La Russia dopo il Muro

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

Presidente

Gianfranco FINI

fini@farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

La Russia torna a dividere l’Europa La Russia dove il Muro

Farefuturoèunafondazionediculturapolitica,studieanalisisocialichesiponel’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturosiproponedifornirestrumentieanalisiculturalialleforzedel centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa,contribuirealsuoprocessodiintegrazione, affermareunanuovaevitalevisione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazioneapertaalcontributodituttiesiavvaledell’operatecnico-scientifica edell’esperienzasocialeeprofessionaledelComitatopromotoreedelComitatoscientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

urso@farefuturofondazione.it

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Direttore Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE mellone@farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno III- Numero 18 - settembre/ottobre 2009

Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale –70% - DCB Bologna

Segretario amministrativo

LA RUSSIA DOPO IL MURO

Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno III - n. 18 - settembre/ottobre 2009 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Il rapporto con la Russia ha sempre diviso l’Europa. E d’altro canto anche la Russia è sempre stata divisa tra l’Europa e l’Asia. Quando Pietro il Grande decise oltre tre secoli fa di fondare prima San Pietroburgo per aprirsi all’Europa e subito dopo Ekaterimburg per offrirsi all’Asia, sancì che il suo impero avrebbe avuto due anime nei due continenti dell’antichità. Oggi la Russia si sente più europea ma cresce più in Asia; ha riscoperto la cultura ortodossa ma ha la sua forza nel sottosuolo della Siberia: la regione del mondo in cui vi sono i più significativi giacimenti di energia e materie prime, ancora in gran parte non utilizzati e a cui guarda da sempre la Cina. L’Europa ha subito la Russia nell’ultimo secolo, si è divisa per essa e da essa è stata divisa. La metà occidentale e l’altra orientale; liberale o comunista; la Germania divisa in due, l’Italia in qualche misura anche. Vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che divideva ideologicamente anche l’Italia, i due paesi ch’erano allora di frontiera sono diventati, e non certo per caso, quelli più propensi a costruire un nuovo rapporto con la Russia. Germania e ItaL’Europa ha subito la Russia nell’ultimo secolo lia sono stati sino all’89 le due frontiere d’Europa nei confronti del si è divisa per essa mondo comunista e per questo, e da essa è stata divisa anche per questo le più fidate alleate di Washington, in qualche misura considerate a “sovranità limitata”. La terza frontiera era difesa dalla Turchia laica dei generali atlantici, oggi meno laica e un tantino anche meno atlantica ma anch’essa consapevole che con la Russia occorre trattare, convivere e se possibile costruire. Di qui la politica di Erdogan favorevole anche essa al nuovo corridoio energetico South Stream, pacificatore nei confronti dell’Armenia, pronto agli accordi commerciali con Mosca. Germania, Italia e Turchia sono anche i partner europei più significativi della Russia, primi nella dipendenza energetica ma anche primi nell’export di macchine e prodotti. Con migliaia di imprese impegnate nella terra d’Oriente, in un’economia che si intreccia ogni giorno di più. Non deve quindi stupire che la Germania come tale (e non solo l’ex cancelliere Schroder) sia favorevole al North Stream, il gasdotto che aggira Paesi baltici e Polonia (profondamente antirussi) per rifornire il nord d’Europa,


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO III - NUMERO 18 - SETTEMBRE/OTTOBRE 2009

A CURA DI BRUNO TIOZZO

La Russia dopo il Muro

ROMA

Le riforme possibili. Le riforme necessarie 30 settembre

La Russia torna a dividere l’Europa ADOLFO URSO - EDITORIALE Il cuore d’Europa batte ad est - 2 PIERLUIGI MENNITTI L’uomo che ha costruito una Germania di pace - 14 WILHELM STAUDACHER «Io, il Muro e Gorbaciov, l’uomo del cambiamento» - 22 INTERVISTA A GIANNI DE MICHELIS di DOMENICO NASO

Dobbiamo allearci con la Russia per difenderci dallo strapotere della Cina - 124 INTERVISTA A FRANCESCO FORTE di BARBARA MENNITTI La Russia muscolare di Vladimir Putin - 130 STEFANO GRAZIOLI Una ripresa economica fondata sull’energia - 138 EMANUELA MELCHIORRE

In occasione della presentazione del fascicolo nu-

necessarie” con Renato Brunetta, ministro della

MONTREAL

Pubblica amministrazione, e Enrico Letta, già mini-

Toward a comprehensive economic partnership agreement between Canada and the European Union. Cena di gala del Fraser Institute. Interviene Jean Charest, Primo ministro del Quebec, con un discorso in favore di rapporti commerciali più stretti tra Canada e l’Unione europea. Giovedì 1 ottobre

stro dell’Industria. Interverrà Adolfo Urso.

La dolce vita russa sulle sponde del Tamigi - 150 SILVIA ANTONIOLI

9 ottobre

Serve una Biopolitica STRUMENTI Viaggio alla ricerca della nuova Europa - 158

Konrad Adenauer Stiftung, organizza un workshop pone di approfondire i temi all’ordine del giorno nel dibattito sulla bioetica e come la politica si debba rapportare ad essi.

La Russia traccia il suo futuro fra Asia ed Europa - 60 GIULIANO FRANCESCO Le troppe incognite del Cremlino - 70 GUIDO LENZI

ASOLO

I vent’anni di una transizione triplice - 80 INTERVISTA A VIKTOR ZASLAVSKY di FEDERICO BRUSADELLI

L’immigrazione e le sfide dell’integrazione

Italianieuropei organizza un workshop sul tema dell’immigrazione e sulle soluzioni per una migliore integrazione. Il seminario ha come obiettivo l’analisi

La via italiana all’energia - 117 ALFREDO MANTICA

approfondita della questione e degli aspetti che portano gli extracounitari a intraprendere i cosìdetti “viaggi della speranza”. Parteciperanno il presidente della Camera, Gianfranco Fini e il presidente della fondazione Italianieuropei, Massimo D’Alema.

Non bisogna più scegliere fra Russia e Europa - 120 EMMANUEL GOUT

CALGARY The Really Inconvenient Truth about Global Warming. Il Fraser Institute ospita Nigel Lawson, già ministro dell’Economia britannico, che fornisce un diverso punto di visto sul surriscaldamento planetario. Martedì 6 ottobre

Senioren und Alterspolitik in Deutschland und der Türkei. Seminario internazionale organizzato dalla fondazione Konrad Adenauer insieme alla turca Geriatri Vakfi per mettere a confronto le politiche sociali in favore degli anziani in Germania e in Turchia. Interventi di esponenti politici e accademici turchi e tedeschi. Mercoledì 14 – Giovedì 15 ottobre

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Caporedattore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori di redazione: Roberto Alfatti Appetiti, Alessandro Cipolla, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Michele De Feudis, Valeria Falcone, Silvia Grassi, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Proia, Adriano Scianca, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/97996400 - Fax 06/97996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Progetto grafico Elise srl www.elisegroup.tv Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT57R0101003201000027009725 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma

15-18 ottobre La fondazione Farefuturo insieme alla fondazione

La Georgia in mezzo al guado - 107 ALESSANDRO MARRONE

Herbert Croly, The New Republic, and The Promise of American Life L’American Enterprise Institute ricorda il libro The Promise of American Life, che ebbe una grande influenza sulle politiche di Theodore Roosevelt, a 100 anni dalla sua pubblicazione. Martedì 13 ottobre

ANKARA

La fondazione Farefuturo, in collaborazione con la dal titolo “Bioetica e biopolitica”. L’incontro si pro-

Cecenia, tra autonomismo e deriva fondamentalista - 98 STEFANO MAGNI

WASHINGTON

confronto sul tema “Le riforme possibili. Le riforme

Wojtyla, un pontificato oltre i muri - 42 FEDERICO EICHBERG

Asia Centrale, sotto controllo con il soft power - 88 CARLO JEAN

Der Sturz Ceausescus und die rumänische Revolution von 1989 Seminario della Fondazione Konrad Adenauer. Interviene il presidente romeno Traian Basescu. Lunedì 12 ottobre

mero 4-2009 di Charta minuta, la fondazione Fare-

ROMA

Quell’insopprimibile voglia di libertà - 56 PAOLO QUERCIA

BERLINO

1809 - 2009 Die wechselvollen Beziehungen zwischen Bayern und Südtirol. Seminario della fondazione Hanns Seidel sui rapporti storici e le prospettive di cooperazione tra Baviera e Alto Adige. Giovedì 1 ottobre

futuro organizza presso la sua sede alle ore 18 un

Reagan, il cow-boy che abbattè il Muro - 32 CRISTINA MISSIROLI

Ma i muri culturali rimangono ancora - 48 GENNARO MALGIERI

MONACO DI BAVIERA

BERLINO

WASHINGTON

20 Jahre Mauerfall – Europa im umbruch. La fondazione Konrad Adenauer approfondisce le conseguenze della caduta del muro di Berlino sull’integrazione europea insieme al Presidente del Parlamento Europeo, Jerzy Buzek. Sabato 10 ottobre

Foxbats Over Dimona: The Soviets' Nuclear Gamble in the Six-Day War. La Heritage Foundation presenta un libro israeliano sul ruolo dell’Urss nella Guerra dei sei giorni. Si parlerà anche degli interessi attuali della Russia in Medio Oriente. Martedì 20 ottobre

Segreteria amministrativa Silvia Rossi Tipografia Renografica s.r.l. - Bologna Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO III - NUMERO 18 - SETTEMBRE/OTTOBRE 2009

A CURA DI BRUNO TIOZZO

La Russia dopo il Muro

ROMA

Le riforme possibili. Le riforme necessarie 30 settembre

La Russia torna a dividere l’Europa ADOLFO URSO - EDITORIALE Il cuore d’Europa batte ad est - 2 PIERLUIGI MENNITTI L’uomo che ha costruito una Germania di pace - 14 WILHELM STAUDACHER «Io, il Muro e Gorbaciov, l’uomo del cambiamento» - 22 INTERVISTA A GIANNI DE MICHELIS di DOMENICO NASO

Dobbiamo allearci con la Russia per difenderci dallo strapotere della Cina - 124 INTERVISTA A FRANCESCO FORTE di BARBARA MENNITTI La Russia muscolare di Vladimir Putin - 130 STEFANO GRAZIOLI Una ripresa economica fondata sull’energia - 138 EMANUELA MELCHIORRE

In occasione della presentazione del fascicolo nu-

necessarie” con Renato Brunetta, ministro della

MONTREAL

Pubblica amministrazione, e Enrico Letta, già mini-

Toward a comprehensive economic partnership agreement between Canada and the European Union. Cena di gala del Fraser Institute. Interviene Jean Charest, Primo ministro del Quebec, con un discorso in favore di rapporti commerciali più stretti tra Canada e l’Unione europea. Giovedì 1 ottobre

stro dell’Industria. Interverrà Adolfo Urso.

La dolce vita russa sulle sponde del Tamigi - 150 SILVIA ANTONIOLI

9 ottobre

Serve una Biopolitica STRUMENTI Viaggio alla ricerca della nuova Europa - 158

Konrad Adenauer Stiftung, organizza un workshop pone di approfondire i temi all’ordine del giorno nel dibattito sulla bioetica e come la politica si debba rapportare ad essi.

La Russia traccia il suo futuro fra Asia ed Europa - 60 GIULIANO FRANCESCO Le troppe incognite del Cremlino - 70 GUIDO LENZI

ASOLO

I vent’anni di una transizione triplice - 80 INTERVISTA A VIKTOR ZASLAVSKY di FEDERICO BRUSADELLI

L’immigrazione e le sfide dell’integrazione

Italianieuropei organizza un workshop sul tema dell’immigrazione e sulle soluzioni per una migliore integrazione. Il seminario ha come obiettivo l’analisi

La via italiana all’energia - 117 ALFREDO MANTICA

approfondita della questione e degli aspetti che portano gli extracounitari a intraprendere i cosìdetti “viaggi della speranza”. Parteciperanno il presidente della Camera, Gianfranco Fini e il presidente della fondazione Italianieuropei, Massimo D’Alema.

Non bisogna più scegliere fra Russia e Europa - 120 EMMANUEL GOUT

CALGARY The Really Inconvenient Truth about Global Warming. Il Fraser Institute ospita Nigel Lawson, già ministro dell’Economia britannico, che fornisce un diverso punto di visto sul surriscaldamento planetario. Martedì 6 ottobre

Senioren und Alterspolitik in Deutschland und der Türkei. Seminario internazionale organizzato dalla fondazione Konrad Adenauer insieme alla turca Geriatri Vakfi per mettere a confronto le politiche sociali in favore degli anziani in Germania e in Turchia. Interventi di esponenti politici e accademici turchi e tedeschi. Mercoledì 14 – Giovedì 15 ottobre

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Caporedattore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori di redazione: Roberto Alfatti Appetiti, Alessandro Cipolla, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Michele De Feudis, Valeria Falcone, Silvia Grassi, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Proia, Adriano Scianca, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/97996400 - Fax 06/97996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Progetto grafico Elise srl www.elisegroup.tv Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT57R0101003201000027009725 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma

15-18 ottobre La fondazione Farefuturo insieme alla fondazione

La Georgia in mezzo al guado - 107 ALESSANDRO MARRONE

Herbert Croly, The New Republic, and The Promise of American Life L’American Enterprise Institute ricorda il libro The Promise of American Life, che ebbe una grande influenza sulle politiche di Theodore Roosevelt, a 100 anni dalla sua pubblicazione. Martedì 13 ottobre

ANKARA

La fondazione Farefuturo, in collaborazione con la dal titolo “Bioetica e biopolitica”. L’incontro si pro-

Cecenia, tra autonomismo e deriva fondamentalista - 98 STEFANO MAGNI

WASHINGTON

confronto sul tema “Le riforme possibili. Le riforme

Wojtyla, un pontificato oltre i muri - 42 FEDERICO EICHBERG

Asia Centrale, sotto controllo con il soft power - 88 CARLO JEAN

Der Sturz Ceausescus und die rumänische Revolution von 1989 Seminario della Fondazione Konrad Adenauer. Interviene il presidente romeno Traian Basescu. Lunedì 12 ottobre

mero 4-2009 di Charta minuta, la fondazione Fare-

ROMA

Quell’insopprimibile voglia di libertà - 56 PAOLO QUERCIA

BERLINO

1809 - 2009 Die wechselvollen Beziehungen zwischen Bayern und Südtirol. Seminario della fondazione Hanns Seidel sui rapporti storici e le prospettive di cooperazione tra Baviera e Alto Adige. Giovedì 1 ottobre

futuro organizza presso la sua sede alle ore 18 un

Reagan, il cow-boy che abbattè il Muro - 32 CRISTINA MISSIROLI

Ma i muri culturali rimangono ancora - 48 GENNARO MALGIERI

MONACO DI BAVIERA

BERLINO

WASHINGTON

20 Jahre Mauerfall – Europa im umbruch. La fondazione Konrad Adenauer approfondisce le conseguenze della caduta del muro di Berlino sull’integrazione europea insieme al Presidente del Parlamento Europeo, Jerzy Buzek. Sabato 10 ottobre

Foxbats Over Dimona: The Soviets' Nuclear Gamble in the Six-Day War. La Heritage Foundation presenta un libro israeliano sul ruolo dell’Urss nella Guerra dei sei giorni. Si parlerà anche degli interessi attuali della Russia in Medio Oriente. Martedì 20 ottobre

Segreteria amministrativa Silvia Rossi Tipografia Renografica s.r.l. - Bologna Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


EDITORIALE DI ADOLFO URSO

Presidente

Gianfranco FINI

fini@farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

La Russia torna a dividere l’Europa La Russia dove il Muro

Farefuturoèunafondazionediculturapolitica,studieanalisisocialichesiponel’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturosiproponedifornirestrumentieanalisiculturalialleforzedel centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa,contribuirealsuoprocessodiintegrazione, affermareunanuovaevitalevisione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazioneapertaalcontributodituttiesiavvaledell’operatecnico-scientifica edell’esperienzasocialeeprofessionaledelComitatopromotoreedelComitatoscientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

urso@farefuturofondazione.it

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Direttore Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE mellone@farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno III- Numero 18 - settembre/ottobre 2009

Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale –70% - DCB Bologna

Segretario amministrativo

LA RUSSIA DOPO IL MURO

Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno III - n. 18 - settembre/ottobre 2009 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Il rapporto con la Russia ha sempre diviso l’Europa. E d’altro canto anche la Russia è sempre stata divisa tra l’Europa e l’Asia. Quando Pietro il Grande decise oltre tre secoli fa di fondare prima San Pietroburgo per aprirsi all’Europa e subito dopo Ekaterimburg per offrirsi all’Asia, sancì che il suo impero avrebbe avuto due anime nei due continenti dell’antichità. Oggi la Russia si sente più europea ma cresce più in Asia; ha riscoperto la cultura ortodossa ma ha la sua forza nel sottosuolo della Siberia: la regione del mondo in cui vi sono i più significativi giacimenti di energia e materie prime, ancora in gran parte non utilizzati e a cui guarda da sempre la Cina. L’Europa ha subito la Russia nell’ultimo secolo, si è divisa per essa e da essa è stata divisa. La metà occidentale e l’altra orientale; liberale o comunista; la Germania divisa in due, l’Italia in qualche misura anche. Vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che divideva ideologicamente anche l’Italia, i due paesi ch’erano allora di frontiera sono diventati, e non certo per caso, quelli più propensi a costruire un nuovo rapporto con la Russia. Germania e ItaL’Europa ha subito la Russia nell’ultimo secolo lia sono stati sino all’89 le due frontiere d’Europa nei confronti del si è divisa per essa mondo comunista e per questo, e da essa è stata divisa anche per questo le più fidate alleate di Washington, in qualche misura considerate a “sovranità limitata”. La terza frontiera era difesa dalla Turchia laica dei generali atlantici, oggi meno laica e un tantino anche meno atlantica ma anch’essa consapevole che con la Russia occorre trattare, convivere e se possibile costruire. Di qui la politica di Erdogan favorevole anche essa al nuovo corridoio energetico South Stream, pacificatore nei confronti dell’Armenia, pronto agli accordi commerciali con Mosca. Germania, Italia e Turchia sono anche i partner europei più significativi della Russia, primi nella dipendenza energetica ma anche primi nell’export di macchine e prodotti. Con migliaia di imprese impegnate nella terra d’Oriente, in un’economia che si intreccia ogni giorno di più. Non deve quindi stupire che la Germania come tale (e non solo l’ex cancelliere Schroder) sia favorevole al North Stream, il gasdotto che aggira Paesi baltici e Polonia (profondamente antirussi) per rifornire il nord d’Europa,


così come l’Italia con Eni è partecipe del gasdotto meridionale (che salterà Georgia e Ucraina, considerate ormai anch esse nell’orbita americana). Non si tratta quindi solo di una politica personale di Berlusconi con Putin ma di una scelta geopolitica, che può non essere condivisa ma certamente fondata su ragioni storiche, culturali ed economiche. La realtà è che l’Europa rischia ancora una volta di L’Europa dovrebbe avere dividersi tra chi guarda alla Russia e una politica energetica chi la osteggia. Come fu nelle due comune espressa con grandi guerre mondiali e ancor più un unico Mister Energia nella cosiddetta Guerra Fredda. Oggi la questione è ancor più seria perché l’Europa ha istituzioni comuni e dovrebbe avere una politica estera e di difesa comune. E dato che parliamo di Russia, l’Europa dovrebbe avere soprattutto una politica energetica comune che, ove ci fosse, sarebbe meglio esprimere direttamente con un unico Mister Energia. L’energia ha sostituito l’ideologia e caratterizzerà le politiche del nostro secolo. Le politiche degli Stati e delle imprese; come dimostra il riavvicinamento tra gli Usa e l’India, proprio sulla cooperazione nucleare, le rinnovate tensioni tra Cina e Australia sul controllo dell’uranio e soprattutto la nuova corsa in Africa, terra contesa tra i Bric (Cina, India, Brasile) e Stati Uniti e in cui l’Europa sembra perdere ancora posizione. L’Italia ha fatto bene a varare finalmente una legge che ci consente di puntare a diversificare le nostre fonti energetiche, a ridurre la dipendenza da gas e petrolio e soprattutto a tornare a produrre energia nucleare. Nel frattempo, non si fanno i conti senza l’oste, soprattutto se esso dispone dell’energia che ci serve. Ma questo non ci esime dal chiederci quale debba esSe non ci sarà una sere e come debba svilupparsi una coposizione comune, l’Ue mune politica energetica dell’Europa, resterà un cliente e non l’unica che può darci la forza di tratun partner per la Russia tare da posizioni di forza, e come rinsaldare e rinnovare l’alleanza tra le democrazie occidentali, cioè tra le due Europe: quella del nostro continente e quella cresciuta Oltreatlantico, che hanno un destino comune. Sino a quando Italia e Germania saranno da una parte, Gran Bretagna e Francia dall’altra, il nostro continente resterà solo un cliente e non un partner. E a dividersi ancora una volta per la Russia.

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Il Parlamento europeo ha il suo primo presidente dell’est, il polacco Jerzy Buzek. E Polonia e Ucraina ospiteranno assieme i campionati europei di calcio nel 2012. Entrambi questi successi sono stati conseguiti a scapito dell’Italia, che aveva proposto un suo uomo alla guida dell’assise di Strasburgo e la propria candidatura per l’Europeo di calcio. Ma, amor patrio a parte, sono due eventi che, a distanza di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, testimoniano i passi avanti compiuti dai paesi che appartenevano al blocco sovietico. L’est si è messo in marcia e adesso chiede al resto del continente di giocare la partita ad armi pari.

Le opinioni pubbliche occidentali restano sempre un po’ sorprese quando dall’altra parte battono i pugni sul tavolo. Hanno abbracciato i fratelli ritrovati nei mesi delle rivoluzioni più o meno pacifiche del 1989, hanno brindato con loro, festeggiato alla ritrovata libertà, pianto le stesse lacrime di commozione. Poi, di questi fratelli, se ne sono dimenticate, ritrovandoseli di tanto in tanto di fianco nelle occasioni solenni che hanno scadenzato le tappe della costruzione della nuova Europa. Eppure, la mappa del nostro continente, a vent’anni dalla data che segna la fine della guerra fredda, è completamente cambiata. L’Europa non finisce più a Berlino (o a


SCENARIO Pierluigi Mennitti

IL CUORE D’EUROPA BATTE AD EST A vent’anni dalla caduta del Muro l’Europa riscopre il suo baricentro negli ex paesi del blocco sovietico. DI PIERLUIGI MENNITTI

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Bonn), ma prosegue per mille e più chilometri verso Oriente. Berlino, la ex città divisa, ne è semmai il nuovo baricentro politico. Quello geografico è addirittura in Lituania. I confini sono tutti spostati più in là: a Narva, verso nord, a Brest sull’asse centrale, a Costanza e Sofia su quello meridionale. Anche verso sud-est la spinta prosegue, anche se più lentamente, a causa dell’eredità dell’ennesima guerra civile balcanica. L’Italia non è più il bordo orientale: ufficialmente c’è Lubiana a sorvegliare la frontiera, ma basta farsi un giro in Croazia o addirittura in Montenegro e Albania per capire l’inarrestabilità dei cambiamenti e la necessità

di modificare prospettive e schemi mentali. La notte in cui a Berlino cadde il Muro, portandosi appresso le macerie di un mondo in ebollizione, tutto accadde all’improvviso. Una conferenza stampa imbastita con lo scopo di prendere tempo, una domanda probabilmente suggerita al corrispondente dell’Ansa dall’interno del comitato centrale della Sed, una risposta pasticciata. Disse Günter Schabowski: “Tutti i punti di frontiera fra Germania federale e Germania democratica sono aperti, anche quelli tra Berlino est e Berlino ovest”. “Da quando?”. “Per quello che leggo, da subito”. Ma nulla accadde per ca-


so. Pochi minuti dopo, ai passaggi di frontiera fra le due Berlino, una massa impressionante di gente premeva per passare dall’altra parte, mentre la polizia che non aveva avuto istruzioni non sapeva che fare. Alla fine cedette, come avevano ceduto i politici, travolti da un mare che non si poteva più contenere. Il regime era marcio, corroso da una crisi economica che ormai da anni si faceva sentire anche sui beni di prima necessità, le file di fronte ai negozi di alimentari erano divenute un panorama classico della Germania est come della Polonia, della Cecoslovacchia come dell’Unione Sovietica baltica. Ma senza la spinta di una popolazione che di colpo aveva dimenticato la paura e scoperto il coraggio, quei simulacri di Stati avrebbero vissuto ancora a lungo, aggrappati finché avessero potuto ai crediti con cui i paesi occidentali li stavano, a un tempo, sostenendo e stringendo al collo. La necessità delle riforme partì da Mosca, qualche anno prima. Era l’Unione Sovietica che teneva in piedi l’intero blocco, attraverso quel meccanismo di compensi e sussidi che era sempre stato il Comecon. Ma, già dagli anni della grande stagnazione brezneviana, quel sistema non reggeva più. It’s the economy, stupid. E Gorbaciov, che stupido non era, aveva provato a muovere i tasselli, sperando di tenere in piedi il palazzo. Fu, invece, un effetto domino. Dietro le nuove parole d’ordine di glasnost e perestrojka c’era un invito neppure troppo velato ai paesi sa-


SCENARIO Pierluigi Mennitti

telliti: ognuno per sé, alla ricerca aveva reclutato dai distretti peridella salvezza. Non la trovò nes- ferici: ci provò ancora, qualche suno di quei leader. Caddero tut- giorno dopo a Bucarest per gati, uno dopo l’altro, chi lasciando rantire la sicurezza al proprio codemoralizzato il potere, chi co- mizio, ma la gente iniziò a fistretto da lunghe trattative poli- schiare e i gattopardi del regime tiche, chi incappando in un golpe avevano già preparato il putsch, fallito, chi in uno invece riuscito. l’arresto, un tribunale farlocco e Le immagini della caduta degli due colpi di fucile. Era Natale, dei rossi si sovrappongono nella non fu un bel regalo. memoria alle gesta dei milioni di Non si salvò nessuno, neppure eroi comuni, spuntati di colpo l’uomo a cui si deve una parte da dalle tenebre del totalitarismo. I co-protagonista nel film della risettantamila di Lipsia, che scia- voluzione. Gorbaciov aveva conmavano lungo il Ring cittadino cesso tanto nel tentativo di saldurante le Montagsdemonstrationen, vare almeno l’unità del suo paese nel socialismo rile manifestazioni formato, troppo del lunedì organiz- Il regime comunista per i custodi zate dalla chiesa dell’ortodossia. La evangelica. I berli- era marcio e crollò Germania era tornesi dell’est che, sotto la spinta nata unita, gli ex dopo la caduta del paesi satelliti aveMuro, scorazzava- della popolazione no sulla Kurfür- che non aveva più paura vano ormai avviato la transizione stendamm accalcandosi davanti alle vetrine del alla democrazia, solo i baltici, KaDeWe, il grande magazzino sempre più refrattari, erano and’Occidente, ma poi rientravano cora impigliati nella rete deldi sera a casa con le proprie Tra- l’Urss. Correva il 1991 ma i nobant per manifestare sull’Alexan- stalgici erano ancora dappertutderplatz contro ogni tentativo di to, nel Kgb e nell’Armata Rossa, compromesso. I cechi che affolla- nel governo e nel partito e si orvano piazza San Venceslao, la ganizzarono in un Comitato per piazza dove s’immolò vent’anni l’emergenza. Arrestarono Gorbaprima Jan Palach, per applaudire ciov e sua moglie nella loro casa Vaclav Havel e Alexander Dub- di vacanza in Crimea, occuparocek, l’eroe della Primavera. I bal- no i punti cardine del potere tici sparpagliati lungo il percor- moscovita ma intopparono in un so delle tre capitali, Vilnius, Ri- omone alto e grosso che si barriga e Tallin, che si tenevano per cò nel Parlamento e poi arringò mano in una catena umana lunga la folla dal tetto di un carro arseicento chilometri e due milio- mato. Stava finendo anche ni di anime. E i rumeni pigiati l’Unione Sovietica, i soldati dinella piazza di Timisoara, attac- sertarono, il bagno di sangue cati dai minatori che Ceausescu non ci fu, Gorbaciov potè torna-

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re a Mosca, dove però quell’uo- eravamo abituati a commentare mo grande e grosso gli puntò un ai tempi dell’impero sovietico. dito contro per dirgli che la sua Già all’interno del Comintern, parte era finita. Eltsin non sa- Mosca aveva assegnato a ogni sarebbe poi stato un buon presi- tellite un compito differente: i dente, ma in quell’attimo seppe sovietici producevano tecnologia militare e petrolio, i bulgari fare anche lui la storia. Sono passati venti anni, il tempo frutta e vino, i cecoslovacchi veidi una generazione. Le bollicine coli, i rumeni carbone, i tedeschi di spumante sono evaporate da orientali macchine utensili. E un pezzo, la transizione è stata ogni economia specializzata gelunga e difficile, le speranze si so- nerava un tipo di società diversa, no misurate con la dura realtà dei industriale, agricola, militare. cambiamenti. C’è chi ce l’ha fat- Da quando si sono aperti i confita, chi è rimasto indietro e chi s’è ni, le differenze hanno attraversafermato in mezzo. Vale per i pae- to gli stessi paesi al loro interno. La Repubblica cesi e per gli uomini. Per una Polo- Le bollicine di spumante ca non ha nulla in comune con la Slonia che conquista vacchia orientale, un posto centrale sono evaporate, la Polonia occinella nuova Euro- e le speranze si sono dentale può assopa c’è una Romamigliare alla Gernia che fatica a misurate con la dura staccarsi dalle pia- realtà dei cambiamenti m a n i a q u a n t o quella ad est alghe ataviche della corruzione e dell’arretratezza e c’è l’Ucraina, Lituania ed Estonia un’Ucraina che ha perduto, fino- hanno in comune solo l’aggettivo ra, tutte le coincidenze possibili. baltico e poco più: neppure la Sono solo esempi all’ingrosso. lingua. Budapest non è mai stata Perché poi, viaggiando nella stes- Bucarest e neppure Berlino est è sa Polonia, si possono osservare i simile a Berlino ovest. rapidi sviluppi di Varsavia, i me- Qui, nella capitale che riassume ravigliosi restauri di Cracovia, gli le spinte e gli interessi della nuoaffanni post-industriali di Danzi- va Europa, è difficile rintracciare ca, le scommesse baltiche di Stet- i resti di quello che fu il confine tino e le arretratezze rurali di Sie- più duro. Il Muro è stato sbriciodlce. O incrociando le tre Repub- lato dalla voglia di dimenticare e bliche baltiche, ci si confronta guardare avanti, solo di tanto in con il dinamismo precario dei tanto, e quasi incidentalmente, ci giovani, la marginalità della vec- si imbatte in qualche reperto sochia etnia russa o la faticosa guer- pravvissuto alla furia gioiosa dera con la vita quotidiana ingag- gli abitanti e all’opera meticolosa giata dalla generazione di mezzo. delle scavatrici. La città si è meL’est si è moltiplicato. Non è mai scolata, nuove e moderne costrustato quel blocco monolitico che zioni hanno sostituito nel quar-


SCENARIO Pierluigi Mennitti

tiere centrale gli scatoloni architettonici dell’era socialista, un castello che riproduce quello del Kaiser, affidato alla “regia” dell’italiano Franco Stella, rimpiazzerà il vecchio Palazzo della Repubblica voluto da Honecker e già smontato pezzo per pezzo. Anche la geografia sociale s’è mossa: a Prenzlauer Berg, nell’est, non ci sono più i ribelli alternativi che sfidavano il regime ma i ricchi rampolli della Baviera e del Baden-Württemberg, approdati a suon di euro nel quartiere che è diventato il più chic di tutta Europa. Eppure la divisione è rimasta, non solo nelle teste ma anche nei portafogli. Ogni volta che gli elettori sono chiamati a votare per un referendum che decide questioni cittadine, l’est torna a fare l’est e l’ovest resta a fare l’ovest. E’ accaduto un anno fa, quando si andò a votare per mantenere in attività l’aeroporto di Tempelhof, cui erano legati i berlinesi occidentali perché tra il 1948 e il 1949 fu il terminale del ponte aereo, la gigantesca operazione americana che salvò la città dal blocco di Stalin. Ed è capitato di nuovo quest’anno, su un argomento più attuale, se ripristinare nelle scuole secondarie l’ora facoltativa di religione. In entrambi i casi gli occidentali hanno votato a favore, gli orientali si sono astenuti e i referendum non hanno raggiunto il quorum. Tempelhof non appartiene alla memoria condivisa, vale per chi ha vissuto a ovest, non a est, e anche la religione, nel mondo comunista, non aveva una grande considerazione.


LA PAROLA

OSTALGIE, LA VITA AI TEMPI DELLA DDR

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Ostalgie è un neologismo tedesco che si riferisce alla nostalgia per la vita nella vecchia Germania Est. È una crasi delle parole tedesche Ost (est) e Nostalgie (nostalgia). Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, e la riunificazione tedesca dell’anno successivo, molti ricordi del vecchio regime socialista vennero spazzati via mentre gli ex cittadini della Repubblica democratica tedesca si affrettavano a godere delle nuove libertà politiche ed economiche. Tuttavia, col passare del tempo, molti tedeschi orientali iniziarono a sentire la mancanza di alcuni aspetti delle loro vecchie vite. L’Ostalgie si riferisce particolarmente a quella vita quotidiana della vecchia Ddr che scomparve dopo la riunificazione, sconfitta dal capitalismo e dalla cultura occidentale. Molte imprese, in Germania, si rivolgono a chi soffre di Ostalgie. Sono disponibili prodotti alimentari di marche obsolete della Germania est, vecchi programmi della Tv statale in Dvd e le macchine Trabant e Wartburg, un tempo diffusissime. Se la vita al tempo della Ddr era una volta considerata alla stregua di un soggetto tabù, è diventata ora argomento di numerosi film, come Good Bye Lenin! di Wolfgang Becker che ha ottenuto un successo internazionale. La parola Ostalgie viene utilizzata anche riguardo alla nostalgia per la vita sotto il sistema socialista in altri paesi dell’area ex comunista, principalmente parlando della Polonia. Nel 2008 la parola Ostalgia viene aggiunta al dizionario Zanichelli ed entra a far parte della lingua italiana.

