le proprie produzioni adeguandole di volta in volta alle mutevoli esigenze del consumatore internazionale199. In altre parole, le imprese europee possono trovare, nella tradizione vinicola e alimentare dei propri territori e dei loro localismi, un enorme patrimonio di idee, prodotti, tipicità ancora sconosciuti, ma di potenziale globale, in grado di arricchirsi continuamente di nuove proposte di prodotto, senza appiattirsi sulle poche tipologie standardizzate di prodotto ormai diffusi in tutto il mondo dalle grandi imprese multinazionali. Non bisogna sottovalutare, inoltre, la maggior comprensione del consumatore attuale e potenziale per il mondo del vino, soprattutto grazie a una cultura del buon bere che si sta via via sviluppando. Da una decina d’anni, infatti, il vino sta guadagnando sempre più i favori della gente fino a essere quasi diventato un fenomeno di massa. Ciò significa che la richiesta di una maggiore conoscenza e cultura sul mondo dell’enogastronomia è un’esigenza di molti e, se i consumatori diventano più accorti ed esigenti, coloro che lavorano nel settore enogastronomico, come enoteche, ristoranti, wine bar, sono costretti a migliorare e approfondire le proprie conoscenze se non vogliono correre il rischio di rimanere esclusi dall’opportunità offerta dal momento. La trasformazione ha, per forza 198
Pomarici E., op. cit. Nomisma (Società di Studi Economici) (a c. di), op. cit., 2003.
199
135
di cose, coinvolto anche chi produce vino, coloro che erano prevalentemente orientati sulle alte produzioni, con poca attenzione sulla qualità, hanno dovuto rivedere in gran parte, se non completamente, le loro strategie e metodologie di produzione in modo da non essere esclusi. La quantità nel vino sembra che non paghi più se non in piccoli e oramai rari casi, ciò che i consumatori richiedono maggiormente sono vini di qualità, tanto da fare pensare che il motto “bere poco e bere bene” sia diventato una sorta di credo per gli appassionati di vino200. OPPORTUNITA’
MINACCE
potenzialità di crescita nei mercati più sviluppati economicamente in cui il consumo di vino è meno maturo rispetto agli altri alcolici, come Regno Unito e USA;
il consolidamento industriale si accentuerà ulteriormente, esercitando forti pressioni sui produttori medio - piccoli e il rischio di una loro espulsione dal mercato;
prospettive di crescita presso i giovani consumatori che hanno una maggiore propensione a sperimentare prodotti a maggiore qualità;
le dipendenze dell’industria vinicola dal fattore climatico - ambientale pone una minaccia alle capacità dei produttori di assicurare una fornitura continuativa;
uso di tecniche di marketing per attrarre specifici gruppi di consumatori;
nel continente asiatico (ed in particolare nel mercato cinese) la tradizione dei vini non di uva continua a limitare l’espansione dei consumi vinicoli. Questo determina una barriera, in termini di gusto e di cultura, alla capacità di penetrazione delle imprese internazionali di conquistare questi mercati;
i benefici prodotti dal vino sulla salute ne incoraggiano il consumo;
le aree produttive tradizionali sono caratterizzate da un elevato grado di polverizzazione. Ciò determina scarsa flessibilità sui costi di produzione, favorendo le grandi imprese del Nuovo Mondo, in grado di sfruttare meglio le economie di scala;
l’origine territoriale associata ad un’adeguata qualità del prodotto rappresenta un punto di forza del Vecchio Mondo per contrastare la standardizzazione dei prodotti e l’appiattimento dei gusti legati alla globalizzazione e alla concorrenza dei nuovi competitor.
nei mercati emergenti i prezzi elevati del vino importato continuano a configurarlo come bene di lusso. Le prospettive di crescita in questi mercati restano legate alla riduzione dei dazi d’importazione.
Fig. 3.24: Opportunità e minacce del mercato mondiale di vino Fonte: Nomisma, 2003. 200
www.diwinetaste.com
136
A fronte delle opportunità e delle minacce appena illustrate in figura 3.24, e avendo compreso la situazione del settore vitivinicolo prima globale e in seguito sia italiano sia francese, con il quarto capitolo si entra nel merito dell’oggetto di analisi, confrontando due regioni, una italiana (il Piemonte) e una francese (la Borgogna). Lo zoom regionale territoriale è d’obbligo per comprendere in quale contesto le imprese intervistate operano. Si osserveranno le evoluzioni del settore a livello regionale, già presentate in questo capitolo su base internazionale e nazionale, e con quali attori le aziende si trovano ad operare; in particolar modo si prenderanno in considerazione la figura dei consorzi e di alcune associazioni locali, per l’Italia, e dei Conseils Interprofessionnels per la Francia.
137
Capitolo IV Made in langhe vs made in cote d’or Nel capitolo precedente è stato innanzitutto osservato l’andamento del settore vitivinicolo globale e, successivamente si è analizzato, nello specifico, i mercati dei due principali produttori ed esportatori di vino del mondo. Questo capitolo restringe ulteriormente il campo di analisi, così da prendere in considerazione prima due specifiche regioni: il Piemonte e la Borgogna, per poi scendere nel dettaglio e concentrarsi su due sottozone delle stesse, sede delle aziende intervistate. In Piemonte è stata individuata l’area delle Langhe, mentre in Borgogna è stata decisa la Côte d’Or. Scopo del quarto capitolo è di capire quale direzione stanno prendendo due Stati come Italia e Francia, finora leader indiscussi del mercato, alla luce dei cambiamenti avvenuti a livello di consumatori e concorrenti, anche attraverso lo studio della filiera e degli attori che la compongono. Per far questo si è evidentemente dovuto ridurre l’oggetto dell’analisi a due specifiche regioni all’interno degli Stati. La scelta è caduta sul Piemonte e sulla Borgogna per le loro similitudini, ma anche per le loro diversità. Le somiglianze, che emergeranno nel corso dei paragrafi, riguardano soprattutto il posizionamento sul mercato di fascia alta; la qualità come principale punto di forza; la parcellizzazione della proprietà, estremamente frammentata; la lunga tradizione; la coltura mono-vitigno (l’uso, cioè di un unico vitigno in modo che il vino non derivi da tagli, come ad esempio il Bordeaux) ed il forte attaccamento al territorio. Le differenze si possono ricondurre soprattutto alla diversità tra consorzi e interprofessions e al modello delle denominazioni di origine.
4.1. I caratteri produttivi e strutturali del settore vitivinicolo in Piemonte In questo primo paragrafo saranno ripresi alcuni trend del settore vitivinicolo descritti nel capitolo precedente, applicati alla regione Piemonte.
138
Fig. 4.1: Le aree vitivinicole piemontesi (divise in alto e basso Piemonte) e la superficie vitata per provincia (ettari) Fonte: INEA(Istituto Nazionale di Economia Agraria), La competitività delle aziende vitivinicole piemontesi, Roma, 2009. La contrazione del vigneto mondiale e nazionale discussa nel capitolo precedente è valida anche a livello regionale. In Piemonte, infatti, l’estensione della superficie vitata si è ridotta di circa un terzo negli ultimi cinquant’anni, passando da 146.000 ettari a poco più di 50.000. In termini assoluti la riduzione è stata più elevata nelle province meridionali (Cuneo, Asti, Alessandria). Tuttavia, i vigneti piemontesi restano concentrati in questi tre ambiti territoriali fortemente specializzati, dove risulta oggi presente circa il 95% della superficie vitata regionale. Non a caso, si è scelta la zona delle Langhe che si trova in provincia di Cuneo. Il Piemonte, dunque, con 53.000 ettari contribuisce alla superficie a vite italiana (840.000 ettari) all’incirca nella misura del 6,5%; la produzione di uva da vino oscilla intorno ai 4,5 milioni di quintali e la produzione di vino (circa 3
139
milioni di ettolitri) rappresenta il 6-7% della produzione nazionale201. La base produttiva della vitivinicoltura piemontese appare notevolmente frammentata; dai dati diffusi attraverso l’Osservatorio Vitivinicolo della Regione Piemonte202 risultano circa 26.500 le aziende con superficie vitata, cosicché l’estensione del vigneto è mediamente inferiore a 2 ettari; un terzo delle aziende ha superficie vitata compresa tra 1 e 5 ettari, mentre quasi il 60% delle stesse ha superficie inferiore all’ettaro. Tuttavia, negli ultimi decenni, è proseguito il processo di concentrazione della viticoltura in aziende di medie e grandi dimensioni, le quali hanno resistito alla tendenza al declino, mentre, invece, si è ridotto il numero di quelle di piccole e piccolissime dimensioni203. Il processo di rafforzamento delle aziende maggiori è andato di pari passo con l’estensione delle superfici a DOC e DOCG; ciò ha consentito ad un numero sempre più grande di imprese altamente competitive di consolidarsi e di contribuire alla creazione di una filiera locale strutturata e finalizzata ad un mercato ampio. Dando uno sguardo ad alcuni dati relativi ai vini DOC e DOCG, si nota l’importanza di questo comparto per il Piemonte. Gli ettari iscritti agli Albi dei vigneti DOC e DOCG sono circa 38.500 e con la vendemmia 2007 la quantità di vini DOCG ha quasi raggiunto i 968.000 ettolitri; insieme con le produzioni DOC, si sono sfiorati i 2,2 milioni di ettolitri, corrispondenti ad oltre l’80% della produzione vinicola complessiva regionale204. Dalla tabella 4.1 si evince chiaramente come la produzione di vino DOC e DOCG in Piemonte si articoli su due assi. Da un lato, pochi vini molto diffusi e produttivi, sui quali si concentra gran parte della produzione regionale: basti pensare, infatti, che i primi tre vini a denominazione d’origine (Asti, Piemonte e Barbera d’Asti) contribuiscono per oltre il 55% alla produzione complessiva. Dall’altro, vi sono molte denominazioni il cui apporto in termini produttivi e strutturali è minimo, con una produzione che si può considerare di nicchia, ma la cui presenza va a completare l’offerta e ad integrare il tessuto produttivo regionale205. Settore Tutela e Valorizzazione Prodotti Agricoli (a c. di), “Il Piemonte vitivinicolo in sintesi”, in Quaderni della Regione Piemonte, n. 59, 2008. (Disponibile online sul sito: www.regione.piemonte.it/agri). 202 http://www.regione.piemonte.it/agri/osser_vitivin/index.htm 203 Aimone S., La filiera enologica. Il quadro generale e le specificità del Piemonte. IRES, Torino, 1996. 204 Cagliero R., Trione S. (a c. di), La competitività delle aziende vitivinicole piemontesi, INEA, 2009. 205 ISMEA, Aspetti strutturali e di mercato nel comparto dei vini DOC e DOCG, Roma, 2008. 201
140
Vini
2006
2007
566.090
687.216
21,4
Barolo
91.089
89.851
-1,4
Gavi
72.229
82.223
13,8
Brachetto
37.700
29.690
-21,2
Barbaresco
33.849
33.612
-0,7
Roero Arneis
28.734
30.204
5,1
Roero
5.881
6.510
10,7
Gattinara
3.676
3.900
6,1
Dolcetto di Dogliani superiore
2.165
3.048
40,8
Ghemme
1.218
1.727
41,8
Totale vini DOCG
842.631
967.981
14,9
Piemonte
292.508
245.973
-15,9
Barbera d’Asti*
271.128
282.523
4,2
Barbera del Monferrato
99.719
85.703
-14,1
Barbera d’Alba
96.187
93.504
-2,8
Langhe
87.421
84.920
-2,9
Dolcetto d’Alba
77.724
78.003
0,4
Monferrato
80.932
86.576
7,0
Dolcetto di Dogliani
31.350
33.327
6,3
Dolcetto di Ovada
32.277
32.602
1,0
Nebbiolo d’Alba
31.152
30.757
-1,3
Cortese Alto Monferrato
25.869
25.017
-3,3
Grignolino d’Asti
17.037
17.289
1,5
Colli Tortonesi
18.394
19.750
7,4
Dolcetto d’Acqui
16.742
16.730
-0,1
Freisa d’Asti
11.897
12.161
2,2
Asti e Moscato d’Asti
141
Var. % 07/06
Erbaluce di Caluso
10.004
9.502
-5,0
Dolcetto di Diano d’Alba
9.243
9.954
7,7
Dolcetto d’Asti
8.665
8.447
-2,5
Grignolino Monferrato Casalese
7.839
7.499
-4,3
Colline Novaresi
8.674
9.575
10,4
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
4.171
4.079
-2,2
Canavese
5.721
6.512
13,8
Freisa di Chieri
3.545
4.056
14,4
Alta Langa
4.009
3.610
-10,0
Malvasia di Casorzo d’Asti
3.243
2.665
-17,8
Pinerolese
3.024
2.773
8,3
Ruchè di Castagnole Monferrato
2.834
2.952
4,2
Altri
8.878
10.063
13,3
Totale vini DOC
1.270.187
1.226.522
3,4
Totale DOCG + DOC
2.112.818
2.194.503
3,9
* Nel 2010 è diventata DOCG Tab. 4.1: Produzione di vini DOCG e DOC in Piemonte nel biennio 2006-2007 in ettolitri (i vini sottolineati sono prodotti anche o solo nelle Langhe) Fonte: Cagliero R., Trione S. (a c. di), La competitività delle aziende vitivinicole piemontesi, INEA, 2009. I vini sottolineati sono quelli prodotti nella zona di riferimento, ossia la Langa. Con tre vini che appartengono alla categoria dei DOCG (oggi 4) e 8 alla DOC, rimane l’area del Piemonte (considerando, come altre aree, l’Astigiano, il Monferrato, il Roero e l’alto Piemonte) che possiede il maggior numero di vini a denominazione d’origine. È importante sottolineare, tuttavia, che il comparto non è un unico aggregato, ma si possono porre in evidenza diversi insiemi produttivi: quello della cooperazione enologica e delle aziende conferenti, quello delle aziende agricole che operano autonomamente sul mercato e, infine, quello delle imprese industriali di trasformazione e dei loro fornitori.
142
La cooperazione interessa circa un terzo delle produzioni ed è composta da 54 cantine con oltre 14.000 soci. Dai risultati di uno studio206 svolto a cura dell’Università di Bologna e della società specializzata in ricerche economiche ARETÉ, risulta che le forme di cooperazione in Piemonte si configurano come strumento di concentrazione e assicurazione dello sbocco commerciale per i viticoltori piccoli e frammentati (il 73% delle circa 6.400 aziende conferitrici ha, infatti, superficie inferiore a 2ettari). Ad esempio, nella zona di produzione del Barolo esistono 700 produttori di cui più della metà (circa 400) vende le uve alla Cantina Sociale del Barolo perché non possiede abbastanza ettari per avviare una produzione propria. Inoltre, la classificazione delle cantine in funzione del grado di integrazione verticale tra la fase della viticoltura e la fase della vinificazione qualifica il comparto della trasformazione dell’uva piemontese come formato da cantine consortili e cooperative (una settantina) di grandi dimensioni (oltre il 60% delle stesse fornisce una produzione superiore a 5.000 ettolitri di vino) e fortemente orientate alla produzione di vini di qualità (oltre i tre quarti del totale). A queste si affiancano circa 470 cantine industriali che sono in buona misura (quasi il 40%) di dimensioni medio - grandi e, ancora, un numero assai elevato (oltre 10.000) di cantine agricole di dimensioni relativamente piccole (oltre il 95% delle medesime produce meno di 500 ettolitri di vino) anch’esse fortemente orientate, naturalmente, alla produzione di vini di qualità (si veda lo schema in figura 4.2).
Fig. 4.2: Flusso tra agricoltura e industria nel settore vitivinicolo piemontese Fonte: Istituto Marketing Agro-alimentare Piemonte, 2006 206
ARETÉ Research & Consulting in Economics (a c. di), Strutture, flussi e valori della Filiera Vitivinicola “allargata” italiana: il Piemonte, Torino, 2008.
143
Come si può notare, la totalità dell’uva da vino prodotta in Piemonte viene trasformata in regione principalmente presso le Cantine sociali (45-50%), le industrie (30-35%) e presso le aziende agricole stesse (15-20%). Dopo la trasformazione si rileva un secondo flusso interno (freccia tratteggiata) riguardante il prodotto trasformato (il vino): circa il 30% del vino prodotto da aziende agricole (per il 5-10%) e cantine sociali (per il 25-20%) viene assorbito dall’industria per integrare la produzione diretta e raccordarla agli sbocchi di mercato207. Infine, il valore dell’export di vini e distillati ammonta a circa 1.000 milioni di euro nel 2006 con un incremento pari all’11% rispetto all’anno precedente, corrispondente a un terzo del valore dell’export agro-alimentare piemontese e a circa un quinto dell’export vitivinicolo nazionale. Pressappoco il 60% del vino prodotto in Piemonte viene esportato. Nonostante questi dati positivi, risulta poco favorevole l’export piemontese di vino rosso VQPRD che nel 2007 è stato di circa 132.000 ettolitri a un prezzo medio di 5,26 euro per litro, facendo così registrare un sensibile calo (-8%) dei volumi esportati rispetto all’anno precedente208. I principali mercati esteri sui quali trovano sbocco i vini rossi di qualità prodotti in Piemonte sono gli Stati Uniti (36%), la Germania (16%) la Svizzera (12%), il Giappone e il Canada (7-8%). • 53.000 ettari di vigneto su circa 840.000 nazionali (6,5% del vigneto Italia); • 3 milioni di ettolitri la produzione annua media (su circa 50 milioni nazionali). Nel 2007 la produzione è stata di 2.723.946 ettolitri su circa 41 milioni nazionali; • 28.500 le aziende censite a indirizzo vitivinicolo su circa 112.000 aziende agricole totali, quelle operative sono circa 18.000; • 280 imprese industriali produttrici di vini e distillati con circa 3.300 addetti; • 54 Cantine cooperative con circa 15.000 soci; • 335 milioni di Euro il valore 2006 del vino ai prezzi di base agricoli, che rappresenta l’11% dell’intera produzione agricola regionale; • 1008 milioni di Euro il valore dell’export di vino e distillati nel 2006 (+ 11% sul 2005), circa il 33% del valore dell’export agroalimentare piemontese; e circa il 20% dell’export vitivinicolo nazionale. Circa il 60% del vino prodotto viene esportato, di questo circa 1/4 è costituito dall’Asti Spumante; • 15 vini a DOCG (comprese le due nuove DOCG Barbera d’Asti e Barbera Monferrato Superiore) e 46 DOC, che coprono quasi l’80% della produzione regionale; http://www.regione.piemonte.it/agri/ita/piemontedoc/vino/index.html www.inumeridelvino.it
207
208
144
• 7 Principali vitigni autoctoni o comunque fortemente tipici (Arneis, Barbera, Dolcetto, Favorita, Freisa, Moscato, Nebbiolo); • Una legge regionale (la 39/80) sull’anagrafe vitivinicola e per il controllo e la repressione di frodi e sofisticazioni; l’osservatorio vitivinicolo regionale, la revisione dell’albo dei vigneti e l’istituzione della fascetta regionale di garanzia per i vini DOC; • 14 tra grandi e piccoli Consorzi di Tutela che coprono tutte le DOC e DOCG, 2 grandi Associazioni di Produttori; • 12 Enoteche Regionali e 31 Botteghe del Vino, istituite con legge regionale n. 37/80, che rappresentano circa 3000 produttori espositori e ospitano mediamente 600.000 visitatori all’anno (metà dei quali stranieri); • 2 Distretti dei vini e 5 Strade del Vino riconosciute ed operanti; • Su oltre il 50% dei vigneti, da quasi 20 anni, si praticano sistemi di produzione ecocompatibile; • Banca del Vino e Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (progetto Slow Food -Regione Piemonte).
Fig. 4.3: Il Piemonte vitivinicolo in sintesi Fonte: Settore Tutela e valorizzazione prodotti agricoli (a c. di), “Il Piemonte vitivinicolo in sintesi”, in Quaderni della Regione Piemonte, n. 59, 2008, p. 6.
4.1.1. La competitività delle aziende piemontesi La competitività delle aziende piemontesi deriva da diversi fattori relativi sia alle peculiarità delle singole aziende, sia alle relazioni che intercorrono tra i diversi elementi della filiera, come spiegato nel prossimo paragrafo. Innanzitutto, il comparto vitivinicolo piemontese si caratterizza non solo per l’elevata qualificazione delle produzioni, ma anche per l’integrazione con le diverse risorse presenti sul territorio, in grado, per le strette relazioni, di attivare un’ampia catena del valore, che supera la fase agricola e agro-industriale, ed interessa direttamente il settore terziario: enogastronomia, turismo, attività di carattere culturale, comunicazione. In questo senso, il vino piemontese riesce a includere nel proprio valore gli aspetti immateriali derivanti dal contesto territoriale. Nella regione è, infatti, attiva una forte rete di valorizzazione e comunicazione del vino: oltre ai Consorzi di Tutela per le produzioni a denominazione d’origine vi sono i Distretti, le Strade del Vino, 11 Enoteche Regionali, 18 Botteghe del Vino, 8 Cantine comunali, 7 musei dedicati. Poiché sarebbe troppo lungo descrivere tutti questi attori, ci si limiterà più avanti a prendere in considerazione solo le istituzioni più importanti ed innovative presenti sul territorio oggetto di studio, le Langhe.
145
Rilevante specificità della vitivinicoltura piemontese è, inoltre, il forte orientamento verso la qualità, consentito dalla vocazionalità del territorio e dall’introduzione di un sistema di denominazioni d’origine “a piramide” finalizzato a valorizzare la produzione enologica piemontese che è particolarmente ricca. L’idea della valorizzazione del vino piemontese attraverso lo sviluppo delle denominazioni d’origine prende avvio negli anni ’60 e ’70, quando i produttori piemontesi, accortisi di non poter sostenere un confronto sul mercato basato essenzialmente sull’incremento delle rese e la riduzione dei prezzi, hanno obbligatoriamente dovuto perseguire una crescente qualificazione del prodotto, peraltro resa possibile dalla spiccata vocazionalità del vigneto Piemonte e sostenuta dall’indirizzo politico regionale209. Questo orientamento ha preso particolare vigore in seguito allo scandalo del metanolo avvenuto nel 1985, perché provocò una reazione di rifiuto, da parte dei consumatori, per i vini di basso rango, e li portò a comportarsi in maniera più consapevole selezionando vini di primo prezzo. Ciò ha concretizzato un’opportunità di mercato di cui hanno beneficiato i produttori a livello nazionale, ma soprattutto il Piemonte. Non a caso, infatti, ad oggi è la regione italiana che vanta il maggior numero di denominazioni, con 46 DOC e 15 DOCG. A titolo esemplificativo, gli ultimi vini annoverati nell’elenco sono la Barbera d’Asti, diventata DOCG da pochi mesi, e la nuova DOC “Alba” che attende l’approvazione ministeriale. Ciò testimonia una ricchezza e un’offerta crescente di questa regione, che ricerca continuamente nuovi e migliori standard qualitativi. A dimostrare il rilievo del modello vitivinicolo piemontese, fondamentalmente basato sulle produzioni vinicole di qualità, sono le conclusioni cui è pervenuta la già citata indagine realizzata da ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) nel 2008 intesa, tra l’altro, ad analizzare la situazione e l’evoluzione del comparto vitivinicolo di qualità a livello locale. La mappatura della figura 4.4 è stata creata da ISMEA per mettere in evidenza l’importanza del comparto delle denominazioni a livello di singole regioni. Sono stati utilizzati due indicatori di sintesi: il rapporto tra il valore della produzione vitivinicola sul valore totale della produzione agricola e il rapporto tra la produzione dei vini di qualità e la produzione di vino complessiva.
Aimone S., La filiera enologica: il quadro generale e le specificità del Piemonte,IRES, Torino, 1996.
209
146
Fig. 4.4: Mappatura della vitivinicoltura italiana a livello regionale nel 2005 Fonte: ISMEA, Aspetti strutturali e di mercato nel comparto dei vini DOC e DOCG, Roma, 2008. Il Piemonte si trova nel quadrante “L’eccellenza”, dove il comparto vitivinicolo ha un ruolo di rilievo nell’economia agricola regionale e le produzioni di qualità presentano un’importanza notevole nella costruzione di questo percorso210. Lo studio ISMEA conferma quanto già osservato al paragrafo precedente circa la specificità strutturale ed economica del Piemonte, consistente nel fatto che la produzione di vino di qualità si articola su due assi. Da un lato, pochi vini molto diffusi e produttivi, sui quali si concentra gran parte della produzione regionale, dall’altro, molte denominazioni il cui contributo in termini produttivi e strutturali è minimo, con una produzione che si può considerare di nicchia, ma la cui presenza va a completare l’offerta e a integrare il tessuto produttivo regionale. In Piemonte, infatti, i primi tre vini (Asti DOCG, Piemonte DOC, Barbera d’Asti DOC) concentrano oltre la metà della produzione effettiva, e se a questi si aggiungono i successivi cinque (Barbera del Monferrato DOC, Barbera d’Alba DOC, Langhe DOC, Barolo DOCG, Dolcetto d’Alba DOC), si arriva ad oltre tre quarti della produzione di vini di qualità. Si noti che, su un totale di nove vini, più della metà appartengono al territorio delle Langhe. La forte variabilità, cioè le numerose denominazioni di origine, rappresenta senz’altro un elemento di forza del sistema vitivinicolo regionale, anche se, alla ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), Aspetti strutturali e di mercato nel comparto dei vini DOC e DOCG, Roma, 2008.
210
147
luce, soprattutto, delle novità introdotte dalla nuova OCM vino, si sente una forte esigenza di razionalizzazione del sistema delle denominazioni medesimo. In ogni caso, l’elevata incidenza di vini DOC e DOCG costituisce un importante atout per l’economia piemontese, come testimonia la matrice SWOT riportata in figura 4.5.
Fig. 4.5: Analisi SWOT riassuntiva del settore vitivinicolo piemontese Fonte: Cagliero R., Trione S. (a c. di), La competitività delle aziende vitivinicole piemontesi, INEA, 2009.
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Quello che emerge da questa analisi SWOT è un quadro abbastanza positivo del settore vitivinicolo piemontese, forte delle sue caratteristiche distintive e pronto ad accogliere le opportunità che il mercato offre. Le aziende devono, tuttavia, cercare di superare le loro debolezze, soprattutto riguardo la scarsità di reti di relazioni e di cooperazione, in modo da riuscire ad affrontare le minacce del mercato, tra cui l’attuale crisi economica. Nel prossimo paragrafo si evidenziano quali sono le prospettive di mercato per i vini piemontesi, tenendo in considerazione le opportunità emerse, in particolare l’attenzione alla crescita del turismo enogastronomico ed alla creazione di nuovi canali di distribuzione.
4.1.2. Le prospettive di mercato delle aziende vitivinicole piemontesi Uno studio recentemente condotto dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA)211, il cui obiettivo è di misurare il posizionamento competitivo delle aziende vitivinicole piemontesi, mette in evidenza i timori e le aspettative che gli operatori del settore manifestano nei confronti dell’evoluzione del mercato nazionale e internazionale delle produzioni vinicole regionali. Il mercato nazionale dei vini piemontesi presenta aspetti diversi e fortemente legati alle tipologie del prodotto, alle dimensioni aziendali e agli elementi di marketing propri di ciascuna azienda produttrice. In generale, l’andamento delle operazioni commerciali ha risentito nel 2008 della crisi economica: le vendite di vino sono diminuite sensibilmente, ma la produzione in termini di volumi è rimasta pressoché costante. Tuttavia, la crisi colpisce in modo diversificato le differenti tipologie di vino collocate su diverse fasce di prezzo. I vini DOCG, che hanno una grande visibilità internazionale, un prezzo medio - alto e una buona collocazione su tutto il mercato nazionale, presentano difficoltà legate più alla congiuntura economica, che non alla fragilità dei propri mercati. Invece, i vini legati a piccoli territori, con un prezzo medio - basso e un mercato territoriale circoscritto principalmente all’Italia del Nord-Ovest, presentano difficoltà consolidate, strutturali e legate alla storicità dei propri mercati. Considerando, inoltre, la distribuzione, si osserva che i canali distributivi classici del circuito ho.re.ca. sembrano rappresentare un modello non più adeguato a raggiungere tutti i consumatori finali. La vendita del vino attraverso la GDO, Cagliero R., Trione S. (a c. di), La competitività delle aziende vitivinicole piemontesi, INEA,2009.
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la commercializzazione del vino tramite confezioni nuove e diverse, impongono alla struttura produttiva una riflessione e nuove soluzioni per comunicare con il consumatore e per fare incontrare domanda e offerta212. Anche il mercato internazionale dei vini piemontesi presenta aspetti fortemente legati alle tipologie del prodotto, alle dimensioni aziendali e agli elementi di marketing propri di ciascuna azienda, ma, a differenza di quanto riscontrabile per il mercato interno, non mostra ancora segnali evidenti e diffusi di crisi e di difficoltà. I principali mercati esteri sono: Europa (in particolare, Germania, Regno Unito, Scandinavia), USA, Giappone. Il vino viene distribuito attraverso i canali ho.re.ca. che, diversamente dal mercato interno, mostrano buoni risultati in termini di presenze percentuali nel settore della ristorazione e delle enoteche di qualità213. All’estero l’immagine del Piemonte è legata principalmente a quattro importanti DOCG (Barolo, Barbaresco, Asti, Gavi), mentre ricoprono un ruolo marginale, sia in termini di fatturato sia in termini di volume, le esportazioni di altri vini DOC e DOCG; un ruolo crescente stanno invece acquistando il Roero Arneis e la Barbera d’Asti (da pochi mesi DOCG). In senso generale, l’attuale mercato dei vini piemontesi non esclude uno spazio per i piccoli produttori e le piccole produzioni in quanto non separa il vino dal vitigno e dal territorio e non misura soltanto la competitività di un prodotto dal suo corrispettivo di vendita. La fase economica attuale impone prudenza negli investimenti e serie valutazioni dei rischi imprenditoriali; ciò nonostante per il vino piemontese questo mercato produce ancora una redditività medio alta e una garanzia agli investimenti effettuati dagli operatori214.
4.1.3. Lo stato della filiera: elementi di forza e problematicità Nel secondo capitolo sono stati descritti i passaggi della filiera vino, osservando come sia possibile individuare essenzialmente tre tipologie di filiera. La prima filiera è quella intesa in senso stretto in cui sono incluse esclusivamente le attività di coltivazione della vite (viticoltura) e quelle industriali di trasformazione dell’uva in vino. La filiera in senso ampio non comprende solo i passaggi strettamente legati al prodotto vino, ma anche i fornitori e i distributori. Infine, Borsotto P., Cagliero R., Trione S., “Una valutazione della competitività delle aziende vitivinicole piemontesi”, in Quaderni della Regione Piemonte, n.63, 2009. 213 Ibid. 214 Cagliero R., Trione S. (a c. di), op. cit. 212
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la filiera che più ci interessa è la cosiddetta filiera allargata, dove rientrano i rapporti con i settori che contribuiscono alla creazione di valore legata al prodotti vitivinicoli o che ne beneficiano, e sono: turismo, enogastronomia, beni culturali, editoria specializzata, eventi, immobiliare. Non tutte le aziende presenti nel territorio piemontese sono in grado o vogliono creare relazioni con questi attori, molte anzi sono ancora convinte che da soli si ottengano risultati maggiori e migliori. Ma questo lo si vedrà nella parte dedicata alle Langhe. Per ora ci si limita a fornire un quadro delle possibili reti di relazioni che si possono o meno creare su un territorio a vocazione vitivinicola. La maggior parte dei prodotti tipici a denominazione d’origine piemontesi deriva dall’attività di micro filiere di natura artigianale, fortemente legate al’ambiente, alle tradizioni e alla cultura locale. Nel caso specifico delle produzioni enologiche, il forte intreccio territoriale è accentuato dalla rilevanza della filiera e dalla marcata specializzazione delle aree viticole, che tendono pertanto ad assumere un carattere distrettuale. In alcuni contesti particolari, tra cui, appunto, quello delle Langhe, il vino è il principale attivatore di una catena del valore che si estende dalla sfera agricola a quella terziaria, coinvolgendo le attività turistiche, la gastronomia, l’indotto di servizio, il mercato immobiliare, le attività culturali215. A partire dalla crisi del metanolo, il settore vitivinicolo piemontese ha subito una pesante ristrutturazione, migliorando notevolmente la qualità media delle produzioni, sono state portate avanti strategie di successo che hanno fatto aumentare la capacità di penetrazione nei mercati nazionali e internazionali, fino ad inserire in maniera stabile questi territori fra le regioni leader mondiali nella produzione enologica di qualità. La filiera vitivinicola ha in qualche misura funzionato da traino per una riconversione in senso qualitativo di porzioni significative del settore agroalimentare216: negli ultimi anni si sono moltiplicate le certificazioni di qualità non solo per i prodotti vinicoli ma anche per quelli alimentari; ha preso piede il movimento Slow Food, che sempre più assume il ruolo di cerniera fra il territorio e i mercati internazionali; sono state avviate iniziative importanti di ricerca e innovazione legate all’agro-alimentare e alla gastronomia, prime fra tutte l’Università del Gusto di Pollenzo. Aimone S., Sistema agroalimentare e territorio rurale del Piemonte: le sfide del prossimo futuro, IRES, 2004. 216 Barella D., Zeppetella P., “I quadranti del territorio piemontese: le prospettive del sudovest”, in Scenari per il Piemonte del 2015, terzo rapporto triennale, IRES, Torino, 2008. 215
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Nella figura 4.6 è rappresentata la filiera vitivinicola piemontese, mentre la filiera propria delle Langhe verrà illustrata nel paragrafo dedicato agli attori di quello specifico territorio (cfr. figura 4.8).
Fig. 4.6: Gli attori della filiera allargata Fonte: elaborazione personale Al centro della figura ci sono gli operatori primari, interessati in prima persona nei passaggi di trasformazione dell’uva in vino, che viene poi commercializzato. Spesso i produttori inglobano sotto di sé più funzioni, essendo allo stesso tempo viticoltori, vinificatori, imbottigliatori e venditori diretti del proprio prodotto. La distribuzione viene invece affidata, il più delle volte, a un intermediario. La diminuzione dei passaggi della filiera agevola l’acquisto da parte dei consumatori, poiché il processo è semplificato, il prodotto passa in poche mani e la provenienza è più facilmente rintracciabile. Gli attori secondari si trovano intorno alla filiera in senso stretto, e si tratta di quei settori che sono indirettamente legati al mercato del vino, nel senso che contribuiscono alla creazione di valore e a loro volta ne beneficiano (istituti di ricerca e formazione, ambiti del settore terziario, fondazioni). Vi sono poi coloro che aiutano in qualche modo il prodotto e il produttore ad aumentare la loro visibilità grazie a svariate attività come la tutela (consorzi, associazioni di categoria) e la promozione dei prodotti del territorio (la Regione) anche a livello nazionale (Stato). Infine, ma non ultimi, i consumatori e le relative associazioni e i concorrenti, player del mercato, non solo diretti (altri produttori di vino), ma anche, in senso allargato tutti i produttori di bevande (birra, bibite, alcolici, acqua).
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Sarà interessante osservare, scendendo nel particolare, quali sono gli attori che interagiscono sul territorio delle Langhe, che siano essi locali o internazionali, in che misura si interessano alla/ sono interessati dalla filiera vitivinicola e qual è il loro ruolo nel processo di valorizzazione del territorio e dei prodotti enogastronomici. Dopo una panoramica generale della competitività delle aziende piemontesi e degli attori che costituiscono, in modo più o meno diretto, la filiera vitivinicola, si focalizzerà l’attenzione sul territorio di interesse, le Langhe, evidenziandone gli aspetti positivi e i fattori di debolezza, illustrando quali sono le possibilità di sviluppo e quali passi deve compiere per rimanere competitivo. Infatti, una maggior competitività a livello territoriale aiuta senza dubbio le imprese che vi operano ad essere a loro volta più competitive. Si presenteranno, inoltre, come è già stato accennato, quattro particolari organismi che nascono ed hanno sede in quest’area: il Consorzio di tutela “Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero”; Slow Food; la Banca del Vino e l’Università del Gusto. Si osserverà in che modo sono legati al mondo del vino, che ruolo giocano e in che misura possono aiutare i produttori locali ad aumentare la loro competitività e la loro visibilità in campo nazionale e mondiale.
4.2. Il “Made in Langhe” La Langa è un territorio di grande fascino, caratterizzato da un’alternanza continua di colli, dette Langhe. Si trova a cavallo delle provincie di Cuneo e di Asti e, a seconda dell’altezza sul livello del mare, si divide in Bassa Langa e Alta Langa. La parte presa in considerazione è la Bassa, dove il clima mite permette la coltivazione della vite, che ricopre quasi interamente i pendii delle colline. Il capoluogo delle Langhe è Alba, città del vino, del tartufo, della buona cucina; ma è anche la patria di numerose industrie di fama mondiale, tra cui la Ferrero (azienda dolciaria), il gruppo Miroglio (abbigliamento) e la multinazionale Mondo (pavimentazioni sportive). Caratteristica della città è quella di aver saputo evolversi, pur restando legata alle tradizioni, facendo della qualità dei prodotti la sua fortuna.
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Fig. 4.7: I comuni delle Langhe La Langa offre numerose opportunità al turista che vi si avventura. Il paesaggio è straordinario e molto vario per la diversa conformazione del terreno: panorami apertissimi, castelli e ruderi di rocche ferrigne circondati da vigne in un susseguirsi di colline tappezzate da geometrie di filari ben curati, e boschi di conifere, di castagni e di noccioli. Anche i prodotti enogastronomici sono conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo, primo tra tutti, il vino di qualità, fortemente legato a una lunga tradizione vitivinicola. Il carico di valore reputazionale detenuto da questo territorio sembra dischiudergli una prospettiva, più che agroindustriale, agroterziaria, capace di alimentare i contenuti simbolici dei prodotti alimentari e turistici offerti. Preziosa in questa direzione è la cultura della genuinità gastronomica promossa dall’associazione Slow Food, oggi tradotta in approccio scientifico dall’Università del Gusto di Pollenzo.
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Per sottolineare ulteriormente l’intima connessione tra territorio, prodotto e cultura è stato coniato il termine di “distretto culturale”217. Il distretto culturale delle Langhe è formato da due culture: una del mercato, che rimanda a un sistema di regole e valori ben noti (efficienza, imprenditorialità, profitto) e si traduce in ricerca di reputazione attraverso il segnale della qualità del prodotto; l’altra è materiale, richiama cioè un sistema di valori differente, fatto di immagini di un prodotto, di un sistema di saperi e tradizioni e di identità218. Queste due culture si fondono per valorizzare il vino prodotto nella terra di Langa. Nel distretto culturale creatività, legami comunitari, tradizioni locali e un uso sapiente dei mercati si saldano. Il binomio produzione enologica e cultura trova nel territorio di Alba molti esempi di prestigio, dalla valorizzazione dei castelli agli eventi folkloristici diretti a costruire una comunità di interesse intorno al produttore, ai suoi prodotti e al contesto in cui essi nascono. Particolare rilievo assumo gli eventi enogastronomici, ovvero le degustazioni guidate, le rassegne di prodotti tipici, le conferenze e le passeggiate enogastronomiche attraverso il territorio. È difficile, tuttavia, come già detto, che queste manifestazioni siano opera diretta dei produttori vitivinicoli, i quali, pur riconoscendo l’importanza dell’elemento culturale per la promozione del vino, preferiscono delegare la produzione di cultura ad associazioni, fondazioni, Enoteche e Pro Loco. Un esempio di eccezione è rappresentato dai fratelli Ceretto (dell’azienda Ceretto, tra i casi del quinto capitolo), che assolvono la funzioni di mecenati commissionando dipinti ad artisti (come la Cappella affrescata da Sol Lewitt e il cubo in vetroacciaio dell’architetto Luca Deabate). I principali attori della filiera che aiutano, più o meno direttamente, i produttori nella promozione e nella competizione sono esposti nei paragrafi seguenti.
4.2.1. I principali attori del territorio Nel paragrafo 4.1.3 sono già stati enunciati gli attori che compongono la filiera vitivinicola. Qui, si vuole approfondire ulteriormente l’analisi, passando da uno schema classico, standard, a uno specifico applicato al territorio delle Langhe. In questo modo, emergono gli organismi, le associazioni e tutte quelle figure che contribuiscono, attraverso la loro attività e le relazioni che intrecciano Aimone S., Sistema agroalimentare e territorio rurale del Piemonte: le sfide del prossimo futuro, IRES, 2004. 218 Borrione P., Santagata W., “Le due culture. Alle origini del distretto culturale delle Langhe”, Working Paper n. 4, EBLA, Università di Torino, 2002. 217
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tra di loro, alla formazione e all’arricchimento continuo del distretto culturale delle Langhe. Si è deciso di dividere gli attori della filiera vitivinicola delle Langhe in tre gruppi, a seconda del grado di coinvolgimento e interazione con il prodotto vino.
Fig. 4.8: Gli attori della filiera allargata applicata al territorio delle Langhe Nel cerchio più piccolo vi sono gli attori della filiera che hanno a che fare direttamente con l’uva e/o con il vino e per questo possono essere considerati come un micro ambiente che lavora a stretto contatto con la materia prima e il bene che ne deriva. Si tratta di: fornitori; viticoltori, cioè coloro che coltivano l’uva; vinificatori, che trasformano l’uva in vino e imbottigliatori. Queste ultime due posizioni sono spesso comprese in un’unica figura: l’azienda si occupa, infatti, quasi sempre di tutti questi passaggi, mentre la distribuzione si affida nella maggior parte dei casi a intermediari. All’interno del secondo cerchio vi sono tutte quelle istituzioni che aiutano in qualche modo il prodotto e il produttore ad aumentare la loro visibilità
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grazie a svariate attività come la tutela (consorzi, associazioni di categoria), la valorizzazione dei prodotti del territorio (la Regione), la vendita (enoteche e cantine). Infine, nell’ultimo cerchio si sono posizionati quei settori che sono indirettamente connessi al mercato del vino, nel senso che contribuiscono alla creazione di valore legata ai prodotti vitivinicoli e a loro volta ne usufruiscono. Il secondo e il terzo cerchio costituiscono una sorta di macro ambiente che comprende tutti gli attori che hanno in qualche modo un legame con il mondo del vino. A questo punto si descriverà nel dettaglio quattro attori appartenenti al macro ambiente. I primi tre sono: Slow Food, la Banca del Vino e l’Università di Scienze Gastronomiche. La scelta è ricaduta su questi enti perché sono unici e peculiari delle Langhe. Slow Food è nato a Bra, ma ha un respiro internazionale e sta riscuotendo sempre più successo tra i consumatori che vogliono conoscere i prodotti per poi acquistarli consapevolmente. Da Slow Food prendono vita le altre due istituzioni, entrambe con sede a Pollenzo. L’ultimo attore è il consorzio di tutela locale, del quale si elencheranno i compiti principali in vista di una comparazione con il corrispondente istituto francese (l’interprofession).
