Raccontare per vivere

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Gilberto Polloni

Raccontare per vivere Un dialogo lungo quattro anni Con saggi integrativi di

Secondo Giacobbi Un approccio psicologico Giovanni Gelmini Un’analisi socio-geriatrica

ALFREDO GALMOZZI RICERCA STORICA PER LA MEMORIA DEL TERRITORIO CREMASCO


Gilberto Polloni

Raccontare per vivere Un dialogo lungo quattro anni

ALFREDO GALMOZZI RICERCA STORICA PER LA MEMORIA DEL TERRITORIO CREMASCO


Š 2013, Centro Ricerca Alfredo Galmozzi Piazza Premoli, 4 - Crema Per info sulle attività del Centro Ricerca Alfredo Galmozzi consultare il sito centrogalmozzi.it Progetto grafico e impaginazione: Davide Severgnini Stampato in Italia Finito di stampare nel mese di novembre 2013 da Grafin di Cattaneo G. & C. Snc, Crema

Si ringrazia la Grafin Snc per il sostegno alla stampa del presente volume.


Indice

Introduzione

pg. 7

Premessa

pg. 9

Prefazione del Sindaco di Crema

pg. 11

Un approccio socio-antropologico

pg. 13

Un approccio pscicologico

pg. 25

Un’analisi socio-geriatrica

pg. 31

Un viaggio fotografico

pg. 39

Il romanzo di Raccontare per Vivere

pg. 71

di Gilberto Polloni

di Secondo Giacobbi

di Giovanni Gelmini



Introduzione

di Felice Lopopolo, Presidente Centro Ricerca A. Galmozzi

C’è bisogno, sento il bisogno di politiche capaci di costruire esperienze di comunità. Individualismo, narcisismo, solitudine, paure sono fenomeni in rapida diffusione, troppe le persone sfiduciate nel cercare soluzioni insieme ad altri. Il progetto Raccontare per vivere impone spunti di riflessione interessanti rispetto all’incontro tra generazioni. Sono infatti profondamente convinto che la crisi attuale debba essere affrontata integrando radicalmente un diverso modello di produzione, di consumo e di distribuzione dei redditi con la sperimentazione di spazi, di momenti, di occasioni di incontro tra diversità di età, di culture, di ambienti diversi. Anche un museo se non è spazio di incontro e spiritualità non ha senso alcuno, come diceva Chagall. Ebbene questa nostra iniziativa editoriale, a consuntivo di quattro anni di esperienza di incontro tra giovani studenti e anziani, fa emergere risultati positivi e sorprendenti. Questa è l’opinione non solo dei protagonisti ma anche degli insegnanti e dei nostri collaboratori. Gilberto Polloni, autore del testo, ci dà sapientemente strumenti per ritrovare una visione unitaria dell’essere umano in tutte le sue età in controtendenza rispetto all’approccio oggi dominante. Secondo Giacobbi, psicoanalista e Giovanni Gelmini, geriatra, arricchiscono autorevolmente il tema con dati e riflessioni specialistiche. 7


Ringrazio gli attori principali: - i ragazzi e le persone anziane intervistate; - gli insegnanti del Liceo Scientifico Leonardo da Vinci, dell’Ist. Prof. Sraffa, del Ist. I.S. G.Galilei, dell’Ist. Tecnico e Comm. Pacioli di Crema, della Scuola Casearia di Pandino Ist. Prof. per Agricoltura Stanga e dell’Ist. Comprensivo Sentati Castelleone e Trigolo; - animatori e animatrici della Fondazione Benefattori Cremaschi, della Fondazione Brunenghi di Castelleone, della Casa di riposo Milanesi e Frosi di Trigolo, e della Fondazione Ospedale dei poveri di Pandino; - i nostri giovani collaboratori Pietro Torrisi, Claudia Seggi e Gabriele Pavesi, il quale ha curato montaggio e regia del documentario allegato; - Davide Severgnini per il progetto grafico. Ringrazio la Tavola Valdese che ha reso possibile lo svolgimento del progetto. Un ringraziamento particolare alla Fondazione Benefattori Cremaschi col Presidente Walter Donzelli ed il Direttore generale Gianpaolo Foina che hanno ritenuto utile sostenere finanziariamente il nostro lavoro di sintesi e verifica di questa sperimentazione quadriennale.

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Premessa

di Walter Donzelli, Presidente F. Benefattori Cremaschi

Un luogo di solidarieta’ intergenerazionale Il grande bagaglio di esperienze di cui l’anziano è detentore costituisce un patrimonio che può veramente arricchire di una profonda umanità il tessuto sociale di una comunità quale la RSA di via Zurla. Ogni iniziativa perciò che favorisca la valorizzazione di tale patrimonio favorisce contemporaneamente il rafforzamento di un sentimento etico comune fondato su principi di solidarietà e di profonda “compassione” perché “La compassione cristiana non ha niente a che vedere col pietismo, con l’assistenzialismo ma è sinonimo di solidarietà e di condivisione ed è animata dalla speranza” (Papa Benedetto XVI). Così nell’eco di queste parole vediamo il contatto con i giovani delle Scuole Superiori realizzato ogni anno nei progetti intergenerazionali promossi dalla Fondazione. Gli incontri segnano l’esperienza degli anziani e dei ragazzi, divenendo prologo di una nuova storia fondata sullo scambio culturale tra le generazioni e sulla partecipazione emotiva vissuta nelle reciproche quotidianità. La mission della Fondazione è da sempre quella di porre l’anziano al centro di una rete di cura che interviene su due fronti quello sanitario assistenziale e quello socio assistenziale. L’anziano vive infatti all’interno di una rete di relazioni, esperienze e opportunità che lo vedono protagonista di un nuovo percorso di vita che prende forma dal momento dell’ingresso in RSA e si arricchisce di particolari e nuovi vissuti in un progressivo articolarsi delle relazioni e delle esperienze stesse. Non vorremmo mai sentir parlare di impoverimento, come spesso accade quando si cita l’età anziana. Vogliamo invece credere nelle 9


persone e favorire la loro crescita anche in questa fase dell’esistenza umana. Gli anziani ci dimostrano il loro desiderio di vita ogni volta che ci rivolgiamo a loro per coinvolgerli in nuovi progetti che siano di cura, per migliorare le loro condizioni di salute, o di attenzione alla loro sfera affettiva e alla loro socialità. Essi ritrovano il senso di un’esistenza che non è mai finita finché c’è spazio per le relazioni e per la progettazione di un futuro , breve o lungo che sia. Il progetto “Raccontare per vivere”, svolto in quattro lunghi anni di collaborazione con il Centro Ricerca A. Galmozzi, costituisce una importante occasione per favorire la realizzazione di questo senso dell’esistere e siamo certi che è per questo motivo che gli anziani vi hanno sempre aderito numerosi ed entusiasti. Non è scontato per loro accettare di essere intervistati e ripresi tuttavia lo fanno, mano nella mano con i giovani, che li conducono, con le loro domande, attraverso racconti che riaffiorano alla memoria densi di particolari delle singole storie di vita. Gli anziani sono i testimoni di una generazione che col proprio impegno , il proprio lavoro e a prezzo di grandi sacrifici ha costruito l’era moderna del nostro paese. Questo è bene che tutti ce lo ricordiamo e più ancora è importante che le nuove generazioni ne siano rese consapevoli.

Il presente volume è finanziato grazie al contributo della Fondazione Benefattori Cremaschi Onlus 10


Prefazione

di Stefania Bonaldi, Sindaco di Crema

Un’esperienza di straordinaria umanità Quando gli ideatori di questa bella iniziativa me ne hanno rappresentato i contenuti, non ho potuto che felicitarmi per la splendida intuizione in essa contenuta. Lo stesso entusiasmo mi ha suscitato l’anticipazione di questo bel volume che ne riprende e sviluppa l’idea. Provengo da una esperienza professionale di direzione di una RSA e so bene che creare occasioni di scambio e di confronto fra gli anziani e i giovani è sempre una scommessa vincente, che conduce immancabilmente ad abbattere quei luoghi comuni così frequenti, secondo i quali i vecchi sono demotivati, chiusi e ripiegati su sé stessi e i giovani disinteressati, individualisti, orientati solo al divertimento e poco inclini all’impegno. In realtà l’incontro intergenerazionale è invece occasione di confronto e di crescita, per entrambi gli attori. Da un lato, l’anziano ha modo di raccontare le proprie esperienze esistenziali, spesso lontane anni luce dalla vita dei giovani di oggi: l’istruzione come conquista di pochi, il lavoro spesso già in età preadolescenziale, la gioventù in tempo di guerra, il matrimonio ad un’età nella quale oggi molti ancora studiano, il lavoro della vita, che durava una vita… e i giovani vengono rapiti da questi racconti, da una realtà solo immaginata, sentita magari anche attraverso i racconti dei propri nonni. Ed è una occasione per loro realizzare come molto di ciò che oggi diamo per scontato, lo studio, il mantenimento da parte della famiglia sino alla conclusione dell’iter scolastico ed anche universitario, ed in generale le agiatezze della vita di oggi, allora fossero 11


realtà lontanissime, appannaggio di pochi. Dunque una sana iniezione di consapevolezza, che aiuta a comprendere quanto le nuove generazioni, oggi, siano più fortunate di quelle di chi ci ha preceduto. D’altro canto, invece, è formidabile il realizzare come a distanza di 60-70anni vi siano delle costanti, dei comuni denominatori di ogni esistenza. Il desiderio di ciascuno di realizzarsi attraverso la vita affettiva e le relazioni, il desiderio di contare qualcosa per qualcuno, così come la conquista del lavoro, elemento costitutivo e qualificante di ogni esistenza, allora come ora. E in questo incontro di generazioni, la scoperta più sorprendente è data da un universo “anziani” che non è affatto un monolite, ma che appalesa tutta la sua umanità, con una disponibilità all’ascolto, una apertura, una “modernità”, un’assenza di moralismo che disorientano. Una comprensione dei giovani, delle loro difficoltà, delle loro tensioni con una semplicità ma una profondità che sconvolgono perché inaspettate. Un modello da replicare, diffondere e divulgare per la sua positività per tutti gli attori in campo. Ottima quindi l’idea di suggellare anche con un volume una esperienza di straordinaria umanità.

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La vecchiaia come forma mentis di Gilberto Polloni

Un approccio socio-antropologico La vecchiaia è uno spazio teorico tipicamente occidentale, non riscontrabile con le medesime impostazioni in altre culture, risultato di un processo culturale direttamente connesso con il modo di produzione capitalistico. E nel corso dell’ultimo secolo si è pervenuti in Europa, alla progressiva svalutazione della vecchiaia, sempre più interpretata come area improduttiva della società. Allo stato attuale, il reale problema dell’anziano, sotto il profilo antropologico, nasce nel momento in cui non può più dire “sono stato giovane come te” e questo perché il mondo, e le condizioni socio culturali e ambientali, delle nuove generazioni non corrisponde in nulla a quello nel quale hanno vissuto gli anziani di oggi. Ciò si rivela ancor più pertinente quando si confronta la mentalità della generazione dei nativi digitali con quella comunemente diffusa tra le persone che agivano produttivamente solo una ventina di anni fa1. In questo ambito vecchiaia e saggezza risultano dissociate e l’anziano perde una competenza essenziale sulla quale, un tempo, veniva costruito il suo riconoscimento identitario. La velocizzazione dei tempi, la rapidità dell’evoluzione tecnologica e culturale registrata nell’ultimo ventennio hanno determinato una frattura epocale profonda, riponendo in soffitta l’intero armamentario ideologico e culturale della tarda modernità. Il post moderno si è rapidamente dissolto nell’inconsistenza sociologica delle sue stesse premesse, ed ora si galleggia in una condizione priva di 1 M. Mead, “Generazioni in conflitto”, Milano 1972.

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contorni storici definiti e collettivamente riconoscibili. In tale contesto le generazioni “anziane”, contrariamente a quanto avveniva sino a qualche decennio addietro, vengono poste irrimediabilmente fuori gioco a causa soprattutto del profondo mutamento di linguaggio culturale. Inoltre negli ultimi anni la progressiva senilizzazione della società ha assunto nei paesi sviluppati proporzioni così rilevanti da costituire un reale problema economico sociale. D’altro canto, in base a quanto detto sopra, da parte di sociologi, psicologi e antropologi viene messo sempre più in discussione il concetto stesso di vecchiaia. Secondo tali teorie, peraltro facilmente riscontrabili nelle evidenze della pratica quotidiana, si tratterebbe del risultato di una scansione del tempo e della vita dell’uomo derivata esplicitamente dall’assetto culturale della civiltà occidentale. Anomia e alienazione: due strumenti di analisi Nel corso degli ultimi anni del XX secolo due sono stati i filoni teorici al centro della riflessione sociologica: la teoria dell’anomia e quella dell’alienazione. Ambedue queste posizioni interpretano la condizione anziana come il risultato di un processo sociale che tende a considerare alcune fasce d’età della popolazione come “parte inorganica della società”. In generale ogni perdita di ruolo sociale o affettivo determina un mutamento dell’autopercezione e in termini di autostima, ma nel caso della vecchiaia la perdita di ruolo diviene sistematica e irreversibile e provoca l’insorgenza del “ruolo dell’assenza di ruolo”. Una situazione che tuttavia non può certo essere considerata specifica della vecchiaia ma che, al contrario, è comunemente diffusa in tutti gli strati della popolazione, determinando lo stato di anomia2, nel quale 2 E. Durkheim, “Il suicidio”, Torino 1968; V. T. Parsons, “The Social System”, The Free Press 1951; R. Merton, “Social Theory and Social Structure”, The Free Press 1957.

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tutta una serie di carenze sociali si traduce in rinuncia che elimina il conflitto e determina la desocializzazione del soggetto3. Come reazione a questa tendenza negativa si sono sviluppati in Europa modelli teorici, interpretazioni e sistemi di ottimizzazione della vecchiaia come i progetti sostenuti dall’UE “per invecchiare con successo”, che “da un lato vanno intesi come contro movimenti che contrastano sul piano teorico la crescente svalutazione della vecchiaia, dall’altro lato, richiamano l’attenzione sui tentativi di superare il problema e sulle vie per risolverlo oggi a disposizione dei singoli”4. In questa direzione appare utile richiamare un assunto ampiamente diffuso in sociologia e antropologia culturale in base al quale l’uomo, contrariamente a quanto sostenuto un tempo, non possiede una natura ma ha, o meglio è una storia5. In questo senso la vecchiaia viene interpretata come una fase della narrazione che definisce la fisionomia dell’individuo. “La senilità non deve essere considerata come uno spazio vuoto e triste tra l’attività e la morte, bensì l’ultima fase della crescita e della maturazione della persona”6. Nel clima culturale proprio delle società a capitalismo avanzato il problema della vecchiaia assume così un carattere essenzialmente sociale, costituendo un processo che conduce la persona alla perdita di senso della propria esistenza, insinuandole l’idea di essere inutile a sé stessa e agli altri, sentendosi rifiutata dalle nuove generazioni, generalmente rivolte ad interessi e comportamenti estranei al suo mondo in fase di tramonto. Come osserva Simone De Beauvoir,“che per gli ultimi quindici o venti anni della sua vita un uomo non sia più che uno scarto è una cosa che denuncia il fallimento della nostra civiltà”, aggiungendo che tutti coloro che si impegnano per migliorare la società dovrebbero 3 A. Florea, “Anziani e società industriale”, Napoli 1977. 4 B. Hoppe, Ch. Wulf, “Vecchiaia”, in: Ch. Wulf (a cura di) «Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica», Milano 2002, pg. 401. 5 L. Malson, “I ragazzi selvaggi”, Milano 1971. 6 AA. VV. “Anziani e società”, Atti del 14° convegno su “Riconciliazione

tra anziani e società”, promosso dall’Istituto di scienze sociali “Nicolò Rezzara”, 10-13 settembre 1981, Recoaro Terme, Vicenza 1982.

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considerare prioritario questo problema7. La vecchiaia è ancora giovane In ambito socio-antropologico le definizioni relative alla vecchiaia sono svariate. Secondo alcuni autori, la vecchiaia ha inizio con la nascita e finisce con la morte, per altri si tratta invece, molto più semplicemente, di uno stato d’animo, di una forma mentis in base alla quale l’individuo diventa anziano quando sa, o crede, di esserlo, per altri ancora la vecchiaia deve essere definita in base ad un criterio cronologico, connesso alle aspettative di vita. La concezione della vecchiaia che vede l’invecchiamento come un processo che dura per tutta la vita, caratterizzato da perdite e guadagni, si focalizza sulla capacità umana di adattamento e sulla forza delle capacità intellettuali che non sono sottoposte ad alcuna decadenza relativa all’età, rendendo così evidente che la vecchiaia non esiste, almeno nelle forme concettuali tuttora generalmente diffuse. Come è stato acutamente osservato, con un sottile ossimoro, in fondo, in Europa la vecchiaia è ancora giovane. Mancano modelli forti riferiti a questo ampio e specifico tratto di vita che per i prossimi trent’anni rappresenterà un’opportunità e un pericolo per il futuro dell’invecchiamento. “Il dissolversi delle strutture familiari tradizionali, la de-istituzionalizzazione delle biografie individuali producono un altro invecchiamento e rendono necessarie nuove reti sociali che supportino i cambiamenti e le crisi”8. Va innanzitutto risolto il malinteso significato del termine “anziano/vecchio” che ha finito col perdere la sua qualità essenzialmente aggettivale per farsi sostantivo, definente una precisa categoria sociale, cosa che già nel corso degli anni ’60 del Novecento era stata indicata come fondamentale errore di una certa cultura capitalistico

7 S. De Beauvoir, “La terza età”, Torino 1971, pg. 16. 8 B. Hoppe, Ch. Wulf, “Vecchiaia”, cit. pg. 404.

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consumistica9. Come osserva Alberto Oliverio la maggior parte delle teorie psicologiche e sociologiche relative agli anziani sono oggi poste in discussione poiché viene progressivamente meno il soggetto di analisi: la vecchiaia non è altro che un autoconvincimento, un termine semanticamente ambiguo. In realtà oggi è comunemente condiviso il principio che “l’anziano non è una categoria” ma più realisticamente il prodotto di un facile luogo comune, dislocazione sociale che riguarda quasi unicamente alcune categorie di persone. “Molti intellettuali, politici, industriali non hanno la condizione anziana, perché vivono in situazione egemonica, quindi, in qualche misura ambientale”10. Come ha scritto Achille Ardigò, “l’anziano non deve essere considerato una categoria sociale. La condizione anziana esiste solo quando la società segrega, opera una differenziazione. E ciò riguarda solo determinati insiemi di soggetti”, sulla base di differenze culturali, economiche, di ruolo sociale e via dicendo11. Infatti, il fenomeno si riscontra più frequentemente in relazione a soggetti di livello economico medio-basso, mentre il declino della potenzialità mentale è direttamente connesso con i livelli di attività intellettuale consueti nel soggetto. “Sarebbe ardito colui che dicesse di certi poeti e di certi pittori che l’opera della loro vecchiaia segna un declino del loro genio”12, e d’altro canto è stato fatto notare che con l’avanzare dell’età si sviluppano interessanti facoltà di sintesi, estranee alle età più giovani. “La vecchiaia pertanto comincia a diventare problema, solo quando si comprende che coincide con l’abbandono della vita e delle esigenze della realtà”13. Per questo da più parti è stata da tempo richiamata l’esigenza che l’uomo si rinnovi continuamente nel corso della sua vita, rifiutando 9 G. Lapassade, “Il mito dell’adulto”, Bologna 1971. 10 INRCA, “La vecchiaia: fatalità o pregiudizio?”, Napoli 1975, pg XX. 11 A. Ardigò, “Bisogni crescenti e categorie dell’assistenza”, in: AA.VV. «Anziani e società», cit. pg XX. 12 Wallon, “Involution et dissolution”, in: «Encyclopedie française» VIII, 249. 13 INRCA, “La vecchiaia: fatalità o pregiudizio?”, cit. pg.13.

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di fatto il pensionamento, inteso come disengagement14. Al fine di evitare il decadimento psico-fisico l’uomo deve vivere attivamente, ricreando condizioni nuove di interesse, di impegno, di partecipazione, di espressione motoria, a prescindere da quelli che per anni sono stati i suoi doveri professionali perché l’interesse per il continuo esperimento critico del mondo riguarda soltanto l’individuo nella sua integrale libertà espressiva e di scelte. In pratica “l’uomo vive in tanti modi e decade quando guarda e non vede”15. Il suicidio dei neuroni Purtroppo generalmente si commette l’errore di non considerare la vecchiaia semplicemente come un’epoca della vita, di stralciarla dalla continuità biologica dell’esistenza della persona. Tale frattura artefatta crea il problema, producendo luoghi comuni, enigmi e aforismi sociali, economici, politici, affettivi e famigliari. Sotto questo profilo, uno dei luoghi comuni più abusati e diffusi è quello di decadimento senile o normalità senile riferibili ad una visione “radicalmente contraddetta dalla ricerca gerontologica che ha individuato non solo la frequente causa o concausa psico-sociale (e pertanto eliminabile) di tali deviazioni ma anche grandi differenze tra una persona e un’altra e l’esigenza, inoltre, di una larga flessibilità di comportamento”16. Sintomi di declino intellettuale o di turbe psichiche a volte riscontrabili in soggetti di età giovane vengono studiati a prescindere dall’età del paziente, mentre nel caso di un anziano si è portati ad attribuirne la causa all’età, ai processi di invecchiamento. Un atteggiamento largamente invalidato da numerose ricerche che hanno permesso di smentire l’idea di un generale processo di decadimento mentale nei soggetti anziani. È stato posto in evidenza il fatto che il precoce inizio del declino delle facoltà mentali in relazione all’età 14 F. Alberoni in: «Corriere della Sera», 7 gennaio, 1982. 15 V. Lumia, “Elementi di assistenza geriatrica”, Firenze, 1982, pg. 25. 16 V. Lumia, cit. pg. 33.

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dipende sempre da fattori soggettivi e ambientali quali lo scarso sviluppo originario delle facoltà intellettuali del soggetto, l’insufficiente allenamento delle facoltà mentali nel corso della vita adulta (ipotesi del disuso), la ridotta stimolazione mentale propria di una vita monotona, l’isolamento e la perdita di relazioni umane17. In pratica i principali stereotipi dell’invecchiamento non sono altro che i riflessi puntuali della struttura caratteriale e psicologica propria del soggetto sin dalla giovane età. La relatività soggettiva delle facoltà mentali che prescinde da ogni connessione biocronologica ha trovato la conferma negli studi neuroscientifici degli ultimi vent’anni che hanno permesso di stabilire che i 100 miliardi di neuroni che compongono il cervello umano, comunicando tra di loro, trovano la base della loro conservazione nel constante flusso di informazioni e stimolazioni provenienti dal mondo esterno che risultano fondamentali per la “buona salute” dei neuroni preposti al funzionamento della memoria e del pensiero. Al venir meno di tali stimolazioni, eccitanti per i neuroni, corrisponde il progressivo suicidio di questi ultimi a seguito dell’attivarsi del programma di apoptasi, una variante della selezione darwiniana del più adatto, normalmente inibito dal flusso di informazioni e stimolazioni in assenza delle quali invece si attiva, determinando la dissoluzione irreversibile del neurone. Tale procedura chiarisce quanto affermato sinora a proposito delle reali cause di “invecchiamento” intellettuale che non hanno residenza anagrafica ma interessano tutte la fasce dì età da quella evolutiva sino alle più avanzate. È stato verificato che nel caso di persone (non necessariamente anziane) che nella vita quotidiana mancano di adeguate sollecitazioni culturali, di vari interessi e di stimoli cognitivi, il procedimento del cosiddetto jogging cerebrale può avere una qualche efficacia per il mantenimento delle capacità intellettive e per il ripristino delle funzioni della memoria18. 17 U. Lehr, “Geriatrics for Everyday Practrice”, Karger Basel 1981, pp. 46-67. 18 N. Pethes, J. Ruchatz, “Dizionario della memoria e del ricordo”, Milano 2002, pg. 472.