Esperienze che rimangono nelle tracce delle vecchie e delle nuove generazioni e che consolidano una divisione durata quarant’anni e non superata in venti. Vale anche per l’economia e il lavoro. Quando le agenzie federali producono quelle cartine piene di colori blu e rossi che segnalano il livello del reddito e dell’occupazione, il blu del benessere e del lavoro è tutto a Occidente, il rosso dell’arretratezza e dell’occupazione è tutto a Oriente. Che sia la Germania o Berlino, il risultato è lo stesso: la cortina di ferro e il Muro, cancellati dalla storia e dalle ruspe, riappaiono inesorabili a separare i due mondi. L’analisi non cambia anche per gli altri paesi dell’est. Negli anni passati è tornato in vigore l’antico concetto geografico dell’Europa centrale. Non più est, non più miseria, ma centro, terra di mezzo fra l’Atlantico e gli Urali, come vogliono la storia e la geografia. Ma non ancora l’economia. La fase di ristrutturazione è costata lacrime e sangue, specie nei primi anni. I dettami delle organizzazioni internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) sono stati draconiani e forse non sempre benefici. Erano i tempi della fine della storia, dell’ideologia del libero mercato che si sovrapponeva a quella della programmazione quinquennale. La seconda aveva ridotto al lastrico governi e popolazioni, la prima prometteva magnifiche sorti e progressive. Non è andata esattamente così e la cronaca di questo ventennio non è fatta solo


SCENARIO Pierluigi Mennitti

di successi e avanzamenti, ma an- schi di vedersi tagliati i flussi di che di durezze e delusioni che aiuti dall’Ue, perché la criminalihanno segnato l’esperienza di tà mafiosa ne ha fatto un nuovo questi popoli. La perdita del lavo- centro di potere. E oggi ci si è ro, l’aumento dei prezzi, le diffi- messa pure la crisi globale, che ha coltà di approvvigionamento fiaccato le finanze troppo allegre energetico, l’emigrazione. Nelle di paesi che sembravano ormai ultime elezioni polacche, il candi- fuori dall’emergenza: l’Ungheria, dato della destra moderata, Do- la Lettonia, la Repubblica ceca. nald Tusk, ha speso tre giorni del- Per non parlare dell’Ucraina, ma la sua campagna a Londra e Du- questa è un’altra storia. blino, per fare proseliti tra le più La disillusione ha favorito il fenograndi comunità polacche al- meno dell’Ostalgie, la nostalgia l’estero. La Germania est, dicono per la vita ai tempi dell’est, quanle statistiche, è una terra sempre do il lavoro era assicurato, si vivepiù desolata: nei paesini del Bran- va con poco ma protetti da una sicurezza oggi perdeburgo e del Mecduta. Un sentiklenburgo uomini La Germania est mento non solo giovani e meno emozionale ma giovani si raduna- è una terra sempre anche politico. La no la sera ubriachi più desolata, giovani Linke, il partito nelle piazze dei erede della Sed di piccoli centri, di- e vecchi si radunano regime, ha saputo sperati, disoccupa- nelle piazze ubriachi catalizzare il malti e abbandonati, dalle mogli e dalle fidanzate che contento cresciuto nei nuovi Länsono tutte emigrate a ovest, at- der della Germania, diventando tratte da lavoro, salari più alti e, in molte regioni il primo partito, forse, da un nuovo compagno. sbarcando stabilmente nel panoSempre le statistiche (in Germa- rama politico nazionale e mettennia infallibili) certificano che do in crisi la stabilità tradizionale questa particolare emigrazione del sistema tedesco: la Grosse Koaavviene perché le donne dell’est lition, il governo straordinario che hanno un’istruzione migliore e comprende due partiti storicauna maggiore capacità di intra- mente rivali come la Cdu e l’Spd prendenza rispetto ai maschi: evi- è, di fatto, la conseguenza della dentemente la parità fra i sessi era affermazione della Linke come un traguardo di cui anche la Ddr quinto partito; e assieme ai sopoteva andar fiera. I rumeni sono cialdemocratici, regge il governo ovunque, tanti anche in Italia, locale della Berlino riunificata. mentre quelli rimasti in patria, Ma per tante storie di difficoltà, quando non fanno parte di qual- ce ne sono altrettante di successo. che ristretta èlite privilegiata, si La Slovacchia ha centrato proprio arrabattano per pagare affitto e quest’anno l’ingresso nella zona viveri. La Bulgaria corre seri ri- euro, sorprendendo tutti gli ana-

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listi e facendo morire d’invidia i cugini cechi. La Slovenia vi appartiene da quasi tre anni, l’Estonia ha un livello di informatizzazione amministrativa da far invidia ai paesi più Tusk: la crisi economica sviluppati e, attuale è nulla per noi come detto, la che abbiamo vissuto Polonia si sta il comunismo conquistando sul campo il ruolo di pivot dell’area est-europea. Le infrastrutture sono ovunque migliorate, le città hanno riacquistato colore, i centri storici sono stati restaurati, i servizi modernizzati, i livelli di

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consumo sono cresciuti in quantità e qualità. Sempre Donald Tusk ammonisce a valutare con equilibrio la condizione dei nuovi paesi: «Lo ripeto spesso ai miei colleghi e alla stampa occidentale, la crisi economica che stiamo vivendo in questi mesi, per noi che abbiamo vissuto il comunismo, è nulla rispetto a quello che abbiamo sopportato, quella era una vera crisi che sembrava senza via d’uscita». Oggi la via d’uscita c’è e per molti paesi si chiama Unione europea. Quello che con un linguaggio inutilmente buro-


SCENARIO Pierluigi Mennitti

cratico è stato chiamato processo di allargamento (e che in realtà è stato più semplicemente il processo di riunificazione del continente) ha rappresentato il modello di transizione politica di maggior successo degli ultimi decenni. La prospettiva di entrare a far parte di un club che assicurava stabilità politica, sicurezza geopolitica e relativo benessere economico, ha costituito un faro costante lungo la rotta della democrazia, superiore anche all’appartenenza alla strategica alleanza militare atlantica. E alla fine an-

che i famigerati criteri di integrazione, le regole contenute in decine di faldoni e di dossier, unite alla possibilità di accedere ai contributi economici per lo sviluppo, hanno permesso di introdurre riforme, adeguare istituzioni, modernizzare strutture e, allo stesso tempo, tranquillizzare le opinioni pubbliche. Ora che la prima ondata è stata in qualche modo digerita, la sfida si sposta ancora in avanti. Verso i Balcani, a mezzogiorno, sulla linea che conduce da Zagabria a Belgrado, da Skopje a Tirana e Istanbul. E a est, verso il grande nemico di un tempo, quella Russia che ha rischiato di uscire dal novero delle grandi potenze nei 11 caotici anni di Eltsin e che ha ritrovato prestigio e stabilità sotto il pugno di ferro di Putin. Anche su questa direttrice è possibile tracciare una linea di movimento, passando attraverso capitali non meno problematiche: Chisinau, Kiev, Minsk, Tbilisi, quindi Mosca. Non sarà un secondo allargamento: le opzioni di collaborazione sono varie e tutte aperte. Si giocano questioni di identità (quali sono i confini dell’Europa?) e questioni Per l’Ue lo spazio geopolitiche (si orientale è diventato deve riconoscestrategico per i nuovi re uno spazio russo?) e non è equilibri del continente detto che Mosca e Bruxelles abbiano interesse a condividere le stesse strutture istituzionali. Ma è ormai evidente a tutti che lo spazio orientale è divenuto strategico per i nuovi equilibri del nostro continente: la


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Russia è in crescita tumultuosa e gli scenari politici aperti dalla coabitazione fra Putin e Medvedev lasciano intravedere un futuro diverso dalla democratura con cui finora la Russia ha pensato di recuperare se stessa. C’è la questione degli approvvigionamenti energetici e delle pipelines di gas che legheranno ancor più le due aree: un accordo strategico di lungo respiro pare oggi la strada più opportuna anche a quei nuovi membri dell’Ue che non hanno dimenticato i duri decenni di occupazione. E l’Ucraina, la Bielorussia e la stessa Georgia si pongono come banchi di prova per un confronto che sarà lungo e complesso. La memoria dei popoli è diventata corta in tempi accelerati come quelli attuali, vent’anni sono passati in un baleno, ci si è adeguati ai cambiamenti e molti hanno smarrito il ricordo del punto di partenza. Un professore di linguistica, incontrato all’Università di Kiev due anni fa, trovò però le parole giuste per farci comprendere l’essenza di quei cambiamenti: «Non abbiamo molti soldi e non abbiamo realizzato tutti i sogni che avevamo, quando conquistammo l’indipendenza e quando con la rivoluzione arancione speravamo di conquistarci anche il diritto a entrare in Europa. Però oggi mia figlia può viaggiare liberamente, uscire dall’Ucraina, andare in Europa e in America, conoscere altre lingue e altri popoli, fare tutte quelle esperienze che a me sono state negate». La libertà di muoversi, di

andare e tornare. In fondo, quando Schabowski la sera del 9 novembre 1989, cercando di prendere tempo, fu costretto a decretare la caduta del Muro di Berlino, si stava discutendo proprio di quello, della libertà di viaggiare al di fuori della Ddr. Wir wollen raus, gridavano i manifestanti sull’Alexanderplatz, vogliamo andar fuori. I muri non reggono, non reggono mai.

L’Autore PIERLUIGI MENNITTI Giornalista, si occupa prevalentemente di Germania ed Europa centro-orientale, Scandinavia e Balcani. Su questi temi collabora anche con i quotidiani Il Giornale, Il Foglio e Il Secolo d’Italia. In passato ha diretto la rivista di cultura politica Ideazione e il quindicinale di geoeconomia Emporion.



Unità e integrazione, da Berlino all’Europa

L’uomo che ha costruito una Germania di pace DI WILHELM STAUDACHER

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elmut Kohl ha saputo guidare il paese in un periodo cruciale e delicato, raggiungendo un obiettivo storico dopo la caduta del muro: regalare al mondo una Germania pacifica.

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HELMUT KOHL Wilhelm Staudacher

Il 9 di novembre del 2009 si rinnova per la ventesima volta l’anniversario della caduta del Muro di Berlino: la Germania è riunificata. Oggi dobbiamo affrontare sfide del tutto nuove e diverse da quelle del periodo della divisione, una divisione che interessò non solo la Germania, ma l’Europa intera. La distanza nel tempo ci consente di analizzare se si sono avverate o meno le paure dei nostri vicini, anche di quelli italiani. Ritengo che tutti possano condividere l’asserzione che la Germania oggi svolge un ruolo di prim’ordine in Europa, senza per questo rivendicarne un predominio. Il forte pe-

so economico della Germania non viene sfruttato per affermare interessi nazionali. Al contrario, la Germania ha rinunciato al marco tedesco a favore dell’euro e quindi, nell’interesse di tutta l’Europa, anche alla propria superiorità finanziaria ed economica. In tutta la storia dell’Europa la Germania non era mai stata circondata da tanti stati con cui vive in pace e in condizioni di buon vicinato. Helmut Kohl era un tedesco che nella sua gioventù aveva conosciuto il regime nazista di Hitler e, quindi, anche i danni morali e materiali provocati dalle dittature. Raccontava spesso come da ragazzo, insieme ad altri compagni, rimuoveva i pali di confine al valico tra Palatinato e Alsazia per poter stringere personalmente amicizia con dei francesi. Helmut Kohl non è stato solo un abile politico, ma era anche guidato da un grande sapere storico. Egli sapeva come sarebbe stato possibile rendere la Germania accettabile per tutte le nazioni limitrofe. Oggi Helmut Kohl è definito come il “cancelliere dell’unità tedesca“. E con questo epiteto rimarrà sempre presente nella storia. E il suo ruolo non sarà sminuito se si aggiunge che era anche un europeo con il cervello e con il cuore. Per lui l’unità europea era altrettanto importante di quella tedesca. Al pari di Konrad Adenauer, egli sapeva che l’unità europea e quella tedesca sono i due lati di una stessa medaglia. Helmut Kohl possedeva la forza visionaria dello statista. Riconobbe l’oppor-

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tunità che la riunificazione tedesca contraria alla riunificazione fu anche Margaret Thatcher. In Gerrappresentava per tutta l’Europa. Helmut Kohl non era il solo ad mania, invece, non si dimentiavere a cuore la riunificazione. cherà mai che l’ex presidente Attraverso la concessione di cre- americano George Bush appogditi alla Rdt, Franz-Josef Strauß giava senza riserve i piani di riuera riuscito a obbligarne il gover- nificazione di Kohl. no ad allentare la propria politica Nella Repubblica tedesca nessuno di delimitazione. Strauß era un aveva previsto questo evento né fervente sostenitore della riunifi- aveva preparato un “piano regolacazione della Germania, ma non tore” per la riunificazione. Anzi, poté assistere alla realizzazione secondo l’opinione predominante, della propria visione. Questa for- soprattutto nei mezzi di comunituna toccò invece a Willy Brandt. cazione di massa, la Rdt sarebbe Anche egli si era reso benemerito stata una delle maggiori potenze della riunificazione. La sua nuova economiche del mondo. Solo dopo la riunificazione Ostpolitik suscitò si poté constatare la speranza della Nella Rft non si quanto era “marlibertà soprattutto cia” la realtà di nell’Europa orien- prevedeva un tale questo paese. Fu tale. Mentre talu- evento e nessuno sufficiente un certo ni della Spd rimanumero di cittadisero indifferenti aveva preparato ni decisi per fare all’avvenuta riuni- un “piano regolatore” crollare l’intero sificazione, auspicando a lungo la finzione di una stema. Ora fa specie il fatto che, cooperazione particolare tra due come è dato leggere negli atti orStati indipendenti, durante tutto mai resi accessibili, la Stasi era al il processo di riunificazione Wil- corrente del cattivo stato dell’ecoly Brandt era inequivocabilmente nomia e che più volte ne avvertì il a favore del ripristino dell’unità vertice del partito unico. La diredella Germania: «Ora sta riunen- zione del partito, invece, rimase dosi ciò che deve stare insieme». muta di fronte a tali avvertimenti, Con questa citazione Willy evidentemente perché era divenBrandt divenne un partner della tata essa stessa una vittima della politica interna di Helmut Kohl propria propaganda. e della Cdu, superando qualsiasi Anche Helmut Kohl inizialmente si dimostrò abbastanza scettico al confine tra i partiti. Tra gli statisti europei, alcuni nu- riguardo della possibilità di attrivano sentimenti misti a propo- tuare una riunificazione nella pace sito della riunificazione, tra cui il e nella libertà. Tuttavia, quando presidente del Consiglio dei mi- per le strade e le piazze della Rdt nistri italiano Giulio Andreotti, osservava come la rivendicazione nonché il capo di Stato francese degli uomini “Noi siamo il popoFrançois Mitterand. Decisamente lo“ si trasformò nella professione


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della riunificazione “Noi siamo un popolo”, per Kohl la divisione era divenuta inaccettabile. Quindi, per noi tedeschi la caduta del Muro fu una vera sorpresa: per taluni una “riunificazione rapida” era inconcepibile, mentre altri avevano da tempo abbandonato questa meta, adattandosi alla binazionalità. Questa sorpresa è resa ancora più evidente dal fatto che il cancelliere federale al momento della caduta del Muro

non si trovava nemmeno in Germania, ma si era recato in Polonia per una visita di Stato. Quella visita per Kohl aveva un elevato peso politico, per cui egli non era nemmeno disposto a lasciare la Polonia immediatamente. Inoltre, allora nessuno pareva essere in grado di valutare correttamente gli sviluppi della faccenda. Al Cancelliere non era possibile volare direttamente da Varsavia a Berlino, poiché era ancora valido


l’accordo tra le quattro potenze che controllavano Berlino. Kohl raggiunse, quindi, la futura capitale passando per Amburgo. In seguito, oggi lo sappiamo, la riunificazione divenne un processo inarrestabile. Con il suo proIn una notte gramma per Kohl tracciò in dieci l’unità tedesca punti il percorso in dieci punti, della riunificazione dettato di notte alla moglie Hannelore che lo trascrisse a macchina, per Kohl il corso della riunificazione era già tracciato. Horst Teltschik, il più stretto collaboratore di Kohl, commentò al riguardo: «Ebbe un’importanza decisiva l’atteggiamento dell’Unione Sovietica 18 nei confronti del processo di riunificazione». Per Gorbaciov si prospettava una decisione strategica. Da un lato sapeva che una modernizzazione dell’Unione Sovietica sarebbe stata possibile solo con l’appoggio dell’Occidente. Dall’altro, l’Unione Sovietica doveva rinunciare alla “preda” che le era toccata nella Seconda guerra mondiale. Il prezzo era alto. Helmut Kohl, nel corso del memorabile incontro nel Caucaso del luglio 1990, riuscì tuttavia a convincere Gorbaciov. Si erano incontrati due statisti. Grazie al loro coraggio l’Europa cambiò. Horst Teltschik scrisse nel suo diario politico: «Kohl caratterizza l’incontro di due giornate con Gorbaciov come un nuovo acme nella storia delle relazioni tedesco-sovietiche [...]. Kohl parla di progressi di grande portata nonché di una svolta, resa possibile

dal fatto che ambedue le parti sono consapevoli della responsabilità che deriva dai cambiamenti storici. Gorbaciov e Kohl sarebbero disposti ad affrontare questa sfida storica risolvendola congiuntamente. Adesso avrebbero la grande e forse unica opportunità di plasmare il futuro del continente in modo duraturo nella pace, sicurezza e libertà. Le relazioni tedesco-sovietiche avrebbero un’importanza centrale per il futuro di ambedue i popoli e per il destino dell’Europa». Il 12 settembre del 1990 i ministri degli Esteri delle quattro potenze (Usa, Urss, Francia e Gran Bretagna), nonché i ministri degli esteri della Repubblica federale tedesca e della Rdt, riuniti a Mosca, firmarono un Trattato sulla regolamentazione conclusi-


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va riguardante la Germania, ufficiosamente denominato “trattato due-più-quattro”. Questo accordo disciplinava gli aspetti esteriori della riunificazione. Tra le altre cose, si convenne che il ritiro delle truppe sovietiche dovesse avvenire nel 1994. Si trattava di uno dei maggiori spostamenti di truppe in tempi di pace di tutta la storia militare. Boris Eltsin era succeduto a Gorbaciov e proseguì lungo il cammino tracciato dal suo predecessore. Il ritiro delle truppe equivaleva contemporaneamente alla fine del Patto di Varsavia e al ritiro della Russia dall’Europa centrale. Helmut Kohl sapeva che occorreva non umiliare la Russia in questo processo. Versailles ne fu e ne è ancora una testimonianza pregnante. È interessante tenere a

mente ciò che Helmut Kohl ebbe a dire in occasione dell’evento solenne del 31 agosto 1994 del congedo delle truppe di occupazione sovietiche dalla Germania: «A quasi cinquanta anni da quando l’esercito sovietico raggiunse il territorio dell’allora Impero tedesco, i soldati russi oggi lasciano il nostro paese. Non se ne vanno come occupanti, ma come partner, se ne vanno da amici». Il 18 marzo 1990 Helmut Kohl si svolsero le prime non creò solo i elezioni libere in Rdt presupposti per con la vittoria della Cdu la riunificazione in politica estera, ma indisse anche le prime elezioni libere della Camera popolare della Rdt il 18 marzo 1990, oltre a quelle tedesche interne. Quasi tutti avevano previsto una vittoria della Spd,


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per il fatto che nei territori della A questo scopo si avviarono acGermania centrale, con una quota cordi con gli Stati limitrofi e si elevata di lavoratori, in preceden- procedette alla formazione di una za si era votato “rosso”. Invece la volontà unitaria con gli ex alleati. serata si concluse con la sorpresa In quanto testimone del tempo, del successo della “Alleanza per la posso confermare che eravamo Germania” (un’alleanza del Movi- più che altro “trascinati” dal promento per i diritti civili e dei De- cesso in atto e non tanto i suoi mocratici cristiani della Rdt). So- “trascinatori”. Nessuno aveva cerlo Helmut Kohl non aveva mai tezze definite. In cinquant’anni ci dubitato della vittoria: infatti, eravamo abituati al fatto che aveva ricevuto applausi scroscian- l’unità dell’Europa doveva prevati durante tutta la sua campagna lere sull’unità tedesca. Ora, inveelettorale. Si erano succedute ma- ce, le cose si stavano invertendo. nifestazioni con ben oltre cento- E non tutti riuscivano a cambiare mila partecipanti. In Helmut il proprio modo di pensare. In quei dialoghi e Kohl si vedeva il in quelle trattative garante della liber- Senza l’abilità di Kohl si venne affermantà, della democrado una proprietà zia e del successo di creare fiducia, economico. la riunificazione tedesca del carattere di Helmut Kohl, senNella Camera poza la quale la riunipolare e nel primo non sarebbe avvenuta ficazione non si sagoverno eletti li- in maniera pacifica rebbe attuata in beramente Kohl ebbe i partner di cui necessitava modo pacifico: la sua capacità di per rendere possibile la conver- creare fiducia e di mantenere la genza di due sistemi politici e di parola data. Era una fiducia che il due culture politiche completa- cancelliere si era costruito negli mente diversi. L’entità del com- anni, e senza questo talento – pito non induca in errore. La po- quello, cioè, di costruire un’amipolazione della Rdt non si era la- cizia con George Bush e François sciata alle spalle solo una dittatu- Mitterand e di dare inizio a un ra socialista, ma anche una ditta- destino comune con Michail Gortura nazionalsocialista. Nella Rdt baciov – la riunificazione si sasoltanto pochi cittadini in età rebbe risolta in un fallimento. avanzata avevano vissuto l’espe- Sarebbe un errore affermare che la riunificazione è stata il risultato rienza della democrazia. La dinamica scaturita dalla vo- di una politica mirata. Piuttosto lontà e dal desiderio di riunifica- può considerarsi come il risultato zione dei tedeschi dell’est si risol- di una conduzione della politica, se in una tale forza prorompente che andava da Konrad Adenauer che nulla poteva arrestarla. La po- fino a Helmut Kohl, e che faceva litica faceva fatica a mantenere di tutto per tenere aperta la quegli sviluppi entro canali pacifici. stione tedesca, consentendo così


HELMUT KOHL Wilhelm Staudacher

l’attuazione della riunificazione. Occorre anche non sottacere il fatto che la riunificazione è anche debitrice di un movimento di liberazione che ebbe inizio in Polonia per poi abbracciare tutta l’Europa centro-orientale. Non dobbiamo dimenticare che noi tedeschi siamo debitori della nostra riunificazione ai polacchi che nel corso della storia hanno sofferto sotto la Germania. In ultima analisi, fu il Papa polacco a rendere irresistibile questa idea di libertà con il suo atteggiamento personale e il suo impegno. «Quante divisioni ha il Papa?», chiese una volta sprezzante Josip Stalin. Nessuna. Ma aveva una forza superiore a tutte le divisioni del mondo: la volontà divina. Volendo valutare oggi l’operato di Helmut Kohl a favore della riunificazione della Germania, naturalmente si pone Kohl accanto ad Adenauer. Taluni storici lo pongono anche sullo stesso piano del primo cancelliere dell’Impero, Otto von Bismarck. Infatti, come quest’ultimo, Kohl non lasciò dietro di sé solo una Germania unita, ma rese anche possibile un nuovo ordine politico europeo. A prescindere dalla risposta data a questa domanda, per noi tedeschi rimane decisivo il fatto che abbiamo ottenuto la riunificazione realizzando nel contempo anche la riunificazione dell’Europa. Se valuto l’operato di Helmut Kohl in modo ancora più importante di quello di Bismarck, i motivi sono i seguenti: la Germania di Bismarck si fondava su una guerra; la riunificazione di Kohl

fu pacifica. Inoltre, secondo Bismarck la Germania era orientata in senso nazionale, tendendo all’alterigia nonché a mire egemoniche, ed era attorniata da vicini che non a torto erano preoccupati di fronte a una grande Germania. La Germania di Kohl è la Germania più pacifica che sia mai esistita. Non minaccia nessuno ed è integrata nell’Unione europea e nella Nato. Su questa base, la Germania ha l’opportunità di mantenersi in vita a lungo. Invece la Germania di Bismarck si disgregò ben presto dopo che il capitano aveva abbandonato la nave. La riunificazione tedesca non è il merito di un singolo, vi collaborarono molte forze. Bismarck disse una volta: «Se lo statista ode il manto di Dio frusciare attraverso gli eventi, l’unica cosa che può fare, è di saltare in avanti e di afferrare il lembo del suo vestito». Questa capacità Helmut Kohl l’aveva e grazie a essa fu uno statista e il cancelliere dell’unità.

L’Autore WILHELM STAUDACHER Presidente della Rappresentanza della Fondazione Konrad Adenauer a Roma. E’ stato Segretario generale della Kas. Dal 1994 al 1999 è stato Segretario generale della Presidenza della repubblica e prima di allora segretario di Stato del Meclemburgo-Pomerania Anteriore.

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«IO, IL MURO E GORBACIOV, INTERVISTA A GIANNI DE MICHELIS DI DOMENICO NASO

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na telefonata del ministro degli Esteri della Germania ovest e tutte le prospettive storiche e politiche cambiarono di colpo. Così Gianni De Michelis, allora alla Farnesina ricorda la sera del 9 novembre 1989, quando il muro di Berlino crollò e trascinò con se ciò che restava del sistema sovietico. Tra il ruolo di Gorbaciov, le posizioni dell’Italia e lo slancio europeista che nacque da quegli eventi, un pezzo di storia raccontata da chi l’ha vissuta da protagonista.

Ci sono uomini che, a causa di circostanze imprevedibili, si trovano ad assistere ad avvenimenti epocali, al mutamento del corso della storia. Uno di questi è senza dubbio Gianni De Michelis. Era lui, infatti, il ministro degli Esteri italiano che si trovò a gestire la delicatissima fase che va dal 1989 al 1991, vale a dire il crollo del muro di Berlino prima, e l’effetto domino che portò al crollo dell’Unione Sovietica poi. Nessuno meglio di


MIKHAIL GORBACIOV Gianni De Michelis

L’UOMO DEL CAMBIAMENTO» lui, forse, può raccontare il punto di vista italiano di quei mesi frenetici che portarono alla fine della Guerra Fredda e allo sgretolamento del blocco orientale. Uno dei protagonisti indiscussi di quella fase fu senza dubbio Mikhail Gorbaciov, segretario del Pcus e presidente dell’Urss, ispiratore della perestrojka e del graduale avvicinamento tra Mosca e Washington. «Gorbaciov era una persona “calda” – racconta De

Michelis – che credeva davvero in quello che diceva. Non aveva l’aspetto tipico del burocrate comunista freddo e incartapecorito. Dava l’impressione di uno che quando ti parlava voleva trasmettere capacità di convincimento. Questa era la cosa che maggiormente colpiva». Tra aperture inaspettate e incapacità di gestire un cambiamento di tale portata, ecco il ricordo di De Michelis sulla figura di Gorbaciov e su quel periodo così denso di cambiamenti. 23

Il 9 novembre 1989, mentre i berlinesi abbattevano il Muro, lei era ministro degli Esteri. Come ricorda quel giorno? Cosa ha pensato nel momento in cui ha saputo cosa stava accadendo in Germania?

Quella sera ero a Budapest in missione ufficiale perché il giorno dopo avremmo firmato (con Ungheria, Austria e Jugoslavia) l’intesa che diede vita alla Quadrangolare (che poi si sviluppò fino a prendere la forma definitiva di Iniziativa centroeuropea, ancora oggi esistente). Questo per dire che noi in qualche modo ci aspettavamo una situazione che si sarebbe evoluta rapidamente e per certi versi proprio il governo italiano fu quello che si mosse più rapidamente. Pensavamo che bisognava attrezzarsi per affrontare la situazione in mutamento e il fatto che stavamo in Ungheria proprio in quei giorni dimostra che già da mesi ci stavamo muo-


IL PERSONAGGIO

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Gorbaciov, il volto pop dell’Urss Mikhail Gorbaciov nasce il 2 marzo 1931 da una famiglia di agricoltori nel villaggio di Privolnoye nel sud della Repubblica russa. Nel 1950 si diploma ottenendo una medaglia di argento e viene ammesso all’Università Statale di Mosca dove frequenta la facoltà di legge, laureandosi nel 1955. Successivamente segue dei corsi per corrispondenza presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Stavropol e nel 1967 aggiunge alla sua laurea in Legge una laurea in Economia agraria. Da studente universitario Mikhail Gorbaciov si iscrive al Partito comunista dell’Unione Sovietica. Negli stessi anni incontra Raisa Titarenko, che sposerà poco dopo in una semplice cerimonia. Da quel momento Raissa sarà la persona più cara e vicina a Mikhail Gorbaciov, rimanendogli a fianco nel corso di tutta la sua carriera politica fino alla sua morte, avvenuta il 20 settembre 1999 che ha commosso tutto il mondo. Poco dopo il suo ritorno a Stavropol gli viene offerto un incarico nella locale associazione giovanile Komsomol che segna l’avvio della sua carriera politica. Nel 1970 viene eletto Primo segretario del Comitato del partito nel territorio di Stavropol, l’incarico di massima responsabilità della zona. Nello stesso anno diviene membro del Comitato centrale del Pcus (Partito comunista dell’Unione Sovietica). Nel 1978 diventa uno dei Segretari e si trasferisce a Mosca. Due anni più tardi entra a far parte del

Politburo del Comitato centrale del Pcus, la massima autorità del partito e della nazione. Nel marzo del 1985 viene eletto Segretario generale del Comitato centrale del Partito, l’incarico più alto nella gerarchia di partito e nel paese. È Gorbaciov ad avviare il processo di cambiamento dell’Unione Sovietica che più avanti sarà definito perestroika, una radicale trasformazione della società e del paese, che genera un sostanziale mutamento nello scenario internazionale. Il nuovo sistema di pensiero, che viene associato al nome di Mikhail Gorbaciov, gioca un ruolo fondamentale nel porre fine alla Guerra Fredda, arrestando la corsa agli armamenti ed eliminando il rischio di un conflitto nucleare. Il 15 marzo 1990 il Congresso dei rappresentanti del popolo dell’Urss - il primo parlamento costituito sulla base di libere, e contestate, elezioni nella storia dell’Unione Sovietica - elegge Gorbaciov presidente dell’Unione Sovietica. Il 15 ottobre dello stesso anno gli viene assegnato il Premio Nobel per la pace, a riconoscimento del suo fondamentale ruolo di riformatore e leader politico mondiale, e del fatto di avere contribuito a cambiare in meglio la natura stessa del processo mondiale di sviluppo. Il 25 dicembre 1991 Gorbaciov rassegna le sue dimissioni da capo dello Stato. Dal gennaio del 1992 è presidente della Fondazione internazionale non-governativa per gli Studi socio-economici e politici (la Fondazione Gorbaciov). Dal marzo 1993 è presidente della Croce Verde Internazionale, organizzazione ambientalista indipendente, presente in più di venti paesi. Ricopre anche l’incarico di presidente del Partito social democratico unito della Russia, fondato nel marzo del 2000. Mikhail Gorbaciov ha ottenuto l’Ordine della Bandiera rossa del lavoro, tre Ordini di Lenin insieme a molte altre onorificenze e riconoscimenti sovietici e internazionali, e a numerose lauree honoris causa da università di tutto il mondo. È autore di numerosi scritti pubblicati in raccolte di articoli e riviste e di vari saggi, tra i quali: A Time for Peace (1985); The Coming Century of Peace (1986); Peace Has no Alternative (1986); Moratorium (1986); Selected Speeches and Writings (1986-1990); Perestroika: New Thinking for Our Country and the World (1987); The August Coup: Its Cause and Results (1991); December 91. My Stand (1992); The Years of Hard Decisions (1993); Life and Reforms (1995); Moral Lessons of the XX Century (2000); On My Country and the World (1998).


MIKHAIL GORBACIOV Gianni De Michelis

vendo nella direzione di un’apertura maggiore verso est. Detto questo non potevo certo prevedere che il muro di Berlino sarebbe caduto proprio quel giorno. Io ebbi la notizia dal ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher. Naturalmente la cosa emozionò tutti, anche noi. L’effetto simbolico e le immagini della folla che scavalcava il muro davano il segno visivo del cambiamento. Si trattava, in realtà, di un processo che era già in moto da alcuni mesi, soprattutto in Germania est. Nell’estate 1989 i tedeschi orientali avevano “votato con i piedi”. Molti di loro, in vacanza in Ungheria, non tornarono in Germania orientale ma sconfinarono in Germania ovest, approfittando all’inizio dei controlli blandi della polizia ungherese e poi di una decisione ufficiale del governo di Budapest. A ottobre ero stato a un incontro tra Kohl e Andreotti in cui avevamo discusso dell’evoluzione politica della Germania dell’est. In qualche maniera si sapeva cosa stava per accadere. In ottobre c’era stato un momento in cui per un attimo si temette una reazione del tipo di Tienamen con la repressione violenta delle proteste. Fu merito di Gorbaciov evitare tutto ciò, dicendo con chiarezza che non avrebbe tollerato una reazione con la forza del governo tedesco-orientale. La strada che ha portato al crollo del Muro di Berlino, però, inizia qualche anno prima. Secondo lei la perestrojka di Gorbaciov mirava davvero a democratizzare l’Urss o piuttosto al presidente

sovietico è semplicemente sfuggita di mano la situazione?

Le cose in Urss gli sono sicuramente scappate di mano. Ma neanche per un attimo Gorbaciov pensò di usare la forza. Noi avemmo l’occasione di incontrarlo subito dopo, in concomitanza con il summit a Malta con George Bush senior. E proprio al Campidoglio pronunciò il famoso discorso sulla Casa comune europea. Si creavano i presupposti, dunque, per un superamento pacifico degli equilibri precedenti e la creazione di una situazione per cui l’Europa potesse vivere sulla base di valori comuni. Gorbaciov era molto diverso dai leader sovietici che lo avevano preceduto. Possiamo dire che fosse un personaggio pop?

Gorbaciov era una persona “calda” che credeva davvero in quello che diceva. Non aveva l’aspetto tipico del burocrate comunista freddo come Gromyko oppure del dirigente del Pcus incartapecorito alla Breznev. Dava l’impressione di uno che quando ti parlava voleva trasmettere capacità di convincimento. Questa era la cosa che maggiormente colpiva. La storia ha dimostrato successivamente che non sarebbe stato in grado di gestire da solo la transizione. Per metà apparteneva al vecchio mondo sovietico e proprio questa metà lo portò a essere vittima del sistema. In fondo anche lui fu scelto dal Kgb e da Andropov, e non espresso da un moto di base. Chi guidò il tentativo disperato di salvare il sistema fu il servizio segreto sovietico.