4.2.1.1. Slow Food Slow Food ha una duplice anima: nasce infatti a Bra (CN) nel 1989 da un’idea di Carlo Petrini219, ma ha carattere internazionale. Oggi conta 100.000 iscritti e aderenti in oltre 130 Paesi. La sua mission consta di tre obiettivi: educare al gusto; salvaguardare la biodiversità e le tradizioni alimentari; promuovere un nuovo modello alimentare rispettoso dell’ambiente, delle tradizioni e delle identità culturali. Cerca di contrapporsi alla tendenza alla standardizzazione dell’alimentazione e difende la necessità di informazione da parte dei consumatori, trasmettendo una nuova filosofia del gusto che combina piacere e conoscenza. Le principali attività con cui raggiunge questi obiettivi sono: la realizzazione dei Presidi Slow Food, attraverso un lavoro di ricerca e catalogazione dei prodotti del Carlo Petrini nasce a Bra nel 1949 ed è un gastronomo, giornalista e scrittore italiano, fondatore del movimento culturale Slow Food. Si occupa di enogastronomia dal 1977 sui principali periodici e giornali italiani ed ha partecipato attivamente alla nascita del Gambero Rosso. È ideatore di importanti manifestazioni ormai di rilievo internazionale come Cheese, il Salone del Gusto di Torino e la recente manifestazione Terra Madre, che promuovere una produzione alimentare locale, sostenibile, in equilibrio con il pianeta e rispettosa dei saperi tramandati di generazione in generazione.
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patrimonio enogastronomico a rischio di scomparsa; la diffusione di una nuova educazione sensoriale e alimentare, anche tramite l’organizzazione di Laboratori del Gusto e di corsi di degustazione; il contributo all’istituzione dell’Università di Scienze Gastronomiche (par. 4.2.4); la realizzazione di numerosi eventi (Salone del Gusto, Cheese) e la pubblicazione di guide, libri e riviste. Per quanto riguarda il rapporto con il vino, Slow Food ha recentemente dedicato un maggior interesse verso questo prodotto, in particolare grazie a due novità. Innanzitutto, dal 2009 ha creato un sito (www.slowine.it) consacrato alle degustazioni italiane e internazionali e alla spiegazione della terminologia specifica. Inoltre, a ottobre 2010 è uscita l’attesa guida dal titolo “Slowine. Uomini, vigne, vini”, in cui sono presentate 1.850 cantine e recensiti 8.000 vini, senza punteggi, classifiche e simboli (descrizione in figura 4.9).
“SLOW WINE 2011. UOMINI VIGNE VINI IN ITALIA” La nuova guida dei vini di Slow Food nasce dall’esigenza di nuovi progetti diversi dall’Atlante dei Vini co-editato con Gambero Rosso. È un nuovo modo di parlare di vino in Italia, attraverso una semantica che sposta l’attenzione dal bicchiere verso le vigne e i territori. È questo che rende unica la guida: l’importanza che viene accordata al territorio del vino che si veste di nuovi aspetti legati all’uomo e al suo lavoro. La vera rivoluzione è il passaggio dalla valutazione all’informazione, obbligando i consumatori ad andare oltre ai simboli ed ai punteggi e leggere la guida. Ciò che differenzia questa guida dalle altre pubblicazioni di settore è la visita diretta a tutte le cantine recensite. La guida offre al lettore tre chiavi di lettura: di ciascuna azienda sono descritte la vita, le vigne e i vini, viene altresì indicata una carta d’identità vitivinicola. A livello macro, le cantine sono divise per regioni e per sotto-territori. I riconoscimenti sono rispettivamente tre per le cantine e tre per i vini: Cantine: chiocciola: simbolo di Slow Food, assegnato a una cantina che interpreta valori (organolettici, territoriali, ambientali e identitari) in sintonia con l’associazione Slow Food;
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bottiglia: riconoscimento assegnato alle aziende che hanno espresso un’ottima qualità media su tutte le bottiglie prodotte; moneta: a quelle cantine che hanno presentato una gamma di etichette dall’ottimo rapporto tra la qualità e il prezzo. Vini: vino Slow (scritto in colore marrone): bottiglie che, oltre a una qualità organolettica elevata, riescono a condensare nel bicchiere valori di tipo territoriale, storico ed identitario; grande Vino (scritto in colore giallo): bottiglie dalle elevate qualità organolettiche; vino Quotidiano (scritto in colore azzurro): prodotti che costano fino a di 10 € in enoteca, dall’eccellente rapporto qualità-prezzo.
Fig. 4.9: La guida Slow Wine di Slow Food Fonte: conferenza di presentazione della guida Slow Wine il 20/10/2010 a Torino. Ma l’importanza di Slow Food non si esaurisce nelle suo lavoro, nei suoi laboratori o nelle pubblicazioni. Tale associazione, infatti, ha svolto un ruolo fondamentale nella creazione dei prossimi due attori che andremo a illustrare. Ora, di primo acchito, si potrebbe pensare che questa istituzione non sia importante per il settore vinicolo, qui considerato, forse perché non ci si rende ancora conto delle sue potenzialità e dell’impatto che ha a livello internazionale. È chiaro che Slow Food non aiuterà la piccola azienda o il marchio a farsi conoscere, la sua funzione è ancora più considerevole: si tratta di valorizzare e promuovere, prima ancora della singola realtà, il territorio, quindi il Piemonte in primis, poi le Langhe e tutti i prodotti che vi si trovano, ivi compreso il vino. I viticoltori devono prendere coscienza del fatto che, affinché la propria cantina abbia successo, deve prima essere debitamente promosso il contesto in cui essa opera, poi il prodotto, e solo per ultimo il nome del produttore.
4.2.1.2. La Banca del Vino L’agenzia di Pollenzo nasce nel 1835 come centro direzionale delle tenute sabaude e di sperimentazioni agro-viticole. Alla fine degli anni Novanta, su iniziativa dell’associazione Slow Food, il complesso architettonico viene adibito ad uso pubblico, allestendo al suo interno la Banca del Vino, l’Università di Scienze Gastronomiche, un albergo e un ristorante. Nel 1988 ha così avvio la Banca del Vino, un progetto esclusivo che si pone
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come obiettivo quello di diventare un punto di riferimento per la cultura enologica di qualità a livello internazionale. È una società cooperativa costituita allo scopo di costruire la memoria storica del vino italiano, selezionando, stoccando e conservando i migliori vini della penisola. Ma è anche un museo visitabile con percorsi di degustazione, assaggi, eventi e attività di promozione dell’immagine e della cultura enologica. Un patrimonio di oltre 100 mila bottiglie appartenenti a 300 delle migliori aziende vitivinicole nazionali che sarà reso disponibile negli anni dopo un accurato lavoro di selezione e affinamento. Il progetto della Banca del Vino nasce con l’intento di creare sinergie e nuove opportunità per il mondo del vino. A questo proposito, forte è il legame con i produttori che aderiscono al progetto, che si realizza attraverso iniziative promozionali di vario genere. La Banca del Vino condivide con Slow Food i propositi di crescita e riqualificazione dei territori in un’ottica di rafforzamento culturale e di sensibilizzazione del pubblico.
4.2.1.3. L’università di Scienze Gastronomiche L’Università di Scienze Gastronomiche possiede carattere di unicità non riscontrabile in altre regioni d’Italia e riveste, insieme a Slow Food e alla Banca del Vino, un ruolo essenziale per la promozione e la valorizzazione del territorio. L’Università di Scienze Gastronomiche nasce nel 2004 per volere di Slow Food e con la collaborazione della regione Piemonte (e della regione Emilia Romagna per la sede emiliana). L’obiettivo è di creare un centro internazionale di formazione e di ricerca, al servizio di chi opera per un’agricoltura rinnovata, per il mantenimento della biodiversità, per un rapporto organico tra gastronomia e scienze agrarie. Prende vita una nuova figura professionale, il gastronomo, capace di operare nella produzione, distribuzione, promozione e comunicazione dell’agroalimentare di qualità. L’importanza di quest’ente sta dunque nella creazione di nuovi professionisti esperti di marketing di prodotti d’eccellenza e divulgatori in campo enogastronomico. L’università, con oltre 40 Paesi rappresentati, si sta affermando sempre più come un punto di confluenza della gastronomia internazionale; ciò si traduce in ricchezza condivisa in termini di linguaggio e tradizioni, ma anche in ispirazione per una concezione degli studi di gastronomia davvero globale. Ecco allora il ruolo che quest’istituto di formazione ricopre: da un lato creare dei professionisti che possono, con la loro competenza, dare valore
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aggiunto alle aziende locali, dall’altro far si che laureati internazionali diffondano le conoscenze apprese sulla cucina e il territorio italiano nei loro Paesi di origine (non dimentichiamo, infatti, che questi studenti vivono nella Langa, imparano a conoscerne le caratteristiche geofisiche e gastronomiche).
4.2.1.4. Il consorzio di tutela “Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero” L’ultimo attore della filiera che si intende descrivere è il consorzio di tutela “Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero”, un’associazione volontaria interprofessionale di aziende produttrici di uve e/o vino dotata di personalità giuridica e legalmente riconosciuta. Nasce nel 1934 con il compito di definire il contesto produttivo (la zona di origine, le uve e le caratteristiche del vino), vigilare contro frodi, adulterazioni e concorrenza sleale, promuovere la conoscenza dei vini, oltre a difenderne nome e qualità nelle sedi più opportune. Le principali attività sono: tutela e registrazione dei marchi collettivi, attività di vigilanza sul mercato. Poiché negli ultimi anni i tentativi di plagio di nomi di vini tutelati sono notevolmente aumentati (ad esempio, è stato scoperto in Cile un vino denominato Albarolo, che nulla ha a che vedere né con il Barolo né con la città di Alba), il Consorzio ha avviato un percorso volto a creare un sistema di salvaguardia delle denominazioni anche a livello internazionale. La tappa conclusiva è la registrazione di Barolo e Barbaresco come marchi collettivi d’impresa (ad oggi, tuttavia, non ancora ottenuti). Il marchio collettivo ha la duplice natura di segno di identità e distinguibilità nonché di garanzia per il consumatore: attraverso un regolamento d’uso, infatti, i marchi assicurano l’origine, la natura e la qualità dei prodotti contrassegnati; attività di gestione delle denominazioni e delimitazione delle aree di produzione più ristrette rispetto alla Denominazione (i cosiddetti cru, di cui si fornirà una spiegazione nella parte dedicata alla Borgogna). I tecnici del Consorzio lavorano insieme ai Comuni, alla Provincia di Cuneo e alle Enoteche Regionali per giungere ad una definizione precisa e unanime delle aree di produzione all’interno dei territori di origine dei vini; attività di raccolta dati, prezzi, statistiche di mercato e attività di laboratorio analisi chimico-fisiche; attività di valorizzazione a favore delle denominazioni attraverso la collaborazione con periodici del settore e quotidiani e la realizzazione di
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materiale promozionale. Per fare un esempio recente, a settembre è stata organizzata a Londra la manifestazione “Highlights from Piedmont” in collaborazione con la rivista Decanter. L’evento ha visto confrontarsi gli operatori britannici del settore, i privati consumatori e gli appassionati di vino con i produttori piemontesi; attività di certificazione delle denominazioni. La certificazione deriva da indicazione Comunitarie ed è un procedimento pagato dai produttori e svolto da un Ente apposito che deve essere confermato ogni tre anni. Dall’elenco appare chiaro che le attività sono essenzialmente rivolte alla tutela delle denominazioni, mentre pressoché nulla è fatto per la promozione del territorio (a parte pochi e recenti eventi di valorizzazione come “Highlights from Piedmont” e i wine tasting rivolti alla stampa ed agli operatori di settore). Considerando quanto il mercato è saturo e i concorrenti aggressivi, l’unico modo per trasmettere ai consumatori l’identità del vino e la tradizione ad esso connessa è quello di promuovere prima di tutto il Piemonte, in seguito il vino e solo alla fine il singolo produttore. Ciò evidentemente non può essere fatto privatamente, ma ha bisogno del sostegno di enti pubblici e regionali che possiedano i mezzi finanziari necessari per una campagna che coinvolge tutta la regione e non solo la piccola azienda.
4.2.2. Punti di forza, fattori di debolezza e dinamiche progettuali delle Langhe Se si considera, geograficamente parlando, l’area del Piemonte sudoccidentale, si può affermare che il territorio dell’Albese (che comprende le Langhe) è quello che ha compiuto i passi più decisi nella direzione della qualità, a partire dalla filiera vitivinicola, che funge da settore di traino per gli altri. È anche quello che mostra il maggior grado di dinamismo economico, sia grazie alla presenza delle vivaci cittadine di Alba e Bra e al ricco tessuto ambientale e culturale delle Langhe, sia perché è sede di imprese multinazionali indigene (ricordiamo le già citate Ferrero e Miroglio). Quest’area ha registrato negli ultimi anni una forte crescita economica e una rinnovata immagine legata ai successi in campo enologico e alla scoperta turistica e gastronomica da parte di una clientela internazionale220. L’Albese ha infatti avviato ormai da tempo una consolidata traiettoria di sviluppo grazie ad una significativa integrazione intersettoriale (enogastronomia, cultura, turismo, eccetera), che favorisce cioè l’integrazione tra settori consentendole una proiezione internazionale, con successo più 220
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spiccato delle altre aree vitivinicole del Monferrato o dell’Alto Piemonte, così da richiamare l’attenzione di appassionati, turisti ed anche studiosi. Nonostante le positive performance economiche, certamente ridotte dalla crisi, anche in quest’area si possono evidenziare alcuni limiti che, nel lungo periodo, possono frenare le capacità di crescita. Anzitutto, il sistema di accoglienza dell’Albese è ancora insufficiente rispetto alle potenzialità e alle aspirazioni. Per potersi inserire appieno nei circuiti turistici di qualità, sono probabilmente necessari ulteriori investimenti sulla ricettività, sulla valorizzazione dei beni storico-culturali e paesaggistici, sull’accessibilità e sull’attività di degustazione in cantina. Spesso, inoltre, il livello di prosperità e successo economico degli ultimi decenni è stato raggiunto da azioni in gran parte autonome. Ciò, aggiunto all’aumento di concorrenza da parte di altri territori meno individualisti, sembra suggerire l’opportunità di costruire sinergie di più ampio respiro, in rapporto alle altre specializzazioni. Per dimostrare che si intravedono segnali di mutamento, si possono citare due progetti; uno appena concluso e un altro in corso. A metà settembre, in concomitanza della sagra del paese, è stato inaugurato il Museo del Vino Barolo (www.wimubarolo.it) con sede nel Castello Falletti del paese Barolo. Non si tratta del classico museo del vino con botti e torchi, ma nasce da un’idea completamente diversa di creare un percorso emozionale multisensoriale, un percorso che intreccia dimensioni scientifiche e poetiche, guidando il visitatore alla scoperta di questa realtà. Per crearlo è stato, infatti, chiamato un grande scenografo svizzero, François Confino, famoso nel modo per gli allestimenti museali. Il progetto mira a consentire a una collettività di rapportarsi con i valori culturali espressi dal proprio patrimonio storico, artistico e antropologico; è in grado di svolgere le funzioni di conservazione, fruizione e valorizzazione di un bene culturale; può infine, diventare un polo attrattivo di forte suggestione che spinge il consumatore, che oggi non si accontenta semplicemente di bere il prodotto, a conoscere la storia, le tradizioni, i prodotti del luogo, trasformandolo in turista del vino. L’idea di un museo di questo tipo è presente, già da qualche anno, in Borgogna a Nuits-Saint-Georges, in Côte d’Or. “L’imaginarium” (questo il nome del museo) è un museo del vino esperienziale, interattivo e ludico dedicato ai vini effervescenti che riscuote grande successo tra i turisti. Finalmente questa idea è stata replicata anche in Italia.
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Per quanto riguarda il progetto in corso, si tratta della candidatura UNESCO (“Paesaggio vitivinicolo Langhe, Roero e Monferrato”), da un lato, allo scopo di complessificare l’attrattività turistica, la qualità residenziale e la tutela del paesaggio, dall’altro sembra indicare la consapevolezza della necessità di rafforzare le reti di relazione con l’esterno, di immaginare il futuro dell’Albese all’interno di un sistema territoriale più ampio, così da superare il limite sopra esposto. Si tratta di un’opportunità fondamentale per promuovere un’identità e un’immagine condivisa in aree che ancora oggi paiono troppo frammentate e scarsamente integrate221. In questa prima parte del quarto capitolo è stato fornito un quadro dettagliato del Piemonte e poi di una sua area specifica, le Langhe, individuando gli attori che vi giocano ruoli più o meno legati direttamente al prodotto vino, ma che rivestono comunque grande importanza per le piccole imprese del territorio che vogliono rimanere competitive sul mercato sia nazionale sia internazionale. Nella seconda parte si metteranno in luce le caratteristiche di una regione francese, la Borgogna, anch’essa, come il Piemonte, di forte vocazione vitivinicola, profondamente legata alle origini e, attraverso un suo territorio specifico, la Côte d’Or, si evidenzieranno i tratti salienti delle aziende locali, del territorio e degli attori che vi operano.
4.3. La vitivinicoltura in Borgogna La Borgogna è una regione della Francia nordoccidentale che si trova subito a sud di Parigi e della Champagne. È composta da quattro dipartimenti: la Yonne, la Saône-et-Loire, la Nièvre, e la Côte d’Or, ma solo quest’ultima sarà approfondita nella ricerca. Questa regione francese è conosciuta soprattutto per i vini pregiati e di qualità. Il vigneto della Borgogna si estende per 28.000 ettari (il 3% del vigneto francese) con una produzione di 1.450.000 milioni di ettolitri, ossia quasi 200 milioni di bottiglie222. Il fatturato totale nel 2008 è stato di un miliardo e mezzo di euro. Il cuore della vitivinicoltura in Borgogna risiede in un nucleo di piccoli produttori: circa 4000 viticoltori, 300 negozianti e 24 cantine cooperative (si approfondiranno questi attori in dettaglio nel paragrafo 4.3.2. relativo agli attori della filiera). La superficie dei terreni vitivinicoli è, per la maggior parte, inferiore a 8 ettari e l’offerta sul mercato di ogni singola cantina resta, di conseguenza, Ibid. www.vins-bourgogne.fr
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quantitativamente limitato. Per questo motivo, la concorrenza è molto accesa tra i negozianti, che cercano di adattarsi alla domanda internazionale, e i viticoltori, per i quali la denominazione resta il solo riferimento della produzione. Questo porta a un degradamento dell’immagine della professione che non riesce a rispondere alla nuova domanda dei consumatori223. La commercializzazione dei vini di Borgogna (meno dell’8% delle esportazioni totali della regione) ha generato nel 2008 un fatturato di circa un miliardo e mezzo di euro (3% del PIL regionale), nonostante la crisi abbia causato una riduzione delle esportazioni del 28% rispetto al 2007. Circa metà della produzione è esportata nei principali mercati della regione, che sono, il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Giappone. In particolare, la vendita di vini bianchi rappresenta il 61% delle vendite in valore e il 75% in volume, mentre quella di vini rossi ha registrato negli ultimi cinque anni una diminuzione nelle vendite, con il 40% in volume e il 20% in valore. I principali punti di forza del settore vitivinicolo di Borgogna sono: la ricerca costante di valorizzazione, che ha permesso una forte notorietà e un’immagine di alta gamma che trasmette autenticità, qualità, convivialità; un’offerta diversificata; una cultura del terroir e della sua preservazione; una molteplicità di operatori di diversa dimensione (viticoltori, negozianti, cooperative); una tradizione votata all’esportazione (metà dei volumi prodotti vanno all’estero) e una stretta collaborazione tra le diverse istituzioni (consorzi, camere di commercio, istituti scientifici di ricerca). Per concludere il quadro e avere un’idea un po’ più precisa di come sia organizzata la viticoltura, si può aggiungere che la coltura della Borgogna è monovitigno, a differenza, ad esempio, di quanto avviene per i Bordeaux, che sono un misto di più uve. I due principali vitigni sono, per il rosso, il Pinot Noir e, meno diffuso, il Gamay; per il bianco, lo Chardonnay e l’Aligoté. Inoltre, il vigneto della Borgogna si divide in cinque macro-aree di produzione rappresentate, da nord a sud, in figura 4.10.
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Prefettura della regione di Borgogna (a c. di), Les vins de Burgogne à l’international, Dijon, 2006. (Disponibile online sul sito: www.bourgogne.pref.gouv.fr).
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Fig. 4.10: Le regioni vitivinicole della Borgogna Fonte: BIVB (Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne). Prima di descrivere gli attori che fanno parte della filiera vitivinicola, occorre precisare meglio le denominazioni, avendo ogni regione francese le sue peculiarità. Ciò può aiutare altresì a comprendere le strategie delle realtà aziendali che si incontreranno nel quinto capitolo.
4.3.1 La piramide delle denominazioni in Borgogna Come è già accennato nel terzo capitolo, in Francia le denominazioni d’origine (AOC224) sono molto diverse da quelle italiane. In particolare, la classificazione dei vini in Borgogna è estremamente precisa e si articola su una struttura di tipo piramidale (figura 4.11). L’assoluta peculiarità e la riconosciuta importanza di alcuni vigneti nella produzione dei vini di qualità era già nota, ed in qualche modo codificata, sin dalla prima metà del 1700. Nel 1930, con l’introduzione dell’Appellation Controlée, si giunge all’attuale schema qualitativo, 224
Appellation d’Origine Controlée (denominazione di origine controllata, DOC)
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che, ulteriormente particolareggiato negli anni seguenti, fa del sistema di appellation della Borgogna uno dei più precisi al mondo, basato sul potenziale qualitativo di ogni singola parcella di terreno225. La struttura è definita su quattro livelli, il più basso dei quali è riservato alla semplice denominazione “Bourgogne”, che testimonia genericamente l’origine di produzione all’interno della regione. Crescendo si passa all’appellation “Village”, ovvero zone di provenienza delle uve comprese all’interno di comuni o località precise, che si distinguono per potenziali qualitativi più alti. Le due classi successive sono quelle riservate ai singoli vigneti di qualità superiore, storicamente riconosciuti come culla dei grandi vini di Borgogna, che, insieme, rappresentano meno del 1,5% della produzione totale. La prima è quella dei “Premier Cru”, seguita da quella dei “Grand Cru”, pregio riservato ad una ristretta elite di vigneti che da sempre offrono vini dalle qualità eccezionali.
Fig. 4.11: La Piramide delle denominazioni in Borgogna Fonte: BIVB (Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne) Il termine cru, allo stesso modo di terroir (vedi cap. 2), è un francesismo di difficile traduzione a causa del suo significato complesso. Comunemente, il termine sta ad indicare un singolo vigneto con proprie caratteristiche particolari, ma può cambiare a seconda della regione vitivinicola. Nel caso della Borgogna, il vino realizzato con un solo cru è prodotto con uve riconducibili ad un preciso vigneto dal quale prende il nome e che si trova scritto sull’etichetta.
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Zola R., Favaro C., Vini e percorsi di Borgogna, ArteVino, Milano, 2007.
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La differenza principale con il modello italiano riguarda la stretta identificazione delle AOC con il nome del territorio da cui nasce il vino, piuttosto che con la varietà di uve utilizzate per farlo. Gli unici due vini della Langa che prendono il nome dal toponimo del territorio da cui hanno origine piuttosto che dal vitigno sono il Barolo e il Barbaresco. Infatti, Nebbiolo, Barbera, Dolcetto, sono tutti nomi di vini e di vitigni. In Borgogna il riferimento principale non è l’azienda, il marchio, o il vitigno, ma il terroir e il nome del villaggio, che donano a ciascun cru la sua identità storica e durevole. Con più di 100 appellation, la Borgogna costituisce un caso estremo di utilizzo delle denominazioni come strumento di regolamentazione. La strategia di valorizzazione dell’AOC è basata sulla differenziazione del prodotto e sulla gestione della rarità. La combinazione della delimitazione dell’area di produzione (terroir) e delle restrizioni imposte dal disciplinare dà al prodotto un forte valore estrinseco e fa del prezzo una variabile secondaria nella decisione di acquisto226. Questo modello, tuttavia, ha anche dei punti di debolezza; ad esempio, la moltiplicazione delle appellation risulta in contrasto col principio di rarità su cui tale sistema è fondato e rende il prodotto poco leggibile, senza garantire un livello di qualità adeguato. Inoltre, il modello delle AOC sembra aver riscontrato dei limiti, da qualche anno, in concomitanza dell’affermazione dei vini del Nuovo Mondo. Infatti, è già stato osservato che i modelli di questi nuovi Paesi produttori è completamente diverso, poiché punta su una produzione di massa di vini standardizzati, anch’essi destinati a un mercato di massa. Ciò comporta due cambiamenti. A monte, l’integrazione di una parte dell’approvvigionamento porta a una dissociazione del prodotto vino dalla sua origine, diventando, l’uva, una materia prima indifferenziata. A valle, la necessità di assicurare al prodotto una diffusione maggiore sui mercati mondiali, suppone di dover anticipare le evoluzioni del mercato e quindi comporta lo sviluppo di funzioni di marketing. Secondo questo sistema, nella catena del valore la strategia di valorizzazione non passa più dal riferimento all’origine, ma dal riferimento al vitigno e alla messa in atto di procedimenti scientifici di trasformazione della materia prima per ottenere un vino dalla qualità costante, qualunque sia l’origine dell’uva e le condizioni climatiche. Salta subito all’occhio la diversità col modello italiano e francese, dove invece la qualità non è mai costante, dipendendo sia dall’unità geografica e climatica, sia dall’esperienza dell’uomo. I produttori con cui intervistati sembrava si sforzassero di negare la concorrenza di questi nuovi produttori, ma la realtà è che stanno diventando particolarmente agguerriti e c’è da chiedersi se il modello delle AOC/ DOC sia davvero quello giusto, in futuro, per competere sul mercato globale. Brouard J., Ditter J. G., “Territoire et marketing du vin: une approche institutionnelle", actes de 12èmes Journées de Recherche en Marketing de Bourgogne, Dijon, 2007.
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4.3.2. Lo stato della filiera e i suoi attori La nozione di filiera è al centro dell’organizzazione della produzione nel modello francese. L’analisi delle filiere è quindi utilizzato per identificare gli operatori, i prodotti, le operazioni e i meccanismi che regolano le relazioni tra gli attori. Gli attori principali della filiera vitivinicola francese si possono dividere in tre grandi gruppi. Innanzitutto, ci sono, come in Italia, i produttori che sono allo stesso tempo viticoltori, vinificatori e commercianti. Possono sia vinificare tutte le uve, sia destinarne una parte alle cooperative o ai negozianti-vinificatori. Nel 2008, le cooperative (o cantine sociali) in Francia sono ammontate a 591, di cui solo 23 in Borgogna, mentre quasi la metà si trova nella regione Languedoc-Roussillon. Il loro numero continua a diminuire a causa di numerose fusioni con cooperative vicine (634 nel 2005, 617 nel 2006)227. Una categoria molto importante in Francia, forse non altrettanto in Italia, è quella dei negozianti (négociant) che possono sia aver direttamente a che fare col prodotto attraverso la fase dell’imbottigliamento o del filtraggio, sia essere dei semplici rivenditori. Una sotto-categoria particolare di negozianti sono i cosiddetti negozianti-vinificatori, il cui numero è in costante aumento (da 685 nel 2005 sono diventati 760 nel 2008) sia perché molti negozianti vogliono inserire la vinificazione nella loro azienda in modo da gestire al meglio la qualità e diventare essi stessi vinificatori, sia perché alcuni viticoltori non hanno abbastanza uva o vogliono diversificare la loro offerta commerciale e acquistano uva all’esterno. Nel capitolo dedicato ai casi aziendali, si è deciso di inserire anche un’azienda di questo tipo per capirne le caratteristiche e il funzionamento. In Borgogna ci sono 250 maisons de négoce (possono avvicinarsi, come concetto, alle nostre enoteche, benché quest’ultime si occupino solo della funzione di vendita, mentre quelle francesi effettuano quasi sempre parte del processo di trasformazione dell’uva e tutti i passaggi che ne derivano) che commercializzano il 58% della produzione di vini regionali. Il 16% è commercializzato dalle cooperative, mentre il restante 26% è distribuito dalle aziende vitivinicole228.
Chatelet A., La filière viti-vinicole, IUVV, Dijon, 2009. (Disponibile online sul sito: http:// iuvv.u-bourgogne.fr/images/iuvv/pdf/Reglementation_2008/dno_09_ch1_filierevins.pdf). 228 BIVB, Eléments clés de la Bourgogne viticole. (Disponibile online sul sito: www.vinsbourgogne.fr) 227
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4.3.3. Le Interprofessions Una interprofession può essere paragonata ad un consorzio, in quanto si tratta di un organismo privato, riconosciuto dallo Stato, che raggruppa gli attori a monte e a valle di una stessa filiera, con l’obiettivo di elaborare le politiche, garantire l’uguaglianza tra i membri e difenderne gli interessi, permettere lo sviluppo di performance della filiera. Per un corretto funzionamento, l’interprofession riposa su tre principi fondamentali che hanno lo scopo di assicurarne la democrazia. Il primo, la rappresentatività, è la conditio sine qua non della legittimità delle interprofessions. In teoria, tutti i mestieri della filiera devono poter essere rappresentati per assicurare la coerenza dell’istituzione. Il secondo e il terzo principio sono la parità, cioè la volontà di equilibrare le forze tra le professioni in modo da evitare il prevalere di una sull’altra, e l’unanimità, senza la quale nessun accordo può essere validato. I comitati interprofessionali sono 19 e corrispondono uno per ogni regione vitivinicola francese. Accanto ad essi ci sono sette istituzioni che raggruppano le diverse professioni a livello nazionale. Tra i comitati interprofessionali regionali c’è il Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (B.I.V.B.), che ha sede a Beaune, seconda città della Borgogna dopo il capoluogo, Digione.
4.3.3.1. Il Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (B.I.V.B.) Il Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne ha sede a Beaune, cittadina della Côte d’Or. Questo consorzio ha origine da una associazione professionale costituita nel 1901, e riunisce produttori, tecnici, negozianti, sotto lo stesso tetto. Dal 1975 è divenuto un organismo riconosciuto dallo Stato e sottoposto al suo controllo economico e finanziario. Le sue attività sono distribuite su tre aree: Il polo Qualità & Tecnologia contribuisce a migliorare la qualità dei vini di Borgogna sui mercati grazie ad un osservatorio globale di qualità. Inoltre, decide e gestisce le attività di ricerca e sviluppo più pertinenti per la filiera vitivinicola regionale e mette a disposizione dei professionisti e degli strumenti di aiuto all’elaborazione dei vini; Il polo Mercati & Sviluppo definisce accuratamente i mercati della Borgogna, i circuiti e i distributori per affinare le strategie di comunicazione
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del consorzio e aiutare le imprese. Inoltre, segue il mercato regionale e della filiera; Il polo Marketing & Comunicazione assicura la promozione dei vini in Francia e all’estero, accompagna le imprese della filiera nella commercializzazione dei propri vini, informa i consumatori per aiutarli a conoscere a apprezzare meglio i vini della Borgogna. Scopo del BIVB è di rappresentare e difendere gli interessi dei viticoltori e dei negozianti della Borgogna e di definire e sostenere le linee di azione principali e la politica dei vini di Borgogna, negli aspetti tecnici, economici e di comunicazione. In Italia, a tal proposito, ci sarebbe molto da imparare dai francesi, che hanno inteso promuovere, sotto una medesima bandiera, piani di comunicazione di ampio respiro ed efficacia internazionale. Il tutto con risultati concreti e tangibili. Ciò è reso possibile anche da un budget importante (10 milioni di euro nel 2007) ottenuto dai contributi obbligatori che tutti i produttori, qualora intendano presentarsi al mercato sotto la denominazione “Borgogna”, sono tenuti a versare. Questo innesca un circolo virtuoso di controllo, stimolo ed impiego dei servizi ideati, gestiti e diffusi dal BIVB, da parte dei produttori e non solo. Il Bureau Interprofessionnel dei Vini di Borgogna, ad un primo livello di analisi, può sembrare simile ai consorzi italiani, ma si vedrà nei paragrafi 4.5, 5.8 e soprattutto nel 5.14, che se ne distacca per alcuni elementi fondamentali.
4.4. Il “made in Côte d’Or” La Côte d’Or è sicuramente il dipartimento più famoso della Borgogna, reso celebre dalla zona di produzione vinicola che si estende a sud di Digione come una lingua di terra, punteggiando vigneti e colline con piccole cittadine e paesi rimasti fuori dal correre del tempo.
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Fig. 4.12: I vigneti della Côte d’Or Fonte: BIVB (Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne), dati 2008. La Côte d’Or dei vini è divisa in due importanti aree, la Côte de Nuits e la Côte de Beaune che prendono entrambe il nome dalle due principali cittadine che vi sorgono. La superficie della prima côte è di 3.700 ettari, corrispondenti al 13% di quella regionale, vengono prodotti principalmente rossi (89%) e 23 sono dei Grands crus. La Côte de Beaune corrisponde al 22% della superficie regionale con 6.000 ettari e una produzione di vini rossi per il 57%. In Côte d’Or la localizzazione dei vigneti sembra pensata esattamente per andare incontro alle esigenze del turista. Una strada statale divide longitudinalmente questa striscia di terra creando una sorta di spartiacque (che, a ben vedere, calza a pennello come metafora, trattandosi di un vero e proprio mare di vigne): da un lato, ad ovest, le zone collinari delle Hautes Côtes di Beaune e di Nuits e, più sotto, i grandi vigneti da cui hanno origine i Grands Cru e i Premiers Cru, dall’altro, ad est, una zona pianeggiante con vigneti di minor importanza (le appellations regionales). Questa strada, detta anche dei Gran Cru, si insinua nel cuore della Côte d’Or, percorre le vie interne dei paesi e a tratti si affaccia sui vigneti. Quasi tutte le aziende vinicole che operano su questo territorio si trovano lungo la statale, in questo modo coloro che vogliono gustare i prodotti non hanno che da fermarsi e, cantina per cantina, assaporare le diversità di ciascun vino.
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Fig. 4.13: La disposizione delle AOC (Appellation d’Origine Controlée) Fonte: BIVB (Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne). A differenza della Côte d’Or, dove tutte le aziende sono dislocate sulla statale ed aprono le loro cantine a chiunque voglia conoscere il loro vino, nelle Langhe sono fondamentalmente due le difficoltà a cui un turista va incontro. La prima è la quasi totale mancanza di una cultura della “degustazione in cantina”, che, nonostante negli ultimi anni si sia sviluppata, deve ancora consolidarsi. Molte aziende, infatti, sono chiuse, inaccessibili, ma è vero che vi sono anche alcune cantine più propense ad accogliere i turisti e che si sono di conseguenza attrezzate. Quasi tutte le aziende intervistate possiedono uno spazio adibito alla degustazione, una di esse, in particolare, ne ha uno nuovissimo, molto moderno e curato, dove però nessuno sembra desideroso di stappare una bottiglia. In Côte d’Or, invece, i vigneron mettono a loro agio il turista, che magari non sempre osa chiedere di assaggiare il vino, non si fanno nessuno scrupolo ad aprire, loro stessi, bottiglie anche di prezzo elevato, perché sono felici di far apprezzare il loro vino, ne vanno fieri, lo raccontano al consumatore. Con questo non si vuole dire che nelle Langhe non si è orgogliosi del proprio vino, solo non lo si dimostra sempre in maniera efficace, anzi l’immagine che traspare è quella di diffidenza e segretezza. Questo non giova al turismo, soprattutto al turismo del vino, così decantato negli ultimi anni.
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La seconda difficoltà a cui il potenziale cliente va incontro e che ne ostacola ulteriormente l’accesso alla proprietà vinicola, è la mancanza di una strada di collegamento come quella che taglia la Côte d’Or. Ciò è dovuto alla diversa conformazione del territorio, che, se nel caso francese è pianeggiante e permette quindi la costruzione di un’unica via rettilinea, nel caso italiano la presenza incessante di colli sulla cui cima sorge un paese sempre diverso, ne ha impedito l’esistenza. Proprio perché questo è un problema per sua natura insormontabile, l’unico modo che le aziende hanno di offrire al turista occasioni di consumo e di contatto con la propria realtà, di aumentare la visibilità e di conseguenza, la vendita diretta, è quello di aprire le porte delle loro aziende, prendendo spunto dai produttori che già lo stanno facendo, e permettere a tutti di conoscere le aziende vitivinicole della Langa. Per molte piccole cantine della Côte d’Or, come una di quelle intervistate, che non hanno i mezzi necessari per esportare all’estero o esportano in minima parte, la vendita diretta rappresenta una fetta importante del loro fatturato e dipende in misura non trascurabile dal grado di disponibilità e di accoglienza che sanno offrire. Qui, infatti, la competizione con le altre aziende locali è più visibile, trovandosi tutte sulla stessa strada. Il produttore deve quindi saper attirare il turista e attrarlo nella sua azienda. Gli attori della filiera della Côte d’Or che, in un certo senso, aiutano le aziende francesi nella promozione dei vini e del territorio, sono, oltre al BIVB, due organismi tra loro molto diversi: la confrérie des Chevaliers du Tastevin e l’Institut Universitaire de la Vigne et du Vin (I.U.V.V.).
4.4.1. Alcuni attori del territorio: la confrérie des Chevaliers du Tastevin e l’Institut Universitaire de la Vigne et du Vin (I.U.V.V.) Due istituzioni opposte: da una parte una confraternita, i cui membri sono accuratamente selezionati per promuovere, attraverso cene e manifestazioni, l’immagine e l’enogastronomia della Borgogna in tutto il mondo; dall’altra un istituto di formazione, il cui compito è di creare professionisti in ambito enologico. Entrambi, legati al vino, alla terra, alla tradizione della Borgogna. Nata nel 1934, la Confrérie des Chevaliers du Tastevin è una confraternita dedicata al vino il cui obiettivo è quello di promuovere a livello internazionale i prestigiosi vini e la gastronomia della Borgogna. Dal 1950, organizza due volte l’anno una seduta di tastevinage (degustazione) con una giuria composta da 250 degustatori internazionali d’elite, rinomati produttori e negozianti, enologi,
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ristoratori e alti dignitari, il cui compito è di selezionare, tra 700 bottiglie, i migliori grands cru e premiers cru presentati in forma anonima. Inoltre, una volta al mese la confrérie assicura la promozione internazionale delle tradizioni, dei vini e della gastronomia di Borgogna attraverso un banchetto durante il quale vengono anche intronizzati nuovi membri. Tutti questi eventi hanno sede nel castello di Clos de Vougeut, monumento storico visitabile immerso nei vigneti. La confrérie non produce né vende vino e il vigneto di Clos de Vougeut è diviso tra ottanta produttori. L’Institut Universitaire de la Vigne et du Vin è un distaccamento dell’università di Borgogna creato nel 1992 dalla volontà dello stato e del BIVB Lo scopo di questo istituto è duplice: formare gli studenti, sia dal punto di vista tecnico ed enologico, sia dal punto di vista del marketing e della comunicazione del vino; accogliere un’equipe di ricercatori per la difesa della vigna, per l’analisi sensoriale del vino e per il trasferimento di tecnologie in seno alla filiera vitivinicola. L’università, inoltre, è l’unica al mondo ad ospitare una cattedra UNESCO di “cultura e tradizioni del vino”, costituita da una rete internazionale di partner del mondo accademico, culturale, di professionisti, di imprese e di enti statali. Il progetto s’iscrive in un’ottica di sviluppo e di diffusione dei saperi e delle tradizioni che vanno dalla vigna al vino e dovrebbe permettere di comprendere meglio il vino quale veicolo di cultura e di civilizzazione. Fino al 2006, la vigna e il vino non erano stati inseriti in questi programmi dell’UNESCO, ed è importante che la decisione della sede sia ricaduta sulla Borgogna, luogo in cui la diversità dei terreni e la ricchezza del patrimonio sono universalmente riconosciuti. È interessante sottolineare, inoltre, che la rete internazionale riguarda decine di Paese di “antichi” e di “nuovi” vigneti di tutti i continenti. Questo incoraggia gli studenti a una mobilità internazionale e favorisce lo scambio di conoscenze tra Stati diversi anche grazie all’organizzazione di convegni, giornate di studio e pubblicazioni. Allo stesso modo in cui si ricerca il ruolo dell’eredità culturale nella valorizzazione e nella produzione degli “antichi” vigneti, si analizzano i motivi dello sviluppo dei “nuovi” vigneti comprendendo le evoluzioni del consumo di vino.