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Invecchia chi smette di rinnovarsi Dunque l’anziano non costituisce una categoria sociologicamente determinata ma rappresenta solamente una fase evolutiva del soggetto le cui caratteristiche psicofisiche e caratteriali vanno poste esclusivamente in relazione alle caratteristiche specifiche dell’individuo e mai in ogni caso all’età anagrafica. Per questo uno dei mezzi migliori e più immediati per vincere la vecchiaia è adeguarsi alla velocità delle trasformazioni culturali. Ciò che invece appare come una manifestazione tipica della società postmoderna è la solitudine, prodotta in parte dalle trasformazioni della struttura sociale intervenute nel corso del ‘900 che hanno prodotto lo sfaldamento della famiglia patriarcale allargata, tipica delle culture agricole, la riduzione in nuclei familiari ristretti, di tipo urbano, e il progressivo generale appannamento della famiglia molto spesso risolta in forme di individualità soggettiva, ma determinata anche dalle modificazioni culturali sviluppatesi nell’immaginario collettivo. La condizione di anzianità in senso propriamente detto diviene in tal modo una discriminante sociale: l’uomo di successo non invecchia mai, la persona pubblica viene sovente vista come soggetto di riferimento da più generazioni, le differenze di età anagrafica in questo modo si annullano, esistono solamente persone di aspetto e atteggiamenti differenti ma sostanzialmente indifferenziati in quanto a età. Così mentre un tempo la persona anziana era il depositario di un sapere vissuto che trasmetteva ai più giovani come indicazione e suggerimento di vita, oggi la dilatazione dell’aspettativa di vita dell’uomo medio che si è praticamente raddoppiata nel corso di un secolo, unitamente alla velocizzazione dei mutamenti sociali, tecnologici e culturali, ha praticamente annullato ogni valenza di saggezza un tempo attribuita alla vecchiaia. Tutto ciò, determinando la necessità di rinnovarsi continuamente per fronteggiare i rischi di superamento e di messa fuori gioco, provoca un’estensione dei tempi di competizione e, di conseguenza, la mancata consapevolezza dello scorrere della vita. 20


In questo senso si può dire che diviene vecchio chi smette di rinnovarsi e di competere. Al contrario colui che riesce a trovare in sé le ragioni di un continuo rinnovamento, gli stimoli per realizzare nuove esperienze di vita, supera i condizionamenti prodotti dalle scansioni temporali arbitrariamente create dalla cultura occidentale nel corso della sua storia. Facile, facile, facile! All’inizio del XX secolo un indiano Sioux di ottantatre anni riferì ad un missionario che, avendo richiesto al Grande Spirito di restituirgli la vigoria psicologica e mentale per riprendere con rinnovato vigore le attività quotidiane e rimediare in tal modo alle cattive azioni precedentemente compiute, un uccello di passaggio gli gridò “facile, facile, facile”, ed egli allora aveva compreso che doveva trovare il bambino che era dentro di lui e in questo modo era tornato giovane. Una testimonianza antropologica che assume il valore di parabola: tutti noi abbiamo dentro un bambino che è stato rinchiuso nel più profondo dell’animo perché il gioco degli adulti non consentiva cedimenti, sfasature. Clausura forzata che sovente è divenuta fonte di psicosi, ansie, turbamenti psichici, incomprensioni intersoggettive, paure inconsce, che ha distrutto rapporti, creato fallimenti esistenziali. La paura del bambino è la paura di essere sé stessi, di non essere accettati dal mondo, il timore della derisione. Forse questo è un approccio corretto, uno dei tanti approcci interpretativi che si possono adottare in riferimento al tema della vecchiaia. Si diventa anziani quando ci si accorge di non avere più paura del mondo, quando ci si sente liberi di vivere il bambino che è in noi, quando si riesce a dare libero sfogo ai percorsi della mente per creare nuove opportunità di crescita, di realizzazione, di vita. Allora i ricordi svaniscono perché diventano parte strumentale delle nuove opere dell’uomo. Un tempo si usava dire che si diventava vecchi allorché si cominciava a ricordare. Tuttavia se il ricordo cessa di essere un archivio di 21


esperienze utile alla costruzione di un futuro condiviso ma diviene un elemento di distacco dal presente, allora il rischio di perdere ogni obiettivo di crescita e creatività nel mondo si fa serio. Ruminare la vita passata non serve a creare il futuro. La teoria della memoria distingue tra corpo memoriale, nel quale si inscrivono i segni della storia, del vissuto (rughe, particolari espressioni mutanti nel tempo, atteggiamenti ed espressioni di socializzazione, ecc.), e corpo monumentale nel quale viene organizzato il ricordo e l’indirizzo culturale soggettivo (propensioni culturali, letterarie, tecniche, scientifiche, tendenze politiche, attitudini sociali, ecc.). Foucault, riallacciandosi a Nietzsche, ha sviluppato la tematica della metafora dell’iscrizione in base alla quale, attraverso le vicende e le fenomenologie del vissuto quotidiano, si fissano nel corpo memoriale i segni dell’esistenza esperienziale dell’uomo, dando luogo alla visione generale delle antropologie soggettive19, Il ricordo soggettivo procede in modo essenzialmente riscostruttivo; si origina sempre dal presente e pertanto comporta inevitabilmente una dislocazione, una deformazione, un’alterazione, uno slittamento, un rinnovamento del dato ricordato, che dipende dalle circostanze temporali in cui esso viene richiamato alla memoria20. Per questo motivo il ricordo soggettivo nei periodi di latenza nell’archivio mentale subisce una progressiva trasformazione in conseguenza del fatto che la sezione cerebrale deputata alla conservazione della memoria non agisce come uno scrigno chiuso ma opera costantemente come energia dotata di leggi proprie. Il ricordo soggettivo avviene nel corso del tempo che a sua volta interagisce attivamente nel processo, motivo per il quale ogni ricordo soggettivo non riferisce la realtà collettiva di un evento bensì la percezione che 19 M. Foucault, “Sorvegliare e punire. La nascita della prigione”, Torino 1976. 20 A, Assmann, “Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale”, Bologna 2002, pg. 30.

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di questa ha avuto il soggetto, determinando il modo individuale di decodificare e rammentare le situazioni. Per questo la narrazione di un anziano verso un giovane assume l’esplicito valore di insegnamento, di trasmissione critica di realtà altre narrate al di fuori delle pagine dei libri di storia. Ogni ricordo non è altro che l’archiviazione di sensazioni soggettive che vengono richiamate in contesti ambientali ed epocali differenti che modificano i contenuti della memoria. In conclusione, definendo l’antropologia dell’anziano “come un preciso effetto di un modello economico che offre come faccia gratificante l’immagine del benessere e del progresso e nello stesso tempo chiede il prezzo di ciò nelle infinite emarginazioni”, e tenendo conto delle dinamiche della memoria, dello stato dell’esercizio mentale e delle condizioni generali economico-sociali del soggetto si può affermare che “la squalifica o la dequalifica dell’infanzia, della donna, degli anziani costituisce l’effetto perverso, intrinsecamente inerente ad un modello economico che […] privilegia la produzione, il profitto, la produttività, l’efficientismo e la gratificazione economica”21, si approda allo scenario attuale dell’economia che si fa biopolitica la quale, riguardo alla gestione della vita delle persone, al di là dei dispositivi di sicurezza e protezione della vita, rivela un risvolto sostanzialmente tanatologico22. In conclusione è possibile affermare che oggi le teorie prevalenti in campo socio-antropologico sono propense a sostenere che la vecchiaia non esiste. Ciò che comunemente viene indicato con questo termine ambiguo e impreciso è al massimo costituito da un complesso di situazioni sociali e relazionali, di condizioni fisiche e sanitarie, di atteggiamenti psicologici che possono essere tranquillamente riscontrati in ogni fascia di età senza che ciò determini una discriminante anagrafica, a parte lo scenario di alienazione e marginalizzazione sociale che ne derivano, a prescindere dall’età. Quindi ogni azione di sollecitazione partecipativa, di risveglio di 21 S. Burgalassi, “Condizione anziana: momento e stimolo di partecipazione globale”, in: AA. VV. «Anziani e società», cit. pg. 49-50. 22 L. Bazzigalupo, “Il governo delle vite. Biopolitico ed economia”, Roma-Bari 2006.

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interesse culturale, di stimolo didattico rivolta alla rivitalizzazione della condizione anziana assume in tale quadro teorico un’importanza strategica, un valore radicale. Proprio in questo nevralgico torno storico trova la sua più immediata ragione e validazione un progetto come “Raccontare per vivere” che proprio la comunicazione e il dialogo assume come strumenti primari per sollecitare lo scambio e la conoscenza intersoggettive, stimolare memorie e visioni dell’esistere, e per riallacciare il filo della storia al di là di ogni facile retorica narrativa.

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L’incontro degli studenti con i vecchi istituzionalizzati di Secondo Giacobbi

Un approccio psicologico Ho partecipato all’esperienza patrocinata dal Centro Alfredo Galmozzi con interventi nella prima fase, preparatoria e propedeutica, del progetto, sia incontrando le classi coinvolte nell’iniziativa, sia lavorando con un piccolo gruppo di docenti, a loro volta coinvolti attivamente nel progetto. Nella riflessione che propongo qui, parto dalla seguente domanda: quale utilità può avere per la formazione culturale ed umana di un giovane l’esperienza dell’incontro con dei vecchi istituzionalizzati? Do alcune risposte. Intanto ciascuno di noi è destinato, con forti probabilità statistiche, ad invecchiare e, di questi tempi, a invecchiare sino alla più tarda età. Di conseguenza chi è giovane ha un concreto interesse esistenziale a conoscere la vecchiaia nel modo più diretto, anche per prepararvisi con lucida consapevolezza: l’ars vivendi e moriendi si apprende anche osservando attentamente la vita (e la morte). L’osservazione del morire è ormai un’esperienza sequestrata e sottratta allo sguardo dell’uomo contemporaneo: si muore ormai da tempo lontani dalle mura domestiche, si muore per lo più in Ospedale o, se vecchi, in Casa di riposo. L’espulsione della morte dallo spazio privato del sé e della vita della persona è frutto di una serie di fattori da tempo indicati dalla sociologia, dalla psicologia sociale e dalla antropologia. Io mi limito qui a sottolinearne uno solo, che ha attinenza con il tema della vecchiaia: la cultura post-moderna e l’i-

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deologia dominante in seno alla scienza medica contemporanea non accettano più la morte come parte e conclusione della vita e hanno sostituito alla concezione QUALITATIVA della morte e della vita, caratteristiche dell’etica medica del passato, una concezione QUANTITATIVA, che si propone di procrastinare, talora anche attraverso forme di accanimento terapeutico, la vita ad ogni costo, anche l’interminabile agonia di un vecchio ormai cronicamente allettato e in condizioni di penoso degrado psico-fisico e mentale. Di qui necessità di accudimento di vecchi sofferenti e non più autosufficienti, che costringono molte famiglie a collocare i loro membri più anziani o più decaduti nelle Case di riposo. È dunque nato un tipo nuovo di vecchiaia, storicamente non completamente inedita, ma enormemente più frequente che in passato (vecchi su carrozzine se ne sono sempre visti, ma pochissimi; oggi sono diventati parte diffusa e vistosa del paesaggio umano ed urbano) e che viene in gran parte sottratta al circuito socio-familiare privato e confinata in una dimensione istituzionalizzata. Diventa così socialmente invisibile ai più. L’incontro di giovani studenti con i vecchi delle case di Riposo rappresenta così anche il recupero di una visibilità, che un tempo faceva della vecchiaia uno degli scenari caratteristici del panorama esistenziale e del ciclo di vita. Ma ad un incontro reale, proficuo e maturativo con il mondo dei vecchi, si frappongono abitualmente tutta una serie di ostacoli che ho cercato di rimuovere nei miei incontri con gli studenti e di affrontare metodologicamente nei miei incontri con gli insegnanti. Ci sono innanzi tutto una serie di rappresentazioni convenzionali della vecchiaia e del vecchio: il vecchio come malato e bisognoso (e lo è spesso, ma non necessariamente), il vecchio come bambino (una similitudine fuorviante perché infantilizza il vecchio e nega quanto sia diverso e ben più penoso accudire un vecchio, rispetto ad un bambino). Forse l’equazione più illusoria è quella che equipara vecchiaia e saggezza. Ahimè, i vecchi non sono, in genere, saggi, non più di quanto lo sia la gran maggioranza di noi umani. La loro condizione di bisogno è così forte, e nelle personalità senili più narcisisticamente centrate su di sé, può essere così esigente, da portare molti 26


di loro lontani dalla capacità di riflettere saggiamente su se stessi e sulla vita. Semmai si tratta di aiutarli a risvegliare o ad accendere dentro di sé una capacità, nuova o sopita, di guardare con libertà e spregiudicatezza alla propria vita. Gli studenti sono stati proprio, anche, aiutati ad attivare ed erogare, a beneficio di se stessi e dei propri interlocutori, tale capacità maieutica. Ho già spiegato, in una consimile pubblicazione dello scorso anno, il metodo con cui ho lavorato con loro, ma tornerò a parlarne. In quest’ultima edizione, come ho già detto, ho operato con un piccolo gruppo di docenti, che avrebbero dovuto a loro volta preparare le loro classi all’intervento nelle Case di Riposo. Insieme abbiamo individuato quella che ci è parsa la pre-condizione prioritaria per interventi di questo tipo e, più in generale, per qualsiasi esperienza di formazione culturale e di maturazione umana: la capacità di elaborare un pensiero autoriflessivo e critico. Tale capacità è minacciata da varie forze, alcune attive da sempre negli uomini e tra gli uomini (il bisogno di illudersi e la paura della verità, ma, soprattutto, sul piano sociale, lo strapotere delle grandi agenzie ideologiche tradizionali), altre che caratterizzano la società contemporanea (in primis la TV, con la sua presenza pervasiva nelle case e nelle vite quotidiane degli uomini, così intellettualmente passivizzante e, in molti suoi programmi, diseducativa ed omologante; ma anche l’organizzazione sempre più mediatica e pubblicitaria del consenso e degli orientamenti mentali e di costume). Per quanto concerne più direttamente e specificamente la vecchiaia e il rapporto con il vecchio, l’atteggiamento mentale predominante si caratterizza nei termini di un moralismo e buonismo astratti, che negano l’ambivalenza. Con il concetto di “ambivalenza” si vuole indicare e sottolineare la caratterizzazione binaria e intrinsecamente complessa e conflittuale delle relazioni umane, in particolare di quelle affettivamente più significative e di queste, infine, quelle che risultano più difficili e gravose da vivere e gestire. Nel rapporto con i vecchi (penso in particolare ai genitori ormai invecchiati, ma, nel caso dei giovani studenti, penso anche ai loro nonni) non c’è solo affetto, legame, gratitudine, sollecitudine, ma c’è anche insopporta27


zione, stanchezza, impotenza, rabbia, tutti sentimenti, questi, che l’inaudito protrarsi della vecchiaia e della vita anche più decaduta ha reso più intensi e dolorosi. Un’importante esperienza di vita Rendersi conto degli aspetti negativi della vecchiaia e degli aspetti di profonda ambivalenza della relazione con i vecchi, si è rivelato per gli studenti un passaggio fondamentale per prepararsi adeguatamente all’incontro con loro e per far sì che tale incontro offrisse, a entrambi gli interlocutori, una straordinaria occasione di esperienza, di emozione vera, di conoscenza. Conoscere la vecchiaia, incontrare i vecchi, ha rappresentato, e sempre rappresenta, lo ripeto, una importante esperienza di vita, non inferiore, per valore formativo, a tante altre esperienze cruciali per il giovane (scuola, lavoro, cultura, sessualità, gruppo, politica, spiritualità ecc.). Ma perché una simile esperienza abbia davvero valore, e anche qui mi ripeto ancora e testardamente, ad essa il giovane deve accedere dopo una adeguata preparazione, che lo metta in grado di incontrare il vecchio e stare un po’ con lui al di fuori di una logica filantropica, ingenuamente idealizzante o moralisticamente assistenziale. Nell’esperienza in questione, non si trattava di portare un po’ di buonumore, distrazione, attenzione affettuosa ai “vecchietti”, bensì di entrare, come ho più volte sottolineato, in un contatto relazionale e mentale veritiero, e quindi autentico, senza smancerie e pre-giudizi convenzionali. Si trattava di incontrare il vecchio reale e la realtà vera della vecchiaia e di utilizzare fecondamente il vecchio come portatore di una preziosa memoria storica. Ma per ottenere ciò occorreva mettere i giovani studenti nella condizione di aiutare i vecchi stessi ad uscire da convenzioni, conformismi e dall’equivoco di aspettative di tipo assistenziale o di evasivo intrattenimento. Di qui il mio lavoro di preparazione lo scorso anno direttamente con gli studenti e, quest’anno, con modalità diverse, con gli insegnanti, i quali poi, in modo approfondito, hanno preparato i ragazzi all’incontro 28


dialogico con i vecchi, attrezzandoli con strumenti conversazionali e relazionali idonei: atteggiamento positivo e cordiale, ma non compiacente né infantilizzante; domande chiare, a voce alta, “aperte” e non manipolative; un ritmo interattivo lento; esplicitazione chiara e semplice degli obbiettivi e dei criteri metodologici della iniziativa, del suo senso e delle sue motivazioni. Incontrare i vecchi istituzionalizzati ha infine un altro particolare valore. Lo straordinario protrarsi della vita (cui non corrisponde un parallelo protrarsi della conservazione, anche in età senile, dell’autosufficienza) impone spesso alle famiglie di consegnare alle Case di Riposo i propri vecchi, destinati a sopravvivere per anni sino ad una condizione di “ri-fetalizzazione”. Sta nascendo così, lo segnalo ancora, un nuovo tipo di vecchiaia, una “neo-vecchiaia”, come suol dirsi, che rappresenta una tappa per lo più inedita del ciclo di vita e che disegna una figura nuova di vecchio, i cui tratti caratteristici sono la dipendenza, l’infantilizzazione, la rifetalizzazione appunto. Ebbene, penso che l’iniziativa che ormai da anni il Centro Galmozzi porta avanti in varie Case di Riposo, vada anche nella direzione di un processo di scoperta e di conoscenza di questo fenomeno nuovo, così importante per la vita degli individui e delle famiglie. L’iniziativa potrebbe, a questo punto, includere nei propri obbiettivi anche quello di studiare a fondo questa nuova vecchiaia. Certo, occorrerebbe riorganizzare l’esperienza “Raccontare per vivere” in modo più organico e più strutturato, come accade in pratiche di osservazione psicologica di altre fasi del ciclo di vita (infant-observation, child-observation), pratiche che hanno trasformato, non solo in senso scientifico, ma anche a livello di senso comune, il modo di concepire infanzia e fanciullezza. Ad esempio l’infant observation ha provato e comprovato come anche le micro-interazioni più sottili tra la mamma e il bambino piccolo siano cariche di senso e di emozione e, in alcuni casi, a loro volta ambivalenti e conflittuali. E come rappresentino la matrice relazionale dentro cui nasce il pensiero umano e la capacità umana di relazione. L’infant observation ha provato altresì come il bambino, anche il neonato, sia un soggetto attivo che organizza la relazione e contribuisca a determinarla. E così per la child observation, che ci 29


ha rivelato un bambino pre-scolare contemporaneamente orientato alla socialità-cooperazione ed al conflitto-bisogno di supremazia. La psicologia e la pedagogia ne hanno tratto stimoli forti. Mi chiedo: la felice esperienza con i vecchi che il Centro Galmozzi sta portando avanti da anni, potrebbe contribuire a creare una nuova e assolutamente inedita forma di osservazione e di studio? Potremmo chiamarla “old-observation” e sarebbe una novità assoluta in campo scientifico e sociale. Naturalmente una simile ipotesi comporterebbe, oltre ad una profonda riorganizzazione del progetto, un suo salto di qualità. È una fantasia inattuabile? Butto lì l’idea. Essa potrebbe davvero aiutarci a capire quella nuova vecchiaia verso cui siamo tutti destinati. Della vecchiaia di una volta sappiamo tutto, essa però non esiste più. A questo punto del mio intervento, e concludendo, mi interrogo anche su quale sia stata e possa essere l’utilità per gli stessi vecchi dell’iniziativa del Centro Galmozzi. Al di là del piacere che certamente ha dato ad essi la possibilità di incontrare giovani che hanno loro dedicato, per qualche ora, un’attenzione reale, autentica e non convenzionale, io credo che l’utilità dell’esperienza vada per essi collocata soprattutto in una loro dimensione interna e personale. E mi spiego: partiamo dal felice titolo che l’iniziativa si è data, “Raccontare per vivere”. Ebbene, per raccontare bisogna prima “ricordare”, ed è proprio il ricordare come esperienza interna, che poi diventa, attraverso il racconto, esperienza relazionale, che assolve ad una importantissima funzione terapeutica e strutturante. L’Io e la mente affettiva del vecchio ne viene rinvigorita e ripulita, anche, dalle sue sterotipie, cognitive ed emotive; e questo è un piccolo patrimonio maturativo che rimane e che sopravvive in lui alla conclusione dell’esperienza. Dunque: ricordare per raccontare, raccontare per vivere, vivere per ricordare, ricordare per essere.

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Un’analisi socio-geriatrica di Giovanni Gelmini

L’ONU ha dichiarato il 1999, ovvero l’ultimo anno del XX secolo, come “Anno Internazionale dell’Anziano”. Non poteva che essere così ! Il secolo scorso, infatti, soprattutto nella sua seconda metà si è caratterizzato nel segno degli anziani, quei soggetti che Arrigo Levi definiva “alieni arrivati non da un altro pianeta, ma usciti dalle pagine di una storia nuova che si sta appena scrivendo”23. Vero! Infatti mai sulla faccia della terra si è assistito ad un così alta percentuale nell’ambito della popolazione di ultrasessantacinquenni, ultrasettanticinquenni, ultranovantenni e persino centenari, che in Italia, sulla base dell’ultimo dato ISTAT, hanno abbondantemente superato le 16.000 unità. E sono proprio le età più avanzate che hanno evidenziato il più elevato trend di crescita percentuale. In pratica a partire dagli anni ‘50 si è verificato un progressivo incremento dell’aspettativa di vita e, conseguentemente del numero di ultrasessantacinquenni, che ha portato di fatto nel nostro paese, sulla base degli ultimi dati demografici, ad un’aspettativa di vita di oltre 84 anni nella donna e quasi 80 anni nell’uomo determinando una percentuale che si sta apprestando a raggiungere il 25% di ultrasessantacinquenni nell’ambito della popolazione generale. Un dato che mette la popolazione italiana ai primi posti, in quanto a longevità, non solo in Europa ma nel mondo intero. La figura 1, che rappresenta il dato di vita media della popolazione italiana a partire dall’800 ai giorni nostri, mostra chiaramente quanto affermato, ovvero il progressivo sostanziale incremento dell’aspettativa di vita, soprattutto a partire dagli anni ’50, grazie al progressivo miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, dell’organizzazione dei sistemi sanitari, del progresso medico scientifico e 23 A. Levi, “La vecchiaia può attendere”, Milano 1998.

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della miglior cura delle patologie. Emblematico rimembrare il grosso passo avanti effettuato allorché si sono potute curare efficacemente le infezioni batteriche, polmoniti in primis, che grazie all’uso degli antibiotici, a partire dalla penicillina, nell’immediato dopo guerra, si è potuta ottenere la guarigione di malattie in precedenza per lo più fatali. Leggendo attentamente la figura 1 si evidenziano nella linea ascendente che caratterizza il grafico due incisure: quella del 1918 corrispondente alla prima guerra mondiale e quella del 1944 corrispondente alla seconda guerra mondiale. L’analisi delle due deflessioni permette di notare che quella corrispondente alla grande guerra è più profonda della successiva e ciò poiché agli oltre 600.000 morti in guerra si sono sommati gli 800.000 morti della pandemia influenzale denominata “spagnola”, laddove tutte le superinfezioni batteriche susseguenti alla patologia virale non si sono potute adeguatamente curare mancando la potente arma antibiotica scoperta da Fleming nel 1928 e “tradotta” in farmaco oltreoceano nel 1942 e pertanto a noi giunta in periodo bellico insieme agli alleati. A dimostrazione di tutto ciò il fatto che un’altra grande pandemia influenzale, denominata “asiatica”, sviluppatasi nel 1957, non ha determinato una cosi alta mortalità in conseguenza delle sue complicanze grazie all’uso di “dolorose” ma fondamentali punture antibiotiche. L’incremento delle aspettative di vita e della vita media sono destinate a crescere negli anni a venire come dimostra la figura 2, dove vengono proiettati i dati in rapporto a tre possibili scenari: alta, media o bassa ipotesi incrementale. La conferma giunge dalle opinioni di un panel di esperti delle Nazioni Unite che, sulla base delle loro proiezioni al 2045-2050, hanno stimato la durata media della vita genericamente nei paesi economicamente avanzati in 79,9 anni per gli uomini e 85,6 anni per le donne, dato inferiore a quello previsto per il nostro paese dove la vita media raggiungerebbe 82,5 anni negli uomini e 88,4 anni nelle donne. La Fig. 3 mostra il dato italiano suddiviso per regione. L’invecchiamento della popolazione ha modificato nel corso di un secolo la distribuzione per età e per sesso della popolazione italiana come evidenziano i dati ricavati dai vari indici demografici. 32