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Semplicemente perché, come l’Ibm in America, il Kgb era la parte più avanzata del sistema sovietico, più avvertita anche dei cambiamenti tecnologici che avvenivano nel mondo. E questo in un sistema così chiuso e arretrato, poco aperto all’innovazione, faceva del Kgb uno strumento ancora più importante dell’Ibm. Ciò spiega perché, quando poi alla fine il sistema non regge più, è il Kgb che tenta, da un lato, di mettere in campo una possibile transizione e, dall’altro, di fornire i quadri per guidare il sistema per tutto il periodo successivo. Andropov sceglie Gorbaciov rispetto ad altri per tentare di gestire la situazione. È la sua gestione del potere tra il 1989 e il 1991 che rivela pienamente questa sua doppia natura. Usa moltissimo il controllo del Comitato centrale, tenta di governare dall’alto. E non a caso questo tentativo di governare dall’alto fallisce quando Eltsin e le nomenklature delle varie repubbliche cominciano ad agire dal basso, coinvolgendo la popolazione. Palesando questa doppia natura, Gorbaciov commette l’errore maggiore che è quello di dimostrare un’impostazione a tavolino che non regge il confronto con la realtà. I due termini glasnost e perestrojka e il loro affermarsi contemporaneamente, dimostrano una gestione che non poteva che portare al fallimento. Che poi è la cosa che il Partito comunista cinese rimproverava a Mosca. Secondo Pechino si doveva procedere con la perestrojka, accantonando la glasnost.

Che è poi quello che hanno fatto in Cina.

Esatto. E tutto sommato anche con successo. Diceva del fallimento di Gorbaciov.

Il fallimento nasce proprio dal contrasto tra la sua adesione sincera al sistema democratico e l’idea astratta di Andropov secondo cui si poteva guidare dall’alto una transizione democratica. Questo non funzionò. Una parte delle responsabilità è dell’Occidente che non permise una transizione guidata ma preferì appoggiare l’implosione del sistema. L’elemento decisivo fu la riunione del G7 di


MIKHAIL GORBACIOV Gianni De Michelis

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Londra del luglio 1991, quando Usa e Gran Bretagna ebbero la meglio sulla posizione di Francia e Italia, favorevoli a erogare consistenti aiuti economici a Gorbaciov, con i quali avrebbe potuto prevalere nella lotta interna di gestione di quella trasformazione costituzionale che avrebbe trasformato l’Urss in una federazione di repubbliche democratiche. Gorbaciov aveva una riunione a Mosca per approvare la nuova costituzione il 19 luglio. Dopo il niet del G7 fu costretto a rimandarla al 19 agosto e proprio un giorno prima ci fu il tentato golpe.

In Occidente la figura di Gorbaciov gode ancora oggi di una popolarità sorprendente. Molto meno in Russia. Come mai?

Per la semplice ragione che chi ha raccolto i frutti della spinta del popolo russo a liberarsi fu Eltsin, quindi gli avversari di Gorbaciov. Sul golpe se ne sono dette tante. Vero, falso, persino possibile complicità di Gorbaciov con i golpisti. Io non credo a queste versioni ma sicuramente in quel momento Gorbaciov apparve incapace di controllare gli avvenimenti. Chi montò sul carro armato e bloccò il golpe fu Eltsin. Mettiamola così: successe in Rus-


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sia in misura meno drammatica quello che successe in Jugoslavia. Ciò che decise il destino di Belgrado fu l’incapacità del gruppo dirigente di allora di riuscire a far prevalere l’evoluzione democratica a livello politico e su un piano federale, limitando le iniziative delle singole repubbliche. Slovenia e Croazia indirono elezioni locali e inevitabilmente la Jugoslavia si disintegrò. La stessa cosa avvenne in Russia. Gorbaciov tentò, con un referendum, di avere una specie di risposta democratica da tutta la federazione, ma in realtà prevalse la spinta all’affrancamento delle singole repubbliche. E infatti questo improvviso cambio di marcia fece sì che da agosto a dicembre il sistema sovietico crollasse del tutto. Però Mikhail Gorbaciov è anche l’uomo che mandò i carri armati a Vilnius per convincere i lituani a rinunciare all’indipendenza.

In quel caso ci furono errori da ambo le parti. Forse la Lituania non riuscì a essere paziente?

Sì, nel senso che tutto questo ha fatto precipitare in una direzione non positiva gli avvenimenti. Ma ormai era inevitabile. Il suo omologo dell’epoca era Eduard Shevardnadze…

In realtà durante il mio incarico alla Farnesina ho avuto modo di conoscere tre ministri degli Esteri dell’Urss. Eduard Shevardnadze, Aleksandr Bessmertnykh e Boris Pankin

Shevardnadze, però, può essere considerato uno dei leader più progressisti dell’Urss?

Sicuramente si dimise, nel 1991, proprio perché riteneva che Gorbaciov stesse sbagliando consentendo la permanenza all’interno del sistema di potere sovietico di posizioni contraddittorie e troppo conservatrici. Infatti i golpisti del 19 agosto erano tutti parte del sistema di Gorbaciov. Shevardnadze, nel 1990, fu il principale protagonista di due scelte fondamentali per l’Unione Sovietica: approvare l’unificazione tedesca e consentire la guerra del Golfo con l’appoggio dell’Onu. Per quest’ultima posizione aveva subito molte critiche all’interno dell’apparato militare, che era marcatamente schierato su posizioni pro Saddam. L’Iraq era considerato una specie di protettorato sovietico, ancora più della Siria. Shevardnadze cercò di ottenere una copertura netta da parte di Gorbaciov. Non la ottenne e si dimise. Poi diventò presidente della Georgia ma egli stesso fu esautorato dalla generazione successiva, proprio perché apparteneva comunque al vecchio sistema sovietico. Il più “riformista”, invece, era un certo Jakoblev che tentò di elaborare una strategia più compiuta per governare la transizione. Ma le incertezze di Gorbaciov e il condizionamento del Kgb sconfissero quest’ala più “in marcia”. Crolla il Muro e la Germania si riunifica. Andreotti non era a favore della riunificazione tedesca. Come mai?


MIKHAIL GORBACIOV Gianni De Michelis

È vero. Durante un dibattito a una Festa dell’Unità di qualche anno prima, aveva detto pubblicamente e con chiarezza che in caso di crollo del sistema orientale sarebbe stato meglio mantenere la Germania divisa. Era una sua idea, peraltro molto diffusa in Europa occidentale. È vero anche, però, che durante il vertice dell’Eliseo organizzato in fretta e furia dopo il crollo del muro per prendere atto del cambiamento epocale, fu l’Italia (e quindi Andreotti, allora presidente del Consiglio) a tirar fuori da quella riunione tesa e confusa, la proposta di compromesso che permise di chiudere l’incontro con un segnale da parte dell’Europa di non essere contro l’unificazione ma che anzi la auspicava. Poi le cose andarono in maniera molto più veloce di come si poteva prevedere. L’unificazione avvenne in meno di un anno: il 9 novembre1989 crolla il muro, il primo ottobre 1990 viene sancita ufficialmente la riunificazione della Germania E la sua posizione personale?

Non ero favorevole o contrario. Era semplicemente un processo inevitabile. Così come l’allargamento a est dell’Ue. A proposito, come giudica il processo di allargamento dell’Europa a est?

Avevo chiarissimo già allora che gli storici cambiamenti dell’epoca rendevano inevitabile l’allargamento. Il problema non era se farlo o no, ma a quali condizioni. Naturalmente il primo passo ver-

so l’allargamento era la riunificazione tedesca. Ogni resistenza verso il ricongiungimento delle due Germanie era una resistenza contro la riunificazione del’Europa, con possibili ricadute soprattutto nell’Europa occidentale. Durante un’audizione davanti alle commissioni esteri di Camera e Senato, nel settembre 1989 e quindi prima della caduta del Muro, io avevo spiegato questo concetto così: il periodo sarà basato sulla nostra capacità di esportare integrazione a est. E se non saremo capaci di farlo rapidamente, sarà l’est a esportare “disintegrazione” a ovest. La Jugoslavia è stato un tragico esempio di questo tipo di impostazione. Per questa ragione lavorammo (noi, ma anche Delors e Mitterand) per definire le condizioni entro cui collocare l’inevitabile e rapida tendenza all’allargamento. E quindi tutto il lavoro di rafforzamento istituzionale dell’Europa. E ce l’abbiamo fatta?

No. Ma lì venne elaborato un concetto secondo cui “allargamento e approfondimento dovevano andare di pari passo”. Integrazione economica e politica, dunque. Che in fondo fu lo spirito di Maastricht. Non avremmo mai avuto l’euro se non avessimo concesso una rapida unificazione tedesca. E senza l’euro non ci sarebbe stata l’unificazione politica dell’Europa. La moneta unica era il punto terminale del processo di integrazione economica e quello iniziale dell’integrazione politica.

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Quindi sbaglia chi accusa l’Europa di aver pensato prima all’integrazione economica e solo dopo a quella politica?

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La gente (e soprattutto la nostra classe politica) non capisce questo punto fondamentale. Era inevitabile, nel sistema di allora, pensare prima all’economia. Con la fine della Guerra Fredda, i problemi sono rimasti gli stessi ma il modo con cui affrontarli è cambiato insieme al contesto. Nel processo di unificazione europea prima del crollo del Muro non occorreva l’integrazione politica, anche a causa della presenza di un’organizzazione forte come la Nato. All’inizio del cammino europeista fu esplorata la possibilità di fare prima un lavoro politico piuttosto che economico. Ma si capì che non c’era spazio. Basti pensare alla bocciatura della Ced (Comunità europea di difesa) da parte del Parlamento francese. È evidente che quando Delors lancia l’idea dell’unificazione monetaria, negli anni Ottanta, lo fa all’interno della logica della Guerra Fredda. Dopodiché, e questo nessuno lo ha voluto capire, negli anni che vanno dal 1989 al 1991 cambia per sempre questa logica. Durante il vertice europeo del dicembre 1989 si parlava ancora di unificazione monetaria. Quella politica viene introdotta solo durante il vertice di Dublino dell’aprile 1990, cioè quando si poneva il problema della riunificazione tedesca. Per puro caso l’Italia si trovò ad avere la presidenza europea nella seconda metà del 1990 e ci toccò gestire l’unificazione tedesca, la guerra del Golfo,

il processo di unificazione monetaria e anche, a quel punto, quella politica. E in quell’occasione vincemmo anche le feroci resistenze di Margaret Thatcher, che tatticamente non aveva compreso il nuovo quadro che si era creato e l’inevitabilità di certe scelte di allora. E infatti dopo qualche mese dovette dimettersi. Dopo più di vent’anni dall’avvento di Gorbaciov, la Russia di oggi è ancora sotto esame, più volte criticata per la gestione del potere da parte di Vladimir Putin. L’Orso di un tempo cosa è diventato? Sta davvero ridiventando una superpotenza economica e strategica?

Non bisogna sottovalutare la Russia. Innanzitutto per ragioni militari, visto che Mosca rimane ancora oggi l’altra vera potenza nucleare del pianeta. Ma anche, e soprattutto, per un suo punto di forza troppo spesso sottovalutato: il suo sistema educativo. È l’unico campo, forse, in cui il comunismo sovietico non ha fallito. La Russia ha un capitale umano (soprattutto in campo tecnologico e scientifico) di primissimo ordine, superiore a Cina e India e inferiore, forse, solo a Europa e Usa. Naturalmente il sistema comunista aveva ridotto la possibilità di utilizzare pienamente queste capacità. Però questo vantaggio resta e, in un quadro come quello odierno, per cui il mondo sta per uscire dalla crisi e si avvia verso un periodo di fortissimo sviluppo, la questione del capitale umano formato e della capacità di dominare scienza e tecnologia diventerà decisiva.


MIKHAIL GORBACIOV Gianni De Michelis

E se a questo si aggiunge l’enorme territorio e di conseguenza una disponibilità pressoché illimitata di risorse naturali ed energetiche, la Russia diventa un paese dalle enormi potenzialità. Naturalmente vale per la Russia quello che vale anche per Cina e India: nel medio e lungo periodo sono avvantaggiati i sistemi economici e sociali che si basano sulla democrazia, forma migliore per sfruttare le potenzialità del sistema di mercato. È vero anche che la democrazia deve essere coniugata con la stabilità. Se una troppo improvvida gestione della democrazia comporta prezzi troppo alti sul fronte della stabilità, i risultati non potranno mai essere i migliori possibili. Putin, ad esempio, ha rappresentato e rappresenta un’evoluzione positiva rispetto a Eltsin, la cui fase, tra crisi economica e corruzione, aveva portato la Russia sull’orlo del baratro.

L’Intervistato

GIANNI DE MICHELIS Ministro degli Esteri italiano a cavallo fra due epoche: ha assunto il dicastero il 22 luglio 1989 nel sesto governo Andreotti, quando il Muro di Berlino era ancora in piedi, e lo ha lasciato il 12 aprile 1991, a Muro di Berlino abbattuto e alla vigilia della dissoluzione dell’Unione Sovietica. De Michelis era già stato ministro delle Partecipazioni statali, del Lavoro e vicepresidente del Consiglio, ma l’esperienza agli Affari esteri ha profondamente caratterizzato i suoi impegni successivi. Oggi è presidente dell’Ipalmo, l’Istituto per l’America latina e il Medio Oriente, membro del comitato esecutivo dell’Aspen Institute Italia e membro europeo dell’Asem, forum per il dialogo fra Europa e Asia che è organismo dell’Unione europea.

L’Autore DOMENICO NASO

Giornalista, si occupa di politica internazionale e cultura pop. Ha lavorato per la rivista Ideazione. Collabora con Ffwebmagazine, Il Secolo d’Italia, L’Opinione delle Libertà e Gazzetta del Sud.

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Reagan, il cow-boy che abbattè il Muro

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na presidenza “muscolare”, uno scontro con Mosca ben presto trasformatosi in dialogo, un discorso storico davanti alla Porta di Brandeburgo, venticinque anni dopo Kennedy. Così l’attore di Hollywood diventato presidente degli Stati Uniti ha sconfitto “l’Impero del male”. DI CRISTINA MISSIROLI

Let us be sure that those who come after will say of us in our time, that in our time we did everything that could be done. We finished the race; we kept them free; we kept the faith. Ronald Reagan In Pennsylvania Avenue, tra la Casa Bianca e il Campidoglio, si staglia il più grande palazzo di Washington Dc. È il Ronald Reagan Building, intitolato al quarantesimo presidente Usa, dedicato al commercio internazionale, sede di uffici governativi e teatro di eventi. Nell’atrio, sin dal giorno dell’inaugurazione, fa bella mostra di sé un pezzo di parete

grigia, ornata da graffiti. È una parte del Muro di Berlino, dono dei berlinesi e degli impiegati della Daimler Benz, come omaggio in riconoscimento del ruolo del presidente Reagan nella riunificazione della Germania. L’accoppiata Reagan - Muro di Berlino è così scontata che pezzi autentici di quel che resta della grigia muraglia che divideva in due la capitale della Germania e, simbolicamente, l’Europa intera, si trovano in moltissimi luoghi dedicati al presidente. Un pezzo notevolmente grande – ad esempio – è nel fienile del Rancho del Cielo, in California, per anni resi-


RONALD REAGAN Cristina Missiroli


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denza di relax e vacanza di Ro- scontrandosi con i papaveri del nald e sua moglie Nancy: un col- suo stesso dipartimento di Stato, locazione che l’ex presidente Usa pronunciò il famoso appello a trovava particolarmente spiritosa. Gorbaciov che rimane ancora nelPersino i marinai della nave por- l’immaginario collettivo una deltaerei Uss Ronald Reagan (Cvn le immagini più famose di tutta 76) non possono dimenticare il la presidenza Reagan. legame tra il presidente a cui è Una generazione intera era passadedicata la loro nave e la storia ta tra il noto «Ich bin ein Berlitedesca. Loro, il Muro, se lo por- ner» del presidente John F. Kentano dietro in battaglia. Ogni nedy del 1963 e l’altrettanto favolta che salgono a bordo, si tro- moso: «Mr. Gorbaciov, abbatti vano di fronte l’opera dello scul- questo Muro» di Reagan del 12 tore Chas Fagan: un ritratto in giugno 1987. Il celebre invito sabronzo di Reagan saldato ad un rebbe rimasto inascoltato per un anno e mezzo ancora. La “marea vero pezzo del Muro di Berlino. della storia”, come Esempi come queamava chiamarla s t i p o t r e b b e r o Reagan vide il Muro Reagan nei suoi dicontinuare a lunscorsi, si sarebbe go. Eppure quan- per la prima volta abbattuta sul Mudo nel 1988 Ro- nel 1978 e iniziò ro, cancellandolo nald Reagan lasciò per sempre, solo il la Casa Bianca al a cercare il modo di termine del suo buttare giù quella roba 9 novembre del 1989. Quando alla secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti, Casa Bianca già abitava, da quasi il Muro di Berlino era ancora al un anno, George Bush padre. Eppure il discorso di Reagan di suo posto, cupo e angosciante. Il presidente vide la prima volta fronte alla porta di Brandeburgo il Muro di Berlino nel 1978. rimane il simbolo della vittoria Quel giorno – narrano gli storici dell’Occidente. – disse al suo assistente Peter Ma quel discorso, al di là del suo Hannaford: «Dobbiamo trovare lato simbolico, fu davvero così il modo per buttare giù questa determinante? Può davvero essere roba». L’impegno rimase una co- considerato il punto di non ritorno della Guerra Fredda? Nelle distante di tutto il suo mandato. Una volta diventato presidente, spute storiche su Reagan e la sua Reagan tornò a Berlino, ai piedi presidenza, il discorso del Muro del Muro, due volte. Nel 1982 di Berlino ha un ruolo chiave. Sefece infuriare i sovietici muoven- condo alcuni quelle parole furono do un paio di passi cerimoniali l’evento che portò alla fine della attraversando la striscia dipinta a Guerra Fredda. Secondo altri si terra che simboleggiava il confine trattò invece di un piccolo show, tra l’est e l’ovest. Nel 1987, con- senza sostanza, messo in scena dal tro il consiglio di diplomatici e presidente-attore ad uso e consu-


RONALD REAGAN Cristina Missiroli

mo dei media occidentali e dei suoi fans. Probabilmente hanno ragione e torto entrambe le scuole di pensiero. Per molti conservatori americani quel discorso ebbe un significato simbolico. Fu la sfida finale lanciata contro l’Unione Sovietica. A quella sfida, Gorbaciov non fu in grado di rispondere con la forza sufficiente e non poté opporsi, quando, due anni più tardi, all’improvviso, i tedeschi buttarono giù il Muro. Per i più devoti tra gli ammiratori del

presidente americano, Reagan parlò, i sovietici tremarono, il Muro cadde. E perciò la storia del discorso sotto la porta di Brandeburgo si trasformò in mito. Secondo alcune ricostruzioni storiche, il giorno dopo quell’appello, Gorbaciov avrebbe confidato ai collaboratori la sua netta sensazione: Reagan non avrebbe ceduto sulla questione di Berlino. Il ragionamento del leader del Cremlino era semplice. Se il presidente americano aveva deciso di mettere in ballo con tanta violen-


za la questione di Berlino – avrebbe detto Gorbaciov ai suoi – l’unica via per proseguire sulla strada del dialogo con l’Occidente sarebbe stata quella di trovare il modo per abbattere il Muro senza perdere la faccia. Un punto era chiaro: il Muro aveva i giorni contati. E per i sovietici si trattava di uscirne con le ossa il meno rotte possibile. Questa ricostruzione delle preoccupazioni e del pensiero del leader

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sovietico non ha ancora trovato conferme in atti ufficiali ed è basata soprattutto sulle testimonianze dei collaboratori della Casa Bianca all’epoca dei fatti. Malgrado ciò, si tratta a tutt’oggi della ricostruzione di maggior successo. L’Occidente aveva fatto la voce grossa e i sovietici erano capitolati. Eppure quelli non erano più gli anni della contrapposizione frontale e dell’Impero del Male. Erano


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già gli anni del dialogo e dei col- Eppure chi archivia il discorso del loqui tra Reagan e Gorbaciov. Muro come insignificante, sbaErano gli anni dei primi accordi glia. Perché non ne coglie almeno sul controllo degli armamenti e un punto fondamentale: quello del disarmo bilanciato. Forse pro- del rapporto di Reagan con la prio per questo esiste un’altra in- pubblica opinione del suo paese e terpretazione del discorso del Mu- del supporto che gli fece ottenere ro. E anche in questo caso di trat- in patria nei confronti di una polita di un’interpretazione non solo tica estera altrimenti dura da didei molti storici democratici e di gerire. Un sostegno fondamentale sinistra, ma anche di alcuni tra i per portare avanti il progetto della collaboratori dell’amministrazio- distensione. Per capire il significato politico ne di George H. W. Bush. In un libro sulla fine della Guer- del discorso della porta di Branra Fredda del 1995, due ex fun- deburgo, occorre capire in che zionari della prima amministra- contesto fu preparato. Durante la primavera del zione Bush, Con1987, i conservad o l e e z a R i c e e Durante la primavera tori americani coPhilip Zelikow, minimizzano il si- del 1987 i conservatori minciavano a dubitare della fergnificato del di- americani diffidavano mezza di Reagan. scorso del Muro di Temevano il nuoBerlino e il ruolo del nuovo approccio che ebbe negli conciliatorio di Reagan vo approccio conciliatorio nei coneventi che portarono alla fine delle Guerra Fredda. fronti di Mikhail Gorbaciov e il Si fa notare, infatti, che all’indo- malumore serpeggiava tra gli mani del discorso non ci fu in re- opinionisti del Gop. In questo altà alcuna seria reazione, né al- clima, gli speech writers della Casa cun seguito immediato. Nessu- Bianca cominciavano a lavorare no cominciò concretamente a co- ad un discorso che il presidente struire una strategia o ad avere avrebbe dovuto pronunciare Olcome obiettivo specifico l’abbat- treoceano. Quel giugno Reagan timento del Muro di Berlino. I sarebbe andato a Venezia per la diplomatici americani, sempli- riunione del G7. Da lì il procemente, non consideravano gramma prevedeva una breve soquesta questione parte di una sta a Berlino, in occasione delle realistica agenda politica. Rice e celebrazioni per i 750 anni dalla Zelikow non sono isolati in que- fondazione della città. Il punto su sta analisi. La pensa così ad cui s’interrogavano i consiglieri esempio Brent Scowcroft, consi- era: che cosa avrebbe dovuto dire gliere nazionale per la sicurezza il presidente? di George H. W. Bush. Ma an- Nei mesi precedenti, Reagan era che alcuni dei consiglieri diplo- stato costantemente sotto attacco negli Stati Uniti per il suo attegmatici dello stesso Reagan.

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giamento troppo condiscendente Nella primavera del 1987, Reanei confronti di Gorbaciov. I con- gan era nel bel mezzo del delicato servatori erano particolarmente negoziato che avrebbe portato a furiosi. Non solo per i continui due nuovi summit con il leader socolloqui amichevoli con Gorba- vietico a Washington e a Mosca. ciov (a Reykjavik il presidente La sua amministrazione lavorava americano si era spinto fino a par- freneticamente all’accordo per il lare dell’abolizione delle armi nu- controllo degli armamenti, un cleari), ma anche perché il vento trattato sulle armi nucleari a mesembrava cambiato: come se il dio raggio che avrebbe dovuto espresidente stesse per la prima sere poi ratificato dal Senato. E volta abbassando la guardia nei che a Washington cominciava a confronti dell’Impero del Male. raccogliere attorno a sé un bel po’ Di segnali – sempre secondo i più di oppositori. accreditati opinionisti conserva- In questo difficile clima fu scritto tori – ce n’erano a bizzeffe. Uno il discorso del Muro. Incaricato di stendere la prima per tutti: nel setbozza fu Peter Rotembre del 1986 Il dialogo tra Casa binson uno dei il Kgb sequestrò giovani speech wriNicholas Daniloff, Bianca e Cremlino ters del presidente. giornalista di Us aveva ottenuto anche L’appuntamento di News & World Reagan a Berlino Report come ri- la benedizione era per giugno. Ad torsione per l’arre- di Margareth Thatcher aprile Robinson fu sto di un agente segreto sovietico in America. spedito in Germania, insieme ad Reagan scelse di non seguire la li- altri collaboratori della Casa nea dura, anzi si adoperò per ne- Bianca, per preparare la visita goziare uno scambio. Gettando i presidenziale. Obbiettivo del suoi ammiratori più coriacei nel viaggio confrontarsi con i diplomatici e decidere l’impostazione più cupo sconforto. Era chiaro che questi eventi erano dell’intervento. Diversi anni più destinati ad essere solo il prologo tardi, in un libro di memorie, della nuova politica reaganiana. Robinson racconterà di aver otteAgli americani e ai conservatori nuto per lo più indicazione di coin particolare sembrava evidente sa il presidente “non” avrebbe doormai che Reagan avesse tutta vuto dire. Sul questo punto tutti l’intenzione di condurre con i so- sembravano avere le idee piuttovietici ben altri “affari”. Come se sto chiare: il discorso “non” non bastasse, proprio in quel pe- avrebbe dovuto sfidare i sovietici, riodo, il dialogo con Gorbaciov “non” avrebbe dovuto scaldare i aveva ottenuto persino la benedi- cuori dei berlinesi, “non” avrebbe zione del premier britannico Mar- dovuto contenere affermazioni garet Thatcher, solitamente mol- troppo pesanti sul Muro di Berlino. Abbandonati i diplomatici e i to dura e guardinga.


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funzionari, dopo un paio di giorni passati in mezzo ai berlinesi, Robinson si fece un’idea diversa. Oggi racconta di una discussione con una ragazza particolarmente arrabbiata che gli disse: «Se questo Gorbaciov fa sul serio quando parla di glasnost e perestroika, ha un modo per provarlo: elimini il nostro Muro!». Quella ragazza arrabbiata fu alla fine migliore fonte di ispirazione di tutte le lezioni diplomatiche. Robinson buttò giù la traccia del famoso discorso. Molti cercarono di mitigarlo, ma a Reagan piacque e perciò fu pronunciato esattamente come da copione. Quel che i papaveri della diplomazia non capivano e che Reagan aveva perfettamente intuito era che il discorso del Muro di Berlino era un’occasione politica unica per lanciare un messaggio ai propri sostenitori in patria, per ribadire la filosofia dell’intera presidenza Reagan e ricompattare il consenso attorno alla Casa Bianca. In termini squisitamente politici, quel consenso era il prerequisito essenziale per i futuri negoziati con i sovietici. Mentre quei negoziati servirono, dall’altra parte, a creare un clima molto più rilassato nel quale i sovietici poterono accettare con meno strappi la caduta della cortina di ferro. Chi minimizza il discorso del Muro sbaglia anche per un altro motivo. Ignora l’importanza del messaggio che mandò a Gorbaciov. E cioè che gli Stati Uniti erano pronti a trovare una soluzione insieme all’Urss, ma non a costo di accettare la divisione per-

manente di Berlino e di conseguenza dell’Europa. In superficie il discorso di Reagan poteva apparire semplicemente il seguito naturale di un altro storico discorso reaganiano. Quello pronunciato a Westminster nel 1982 in cui il presidente aveva predetto che il diffondersi della libertà avrebbe consegnato il marxismo-leninismo alle ceneri della storia. Andando più a fondo, invece, il discorso del Muro rifletteva un importante cambiamento nel pensiero del presidente. Reagan era ormai convinto che qualcosa si stesse davvero muovendo nell’Unione Sovietica e che, volente o nolente, Gorbaciov rappresentava quella sottile speranza di cambiamento a Mosca. Perciò mentre ai piedi del Muro ripeteva i capisaldi dell’anticomunismo sui quali aveva impostato tutta la propria carriera politica, Reagan allo stesso tempo riconosceva la possibilità che qualcosa nel sistema sovietico stesse davvero accadendo. «Mosca parla di riforme e apertura», disse Reagan ai piedi del Muro. «Queste parole rappresentano davvero l’inizio di profondi cambiamenti nello Stato sovietico?». Alla domanda Reagan non cercò nemmeno di rispondere. Quel che fece, invece, fu di stabilire un nuovo test per la valutazione delle politiche nuove annunciate da Gorbaciov: «Esiste un segnale che i sovietici possono dare, che non potrebbe essere frainteso e che farebbe avanzare incredibilmente la causa della libertà e della pace. Segreta-


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rio generale Gorbaciov, se cerchi la pace, se cerchi la prosperità per l’Unione Sovietica e l’Europa dell’Est, se cerchi la libertà: vieni a questo cancello! Mr. Gorbaciov, apri questo cancello! Mr. Gorbaciov, abbatti questo Muro!». Dal punto di vista della stretta dottrina di politica estera, il discorso di Reagan non diceva assolutamente nulla di nuovo. Dopo tutto, che il Muro dovesse essere abbattuto era uno dei capisaldi della posizione americana sin dal giorno in cui fu costruito. Lo stesso Reagan l’aveva detto e ripetuto in innumerevoli occasioni. Nel 1982, durante la visita a Berlino ovest («Che ci fa qui questo Muro? »); nel 1986, per il venticinquesimo anniversario della sua costruzione («Vorrei vedere questo Muro cadere giù oggi, e mi appello ai responsabili perché lo smantellino»). L’elemento nuovo del 1987 non era l’idea che il Muro dovesse essere abbattuto, ma l’appello diretto a Gorbaciov perché lo abbattesse. Quando il discorso di Reagan fu scritto, i massimi consiglieri e dirigenti del dipartimento di Stato e del National security council provarono ripetutamente a cancellare quell’appello. Credevano che parole così dure avrebbero compromesso lo sviluppo delle delicate relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Proprio come alcuni degli interpreti storici dei giorni nostri, quegli ambasciatori e quei funzionari non capirono il gesto di equilibrio che Reagan stava compiendo. Non stava cercando di mettere ko, con

un unico discorso da bullo, il regime sovietico e nemmeno stava semplicemente recitando un pezzo di teatro politico. Stava facendo qualcos’altro, quel giorno, a Berlino. Stava cercando di incastrare un altro tassello della politica che avrebbe consentito all’Occidente di vincere la Guerra Fredda. Come avrebbe detto anni più tardi Margaret Thatcher, “senza nemmeno sparare un colpo”. Peace is not the absence of conflict, it is the ability to handle conflict by peaceful means. Ronald Reagan 41

L’Autore CRISTINA MISSIROLI Capo dell’ufficio stampa del ministero della Gioventù, guidato da Giorgia Meloni. È stata inviato parlamentare e caporedattore a L’Opinione e a Mediaset. Ha collaborato con Ideazione e Il Giornale. Si occupa di politica interna e cultura americana.


Il ruolo di Giovanni Paolo II

WOJTYLA, UN PONTIFICATO OLTRE I MURI

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DI FEDERICO EICHBERG


KAROL WOJTYLA Federico Eichberg

Da poco più di dieci anni il sacro slavi. Dopo quasi 27 anni di pontestimone del “vincastro pontifi- tificato un’Europa allora allo strecio” era passato dalle mani timo- mo ricominciò a “respirare con rose di Papa Luciani alle ruvide ed due polmoni” come ebbe a dire lo espressive mani di un lottatore stesso Giovanni Paolo II. Dalla polacco. Era il 1989 e si compiva disintegrazione all’integrazione, una grande missione che Wojtyla con l’ingresso dei paesi oppressi aveva perseguito fin dai primi nell’Unione Europea completatom e s i d i p o n t i f i c a t o . F i n si proprio nel 2004, pochi mesi dall’«aprite, anzi spalancate le prima del “ritorno alla casa del porte a Cristo! Alla sua salvatrice Padre” di Giovanni Paolo II. potestà aprite i confini degli Stati, C’era qualcosa di insolito nel bai sistemi economici come quelli cio del Papa al suolo che lo accopolitici, i vasti campi di cultura, glieva, il 2 giugno 1979. Karol di civiltà, di sviluppo. Non ab- Wojtyla è appena arrivato all’aebiate paura!». Si trattava di un roporto di Varsavia, prima tappa di un viaggio stoinvito a quei regimi ed a quei paesi Dopo la visita del 1978 rico, pieno di ostacoli e sotto “sorveche avevano accompagnato, scan- del Papa nella sua terra glianza speciale” in un paese d’ oldendola talvolta la Polonia prende trecortina, nella drammaticamente, sua Polonia. la sua attività di coraggio, è l’inizio del Ancor più colpiCardinale arcive- crollo del comunismo sce, nel rialzarsi scovo di Cracovia. In quel 1978 Wojtyla trovò dal bacio, lo sguardo determinato un’Europa divisa in due blocchi, e il movimento delle mani del dove si ergeva un muro imponen- Papa. Sembra il movimento di te a lacerare il Vecchio Continen- chi, appena sceso nell’arena, si te e un muro invisibile divideva prepari allo scontro. È chiaro a le famiglie, i parlamenti. In Eu- tutti: Wojtila accetta la sfida. ropa, fra scontri di piazza e pole- Quel viaggio segna il trionfo di miche nelle assemblee, si punta- Wojtyla, accolto in tutte le occavano missili su nazioni vicine: da sioni pubbliche da un calore inun lato i missili Pershing e Crui- tenso, forse per questo ancor più se e dall’altra gli SS20. Un’Euro- stridente col gelo delle autorità pa lacerata cui lanciare un mes- politiche comuniste. Ma la Polosaggio di libertà ed identità. Con nia prende coraggio. Passano pola Slavorum Apostoli, Giovanni chi mesi e vede la genesi il primo Paolo II apre un dialogo con l’al- sindacato libero dell’Europa tra Europa oppressa dall’ideolo- Orientale, Solidarnosc, anima delgia comunista e con una Ostpolitik la calda estate di Danzica dell’anfatta di preghiere e di missioni no successivo, il 1980. In quei nei paesi sotto il giogo comunista mesi torridi l’opinione pubblica ridà speranza e fiducia ai popoli mondiale fa la conoscenza di que-

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sti operai che inneggiano alla Il governo polacco Madonna di rispose con arresti Chestochova e e persecuzioni durante i comia Solidarnosc zi organizzano un angolo per le confessioni con il sacerdote in regolari paramenti. Solidarnosc è ormai la parola d’ordine, in Polonia e in tutti gli angoli d’Oltrecortina, è il sinonimo di libertà e di diritti persona-

li, familiari e di popolo. Ma lungi dall’aprire gli occhi dinnanzi ad una situazione paradossale in cui un sindacato manifesta contro i sedicenti promotori della dittatura del proletariato, la dirigenza comunista decide di uscire dall’impasse con la risposta più dura: dopo un’estate di arresti e persecuzioni, il 13 dicembre 1981, il governo Jaruzelski opera un vero e proprio colpo di Stato.