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4.5. Il modello AO (Appellation d’Origine) e DO (Denominazione d’Origine) a confronto : quale governance adottare? È opportuno concludere questo capitolo riprendendo alcuni elementi emersi nei vari paragrafi, al fine di delineare un quadro complessivo con le scelte che Italia e Francia compiono per rimanere competitive nell’attuale contesto economico. Borgogna e Piemonte, e in senso più ampio Francia e Italia, hanno un approccio alla competitività piuttosto affine, data la loro somiglianza riguardante la produzione di vini di alta qualità, attraverso cui cercano di trasmettere la loro storia e la loro tradizione vitivinicola secolare. Entrambe hanno portato avanti, nel corso degli anni, un modello basato sulla valorizzazione delle denominazioni come garanzia di qualità e come strumento di tracciabilità di filiera che conferisce al prodotto una precisa identità territoriale229. Tuttavia, da qualche anno, sui mercati internazionali hanno cominciato a confluire i prodotti vitivinicoli del “Nuovo Mondo”, di buona qualità e a prezzi competitivi. La concorrenza si è inasprita e gli imprenditori europei sono chiamati oggi a fronteggiarla con strategie efficaci, volte a rafforzare la qualità e l’immagine dei propri prodotti, risultando molto difficile e forse sbagliato tentare di competere sui prezzi. Quindi, in questo quadro di mercato dal futuro incerto e sempre più competitivo, il valore aggiunto delle denominazioni di origine (AOC in Francia) rappresenta un vantaggio competitivo che non può essere depauperato. Se, da un lato, a livello mondiale un vino a Denominazione d’Origine (d’ora in avanti DO) fino ad oggi è stato associato ad un sistema di qualità, dall’altro, in una prospettiva futura, ciò deve essere garantito migliorando le modalità di segnalazione della qualità al consumatore, poiché il comportamento di consumo si sta spostando verso un consumo occasionale, più di qualità che di quantità230. L’assetto istituzionale del settore vitivinicolo in Italia presenta alcune differenze rispetto agli altri paesi europei ed in particolare nei confronti della Corigliano A.M., Viganò G., Turisti per gusto. Enogastronomia, territorio, sostenibilità, DeAgostini, Novara, 2004. 230 Malorgio G. e Grazia C., 2006, “Politiche dell’offerta e organizzazione economica del sistema DOC in Italia: il caso del Consorzio Chianti Classico”, in I Georgofili. Atti dell’Accademia dei Georgofili, vol. 2, Firenze, 2005, pp. 63-88. 229
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Francia, principale paese europeo per la produzione di vini DO. La Francia, come noto, vanta una tradizione nella produzione vitivinicola DO che ha pochi eguali in Europa; infatti, la disciplina nazionale delle denominazioni di origine dei vini è di molti decenni antecedente l’emanazione dei regolamenti comunitari relativi all’organizzazione del mercato vitivinicolo. Le procedure per l’attribuzione delle denominazioni e la conseguente attività di controllo (ispezioni, prelievi, controllo documentale) fanno capo rispettivamente a due istituzioni pubbliche centralizzate, che rappresentano gli interlocutori di riferimento dei consorzi di produttori: VINIFLHOR (Office National Interprofessionel des Fruits, des Legumes, des Vins et de l’Horticulture) e INAO (Institut National de l’Origine et de la Qualité). Ai Consorzi di tutela è lasciata solo l’iniziativa di proporre i disciplinari di produzione o di richiederne la loro modifica. In Italia il riconoscimento di una DO di una produzione vitivinicola avviene da parte del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (MiPAF), Una volta ottenuto il riconoscimento della DO, la fasi salienti in cui intervengono soggetti pubblici o privati esterni all’azienda agricola, sono essenzialmente quattro231. Il primo passo è la tenuta degli albi e degli elenchi dei produttori di vino DO; i conduttori di vigneti che vogliono produrre vini DO devono iscrivere le superfici in questione ai corrispondenti albi dei vigneti. Secondo, le analisi chimico-fisiche ed organolettica sono effettuate da commissioni di degustazione operanti presso le Camere di Commercio, le quali rilasciano la relativa certificazione da apporre sui contenitori del vino. Terzo, le attività di controllo su tutte le fasi di produzione dell’uva e della sua trasformazione in vino fino alla presentazione al consumo dei vini DO, dal 2001 è effettuata dai consorzi di tutela. Da ultimo, la promozione commerciale e le funzioni di R&S vengono svolte da una moltitudine di soggetti di natura pubblica/privata, che solo recentemente hanno intrapreso un percorso legislativo tendente ad un maggior coordinamento e razionalizzazione delle attività ai livelli regionali. Nel caso del Piemonte, le risorse sono stanziate da una moltitudine di enti tra cui: Regione Piemonte, Unioncamere Piemonte, Istituto Commercio Estero (ICE), Ministero per il commercio internazionale, Ente Nazionale Italiano per il Turismo (ENIT), che vanno ad integrarsi, con le risorse di altri soggetti pubblici, dislocati a livello subregionale (Province, Agenzie per il turismo, etc.) o con soggetti privati (sistema delle istituzioni bancarie e delle imprese). Pur di fronte ad una progressiva razionalizzazione degli interventi, la molteplicità 231
Randelli F., Felici F., “I soggetti della filiera vini a denominazione di origine in Italia. Il caso del Chianti Classico”, in Territoires du vin (rivista on-line), 2009.
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dei promotori del settore vitivinicolo e la vasta diffusione delle aziende sul territorio, portano a favorire, all’interno dei singoli programmi promozionali, delle iniziative autonome di cui abbiamo già discusso. Come forse si sarà intuito, ciò che distingue in maniera marcata il sistema italiano da quello francese è il ruolo che hanno assunto, nel corso del tempo, i consorzi di tutela. Rispetto alla Francia, in cui vige un sistema di vigilanza e controllo sull’attività dei produttori vitivinicoli che potremmo definire ipercentralizzato232, in Italia, il MiPAF ha deciso di decentralizzare l’attività di controllo affidandola direttamente ai soggetti collettivi più importanti nella filiera vitivinicola italiana: i consorzi di tutela. Essi hanno un forte radicamento sul territorio e sono già capaci di aggregare, coordinare, vigilare, tutelare, valorizzare e promuovere ed oggi incaricati di controllare tutta la fase produttiva. Questo processo di decentralizzazione delle competenze, se da un lato ha il pregio di riconoscere e dare voce ed autonomia ai soggetti che storicamente operano sul territorio, dall’altro può comportare dei rischi derivanti dalla frammentazione dei soggetti operanti e quindi delle decisioni. La domanda a questo punto è: qual è la governance più appropriata per far funzionare al meglio il sistema dei controlli di qualità dei vini DO? Un sistema centralizzato come quello francese oppure uno decentralizzato come quello italiano? Naturalmente è difficile rispondere, perché ogni sistema di controllo deve tener conto delle condizioni del territorio su cui opera, dei mezzi a disposizione, senza dimenticare le differenze a livello di Sistema Paese. La decisione del MiPAF di decentralizzare a favore dei consorzi la funzione di controllo deriva probabilmente da due considerazioni: la prima riguarda il forte radicamento della produzione vitivinicola italiana e il ruolo che essi svolgono da tempo nei principali territori di produzione di qualità; la seconda è una motivazione più materiale, e deriva dalla mancanza di una forte struttura centrale di controllo già radicata sul territorio. In Francia, invece, gli istituti nazionali sono molto più forti, anche perché hanno alle spalle più esperienza degli organismi nazionali italiani e hanno avuto più tempo per accentrare i compiti su di sé. Il BIVB, ad esempio, è sì un istituto molto importante per la Borgogna, ma solo per quanto riguarda le attività di ricerca e promozione.
232
Tanguy H. e Gaucher S., “Jeux économiques de la gestion des AOC régionales vitivinicoles et dispositifs de régulation du marché amont: les cas de Bordeaux et de Champagne", in I Georgofili. Atti dell’Accademia dei Georgofili, vol. 2, Firenze, 2005, pp. 15-62.
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PIEMONTE
BORGOGNA
Modello
Decentralizzazione del sistema di controllo delle denominazioni
Ipercentralizzazione del sistema di controllo delle denominazioni
Elementi positivi
Autonomia soggetti operanti sul territorio
Centralizzazione e coerenza
Elementi negativi
Rischio frammentazione soggetti e decisioni
Rischio abusi di potere
Specificità
Maggior potere di controllo ai consorzi
Posizione forte degli istituti nazionali
Aumentare il controllo e la vigilanza delle denominazioni decentrando i compiti agli enti pubblici locali
Accentrare tutti i compiti di tutela delle denominazioni in mano a due istituti nazionali (VINIFLHOR e INAO) attuando una politica comune all’intera Francia
Strategie
Tab. 4.2: Sintesi dei modelli italiano e francese basati sulla valorizzazione delle denominazioni
4.6. Considerazioni conclusive Per concludere, l’ascesa di nuovi paesi, di origine extra-europea, sempre più competitivi soprattutto grazie ai prezzi bassi e ai buoni standard di qualità dei loro prodotti, ha aumentato la concorrenza sui mercati internazionali. I produttori di vino europei devono controbattere la concorrenza puntando sull’immagine di qualità associata generalmente ai loro vini, non potendo competere sul lato dei prezzi. I produttori intervistati di entrambi i Paesi oggetto di studio non sembrano preoccupati per questi nuovi competitor, anche se il loro disinteressamento non è stato sempre convincente. Prima si prende coscienza che i player del Nuovo Mondo sono, effettivamente, un problema, prima si riesce ad intervenire e adottare politiche e strategie in grado di contrastarli. In quest’ottica, le Denominazioni d’Origine/Appellations d’Origine (d’ora in poi DO/AO) possono essere uno strumento per rafforzare l’efficacia del segnale di qualità ad essi associato, tanto più alla luce dell’evoluzione del comportamento
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di consumo verso un consumo più di qualità che di quantità. L’organizzazione economica e i meccanismi di regolazione del sistema delle DO/AO risulta alquanto complesso e da più parti si evidenzia la necessità di una verifica dell’efficacia della strategia dei vini a DO/AO come strumento di segnalazione della qualità al consumatore233. Sarebbe, quindi, necessario rafforzare il sistema di segnalazione della qualità garantendo al consumatore la tracciabilità dei prodotti dalla cantina alla vendita e un sistema di controlli severo e imparziale In Italia, per rispondere a queste esigenze si è deciso di ridistribuire in parte i poteri nel settore vitivinicolo, decentrando molte delle competenze a favore degli enti pubblici locali (regioni, province), ma soprattutto riconoscendo il ruolo di primo piano nella valorizzazione e vigilanza delle DO svolto dai consorzi di tutela. La situazione è in evoluzione e le innovazioni normative ancora troppo recenti per poter definire una situazione definitiva, considerando che, con la nuova riforma europea dell’Organizzazione Comune di Mercato (OCM), tutto il sistema delle denominazioni verrà standardizzato, il che potrebbe portare ad una perdita dell’efficacia delle DO/AO come strumento di differenziazione. Tuttavia, rimane anche da verificare se le DO/AO siano sufficienti a garantire la qualità e fronteggiare la concorrenza dei vini extra-europei. La strategia portata avanti dai principali gruppi vitivinicoli lascia intendere che le DO/AO non possano essere l’unica strategia aziendale per la qualità del prodotto. In questo senso forse è giunto il momento di interrogarsi sull’utilità delle DO/ AO e sulle possibili riforme per rafforzarne l’efficacia, anche e soprattutto sui mercati internazionali, in cui fino a oggi sono poco conosciute. Finora si è discusso, in maniera generale, del settore vitivinicolo in Italia e in Francia, per poi restringere il campo a due regioni, il Piemonte e la Borgogna, e cercare di capire come le aziende si comportano nei confronti delle evoluzioni del mercato, con quali attori si relazionano e quali strategie adottano per restare competitive. Lo zoom successivo delimita ulteriormente le regioni, arrivando a definire le due aree descritte in questo capitolo, Langhe e Côte d’Or. È su questi territori che sono ubicate le aziende che verranno presentate nel capitolo seguente. Solo riducendo la dimensione è possibile, infatti, toccare con mano le strategie, i problemi, le modalità di internazionalizzazione delle singole aziende e capire verso quale direzione si stanno muovendo per affrontare tutti i cambiamenti discussi fino a questo momento. 233
Randelli F., Felici F., op. cit.
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Capitolo V Le aziende vitivinicole delle langhe e della cote d’or a confronto L’obiettivo del quinto capitolo è di presentare il campione di aziende italiane e francesi intervistate, per verificare se gli elementi emersi nel corso dei precedenti capitoli sono riscontrabili anche nelle singole realtà. Si illustreranno le strategie che le aziende mettono in atto per affrontare le evoluzioni del mercato al fine di rileggerle in un’ottica di comparazione tra Langhe e Côte d’Or.
5.1. Ipotesi e metodologia della ricerca Prima di procedere con la parte empirica di questo lavoro, è necessario riprendere quanto è stato detto finora, in modo che risultino chiari le ipotesi e gli obiettivi della ricerca alla luce del percorso fatto. La funzione del primo capitolo è quella di spiegare, in linea teorica, le caratteristiche delle PMI italiane e le loro modalità di internazionalizzazione, così da poter verificare se tali elementi sono riscontrabili anche nelle realtà prese qui in esame. Il secondo capitolo definisce il concetto di territorio in cui sono insediate le PMI, illustrandone le risorse, gli attori che vi operano e le relazioni che si creano. Si introduce inoltre l’agroalimentare, quale comparto di eccellenza del Made in Italy in cui si colloca il settore di nostro interesse, quello vitivinicolo. Un concetto importante che emerge in questo capitolo è quello di filiera, che permetterà successivamente di comprendere i ruoli che giocano gli attori al suo interno e chi contribuisce alla creazione di valore legata ai prodotti vitivinicoli. Giunti a questo punto, è risultato doveroso inquadrare nel terzo capitolo il settore vitivinicolo, prima di tutto in ambito globale e poi a livello nazionale, nello specifico in Italia e in Francia. L’obiettivo di questo capito è quello di comprendere gli scenari evolutivi del mercato vitivinicolo passando dal generale e scendendo via via nel particolare.
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Fig. 5.1: I livelli di analisi dei dati La consultazione delle fonti, primarie e secondarie, è avvenuta in maniera autonoma e sistematica in una logica di internazionalizzazione. Gli strumenti di recupero delle informazioni utilizzati per l’analisi di settore comprendono sia materiale cartaceo (libri, pubblicazioni, quotidiani, rapporti di istituti di ricerca, come l’Istituto Tagliacarne o l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), sia, soprattutto, materiale trovato su siti internet italiani, francesi e internazionali dedicati alla pubblicazione di dati e statistiche. In particolare, data l’incoerenza e la frammentarietà spesso riscontrate prendendo in esame fonti diverse, è stato necessario selezionarne solo alcune come la Food and Agricolture Organization (FAO) e l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV), per i dati di settore (classifiche dei produttori, degli importatori, degli esportatori, percentuali di consumo, eccetera). Il terzo capitolo è costruito in maniera speculare per il settore italiano e per quello francese, allo scopo di avere un quadro organico e coerente della situazione attuale. Questo quadro è completato nel quarto capitolo, dove lo stesso schema di analisi è applicato alle regioni Piemonte e Borgogna. Vengono poi presentate e approfondite due aree specifiche di ciascuna regione a vocazione vitivinicola, le Langhe e la Côte d’Or, con la loro filiera e alcuni attori chiave nella realizzazione di una strategia territoriale competitiva. Per capire le logiche del marketing si è rivelato necessario attuare altresì una verifica empirica delle informazioni raccolte non solo sul settore italiano, a noi più vicino, ma anche su quello francese, per certi versi molto simile.
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Lo scopo è quello di verificare le ipotesi che sono sorte nel corso dei capitoli e rispondere alla domanda di fondo della ricerca, che è la seguente: Posto che: • Italia e Francia sono due mercati forti e maturi nell’ambito vitivinicolo • L’espansione estera è la tendenza, e per alcuni la sola forma di sopravvivenza
Il modello attuale di business delle aziende italiane e francesi funziona ancora? Una volta comprese le peculiarità di un mercato così vasto e complesso come quello vitivinicolo (per essere precisi, dei vini rossi) e, dopo aver analizzato le caratteristiche dei due territori selezionati e degli attori che vi operano, sono state indagate le modalità con cui le realtà vitivinicole affrontano le evoluzioni del mercato, dai nuovi concorrenti alla riduzione dei consumi di vino e come affrontano un contesto sempre più globalizzato. Si è esaminato, inoltre, quanta importanza assumono le reti di relazioni e il legame con il territorio in un’ottica di internazionalizzazione. Si osserverà, infine, in che direzione si muovono le imprese, se stanno modificando le loro strategie o se invece restano salde nei loro principi. Per raccogliere le informazioni e i dati quantitativi e qualitativi sul campione di aziende scelte, le modalità sono state sia dirette sia indirette. Il punto di partenza è stato l’analisi del sito internet e la ricerca di documenti che riportassero notizie su aziende/attori/territorio; il metodo diretto è consistito nella visita in sito per l’intervista in profondità semi strutturata in presenza. Le tematiche fondamentali affrontate durante l’intervista, illustrate in figura 5.2, sono sintetizzabili in cinque punti fondamentali: informazioni generali sull’impresa, competitività e strategia, modalità di internazionalizzazione, focus sul mercato cinese e legame con il territorio.
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Fig. 5.2: Le tematiche dell’intervista Il campione è duplice: quattro aziende italiane e quattro francesi, spiegate rispettivamente nei paragrafi 5.2 e 5.8. Di questi otto casi, cinque (tre italiane e due francesi) sono aziende a conduzione familiare, e, in questo caso, le persone intervistate appartengono tutte alla famiglia e hanno un ruolo di primo piano nell’azienda; nelle tre rimanenti, si sono comunque raggiunti livelli molto alti nella gerarchia aziendale e questo ha permesso un confronto con persone esperte e con un bagaglio esperienziale e professionale notevole234. ITALIA (LANGHE) Cantina Gigi Rosso s.r.l. Aziende Vinicole Ceretto s.r.l. Fontanafredda s.r.l. Gianni Gagliardo s.r.l.
FRANCIA (COTE D’OR) Domaine des Lambrays Domaine Armelle et Bernard Rion Chantal Lescure André Corton
Tab. 5.1: Il campione delle aziende vitivinicole 234
Ringrazio infinitamente per il loro contributo in Italia: Maurizio Rosso della cantina “Gigi Rosso”; Bruno Ceretto dell’azienda “Ceretto”; Giovanni Minetti dell’azienda “Fontanafredda”; Gianni Gagliardo dell’azienda “Gianni Gagliardo”. In Francia: “Thierry Brouin per il “Domaine des Lambrays”, Alice Rion per il “Domaine Armelle et Bernard Rion”, François Chavériat per il “Domaine Chantal Lescure”; Florence Garnier per il “Domaine André Corton”.
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Questo quinto capitolo è composto da due parti: nella prima parte vengono presentate le aziende delle Langhe ad una ad una, e poi comparate in un paragrafo di sintesi; nella seconda parte, sempre mantenendo la struttura speculare dei capitoli 3 e 4, si illustrano i domaine della Côte d’Or separatamente e poi in un confronto. Per concludere, nell’ultimo paragrafo del capitolo si rileggeranno tutti i casi in un’ottica comparativa tra Langhe e Côte d’Or, Piemonte e Borgogna, Italia e Francia.
5.2. Il campione delle aziende italiane La scelta delle quattro aziende vitivinicole italiane intervistate ai fini della ricerca, le cui ipotesi sono state enunciate nel paragrafo precedente, è in primo luogo di natura geografica: tutte si trovano nella stessa area a vocazione vitivinicola qual è quella delle Langhe (nel Basso Piemonte).
Fig. 5.3: La collocazione geografica del campione di aziende sul territorio delle Langhe Fonte: elaborazione personale Dopodiché, si sono cercate delle aziende che differenziassero per alcuni aspetti, tra cui la tipologia (familiare e non) e la dimensione. Due di esse sono di piccole-medie dimensioni: la Cantina Gigi Rosso ha 5 dipendenti e una produzione annua di 200.000 bottiglie; Gianni Gagliardo ha 18 dipendenti e una produzione annua di 300.000 bottiglie. L’azienda Ceretto è di dimensioni medio - grandi con 80 dipendenti e una produzione di 1 milione e 200.000 bottiglie all’anno; infine,
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Fontanafredda, con 140 dipendenti, è la realtà più grande nel contesto qui preso a riferimento, producendo quasi 7 milioni di bottiglie all’anno. In questo modo, partendo dalle conoscenze preliminari ricavate dal sito internet di ciascuna azienda, si è indagato, attraverso i metodi precedentemente descritti, sulla storia, le radici e i legami, cercando di ragionare sempre in una logica di competitività e di internazionalizzazione.
5.3. Cantina Gigi Rosso s.r.l. Ragione sociale
CANTINA GIGI ROSSO s.r.l.
Luogo e anno di fondazione
Castiglione Falletto, 1979
Numero dipendenti
5
Fatturato 2007 (in euro)
1,4 milioni
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
25 ha 200.000 bottiglie
Intervistato
Maurizio Rosso235, direttore marketing e vendite
La cantina Gigi Rosso sorge a Castiglione Falletto nel cuore della zona del Barolo. L’azienda è diretta ancora oggi da Gigi Rosso, accompagnato dai figli Claudio e Maurizio.235 I 25 ettari di vigneti posseduti sono suddivisi in tre tenute collocate in tre zone diverse, rispettivamente a Barolo, Diano d’Alba e Alba. La tenuta “Arione” è un cru storico del Barolo a 400 m di altitudine, coltivata a Nebbiolo da Barbera e Barbera d’Alba. Il terreno calcareo-argilloso è ideale per i vini rossi di grande finezza, struttura e lungo invecchiamento. Il cru “Moncolombetto” sorge nella zona più famosa delle Langhe per questo vino, Diano d’Alba, ed è composto da 5 ettari quasi esclusivamente impiantati a Dolcetto. Infine, nella tenuta “Rocca e 235
Maurizio Rosso, uno dei figli di Gigi Rosso, si occupa della direzione marketing e vendite in Europa e nel Mondo. si desidera sottolineare, in quanto sembra importante al fine di comprendere le strategie dell’azienda, che è l’unica persona intervistata laureata in Lingue Straniere, senza un percorso enologico in senso stretto alle spalle; egli ha così potuto dare un valore aggiunto all’azienda, portando un altro tipo di cultura e una mentalità più aperta verso l’estero.
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Giovino”, sorgono diversi vitigni classici: Langhe, Nebbiolo, Barbera, Dolcetto, Freisa. Oltre all’uva ottenuta dalle tenute, vengono anche acquistate uve all’esterno dell’azienda, ad esempio per produrre l’Arneis e il Moscato d’Asti.
5.3.1. Presentazione dell’azienda L’azienda nasce nel 1979 per opera di Gigi Rosso il quale tuttora lavora in azienda insieme ai due figli e ad altri due dipendenti, oltre ai lavoratori stagionali in vigna (circa una decina). L’azienda è divisa in due aree, l’azienda agricola dove avvengono i passaggi in vigna, e la società Gigi Rosso srl dove c’è la zona dell’invecchiamento e imbottigliamento. L’azienda è quindi tipicamente a conduzione familiare; tutti i passaggi della filiera, dalla produzione alla trasformazione, dall’imbottigliamento alla vendita, sono fatti in cantina, ad eccezione del Moscato d’Asti che, essendo frizzante, segue processi diversi dai rossi e l’azienda non dispone dei macchinari specifici. Per quanto riguarda la dimensione dell’azienda, è già stato detto che essa si trova nella zona del Barolo, che si estende per circa 1.800 ettari vitati. Questi ettari sono divisi tra quasi 700 coltivatori di uva; ciò significa che la proprietà media di uva da Barolo è di 2,2 ha, su cui si possono produrre circa 10.000-15.000 bottiglie. Di questi 700 coltivatori, quasi 400 consegnano l’uva alla Cantina Sociale delle Terre del Barolo, non hanno quindi una propria bottiglia, un proprio marchio. Si può affermare, in sostanza, che i produttori di Barolo sono quasi 300 e, data la scarsità di ettari a disposizione, è normale che le aziende siano di piccole dimensioni (per intenderci al di sotto delle 100.000 bottiglie, mentre le grandi imprese ne fanno più di un milione). La cantina Gigi Rosso si colloca nella fascia medio - piccola, producendo 200.000 bottiglie all’anno per un fatturato di quasi un milione e mezzo di euro. Dai dati riportati si evince che la tendenza, in Piemonte (ma, si vedrà, anche in Borgogna) è quella di frammentare il terreno in tante piccole parti: così ogni proprietario è orgoglioso e geloso del proprio lavoro e della propria conduzione: vi è quindi un regime di competizione positiva tra i produttori, tesa alla ricerca di maggior qualità. I punti di forza dell’azienda sono sintetizzabili in 5 aspetti principali. Innanzitutto, la forte identificazione con il marchio: la firma è di una persona reale, tuttora esistente; questo comunica un senso di verità e di autenticità. Coloro che comprano una bottiglia “Gigi Rosso” sanno che lui e i suoi figli sono in azienda,
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pronti ad accoglierli e a raccontare la sua storia (bisogna dire, a onor del vero, che il signore è molto cordiale e davvero accoglie i clienti all’ingresso della cantina). In secondo luogo, la qualità, intesa sia come scelta delle vigne nel corso del tempo sia come cura del prodotto in tutte le fasi della filiera. Per fare un esempio, prima della vendemmia si effettua l’operazione del diradamento, che consiste nel selezionare i grappoli ed eliminarne alcuni in modo da non avere sovrapproduzione. L’obiettivo dell’azienda è di scendere addirittura al di sotto del limite di produzione (80 quintali a ettaro), togliendo il 20% in più dell’uva consentita, così da ottenere la massima qualità. Terzo, la presenza costante e diretta in cantina dei proprietari. È stata, infatti, una delle prime aziende ad aderire all’idea di cantine aperte e a fondare, nel 1993, il Turismo del Vino in Piemonte. L’idea che spinge i produttori ad aprire le porte delle loro cantine è quella di mostrare la serietà del loro lavoro, rispondere alle domande degli appassionati e, naturalmente, far assaggiare i vini. Bisogna sottolineare questo punto perché vi sono aziende che non accolgono i turisti nelle loro cantine per diversi motivi, tra cui la scomodità, il lavoro in più, il dover aprire una bottiglia. Quarto aspetto, che Maurizio Rosso ritiene particolarmente specifico dell’azienda, è la cultura del vino e la passione per il proprio lavoro. Suo padre ha iniziato questo lavoro per passione, a volte relegando il guadagno in secondo piano. Alcuni, infatti, gli riconoscono di avere prezzi medio - bassi, nonostante i vini siano di primo livello. Questa cultura viene trasmessa in vari modi. Ad esempio, vengono organizzate visite guidate per gruppi in cantina di circa un’ora, così da comunicare, a parole ma soprattutto visivamente, come viene prodotto il vino. Oppure, l’intervistato organizza degustazioni culturali di Barolo in altre regioni italiane; propone cioè vini anche dei suoi colleghi, perché crede nel successo di tutta la zona e non solo della sua azienda: se la zona è conosciuta e stimata, si ottiene un vantaggio a livello comunitario. Un ultimo punto di forza riguarda la vastità del mercato che l’azienda riesce a coprire. Nonostante siano dei piccoli produttori, sono, infatti, in grado di affrontare il mercato globale. È stato l’intervistato, nel 1989, ad aprire l’azienda ai mercati esteri, soprattutto grazie alla sua conoscenza delle lingue. La fortuna di produrre vini classici ne facilita la vendita in tutto il mondo.
5.3.2. Il legame col territorio La cantina Gigi Rosso è molto legata al territorio che la ospita. Questo legame si esplica in particolare attraverso la collaborazione con altri attori locali e la partecipazione in prima persona ad eventi enogastronomici. Per quanto
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riguarda il primo punto, l’azienda fa parte di un consorzio export ed è in stretti rapporti con il consorzio di tutela. L’azienda ha aderito al consorzio export “Made in Piedmont” costituito nel 2009 e composto da 50 aziende della zona delle Langhe. Lo scopo principale che spinge a fondare un consorzio export è dato dalla possibilità di accedere a contributi regionali (il 50% delle spese promozionali sono rimborsate dalla Regione Piemonte) e della OCM vino (programma 2010-2012). Quindi, se nel 2009 il budget di spese stabilito dai consorziati ammontava a un milione di euro, il rimborso è stato di 500.000 euro, cioè 10.000 euro che ogni azienda ha potuto destinare a specifici mercati. Gigi Rosso, ad esempio, li ha divisi parte in America e Canada e parte in Cina. Poiché le aziende sono riuscite a dimostrare un ritorno economico effettivo, possono fare richiesta dei contributi anche quest’anno, aumentando la cifra. Si passerà quindi, per il 2010, ad un milione e mezzo di euro. Nonostante i consorzi export apportino un notevole vantaggio dal punto di vista finanziario, non tutti i produttori vi partecipano, vuoi perché richiede tempo, vuoi perché non credono nelle associazioni. Invece, l’azienda Gigi Rosso crede moltissimo nelle collaborazioni e nelle associazioni di tutela e promozione non solo del prodotto, ma anche, e soprattutto delle Langhe. Né è un esempio la loro costante partecipazione in prima persona al Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero: prima il padre è stato presidente per tre anni, poi il fratello Claudio Rosso, il cui mandato triennale è terminato nel 2008. Questo dimostra che anche i colleghi stimano il loro lavoro e il coinvolgimento diretto da parte dei proprietari negli affari comuni. Per quanto riguarda l’aspetto legato al turismo del vino, un esempio recente è l’evento “Castiglione Falletto mon amour” che si è tenuto a settembre. Si trattava di una serata enogastronomica con possibilità di assaggiare cibi e vini tipici locali lungo le vie del paese. La Cantina Gigi Rosso ha partecipato alla manifestazione non solo attraverso i suoi vini, ma l’intervistato era presente in prima persona allo stand del Barolo, guidando le persone nella scelta. Questo perché l’azienda crede prima di tutto nello sviluppo del territorio che può poi diventare mezzo promotore, in un secondo momento, del vino e, in ultima analisi, della cantina. Il contatto diretto con le persone per trasmettere la passione e la cultura del mondo del vino instaura un sentimento di fiducia che difficilmente si può ottenere in altro modo. Questo aspetto è piuttosto importante oggi, perché in un contesto sempre più globalizzato che rende difficile conoscere chi produce, i consumatori reagiscono usando come criterio di scelta di acquisto anche la conoscenza diretta del produttore e tendono ad accorciare la filiera per comprare direttamente da quest’ultimo.
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5.3.3. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese Come è già stato accennato, l’azienda inizia ad affacciarsi sui mercati esteri alla fine degli anni ’90, quando Maurizio Rosso entra a far parte dell’attività di famiglia. Oggi l’attività internazionale è diventata talmente importante da superare quella domestica, con un fatturato export che pesa per il 60% sul fatturato totale. I principali motivi che hanno spinto l’azienda ad internazionalizzarsi sono, in ordine di importanza: ricercare nuovi mercati di sbocco; soddisfare richieste provenienti dall’estero; in seguito all’individuazione di partner strategici; in seguito alla disponibilità di incentivi della Regione (come quelli relativi ai consorzi export). In questo modo l’azienda ha ottenuto svariati benefici, tra cui l’acquisizione di nuovi clienti esteri, l’incremento dei profitti, oltre a un conseguente miglioramento dell’immagine a livello nazionale. I principali mercati sono Germania e Svizzera, seguiti da USA, Canada e Giappone. L’unica modalità di esportazione scelta è quella indiretta, attraverso l’ausilio di agenti e distributori residenti nei mercati di interesse. È questo, come vedremo, il modo più utilizzato dalle imprese vitivinicole, sia italiane sia francesi, per conquistare un nuovo mercato. Gli importatori vengono cercati attraverso le fiere, sia italiane (Vinum ad Alba, Vinitaly a Verona), sia estere (Vinexpo a Shangai); oppure, se già collaborano con l’azienda, è utile fare promozioni periodiche attraverso la visita al produttore oppure organizzando cene con abbinamenti vino-cibo portando con sé anche i cuochi. Il mercato cinese è un mercato recente per la Cantina Gigi Rosso, hanno infatti effettuato esportazioni solo nel 2009 e nel 2010. Inoltre, non sono ancora mai andati in Cina, ma Claudio Rosso ha in programma un viaggio entro la fine del 2010. Il primo contatto è stato da parte degli importatori cinesi che sono venuti a conoscenza dell’azienda o grazie al sito internet o perché hanno sentito parlare dei loro vini. Le considerazioni dell’intervistato, il quale, tuttavia, non ha molta conoscenza in merito non essendosi mai occupato di questo mercato, sono che il mercato cinese si sta effettivamente aprendo; sta succedendo piano piano quello che era accaduto dieci anni fa in Giappone, il quale ha iniziato ad importare vini da tutto il mondo, fino a trasformare in una moda il consumo di vino. La Cina è sicuramente più complessa, molto più grande, senza una tradizione del produrre
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e bere vino; pertanto ad oggi vi è solo una specifica classe sociale, comprendente circa il 10% della popolazione (cioè, intorno a 130 milioni di persone), che acquista vino perché vuole anzitutto acquisire certe abitudini proprie del mondo occidentale e raggiungere lo stesso standard di vita degli europei, compresi i consumi. La sfida maggiore per le aziende vitivinicole sarà quella di riuscire a convertire questo fenomeno di moda passeggero in un’abitudine duratura nel tempo. Le basi sembrano esserci, dato che è stato riscontrato nel popolo cinese un forte interesse e un desiderio di conoscere e scoprire i prodotti europei (non solo il vino, ma ad esempio anche le automobili, il cibo, eccetera).
5.3.4. La distribuzione e la promozione dei prodotti I prodotti Gigi Rosso sono distribuiti allo stesso modo a livello nazionale ed internazionale per raggiungere lo stesso target, con un’unica sostanziale differenza che consiste nell’appoggiarsi, all’estero, ad un intermediario che si interpone tra l’azienda e il consumatore finale. Gigi Rosso, quindi, non tratta direttamente con il singolo ristoratore, ad esempio, ma con grossisti/importatori. In Italia, invece, la vendita viene effettuata o direttamente alla ditta o attraverso dei rappresentanti nel circuito ho.re.ca. (soprattutto ristoranti ed enoteche, poco negli alberghi). Finora non hanno sfruttato il canale della GDO, essendo considerata poco adatta alla distribuzione dei vini, e in generale, degli alimenti di qualità. In realtà, come già è stato osservato nel terzo capitolo, questo pregiudizio si sta lentamente sbloccando poiché i produttori vanno accorgendosi che si tratta di un canale molto vantaggioso, potenzialmente in grado sia di attrarre un gran numero di consumatori, sia di migliorare l’offerta creando dei reparti ad hoc all’interno del supermercato con le caratteristiche adatte (ad esempio la temperatura, la posa sullo scaffale, la varietà, eccetera) ad esporre anche prodotti d’alta gamma. Gigi Rosso, per dare fiducia alla Grande Distribuzione e cosciente delle sue potenzialità, sta effettuando un esperimento con il supermercato Conad-Le Clerc (presente ad Alba), di cui però non si hanno ancora riscontri in termini economici. Per quanto riguarda la promozione, la cantina Gigi Rosso ha deciso di destinare il budget previsto per la comunicazione non alla pubblicità su riviste o su libri di settore, ma alla degustazione in cantina. Questa scelta deriva dalla convinzione dei proprietari che esista un turismo del vino (infatti, è già stata sottolineata la loro partecipazione ad eventi locali e non legati alla valorizzazione dei prodotti e del territorio); esistono cioè delle persone che si recano nelle zone vitivinicole perché sono interessate, vogliono conoscere non solo i vini, ma anche
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chi sta dietro al vino, in questo modo si instaura un rapporto di fiducia: è Gigi Rosso in persona (o il figlio) che apre la bottiglia e la fa degustare al turista e questo, secondo l’intervistato, è di un’importanza decisiva. Un’altra forma di comunicazione è la pubblicazione di una newsletter mensile per far capire ai lettori (che variano dai clienti agli appassionati, dai curiosi ai giornalisti) come lavora l’azienda, quali riconoscimenti riceve o come avviene ogni fase della vendemmia. Accanto alla comunicazione coi clienti vi è quella con gli operatori professionali, ad esempio i sommelier o i giornalisti di settore. Nonostante, infatti, l’azienda non punti sull’apparizione nelle guide o nelle riviste specializzate per farsi conoscere, ritiene che sia decisivo avere contatti positivi con i giornalisti poiché sono loro che, in ultima analisi, giudicano i vini. Infine, è chiaro che è importante avere buoni rapporti con le associazioni e gli istituti di formazione che ruotano intorno al mondo del vino: Slow Food, l’Università del Gusto, l’ICIF (Istituto Culinario Italiano per Stranieri) in cui l’intervistato ha fatto delle degustazioni, l’ONAV (Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino). Tuttavia, le relazioni con questi istituti sono piuttosto sporadiche.
5.3.5. La situazione competitiva attuale La cantina Gigi Rosso ha ottenuto nel 2007 un fatturato export di 900.000 euro ed uno nazionale di 500.000 euro; tuttavia, la crisi economica ha provocato una contrazione del fatturato di circa 100.000 euro dal 2005 al 2007. La mission dell’azienda è la valorizzazione dell’autenticità del territorio, distinguendosi come produttori di vini di qualità. Le caratteristiche distintive di quest’azienda sono riassumibili in due aspetti principali, uno a livello locale e uno in una dimensione internazionale. Da una parte, la convinzione che collaborare è meglio che fare tutto da soli: l’azienda crede nelle associazioni e nella promozione del territorio prima di sé stessa, un’immagine positiva delle Langhe non può che trainare di conseguenza l’immagine delle imprese che vi operano. Dall’altra parte il successo dell’azienda anche all’estero è dovuto all’apertura che dimostra di avere verso nuovi mercati. Non spaventa ciò che non si conosce, perché la curiosità e la passione per il proprio mestiere li spinge a scoprire nuove opportunità soprattutto grazie a Maurizio Rosso e alla sua conoscenza delle lingue e delle culture, non dimentichiamolo, straniere. Sono queste caratteristiche che distinguono la Cantina Gigi Rosso dalle altre imprese della zona e le donano quel vantaggio competitivo in più che le permette di affrontare la situazione economica attuale, i nuovi concorrenti e le sfide che il mercato propone costantemente.
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5.4. Ceretto Aziende Vitivinicole s.r.l. Ragione sociale
CERETTO s.r.l.
Luogo e anno di fondazione
Alba, Loc. San Cassiano, 1937
Numero dipendenti
80
Fatturato 2007 (in euro)
N.D.
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
160 ha circa 1.200.000 bottiglie
Intervistato
Bruno Ceretto236, direttore commerciale emarketing
L’azienda Ceretto si trova in una frazione di Alba, sulla sommità di una collina immersa nei vigneti e possiede circa 160 ettari di vigneti divisi in quattro tenute: “Bricco Rocche” destinata esclusivamente alla produzione di Barolo; “Bricco Asili” per la produzione del Barbaresco e “Monsordo Bernardina” che, oltre ad essere la tenuta più estesa per la produzione degli altri vini rossi e bianchi (per citarne alcuni: Barbera, Nebbiolo, Langhe Rosso e Bianco) è anche il centro nevralgico dove si concentrano le attività amministrative e commerciali, gli uffici e il magazzino che raccoglie tutti i vini delle diverse cantine. Infine, hanno fondato insieme a due partner un’azienda agricola, i “Vignaioli di Santo Stefano”, dedicata esclusivamente al Moscato d’Asti e all’Asti Spumante.236
5.4.1. Presentazione dell’azienda I “Barolo Brothers” (così sono conosciuti all’estero Marcello e Bruno Ceretto) hanno dato, negli anni Sessanta, la svolta decisiva agli sviluppi futuri dell’azienda, promuovendo una progressiva ascesa qualitativa del prodotto dalle fondamenta del gusto, cioè dal terroir. In poco più di trent’anni hanno creato una rete di piccole aziende autonome (ogni tenuta che abbiamo elencato nel paragrafo precedente è infatti un’azienda a sé) acquistando oltre 120 ettari di vigneti. Oggi, con un totale di 160 ettari e una quantità di bottiglie annuali vendute pari a oltre un milione e duecentomila, l’azienda può senza dubbio essere considerata tra le grandi cantine delle Langhe. 236
Bruno Ceretto (classe 1937) è uno dei due figli del fondatore della cantina, che ha creato la struttura strategica commerciale, finanziaria e di marketing; il fratello Marcello è invece l’anima tecnica dell’azienda. Alla fine degli anni ’90 sono stati affiancati in azienda dai loro figli, lasciando così intatta la tipologia di azienda a conduzione familiare.
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Di seguito sono descritti i principali punti di forza di quest’azienda. Innanzitutto, l’intervistato ha sottolineato la cura nella scelta delle vigne. Il percorso di selezione, particolarmente accurato, ha permesso di ottenere vini soprattutto di Barolo e Barbaresco che oggi rappresentano l’immagine dell’azienda poiché sono collocate nelle colline maggiormente vocate alla qualità. Il secondo punto di forza è il personale, ben addestrato e ben inserito. La fortuna di condurre l’azienda a livello famigliare permette di avere un rapporto più stretto coi dipendenti che li fa sentire a loro agio. L’azienda crede fondamentalmente in due “religioni” (così li chiama l’intervistato): una è il profitto e l’altra è il benessere dei collaboratori. Ad esempio, non essendo semplice trovare chi lavori nelle vigne, al personale assunto (spesso straniero) non viene solo fornito uno stipendio, ma anche un alloggio. Oggi sono circa una settantina le famiglie alle quali l’azienda affitta a un prezzo irrisorio case in campagna; questo serve da una parte ad assicurarsi la fedeltà dei dipendenti, dall’altra ad investire il denaro in immobili anziché in borsa. La strategia imprenditoriale è soprattutto orientata al rigore e alla chiarezza, pur tuttavia l’impresa si contraddistingue per l’estro e la fantasia. La loro nuova filosofia aziendale è che il vino è anche e soprattutto cultura: ciò si traduce in etichette pensate da grandi designer, manifestazioni artistiche e premi letterari.
5.4.2. I progetti culturali e architettonici: espressione del legame con il territorio L’azienda Ceretto ha fiducia nella forza delle Langhe e nella bellezza del territorio, tuttavia non crede più nel lavoro del Consorzio di Tutela. L’intervistato si è dimesso dal consorzio dopo quarant’anni perché non confida più nelle istituzioni: i vini dell’azienda vengono quindi controllati solo dalla Camera di Commercio, l’unico ente con cui hanno un minimo di collaborazione. Nessun rapporto, invece con la regione o la provincia: Bruno Ceretto preferisce andare a presentarsi in prima persona ai clienti piuttosto che passare tramite le istituzioni. La sua disillusione deriva dal fatto che coloro che gestiscono il consorzio non sono persone oneste e affidabili poiché pensano solo ai loro interessi. L’azienda è quindi convinta che i risultati migliori si ottengano individualmente. Partendo da questo presupposto, il suo legame con il territorio è dimostrato in un altro modo, cioè attraverso proposte di iniziative culturali usando le colline piemontesi come cornice.