Infatti, se consideriamo ad esempio l’Indice di Vecchiaia, che misura il rapporto tra numero di soggetti ultrasessantacinquenni e numero di soggetti fino a 14 anni di età notiamo che per 18 anziani ogni 100 giovanissimi presenti nel 1901 siamo balzati agli attuali 155 anziani ogni 100 giovanissimi in media con addirittura alcune regioni (Emilia – Romagna, Liguria e Lombardia) che evidenziano il dato di un rapporto anziani/giovanissimi di quasi 2:1. Dato che sarà ubiquitario sul territorio nazionale nel 2030 sulla base di uno stimato 203 anziani per 100 giovanissimi. Se consideriamo l’Indice di Invecchiamento, che misura il rapporto tra ultrasessantacinquenni e popolazione generale, già in precedenza è stato evidenziato come la percentuale dei primi stia raggiungendo velocemente il 25% per arrivare a rappresentare quasi un terzo dell’intera popolazione nel 2050. Anche l’Indice di Senescenza, cioè il rapporto tra coloro che hanno più di 80 anni e coloro che hanno superato la soglia dei 65 anni, evidenzia che, nel giro di cinquant’anni, esso è addirittura raddoppiato: nel 1951 era pari all’11,9%, nel 1981 raggiungeva quota 16,7%, nel 2001 era pari a 22,6% ed oggi si attesta intorno al 25%, dimostrando così, non solo un progressivo invecchiamento della popolazione, ma anche un invecchiamento della stessa classe degli anziani, con una notevole crescita del peso dei cosiddetti grandi vecchi. Il progressivo incremento delle aspettative di vita L’incremento progressivo dei numeri legati all’invecchaimento preoccupa i sistemi sanitari, in particolare l’aumento degli oldest old ovvero i grandi vecchi. Le stime dell’OMS prevedono un raddoppio delle patologie croniche negli ultrasessantacinquenni per il 2030. Già nel 2007 un editoriale di J.M. Robine sul British Medical Journal si chiedeva: Who will care for the oldest people in our ageing society? In pratica un’analisi che si interrogava su chi assisterà i più anziani destinati ad essere sempre in numero maggiore. Da cui la proposta di creare nuovi indicatori demografici in grado di aiutare 33


i governi a valutare le implicazioni dei sostanziali cambiamenti intergergenerazionali e formulare strategie di intervento. Tuttavia alcune recenti pubblicazioni inducono a ridimensionare parzialmente le preoccupazioni dei governi dimostrando che i vecchi e i grandi vecchi sono certamente in aumento ma anche sempre più sani sia di corpo che di mente. Evidenza che si desume, ad esempio, da un articolo pubblicato nel luglio scorso sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet da Kaare Christensen, professore di epidemiologia alla University of Southern Denmark di Odense, basandosi su dati ricavati nella popolazione Danese, che pur caratterizzandosi per una delle più basse aspettative di vita del continente europeo, ha mostrato anch’essa un progressivo incremento della possibilità di sopravvivere nella decima decade di vita con un aumento del 30% ogni dieci anni per i nati nel 1895, 1905, e 1915. E ovviamente lo scrupolo che si sono fatti i ricercatori, analizzando il dato, è stato quello di chiedersi se con la sopravvivenza cresce anche la fragilità fisica e mentale, da cui un aumentando progressivo dei costi sociali e personali. Ebbene, esaminando i dati del registro civile danese e confrontando le condizioni fisiche e cognitive di due coorti di novantenni, una (2.262 individui tra 92-93 anni) comprendente persone nate nel 1905 ancora viventi nel 1998 e l’altra (1.584 persone di 94-95 anni) comprendente soggetti nati nel 1915 ancora vivi nel 2010, dopo disamina con appositi test delle capacità cognitive e dell’autonomia nello svolgimento delle normali attività della vita quotidiana è emerso il seguente dato: i nati nel 1915 hanno mostrato un terzo di probabilità in più di raggiungere i 95 anni rispetto alla coorte del 1905 ed hanno ottenuto risultati migliori nei test. Pertanto la preoccupazione della prospettiva di un forte aumento di demenza e disabilità nei grandi anziani sembra scemare di fronte a questi dati epidemiologici, che confermano il fatto che la maggior parte delle persone raggiunge l’età anziana in buone condizioni fisiche e mentali. Conferma che giunge anche da uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Science ad opera dei ricercatori dell’International Institute for Applied Systems Analysis di Vienna in collaborazione 34


con la statunitense Stony Brook University in cui si afferma che l’incremento della speranza di vita media va di pari passi col miglioramento globale della salute degli anziani. Pertanto chi temeva che i Servizi Sanitari dovessero collassare sotto il peso degli anziani deve ricredersi. In pratica, secondo gli scienziati guidati da Warren Sanderson, le stime su costi e necessità vanno ricalcolate sulla base di nuovi indicatori che comprendono aspettativa di vita residua e tasso di disabilità e che considerano fondamentale la relazione fra quanti hanno bisogno di assistenza e quanto sono in grado di provvedere a loro stessi. Di fatto, se noi prendiamo in considerazione tutto il “popolo” degli over 65, i dati ci confermano che il numero dei non autosufficienti rappresenta il 21% a fronte di un 79% di anziani ancora più o meno attivi, magari resi solo progressivamente più fragili dal dato anagrafico e da qualche “disturbetto” cronico per lo più legato al logorio degli anni e a problematiche cliniche non particolarmente complicate. Tutti dati confortanti non solo per le casse dello Stato ma anche per gli anziani di domani e degli anni a venire visto che la non autosufficienza e l’impossibilità di restare senza possibilità di cura rappresentano le reali paure degli italiani come risulta dallo studio realizzato dal Censis per il Forum Ania-Consumatori, presentato al convegno “Gli scenari del welfare, tra nuovi bisogni e voglia di futuro”, laddove emerge che i primi timori dichiarati dai cittadini sono la non autosufficienza (85,7%) e l’impossibilità di sostenere le spese mediche (82,5%), aspetti che preoccupano molto di più in percentuale rispetto, ad esempio, alla criminalità (77,7%) ed alla disoccupazione (75,1%). Un welfare a dimensione di anziano Un welfare più efficiente e modulato sui nuovi bisogni di protezione è quello che si aspettano le nostre generazioni future a partire da coloro che già oggi sono in età presenile e si stanno addentrando nell’età dei “bianchi capelli”. Un welfare che sia quindi “a dimensio35


ne di anziano” perché in realtà sono essi i maggiori fruitori di beni e servizi per la salute e l’assistenza. Infatti, nonostante i dati confortanti di cui sopra, è ovvietà che più si va avanti d’età e maggiormente è facile incorrere in problemi che inducono disabilità, assistenza e necessità di tutela. La sfida, sempre più attuale e sempre più impellente, è quella di far sì che la “zona delle dipendenza” la si possa raggiungere il più tardi possibile applicando e mettendo in atto tutte quelle strategie individuali e sociali che possono determinare un “invecchiamento attivo”, quella condizione che sulla base della definizione dell’OMS caratterizza quegli anziani che, pur essendo soggetti al decadimento funzionale ineluttabile e proprio della senescenza, conservano, fino alla fine dei loro giorni, una capacità di “fare” che consente loro una vita autonoma e priva di disabilità. Ecco perché è necessario studiare strategie in grado di intercettare i soggetti cosiddetti “fragili” ovvero a maggior rischio di non autosufficienza, compito prioritario del sistema delle Cure Primarie. Soggetti che con opportuni accorgimenti preventivi e di supporto (dietetici, fisici, curativi) possono ritenersi sostanzialmente protetti per alcuni anni a venire da sopravvenienze negative. Ecco perché è il momento di sviluppare in maniera diffusa, anche per chi fragile non è, quella disciplina che definiamo “geragogia” i cui grandi obiettivi sono sostanzialmente due: lo studio/applicazione di strategie atte a favorire un “buon invecchiamento” e lo sviluppo di aspetti socio-economici e socio-relazionali atti a permettere all’anziano di sentirsi partecipe alla vita sociale ed integrato nella comunità. L’invecchiamento attivo prevede per potersi sviluppare tre fondamenta: la garanzia di adeguati servizi sociali e sanitari, la partecipazione alla vita comunitaria e la sicurezza dell’affermazione dei propri diritti e necessità. Un aspetto fondamentale si concretizza in tutte le forme di prevenzione: quella primaria finalizzata a “gestire” i fattori di rischio delle principali malattie cronico-degenerative e, in particolare, delle malattie cardiovascolari nonché a evitare, laddove possibile attraverso le vaccinazioni, cause patologiche anche gravi e non scevre da rischi; quella secondaria in grado di evidenziare in 36


fase precoce condizioni patologiche o di rischio con possibilità spesso risolutive (screening, controlli, ecc.); quella terziaria in grado di gestire la cura delle patologie croniche in atto al fine di evitarne le complicanze e pertanto le conseguenze spesso disabilitanti che ne derivano. In rapporto alla prevenzione e alla cura sono fondamentali lo stile di vita e le abitudini voluttuarie (fumo, alcol, ecc.), il mangiare sano e il mantenimento di un buon livello di attività fisica. La recente dimostrazione che 45 minuti di camminata tre volte la settimana utilizzando un passo svelto ma che permette di poter chiacchierare con un compagno “di viaggio” hanno indotto non solo un buon “allenamento” fisico bensì anche un incremento delle capacità cognitive la “dice lunga” sul fatto del grande rapporto esistente tra invecchiamento attivo e attività fisica. La senescenza, nella sua naturalezza, è profondamente influenzata dall’ambiente e dai vari fattori negativi e positivi, insiti in esso, che possono interferire con la vita e determinare le vicissitudini di chi sta invecchiando. Tra i fattori negativi che condizionano un invecchiamento problematico si riconoscono: l’inattività occupazionale e/o lavorativa, la povertà, le ridotte scolarità e attività culturale, la solitudine, le situazioni sociali e psicologiche stressanti (rapporti col coniuge, rapporti coi figli, problemi abitativi, difficoltà logistiche e dei servizi, ecc.). Tra i fattori positivi che possono permettere sia un buon invecchiamento che un certo grado di soddisfazione del proprio vivere da vecchio possiamo citare: il ruolo di nonno, la partecipazione ad attività di volontariato sociale, il coinvolgimento in attività ambientali (orti, parchi, fiori, animali da cortile, api, ecc.), sociali, ricreative e culturali (es. Università della Terza Età o del Tempo Libero), il viaggiare a scopo turistico, il rapporto positivo con le altre generazioni, la possibilità di sviluppare in rapporto alla vedovanza nuovi rapporti di coppia e sentimentali, il vivere il più a lungo possibile nel proprio ambiente ed ambito domestico. Ovviamente ogni voce citata a partire da quelle indicate parlando di prevenzione meriterebbero un proprio capitolo esplicativo talmente sono ampi gli aspetti di sviluppo di ogni tematica. 37


L’invecchiamento attivo prevede “doveri” della società e doveri del singolo. Nella logica che molto bene a suo tempo Papa Giovanni Paolo II ha descritto nell’enciclica “Christo fideles laici, 48” che indica agli anziani di non sentirsi “elementi passivi di un mondo in eccesso di movimento, ma soggetti attivi di un periodo umanamente e spiritualmente fecondo dell’esistenza umana” dove gli anziani hanno “ancora una missione da compiere, un contributo da dare”. Infatti “secondo il progetto divino ogni singolo essere umano è una vita in crescita, dalla pura scintilla dell’esistenza fino all’ultimo respiro”. Proprio lo scorso anno l’Unione Europea ha festeggiato l’Anno Europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni. Ed anche in questo caso, così come nel 1999 l’ONU, in maniera appropriata perché, sia la scienza biologica che quella economica, hanno recentemente dichiarato che molto verosimilmente coloro che nascono nel decennio che va dal 2011 al 2020 avranno serie possibilità di raggiungere quell’età che è sempre stata definita dai gerontologi come massima aspettativa di vita dell’uomo: 120 anni. E tale età sarà raggiungibile solo se si vorranno e/o potranno mettere in atto tutte le forme di prevenzione e gli adeguati stili di vita che caratterizzano un invecchiamento attivo e se le generazioni più giovani avranno la sensibilità di accettare dinamiche sociali nuove, diverse, dove gli anziani possano essere depositari di un proprio ruolo sociale e pertanto concorrere allo sviluppo della società quasi a rappresentarne una possibile terza economia. Come ha scritto già nel 2007 Bruno Lunenfeld endocrinologo israeliano presidente dell’International Society for the Study of the Aging Male, “il XX secolo si è caratterizzato nella crescita della popolazione, il XXI passerà alla storia come il secolo dell’invecchiamento”. Mi auguro che questo futuro già in atto rappresenti un fenomeno e pertanto una sfida da vincere; mi spiacerebbe che tutto ciò fosse visto come un problema e pertanto un grande e pericoloso fattore di crisi del “mondo” di domani.

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Raccontare per vivere

Un viaggio fotografico Raccolta di immagini tratte dalle varie annualitĂ del progetto

Fotografie tratte dalle quattro annualità del progetto Raccontare per vivere (2010, 2011, 2012, 2013). I soggetti ritratti fanno parte delle Rsa e dei Centri Diurni coinvolti (Fondazione Benefattori Cremaschi di Crema, Fondazione Giuseppina Brunenghi di Castelleone, Fondazione Ospedale dei Poveri di Pandino, Asp Milanesi e Frosi di Trigolo) e gli studenti e i docenti delle scuole primarie e secondarie di secondo grado (Istituto Comprensivo P. Sentati di Castelleone e di Trigolo, Istituto Tecnico Professionale P. Sraffa di Crema, Liceo Scientifico L. da Vinci di Crema, Istituto Tecnico Commerciale L. Pacioli di Crema, Liceo delle Scienze Applicate G. Galilei di Crema, Istituo Tecnico Professionale Stanga di Pandino).


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Gilberto Polloni

Il romanzo di Raccontare per vivere Storie di incontri, dialoghi, emozioni, feste nelle testimonianze di quattro anni



I. Una pluralità di attori per una polifonia di racconti

È stato scritto che “la lotta contro l’emarginazione della terza età comincia sin da quando si è giovani”, e che per produrre azioni costruttive ed efficaci in questa direzione occorre promuovere iniziative di partecipazione e di collaborazione intergenerazionale al fine di preparare i giovani alla loro vecchiaia24. Ma allo stesso tempo è necessario precisare che la vecchiaia è soprattutto un fatto soggettivo, connesso alle condizioni sociali, culturali e ambientali che hanno caratterizzato la vita di un individuo. “Sono persuaso che in gran parte […] un individuo invecchia o no, secondo la condizione di spirito con cui affronta il problema […] prima di tutto decidere di non essere, non dico vecchi, ma neppure anziani”, mantenendo vivi i propri interessi, le attività e inventandone di nuove25. Nella società capitalistica i riti di passaggio della vita, cicli cerimoniali attraverso i quali l’individuo passa in tutte le circostanze importanti della sua esistenza26, tendono a dissolversi, a divenire opachi, “aspetti frammentari, isolati, vissuti a livello individuale, senza più alcuna rilevanza sociale”. Tutto ciò spiega i motivi del silenzio 24 M. Pavone, F. Santanera, “Anziani e interventi assistenziali”, Firenze 1982, pp. 46 segg. 25 C. Musatti, “Introduzione” a: D. Giori, “Vivere la vecchiaia”, Roma 1981, pp. 7-8. 26 Cfr. A. Van Gennep, “I riti di passaggio”, Torino 2007.

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sugli anziani, derivante dal “generale orientamento al futuro che caratterizza la frange culturalmente più vivaci, l’influsso del mass-media, centrati sui valori giovanili, i contrasti generazionali, l’obnubilamento dei valori di ieri”27. L’intreccio teorico, sinteticamente delineato, si colloca al centro di un dibattito che, con alterne vicende, prosegue da oltre quarant’anni, e il progetto “Raccontare per vivere” si innesta in tale contesto critico in quanto nasce proprio dall’esigenza di produrre azioni concrete per stimolare l’integrazione intergenerazionale attraverso il trasferimento ed il confronto tra mentalità, culture e comportamenti sociali. In questo senso, la memoria narrata da parte degli anziani non costituisce solamente il trasferimento di saperi e conoscenze che andrebbero altrimenti perduti irreparabilmente ma soprattutto un fil rouge narrativo in grado di accostare generazioni rese distanti dalla profonda e rapida evoluzione socio culturale intervenuta nel corso degli ultimi vent’anni. Le linee guida del progetto, nato nel 2010, sottolineavano l’esigenza di valorizzare la testimonianza storica e antropologica degli anziani attraverso le interviste realizzate dai giovani, contribuendo ad una strategia di prevenzione e sviluppando un dinamico incontro intergenerazionale allo scopo di memorizzare testimonianze di persone che hanno vissuto momenti storici, ad esempio durante la seconda guerra mondiale, o esperienze di operai, artigiani, lavoratori a diverso titolo e di individui che hanno svolto nel corso della loro vita attività di impegno politico. In questo modo il progetto intendeva unire il prima e il dopo, come ha affermato uno studente della Scuola Casearia di Pandino, fornendo un’indicazione particolarmente significativa oggi dal momento che, come avverte Secondo Giacobbi, “i vecchi hanno perso l’importanza di un tempo” in quanto non sono più inseriti in una continuità cronologica, sociologicamente e culturalmente definita e in considerazione del fatto che “oggi è difficile individuare impegni 27 D. Gatteschi, “Servizi socio-sanitari e difesa degli anziani”, Firenze 1980, pp. 27-33.

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radicali sul problema dell’invecchiamento”28. La condizione anziana oggi costituisce in pratica un declassamento sulla base di valori che incidono sulla formazione dei ruoli e sulla loro gerarchizzazione, determinando una diversità che implica l’esclusione dell’individuo costretto ad un non-ruolo, in quanto i ruoli svolti dagli anziani vengono meno nella scala sociale dominante, o non valgono affatto nella società. Al contrario col progetto “Ricordare per vivere” l’anziano è stato riconvocato sulla scena sociale attraverso l’azione dei ragazzi che in questo modo hanno potuto apprendere storie e memorie dalla viva voce dei protagonisti che, dal canto loro, hanno comunicato ai giovani una libertà della mente derivante dall’esperienza vissuta. Il progetto, infatti, si è basato sull’ampio coinvolgimento degli studenti degli istituti scolastici di Crema e del Cremasco che, mediante incontri distribuiti nell’arco di quattro anni, hanno contribuito a stimolare il reciproco interesse, la curiosità del comprendere da parte sia dei giovani che degli anziani, intervistati e coinvolti in un complesso gioco di approfondimento tematico e di recupero della memoria storica, mediato dalla mentalità critica delle nuove generazioni. Lo stupore dell’incontro intergenerazionale Il notevole rilievo di una simile impostazione progettuale viene sottolineato da Cecilia Brambini della Fondazione Benefattori Cremaschi quando parla di “stupore dell’incontro”, con chiaro riferimento al concetto aristotelico di scoperta conoscitiva del mondo. L’incontro tra le generazioni fa nascere nuovi sentimenti di fiducia e stima reciproche ed alimenta il desiderio di relazione ed affetto. I ragazzi parlando a tu per tu, hanno scoperto un nuovo 28 S. Giacobbi, “Intervento”, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012.

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modo di comunicare e ritrovato il senso di una vicinanza carica di emotività in un clima molto vitale che ha favorito la soddisfazione delle reciproche curiosità e la crescita di una nuova coscienza civile. Ogni incontro ha trovato una dimensione profondamente umana ed ha contribuito a far nascere nei giovani nuove sensibilità e consapevolezze verso la vecchiaia ed il suo valore29. Il valore ed il significato della relazione intersoggettiva, della diretta comunicazione verbale tra persone, annullando praticamente le fittizie differenze d’età, dimostrandone l’artificiosa convenzionalità culturale, viene chiaramente espresso nelle note della Brambini. Vivere l’esperienza dell’incontro tra giovani e anziani mi ha fatto ogni volta percepire quanto sia errata l’opinione che gli adulti spesso manifestano verso le nuove generazioni ritenute a torto superficiali e inconcludenti. Lì tra le mura della casa degli anziani i giovani hanno portato la loro energia contaminatrice e gli anziani hanno risposto al richiamo riempiendo gli ambienti di voci, risate e un movimento inusuale ha cambiato la connotazione degli spazi che da anni percorro e vivo come animatrice e organizzatrice di eventi30. Il risvolto di sollecitazione operativa emerge dallo stimolo suggerito dagli incontri e dai risultati chiaramente leggibili nelle espressioni e nelle emozioni manifestate da tutti i partecipanti. Il benessere vissuto in quei momenti reso visibile sui volti e nei gesti di tutti, gesti premurosi e carichi di affettività, ha alimentato in me il desiderio di creare sempre più frequenti occasioni di partecipazione attiva e di valorizzazione del potenziale umano, propositivo e creativo insito nella vecchiaia; un patrimonio che viene continuamente negato anche da coloro che, per diverse ra29 C. Brambini, “Lo stupore dell’incontro”, Crema 2013. 30 Ibid.

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gioni, la vivono da vicino. Lo stupore ritrovato nell’incontro tra le generazioni mi emoziona ogni volta e sollecita costantemente la mia curiosità e più ancora il mio impegno verso la creazione di una nuova cultura della condivisione che porti ad una vera alleanza tra le generazioni, unico rimedio all’individualismo e grande motore per una nuova crescita della nostra società31. Ma oltre a questa trama di fondo, lo sviluppo progettuale ha fatto costante riferimento agli insegnanti, agli operatori delle RSA e a tutti coloro che, con interventi tecnici, rientravano nello spazio visivo e documentativo dell’azione. Grande merito di questo progetto è stato quello di valorizzare la capacità collaborativi tra insegnanti di varie scuole, operatori delle diverse strutture, creando una circolarità professionale e umana che ha arricchito tutti32. Gli incontri conclusivi svolti a chiusura di ogni annualità a Crema presso la Sala Alessandrini hanno costituito altrettanti momenti di grande coinvolgimento celebrativo con la partecipazione degli studenti di tutti gli istituti scolastici coinvolti nell’esperienza, dei loro docenti, delle delegazioni degli anziani, e dei rappresentanti delle istituzioni pubbliche locali. Si è trattato di veri e propri spettacoli nei quali tra musica, fasi cantate e recitate, si sono intervallate testimonianze dei partecipanti, interventi istituzionali e commenti sul valore del progetto. La grande opportunità offerta ai ragazzi dalla partecipazione al progetto “Raccontare per vivere” è consistita proprio nella scoperta che una proposta apparentemente piuttosto estranea alla loro vita, e senza dubbio contro corrente proprio a causa della 31 C. Brambini, “Lo stupore dell’incontro”, cit. 32 M. Sacchelli, “Relazione”, Istituto Istruzione Superiore “P.Sraffa”, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012.

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tematica proposta, li ha invece indotti a scoprire nuovi aspetti delle propria personalità individuale, riconoscendo il valore fondamentale che la memoria raccontata riveste per immaginare e costruire il futuro, e per restituire valore alle piccole grandi cose che sovente crediamo di aver dimenticato o consideriamo superate, e che invece si trovano ancora al centro delle nostre vite33. Il carattere forte del progetto è costituito dalla centralità assunta dalle persone e dalle loro “storie”, interpretando l’anziano in una dimensione ecologica che non escludeva alcun aspetto della personalità individuale, dalla sua cultura materiale, al grado di acculturazione, alle condizioni ambientali nelle quali si è sviluppata la soggettività, alle emergenze economico sociali e via dicendo, configurando in tal modo un complesso analitico documentativo di grande interesse antropologico. Nato come progetto che voleva valorizzare gli anziani come fonte di microstoria, è diventato soprattutto l’occasione per aiutare i ragazzi a prendere coscienza di fasi della vita e di situazioni esistenziali da cui vengono, a torto, spesso preservati34. Un percorso di conoscenza e scoperta reciproca Ciò è direttamente attribuibile al generale processo di dissoluzione di ogni memoria storica che un tempo veniva costruita con l’aiuto di segni e pratiche simboliche, conducendo a fenomeni che si potevano cogliere in maniera del tutto empirica e che restavano distinti dalle condizioni della memoria individuale. Si trattava di memorie 33 C. Maccalli, “Relazione”, IPAA-Scuola Casearia, Pandino, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012. 34 M.T. Mascheroni, D. Dodesini, “Relazione”, Liceo Scientifico Statale “Leonardo Da Vinci”, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012.

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collettive (ad es. Piazza Cinque Giornate conteneva un significato di valore comune, unanimemente compreso) oggi in via di cancellazione per effetto del dirompente dilagare dei flussi incontrollati di comunicazione, episodici ed evanescenti35. Sotto questo profilo l’obiettivo principale del progetto è consistito nel far percepire ai giovani la presenza degli anziani e la loro ricchezza come fonte di storia orale, di esperienza di vita e di cultura, il loro essere testimoni di un passato che, sebbene non ancora remoto, appare già molto distante dal loro mondo, in maniera che fosse possibile e plausibile riallacciare le fila del discorso interrotto, restituendo contemporaneità a vite non ancora concluse. Un intento pienamente realizzato se si considera il vivace entusiasmo manifestato sin dall’inizio dagli studenti, coinvolti dalle caratteristiche innovative proprie del progetto in vista dell’esigenza di favorire il dialogo intergenerazionale. Naturalmente il ruolo rivestito dai docenti dei diversi istituti scolastici di Crema e del territorio è stato di grande importanza e in molti casi strategico nell’indirizzare il dialogo intergenerazionale e gli incontri in un modo anziché in un altro, nell’individuare le migliori performances funzionali alla realizzazione del progetto, grazie anche alle diverse competenze professionali e didattiche di ciascuno di loro. Insegnando psicologia presso l’Istituto Sraffa, sono abituata a trattare il tema della terza età con i miei studenti del corso socio-sanitario, perciò ho partecipato al Progetto sin dal primo anno, con l’entusiasmo di poter collaborare con altri colleghi ed operatori. Insieme infatti abbiamo sviluppato ed animato la realizzazione di un percorso di conoscenza e scoperta reciproca36. Ciò ha comportato anche l’utilizzo di tecnologie e forme di comunicazione avanzate, trasferendo saperi ed esperienze di vita di un 35 M. Halbwachs, “La memoria collettiva”, Milano 1987. 36 M. Sacchelli, “Contributo personale”, nota scritta.

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tempo ormai trascorso in un contesto tecnologico di grande attualità, ottenendo in tal modo una complessa visione diacronica dello spirito progettuale. In particolare, io ho assunto il coordinamento organizzativo per le prime due annualità ed ho impegnato le mie studentesse nella preparazione di una presentazione in Power Point sul mondo dell’anziano e sulle tecniche di intervista allo scopo di incontrare gli studenti delle altre scuole. Questa attività è stata preparata con lo scopo di avvicinare e preparare gli altri studenti ad incontrare gli anziani nelle R.S.A., visto che le mie studentesse avevano già svolto il tirocinio in diverse strutture del territorio. Per me è stata anche un’occasione per affrontare argomenti inseriti nel piano di studi utilizzando una metodologia attiva e coinvolgente. Inoltre, i ragazzi hanno impresso sui cartelloni i loro pensieri, le aspettative e le titubanze sul rapporto con l’anziano ed hanno avuto l’opportunità di conoscersi, visto che avrebbero poi condiviso un’esperienza comune37. La dinamica delle intersezioni intersoggettive e culturali ha determinato uno scenario all’interno del quale i giovani studenti hanno potuto agevolmente inserirsi con l’apporto delle proprie personalità, propensioni ed espressioni. Gli studenti, durante la conduzione delle interviste, hanno mostrato di sapersi muovere con ottima scioltezza, adeguandosi all’imprevedibilità di alcune situazioni. Dopo le titubanze iniziali, hanno mostrato, nelle varie fasi di realizzazione del progetto, interesse verso un modo alternativo e profondamente umano di fare storia e cultura, un coinvolgimento attivo e notevoli capacità di relazione38.

37 M. Sacchelli, “Contributo personale”, cit. 38 M. T. Mascheroni, D. Dodesini, “Relazione”, cit.

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Nelle fasi centrali dello sviluppo progettuale gli studenti hanno predisposto e realizzato una serie di interviste agli anziani, sperimentando così un sistema pratico per indagare le singole storie personali, partendo dalla fonte primaria, e venendo così in contatto con la dimensione ambientale e soggettiva degli intervistati i quali dal canto loro hanno reso una testimonianza ricca di sfaccettature, di curiosità e di notizie inedite, permettendo di costruire vere e proprie microstorie di notevole significato antropologico. A prescindere dalle indicazioni tematiche stabilite per ogni annualità, si è sempre posta la priorità data al racconto delle diverse storie di vita e all’importanza dello scambio intergenerazionale39. L’estrema variabilità degli scenari, le diverse occasioni di incontro e confronto hanno costituito anche per gli organizzatori, gli insegnanti, gli operatori delle RSA, per tutti gli adulti che hanno partecipato al progetto in questi anni “una lezione di sorpresa e umiltà” per il fatto che questa apparentemente difficile prova di incontro tra generazioni tanto lontane sia culturalmente che mentalmente ha, al contrario, “svelato un bisogno tanto inespresso quanto profondo nei giovani, forse non meno soli degli anziani, nonostante una tecnologia che promette loro orizzonti di comunicazione infiniti, e almeno altrettanto, se non più, bisognosi di dialogo e di confronto”, di conoscenza diretta e immediata, oltre che di comunicazione diacronica intersoggettiva40. L’incontro tra gli studenti e gli anziani: ha permesso di mettere in comunicazione due mondi, forse più opposti in teoria che nella realtà, ha permesso di costruire, affinare una componente importantissima in ogni rapporto umano: la relazione. Essa è centrale in ogni sano e costruttivo rapporto educativo, aiuta ad uscire da se stessi, a percepire e a valorizzare gli altri per mettersi in sintonia con loro in un tessuto la cui qua39 M. Sacchelli, “Relazione”, cit. 40 C. Maccalli, “Relazione”, cit.