KAROL WOJTYLA Federico Eichberg

L’opera di Karol Wojtyla, però, continua, lenta e inesorabile, in perfetta armonia con chi “vive nel mondo essendo cittadino del Cielo” (cfr. lettera a Diogneto) e ad una risposta diplomatica, affidata alla paziente azione del cardinale Glemp, fa seguito un atto incomprensibile agli occhi umani ma dall’alto significato spirituale. Il Papa decide di adempiere ad una delle specifiche richieste della

Madonna, dettata a Fatima nel maggio del ’17. Allora la Vergine chiese che il Papa consacrasse, alla presenza di tutti i cardinali, la Russia (in quei mesi sconvolta dai primi vagiti della Rivoluzione, che da “liNel 1984 Giovanni berale” sarebbe Paolo II consacrò divenuta “sola Russia al Cuore cialdemocratiImmacolato di Maria ca” ed infine “comunista”) al Suo Cuore Immacolato. Alla richiesta, per una serie di difficoltà ed ostacoli si era, negli anni, adempiuto in maniera solo parziale. Papa Wojtyla capisce che senza l’aiuto della Mediatrice di ogni grazia la battaglia intrapresa, e bruscamente interrotta dalla 45 violenza comunista, di matrice, non a caso, russa, non può andare a buon fine. Il 25 marzo 1984 a Fatima si svolge la Consacrazione, un evento passato sotto silenzio dalla stampa internazionale, ma dalle conseguenze, nella logica della fede, sconvolgenti. Passano pochi mesi e si spegne al Cremlino l’ultimo grande dittatore sovietico, Andropov, cui succede Michail Gorbaciov. Il nuovo presidente non solo opera una vera e propria svolta (perestrojka) all’insegna della trasparenza (glasnost) ma intraprende una fitta rete di rapporti con la Santa Sede, impensabili fino a qualche anno prima, culminati con la storica visita del Segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli, a Mosca nel giugno 1988, in occasione dei festeggiamenti del millennario della evangelizzazione della Russia.


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Simultaneamente il Papa andava blica interna ed internazionale, percorrendo un altro sentiero nel- trionfa Solidarnosc. In un tripudio la ricostruzione spirituale del- di bandiere riceve il mandato di l’est. È del 2 giugno 1985 l’enci- formare il nuovo governo Tadeusz clica Slavorum Apostoli in cui, nel Mazowiecky, intellettuale cattolicelebrare la figura dei Santi Ciril- co, braccio destro di Walesa e, solo e Metodio, evangelizzatori del prattutto, amico intimo del Papa. mondo slavo, Wojtyla additava L’esempio polacco è subito seguinello studio delle radici e della to dall’Ungheria, dove il nuovo storia, la via per la liberazione dal corso si apre con la celebrazione giogo comunista. Il Papa propo- solenne dei funerali di Imre Nagy neva una vera e propria “incultu- e delle altre vittime del ‘56. razione”1 per riscoprire le origini Di lì a poche settimane Helmut di quel mondo oggi sotto il giogo Kohl si reca in visita in Polonia comunista: dal battesimo del dove su invito dei monaci Paolini principe boemo Bozyvoj Premy- va in pellegrinaggio al santuario di Chestochova. Lo slidi all’evangelizzazione, grazie a Grazie a Karol Wojtyla statista tedesco, a metà fra curiosità e Metodio ,delle devozione, si rivolterre attigue: dalla l’est è oggi terra ge alla “Madonna Moravia, alla Slo- di dialogo ecumenico Nera” ivi venerata vacchia, alla Panchiedendole un nonia, alla Polo- fra Cattolicesimo miracolo vero e nia. E a sud la e Ortodossia proprio: che cessi Croazia, l’intera “Balcania”, dove fu, in gran par- l’insopportabile divisione del pote, adottato l’alfabeto cirillico polo tedesco e la contrapposizio(elaborato da uno dei due fratel- ne ideologica. La notte del 9 noli), la Romania e, infine, con il vembre, a pochi giorni dalla visibattesimo di Vladimiro il Gran- ta di Khol in Polonia, fra l’increde, principe di Kiev, l’intera Rus’. dulità generale, crolla il Muro di L’est, dunque, è cristiano ed euro- Berlino. peo. Non si fonda sul materiali- L’est che si è aperto grazie all’opesmo e sul conflitto di classe, ma ra di Wojtyla è oggi terra di diasu basi spirituali e solidaristiche2. logo ecumenico teso al riavviciQuesta “inculturazione” si è veri- namento fra Cattolicesimo ed Orficata, lentamente e parallela- todossia, divisi da quasi mille anmente al fenomeno politico di ri- ni (1054) su questioni dottrinarie forma ed ha fondato una “società e di obbedienza. civile” pronta e cosciente nel ge- Il disgelo, iniziato oltre cento anni fa da Papa Leone XIII con le stire il trapasso. Passano pochi mesi dalla visita di encicliche Grande Munus e OrienCasaroli a Mosca che alle prime talium Dignitas, ha avuto un’acceelezioni libere in Polonia, forte- lerazione in occasione del Concimente volute dall’opinione pub- lio Vaticano II con il ritiro delle


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reciproche scomuniche (7 dicembre 1965) e i successivi scambi di visite con i Patriarchi ortodossi3. Papa Wojtyla, Papa slavo, ha avuto enormemente a cuore la “questione ortodossa” cui ha dedicato lettere apostoliche (Euntes in Mundum, Orientale Lumen), messaggi (Magnum Baptismi donum) ed encicliche (Ut unum sint). Anche nella Tertio Millennio adveniente Wojtyla nel sottolineare l’importanza del perdono reciproco ha lanciato un invito ai fratelli separati per riprendere il dialogo, che tante difficoltà, tuttora, conosce, soprattutto con i Patriarchi di Mosca e Belgrado4. La prospettiva post-giubilare di un terzo Millennio dell’unità, che segue il secondo Millennio che fu della divisione, è stata ripresa da Benedetto XVI. I messaggi inviati dai rappresentanti dei cristiani d’Oriente, che hanno espresso soddisfazione per la sua nomina a Pontefice, ha aperto un periodo di intensi scambi di visite e di proficui incontri dottrinali, in particolare con il Patriarcato di Mosca, che ormai ha superato le questioni strettamente storiche (con un sostanziale riconoscimento della fondatezza di numerose affermazioni dottrinali dell’Ortodossia in tema di Filioque). Vanno in questa direzione le dichiarazioni del vescovo Hilarion Alfeyev, rappresentante della Chiesa ortodossa russa presso le istituzioni europee, il quale ha formalmente dichiarato la fiducia di Alessio II circa il fatto che Benedetto XVI possa essere il Papa dell’unità. «Forse sarà

Benedetto XVI a realizzare la storica missione di riconciliare cattolici ed ortodossi per la difesa della cristianità contro la sfida del secolarismo militante». Sicuramente da questo nuovo clima trarrà giovamento il negoziato per i beni della Chiesa Uniate e la questione del proselitismo. Nel nome di Giovanni Paolo II, Apostolo degli slavi.

Note 47 1 cfr. Epistola Enciclica Slavorum Apo-

stoli Cap.VI Il Vangelo e la Cultura Par. II 2 cfr. Epistola Enciclica Slavorum Apostoli Cap.VII Significato e irradiazione del Millennio Cristiano nel mondo slavo Par. 27 3 È importante ricordare che in seno alla Chiesa Ortodossa non vi è un capo supremo ma diversi patriarchi delle Chiese nazionali “Autocefale” 4 In particolar modo sono rimasti senza risposta gli inviti rivolti da Wojtila al Patriarca Aleksei per un incontro da tenersi a Graz ed uno a Budapest.

L’Autore FEDERICO EICHBERG Dottore di ricerca presso l’Università di Bologna, direttore Relazioni internazionali della fondazione Farefuturo, è autore di numerosi studi e pubblicazioni sull’Unione europea.


L’eredità del comunismo

Ma i muri culturali rimangono ancora DI GENNARO MALGIERI


L’ANALISI Gennaro Malgieri

Nella notte tra il 9 ed il 10 no- venne eretto a separare il settore vembre 1989 Berlino si riempì di sovietico dai settori occidentali grida, rumori, canti. La folla di- della città. ventava con il passare dei minuti «Di tutta la sua vita, la sua morte immensa e si riversava nella stra- fu la sua opera più bella», ha de della città con una frenesia scritto lo storico britannico Tiquasi disumana. Su tutte una pa- mothy Garton Ash riferendosi al rola d’ordine che non tardò a con- Muro, ma soprattutto alla caduta tagiare chiunque: «Die Mauer ist dell’Impero Sovietico. La sua fine weg», il Muro è caduto. Tedeschi fu lenta, progressiva, inesorabile. dell’ovest si riversarono all’est e Nessuno può dire quando comintedeschi dell’est si ritrovarono al- ciò, ma tutti videro i segni dello l’ovest. La frontiera più crudele sgretolamento nell’implosione della storia dell’umanità non esi- economica e sociale dell’Urss, steva più. Nel mondo fino ad al- nella fine della guerra in Afghalora cosiddetto libero dominava nistan che i sovietici abbandonarono con la coda l’incredulità. Nestra le gambe, nel suno poteva im- “Die Mauer ist weg” messaggio di libermaginare che untà e di speranza che dici mesi più tardi gridavano i tedeschi . ci sarebbe stata La frontiera più crudele lanciò ai popoli oppressi dell’est il una sola GermaPontefice Giovannia. Il segnale del- dell’umanità ni Paolo II, nel l’evento epocale, non esisteva più dissenso disperato incredibile a dirsi, venne dal portavoce del Partito fino alla follia in alcuni casi di Socomunista della Ddr, Günter lidarnosc. Ma soprattutto nella diSchabowski, il quale, interpre- chiarazione di Gorbaciov che suotando il pensiero e lo stato d’ani- nò quasi come un segnale di resa, mo dell’ufficio politico di quelli poco prima dello straordinario che erano stato i più servili ed evento: «Noi non ci opporremo a atroci pretoriani di Mosca nel- quanto accadrà». Una svolta. Di l’universo concentrazionario so- più: il segno della ripresa del vietizzato, alla domanda di un cammino della storia per popoli giornalista italiano se le frontiere nelle cui anime si era fermata. sarebbero state aperte entro un L’ordine di Mosca non sarebbe relativamente breve lasso di tem- stato ristabilito a Varsavia, a Prapo, rispose seccamente di sì. In- ga, a Budapest, a Bucarest. L’orcalzato sui tempi, non si fece pre- dine di Yalta, insomma, sarebbe gare e disse: «Subito!». Fu quello stato fatto a pezzi dagli eredi di il segnale che i berlinesi attende- coloro che lo stabilirono schiavizvano. Anche coloro che avevano zando milioni di esseri umani. perso la speranza videro un sogno Quando la mattina dell’11 noavverarsi; un sogno coltivato dal vembre, alcuni berlinesi, ancora 13 agosto 1961, quando il Muro euforici per ciò che soltanto due

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IL DOCUMENTO

«Ab sofort». La notte in cui crollò il Muro Il 9 novembre 1989, il portavoce della Sed, Günter Schabowski, inizia a Berlino est una conferenza stampa internazionale assieme a Helga Labs, Gerhard Beil e Manfred Banaschak, membri del Comitato centrale del partito. Da questa conferenza, il cui corso probabilmente sfugge alle intenzioni degli organizzatori, emergerà la notizia dell’apertura delle frontiere tra la Germania est e il mondo. Di fatto è il crollo del Muro di Berlino. Riportiamo di seguito i passaggi decisivi.

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Ore 18.53 Domanda: «Mi chiamo Riccardo Ehrman, rappresento l’agenzia di stampa italiana Ansa. Signor Schabowski, lei ha parlato di errori. Lei non crede che sia un grande errore la proposta di legge di viaggio, non se l’aspettava qualche giorno fa?» Schabowski: «No, non credo. Noi sappiamo della tendenza della popolazione, per i bisogni del popolo, di viaggiare o di lasciare la Ddr. E noi abbiamo l’intenzione (…) di realizzare un complesso rinnovamento della società e di raggiungere tramite diversi elementi l’obiettivo che la gente non si senta più costretta a risolvere i problemi personali in questo modo. Questi sono, diciamo così, tanti passi che non si possono realizzare tutti allo stesso tempo. Si tratta di una sequenza di passi e di una chance attraverso l’allargamento delle possibilità di viaggio; la chance, dunque, attraverso la legalizzazione e la semplificazione del viaggio all’estero, di liberare la gente da una situazione di pressione psicologica (…). Tuttavia oggi, per quanto ne so (guarda verso Labs e Banaschak cercando la conferma) è stata presa una decisione. È stata accolta la raccomandazione del Politburo di togliere un comma della proposta di legge sui viaggi, che regola il viaggio permanente all’estero – dunque l’abbandono della Repubblica – e farla entrare in vigore. Perché noi riteniamo una situazione impossibile che questo movimento (la fuga dei cittadini della Ddr attraverso le am-

basciate della Repubblica federale in Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria, ndr) avvenga tramite Stati amici, il che non è neppure tanto facile per questi Stati amici. Per questo abbiamo preso la decisione di stabilire un regolamento che rende possibile a ogni cittadino della Ddr di viaggiare all’estero attraversando i punti di controllo della Repubblica democratica tedesca». Domanda (brusio di voci): «Questo vale…? Senza passaporto? No, no! Da quando vale…? Da quando entra in vigore?» Schabowski: «Come?» Domanda: «Da subito? Da…» Schabowski (grattandosi la testa): «Allora, compagni, mi è stato riferito qui (si infila gli occhiali per leggere meglio i fogli di carta) che oggi è stato diffuso un certo comunicato. Voi dovreste esserne in possesso. Dunque (legge velocemente dal foglio): “Viaggi privati all’estero possono essere richiesti senza la presenza di presupposti, motivi di viaggio o relazioni di parentela. L’autorizzazione viene data in tempo breve. L’ufficio passaporti della Polizia del popolo (Volkspolizeikreisaemter) della Ddr ha avuto la direttiva di dare i visti per il viaggio all’estero permanente senza indugio, senza i presupposti ancora vigenti». Domanda: «Senza passaporto?» Schabowski: «Viaggi permanenti all’estero possono avvenire attraverso tutti i posti di controllo dalla Repubblica democratica alla Repubblica federale. Così decade il conferimento temporaneo dei permessi nelle rappre-


L’ANALISI Gennaro Malgieri

sentanze all’estero della Ddr, cioè il viaggio all’estero permanente con la carta d’identità della Ddr attraverso paesi terzi. (Guarda in alto). Non posso rispondere adesso alla questione del passaporto (guarda in direzione di Labs e Banaschak). Questa è anche una questione tecnica. Non so, ma i passaporti devono… dunque, così perché ognuno sia in possesso di un passaporto bisogna che prima essi siano dati (…)». Domanda: «Quando entra in vigore?» Schabowski: (sfoglia nelle sue carte) «A quanto ne so subito, immediatamente (sfoglia di nuovo nelle sue carte)». Labs (legge): «Subito». Beil (legge): «Questo deve deciderlo il Consiglio dei ministri». Domanda (brusio di voci): «Lei ha parlato soltanto di Repubblica federale, ma vale anche per Berlino ovest?» Schabowski (legge velocemente): «Come l’ufficio stampa del ministero… il Consiglio dei ministri ha deciso che fino all’entrata in vigore di un’apposita legge della Camera del popolo resta valido questo regolamento di transito». Domanda: «Questo vale anche per Berlino ovest? Lei ha parlato soltanto di Repubblica federale». Schabowki (alza le spalle, fa una smorfia, guarda nelle sue carte): «Allora… sì, sì (legge) il viaggio permanente all’estero può avvenire attraverso tutti i posti di controllo della Ddr alla Brd e dunque a Berlino ovest». Da Ideazione, numero 5-1999

giorni prima li aveva proiettati in un’altra dimensione, videro approssimarsi al muro, un signore attempato, munito di un violoncello, non credettero ai loro occhi. Sedutosi davanti alle macerie di quella costruzione ormai cadente, su una sedia malferma imprestatagli da un abitante del quartiere, l’uomo, intorno al quale nel frattempo s’era radunata una piccola folla silenziosa, prese a suonare una suite di Bach, di carattere gioioso; poi un’altra più solenne, “in memoria di coloro che hanno lasciato qui le loro vite”. Così Mstislav Rostropovitch, sotto uno sbrecciato muro segnato da incomprensibili graffiti, celebrò la sua liberazione e quella del suo mondo prigioniero di una vendetta consumata contro l’Europa. Un mese dopo Vaclav Havel, l’eroe della primavera di Praga, pronunciò davanti al Parlamento di Varsavia un discorso tra i più vibranti della storia della libertà riconquistata e disse tra l’altro:

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«Al momento l’Europa è divisa. L’“immensa tragedia” è ancora viEd è divisa anche la Germania. va, per quanti sforzi si facciano al Sono due facce della stessa meda- fine di rimuoverla. Il più orribile glia: è difficile immaginare e devastante totalitarismo che la un’Europa che non sia divisa in storia abbia conosciuto, produsse una Germania divisa, ma è anche cento milioni di morti. Si può difficile immaginare la Germania credere davvero che l’Ottantanoriunificata in un’Europa divisa. I ve, data “fatale” per l’umanità e due processi di unificazione do- specialmente per l’Europa, possa vranno svilupparsi parallelamen- essere messo tra parentesi e sote, e anche subito se possibile [...] stanzialmente relegato nel retroI tedeschi hanno fatto molto per bottega degli orrori che l’ideolonoi tutti: essi hanno cominciato gia ha provocato? da soli a demolire il muro che ci Ce lo chiediamo perché da un po’ separa dal nostro ideale: un’Euro- di tempo sembra di assistere ad pa senza muri, senza sbarre di fer- una soffice minimizzazione di quegli eventi che ro, senza filo spinavent’anni fa sconto». Ecco. Vent’an- Il comunismo è morto, volsero la geografia ni dopo, sono rimondiale, mentre maste le grida di ma la sua eredità si ha l’impressione gioia nelle nostre persiste nella prassi che si tenda a ricororecchie di occidare soltanto la lidentali un po’ di- di chi si è formato stratti, ma l’Euro- nel suo ambito politico berazione di popolazioni che per depa di Havel e dei berlinesi non è ancora sostanzial- cenni (oltre settant’anni quella mente unita. Andare oltre il co- russa) hanno subito il giogo del munismo non è stato facile, co- sovietismo con la complicità del struire in un sistema di libertà mondo politico ed intellettuale una patria comune è certamente di buona parte del Globo, a coancora difficile. Perché i postumi minciare da quei “buoni europei” di quelle ferite sanguinanti dalla che tanto a lungo hanno tollerato fine della seconda guerra mondia- gli assassinii, le deportazioni, le le agli inzi degli anni Novanta carestie programmate, la miseria, dello scorso secolo, si avvertono l’intolleranza leninista, i gulag ancora. Al punto che Stephan staliniani e post-staliniani. Tra i Courtois, ideatore e curatore del “buoni europei”, naturalmente, Libro nero del comunismo, così ha non bisogna dimenticare scrittori sintetizzato gli effetti della cadu- celebri, gente dello spettacolo, ta del Muro: «Rimane un’im- intellettuali che a vario titolo mensa tragedia che continua a hanno edificato i loro monumenti pesare sulla vita di centinaia di sull’apologia del terrore. Nessuno milioni di uomini e che caratte- ha speso finora una parola per rizza l’entrata nel terzo Millen- mettere le cose a posto e dire a nio». Come gli si può dare torto? chiare lettere che la cultura euro-


L’ANALISI Gennaro Malgieri

pea è stata per buona parte complice nell’edificazione di tutti i muri, materiali e psicologici, che sono stati edificati dal 1917 in poi. I conti, dunque, debbono ancora essere completati. E quando ci si scandalizza di fronte alle tesi di Ernst Nolte sui contrapposti totalitarismi del Ventesimo secolo, nel tentativo di assolvere quello stalinista, si ha la sensazione che il Muro di Berlino non sia ancora stato abbattuto. Sono soprattutto gli eredi (a vario titolo, intellettuali e politici) di quei partiti comunisti occidentali che profusero grandi passioni nell’esibire la loro sudditanza nei confronti non soltanto dell’Unione Sovietica, ma del comunismo in genere variamente declinato a mostrarsi ancora reticenti nell’af-

frontare il tema del post comunismo alla luce dei danni provocati dall’ideologia che ha insanguinato buona parte del mondo. E c’è ancora chi si rifugia, quasi per giustificarsi, in una visione del marxismo come strumento di progresso e di emancipazione dei popoli. Un modo come un altro per vanificare quel grido dei berlinesi che festeggiavano piangendo e ridendo la riconquistata libertà. Le macerie raccolte sono ancora sotto i nostri occhi. Mentre la valutazione storica e morale non è stata ancora definitivamente compiuta, se è vero come è vero che il sovietismo come pratica di potere non è morto, ma agisce per altre vie restando sostanzialmente lo stesso a riprova che se il comu-


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nismo come ideologia è sepolto nella tomba della storia, la sua eredità politica persiste nella prassi di coloro che nel suo ambito si sono formati. Una riflessione su tutto questo e sulle mutazioni del marxismo nel mondo andrebbe fatta dopo due decenni nel corso dei quali si è creduto che tutto fosse cambiato, mentre in realtà, in alcuni paesi è mutata soltanto la forma del potere anche se nessuno si azzarda più per decenza a citare Lenin, Stalin o i classici del comunismo a supporto di politiche che si combinano maldestramente con l’apologia di un ben singolare “mercato” come nella Cina popolare, paese che sta facendo strame dei diritti dei popoli dal Tibet allo Xinjiang dove gli uiguri vengono sistematicamente massacrati nell’indifferenza di quello stesso mondo libero che plaudì alla caduta del Muro. Ha sorpreso, tra l’altro, che dopo gli eventi successivi all’Ottantanove, la sinistra italiana non abbia mai effettuato un’adeguata analisi di ciò che il totalitarismo comunista aveva prodotto non soltanto dove si era affermato politicamente, ma anche e soprattutto nell’ispirazione fornita alla cultura occidentale. Non sono state pronunciate, insomma, parole chiare e definitive sul comunismo da parte di chi in esso si è riconosciuto e non certo quando non aveva l’età per intendere. La spiegazione, forse, risiede nel pregiudizio nutrito dall’ultima generazione di comunisti italiani, vale a dire la certezza che

l’ideologia che li ispirava poteva essere riformata; cioè che bastasse una correzione di rotta nell’orizzonte aperto da Marx e dalla Rivoluzione d’Ottobre per rendere accettabile il comunismo. Così trascorsero gli anni Ottanta, gli anni del disgelo post-brezneviano nell’attesa messianica di qualcosa che non sarebbe potuto mai accadere. Da qui la difficoltà di un’analisi tempestiva e credibile che certo ha ritardato, almeno in Italia, ma pure in altri paesi europei come la Francia ad esempio, la presa di distanza dall’orrore del sovietismo. L’ultimo Muro che ancora deve accade, dunque, è quello culturale. Rimuovere non serve a niente: i fantasmi possono sempre ripresentarsi sotto forme inimmaginabili. Bisogna riconoscere e ricordare. E nello stesso tempo sottoporre ad un rigoroso vaglio critico ciò che ha generato il comunismo stesso, attraverso un’opera di demistificazione dei miti che lo hanno preceduto. A cominciare dall’Illuminismo. È troppo?

L’Autore GENNARO MALGIERI

Giornalista, ha diretto il Secolo d’Italia e L’Indipendente. Consigliere d’amministrazione della Rai dal 2005 al 2009, attualmente è deputato del Popolo della libertà e membro della commissione Affari esteri della Camera.



I fuggiaschi del Muro di Berlino

Quell’insopprimibile voglia di libertà DI PAOLO QUERCIA

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LA STORIA Paolo Quercia

Vent’anni fa veniva giù uno dei simboli più odiosi e ripugnanti dell’esperienza del comunismo europeo. Non che la costruzione del Muro di Berlino rappresenti la peggiore delle nefandezze che il comunismo abbia prodotto nell’Europa dell’est. I 155 chilometri di cemento che a Berlino hanno diviso per quasi trent’anni

quartieri, strade, piazze e famiglie, non potrebbero mai competere con la grande varietà di scientifica oppressione politica, sociale, economica che il comunismo ha prodotto nei gulag, nelle fabbriche, nelle caserme della Stasi, nel controllo oppressivo di ogni forma di espressione di libertà e di pensiero. Ma la partico-

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lare ripugnanza di quel muro ri- diso dei lavoratori e il regno della siede nel fatto che esso divenne giustizia sociale e del progresso presto la plastica metafora di economico? La fuga andava arrequello che ogni regime comunista stata per poter mantenere in piedi finiva inevitabilmente a rappre- la credibilità residuale della prosentare per la propria popolazione, paganda. I due mondi andavano ossia una forma di regime carcera- separati di netto, con due muri e rio a cielo aperto. Il muro, dun- una striscia della morte in mezzo que, non come strumento di sorvegliata notte e giorno da cecprotezione, ma come vallo per ar- chini armati con licenza di ucciginare la fuga in massa della po- dere. E la costruzione del muro polazione dal regime fantoccio pagò, almeno dal punto di vista dell’est in mano ai sovietici verso della logica del terrore e della proquella magica striscia di libertà, paganda ideologica. Con il Muro, quella Berlino ovest assediata ma fuggire da Berlino est era diveporta d’ingresso dell’Occidente li- nuta un’operazione da arditi che solo pochi temerari bero. Nel 1961, al o disperati potemomento in cui si L’immagine più bella vano tentare. Dalla iniziò la costruritrae un soldato costruzione del zione del muro, Muro fino al suo milioni di tedeschi della DDR che corre e crollo almeno cindell’est avevano siquemila persone lenziosamente già salta la triste barriera riuscirono a fuggire trovato la strada di filo spinato mentre circa cinper passare illegalmente la frontiera, mettendo in quecento trovarono la morte sotto seria crisi il regime e soprattutto il piombo dei Vopos. Ad essi si dimostrando che, quand’anche uniscono quelli che riuscirono a ogni forma di espressione e di par- superare il Muro in altro modo, tecipazione politica viene abolita, come merce di scambio di un i popoli oppressi possono ancora turpe commercio che il governo “votare con i piedi”, abbando- della Ddr aveva messo su con nando alla prima occasione, ed quello di Bonn con la vendita dei anche a costo della vita, i propri “prigionieri politici” ossia quelli aguzzini. Quest’esodo di enormi incarcerati per reati d’opinione. proporzioni dalla Germania co- Non prima di aver scontato tre munista alla Germania libera e anni di lavori forzati, trattative severso l’Occidente non creava solo grete consentivano alla Germania problemi materiali al regime della ovest di comprare propri connaDdr ma rappresentava anche una zionali ad un prezzo oscillante tra forma dannosissima per la propa- i 40mila e i 120mila marchi. ganda del comunismo. Come è Oltre 15mila ostaggi furono ripossibile che in milioni sfidano la scattati alla libertà con questo trimorte per abbandonare quello che ste mercanteggio. viene propagandato come il para- Ma il fenomeno più entusia-


LA STORIA Paolo Quercia

smante della triste storia del Muro di Berlino, quello che ci ricorda dell’insopprimibile anelito per la libertà che è presente in ogni uomo, è quello del numero di soldati della Ddr che decisero di approfittare del proprio ruolo di guardiani del regime per abbandonarlo saltando dall’altra parte del confine. Furono 568 quelli che scavalcarono il muro che avrebbero dovuto sorvegliare e diverse migliaia quelli che attraversarono il confine in altri punti tra il 13 agosto 1961 e il novembre 1989. Oggi, in un mondo inflazionato da icone ed immagini spesso insignificanti o banali, è difficile pensare ad una foto che possa al meglio rendere visivamente il senso del concetto di “libertà”. Eppure ce ne è una che viene da Berlino incredibilmente bella e significativa, che supera forse quella del ragazzo cinese davanti alla colonna di carri armati a Piazza Tiananmen. È la foto di un ignoto soldato della Ddr che, messo lì a sorvegliare la costruzione del muro, decide di prendere la rincorsa e saltare il filo spinato prima che la costruzione del muro lo condanni per sempre ad un destino al tempo stesso di vittima e di aguzzino. È una foto incredibile, in bianco e nero, stranamente poco diffusa e conosciuta ma che andrebbe in questo anniversario ripensata come il vero motivo del perché è stato giusto combattere la divisione dell’Europa e aiutare i popoli dell’Est a vincere la perversione ideologica del comunismo. Al tempo stesso, è oggi in un certo modo malinconico pensare

che nei vent’anni che hanno seguito la caduta del muro è difficile trovare un’altra foto che possa visivamente rendere la gioia e l’orgoglio di avere visto crollare il muro di Berlino con tutto il suo carico di ingiustizie e di ineguaglianze.

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L’Autore PAOLO QUERCIA Analista di relazioni internazionali ed esperto di questioni e di sicurezza. Consulente del Centro alti studi di difesa, è responsabile degli Affari internazionali della Fondazione Farefuturo.


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opo essere riuscita a sfuggire ai piani di ridimensionamento messi a punto dagli Usa e dall’Occidente, la Russia di oggi tenta di ricrearsi un nuovo spazio geopolitico sullo scacchiere globale, usando le fonti energetiche e riallacciando vecchi rapporti strategici in giro per il mondo.