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Negli ultimi anni la famiglia Ceretto si è dedicata con passione alla creazione di progetti originali e idee innovative. Se ne possono citare tre di natura diversa. Il primo è un evento letterario, il Premio Langhe Ceretto, fondato nel 1991, in occasione del quale la giuria, formata da un gruppo di esperti e accademici internazionali, ha il compito di segnalare i testi che, nell’anno, hanno affrontato temi connessi con la cultura dell’alimentazione. Di notevole impatto sono poi i due progetti architettonici: il cubo di cristallo e l’acino. Il primo è un monumento al vino Barolo e ha una funzione puramente architettonica e paesaggistica mentre il secondo è uno spazio dedicato alla degustazione dei vini, alla promozione di incontri ed eventi culturali. Lo scopo è quello di reinvestire parte del guadagno per far conoscere le Langhe e il loro vino nel mondo. Marketing, certo, ma non solo; anche “riconoscenza e amore per la terra. Chi abita qui deve molto al vino e qualcosa deve restituirgli”237.
Fig. 5.4: L’acino. Tenuta Monsordo Bernardina, Alba
237
Archivio del sito www.larepubblica.it, settembre 2000.
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5.4.3. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese In generale, l’azienda ottiene il 45% del fatturato all’estero, scendendo nel particolare l’80% dei vini rossi è venduto all’estero mentre l’80% dei vini bianchi è venduto in Italia. L’azienda opera in oltre 65 Paesi dislocati in ogni angolo del mondo, ma i principali mercati sono: USA, Giappone, Svizzera, Germania e Russia. Mentre nelle grandi nazioni, come Stati Uniti e Giappone, si esportano volumi consistenti grazie alla presenza di grandi società di import, negli Stati più piccoli gli importatori sono solitamente degli appassionati a cui venderanno quindi quantità minori ma di qualità più alta. L’azienda ha deciso di internazionalizzarsi, in primo luogo, per aumentare i profitti e per soddisfare richieste provenienti dall’estero; in secondo luogo, per ricercare nuovi mercati di sbocco essendo ormai i bisogni dei consumatori sempre più simili tra loro. Così facendo, l’azienda è riuscita non solo ad acquisire nuovi clienti esteri e ad aumentare i propri guadagni, ma anche a migliorare l’immagine dell’azienda a livello locale. Anche nel caso dell’azienda Ceretto, la modalità di entrata sui mercati stranieri è l’esportazione indiretta attraverso agenti o distributori residenti nel mercato di interesse. In alcuni casi, ma più raramente, si usa anche il contatto diretto con l’impresa. Per quanto riguarda i concorrenti, l’azienda applica una politica di disinteresse verso i competitor: lo scopo è quello di fare grandi vini e poi venderli avvalendosi di qualità, servizio e simpatia senza preoccuparsi della concorrenza. L’inserimento sul mercato cinese ha richiesto molto tempo e per reperire informazioni hanno mandato, a loro spese, un universitario che svolgeva la tesi sui rapporti commerciali tra Italia e Cina. L’intervistato si fida infatti più di un contatto diretto che dei dati o dei giudizi diffusi dalla Camera di Commercio o da Confindustria. Oggi l’azienda esporta in Cina da tre anni, ma è consapevole che ancora non vi è una cultura del bere e i volumi esportati sono di piccola entità perché le richieste arrivano solo da una ristretta elite. Secondo Bruno Ceretto è più interessante il mercato indiano, con il quale ancora non ha rapporti ma che sta cercando di penetrare facendo leva su innovatività, qualità e design del prodotto.
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5.4.4. Le certificazioni internazionali di qualità Poiché un punto fermo della filosofia aziendale è sempre stato la qualità dell’organizzazione, dei prodotti e dei processi, l’azienda ha ottenuto tre certificazioni internazionali allo scopo di verificare e modellare la sua organizzazione produttiva. Si è cosi giunti, con un paziente lavoro, a certificare l’azienda da un punto di vista delle norme di Sistema di Gestione per la Qualità (UNI EN ISO 9001:2008), di Sicurezza Alimentare (UNI EN ISO 22000:2005) e, soprattutto, di Rintracciabilità dei prodotti lungo la filiera produttiva (UNI EN ISO 22005:08), dalla vigna alla bottiglia finita, al fine di giungere ad un controllo più incisivo e ad una razionalizzazione dei processi che si traducesse in un ulteriore aumento qualitativo dei prodotti e in un rafforzamento dell’immagine Ceretto presso il consumatore238. La scelta di ottenere queste certificazioni nasce dal fatto che, nel corso degli ultimi anni, il concetto di qualità relativo al vino e molto cambiato, passando da una concezione basilare di salubrità dell’alimento, ad un’interpretazione più edonistica di prodotto che deve soddisfare il palato del consumatore. Oggi un vino, oltre ad essere sano e piacevole, deve portare con sé un buon bagaglio di personalità, che gli deriva dal territorio in cui nasce e dalle capacità tecniche e dalla filosofia del produttore. Tutto ciò deriva da una crescente attenzione del consumatore verso ciò che beve e, quindi, da una sua maggiore preparazione, che lo rende più critico ed esigente. Diventa fondamentale un’analisi attenta dei processi, al fine di individuarne i punti di forza e di debolezza, di ottimizzarne la gestione, di favorirne il miglioramento continuo e di rendere più efficaci e mirati i controlli.
5.4.5. La promozione e la distribuzione dei prodotti Da oltre 50 anni l’azienda Ceretto investe parte del guadagno nella promozione dei propri prodotti passando attraverso la promozione del territorio. La forma di pubblicità consiste nel portare, a proprie spese, i clienti di tutto il mondo nella propria terra per mostrare loro dove e come si producono i vini. In alternativa, se non sono i clienti a spostarsi, sono i fratelli Ceretto, che organizzano pranzi e cene all’estero così da abbinare il vino alla cucina tipica del loro territorio di origine. Il cibo, quindi, come filosofia, come socialità, cultura della convivialità, del lento scambio intorno alla tavola, patrimonio condiviso portatore di valori e identità e medium del territorio. È con questo spirito che l’azienda si è legata al mondo della gastronomia attraverso due 238
www.ceretto.it
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progetti. Il primo è la costruzione di un prestigioso ristorante nella piazza principale di Alba, realizzato con lo stesso stile con cui fanno i vini: raffinatezza, qualità e trasparenza. Il secondo è l’acquisto del torronificio Relanghe, che utilizza esclusivamente la Nocciola Tonda Gentile della Langhe e rispetta la medesima vocazione artigianale con cui Ceretto produce il suo vino. È già stato descritto nel paragrafo 5.4.2. il legame che quest’azienda ha con la cultura. Le manifestazioni in favore dell’architettura, della musica e dell’arte in generale trasformano la famiglia Ceretto in “mecenati” d’altri tempi. Tutte queste attività sono forme di pubblicità e promozione molto apprezzati dai consumatori, a cui non basta più vendere il prodotto fine a sé stesso, ma è ormai necessario legarlo ad emozioni e sensazioni che il contesto di produzione può offrire. Il primo approccio con l’arte è stato il rinnovamento grafico delle etichette storiche, nel 1982, ad opera del designer Silvio Coppola, ideatore anche della vestizione del famoso Arneis Blangé (600.000 bottiglie prodotte nel 2009, quasi metà del totale) visibile nella figura qui a fianco, il cui obiettivo era quello di mostrare l’anima del vino attraverso la “B” forata. Tra tutte le aziende italiane intervistate, è sicuramente quella che ha dedicato maggior attenzione nella ricerca di uno stile accattivante per le etichette, rendendole uniche e pertanto elemento di distinzione dagli altri produttori del territorio. L’etichetta mostrata in figura si avvicina, inoltre, ma è un caso raro e isolato, a quelle francesi, dove, come si vedrà più avanti, è messo in risalto il nome del vino anziché il marchio dell’azienda; tuttavia, ne differisce per lo stile, essendo quello borgognone più tradizionale.
5.4.6. La situazione competitiva attuale L’azienda Ceretto è la dimostrazione che il sistema familiare funziona, anche e soprattutto quando le dimensioni aziendali sono di molto superiori a quella che può essere l’idea dell’azienda tipica familiare. Di norma, infatti, si tratta di piccole imprese con meno di venti dipendenti e una produzione annua di 300.000 bottiglie. Questa è la situazione delle due imprese familiari intervistate, le cantine Gigi Rosso e Gianni Gagliardo. Ceretto, invece, con oltre cento dipendenti, produce un milione di bottiglie di bianco e 300 mila bottiglie di rosso, esportando in 70 Paesi, primi tra tutti
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Stati Uniti, Giappone e Germania, il 90% dei vini rossi e il 30% dei bianchi. La famiglia, a cui spetta la direzione, è costituita, oltre che dai due fratelli Bruno e Marcello, anche dai loro figli, che hanno compiti specifici ed orientati al progressivo passaggio di mano generazionale. L’importanza delle radici, l’unicità della terra e la creatività nella produzione locale sono una triade fondamentale nella filosofia Ceretto, che non esclude però la scoperta, lo scambio e il confronto internazionale. Le forze interne dell’azienda sono sempre più protese al confronto come sicura fonte di arricchimento che apre la porta a nuove ed interessanti novità vinicole. È proprio sull’onda di questa prospettiva che la famiglia Ceretto ha scelto di tessere, ormai da alcuni anni, strette relazioni internazionali (forse, si potrebbe aggiungere, delusi dalle collaborazioni locali come quella con il consorzio di tutela) con un gruppo di selezionate aziende vitivinicole di straordinaria qualità. Questa rete di contatti ha preso il nome di “Terroirs Ceretto”. L’obiettivo è quello di creare un circolo esclusivo di vini e distillati unici al mondo da distribuire in esclusiva sul territorio italiano. L’intento è di offrire altri sapori ed altre opportunità a tutti coloro che hanno ancora la passione della scoperta e la curiosità di conoscere sempre nuovi angoli del mondo attraverso le fatiche ed il talento di grandi vignaioli. I principali Paesi sono: Francia, Spagna, Austria, Germania e Svizzera. Proprio il giorno dell’intervista al Signor Bruno Ceretto, c’è stata una degustazione comparativa con uno dei più famosi produttori della Borgogna, Jacques Prieur, il quale, per l’occasione, ha anche presentato l’annata che verrà distribuita da Terroirs Ceretto. Riassumendo, le caratteristiche distintive dell’azienda Ceretto si possono ricondurre a tre elementi principali. Il primo è il legame con il territorio, che l’azienda interpreta attraverso numerose attività culturali, dalle manifestazioni letterarie ai progetti architettonici, fino alla creazione di ristoranti. Il secondo è la conduzione familiare, che continua ad avere successo anche quando si tratta di dirigere una grande azienda, unita alla cura nella scelta del personale che deve essere ben addestrato e felice. L’ultima caratteristica è la rete di collaborazioni internazionali che l’azienda coltiva nel corso degli anni permettendole da un lato di distribuire in Italia prodotti esclusivi e di qualità, dall’altro di conoscere nuove realtà e di imparare da esse.
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5.5. Fontanafredda s.r.l. Ragione sociale
FONTANAFREDDA s.r.l.
Luogo e anno di fondazione
Serralunga d’Alba, 1878
Numero dipendenti
114
Fatturato 2007
34 milioni
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
90 ha 6,5 milioni di bottiglie
Intervistato
Giovanni Minetti239, direttore generale
Fontanafredda è un’azienda vitivinicola nel comune di Serralunga d’Alba la cui tenuta si estende per oltre cento ettari nel cuore delle Langhe. In origine i terreni erano stati donati da Vittorio Emanuele II alla moglie morganatica Rosa Vercelliana (“la bella Rosina”) da lui nominata contessa di Mirafiori e Fontanafredda. 239
Fig. 5.5: La tenuta di Fontanafredda immersa nei vigneti La storia di Fontanafredda come azienda produttrice di vini e spumanti nasce qualche decennio più tardi, nel 1878, grazie alla lungimiranza di Emanuele Guerrieri, figlio del re e della contessa. Egli si dedica al vino con un approccio assolutamente moderno. Infatti, i suoi criteri innovativi puntano a una costante 239
Giovanni Minetti è direttore generale dell’azienda dal 2006.
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attenzione alla produzione di vini di qualità, soprattutto del Barolo, di cui, al tempo, è il maggiore produttore, con un flusso all’export del 35% (oggi, invece, la produzione principale dell’azienda è costituita per il 65% dagli spumanti). L’azienda è stata per 76 anni di proprietà del gruppo Monte Paschi Siena, ma da giugno del 2008 la fondazione MPS detiene solo il 36% delle quote, mentre le restanti sono state suddivise in parti eguali tra due imprenditori locali, Oscar Farinetti e Luca Baffigo Filangieri, attualmente amministratori delegati.
5.5.1. Presentazione dell’azienda Fontanafredda è l’unica azienda, tra quelle italiane intervistate, a non essere a conduzione familiare. Infatti, l’impresa è passata dalle mani del Gruppo Monte Paschi a quelle di un imprenditore piemontese, Oscar Farinetti. Si tratta di un imprenditore di lungo corso; egli, infatti, dopo aver creato la catena di elettrodomestici Unieuro, venduta nel 2003 a una multinazionale inglese, ha aperto a Torino un immenso supermercato destinato ai cibi di alta qualità a prezzi sostenibili: “Eataly”, con punti vendita anche a Tokyo e New York. L’azienda ha attualmente una superficie di 110 ettari di vigneti, di cui 90 divisi nei comuni di Serralunga d’Alba, Barolo e Diano d’Alba. Da soli servono a coprire solo in parte la produzione annua di bottiglie, che nel 2007 ha superato i sei milioni e mezzo di pezzi (4,4 di spumanti, 2,3 di vini), di cui il 70% è venduto in Italia e il restante 30% all’estero. Il fabbisogno annuo viene completato con l’acquisto di uve da più di 400 viticoltori che hanno con l’azienda un rapporto ormai consolidato da decenni. Con un fatturato che nel 2007 ha sfiorato i 35 milioni di euro, Fontanafredda è la realtà vitivinicola più grande nella zona delle Langhe. I capisaldi che sottendono la produzione dei vini dell’azienda sono quattro. La prima regola e la principale preoccupazione è la salvaguardia dell’origine: il vino deve conservare al meglio il carattere e la personalità che gli derivano dall’interazione tra vitigno, ambiente e intervento del viticoltore. Poiché ogni passaggio arricchisce il patrimonio originario di nuove particolarità, questo deve essere seguito con la massima cura. Il secondo elemento è il controllo del processo produttivo. Ogni fase del processo del vino ha la medesima importanza, dalla scelta del vitigno più adatto a ciascun terreno alla conduzione del vigneto, dalla potatura fino alla vendemmia, dalla fermentazione all’affinamento; pertanto, solo il più attento e puntuale controllo dell’intero processo potrà garantire la qualità e la naturalità del prodotto. Un ulteriore caposaldo è il lavoro nel vigneto, identico criterio è usato sia nei vigneti di proprietà sia in quelli il cui prodotto viene
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conferito all’azienda. Fontanafredda continua ad attribuire attenzione al vigneto quale elemento base della qualità e del carattere del vino. Infine, la sapienza in cantina privilegia la salvaguardia dei valori dell’identità e dell’origine. Accanto alle antiche cantine ottocentesche per l’affinamento dei vini rossi, ne sono sorte altre più moderne dotate delle tecnologie necessarie per la produzione dei vini bianchi e degli spumanti. Questa sintesi di tradizione e innovazione, di esperienza e progresso tecnico, conferisce ai vini di Fontanafredda una personalità ricca di fascino. Ubicazione
nelle Langhe, un territorio noto per le sue valenze qualitative;
Proprietà
solida, attenta, competente;
Uomini
un team motivato e professionale: 126 collaboratori e 130 agenti solo in Italia;
Prodotti
di qualità indiscussa e in costante miglioramento, con una gamma di vini ampia e rappresentativa dell’intero territorio;
Prezzi
coerenti, competitivi in rapporto con la qualità;
Storia e tradizione
Fontanafredda si pone come l’unico “chateau” del Piemonte.
Orientamento al mercato
crescita di una cultura d’impresa, crescita d’immagine, crescita sul piano commerciale.
Tab. 5.2: I punti di forza dell’azienda Fontanafredda Fonte: materiale fornito dall’intervistato. La mission aziendale è quella di produrre vini e spumanti di personalità e carattere, espressione della tradizione vitivinicola piemontese, che evidenzino l’appartenenza dell’azienda al territorio, che comunichino il contenuto di ricerca e innovazione, che consentano all’azienda di assumere una posizione leader del vino piemontese di qualità nei diversi canali di mercato.
5.5.2. La riqualificazione dell’immagine dell’azienda e del territorio Dopo l’acquisizione dell’azienda nel 2008, occorreva risolvere il problema dell’immagine aziendale. Nonostante gli sforzi della precedente proprietà, infatti, i consumatori conoscevano poco dell’azienda, della sua storia e dei suoi luoghi.
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La priorità era quindi quella di raccontare, spiegare e far comprendere il valore inestimabile di un luogo e delle sue terre; non soltanto dei prodotti, ma di tutto quanto vi era dietro. Questo viene fatto seguendo una duplice linea d’azione: da una parte, viste le potenzialità, migliorare la ricettività turistica della tenuta in modo da attrarre i visitatori al suo interno; dall’altra, rilanciare l’immagine e i prodotti dell’azienda presso il consumatore lontano. Per quanto riguarda il rilancio della tenuta, questo viene fatto per attrarre i turisti al suo interno: quindi le azioni intraprese sono di valorizzazione del territorio e di aumento delle offerte ricettive, non prima però di aver presentato ai dipendenti, agli agenti e ai partner internazionali il nuovo assetto societario e i nuovi obiettivi (comunicazione d’immagine) da raggiungere. Oltre alle già esistenti Bottega del Vino (un ampio spazio dedicato all’esposizione, alla degustazione e alla vendita degli oltre 40 vini prodotti), visita nelle cantine ottocentesche e hotel interno, si aggiungono due ristoranti dal target diverso: uno prestigioso con uno chef rinomato in una location unica (la Villa della Contessa Mirafiori), l’altro, il Grill Garden, un grande barbecue più adatto a tutte le occasioni. Inoltre, poiché la tenuta dispone di 13 ettari di bosco, l’ultimo rimasto intatto della Bassa Langa, a Oscar Farinetti è venuta l’idea di trasformarlo nel “Bosco dei Pensieri”, cioè in un percorso di meditazione e contemplazione tra piante secolari, vigneti e noccioleti. Nasce un itinerario suddiviso in tappe e scandito da aforismi d’autore, da bozzetti, testi e immagini per aiutare il visitatore ad immergersi nel silenzio del paesaggio naturale. Nell’ottobre 2009, l’azienda ottiene la certificazione ufficiale di azienda a viticoltura integrata: la tenuta diventa una Riserva Bionaturale. Accanto agli sforzi di portare sempre più visitatori all’interno della tenuta, restava un altro problema. Occorreva rilanciare l’immagine dell’azienda e dei suoi prodotti presso il consumatore che non poteva recarsi personalmente a Fontanafredda. L’azienda, secondo Farinetti, ha una qualità di prodotti adeguata; ciò che non è adeguata è solo la qualità percepita dai consumatori ed è questa che va cambiata240. La vera grande innovazione, al di là della riorganizzazione dell’assortimento e del cambio di etichette, è stato il lancio dei “Volumi Bollati”, con un packaging interamente riciclabile e biodegradabile con vetro riciclato all’85%. L’idea è duplice: innanzitutto mettere in commercio bottiglie da mezzo litro (per due persone), un litro (per quattro) e un litro e mezzo (per sei), più adatte ai consumi fuori casa. Secondo, e non meno importante, evitare un consumo Tablino L., Sartorio A. (a c. di), Mirafiore e Fontanafredda. Storie di vino e di amori, L’Artistica Savigliano, Savigliano, 2010.
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eccessivo di vino: nella pubblicità viene indicata la dose di vino da poter bere con tranquillità (due bicchieri a pasto). Infine, a partire dal 2010 la società Fontanafredda diventa “Casa E. di Mirafiore & Fontanafredda”. Si tratta non soltanto di una trasformazione nominale, ma di una vera e propria mutazione della filosofia produttiva del marchio storico piemontese: il nuovo nome oggi si traduce in una nuova gamma di vini unici e particolari per origine, carattere e personalità, che presentano al mercato il rigore e l’importanza della tradizione dei grandi rossi di Langa. Il progetto prevede un nuovo capitolo anche in fatto di politica commerciale; vi sarà, infatti, un’estensione della commercializzazione e della distribuzione ad altre cantine e ad altri produttori di cibi e bevande di alta qualità. Il denominatore comune è la pulizia etica e produttiva. Vale a dire prodotti “puliti” frutto di una terra “pulita”. Prodotti che mantengono la propria autonomia nella fase di produzione (fortemente localizzata e figlia delle specifiche tradizioni), ma si trovano riuniti in quella della distribuzione241. Ne risulta una rete costituita da più di venti aziende non solo produttrici di vino, ma anche di cibo ed altre bevande.
5.5.3. Le modalità di internazionalizzazione Fontanafredda opera all’estero da oltre 30 anni esportando i suoi prodotti in 66 Paesi sparsi su tutti i continenti. I mercati principali sono: Giappone, Danimarca, Canada, Svezia, Olanda, Germania e Stati Uniti. Il fatturato estero pesa il 30% su quello totale e l’80% di questo è raggiunto con i primi sei Paesi. I motivi principali che hanno spinto l’azienda ad internazionalizzarsi sono, in ordine di importanza: aumentare i profitti, soddisfare richieste provenienti dall’estero, ricercare nuovi mercati di sbocco a cui destinare i prodotti, in seguito all’individuazione di partner strategici. Così facendo l’azienda ha aumentato i profitti e le dimensioni aziendali, ed ha acquisito nuovi clienti esteri. I principali concorrenti dell’azienda sono quelli nazionali, data l’ampia scelta di vini italiani; mentre il Nuovo Mondo, al momento, non è un problema perché l’immagine del vino è molto precisa, chi vuole comprare vino italiano, compra vino italiano, chi invece vuole comprare vino argentino compra vino argentino. Fontanafredda esporta principalmente in maniera indiretta perché si tratta di una modalità meno rischiosa, assegnata in particolare a trading companies e a buyer internazionali. Inoltre, l’azienda affida l’entrata sui mercati stranieri 241
www.winenews.it
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a distributori residenti nei paesi di interesse. L’azienda ha inoltre attivato collaborazioni con enti stranieri, in particolare con le Camere di Commercio Italiane all’estero che risultano essere molto efficienti. Con esse entra in contatto, si fa conoscere ed apprezzare, soprattutto durante i tasting (degustazioni gratuite per assaggiare i prodotti). L’azienda ha deciso dal 2005 di ottenere la certificazione per la qualità ISO 9001:2000. In questo modo, tutti i processi di produzione del vino, dalla vendemmia all’affinamento, vengono puntualmente controllati al fine di garantire la naturalità e la qualità del prodotto. Gli obiettivi del sistema qualità sono: razionalizzare i processi aziendali per aumentare l’efficacia e l’efficienza dell’organizzazione; formalizzarne e diffonderne la conoscenza in modo da far diventare il Sistema Qualità una parte effettiva del patrimonio aziendale. Inoltre, l’azienda aderisce al programma dell’Unione Europea per la tutela ambientale e la riduzione degli interventi per la protezione delle colture, così da ridurre al minimo le lavorazioni al terreno del vigneto. Certificazione e adesione a programmi europei permettono all’azienda di farsi conoscere ed essere valutata anche all’estero.
5.5.4. La distribuzione e la promozione dei prodotti Fontanafredda distribuisce all’estero attraverso degli importatori la cui tipologia varia a seconda del mercato di destinazione. Ad esempio, in Svezia e in Canada essendoci il monopolio è lo Stato ad essere importatore, oppure negli Stati Uniti è obbligatorio avere un distributore, che è scelto dall’importatore stesso. In Italia si avvale di una rete di vendita diretta rappresentata da 130 agenti plurimandatari e i canali presidiati sono: la Distribuzione Moderna, composta da supermercati e ipermercati (GDO) e da self service all’ingrosso (Cash&Carry); la distribuzione tradizionale, quindi enoteche e negozi alimentari; l’ho.re.ca. (ristoranti, alberghi, bar e wine bar); attraverso la vendita diretta nella Bottega del Vino o con un mailing diretto ai dipendenti MPS o alle industrie. Questa diversificazione dei canali di vendita è conseguenza anche della particolare composizione della produzione costituita da vini per il 36% e da spumanti per il 64%. L’azienda è anche distributore di altre aziende sia italiane (2 in Toscana, 1 in Veneto, 3 in Piemonte, 1 in Puglia, 1 in Friuli) sia straniere (francesi e tedesche).
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Per quanto riguarda la promozione, all’estero Fontanafredda partecipa alle fiere più importanti del settore, mentre in Italia vengono fatte delle campagne pubblicitarie a seconda dei momenti dell’anno e del prodotto. Ad esempio, stanno per commercializzare un prodotto che passerà per la prima volta in televisione. Un altro esempio, è la sponsorizzazione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, dove Fontanafredda è fornitore ufficiale ed esclusivo per i vini e gli spumanti di tutta l’olimpiade: una vetrina mediatica d’eccezione. Il progetto olimpico di Fontanafredda nasce dall’esigenza di motivare e gratificare i principali partner dell’azienda al fine di rafforzare le relazioni commerciali; aumentare le vendite e le quote di mercato nazionale e internazionale; far crescere la riconoscibilità della marca presso il consumatore e rafforzare così il patrimonio di valori a favore di tutti i prodotti, anche quelli di fascia alta; richiamare le valenze qualitative del territorio piemontese e, con esso, la grande tradizione enogastronomica italiana, per mezzo dell’evento sportivo per eccellenza qual è quello rappresentato dai Giochi242. Le campagne sopra illustrate si rivolgono al consumatore e appaiono quindi in un canale di massa come la televisione e i quotidiani; prima del passaggio di proprietà l’obiettivo era invece rivolto verso il trade e si usavano riviste specializzate. La sfida attuale è capire se lo spostamento del target si ripercuote positivamente sull’immagine e sui guadagni dell’azienda, o se invece risulta dispersivo cercare di raggiungere una massa indifferenziata di consumatori.
5.5.5. La situazione competitiva attuale Ripercorrendo le tappe del percorso che Fontanafredda ha intrapreso per rilanciare la sua immagine in Italia e all’estero, risulterà più facile la comprensione della situazione competitiva attuale. Quando Giovanni Minetti diventa direttore generale dell’azienda nel 2006, comprende subito la necessità di ridare visibilità all’azienda, anzitutto migliorando la qualità dei prodotti, in modo che possa tornare ad essere leader dei vini del Piemonte in Italia e nel mondo. Egli decide quindi di partire dalla cantina, attraverso un’azione di radicale rinnovamento tecnologico. Nell’innovazione a tutto campo che coinvolge l’azienda, il vigneto rimane l’elemento centrale, la cui qualità viene considerata una priorità assoluta. Fontanafredda precorre i tempi anche nell’uso delle denominazioni, muovendosi nel contesto del progetto di classificazione delle “menzioni geografiche aggiuntive” del Barolo previsto dal nuovo Disciplinare di produzione, all’epoca in fase di elaborazione. Viene quindi adottato il modello francese, ridefinendo in modo organico le sottodenominazioni dei cru del Barolo. 242
Tablino L., Sartorio A. (a c. di), op. cit.
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Contemporaneità, carattere, terroir: queste le parole-chiave alla base dei cospicui investimenti necessari a sostenere il progetto della “nuova” Fontanafredda. L’azienda diventa fornitore ufficiale di Casa Italia per le Olimpiadi invernali del 2002 a Salt Lake City, poi per le Olimpiadi di Atene nel 2004 e, infine, nel 2006 ai Giochi Olimpici di Torino. Intanto, nel 2005 l’azienda ottiene la certificazione ISO9001, allo scopo di indurre il miglioramento continuo del prodotto e la soddisfazione del cliente. Nascono nuovi vini e nuove etichette, come il progetto Tenimenti Fontanafredda, che contraddistingue una serie di vini nuovi di grande personalità e carattere, in grado di evidenziare al meglio il rapporto unico tra vitigno, clima e lavoro dell’uomo. Nel 2008, l’azienda viene ceduta a una cordata di cui la Fondazione MPS è capofila con la maggioranza relativa delle quote (36%), mentre la parte restante, come già detto va ai due amministratori delegati Oscar Farinetti e Luca Baffigo. La nuova strategia aziendale prevede un piano quinquennale di riqualificazione dell’immagine dell’azienda, così da far conoscere Fontanafredda in ogni angolo del mondo. I lavori sono tuttora in corso; infatti, dopo la costruzione dei ristoranti e la trasformazione della tenuta in Riserva Bionaturale, il prossimo passo è l’edificazione di una fondazione, fortemente voluta da Farinetti, in memoria di Emanuele Guerrieri, personaggio molto importante nella storia della tenuta, è a lui che si deve la nascita di Fontanafredda come azienda vitivinicola. La fondazione, che avrà sede all’interno della tenuta, in edifici attualmente in ristrutturazione, avrà finalità culturali e ospiterà manifestazioni inerenti la lettura243. Per concludere, Fontanafredda è un’azienda storica e di produzione (non commerciale, come ci tiene a sottolineare l’intervistato) nel senso che l’acquisto si limita alle uve, ma tutto è vinificato in sito. Inoltre, la costante innovazione produttiva nel rispetto della tradizione e del territorio, la valorizzazione del territorio e delle risorse, la ricerca continua di una migliore qualità e di un packaging unico, il desiderio di aprirsi a nuovi mercati e consolidare quelli già esistenti forti 243
L’azienda può essere considerata a tutti gli effetti un cantiere aperto, sempre in fermento con tanti progetti in mente e in corso che è impossibile ricordarli qui tutti. Per questo, mi scuso fin da ora se ne ho dimenticato qualcuno, il mio scopo è quello di mostrare quelli più importanti ed innovativi al fine di una comparazione successiva con le altre cantine delle Langhe e in seguito con quelle francesi.
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delle competenze acquisite negli anni e dei metodi di internazionalizzazione vincenti già sperimentati, pongono senza dubbio Fontanafredda tra i casi di PMI italiane di successo.
5.6. Gianni Gagliardo s.r.l. Ragione sociale
GIANNI GAGLIARDO s.r.l.
Luogo e anno di fondazione
La Morra, 1974
Numero dipendenti
18
Fatturato 2007 in euro
4,3 milioni
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
30 ha 300.000
Intervistato
Gianni Gagliardo, proprietario
L’azienda vitivinicola Gianni Gagliardo è un’importante realtà di medie dimensioni, ben radicata nel territorio in cui opera, nel cuore della zona del Barolo, più precisamente a La Morra. La storia di quest’azienda ha inizio negli anni ’50, ma è nei primi anni Settanta che entra in scena Gianni Gagliardo, il quale si occupa inizialmente dell’imbottigliamento e della ricerca di nuovi mercati. Al tempo, infatti, il mercato del vino di qualità era nettamente inferiore rispetto all’attuale, ma intorno al terzo anno di lavoro il sig. Gagliardo sceglie in maniera indiscussa di produrre bottiglie di vino di qualità, anticipando quella che sarà una tendenza del mercato. I decenni trascorsi fino alla fine degli Anni ’80 possono essere indicati come quelli della quantità: l’obiettivo era lo sviluppo quantitativo delle produzioni agricole/vitivinicole, senza prestare particolare attenzione alle implicazioni ambientali e senza un’efficace ed adeguata logica programmatoria. La fase che si è successivamente aperta e che stiamo vivendo è invece caratterizzata da un diffuso ripensamento circa la gestione complessiva del territorio destinato alla produzione vitivinicola. Ciò ha determinato una maggior attenzione alle esigenze ed ai bisogni del consumatore finale (sia in termini di qualità percepita dei prodotti che di sanità intrinseca) e quindi la ricerca di una qualità complessiva del prodotto vitivinicolo che soddisfi congiuntamente tutte le esigenze. Oggi nella direzione dell’azienda, si affiancano a Gianni Gagliardo i figli Alberto e Stefano, il primo si occupa del lavoro in vigna mentre il secondo dell’area export.
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5.6.1. Presentazione dell’azienda L’azienda vitivinicola Gianni Gagliardo è composta da due società, facenti capo entrambe alla famiglia Gagliardo: la “Gianni Gagliardo vigneti” (società semplice) e la “Gianni Gagliardo unipersonale”. L’obiettivo della prima è quello di curare il vigneto, di produrre l’uva e di vendere la stessa alla seconda società, la “Gianni Gagliardo unipersonale”. Questa è una società a responsabilità limitata, e si tratta di un’azienda artigiana. La materia prima (uva) viene acquistata dalla “Gianni Gagliardo vigneti” e, se la necessità lo richiede, subentrano altri fornitori per quanto riguarda l’approvvigionamento di uva/vino/mosto (ciò dipende dalle disponibilità interne dell’azienda e dalle richieste del mercato). La proprietà dell’azienda è molto frammentata; può contare, infatti, su sedici appezzamenti, localizzati nelle Langhe e nel Roero, per un totale di 32 ettari. Nelle Langhe, la zona di nostro interesse, i vigneti sono distribuiti in quatto paesi: a La Morra, a Barolo, a Monforte d’Alba, e a Serralunga d’Alba. Le principali varietà coltivate sono il Nebbiolo da Barolo, oltre al Barbera ed al Dolcetto. La produzione di bottiglie è stata nel 2007 di circa 300.000 pezzi, raggiungendo un fatturato pari a 4,3 milioni di euro, di cui l’85% è realizzato all’estero in 32 Paesi. La qualità e lo stile del vino, sui cui si gioca la competizione tra produttori piemontesi, è alla base della produzione perché alla fine dei conti il miglior comunicatore resta il vino, non basta solo la strategia di marketing. Ogni produttore ha poi il proprio stile, che può derivare dalla posizione dei vigneti, e dalla sua visione, dalla sua impronta, c’è chi la dà personale e chi invece pensa anche al consumatore. Per questo motivo, l’azienda cerca sempre di avere vini con una grande identità, che devono rappresentare il territorio, che riconducano in un certo senso alla “piemontesità”. Lo stile va verso l’eleganza, intesa anche come facilità nel bere, senza sacrificare la qualità. L’eleganza unita alla territorialità e la qualità estrema, il saper fare il vino buono, sono caratteristiche distintive dell’azienda. Di conseguenza, i prodotti Gagliardo si collocheranno in una fascia di mercato medio-alta/alta. Un ultimo punto di forza dell’azienda è la forte vocazione all’export, l’80% della produzione viene esportata, e si tratta di una percentuale considerevole.
5.6.2. Le collaborazioni con i produttori locali Gianni Gagliardo ha sempre cercato, lungo il suo percorso imprenditoriale, di creare relazioni con i produttori locali, al fine sia di facilitare l’ingresso sui
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mercati esteri, sia di promuovere l’immagine del Piemonte nel mondo. Il primo tentativo di aggregazione risale agli anni Ottanta, quando, insieme ad altri due imprenditori, fonda la società “Cantine Riunite Piemontesi”, definendo un marchio comune per vendere insieme all’estero, mentre per l’Italia ogni socio è libero di vendere i propri vini con le proprie etichette. L’attività di export è cosi strutturata: ogni produttore conferisce alla società una particolare tipologia di vino (nel caso di Gagliardo questo è il Barolo) e, al momento dell’ordine estero, il vino conferito da ciascun produttore viene imbottigliato e inviato al destinatario. La “Cantine Riunite Piemontesi” inizia ad esportare in Europa (Germania e Olanda sono i paesi con il maggior numero di ordini) tramite la figura chiave dell’agente che acquista il prodotto alla società e lo rivende ai distributori dei paesi in cui opera. Purtroppo la società subisce pesanti insolvenze da parte di clienti di alcuni agenti, ed è costretta a chiudere. Oggi Gianni Gagliardo è presidente del consorzio export “Made in Piedmont” che raggruppa una cinquantina di aziende piemontesi (di cui fa parte anche Gigi Rosso). La creazione di questa ATI (Associazione Temporanea d’Imprese) è stata fatta sostanzialmente per poter accedere ai fondi dell’OCM (Organizzazione Comuni di Mercato), come è già stato spiegato nel paragrafo 5.3.2. A questo punto, occorre una breve digressione storica per comprendere il motivo per cui la collaborazione tra le aziende è più difficile in Piemonte rispetto ad altre regioni d’Italia. La storia del Piemonte è fatta di piccoli produttori tutti derivati da famiglie povere. Invece, prendendo ad esempio la Toscana, i protagonisti del vino sono famiglie nobili, come gli Antinori e i Frescobaldi, che hanno sempre avuto i mezzi economici per viaggiare ed assicurare il futuro alle nuove generazioni. In Piemonte, al contrario, ad ogni passaggio generazionale la terra veniva divisa tra i figli, finché negli anni Sessanta era talmente frammentata che è stata abbandonata per emigrare in fabbrica. I pochi rimasti si sono specializzati nel vino e piano piano hanno riacquistato le terre di quelli emigrati. Questi eventi, uniti a un basso livello culturale, hanno portato gli abitanti ad essere individualisti e diffidenti. Ecco allora che essere tanti, piccoli e con origini di questo tipo rende difficile creare reti di relazioni. È da pochi anni che si sta finalmente cominciando a capire che serve e premia essere uniti, ma siamo all’inizio. Gianni Gagliardo crede fortemente nel proprio territorio e ritiene che il Piemonte abbia bisogno di rinfrescare la propria immagine, ossia di creare un appeal e una domanda che in questo momento è assente. Ciò che manca alla
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regione è indurre il consumatore finale a comprare vino piemontese, cosa che invece accade più facilmente per regioni come la Sicilia o il Trentino Alto Adige, non perché producano vini migliori, ma perché sono riusciti a posizionarsi nella mente del consumatore come un prodotto fresco e d’uso quotidiano, mentre quello piemontese si colloca più nella fascia del consumo “d’occasione”. Per portare avanti queste convinzioni, Gianni Gagliardo sta cercando di convincere e coinvolgere la regione Piemonte affinché aiuti i produttori a rinfrescare e ringiovanire l’immagine del territorio: bisogna che i consumatori cambino le abitudini di consumo relative ai vini piemontesi, considerandoli di più facile accessibilità. Il primo passo è la promozione del marchio Piemonte, sensibilizzando gli enti pubblici, prima della promozione della singola azienda. Il consorzio di tutela non ha tra gli obiettivi quello della promozione del territorio, pertanto questo compito spetta ai produttori. L’azienda, ad esempio, (si veda il paragrafo 5.6.4 relativo alla promozione), ha creato un evento promozionale, l’Asta del Barolo, che, nasce con l’intento di promuovere, prima di Gagliardo, il Piemonte, le Langhe e il Barolo.
5.6.3. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese Gianni Gagliardo ha iniziato ad operare all’estero verso la fine degli anni ‘70/inizio anni ’80; oggi è presente in 32 Paesi dove raggiunge l’85% del fatturato, cioè 3 milioni e mezzo di euro: vendere all’estero è quindi di importanza fondamentale per quest’azienda. L’entrata nei mercati esteri dell’azienda vitivinicola “Gianni Gagliardo” è avvenuta per fasi successive: dapprima l’azienda è penetrata nei mercati più vicini dal punto di vista geografico e del comportamento dei consumatori, e successivamente ha esteso la propria attività lungo altre direttrici/Paesi. Il primo mercato estero in cui inizia ad esportare è la Svizzera, ovviamente grazie alla vicinanza geografica con l’Italia. Qui, le esportazioni incominciano attraverso i servizi dell’ICE, che fornisce contatti per avviare procedure di esportazione all’estero. Oggi, i principali mercati in cui opera sono l’America del Nord e l’Asia, in cui ha scelto di entrare attraverso l’esportazione indiretta. Il mercato cinese secondo Gianni Gagliardo non è molto interessante per la loro azienda, perché non ha una cultura del vino. Quindi, il consumatore cinese ricco, non sapendo scegliere il prodotto, si affida alle grandi marche e compra non perché apprezza il vino, ma per status. Questo comportamento di acquisto premia i grandi Bordeaux, gli Champagne e pochissime etichette italiane. Ciò
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nonostante l’azienda esporta in Cina perché è comunque un mercato che si sta evolvendo, stanno ad esempio nascendo grosse catene di negozi, distributori, ma è ancora tutto molto confuso. Per ora, secondo l’intervistato è meglio conservare e coltivare le roccaforti del vino italiano: Stati Uniti, Svizzera, Germania, Giappone e Canada. Nei mercati esteri in cui Gianni Gagliardo opera si avvale di intermediari autonomi, ad esempio gli agenti, o di altre organizzazioni, come le trading companies, oppure lasciando al compratore l’iniziativa di acquistare ed esportare verso un altro mercato. Gli importatori appartengono a diverse tipologie, ad esempio vi sono quelli specializzati in vini italiani, altri specializzati in food italiano, altri ancora operano a livello locale/regionale. La distribuzione dei prodotti è descritta nel prossimo paragrafo.