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lità segna il tono ed il passo di una società attenta e rispettosa di ogni suo componente ed autenticamente inclusiva. La relazione con l’anziano, in particolare, ha aiutato i ragazzi a misurarsi con una stagione della vita dai colori, sapori e sentimenti molto diversi, a misurarsi con la sofferenza, la perdita di alcune abilità, a ipotizzare spazi, tempi e soluzioni consone a questa stagione della vita, che, se così si può dire, tutti attende. La capacità di interagire con gli altri, in particolare con gli anziani, custodi e depositari di memoria e cultura è da considerarsi importante in ogni percorso formativo, qualsiasi sia il suo indirizzo e sbocco lavorativo. La valorizzazione dell’esperienza e della saggezza di chi ci precede sono l’ancoraggio più solido e fertile per il nostro futuro, a partire dalla valorizzazione delle figure parentali41. Anche nei riguardi delle fasce d’età minori, quelle riguardanti gli alunni delle scuole elementari il confronto con gli anziani ha prodotto risultati di grande interesse, come testimoniano gli insegnanti della Scuola Primaria di Trigolo quando affermano che il progetto ha avuto una buona riuscita, originando nei bambini una partecipazione consapevole e ricca di spunti di riflessione relativamente alla tematica sociale degli anziani nella società contemporanea. L’esperienza è stata di grande impatto educativo e formativo, come si evince dalla lettura dei testi argomentativi nei quali i bambini hanno espresso pareri e giudizi positivi riguardo al progetto42. Il timore di un eccessivo scarto di età tra i bambini delle elementari rispetto agli anziani, dell’ingenerarsi di una imbarazzante soggezione nei piccoli alunni al confronto di storie troppo grandi per loro è svanito al confronto con la realtà che ha mostrato una notevole 41 D. Dodesini, M. T. Mascheroni, “Comunicazione scritta”, Liceo Scientifico “L. da Vinci”, Crema 2013. 42 M. Vacchetti, M. T. Manfredini, “Valutazione finale del progetto”, Trigolo 2013.

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spontaneità di rapporti e di intenti, come dichiarato dalle insegnanti delle classi V B e D dell’istituto Comprensivo Statale “P. Sentati” di Castelleone. La condivisione di valori ci ha portato a rivalutare le preziosa opportunità di mettere a confronto due generazioni per rendere l’una protagonista, e non solo trasmettitrice di cultura, e l’altra in atteggiamento di ascolto consapevole. È infatti attraverso la pratica del rispetto e degli atteggiamenti di cooperazione e solidarietà che si possono perseguire obiettivi sociali che aiutano il bambino a dare un senso a ciò che vive nel quotidiano43. Una convinzione che ha radici ben più profonde di quanto non si potesse immaginare, visto che il progetto “Raccontare per vivere” ha risvegliato interessi e convincimenti di ampio respiro e di positive, future conseguenze culturali. L’adesione al progetto, che ha visto attori i bambini e gli anziani ospiti della Fondazione «G. Brunenghi» di Castelleone, ha anche rafforzato la convinzione che il passato è ancora presente e va conservato nel cuore. Ha inoltre generato energia ed entusiasmo in entrambi, doni rari che rendono capaci di non dimenticare44.

43 Giusi ed Elisa, insegnanti delle classi V, B e D, dell’Istituto Comprensivo Statale “P. Sentati”, “Le insegnanti raccontano…”, Castelleone 2013. 44 Ibid.

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II. Il costruttivo ruolo degli studenti

Come già accennato, la funzione degli studenti si è rivelata essenziale, costituendo un duttile strumento di indagine vivace e sempre innovativo, variabile a seconda delle situazioni, frutto di improvvise invenzioni analitiche, di spunti di sorridente familiarità che hanno conferito alla quadriennale vicenda un carattere di omogeneità espressiva, di coerenza narrativa nella quale anche i momenti di profonda emozione rivelavano la serenità di sguardi rivolti al futuro. Sin dai primi momenti di attività gli studenti hanno dimostrato di prendere le cose molto sul serio e con grande entusiasmo. Le studentesse dello “Sraffa” sono state incaricate di predisporre sintetiche schede di presentazione delle principali tematiche riguardanti gli anziani, non meno che le metodologie e le tecniche di conduzione delle interviste da illustrare alle classi degli altri istituti, allo scopo di informare e formare gli studenti che sarebbero stati incaricati di svolgere l’azione sul posto. Dal canto loro gli studenti del Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Crema hanno svolto una serie di incontri preparatori e di approfondimento con alcuni esperti, incentrati sugli aspetti socio-psicologici della condizione anziana. In una fase successiva hanno incontrato gli anziani delle RSA coinvolte nel progetto, per un primo approccio informale che ha permesso di mettere in comunicazione due mondi all’apparenza lontani teoricamente ma nei fatti molto vicini. Infatti, i giovani hanno dimostrato una notevole

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capacità di interazione con gli anziani, manifestando entusiasmo e interesse ad approfondire la conoscenza della struttura istituzionale di accoglienza e del personale che vi opera. Le classi che hanno aderito nel corso dei tre anni hanno espresso inizialmente diversi timori alla proposta di partecipare al progetto del Centro Ricerca Galmozzi, pensando di “non essere capaci”,di “essere troppo piccoli”,di “non saper cosa dire”,ed erano un po’ timorosi dalla prospettiva di venire ripresi nei filmati e di essere poi visti da tante altre persone45. Successivamente, nello svolgersi dell’azione pratica, ogni timore si è dissolto per lasciare posto ad un grande entusiasmo e interesse per gli incontri che hanno registrato un’atmosfera di grande armonia “nel rispetto reciproco, in un clima di accettazione e simpatia vicendevoli”, dando tutti prova di notevoli capacità di attenzione, discrezione e comprensione. Non si trattava solo di casi singoli, di fatti particolari, si è trattato di un’azione corale che ha avuto sempre gli stessi sviluppi generali. Il grado di interesse, motivazione e coinvolgimento attivato da parte di tutti i protagonisti dell’azione progettuale è stato sempre molto elevato, consentendo di migliorare nel tempo gli aspetti tecnici e metodologici ma anche di far emergere con sempre maggiore chiarezza l’entusiasmo nello stabilire relazioni significative nei vari momenti di incontro. L’incontro tra studenti e anziani ospiti delle diverse strutture istituzionali del territorio si è sempre rivelato emozionante, commovente, ma anche divertente. L’incontro e la conoscenza con le persone ospiti delle RSA hanno costituito un’occasione per riflettere in classe sulle problematiche della relazione e dell’accoglienza, arricchendo ulteriormente l’e45 M. T. Ruggieri, “Relazione”, Liceo Scientifico Tecnologico “Galileo Galilei”, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012.

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sperienza dei ragazzi. È stato proprio il confronto intersoggettivo tra studenti e anziani il momento più apprezzato dai giovani che, in alcuni casi, sono tornati individualmente a trovare le persone conosciute nel corso delle attività progettuali46. Anche gli studenti della Scuola Casearia di Pandino hanno risposto con consapevole entusiasmo e meditata capacità critica che ha fatto sì che tutti, alla fine, considerassero imprescindibile la lezione della vecchiaia, definita a più riprese “un libretto di istruzioni per la vita”, o “l’arma della saggezza”, e “le nostre radici”, cogliendo in quest’ultimo caso il senso antropologicamente più intimo del progetto. Tutti hanno espresso la speranza di poter invecchiare in una società che non si limiti a tollerare e gestire gli anziani, ma che restituisca loro il ruolo centrale che hanno conservato in culture generalmente considerate più arretrate della nostra47. Come si è accennato nelle prime pagine, per realizzare una società in grado di restituire un ruolo attivo all’anziano, è prima di tutto necessario affermare nella mentalità collettiva il principio che “la pedagogia dell’anziano inizia nei primi anni di vita”, evitando di ricorrere a quegli approcci di tollerante benevolenza che conformano “tanta parte degli atteggiamenti comuni, debilitando l’iniziativa, l’attivismo, favorendo il diffondersi della dipendenza e della passività”, e provvedendo allo stesso tempo a diffondere l’opinione collettiva che l’intera comunità delle persone debba affrontare il problema dal punto di vista di futuri anziani, o meglio di apprendisti anziani48. 46 A. Bianchessi, G. Bonizzoni, “Relazione”, Istituto Tecnologico e Commerciale “Luca Pacioli”, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012. 47 C. Maccalli, “Relazione”, IPAA Scuola Casearia, Pandino, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012. 48 G. Cattanei, “Priorità della dimensione personalistica”, in: AA.VV. “Anziani e

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Particolarmente indicativo è stato dunque l’apporto fornito dai bambini delle tre quinte della Scuola Elementare “Stentati” di Castelleone, che hanno partecipato al progetto in collaborazione con gli anziani della Fondazione Giuseppina Brunenghi Onlus e degli alunni della Scuola Primaria di Trigolo che hanno interagito con la locale Casa di Riposo. Gli incontri tra i piccoli alle prese con le prime esperienze didattiche, impegnati nella scoperta della vita e gli anziani che delle vicende storiche trascorse sono depositari sapienti e consapevoli, hanno dato notevoli risultati documentativi, evidenziati dai commenti degli scolaretti i quali hanno puntualizzato aspetti e particolari minuti e immediati, dai quali è emersa la considerazione generale che questi incontri si sono basati sul rispetto reciproco, sulla capacità di ascolto e sulla generale pazienza. A tale proposito va sottolineato il rilevante apporto costituito dalla partecipazione di un considerevole numero di anziani, ospiti delle RSA di Crema e del territorio. A Crema una trentina di ospiti della RSA della Fondazione Benefattori Cremaschi hanno incontrato a più riprese un centinaio di studenti di diversi istituti scolastici cittadini dando vita ad un’esperienza di dialogo e scambio culturale tra generazioni appartenenti a modelli di vita e pratiche esistenziali estremamente distanti tra loro, originando nuovi sentimenti di fiducia e stima reciproche ed alimentando lo spirito relazionale ed affettivo. Anziani e giovani, dialogando a tu per tu, hanno scoperto un nuovo modo di comunicare e ritrovato il senso di una vicinanza carica di emotività in un clima molto vitale che ha favorito la soddisfazione delle reciproche curiosità e la crescita di una nuova coscienza civile. In ogni edizione del progetto le classi hanno partecipato a due momenti: il primo di conoscenza e scambio di informazioni, il secondo or-

società”, Atti del 14° convegno su “Riconciliazione tra anziani e società”, cit. pg. 96.

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ganizzato attraverso le interviste condotte dai giovani49. L’Italia è un paese di vecchi ma non per vecchi L’icastica affermazione di uno studente della Scuola Casearia di Pandino evidenzia con incisività un aspetto di radicale importanza politica e sociale, immediatamente verificabile a livello empirico sia perché “la stessa struttura sociale costringe gli individui ad agire in maniera difforme alle aspettative”50, sia perché l’anziano viene considerato in stato anomico, come soggetto per il quale la società manca di definire fini individuali, considerandolo incapace di adattarsi ad attività che implicano un forte ruolo sociale ed un intenso impegno di vita. Tutte interpretazioni che vanno fatte risalire ai processi evolutivi in atto nel corso degli ultimi vent’anni che hanno prodotto una vera e propria svolta antropologica, mettendo d’un tratto fuori gioco culture, filosofie, consuetudini sociali, economie e ideologie. La frattura che si è prodotta ha creato alcune “zolle socio antropologiche” che si muovono seguendo una deriva di allontanamento le une dalle altre, e determinando stati epidemici di alienazione51. Una condizione sociale che può essere riassunta nell’impossibilità di dire, come un tempo, “sono stato giovane come te”. Oggi il “non essere mai stato giovane come te” costituisce un difficilmente valicabile confine intergenerazionale. Difficilmente, si badi, non impossibilmente e il progetto “Raccontare per vivere” sta a dimostrare proprio questo: che è possibile realizzare l’incontro tra differenti modi di essere giovane, tra stili e forme di vita molto distanti tra loro ma mai inconciliabili, anzi reciprocamente supportabili. Allora si rende possibile affermare “sono stato giovane in questo modo” così da definire la premessa storica 49 G.P. Foina, C. Brambini, “Relazione”, Fondazione Benefattori Cremaschi Onlus, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012. 50 R. K. Merton, “Teoria e struttura sociale”, Bologna 1971. 51 Un riassunto complessivo di questa tematica si trova in D. Gatteschi, “Servizi socio-sanitari e difesa degli anziani”, Firenze 1980.

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che chiarisce e legittima il diverso modo di essere giovani in un mondo che è oggettivante mutato rispetto a quello di ieri. D’altro canto nel corso dei quattro anni di attività progettuale si è potuto rilevare con sufficiente chiarezza l’apprezzamento e il meditato interesse manifestato dagli studenti che hanno ribadito a più riprese, anche nelle manifestazioni pubbliche organizzate a chiusura delle singole annualità, la volontà di approfondire i vari aspetti sociali e culturali via via evidenziati durante gli incontri, oltre al fatto che avevano maturato nuove convinzioni in merito. Nelle riflessioni svolte dagli studenti è emerso che, dal loro punto di vista, si è trattato di momenti di educazione sociale, civica, di sensibilizzazione a proposito di un problema che riguarda tutti, mentre per alcuni è stata anche un’opportunità di valorizzare competenze culturali e abilità tecniche che in altro modo sarebbero rimaste a loro sconosciute. Parallelamente, l’incontro e il dialogo con gli studenti ha restituito agli anziani la possibilità di interagire attivamente con il mondo di oggi, superando l’isolamento creato dalla marginalizzazione sociale e dalla tendenza, sempre crescente, a collocarli in specifiche strutture di assistenza geriatrica. Come ha sottolineato uno studente del Liceo Scientifico “L. da Vinci” di Crema, nel corso del Convegno svoltosi nella mattina del 10 settembre 2012, quello che a prima vista appariva come un progetto teso a produrre un incontro intergenerazionale nel corso del quale gli anziani avrebbero dovuto rappresentare la fonte viva di memoria collettiva, di storia orale Per me, e per la maggior parte dei miei compagni, è stato molto di più: un’occasione di riscoprire noi stessi, le nostre capacità e i nostri limiti nella relazione con persone diverse, talvolta tristi, rassegnate, talvolta desiderose di farci assaggiare la spremuta della loro vita, a volte in lotta con un ricordo da catturare a fatica e con lucidità, altre volte in lotta con le parole giuste per riuscire ad esprimerlo. Sinceramente, più che ascoltare la sostanza di quanto mi hanno raccontato ho sperimentato la distanza, l’opposizione dei nostri universi, dei nostri tempi e la bellezza di comunicare 90


comunque. Mi ha colpito trovarmi con persone in un certo senso marginalizzate, che quando entravano in relazione con noi, sembravano ritrovare la loro identità ed un ruolo attivo. In questo affascinante mix di esperienze, di linguaggi ho colto l’urgenza di sfruttare ogni minima occasione per costruire relazioni positive con gli anziani, perché quando si invecchia, forse, la cosa più terribile non sono le rughe o le malattie, ma la solitudine e il non essere ascoltati. Allora l’espressione raccontare per vivere potrebbe essere capovolta in vivere per raccontare, perché il racconto diventa la dimensione più autentica degli anziani, ciò che restituisce loro il valore e il peso di tutta una vita, diventa il ponte prezioso tra generazioni solo in apparenza lontane. Ho capito che una società può essere serena ed equilibrata se è in grado di valorizzare ogni età. Come è stato giustamente affermato, il progetto “Raccontare per vivere”, nato con l’intento di valorizzare gli anziani come fonti di microstoria, restituendo loro un ruolo di legame intergenerazionale, si è rivelato soprattutto un’occasione per sollecitare i giovani a prendere coscienza delle diverse fasi della loro vita e di situazioni esistenziali dalle quali vengono spesso tenuti distanti. Inoltre il progetto ha anche rappresentato, per alcuni di essi, l’opportunità di indagare gli orizzonti professionali del mondo del servizio civile e volontario52. A ulteriore conferma di quanto detto sinora risultano particolarmente interessanti i contributi forniti da altri studenti del Liceo Scientifico “L. da Vinci” che in questo modo hanno voluto testimoniare la validità dell’esperienza vissuta partecipando al progetto, attraverso alcune considerazioni, vive espressioni della realtà e della cultura attuali Due studentesse che si firmano Greta e Laura osservano che gli anziani nella nostra società sono tenuti ai margini. Resi invisibili. Il progetto “Raccontare per vivere” ci ha consentito quel 52 M. T. Mascheroni, D. Dodesini, “Relazione”, cit.

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confronto generazionale che spesso manca nelle famiglie; noi giovani sembriamo troppo spesso quelli che tutto chiedono e niente danno, sembriamo pretendere le cose come se tutto fosse dovuto e, a volte, non riusciamo ad essere grati di ciò che abbiamo. Un po’ intimiditi da quel mondo che sembrava così lontano, siamo stati accolti dai loro sorrisi e colpiti dalla loro spontaneità. L’imbarazzo ha così lasciato il posto alla curiosità. Ci ha colpito molto l’incredibile ventaglio di ricordi di cui dispongono, le tante sofferenze, la guerra e anche le infinite gioie, come un libro aperto davanti a noi, da ascoltare e scoprire. Collaboriamo allora per migliorarci e contribuire a migliorare la loro condizione, per strapparli alla solitudine e alla invisibilità. Ridiamo loro l’attenzione che meritano. Dal canto suo Michela dichiara di aver sempre desiderato fare un’esperienza del genere e, per fortuna, ora ho potuto cogliere questa occasione. Ovviamente cercavo di immaginarmi come sarebbe stato; ero incuriosita e impaurita al tempo stesso. Non sapevo cosa aspettarmi, cosa avrei dovuto fare, né come mi sarei dovuta comportare. Durante il primo incontro ho iniziato a conoscere gli anziani e sono stata subito coinvolta. Stando con loro ci si accorge delle piccole cose di cui hanno, e abbiamo, bisogno per essere felici: una persona disposta ad ascoltarli o, anche semplicemente, di qualcuno con cui giocare a carte. Ad alcuni piace parlare ed essere ascoltati, si perdono nei loro ricordi dai più tristi ai più gioiosi. Mentre parli con un anziano, ne vedi altri intorno a te che sono soli e allora vorresti che ci fossero più copie di te per far loro compagnia. Ad altri non piace parlare ma si accontentano di un sorriso e di una presenza. Infine Lorenzo considera che il pomeriggio trascorso insieme agli anziani è stato diverso da altri, molto bello e significativo. Io ho intervistato un signore che 92


all’inizio era un po’ timido, poi ha iniziato a parlare e non la finiva più; la parte più divertente dell’intervista è stata quando mi ha raccontato come conosceva le ragazze. La cosa più importante di quel pomeriggio è che noi, con la nostra presenza, abbiamo portato un’aria di novità e sorpresa in quella struttura, facendo divertire parecchio gli anziani e al contempo noi stessi. Non smetterebbero mai di parlare Tutti gli studenti partecipanti hanno generalmente dimostrato una profonda consapevolezza riguardo all’importanza del dialogo intersoggettivo e della socializzazione, esprimendo la convinzione che il rapporto umano diretto sia in grado di superare qualsiasi barriera comunicativa ed emozionale. Le testimonianze sopra riportate definiscono chiaramente l’immagine che il progetto “Raccontare per vivere” ha comunicato alla mente dei ragazzi che vi hanno partecipato. Secondo le loro stesse parole, si è trattato di un’esperienza che ha permesso di accostarsi, per chi magari non ha i nonni, alla quotidianità di altri tempi, molto diversa dal presente, ma insieme si è capito che certe cose non cambiano mai, neanche dopo molto tempo, mentre altre sono cambiate radicalmente e risultano difficili da capire per chi è giovane oggi. Sintetizzando impressioni e testimonianza espresse dai giovani partecipanti al progetto, si ricava l’idea che gli anziani, malgrado la loro condizione, vivano la vita con serenità, trasmettendo vitalità e sicurezza ai giovani che si recano ad intervistarli, manifestando soddisfazione per il fatto di incontrarli, di essere loro utili. Non smetterebbero mai di parlare, tante sono le cose che sanno e le situazioni che hanno vissuto. Non si direbbe a vederli così fragili. I loro consigli spontanei e sinceri, aiutano a guardare il lato positivo di ogni cosa, fanno desiderare di seguirli. Anche quando la loro vita è stata difficile sono stati forti e capaci di affrontarla senza farsi scoraggiare, senza fare le vittime, ma sempre dandosi 93


da fare per gli altri: la famiglia, il lavoro e adesso, se possono, i nipoti e chi come noi desidera incontrarli. Più immediate e dirette le impressioni riferite dagli alunni delle scuole elementari di Castelleone e Trigolo. Le case di riposo vengono interpretare come luoghi dove le persone stanche per tanti anni di lavoro e impegni possono riposarsi. Perché gli anziani sono persone sagge, proprio per il fatto che essendo vissute più a lungo e avendo vissuto molteplici difficoltà hanno maturato un patrimonio di esperienze. Si tratta di persone che desiderano narrare le loro storie, e le loro vite vissute ai bambini, come estremo lascito sapienziale tra generazioni peraltro culturalmente lontane. Lo sguardo di sereno incantamento dei bambini che indagano il mondo coglie aspetti sottili, a volte minimali, ma sempre di grande interesse nell’incontro con persone anziane. Si avvertono voglie di sognare, acute immaginazioni che, unitamente a improvvise forme di pigrizia, sembrano annullare le distanze anagrafiche. Io ascoltavo e lui parlava L’intesa creatasi quel mercoledì di febbraio 2013, con l’incontro di mondi tanto distanti per contenuti culturali e mentali ma allo stesso tempo rivelatisi così vicini da poter dare vita ad un intenso scambio di idee, notizie, impressioni, gusti ed emozioni, ha svelato ai piccoli visitatori della Casa di Riposo “G. Brunenghi” di Castelleone panorami antropologici inediti, paesaggi mentali sino ad allora sconosciuti, nuovi territori da esplorare per conoscere il mondo, suscitando forti reazioni emotive e immaginative, espresse con sorprendente chiarezza e incisività nei temi realizzati successivamente. Io ascoltavo e lui parlava. Ogni tanto un sorriso, una lacrima, è stato bello. Le emozioni che ho provato sono molte e importanti. Mi sono seduta vicino a due «nonni»: il primo non voleva fare 94


niente, ed il secondo non parlava, non aveva neanche fiatato! Poi ho visto che mi stava sorridendo e ho capito che comunque mi stava parlando, ma non con le parole, solo con lo sguardo. Devo dire che quando i «nonni» mi guardavano io capivo che avevano bisogno di affetto e mi parlavano solo con lo sguardo! La prosa essenziale e scarna della giovane commentatrice mira dritta al nocciolo della questione indicando l’elevato livello di comunicatività intersoggettiva, non necessariamente espressa in linguaggio esplicito. Dal canto suo l’alunna della Scuola Primaria di Trigolo, al termine delle visite alla Casa di riposo del paese ha osservato che gli incontri e gli scambi di idee con gli anziani le sono serviti per riuscire a capire fino in fondo gli anziani,ed apprezzarli di più perché sono molto importanti, soprattutto per la società perché sono come una biblioteca aperta per tutto, per spiegarti in passato. Sembravamo una grande e vera famiglia L’osservazione di un’alunna di quinta elementare dell’Istituto “P. Sentati” di Castelleone riflette il clima di emozione e di sincera condivisione di sensazioni e intenti che ha caratterizzato gli incontri tra anziani e bambini alle prime armi con la vita scolastica. La pertinenza delle loro osservazioni, gli spontanei e sovente allegri commenti rilasciati a seguito degli incontri, le impressioni scritte nei loro temi indicano con sufficiente immediatezza la serietà e l’impegno rivolti alla partecipazione agli incontri del progetto “Raccontare per vivere”. Per prima cosa ho chiesto se dovevamo dare del lei o del tu, e loro mi hanno risposto che dovevamo dare del tu per non farli sentire vecchi. 95


La prima volta che siamo andati ero molto teso, speravo che fossero i «nonni» ad iniziare il discorso, invece così non è stato. Ma l’esitazione dell’approccio iniziale lascia subito spazio ad una disinvolta e tranquilla relazionalità che coinvolge bambini e anziani in un reciproco processo maieutico. Io ero tanto emozionato perché avevo un po’ di imbarazzo a fare le domande. Quando siamo arrivati ho fatto una domanda e non avevo più vergogna. Questo progetto mi è piaciuto davvero tantissimo perché siamo stati insieme ai «nonni». E loro hanno risposto a tutte le nostre domande. Da quel giorno ho capito che anche se non si è sorelle o cugine, si può essere una famiglia. Ho capito che siamo fortunati perché la vita a quei tempi era molto difficile. Per me è stato davvero fantastico perché finalmente ho capito come vivevano le persone durante la guerra mondiale. Ci siamo divertiti giocando con il tempo L’indicazione degli alunni della Scuola Primaria di Trigolo interpreta efficacemente uno dei caratteri originari del progetto “Raccontare per vivere” La percezione diacronica del fluire del tempo, la scansione periodica del volgere della storia caratterizza costantemente il processo di trasmissione di memorie, facendo emergere con chiarezza la tendenza a narrare il momento e fissare l’istante del fatto scolpito nella memoria degli anziani. 96


Ci siamo divertiti giocando con il tempo, trovando le differenze tra i nostri tempi e i loro, e sono molte. Mi ha colpito molto il modo di raccontare degli anziani, erano come sommersi dai loro ricordi. Dovevamo decorare dei sassi e fare un disegno Lo scenario era costituito dall’incontro di pittura, organizzato nel contesto delle azioni previste dal progetto “Raccontare per vivere”, tra i bambini della quinta elementare dell’Istituto Comprensivo Statale “P. Sentati” e gli anziani della Fondazione “G. Brunenghi” di Castelleone che per l’occasione erano chiamati “nonni” al fine di creare un’atmosfera di diffusa di condivisione mentale e di affiatamento umano. Come ha osservato un’alunna: “è stato superbello sporcarsi il viso, le mani e i vestiti di pittura!”. La partecipazione comune di bambini e anziani all’azione artistica ha creato le condizioni ideali per sviluppare rapporti collettivi di collaborazione intergenerazionale, suscitare emozioni, dare vita all’entusiasmo creativo che ha suggerito osservazioni di notevole profondità psicologica e significato etico. È stata una giornata interessante ed eccezionale e i «nonni» mi hanno insegnato che le piccole cose sono le più grandi che ti restano nel cuore. Per fare le sfumature usavamo le spugne e le scatole d’alluminio delle pastiglie, è stato divertente. Il secondo incontro è stato quando siamo andati per pitturare insieme ai «nonni». Quando siamo arrivati ci siamo seduti, poi al mio gruppo hanno portato il foglio (uno per ogni bambino) e delle tempere. Dovevamo decorare dei sassi e fare un disegno. Ero tutta sporca: in faccia, sulle mani e anche sulla maglietta. Allora sono andata in bagno a lavarmi le mani e tutto il resto”. 97


In sintesi gli anziani vengono visti come persone coraggiose che hanno saputo superare momenti difficili e pericolosi come i tempi di guerra, la diffusa povertà ma che manifestano sempre uno spirito di ospitalità, generosità e voglia di stare in compagnia. Inoltre è stato possibile verificare l’involontaria aderenza ad una serie di stereotipi comuni relativi all’immagine dell’anziano, (ha le rughe, ha la dentiera, ha pochi capelli, la sua vista è debole come anche il suo udito, e via dicendo), che si affranca quando un bambino osserva che l’anziano “quando è solo è senza sorriso”. L’acuta osservazione riconduce all’inconsistenza del concetto di anziano giacché nel mondo attuale il sorriso manca ad un numero infinito di bambini e adulti di ogni età, così come sono altrettanto comuni la debolezza di vista e udito e la calvizie. Così il cerchio si chiude. Uno dei principali meriti del progetto “Raccontare per vivere” consiste proprio nel provocare le evidenze di un mondo generalmente alienato, oltre ogni età, ma al tempo stesso indicare le vie più semplici e naturali per superare ogni impasse sociale e culturale, riportando le persone, di ogni genere ed età al dialogo, alla comunicazione diretta, alla reciproca conoscenza e rispetto.