Mosca cerca una nuova collocazione geopolitica

La Russia traccia il suo futuro fra Asia ed Europa DI GIULIANO FRANCESCO


GEOPOLITICA Giuliano Francesco

La politica estera russa riflette una visione consolidata degli interessi nazionali della Federazione più che gli umori della sua attuale dirigenza. Al suo centro, si trova l’ambizione di arrestare il declino geopolitico iniziato nelle fasi finali della Guerra Fredda, preservare al paese lo status di grande potenza e nei limiti del possibile modificare a vantaggio di Mosca le frontiere della sfera d’influenza in cui la Russia è stata incapsulata dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Il progetto revisionista che si va dipanando è il risultato di un lungo processo di ripensamento dell’identità russa nel corso del quale, dopo un’iniziale prevalenza dei fautori della modernizzazione attraverso l’occidentalizzazione, hanno preso il sopravvento i sostenitori delle teorie eurasiste, secondo i quali Mosca dovrebbe prima di tutto difendere la specificità della propria civilizzazione, sviluppando una politica estera multivettoriale, cioè aperta alla costruzione di rapporti cooperativi con tutti gli interlocutori più o meno prossimi alle proprie frontiere e priva di un vero asse privilegiato. Può essere interessante a questo proposito notare le notevoli somiglianze esistenti tra le concezioni oggi prevalenti dell’eurasismo russo e la teoria huntingtoniana dello scontro di civiltà, all’interno della quale già tredici anni fa la Russia veniva descritta come leader in pectore di una irriducibile civilizzazione “ortodossa”, differente ed antagonista rispetto a quella occidentale di matrice cattolico-protestante. L’eurasismo implica, a seconda delle varianti in cui si è finora materializzato, incluse quelle elaborate dal segretario dei comunisti russi Ghennady Zyuganov e dall’intellettuale tradizionalista Alexandr Dugin, anche dosi più o meno accentuate di autoritarismo interno, giustificate facendo riferimento alla necessità di assicurare attraverso uno Stato forte il mantenimento dell’ordine politico in uno spazio vasto, relativamente poco popolato e costante-

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mente esposto al rischio della frammentazione e della disgregazione. Come ha lucidamente dimostrato in un suo brillante saggio recente il portavoce della Farnesina, Maurizio Massari, l’elemento peculiare del putinismo è stato quello di aver fatto discendere la restaurazione del prestigio internazionale della Federazione dalla ricostruzione dell’autorità dello Stato, in particolare attraverso il ripristino della cosiddetta “verticale del potere”, il cui tracollo ad un certo punto aveva minacciato di suscitare anche dentro la Russia un’ondata di “rivoluzioni colorate” e, verosimilmente, di rivendicazioni indipendentiste. È 62 una circostanza sintomatica di questo stato di cose il fatto che l’avocazione al Cremlino del potere di nominare i governatori elettivi delle entità federate si sia accompagnata al varo di una legislazione estremamente restrittiva nei confronti delle attività delle organizzazioni non governative straniere sul suolo russo. In qualche modo, la Russia si è sentita prima declassare dall’Occidente e poi apertamente minacciata nelle sue possibilità di sopravvivenDopo la caduta za. Putin altro in Russia si sono non avrebbe fatradicate delle élite to che prenderostili all’Occidente ne atto e confezionare una strategia di risposta, che lo sfruttamento a fini politici delle forniture energetiche ha reso straordinariamente efficace. Eppure il dopo Guerra Fredda si era aperto in modo assai promet-

tente e, più recentemente, all’indomani degli attacchi alle Torri Gemelle, era sembrato che fosse nuovamente possibile dar vita ad una grande alleanza organica russo-americana sotto l’egida della lotta al terrorismo internazionale. Così invece non è stato. Al contrario, si sono progressivamente radicate nelle élite russe percezioni decisamente ostili all’Occidente, da cui ha tratto forza il progetto revisionista perseguito oggi da Putin e prima ancora da Evgenji Primakov, il premier che nel 1999 ordinò al pilota dell’aereo


GEOPOLITICA Giuliano Francesco

che lo stava portando a Washington di tornare indietro in segno di protesta per l’avvio della campagna aerea della Nato contro la Federazione Jugoslava. Né in America né nell’Europa dell’Unione si è probabilmente compreso per tempo che peso la dirigenza e l’opinione pubblica russe attribuissero alla preservazione dello status internazionale del paese. Da un lato, si è semplicemente cercato di stravincere. Dall’altro, si è seriamente quanto ingenuamente creduto di trasformare ra-

pidamente una grande potenza militare in una civilian power modellata sull’esempio tedesco, quando sarebbe stato forse il caso di considerare per la Russia il precedente alternativo offerto dalla trasformazione di ruolo Usa ed Europa hanno geopolitico ac- cercato di trasformare cettata dalla la grande potenza russa in una civilian power Gran Bretagna dopo la dissoluzione del suo impero. L’equivoco tra Russia ed Occidente persiste tuttora ed aleggia in particolare sulle grottesche discussioni diplomatiche in materia di disarmo nucleare e di dispiegamento nel nostro continente delle difese antimissilistiche statuni63 tensi, che sembrano ignorare la circostanza che proprio le “bombe” sono l’elemento che permette alla Federazione russa di trattare formalmente ancora da pari a pari con Washington. Dei negoziati bilaterali hanno recentemente condotto all’adozione di nuovi tetti quantitativi per gli arsenali controllati dalla Casa Bianca e dal Cremlino: un segnale certamente positivo di distensione dovuto in misura non trascurabile all’esigenza di Mosca di mantenere la propria “quasi parità” con l’America ad un costo più basso. Ma è chiaro che nessuno in Russia potrà a cuor leggero accettare la cancellazione completa del deterrente strategico nazionale, che esalterebbe la straordinaria supremazia occidentale nel campo delle tecnologie militari convenzionali. Eppure, nell’enunciare a Praga la sua visione neo-reagania-


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na di un mondo completamente libero dalle armi nucleari appena dopo aver visitato la Russia, lo stesso presidente Barack Obama ha contribuito a confondere le acque circa le reali intenzioni degli Stati Uniti. L’attuale capo della Casa Bianca non è stato certamente il primo ad inviare messaggi contraddittori. Segnali in contrasto con la dichiarata volontà di non imporre a Mo-

sca una pace dei vincitori simile a quella decretata nei confronti della Germania a Versailles erano stati mandati anche negli anni Novanta. L’ex consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, Zbignew Brzezinski, aveva ad esempio a suo tempo raccomandato all’amministrazione democratica guidata da Bill Clinton di perseguire nei confronti della Federazione russa una strate-


GEOPOLITICA Giuliano Francesco

gia di roll back, letteralmente “risospingimento”, auspicandone altresì la ristrutturazione in una lasca Confederazione di Stati quale preludio alla sua definitiva cancellazione dalla storia. Rimase inascoltato. Ma non c’è da stupirsi che da queste posizioni abbiano tratto forza gli elementi più conservatori della società e del mondo politico russo per arrestare l’esperimento liberale ed occidentalista e riportare la Russia su sentieri più tradizionali.

ultimi anni del secolo scorso, ristabilendo la propria supremazia nel cosiddetto “estero vicino”. Lo si è visto nell’estate del 2008 in Georgia ed ancor prima sulla scena politica ucraina, di cui la Russia orchestra le vicende da almeno quattro anni con i suoi referenti locali e con le pressioni energetiche in modo tale da allontanare Kiev dal traguardo dell’integrazione euro-atlantica. La strategia russa è stata finora prudentemente indiretta. Il suo obiettivo è quello Un eurasismo Mosca non ha interesse di evitare il coalizzarsi di un esteso moderato fronte di potenze L’indebolimento a restaurare l’ordine ostili e di sfruttare dell’occidentali- mondiale bipolare le divisioni emerse smo ed il parallelo nel mondo del dograduale riorienta- estistente durante po Guerra Fredda mento della politi- la Guerra Fredda per ricavarsi nuovi ca estera di Mosca in senso eurasista sono stati quin- margini di manovra, creare fatti di una risposta logica alla necessi- compiuti e realizzare progressi dotà di sfuggire ad un abbraccio ve possibile, senza tuttavia mai tagliarsi completamente i ponti alle percepito come mortale. La Federazione non coltiva peral- proprie spalle. È questo approccio tro alcuna seria ambizione di re- ad aver condotto al conflitto con la staurazione dell’ordine bipolare, Georgia dell’agosto dello scorso ma pare piuttosto mirare a far anno, ma anche agli accordi con i parte del direttorio internazionale quali i russi hanno più tardi conche gestirà il mondo multipolare cesso all’Alleanza atlantica di utie post-americano attualmente in lizzare il loro territorio per rifornigestazione. Non è più rinunciata- re le truppe della Nato rischierate ria, ma apprezza realisticamente sul fronte afghano. l’effettiva correlazione di forze de- In più, si esplorano direttrici terminatasi tra la Russia, le gran- nuove e si riesumano alcuni assi di potenze occidentali ed i gigan- abbandonati dai lontani anni Otti emergenti dell’Oriente asiatico. tanta. Nella Shanghai CooperaMosca ha altresì dimostrato di es- tion Organization, ad esempio, ser pronta a cogliere le occasioni Mosca collabora con Pechino sia che si presentano per modificare a nella battaglia contro il jihadiproprio vantaggio i confini delle smo che nel contenimento della sfere d’influenza ereditati dagli penetrazione occidentale in Asia

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Centrale, al contempo control- I vincoli gravanti landone l’espansione nell’estero sulle ambizioni russe vicino, specialmente in Kaza- Il programma di restaurazione khstan e Turkmenistan. Anche in della potenza nazionale russa si è Africa la Repubblica popolare è comunque già scontrato con alpiù un competitore che un partner meno due vincoli che rischiano a della Russia, che si sta affaccian- medio e lungo termine di vanifido sia diplomaticamente che mi- care gli sforzi intrapresi per la sua litarmente in molti paesi del realizzazione. Il primo è quello di natura econoContinente nero. Oggetto di nuova elaborazione è mica. Grazie agli alti prezzi del invece la politica artica della Fe- petrolio e del gas nel periodo derazione, un tempo strettamen- 2004-2008, la Federazione ha te legata al controllo delle rotte potuto saldare in anticipo il suo ingente debito battute dai sottoestero, avviare un marini e dello spa- Grazie agli alti prezzi significativo piazio aereo nel quale no di riarmo e si sarebbe svolta del petrolio, la Russia porre mano alla l’ipotetica battaglia è riuscita a saldare ricostruzione di tra le flotte aeroalcuni elementi missilistiche delle in anticipo l’ingente centrali della fundue superpotenze, debito estero zione pubblica. ed oggi invece condizionata dagli imperativi della La crisi finanziaria internazionale politica energetica, cui il disgelo esplosa lo scorso anno ha però didei ghiacci polari ha dischiuso mostrato tutte le vulnerabilità di una rinascita essenzialmente trainuove prospettive. Quanto ai vecchi amici trascurati nata dall’esportazione di materie da tempo, il Cremlino è tornato a prime. La destinazione di parte coltivare il regime siriano degli del surplus energetico ad un fondo Assad, malgrado i tentativi fatti sovrano di stabilizzazione è riudal nuovo ministro degli Esteri scita finora a garantire la sosteniisraeliano, Avigdor Lieberman, bilità degli obiettivi prescelti dai un ebreo nato in Unione Sovieti- vertici politici russi, ma la recesca, di pervenire allo stabilimento sione ha impedito alla Russia di di relazioni bilaterali migliori tra fare significativi progressi nello Mosca e Tel Aviv. Nei Caraibi, sviluppo di un apparato produttiinfine, non c’è ancora stato un vo competitivo sui mercati monvero rilancio dei rapporti con diali. Esistono certamente delle Cuba, ma tanto la diplomazia nicchie di eccellenza, specialmenquanto le Forze armate russe te nel campo aerospaziale e dei hanno fatto capolino nel Golfo materiali d’armamento, ma nel del Messico, dando vita anche ad complesso la Federazione è tuttoesercitazioni aeronavali con la ra un paese che esporta risorse minerarie ed importa manufatti, Difesa venezuelana.


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esattamente come le petromonarchie arabe, che però non nutrono le medesime ambizioni internazionali del Cremlino. Il secondo limite che condiziona le prospettive geopolitiche della Russia è rappresentato dal declino demografico che ha colpito la sua popolazione sin dagli anni della stagnazione brezneviana. L’attuale premier Vladimir Putin lo considera la maggiore emergenza nazionale, in quanto suscettibile di privare la Federazione di uno degli elementi basilari della potenza politica, e proprio per questo ha varato un’articolata politica di incentivi alla natalità. Entro trent’anni, in effetti, in termini puramente numerici i russi potrebbero

essere sorpassati tanto dai turchi quanto dagli iraniani, complicando significativamente il mantenimento agli attuali livelli dell’influenza di Mosca nel Caucaso. Ad aggravare la circostanza, inoltre, concorrono altri due fattori: il declino demografico in atto sta colpendo soprattutto la componente slava della popolazione ed è avvertito molto più ad est che ad ovest degli Urali. L’effetto combinato è quello di una progressiva attenuazione del carattere russo della popolazione della Federazione che si associa allo spopolamento della Siberia orientale e della Jakuzia, ponendo a rischio nel lungo periodo la sostenibilità di qualsiasi politica

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eurasista di alto profilo. Occorre infatti tener conto della circostanza che alle sue frontiere orientali, la Russia confina con una Repubblica popolare cinese che potrebbe con il tempo essere indotta dall’esuberanza delle proprie risorse demografiche a considerare un obiettivo realisticamente perseguibile la revisione dei cosiddetti “trattati ineguali” con i quali il Celeste Impero venne privato di parte cospicua dei propri possedimenti nell’Asia nord-orientale. Già adesso, la Federazione subisce una specie di invasione soft, ad opera di decine di migliaia di giovani cinesi che emigrano ogni anno più o meno legalmente verso nord. L’analisi di questi trend di lungo termine è certamente parte del calcolo politico che precede sia definizione degli obiettivi che l’elaborazione delle strategie necessarie al loro perseguimento da parte della leadership russa. L’impressione che si ricava dalle mosse più recenti del Cremlino è quella di un paese che sta cercando di trarre il massimo profitto possibile da una correlazione delle forze meno sfavorevole di qualche anno fa, prima che dispieghino pienamente i loro effetti alcuni processi destinati ad erodere nuovamente i fattori di potenza sui quali la Federazione russa può attualmente contare. In parole povere, Mosca usa oggi la forza militare e la capacità di intimidazione politica di cui dispone per determinare un nuovo e migliore status quo che sia difendibile nei prossimi due o tre decenni. Te-

mere un ritorno di fiamma dell’imperialismo russo non ha quindi molto significato, anche se occorre identificare quale tipo di relazione convenga all’Occidente, ammesso che esista ancora come entità geopolitica unitaria, di instaurare con la Russia. Un mix di cooperazione e competizione

Il problema, in un certo senso, è come comportarsi con la Federazione nei prossimi dieci-quindici anni, se possibile evitando di ripetere alcuni degli errori che hanno caratterizzato le relazioni con Mosca all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Definire un atteggiamento comune, tuttavia, non è più agevole come ai tempi della Guerra Fredda. La percezione della Russia non è più omogenea e suscita particolari dubbi la posizione degli Stati Uniti nei confronti di Mosca. Talvolta, Washington da infatti l’impressione di ricercare una relazione strategica privilegiata con Pechino che non marginalizzerebbe soltanto la Federazione russa, ma anche l’Europa, dando forza a coloro che all’interno dell’Unione vorrebbero giocare più spregiudicatamente la strada di un’intesa neo-continentalista, alla Mackinder, tra Mosca, Bruxelles, Berlino, Parigi e Roma. Ma riesce difficile, almeno per ora, immaginare un’Amministrazione americana disponibile a rinunciare all’architettura degli equilibri politico-strategici instaurata in Europa, costringendo alcuni fra i suoi più tradizionali alleati ad


GEOPOLITICA Giuliano Francesco

esplorare l’incognita geopolitica di un asse con la Russia. Molto più probabile sembra invece un futuro in cui, nell’Europa continentale, l’influenza relativa di Stati Uniti e Russia fluttui a seconda dei dossier trattati. In materia di energia, ad esempio, difficilmente Washington potrà contrastare la progressiva integrazione tra i fornitori russi ed i consumatori europei, che potrebbe anzi divenire con il tempo ed a certe condizioni uno straordinario elemento di vantaggio competitivo per l’Unione. Sul piano del mantenimento dell’ordine e della sicurezza internazionale, dove maggiormente conta la supremazia militare statunitense, pare invece impossibile che il Cremlino possa sperare di sostituirsi alle garanzie che Casa Bianca e Pentagono offrono: troppo rassicurante la leadership di Washington in questo campo, e troppo forti i timori nutriti da una buona metà degli Stati membri dell’Ue nei riguardi della Russia perché ciò possa verificarsi. Dopo tutto, non è certamente un caso che, con la notevole eccezione della Grecia, a venti anni dalla fine della Guerra Fredda Mosca non sia riuscita neanche a penetrare il mercato europeo dei materiali d’armamento. Un simile scenario, del resto, è coerente con la progressiva ristrutturazione del pianeta politico in una più fluida costellazione multipolare. Nel “concerto mondiale” che verrà, infatti, con ogni probabilità le alleanze tra gli Stati saranno più simili ad instabili

flirt che ai duraturi matrimoni del recente passato. Assisteremo quasi certamente a molti giri di valzer ed aumenteranno sensibilmente anche gli accordi a geometria variabile. Per gli europei, l’elaborazione di una relazione equilibrata e vantaggiosa con la Russia sarà in questo senso soprattutto un test della capacità degli Stati del Vecchio Continente di adattarsi a questa condizione di influenze concorrenti. Nei paesi che si sono maggiormente esposti nei confronti della Federazione, come la Germania e l’Italia, i rischi e le opportunità di questa situazione sono già in parte affiorati ed hanno condotto all’adozione di una strategia basata sul concetto delle concessioni reciproche e bilanciate, che ha oltretutto il pregio di accrescere la rilevanza di chi la pratica nel calcolo geopolitico delle potenze interlocutrici. È anche per godere di una maggior libertà di manovra nei confronti della Russia che un significativo numero di soldati italiani e tedeschi è oggi impiegato con pochissime limitazioni in Afghanistan. Non c’è ragione di ritenere che questo modello non possa essere applicato con successo anche dagli altri paesi dell’Unione.

L’Autore GIULIANO FRANCESCO Cultore di studi strategici all’Università LuissGuido Carli di Roma.

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Molti ancora i nodi politici ed economici

Le troppe incognite del Cremlino DI GUIDO LENZI

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onostante faccia parte di tutti i gruppi ristretti ai quali è affidato il compito di gestire l’attuale transizione, la Russia rimane diffidente e fredda. Lo scopo di Mosca è quello di riottenere lo status di potenza globale perso vent’anni fa. Senza rendersi conto, però, che nell’attuale mondo piatto, Washington non può assegnare quarti di nobiltà a nessuno.


L’ANALISI Guido Lenzi

Fra le peregrinazioni sinora compiute per presentarsi ad un mondo tuttora in attesa di iniziative da Washington, Mosca si è rivelato il luogo nel quale il presidente Obama è stato accolto con minor pubblico interesse (senza alcuna diretta televisiva!) e reciproco evidente impaccio. Con buona pace dello sbandierato reset. La generica registrazione di non me-

glio specificati interessi comuni, con la promessa di analizzarne ulteriormente la consistenza, è stata corredata da scarne indicazioni sulle auspicabili convergenti intenzioni. L’esatta entità del comune disarmo strategico e della rispondenza all’atteggiamento di Iran e Corea del Nord dovrà ancora attendere. Bisogna lasciare tempo al tempo. Ma quel che maggiormente sorprende è che la Russia continua ad ostentare la propria estraneità ad eventi internazionali in radicale transizione, nell’ambito dei quali pretende di primeggiare senza partecipare, lamentandosi poi di essere messa di fronte a fatti compiuti. Eppure, la Russia è inclusa in tutti i gruppi ristretti ai quali è affidato il compito di gestire l’attuale transizione, e nel fungere da motore di avviamento per adeguare l’ordinamento internazionale alle sopravvenute esigenze di una collettività internazionale allargatasi a dismisura. Nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nel G8, nel G20, nel Quartetto per il Medio Oriente, nel Gruppo di Contatto per i Balcani, nel 5+1 per l’Iran, nel Consiglio Nato-Russia, Mosca è sempre stata coinvolta nelle riflessioni altrui, potendovi far valere le proprie ragioni. Il suo comportamento è forse appesantito dalla circostanza che da duecento anni, dopo il Congresso di Vienna e l’instaurazione post-napoleonica del “concerto di potenze” europee, è rimasta estranea alle ricorrenti sistemazioni continentali. Nell’ultimo secolo, non era a Versailles

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nel 1919 per l’auto-emarginazione della rivoluzione di ottobre; non a Parigi nel 1945 per la spaccatura continentale operata da Stalin; e neppure, in realtà, ad Helsinki nel 1975, quando fu instaurato un siLa principale ambizione stema pan-euè quella di essere ropeo della reintegrata fra i grandi Csce, che Modi questa terra sca ha subito e cui oggi imputa la disgregazione dell’Urss e l’intromissione nei propri affari interni. La principale ambizione di Mosca rimane quella di essere reintegrata fra i grandi di questa terra. Uno status preteso, all’antica, dall’unica attuale superpotenza che ritiene in grado di conferir72 gliela, dopo aver con essa condiviso per mezzo secolo il governo del mondo. Incurante della circostanza che, nell’attuale mondo “piatto”, Washington non può attribuire quarti di nobiltà internazionale a nessuno, bensì semmai - come sta facendo il nuovo presidente - tendere la mano a chi intenda compiere il medesimo cammino per il comune riscatto dagli errori del passato. Nel momento storico in cui si sono dissipate le rendite di posizione tipiche dell’era bipolare, mentre Obama tenta di esplorare la strada per uscire dal labirinto, la Russia di Medvedev e Putin (a giudicare anche dai nuovi testi di storia patria) sembra procedere a ritroso. Invece di presentarsi come partner per la ricomposizione di un’Europa “unita e libera”, come Gorbaciov e Eltsin avevano dichiarato di voler fare, Mosca

torna ad atteggiarsi ad antagonista persino nei confronti di una ancor balbuziente Europa unita1. Se ne dovrebbe concludere che, contrariamente alle tante aspettative suscitate dalla perestroika di Gorbaciov, nonostante l’adesione alla Carta di Parigi adottata nel 2000, la Russia non intenda (non sia in grado di?) proporsi come interlocutore internazionale, a parità di condizioni. Dmitri Trenin, della Carnegie Foundation di Mosca, afferma senza mezzi termini che «la Russia (di Putin) ha voltato le spalle al campo occidentale nel


L’ANALISI Guido Lenzi

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tentativo di recuperare la sua influenza nell’ex spazio sovietico». Il fatto è che la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenute in modo spontaneo e sostanzialmente incruento, hanno esentato la dirigenza e la stessa opinione pubblica dall’introspezione catartica necessaria per rimettere la Russia post-comunista in carreggiata. La perdita del glacis conquistato sul campo di battaglia in Europa orientale e soprattutto il distacco dei territori incorporati dai tempi di Caterina la Grande vengono pertanto av-

vertiti e presentati (ed imputati all’Occidente) come una ferita aperta che soltanto la restaurazione di un’“area di influenza privilegiata” può rimarginare. Lo stesso contratto sociale La Russia ha voltato interno rimane le spalle all’occidente impostato e ge- per recuperare la sua stito verticisti- influenza nell’ex Urss camente, con scarse concessioni ai criteri democratici e alle specificità locali, nell’applicazione del maldefinito neologismo di “democrazia sovrana”. La massima preoccupazione del Cremlino è di scongiurare le


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derive anarchiche che percorrono fin dove si estenda la solidarietà da sempre il corpo sociale russo, e di alcuni degli ex Urss: nessuno di combattere il crimine organiz- di loro ha ad esempio riconosciuzato, i traffici illeciti, l’immigra- to l’indipendenza dell’Abkhazia zione clandestina. Facendo anche e dell’Ossezia del Sud. Problein tal caso ricorso all’atavica evo- matica è pertanto per Mosca la cazione di uno stato d’assedio, pretesa di disporre di una propria che alimenta anche l’atteggia- area di influenza riservata in un mento visceralmente antiameri- assetto globale multipolare. Agcano dei mezzi di informazione. gravata dal persistente dilemma A farne le spese sono gli stessi in- sulla propria collocazione geopovestimenti privati dall’estero, litica, che dai tempi di Pietro il dissuasi da una amministrazione Grande oppone gli slavofili ai fie giurisdizione penalizzanti (per- loccidentali 2. sino l’Ikea ha chiuso i battenti!). In un mondo deideologizzato, la Mentre gli idrocarburi, rimasti Russia non può d’altronde più “monocoltura” preatteggiarsi a didominante nelle Mosca pretende fensore dei “danesportazioni, vengonati della terra” no utilizzati come una propria area e solidarizzare arma contundente di influenza riservata con Stati quali la invece che come Corea del Nord, moneta di scambio e in un assetto globale l’Iran, il Venestrumento di colla- “multipolare” zuela, dichiaraborazione internatamente ribelli zionale. Ne consegue, fra l’altro, all’ordinamento internazionale. l’indisponibilità di Mosca ad ade- Nè può rimanere immobile, rire all’Organizzazione mondiale ideale “terza Roma” fra Europa e del commercio, così come alla Asia, incapace di scegliere fra il Carta europea dell’energia. suo passato e il suo futuro, in Eppure le attuali faglie di grave una psicosi di accerchiamento instabilità, dal Medio Oriente al- che, alimentata ad arte, è divenl’Iran all’Afghanistan e Pakistan, tata instrumentum regni. Inducenlambiscono il ventre molle della dola (dopo la defezione dei paesi Russia, in quella serie di Repub- baltici) a trattenere in ostaggio bliche autonome fra il Mar Nero gli Stati emersi dalla disgregae il Mar Caspio (Circassia, Ka- zione dell’Urss, con le consebardino-Balkaria, Ossezia, Ingu- guenti ricorrenti pressioni peshezia, Cecenia, Daghestan) dalle trolifere e gli interventi anche croniche fragilità etnico-costitu- militari come quello dell’estate zionali, contigue ai paesi del- del 2008 in Georgia. l’Asia Centrale di recente indi- Particolarmente rivelatrici di tale pendenza, gonfi di petrolio e gas, stato di cose sono infatti le perduin bilico fra Russia, Cina ed Oc- ranti crisi, eufemisticamente eticidente. Ancora da dimostrare è chettate come “congelate”, lungo


L’ANALISI Guido Lenzi

l’intera fascia di comune conti- guenti responsabilità di ordine guità che divide ancora l’Europa globale. Ben diversamente si coma vent’anni dalla caduta del Mu- porta la Cina, che si rivolge a Stati ro, dalla Bielorussia, all’Ucraina, Uniti ed Unione europea dichiaalla Moldova, ai tre Stati del Cau- rando di riconoscere gli interessi caso. Una situazione che contrad- comuni, talvolta forse ipocritadice la visione di un’Europa riu- mente ma preoccupandosi di non nificata che Gorbaciov e Eltsin ledere il consenso internazionale 3. avevano condiviso, e che Putin e La rispondenza internazionale Medvedev ora apertamente rinne- all’atteggiamento assertivo della gano. Fino ad imputare all’Occi- Russia è ancora alquanto diversidente gli allargamenti istituzio- ficata e contraddittoria, forse pernali dell’Ue e della Nato, dettati ché l’opinione generale è interdall’evoluzione delle circostanze, detta e pertanto ancora circospettutt’altro che deliberatamente of- ta. Gli Stati Uniti si dichiarano fensivi, e che hanno semmai se- ora disposti a stabilire un più riamente appesanesplicito rapporto tito il processo di Anche per gli Usa bilaterale privileintegrazione eurogiato, da pari a papea. La reazione è utile una Russia forte, ri: Obama invoca negativa del mini- pacifica e prospera «una Russia forte, stro degli Esteri pacifica e prospera Lavrov al recente che occupi il posto che occupi il posto avvio del “partena- di superpotenza di superpotenza riato orientale” che le spetta, abdell’Ue, rivolto ai paesi dell’Eu- bandonando anacronistiche aspiropa dell’est privi di prospettive razioni». L’Europa a Ventisette di adesione, è l’ennesima indica- appare divisa fra un Regno Unito zione dello stato d’animo impe- intransigente sui principi, i rante al Cremlino. “nuovi Stati” visceralmente diffiMosca si avvale ovviamente del denti in quanto ex membri del fatto che, nonostante il ridimen- blocco sovietico, ed altri, come sionamento del suo ambito territo- l’Italia, la Germania e la Francia, riale e della sua influenza politica, convinti dell’utilità di perenni la sua situazione di membro per- mediazioni. La Cina rimane sulle manente del Consiglio di Sicurezza sue, anche nell’ambito di quele di detentrice dell’arma estrema l’ibrido che è il “gruppo di Shanne preserva la posizione di interlo- ghai”. Lo stesso Terzo Mondo, incutore indispensabile in qualun- fine, è palesemente in attesa di que equazione geostrategica. Ma più concrete indicazioni di ordine non può continuare a contare sol- economico e politico. tanto sulla sua capacità di interdi- L’Europa non può far a meno delzione, giacché la tutela dei suoi in- la Russia, così come la Russia, teressi di lungo periodo richiede per affermarsi, ha bisogno delormai l’assunzione delle conse- l’Europa. Per l’Unione europea è

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FOCUS

Per un’architettura del potere

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Il Cremlino (russo kreml’, “fortezza”), è un recinto fortificato di forma triangolare situato nel centro di Mosca. Fu edificato nel XII secolo. Imponenti mura fortificate risalenti al XV secolo e lunghe complessivamente 2,5 km circa cingono importanti edifici governativi, palazzi e cattedrali. Fra i più importanti edifici secolari all’interno del Cremlino vi sono il Palazzo delle Armi, del XIX secolo, che ospita uno dei più antichi e ricchi musei storici russi e l'imponente Grande Palazzo del Cremlino, sede un tempo del Soviet supremo e oggi del governo russo. Fra i numerosi edifici religiosi domina la grandiosa cattedrale dell’Assunzione, dalla cupola a cipolla, scenario dell'incoronazione degli zar nonché luogo di sepoltura per i patriarchi e i metropoliti della Chiesa ortodossa russa. La Piazza Rossa, ampio spazio aperto di 7300 metri quadrati, ai piedi delle mura orientali del Cremlino, e risalente al XV secolo, ha giocato un ruolo centrale nella vita politica di Mosca e dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Fu infatti il luogo di numerose agitazioni e dimostrazioni popolari; fu anche lo scenario scelto dal governo sovietico per le parate militari della festa dei lavoratori e in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Inoltre, vi è conservato il corpo imbalsamato di Lenin, esposto al pubblico in un mausoleo progettato da A.V. Šcusev e terminato nel 1930. Il Grande Palazzo del Cremlino, completato nel 1849, fu costruito durante il regno di Nicola I.


L’ANALISI Guido Lenzi

evidente che, anche dopo l’auspicata approvazione del Trattato di Lisbona, il ristabilimento di un rapporto costruttivo con Mosca rimarrà la condizione prioritaria perché la sua politica estera, di sicurezza e difesa (Pesc e Pesd) possa articolarsi e svilupparsi, e la formula dell’integrazione europea proporsi come modello per l’auspicata ricomposizione del sistema internazionale. Particolarmente rilevante a tal fine sarebbe la ripresa del negoziato per il nuovo accordo di partenariato strategico fra Russia e Ue, da tempo bloccato soprattutto per la riluttanza russa ad accettare di cogestire con i ventisette le predette residue situazioni di crisi nel continente. Una riluttanza che mal si concilia con la pretesa di Medvedev di elaborare una ancor mal chiarita “nuova architettura di sicurezza europea”. In proposito, Mosca lascia intendere di perseguire un nuovo patto continentale (in sostituzione di Ue, Nato e Osce?) rivolto prevalentemente agli aspetti militari e alla tutela di rispettive zone di influenza, a potenziale scapito della “dimensione umana”, che comporta l’istituzione di strutture democratiche. Una questione, quella della “sicurezza complessiva”, sorta nell’ambito Osce, i cui principi e impegni paneuropei la Russia di Putin considera oggi inaccettabilmente intrusivi, ma dai quali non può apertamente dissociarsi senza rinnegare trent’anni di storia condivisa a livello continentale.

In assenza di una più articolata esposizione delle intenzioni russe, si deve presumere che Mosca voglia procedere in modo sequenziale. E cioè, ristabilire in primo luogo il suo rapporto strategico bilaterale con Washington, sulle questioni di disarmo e non-proliferazione di loro prioritaria competenza e su questioni di potenziale loro maggior influenza, quali l’auspicato nuovo assetto di sicurezza europeo (nella riedizione di un loro droit de regard bipolare); soltanto subordinatamente sulle crisi regionali (Medio Oriente, Iran, Afghanistan e Pakistan, ma anche i Balcani), principalmente in termini di ripercussioni transnazionali come il terrorismo, i traffici illeciti; da ultimo, l’eventuale assunzione di impegni multilaterali in materie di rilevanza globale quali il commercio, l’energia o il clima (argomento, quest’ultimo, che coinvolge significativamente la Russia meno della Cina e dell’India). Soltanto accessoriamente, si deve presumere, Mosca preciserebbe il suo atteggiamento in materia di riforma dei contesti multilaterali, nell’ambito dei quali i paesi emergenti avanzano le loro pretese di compartecipazione al governo mondiale. Una tale sequenza, per quanto astrattamente logica, non corrisponde alla sopravvenuta necessità di affrontare simultaneamente una serie di urgenze internazionali. L’invocato “reset” dei rapporti fra Russia e Stati Uniti rimane essenziale e prioritario. Esso implica il ristabilimento di una visione

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strategica condivisa, con la definizione dei principi ispiratori e l’assenza di preclusioni sull’agenda da trattare. Il che presuppone la fissazione di scopi comuni più ambiziosi della gestione di specifiche situazioni di crisi. Il dialogo bilaterale non deve comunque esaurire l’agenda internazionale, né può restaurare ormai improponibili logiche bipolari, dovendo piuttosto fungere da stimolo per la ricomposizione dell’intero sistema internazionale. In primis a livello paneuropeo, con l’auspicabile instaurazione di un rapporto equilatero fra Stati Uniti, Russia e Ue, l’unico adatto a consolidare la situazione continentale. Ma ciò dipenderà anche dall’esito del “tormentone” di Lisbona. Gramscianamente, il russo Vladimir Erofeyev4 riconosce che la Russia «necessita di essere guidata attraverso questa fase intermedia, in cui il comunismo è stato dismesso ma nuovi valori non si sono ancora formati». Sarebbe pertanto opportuno che, nel loro stesso interesse, anche Cina, India e Brasile (il vagheggiato Bric è altrimenti privo della sua R), i maggiori paesi arabi, e in generale quanti pretendono di sedere nel G20 o di disporre di un seggio permanente in un Consiglio di Sicurezza riformato, esortino Mosca ad allungare lo sguardo e convergere, sia pure secondo un proprio itinerario, verso la collaborazione e la compartecipazione internazionale. Assumendosi le responsabilità inerenti alla sua pretesa di disporre di “azioni privilegiate” nel capitale della nuova

società internazionale in formazione. Aderendo finalmente a quell’impostazione collaborativa, a somma positiva, che pare aver definitivamente scalzato quello, a somma zero, dell’ormai consunto equilibrio delle forze.

Note 1 Vedasi anche Maurizio Massari, Russia: democrazia europea o potenza globale?, Guerrini ed., Milano 2009; e Alessandro Vitale e Giuseppe Romeo La Russia postimperiale, Rubbettino ed., 2009. 2 Vedasi in proposito l’articolo di David Kerr sull’ultimo numero della rivista International Spectator dell’Iai. 3

Prima di abbandonare precipitosamente il G8 dell’Aquila a causa delle sommosse nello Xinjang, il Presidente Hu Jintao, ha ad esempio affermato che “la Cina sostiene il processo di integrazione europeo e accoglie con soddisfazione il suo ruolo sempre più utile e rilevante negli affari internazionali”. 4 Sull’International Herald Tribune del 6

luglio scorso.

L’Autore GUIDO LENZI Ambasciatore, già direttore dell’Istituto europeo di Studi di sicurezza a Parigi e rappresentante permanente all’Osce a Vienna.


pubblicitĂ Todini

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I VENT’ANNI DI UNA INTERVISTA A VIKTOR ZASLAVSKY DI FEDERICO BRUSADELLI

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ocente universitario e storico, Viktor Zaslavsky è uno dei più profondi conoscitori della realtà russa. Da Gorbaciov a Putin, passando per Eltsin, un processo storico ancora in divenire, raccontato e analizzato a partire dai successi economici e dalle troppe incognite sul piano democratico e istituzionale. Con l’energia ancora una volta al centro dello scacchiere.

Caduto il Muro che la separava dal resto del mondo, la Russia si è trovata a dover percorrere, travolta dalla storia, una lunga transizione. Una transizione triplice, secondo la definizione di Viktor Zaslavsky, nato a San Pietroburgo, laureato in storia e oggi professore di sociologia presso l’Università Luiss di Roma, perché comprende il passaggio dalla dittatura alla democrazia, dallo statalismo al liberismo, dall’economia industriale a quella dei servizi. Un percorso tortuoso il cui approdo, ancora oggi, non è chiaro. Una strada segnata dalle scelte di tre personaggi – Gorbaciov, Eltsin e Putin – che, tra poche luci e molte ombre, hanno segnato questi due decenni di storia russa. E la crisi globale, sostiene Zaslavsky, potrebbe dare a questa “lunga marcia” una svolta inaspettata… Vent’anni fa il crollo del Muro di Berlino. Che ricordo rimane di quell’evento nella Russia di oggi?

Quando si parla del crollo del Muro e dello smantellamento del sistema sovietico, non si può non partire dalla figura di Mikhail Gorbaciov: uno dei peggiori riformatori della storia, ma senza dubbio uno dei più grandi statisti del


L’INTERVISTA Viktor Zaslavsky

TRANSIZIONE TRIPLICE Ventesimo secolo. Il suo fu un ruolo decisivo, in quegli eventi. Nel novembre del 1989, ammonì il presidente della Ddr Honecker – che davanti alle oceaniche manifestazioni di Dresda e di Lipsia non avrebbe esitato a scatenare una Tienanmen nel cuore d’Europa, prolungando l’agonia del blocco sovietico – ricordandogli che “la vita punisce i ritardatari”: gli negò, insomma, l’appoggio delle truppe sovietiche (c’erano 350mila militari nella piccola Germania orientale), che non sarebbero intervenute a differenza di quanto era avvenuto nel 1953. Così, privato della forza repressiva, Honecker cadde nel giro di qualche giorno. Ne seguì l’immediata distruzione del Muro e la fine della divisione tedesca. Ecco, Gorbaciov dimostrò allora grande coraggio, sfidando anche le certezze di tanti grandi politici dell’Europa occidentale, convinti sostenitori dello status quo fondato sugli accordi di Yalta e sulla divisione del continente. Non dimentichiamoci delle parole di Andreotti, che voleva mantenere l’esistenza di due Germanie, o di quelle del comunista Boffa, per il quale la scelta di Gorbaciov era una “manifestazione di debolezza”. E di quelle scelte che giudizio viene dato oggi dai cittadini della nuova Russia?