5.6.4. La distribuzione e la promozione dei prodotti L’ azienda vitivinicola Gianni Gagliardo gestisce la distribuzione dei propri prodotti attraverso un’organizzazione commerciale formata da tre responsabili: due di loro gestiscono i rapporti con gli intermediari esteri e il terzo si occupa delle vendite in Italia, che avvengono attraverso agenti plurimandatari. L’Italia assorbe una quantità sempre più esigua delle vendite della cantina Gagliardo, che è passata dal 25% nel 2002 al 15% nel 2009. La maggior parte dei clienti si concentra soprattutto nel Nord Italia e l’intermediario a cui Gagliardo affida il proprio prodotto è l’agente plurimandatario, che opera a livello provinciale ed ha una propria rete di vendita che raggiunge principalmente enoteche, ristoranti e alberghi. Non lavorano né con la Grande Distribuzione, né con la ristorazione da primo prezzo; questa decisione rispecchia il target medio - alto che l’azienda vuole raggiungere. La distribuzione dei prodotti all’estero avviene attraverso importatori esclusivi, circa uno per ogni Paese di riferimento, che sono scelti con attenzione perché il loro ruolo è quello di rappresentare Gianni Gagliardo in quel mercato. Infatti, l’intenzione del produttore è cruciale per dare origine alla catena di significati che dà senso al terroir, ma una volta spedito il vino, per definire l’esperienza che sarà vissuta bevendolo è altrettanto essenziale sapere chi si prende carico della bottiglia. Per questa si instaura un rapporto di partnership che va al di là della compravendita; infatti, organizzano con loro programmi di vendita e di promozione. L’elemento di difficoltà nella scelta del collaboratore internazionale consiste nel trovare qualcuno che sposi la filosofia dell’azienda, in questo caso la ricerca costante della qualità. Solitamente i contatti incominciano con la visita di un compratore straniero ad una fiera specializzata o ad una esposizione. Se
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il contatto si sviluppa, l’importatore può incominciare a richiedere campioni e listini oppure ricevere la visita di un agente del venditore, e gettare le basi per una collaborazione con il produttore. Per poter vendere i propri prodotti all’estero, è necessario adottare una strategia comunicativa e promozionale, come la visita diretta, un’attività attuata da molti piccoli produttori piemontesi. Il viaggio all’estero permette, infatti, di visitare i clienti, presentare i vini, incontrare i venditori, curare in modo particolare i rapporti con la stampa locale. Per un’azienda vitivinicola di medie dimensioni è molto importante il rapporto personale: i distributori, gli agenti, i ristoratori vogliono conoscere direttamente il produttore, e mantenere un contatto diretto con lui. Vengono altresì organizzate delle serate (dal produttore stesso o dai ristoratori) in cui il ristorante ospita il produttore, il quale deve presentare i propri vini accompagnandoli ai piatti tipici del locale: ciò permette una divulgazione diretta delle caratteristiche dei prodotti e un contatto one to one con i clienti. Coerentemente alla strategia di scelta dell’immagine, il produttore deve saper pesare gli eventi ai quali intende prendere parte: Gianni Gagliardo, ad esempio, non partecipa a serate promozionali in cui sono presenti altri produttori. Ciò vale anche per la partecipazione ad altri avvenimenti, come le fiere di settore, la cui scelta è ridotta a due soltanto: Vinitaly a Verona e Vinexpo a Bordeaux. Anche i rapporti con la stampa sono molto limitati, non c’è mai stato il focus sulle guide a tutti i costi in quanto provocano nelle persone un interesse temporaneo, mentre invece è meglio avere clienti consolidati e destinare a loro il tempo e il budget promozionale. Per quanto riguarda la promozione territoriale, ogni anno l’azienda organizza un grande evento, ideato e promosso da Gianni Gagliardo, che svolge efficacemente la funzione comunicativa e promozionale: l’Asta del Barolo. L’Asta del Barolo è una competizione mondiale di altissimo livello, con rilanci dall’estremo oriente (Hong Kong), dall’occidente e dalle Langhe. Nella grande sala di La Morra si sono riuniti compratori e giornalisti italiani e di parecchi paesi europei (Svizzera, Germania, Inghilterra ecc.), ed extraeuropei (Stati Uniti, Russia, Corea, Giappone ecc.). L’Asta del Barolo si presenta, quindi, come un grande evento mediatico che ha come protagonista il barolo e, coinvolgendo un numero elevato di produttori, ha una notevole ricaduta sul territorio in termini di visibilità del Piemonte e soprattutto dei vini del Piemonte. Nel 2008 c’è stata l’undicesima edizione e quest’anno Gianni Gagliardo ha deciso di rendere quest’iniziativa pubblica
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cedendola al territorio: non aveva più senso, infatti, tenerla privata, data la sua portata di carattere ormai globale. Questo tipo di promozione determina un forte legame tra produzione viticola, storia, tradizione, cultura (enogastronomia e non), permettendo una valorizzazione sia della propria realtà produttiva sia del proprio territorio, come “veicoli comunicazionali”244. Un’altra forma di promozione promossa dall’azienda in favore del territorio e dei suoi vini è la costruzione di una vineria nel centro di La Morra, dove si potranno degustare i vini della zona, e non solo quelli di Gianni Gagliardo, mentre alle pareti saranno appesi quadri di mostre temporanee, sempre per riprendere quel legame arte-vino, così amato anche dall’azienda Ceretto, e che sembra essere diventato ormai una moda nel mondo del vino.
5.6.5. La situazione competitiva attuale L’azienda vitivinicola Gianni Gagliardo ha raddoppiato il suo fatturato nel giro di due anni, passando da 2 milioni di euro nel 2005 a oltre 4 milioni nel 2007; inoltre, anche la percentuale di ripartizione del fatturato tra Italia ed estero è cambiata, sempre più a favore di quest’ultimo, che se nel 2003 rappresentava il 54%, oggi è salito all’85% del fatturato totale, raggiunto in gran parte grazie alle esportazioni negli Stati Uniti e in Asia (Giappone e Hong Kong). La mission dell’azienda è quella di raggiungere il massimo grado di qualità ed eleganza nella produzione dei propri vini, in modo da far conoscere queste caratteristiche in tutto il mondo. Lo stile del vino deve essere unico e distintivo e questo può essere raggiunto sia migliorando le caratteristiche intrinseche del vino, sia attraverso la creazione di un marchio che sia riconoscibile e resti impresso nella mente del consumatore. Il simbolo che rende riconoscibile la marca Gianni Gagliardo è la maschera cadente (riportata a pagina 242). Essa esprime la filosofia di Gagliardo: “La maschera rappresenta per noi quello che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo provato, condividendo una buona bottiglia con gli amici e lasciando cadere la maschera”. Nel mercato dei vini, una marca riconoscibile rassicura i clienti, offre un riferimento di qualità e di prezzo che li incoraggia a fare l’acquisto. Sorgerà spontaneo chiedersi se ciò sia realmente vero dopo che si sarà osservata la strategia delle aziende della Borgogna e ci si sarà accorti che nessuna di esse ha un proprio logo. Ciò che offre un riferimento di qualità e autenticità, nel caso francese, è il territorio e la conoscenza che di esso ha il consumatore. 244
Pastore R., op. cit.
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5.7. Le aziende delle Langhe a confronto In questo paragrafo si cercherà di riprendere le caratteristiche distintive di ciascuna realtà italiana in una rilettura comparativa, al fine di far emergere quali elementi vi sono in comune e per quali invece si differenziano. Sarà interessante osservare in che modo ogni azienda cerca il suo spazio in un mercato ormai saturo, si confronta con nuovi competitor e promuove i suoi prodotti sul proprio mercato e all’estero. Seguendo il filo conduttore delle tematiche affrontate durante le interviste e ripercorrendo singolarmente ciascun caso aziendale, si esaminerà, prima, quali sono i punti di contatto delle aziende e, in seguito, le caratteristiche distintive che permettono a ciascuna di esse di rimanere competitive nel mercato vitivinicolo mondiale. Innanzitutto, la prima caratteristica che si nota è la modalità di internazionalizzazione: tutte le aziende prediligono l’esportazione indiretta, avvalendosi quasi esclusivamente di importatori e distributori residenti nei mercati di destinazione e, meno di frequente, di agenti. Era già stato osservato nel primo capitolo relativo all’internazionalizzazione delle PMI italiane, che è questa la modalità preferita dalle piccole e medie imprese poiché richiede maggiore semplicità strategica e organizzativa; minore assorbimento di risorse soprattutto di tipo finanziario e rapidità nel generare ritorni economici. Il carattere di flessibilità che caratterizza l’esportazione si manifesta nel fatto che le PMI possono dare avvio alla propria espansione estera senza investimenti in capitale fisso e senza apportare cambiamenti nella struttura dell’impresa. È sicuramente per questi motivi che le imprese vitivinicole non solo italiane, ma vedremo anche francesi, ricorrono a questa tipologia. I canali di distribuzione sono tendenzialmente l’ho.re.ca., in particolare enoteche e ristoranti, sia per l’Italia sia per l’estero. Nonostante la GDO stia migliorando nel campo dell’offerta dei vini, i produttori restano diffidenti verso questo canale, soprattutto perché sono ancora convinti che il supermercato sia sinonimo di bassa qualità. Per quanto riguarda il focus sul mercato cinese, affrontato in tutte le interviste, il pensiero degli imprenditori è pressoché identico. In Cina non si è ancora sviluppata una cultura del vino, perciò, chi acquista vino è un particolare tipo di consumatore, ricco, che usa il vino come simbolo del proprio status e compra le marche famose indipendentemente dalla qualità o dalla provenienza. Per le piccole e medie realtà vinicole italiane, alla ricerca di un posizionamento di nicchia e di un consumatore che apprezzi e conosca i vini, il mercato cinese
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non è, almeno per ora, interessante. Può darsi, tuttavia, che in futuro queste condizioni mutino e si riesca a trasmettere la cultura del bere anche in un Paese con un patrimonio culturale così diverso dal nostro. Un altro punto in comune è il legame con il territorio. Tutte le aziende intervistate sono profondamente connesse con il loro territorio e le loro tradizioni, anche se ognuna di esse traduce questo rapporto in modo diverso. Per le cantine vitivinicole di questa zona è fondamentale rispettare il proprio passato e salvaguardare l’origine per poter rimanere competitive in un mercato dove i concorrenti non sono più solo i produttori europei (Francia, Spagna, Germania), ma anche quelli del Nuovo Mondo (Australia, Cile, Nuova Zelanda, Sud Africa) che assumono come strategia l’opposto di quella italiana o francese, non avendo un terroir e una tradizione da valorizzare. Non si può vendere un vino senza inserirlo nel suo contesto, cioè nel territorio dove si origina. Bisogna preparare il consumatore, raccontargli il vino e la sua storia, come, dove e da chi viene prodotto perché deve capire che da ogni ambiente deriva un vino con un carattere diverso. Per questo, il legame vino-territorio è indissolubile: il primo non può esistere senza il secondo. Secondo i viticoltori europei, i produttori nel Nuovo Mondo non otterranno mai il loro livello di qualità del vino, perché quest’ultima deriva da un numero di fattori troppo elevato per essere agevolmente ricostruita ed esportata in ambiti privi del lento processo di sedimentazione dato dalla storia. Senza il rispetto per le proprie origini e per le vigne accuratamente selezionate nel corso del tempo, le aziende vitivinicole delle Langhe, ma dell’Italia in generale, non riuscirebbero a distinguersi dagli altri produttori e perderebbero così uno dei vantaggi competitivi di cui nessun altro potrebbe disporre. In merito alla questione del territorio bisogna considerare un altro aspetto importante, quello delle relazioni tra gli attori. Dalla presentazione delle singole aziende emerge che la rete territoriale nella quale sono immerse è in continuo mutamento, non solo nuovi attori si inseriscono e altri ne escono, ma cambiano anche i ruoli di quelli che rimangono all’interno. Nonostante la presenza di attori importanti a livello internazionale, come Slow Food o l’Università del Gusto, ci si accorge che le aziende non cercano di creare con essi collaborazioni solide, durature o di reciproco beneficio, ma si accontentano di rapporti formali e occasionali. Prendendo in esame il Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero, la sensazione che si ha dalle interviste con gli imprenditori locali è di delusione per un ente che dovrebbe e potrebbe fare di più, e benché svolga con cura i compiti di tutela e gestione delle denominazioni, deve ancora incrementare e consolidare quegli aspetti inerenti la promozione e la valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti tipici
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vitivinicoli. Ancora oggi il territorio non riconosce nel consorzio l’istituzione forte che lo rappresenta, ma tende a rappresentarsi in vari altri enti, con la conseguente dispersione delle risorse e il mancato accordo per una politica comune di promozione e valorizzazione. Il consorzio dovrebbe pertanto cercare di migliorare in questo senso e potenziare le sue attività promozionali in vista di un maggiore e più ampio sviluppo del territorio di Langhe e Roero fino a raggiungere, in futuro, un ruolo di primo piano in cui tutti gli attori vitivinicoli possano sentirsi rappresentati. Bisogna tuttavia riconoscere al nuovo Presidente del Consorzio, Pietro Ratti, in carica da marzo 2010, che si sta muovendo molto per la promozione dei vini di Langhe e Roero, organizzando manifestazioni all’estero, anche in collaborazione con riviste di settore straniere, quali ad esempio Decanter. Ciò è senz’altro positivo e indice di una volontà maggiore, da parte dei membri del consorzio, ma in generale delle aziende vitivinicole locali, di attuare politiche mirate di promozione e valorizzazione del territorio sia in Italia che all’estero. Per quanto riguarda l’evoluzione dei ruoli degli attori che restano all’interno della rete, sembra che, nella rete territoriale, vi sia una sorta di continua gemmazione e conseguente distaccamento delle aziende le quali, partendo da situazioni di piccole realtà e di collaborazioni, come Ceretto e Fontanafredda, si sono via via ingrandite fino a diventare leader, staccandosi in un certo senso dalle altre imprese più piccole e iniziando ad agire da soli. Vediamo qual è stato il percorso delle due realtà riportate che, essendo medio - grandi e con maggiori disponibilità finanziarie, possono investire nel territorio e avere così una funzione trainante nel processo di valorizzazione delle Langhe. Ceretto è un’azienda famigliare condotta dai due fratelli Ceretto, i quali, forti delle loro esperienze, si sono resi conto che non gli conveniva più partecipare alle attività del consorzio o collaborare con altre imprese e, avendo ormai raggiunto un solido e florido fatturato grazie alla loro consolidata reputazione mondiale, riescono ad attuare progetti architettonici e manifestazioni culturali individualmente. Senz’altro, la promozione che fanno del territorio si ripercuote positivamente anche sulle altre cantine della zona, ma non riescono a sfruttare le loro risorse per il bene di tutti i produttori. Fontanafredda invece è un’azienda in costante fermento, un cantiere aperto che continua a sfornare idee e progetti grazie alla creatività dei suoi dirigenti e alla professionalità dei dipendenti. L’azienda dispone infatti di una disponibilità finanziaria e manageriale assente nelle altre aziende intervistate, e potrebbe
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fungere da leader per le piccole imprese presenti sul territorio. Potrebbe, perché le aziende famigliari tipiche delle Langhe guardano con diffidenza questo colosso del vino, si sentono minacciate, e, anziché prendere esempio o collaborare con esso, preferiscono fingere che non esista e continuare per la loro strada. Cosa fa allora il policy maker del territorio? Le aziende che dovrebbero guidare le altre non sembrano intenzionate a seguire la strada della cooperazione, ma cercano lo stesso, con i loro mezzi, di valorizzare il territorio. Comunque, non sono le sole ad avere la responsabilità del successo dell’area; infatti, questo compito spetta anche, se non in misura maggiore, alle istituzioni locali le quali, sebbene non ostacolino la coesione, devono ancora consolidare la propria posizione in questa direzione anche a causa della miriade di enti la cui frammentazione ostacola l’attuazione di politiche ed azioni comuni. Ma se i leader agiscono per conto proprio, come si comportano gli altri? Le piccole aziende, presto o tardi, capiranno che quelle più grandi hanno ottenuto il successo grazie a una determinata strategia e saranno costrette, per sopravvivere, a raggiungere i loro stessi livelli, che sia per invidia o per mimesi. Si potrebbe quindi pensare, in una prospettiva futura, che le piccole imprese continueranno ad allearsi e cooperare fino a che non emergerà nuovamente un leader che si staccherà dal gruppo. Non a caso, le altre due aziende intervistate, Gigi Rosso e Gianni Gagliardo, di dimensioni minori, fanno parte di un consorzio export (“Made in Piedmont”), ciò testimonia la volontà delle piccole realtà di collaborare tra loro e condividere esperienze e conoscenze. Nonostante il motivo principale dell’aggregazione sia la possibilità di accedere a contributi finanziari, questo porta inevitabilmente con sé lo scambio di saperi. Se alcuni decenni fa si tendeva più all’individualismo e alla diffidenza, oggi i produttori cominciano a capire che se non possiedono grossi quantitativi di bottiglie e non hanno le disponibilità finanziare ed organizzative per raggiungere tutti i mercati del mondo (e questi, abbiamo constatato nel primo capitolo essere i punti di debolezza delle PMI italiane), la sola strategia che resta è l’associazione tra imprese, la cooperazione al fine di un miglioramento comune. In base a quanto esposto prima, si potrebbe, perché no, ipotizzare che in futuro saranno Gigi Rosso e Gianni Gagliardo a diventare leader del territorio. Un’altra considerazione importante che emerge a questo proposito è che tutte le aziende vitivinicole dovrebbero comprendere che prima della promozione del marchio aziendale deve essere valorizzata l’area in cui risiedono. Se non si fa prima conoscere ai consumatori il territorio da cui proviene il vino, far loro apprezzare le caratteristiche uniche e intrinseche delle Langhe, non si potrà
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pubblicizzare adeguatamente le aziende vitivinicole. Il compratore, per essere informato sulla qualità del bene che intende acquistare, non può prescindere dalla conoscenza della provenienza del prodotto e basarsi solo sul nome del produttore, quando è il terroir, l’origine che fa del vino ciò che è. Senza dimenticare, ad un macro livello, quanto sia determinante, nell’acquisto di un prodotto, la percezione del Sistema Paese, strettamente connessa al country of origin effect (si veda il paragrafo 2.3). Si tratta, cioè, del valore che viene assegnato dai consumatori ai concetti di tipicità e di origine ed, in particolare, l’impatto della provenienza geografica (l’immagine, quindi, di un territorio), sulle percezioni, sulle attitudini e sulle intenzioni di acquisto dei consumatori nei confronti di prodotti realizzati in un determinato Paese. L’immagine di qualità e autenticità che il vino italiano veicola in tutto il mondo si ripercuote positivamente sia sul territorio da cui proviene (in questo caso le Langhe), sia sul Sistema Paese. Per concludere, ogni azienda di quelle analizzate è stata in grado di elaborare strategie differenziate rispetto alla creazione di una propria immagine ben definita sul mercato ovvero di operare con successo per creare una propria reputazione di marchio. In questo ambito non è possibile non notare la varietà delle strategie utilizzate, che si sono di volta in volta concentrate sulla pura ricerca di qualità e stile (Gianni Gagliardo), sul tentativo di costruire per il vino un’immagine di bene a elevato contenuto di cultura (Ceretto), sulla salvaguardia dell’origine (Fontanafredda) o su differenti combinazioni delle modalità descritte.
5.8. Il campione delle aziende francesi I criteri con cui sono state individuate le aziende francesi rispecchiano grossomodo quelli utilizzati per le aziende italiane. La scelta è stata tuttavia più difficile, innanzitutto per via della lontananza, che ne ha impedito l’osservazione prima dell’intervista. In secondo luogo, non è stato semplice comprendere il metodo di divisione, estremamente frammentata, della proprietà dato che, con un’unica immensa distesa di vigne, non era chiaro a chi appartenesse cosa; terzo, è emerso solo in un secondo momento che ruolo avesse il BIVB (Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne). Inizialmente, e ad un primo approccio, sembrava fosse come i nostri consorzi, a partecipazione libera, e tra le domande dell’intervista vi era anche quella relativa alla partecipazione o meno dell’azienda, finché non mi è stato spiegato che tutti coloro che decidono di avviare un’attività vinicola sul territorio della Borgogna sono costretti ad aderirvi (che siano produttori o negozianti). In un certo senso, alle aziende di questa zona è imposto il legame
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con il territorio, poiché versando una quota al BIVB, affidano a quest’ente la gestione delle attività di promozione della regione, compresi i vini, in Francia e soprattutto all’estero. È stato necessario anticipare questo elemento, che sarà ripreso nel dettaglio quando si confronteranno la Côte d’Or e le Langhe, perché il legame con il territorio è una delle tematiche affrontate per la ricerca. Tuttavia, se quest’aspetto è stato ampiamente sviluppato dalle aziende piemontesi, dove assume sfumature diverse a seconda dell’interpretazione del produttore, per quelle francesi, date le considerazioni appena esposte, si darà più spazio agli altri temi, essendo impensabile che la singola azienda faccia attività di promozione del territorio individualmente. Le aziende della Côte d’Or sono state posizionate geograficamente in figura 5.6.
Fig. 5.6: La collocazione geografica del campione di aziende in Côte d’Or Il campione individuato è formato da un’azienda tipicamente familiare, il domaine Armelle et Bernard Rion; da due aziende di piccole dimensioni i cui proprietari hanno affidato la gestione della tenuta a Thierry Brouin per il Domaine des Lambrays e a François Chavériat per il domaine Chantal Lescure; e infine dal domaine André Corton, si tratta di una maison de négoce, un attore che
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in Borgogna svolge un ruolo molto importante nella storia della vino e nella sua diffusione, in quanto spesso possiede quantitativi maggiori rispetto alle piccole aziende. La particolarità di questa azienda è il fatto di non essere proprietario e coltivatore delle vigne, ma di avere in gestione centinaia di appezzamenti che appartengono a piccoli viticoltori con i quali hanno stretto contratti di distribuzione. Le interviste sono state condotte in lingua francese presso la sede di ciascuno dei domaine in località Morey St. Denis, Vosne Romanée, Nuits St Georges, Aloxe Corton.
5.9. Domaine des Lambrays Ragione sociale
DOMAINE DES LAMBRAYS Sarl
Luogo e anno di fondazione
Morey-Saint-Denis, 1979
Numero dipendenti
8
Fatturato 2007 (in euro)
1,7 milioni
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
8 ha N.D.
intervistato
Thierry Brouin, direttore generale
La prima volta che si sente parlare del Clos-des-Lambrays è nel 1365 quale proprietà dell’abate di Citeaux (un’abbazia cistercense che all’epoca possedeva enormi distese di vigneti). Nel corso della storia viene suddiviso tra 74 proprietari finché, nel 1868 uno di essi, Albert Rodier, riuscì a riunire tutte le parcelle per ricomporre il vigneto nella sua integrità. Oggi, salvo alcune micro parcelle, l’intera superficie è di proprietà dell’omonimo domaine, che dal 1996 appartiene ai coniugi Freund, entrambi membri della Confrérie des Chevaliers du Tastevin. Il compito di gestire l’azienda rimane all’enologo Thierry Brouin, che aveva iniziato a gestire l’azienda nel 1979 ed è ancora oggi garante della qualità dei vini del domaine. La passione per il suo lavoro è lampante, basta dire che la prima cosa che ha voluto mostrare sono le sue vigne, quelle del Grand Cru Clos-des-Lambrays.
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5.9.1. Presentazione dell’azienda APPELLATION MOREY-SAINT-DENIS È una delle appellation più piccole della Côte d’Or. 135 ettari di vigneti, di cui 40 ospitano cinque prestigiosi Grand Cru tra i quali il Clos-des-Lambrays. Quest’ultimo è una appellation di circa 8,8 ettari, con la parte alta costituita da suoli marnosi e ben ventilati che donano finezza, mentre quella bassa costituita da terreni più argillosi, che produce vini più potenti. Il Clos-des-Lambrays è posseduto quasi interamente dal Domaine des Lambrays, ma poiché un’altra azienda ne ha una piccolissima parte (pochi acri), non può essere considerato a tutti gli effetti un monopole, cioè un appezzamento di un solo proprietario.
Il Domaine des Lambrays è un’azienda dalle dimensioni molto piccole, possiede infatti solo 8 ettari di terreno e produce meno di 80.000 bottiglie l’anno. I dipendenti sono 8, così suddivisi: il direttore, Thierry Brouin, due assistenti, tre lavoratori in vigna e i due custodi del castello, oltre ovviamente ai proprietari, i Freund, che non si trovano però in Borgogna e non si occupano della gestione. Nonostante le dimensioni ridotte, il fatturato è relativamente alto (quasi due milioni di euro); questo è dovuto al fatto che i prodotti sono venduti a prezzi elevati. La filosofia aziendale si esprime nel produrre un vino che le persone abbiano voglia di bere. Le caratteristiche essenziali che questo vino deve avere sono l’eleganza, la finezza e la complessità, allo scopo di preservare la diversità e rimanere fedeli all’autenticità e al terroir. In linea con questa filosofia, la mission dell’azienda è la conservazione della qualità, il rispetto delle annate e dei loro cambiamenti in funzione del clima senza agire sul prodotto adattandolo; è la natura che decide, non sta all’uomo cambiare il vino se l’annata non è buona. Le caratteristiche distintive dell’azienda possono quindi essere riassunte in tre parole chiave: la qualità, l’autenticità e l’espressione del terroir.
5.9.2. Le modalità di internazionalizzazione La modalità di esportazione è sia diretta mediante il contatto con il consumatore finale (ad esempio in Svizzera), sia indiretta, attraverso degli agenti, circa uno per ogni Paese o area (ad esempio uno per l’Europa, uno la Scandinavia,
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uno per il Giappone). L’azienda, nonostante si avvalga di intermediari nella maggior parte dei casi, non è sempre rappresentata da agenti; negli Stati Uniti, ad esempio, commercia direttamente con l’importatore. I motivi per cui l’azienda ha deciso di operare all’estero sono per ricercare nuovi mercati di sbocco in cui operare e per soddisfare richieste provenienti dall’estero; in questo modo è riuscita ad acquisire nuovi clienti sia nazionali sia internazionali e migliorare la propria immagine a livello nazionale. L’azienda opera in 35 Paesi con clienti che per la maggior parte acquistano piccoli quantitativi (con 8 ettari di vigne sarebbe comunque impossibile produrre grandi quantità di vino). Il fatturato export pesa per circa il 50% sul fatturato totale, e nel 2007 è ammontato a quasi 900.000 euro. Il problema di avere tanti piccoli clienti che comprano qualche decina di casse (una cassa corrisponde a 12 bottiglie) è il lavoro burocratico che sta dietro (per il vino, essendo un prodotto fortemente regolamentato, sono, infatti, necessari molti documenti amministrativi), ma allo stesso tempo si ha il vantaggio della sicurezza: un’insolvenza di 5 casse (cioè 70 bottiglie) non è grave come una di 500 casse, per intenderci. L’intervistato ha avuto una brutta esperienza che lo porta oggi ad essere molto più vigile sui contratti e i pagamenti. Alcuni clienti in Russia hanno chiesto di poter pagare solo metà in anticipo e il resto alla consegna della merce; così è stato per un paio d’anni finché poi hanno iniziato a non pagare più la seconda parte del corrispettivo e sono scomparsi. Da quel momento l’azienda richiede sempre l’intero importo in anticipo. Con la Cina sono ancora in fase di negoziazione; comunque l’intervistato stima che riusciranno a vendere piccoli quantitativi (all’incirca 5 casse).
5.9.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti Il Domaine des Lambrays si occupa di tutte le fasi della catena vinicola, non vendono uva, ma solo il vino da loro imbottigliato. I canali di vendita sono: la ristorazione di alto livello, poiché il direttore ritiene che sia una buona vetrina essere presenti sui menu di questi ristoranti; le grandi enoteche come Nicolas245 alle quali vendono circa 100 casse l’anno (una cassa è formata da 12 bottiglie) e le enoteche più piccole che comprano da 35 a 80 bottiglie; infine, vi è la clientela fedele dei privati che ogni anno acquistano anche solo tre bottiglie (da notare che una bottiglia di Grand Cru Clos-des-Lambrays costa in media 85€). L’azienda 245
Vendita di vini e spiritosi sia attraverso alcuni negozi presenti sul territorio francese, sia online.
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non utilizza il canale della Grande Distribuzione né del Cash&Carry, perché abbasserebbero il livello di qualità del prodotto. Inoltre, non bisogna dimenticare che esiste il “grey market246” soprattutto nel Regno Unito, dove gli importatori comprano vini francesi e italiani e li rivendono in altri Paesi all’insaputa dei produttori. Per quanto riguarda la promozione, il domaine fa un po’ di pubblicità sui giornali specializzati sia nazionali sia europei (Svizzera, Belgio, Regno Unito); prende parte alle degustazioni locali per i giornalisti di tutto il mondo, ottenendo così anche pubblicità involontaria; partecipa a cene all’estero in cui presenta i suoi vini. Invece, non partecipa a fiere e saloni perché preferisce comunicare a un’elite di persone ben scelte i suoi prodotti che sono comunque di qualità e ricercati. Inoltre, come tutte le aziende della Borgogna, dona dei campioni del suo vino al BIVB, che si occupa della promozione. È, tuttavia, difficile svolgere una pubblicità comune per la Borgogna, sia perché l’offerta è molto varia e differenziata sia perché i produttori sono molto individualisti e gelosi della loro proprietà. Per questo, affiancano spesso iniziative proprie all’attività del BIVB (nel caso del Domaine des Lambrays, abbiamo osservato che queste iniziative si traducono nella partecipazione a cene sia in Côte d’Or sia all’estero). Questo non esiste ad esempio nella regione del Bordeaux, dove si riesce a fare una pubblicità comune grazie all’uniformità del prodotto (appunto il Bordeaux).
5.9.4. La situazione competitiva attuale La strategia che negli ultimi anni sta premiando i produttori del Nuovo Mondo deriva dal fatto che essi hanno saputo adattare il vino al gusto e al piacere dei consumatori, ad esempio modificandone l’aroma o la quantità di zucchero ivi contenuta (procedimento vietato in Italia). Inoltre, hanno impiantato nei loro Paesi vitigni di origine europea, come il Pinot e il Nebbiolo: i loro vini sono pertanto privi di origine e di tradizione. La loro fortuna è quella di avere vasti spazi a disposizione da adibire alla coltura della vite e possono così produrre grossi quantitativi da immettere sul mercato. Un’altra differenza concerne la maggiore importanza che viene data al 246
Il mercato grigio si riferisce al flusso di beni tramite canali di distribuzione diversi da quelli autorizzati o da quelli pensati dal produttore o fabbricante. Diversamente da quelli del mercato nero, i prodotti del mercato grigio non sono illegali; soltanto, vengono venduti al di fuori dei normali canali di distribuzione da società che possono non aver nessuna relazione con il produttore dei beni. È spesso conveniente acquistare vino in Europa, di solito da un distributore autorizzato, per rivenderlo negli USA o in Asia.
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produttore del Nuovo Mondo rispetto alla denominazione, proprio per l’assenza di origine poc’anzi menzionata. Può darsi che questa strategia di adattamento al gusto dei consumatori fino ad ottenere un prodotto standardizzato possa in un primo tempo creare concorrenza coi produttori francesi o italiani. Ma non è detto che sia questa la strada per ottenere successo e rimanere competitivi. Ad esempio, il Beaujolais (vino del sud della Borgogna) ha cercato qualche anno fa di modificare il gusto del vino aromatizzandolo con il sentore di vari frutti, questo l’ha portato oggi al fallimento perché i consumatori non ritrovano più il gusto originale. Il Domaine des Lambrays ha la fortuna di essere tra le prime 40 aziende di Francia: questo gli permette di essere conosciuto nel mondo intero senza investire in pubblicità perché compare sulla guida dei “Grandi Domaine a 3 stelle”. L’azienda è privilegiata in questo senso: vive della notorietà della Borgogna come regione vitivinicola tra le più importanti e conosciute al mondo e della fama che i vini del Clos-des-Lambrays hanno acquisito nel corso del tempo. Pertanto, finché l’azienda continua a puntare sulla qualità, sul terroir e sull’autenticità come elementi distintivi, non ha bisogno di molto altro per sopravvivere nel mercato attuale. E, in effetti, si è visto che non investe molto denaro in promozione sia a livello locale sia all’internazionale. Se è vero che fino ad oggi questa mentalità ha portato un’azienda così piccola come il Domaine des Lambrays a raggiungere un fatturato considerevole, sorge spontaneo chiedersi se davvero in futuro basterà solo questo per affrontare le sfide del mercato.
5.10. Domaine Armelle et Bernard Rion Ragione sociale
ARMELLE e BERNARD RION
Luogo e anno di fondazione
Vosne Romanée, 1896
Numero dipendenti
7
Fatturato 2007 (in euro)
300.000
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
8 ha n.d.
Intervistato
Alice Rion, figlia dei proprietari
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L’azienda è stata fondata nel 1896 dal padre di Bernard Rion, che oggi la dirige insieme alla moglie Armelle e alla figlia Alice. La proprietà, nonostante sia composta solo da 8 ettari è molto frammentata (6 appezzamenti due dei quali inferiori all’ettaro). I vigneti hanno in media 50 anni e appartengono alle zone più vocate della Côte de Nuits, lavorati con metodi di coltura rispettosi dell’ambiente. Vinificano in modo tradizionale perché il loro obiettivo è ottenere vini con grande potenziale di invecchiamento dall’ottima qualità. Più per passione che per diversificazione, nel 1988 la famiglia Rion inizia la ricerca e la vendita del tartufo di Borgogna. Il fatturato aziendale è stato nel 2007 di 300.000 euro, di cui il 40% all’export e principalmente in Canada e negli Stati Uniti.
5.10.1. Presentazione dell’azienda APPELLATION VOSNE-ROMANEE (225 ettari vitati) Nei vini di Vosne il Pinot noir esprime tutte le sue potenzialità, donando un ampio ventaglio di percezioni sensoriali, coniugando struttura ed eleganza, non solo nei vini più prestigiosi. Da qui provengono alcuni dei vini più cari al mondo, come la famosissima “Romanée-Conti”, che occupa solo 2 ettari.
Un po’ come tutte le realtà vitivinicole della Borgogna, i punti di forza di quest’azienda sono il legame con la tradizione e il concetto di terroir. È su questi elementi che l’azienda lavora, poiché veicolano la storia della regione e contribuiscono a formare lo charme della Borgogna. È importante mantenere la frammentarietà della proprietà per garantire la diversità della produzione. Infatti, su ogni parcella dell’azienda è prodotto un vino diverso, nonostante si trovino a poche centinaia di metri le une dalle altre. Lo sforzo successivo è quello di trasmettere questa varietà anche all’estero. I consumatori stranieri partono innanzitutto con l’idea di cépage (vitigno), in questo caso di Pinot Noir, in seguito capiscono le differenze di qualità e da ultimo che queste differenze derivano dalla posizione delle parcelle. Un altro punto di forza dell’azienda è la sua posizione: si trova infatti lungo la statale che divide in due la Côte d’Or, nel comune di Vosne-Romanée. I turisti che percorrono questa strada più volte al giorno spesso effettuano delle tappe intermedie e scelgono le cantine semplicemente perché le vedono lungo il percorso. Non a caso, una parte considerevole del guadagno dell’azienda
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deriva dalla vendita diretta in cantina a turisti che si fermano casualmente a degustare. Infine, l’ingresso nel domaine della figlia, ha portato a un ringiovanimento della strategia aziendale: lei è infatti convinta che in futuro, per una piccola realtà come la loro sia necessario unirsi con altri produttori allo scopo di riuscire a vendere nei mercati esteri. L’idea è quella di raggruppare viticoltori con un portafoglio di offerta diversificato, in modo da proporre una vasta gamma dei vini di Borgogna attraverso un unico interlocutore. Sembra infatti che gli importatori appartenenti ai grandi mercati, come quello cinese, cerchino la soluzione più semplice: un cliente, in vendita diretta con un’ampia gamma dei vini di Borgogna, piuttosto che tanti piccoli produttori con un ristretto numero di denominazioni. Purtroppo l’intervistata non è ancora riuscita ad avviare questo suo progetto, da una parte perché non è facile trovare qualcuno competente che conosca molti mercati e abbia già una clientela estera, dall’altra perché i domaine non riescono ad accordarsi tra loro su questioni di budget, di mercati da aggredire, e investono pochissime risorse nella comunicazione.
5.10.2. Le modalità di internazionalizzazione L’azienda ha deciso di operare all’estero soprattutto per cercare nuovi mercati ai quali destinare i propri prodotti e per soddisfare le domande provenienti dall’estero. I benefici ottenuti dall’internazionalizzazioni sono stati: l’aumento dei profitti, l’acquisizione di nuovi clienti stranieri e il miglioramento dell’immagine anche a livello nazionale. Oggi l’azienda, puntando sulla qualità del prodotto e sui prezzi competitivi, esporta principalmente negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone. Da due anni lavorano inoltre con la Repubblica Ceca e l’Isola di Jersey. La modalità scelta per penetrare questi mercati è l’esportazione indiretta attraverso agenti e importatori che risiedono nel Paese di destinazione. Un nuovo mercato nel quale l’azienda ha appena iniziato ad operare è quello brasiliano (per ora hanno spedito un solo ordine), un Paese che l’intervistata ritiene molto interessante dal punto di vista commerciale perché vi è una parte della popolazione ricca che sta rivolgendo l’attenzione non solo ai vini dei Paesi vicini (Argentina, Cile, Stati Uniti), ma anche verso quelli europei. Inizia quindi a diffondersi una cultura del vino, soprattutto di quello d’alta gamma. Anche la Cina presenta le medesime caratteristiche demografiche, vi è cioè grande differenza tra la maggior parte della popolazione e un ristretto gruppo di cosiddetti nuovi ricchi. Tuttavia, il mercato cinese per la famiglia Rion non
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rappresenta, per adesso, un’opportunità in quanto, come già più volte spiegato in questo capitolo, i cinesi che comprano vino lo fanno per status e acquistano quindi bottiglie molto care senza conoscerne le caratteristiche. Paradossalmente (perché comunque i vini borgognoni sono venduti a prezzi in media elevati, all’incirca sui 30-40€), i prodotti dell’azienda Rion non sono abbastanza costosi per interessare il consumatore cinese.
5.10.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti I prodotti dell’azienda Rion sono venduti all’estero per il 40%; direttamente in cantina per il 30% e il restante 10% ai ristoranti e alle enoteche. L’azienda si rivolge a un negoziante per la vendita dei propri vini nei supermercati soprattutto per le “Foire aux Vins”; si tratta di eventi organizzati dalla Grande Distribuzione due volte l’anno in cui vengono messi, per così dire, i vini in saldo. I consumatori possono in questo modo acquistare vini di qualità a prezzi scontati. Questa tipologia di vendita è molto diffusa in Francia e gode di un’ottima reputazione. La distribuzione all’estero avviene sempre tramite un importatore ed è questa figura che nella maggior parte dei casi contatta il domaine direttamente o durante le fiere. L’azienda partecipa, inoltre, ad un’importante fiera denominata “Grands Jours de Bourgogne” che si svolge ogni due anni nel mese di marzo in Borgogna ed è aperta ai soli professionisti (figura 5.7 per maggiori informazioni). I viticoltori sono suddivisi in base alle denominazioni, in questo modo è più facile per gli importatori trovare quello che cercano e paragonare produttori diversi con le medesime denominazioni. È durante questo salone che l’azienda ha ad esempio incontrato l’attuale importatore brasiliano e alcuni nuovi importatori giapponesi. GRANDS JOURS de BOURGOGNE Nata nel 1992, a cadenza biennale nel mese di marzo, la fiera ha la particolarità di svolgersi nel cuore dei vigneti della Borgogna anziché in uno spazio espositivo. Durante la settimana della manifestazione, giornalisti e professionisti sono invitati a percorrere tutta la Borgogna alla scoperta di 10.000 vini e 1.000 produttori borgognoni. Cifre chiave del 2010: • 2100 visitatori di cui il 40% nuovi partecipanti (+10% rispetto al 2008); • Professionisti presenti: 24% importatori, 21% enoteche, 9% giornalisti;
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964 espositori (937 nel 2008); 40 Paesi rappresentati, di cui 12 nuovi; 15 luoghi di degustazione; 45% dei visitatori francesi, 55% stranieri, in particolare: Belgio (15,5%), Stati Uniti (12%).
Fig. 5.7: Il salone “Grands Jours de Bourgogne” Fonte: Bilancio della decima edizione, on-line su: www.grands-jours-bourgogne. com La partecipazione ad altri eventi promozionali di questo tipo da parte del domaine è limitata a una o due fiere all’estero, soprattutto rivolte a professionisti. Ad esempio, la fiera “Terroir et signature” gestita a Londra dal BIVB unicamente per presentare i vini borgognoni. Questa fiera è organizzata, con lo stesso nome, in diversi Stati al fine di promuovere i prodotti della regione usando il medesimo canale. La scelta di prendere parte a fiere rivolte esclusivamente a professionisti deriva dal tipo di target prefissato: essendo i vini di Borgogna ricercati e di alta gamma, i consumatori devono rispecchiare queste caratteristiche e devono quindi intendersi di vino a avere il desiderio di conoscere nuovi prodotti. L’unica altra attività promozionale è effettuata con il sito internet e tramite dei volantini per i turisti stampati da loro e lasciati negli hotel e nei ristoranti della zona.
5.10.4. La situazione competitiva attuale La competizione con i concorrenti del Nuovo Mondo non è sentita da parte dell’impresa perché questi ultimi non intaccano il mercato dei vini di Borgogna: nei mercati di nicchia, dove ciascun vino è unico e legato ad un terroir differente, non esiste la concorrenza di vini standardizzati a prezzi medio/bassi come quelli del Nuovo Mondo. La sfida dei viticoltori francesi, così come di quelli italiani, non è quella di giocare sulle stesse leve di questi produttori, ma di continuare a puntare sui propri elementi distintivi: la tradizione e l’idea di terroir. L’azienda Rion si è appropriata di questi concetti valorizzandoli attraverso i suoi prodotti. Il suo legame con la tradizione, che viene trasmessa di generazione in generazione, è forte, ma anche la loro curiosità che li porta spesso a viaggiare per conoscere luoghi e scoprire mondi diversi. In generale, in Borgogna la tradizione è quasi esasperata in alcune fasi del processo di produzione dei vini; ad esempio, se si osservano le etichette, sono tutte molto simili tra i domaine: il design è praticamente lo stesso da decenni così come la forma della bottiglia.
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Quest’azienda non ha grandi pretese: il suo fatturato è il più basso di tutte le imprese intervistate (300.000 euro); esporta in pochi Paesi e in piccole quantità; non investe quasi nulla in comunicazione. La possibilità di poter parlare, oltre che con la figlia, anche con il padre, che ha fatto da accompagnatore nella visita e nella degustazione in cantina, ha permesso di constatare che questa famiglia, benché poco ambiziosa e assai modesta è profondamente legata alle proprie radici e al proprio territorio e trasmette la sua passione per il lavoro. Bernard Rion ha confessato orgoglioso di essere riuscito ad acquistare recentemente alcuni filari di Clos de Veugeut (una rinomata denominazione) e ha così svelato il mistero di questo mare di vigne che s’incontra in Côte d’Or. Non è semplice capire come i proprietari riescano a dividersi i vigneti non essendoci strade o recinti a fungere da divisorio. La risposta è la seguente: ogni produttore conosce e riconosce le proprie vigne, che ad un occhio non esperto risultano tutte uguali, perché le possiedono e vi lavorano da centinaia di anni. In questo sono aiutati dall’amore per la propria terra e i suoi frutti e dall’esperienza pluricentenaria del lavoro in vigna.