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III. Un approccio laterale

Siamo entrati a tasche vuote, nei luoghi della vecchiaia; ne siamo usciti a tasche piene53. Se studenti e anziani sono i protagonisti di questa vicenda quadriennale, non minore importanza rivestono i partecipanti altri, i deuteragonisti del progetto, insegnanti, animatori sociali, dirigenti delle RSA, e anche operatori, coordinatori, tecnici del Centro Ricerca Galmozzi che hanno fornito il supporto tecnico e scientifico durante le varie fasi dello sviluppo progettuale. Le loro impressioni, considerazioni critiche fornite durante i quattro anni di lavoro costituiscono una sorta di back stage, di retroscena in presa diretta che documenta la nascita e la realizzazione delle differenti azioni sceniche. Come è stato sinteticamente riassunto, a noi adulti, organizzatori e partecipanti, cosa resta? Restano, su tutto, la sorpresa e la lezione di umiltà di questo incontro, sugli esiti del quale dobbiamo per onestà ammettere che qualche timore in fase iniziale lo abbiamo avuto tutti. Un incontro che nel tentativo di far dialogare generazioni anagraficamente ed esistenzialmente così lontane ha svelato un bisogno tanto inespresso quanto profondo nei giovani, forse non meno soli degli anziani, 53 C. Maccalli, “Considerazioni personali sul progetto Raccontare per vivere”, contributo scritto.

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nonostante una tecnologia che promette loro orizzonti di comunicazione infiniti, e almeno altrettanto, bisognosi di dialogo e di conforto. Resta l’urgenza di rimettere in discussione luoghi comuni e certezze di comodo sulla presunta incomunicabilità tra gli anziani e queste nuove leve, spesso giudicate troppo severamente, almeno finché non ci sorprendono e non ci appaiono una bella gioventù54. Brani di testimonianze rese dagli insegnanti degli istituti scolastici interessati al progetto sono stati già riportati nelle pagine precedenti, ma appare utile approfondire questo aspetto testimoniale dello svolgersi dei fatti attraverso i contributi articolati e specifici di alcuni partecipanti, in modo che nessun particolare, nessun risvolto della vicenda collettiva vada perduto. A tale proposito è bene tener conto del fatto che questo progetto si è rivolto non agli anziani in generale ma ad un particolare tipo di anziani “istituzionalizzati” e cioè quelli accolti in case di riposo e strutture assistenziali, che presentano particolari e specifici aspetti tanto sul piano culturale e sociologico come su quello assistenziale, psicologico e geriatrico. Ciò appare particolarmente interessante sotto il profilo della complessa azione di integrazione tra mondi sufficientemente lontani tra loro, ma soprattutto appare utile se interpretato in una visione prospettica, finalizzata al superamento della concezione geriatrica tradizionale per contribuire alla creazione di una società di persone che vivano una vita priva di scansioni cronologiche precostituite. Un esempio concreto di tale impostazione teorica è fornito dalle azioni sviluppate in questa direzione dalla Fondazione Benefattori Cremaschi, come illustrato dalle parole di Cecilia Brambini. Da anni gli anziani della RSA di via Zurla incontrano gruppi di giovani allievi delle scuole superiori cremasche grazie a progetti 54 C. Maccalli, “Relazione”, IPAA Scuola Casearia, Pandino, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», cit.

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speciali che hanno come obiettivo quello di far crescere la solidarietà tra le generazioni abbattendo i pregiudizi e la diffidenza che spesso tiene lontane le persone più giovani. La RSA viene spesso considerata come un luogo triste dove non c’è vitalità e dove gli anziani vengono “parcheggiati” a causa di malattie che li pongono ai margini della società attiva e produttiva. La trama intergenerazionale prende di volta in volta forma, attraverso l’incontro, il racconto e lo scambio delle storie di vita dei vecchi e la realtà dei giovani d’oggi. Il progetto “Raccontare per vivere”, nelle quattro edizioni realizzate, rientra a pieno titolo nell’area progettuale socio educativa della Fondazione Benefattori Cremaschi, che prevede un ampio coinvolgimento delle scuole del territorio cittadino in progetti di solidarietà sociale55. Non è un caso, a tale proposito, che il presupposto concettuale del progetto abbia fatto sì che tra giovani studenti e anziani ospiti delle RSA si sia stabilito un rapporto di reciproca comunicazione in tempi relativamente brevi, superando così le difficoltà sovente emerse nel caso di anziani, posti di fronte a situazioni insolite e nuove, che hanno fornito performance difettose56. È inoltre opportuno sottolineare che il carattere originario del progetto ha permesso di creare uno spirito di collaborazione intersoggettiva che ha annullato ogni differenza anagrafica, determinando un entusiasmo di ricerca, di comprensione reciproca, una circolazione di spunti emotivi che hanno dato luogo ad una vivace narrazione di vita, tra immaginazione e realtà, tra uno ieri sovente difficile e drammatico e un oggi precario e incerto, durata quattro anni. In tale contesto assume significativo interesse la testimonianza di Stefania Assandri e Paolo Novelli del Servizio Animazione della Fondazione Casa di Riposo Ospedale dei Poveri di Pandino. In un loro breve scritto, i due animatori sociali rilevano la sostanziale im55 C. Brambini, “Lo stupore dell’incontro”, cit. 56 Si veda per questo aspetto: V. Lumia, “Elementi di assistenza geriatrica”, Firenze 1982, pp. 33 segg.

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portanza della funzione da essi svolta con particolare riferimento alla cura dell’aspetto relazionale e “dell’anamnesi umana” dei nostri ospiti, cosa che ci pone su di un piano decisamente privilegiato rispetto a qualsiasi altra figura professionale nel registrare le storie di vita delle persone che abbiamo occasione di conoscere. Precisando inoltre che per noi è stato facile individuare quei soggetti che avevano qualcosa da dire, e aggiungeremmo che erano in grado di dire, e il progetto proposto dal Centro Galmozzi ha costituito il tanto agognato palcoscenico che sempre abbiamo cercato allo scopo di valorizzare tutte quelle storie di vita che meritavano di essere ascoltate. O meglio, tutte le storie di vita meritano un adeguato ascolto, ma ce ne sono alcune che possono arricchire il bagaglio di conoscenze teoriche alle quali soprattutto i più giovani sono vivamente interessati. Poi lo sviluppo del progetto ha dimostrato la varietà di valenze tematiche e di intrecci intersoggettivi, voci resuscitate da una prematura sepoltura, emozione e stupore nello scoprire che veramente facevano presa su qualcuno, la scoperta da parte dei più giovani che quelli che avevano davanti erano persone come loro, pregi e difetti compresi, recuperando una dignità a volte un po’ offuscata dalle regole e dall’organizzazione di un grosso istituto come il nostro. In questo senso il progetto “Raccontare per vivere” ha riverberato positivi influssi in ogni senso, contribuendo a stimolare e rafforzare convinzioni e propensioni operative. Per chi come noi lavora da anni con gli anziani è facile cedere alla tentazione di dare molte cose per scontate, se non addirittura 102


a considerarle ovvie, rischiando di trattare con indifferenza le immense risorse che ogni persona porta con sé. Per questo motivo, malgrado le difficoltà e la fatica di contribuire alla realizzazione di questo progetto, non possiamo fare a meno di auspicare con entusiasmo che non vengano meno le risorse e le energie di chi lavora dietro le quinte per raggiungere questo ambizioso obbiettivo: cercare di scoprire il senso del nostro futuro di anziani57. Parole di grande valore prospettico in quanto l’indicazione sposta l’obbiettivo dall’anziano di oggi su quello di domani, ponendo un problema di complessa rilevanza sociologica. Come è stato fatto notare nel corso degli interventi svolti al Convegno del 10 settembre 2012, la molteplicità degli aspetti tematici del progetto “Raccontare per vivere” e la loro coerenza culturale ha permesso di suggerire visioni prospettiche di un futuro a medio e lungo periodo nel quale la quota percentuale di anziani sul totale della popolazione dei paesi più sviluppati assumerà proporzioni nettamente maggioritarie, in conseguenza del considerevole aumento degli anni di prospettiva di vita. Si tratta, come generalmente risaputo, di una aspetto di notevole importanza economica e sociologica, al centro di un articolato dibattito internazionale. Ma proprio la direzione di recupero del tessuto storico nel dialogo intergenerazionale, indicata dal progetto “Raccontare per vivere”, ha aperto la strada ad una diversa analisi contestuale che ha rilevato l’importanza assoluta dello sguardo diacronico che solo è in grado di costruire un discorso di sviluppo mondato dai particolarismi di una sincronia sempre legata alla casistica del momento. La relazione intersoggettiva organizzata sulla base della reciproca consapevolezza delle determinazioni storiche produce esiti non sempre prevedibili poiché basati sulla libera interconnessione dei pensieri e delle testimonianze. Un fatto, questo, che garantisce l’efficacia dei risultati, non condizionati dalla loro preventiva defini57 S. Assandri, P. Novelli, “Nota scritta”, Fondazione Casa di Riposo Ospedale dei Poveri di Pandino, 2013.

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zione teorica. Per altro verso il progetto “Raccontare per vivere” ha costituito uno stimolo anche per docenti, assistenti sociali e tecnici, suggerendo approcci alternativi alla socioantropologia dell’anziano, proponendo scenari suggestivi e nuovi panorami di indagine, come testimoniano le parole degli animatori sociali della RSA “Giuseppina Brunenghi” di Castelleone i quali scrivono che si è trattato di un’esperienza di vita bellissima, di un progetto ricco di valori che calato in una realtà moderna, consumistica e superficiale come la nostra sembra assumere ancor di più un contenuto di ricchezza il racconto dei nostri anziani. Il confronto generazionale dove il “nonno” ha il ruolo fondamentale di tramandare, far conoscere ed insegnare il suo vissuto carico di sudore, di amore e di dolore al giovane auditore, ed è una scena che non eravamo più abituati a vivere. Da questa esperienza abbiamo percepito e capito che l’anziano, pur se vecchio nel fisico, è capace di sentimenti autentici ed è in grado di trasmettere ricchezze a chi lo sta ad ascoltare. Il tema dell’ascolto e del confronto sono stati per noi il grande valore del progetto che ci ha permesso di scoprirci vicini umanamente con i sentimenti, di essere capaci di commuoverci ascoltando e di saper rielaborare insieme i loro vissuti. Aprirci alla realtà scolastica con un tema ben chiaro ci ha aiutate a mettere in discussione modalità operative abituali attraverso approcci differenti, ci ha occupato molto nella fase organizzativa ma ci ha ricompensato con un ritorno esperienziale dai forti colori emozionali. Attraverso questo progetto ci siamo ritrovate a comunicare un’immagine della RSA verso l’esterno più dinamica e umana, una realtà che messa a confronto ne esce più rafforzata e viva. I nostri ospiti si sono attivati, si sono motivati ed erano felici di essere filmati per lasciare una traccia di sé nel dopo di loro58. 58 M. G. Donida, P. Cilloni, S. Galli, V. Redegalli, “Commento al progetto Raccontare per vivere”, comunicato degli animatori sociali del servizio educativo della RSA Giuseppina Brunenghi di Castelleone, 2013.

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La sorpresa della reciproca comprensione La varietà delle situazioni, l’avvicendarsi delle espressioni narrative e di ricerca, del crearsi improvviso di nuove intese, di armonie intersoggettive viene colta con efficacia impressionistica in uno scritto redatto da Chiara Maccalli, docente alla Scuola Casearia di Pandino e sostenitrice convinta del progetto sin dal suo nascere. E proprio agli esordi dell’azione progettuale si richiama quando racconta che la proposta ai miei studenti è stata da parte mia sicuramente provocatoria. Mi aspettavo una reazione negativa, per la verità. Perché la verità è che oggi i giovani e i vecchi sembrano in apparenza non avere granché da dirsi. Troppo distanti come mentalità, stili di vita, quotidianità, bisogni. Un’impressione subito smentita dalla realtà. Mi hanno sorpresa, anzi spiazzata. Confermando l’impressione che i giovani di oggi abbiano bisogno di proposte forti, che vadano controcorrente rispetto all’offerta troppo spesso unicamente consumistica di cui sono vittime, oltretutto scarsamente consapevoli. In barba al falso mito del giovanilismo imperante di una società che ha abdicato su troppi fronti. Primo dei quali quello della parola, dello scambio parlato, nelle sue luci e, perché no?, nelle sue ombre. Il vecchio non è infatti necessariamente il depositario della morale e della saggezza. Abbiamo incontrato anche vecchi incattiviti, con poco altro da dire al di fuori dei luoghi comuni sui giovani, sul mondo di oggi e sui mali della modernità. Prigionieri del rimpianto del mondo antico, incapaci di alcuna curiosità nei confronti dell’attualità. Chiusi e diffidenti, almeno quanto alcuni dei miei alunni, soprattutto nella fase iniziale.”. Ma successivamente si sviluppa lo stupore piacevole della scoperta, della conoscenza diretta. 105


E poi abbiamo incontrato delle persone, dei “personaggi”, dicono i miei allievi, fantastici. Giganti intrappolati nelle loro carrozzine e in corpi consunti, che ci hanno insegnato tanto e che hanno, a sorpresa, imparato di tutto, da noi (quanto orgoglio, negli occhi dei miei ragazzi…). Ecco: il risultato vero del progetto è stato la sorpresa della reciproca comprensione. Una sorpresa davvero inaspettata dagli stessi attori del percorso. Scoprire possibile e addirittura fecondo un incontro improbabile. Veder costruire ponti che hanno cancellato le differenze. E vederlo accadere in tempo reale, oltretutto dentro contesti fatti di luoghi e tempi non sempre agevoli. L’intermediazione di Paolo e Stefania, anime più che animatori della RSA di Pandino, ha fatto succedere il miracolo. Subito, dalla prima volta. Il resto è venuto da sé. Credo non ci sia stato neppure un attimo in cui la verità di questo incontro sia stata inquinata da ipocrisie, luoghi comuni e convenzioni59. Così il progetto “Raccontare per vivere” ha espresso la sua natura di collante sociale, stimolando la conoscenza, il gusto dell’indagine, la ricerca della novità costruttiva, di un sapere limpido e vero. La verità è ciò di cui hanno bisogno i giovani, oggi. Hanno fame e sete della vita, della vita nuda, per dirla con Pirandello. Uno dei miei ragazzi ha scritto che dire quello che si pensa davvero è un lusso della vecchiaia. Questa considerazione li ha aiutati tutti a temerla un po’ meno, questa vecchiaia di fatto ghettizzata, esorcizzata da tutti noi, anche da coloro tra noi che fanno più fatica, per ragioni culturali soprattutto, ad ammetterlo. È passato il concetto che una vecchiaia dignitosa vada preparata quando si è giovani, perché il contesto sociale non perdona ai vecchi di essere vecchi, fatte salve alcune eccezioni, che riguardano però solo figure di “grandi vecchi”, come Andrea Camilleri, Giorgio Napolitano, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, esempi che i 59 C. Maccalli, “Considerazioni personali sul progetto Raccontare per vivere”, Pandino 2013.

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ragazzi lucidamente percepiscono come eccezioni alla triste regola che vede l’anziano statisticamente molto più malato, molto meno lucido, molto più peso che risorsa per la famiglia e la società60. Considerazioni che verificano la coerenza degli assunti teorici espressi nelle pagine precedenti e che concorrono con straordinaria efficacia a delineare il profilo “di altissimo livello culturale” del progetto, come è stato autorevolmente affermato nel corso del dibattito sviluppatosi al convegno del 10 settembre 2012, rapportandolo alle evidenze colte sul campo. Quindi, primo guadagno: la sorpresa di un incontro possibile. Secondo guadagno: la verità di questo incontro. Scoprire che il contatto con i vecchi non si risolve in un atto di generico buonismo, di esibita generosità, di carità anche un po’ pelosa, ma che dentro ci può essere un rovesciamento dei bisogni, dal dare al ricevere. Scoprire che credevamo di consolare e ci siamo sentiti consolati; pensavamo di essere forti e ci siamo sentiti indifesi; eravamo convinti di essere fighi e ci siamo sentiti sfigati. E pure un po’ invidiosi, a detta di qualcuno, dell’intensità con cui viveva, un tempo, chi non aveva niente. Il consuntivo appare positivo, ricco di spunti evolutivi, di ipotesi prospettiche volte in varie direzioni. Siamo entrati a tasche vuote, nei luoghi della vecchiaia; ne siamo usciti a tasche piene. Ho visto caratteri ribelli, cronicamente dediti all’esercizio – a volte anche sterile – della polemica, ammansiti da una carezza davanti alla quale avrei scommesso si sarebbero ritratti con un balzo. Ho visto un ragazzo e una vecchia signora scambiarsi la pelle di fronte al comune denominatore della sofferenza della perdita. Ho sentito e visto colmare un bisogno tanto profondo quanto imprevisto di saperne di più sulla vita e 60 C. Maccalli, “Considerazioni personali…”, cit.

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i suoi travagli. Su come si trova la felicità, su come sopravvivere al dolore. Su com’è essere vecchi. Su come si vorrebbe invecchiare. Questo, per me, per i miei ragazzi – in sintesi – il valore della nostra partecipazione al Progetto61. Una testimonianza che coglie il carattere intrinsecamente enzimatico proprio del progetto “Raccontare per vivere”, che ha funzionato prima ancora che come guida tematica, come lievito per fare emergere le diverse propensioni culturali, le consapevolezze fornite ai giovani da una polifonia di microstorie reali e parallelamente la ricollocazione degli anziani nella vicenda sociale, nel racconto della vita di oggi, con la consapevolezze del proprio ruolo rivisitato. Un tempo si era protagonisti della propria vita La ricchezza delle ipotesi di simbiosi culturale e di genere, la dinamica delle diverse antropologie espresse dai partecipanti non solamente tra i due gruppi di attori protagonisti ma anche all’interno delle singole formazioni, hanno disegnato una molteplicità di scenari possibili, ricchi di presupposti ideologici e di spunti di approfondimento. Le diverse ottiche interpretative dello scenario progettuale, dipendenti dai differenti ruoli partecipativi alle singole azioni, sviluppano una veduta a trecentosessanta gradi che definisce profili di volta in volta diversi della narrazione. In questi mesi di riprese e raccolta di informazioni, testimonianze, memorie e riflessioni di anziani e ragazzi delle scuole, mi rimangono impressi di più i momenti di scambio umano, a volte anche solo una battuta, di conoscenze e di esperienze che sono avvenuti, comunque, oltre ogni muro (generazionale, comunicativo o fisico), oltre ogni pregiudizio. A parte questo, che non è 61 C. Maccalli, “Considerazioni personali sul progetto Raccontare per vivere”, cit.

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scontato, la differenza più emblematica tra i ragazzi di oggi e i ragazzi di una volta, riaffiorati tra i racconti della campagna, della miseria, della guerra, della fatica di un tempo passato, è che nonostante tutto una volta si era più protagonisti della propria vita mentre oggi, ahimè, si è più spettatori. O forse, più semplicemente, una volta si iniziava prima a vivere prendendosi delle responsabilità (“quattordici anni era l’età giusta per lavorare” e “a sei anni ho dovuto fare la mamma… a lavare, stendere, stirare…”), dei doveri e di conseguenza di godere di più dei momenti di riposo, collettivi e di festa (“durante la guerra ballavamo nelle case” e “d’inverno alla sera andavamo in stalla a raccontarcela, giocare a carte… d’estate si ballava nell’aia” oppure “dopo la guerra si facevano tante veglie in castello”). L’acutezza delle impressioni riferite da Gabriele Pavesi, coordinatore sul campo del progetto, rivela la profondità emotiva e psicologica maturata nel corso degli incontri, nei dialoghi intergenerazionali che hanno svolto una sorta di funzione psicanalitica in ambedue le direzioni, una capacità reciproca di tirarsi fuori gli uni con gli altri come se fosse in corso un processo di liberazione delle menti. La grande franchezza, spesso tagliente, degli anziani è quella dei bambini ma filtrata dalla saggezza di chi ne conosce il motivo e il significato tra le pieghe del viso scavato dagli anni. Vite vissute tra il sudore, i cambiamenti sociali ed economici, le soddisfazioni, i lutti… “Non sempre è domenica”. “Il kebab? Spiegatemelo! Io non ho studiato” oppure “È un dolore così grande che… lo accetti… e quasi gli vuoi bene a quel dolore!”, “Io non so cantare ma canto sempre. Cuore allegro, ciel l’aiuta! E se cadi in terra fai una buca!” e ancora “Il sogno che avevo nella vita era… di fare la ricca!” In ultima analisi il rischio di celebrare i tempi andati con sguardo nostalgico c’è stato (e c’è), ma sono stati ancora i vecchi – vecchi sì, non è un’offesa – a mettere bene in chiaro che i momenti difficili sì li hanno passati loro, ma anche oggi non è per niente facile la vita “oggi è difficile trovare lavoro”, “gli 109


italiani sono bravi a giudicare e non a comprendere”, “una volta si era più abbinati, oggi quelli che abitano nei condomini non si salutano neanche”. Cercando di capire, di capirsi, anziani e giovani hanno messo a nudo le proprie caratteristiche sviluppando positive contaminazioni culturali, confronti tra culture solo apparentemente distanti, dal momento che sono, alla fine dei conti, risultate chiaramente innestate l’una sull’altra. Paradossalmente in molti casi sono stati gli anziani, vecchi uomini e donne, padri, madri, lavoratori, massaie…, a interrogare e capire i giovani che nella loro vivace inesperienza, più o meno timidamente, celano una forte sete di essere compresi62. Si è trattato infatti di un lungo ed articolato processo di reciproco scambio di pensieri e sensazioni, di emozioni e stimoli, le interviste si sono trasformate in dialoghi, le narrazioni, le memorie, le microstorie sono state il risultato di una indagine che ha scavato a fondo nella memoria degli anziani, estraendone emozioni e ricordi che hanno consegnato ai loro giovani interlocutori come lascito di un tempo nemmeno tanto lontano eppure remoto rispetto ad oggi. Considerazioni che nascono spontanee di fronte alle testimonianze di quanti hanno, a diverso titolo, partecipato alla realizzazione di questo progetto. Insegno Psicologia presso l’Istituto P. Sraffa e sono abituata a trattare il tema della terza età con i miei studenti del Corso socio-sanitario, perciò ho partecipato al Progetto sin dal primo anno, con l’entusiasmo di poter collaborare con altri colleghi ed operatori. Insieme infatti abbiamo sviluppato ed animato la realizzazione di un percorso di conoscenza e scoperta reciproca. In particolare, io ho assunto il coordinamento organizzativo nelle prime due 62 G. Pavesi, “Impressioni”, contributo scritto, Crema 2013.

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annualità ed ho impegnato le mie studentesse (solo l’ultimo anno hanno partecipato anche tre ragazzi) nella realizzazione di una presentazione in Power Point sul mondo dell’anziano e sulle tecniche di intervista allo scopo di incontrare gli studenti delle altre scuole. Questa attività è stata predisposta allo scopo di avvicinare e preparare gli altri studenti ad incontrare gli anziani nelle R.S.A., visto che le mie studentesse avevano già svolto il tirocinio in diverse strutture del territorio. Per me è stata anche un’occasione per affrontare argomenti inseriti nel piano di studi utilizzando una metodologia attiva e coinvolgente. Inoltre, i ragazzi hanno impresso sui cartelloni i loro pensieri, le aspettative e le titubanze sul rapporto con l’anziano ed hanno avuto l’opportunità di conoscersi, visto che avrebbero poi condiviso un’esperienza comune63. Dalla testimonianza cronachistica, emerge la laboriosa e vivace realtà dei momenti organizzativi, delle definizioni di metodi e procedure, dei primi contatti sul campo, ma soprattutto si evidenzia l’utilizzo delle componenti tecnologiche più avanzate, strumenti della comunicazione d’oggi, posti al servizio della ricerca antropologica relativa ad epoche ignare di simili progressi. Gli incontri con gli anziani si sono rivelati intensi, emozionanti e si sono consolidati in uno scambio reciproco ricco e sorprendente. Alcuni ospiti hanno gioito della ventata di giovinezza respirata durante le interviste e gli incontri di preparazione, mentre i ragazzi sono sempre tornati soddisfatti e stupiti dell’accoglienza e dell’affetto ricevuti. Qualche volta, tuttavia, l’intervista è stata più difficoltosa perché l’anziano non era loquace oppure non era molto propenso ad aprirsi e a raccontare. I ragazzi hanno imparato a rispettare i bisogni e le differenti personalità cercando di non essere invasivi e dimostrando autenticità nella relazione. 63 M. Sacchelli, “Contributo scritto”, Istituto Istruzione Superiore “P.Sraffa”, 2013.