Una parte di popolazione ancora oggi concorderebbe con il mare-

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sciallo Jazov, allora ministro della Difesa, che disse testuali parole: «Abbiamo perso la terza guerra mondiale, senza aver neanche sparato un colpo di fucile». Ma in generale i russi evitano di concentrare la loro memoria storica su questo avvenimento. Valgono le parole di Vladimir Putin, che ha detto che «il crollo dell’Urss è stata la più grande catastrofe geopolitica del Ventesimo secolo», aggiungendo però, in un’altra occasione, che «chi non rimpiange il crollo dell’Urss non ha cuore, ma chi vorrebbe tornare all’Unione sovietica non ha cervello». Ecco, direi che in sintesi questo è il ragionamento che domina di fronte al crollo del Muro, nella Russia di oggi.


Sugli anni di Eltsin, invece, quale opinione prevale, oggi?

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Il discorso è complesso. Intanto, quando parliamo di opinione pubblica dobbiamo ricordarci che non c’è n’è una sola, ma c’è l’opinione della maggioranza e c’è quella della minoranza. Gli anni di Eltsin si dividono, sostanzialmente, in due periodi. All’inizio, c’è una fase molto importante, direi cruciale, per il rafforzamento della democratizzazione della Russia. Sono gli anni in cui Eltsin ha difeso il passaggio alla democrazia, si è scontrato con il Parlamento allora dominato dal rifondato partito comunista che ostacolava il cambiamento, ha sostituito i componenti del governo scegliendo democratici e riformisti. Tutto questo non va trascurato. Ma poi è arrivata la seconda fase, in cui il presidente ha percepito che stava perdendo il sostegno popolare. Perché i russi iniziarono ad abbandonare Eltsin?

La transizione democratica postcomunista molto spesso non viene capita. Il passaggio dall’Urss a un sistema basato sull’economia di mercato e sul pluralismo politico è tra i più difficili al mondo. In vent’anni di esperienza, confermati dalle esperienze parallele dei paesi dell’Europa orientale, possiamo dire che questa transizione prevede due fasi molto ben identificabili: all’inizio, c’è il calo della produzione dei beni, la riduzione del potere d’acquisto, la crescita della disoccupazione, il crollo del Pil e degli investimenti, l’aumento vertiginoso dei

prezzi. Questo primo stadio “discendente” della transizione in Russia è durato dal 1989 al 1998, che sono proprio gli anni di Eltsin. E dunque, mentre i paesi dell’Europa orientale si sono uniti alle loro leadership, interpretando anche giustamente questi fenomeni come risultati dell’occupazione di un regime “alieno”, quello sovietico, e superando grazie all’entusiasmo della liberazione questo primo periodo “discendente”, in Russia le cose sono andate diversamente. Perché non si poteva sostenere che il crollo eco-


L’INTERVISTA Viktor Zaslavsky

nomico era il risultato di un’occupazione straniera: i russi potevano prendersela solo con se stessi. Dunque la valutazione di Eltsin va inquadrata tenendo presente la difficoltà della transizione russa, di cui Eltsin non aveva tutte le colpe. In cosa consiste, più precisamente, questa transizione da un sistema sovietico a uno liberal-democratico?

Si tratta di una transizione triplice. Intanto, è una transizione democratica, da un regime monopartitico al pluralismo. Poi, c’è il

passaggio da un’economia a pianificazione centrale, completamente statalizzata, a un’economia di libero mercato. Infine c’è la terza transizione, di cui si parla molto poco, ovvero il passaggio da una società industriale tradizionale, fondata sulla preminenza della produzione manifatturiera, a una società basata sui servizi, sulla finanza e sull’informazione (una transizione molto difficile, quest’ultima, che in Occidente ha richiesto non meno di trent’anni per essere portata a conclusione). E tutto questo si riflette



L’INTERVISTA Viktor Zaslavsky

sulla fortuna dei leader. Tornando a Eltsin, vediamo chiaramente che si tratta di una figura che, pur avendo innegabili meriti, resta associato nella memoria russa al peggior momento – dal punto di vista dello standard di vita – della loro storia recente. E come sta procedendo, adesso, questa triplice transizione russa?

Il passaggio che procede meglio è il secondo, quello dall’economia statalizzata al libero mercato. Oggi il 60-70% dell’economia russa è privatizzata: un grande successo, nonostante i tentativi di rinazionalizzare alcune industrie di primaria importanza (produzione di gas o petrolio, per esempio). La transizione democratica è più complessa, perché dobbiamo tener presente la differenza tra democrazia procedurale e democrazia sostanziale. Quest’ultima necessita di una società civile sviluppata, mentre quella procedurale si basa sulle elezioni più o meno giuste e senza frode, con conseguenze concrete e non predeterminate. Da questo punto di vista, possiamo dire che la democrazia procedurale ha messo radici in Russia, anche se Putin nell’ultimo periodo ha messo in piedi una democrazia “guidata” in cui il governo ha sotto il suo controllo quasi tutti i mezzi di comunicazione: non c’è un ritorno all’Urss, però. È crollata l’inconvertibilità della valuta, e questo è un vantaggio perché dà anche la possibilità di uscire dalla Russia e di viaggiare. Sono risultati che non vanno sottovalutati.

Ma la Russia di oggi si sente parte dell’Occidente o si sente “altro”?

Non si può rispondere a questa domanda in maniera univoca. La Russia è una parte dell’Occidente, la cultura russa, senza dubbio, è parte della cultura occidentale. Ma il governo di Putin, proprio per rafforzare la propria legittimità, ha ritirato fuori alcuni vecchi stereotipi della propaganda sovietica. Invece, dopo il crollo dell’Urss e durante la perestrojka c’era stato un riavvicinamento all’Occidente, proseguito negli anni di Eltsin con la smobilitazione della presenza militare sovietica. C’erano grandi aspettative, si sperava che la società russa potesse rapidamente integrarsi con i paesi europei avviando così una crescita dell’economia e del tenore di vita. Nei primi anni Novanta una gran parte della popolazione russa non si sarebbe neanche opposta a un eventuale ingresso di Mosca nella Nato o almeno al rafforzamento dei rapporti con gli Usa. Ma la situazione iniziò a mutare già dagli ultimi anni di Eltsin: apparve chiaro che le riforme economiche necessarie in quel periodo erano estremamente difficili – e le riforme serie sono sempre impopolari, altrimenti sarebbero state introdotte già da un bel po’… – e toccavano gli interessi di grandi strati della popolazione. La diffidenza nella classe dirigente crebbe, e Eltsin cercò un appoggio presso altre forze, non riformiste, includendo nell’esecutivo personaggi provenienti dal mondo militare o dai servizi di sicurezza, cercando in-

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somma di costruire un nuovo fondamento ideologico alla sua presidenza. E questo lo riportò a una politica di confronto con l’Occidente. Si tornò a dichiarare che un obiettivo importante era contrastare l’espansione occidentale verso Oriente, e si diede avvio alla disastrosa guerra in Cecenia. Putin, in seguito, iniziò a costruire il sistema della propria legittimazione contrapponendo la stabilità degli anni 2000 al periodo eltsiniano, visto come momento di decadenza e come tentativo di introdurre sistemi di “provenienza estranea”, come disse più volte, spiegando il crollo economico come una congiura contro la Russia orchestrata dall’Occidente e dai traditori della patria. Un ritornello che oggi il governo di Putin ripete nei confronti dei suoi oppositori, “venduti” all’Occidente. E negli ultimi tempi si sta riattivando anche la retorica dell’antiamericanismo. In questa contrapposizione gioca un ruolo di primo piano l’energia …

Sì, e la questione energetica spiega anche perché la transizione politica ha rallentato nel periodo di Putin. Per la congiuntura molto favorevole ai mercati energetici. Perché la Russia arriva al 7580% degli introiti statali proprio grazie alla vendita di idrocarburi, metalli, materie prime. E così la Russia può tenere in pugno certi paesi vicini, come l’Ucraina, ma anche alcuni paesi dell’Ue, come la Bulgaria (verso cui Putin ha frenato l’afflusso di gas lo scorso

inverno). Ma molti osservatori anche in Russia pensano che il crollo dei prezzi del petrolio e del gas potrebbe portare notevoli benefici politici. Di recente, desta interesse lo scontro tra il monopolio energetico russo e il nuovo gasdotto Nabucco. Ovvero?

A metà luglio Medvedev ha effettuato una visita – organizzata nella più completa segretezza – nella capitale della repubblica secessionista dell’Ossezia del Sud. La spiegazione ufficiale era la necessità di collaborare economicamente, ma la stampa georgiana e quella russa ne hanno dato un’altra spiegazione: il giorno precedente ad Ankara i primi ministri di paesi come Turchia, Austria, Romania e Bulgaria avevano firmato l’accordo sul gasdotto Nabucco, grazie al quale circa 35 miliardi di metri cubi di gas verranno trasportati dal Caspio e dall’Asia centrale verso l’Europa, aggirando la Russia. Per l’Ue è uno strumento di diversificazione energetica e, soprattutto, un modo per diminuire la propria dipendenza da Mosca. Ed è importante in questo contesto la firma della Bulgaria, perché se all’inizio del 2009 Mosca e Sofia avevano firmato un accordo sul gasdotto “South Stream”, il nuovo premer bulgaro Borisov ha deciso, al contrario, di puntare su Nabucco. E Mosca sta già prendendo le sue contromisure, comprando tutto il gas dell’area (ad esempio dal Turkmenistan e dall’Azerbaijan) per lasciare a secco il gasdotto rivale.


L’INTERVISTA Viktor Zaslavsky

Ma a causa della crisi la Russia non riesce a pagare regolarmente il governo del Turkmenistan… Ecco, direi che per Mosca sarebbe meglio avvicinarsi ancora di più all’Occidente, rinunciando all’ossessione di difendere la sua “sfera d’influenza” e puntando, piuttosto, ad aumentare il benessere dei suoi cittadini.

L’Intervistato

E la crisi finanziaria che conseguenze avrà, in Russia?

Non è ancora chiaro a cosa porterà questa crisi. La produzione è caduta del 15%, la disoccupazione e l’inflazione stanno aumentando. Se non ci sarà una ripresa dei prezzi degli idrocarburi, si renderanno necessarie riforme molto serie, e la stabilità del tandem Medvedev-Putin, che sembra ora inossidabile, comincerà forse a vacillare.

VIKTOR ZASLAVSKY

Storico e professore russo naturalizzato canadese, specializzato nello studio dei rapporti tra Ita-

lia e Unione Sovietica dal 1945 ad oggi. Laureato in storia presso l’Università Statale di San Pie-

troburgo, è professore ordinario di sociologia po-

litica presso la facoltà di scienze politiche del-

l’Università Luiss “Guido Carli” di Roma. Collabora con Il Messaggero e L’Occidentale.

Ha collaborato come consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e

sulle stragi in Italia. Ha scritto Dopo l'Unione Sovietica. La perestroika e il problema delle nazionalità (Il Mulino), La Russia senza soviet (Idea-

zione editrice), Il massacro di Katyn (Ideazione editrice), Storia del sistema sovietico (Carocci), Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori),

Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca (Il Mulino), La Russia postcomunista. Da Gorbaciov a Putin (Luiss).

L’Autore FEDERICO BRUSADELLI

Scrive per Ffwebmagazine e collabora con il Secolo d’Italia. Laureato in Lingue e civiltà orientale, ha seguito il master “Tutela internazionale dei diritti umani” presso l’Università La Sapienza di Roma.

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Asia centrale, Centrale, sotto controllo con il soft power 88

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lla ricerca di una ritrovata area di influenza, Mosca punta verso le repubbliche centroasiatiche, importanti per le ricchezze naturali, energetiche e minerarie. E per far capire a Stati Uniti ed Europa di non aver ancora perso la propria autoritĂ in quella fondamentale area del pianeta. DI CARLO JEAN


STRATEGIA Carlo Jean

Mosca sta riprendendo il controllo dell’Asia Centrale, contrastando le presenze americana, europee, turca e, in modo più indiretto e cauto, l’espansione di quella cinese. Il processo è parallelo al regresso della democrazia in Russia e al tentativo di Putin e Medvedev di far riguadagnare al paese il rango di grande potenza se non globale, almeno regionale, con una propria zona esclusiva di controllo e d’influenza, coincidente tendenzialmente con lo spazio exsovietico (ed ex-zarista). Tale politica è codificata nella cosiddetta “dottrina Medvedev”, formulata dopo la “guerra dei cinque giorni” in Georgia nell’agosto 2008. Nell’immaginario collettivo russo e nelle preoccupazioni geopolitiche del Cremlino, l’Asia Centrale – pur considerata essenziale perché la Federazione russa possa tornare ad essere grande potenza, ponte fra l’Europa e l’Asia – ha comunque un’importanza inferiore a quella delle repubbliche ex-sovietiche europee ed anche di quelle caucasiche. L’Asia Centrale è importante per Mosca per le sue ricchezze naturali, energetiche e minerarie, e come zona cuscinetto per la protezione dei lunghi confini meridionali della Russia dalla contaminazione islamista e dal traffico di droga. È importante anche come simbolo e baluardo contro gli schieramenti di forze di Stati potenzialmente ostili a Mosca. Contribuisce a tale percezione di irrilevanza il fatto che l’opinione pubblica russa denuncia una crescente xenofobia anche nei riguardi dei circa due milioni

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di immigrati centro-asiatici che pido riavvicinamento a Mosca. Il lavorano in Russia. Essa è stata Cremlino sta approfittando delalimentata dalla guerra di Cece- l’impegno degli Usa e della Nato nia e dagli attentati terroristici in Afghanistan e della loro esinel territorio della Federazione. I genza di disporre di vie di rifornilegami culturali con l’Asia Cen- mento alternative a quella pakitrale sono poi molto deboli. L’in- stana, sempre più vulnerabile tera regione viene percepita come agli attacchi terroristici, per riarea di islamismo, terrorismo, durre l’influenza occidentale nella regione. Più cauto è il contramafia e traffico di droga. L’impegno maggiore del Cremlino sto all’influenza cinese, sopratriguarda la difesa della diaspora tutto in Kazakistan ed in Uzberussa, presente soprattutto nel Ka- kistan. La Russia non può compezakistan settentrionale. Essa è in tere con la Cina nella fornitura di rapida diminuzione nelle altre re- prodotti manifatturieri a basso pubbliche centro-asiatiche, anche prezzo, richiestissimi dalle popolazioni dell’Asia per l’ostilità delle Centrale. Viene loro popolazioni L’Asia Centrale considerata da esse verso gli ex conviene percepita come l’unica alternativa quistatori slavi. possibile alla RusMosca tende poi a area di terrorismo, sia, anche perché mantenere un’inPechino – come fluenza ed un con- fondamentalismo peraltro Mosca – trollo esclusivi e traffico di droga non pone al comsulle risorse minerarie ed energetiche della regione. mercio ed agli investimenti i Ne è facilitata dall’isolamento condizionamenti in tema di degeografico dell’Asia Centrale e mocrazia e di rispetto dei diritti dal fatto che le sue linee di comu- umani pretesi da Washington e – nicazione – costruite durante con minore convinzione – anche l’Impero – la raccordano alla dall’Ue. Gli Usa si sono fatti Russia. Il riconoscimento russo espellere dall’Uzbekistan dalla dell’indipendenza delle due pro- base aerea di Karshi-Khanabad, vince secessioniste della Georgia che utilizzavano dall’inizio del– l’Ossezia del Sud e l’Abkazia – l’attacco in Afghanistan. Fu la ha sollevato notevoli timori in reazione del presidente Karimov tutti gli Stati dell’Asia Centrale. alle critiche Usa per il massacro Essi temono di essere ricolonizza- effettuato nel 2005 ad Andijan, ti da Mosca e non possono difen- nella vallata del Fergana. Solo dersi da soli né ricevere aiuti una politica più realistica e cinica esterni. Realisticamente, i diri- potrà ristabilire una certa loro ingenti centro-asiatici ne hanno fluenza nella regione. Essa inconpreso atto. La loro politica – pri- trerà però la resistenza di una ma molto aperta all’Occidente e Russia, ritornata più forte. alla Cina – ha denunciato un ra- Un motivo della cautela di Mosca


STRATEGIA Carlo Jean

verso Pechino consiste nel fatto che la collaborazione finanziaria cinese è molto importante per la Russia, duramente colpita dalla crisi economica mondiale e dal crollo del prezzo delle materie prime. Lo dimostrano le gravose condizioni del prestito di 25 miliardi di dollari, concesso dalla Banca Centrale cinese a Rosneft e Transneft. Va tenuto conto che l’economia russa è quella di un “petro-Stato”. Vale per essa, come per gli Stati del Golfo, la cossidetta “maledizione del petrolio”. Quanto più uno Stato dipende dall’ esportazione delle risorse na-

turali, tanto più il suo regime è autoritario. Non deve infatti imporre tasse, del cui impiego deve poi rispondere ai contribuenti. In Russia, le riforme per la diversificazione dell’economia hanno per ora dato risultati modesti. Medvedev e Putin intendono mantenere il controllo del gas e del petrolio, nonché dei minerali non ferrosi, di cui è ricca l’Asia Centrale. Sono facilitati dal fatto che le reti di comunicazione e dei gasdotti ed oleodotti sono dirette verso il territorio russo. In gran parte, le grandi società petrolifere e minerarie russe le esportano poi


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in Europa. Mosca considera strategico mantenerne il controllo, non solo per incassare le relative ricche royalties, ma anche per non vedere spuntata l’arma della dipendenza energetica dell’Europa. Essa offre al Cremlino interessanti potenzialità politiche nei rapporti con l’intero Occidente, particolarmente nei riguardi della Germania e dell’Italia. D’altronde, senza il gas centroasiatico, Gazprom non potrebbe onorare i suoi impegni verso l’Europa. Mosca ha concluso con gli Stati centro-asiatici una serie di accordi sia politici (Collective security treaty organization – Csto, e Shanghai cooperation organization – Sco) che economici (Eurasian economic community - Eec). Mantiene infine presidi e basi militari in Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan e continua ad utilizzare il cosmodromo kazako. Tali accordi multilaterali rafforzano il controllo bilaterale di Mosca su tutti gli Stati della regione. Dell’importanza dell’influenza russa in Asia Centrale si è accorto il generale Petraeus, quando – all’inizio dell’anno – ha cercato di concludere accordi con i vari Stati della regione, sempre per ottenere una via alternativa per rifornire le forze schierate in Afghanistan. Tutti hanno subordinato al consenso di Mosca l’accettazione delle richieste statunitensi. Dal Cremlino è dipeso anche il prolungamento del contratto di affitto agli Usa dell’indispensabile base aerea di Manas in Kirghizistan, che Bishkek voleva revocare. Esiste un dibattito sui reali obiet-

IL KAZAKISTAN

TRA PERSONALISMO E RICCHEZZA Il Kazakistan è stata l’ultima delle repubbliche dell’ex Urss a proclamare la sua indipendenza nel dicembre 1991. La sua forma di governo è la repubblica presidenziale. Secondo la Costituzione, adottata con referendum il 30 agosto 1995, capo dello Stato e dell’esecutivo del Kazakistan è il presidente, che viene eletto a suffragio universale per una carica, rinnovabile, di sette anni. Il Parlamento è a sistema bicamerale ed è costituito dal Senato e dal Mazhilis. In realtà, però, il Kazakistan ha una democrazia personalistica guidata dal presidente Nursan Nazarbayev che esercita poteri esecutivi, legislativi e giudiziari diretti ed è a capo delle forze armate. Nel 1994 si svolsero nuove elezioni legislative che videro vincitore il Partito d’unità nazionale del presidente in carica. Le contestazioni dell’opposizione provocarono l’invalidazione delle elezioni da parte della Corte Costituzionale e la conseguente reazione del presidente Nazarbayev che sciolse il parlamento attribuendosi, per decreto, il potere legislativo. È stato rieletto nel 1999 e successivamente nel 2005. Nel 2007 sono stati approvati alcuni emendamenti alla Costituzione del 1995 che permettono all’attuale presidente di ricandidarsi per un numero illimitato di mandati. La modifica di legge, però, riguarda Nazarbayev personalmente e non sarà perciò applicabile ai suoi successori, che potranno ricoprire la carica per due volte al massimo. Dopo la proclamazione dell’indipendenza, il Kazakistan ha intrapreso una difficile trasformazione dal modello economico chiuso e statalistico che lo aveva caratterizzato nel periodo sovietico a uno basato sul libero mercato, sull’iniziativa privata e sull’integrazione nell’economia globale. La rapida crescita del Kazakistan degli ultimi anni riflette il basso “punto di partenza” dettato dal suo status di ex paese comunista utilizzato dall’Urss principalmente come fornitore di materie prime. Il Kazakistan è, dopo la Russia, il secondo paese produttore di greggio e, potenzialmente, tra i maggiori a livello mondiale. Il suo sottosuolo è ricchissimo di petrolio, ed è per questo di forte interesse per le grandi compagnie petrolifere: importanti ac-


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cordi di joint-ventures sono stati siglati per lo sfruttamento dei giacimenti. Il paese è ricco anche di gas naturale. Uno dei maggiori ostacoli che hanno impedito al Kazakistan di sfruttare in passato le proprie risorse di idrocarburi è stata la mancanza di un proprio sistema di oleodotti e gasdotti verso i mercati occidentali. Accanto al settore degli idrocarburi, il Kazakistan è dotato di un sottosuolo ricco di carbone, metalli preziosi, metalli ferrosi e non ferrosi. L’agricoltura e il patrimonio zootecnico sono un altro importante pilastro dell’economia kazaka, poiché circa il 40% della popolazione kazaka vive in aree rurali. Il boom delle materie prime e degli idrocarburi negli ultimi anni ha contribuito decisamente all’aumento del tasso di crescita del Pil. Rimangono tuttavia evidenti fattori critici che limitano anche lo sviluppo della domanda interna per consumi e per investimenti, quali: la carenza di infrastrutture, dovuta anche alla vastità del paese e alla scarsa densità di popolazione, l’alta diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e l’elevata corruzione. Il Kazakistan ha buone relazioni con i paesi vicini. È membro delle Nazioni Unite, dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (nel 2010 sarà il primo paese ex Urss a presiedere l’Osce) e del Consiglio di cooperazione del nord atlantico. È nel settore energico che si gioca la maggior parte delle alleanze politiche kazakhe sul piano internazionale; in particolare la costruzione di oleodotti e gasdotti assume un ruolo di primaria importanza soprattutto per l’Unione europea e la Russia. Il Kazakistan svolge una politica estera basata sulla cautela e il pragmatismo: se da un lato punta sulle relazioni di buon vicinato con la Russia, dall’altro realizza collaborazioni sostanziali con altre potenze come gli Stati Uniti e la Cina. Anche dal punto di vista militare, questo paese ha sottoscritto accordi sia con la Russia che con gli Stati Uniti. Gli Usa sono

stati i primi a riconoscere ufficialmente il Kazakistan e nel corso degli anni i due paesi hanno sviluppato una buona relazione bilaterale. Il punto centrale di questa rapporto è da sempre la cooperazione nella sicurezza e nella non-proliferazione. Nazarbayev ha buoni rapporti con la nuova amministrazione Usa, di cui appoggia le posizioni sulle questioni di sicurezza. Inoltre si è impegnato a fornire petrolio all’oleodotto Baku-TbilisiCeyhan fortemente sponsorizzato dagli americani. Comunque, il suo principale partner internazionale è la Russia. Infatti il Kazakistan partecipa a tutte le organizzazioni regionali che fanno capo a Mosca, come la comunità degli Stati Indipendenti, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai e l’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva. Anche in questo caso le partnership più strette tra Russia e Kazakistan sono nel settore energetico e uno dei principali progetti comuni è il rafforzamento dell’oleodotto Cpc (Caspian Pipeline Consortium).Una delle priorità della politica estera del Kazakistan è mantenere buone relazioni con l’Unione europea che rappresenta il suo principale mercato di sbocco. Inoltre Astana potrebbe diventare un fornitore di gas per il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum che in futuro dovrebbe connettersi alla rete “Nabucco”, destinata a portare il metano del Caspio in Europa senza passare per il sistema dei gasdotti russo. Il Kazakistan, ha creato una Comunità economica eurasiatica, nel 2000, assieme a Russia, Bielorussia, Kirghizistan e Tagikistan per rinforzare l’armonizzazione delle tariffe del commercio e la creazione di una zona libera e un’unione doganale. È membro fondatore della Conference for interaction and Confidence in asia, ed è impegnato nel dialogo sulla sicurezza regionale con l’Asean. Non è ancora membro del Wto (è soltanto un “paese osservatore”), ma potrebbe a breve entrare nell’Organizzazione.

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tivi di Mosca in Asia Centrale. Se intenda cioè ricostituire l’impero, assumendo il controllo diretto almeno della regione settentrionale del Kazakistan, oppure se si accontenti di esercitare un’influenza intrusiva. Generalmente, si propende per la seconda soluzione. Al Cremlino sono al potere i nazionalisti, non gli imperialisti né gli eurasisti. Inoltre, un aumento della popolazione islamica è considerato un pericolo per l’identità e la La “turcofonia” non è stabilità della più una forza trainante R u s s i a d a l l a della volontà Chiesa Ortodi autonomia da Mosca dossa. La sua influenza politica non va trascurata, poiché è l’ispiratrice principale del senso di eccezionalità (“Terza Roma”) e del nazionalismo russi. Infine, l’attuale situazione – che vede una considerevole diminuzione

dell’influenza occidentale e della Turchia – presenta molti vantaggi per Mosca. Consente di esercitare un’influenza pressoché esclusiva, senza dovere però sostenere gli oneri di un controllo diretto sulla regione. La Turchia ha normalizzato i rapporti con Mosca e sta perseguendo una politica di equilibrio fra Washington e Mosca. La “turcofonia” non è più una forza trainante della volontà di autonomia da Mosca delle popolazioni centroasiatiche. Inoltre, la recente repressione cinese degli Uiguri del Sinkiang l’ha trasformata in un fattore favorevole a Mosca, utilizzabile per contrastare la presenza cinese. La ferma condanna della Turchia, che ha definito la strage di Urumci “un genocidio”, ha suscitato sentimenti anticinesi in tutta la regione. Ciò non ha sicuramente fatto un dispiacere al Cremlino.


STRATEGIA Carlo Jean

Dal punto di vista politico-strategico, Mosca attribuisce una crescente importanza alla Csto – di cui fanno parte Russia, Bielorussia, Armenia e quattro delle cinque repubbliche centroasiatiche. Non ne è membro il Turkmenistan, che si è dichiarato neutrale. Di fatto, però, esso dipende dalla protezione di Mosca – che vi mantiene un contingente militare – per fronteggiare il temuto pericolo di un attacco dell’Uzbekistan, desideroso di conquistare un accesso al Caspio. La Csto, dal 2002, dispone di un Segretariato generale e di una Forza d’intervento rapido di 10 battaglioni, per un totale di quattromila uomini. L’ambizione del Cremlino è di trasformarla in una specie di Nato dell’Eurasia, per acquisire il diritto di ingerenza e di controllo su tutte le attività militari delle repubbliche

centroasiatiche. La rilevanza della Csto è stata accresciuta dalla crisi del Cis (Commonwealth of independent states). La Shanghai cooperation organization (Sco) – co-presieduta da Russia e Cina – ha consentito di Il Cremlino vuole definire tratti vuole trasformare controversi della Csto in una specie le lunghe frondi Nato dell’Eurasia tiere e di coordinare le politiche di contrasto al terrorismo islamico, che costituisce un pericolo per tutti i suoi Stati membri. Per Mosca e Pechino, è poi funzionale alla riduzione dell’influenza degli Usa in Asia Centrale. La Sco ha moltiplicato le sue attività ed invitato a partecipare 95 alle sue riunioni l’India, il Pakistan e l’Iran. Per i suoi sostenitori più entusiasti, dovrebbe dar vita ad un’alleanza dell’Eurasia, contrappeso all’unipolarismo ed unilateralismo americani. La Sco presenta però forti limitazioni, sia per la diffidenza reciproca fra Mosca e Pechino, sia per i legami esistenti fra la Cina e gli Usa. Per la cooperazione economica, l’istituzione fondamentale della regione è rappresentata dall’Eurasian economic c o m m u n i t y. Il ritorno politico della N e l l ’ o t t o b r e Russia è stato facilitato dalle rivalità tra 2000, ha sostigli Stati della regione tuito la preesistente unione doganale fra la Russia e gli Stati dell’Asia Centrale. Essa è affiancata all’Organizzazione della cooperazione centroasiatica (Ocac), costituita nel 1994 dalle sole repubbliche della regione. Mosca


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tende a fondere le due organizzazioni ed a collegarle con lo spazio economico unificato di Russia e Bielorussia. In sostanza, il controllo russo dell’Asia centrale è sempre più basato su una forma peculiare di soft power, sia politico che economico. Esso si estende dal sostegno alle autocrazie centroasiatiche al controllo delle produzioni minerarie ed energetiche della regione. Va da sé che tale ripristino soft dello spazio ex sovietico presenta grandi vantaggi per Mosca: le consente i benefici di un impero senza doverne assumere gli oneri del presidio. Essi finirebbero per assorbire un’aliquota consistente delle scarse risorse russe. Anatoly Chubais parla di un “impero liberale”, affermazione particolarmente interessante, dato che egli è uno degli principali esponenti del partito europeista e liberale. Anch’esso, evidentemente, condivide la politica del Cremlino per la ripresa del controllo dell’Asia Centrale. Il ritorno geopolitico della Russia è stato facilitato dalle rivalità esistenti fra i vari Stati centroasiatici, anche in relazione all’andamento delle loro frontiere, soprattutto di quelle dell’Uzbekistan, tortuosissime e prive di ogni logica geografica. Esse furono tracciate da Stalin nel 1924 proprio allo scopo di creare contrasti territoriali fra le cinque repubbliche in cui era stato diviso il Turkestan zarista, che si era ribellato ai sovietici con l’aiuo di ufficiali turchi. Lo Stato più potente della regione è l’Uzbeki-

stan, anche per la presenza di consistenti diaspore in tutte le altre repubbliche e che dispone di una popolazione numerosa e di un’economia diversificata. Esso ha sempre teso a divenire egemone ed a riunificare il Turkestan. Ciò evidentemente era considerato con preoccupazione da Mosca. Quest’ultima dopo l’implosione dell’Urss aveva cercato di appoggiarsi soprattutto al Kazakistan. Dopo i contrasti fra Taskent e Washington, le relazioni della Russia con l’Uzbekistan sono migliorate. Ma Mosca si sente ormai sufficientemente forte per non aver bisogno di alleanze privilegiate. Quindi, attribuisce priorità ai rapporti bilaterali con i singoli Stati. Dopo il conflitto georgiano, tutti sono tornati sotto il controllo di Mosca o, quanto meno, si dimostrano disposti ad accettarne l’influenza, mentre sono molto più cauti nello stringere accordi con l’Occidente e con la Cina. L’Autore CARLO JEAN

Esperto di strategia militare e di geopolitica. Ha scritto numerosi articoli e pubblicazioni su geopolitica e geoeconomia che ne fanno uno dei più autorevoli esperti a livello italiano e internazionale. Attualmente insegna Studi strategici alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università Luiss ed alla Link Campus di Roma. È membro del Consiglio scientifico della Treccani, del Comitato scientifico di Confindustria e del Comitato scientifico della Fondazione Italia-Usa. Collabora alla rivista di geopolitica italiana Limes, di cui è anche consigliere scientifico.


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Cecenia, tra autonomismo e deriva fondamentalista Dal 1994 ad oggi nella guerra tra Mosca e Grozny sono subentrati nuovi elementi. Alle rivendicazioni secessioniste si è aggiunto l’integralismo islamico. DI STEFANO MAGNI


CAUCASO Stefano Magni

Dieci anni di guerra. Dalle prime ceceno) e alimentata dalla dramincursioni della guerriglia cecena matica memoria storica del totain Daghestan, il 2 agosto 1999, litarismo. Nel 1944 Stalin scatealla proclamazione della fine del- nò contro il piccolo paese caucasil’operazione russa antiterrorismo co una dura repressione, con una il 16 aprile 2009, sono morti deportazione massiccia della po3643 soldati russi, 1722 agenti polazione. La Cecenia, che era del ministero degli Interni, 1045 stata occupata dai tedeschi per poliziotti ceceni fedeli a Mosca, due anni, dal 1942 al 1944, fu circa 14mila ribelli ceceni, circa dichiarata “nazione collaborazio25mila civili ceceni (secondo nista”. Il torto subito non fu mai Amnesty International), e si con- cancellato e l’occasione di tano cinquemila scomparsi, un’Urss in fase di rapida decom200mila profughi. Più di mille posizione spinse la Cecenia a dicivili sono stati uccisi da azioni chiarare prima la sua sovranità terroristiche cecene in Russia. Il nel settembre del 1991 e poi l’indipendenza nel giornalista italiano 1993. Nel dicemAntonio Russo, le Il detonatore bre del 1994 il giornaliste russe paese respinse a Anna Politkovska- della seconda guerra Grozny il primo ja e Anastasia Ba- cecena non fu assalto russo. Nel burova, l’attivista 1996, con l’accorper i diritti umani l’indipendenza ma do di Kasav Yurt, Natalia Estemiro- l’Islam radicale dopo due anni di va sono morti nel tentativo di documentare la guer- guerra che costarono ai russi circa ra in Cecenia. Queste decine di seimila morti, la Cecenia ottenne migliaia di caduti hanno profon- un’indipendenza di fatto, anche damente trasformato il volto, non se non formalizzata. solo del Caucaso, ma dell’intera La seconda guerra cecena, invece, fu solo in parte il diretto seguito Federazione russa. La guerra nel Caucaso settentrio- della prima. Il detonatore non fu nale è vista come una diretta con- l’indipendenza (per altro già ottetinuazione del conflitto fra la Fe- nuta sul campo), ma l’Islam radiderazione russa e la Repubblica cale. Le nuove generazioni cecene secessionista cecena combattuta stavano abbandonando sempre fra il 1994 e il 1996. Ma i due più numerose la vecchia e pacifica confronti armati hanno caratteri- tradizione musulmana sufi, atstiche e cause ideologiche molto tratte dall’autorità dell’islamidifferenti. La prima guerra cecena smo radicale wahabita, presente fu una guerra post-sovietica, nella regione fin dalla fine degli combattuta da ex uomini di regi- anni Ottanta e sostenuto finanme (tra cui l’ufficiale dell’aviazio- ziariamente dall’Arabia Saudita. ne sovietica Djokar Dudaev, pri- Nel 1997, l’integralista Shamil mo presidente indipendentista Basaev, già distintosi per sangui-

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nosi atti di terrorismo durante la precedente guerra cecena (fra cui il sequestro di un intero ospedale civile a Budennovsk) divenne il primo ministro della Cecenia. Contrariamente al presidente ceceno Aslan Maskhadov, un moderato, Basaev premette da subito per l’interruzione delle relazioni con Mosca. Nel 1998 i ceceni intensificarono il pompaggio e la raffinazione abusiva di petrolio rubato agli oleodotti russi, suscitando le ire di Mosca. Basaev e Maskhadov entrarono ben presto in conflitto. Il presidente ebbe la meglio e il primo ministro rassegnò le dimissioni. Non fu la fine, ma l’inizio dell’escalation: lungi dall’emarginare definitivamente l’ex primo ministro integralista, il presidente ceceno lo nominò comandante in capo delle forze armate cecene, un piccolo esercito (forte di circa settemila uomini), costituito da volontari locali, ma anche da mercenari sauditi, bosniaci, afgani e turchi. Fonti russe affermano che lo stesso Osama Bin Laden contribuì alla formazione del nuovo esercito indipendentista ceceno, con un finanziamento di circa 30 milioni di dollari. L’assenza di forze russe e l’anarchia che si era creata nella regione, facilitarono il successo del radicalismo islamico. Karamakhi, in Daghestan, fu islamizzata nel 1998. Le autorità islamiche locali imposero il burqa alle donne, come da tradizione wahabita, proibirono l’uso di radio e televisioni e sequestrarono tutti i mezzi per prendere immagini. Le autorità russe non reagirono.