5.11. Domaine Chantal Lescure Ragione sociale
DOMAINE CHANTAL LESCURE
Luogo e anno di fondazione
Nuits-Saint-Georges, 1975
Numero dipendenti
9
Fatturato 2007 (in euro)
700.000
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
18 ha 70.000 bottiglie
Intervistato
François Chavériat, responsabile della cantina
L’azienda, nel pieno centro di Nuits-Saint-Georges, è stata fondata nel 1975 da Chantal Lescure e da suo marito, che oggi hanno lasciato la conduzione in mano ai loro due figli, i quali, con fedeltà e grande energia, ne proseguono la filosofia. La proprietà comprende 18 ettari di vigneti (di cui solo 3 di bianco) e vanta grandissime tradizioni. In totale sono prodotte 20 denominazioni su circa una cinquantina di parcelle (che in totale raggiungono i 18 ettari) che percorrono tutta la Côte d’Or. Vi è grande attenzione nella conduzione dell’azienda da parte di questi produttori che si caratterizzano per alcune scelte radicali, sia in vigna con
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coltivazioni biodinamiche sia in cantina con attenzione e cure notevoli per mantenere l’integrità del frutto e del lavoro agronomico. Nel 2007 l’azienda ha raggiunto un fatturato di 800.000 euro e una produzione annua di circa 70.000 bottiglie.
5.11.1. Presentazione dell’azienda APPELLATION NUITS-SAINT-GEORGES È composta da 300 ettari di vigneto che sono separati dall’omonimo villaggio. La parte a nord presenta caratteristiche geologiche simili a quelle di VosneRomanée, con cui confina (suolo omogeneo e povero di argille), mentre nella zona a sud i terreni, come i vini, cominciano ad essere più strutturati con varie percentuali di argille rosse.
La persona intervistata è entrata a far parte dell’azienda nel 1996 alla morte di Chantal Lescure con il ruolo di “Maitre de Chai” (responsabile della cantina). A partire dall’anno seguente ha orientato il domaine verso l’agrobiologia, ottenendo la certificazione BIO a validità annuale. La coltura biodinamica sposa perfettamente la filosofia dell’azienda: produrre con la qualità più alta possibile. Vi è un profondo rispetto per il territorio e le sue caratteristiche pedoclimatiche che nasce dalla consapevolezza di produrre vini tra i più conosciuti ed apprezzati al mondo. L’azienda vuole, quindi, valorizzare la nobiltà di questo terreno e fare dei vini non internazionali (come quelli del Nuovo Mondo, per esempio), ma borgognoni, con un gusto e un’espressione unici; dei vini puri e autentici: ecco perché lavorano in agrobiologia, una condizione indispensabile per esprimere il terroir. Per intenderci, agrobiologia significa nessun utilizzo di prodotti chimici e una riflessione sulla via del suolo e il suo equilibro con le piante: considerare il suolo con rispetto perché è la raison d’être dei loro vini. Per questo motivo la loro mission è la preservazione del terroir e della sua identità: non si vuole produrre vino “Chantal Lescure”, ma “Pommard”, “Mersault”, “Nuits Saint Georges”247. La strategia dell’azienda è quella di non perseguire il modello di standardizzazione e di ricerca di un gusto permanente promosso dal Nuovo Mondo, ma al contrario di valorizzare la diversità e la purezza del proprio territorio. Purtroppo, i consumatori faticano a comprendere questa diversità, 247
Si tratta di nomi di denominazioni che identificano il terroir, cioè dove è prodotto il vino, e non da chi è prodotto.
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soprattutto quelli cinesi, anche perché il vigneto Borgogna rappresenta solo lo 0,5% del volume mondiale ed è pertanto impossibile che sia conosciuto in tutto il mondo. In sostanza, il vino di Borgogna è un vino di amatori e di conoscitori. Se l’azienda, oltre a questa identità borgognotta vuole aggiungere il concetto di purezza del terroir, ecco che diventa difficile comunicare tutte queste nozioni.
5.11.2. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese L’azienda esporta il 40% della produzione all’estero: il primo mercato è il Giappone e il secondo l’Europa, in particolare Belgio, Svizzera, Germania, Olanda. Iniziano ad esportare piccole quantità anche in Italia del Nord, perché essendoci cultura del vino è più semplice vendere vini di nicchia come quelli borgognoni. Il mercato dove l’azienda inizierà probabilmente ad operare entro il prossimo anno è quello inglese, che è sempre stato uno dei principali mercati dei vini di Borgogna, inoltre vorrebbe rafforzare la sua posizione su quello americano che è attualmente difficile per il domaine. L’azienda Chantal Lescure considera il mercato cinese troppo grande e quasi per niente interessante (il concetto di “interessante” è definito dall’intervistato come un insieme di contenuti simbolici che si sviluppano intorno all’apertura di una bottiglia, essendo la bottiglia a veicolare la cultura del Paese e deve essere presentata adeguatamente a un pubblico conoscitore); può darsi che in futuro possa esserci una parte del mercato cinese, quella della ristorazione e degli hotel di alti livelli, che interesserà l’azienda. Da notare che, comunque, i clienti di alberghi e ristoranti internazionali sono uomini d’affari e viaggiatori, non cinesi. François Chavériat dichiara inoltre che per potervi operare è necessario da un lato avere qualcuno che conosca perfettamente il mercato e dall’altro produrre grossi volumi. Per questi motivi chi opera oggi nel mercato cinese non sono i piccoli produttori borgognoni, ma i negozianti che raggiungono quantitativi di molto superiori. Quest’affermazione è tanto più vera se si dà uno sguardo alle aziende francesi intervistate: le tre piccole imprese analizzate finora non esportano in Cina o lo fanno solo in piccole quantità, mentre la prossima azienda che affronteremo non ha problemi a confrontarsi col mercato cinese, ed è appunto un negoziante. Per riassumere, l’idea dell’intervistato è che, per ora, i cinesi non hanno nessuna cultura del vino né dei Paesi in cui esso è prodotto; questa cultura probabilmente arriverà nel corso di qualche generazione, come è avvenuto in Giappone, dove trent’anni fa era molto difficile vendere vini di Borgogna, mentre
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oggi è uno dei primi mercati di destinazione. In ogni caso l’azienda ha cominciato a lavorare con un giovane agente che si occupa di Hong Kong, Taiwan e Shangai, ma per il momento si tratta più che altro di partecipazione a fiere (come Winexpo a Shangai), accoglienza clienti in cantina e invio di campioni.
5.11.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti Per esportare sui mercati esteri l’azienda si avvale di importatori che variano a seconda del Paese; in Giappone ad esempio lavora con un importatore che a sua volta distribuisce il prodotto. In Germania e in Svizzera l’importatore vende direttamente alla ristorazione. Negli Stati Uniti sono invece rappresentati da un agente a cui è affidato il compito di trovare degli importatori. La Francia rappresenta il mercato principale dell’azienda, infatti vi realizza il 60% del fatturato. I prodotti vengono venduti a privati, alla ristorazione e alle enoteche e la distribuzione avviene sia attraverso il contatto diretto, per quanto riguarda le enoteche (lavorano con circa 150 enoteche), sia tramite un agente che si occupa invece dei contatti con la ristorazione. Il domaine effettua pochissima promozione e principalmente si tratta di pubblicità istituzionale, cioè, ad esempio, sulla rivista Vins de France. Le attività di comunicazione sono limitate al sito internet, che sarà presto rinnovato. Inoltre l’azienda organizza degli eventi localmente (inerenti la degustazione) e partecipa ad alcune fiere locali (i già citati Grands Jours de Bourgogne) e internazionali (in Germania almeno due o tre volte l’anno e in Italia al salone Bio di Villa Favorita). Il budget destinato al marketing diretto è quindi molto basso anche perché si preferisce spostarsi direttamente nei Paesi di destinazione piuttosto che spendere per apparire temporaneamente su giornali e riviste.
5.11.4. La situazione competitiva attuale Il domaine Chantal Lescure ha raggiunto nel 2009 un fatturato di 870.000 euro, rispetto agli 800.000 euro del 2007; non ha quindi risentito della crisi, anzi le vendite sono aumentate grazie probabilmente all’apertura a nuovi mercati come la Corea del Sud e la Cina e ad un cambiamento di consumo da parte delle persone che spesso preferiscono il prodotto proveniente da agricoltura biologica anche se a prezzi più alti. Infatti, quest’azienda si differenzia da tutte le altre intervistate per il fatto di lavorare in agrobiologia: i metodi biodinamici di coltivazione della vigna permettono di avvicinarsi a quella che è considerata la forma di espressione più pura ed autentica del terroir, senza modificarlo o adattarlo. La
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filosofia di questa cantina è la ricerca della qualità attraverso l’eliminazione di prodotti chimici e diserbanti, solo così si può preservare l’identità del suolo e quindi del terroir. François Chavériat osserva con disappunto che il BIVB non s’impegna assolutamente nel promuovere il bio perché ci sono interessi troppo forti e contrastanti (infatti, parte delle quote versate al BIVB provengono anche da imprese di prodotti chimici). Con questo spirito di impegno l’azienda vuole differenziarsi dagli altri produttori di vini di Borgogna e portare avanti una campagna di sensibilizzazione non solo verso i consumatori ma soprattutto verso gli altri viticoltori. I proprietari sono fermamente convinti che tutti dovrebbero tornare all’origine, alla terra, seguendo il loro esempio. Per questi motivi l’azienda cerca di vendere i propri prodotti in mercati dove esiste una cultura del vino che possa apprezzare questa scelta, il lavoro che vi è dietro, nonché le qualità stesse del vino. Sono, quindi, privilegiati mercati come l’Australia o l’Italia piuttosto che la Cina.
5.12. Maison André Corton Ragione sociale
PIERRE ANDRE CORTON
Luogo e anno di fondazione
Aloxe-Corton, 1923
Numero dipendenti
56
Fatturato 2007 (in euro)
16,5 milioni
Ettari posseduti Bottiglie prodotte in un anno
5 ha + maison de négoce 3 milioni
Intervistato
Florence Garnier, responsabile export area Europa/Africa/Medio Oriente
L’azienda nasce nel 1923 per opera di Pierre André Corton, che all’epoca possiede 40 ettari e fa del castello di Corton André (particolare in figura 5.8) la sede delle sue attività, così da accostare un’immagine ben identificabile al vigneto. Corton vende i suoi prodotti in Francia con il marchio Pierre André e dagli anni ’60 inizia ad esportare anche in Europa. Dopo due generazioni, l’azienda viene acquistata nel 2002 dal gruppo Ballande248 e la strategia dell’azienda è così totalmente modificata. 248
Famiglia bordolese arricchitasi con le miniere di Nichel e oggi specializzata nella distribuzione internazionale di vino; possiede sia aziende di produzione, sia negozianti.
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Fig. 5.8: Tetto del castello di Corton André, le cui tegole sono diventate il logo dell’azienda visibile sulle etichette I principali interventi sono249: • cambiamento dello stile dei vini al fine di migliorare sensibilmente la qualità (la precedente conduzione aveva standard qualitativi bassi); • chiarimento del posizionamento dell’impresa in Borgogna centrando la sua attività unicamente in questa regione; • ridefinizione del marketing attraverso una nuova etichettatura più facilmente identificabile dal consumatore e in linea con la domanda di mercato e il nuovo stile dei vini; • creazione (in corso) di un nuovo sito internet; • ripresa delle attività di comunicazione presso giornalisti francesi e stranieri; • sviluppo della società ponendo l’accento su una clientela adatta alla strategia. Il gruppo Ballande, acquistando sia la maison de négoce sia il castello con i suo 5 ettari di vigneti di proprietà, è diventato proprietario non solo del castello, ma anche dello stock di bottiglie e dei clienti della maison de négoce. I vecchi proprietari hanno invece mantenuto i 40 ettari di vigneto (in Borgogna difficilmente vengono vendute le vigne perché il valore finanziario della terra è talmente elevato che sarebbe inabbordabile), firmando però col gruppo Ballande un contratto esclusivo di distribuzione. A partire dal 2002, l’azienda prende il nome di Corton André in memoria del fondatore, e il 95% delle sue attività riguarda il négoce. In particolare, l’azienda è negoziante-vinificatore perché tutto quello che vende è vinificato nelle sue due cantine, una utilizza botti in legno, l’altra, più moderna, costruita nel 2007, raccoglie le denominazioni più comuni. 249
www.pierre-andre.com
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5.12.1. Presentazione dell’azienda APPELLATION NUITS-SAINT-GEORGES Il comune di Aloxe-Corton ospita nei suoi 250 ettari la più grande superficie di Grand Cru della Côte d’Or. È l’unica delle 4 appellation a trovarsi nella Côte de Beaune e produce vini potenti, duri e tannici. I vigneti superano i 400 m di altezza e si estendono in larghezza tra uno e due chilometri.
In seguito a questo processo di rinnovamento dovuto alla nuova gestione, l’azienda è oggi costituita da 56 dipendenti e ha raggiunto nel 2007 un fatturato di 16,5 milioni di euro dovuto per il 50% a vendite sul territorio nazionale. Gli ettolitri vinificati sono circa 4000 l’anno, con una produzione di 3 milioni di bottiglie vendute per la maggior parte sotto due marche: “Pierre André”, destinata ai segmenti di alta gamma e “Reine Pédauque” destinata alla grande distribuzione. L’azienda utilizza anche altre etichette che non portano questi due nomi quando intende vendere sui mercati dove hanno già un circuito di distribuzione, e vuole posizionarsi, quindi, diversamente in modo da non fare concorrenza a se stessa. Infine, dal 2009 ha preso in gestione 18 ettari di un domaine di Savigny-LesBeaune (paese della Côte de Beaune) utilizzandone il nome. I punti di forza dell’azienda sono innanzitutto la ricerca della qualità intesa in un’ottica di preservazione dell’identità: quello che differenzia la Borgogna dalle altre regioni è il terroir (inteso come l’insieme delle particolarità geologiche del terreno, dei vitigni coltivati e del savoir faire dei produttori). Per fare i vini è importante valorizzare l’attaccamento alle proprie origini e alla tradizione, anche per trasmettere queste caratteristiche ai consumatori. In secondo luogo, la forte capacità di vinificazione, raddoppiata dal 2002: oggi sono vinificati 4000 ettolitri di vino l’anno, ma sempre vini di qualità. Questa crescita ha permesso all’azienda di vinificare lei stessa in modo da controllare la qualità da monte a valle della produzione e poter così proporre vini di quasi tutte le appellation della Borgogna. Un ulteriore punto di forza è la flessibilità dovuta alla struttura commerciale ormai presente da molti anni. La rete di distribuzione e vendita dell’azienda si è consolidata nel corso degli anni ed è oggi molto estesa e in grado di rispondere in maniera dinamica alle evoluzioni del mercato. Infine, per l’azienda è importante stabilire relazioni di qualità sia coi propri fornitori, ma anche con i clienti, i quali vengono aiutati in ogni loro bisogno.
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La strategia aziendale è quella di darsi degli obiettivi a breve termine per raggiungere un importante obiettivo economico: ottenere un fatturato di 20 milioni di euro (16,5 milioni nel 2007). Questa somma era prevista per il 2010, ma data la crisi non sono riusciti a raggiungerla. Tuttavia, l’impresa ha le disponibilità per raggiungere questo scopo, grazie agli strumenti di produzione ottimali e alla recente apertura di una seconda cantina che permetterà di aumentare ulteriormente la già performante capacità di vinificazione.
5.12.2. Le modalità di internazionalizzazione L’azienda esporta in oltre 40 Paesi raggiungendo un fatturato export superiore a 8 milioni di euro (circa la metà di quello totale, la restante parte è ottenuta sul mercato domestico). In particolare, i mercati di destinazione corrispondono ai principali mercati della Borgogna: Belgio, Stati Uniti, Regno Unito, Svizzera e Asia. La struttura commerciale è molto ben organizzata, vi sono tre responsabili export divisi per aree, uno per Europa/Africa/Medio Oriente, uno per Stati Uniti/ Canada/America Latina e uno per l’Asia; ognuno di loro ha il compito di sviluppare le vendite, cercare nuovi mercati di sbocco e consolidare quelli esistenti. A seconda delle zone si decide poi se appoggiarsi o meno a missioni economiche, tuttavia l’intervistata ritiene che siano troppo care e preferisce svolgere lei stessa i compiti senza passare per le interprofessions o le camere di commercio. Di norma, per trovare un rivenditore, si inizia contattando una società di import mirata, e non tutte quelle presenti sul Paese di riferimento. Questo perché i vini di Borgogna sono prodotti di alta gamma, con prezzi elevati e vanno proposti quindi ad un profilo specifico di importatori che abbiano un’ottima conoscenza del loro mercato, siano già maturi e possiedano una vasta rete di compratori. Dopo aver ottenuto il primo contatto con i clienti, il passo successivo consiste nella relazione diretta e visiva. Viaggiando molto, l’azienda può così capire quali sono i bisogni dei consumatori, si fa conoscere sottolineando la differenza con le altre cantine della Borgogna e spiegando agli importatori perché è meglio lavorare con lei piuttosto che con altri. Tutto questo si può fare solo attraverso un contatto diretto e regolare. L’azienda avverte come una responsabilità il fatto di andare sul posto e spiegare ai clienti il loro mestiere, formarli, in modo da costruire le fondamenta del consumo. Nel processo di vendita dei vini di Borgogna, il 70% consiste nello spiegare quello che è la regione Borgogna, il 30% nel chiarire il metodo di lavoro, il rigore e la ricerca della qualità. Questo percorso è inevitabile avendo alle spalle una tradizione secolare e un terroir unico che costituiscono i punti di forza della Borgogna e, di conseguenza, di tutte le aziende vitivinicole su di essa insediate.
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5.12.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti La vendita dei prodotti sul mercato nazionale avviene attraverso una rete di distributori ben avviata e ben strutturata, date le origini antiche di quest’azienda, che le permette di controllare tutte le fasi centralmente. All’estero, invece, i prodotti sono distribuiti da importatori residenti nel mercato di destinazione. Il segmento di nicchia è molto ristretto e la concorrenza è agguerrita, per questo l’azienda deve cercare il suo spazio posizionandosi in modo diverso rispetto agli altri competitor. Spesso, infatti, un importatore ha già il suo fornitore di vini borgognoni, l’azienda deve quindi proporsi con un posizionamento, uno stile, un prezzo o una qualità differente. I prodotti Pierre Corton possono aggiungersi a una gamma già esistente proponendo un servizio supplementare; oppure possono rimpiazzare tutta la gamma di un fornitore di cui l’importatore non è soddisfatto; infine possono costruire ex novo una gamma nel momento in cui l’importatore non possiede vini della Borgogna. In questo caso, il ruolo dell’azienda consiste nello spiegare la propria offerta e consigliare, perché i vini della Borgogna sono difficili da vendere in quanto cari e complicati. È importante costruire una relazione lentamente, affinché si instauri un rapporto di fiducia e fedeltà tra l’azienda è il suo distributore. Si partirà quindi con alcune denominazioni, per ingrandire piano piano la gamma fino a venderne la totalità. Sia in Francia sia all’estero l’azienda lavora on trade con il settore ho.re. ca., i casinò, la clientela d’impresa e off trade con le enoteche (come la già citata Nicolas), con siti internet di vendita on-line (venteprivee.com), e con la GD ma limitatamente alle “Foires aux Vins” (i cosiddetti saldi dei vini). La politica promozionale rispecchia la volontà dell’azienda di relazionarsi coi propri clienti, quindi, prende parte a fiere e saloni per farsi conoscere ad un pubblico più vasto possibile. I due mercati più importanti in termini di comunicazione sono quello francese e quello anglosassone. Nel primo, si privilegiano le inserzioni pubblicitarie su riviste specializzate, in particolare, dato il costo elevato, su due periodici: Vins de France (in vendita anche nei paesi francofoni: Belgio, Svizzera, Canada), con cui raggiungono i privati e Bourgogne aujourd’hui, destinato alla ristorazione. Per quanto riguarda il mercato inglese, si preferiscono riviste di settore vendute anche in altri Paesi, come Decanter e Wine Spectator, ma sono comunque azioni rare sia a causa del prezzo elevato sia perché il ritorno economico di queste inserzioni non è conveniente. Tuttavia, vi è un altro metodo per farsi pubblicità che non costa nulla all’azienda: si tratta del contatto diretto con i giornalisti che scrivono guide sui vini. Questa forma di pubblicità è importante per l’azienda: hanno quindi
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relazioni stabili con vari professionisti, tra cui Hugh Johnson e Jancis Robinson (autori, tra l’altro, di “The World Atlas of Wine”); aderiscono alle degustazioni promosse dalla guida Hachette, dalla rivista Vins de France; partecipano ai concorsi per ottenere delle medaglie, come il “Concours Agricole de Paris”, il “Wine International Challenge” (della rivista Decanter). Queste medaglie non sono ugualmente importanti per tutti i mercati, se ad esempio i danesi ne sono indifferenti perché non le comprendono, ai belgi o ai francesi interessano in misura maggiore. Poiché l’azienda ritiene strategico il mercato francese, dove raggiunge il 50% del fatturato, partecipa anche a degustazioni ed eventi organizzati sul territorio regionale per ottenere delle distinzioni riconosciute nella Grande Distribuzione e nella ristorazione francese.
5.12.4. La situazione competitiva attuale L’azienda, come abbiamo visto, è cambiata totalmente in seguito all’acquisto da parte del gruppo Ballande. Se prima si trattava di un’azienda familiare un po’ vecchia e di qualità bassa che sopravviveva per il solo fatto di vendere vino di Borgogna; oggi ci si trova davanti a una realtà dinamica, costantemente alla ricerca di innovazione i cui leitmotiv sono la qualità per guadagnare quote di mercato e la scelta ottimale dei distributori che dia la giusta immagine del domaine. Anche lo stile del vino è stato totalmente modificato: oggi tutti i vini sono seguiti da una giovane enologa, Ludivine Griveau, che ha una visione moderna del mondo del vino grazie ai suoi trascorsi lavorativi (è stata, ad esempio, in Australia). Tra i suoi compiti vi sono, tra l’altro, anche alcune visite nel corso dell’anno alle parcelle di vigne (oltre 115) dove l’azienda si rifornisce di uva, che appartengono a circa 70 viticoltori. La gamma dell’azienda è molto vasta e comprende un’ottantina di appellation con prezzi che partono da 3,9 euro fino ad arrivare a 250 euro (tasse escluse). Per ogni denominazione le vigne vengono scelte con cura in modo da avere sempre la qualità migliore. Considerando i dati emersi riguardo al domaine Corton André, il concorrente principale dell’azienda non è il Nuovo Mondo, che si trova su un livello diverso di posizionamento. Bisogna, in effetti, distinguere due mercati dei vini, uno di massa, dove si inseriscono sia i vini del Nuovo Mondo sia quelli di alcune regioni d’Europa dove c’è una produzione considerevole di vino, soprattutto da tavola (quindi anche in Italia, con il Sud, ad esempio, e in Francia con la regione della Languedoc e Roussillon), con un rapporto qualità prezzo conveniente. L’altro è il mercato di nicchia, più “artigianale” dove si colloca il domaine Pierre Corton qui considerato, la cui offerta si distingue per tipicità ed
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autenticità: non sono vini standard, ma di alta qualità e di carattere. I competitor diretti per l’azienda sono pertanto tutti quelli che producono vini d’alta gamma (come il Barolo in Italia, alcuni Bordeaux in Francia). Per quanto riguarda il rapporto con il BIVB, l’intervistata preferisce non utilizzare i servizi che offre per quanto riguarda la sua area di competenza (i suoi colleghi invece, dovendo rapportarsi con mercati più lontani, ne usufruiscono maggiormente) se non in alcuni rari casi; l’azienda parteciperà infatti per la prima volta l’anno prossimo a un evento organizzato dal Bureau, la fiera “Terroir et signature” che si terrà a Londra. La critica mossa da Florence Garnier al BIVB è duplice: da una parte vi è il fatto che il BIVB fa marketing e comunicazione che non sempre si legano con il commerciale, possono aiutare a vendere ma non sono necessariamente degli attori strategici ed essenziali; dall’altra, il ruolo del BIVB è quello di promuovere i vini senza favoritismi, mentre lo scopo dell’azienda è di vendere e prevalere sugli altri produttori della regione, senza dimenticare che il BIVB privilegia sicuramente più i piccoli produttori della Borgogna rispetto alla grande maison de négoce com’è il domaine Corton. Pertanto, nei limiti del possibile l’intervistata preferisce competere sul mercato del vino senza contare su organismi istituzionali o su collaborazioni con altri produttori. Tuttavia, è il caso di dire che quest’azienda si discosta dagli altri casi in quanto non si tratta del piccolo produttore con pochi ettari di terreno e una produzione di bottiglie di molto inferiore al milione, ma di un’impresa che non possiede vigne, eppure vinifica tutto quello che acquista dai suoi contratti di distribuzione. Nel paragrafo che segue si cercherà di capire cosa accomuna e cosa differenzia le realtà francesi analizzate nella seconda parte di questo capitolo.
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5.13. Un confronto tra le aziende della Côte d’Or La Borgogna è sicuramente il luogo al mondo che racchiude la maggiore densità di terroir250 per metro quadro. Questo è l’unico posto in cui il pinot noir si esprime con tale complessità e diversità. Ecco la fortuna della Borgogna: lo stesso attore, l’uva, interpreta sceneggiature diverse ma con una coltura comune, il terroir, guidato da registi di talento, i viticoltori, in modo da metterne in risalto l’essenza251. Questa varietà, individuata almeno duemila anni fa, fu assicurata dai monaci prima e dai borghesi poi. I terroir sono stati messi in valore, precisati e lavorati con una forma di invidia e di competizione tra vicini che sono uniche nella storia dei vigneti, e prettamente francesi. La Borgogna è oggi la regione di riferimento per i vini con la più grande qualità e tipicità, per un modello di vini di terroir e di resistenza alla globalizzazione omogeneizzante. La difesa del terroir non è sinonimo di attaccamento reazionario e ostinato alla tradizione, ma una volontà di procedere verso l’avvenire rimanendo saldamente radicati in un passato collettivo, in cui le radici possono crescere, spingersi liberamente in superficie, nel presente, per creare un’identità ben definita e meritata. Il terroir non è una cosa fissa in termini di gusto o di percezione delle cose, è una forma di espressione culturale che non ha mai smesso di evolvere. Si è potuto constatare nel corso della presentazione dei casi francesi che la strategia di ciascuna azienda ruota intorno a due concetti fondamentali che sono interconnessi e dipendono l’uno dall’altro: da una parte l’origine, il terroir, la tradizione e dall’altra la qualità. La ricerca della qualità permette non solo di preservare l’autenticità del terroir, ma anche di valorizzarlo e promuoverlo presso i consumatori di tutto il mondo. Un altro punto in comune dei domaine intervistati è la modalità di internazionalizzazione; così come le aziende vitivinicole piemontesi, viene privilegiata l’esportazione indiretta attraverso degli importatori o degli agenti che risiedono nel mercato di destinazione. Questo è del resto il modo in assoluto più semplice e meno rischioso per realtà così piccole, sia a livello di numero di bottiglie che di dipendenti, di poter raggiungere i mercati internazionali.
La definizione di terroir, ampiamente descritta nel paragrafo 2.6.1., è la seguente: un insieme di terreni che per la natura più o meno variabile dei loro suoli, la loro situazione e il loro ambiente si sono rilevati, tramite l’esperienza e gli usi, propizi alla produzione dei vini fini. Tale concetto deve però essere allargato fino a comprendere tutti quei fattori storicoculturali che ne costituiscono un suo valore aggiunto. 251 Nossiter J., Le vie del vino. Il gusto e la ricerca del piacere, Einaudi, Torino, 2010. 250
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Tranne nel caso della maison de négoce, le altre aziende esportano esigue quantità in Cina, o non esportano affatto, soprattutto a causa dell’assenza di cultura del vino in questo Paese. Nonostante questo, il mercato cinese è in crescita per i vini della Borgogna, passando dal ventiseiesimo posto nel 2007 al quattordicesimo nel 2010.
Fig. 5.9: Classifica dei primi 14 mercati export della Borgogna in migliaia di bottiglie Fonte: www.vins-bourgogne.fr Tra la fine del 2005 e il 2008 le esportazioni di vini rossi sono costantemente aumentate: il fatturato è salito a tre milioni di euro (+52%) e i volumi sono progrediti di quasi il 200%. Dopo un periodo di ribasso dovuto alla crisi economica mondiale, nella prima metà del 2010 vi è stata una crescita a valore del 59% e a volume del 55%252. Non resta che attendere che anche in Cina si diffonda una cultura del vino, com’è avvenuto in Giappone dieci anni fa. Il legame delle aziende della Borgogna con la propria zona di produzione, il proprio terroir, essendo molto forte, è forse per questo motivo che non si notano particolare differenze tra di esse. Vi sono innanzitutto due aziende famigliari, “Armelle et Bernard Rion” e “Chantal Lescure” (il figlio dei fondatori non gestisce direttamente la cantina, ma comunque vi lavora), due famiglie di contadini con “i piedi per terra” che si esprimono in maniera talmente trasparente da far pensare che la loro identità e la loro personalità si fondino unicamente sulla coltivazione della terra. Sono persone umili che rispettano il terreno, addirittura a tal punto di decidere di spendere le loro forze nell’agricoltura biodinamica (nel caso di BIVB, Reprise des exportations de vins de Bourgogne en République Populaire de Chine, Rapporto 2010.
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“Chantal Lescure”). Dall’altra vi è un’azienda piccolissima, ma con una grande reputazione, il “Domaine des Lambrays”, i proprietari non sono coltivatori, ma il direttore, Thierry Brouin, è uno dei viticoltori con più esperienza di tutta la zona, conduce infatti il lavoro in azienda da oltre 30 anni. Infine, abbiamo un caso particolare, quello di “André Corton”, l’unica grande realtà della Côte d’Or che si discosta dalle altre per il fatto di non essere un produttore, ma un cosiddetto negoziante-vinificatore. Quest’azienda ha disponibilità finanziare e manageriali nettamente superiori alle altre che le permettono di produrre quantità maggiori ed esportarle in tutto il mondo grazie ad una rete distributiva molto ben organizzata. Non ha bisogno di associarsi o collaborare con altre aziende, come invece potrebbe averne la famiglia Rion o la famiglia Lescure, anzi è convinta che solo i negozianti abbiano le capacità di vendere il vino della Borgogna all’estero. Il fatto che le aziende francesi non esprimano il loro legame con il territorio, come è il caso invece delle aziende italiane, non significa che questo legame sia inesistente, tutt’altro. È stato più volte ribadito quanto ogni sfumatura ed espressione del terroir siano fondamentali per esprimere la natura del vino borgognone. Questo concetto viene ripetuto talmente tante volte nel corso delle interviste che alla fine mi sembrava quasi normale che fosse così. Ma, le realtà italiane, non hanno lo stesso approccio con il proprio territorio, stanno iniziando ad assumere la stessa mentalità dei francesi, soprattutto per i vini Barolo e Barbaresco, ma la strada è ancora lunga. Si cercherà, nel prossimo paragrafo, di riassumere e sottolineare quali elementi accomunano le aziende delle Langhe e della Côte d’Or e per quali invece si discostano. Si è già visto che i modelli di business dei produttori francesi e di quelli italiani sono simili e ciò è stato dimostrato dall’analisi empirica, ma vi sono anche delle differenze, non solo a livello di strategie, ma anche a livello di gestione della filiera, dei rapporti con attori locali ed extralocali.
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5.14. Langhe e Côte d’Or: una rilettura comparativa L’obiettivo di quest’ultimo paragrafo è quello di riprendere tutti i principali elementi che sono emersi nel corso del capitolo, ma anche nei capitoli precedenti, al fine di presentare in un’ottica comparativa le caratteristiche distintive delle aziende vitivinicole piemontesi e borgognone intervistate nonché dei due territori nei quali sono insediate. Questa rilettura permetterà, in ultima analisi, di generalizzare alcuni concetti a un livello non più solo locale e regionale, ma anche nazionale. La tabella 5.3 sintetizza le principali differenze tra i due territori che saranno in seguito illustrate dettagliatamente. LANGHE
COTE D’OR
Rapporto con il territorio
Divisione netta del territorio in appezzamenti in base alla proprietà di ciascuna azienda
Divisione non visibile del territorio in appezzamenti in base alla denominazione
Lo stile delle etichette
Design ed estetica importanti per risaltare il marchio aziendale
Etichette tradizionali dallo stile poco ricercato per risaltare la denominazione, il terroir.
Il sistema delle denominazioni
Identificazione delle DOC e DOCG con il vitigno (es.: Nebbiolo, Dolcetto). Eccezioni: Barolo e Barberesco
Identificazione delle AOC (Appellation d’Origine Controlée) con il nome del territorio, del villaggio da cui nasce il vino.
Le istituzioni di tutela e/o promozione
Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (BIVB) Attività principale: promozione del territorio Partecipazione: obbligatoria
Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero Attività principale: tutela delle denominazioni Partecipazione: facoltativa
Tab. 5.3: Differenze tra il territorio delle Langhe e il territorio della Côte d’Or Il primo punto di confronto riguarda il territorio, considerato innanzitutto nella sua accezione di spazio geofisico. È stata sottolineata più volte la differenza che esiste a livello di divisione della proprietà e di ubicazione geografica delle aziende nel territorio delle Langhe e in quello della Côte d’Or.
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I vigneti delle Langhe
I vigneti della Côte d’Or
Fig. 5.10: La distribuzione dei vigneti nelle Langhe e in Côte d’Or In figura 5.10 si nota che gli appezzamenti di vigne sono ben delimitati nella prima foto, mentre nella seconda non si riesce a distinguere la divisione della proprietà. La Borgogna ha una tradizione vitivinicola di molto antecedente a quella piemontese e i produttori hanno imparato a riconoscere la loro terra nel corso del tempo, non hanno bisogno di recinti o paletti. Qui la divisione è in base alle appellation, ai villaggi che danno il nome al vigneto, e un viticoltore può possedere anche solo pochi filari di quella denominazione. In Piemonte, invece, la divisione è in base alla proprietà privata di ciascuna azienda, per questo è ben visibile la delimitazione. Da questa prima differenza si comprende quanto la Borgogna metta il terroir al primo posto: il rispetto del terroir è così forte che la sua preservazione viene prima del successo dell’azienda stessa. Questo concetto in Piemonte non è ancora così diffuso, anche se si sta cominciando ad esempio a valorizzare le sotto zone del Barolo, dando un nome diverso a ciascun vigneto. Un altro elemento attraverso il quale si comprende la priorità che in Borgogna ha il terroir sul nome dell’azienda è osservando le etichette. Benché esistano delle eccezioni, come è normale che sia, in Italia come in Francia, si può tuttavia affermare che, in generale, le etichette dei vini delle Langhe curano maggiormente lo stile e la creatività, perché sono strumenti di differenziazione; quelle della Côte d’Or invece sono standardizzate, si prediligono cioè colori neutri e caratteri simili per mettere in evidenza l’appellation.
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Fig. 5.11: Le etichette dei vini di Borgogna e dei vini del Piemonte (un esempio) Il sistema francese delle denominazioni identifica strettamente le AOC253 con il nome del territorio da cui nasce il vino (ad esempio Chambolle Musigny), piuttosto che con la varietà di uve utilizzate per farlo (ad esempio il Nebbiolo o il Dolcetto sono sia nomi di vini sia varietà di uve). Nelle Langhe, gli unici due vini che prendono il nome dal toponimo del territorio da cui hanno origine anziché dal vitigno, sono il Barolo e il Barbaresco. Il sistema delle AOC mette l’accento sul luogo e sulle persone che vi lavorano, il vino non è un prodotto fabbricato intenzionalmente, ma rispetta un’origine, la cultura e la storia di un luogo. In Italia si sta cominciando a ragionare in questa direzione, testimone anche la guida di Slow Food, “Slow Wine” (si veda il paragrafo 4.2.1.1.), ma si è solo all’inizio, mentre in Borgogna questo modello vige da quasi un centinaio d’anni. Poiché è stato introdotto il concetto delle denominazioni e la relativa regolamentazione, è opportuno approfondire a questo punto le istituzioni che disciplinano tali denominazioni e che, come è stato già accennato nel paragrafo 4.3.3.1. relativo al Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (BIVB), differiscono tra Italia e Francia. Nella tabella 5.4 sono sintetizzate le caratteristiche salienti dei due organismi. Appellation d’Origine Controlée
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Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne
Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero
Numero iscritti
4.000
500
Budget 2007
10 milioni di euro
250.000 euro254
Principali attività
ricerca e sviluppo per la filiera vitivinicola regionale; definizione dei mercati, dei circuiti e dei distributori della Borgogna; promozione dei vini in Francia e all’estero.
tutela e registrazione dei marchi collettivi; gestione e valorizzazione delle denominazioni; raccolta dati, prezzi, statistiche di mercato; certificazione delle denominazioni.
Mission
rappresentare e difendere gli interessi dei vini di Borgogna e dei professionisti del settore vitivinicolo; definire la politica dei vini di Borgogna sul piano tecnico, economico e comunicazionale.
tutelare le 14 denominazioni di Langhe e Roero e i marchi (vigilare contro frodi e concorrenza sleale) rimanendo fedeli alla tradizione produttiva e all’identità territoriale.
Differenza sostanziale
tutti i professionisti del settore (produttori,negozianti, viticoltori, imbottigliatori, eccetera) sono obbligati a versare una quota in base alla loro produzione.
la partecipazione al consorzio è facoltativa.
Tab. 5.4: Il Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne e il Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero254 Le considerazioni da fare alla luce dei dati esposti nella tabella sono fondamentalmente due. La prima riguarda i contributi con i quali i due organismi possono attuare i loro progetti. Se, infatti, entrambi prevedono una quota associativa che varia in funzione della produzione media annua, nel caso del Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne tutti gli operatori del settore vitivinicolo (aziende vitivinicole, maison de négoce e cooperative) sono Dato rilevato da un’intervista a Claudio Rosso, ex presidente del Consorzio, pubblicata su youtube a maggio 2010.
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tenuti a versare un contributo, mentre invece la partecipazione al Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero non è obbligatoria. Questo comporta alcune importanti conseguenze, prima tra tutte il budget di cui l’ente può disporre per promuovere i vini della propria regione. Il BIVB ha ottenuto nel 2007 dieci milioni di euro da oltre 4000 soci, il Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero ha raggiunto con 500 iscritti circa 250.000 euro. Questa cifra, evidentemente di molto inferiore a quella della Borgogna, permette solo di coprire le spese ordinarie e correnti e non consente di effettuare grossi investimenti nello sviluppo e nella promozione dei vini, cosa che può facilmente ottenere il BIVB. Una seconda considerazione, dipendente dalla prima, riguarda le funzioni dei due organismi. Il BIVB ha soprattutto il compito di promuovere in Francia e all’estero i vini di Borgogna, definendone la politica di azione255; il consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero, invece, nasce come ente tecnico ed assolve quindi la funzione di tutela dei marchi e dei nomi collettivi e la gestione delle denominazioni. Solo in un secondo momento si è iniziato a parlare di promozione decidendo così di inserire tra i compiti anche quello della valorizzazione. Come valorizzare collettivamente una denominazione è una questione complicata, essendo il Piemonte un territorio in cui sono sempre stati i marchi aziendali quelli forti che si facevano promozione da soli. Infatti, tutte le aziende intervistate, dimostrano a modo loro il legame con il territorio: la cantina Gigi Rosso con la partecipazione a manifestazioni enogastronomiche; Ceretto attraverso progetti architettonici e culturali; Fontanafredda con campagne pubblicitarie e la trasformazione della tenuta in riserva bionaturale; Gianni Gagliardo con la creazione di un evento di respiro internazionale, l’Asta del Barolo. Pertanto, la sfida dei prossimi anni per il consorzio di tutela sarà quella di riuscire a combinare la valorizzazione delle singole aziende con quella dei marchi collettivi (come “Barolo”). Questo traguardo è già stato da tempo raggiunto in Borgogna, dove la promozione del territorio, che trascina con sé la promozione di vini e cantine, è interamente effettuata dal BIVB. Le aziende della Côte d’Or non devono preoccuparsi quindi di quest’aspetto e infatti non prendono iniziativa dal punto di vista della promozione territoriale.
Nel paragrafo 4.5 si spiega, infatti, che il controllo delle denominazioni è affidato a due istituzioni nazionali (INAO e VINIFLHOR).
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Conclusioni L’obiettivo di questo elaborato è stato quello di verificare lo stato attuale del comparto vitivinicolo italiano e di quello francese, al fine di comprendere se i modelli di business di questi due mercati sono ancora validi o se, invece, necessitano di modifiche alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni a livello di consumo e di concorrenza. Se oggi il solo modo che hanno le PMI di sopravvivere nel contesto economico sembra essere, seguendo la tendenza generale, quello di espandersi all’estero e cercare nuovi mercati di sbocco per i loro prodotti, ciò è altrettanto vero e possibile per quelle imprese, come quelle vitivinicole, fortemente ancorate al territorio? Oppure questo legame si traduce in un vincolo? Da una parte vi è infatti il rischio di rimanere schiacciati dal peso delle tradizioni senza riuscire ad evolversi, dall’altra la valorizzazione del territorio in chiave globale può consentire di trovare nuove opportunità di sviluppo. Il prodotto vino è strettamente connesso alla cultura e alla tradizione presenti in una data area, ma questo deve essere interpretato secondo un approccio dinamico, affinché non si trasformi in un vincolo all’imprenditorialità e all’innovazione. Per rispondere ai quesiti sopra esposti, ogni capitolo dell’elaborato assolve una funzione specifica in linea con gli obiettivi generali della ricerca. Di seguito ne è riportata una brevissima sintesi. Nel primo capitolo sono illustrate le caratteristiche delle PMI italiane e le loro modalità di internazionalizzazione, per poi verificare che tali elementi si sono riscontrati anche nei casi aziendali analizzati. Il secondo capitolo ha definito il concetto di territorio in cui sono insediate le PMI, illustrandone le risorse, gli attori che vi operano e le relazioni che si creano. Si è inoltre introdotto l’agroalimentare, quale comparto di eccellenza del made in Italy, in cui si colloca il settore di interesse, quello vitivinicolo. Un concetto importante che è emerso in questo capitolo è quello di filiera, che ha permesso successivamente di comprendere i ruoli che giocano gli attori della filiera vitivinicola. Il terzo capitolo ha delineato gli scenari evolutivi del mercato vitivinicolo globale, poi del settore italiano e infine di quello francese, al fine di inquadrare il contesto in cui si inseriscono le imprese vitivinicole di due regioni, il Piemonte e la Borgogna.