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Complessivamente, quindi, abbiamo tutti lavorato sia prestando attenzione alla costruzione di relazioni significative che nella disponibilità a condividere le esperienze vissute64. Come già detto, nelle presentazioni finali delle diverse annualità, gli alunni coinvolti hanno potuto mettere in gioco le loro competenze musicali (strumentali e canore), grafiche, pittoriche e hanno potuto esprimere pubblicamente alcune loro riflessioni sull’attività svolta, sempre significative e pertinenti, spesso acute e graffianti, affidandole alla meditazione dei propri concittadini, presenti in sala. Vorrei che fosse il nonno che non ho mai avuto La vecchiaia è un libretto di istruzioni per la vita. Non è una fine ma un riepilogo. Secondo me è contraddittorio relegare al margine la vecchiaia quando tra qualche anno tutti noi saremo divenuti la maggioranza anziana.

64 M. Sacchelli, “Contributo scritto”, cit.

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IV. Una vicenda vissuta quattro anni

La parola estrae il ricordo È stato scritto che il linguaggio è l’aurora della coscienza sociale e che il suo primario e originario orientamento è il mondo del “tu” che è oggetto principale della sua attenzione65. In pratica, parlando si creano percorsi narrativi che crescono nella tensione della comunicazione intersoggettiva. La parola diviene così una sorta di bulino che scava nella mente dell’interlocutore estraendone i ricordi, impressioni, sensazioni, emozioni. È la parola lo strumento in grado di estrarre il ricordo e proprio questa sua funzione ha costituito la base sulla quale si è sviluppato l’intero progetto “Raccontare per vivere” che, esattamente per questa sua caratteristica di dinamica intercomunicativa, ha prodotto esiti documentativi di estremo interesse per il loro valore di recupero di coscienze sociali collettive. In un’epoca nella quale il presente tende a cancellare ogni passato nell’ansia evolutiva verso un non meglio definito futuro, la ricomposizione del discorso collettivo costituito dalla memoria del passato recente e dalle microstorie a questo legate, assume una dimensione che va ben oltre la semplice funzione di riallacciamento di rapporti intergenerazionali, per invadere scenari antropologici e sociologici 65 E. Cassirer, “Il linguaggio e la costruzione del mondo degli oggetti”, in: AA. VV. “Il linguaggio”, Bari 1976.

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ben più ampi e suscettibili di sviluppi di grande interesse culturale e sociale. Le pagine precedenti hanno ampiamente documentato questo carattere funzionale del progetto, ma è nelle parole dei partecipanti, degli studenti di Crema e Pandino, degli alunni delle scuole elementari di Castelleone e Trigolo, che si scoprono le ragioni più intime dell’azione progettuale, nella trasmissione di significati, di saperi, di realtà storicamente superate ma che, si voglia o no, ci appartengono, fanno parte dei nostri mondi postmoderni, perché ne sono l’origine e la causa. E vedremo qui di seguito il racconto di queste esperienze collettive. La famiglia, il lavoro, le microstorie “La memoria, alla quale attinge la storia, che a sua volta la alimenta, mira a salvare il passato, soltanto per servire al presente e al futuro”66. L’osservazione di Jacques Le Goff sembra condensare lo spirito del progetto “Raccontare per vivere” basato sul recupero di memorie, finalizzato allo scambio costruttivo intergenerazionale ed alla definizione dell’integrazione, in un futuro sostenibile, tra giovani ed anziani. Infatti, l’atto mnemonico fondamentale è rappresentato dal comportamento narrativo, caratterizzato prima di tutto dalla sua funzione sociale, dal momento che costituisce la comunicazione di un’informazione rivolta ad altri, in mancanza dell’evento o dell’oggetto che si intende richiamare all’attenzione degli ascoltatori67. Procedura che ha caratterizzato l’intero ciclo di incontri tra giovani e anziani, e base della relativa documentazione filmica. La narrazione costituisce un flusso continuo, variato solo dal diverso carattere delle testimonianze che ripercorrono un arco di ottant’anni di storia italiana descritta dalle parole minute di anziani 66 J. Le Goff, “Memoria”, in: Enciclopedia vol. 8, Torino 1979, pp. 1068-1105. 67 C. Florès, “La mémoire”, Paris 1972, pg. 12.

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che sembrano ripiegarsi sul proprio passato allo scopo di trarne un consuntivo da consegnare come lascito che insieme agli altri rappresenta un mosaico complesso e corale, documento spontaneo e immediato che testimonia il valore dell’esperienza progettale. Il tema del lavoro ha costituito uno degli argomenti centrali anche negli incontri tra bambini e anziani e proprio attraverso questa analisi è stato possibile stabilire con chiarezza la distanza esistente tra le differenti generazioni. Nei ricordi degli anziani i lavori femminili maggiormente citati sono stati la balia, la domestica, la lavandaia, la filatrice, la mondina, la maglierista, operaia, perpetua Quelli considerati tipicamente maschili erano il bergamino, il mandriano, il panettiere, il medico, il calzolaio, il ciabattino, il maniscalco, il sacrestano e il campanaro, lo spazzacamino, lo stagnino, l’arrotino, il taglialegna, lo straccivendolo, l’ombrellaio, il parrucchiere, il tintore, l’imbianchino, il tipografo, l’impagliatore, il parrucchiere, il cappellaio. Infine i principali lavori un tempo esercitati indifferentemente sia da uomini che da donne erano il contadino, il sarto, il cuoco, il maestro, il venditore ambulante, il portalettere e il farmacista. Facevo il falegname con mio fratello e mio papà. La falegnameria era sull’angolo tra via Piave e via 4 novembre a Castelleone dove ho sempre vissuto dal 1930. A undici anni ho iniziato a lavorare e fino al 1972 ho fatto l’artigiano e poi alle dipendenze dei signori Brusaferri e Zanisi. Facevamo gli infissi, e riparavamo i mobili che ci portavano, lavoravamo in collaborazione con gli imprenditori edili Cimaschi e Sansoni. A trentasei anni mi sono sposato con Albina che è morta 8 anni fa, ho una figlia Francesca alla quale voglio molto bene ed è il mio unico punto di riferimento. Nel 1990 sono andato in pensione e lavoravo a casa mia, un po’ per hobby un po’ per guadagnare qualcosa. Dal 2004 ho fatto volontariato presso la Cooperativa sociale “Il Seme” nel laboratorio di falegnameria, i ragazzi anche se con qualche difficoltà seguivano e ascoltavano attentamente i miei consigli ed insieme abbiamo 115


fatto anche dei lavori esemplari di restauro di mobili per privati. La sintetica puntualizzazione delle varie fasi di un’esistenza vissuta nel lavoro riconduce all’atmosfera culturale e sociale della provincia lombarda negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale e del dopoguerra che hanno registrato il passaggio dalle ristrettezze autarchiche degli anni ’30 alla disgregazione sociale ed economica durante il periodo bellico e, successivamente, la vivace e rapida ripresa economica ed evoluzione sociale che ha caratterizzato il ventennio successivo, ed è stata pesantemente pagata dalle classi subalterne, per proseguire fino ai nostri giorni. Dall’artigiano al contadino, il passaggio è solo formale dato che lo spirito resta lo stesso, un racconto intriso di serena semplicità e sorridente ottimismo, malgrado le condizioni di vita che ai nostri occhi risultano indubbiamente dure Nella mia vita ho fatto sempre il contadino, mi piaceva molto lavorare all’aria aperta, in fabbrica mi sembrava di soffocare. Lavoravo come dipendente da quando avevo sette anni a Izano, paese dove sono nato nel 1920 ed ho sempre vissuto. Per arare non c’erano le macchine, si faceva tutto con il carro e i cavalli poi con i buoi; oggi con le nuove tecnologie si possono lavorare più di 1000 pertiche di terra. Di giorno si muoveva la terra con il badile, si seminava e si raccoglieva. Giunto a maturazione si raccoglieva a mano il frumento, il miglio e il granoturco a cui strappavamo “il seme”, cioè la cima della pannocchia del mais o i “galli” che servivano come cibo per gli animali. Avevo anche le mucche da allevare e far crescere, erano solo quattordici vacche a testa, ma era un lavoro molto faticoso. Dormivo solo d’inverno perché d’estate irrigavamo i campi e c’era da “girare l’acqua”. Di notte dalla 1 alle 5.30 mungevo con altri tre colleghi, poi facevamo bere le mucche dal secchio oppure le portavamo al fosso. A ventun’anni anni ho fatto il soldato e rigore e disciplina erano le regole alle quali dovevamo sottostare. Ritornato da militare ho ripreso a lavorare la terra, nel 1945 mi sono sposato con la mia Ca116


terina (ero innamoratissimo, devo confessare che la comandavo un po’), che ho conosciuto in paese ed abbiamo fatto i giovanotti insieme. Non ho mai voluto che mia moglie lavorasse, una volta ce la si faceva anche con uno stipendio, adesso no. Quando sono andato in pensione tenevo l’orto, era molto grande e coltivavo tutta la verdura di stagione. Che bei ricordi! C’erano meno soldi che adesso ma non mancava niente ed eravamo più felici. Le mie giornate erano impegnative Come un lungometraggio in bianco nero, evocante malinconiche atmosfere d’antan, si snoda il lungo racconto degli anziani, raccolto nelle diverse fasi progettuali dall’onnipresente “occhio cinematografico” che tutto ha registrato, indelebilmente fissato. La variabilità tematica produce scansioni che omogeneizzano le memorie. Qui il romanzo di “Raccontare per vivere” trova il suo momento di massima espressione documentale, di archivistico interesse antropologico riferito a comunità umane d’altri tempi. Vivevo in una famiglia numerosa, eravamo dieci fratelli di cui due ancora viventi. A quattordici anni ho iniziato a lavorare come operaia da Sorini: prima ero addetta al confezionamento delle marmellate, prendevo il liquido dalla caldaia e lo ponevo in un mastello (el sui) che le divideva nei vari vasetti. Lì mi piaceva poco perché era un lavoro molto pesante. Essendomi poi ammalata con la schiena, mi hanno spostato a fare le caramelle, finché dopo poco la fabbrica ha dichiarato fallimento. Mi sono trovata senza lavoro ed ero un po’ disperata perché con il mio stipendio aiutavo la mia famiglia numerosa, finché un giorno, grazie ad una mia amica, nella panetteria Zaniboni ho conosciuto la moglie del primario dell’ospedale di Soresina che stava cercando una donna di servizio. Ci siamo piaciute subito e la settimana dopo ho iniziato a lavorare in casa sua. Era gente facoltosa, con una bella casa, piena di mobili antichi e di quadri di valore ma la 117


cosa più importante era che mi hanno accolta bene e avevano piena fiducia in me. In questa famiglia vivevano tre bambini che oggi sono ragazzi sposati con dei bimbi e sono ancora molto affezionati a me, tanto che vengono a trovarmi in Casa di Riposo. Le mie giornate erano impegnative, lavavo e vestivo i bambini, li portavo a scuola, facevo i mestieri in casa, facevo da mangiare e glielo davo ai bimbi. Il più tremendo dei tre era l’ultimo, in casa rompeva tutto, si arrampicava con la sedia ovunque, era da tenere sott’occhio sempre. Sono stata per dodici anni a servizio presso questa famiglia e ancora oggi mi invitano ai matrimoni dei figli e al battesimo dei nipoti. È una bella sensazione quella di sentirsi accettata ed amata anche da una famiglia che non è la tua. Quando sono andata in pensione, dopo poco ho saputo che il dottore e sua moglie si erano separati ed ho provato un dispiacere immenso. Ora hanno dei nuovi compagni ma io sono rimasta in buoni rapporti solo con la moglie e i suoi tre figli. È stata un esperienza che mi porterò nel cuore finché campo. Io sono nata a Cappella Cantone poi nella mia infanzia e adolescenza con la mia famiglia ci siamo trasferiti in tre paesi diversi perché mio papà faceva l’agricoltore dipendente. Avevo quattro fratelli (attualmente tutti deceduti), e una sorella. Non eravamo una famiglia molto benestante però in tempo di guerra non abbiamo sofferto la fame. La variabilità delle situazioni evidenzia le differenze caratteriali, le specificità delle singole personalità che conferiscono aspetti ed atmosfere differenziate ad una narrazione che per questo acquista maggiore interesse documentativo e antropologico. Quando ero giovane e celibe facevo l’agricoltore in proprio. Con mio fratello e i miei cugini lavoravamo la terra, facevamo il fieno, il riso, il granoturco e il frumento e la “bule” che è la semente del trifoglio. Nei giorni che precedevano il raccolto del grano si contattavano i padroni dei mulini per venderlo, ci si metteva d’ac118


cordo sul prezzo con il mediatore. Avevamo anche alcune vacche da latte che mungevamo, ma le vacche incinte non si mungevano perché il loro latte serviva per i vitellini. Dapprima vendevamo il nostro latte al Signor Bonizzoni di Casaletto Ceredano che con la “cariagia”, una specie di carro che trainava una botte, ritirava il latte; poi abbiamo formato una cooperativa dove c’era un privato che acquistava il latte e lo portava nei caseifici. Quando sono andato in pensione facevo tanto volontariato con gli anziani del mio paese, tanto che mi sono guadagnato una croce al valor civile che mi è stata donata dal sindaco. Uno scorcio dal sorridente sapore di commedia all’italiana costituisce una variante alla narrazione della vita quotidiana di una volta Ero molto legato ai miei fratelli, la domenica andavamo a messa delle 9, noi maschi nei banchi degli uomini davanti, le mie sorelle in quelli delle donne più spostati dietro. Al termine della celebrazione,noi ragazzi andavamo a caccia di nidi sugli alberi e le ragazze dalle suore a giocare a biglie. Una volta ce n’erano tante di suore e la chiesa era piena di persone credenti, non come adesso! Dopo pranzo c’era per tutti la benedizione poi all’oratorio a giocare a carte o a tombola. Verso i 13-14 anni si andava di nascosto dai miei genitori nelle balere a morose. Alcune volte c’erano le mie sorelle che facevano la spia a mia mamma e quando rientravo le prendevo di santa ragione. Tornando agli aspetti connessi alle attività lavorative, incontriamo la testimonianza di un anziano che ci riporta al periodo a cavallo della guerra, e a condizioni socio economiche che hanno prodotto esiti e difficoltà di differente natura, ma che non alterano la sostanziale coerenza del racconto con il contesto generale nel quale si colloca. Facevo il coltivatore diretto con mio fratello, ho iniziato a lavorare a undici anni. Con la quota 90, termine coniato dal duce 119


che voleva rivalutare la moneta italiana, c’è stato il tracollo dei soldi nelle banche e la svalutazione del costo dei bozzoli. Nel 1934 la mia famiglia si è trasferita alla Pellegra di Castelleone in una cascina in affitto, avevamo anche trentadue vacche da allevare. Nel 1948 mi sono sposato con Azzali Giuseppina che era un’infermiera del manicomio di Cremona. L’ho conosciuta perché mia zia era ricoverata in questo istituto. Non c’erano i telefoni e allora comunicavamo via lettere, poi ci siamo incontrati e da cosa nasce cosa. Ho vissuto una vita faticosa e sono andato in pensione a sessantacinque anni, poi è morta mia moglie ed ora vivo con mia figlia. Sto molto bene e non mi lamento di niente grazie a Dio sono insieme a voi e non da solo. Mi piace venire al Centro Diurno di Castelleone. Malgrado le avversità del momento e la fatica di un lavoro apertamente definito faticoso, l’anziano narratore manifesta una sottile vena ironica unita ad una innata serenità d’animo che gli consente uno sguardo di tranquillo ottimismo che del resto è comune anche alla successiva testimonianza di vita, narrata con linguaggio colorito ed efficacemente espressivo. Ricordo che quando ho fatto il trasloco, nel 1966, io e mia moglie abbiamo fatto San Martino con il carrettino. Si cominciava la mattina presto per finire poi la sera tardi. Da bambino andavo a scuola dalle suore, ero tremendo e molto vivace così ero spesso in castigo dietro la lavagna o in ginocchio sui sassi o prendevo delle belle bacchettate sulle mani. Oggi ricordo quel periodo ridendoci sopra ma vi assicuro che la mani mi facevano molto male e conveniva tacere se no rincaravano la dose. Ho fatto per quarant’anni anni il mandriano. Al giorno d’oggi questo lavoro non esiste più. I mandriani erano coloro che portavano le mucche al pascolo ma solo le manze non quelle da latte. Ho sempre lavorato come dipendente, all’inizio dalla famiglia Franzini, poi ogni cinque o sei anni mi trasferivo e cambiavo pa120


ese, dipendeva dall’azienda agricola dove trovavo lavoro. Portavo quaranta o cinquanta bestie al pascolo dal quindici di ottobre fino a S.Caterina, secondo il proverbio che dice «a S.Caterina le bestie in cascina», le pulivo e gli davo da mangiare il fieno che i contadini mi preparavano. Nel corso degli anni mi sono spostato da Regona a S.Eusebio a “Li Valladi”, che erano tre cascine, ed infine a Zanengo. Generalmente si portavano le bestie al pascolo dalle dieci del mattino alle 15.30, perché poi c’era da fare in cascina, ma in tempo di guerra stavo attento all’allarme che precedeva di poco i bombardamenti ed evitavo di spostare le mucche dalla stalla, perché era pericoloso per me e per loro. Ora vivo con mia nipote alla Pellegra di Castelleone, frequento il Centro diurno di Castelleone da poco, devo dire che l’ambiente è accogliente e non mi manca niente. Abitavo in una cascina e quando avevo quattro o cinque anni mia madre mi ha portato per la prima volta a fare un giro in paese. In cascina io ero abituato a vedere mucche dovunque, c’erano più animali che persone. Una volta giunti in paese io mi sono stupito del fatto che alle finestre si affacciassero le persone e non le mucche. La cascina è un mondo a parte ed io, con l’innocenza di un bambino, non pensavo che vicino a casa mia ci fosse così tanta gente. Di epoca decisamente più recente è la testimonianza successiva che ci riconduce agli anni del secondo dopoguerra, in un clima di speranza ed entusiasmo imprenditoriale ricco di spunti storici ed antropologici importanti allo sguardo indagatore dello studente di oggi. Da giovane mi hanno fatto studiare alle “industriali” di Crema poi avrei dovuto andare a lavorare all’Everest ma la mia mamma non ha voluto perché era tempo di guerra e gli aerei bombardavano Crema. La mia mamma mi voleva bene ed era protettiva. A diciotto anni ho fatto il soldato, ero già uno sportivo e da militare 121


avevamo formato una squadra di pallavolo, così nel poco tempo libero giocavamo e ci divertivamo. Ho iniziato il lavoro in campagna a tredici anni insieme a mio fratello e ai miei cugini. Ho lavorato tantissimi anni, sono nato contadino e morirò tale. La terra che lavoravamo era divisa a metà, metà di mio papà e metà di mio zio, erano circa 300 pertiche. Quando è venuto a mancare mio papà, io e mio fratello ci siamo divisi dai miei cugini e abbiamo acquistato una nostra azienda con le vacche. Avevamo compiti ben distinti: lui faceva il bergamino e io lavoravo la terra. Con lui andavo molto d’accordo per cui anche la fatica del lavoro non pesava. Più tardi abbiamo acquistato, circa 500 pertiche, a Ripalta Guerina. Era la terra di Arturo Toscanini, un musicista famoso in tutta Italia. Era di statura piccola ma molto intelligente e cordiale. Mi sono sposato due volte ed ho avuto due figli. Adesso l’azienda è di proprietà di mio figlio. Spero tanto di ritornare a casa presto a sentire ancora il profumo della mia campagna, il cinguettio degli uccellini e l’odore di sterco che mi ricordano quand’ero giovane e sano, non come adesso. Quando cadevano le bombe Il retrogusto vagamente melanconico delle ultime parole dell’anziano narratore ci riportano ad atmosfere e scenari fino a qualche decennio addietro ancora centrali nella memoria collettiva, quelli che comunemente venivano indicati come «il tempo di guerra». Questa drammatica e in molti casi tragica fase storica viene ricordata in molte testimonianze raccolte nel corso del progetto, come una realtà ancora avvertita con grande chiarezza. La guerra infatti ha costituito per le popolazioni della campagna l’intrusione violenta e improvvisa di eventi esterni e lontani, il coinvolgimento nelle vicende del mondo affatto estranee al tranquillo corso esistenziale di una vita variamente difficile e priva di grandi eventi, ma trascorsa nell’armonico divenire della comunità umana e dell’ambiente naturale. 122


L’emergenza bellica mette in forse, nel volgere del tempo, ogni protocollo della consuetudine, ogni regola di rapporto intersoggettivo, rendendo precaria l’esistenza, improvvisamente esposta a rischi sconosciuti ma incombenti. Le testimonianze di coloro che hanno in diverso modo vissuto questi periodi oscuri, sperimentando di persona i rigori, le difficoltà e le scarsità hanno in seguito riempito migliaia di pagine di libri di storia, di analisi sociologica e antropologica. Memorie e ricordi che la viva voce dei protagonisti rende altrettanto vivi e reali. Non ho combattuto la guerra perché ero ancora un bambino però ho tanti ricordi di quegli anni. Il primo dei miei ricordi di guerra è un episodio accaduto quando hanno bombardato vicino al bar “Colombina”, le bombe sono finite sulle botti di vino di un camion parcheggiato lì vicino, la gente accorreva con i secchi per raccogliere il vino che scivolava per terra. I segni del bombardamento sono visibili ancora oggi sulla chiesetta di San Giuseppe. Io e mio fratello dopo poco siamo andati con la bicicletta sulle “coste” di San Latino per andare a trovare mia nonna che abitava a Gombito. Abbiamo sentito l’allarme e ci siamo nascosti sotto le tombe del fosso che passava lì vicino. Il secondo episodio è il bombardamento alla stazione di Castelleone quando è stata distrutta la villa di Strafurini ed è stato raso al suolo anche il suo magazzino di macchine per l’agricoltura. L’uomo che ho appena citato era molto noto in paese, oggi è intitolata a lui la piazzetta di fronte alla Scuola Canossa. E adesso basta parlare della guerra, parliamo di cose belle. Io da quando vengo al centro diurno sono rinato! Un’altra voce testimonia di analoghe esperienze: Durante la guerra mi ricordo l’incursione dei bombardamenti, della linea ferroviaria, dei buoi e dei cavalli, i coprifuoco alle 123


ore ventuno, l’oscuramento per cui bisognava spegnere le luci e chiudere le finestre ed era vietato l’assembramento cioè era vietato uscire dalle proprie case in più di tre persone per non dare nell’occhio all’aereo dei tedeschi. Il coro delle voci narranti delinea efficacemente il clima di tensione e di ansia con le quali erano vissuti quei momenti ammantati di rischio, di imprevisti, come nelle concise parole di un’anziana signora che ricorda: Quando cadevano le bombe erano dirompenti, c’era tanto fumo. Della guerra in casa non si parlava mai, la guerra si sentiva. Non erano tempi tranquilli come adesso, eravamo in tempi di guerra, si viveva sempre nell’ansia, avevamo continuamente paura di sentire l’allarme che ci avvisava che arrivava “Pippo”, l’aereo tedesco che bombardava tutte le case dove c’era la luce accesa, che segnalava la presenza di qualcuno. Noi, se riuscivamo, ci nascondevamo nei rifugi. A casa mia c’erano gli sfollati Ho fatto anche la guerra. Mi ricordo che non ho combattuto ma sono stato chiamato nel 1942 per stare al fronte in Francia e in Albania. Facevo la guardia per controllare se arrivava il nemico. In quel periodo sono partito solo dal mio paese, il ragazzo più vicino era di Rivolta d’Adda, siamo diventati amiconi, eravamo sempre insieme al freddo e nelle fatiche. Siamo stati via per tre anni. Una volta tornati ci vedevamo spesso, l’ho invitato anche al mio matrimonio. Una volta ritornato mi sembrava di essere in paradiso. La guerra era finita e la mia famiglia era contentissima di rivedermi,soprattutto perché tanti ragazzi che partivano non ritornavano più a casa perché venivano fatti prigionieri e portati in Germania. 124


La preoccupazione per i familiari prigionieri in Germania compare frequentemente nelle memorie di numerosi anziani intervistati. Da bambino sognavo la fine della guerra perché, oltre alla paura, sapevo che molti soffrivano la fame e cosa ancor più grave molti di noi avevano dei famigliari o degli amici sul fronte. Tutti avevamo gli stessi problemi: la fame, il freddo,la paura. Le condizioni erano le stesse per tutta le famiglie e nel male eravamo tutti solidali, quel poco che c’era lo condividevamo. In tempo di guerra ho visto le bombe che venivano lanciate dagli aerei. A Soresina erano prese di mira la Latteria perché produceva alimenti e la ferrovia perché favoriva il commercio ed il trasporto. L’escursione degli aerei, prima del bombardamento, durava un bel po’. A Pizzighettone hanno bombardato il frutteto situato vicino al Genio Militare. Dei miei fratelli due erano prigionieri in Germania in campi di concentramento, uno in Scozia e uno in Libia-Cirenaica. Durante gli anni di prigionia mi ricordo che in casa mia si respirava un’aria di preoccupazione ed ansia. Quando i miei fratelli sono tornati erano malnutriti e magri da far paura, ci hanno messo un po’ a riprendersi. Quando nelle righe precedenti abbiamo scritto che la guerra aveva intruso violentemente il mondo esterno, il fuori del territorio, nell’ambiente della comunità agricola e imprenditoriale del territorio non ci riferivamo solamente ai frequenti attacchi aerei o alle emergenze annonarie e ai condizionamenti imposti dal regime di guerra. Un aspetto significativo dell’emergenza comune all’interio territorio italiano è stato costituito dalla pratica dello sfollamento con la quale intere famiglie o gruppi di paesi, particolarmente colpiti dalle incursioni aeree o messi in condizioni di rischi imminenti per trovarsi sulla linea del fronte bellico, venivano inviati verso località e ambienti spesso molto distanti dal rispettivi comuni di residenza originaria.