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Bande armate di integralisti (cir- narono la città con l’artiglieria e ca cinquecento uomini), facendo l’aviazione prima di entrarvi. La base in territorio ceceno, inco- capitale cecena fu dichiarata minciarono a compiere incursioni dall’Onu “la città più devastata nel Daghestan. Conquistati i pri- del mondo”. mi villaggi di confine, il 10 ago- La presa di Grozny, all’inizio del sto 1999 il consiglio delle autori- 2000, segnò l’inizio dell’era Putà religiose daghestane, dichiarò tin, erede designato alla presiunilateralmente l’indipendenza denza russa dopo la fine del del Daghestan e invitò i musul- mandato di Boris Eltsin. Putin mani a unirsi per combattere la si presentò da subito come un jihad contro i russi “fino alla cac- presidente di guerra, pronto a ciata degli infedeli dalla terra «inseguire i terroristi fin dentro islamica”. Questa volta il presi- i loro cessi», come ebbe lui stesdente Boris Eltsin e il premier so a dichiarare all’inizio del conVladimir Putin raccolsero la sfi- flitto. Dopo la presa di Grozny, nell’inverno del da. La guerra aveva coinvolto la Russia Putin si presentò subito 2000, la guerra divenne guerrifin nel suo cuore. Il glia, per stroncare 9 settembre un come un presidente la quale i russi condominio mo- di guerra, pronto adottarono metoscovita fu fatto saltare in aria. Il 13 a “inseguire i terroristi di durissimi anche contro la posettembre fu la fin dentro i loro cessi” polazione civile. volta di un secondo condominio. Nelle due esplosioni Alla catena di attentati a persovi furono, complessivamente, nalità politiche filo-russe, le 260 morti. Il 16 settembre saltò truppe e le unità di Fsb e Gru (i in aria un terzo condominio nella servizi segreti) risposero con città di Volgodonsk, causando la massicci rastrellamenti. In ogni morte di 17 persone e il ferimen- rastrellamento, i russi bloccavato di altre 150. La Russia era sot- no ogni via di uscita, facevano to shock: si compattò come un sol evacuare e radevano al suolo interi edifici presi a caso, spedendo uomo contro la Cecenia. Il 22 settembre il ministro della gli abitanti nei campi profughi. difesa Zubov annunciò l’invio di Queste operazioni costrinsero alrinforzi al distretto militare del l’esodo 150mila ceceni, stipati Caucaso. Gli aerei russi compiro- nei campi profughi dell’Ingusceno 17mila missioni dal 22 set- zia. Almeno altri 50mila civili tembre al primo ottobre. Il 5 ot- ceceni erano profughi pur senza tobre le prime divisioni russe en- essere riconosciuti tali, costretti trarono in Cecenia. La seconda a vagare al di fuori delle struttubattaglia di Grozny fu condotta re di accoglienza. con metodi più spietati rispetto Il terrorismo ceceno alzò il tiro a al 1994: questa volta i russi spia- partire dal 2002. Nel sequestro

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del teatro Dubrovka, a Mosca, il diedero al presidente Vladimir 23 ottobre 2002, i terroristi pre- Putin l’occasione per portare a sero in ostaggio 850 spettatori, termine il suo progetto di accenminacciando di ucciderli tutti se tramento del potere. Già prima i russi non si fossero ritirati dalla di Beslan, il ministro delle FiCecenia. 129 morirono il 26 otto- nanze Alexei Kudrin premeva per bre, quasi tutti a causa dei gas una razionalizzazione del sistema usati dall’Unità Alfa nel raid russo, diviso com’era in 89 unità scattato per la loro liberazione. I amministrative, ciascuna con la terroristi suicidi ceceni entrarono propria economia, protetta da di nuovo in azione nel dicembre leggi locali e dettata da interessi 2003: il 5 di quel mese uno di lo- forti del posto. I presidenti degli ro si fece esplodere in un treno a oblast (regioni) e delle repubbliStavropol Krai, uccidendo 46 che nazionali che costituiscono la persone e ferendone altre 170. Il Federazione, fino al 2004, erano 6 febbraio 2004, il terrore arrivò eletti dalle assemblee regionali. Putin cambiò tutalla metropolitana to: con la sua rifordi Mosca: 40 mor- Il primo settembre ma, presentata nel ti e 120 feriti. Il novembre del 24 agosto 2004, 2004, terroristi ceceni 2004 e approvata due aerei di linea presero in ostaggio all’inizio dell’anno per voli interni fusuccessivo, i presirono fatti esplode- 1100 persone de nti regionali re, quasi in simul- nella scuola di Beslan vengono nominati tanea, dopo il loro decollo dall’aeroporto Domode- dal Cremlino e devono essere apdovo di Mosca: 90 morti. E il provati dall’assemblea locale. Se peggio doveva ancora arrivare: il quest’ultima boccia i candidati primo settembre 2004, un com- proposti per due volte di fila, può mando ceceno prese in ostaggio essere sciolta. Se il presidente lo1100 persone (fra cui 777 bambi- cale non svolge bene il suo lavoro, ni) nella scuola elementare di Be- può essere rimosso per ordine del slan, nella vicina Ossezia del Cremlino. Nord. Le foto dei bambini con le La riforma elettorale sollevò un mani alzate, minacciati dai mitra vasto dibattito nel paese, nonodei terroristi di Basaev, furono stante il trauma di Beslan. Le paragonate alla celebre immagine resistenze furono piuttosto condel bambino arresosi ai tedeschi sistenti in alcune regioni: i parnel ghetto di Varsavia. La Russia lamenti della Chuvashia e di e il mondo intero si strinsero at- Kazan si opposero alla legge, il torno alle 334 vittime (188 bam- Tatarstan e il Bashkortostan la bini) dell’attacco e della successi- contestarono, Kaliningrad e Astrakhan cercarono di bloccarva liberazione della scuola. L’ondata di attentati del 2004 e la, poi cedettero sotto la pressiosoprattutto il massacro di Beslan ne di Mosca. Alcuni aspetti del-


CAUCASO Stefano Magni

IL PERSONAGGIO

Antonio Russo, una morte senza colpevoli Antonio Russo fu trovato morto il 17 ottobre 2000, sul ciglio di una strada di montagna a 40 km a nord-est da Tblisi, Georgia. Sul suo corpo non vi era alcun segno di violenza e solo l’autopsia ha rivelato che sulla cassa toracica era stata fatta una pressione così forte da rompergli lo sterno e quattro costole che gli hanno perforato un polmone, causandogli un’emorragia interna mortale. “La forte pressione potrebbe essere stata esercitata da un oggetto contundente oppure da mani esperte”, dice il referto dell’autopsia. Diversi colleghi di Antonio, conoscitori dell’area, non hanno tardato molto ad addossare proprio ai russi la colpa di questo omicidio. Contemporaneamente qualcuno si introduceva nell’appartamento di Antonio e ne sottraeva tutta l’attrezzatura e il materiale che aveva raccolto durante la sua permanenza in Georgia, ponte per la Cecenia, riguardante appunto i crimini che i russi stavano compiendo nel Caucaso. Il 25-26 settembre aveva partecipato ad un convegno, tenutosi in Georgia, sui danni ambientali che l’attività bellica stava causando nella regione, pronunciando uno dei discorsi più duri nel quale adombrò la possibilità che i russi stessero usando anche armi contenenti uranio impoverito e che stessero avvelenando le falde acquifere dell’area gettandovi cadaveri e carcasse di animali “contaminati”. D’altronde doveva aver raccolto altre importanti informazioni da esporre all’opinione pubblica internazionale, infatti te-

lefonò alla madre, annunciandole che sarebbe tornato il giorno 18, accennò che aveva raccolto del materiale tanto importante quanto sconvolgente. Di che materiale si trattasse davvero, non si è mai saputo, anche se sono state fatte molte supposizioni. Il caso è ancora più interessante se si pensa che all’epoca soltanto in pochi si erano accorti di che cosa stesse succedendo in Cecenia e dintorni. Le cose in Cecenia dal 2000 ad oggi sono solo peggiorate. Antonio Russo era un esperto di zone di guerra. Aveva fatto l’inviato dall’Algeria alla Bosnia sempre come freelance per Radio Radicale. In Kosovo nel 1999 aveva conosciuto gli onori della celebrità quando durante il bombardamento della Nato su Pristina non rientrò, e fu dato per disperso per due giorni fino a quando non riapparve, miracolosamente, in mezzo ad una colonna di rifugiati kossovari.


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la legge (come lo scioglimento dotto la nascita di un vero e prodelle assemblee locali recalci- prio feudo: la nuova Cecenia gotranti) vennero smussati, ma i vernata in modo assolutista da poteri legislativi regionali, tut- Ramzan Kadyrov. tora, non hanno la forza reale di Il 2005 è conosciuto come l’anno opporsi alla nomina di un candi- della “cecenizzazione” del conflitto nel Caucaso: non più truppe dato di Mosca. La seconda conseguenza giuridica russe contro ribelli ceceni, ma di Beslan fu la nuova legislazione truppe cecene, che rispondono a anti-terrorismo, una delle più un governo locale filorusso, condure del mondo. La legge confe- tro ribelli ceceni. Più che una risce all’autorità la possibilità di “cecenizzazione” del conflitto, il imporre uno “stato di emergenza fenomeno che si sta manifestando terroristica” di 60 giorni, in qua- negli ultimi quattro anni di guerlunque parte del paese, non appe- ra è una ulteriore islamizzazione. na vi siano indizi di un imminen- Sia la resistenza antirussa che il governo pro Cremte attentato. Le lino si stanno “tinmisure emergen- Dopo Beslan le leggi gendo di verde”. Il ziali includono: il presidente deposto divieto di manife- antiterrorismo Aslan Maskhadov, stazioni pubbli- sono state inasprite, punto di riferiche, il controllo mento della residelle conversazio- limitando anche stenza cecena laica, ni telefoniche, il la libertà di stampa è stato ucciso in un blocco del traffico automobilistico. Anche la stampa raid l’8 marzo del 2005 a Tolstoj (esclusa fin da subito dal teatro di Yurt. La sua morte ha accelerato guerra ceceno) ha subito limita- il processo di islamizzazione della zioni ulteriori: vietato riprodurre resistenza. Il suo successore, Abimmagini giudicate violente, vie- dul Karim Sadulaev, era giudice tato descrivere le scene degli at- di una corte islamica. Nel suo tacchi, accesso alle informazioni breve periodo di presidenza (fino da parte dei giornalisti limitato alla sua uccisione in un raid il 17 ai soli responsabili delle indagini giugno 2006) si incominciò a parlare anche ufficialmente della antiterrorismo. Se la riforma elettorale ha posto nascita di uno Stato teocratico. Il fine al sistema federale russo, le progetto di emirato si è rafforzato leggi antiterrorismo, secondo i ulteriormente nella resistenza critici del Cremlino, hanno ucci- sotto il comando di Dokka Umaso la libertà di assemblea e di rov, l’attuale leader indipendentista. Nemmeno l’uccisione del espressione. Se la guerra ha prodotto una sorta leader terrorista Shamil Basaev, il di virus antidemocratico all’in- 9 luglio 2006, ha frenato il proterno della società e delle istitu- cesso di estremizzazione religiosa zioni russe, nel Caucaso ha pro- dei ribelli che, oggi come oggi,


CAUCASO Stefano Magni

mirano alla creazione di un emirato islamico comprendente non solo la Cecenia, ma anche il Daghestan, l’Inguscezia, Stavropol e Krasnodar, l’Ossezia del Nord, la Kabardinio Balcaria e la Circassia. In questi ultimi tre anni, le truppe regolari cecene e i russi si trovano a combattere contro un movimento transnazionale, che mira decisamente non all’indipendenza di una repubblica, ma alla creazione di un Caucaso settentrionale islamico. Ai musulmani, i russi contrappongono altri musulmani, non certo moderati: il presidente del governo pro Cremlino inizialmente fu l’imam Akhmad Kadyrov, lo stesso che nel 1996 aveva proclamato la jihad contro i russi. Nella seconda guerra cecena passò dalla parte dei russi sin dai primi giorni, e fu ucciso il 9 maggio 2004. Suo figlio Ramzan gli è subentrato dopo 3 anni di interregno del presidente Alkhanov. Tre anni durante i quali Ramzan Kadyrov, leader del gruppo paramilitare dei Kadirovtsij (responsabile, secondo l’Associazione per i popoli minacciati, del 75% dei crimini di guerra in Cecenia) ha fatto una carriera fulminante, da vicepremier a premier e poi presidente nominato da Putin il 15 febbraio 2007. Kadyrov è sospettato di aver fatto eliminare fisicamente tutti i suoi nemici politici, fra cui il comandante del battaglione Vostock (unità speciale del servizio segreto militare russo, il Gru) Sulim Yamadaev, ucciso a Dubai il 28 marzo scorso. Ma sta

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conquistando la fiducia del popolo ceceno attraverso l’islamizzazione della società: in qualità di premier, nel 2006, ha chiesto che le copie delle pubblicazioni con le vignette di Maometto venissero bruciate, ha “vivamente consigliato” alle donne di indossare il velo, ha reintrodotto gli studi coranici nelle scuole, ha minacciato di punire i media che non danno sufficiente spazio alla predicazione dell’Islam e alla divulgazione della cultura cecena. Nella ricostruzione di Grozny, ha dato la priorità alla costruzione della più grande moschea del Caucaso. Al wahabismo dei ribelli contrappone il sufismo, ma l’imposizione delle tradizioni islamiche sulla società lo fa apparire molto simile ai suoi nemici. Paradossalmente, una guerra iniziata per combattere l’islamizzazione del Caucaso si sta concludendo con la nascita di un vero e proprio emirato islamico, un mondo a parte in cui la sharia sta gradualmente sostituendo la legge russa. Ciò che distingue Kadyrov dai suoi nemici è soprattutto la sua fedeltà assoluta a Putin. «Non sono un uomo di Mosca, né del Cremlino, né dell’Fsb, sono un uomo di Putin», ha dichiarato esplicitamente. Non è affatto detto che sia altrettanto fedele all’attuale presidente Dmitri Medvedev. Come in tante altre dittature mediorientali, l’immagine di Ramzan Kadyrov inizia ad apparire dappertutto, in televisione e nelle strade. «In un piccolo territorio d’Europa si va consolidando una dittatura, –

scriveva Natalia Estemirova prima di morire, in un articolo pubblicato postumo sul quotidiano britannico The Independent – «I politici dell’Unione europea e delle Nazioni Unite paragonano la situazione a quella del 2000 e si concentrano sugli innegabili miglioramenti. Ma qual è stata la ragione che ha indotto a distruggere città e villaggi, ad uccidere centinaia di migliaia di civili e ad introdurre il terrore di Stato per “combattere contro il terrorismo”? Non si è voluto forse schiacciare la società civile ed indurla ad una scelta artificiale tra democrazia e stabilità? Il Cremlino è soddisfatto della repressione e dell’impossibilità della Cecenia di agire e di pensare in maniera autonoma». Alcuni mesi dopo aver scritto queste parole, l’autrice di questo articolo è stata rapita e assassinata a Grozny, divenendo un’altra vittima della guerra cecena.

L’Autore STEFANO MAGNI

Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storia dell’imperialismo sovietico nel Medio Oriente. Ha collaborato con Equilibri.net, Galatea, Ideazione e Ragionpolitica. Dal 2003 è redattore del quotidiano L’Opinione. Ha curato e tradotto l’antologia di studi di Rudolph Rummel, Lo Stato, il democidio e la guerra (Leonardo Facco 2003). E il classico della scienza politica Death by Government (Stati assassini, Rubbettino 2005).


CAUCASO Alessandro Marrone

Una guerra geopolitica

LA GEORGIA in mezzo al guado DI ALESSANDRO MARRONE

Poco più di un anno fa l’Europa ha dovuto fare i conti con la guerra tra Russia e Georgia, ultimo drammatico atto del risiko caucasico e del ritorno geopolitico di Mosca al ruolo di grande potenza. Un conflitto breve ma dalle radici profonde e dagli effetti importanti, che va analizzato nel contesto delle dinamiche innescate

venti anni fa nell’area post-sovietica dal crollo del comunismo. La guerra del 2008 è frutto in primo luogo dell’instabilità creata dalla caduta dell’Urss. Già nel 1990, quando la Georgia dichiara la sua indipendenza dalla Russia, l’Ossezia del sud la dichiara dallo stato georgiano. Ne è seguita una guerra costata alcune migliaia di


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morti e sospesa da un cessate il pleto a ridosso del confine georfuoco e dal dispiegamento di forze giano per una esercitazione militadi peace-keeping composte da trup- re. Saakasvili infine ha accostato il pe russe, georgiane e ossete, sotto fuoco alla miccia e fatto esplodere il monitoraggio dell’Osce. Èl’ini- la polveriera ordinando, il 7 agozio del frozen conflict, il “conflitto sto, l’invasione dell’Ossezia del congelato” tra il governo georgia- sud per ristabilirvi la sovranità geno di Tbilisi e le repubbliche se- orgiana. Mosca non aspettava alparatiste di Ossezia del Sud e Ab- tro. Con un blitzkrieg degno del khazia. Nel 2004 il neo-eletto miglior Kaiser, la Russia in 5 giorpresidente filo-occidentale Saaka- ni ha: bombardato e distrutto le svili tenta di rafforzare la presenza principali infrastrutture militari e militare georgiana nell’Ossezia civili georgiane; imposto con la del sud, ma di fronte all’afflusso flotta del Mar Nero il blocco navadi truppe russe a sostegno degli le al porto georgiano di Poti; invaindipendentisti osseti fa marcia so l’Ossezia del sud e le province confinanti arrivanindietro. Lo stallo do fino alla città di viene cristallizzato Con uns guerra lampo Gori, poche decine da due referendum svoltisi parallela- di cinque giorni la Russia di kilometri da Tbilisi; occupato mente nel 2006 è riuscita a raggiungere l’Abkhazia cacciannella provincia rido le forze georgiabelle: in uno i se- tutti gli obiettivi ne dall’ultimo baparatisti votano tattici prefissati stione anti-russo plebiscitariamente l’indipendenza dell’Ossezia, nel- nella valle di Kodori. l’altro i lealisti altrettanto plebi- Una volta raggiunti tutti gli scitariamente ribadiscono la loro obiettivi tattici prefissati, il 12 fedeltà a Tbilisi. In una situazione agosto il Cremlino ha accettato il evidentemente esplosiva, due go- piano di cessate il fuoco negoziato verni reclamano autorità sullo dall’Ue guidata dal presidente stesso territorio: uno sostenuto da Sarkozy che prevedeva il divieto Mosca, intenta anche a dispensare dell’uso della forza militare, la passaporti russi ai “compatrioti” cessazione definitiva delle ostilità, osseti, e l’altro da Tbilisi e quindi il libero accesso degli aiuti umada Washington. La polveriera è nitari, il ritorno delle forze armate pronta, in attesa solo della miccia. russe e georgiane alle postazioni La miccia è stata preparata, nel- precedenti il conflitto, una confel’estate 2008, da una serie di sca- renza internazionale sullo status di ramucce militari in Ossezia tra le Sud Ossezia e Abkhazia. A seguiforze separatiste e quelle lealiste. to del cessate il fuoco, le forze rusIl fuoco per accendere la miccia è se sono rimaste altri due mesi in stato prontamente provvisto dal Georgia a distruggere quanto più Cremlino, che “casualmente” di- possibile delle infrastrutture milispiega la 58° Armata al gran com- tari e civili georgiane, completan-


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do il ritiro il 9 ottobre del 2008. A quel punto l’Ue ha dispiegato una missione di 200 osservatori, mentre Mosca riconosceva l’indipendenza delle due repubbliche separatiste e stipulava con i rispettivi governi un trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza. Fin qui il riassunto dei fatti, ma qual è la loro analisi? Un punto di partenza potrebbe essere chiedersi di chi sia la responsabilità della guerra. Un bel rapporto di Chatham House, il noto centro studi londinese, con la tipica aria professorale britannica distribuisce le colpe un po’ tra tutte la parti in causa. Saakasvili avrebbe peccato di ambizione prendendo un rischio troppo grande, e compiendo un drammatico errore di sottovalutazione delle forze russe e di sopravvalutazione delle proprie (e del sostegno americano). Gli Stati Uniti sarebbero stati negligenti nel sottostimare l’instabilità della regione e la reazione russa al loro incondizionato sostegno a Saakasvili. Osce e Nazioni Unite si sono dimostrate incapaci di reagire alla crisi perché bloccate dal veto russo. Ovviamente, la parte del leone nella suddivisione delle responsabilità la fa la Russia, che ha evidentemente pianificato l’intervento e usato il massimo della forza militare convenzionale a sua disposizione, e non può quindi passare né per vittima dell’aggressione georgiana né per fautrice di un fantomatico intervento umanitario a difesa degli osseti. Se è evidente che la chiave per interpretare la guerra si trova a Mo-

IL LIBRO

Io vi parlo di libertà Nell’agosto 2008, la guerra tra la Russia e la Georgia proietta al centro dell’attualità mondiale Mikheil Saaka vili, quarantunenne presidente georgiano. In questo libro, colui che è diventato per la Russia il nemico pubblico numero uno risponde allo scrittore francese Raphaël Glucksmann, e così racconta della propria vita, dei sogni e dei progetti per l’avvenire della Georgia. Perché Saaka vili ha scelto il confronto con la superpotenza russa attaccando l’Ossezia del sud? È caduto in una trappola oppure ha semplicemente fermato l’invasione in corso? È un agente dell’Occidente, come afferma il Cremlino? Che cosa vuole realmente per il bene del suo popolo? Si considera un rivoluzionario sempre? E chi è davvero Vladimir Putin? A tutte queste domande, e molte altre, Mikheil Saaka vili risponde senza tergiversare: fa rivelazioni sullo svolgimento della guerra d’agosto; dà chiarimenti sui legami con Israele, con George W. Bush, con George Soros e con la Cia; ripercorre i primi attriti con il Kgb quando era studente a Kiev e a Tbilisi; informa sulla Rivoluzione delle rose; fa sentire l’emozione e la sorpresa dei suoi primi anni in Francia e negli Stati Uniti. Parla un uomo intriso dei valori e delle tradizioni occidentali, con una libertà ben rara in un capo di Stato in carica.

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sca piuttosto che a Tbilisi e a Wa- volta in volta “superpotenza”, shington, occorre allora chiedersi “unipolari”, “egemoni”, o addiritqual è stata la ratio russa nel deci- tura “impero”. dere l’intervento militare. In fon- Questo assetto geopolitico è endo, Clausewitz ha sempre ragione trato però in transizione negli annell’affermare che la guerra è la ni 2000. Tra i tanti fattori che continuazione della politica con hanno segnato e segnano questa l’aggiunta di altri mezzi, e il transizione, due riguardano in Cremlino sin dai tempi di Stalin particolare l’area euroasiatica. In è un maestro nell’usare lo stru- primo luogo, il rafforzamento mento militare al servizio del economico, politico e militare della Russia dopo la crisi degli proprio disegno geopolitico. Una spiegazione di natura “reali- anni ’90. Grazie al costante e sosta”, che utilizza come variabili stenuto aumento del costo delle fondamentali la forza – militare risorse energetiche esportate da ed economica – dei singoli Stati e Mosca, in primis petrolio e gas, e al ristabilimento la struttura del sidel controllo statastema internazio- Nato ed Europa hanno le sulla società rusnale, rimanda inesa (compresa la forvitabilmente ai esteso i loro confini zosa nazionalizzarapporti di forza dall’ex cortina di ferro zione delle inducreatisi nella restrie energetiche), gione Euroasiatica alla linea immaginaria dopo la caduta del che collega Tallin a Sofia il Cremlino ha visto accrescere il Muro di Berlino. Basta confrontare una cartina del proprio potere economico e mili1989 con una del 2008 per notare tare. Il ritrovato potere ha percome sia mutato il quadro ai dan- messo una politica di “bilanciani della sfera di influenza russa. mento” dell’unipolarismo ameriNato e Unione europea hanno cano e dell’influenza occidentale esteso, infatti, i loro confini dalla in quello che Mosca considera il ex cortina di ferro Danzica-Trieste suo “vicino estero”. Come ben alla linea immaginaria che collega spiegato da Neil MacFarlane nei la capitale estone Tallin a quella suoi articoli su Foreign Affairs, la bulgara Sofia, accogliendo al loro Russia non ha la forza per contrainterno non solo tutti i membri stare gli Stati Uniti su questioni europei del disciolto Patto di Var- vitali per l’agenda americana a lisavia ma anche repubbliche che vello mondiale, ma ne ha a suffifacevano parte dell’Urss come i cienza per farlo nella regione eutre Paesi baltici. Tale espansione, rasiatica. Tale regione è vitale per avvenuta nel quindicennio segui- Mosca ma tutto sommato perifeto alla caduta del Muro di Berli- rica per Washington che ha le sue no, è stata strettamente legata a priorità di sicurezza nazionale in un sistema internazionale domi- Medio Oriente e Afghanistan, e nato dagli Stati Uniti, definiti di qui il Cremlino può proiettare ef-


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ficacemente la sua forza militare. maggiore peso delle potenze reIn altre parole, la Russia va consi- gionali emergenti – Russia, Cina, derata una potenza regionale in India, Brasile – nelle rispettive grado di esercitare sui paesi vicini regioni e minore capacità della un potere maggiore di quello del- potenza mondiale e dei suoi alleala potenza mondiale impegnata ti europei di ingerire in teatri prioritariamente su altri fronti, al lontani dalla madrepatria. Alla fine di perseguire i propri inte- vigilia della guerra in Georgia, sembravano cioè non più praticaressi nazionali. In secondo luogo, nel 2008 la bili sia le guerre “umanitarie” inspinta propulsiva dell’allarga- traprese dalla Nato negli anni mento dell’influenza occidentale Novanta sia quelle “preventive” nello spazio ex sovietico era sem- combattute dagli Stati Uniti dobrata esaurita. L’Ue ha messo be- po l’11 settembre. I rapporti di ne in chiaro che ulteriori allarga- forza e la struttura del sistema inmenti a est non sono in agenda, e ternazionale permettevano, dunque, a una potenza ha concentrato le (scarse) risorse del- La Russia va considerata regionale con un forte, sebbene lila Politica europea mitato e parzialdi sicurezza e dife- una potenza regionale mente obsoleto, sa (Pesd) nella pa- in grado di esercitare dispositivo militacificazione dei Balre convenzionale cani. La Nato, nel maggiore pressione di riaffermare mavertice tenutosi a rispetto agli altri Stati nu militari la proBucarest nella primavera del 2008, ha deciso di pria sfera di influenza su un vicinon decidere sull’adesione di Ge- no piccolo e ribelle, senza che la orgia e Ucraina, rinviando il varo potenza mondiale intervenisse. del Membership action plan Se il paradigma realista si dimo(Map) verso Tbilisi e Kiev a dopo stra utile nello spiegare i rapporti le elezioni presidenziali america- di forza che rendono possibile o ne. Hanno pesato in quell’occa- meno un intervento militare, non sione il timore di Berlino e Parigi è tuttavia sufficiente per analizzadi irritare Mosca con un ulteriore re la decisione politica di muoveallargamento dell’Alleanza atlan- re guerra. In altre parole, il punto tica nel “vicino estero” russo, e la di vista realista spiega perché la debolezza dell’Amministrazione Russia poteva invadere la Georgia, Bush ormai in scadenza di man- ma non perché il Cremlino voleva dato. Gli sviluppi di Ue e Nato farlo. Per fare ciò occorre entrare sembravano confermare la transi- dentro la “scatola nera” delle dizione del sistema internazionale namiche politiche interne alla verso un indebolimento dell’uni- Russia, anch’esse fortemente sepolarismo americano e una cre- gnate dalla transizione iniziata scente regionalizzazione. Regio- nel 1989 e dall’eredità del sistenalizzazione da intendere come ma sovietico.