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Nel quarto capitolo è stata presentata la situazione attuale di ciascuna filiera di queste due regioni, individuando gli attori principali di ciascun territorio (Langhe e Côte d’Or). Gli attori su cui ci si è soffermati maggiormente, a causa della loro diversità, sono il Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero e il Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne. Infine, per capire come reagiscono le aziende vitivinicole, quali logiche di marketing adottano e che rapporto hanno con il loro territorio, non ci si è limitati ad un’analisi quantitativa del settore, ma si è andati oltre conducendo una verifica empirica, esposta nel quinto capitolo, che consentisse l’analisi delle decisioni, delle azioni e delle strategie di un campione di imprese vitivinicole. Sono state individuate otto piccole e medie imprese, quattro appartenenti alle Langhe e quattro alla Côte d’Or, due zone a forte vocazione vitivinicola che si trovano rispettivamente in Piemonte e in Borgogna. Gli strumenti di raccolta dei dati qualitativi sono stati la visita in sito e l’intervista in profondità semistrutturata in presenza a figure strategiche ai vertici della direzione. Il metodo seguito è di tipo induttivo, si è partiti cioè dalle singole realtà vitivinicole e dal loro territorio di origine, per arrivare a formulare ipotesi a livello regionale e nazionale. Al fine di rendere possibile la comparazione, bisognava trovare delle aziende che presentassero elementi comparabili, nonostante poi ognuna abbia mostrato caratteristiche distintive diverse più o meno vincenti. Innanzitutto, sono stati scelti i due maggiori produttori ed esportatori di vino con una lunga tradizione vitivinicola alle spalle, Italia e Francia; il passo successivo è consistito nell’individuare due regioni, e poi due zone specifiche delle stesse, che presentassero le medesime caratteristiche in termini di posizionamento sul mercato di fascia alta, di ricerca della qualità; di coltura mono-vitigno ed di forte attaccamento al territorio. Le aziende selezionate nelle Langhe e nella Côte d’Or dovevano rispecchiare queste condizioni. Di seguito si cercherà di ricostruire, a livello macro, quanto emerso dai casi in un’ottica il più possibile comparativa per rimanere ancora una volta fedeli all’intera struttura speculare dell’elaborato. È stato osservato che i principali elementi sui quali le aziende puntano per differenziarsi dagli altri produttori, in particolare da quelli del cosiddetto Nuovo Mondo (come: Australia, Nuova Zelanda, Cile, California, Sud Africa), sono in primo luogo la ricerca della qualità e il rispetto delle origini e del terroir. Il vino infatti, in quanto prodotto tipico ricostruito dagli attori a partire dalle risorse del territorio, non può prescindere da quest’ultimo perché altrimenti diventerebbe un prodotto standardizzato, senza un terroir. Un vino è la memoria di un terroir,
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espresso sotto la forma di un gusto in continua evoluzione. In quanto tale, si tratta prima di tutto dell’espressione di un luogo, vettore di un’identità collettiva, della storia di una civiltà locale e della storia del suo rapporto con la natura che gli è propria. Il vino è inoltre un prodotto ascrivibile alla categoria degli experience good. Per tali tipi di bene il contenuto qualitativo è determinabile solo dopo che il bene sia stato acquistato e consumato256. Poiché la qualità non è un perfettamente osservabile, è facile che l’asimmetria informativa tra produttore e consumatore sia elevata e, se quest’ultimo non è informato sulla qualità del bene che intende acquistare, tenderà a comprare quello con il prezzo più basso, oppure con il prezzo più alto, perché non riuscirà ad associare un costo elevato ad un prodotto di alta qualità. In situazioni come questa, l’introduzione di istituti giuridici quali la denominazione d’origine o il marchio può costituire una efficace soluzione. Le nozioni di marchio e di denominazione d’origine applicate al mercato del vino, in linea di principio determinano due diverse risposte strategiche da parte dei produttori in funzione delle caratteristiche su cui si fondano. Il marchio introduce elementi di concorrenzialità piena tra i produttori, i quali tenderanno a competere per l’affermazione del proprio nome al fine di ottenere maggiori quote di mercato e maggiori profitti. Si è osservato che le imprese vitivinicole piemontesi tendono a concorrere promuovendo il loro marchio individualmente e solo da pochi anni ci si sta muovendo verso pratiche cooperative di valorizzazione comune. In seguito alla presenza della denominazione d’origine si può invece ipotizzare che tra i produttori si determinano dinamiche di tipo cooperativo, dal momento che gli interessi di tutti i produttori che utilizzano la stessa denominazione, in linea di principio, coincidono. È il caso della Borgogna, dove già da molto tempo è in atto una politica di promozione dell’appellation (la denominazione) comune che travalica quella della singola azienda. Con la denominazione d’origine la soluzione all’asimmetria informativa è introdotta dall’imposizione di standard che garantiscano un livello minimo di qualità, mentre attraverso la creazione di un marchio il problema della bassa qualità può essere risolto attraverso il meccanismo della reputazione.
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Segre G., “D.O.C., Exit e innovazione. Property Rights nel distretto culturale del vino nelle Langhe”, Working Paper n. 4, EBLA (International Centre for Research on the Economics of Culture, Institutions and Creativity), Università di Torino, 2003.
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Essendo il vino, come già menzionato, un experience good, è probabile che molti basino la propria scelta essenzialmente sulla percezione che essi hanno del bene, dato che questa si forma non in base a parametri oggettivi, quanto rispetto a dimensioni dal contenuto immateriale e sociale. Gli elementi su cui le aziende vitivinicole italiane e francesi giocano per competere nel mercato sono quindi di tipo soft e, oltre alla reputazione, comprendono il capitale sociale (know how e relazioni). Vediamo questi due concetti con ordine. La reputazione del vino dipende da variabili molteplici, parte delle quali controllate dal singolo produttore, altre con dimensione collettiva. Possiamo scomporla in quattro ordini di fattori: la reputazione della denominazione, la reputazione del marchio del produttore, il pregio della vigna di origine e il pregio dell’annata di appartenenza257. Poiché gli ultimi due sono al di fuori delle possibilità di intervento, bisognerà far leva sugli altri. La reputazione del marchio costituisce un bene immateriale di diretta proprietà del produttore, il quale può compiere investimenti sia nella qualità del processo di produzione, sia rispetto a strategie legate all’immagine del prodotto (disegno della bottiglia, etichetta, ma anche iniziative culturali in ambiti più o meno paralleli all’ambiente del vino). Tutte queste strategie sono, ben inteso, di ordine individuale. Ad esempio, l’azienda Ceretto, quella che più di tutte punta a promuovere il proprio marchio singolarmente, ha affidato ad un noto designer (Silvio Coppola) l’estetica delle sue etichette affinché fossero originali e distintive. Invece, la reputazione della denominazione, non è di proprietà del singolo, ma può essere vista quale bene collettivo comune per l’insieme dei produttori di un dato vino. Essa giova in analoga misura a tutti gli attori interessati, non esiste rivalità nel consumo e ha quindi valore di bene pubblico. È chiaro che la produzione da parte del singolo di un vino di qualità superiore alla media ha esternalità positive rispetto alla reputazione collettiva così come hanno altresì effetti positivi operazioni di marketing, spesso costituite da investimenti in cultura, compiute in base all’interesse individuale. La competizione tra i produttori di una data denominazione, quando si traduce in ricerca di qualità e di reputazione elevata, è in grado di produrre benefici per l’insieme degli attori interessati a condizione che le tentazioni opportunistiche di sfruttare il bene pubblico (cioè la reputazione della denominazione) senza Bravo G., “Individualismo, cooperazione, free riding. Ascesa e maturazione di un distretto culturale”, Working Paper n. 2, EBLA (International Centre for Research on the Economics of Culture, Institutions and Creativity), Università di Torino, 2002.
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contribuire alla sua produzione siano debitamente circoscritte. Per controllare questo tipo di comportamenti si possono individuare tre strumenti258. Nel primo strumento rientrano soluzioni di tipo motivazionale e strategico che prende in considerazione il fatto che vi sono attori motivati non esclusivamente dalla ricerca del profitto individuale a breve termine, ma anche da criteri più ampi di beneficio comprendenti aspettative a lungo termine, correttezza del comportamento e realizzazione di obiettivi collettivi. Se è vero infatti che le piccole imprese di un territorio devono essere molto competitive per sopravvivere alla concorrenza degli altri operatori, è anche vero che esse sono inserite in un più ampio contesto economico e sociale in cui nel tempo si è formata una certa consuetudine a cooperare. Si genera, in pratica, una sorta di dialettica fra atteggiamenti concorrentisti e cooperativi, denominata co-opetition, che fa sì che, sebbene ogni impresa faccia il suo gioco e punti a massimizzare i propri profitti, essa stessa è consapevole che la partita finale (la conquista di una fetta del mercato mondiale) non può essere vinta da sola, ma in concertazione con tutti gli operatori del territorio259. Il secondo strumento prevede il raggiungimento di un accordo tra i partecipanti e la creazione di istituzioni endogene capaci di affrontare con successo i problemi di azione collettiva. Nel caso delle due realtà vitivinicole considerate, le Langhe e la Côte d’Or, queste istituzioni sono rappresentate rispettivamente dal Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero e dal Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne. Il terzo ed ultimo strumento ricerca la soluzione nell’introduzione di un’autorità esterna gestita da attori diversi da quelli implicati nel problema all’origine e in grado di colpire formalmente i comportamenti opportunistici. Si intende qui l’introduzione dei marchi DOC e DOCG in Italia e del sistema delle AOC in Francia. Le DOC e DOCG da una parte e le AOC dall’altra rappresentano a tutti gli effetti degli standard qualitativi di base acquisiti ormai dai produttori. L’introduzione delle denominazioni ha avuto inoltre un impatto non solo sul controllo e l’innalzamento degli standard, ma anche nel rilancio dei vini locali sul mercato internazionale. Il loro contributo è identificabile su tre piani: un piano tecnico - le denominazioni definiscono un insieme di standard che danno origine a una qualità minima sotto la quale non si può scendere pena la perdita al diritto di utilizzare la denominazione dell’etichetta; uno economico – le denominazioni pongono dei limiti di territorio, di produzione per ettaro e Ibid. Debernardi L. (a c. di), “Distretto della cultura, dello sport e del loisir della città di Torino e delle sue valli alpine. Uno sguardo alla teoria e alla letteratura”, Working Paper n.1, OMERO (Olympics MEgaevents, Research, Observatory), Università di Torino, 2005.
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di resa dell’uva in vino che rendono relativamente stabile e quantitativamente fisso il totale di prodotto ottenibile; e un piano sociale – la definizione di confini costituisce un primo passo nell’organizzazione dell’azione collettiva necessario per trasformare la reputazione della denominazione in una proprietà collettiva di un numero limitato di produttori di un’area territoriale ben definita. Dall’analisi dei casi è emerso che il Piemonte tende più verso la reputazione di marchio, mentre la Borgogna ricerca maggiormente la reputazione della denominazione. Le aziende vitivinicole delle Langhe hanno sempre cercato di fare promozione individualmente, senza cooperare per raggiungere uno scopo comune (e cioè la promozione del territorio o della denominazione). Invece i produttori della Côte d’Or, nonostante siano per tradizione individualisti, non sembrano interessati a pubblicizzare il proprio marchio aziendale, quanto piuttosto il terroir e la denominazione che ne deriva (in Borgogna le appellation superano il centinaio, mentre in Piemonte sono 14; ciò indica quanto questa regione tenda a valorizzare, fino quasi all’esasperazione, ogni sfumatura, ogni più piccolo appezzamento, del proprio territorio). Tuttavia, si nota che le aziende delle due regioni, benché siano partite da situazioni opposte, sono giunte allo stesso risultato. Da una parte, le imprese piemontesi cercano una distinzione attraverso lo stile, come nel caso delle etichette; dall’altra, le imprese della Borgogna cercano invece di differenziarsi attraverso la micro parcellizzazione del terroir. Entrambe queste strade portano alla medesima conseguenza: il rischio di frammentazione e il conseguente posizionamento confuso sui mercati esteri. C’è da chiedersi, inoltre, se tutto questo lavoro in favore delle appellation servirà in futuro, quando, con l’entrata in vigore della riforma europea (la cosiddetta OCM vino), che prevede un disciplinare comune a tutti i Paesi europei in conformità con i prodotti tipici agroalimentari, si assisterà di fatto alla scomparsa di queste distinzioni che saranno sostituite dalle DOP e dalle IGP. L’impatto che si può ipotizzare con quest’azione è positiva se si tratta di risolvere il problema di confusione nella mente dei consumatori (che dovranno comprendere solo due sigle), ma negativa se si considera che la dilatazione della classe dei vini di qualità porterà inevitabilmente all’appiattimento dell’offerta e alla banalizzazione dei prodotti di maggior pregio. Accanto a queste variabili, esiste anche un altro tipo di reputazione che influenza indirettamente la reputazione stessa del prodotto, ed è quella relativa al Paese (country reputation) strettamente connessa al country of origin effect. Il posizionamento competitivo dell’offerta è sempre più legato alla reputazione del Country of Origin, intesa quale cruciale risorsa immateriale e non imitabile,
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che coglie il punto di vista dei consumatori, nazionali ed esteri, e ne sintetizza il giudizio di valore confermato dagli eventi passati e presenti. Dalla ricerca empirica si deduce che la reputazione della Borgogna intesa come regione vitivinicola di qualità, è molto alta ed è percepita positivamente non solo in Francia, ma in tutto il mondo. Intenditori, appassionati e professionisti del settore conoscono i vini di Borgogna e li posizionano nella fascia di alta gamma spesso solo in base alla loro provenienza. Benché anche la zona delle Langhe goda di una reputazione positiva, questa è in realtà circoscritta ad alcuni suoi vini, il Barolo e il Barbaresco (per i rossi), a causa di una maggior polarizzazione della marca. Ciò è riconducibile principalmente al fatto che la tradizione vitivinicola in Borgogna ha radici più antiche così come il sistema delle denominazioni francesi: in Côte d’Or la prima classificazione risale al 1861, in Italia il regolamento attuativo è del 1927. La Borgogna è riuscita nel corso dei decenni a costruirsi una reputazione, lavorando sulle sue caratteristiche di unicità del suolo, del clima e dei vitigni. In Piemonte, e in Italia in generale, dopo lo scandalo del Metanolo scoppiato nel 1985 è sorta la necessità di ripristinare l’immagine della produzione vinicola italiana in modo da poter riportare la fiducia sui mercati esteri e fornire così nuovo slancio alle esportazioni del settore. Per questo motivo i produttori piemontesi si sono orientati verso una sempre maggior qualificazione del prodotto vitivinicolo. Nonostante vi siano esempi di successo di questa politica, come il caso del Chianti e del Barolo, in Italia si è ancora fermi nella creazione di una reputazione limitatamente ai singoli prodotti e c’è molta strada da fare per raggiungere una country reputation ai livelli della Borgogna. L’altro elemento sul quale fanno leva le imprese vitivinicole dei due sistemi Paese è il capitale sociale, che fa riferimento sia alla cooperazione informale su basi motivazionali o strategiche, sia all’elaborazione endogena di istituzioni formali. Questi due strumenti, già menzionati, unitamente all’applicazione delle denominazioni di origine, rendono più probabile l’instaurarsi di legami virtuosi tra reputazione individuale e reputazione collettiva, positivi per lo sviluppo dell’insieme dei produttori di un dato vino. Il capitale sociale include ad un primo livello gli elementi che il singolo attore eredita, ricava o costruisce investendo in essi. Si tratta soprattutto di relazioni, di norme e valori interiorizzati e di elementi riguardanti la dimensione cognitiva e le conoscenze condivise all’interno del suo ambiente sociale. Il capitale sociale comprende ad un secondo livello anche alcune dimensioni della struttura sociale, come i beni pubblici, che non possono essere modificate direttamente dal singolo, necessitando pertanto di azione collettiva (vedi le istituzioni locali endogene come i consorzi).
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Riducendo queste osservazioni al contesto delle Langhe e della Côte d’Or, è possibile analizzare tra gli elementi inclusi nel primo livello i valori, le motivazioni e le relazioni reciproche tra i produttori vitivinicoli, mentre al secondo livello fanno riferimento istituzioni come il Consorzio di tutela o il Bureau Interprofessionnel e i livelli di fiducia interpersonale esistenti nell’area. L’analisi dei casi ha messo in luce una carenza delle relazioni, soprattutto di lavoro, tra i produttori vitivinicoli di entrambe le aree considerate. È innegabile il panorama emerso dalle interviste effettuate nel quale la tradizione economica è costituita da aziende agricole famigliari, piccole ed autonome, senza grandi necessità di cooperare o anche solo di entrare in relazione con il vicino. Dall’altro lato, può anche succedere che la partecipazione a una comunità dagli stretti legami e dall’ampia condivisione di valori porti con sé pressioni in direzione della conformità di comportamenti e del mantenimento delle strategie condivise. Ciò può provocare la riduzione delle possibilità di sperimentazione di nuove opportunità di sviluppo, se non veri e propri ostacoli all’innovazione. In quest’ottica, l’individualismo e la relativa carenza di relazioni tra i produttori vitivinicoli delle Langhe e della Côte d’Or appaiono non solo non essere stati penalizzanti sul piano dello sviluppo, ma all’opposto aver agito quale fattore di successo. Alcuni tra i valori della tradizione contadina di piccola proprietà a gestione famigliare, in particolare la forte determinazione al lavoro e la propensione al risparmio, appaiono congruenti con lo sviluppo successivo dell’industria vitivinicola. Tali caratteri potrebbero però non risultare sufficienti qualora la tensione tra concorrenza sul mercato e necessità di collaborazione per la difesa della reputazione della denominazione comune risultassero insostenibili. Tuttavia, la ricerca empirica ha mostrato che non vi sono tendenze radicate verso lo sfruttamento improprio della reputazione della denominazione, ma al contrario la ricerca di qualità e di immagine rappresenta la forza delle produzioni delle due aree analizzate, benché nel caso italiano tale ricerca è raggiunta, a differenza del caso francese, con manifestazioni individuali (basti pensare agli eventi letterari organizzati da Ceretto e in programma da Fontanafredda). Tuttavia, sia le Langhe sia la Côte d’Or hanno compreso che il territorio non è solo un contenitore di risorse, ma è fondamentale come gli attori costruiscono relazioni con queste risorse per creare progetti di più ampio respiro. Anche se in maniera diversa, entrambe le realtà vitivinicole delle due regioni sono la prova che il territorio non rappresenta un vincolo all’internazionalizzazione, anzi facendo leva sugli elementi soft ampiamente descritti (la reputazione, il
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capitale sociale, le relazioni) le aziende di questo territorio riescono a rimanere competitive e a posizionarsi con successo sui mercati esteri. Con riferimento alle relazioni che gli attori creano nel territorio, sia gli intervistati italiani sia quelli francesi hanno ammesso che vi sono scambi di saperi tra i produttori (dagli incontri occasionali al bar, all’organizzazione di riunioni), dovuti alla volontà di emulare gli altri scatenando così una competizione positiva. Le relazioni con gli altri attori, soprattutto quelli appartenenti alle filiere correlate (ad esempio, gli enti del turismo e l’editoria specializzata), sono ovviamente presenti ma meno evidenti ed espliciti e spesso dovuti all’iniziativa individuale più che collettiva. Ciò che rende i vini di Borgogna unici è il terroir che li ospita; per questo i viticoltori di questa zona hanno compreso che devono rispettarlo e metterlo sempre al primo posto. Il Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (BIVB) nasce nel 1989 dall’unione dei due bureau interprofessionnel preesistenti nella regione allo scopo di unificare sotto un unico ente la politica di gestione e di promozione del territorio. Ciò, unitamente al fatto che le attività di controllo sono in mano ad enti nazionali, ha permesso a questo organismo di dedicarsi interamente alla promozione della Borgogna in Francia e all’estero, aiutato anche da un budget considerevole ottenuto dai contributi obbligatori che tutti i produttori sono tenuti a versare. Il caso delle Langhe è invece più complesso perché il Consorzio di tutela nasce nel 1934 con l’obiettivo di tutelare le sole produzioni di Barolo e di Barbaresco e si sono dovuti attendere 60 anni prima che la sua struttura venisse trasformata in un consorzio di territorio che gestisse l’insieme delle denominazioni. I limiti del consorzio, paragonato al BIVB, riguardano soprattutto il suo impegno quasi esclusivo nella difesa e nel controllo delle denominazioni, anche a causa dei contributi economici dei soci ben al di sotto di quelli dei viticoltori borgognoni (250.000 euro contro i 10 milioni del BIVB nel 2007) che non gli consentono di organizzare molte manifestazioni di presentazione dei prodotti vinicoli delle Langhe all’estero, lasciando spesso questo compito in mano ad altri enti (come il consorzio turistico per eventi locali) o ai singoli produttori. Inoltre, non bisogna dimenticare che il Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero è solo uno dei 18 consorzi presenti in Piemonte. Questa frammentarietà nella gestione del prodotto vino, sia da un punto di vista tecnico sia promozionale, rende ancora più difficile organizzare una promozione comune del marchio ombrello “Piemonte”, come succede invece per la Borgogna (ma anche per le altre regioni, dato che le istituzioni pubbliche e i loro ruoli sono organizzati in egual maniera in tutta la Francia).
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In sintesi, e ad un livello nazionale, l’organizzazione centralizzata francese, affidando a due istituzioni nazionali l’intera gestione dei controlli e della tutela dei disciplinari, permette alle interprofessions vitivinicole (che sono all’incirca una per regione) di dedicarsi quasi esclusivamente alla promozione del territorio e al suo sviluppo nazionale ed estero in un’ottica di aiuto alle piccole imprese che vogliono internazionalizzarsi. In Italia, invece, vige la situazione opposta, in cui i consorzi di tutela (che sono molto più numerosi per ogni regione) hanno anzitutto il compito di difesa e regolazione delle DOC e DOCG, lasciando poco spazio alla promozione (di cui ancora non c’è un unico ente locale o regionale che se ne occupa a 360 gradi). Credo sia da far risalire a questo, e cioè alla mancanza di un istituto terzo che si assuma la gestione della promozione e valorizzazione del territorio, il fatto che ogni singolo produttore cerchi di prendere iniziative private. Infatti, le azioni mirate del consorzio di tutela di sostegno all’export appaiono limitate soprattutto sotto il profilo quantitativo, manca inoltre un’esplicita politica generale di promozione dell’area e delle sue produzioni. L’inefficienza di quest’ente pubblico costringe le aziende ad agire individualmente, e ad organizzare con risultati positivi, com’è stato descritto nelle interviste, progetti culturali ed eventi enogastronomici al fine di trasmettere la propria identità e le proprie origini ai consumatori di tutto il mondo. Tutti i produttori sono concordi nell’affermare che il vino è un bene che non può essere venduto separatamente dal territorio in cui è prodotto, perché è la diversità di ogni terroir a rendere unica ciascuna tipologia di vino. È con questo concetto che si discostano dalla strategia dei produttori del Nuovo Mondo, i quali, non avendo un terroir, devono necessariamente puntare su altri fattori, come la produzione di grossi quantitativi standardizzati e adattati al gusto dei consumatori. Partendo quindi da questa filosofia, il passo successivo delle aziende italiane e francesi è quello di riuscire a trasmettere il proprio patrimonio culturale all’estero. Infatti in mercati come quello cinese non esiste ancora una cultura del vino e la domanda è in questo caso connessa a una volontà di distinzione elitaria dal consumo della “massa”, piuttosto che alla ricerca della qualità e del terroir. Se è indubbio che la forza delle piccole imprese vitivinicole italiane e francesi risieda nelle loro tradizioni e nel territorio che le ospita e di conseguenza il vino diventa veicolo di queste caratteristiche e garantisce notorietà alla regione, è altrettanto vero che non si sa in che modo e a che livello questi beni immateriali (savoir faire, tradizione, cultura, autenticità, conoscenze condivise) vengano recepiti dal consumatore internazionale.
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SOMIGLIANZE
ricerca della qualità; rispetto delle origini e del terroir; vino come prodotto tipico e unico con forti elementi evocativi che fanno riferimento alla cantina, alle persone, al paesaggio;
cultura dei fattori intangibili basati sui valori simbolici del vino e sul forte legame con il territorio;
mercato frammentato: aziende a conduzione famigliare e debole cultura manageriale; frammentazione anche a livello dell’offerta; attenzione alle denominazioni; difficoltà nel trasmettere il proprio patrimonio all’estero; reputazione territorio Côte d’Or > Reputazione territorio Langhe. DIFFERENZE ITALIA
FRANCIA
reputazione del marchio = valorizzazione reputazione della denominazione = dello stile, del design, individualismo;
consorzio di tutela: ruolo di controllo
e tutela delle denominazioni, partecipazione facoltativa; gestione delle denominazioni decentralizzata e affidata ai consorzi.
valorizzazione delle appellation, del terroir, collaborazione per il bene del terroir; BIVB: ruolo di promozione del territorio e di ricerca e sviluppo per i vini di Borgogna, partecipazione obbligatoria; gestione delle denominazioni centralizzata in mano a due istituti nazionali.
Tabella di sintesi: Somiglianze e Differenze tra Italia e Francia A questo punto, è chiaro che la ricerca si trova di fronte ad un limite duplice. Il primo è l’evidente impossibilità di rappresentare in maniera completa ed esaustiva l’intero territorio delle Langhe e della Côte d’Or, e ancor di più dell’Italia e della Francia. Pertanto, le generalizzazioni finora esposte non hanno la pretesa di essere delle verità indiscusse e comprovate, ma solo ipotesi di riflessione sulla base di quello che si è potuto constatare sia attraverso i dati quantitativi sia attraverso la verifica empirica. Il secondo limite è rappresentato dal fatto che tutte le considerazioni, le ricerche, le osservazioni si sono fermate dalla parte del produttore. Si sono cioè intervistati i viticoltori e analizzati i dati di due regioni storiche di produzione del vino, soffermandosi esclusivamente sul lato dell’offerta.
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Ecco quindi delinearsi due possibili prospettive di ricerca. Da una parte proseguire la rappresentatività del quadro vitivinicolo italiano e/o francese per verificare se quanto osservato per le imprese delle Langhe e della Borgogna si ripete anche nelle altre regioni e presso altre imprese. Dall’altra, un ulteriore percorso di sviluppo potrebbe essere quello di indagare dal lato della domanda; in altre parole cercare di capire come i valori che i viticoltori italiani e francesi cercano di veicolare attraverso il loro prodotto sono percepiti dal consumatore straniero. Che cosa avviene del patrimonio durante il suo percorso dalla cantina allo scaffale passando per il canale distributivo? Che cosa arriva davvero al consumatore quando acquista un Borgogna o un Barolo e come si ha la certezza che la differenza venga colta? Inoltre, che elementi di controllo hanno i produttori sulla valorizzazione e sulla vendita che viene fatta negli altri Paesi e qual è allora, nell’export indiretto, il ruolo degli agenti e dei distributori? In che modo questi attori riescono a fare propri i valori che le aziende vogliono trasmettere attraverso i loro prodotti e fino a che punto riescono a proporli ai loro clienti? Come è facile intuire, il mondo del vino è complesso, estremamente vario e dalle mille sfaccettature non solo a livello di Paesi, ma anche all’interno di una singola regione. Ci sono ancora molti dibattiti da affrontare e una serie di indagini che possono essere svolte a partire dalle domande appena enunciate.
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Appendice
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sous le Haut Parrainage du Ministère Italien des Affaires Étrangères
Prix “Luciana Falotico” 2011 douzième édition
Wine marketing pour l’internationalisation: une comparaison France-Italie Thèse de
Adele Bertozzi
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Introduction Le système vitivinicole international se trouve depuis quelques années, dans une phase de profond changement. Le présent travail de recherche a pour objectif principal de fournir une base d’informations sur l’évolution du contexte compétitif et une clé de lecture des facteurs qui déterminent l’évolution des systèmes vitivinicoles, avec une référence particulière faite à deux pays producteurs: la France et l’Italie. Face à un changement de contexte caractérisé par la présence de nouveaux concurrents, nouveaux consommateurs et nouveaux distributeurs, l’on tentera de déterminer quels sont les modèles d’affaires que les entreprises vitivinicoles françaises et italiennes adoptent et si ces dernières se trouvent contraintes de modifier leur stratégie afin de maintenir une position qui leur est propre. Même si le système vitivinicole mondial a connu des processus d’internationalisation de flux commerciaux, les filières productives de chaque pays démontrent un fort enracinement territorial. Une telle constatation se vérifie surtout en ce qui concerne le système européen, dans lequel la construction historique de la qualité a toujours été liée à des espaces territoriaux bien définis. Il sera donc particulièrement intéressant d’étudier si le territoire représente un obstacle ou, au contraire, une opportunité pour les entreprises vitivinicoles souhaitant s’internationaliser. Considérant en effet que la localisation et l’enracinement au territoire sont des caractéristiques spécifiques aux entreprises vitivinicoles sur lesquelles ces dernières fondent leur avantage compétitif, la problématique émergente est de savoir de quelle manière les entreprises sont en mesure de valoriser de telles caractéristiques sans se renfermer de manière excessive au sein des frontières territoriales, mais d’utiliser au contraire les ressources locales comme un défi vers une ouverture à l’international. Il apparaît clairement que, en règle générale, afin de répondre aux défis du marché mondial, les systèmes productifs doivent être en mesure de s’organiser selon une vision stratégique qui permette également la réussite compétitive du territoire.
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La compétitivité d’un territoire dépend en effet, non seulement de sa capacité d’extraction de nouvelles ressources et de régénération de celles existantes pour les orienter vers la création de valeur, mais aussi de l’intensité des relations que le territoire noue, de manière évolutive, avec les entreprises. Se profile alors un autre objectif de ce travail de recherche : analyser les typologies de réseaux de relations qui se créent dans une zone donnée et déterminer quels acteurs participent à la filière vitivinicole, à quel niveau ils se trouvent impliqués et dans quelle mesure, ils apportent un avantage compétitif au territoire et aux entreprises présentes. Les relations nouées ne sont pas importantes qu’au niveau local, mais apprendre à être en relation avec les marchés devient une problématique majeure pour soutenir la compétitivité future des vins français et italiens. Les difficultés que les entreprises devront surmonter sont avant tout, le manque d’homogénéité entre les informations du producteur et du consommateur, relativement normales dans un secteur aussi complexe que celui du vin ; Ces relations concernent ensuite la capacité des entreprises pour, non seulement réaliser un produit qualitativement en phase avec les attentes de la cible à laquelle elles s’adressent, mais aussi à la capacité de le promouvoir et le distribuer sur l’ensemble des marchés de destination. Il apparaît ainsi une nouvelle interrogation, difficile à résoudre, à laquelle l’on fournira néanmoins des axes de réflexion. Il s’agit de la modalité avec laquelle les producteurs vitivinicoles italiens et français cherchent à transmettre à l’étranger leur propre patrimoine de savoirs et culture. Est-il en effet possible, qu’en utilisant une simple bouteille de vin comme vecteur, une entreprise parvienne à transmettre aux consommateurs internationaux, ses nombreuses valeurs et caractéristiques du contexte de production ? Pour tenter de répondre à ces interrogations, le présent travail de recherche a été structuré en trois parties. La première partie (chapitres 1 et 2), théorique, explique le procédé d’internationalisation des PME et leur lien avec le territoire. La deuxième partie (chapitres 3 et 4) entre dans le vif du sujet avec l’analyse du secteur vitivinicole en France et en Italie, avec une attention toute particulière apportée à la zone des Langhe dans le Piémont et de la Côte d’Or en Bourgogne. Enfin, la troisième partie (chapitre 5), empirique, réunit les cas des quelques entreprises vitivinicoles françaises et italiennes.
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Le premier chapitre a pour objectif d’illustrer au niveau théorique, les caractéristiques des PME italiennes et les modalités à travers lesquelles elles abordent les marchés internationaux. L’on observera les difficultés auxquelles elles doivent faire face et les opportunités que le marché leur offre, pour ensuite évaluer si de tels éléments se retrouvent également au niveau plus spécifique des entreprises du secteur vitivinicole. Le deuxième chapitre aborde deux thématiques différentes mais étroitement liées : le territoire et la filière. Après avoir donné une définition de ces deux notions, l’on analysera en particulier le territoire du vin et sa filière vitivinicole, afin de déterminer les acteurs y participant et les relations créées pour valoriser l’offre des biens produits. Les deuxième et troisième parties visent à faciliter la comparaison entre la France et l’Italie. Le troisième chapitre donne une idée détaillée du secteur vitivinicole en décrivant les tendances et les logiques compétitives, tout d’abord au niveau global puis national, par la consultation de sources primaires et secondaires. Se précise ainsi le scénario évolutif dans lequel inscrire les entreprises vitivinicoles du Piémont et de Bourgogne. La situation compétitive de ces deux Régions sera approfondie dans le chapitre quatre, où seront également analysés deux territoires spécifiques de ces régions: les Langhe et la Côte d’Or, afin de déterminer, pour chacun d’entre eux, l’état actuel de la filière et des principaux acteurs y opérant. Le cinquième et dernier chapitre consiste à vérifier empiriquement, sur un échantillon de quatre entreprises françaises et italiennes, différents éléments apparus lors des chapitres précédents. L’on cherchera à comprendre, à travers l’élaboration de données qualitatives recueillies pendant différents entretiens, de quelle manière les domaines des Langhe et de la Côte d’Or font face aux logiques de marché, exportent et renforcent leur spécificité face à la concurrence. L’on analysera enfin la situation compétitive de chacune des entreprises de telle sorte à déterminer, selon une méthode inductive, un hypothétique contexte général des situations compétitives française et italienne dans le secteur vitivinicole.
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Extrait En Italie, les PME constituent le tissu principal du système économique, en particulier les “4A” de l’excellence du Made in Italy. Cette expression regroupe quatre grandes aires d’activité manufacturière qui positionnent l’Italie aux sommets mondiaux. Il s’agit de : ameublement-maison, habillement-mode, automation-mécanique, agroalimentaire. Ce-dernier est encore aujourd’hui considéré comme l’un des principaux secteurs contribuant à l’image positive du Made in Italy à l’étranger grâce aux liens de la production alimentaire italienne avec le territoire et le patrimoine culturel du pays. Parmi les secteurs de l’agroalimentaire, celui du vin est, sans aucun doute, d’une importance stratégique. Le territoire est ainsi un élément clé du développement compétitif de ses entreprises et il est particulièrement important de reconnaître que, dans le processus d’identification du territoire, la dimension physique ne suffit pas, mais il faut également considérer l’agrégation de ses ressources et les relations entre acteurs. Si l’on considère plus particulièrement le territoire du vin, le lien vinterritoire passe par le biais des spécificités des ressources qui, si bien valorisées, peuvent permettre des avantages difficilement imitables, puisque fruit de leur originalité due à l’appartenance à une aire géographique donnée. L’avantage compétitif des entreprises vitivinicoles ne dérive pas en soi des conditions de production, mais de la nature même du produit, ancré à un territoire, à un ensemble de spécificités locales, climatiques, techniques et organisationnelles qui lui sont propres, ainsi qu’à un ensemble de produits sélectionnés au cours du processus historique de spécialisation même du produit, éléments synthétisés dans le concept de terroir. La connaissance des terroirs, des facteurs durables de qualité et de leur intégration avec l’année de production et les variétés est, pour les producteurs, une condition indispensable pour gérer les aspects commerciaux et juridiques liés au marché vinicole, permettant l’élaboration de stratégies de gestion géographique des potentialités de production.
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LE SECTEUR VITIVINICOLE EN FRANCE ET EN ITALIE Le système vitivinicole mondial se trouve, depuis quelques années, au sein d’une profonde reconfiguration de la géographie de la consommation, de la production et des protagonistes du marché. La structure du secteur a changé pour répondre à l’expansion des marchés internationaux. Les principaux changements sont de deux types et concernent : - L’évolution de la consommation et de la demande. L’on assiste ces dernières années, à une réduction de la consommation de vin due en partie à la récente crise économique, mais aussi au fait que les consommateurs tendent à favoriser la qualité sur la quantité, préférant acheter des vins plus chers dont la qualité est garantie par des appellations d’origine contrôlée. - L’augmentation de la compétition. Apparaissent sur le marché, de nouveaux compétiteurs, qualifiés de “du Nouveau monde”. Il s’agit ainsi de pays tels que l’Australie, la Nouvelle Zélande, l’Afrique du Sud, le Chili, l’Argentine, les Etats-Unis qui s’opposent au « Vieux Monde » parmi lesquels se détachent la France, l’Italie, l’Espagne et l’Allemagne. Ces deux groupes ont une approche du marché totalement différente, comme l’on peut le constater dans le tableau ci-dessous.
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Face à un tel contexte, les entreprises vitivinicoles européennes, surtout celles de petite et moyenne dimension, doivent adopter une nouvelle stratégie compétitive basée sur leurs qualités intrinsèques et inimitables. La force des petites entreprises est ainsi recherchée dans leur capacité à offrir des produits divers et à mettre à profit l’expérience millénaire de la myriade de territoires à vocation vinicole d’Europe. C’est cette diversité, couplée à la capacité de se différencier de la concurrence, qui permettra aux entreprises de rivaliser avec les multinationales tournées vers des produits internationaux standardisés.
LES CARACTERISTIQUES DES ENTREPRISES VITIVINICOLES DU PIEMONT (LANGHE) ET DE BOURGOGNE (COTE D’OR)
Au Piémont, le secteur vitivinicole joue un rôle de poids au sein de l’économie agricole. Ce dernier se caractérise non seulement par l’importante qualification des productions, mais également par l’intégration avec les différentes ressources présentes sur le territoire en mesure d’activer une ample chaîne de valeur, qui dépasse la phase agricole et agro-industrielle et qui intéresse directement le secteur tertiaire : oeno-gastronomie, tourisme, activité à caractère culturel, communication. L’une des caractéristiques notoires de la vitiviniculture piémontaise est, par ailleurs, l’important positionnement vers la qualité, fruit de la vocation du territoire. C’est, à aujourd’hui, la Région italienne disposant du plus grand nombre de dénominations, avec 46 DOC et 15 DOCG. Les Langhe sont un territoire colinéaire fascinant, à cheval entre les Provinces de Cuneo et d’Asti. C’est une zone qui attire grand nombre de touristes non seulement du fait de sa riche offre oeno-gastronomique, mais également
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grâce à son paysage très varié. Les principaux acteurs de la filière vitivinicole qui opèrent sur le territoire des Langhe sont: SlowFood, la Banque du Vin, l’Université des Sciences Gastronomiques et le Consortium de Soutien “Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero”. Les principaux points de force du secteur vitivinicole de Bourgogne sont: la recherche constante de valorisation ayant permis une importante notoriété et une image haut de gamme transmettant authenticité, qualité, convivialité; une offre diversifiée; une culture du terroir et de sa préservation; une multiplicité d’opérateurs de dimensions variables (viticulteurs, négociants, coopératives); une tradition vouée à l’exportation (la moitié des volumes produits partent à l’exportations) et une étroite collaboration entre les différentes institutions. La Côte d’Or est, à n’en pas douter, le département le plus connu de Bourgogne, rendu célèbre par sa zone de production vinicole s’étendant au sud de Dijon. La Côte d’Or des vins est divisée en deux aires d’importance: la Côte de Nuits et la Côte de Beaune. L’acteur principal de la filière de la Côte d’Or et de la Bourgogne toute entière est le Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (B.I.V.B.). Une interprofession est comparable à un consortium, en ceci qu’il s’agit d’un organisme privé, reconnu par l’Etat qui regroupe les acteurs en amont et en aval d’une même filière, avec pour objectif d’élaborer les politiques et de permettre le développement des performances de la filière. Nous étudierons par la suite les points réels de différence entre un consortium de soutien italien et le B.I.V.B. L’analyse des deux Régions laisse émerger que Bourgogne et Piémont, soit France et Italie, ont une approche de la compétitivité plutôt similaire, considérant leur ressemblance quant à la production de vins de haute qualité, à travers laquelle ils tentent de transmettre leur histoire et leur tradition vitivinicole séculaire. Toutes deux ont mis en œuvre, au cours des années, un modèle basé sur la valorisation des dénominations comme garantie de qualité et comme instrument de traçabilité de la filière qui confère au produit une identité territoriale précise. Néanmoins, ce modèle présente quelques différences synthétisées dans le tableau ci-dessous.
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PIEMONT
BOURGOGNE
Modèle
Décentralisation du sytème de contrôle des dénominations
Hyper centralisation du système de contrôle des dénominations
Eléments positifs
Autonomie des acteurs opérant sur le territoire
Centralisation et cohérence
Eléments négatifs
Risque de fragmentation des acteurs et des décisions
Risque d’abus de pouvoir
Spécificité
Pouvoir majeur de contrôle des corsortiums
Position forte des instituts nationaux
Stratégie
Augmenter le contrôle et la vigilance des dénominations en décentralisant la tâche aux collectivités publiques locales
Centraliser l’ensemble des tâches de soutien des dénominations aux mains de deux instituts nationaux (VINIFLHOR et INAO), mettant en œuvre une politique commune à l’ensemble du territoire national
ECHANTILLON D’ENTREPRISES DES LANGHE ET DE LA COTE D’OR Pour vérifier les hypothèses constatées au cours des chapitres précédents et comprendre les logiques marketing, il s’est révélé nécessaire de mettre en œuvre une analyse empirique sur un échantillon d’entreprises françaises et italiennes ; le point de départ pour le recueil des informations a été l’analyse du site internet et la recherche de documents reportant des nouvelles concernant entreprise/acteurs/territoire ; la méthode directe a consisté en la visite sur place pour un entretien en profondeur semi-guidé. L’échantillon d’entreprises italiennes (voir tableau joint) comprend deux petites entreprises, Gianni Gagliardo et Gigi Rosso et deux entreprises moyennes Fontanafredda et Ceretto. Les deux premières entreprises placent au centre les dénominations, surtout DOCG et recherchent un soutien avec d’autres producteurs du consortium export “Made in Piedmont”. La faiblesse des petites entreprises réside dans la fragmentation des producteurs et de fait, dans la rivalité qui, unie à la méfiance envers les entreprises plus importantes, ne permet pas la création de synergies.