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Durante la guerra, a casa mia c’erano gli sfollati, alcuni erano di Milano ma c’era un bambina di Frosinone. Gli sfollati erano quelle persone, bambini o adulti, che per ragioni di sicurezza erano obbligati a scappare dalla loro casa e rifugiarsi altrove. Mi ricordo che dormivamo in una stanza piccola e in un letto ci stavamo in cinque, uno di testa e uno di piedi. Si era creato un bel rapporto di amicizia anche perché queste persone sono state a casa mia per tre anni, fino alla fine della guerra. Quella della guerra rimane in ogni caso una memoria comune in tutti coloro che hanno vissuto quel periodo difficile, soprattutto per coloro che erano ancora in età infantile o adolescenziale, nelle quali la tensione relativa all’oscuro e sconosciuto rischio incombente lascia tracce difficilmente cancellabili. Grazie al Cielo non ho combattuto la guerra perché ero ancora un bambino, anche se mi ricordo ancora adesso il rumore assordante delle mitragliate che arrivavano spesso anche vicino a casa mia. Noi bambini avevamo talmente tanta paura che non riuscivamo neanche a piangere, trattenevamo le lacrime e ci stringevamo in un angolino. I ragazzi d’oggi sono molto fortunati perché non hanno vissuto quelle sensazioni terribili. Altrove è l’occhio sereno di una ragazza che registra con puntuale attenzione, ma con sotteso distacco, i fatti e gli eventi di quegli anni che la vedono partecipe attiva nella comunità locale. La narrazione procede tra sottolineature di difficoltà oggettive, di intime tensioni emotive ma anche con delicate sfumature di sorridente dolcezza domestica. Una testimonianza che costituisce un racconto coerente e concluso in sé. Non posso lamentarmi della mia vita da giovane, c’erano della mie amiche che hanno proprio sofferto la fame, io invece vivevo in una famiglia modesta. Ho lavorato da Sorini dal 1941 al 1958, prima incartavo le caramelle e poi sono stata spostata al 126


reparto spedizioni perché c’erano delle scadenze urgenti. Durante la guerra si lavorava di notte perché di giorno la corrente elettrica serviva agli stabilimenti che producevano armi. Eravamo in un grande salone quasi al buio perché i tedeschi che passavano con gli aerei bombardavano dove vedevano la luce. Lavoravamo dalle diciotto alla una di notte e poi il mio papà veniva a prendermi, mi faceva salire sulla canna della sua bicicletta e mi avvolgeva nel suo mantello, io mi sentivo protetta e abbracciata ed ero felice. Avevo due fratelli, il primo lavorava alla “Isotta-Fraschini”, fabbrica che produceva armi a Milano che poi si è trasferita a Varese, e il secondo faceva il fabbro ferraio ed aveva la bottega proprio dietro il Santuario di Castelleone. Con lo scoppio della guerra, era arrivato dal presidio tedesco di Cremona, l’ordine di chiudere la bottega. I castelleonesi però non erano d’accordo e fecero una petizione per mantenere l’attività di mio fratello. Morale della favola, i tedeschi avevano dato il permesso a mio fratello di continuare il suo lavoro a patto che tutti i mesi si recasse a Cremona per farlo timbrare e lui andava a Cremona in bicicletta con qualsiasi condizione atmosferica, alcune volte ci andavo io per aiutarlo e una volta è capitata bella. Ero al bivio di Via Palestro con il Corso principale della città quando in lontananza ho visto due tedeschi che controllavano chi passava proprio nella direzione dove dovevo andare io. Ho trattenuto il fiato e ho detto tra me e me: “o la va o la spacca”, sono partita con passo deciso ma dopo pochi metri i due omaccioni hanno alzato la mani e gridato: “alt” ed io ho pensato: “qui non vado più a casa”. Quello che parlava un po’ di italiano ha cercato di chiedermi dove andassi e io gliel’ho spiegato poi, dopo pochi secondi di silenzio, con un mezzo sorriso mi ha chiesto dove avessi comprato l’impermeabile che indossavo dicendo che era bello e che non l’aveva mai visto. Io con un filo di voce gli ho risposto che l’avevo trovato a “Milan”, pensavo si dicesse così Milano in tedesco e loro mi hanno lasciato andare dove dovevo. Ho ricominciato a camminare e tra me e me pensavo meno male che l’ho scampata…

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Ho portato a spalla un ragazzo che era morto La storia appena narrata conserva per intero la freschezza della memoria raccolta intorno al vecchio tavolo di cucina, davanti alla chicchera di caffè fumante, nella silenziosa e antica atmosfera casalinga. Theodore Zeldin scrive che quando le persone raccontano le storie della propria vita “il modo in cui cominciano a farlo svela al tempo stesso quanto si considerano libere e in quanta parte del mondo si sentono a casa propria”68. In effetti la generale voglia di raccontarsi, registrata nel corso dei quattro anni di incontri, interviste e dialoghi, testimonia della funzione maieutica espressa dal progetto “Raccontare per vivere” che ha determinato le condizioni mentali e ambientali più adatte a sviluppare il dialogo intersoggettivo, la trasmissione di pensieri, emozioni e saperi, di memorie e situazioni che hanno creato un articolato prodotto di storia della quotidianità. Nel 1941 sono stato chiamato a combattere la guerra in Grecia e sono stato lì fino al 1944, poi catturato dagli Inglesi e deportato in Egitto fino al 1946 in un campo di concentramento di 6000 uomini che era praticamente un paese, non si sapeva un bel niente di quello che succedeva fuori, eravamo fuori dal mondo. Il 2 settembre 1946 ci hanno liberato e sono finalmente tornato a casa. Durante la guerra lo stato ritirava tutto il rame dalle famiglie per fonderlo e lo usavano per fare le bombe. Per lo Stato era necessario passare il Canale di Suez che era controllato dagli inglesi e allora ritiravano anche le fedi d’oro delle donne, gliele davano di ferro, ritiravano anche le campane per fonderle e fare i cannoni. Io da piccolo sognavo di poter avere un fucile da quando le SS erano penetrate di notte nella nostra cascina, minacciando mio papà perché erano convinti che nascondessimo un ricercato. Ma 68 Th. Zeldin, “Storia intima dell’umanità”, Roma 1999, pg. 48.

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noi non nascondevamo nessuno! Io avevo una zia che si chiamava Alice e che in tempo di guerra aiutava le famiglie bisognose, specie quelle con più bambini e dava il suo aiuto anche ia partigiani. In una lettera a suo marito che si trovava in montagna per lavoro, sia Alice descrisse tutto ciò che faceva. Ma la lettera finì nelle mani della Gestapo e zia Alice venne arrestata e deportata in Germania in un campo solo per donne dal quale non tornò mai. Nel periodo della guerra ho portato giù a spalla dalla montagna un ragazzo che era morto. Anch’io ero giovane e potevo avere la sua stessa età. La guerra non porta mai a niente di buono, solo tanto dolore e tristezza. Le storie personali riferite al periodo bellico contribuiscono con indubbia efficacia a tratteggiare lo scenario storico e umano nel quale hanno agito le differenti personalità degli intervistati, disegnando il profilo di un’epoca ormai assegnata definitivamente alla memoria collettiva. Come si fa a sognare la vita ricordando l’esperienza di un lager? Un passaggio si distacca dal contesto con un significativo carattere di eccezionalità, di assoluta peculiarità, quando un giorno a Pandino, nel corso di uno dei numerosi incontri tra studenti e anziani, si apre, inaspettato, uno scenario di agghiacciante drammaticità quando l’anziano interlocutore annuncia di voler condividere con i suoi giovani ascoltatori la terribile esperienza da lui vissuta durante la guerra in uno dei più tristemente noti campi di sterminio nazisti, cosa che non aveva mai fatto prima di quel momento. Qualche attimo di silenziosa esitazione, poi la voce inizia a raccontare e in un silenzio carico di attesa si apre uno scrigno rimasto chiuso per oltre settant’anni, e ne sgorga l’indicibile dolore di stra129


zianti memorie che mai egli si era risolto a riferire. Il racconto procede senza soste, né incertezze, a voce bassa, ma piana, perfettamente udibile. Sono scene di orrore senza fine, di morte e degrado umano, di atrocità mai pensate. L’attonita fissità degli sguardi popola il silenzio profondo, inciso dalla voce vibrata di intensi toni emozionali dell’anziano narratore, la cui figura, contornata da palpabili sentimenti forti, appare come un oracolo arcaico, immobile flusso narrativo di incommensurabili tragedie, di innominabili crudeltà. Ma come è stato detto “solo la memoria dei testimoni può restituirci la verità del male radicale – nel doppio senso di sofferenza e malvagità – da essi soltanto sperimentato”69. Infatti il valore unico e incomparabile della memoria dell’anziano interlocutore consegnata ai ragazzi radunati intorno a lui risiede nel fatto che la pur giusta celebrazione della storia ufficiale, istituzionalizzata in forme sacrali, finisce col rendere sterile il messaggio a causa della percettibile lontananza di una realtà che rischia di divenire aliena. Al contrario la diretta comunicazione da parte di un testimone oculare, ha ricondotto il racconto nell’ambito della cronaca, perfettamente recepibile anche dal giovane ascoltatore dei nostri giorni grazie alla sua drammatica immediatezza, alla sua irriproducibile unicità. Proprio in questo risiede l’importanza dell’evento narrativo di Pandino, nella sua incisiva e sorprendente unicità. Come si fa a sognare la vita, ricordando l’esperienza di un lager?70 Quando si è poveri è difficile sognare Un ragazzo con un copricapo floreale che gli incorona la testa 69 G. Gozzini, “Lager e gulag: quale comparazione?”, In: AA.VV. «Lager, totalitarismo, modernità. Ideologia e storia dell’universo concentrazionario», Milano 2002, pg. 183. 70 Dichiarazione rilasciata da uno studente dell’Istituto Tecnologico e Commerciale “Luca Pacioli” all’incontro annuale, Sala Alessandrini, 17 maggio 2011, Crema.

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prende sottobraccio, con disinvolta eleganza, un’anziana signora anche lei ornata da un policromo e fantasioso cappello. Tutt’intorno volti allegri e sorridenti, l’atmosfera è percorsa da gaia serenità. Sono momenti di gioco tra un’intervista e l’altra, una memoria e un racconto. Il percorso descritto dal progetto “Raccontare per vivere” attraversa tutti gli aspetti significativi dell’esistenza umana, le emozioni e gli affetti famigliari, l’istruzione, il lavoro, le speranze, i sogni e i desideri, e il gioco, la festa e l’allegria collettiva come momenti di espressione e di scambio di emozioni. È la vita quella che scorre e freme tra gli sguardi vivaci e sorridenti, non più adolescenti e anziani, giovani e “vecchi”, ma solo persone che comunicano e si scambiano impressioni, sollecitazioni giocose, racconti e confronti. I ricordi degli uni divengono scoperte per gli altri. Negli occhi dei bambini delle elementari, a Trigolo, a Castelleone, raccolti intorno agli anziani, ad ascoltare le loro storie, si scorge lo stupore della scoperta del mondo. E gli anziani, il mondo che si racconta, disegnano scenari di espressionistica realtà nei quali al gioco si sostituiscono sogni e desideri, speranze segrete. Sono ricordi che si susseguono come in un dialogo teatrale, piccoli squarci di sensazioni antiche, di emozioni rapprese, intimità famigliari intrise di dolci tenerezze. Quando si è poveri è difficile sognare. Sì era possibile sognare ma i desideri non si realizzavano mai. Sognare e desiderare sono necessità allora come oggi, solo che un tempo tutto era più enfatizzato. Penso di aver lavorato troppo nella mia vita e di aver trascurato i sogni. Io sognavo di avere delle scarpe pesanti per l’inverno, invece avevo gli zoccoli e i miei compagni a scuola mi deridevano per questo. Per me gli zoccolo erano solo un segno distintivo della povertà 131


più assoluta. Mi ricordo ancora il piotu, la bambolina che mia madre aveva dotato di un piccolo guardaroba fatto a maglia. Da piccola a 7 anni avevo visto in una vetrina un piotu un bambolotto che mi piaceva tanto e ho sognato che S. Lucia me lo portasse in regalo e quando la mattina molto presto mi sono alzata per andare a vedere il cucina l’ho trovato in un lettino di legno fatto da mio fratello e con delle gallette, arance e la patuna. Se le bambole costituiscono un soggetto ricorrente nel ricordo dei desideri infantili, uno degli oggetti più comunemente desiderati era la bicicletta. La cosa che più ho desiderato avere nella mia vita, è stata una bicicletta da donna, perché ogni giorno per andare da casa a Cremona in bici da uomo provocava derisioni e scherzi in quanto non era considerato dignitoso per una ragazza. Io da ragazzo desideravo tanto una bicicletta da corsa e quando ho cominciato a lavorare da bergamino con i soldi che ho guadagnato l’ho comperata e nei momenti liberi dal lavoro ci andavo a correre lungo la Soncinese.” Io con la bici ci trasportavo i bidoni del latte dalla cascina dove lavoravo fino in paese. Io da ragazza andavo sempre in bici a lavorare alla Sorini. Bastava poco per divertirci e anche per ridere Un filosofo ha scritto che il gioco è il simbolo del mondo, suggerendo che gli adulti sovente guardano con malcelata invidia il gioco 132


dei bambini che attraverso di esso scoprono il mondo, lo esperiscono in forme soggettive, per esplicitarlo in azioni ed espressioni che definiscono le personalità individuali71. Ed in effetti uno degli aspetti più frequentemente analizzati nelle indagini antropologiche relative alle culture delle classi subalterne riguardava proprio la difficoltà, quando non l’impossibilità, di dare libero sfogo alla fantasia creativa infantile che si manifesta nel gioco. E tale condizione viene frequentemente rilevata anche attraverso le testimonianze raccolte tra gli anziani che sovente esprimono il rimpianto di una vita spensierata in campagna, dei giochi nelle cascine che costituivano l’unico orizzonte geografico di quelle infanzie. Io rimpiango i bei tempi passati quando si correva di cascina in cascina per giocare. Spesso si giocava a nascondino ed il posto in cui di solito mi nascondevo era il pagliaio e ne uscivo che sembravo uno spaventapasseri. Quando ero bambino correvo e mi divertivo come un matto, mi cacciavo sempre nei guai e nessuno veniva a rimediare a quel che combinavo, in qualche modo mi dovevo arrangiare. Con degli stracci arrotolati si faceva una palla e si giocava al calcio. Ma non c’era tempo per giocare, e spesso nemmeno per andare a scuola. Bisognava lavorare per aiutare in famiglia. Una varietà di giochi, a volte ingenui, altre industriosi, lippa, cirip e cirap, biglie, mundon (mondo), libero, rialzo, tiro alla fune, nascondino. Le biglie (borli) erano di creta, piombo o vetro e venivano utilizzate su percorsi realizzati nella terra o disegnati con gesso. Libero è stato giocato sino a tempi recenti e consisteva nel riuscire a toccare le braccia di una bambina ferma a metà strada tra due gruppi 71 E. Fink, “Il gioco come simbolo del mondo”, Roma 1969.

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di ragazzi pronti a scattare con le braccia aperte. Il gioco con la palla era uno dei più graditi e praticati, la palla poteva essere di stracci o di gomma e si giocava a piedi nudi perché quotidianamente si calzavano zoccoli, mentre le scarpe venivano utilizzate solamente la domenica. A noi bastava poco per divertirci e anche per ridere. Non avevamo il computer e neanche le discoteche, però avevamo tanti amici ed eravamo più buoni. Poco invidiosi perché tutti avevamo poche cose e pochi soldi ma ciò che non ci mancava era la voglia di stare insieme. Ricordo un gioco che facevo con i tappi delle bottiglie, oppure con i sassolini sopra i muretti, quelli dei marciapiedi, insieme agli altri bambini. Era una vera e propria gara. Ognuno aveva un tappo o un sasso e con le dita gli dava un ciocco, una spinta. Lo scopo era di fare andare più avanti il tappo senza farlo cadere dal muretto. Se cadeva si ripartiva da capo. Quante ore ho trascorso così da piccolo! Il bello è chele partite spesso non finivano perché tutti i sassi prima o poi cadevano, quindi si avanzava sempre di poco. In inverno quando nevicava era una festa. Si facevano più o meno gli stessi giochi che si fanno ora e si stava fuori il più possibile. In Val Brembana facevamo uno scivolo con le cassette delle patate e si scendeva lungo i pendii innevati. La neve era sempre un’occasione di festa per tutti. Si facevano pupazzi di neve, palle di neve, e si facevano veri e propri tuffi nel morbido manto nevoso. In questo senso poco è cambiato, solo che prima si indossavano i vestiti di sempre, prestando attenzione a non rovinarli, mentre ora nei negozi si trova qualsiasi cosa contro il freddo. Se una palla di stracci e un muretto bastavano a rendere felici i 134


ragazzi nelle campagne lombarde del secondo dopoguerra, i sogni, i desideri rincorrono le fantasie di un immaginario collettivo maggiormente complesso ed articolato. Un anziano confessa di aver sperato di diventare aviatore, e una anziana signora che invece voleva fare l’attrice, si è dovuta accontentare del palco dell’oratorio, mentre un altro, più modestamente, si è impegnato per diventare elettricista. Un sogno indicativo di una condizione subalterna è quello di un anziano che ha sempre desiderato andare a scuola, ma dopo la quinta elementare ha dovuto cominciare a lavorare come garzone da un fornaio, mentre un altro compensa la mancanza di prosecuzione del corso regolare di studi con letture varie, tra le quali Hemingway e Mario Rigoni Stern, un’altra ha dovuto abbandonare gli studi ai quali teneva tanto a causa della distanza tra la sua abitazione e la scuola che avrebbe dovuto frequentare. Si tratta di dichiarazioni che testimoniano le varie difficoltà sia economiche che strutturali della società provinciale agricola degli anni ’40-’50 del XX secolo, ma soprattutto denunciano un modello culturale diffuso in base al quale rinunce anche pesanti venivano accettate con rassegnata sottomissione a regole e consuetudini rispetto alle quali non sembravano esserci possibilità di reazione o di modifica. Anche trovare un mestiere adeguato da svolgere era un desiderio abbastanza diffuso: fare la sarta, il meccanico, elettricista, lavoratore in proprio Altre volte il sogno si ammanta di malinconia nel ricordo di un passato denso di calori domestici, soprattutto in occasione delle feste natalizie quando la famiglia si riuniva in armonia, per colorarsi poi di toni pessimistici considerando che oggi non si riesce a desiderare nulla perché abbiamo tutto e forse non vale nemmeno più la pena di essere felici. Prevale in genere il comune e forte sentimento del valore degli affetti famigliari, dei figli, della vita vissuta rettamente. Nelle valli bergamasche – riferisce una anziana signora – si sognava di diventare presto grandi perché non c’era tempo per essere 135


bambini. In montagna non si giocava, si andava a fare la legna e si facevano altri lavori e la sera si tornava stanchi a casa e subito a letto. Una volta la fatica non faceva paura, l’importante era avere da mangiare e stare bene in salute, poi tutto il resto era un di più. Per quasi tutta la mia vita ho suonato la fisarmonica. A quattordici anni ho iniziato ad andare a lezione dalla signora Jolanda. A lei ho lasciato quasi tutte le mie paghette. Dalla fisarmonica ho avuto molte gioie e c’è da dire che qualche soddisfazione ti aiuta a vivere. Altrove il tema del tempo libero, che già denuncia un ambito culturale aperto alle trasformazioni della società intervenute nei decenni sessanta e settanta del XX secolo, riflette uno stile di vita prettamente metropolitano. Avevo un grande hobby e l’ho coltivato finché ho potuto: amavo la montagna d’inverno e lo sci, con un gruppo di amici andavo sempre a fare le settimane bianche a Folgarida. Adesso, a causa della mia malattia, dipendo al cento per cento da mia moglie e sono io che ho pazienza e la ringrazio tutti i giorni per quello che fa per me. Mangiavamo polenta, patate e pane di meliga Seduti intorno ad un tavolo due studenti e due anziani, un ragazzo e una ragazza, un anziano e un’anziana signora stanno giocando una partita a briscola, e intanto l’anziana signora rievoca alcuni aspetti della sua vita trascorsa: avrebbe voluto studiare, ma ai suoi tempi, nei paesi di campagna, lo studio era un privilegio riservato ai maschi, così a lei furono destinate mansioni un tempo del tutto femminili come fare la camiciaia o la sarta. Ciò nondimeno lei ripensa al 136


suo passato con un sorriso, “la mia è stata una vita serena”, afferma quasi parlando a sé stessa. Un’affermazione densa di significato in un’epoca nella quale la sovrabbondanza consumistica sembra aver cancellato ogni desiderio e, forse proprio per questo, dilaga un’apatica insoddisfazione. Un altro tema abbastanza ricorrente è quello del cibo, del regime alimentare. Si tratta il più delle volte di semplici accenni che tuttavia permettono di collocare la testimonianza in un preciso contesto storicamente determinato. Le vicende del regime alimentare degli italiani, specie nelle campagne, sono ben note e documentate da un consistente letteratura sociologica e statistica. Tutti sono concordi nell’affermare che la seconda guerra mondiale ha portato gravissime perturbazioni in campo alimentare in Italia, i cui effetti sono stati maggiormente avvertiti nei territori rurali dove si abbinavano alle disagiate condizioni lavorative nelle campagne72. Come si diceva i riferimenti sono piuttosto scarni ma ben significativi. Durante la guerra avevamo tutti la tessera annonaria per ritirare gli alimenti. Si mangiava polenta, patate, pane di meliga73. I cibi che si mangiavano più spesso erano pane nero, che a dire la verità l’era prope gram, verdure dell’orto e polenta a colazione, pranzo e cena. La polenta non mancava mai perché costava pochissimo. Secondo le varie testimonianze, la polenta era il cibo quotidiano più comune, Si preparava una polenta morbida e la si condiva con 72 S. Somogy, “L’alimentazione dell’Italia unita”, in: AA. VV. «Storia d’Italia», vol. 5, “I documenti “, tomo II, pg. 865. 73 La meliga è il granturco, in dialetto cremasco melgot.

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verdure o quello di cui si disponeva, “noi eravamo in quattordici a tavole e c’erano quattordici polentine” racconta una signora a Pandino. La polenta era uno dei cibi maggiormente diffusi sino a qualche decennio addietro nelle campagne cremasche e nella maggior parte delle testimonianze compare come piatto forte e onnipresente tutto l’anno, grazie alla sua relativamente facile reperibilità, al suo basso costo e al fatto che poteva abbinarsi con un’infinità di alimenti. Inoltre nell’intreccio delle parole che si sovrappongono, si accavallano nella corale sintonia dei ricordi, si intravede un’altra costante: anche se le sostanze alimentari di abbinamento erano esigue, la polenta garantiva il senso di sazietà, donando quindi benessere. Come è stato affermato la polenta costituiva “un complemento capace di risolvere i problemi della fame e dell’appetito: la pulenta la cunténta”74. Infine l’importanza riservata all’alimentazione appare in tutta la sua evidenza da quanto riferito da uno studente dell’Istituto Tecnologico e Commerciale “Luca Pacioli” quando nel corso dello spettacolo di fine anno del progetto, il 17 maggio 2011, ha affermato “La prima cosa che ti chiedono è se hai mangiato, non come stai” Come si fa e si faceva una volta La quadratura del cerchio avviene nell’incontro tra bambini della classi elementari e anziani per parlare dei modi e delle attività agricole. Qui viene meno il ricordo di esperienze personali, l’argomento diviene essenzialmente tecnico e la trasmissione non è di memorie ma di saperi. Si visitano le stalle, si esaminano i prodotti della terra, gli anziani trasferiscono conoscenze tecniche, certo sottolineano differenze di metodologie operative, di tecniche e di procedure, ma sostanzialmente l’argomento resta invariato nel tempo. La cura delle mucche, 74 M. Lunghi, P. L. Ferrari, “La úcia dal casül. Il folclore cremasco visto dalla tavola”, Crema 2004.

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l’attività del bergamino, la coltivazione dei campi variano solo per il vestito che si indossa. Ciò che è realmente mutato è invece il rapporto tra le generazioni più giovani e la campagna, anche se vivono in prossimità di questa. Lo sviluppo economico e sociale degli ultimi cinquant’anni ha determinato il progressivo allontanamento dell’uomo dalla campagna, vissuta prevalentemente nella forma astratta dell’idealizzazione pubblicitaria. Il dialogo tra bambini e anziani assume quindi un esplicito valore di funzionalità didattica. Se anche, di tanto in tanto, affiora il distinguo “una volta si faceva così, oggi invece…”, resta tuttavia invariato il valore di trasmissione di cognizioni, consapevolezze che colma ogni distanza tra il tempo metropolitano della nostra cultura e le forme della ruralità e della campagna. I bambini delle elementari vengono accompagnati in visita alle stalle, a prendere visione dei sistemi di governo delle mucche. L’anziano con le sue parole ricuce gli strappi del tempo. C’erano galline, mucche, conigli, cavalli e c’era anche un toro ma senza corna perché gliele avevano tagliate. Questa uscita è stata a dir poco meravigliosa!75 Un anziano agricoltore, mostrando del grano in un cesto, racconta della semina, delle mietitura, del raccolto: i metodi cambiano, il risultato resta invariato, è il pane, sono i prodotti agricoli che ognuno di noi consuma. Più tardi, su una grande tavola, bambini e anziani, gli uni accanto agli altri, preparano la pasta sfoglia, uova, farina, sale, i gesti e le manualità nell’impastare si confondono, si assimilano. Qui nella grande cucina collettiva, le età si annullano, ci sono solo persone che insieme collaborano per un comune risultato, preparare l’impasto del pane, fare la pasta, gesti di sempre che annullano ogni età perché sono di oggi come di ieri. 75 Commento di una bambina, alunna di quinta elementare di Castelleone, dopo la visita da una stalla in cascina, guidata da un gruppo di anziani.