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D’autre part, les entreprises moyennes sont attentives aux origines et au territoire, investissant non seulement dans la marque et l’image individuelles, mais aussi dans la promotion du territoire. Malgré cela, la difficulté de relation avec les acteurs locaux et la faible coopération avec les autres producteurs ne permettent pas à de telles entreprises, de jouer un rôle de leader entraînant positivement des entreprises de taille plus modeste. L’échantillon d’entreprises françaises adopte la même stratégie de valorisation et de préservation des origines et du terroir au travers de la constante recherche de qualité. Le domaine des Lambrays mise sur une réputation consolidée et sur la haute qualité de ses vins; les domaines Chantal Lescure et Armelle et Bernard Rion bénéficient d’une solide tradition familiale dont l’identité se fonde sur la culture de la terre. Le domaine Corton André, entreprise de plus grande dimension, dispose d’un réseau de distribution et de commercialisation bien structuré du fait de disponibilités économiques et managériales.
CANTINA GIGI ROSSO srl Lieu: Castiglione Falletto Employés: 5 Chiffre d’affaires 2007: €1,4 millions Pourcentage à l’exportation: 60% Caractéristiques distinctives: identification avec la marque; adhésion au mouvement du tourisme du vin; culture du vin.
FONTANAFREDDA srl Lieu: Serralunga d’Alba Employés: 114 Chiffre d’affaires 2007: €34 millions Pourcentage à l’exportation: 30% Caractéristiques distinctives: sauvegarde de l’origine; contrôle de la production; orientation et adaptation par rapport au marché.
AZIENDE VINICOLE CERETTO srl Lieu: Alba, Loc. San Cassiano Employés: 80 Chiffre d’affaires 2007: €25 millions Pourcentage export: 45% Caractéristiques distinctives: création de projets architecturaux et culturels; attention apportée au style.
GIANNI GAGLIARDO srl Lieu: La Morra Employés: 18 Chiffre d’affaires 2007: €4,3 millions Pourcentage à l’exportation: 85% Caractéristiques distinctives: style du vin, vers l’élégance; vocation à l’exportation.
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DOMAINE DES LAMBRAYS Lieu: Morey-Saint-Denis Employés: 8 Chiffre d’affaires 2007: €1,7 millions Pourcentage à l’exportation: 50% Caractéristiques distinctives: authenticité du terroir; préservation de la qualité; valorisation de l’expression du terroir.
DOMAINE CHANTAL LESCURE Lieu: Nuits-St-Georges Employés: 9 Chiffre d’affaires 2007: €700.000 Pourcentage à l’exportation: 40% Caractéristiques distinctives: agrobiologie visant à respecter la qualité et l’authenticité du produit; identité.
DOMAINE ARMELLE ET BERNARD RION Lieu: Vosne Romanée Employés: 7 Chiffre d’affaires 2007: €300.000 Pourcentage à l’exportation: 40% Caractéristiques distinctives: lien avec la tradition, sens de la famille et du travail.
DOMAINE CORTON ANDRE Lieu: Aloxe-Corton Employés: 56 Chiffre d’affaires 2007: €16,5 millions Pourcentage à l’exportation: 50% Caractéristiques distinctives: maison de négoce; recherche de la qualité; capacité de vinification; réseau commercial développé.
Pour conclure, les principales différences rencontrées entre les deux territoires analysés sont synthétisables par différents éléments ci-dessous brièvement décrits. 1) Le rapport avec le territoire Dans les Langhe, la division du territoire est nette, sur la base de la propriété de chacune des entreprises. En Côte d’Or, la division du territoire en différentes parcelles de terre n’est au contraire pas visible, étant basée sur la dénomination. De cette première différence, l’on comprend combien la Bourgogne met le terroir au premier plan : le respect du terroir est tellement fort que sa préservation passe avant même le succès de l’entreprise. Ce concept n’est pas encore aussi diffusé au Piémont, même si la valorisation des sous-zones du Barolo est en train d’émerger, donnant ainsi à chacun des vignobles, un nom différent. 2) Le style des étiquettes Même s’il existe des exceptions, l’on peut de manière générale, affirmer que les producteurs des Langhe prennent davantage soin du style et de la créativité des étiquettes, étant de puissants instruments de différenciation; les étiquettes de la Côte d’Or sont au contraire strandardisées, des couleurs neutres et des polices similaires sont utilisés pour mettre en évidence l’appellation.
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3) Le système des dénominations Le sytème français des dénominations identifie étroitement les AOC avec le nom du territoire dans lequel le vin naît, plutôt qu’avec la variété de raisin utilisés pour le produire (par exemple le Nebbiolo ou le Dolcetto sont aussi bien des noms de vins que des variétés de raisin). Dans les Langhe, les deux seuls vins qui tirent leur nom de leur territoire d’origine plutôt que du vignoble, sont le Barolo et le Barbaresco. En Italie, l’on commence en effet à réfléchir dans cette direction, mais l’on en est seulement aux prémisses. En Bourgogne, au contraire, ce modèle est déjà en vigueur depuis environ 100 ans. 4) Les institutions de soutien et/ou de promotion Le Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne est un Institut Régional auquel l’inscription de toutes les entreprises de la filière vitivinicole est obligatoire. Le nombre d’inscrits en 2007 était de 4.000 entreprises, ayant rapporté au total 10 millions d’euros dans les caisses de l’Association. L’inscription au Consortium de Soutien Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero est au contraire facultative, de même que la paiement d’une cotisation associative. En 2007, 500 adhérents ont versé un total de 250.000 euros. Ce chiffre permet uniquement de couvrir les frais de fonctionnement et ne permet en aucun cas, d’effectuer des investissements importants pour le développement et la promotion des vins, ce qui au contraire peut être effectué sans difficulté par le BIVB. De même, les activités réalisées par les deux organismes sont très diverses. Le BIVB a surtout pour rôle de promouvoir en France et à l’étranger, les vins de Bourgogne, en définissant la stratégie d’action; le Consortium de Soutien Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero naît en revanche comme un organisme technique et assume ainsi la fonction de soutien des marques et des noms collectifs ainsi que la gestion des dénominations. Seulement dans une deuxième mesure, l’on a commencé à parler de promotion, décidant ainsi d’insérer parmi les rôles du Consortium, également la valorisation. A ce manque ou à cette faiblesse de soutien de la part d’un acteur tiers, l’on peut rapporter l’un des motifs pour lequel les entreprises vitivinicoles des Langhe sont contraintes à promouvoir leur territoire individuellement, alors qu’en Bourgogne, la promotion du territoire couplée à la promotion des vins et caves, est entièrement effectuée par le BIVB. Il apparaît alors clairement que les entreprises de la Côte d’Or ne doivent pas se préoccuper de cet aspect et ne prenne donc aucune initiative du point de vue de la promotion territoriale.
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Conclusion L’objectif de ce travail de recherche a été de vérifier l’état actuel des secteurs vitivinicoles italien et français, visant à comprendre si les modèles d’affaires de ces deux marchés sont encore valides ou si, en revanche, il est nécessaire d’y apporter des modifications aux vues des changements advenus ces dernières années au niveau de la consommation et de la concurrence. Si aujourd’hui, le seul moyen qu’ont les PME de survivre dans le contexte économique semble être, suivant la tendance générale, celui de se développer à l’étranger, cherchant ainsi de nouveaux marchés de débouchés pour leurs produits, ceci est-il également possible pour les entreprises vitivinicoles, fortement ancrées au territoire ? Ce lien traduit-il au contraire un obstacle ? D’une part, il existe le risque d’être écrasé par le poids des traditions sans réussir à évoluer, de l’autre la valorisation globale du territoire peut permettre de trouver de nouvelles opportunités de développement. Le produit vin est étroitement lié à la culture et aux traditions présents dans un territoire donné, ce qui doit cependant être interprété selon une approche dynamique afin qu’il ne se transforme pas en obstacle à l’entrepreneuriat et à l’innovation. Afin de répondre aux interrogations ci-dessus mentionnées, chaque chapitre du présent travail assume une fonction spécifique en phase avec les objectifs généraux de la recherche. Ci-dessous, l’on tentera de reconstruire, au niveau macroéconomique, les constatations issues des cas pratiques, dans une optique autant que possible, de comparaison pour rester une nouvelle fois, fidèle à la structure de ce travail. Les principaux éléments observés sur lesquels les entreprises visent à se différencier des autres producteurs, en particulier à ceux du dit “Nouveau Monde” (Australie, Nouvelle-Zélande, Chili, Californie, Afrique du Sud) sont en premier lieu, la recherche de la qualité et le respect des origines et du terroir. Le vin est en effet un produit typique reconnu par les acteurs à partir des ressources du territoire. Il deviendrait autrement un produit standardisé, sans terroir. Un vin est la mémoire d’un terroir, exprimé sous la forme d’une saveur en constante évolution. Ainsi, il s’agit avant tout de l’expression d’un lieu, vecteur d’une identité collective, de l’histoire d’une civilisation locale et de l’histoire de son rapport avec la nature qui lui est propre. Le vin est, par ailleurs, un produit attribué à la catégorie des “experience good”. Pour de tels types de biens, le contenu qualitatif est déterminable seulement après que le bien ait été acheté et consommé.
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Etant donné que la qualité n’est pas parfaitement observable, il est probable que l’asymétrie d’information entre producteur et consommateur soit élevée et, si ce dernier n’est pas informé sur la qualité du bien qu’il souhaite acheter, il penchera pour celui dont le prix est le plus faible, ou au contraire pour le plus cher puisqu’il ne réussira pas à associer un coût élevé à un produit de haute qualité. Dans de telles situations, l’introduction d’instituts juridiques tels que la dénomination d’origine ou la marque, peut constituer une solution efficace. Les notions de marque et de dénomination d’origine appliquées au marché du vin déterminent deux réponses stratégiques différentes de la part des producteurs en fonction des caractéristiques sur lesquelles ils se fondent. La marque introduit des élements de concurrence entre les producteurs, lesquels tendront à rivaliser pour l’affirmation de leur propre nom afin d’obtenir des parts de marché et des profits majeurs. L’on a en effet observé que les entreprises vitivinicoles piémontaises sont en concurrence et font la promotion individuelle de leur marque. C’est seulement depuis quelques années que l’on se déplace vers des stratégies de coopération visant à la valorisation commune. Suite à la présence de la dénomination d’origine, l’on peut en revanche hypotiser que se déterminent entre producteurs, des dynamiques de type coopératif, à partir du moment où les intérêts de tous les producteurs qui utilisent la même dénomination, coïncident. C’est le cas de la Bourgogne, où depuis de nombreuses années, une politique de promotion de l’appellation (la dénomination) commune qui dépasse celle de la simple entreprise, est mise en œuvre. Avec la dénomination d’origine, la solution à l’asymétrie d’information est introduite par des standards imposés garantissant un niveau minimal de qualité, tandis qu’au travers de la création d’une marque, le problème de la basse qualité peut être résolu par le mécanisme de la réputation. Le vin étant, comme déjà mentionné, “un experience good”, il est probable que de nombreux consomateurs basent leur choix essentiellement sur la perception qu’ils ont du bien, celle-ci se formant non pas sur la base de paramètres objectifs, mais plutôt de dimensions au contenu immatériel et social. Les éléments sur lesquels les entreprises vitivinicoles françaises et italiennes jouent pour rivaliser sur le marché sont ainsi de type soft et, en plus de la réputation, comprennent le capital social (savoir-faire et relations). Etudions à présent ces deux concepts. La réputation du vin dépend de variables multiples, dont une partie est contrôlée par le producteur lui-même, d’autres à la dimension collective. Nous pouvons la décomposer en quatre facteurs: la réputation de la dénomination,
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la réputation de la marque du producteur, le prestige de la vigne d’origine et le prestige de l’année de production. Etant donné que les deux derniers sont hors des possibilités d’intervention, il s’agira d’influencer les autres. La réputation de la marque constitue un bien immatériel de propriété directe du producteur, lequel peut effectuer des investissements aussi bien dans la qualité du processus de production que pour des stratégies liées à l’image du produit (design de la bouteille, étiquette, mais aussi initiatives culturelles dans des environnements plus ou moins parallèles à celui du vin). Toutes ces stratégies sont, bien entendu, d’ordre individuel. L’entreprise Ceretto par exemple, visant à promouvoir sa marque de manière individuelle, a confié à un designer connu (Silvio Coppola), l’esthétique de ses étiquettes afin qu’elles soient originales et distinctives. En revanche, la réputation de la dénomination, n’est pas sous la responsabilité d’un producteur mais peut être perçue tel un bien commun à l’ensemble des producteurs d’un vin donné. Celle-ci joue de manière équivalente pour l’ensemble des acteurs concernés. Il n’existe pas de rivalité dans la consommation qui acquiert donc une valeur de bien public. Il apparaît ainsi clairement que la production de la part d’un seul producteur d’un vin de qualité supérieure à moyenne comporte des externalités positives sur la réputation collective. De la même manière, les opérations marketing - effectuées sur la base d’intérêts individuels – telles que des investissements culturels, ont des effets positifs. La compétition entre producteurs d’une dénomination donnée, lorsqu’elle se traduit par la recherche d’une qualité et d’une réputation élevée, est en mesure de produire des bénéfices importants pour l’ensemble des acteurs concernés, à condition que les tentations opportunistes de profiter du bien public (réputation de la dénomination) sans contribuer à sa production, soient dûment banies. Afin de contrôler ce type de comportements, trois instruments peuvent être retenus. Le premier comprend des solutions de type motivationnelles et stratégiques qui prennent en considération le fait qu’il existe des acteurs motivés non pas exclusivement par la recherche du profit individuel à court terme, mais aussi par d’autres critères incluant des attentes à long terme, le fair-play et la réalisation d’objectifs collectifs. S’il est en effet vrai que les petites entreprises d’un territoire doivent être très compétitives pour survivre face à la concurrence d’autres opérateurs, il est également vrai que ces dernières sont insérées dans un contexte économique et social plus ample dans lequel s’est formée, au cours du temps, une certaine habitude
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de coopération. Une sorte de dialectique entre comportements concurrentiels et coopératifs s’est créée, dite co-opetition, faisant en sorte que, même si chaque entreprise cherche à maximiser son propre profit, elle est par ailleurs consciente que la partie finale (la conquête d’une part de marché mondial) ne peut être remportée en solitaire mais au contraire, en concertation avec l’ensemble des opérateurs du territoire. Le deuxième instrument prévoit le fait de parvenir à un accord entre participants et la création d’institutions endogènes capables d’affronter avec succès, les problèmes d’actions collectives. Dans le cas des deux réalités étudiées, les Langhe et la Côte d’Or, ces institutions sont représentées respectivement par le Consortium de Soutien Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero et par le Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne. Le troisième et dernier instrument recherche la meilleure solution par l’introduction d’une autorité externe gérée par des acteurs différents de ceux impliqués dans le problème initial et en mesure de réprimer formellement les comportements opportunistes. L’on entend ici l’introduction des marques DOC et DOCG en Italie et du système des AOC en France. Les DOC et DOCG d’une part et les AOC de l’autre, représentent à tous les effets, des standards de qualité de base désormais acquis par les producteurs. L’introduction des dénominations a eu par ailleurs un impact non seulement sur le contrôle et sur le relèvement des standards, mais également dans la relance des vins locaux sur le marché international. Leur contribution est repérable à trois niveaux: un niveau technique – les dénominations définissent un ensemble de standards à l’origine d’une qualité minimale sous laquelle il n’est pas possible de descendre, sous peine de la perte du droit d’utiliser la dénomination de l’étiquette; un économique – les dénominations posent des limites de territoire, de production par hectare et de rendement du raisin en vin qui rendent ainsi relativement stable et quantitativement fixe, le total de produit pouvant être atteint; et un niveau social – la définition de frontières constitue un premier pas dans l’organisation de l’action collective nécessaire pour transformer la réputation de la dénomination en une propriété collective d’un nombre limité de producteurs au sein d’une zone géographique donnée. De l’analyse des cas, il est apparu que le Piémont tend plutôt vers la réputation de la marque, alors que la Bourgogne recherche en priorité la réputation de la dénomination. Les entreprises vitivinicoles des Langhe ont toujours cherché de faire de la promotion individuellement, sans coopération permettant d’atteindre un objectif commun (et ainsi la promotion du territoire et de la dénomination).
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En revanche, les producteurs de la Côte d’Or, malgré le fait qu’ils soient traditionnellement individualistes, ne semblent pas être intéressés par la publicisation de leur propre marque entrepreneuriale mais bien davantage du terroir et de la dénomination en dérivant (en Bourgogne, les appellations dépassent la centaine, alors que dans le Piémont, elles sont au nombre de 14; ceci indique combien cette raison tend à valoriser, presque parfois jusqu’à l’exaspération, chaque nuance, chaque - même minime – parcelle de terre). L’on note cependant que les entreprises des deux Régions, bien qu’elles soient parties de situations opposées, ont atteint le même résultat. D’une part, les entreprises piémontaises cerchent une différenciation par le style, comme les étiquettes; de l’autre, les entreprises de Bourgogne cherchent en revanche à se différencier par la micro parcellisation du terroir. Ces deux orientations amèment à la même conclusion: le risque de fragmentation et le positionnement par conséquence confus sur les marchés étrangers. Il faut par ailleurs s’interroger si, tout ce travail en faveur des appellations servira dans le futur quand, avec l’entrée en vigueur de la réforme européenne (dite OCM vin), prévoyant un disciplinaire commun à tous les pays européens en conformité avec les produits typiques agroalimentaires, l’on assistera de fait à la disparition de ces distinctions qui seront remplacées par les DOP et IGP. L’impact que l’on peut hypotiser avec cette action est positive s’il s’agit de résoudre le problème de confusion dans l’esprit des consommateurs (qui devront comprendre seulement ces deux sigles), mais négative si l’on considère que la dilatation de la classe des vins de qualité conduira inévitablement à la réduction de l’offre et à la banalisation des produits de plus grand prestige. A côté de ces variables, il existe également un autre type de réputation qui influence indirectement celle même du produit: il s’agit de celle relative au pays (country reputation), étroitement liée à l’effet “pays d’origine”. Le positionnement compétitif de l’offre est toujours davantage lié à la réputation du pays d’origine, cruciale ressource immatérielle et non imitable qui saisit le point de vue des consommateurs, nationaux comme étrangers et en synthétise le jugement de valeur confirmé par les évènements passés et présents. De la recherche empirique, l’on déduit que la réputation de la Bourgogne considérée comme Région vitivinicole de qualité, est très élevée et perçue positivement non seulement en France, mais également partout dans le monde. Entrepreneurs, passionés et professionnels du secteur connaissent les vins de Bourgogne et les positionnent dans la catégorie haut de gamme souvent sur le simple critère de leur provenance. Bien que la zone des Langhe bénéficie, elle aussi, d’une réputation positive, celle-ci est en réalité circonscrite à certains de
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ses vins tels que le Barolo et le Barbaresco (rouge) pour un motif de polarisation majeure de la marque. Ceci est principalement imputable au fait que la tradition vitivinicole en Bourgogne ait des racines plus anciennes, de même que le système des dénominations françaises: en Côte d’Or, la première classification remonte à 1861, alors que le règlement de mise en oeuve date, en Italie, de 1927. La Bourgogne a réussi, au fil des décennies, à se construire une réputation, travaillant sur ses caractéristiques d’unicité du sol, du climat et des vignobles. Au Piémont et en Italie en général, après le “scandale du méthanol” éclaté en 1985, la nécessité de restaurer l’image de la production vinicole italienne est apparue, de telle sorte à regagner la confiance sur les marchés étrangers et à fournir ainsi un nouvel élan aux exportations du secteur. Ainsi, les producteurs piémontais se sont orientés vers une qualification du produit vitivinicole toujours plus importante. Malgré le fait qu’il existe des exemples de succès d’une telle politique, comme les cas du Chianti et du Barolo, l’on est encore à l’arrêt en Italie dans la création d’une réputation, dans les limites des simples producteurs et il reste encore une longue route à parcourir pour atteindre une réputation du pays au niveau de celle de la Bourgogne. L’autre élément sur lequel les entreprises vitivinicoles des deux systèmes pays travaillent est le capital social, qui fait référence aussi bien à la coopération informelle sur la base de motivations ou stratégies, qu’à l’élaboration endogène d’institutions formelles. Ces deux instruments, déjà mentionnés - d’un commun accord - avec l’application des dénominations d’origine, rendent plus probable l’instauration de liens vertueux entre réputation individuelle et réputation collective, positifs pour le développement de l’ensemble des producteurs d’un vin donné. Le capital social comprend à un premier niveau, les éléments dont hérite le simple acteur ou qu’il construit en y investissant. Il s’agit surtout de relations, de normes et de valeurs intériorisés ou d’éléments concernant la dimension cognitive et les consciences partagées au sein d’un environnement social. Le capital social comprend, à un deuxième niveau, également certaines dimensions de la structure sociale tels que les biens publics qui ne peuvent pas être modifiés directement par chacun, nécessitant par conséquent une action collective (voir les instituions locales endogènes telles que les consortiums). Rapportant ces observations au contexte des Langhe et de la Côte d’Or, il est possible d’analyser parmi les éléments inclus dans le premier niveau, les valeurs, motivations et relations réciproques entre producteurs vitivinicoles, alors qu’au deuxième niveau, des institutions telles que le Consortium de Soutien ou le Bureau Interprofessionnel servent de référence et mettent en évidence les niveaux de confiance interpersonnelle existants au sein de la zone.
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L’analyse des cas nous a permis de mettre en lumière un manque de relations, surtout de travail, entre les producteurs vitivinicoles des deux zones considérées. Le panorama, issu des entretiens effectués, est indéniable. La tradition économique est constituée d’entreprises agricoles familiales, petites et autonomes, qui n’éprouvent aucune nécessité de coopération, ni même d’entrer en contact avec le voisin. D’autre part, il est également possible que la participation à une communauté aux liens étroits et à l’important partage de valeurs, comporte des pressions en direction de la conformité des comportements et du maintien des stratégies partagées. Ceci peut ainsi provoquer la réduction des possibilités d’expérimentation de nouvelles opportunités de développement, si ce n’est de véritables obstacles à l’innovation. Dans cette optique, l’individualisme et le manque relatif de relations entre producteurs vitivinicoles des Langhe et de la Côte d’Or apparaissent non seulement comme n’ayant pas été pénalisantes au niveau du développement, mais au contraire, avoir agit tel un facteur de succès. Certaines parmi les valeurs de la tradition paysane de petite propriété de gestion familiale, en particulier la forte détermination au travail et à la propension à épargner, apparaissent liés avec le développement de l’industrie vitivinicole. De tels éléments pourraient cependant résulter non satisfaisants si la tension entre concurrence sur le marché et nécessité de collaboration pour la défense de la réputation de la dénomination commune, résultaients insoutenables. La recherche empirique a cependant démontré qu’il n’existe pas de tendances enracinées vers l’exploitation impropre de la réputation de la dénomination, mais au contraire la recherche de qualité et d’image, représente la force des productions des deux aires étudiées, bien que dans le cas italien, une telle recherche est atteinte, à la différence du cas français, avec des manifestations indiduelles (il suffit de penser aux évènements littéraires organisés par Ceretto et au programme de Fontanafredda). Cependant, aussi bien les Langhe que la Côte d’Or, ont compris que le territoire n’est pas uniquement un récipiant contenant des ressources, mais qu’il est fondamental que les acteurs construisent des relations avec de telles ressources afin de créer des projets de plus grande envergure. Même si de manière différente, les réalités vitivinicoles des deux Régions sont la preuve que le territoire ne représente pas un obstacle à l’internationalisation, représentant au contraire un levier sur les éléments “soft” amplement décrits (la réputation, le capital social, les relations). Les entreprises de ce territoire réussisent ainsi à rester compétitives et à se positionner avec succès sur les marchés étrangers.
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En faisant référence aux relations que les acteurs créent sur le territoire, aussi bien les personnes interrogées françaises qu’italiennes, ont admis qu’il existe des échanges de connaissances entre producteurs (de rencontres occasionnelles au bar à l’organisation de réunions), dues à la volonté de chercher à égaler les autres, engendrant ainsi une compétition positive. Des relations avec les autres acteurs, surtout ceux appartenant aux filières liées (organisme de tourisme et édition spécialisée par exemple) sont bien évidemment tissées mais elles sont moins évidentes et explicites, ce qui est souvent dû à l’initiative individuelle davantage que collective. Ce qui rend les vins de Bourgogne uniques est leur terroir; ainsi, les viticulteurs de cette zone ont compris qu’ils doivent le respecter et sans cesse le mettre au premier plan. Le Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (BIVB) naît en 1989 de l’union des deux bureaux interprofessionnels de la Région avec pour objectif d’unifier, sous un unique organisme, la politique de gestion et de promotion du territoire. Et ce, d’un commun accord, du fait que les activités de contrôle sont aux mains d’organismes nationaux. Ceci a permis au BIVB de ses dédier entièrement à la promotion de la Bourgogne en France et à l’étranger, également aidé par un budget considérable obtenus par les subventions obligatoires que l’ensemble des producteurs est tenu de verser. Le cas des Langhe est en revanche plus complexe étant donné que le Consortium de Soutien naît en 1934 avec pour objectif de soutenir les uniques productions de Barolo et de Barbaresco et 60 ans ont du être attendus avant que la première structure soit transformée en un corsortium du territoire gérant l’ensemble des dénominations. Les limites du Consortium, comparé au BIVB, concernent sourtout son engagement quasi exclusif dans la défense et le contrôle des dénominations, également du fait des subventions des associés bien en deça de celles des viticulteurs bourgignons (250.000 euros contre les 10 milions du BIVB en 2007) qui ne lui permettent pas d’organiser de nombreuses manifestations de présentation des produits vinicoles des Langhe à l’étranger, laissant ainsi souvent ce rôle à d’autres organismes (tels que le Consortium touristique pour des évènements locaux ou à de simples producteurs). Il ne faut pas, par ailleurs, oublier que le Consortium de Soutien Barolo Barbaresco Alba Langhe Roero est l’un des 18 Consortiums du Piémont. Cette fragmentation dans la gestion du produit vin, aussi bien d’un point de vue technique que promotionnel, rend encore plus difficile l’organisation d’une promotion commune de la marque “Piemonte”, au contraire de ce qui se produit en Bourgogne (mais également dans les autres Régions étant donné que les Institutions politiques et leur rôle sont gérés de manière similaire sur tout le territoire français).
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Pour conclure et à un niveau national, l’organisation centralisée française, confiant à deux institutions nationales, la gestion complète des contrôles et du soutien des disciplinaires techniques, permet aux interprofessions vitivinicoles (environ une par Région) de se dédier quasiment exclusivement à la promotion de leur territoire et au développement national et international, dans une optique d’aide des petites entreprises désireuses d’internationalisation. En Italie, au contraire, la situation opposée est en vigueur, dans laquelle les consortiums de soutien (beaucoup plus nombreux par Région) exercent avant tout, le rôle de défense et de régulation des DOC e DOCG, laissant ainsi peu d’espace à la promotion (dont il n’existe pas encore d’organisme local ou Régional s’en occupant à 360°). Je pense qu’il faut y rattacher le manque d’un institut tiers qui assure la gestion de la promotion et la volorisation du territoire, chaque producteur cherchant à mener des initiatives privées. En effet, les actions ciblées du consortium de soutien à l’exportation semblent limitées sourtout au niveau quantitatif. Il manque, par ailleurs, une politique générale explicite de promotion de l’aire et de ses productions. L’inefficacité de cet organisme public contraint des entreprises à agir de manière indépendante et à organiser, avec des résultats positifs, comme décrit lors des entretiens, des projets culturels et évènements oeno-gastronomiques afin de transmettre leur propre identité et leurs origines aux consommateurs du monde entier. Tous les producteurs concordent dans l’affirmation que le vin est un bien ne pouvant être vendu séparemment de son territoire de production, la diversité de chaque terroir rendant unique chacune des typologies de vin. C’est ce concept qui différencie la strétgie des producteurs du Nouveau Monde, lesquels, ne disposant pas de terroir, doivent nécessairement miser sur d’autres facteurs tels que la production standardisée de grandes quantités adaptées aux goûts des consommateurs. Sur la base de cette philosophie, l’étape successive des entreprises françaises et italiennes, est de réussir à transmettre leur propre patrimoine culturel à l’étranger. En effet, sur des marchés tels que celui chinois, il n’existe pas encore une culture du vin et la demande est, dans ce cas, liée à une volonté de distinction élitiste par raport à la consommation de “masse”, plutôt qu’à la recherche de la qualité et du terroir. S’il existe un doute sur le fait que la force des petites entreprises vitivinicoles françaises et italiennes réside dans leurs traditions et dans leur territoire, le vin devenant par conséquence, le vecteur de ces caractéristiques et garantissant une certaine notoriété à la Région, il est tout aussi vrai que l’on n’est pas en mesure
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d’estimer de quelle manière et à quel niveau, ces biens immatériels (savoir-faire, tradition, culture, authenticité, connaissances partagées) sont perçues par le consommateur mondial. RESSEMBLANCES
recherche de la qualité; respect des origines et du terroir; vin en tant que produit typique et unique avec d’importants éléments évocateurs faisant référence à la cave, aux personnes, au paysage;
culture des facteurs intangibles basés sur les valeurs symboliques du vin et fort lien avec le territoire;
marché fragmenté: entreprises framiliales et faible culture managériale; fragmentation également au niveau de l’offre; attention portée aux dénominations; difficulté de transmission du patrimoine à l’étranger; réputation territoire Côte d’Or > réputation territoire des Langhe. DIFFERENCES ITALIE
FRANCE
réputation de la marque = valorisation du Réputation de la dénomination = style, du design, individualisme;
consortium de soutien: rôle de contrôle et soutien aux dénominations, participation facultative; gestion des dénominations décentralisée et confiée aux consortiums.
valorisation des appellations, du terroir, collaboration pour le bien du terroir; BIVB: rôle de promotion du territoire et de recherche et développement pour les vins de Bourgogne, participation obligatoire; Gestion des dénominations centralisée, aux mains de deux instituts nationaux.
Tableau de synthèse: ressemblances et différences entre la France et l’Italie Il est ainsi clair que la recherche se retrouve face à une double limite. La première est l’évidente impossibilité de représenter, de manière complète et exhaustive, le territoire dans son ensemble de la Côte d’Or et des Langhe et encore plus, de fait, de la France et de l’Italie. Cependant, les généralisations jusqu’alors exposées n’ont pas la prétention d’être des vérités indiscutables et démontrées, mais seulement des hypothèses de réflexion sur la base de ce qui a pu être constaté aussi bien au travers des données quantitatives que de vérifications empiriques.
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La seconde limite est représentée par le fait que toutes les considérations, recherches, observations, se sont limitées au producteur. Ont été en effet interrogées des viticulteurs et analisées les données de deux Régions historiques de production de vin, se consacrant ainsi uniquement à l’offre. Voici donc se délimiter deux éventuelles perspectives de recherche. D’une part, la poursuite de la représentativité du cadre vitivinicole français et/ou italien pour vérifier si ce observé pour les entreprises de Bourgogne et des Langhe, se répète également dans d’autres Régions et pour d’autres entreprises. D’autre part, une autre voie de développement pourrait être d’enquêter du côté de la demande; autrement dit, de chercher à comprendre comment les valeurs que les viticulteurs français et italiens essaient de véhiculer à travers leurs produits, sont perçues par le consommateur étranger. Qu’en est-il du patrimoine au cours du parcours de la cave aux rayons, en passant par la chaîne de distribution ? Qu’advient-il au consommateur réellement lorsqu’il achète un vin de Bourgogne ou un Barolo et comment a-t-on la certitude que la différence soit perçue ? Quels sont, par ailleurs, les éléments de contrôle que les producteurs ont à leur disposition sur la valorisation et la vente effectuée dans d’autres pays et quelle est alors, dans l’exportation indirecte, le rôle des agents et des distributeurs ? De quelle manière ces acteurs parviennent-ils à s’approprier les valeurs que les entreprises souhaitent transmettre par l’intermédiaire de leurs produits et jusqu’à quel niveau parviennent-ils à les proposer à leurs clients ? Comme l’on peut le pressentir, le monde du vin est complexe, extrèmement divers et non seulement au niveau national, mais également au sein de chacune des Régions. Il existe ainsi encore aujourd’hui de nombreux débats à aborder, une série “d’enquêtes” pouvant être conduites à partir des interrogations mises en évidence ci-dessus. Bibliographie et Sitographie: voir version en italien
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Ringraziamenti Ringrazio innanzitutto la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto e senza la quale non sarei arrivata fino a questo punto. Ringrazio la professoressa Laura Gavinelli per i consigli, l’aiuto, l’incoraggiamento e per la puntualità con cui ha sempre corretto il mio lavoro. È stato un onore e un piacere averla avuta come relatrice. Ringrazio infinitamente, per la parte italiana, in ordine di interviste: Maurizio Rosso della Cantina Gigi Rosso, Bruno Ceretto delle Aziende Vinicole Ceretto, Giovanni Minetti di Fontanafredda, Gianni Gagliardo di Gianni Gagliardo. Ringrazio infinitamente, per la parte francese, in ordine di interviste: Thierry Brouin del Domaine des Lambrays, Alice Rion del Domaine Armelle et Bernard Rion, Florence Garnier di Corton André, François Chavériat del Domaine Chantal Lescure. Ringrazio, inoltre, Giovanni Consonni, dell’Enoteca Consonni di Giussano (MB), per avermi spiegato le nozioni di base sui vini rossi e aiutato nella ricerca delle aziende; Luigi Bertini, direttore dell’Araldica Distribuzione di Castel Boglione (AT) per i preziosi suggerimenti in merito alla Borgogna; Monica Tavella, Marketing e Relazioni Esterne Fontanafredda, per la disponibilità e il supporto ad ogni ora. Infine, vorrei ringraziare Marco per avermi accompagnato in questo viaggio tra vini e vigneti e supportato, con i suoi consigli e le sue osservazioni, lungo tutto il percorso.
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Indice Introduzione
Capitolo I
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L’internazionalizzazione delle pmi italiane 1.1. L’attuale scenario economico: globalizzazione e crisi 1.2. Le caratteristiche delle PMI: punti di forza e di debolezza 1.3. I fattori che influenzano i comportamenti di internazionalizzazione delle PMI 1.4. Modalità d’ingresso sui mercati esteri 1.4.1. Esportazione diretta e indiretta 1.4.2. Accordi contrattuali 1.4.3. Investimenti diretti all’estero (IDE) 1.5. Le sfide delle PMI italiane: innovazione e delocalizzazione/localizzazione 1.5.1. Le organizzazioni distrettuali 1.5.2. Le organizzazioni consorziali
pag. 11 pag. 13 pag. 16 pag. 19 pag. 20 pag. 22 pag. 22 pag. 24 pag. 28 pag. 30
Capitolo II Il territorio e la filiera 2.1. La piccola impresa nel territorio 2.2. Definizione e componenti del territorio 2.2.1. Gli attori 2.2.2. Le risorse materiali e immateriali 2.2.3. La conoscenza 2.2.4. Il capitale sociale 2.2.5. La diffusione di innovazione in un sistema territoriale 2.2.5.1. Il milieu innovateur 2.2.6. Il tessuto relazionale del sistema territorio 2.3. Il country of origin effect 2.3.1. Anholt Nations Brand Index 2.4. Il settore agroalimentare 2.4.1. L’effetto della crisi economica sul settore agroalimentare 2.5. Il concetto di filiera 2.5.1. La filiera vitivinicola 2.6. Il territorio del vino 2.6.1. Sul concetto di “terroir” 2.6.2. La tipicità come espressione del legame territorio-prodotto 2.6.3. I Consorzi di tutela
pag. 33 pag. 34 pag. 36 pag. 38 pag. 39 pag. 42 pag. 45 pag. 46 pag. 48 pag. 51 pag. 54 pag. 56 pag. 61 pag. 65 pag. 66 pag. 70 pag. 73 pag. 74 pag. 77
Capitolo III Il settore vitivinicolo in italia e in francia 3.1. I trend del mercato mondiale del vino 3.1.1. La produzione globale di vino 3.1.2. Il consumo globale di vino e la distribuzione internazionale 3.1.3. Gli scambi internazionali: importazioni ed esportazioni
pag. 82 pag. 83 pag. 86 pag. 88
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3.1.4. Le linee di evoluzione del contesto competitivo e i nuovi attori 3.2. Il settore vitivinicolo in Italia 3.2.1. I principali trend del settore 3.2.2. Le esportazioni e le importazioni 3.2.3. La distribuzione e i consumi 3.2.3.1. Il ruolo della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) 3.2.4. L’identikit del consumatore 3.2.5. Le denominazioni di origine 3.2.5.1. L’importanza del comparto dei vini DOC e DOCG 3.3. Il settore vitivinicolo in Francia 3.3.1. I principali trend del settore 3.3.2. Le esportazioni e le importazioni 3.3.3. La distribuzione e i consumi 3.3.3.1. Il ruolo del circuito ho.re.ca. 3.3.4. Le denominazioni di origine 3.3.4.1. L’importanza del comparto dei vini VQPRD 3.4. La competitività delle aziende italiane e francesi
pag. 90 pag. 94 pag. 96 pag. 99 pag. 101 pag. 103 pag. 106 pag. 109 pag. 114 pag. 117 pag. 119 pag. 121 pag. 125 pag. 128 pag. 129 pag. 131 pag. 134
Capitolo IV Il made in langhe vs made in cote d’or 4.1. I caratteri produttivi e strutturali del settore vitivinicolo in Piemonte pag. 138 4.1.1. La competitività delle aziende piemontesi pag. 145 4.1.2. Le prospettive di mercato delle aziende vitivinicole piemontesi pag. 149 4.1.3. Lo stato della filiera: elementi di forza e problematicità pag. 150 4.2. Il “made in Langhe” pag. 153 4.2.1. I principali attori del territorio pag. 155 4.2.1.1. Slow Food pag. 157 4.2.1.2. La Banca del Vino pag. 159 4.2.1.3. L’università di Scienze Gastronomiche pag. 160 4.2.1.4. Il consorzio di tutela “Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero” pag. 161 4.2.2. Punti di forza, fattori di debolezza e dinamiche progettuali delle Langhe pag. 162 4.3. La vitivinicoltura in Borgogna pag. 164 4.3.1. La piramide delle denominazioni in Borgogna pag. 166 4.3.2. Lo stato della filiera e i suoi attori pag. 169 4.3.3. Le Interprofessions pag. 170 4.3.3.1. Il Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (B.I.V.B.) pag. 170 4.4. Il “made in Côte d’Or” pag. 171 4.4.1. Alcuni attori del territorio: la Confrérie des Chevaliers du Tastevin e l’Institut Universitaire de la Vigne et du Vin (I.U.V.V.) pag. 174 4.5. Il modello AO (Appellation d’Origine) e DO (Denominazione d’Origine) a confronto: quale governance adottare? pag. 176 4.6. Considerazioni conclusive pag. 179
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Capitolo V Le aziende vitivinicole delle langhe e della cote d’or a confronto 5.1. Ipotesi e metodologia della ricerca 5.2. Il campione delle aziende italiane 5.3. Cantina Gigi Rosso s.r.l. 5.3.1. Presentazione dell’azienda 5.3.2. Il legame col territorio 5.3.3. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese 5.3.4. La distribuzione e la promozione dei prodotti 5.3.5. La situazione competitiva attuale 5.4. Ceretto Aziende Vinicole s.r.l. 5.4.1. Presentazione dell’azienda 5.4.2. I progetti culturali e architettoniche: espressione del legame con il territorio 5.4.3. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese 5.4.4. Le certificazioni internazionali di qualità 5.4.5. La promozione e la distribuzione dei prodotti 5.4.6. La situazione competitiva attuale 5.5. Fontanafredda s.r.l. 5.5.1. Presentazione dell’azienda 5.5.2. La riqualificazione dell’immagine dell’azienda e del territorio 5.5.3. Le modalità di internazionalizzazione 5.5.4. La distribuzione e la promozione dei prodotti 5.5.5. La situazione competitiva attuale 5.6. Gianni Gagliardo s.r.l. 5.6.1. Presentazione dell’azienda 5.6.2. Le collaborazioni con i produttori locali 5.6.3. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese 5.6.4. La distribuzione e la promozione dei prodotti 5.6.5. La situazione competitiva attuale 5.7. Le aziende delle Langhe a confronto 5.8. Il campione delle aziende francesi 5.9. Domaine des Lambrays 5.9.1. Presentazione dell’azienda 5.9.2. Le modalità di internazionalizzazione 5.9.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti 5.9.4. La situazione competitiva attuale 5.10. Domaine Armelle et Bernard Rion 5.10.1. Presentazione dell’azienda 5.10.2. Le modalità di internazionalizzazione 5.10.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti 5.10.4. La situazione competitiva attuale 5.11. Domaine Chantal Lescure 5.11.1. Presentazione dell’azienda 5.11.2. Le modalità di internazionalizzazione e il mercato cinese 5.11.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti
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pag. 181 pag. 185 pag. 186 pag. 187 pag. 188 pag. 190 pag. 191 pag. 192 pag. 193 pag. 193 pag. 194 pag. 196 pag. 197 pag. 197 pag. 198 pag. 200 pag. 201 pag. 202 pag. 204 pag. 205 pag. 206 pag. 208 pag. 209 pag. 209 pag. 211 pag. 212 pag. 214 pag. 215 pag. 219 pag. 221 pag. 222 pag. 222 pag. 223 pag. 224 pag. 225 pag. 226 pag. 227 pag. 228 pag. 229 pag. 230 pag. 231 pag. 232 pag. 233
5.11.4. La situazione competitiva attuale 5.12 Domaine André Corton 5.12.1. Presentazione dell’azienda 5.12.2. Le modalità di internazionalizzazione 5.12.3. La distribuzione e la promozione dei prodotti 5.12.4. La situazione competitiva attuale 5.13. Un confronto tra le aziende della Côte d’Or 5.14. Langhe e Côte d’Or: una rilettura comparativa
pag. 233 pag. 234 pag. 236 pag. 237 pag. 238 pag. 239 pag. 241 pag. 244
Conclusioni
pag. 249
Appendice
pag. 262
Riassunto in lingua francese - Résumé en langue française
pag. 267
Introduction
pag. 268
Extrait
pag. 271
Conclusion
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Bibliografia
pag. 290
Sitografia
pag. 295
R ingraziamenti
pag. 297
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Finito di stampare nel mese di novembre 2011
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