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Qui, in questo scenario sereno e solidale, il progetto “Raccontare per vivere” ha vissuto una delle sue più espressive sintesi. Il canto rendeva più leggere le giornate Il concetto di festa appare generalmente estraneo ai ricordi degli anziani intervistati, sia per la scarsità di eventi festivi, sia per il fatto che esisteva una rigida separazione tra ciò che poteva fare un uomo e quello che era concesso ad una donna che prevalentemente, al di fuori degli impegni di lavoro, era confinata in casa giacché non sarebbe apparso corretto e dignitoso che uscisse da sola o con amiche. Inoltre su tutto e al di sopra di tutto pesavano le difficili condizioni economiche che non rendevano quasi mai possibile pensare a qualche svago al di fuori della normale quotidianità. La musica era gradita anche all’epoca, negli anni ’30 e ’40 del XX secolo, e veniva trasmessa dalle prime radio che peraltro erano abbastanza rare in quanto molto costose. Gli anziani in molti casi hanno narrato della grande emozione che li aveva colti la prima volta che avevano visto un apparecchio radiofonico. Non sembrava vero che da una scatola di legno e metallo potesse uscire della musica, ed io ero così felice che mi mettevo a ballare da sola in cucina. E in assenza di radio, dal momento che, com’è stato sottolineato da molti, al suo apparire questa costituiva un oggetto da ricchi e nelle classi subalterne sino al dopoguerra non era molto diffusa a causa del suo costo elevato, si cantava tutti insieme mentre si lavorava nei campi, perché, come ha affermato una anziana signora “il canto rendeva più leggere le giornate” oppure nelle stalle durante le serate trascorse in comune. Nelle stalle, la sera, si preferiva narrare le pastoce, le storie, mentre alcune lavoravano a maglia ed altri giocavano a carte, ma tutto si svolgeva in un sottofondo di voci basse, quasi bisbigliate. 140


Nella stalla non si poteva fare molta confusione perché altrimenti le mucche avrebbero prodotto meno latte. Nella costante scarsità di divertimenti, eventi piacevoli, distrazioni dal lavoro e penuria di mezzi economici, le feste istituzionali costituivano i momenti di raduno famigliare ricco di emozionante intimità. Il Natale era naturalmente la principale di queste ricorrenze festive e costituiva un appuntamento carico di valori simbolici e di credenze collettive. Ogni anno facevo l’albero insieme alle mie sorelle ed era un vero momento di festa. I nostri genitori attaccavano anche qualche cioccolatino ma mia sorella ogni tanto ne mangiava uno e arrivavamo al giorno di Natale che non ce n’erano più. Tutti gli anni facevo l’albero di natale in cortile e il presepe in un angolo della casa. In casa preparavamo un piccolo albero di natale vero. Quando si poteva ci mettevamo su anche dei dolcetti che io mangiavo sempre prima, era dura resistere! Ricordo che per Natale veniva a trovarci uno zio di mia mamma. Veniva a piedi da lontano. Fa conto che io abitavo a Crema e lui arrivava da una cascina vicino a Capralba, ne aveva di strada da fare! Anche lui ci teneva a vederci perché altrimenti con il freddo che c’era, chi glielo faceva fare di percorrere tutta quella strada?Lui di professione faceva il campeer76 e aveva sempre molte storia da raccontare ed io ero affascinato da ciò che diceva. Faceva tanto freddo e noi non eravamo vestiti adeguatamente 76 Era l’addetto alla gestione dei fossi, deviava il corso dell’acqua in base ai turni di irrigazione dei vari poderi, infine teneva puliti i fossi, utilizzando i residui come concime nei campi.

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però ritornerei a quei tempi solo per rivivere l’atmosfera che si veniva a creare quando si aveva modo di stare insieme. Una variante comunemente diffusa nelle campagne era costituita anche dall’allestimento del presepe che comportava una complessa ricerca di materie prime e di progettazioni sceniche. Tra queste la ricerca del muschio era una delle principali. Generalmente la ricerca iniziava ai primi di dicembre e si svolgeva nei luoghi più umidi dove il muschio cresceva più abbondante e rigoglioso. Andavo a raccogliere quello che si trovava nei punti più alti dei muri di Crema. Era difficoltoso arrivarci quindi io e i miei amici ci siamo un po’ arrangiati escogitando un sistema particolare: prendevamo una canna di bambù e vi inserivamo un rampino da un lato per innalzare il muschio. Il risultato non era sempre ottimo però era un divertimento e un po’ di muschio lo si riusciva sempre a raccogliere. Ogni anno facevo il presepe in casa e lo mettevamo sopra un mobiletto. Era molto bello e la capanna me l’aveva preparata in legno un amico di famiglia. Le statuine invece erano in gesso. Mi è durato per tantissimi anni e ce l’ho ancora presente davanti ai miei occhi. La festa di capodanno invece non ricorre particolarmente nei ricordi degli anziani. Si tratta infatti di una festa interpretata più in senso consumistico che di comune condivisione partecipativa. Non mancano tuttavia alcune testimonianze che rivestono un particolare valore documentativo sia sul piano strettamente antropologico che su quello più generalmente sociologico. Ricordo che prima di partire per la guerra sono andato a mangiare a casa di un amico. Abbiamo mangiato tanto: antipasti, tortelli e arrosto ma questo era perché ognuno aveva portato qualcosa da casa sua. Ricordo che ero a casa di questa famiglia com142


posta da quattro sorelle che parlavano solo loro. Anch’io festeggiavo. Mia mamma andava a comperare i pasticcini e la frutta secca. Poi aspettavamo la mezzanotte per fare il brindisi Sovente la già richiamata discriminazione di genere determinava festeggiamenti separati per maschi e donne perché, come ricordano due anziane signore, i genitori non volevano che ci fosse promiscuità durante le feste in quanto si rischiava di commettere “i peccati del desiderio” Stavamo tutti nella stalla e stavamo bene Generalmente le memorie concordano sul fatto che nei giorni di fine dicembre faceva sempre molto freddo ma ciò che contava era stare un po’ insieme, trascorrendo il tempo in allegria. Ognuno portava del cibo e talora c’era chi suonava la fisarmonica, e comunque si cantava sempre tutti insieme. Nell’attesa della mezzanotte si usava recarsi nelle stalle per ascoltare le storie e a giocare a carte, e a volte c’era anche un cantastorie. A mio papà piaceva leggere e la sera raccontava ciò che aveva imparato dal libro e ne riassumeva le storie. Stavamo tutti nella stalla, con i vestiti di sempre, ed eravamo illuminati dalla lampada a petrolio oppure ad olio. Oltre al caldo c’era anche un bel po’ di puzza ma nessuno ci faceva caso perché eravamo tutti nella stessa condizione. A parte questo però stavamo bene. Noi non festeggiavamo l’ultimo dell’anno, però era una bella occasione per trovarsi in famiglia e se andava bene con degli amici a mangiare polenta e uccellini. 143


Le bambine erano tutte vestite come sposine Non mancano le memorie relative ad alcuni riti di passaggio prevalentemente legati alla fede religiosa. In particolare la prima comunione sembra costituire l’evento più frequentemente richiamato nelle narrazioni degli anziani. Si trattava di un passaggio molto importante nella vita dei bambini che richiedeva una particolare e puntuale preparazione che aveva inizio parecchi giorni prima dell’evento. Alcuni anziani hanno riferito che partecipavano agli incontri di preparazione dottrinaria di mattina, mentre altri vi si recavano nel pomeriggio. Questi incontri erano tenuti da suore, preti o anche dalla stessa maestra di religione. Durante la dottrina ci venivano date delle particole non ancora consacrate e ci veniva detto come mangiarle. Non si poteva assolutamente masticarle e bisognava in tutti i modi evitare che la particola toccasse i denti perché era sacra, era il corpo di Cristo. La sacralità della celebrazione del rito non evita tuttavia sorridenti ricordi di piccoli incidenti sopravvenuti nel corso della preparazione dottrinaria e della celebrazione del rito. Alle volte la particola si incollava al palato e non riuscivamo più a toglierla. C’era da ridere perché con la lingua spingevamo ma non c’era niente da fare! Casa mia distava tre chilometri dalla chiesa e il giorno della comunione, come sempre, li abbiamo percorsi a piedi. Avevo tanta fame e anche sete ma non potevo né mangiare né bere. La messa per di più è stata lunga. Di quel giorno ricordo che, mentre tornavamo a casa, la mia mamma si è fermata dal fornaio e mi ha comprato un pezzo di pane con l’uva per rimediare al lungo digiuno della mattinata. Era buonissimo. Dopo la messa siamo andati a casa del prete che ha offerto un pic144


colo rinfresco. C’era anche del vino e io ne ho bevuto un goccino. Ricordo che tutti mi guardavano e dicevano: guarda che occhietti lucidi che ha la Domenica! Sembravo ubriaca. L’importanza del rito di passaggio comportava un adeguato abbigliamento. Per l’occasione tutte le bambine erano vestite di bianco con le gonne più o meno lunghe, ma tutte vestite come delle sposine, con tanto di velo. Festeggiamenti per l’occasione nelle case non erano frequenti, anche se qualcuno ricorda che in quel giorno la tavola veniva apparecchiata con maggiore cura e un’anziana signora rammenta che sua madre usava la tovaglia bella di Fiandra, quella delle grandi occasioni. Altri riferiscono che venivano imbanditi piatti particolari, alimenti che non venivano utilizzati ogni giorno, come la torta paradiso o i chisoi, piccole frittelle dolci o la salsa verde genovese della madre di un’altra intervistata. Me la sogno ancora! Ci metteva il prezzemolo, le acciughe, la mollica di pane bagnata nell’aceto, un po’ di sale e del buon olio. Non mi è più capitato di mangiarne di così buona. Poi come dolce aveva preparato anche la cioccolata calda. È stata una bella festa, semplice ma non mi mancava nulla in quel momento perché stavo bene, ero serena e questo è stato il regalo più grande per me. Una festa di genere, tipicamente femminile, era quella celebrata il giorno di S. Agnese che cade il 21 gennaio. Si trattava di una giornata di festa per tutte le ragazze che avevano occasione di divertirsi e divagare dagli impegni quotidiani, specie in riferimento al fatto che, come già detto, alle ragazze non era concesso divertirsi al di fuori dell’ambito famigliare a differenza di quanto avveniva per i ragazzi. Anche i compleanni costituivano a volte una ricorrenza celebrata festosamente. A casa mia eravamo tre sorelle e mia mamma ci teneva a darci un segno di questa festa. Preparava la torta Monte Bianco con tanta panna sopra e poi i ciuchin, le castagne secche. 145


Io ho un piacevole ricordo dei miei primi compleanni perché quando ero piccola in occasione di questa ricorrenza la mia madrina del battesimo mi faceva un pensiero: una copertina, una bambolina, un vestitino. Io ero fortunata perché la mia famiglia si poteva permettere qualcosa in più rispetto agli altri. Mia mamma mi preparava delle merende speciali e invitava a casa delle amiche. Poi andava fino a Crema a comperare un paio di scarponcini per me e per le mie sorelle così in inverno non avevamo freddo ai piedi. Inoltre, ho frequentato la scuola delle Suore Canossiane. C’era un grande salone dove in occasione dei compleanni venivano fatte delle farse, delle recite. Alle volte per avere ciò i genitori dovevano pagare qualche cosa alle suore. Una circostanza non certo comune. Spesso le condizioni economiche, la mentalità e la cultura soggettive producevano forme di rifiuto di ogni eccezione alla consueta quotidianità. Per le feste non c’era tempo. Erano tempo perso, soldi persi e lavoro non fatto. Per il mio compleanno non mi facevano neanche gli auguri. Era già una fortuna che ci fosse la minestra in tavola. Una volta per il compleanno raramente ci venivano regalati dei giocattoli, non avevamo neppure i vestiti. Il lungo sentiero tra vivaci e pensose polifonie della memoria ha costruito il significato di un discorso intersoggettivo che ha fatto emergere nostalgie, emozioni, passioni a lungo represse, sorrisi di serena allegria e spunti per interessanti approfondimenti tematici. Le impressioni comunicate dagli alunni e dai giovani studenti degli istituti scolastici di Crema e del Cremasco, unitamente alla cospi146


cua messe di memorie e testimonianze storico antropologiche hanno sviluppato una articolata costruzione del significato storico e della mutazione del senso nell’approccio al mondo. E ciò è avvenuto grazie alla capacità espressa dai diversi attori del progetto “Raccontare per vivere” di rappresentarsi e di agire donando significato ai vari comportamenti ed alle esperienze sensibili.

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V. Un mosaico caleidoscopico

Il Convegno del 10 settembre 2012 Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro Al fine di condurre un consuntivo preliminare dei lavori a tre quarti del percorso progettuale, e tracciare le successive linee evolutive sulla base delle considerazioni raccolte, il Centro Ricerca “A. Galmozzi” ha organizzato a Crema, nel settembre del 2012, un convegno che ha visto la partecipazione di tutte le rappresentanze degli attori che fino a quel momento avevano operato nel progetto “Raccontare per vivere”, studenti, docenti, animatori sociali, esperti e tecnici, oltre a rappresentanti della Tavola Valdese delle amministrazioni locali ed istituzioni pubbliche. L’incontro è stato realizzato in collaborazione con la Fondazione Benefattori Cremaschi nella cui sala della RSA di via Zurla si sono svolti i lavori. Come si è già accennato nelle pagine precedenti, ogni annualità aveva visto, alla fine dei lavori, la celebrazione di una festa conclusiva con il coinvolgimento di tutti gli istituti scolastici partecipanti, degli insegnanti, degli anziani della RSA Fondazione Benefattori Cremaschi, gli animatori sociali, e le rappresentanze istituzionali che, tutti insieme “hanno dato vita ad una nuova esperienza intergenerazionale destinata a rimanere nella memoria dei partecipanti come momento

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formativo e come proposta per una cultura della condivisione”77. Ma in particolare il Convegno del 10 settembre 2012 ha permesso di approfondire, in un clima di attento e partecipato dibattito, alcuni aspetti scientifici e culturali attraverso i quali individuare le forme e le ipotesi di continuità, dell’esperienza raccolta nel corso del primo triennio, che si aprono a nuovi approcci socio antropologici, psicologi e geriatrici che sono stati illustrati nelle pagine introduttive di questo libro. Nel corso del convegno sono state presentate alcune relazioni sull’andamento del progresso dei lavori progettuali, sul livello di partecipazione e sugli aspetti maggiormente significativi emersi durante il triennio. Come è stato precisato nella relazione presentata dalla Fondazione Benenefattori Cremaschi, in ciascuna delle tre edizioni del progetto gli studenti hanno partecipato a due momenti operativi, di conoscenza e scambio di informazioni e di interviste effettuate con gli anziani, realizzando una dimensione profondamente umana e contribuendo alla nascita di nuove sensibilità e consapevolezze nei confronti della vecchiaia e dei suoi valori. Il rilievo dell’impegno profuso dai partecipanti al progetto trova esplicita testimonianza nell’adesione delle tre quinte classi della Scuola elementare “Stentati” di Castelleone che nel corso di tre anni di lavori hanno incontrato gli ospiti della Fondazione G. Brunenghi, affrontando tematiche diverse, da “cosa si mangiava una volta” a “i lavori”, “i giochi”, “i sogni”. Gli incontri tra bambini e anziani erano finalizzati a far conoscere e comprendere la figura umana dell’anziano che, attraverso il racconto delle proprie esperienze di vita, può divenire protagonista attivo dell’oggi, oltre che testimonio di cultura. Inoltre l’incontro intergenerazionale può contribuire alla formazione di atteggiamenti solidaristici e cooperativi. L’aspetto maggiormente positivo, come è stato rilevato nella re77 G.P. Foina, C. Brambini, “Relazione”, Fondazione Benefattori Cremaschi Onlus, «Convegno Raccontare per vivere. Volti, momenti e memorie di tre anni di lavoro», Crema 10 settembre 2012.

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lazione presentata al Convegno dai rappresentanti della Fondazione “G. Brunenghi” di Castelleone, consiste nella constatazione del visibile apprezzamento espresso da parte degli alunni che si è tradotto in attiva partecipazione alle fasi di realizzazione del progetto. Analogo apprezzamento è stato espresso dagli altri interventi di studenti e insegnanti degli istituti scolastici coinvolti, i contenuti dei quali sono stati riportati nei capitoli precedenti. L’importanza dell’incontro è consistita nella corale presa d’atto che, pur sottolineando l’esigenza di aggiustare il tiro per meglio cogliere alcuni aspetti di rilievo, è assolutamente auspicabile che tale esperienza non termini con il compimento del progetto che invece va interpretato come una sorta di cantiere aperto e dai confini non preventivamente delineati, in modo da generare una positiva e continuativa azione dinamica all’interno della società per il superamento di deleteri luoghi comuni e la creazione di reticoli di solidarietà e condivisione sociale in grado di uscire dai confini delle RSA. Una visione che ha trovato conferma nelle parole pronunciate in questa occasione dal Sindaco di Crema Stefania Bonaldi la quale ha suggerito l’ampliamento dell’ottica progettuale ai numerosi anziani non istituzionalizzati che vivono sovente in condizioni di precaria e indifesa solitudine. In conclusione sembra di poter affermare con una buona dose di approssimazione che l’impressione che si traeva al termine dell’incontro era una sorta di francescana indicazione di accogliere e apprezzare l’altro senza avere la pretesa di migliorarlo o di cambiarlo ma col proposito di comprenderlo e amarlo per come egli è, senza esprimere alcun giudizio, ma articolando solo programmi e progetti da realizzare insieme. Era proprio un’indicazione universalmente valida per la società postmoderna. Il paradigma invertito A partire dal secondo dopoguerra si sviluppa un intenso processo 151


di concentrazione demografica nei grandi centri urbani, mentre in un secondo momento, nel corso dei primi anni ’70, il movimento demografico inverte la sua tendenza e si verifica un forte deflusso di popolazione dalla grandi città verso il territorio. È bene ricordare qui che abitudini di consumo e stili di vita si diffondono soprattutto per contatto e per imitazione, dunque il doppio movimento sviluppatosi nel corso del trentennio ’50-’70 ha svolto una funzione strategica in direzione del frammischiamento culturale, di usi e costumi che nel decennio precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale fino all’inizio degli anni ’60 risultavano nettamente differenziati tra città e campagna. Tale movimento demografico ha svolto negli anni una funzione detergente rispetto a consuetudini e tradizioni radicate sul territorio, provocando ibridazioni che in seguito sono risultate utili in funzione di una generale omogeneizzazione di comportamenti sociali, culture, mentalità e stili di vita, requisito essenziale per la regolare diffusione dell’economia consumistica. L’appannamento di consuetudini e modalità di vita proprie della provincia agricolo-artigianale non fu certamente né immediato né radicale, ma si sviluppò per tappe successive anche in relazione alla diffusione di un diverso iter scolastico che determinò la generale integrazione in un sistema di vita affatto nuovo rispetto alla memoria, a volte recentissima, di chi era rimasto legato alla tradizione. Ma poiché i nuovi consumi miravano più a cancellare la vecchia cultura pre-industriale e provinciale piuttosto che introdurre nuovi modelli di vita, proponendo prodotti appetibili solo per il fatto di essere nuovi, di costituire una novità, il conseguente mutamento degli orientamenti culturali, oltre a un’accresciuta capacità critica nei confronti delle proposte di consumo, anche a seguito dei più recenti e ricorrenti eventi di congiuntura economica negativa, ha determinato, a lungo andare, l’attenuazione delle tendenze consumistiche a tutto vantaggio delle culture d’origine. “Si ritorna ai luoghi d’origine ma con un diverso orientamento culturale e una diversa concezione del mondo”. Sullo scorcio del XX secolo si assiste alla redistribuzione demo152


grafica sul territorio, al recupero dei valori tradizionali, troppo frettolosamente accantonati qualche decennio prima, recuperando le culture locali, gustando i pregi dell’ambiente e del paesaggio, in una rinata mentalità ecologica allargata all’intero scenario esistenziale78. Questa è la cornice storico-sociale degli anni nei quali in larga prevalenza vanno inserite le testimonianze raccolte nel corso del progetto “Raccontare per vivere” e che riguardano in alcuni casi gli anni immediatamente precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale (anni ’30 del XX secolo) e in misura maggiore memorie del periodo bellico e del dopoguerra con alcune punte negli anni del boom economico nazionale. Un arco di tempo che in qualche caso allunga le sue propaggini fino a tempi assai vicini a noi e che proprio per questo ospita testimonianze e memorie estremamente variegate sia quanto a clima culturale e a stili di vita che in riferimento a propensioni e desideri. Basti pensare che, come si è potuto notare nelle pagine precedenti, si passa da condizioni di forte indigenza a situazioni di relativo benessere, dai sogni e desideri che riconducono all’immaginario infantile della più tradizionale cultura contadina, ai modelli di vita ispirati a comportamenti “urbani”, come i lavori nelle fabbriche, nelle industrie collocate nell’area metropolitana milanese. Si registrano memorie che riverberano l’insoddisfatta nostalgia di ciò che si sarebbe voluto fare rispetto a ciò cui ci si è dovuti adeguare nella realtà, e racconti dai quali promana una soddisfatta sazietà esistenziale, dalla sorridente commedia dei ragazzi che vanno a ballare nelle balere con le loro morose, sfidando i rigori della morale materna, si passa alla spensierata espressione di benessere consumistico nelle gite sciistiche con amici a Folgarida. Una vivace e vibrante polifonia di ricordi e memorie di vita che non esclude nemmeno la soddisfatta testimonianza di una ex cover girl, e dalla quale emerge il profilo di un mondo rurale e provinciale 78 G. Ragone, “Consumatori con stile”, in: AA. VV. «Tra sogno e bisogno. 306 fotografie e 13 saggi sull’evoluzione dei consumi in Italia. 1940-1986», Milano 1986, pg. 238-240.

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in rapida trasformazione, che si apre a stili di vita e comportamenti sociali uniformi (almeno apparentemente) con quelli della grandi centrali metropolitane. Un mondo che peraltro non risulta oggi così lontano dalla nostra mentalità e dalla cultura postmoderna, in parte grazie al forte processo di ritorno all’ambiente di qui abbiamo già detto, in parte però al progressivo rigetto del modello consumistico suggerito nel corso degli anni Settanta che, alla fine dei fatti, non è risultato congruo e coerente con tradizioni culturali più che millenarie. Misurato in questa ottica il progetto “Raccontare per vivere” trova il suo più ampio riconoscimento non solamente per aver prodotto un fruttuoso rimescolamento intergenerazionale, ma soprattutto per aver interpretato la diffusa esigenza culturale di riannodamento del discorso storico più o meno recente, dimostrando inoltre che la tanto conclamata differenza dei cosiddetti nativi digitali rispetto a modelli culturali e di vita vecchi solo di una ventina di anni, lo sbandierato strappo epocale, pane quotidiano di una sociologia tanto banale quanto fuorviante, non sono che fantasmi di una realtà che di fatto dimostra un’aderenza insospettabile alla radicalizzazione del rapporto tra persone. A questo punto non esiste più alcuna differenza di età, di cultura e di abitudini di vita in quanto proprio la cultura postmoderna opera la cancellazione delle differenze in direzione di un concerto globale di persone-mondo, espressioni soggettive di vita. In questo quadro le memorie delle persone intervistate nel corso dei quattro anni di progetto non costituiscono un reperto folclorico di un passato più o meno recente che si suppone ormai tramontato, ma sono una viva testimonianza di persone che agiscono oggi in questa società, che ne costituiscono una porzione importante e vitale al fine di conservare il filo dell’evoluzione delle antropologie umane. In questo modo il progetto “Raccontare per vivere” ha prodotto l’inversione del comune paradigma sociologico basato sulla inconciliabile diversità tra nativi digitali e persone d’altri tempi.

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Conclusione o premessa? Giunti al termine di questo lungo viaggio attraverso le rievocazioni di settant’anni di vicende quotidiane di vita italiana non sembra proprio di dover apporre la parola “fine”. Finisce lo scritto che, come tutti i libri, ha una sua ben precisa cornice spaziale e temporale. Ma il progetto “Raccontare per vivere”, non finisce qui, non ha termine, anzi tutto quanto fatto, agito, detto e scritto sinora sembra proprio costituire un’anticipazione, una premessa, anzi forse proprio un inizio. Una volontà, prima ancora che una speranza, che affiora qua e là nelle testimonianze sopra riportate e che è stata espressa con chiarezza nell’incontro del 10 settembre 2012. Il progetto quindi si trasforma in un cantiere aperto nel quale l’interazione dei diversi soggetti coinvolti produce nuove prospettive di sviluppo, ampliamenti di orizzonti operativi, di scenari possibili da esperire, visto che “nel terzo millennio l’attualità si è trasformata in attuabilità, tutto diviene fattibile e accettabile”79. Del resto il carattere proprio al progetto “Raccontare per vivere” esprimeva già nelle precedenti annualità la sua natura di permanenza, di implicita continuità, dal momento che si è sempre e in ogni caso trattato di un dialogo e il dialogo non va mai interrotto. D’altra parte, un mondo come quello attuale dove tutto è possibile fa nascere l’ipotesi della sua domesticità, cosa che Ernesto De Martino aveva già previsto e auspicato in anni ormai lontani,80 e incontrarsi o ritrovarsi in un ambiente domestico e famigliare favorisce la prosecuzione del dialogo, dello scambio intersoggettivo anche in ambienti altri rispetto a quelli sinora esplorati. In questo senso la trasmissione orale di eventi e avvenimenti, di fatti quotidiani e di aspetti della vita materiale collettiva, costituisce una lettura antropologica dell’avvenimento che tende “a restaurare il 79 S. De Matteis, “Panorami del nuovo millennio:la società del possibile, il declino del rito e la democrazia incompiuta”, in: U. M. Olivieri, «Un canone per il terzo millennio», Milano 2001. 80 E. De Martino, “Naturalismo e storicismo nell’etnologia”, (1941), Lecce 1996

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carattere di totalità contro la specializzazione crescente, che comporta la perdita di senso e di utilità” della storia81. Infatti la storia orale si inserisce a pieno titolo nella storia evenemenziale esaltando il ruolo dei fatti individuali e facendosi strumento per la comprensione dell’interno delle situazioni, per la radiografia delle mentalità, registrando elementi sottili e spesso minimi di analisi socioantropologia della cultura e della società in un determinato contesto ambientale ed economico82. Sotto questo profilo, il progetto “Raccontare per vivere” assume uno spessore di indagine antropologica e storica che oltrepassa i pur ampi e articolati confini operativi e strumentali previsti originariamente, per navigare nei mari ampi delle scienze sociali con l’accertata autorità di uno strumento di ricerca multiorientato e interdisciplinare, utile per approfondire l’indagine in diverse direzioni. “Raccontare per vivere” come cantiere aperto può dunque divenire consuetudine, azione proseguita nel tempo, prodotto di autogenerazione continua, di costante interesse culturale e sociale. Sembra di dover rammentare quanto scritto agli inizi di questi anni 2000, allorché lo scenario del melting pot culturale, antropologico, e sociologico europeo suggeriva la considerazione che “niente di più affascinante e di più tremendo poteva accaderci: il superamento della condizione rituale nell’ebbrezza di una libertà senza schemi e senza limiti, senza barriere e senza ostacoli”83. Superando il concetto tipicamente moderno del passato inteso come rimpianto ma evitando di considerare il presente come caduta, la filosofia del progetto “Raccontare per vivere” esprime tutta la tensione verso un futuro di persone che formino una società di persone, oltre ogni schema consueto, ogni discriminazione, ogni emarginazione e distinzione sociale. Quando ero bambino volevo diventare grande ed ora vorrei di81 L. Passerini (a cura di),“Storia orale”, Torino 1977, pg. VIII. 82 J, Vansina, “La tradizione orale”, Roma 1976. 83 S. De Matteis, “Panorami del nuovo millennio…”, cit. pg. 47.

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ventare piccolo. (Dichiarazione di un anziano rilasciata nel corso di un incontro)

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