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Una prima chiave di lettura, cara agli analisti “liberali”, è quella economica. Il passaggio dall’economia comunista a quella capitalista e l’integrazione nell’economia mondiale in teoria avrebbero dovuto trasforDopo il crollo del Muro mare la Russia in un partner è mancata in Russia dell’Occidente, una borghesia legata al mercato capitalistico i n t e r e s s a t o prioritariamente al pacifico sfruttamento del commercio internazionale per incrementare la ricchezza nazionale. In pratica, purtroppo, questa transizione ha subito un primo duro colpo con la crisi finanziaria ed economica del 1998, che ha decimato la nascente borghesia 112 russa legata all’economia di mercato. Un colpo mortale alla transizione verso il libero mercato è venuto poi dalla progressiva nazionalizzazione delle industrie energetiche russe attuata da Putin nei primi anni Duemila, che ha concentrato nelle mani di Gazprom, a sua volta controllata direttamente dal Cremlino, il volano dell’economia russa costituito dalle esportazioni di gas e petrolio. Il combinato di questi due sviluppi ha fatto sì che il prinLa Georgia ospita cipale potere l’unica pipeline che sfugge al controllo economico rusdi Gazprom so, l’industria energetica, vedesse di buon occhio un’aggressiva politica estera del Cremlino volta a ristabilire il monopolio russo tanto sui giacimenti di gas dell’Asia centrale quanto sul loro trasporto verso il mercato euro-

peo. La Georgia ospita l’unica pipeline che sfugge al controllo di Gazprom, il gasdotto Baku-Tbilisi-Ceylon che porta il gas dal Mar Caspio al Mediterraneo senza passare per il territorio russo. Era, ed è, perciò, interesse dell’industria energetica russa punire e destabilizzare la il governo filo-occidentale al potere a Tbilisi, e mandare così un chiaro monito agli stati dell’Asia centrale a non vendere le proprie risorse a consorzi occidentali né ospitare pipelines non controllate da Mosca. Un secondo elemento da considerare è l’enorme peso delle forze armate e delle forze di sicurezza, nonché della collegata industria bellica, nel sistema politico russo,


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anch’esso eredità dell’iper-militarizzato regime sovietico. L’establishment militare e i siloviki – agenti ed ex agenti delle forze di sicurezza russe inseriti nel governo russo – hanno tutto l’interesse a mantenere una situazione di confronto con l’Occidente, comprendente anche un intervento militare facilmente vittorioso: ciò infatti permette loro di aumentare i fondi destinati alle forze armate, nonché di accrescere il proprio peso politico e status sociale in quanto manifesti difensori della sicurezza e degli interessi russi. Le imponenti dimensioni delle forze armate russe, che a differenza di quelle occidentali sono ancora basate sulla coscrizione ob-

bligatoria, e la relativa forza a fronte di un sistema politico sgretolatosi nel 1989 e mai saldamente ricostruito, ne fanno di fatto un attore decisivo nel panorama moscovita. Infine, un punto di vista foca- Putin ha deliberamente lizzato sul ruocostruito uno Stato lo del leader e le sempre più autoritario convinzioni e nazionalista delle élite contribuisce ulteriormente a chiarire la ratio dell’intervento russo. Come sostenuto anche dall’attuale consigliere di Obama sulla Russia, Michael McFaul, la leadership di Putin ha deliberatamente costruito, passo dopo passo, un regime sempre più autoritario e na113 zionalista. Il crescente controllo sugli organi di informazione e l’annichilimento dell’opposizione politica, unito all’uso intimidatorio delle forze di sicurezza (nonché alla “casuale” catena di “suicidi” di giornalisti scomodi) ha assicurato al Cremlino un margine di manovra in politica estera di gran lunga superiore di quello goduto dai governi nelle democrazie occidentali. Inoltre, il consenso guadagnato con la crescita economica e il Il controllo dei media ristabilimento ha permesso dell’ordine sociale è stato un margine di manovra in politica estera consolidato con il massiccio uso del nazionalismo russo. Fallita e discreditata l’ideologia comunista, il continuo richiamo alla Santa Madre Russia è utilizzato dal Cremlino tanto per svilire le critiche della comunità internazio-


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nale sulla violazione dei diritti ci- Nato. Di fatto, chi si opponeva vili, quanto per sostenere le poli- all’ingresso della Georgia nella tiche governative e magnificarne Nato nella speranza di ammorbii successi. In questa ottica, l’in- dire la posizione del Cremlino è tervento militare in Georgia era stato ripagato con l’avanzata dei pienamente in linea con la con- carri armati russi verso Tbilisi. vinzione, dominante nell’opinio- Un discorso simile vale per ne pubblica, che la Russia era sta- l’Ucraina, che con una numerosa ta sfruttata e umiliata dall’Occi- minoranza russofona e un forte ledente, e aveva quindi tutto il di- game socio-economico con la ritto di ristabilire manu militari la Russia non è nelle condizioni di propria influenza sulle repubbli- uscire dalla sfera di influenza di un Cremlino deciso a mantenerla che che facevano parte dell’Urss. Alla luce del contesto geopolitico sotto la sua orbita. Se il fine della e delle motivazioni interne alla guerra in Georgia era arrestare base della guerra, è possibile trac- l’ampliamento della sfera di influenza occidentale ciare un quadro nello spazio post degli effetti del La guerra in Georgia sovietico, l’obietticonflitto nella revo è stato brillantegione Euroasiatica. è riuscita ad arrestare mente raggiunto. In un’ottica reali- l’influenza occidentale In secondo luogo, i sta, la guerra è sermuscoli flessi da vita a Mosca per in alcuni paesi ottenere due im- dell’ex Unione Sovietica Mosca nel Caucaso hanno influito sulportanti risultati politici che influiscono sull’equi- la revisione della politica estera librio regionale. In primo luogo, americana messa in atto da Obal’invito alla Georgia ad aderire al- ma, che ha raffreddato il proprio la Nato che era in agenda fino al- sostegno alle forze filo-occidental’estate del 2008 è ora rinviato si- li di Kiev e Tbilisi e si è mostrato ne die, e sono scarsissime le possi- disponibile a negoziare anche sul bilità che tale opzione diventi di sistema di difesa anti-missile pronuovo praticabile. Infatti, quale gettato in Polonia e Repubblica paese alleato si sentirebbe di ga- Ceca cui Mosca si oppone forterantire la difesa collettiva di uno mente. Di fatto, l’amministrazioStato che ha una irrisolta disputa ne Obama attribuisce maggiore territoriale con Mosca e due re- importanza al sostegno russo sui gioni occupate dai russi? L’ultima dossier afgano e iraniano che al volta che Mosca ha stanziato posizionamento geopolitico della “temporaneamente” le sue truppe Georgia, e dopo la guerra del a Berlino, Praga o Varsavia ci so- 2008 sa che non può evitare un do no rimaste per 44 anni, e c’è vo- ut des con il Cremlino. Se la Rusluta la partizione della Germania sia voleva essere presa maggiorper permettere alla Repubblica mente in considerazione dalla Federale Tedesca di aderire alla controparte americana, il messag-


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gio mandato dai tank russi nelle città georgiane è arrivato anche a Washington. Tuttavia, se la guerra in Georgia non è stata certo una vittoria di Pirro, non è stata neanche decisiva nel ristabilire il controllo russo sul proprio vicino estero. Le significative esercitazioni militari congiunte tra la Georgia e la Nato svoltesi nel maggio 2009 dimostrano che l’Alleanza è ancora impegnata nella cooperazione militare e politica con il governo filo-occidentale di Tbilisi. Al

tempo stesso gli aiuti economici americani confermano il perdurare del sostegno di Washington all’alleato georgiano, il progetto di scudo anti-missile è ancora sul tavolo, e la robusta missione Pesd dispiegata dall’Ue testimonia l’interesse strategico europeo nel Caucaso. Infine, nonostante l’esito disastroso della guerra e il crescente malcontento interno, Saakasvili è ancora al governo di Tbilisi e non sembra disponibile a cedere a Mosca. Nel quadro delle dinamiche in-

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terne russe, la guerra in Georgia ha avuto egualmente successo su almeno due fronti. Nell’ambito della corsa alle risorse energetiche dell’Asia centrale, la punizione inflitta ai georgiani ha contribuito a spingere Azerbaigian e Uzbekistan a firmare contratti con Gazprom nei termini dettati dai russi. Sul fronte interno, il successo bellico ha aumentato il consenso nei confronti della leadership Putin-Medvedev, e marginalizzato ulteriormente i dissidenti interni accusati di essere al prezzo di potenze straniere ostili. Tuttavia, entrambi i risultati si sono rivelati di corto respiro. La partita energetica tra Europa e Russia è infatti lunga e complessa, e l’impegno dell’Ue sul progetto Nabucco, una nuova pipeline al di fuori del controllo russo, dimostra che non è ancora chiusa. Così come l’ambizioso Partenariato orientale, lanciato recentemente dall’Unione con Georgia, Ucraina, Armenia, Azerbaigian, Moldova e Bielorussa potrebbe rivelarsi nel lungo periodo un modo per rafforzare la cooperazione tra questi sei paesi e l’Europa, e quindi incrementare l’influenza europea nell’area ai danni di quella russa. Al tempo stesso, il consenso interno guadagnato con la guerra è andato in gran parte perduto con la crisi economica, e ora dipende più dalla capacità del Cremlino di far marciare l’economia nazionale che da quella di far marciare le truppe. In conclusione, la guerra del 2008 tra Russia e Georgia ha dimostrato l’instabilità dell’area

post sovietica a quasi vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino. Da un lato, il contrasto tra la sfera di influenza russa e quella euro-americana rende geopoliticamente instabile la regione situata tra i confini dell’Unione europea e il Mar Caspio. Dall’altro lato, le peculiarità del sistema economico e politico russo legate alla mai conclusa transizione democratica incoraggiano una politica estera aggressiva, che non disdegna l’uso unilaterale, aperto o coperto, della forza militare. Entrambi gli ordini di fattori, esterno e interno, che hanno provocato la guerra in Georgia non sono stati risolti dalla stessa. Infatti Tbilisi è ancora in bilico tra Mosca e Washington, e l’autoritarismo nazionalista in salsa energetica rimane la variabile determinante, e pericolosa, dell’equazione politica russa. Grande è la confusione sotto il cielo, tutto (non) va bene.pubb

L’Autore ALESSANDRO MARRONE Master in Relazioni internazionali presso la London school of economics and political science. È stato asssistente alla ricerca per i Rapporti transatlantici e sicurezza e difesa presso l’Istituto affari internazionali di Roma, per il quale ha redatto alcune pubblicazioni. Ha collaborato con le riviste Ideazione e L’Occidentale.


ENERGIA Alfredo Mantica

La sfida delle pipelines

La via italiana all’energia Attraverso la costruzione dei gasdotti South Stream e Itg, l’Italia cerca una via autonoma all’approvvigionamento energetico. Senza entrare in contrasto con l’Ue, ma aspirando ad un ruolo di mediazione fra questa e la Russia, riproponendo lo spirito di Pratica di Mare. DI ALFREDO MANTICA

«Il comunismo è il potere dei soviet più l’elettrificazione di tutto il paese». Era il 1917 quando questo motto leninista campeggiava sull’imponente centrale elettrica nel cuore di Mosca. Due guerre mondiali ed una “fredda” prima, ma soprattutto la caduta dell’Unione Sovietica poi, impedirono la trasformazione dell’intento in realtà. Dopo un periodo di assestamento durato circa un decennio, la Russia ha saputo scrollarsi di dosso la polvere delle macerie sovietiche, tornando nuovamente a giocare un ruolo di primo piano all’interno dello scacchiere geopolitico internazionale. E lo sta facendo proprio in quel vecchio settore, l’energia, che da sempre l’ha vista giocare un ruolo da protagonista. Il grande sogno della Federazione russa passa attraverso la ricerca della continuità col passato e, dopo la frantumazione dell’Urss, ha

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intuito che potrebbe realizzarlo soltanto usando l’energia come strumento di partenza. A questa si aggiunga poi l’ancor attuale nostalgia imperiale che si manifesta con l’uso dell’esercito a fini politici. Basti pensare al caso Cecenia o alla crisi del Nagorno Karabakh, anche se in quest’ultimo caso il vero ago della bilancia è la Turchia, con la quale i russi sono quasi costretti a trattare ed accordarsi per garantirsi uno sbocco “amico” sul Mediterraneo. In questo modo si intuisce come sulla scacchiera asiatica non sia poi così lontana la Grande Russia ottocentesca. È insomma una vera e propria locomotiva concorrenziale all’Occidente che passa 118 dal recupero di San Pietroburgo come porta d’ingresso verso l’Europa (non dimentichiamo che Putin è originario proprio di questa città), ma anche dall’alternativa ortodossa alla Chiesa cattolica. D’altronde la Russia è l’unico paese al mondo che, pur abbracciando due continenti, non ha confini naturali che stabiliscano dove comincia l’Europa e dove l’Asia. La funzione dei cosiddetti Stati satellite, o cuscinetto, era proprio quella di sopperire a Anche nelle difficoltà dopo la Guerra Fredda livello amminiMosca non ha smesso strativo alle carenze della nadi sentirsi un Impero tura. Finché l’Unione Sovietica è rimasta in piedi la loro funzione è stata palese: attutire ed avere il tempo di reazione ad un ipotetico attacco dell’Occidente. Il discorso si complica con la caduta del Muro:

cessata la Guerra Fredda ed allargati gli organismi multilaterali occidentali anche ai paesi dell’ex Urss, per la Russia è iniziata un’epoca di riassestamento. Sullo sfondo, però, c’è sempre stata la convinzione di essere un grande Impero, una forza internazionale in grado non soltanto di autosostenersi ma soprattutto di coagulare attorno a sé gli Stati confinanti. Il problema principale della Russia è stato quello di dover infatti gestire una lunga e difficile stagione di declino evidenziatasi già nell’ultimo decennio di vita dell’Urss e continuata negli anni della transizione postcomunista, senza però voler rinunciare allo status di grande potenza, for-


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se l’unica vera eredità del passato. Conclusa la Guerra Fredda, in molti pensavano che la Russia potesse entrare, seppur a piccoli passi, all’interno della galassia ideologica occidentale, sul modello della democrazia liberale e del capitalismo europeo. L’idea di una grande Russia parte integrante del Vecchio Continente nel quadro di una casa comune europea sembrava un’ipotesi realizzabile. Ma dopo pochi anni il quadro è andato disegnandosi diversamente. La Russia di oggi proclama la sua indipendenza e sovranità, non identificandosi con lo spazio geopolitico paneuropeo, se non in minimi termini o per agevolare transazioni econo-

miche. La Russia, al contrario, sta sempre più rafforzando una sua identità politico-valoriale al di fuori del sistema europeo occidentale. Questo non significa porsi necessariamente “contro” l’Europa, e nepSulla scacchiera pure “in alternativa”. Signi- eurasiatica si muovono fica semplice- da un lato Usa e Cina mente conside- dall’altro Russia e Ue rarsi “altro”. Il grande evento che negli ultimi anni è intervenuto, però, a sconvolgere ancor più lo scenario delle relazioni internazionali, e ha portato alle attuali competizioni in atto nel mondo per la ridefinizioni degli equilibri di potenza, regionali e globali, è stato l’attac119 co alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. In particolare, se prima di allora gli Stati Uniti si erano inseriti nel vuoto di potere lasciato dalla caduta dell’Urss, grazie alla penetrazione commerciale e all’appoggio portato alle opposizioni interne dei nuovi Stati indipendenti, dominati per lo più ancora da oligarchie di matrice sovietica, il peso americano è poi cresciuto enormemente, trasformandosi da influenza esterna in presenza diretta con l’invasione dell’Afghanistan e l’installazione di basi militari nei paesi confinanti (Kirghizstan ed Uzbekistan). Oltre all’appoggio degli altri paesi dell’area nel nome della comune lotta al terrorismo internazionale. Gli Usa, insomma, si sono inseriti direttamente nella partita per partecipare al controllo indiretto del Caucaso. Ma anche l’Asia Centrale oggi è


EMMANUEL GOUT*

Non bisogna più scegliere fra Russia e Europa

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Venti anni fa crollava il Muro di Berlino. Forse perché all’inizio degli anni Ottanta lavoravo in un’azienda di Berlino ovest, direttamente installata sotto le torrette d’osservazione, queste immagini rimangono impresse nella mia memoria. Ciò che avrei scoperto anni dopo nei paesi d’Europa centrale, dell’est e in Russia mi fece prendere atto dei danni che quest’ideologia comunista aveva potuto provocare sui popoli sottoposti alla sua egemonia. Venti anni sono passati e tuttora si riscontrano difficoltà a superare questa devastante eredità. L’integrazione europea si è completata, cancellando la triste consegna dei nostri cugini europei all’Impero sovietico e, da parte sua, la Russia rinata nel 1991 con Eltsin ha intrapreso un cammino complesso, alla ricerca di nuovi rapporti con il mondo occidentale. Difficile spiegare la tragicità incontornabile degli anni Novanta, senza ricorsi alla memoria dell’eredità comunista fino all’ultimo uomo sovieticus. Sorvolando su quegli anni e i due tentativi di tornare in dietro nel 1991 e nel 1993, la Russia è riuscita, sostenuta dall’aumento del prezzo delle materie prime, a costruire una nuova identità dalla fine del secolo scorso, anche grazie ad una leadership rinnovata e finora in perfetta sintonia con il paese. Ma tuttora vecchi riflessi non sono superati e i rapporti appaiono sempre reciprocamente diffidenti tra Europa e Russia. Certo ciò che viene in mente sono le famose e ripetute battaglie invernali del gas, anche se quest’anno sembra invece preannunciarsi tranquillo. L’orso russo nell’immaginario collettivo sarebbe nuovamente minaccioso, pronto ad attaccare l’Ucraina, l’Europa e per altri motivi la Georgia. Facile cadere in questa trappola, facile perché i russi non sempre si fanno capire o si spiegano; facile perché forse ci era comodo il derby mondiale per la sua semplicità, facile anche volere pensare che la fine dell’Urss possa essere la fine tout court di un paese che per secoli fu un impero, ma anche spesso un alleato di molti paesi europei. Ma il rinascimento della Russia non ha niente a che fare con un rinnovamento del bipolari-

smo. Le ragioni di queste guerre energetiche si trovano più nelle semplici applicazioni delle regole del mercato che in implicazioni di carattere geopolitico, ma in ogni caso suscitano legittimamente alcune domande e richiedono di superare una visione del mondo che appartiene al passato. In molte occasioni, per esempio con la Cina e l’Inghilterra, De Gaulle ha dimostrato di essere lungimirante sulle evoluzione del mondo. La Russia era ai suoi occhi un partner, una parte di noi. Le nazioni dovevano trovare un modus vivendi. La costruzione europea completata nelle sue frontiere deve ormai potersi muovere sulla definizione di rapporti bilaterali forti. In questa situazione la Russia rimane ancora timida nei confronti di Bruxelles e sembra avvantaggiare rapporti con i membri dell’Ue. Uno sforzo bilaterale è necessario. Se ci riferiamo al settore energetico occorre prima considerare due esempi. Il mondo Gazprom sembra “evitare” Bruxelles e da parte sua Bruxelles non perde occasione di condannare il gigante industriale, sebbene le origini delle crisi, come dimostrato palesemente nelle crisi 2008/2009 in Ucraina, sono da imputare alle guerre interne ucraine, che a loro volta mettono a rischio il nostro approvvigionamento. Su un altro versante ugualmente strategico, Rosatom, il nucleare russo, non solo è costantemente in rapporto con le autorità di Bruxelles ma sta stringendo alleanze salde in Europa. Basta ricordare Alstom in Francia e in modo certamente più indicativo e strategico Siemens in Germania. Ma anche in Italia, paese economicamente tradizionalmente legato alla Russia – non ne facciamo un discorso d’amicizia – le alleanze non mancano e, tornando ai due esempi energetici, basta vedere la collaborazione di Enel e Rosatom in Slovacchia o di Eni e Gazprom anche sul progetto South Stream in grado di ampliare le vie d’approvvigionamento verso l’Europa del gas per le nostre economie. Tra l’altro ciò rappresenta un altro elemento di complementarità tra Europe e Russia. La Russia sta spingendo il progetto North


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Stream, già in corso di realizzazione, e il progetto South Stream, ed entrambi associano operatori europei. Che l’Ue avesse voglia di aggiungere il progetto Nabucco non dovrebbe essere vissuto come concorrenza ma come uno sviluppo complementare, premesso che le condizioni economiche di un altro progetto fossero compatibili con le nostre situazioni economiche. L’errore sarebbe di giustificare una spesa colossale basata esclusivamente su ragionamenti antagonisti per non dire conflittuali. L’esercizio fondamentale è quindi superare da ambedue i lati le caricature e cercare di decodificare, decifrare meglio dei popoli così diversi ma con radici comuni. L’importante è

smettere di pensare di dovere scegliere tra Russia o Europa, come i media regolarmente sostengono (l’ultima volta nel caso della Moldavia). La Russia è più che mai tornata sulla scacchiera mondiale, può essere un rivale , un competitor, ma non è più il nemico e se la definizione del nemico, come ricorda Schmitt, è opportuna per la nostra civiltà, bisogna cercarlo altrove e non in Russia. Venti anni fa cadeva il Muro, più che mai bisogna ricordarlo in questo momento di crisi del capitalismo. La tentazione comunista potrebbe rinascere, è importante che i testimoni non tacciano. La Russia è con l’Europa in questa battaglia. Presidente di Stratinvest


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in realtà al centro di mire e appe- menti russi, cercando invece di titi assai ambiti. Turkmenistan e rafforzare la diversificazione e troUzbekistan possiedono alcune tra vando fornitori alternativi. La le maggiori riserve mondiali di Russia, per contro, minacciò di gas e petrolio: esse però non sono interrompere le forniture europee più necessariamente trasportate per rivolgersi al mercato asiatico. attraverso oleodotti e gasdotti in- Il punto centrale è che il settore terni al territorio russo: con l’in- energetico ha una valenza politica tervento economico e ingegneri- per la Russia diversa da quella che stico di Usa ed Europa potranno ha per l’Europa, dove la sua imattraversare il continente per un portanza, al di là del business, si tragitto meridionale, esterno al riduce in fondo a un problema di territorio russo, per giungere ai sicurezza degli approvvigionaporti mediterranei della Turchia menti. Per la Russia l’energia è la leva fondamentae quindi nel Vecle per la ricostruchio Continente. Se Per la Russia l’energia zione dell’econosi aggiunge che il Kirghizistan ha for- è la leva fondamentale mia e dello Stato, e quindi per il se la più grande ri- per consolidare consolidamento serva mondiale di della sua potenza uranio, che il Kaza- la sua potenza e e sovranità. Non a kistan ha ereditato la sua sovranità caso la Russia non dall’Urss strutture avanzate di ricerca e produzione ha ratificato, nonostante le insidi materiale fissile, si comprende stenze comunitarie, la Carta eurocome questa zona rivesta un inte- pea per l’energia, incluso il Protoresse cruciale nel perenne grande collo di transito, che avrebbe imgioco delle potenze e della loro plicato la libertà di transito lungo sicurezza, ieri giocata tra Inghil- le sue pipelines e reti di distributerra e Russia, oggi tra Usa e Ci- zione, ponendo fine al monopolio na da un lato e tra Europa e Rus- di Gazprom. Il grande vantaggio strategico sia dall’altro. Il tema della sicurezza energetica, della Russia risiede, come si è già considerato il livello di interscam- detto, nell’enorme potenziale di bio in atto tra Russia e Europa, ad risorse idrocarburanti – è il priuna lettura superficiale potrebbe mo esportatore di gas ed il seconessere inteso come un elemento di do produttore petrolifero al monunione. Eppure sino ad oggi è sta- do – che le ha consentito di allacto governato da reciproche diffi- ciare importanti e strategiche aldenze e differenze strategiche e leanze di carattere politico-ecotattiche. Quando nel 2006 scop- nomico. Anche per questo motipiò la crisi del gas tra Russia e vo, negli ultimi anni l’azione del Ucraina, l’Europa si convinse che governo moscovita è stata rivolta si rendeva necessaria una drastica essenzialmente a trovare nuove riduzione degli approvigiona- strade, nuove reti di distribuzio-


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ne, diversificando i territori so- lanciare l’asse euroatlantico. L’acvrani da attraversare. La determi- cordo di Shangai, infatti, è il prinazione russa ad individuare rotte mo esempio di organizzazione alternative e possibilmente diret- multilaterale in Asia in cui non te, si è rafforzata ancor di più in sono coinvolti gli Stati Uniti. Atseguito alla grave crisi di fornitu- torno a Russia e Cina siedono anre di gas ai mercati europei, che quattro ex repubbliche soviequando, tra il 7 ed il 20 gennaio tiche del Caucaso (Kazakistan, 2008, furono interrotte a causa Kyrghizistan, Tajikistan, Uzbedella disputa con l’Ucraina sul kistan); ultimamente anche Inprezzo del metano e sulle tariffe dia, Mongolia, Pakistan ed Iran di transito. E anche se, al termine sono stati invitati in qualità di di una travagliata tornata nego- osservatori. Nel sottosuolo delle ziale, la russa Gazprom e l’ucrai- quattro repubbliche caucasiche si trova il 30 per cenna Naftogas hanno concluso un accor- L’Ue ha dato il via libera to del fabbisogno mondiale di petrodo potenzialmente lio e gas, con una in grado di accre- al progetto Nabucco possibilità di scere la trasparen- che dovrebbe arginare sfruttamento supeza nei loro rapporriore a quelle del ti energetici (gra- il dominio energetico Mar del Nord. Eczie anche all’appli- della Russia co che dunque una cazione di formule europee di mercato ed all’estro- partnership energetica, in grado di missione di eventuali intermedia- far blocco unitario, proietterebbe ri), la crisi ha evidenziato i peri- la Russia, di concerto con la Cina, coli per la sicurezza energetica in posizione dominante su moleuropea connessi all’instabilità tissimi tavoli di trattativa con eudelle relazioni russo-ucraine. È ropei e statunitensi. proprio in quest’ottica che sono Per arginare quella che è ritenuta dunque da considerare i grandi una pericolosa – almeno in chiave progetti dei gasdotti North e economica – posizione di monoSouth Stream e dei nuovi oleo- polio, proprio nello scorso mese dotti volti, da un lato, a sfociare di luglio l’Unione europea ha danel mar Baltico e, dall’altro, a to il via libera esecutivo ad un creare un collegamento preferen- ambizioso progetto: la costruzione del gasdotto Nabucco. Lungo ziale con la Cina. L’accordo di Shangai del 2001, oltre 3300 chilometri, potrà trache ha anticipato il vertice bilate- sportare circa 30 miliardi di merale sino-russo del 2007, ha ridi- tri cubi di gas dalla regione del segnato la mappa degli equilibri Caspio e dall’Asia Centrale, attrageopolitici soprattutto nel ver- verso l’Azerbaijan, la Georgia, la sante orientale del mondo, crean- Turchia, la Bulgaria, l’Ungheria, do sinergie e “patti di buon vici- la Romania e l’Austria, fino al nato” con l’intento di controbi- cuore dell’Europa. Un percorso

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INTERVISTA A FRANCESCO FORTE di Barbara Mennitti*

Dobbiamo allearci con la Russia per difenderci dallo strapotere della Cina

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L’Europa non può dipendere dall’asse tra Cina e Stati Uniti e deve puntare a creare un nuovo motore di sviluppo, alleandosi con la Russia, così come stanno facendo Italia e Germania. Lo sostiene Francesco Forte, professore di Economia, editorialista e già ministro delle Finanze, delle Politiche comunitarie e sottosegretario agli Affari Esteri. Quest’intesa economica, secondo Forte, può dare vita e una nuova alleanza industriale chiamata Gerica, fra Germania, Russia, Italia e Caspio, fondata su un comune interesse per le risorse naturali, che rappresenti un’area geoeconomica contrapposta a quella sino-statunitense. E che, oltretutto, potrebbe aiutare la Russia a portare a compimento il suo processo di democratizzazione interna. Lei sostiene che per contrastare il crescente potere economico della Cina, i cui destini finanziari sono sempre più strettamente intrecciati con quelli degli Stati Uniti, l’Europa deve trovare nuovi motori economici e nuove alleanze industriali. Per esempio l’asse che si va profilando sempre più nitidamente fra Italia, Germania e Russia? In effetti questo asse esiste già con una strategia convergente di Italia, Germania e naturalmente Russia, ma anche di alcuni paesi dell’area del Caspio. Ho chiamato quest’entità nuova Gerica, (Germania, Russia, Italia, Caspio), un’area molto ampia che ha un interesse petrolifero e minerario, in genere di risorse naturali che si contrappone a quello della Cina, che sta facendo shopping petrolifero in Africa, in Asia, Australia, attuando al contempo politiche protezionistiche per esempio per quei minerali che servono per gli acciai speciali che essa produce e non vuole esportare, detenendo di fatto un monopolio. Attualmente ci troviamo di fronte all’alleanza finanziaria forzata fra Stati Uniti e Cina. Si tratta di un sodalizio che crea qualche preoccupazioni, perché gli Usa sono enormemente indebitati con la Cina e i cinesi posseggono

miliardi di dollari del tesoro americano, e quindi gli americani tendono ad essere in qualche modo condiscendenti alle operazioni protezionistiche o anche di saccheggio del pianeta da parte della Cina. Quindi è necessario avere una area geoeconomica contrapposta, che per noi fra l’altro coincide con uno spazio naturale di espansione verso est dall’epoca della repubblica veneta in poi, così come per la Germania che storicamente lo definiva Drang nach Osten. Questo interesse naturale si è recentemente cementato con vari episodi tra i quali la realizzazione del nuovo gasdotto che passa per la Turchia, l’alleanza preferenziale della Germania per il caso Opel con i russi e proprio qualche giorno fa con la cessione addirittura di un cantiere navale tedesco all’industriale russo Yusufov. La svolta del cancelliere Merkel, che viene da uno Stato ex comunista, dimostra che questa nuova alleanza è in atto dal punto di vista economico ed ha un favore politico. Gerica, questa nuova alleanza industriale, potrebbe anche avere in futuro degli sviluppi politici? Dal punto di vista politico l’auspicio finale è che si arrivi ad una zona di libero scambio fra i paesi dell’Unione europea e la Russia, con un regime analogo a quello applicato adesso ai paesi del Mediterraneo, naturalmente aspettando un’evoluzione politica della Russia, dove ci sono innegabili problemi di democrazia. Ma a chi si interroga sull’idoneità della Russia a fare alleanze con i paesi democratici (come qualche giornale americano), si può facilmente rispondere che la Cina è un paese dichiaratamente collettivista e di certo non democratico. La Russia, invece, ha un deficit di democrazia dal punto di vista concreto e questo ravvicinamento con i paesi europei potrebbe aiuterla nel percorso di democratizzazione. Bisogna riconoscere un’area di influenza russa e una di influenza nostra, perché non si può certo pretendere,


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come fanno gli americani, che la Russia non abbia una zona di influenza nell’area circostante, relegandola al ruolo di potenza minore. E’ necessario, piuttosto, creare degli equilibri, anche perché la tesi di una Russi debole è assurda e non serve neanche a noi. Non dimentichiamo che la Grande Muraglia guarda alla Russia. Dunque Italia e Germania si alleano con la Russia. Questo potrebbe creare qualche spaccatura all’interno dell’Ue? E cosa fanno gli altri paesi europei? In alcuni paesi dell’est europeo ci sono ancora dei risentimenti anti russi, ma dal punto di vista realistico vi sono evidenti collegamenti. Forse l’incognita principale è la Francia, che può sentirsi un po’ diminuita nel suo ruolo di protagonista internazionale, ma data la sua amicizia con la Germania, questa alleanza può rientrare nel discorso francotedesco. In realtà conviene a tutti avere a disposizione il petrolio e il gas della Russia e del Caspio. L’argomento fondamentale, però, rimane la necessità di garantire un’autonomia energetica e mineraria dell’Europa. Inoltre le risorse e i mercati che si dischiudono in quell’area sono molto vaste e allettanti. Quindi la nostra dipendenza energetica dalla Russia non è un pericolo, come sostengono alcuni? Questa è un’affermazione che nasce dal fatto che ormai abbiamo una sinistra asservita al cartello internazionale del petrolio. Il nostro vero problema è il rischio di essere dipendenti dal Medio Oriente. Anche perché l’esistenza di un gasdotto crea una dipendenza reciproca: i russi hanno bisogno di metterci il gas, non possono certo tenerlo sottoterra. E poi la Russia ha bisogno di noi

per realizzare le connessioni tecnologiche perché non ha un know how adeguato e ha interesse a vendere perché ha bisogno di risorse finanziarie. Ma l’argomento vero è la diversificazione: noi intanto abbiamo diversificato i gasdotti. Il nuovo gasdotto passa per la Turchia e quindi crea un’alternativa al precedente, quello che passa per l’Ucraina. Inoltre noi abbiamo un’alleanza con la Libia, che crea un’ulteriore diversificazione, e potremmo utilizzare anche le risorse dell’Iraq, uno dei più grandi giacimenti del mondo. Fra l’altro per ora questo gasdotto trasporterà gas russo ma presto trasporterà anche gas del Caspio, dove stiamo operando. Ritiene davvero che il governo italiano sia caduto in disgrazia presso l’amministrazione americana proprio per i suoi stretti rapporti con la Russia? Il punto è che l’Italia, pur essendo un tradizionale alleata degli Stati Uniti, ha un suo spazio economico e prima o poi gli Usa riconosceranno che è utile che l’Europa abbia una sua alternativa in Russia, altrimenti la Cina strangolerà tutti. Mi sembra che in fondo sia anche nell’interesse degli americani. Non crede che converrebbe anche agli Stati Uniti muoversi su più fronti, invece di puntare su un G2 con la Cina? Certo che converrebbe ma hanno un problema di ordine finanziario. Gli Usa ora dovrebbero puntare su una strategia globale: i buoni rapporti con l’Europa sono fondamentali e qui i paesi con cui ha migliori rapporti sono la Gran Bretagna e l’Italia per ragioni tradizionali.

*Caporedattore responsabile di Charta Minuta

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che è stato studiato con il preciso D’altronde tra Russia e Germania intento di tagliar fuori intera- negli ultimi anni è nato un vero e mente la Russia. I paesi dell’Ue proprio rapporto preferenziale (a contano sul nuovo gasdotto pro- dir la verità più con l’ex cancelprio come uno strumento di di- liere Schröder, amico personale di versificazione delle forniture del Putin, che con l’attuale Merkel, gas per diminuire la dipendenza che appare, almeno a prima vista, dalla Russia, la cui reputazione un po’ più fredda). La Germania è come fornitore energetico è stata il primo esportatore verso la Rusfortemente compromessa in se- sia (16 miliardi di euro, pari al 33 guito alle già citate “guerre ener- per cento del totale Ue), nonché il più grande importatore (semgetiche” con l’Ucraina. Al Nabucco, però, la Russia ha pre 16miliardi di euro che però parzialmente risposto con due ga- questa volta valgono il 20 per cento del totale sdotti concorrenti, comunitario). Il definiti North e Al Nabucco la Russia secondo progetto South Stream. Il ciplopico è il primo è frutto di ha risposto con due South Stream, un’intesa bilaterale gasdotti concorrenti, frutto di un’idea con la Germania. comune tra la L’investimento pari definiti North Stream Gazprom e l’Eni a 5 miliardi di euro e South Stream e che dovrebbe avrà una capacità di trasporto di 27,5 milioni di metri esser funzionante entro il 2013. Il cubi l’anno che partiranno dalla tracciato dovrebbe scorrere sotto Siberia per raggiungere, attraver- il mar Nero, snodandosi dalla so una tratta di circa 1200 chilo- Russia alla Bulgaria per poi enmetri, il territorio tedesco. Il ga- trare in Italia attraverso la Grecia sdotto attraverserà il mar Baltico e in Austria attraverso i Balcani e partendo dal porto russo di Vy- l’Ungheria. Terminata la fase borg per arrivare al terminale po- progettuale, ora tutti i governi sizionato a Greifwald. Il progetto sono impegnati nel mettere nero ha soprattutto una natura geopo- su bianco gli accordi. Secondo la litica in quanto elimina dal per- stampa russa il gasdotto Nabucco corso l’Ucraina (già causa dei correrebbe il rischio di rimanere a menzionati “incidenti”), ma an- secco perché le riserve di gas delche la Lituania, la Lettonia e la la regione non saranno sufficienti Polonia. In pratica è un rapporto a garantirne il pieno utilizzo. Il diretto tra Mosca e Bonn: non a governo russo, infatti, si è detto caso i detrattori del progetto e i pronto a comprare il gas dalpaesi estromessi dalla fornitura, l’Azerbaijan (fornitore principale Polonia su tutti, non senza pole- del Nabucco) anche ad un prezzo mica, rievocando antiche allean- più alto di quello a cui il paese ze, lo defiscono sarcasticamente potrebbe venderlo all’Europa. A “gasdotto Ribbentrop-Molotov”. questo si aggiunga l’accordo tra


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Mosca e Turkmenistan secondo quali si può anche aggiungere la cui i russi hanno la priorità d’ac- Francia che, pur essendole meno quisto sui due terzi dell’intera legata economicamente (solo il produzione di gas turkmeno. Con 16% del gas è di origine russa), è questa mossa si impedirebbe di una forte sostenitrice del progetriempire la quota di gas necessa- to South Stream. L’elenco sarebbe ria ad uno stabile funzionamento incompleto se non si aggiungesdel Nabucco. In realtà, poco tem- sero ancora molti paesi ex satellipo dopo, a causa anche della sem- ti dell’Urss: le tre repubbliche pre più grave crisi economica, il Baltiche, la Slovacchia e la Finpresidente del Turkmenistan ha landia ricevono il 100% del loro dichiarato che il suo paese sarà fabbisogno energetico direttacomunque pronto a fornire al Na- mente da Mosca, la Repubblica bucco il necessario volume di gas. Ceca circa il 70%, mentre ne ricevono poco più Mosca, inoltre, è del 50% Slovenia e impegnata anche La Russia è più Polonia. Nononel promuovere il stante la forza di gasdotto Burgas- propensa a stringere queste percentuali, Alexandropoulis accordi bilaterali, anche a Mosca coche prende il nomincia a serpregme dalle città di trascurando i tavoli giare la preoccupaBulgaria e Grecia, multilaterali zione per l’avanzaaltamente strategiche per portare il gas nei due re della crisi economica globale. Stati evitando i Dardanelli. La co- Lo provano le cifre riportate struzione del Burgas-Alexan- dall’ente statistico nazionale: la droupolis comincerà nel 2010, produzione di servizi e prodotti anziché quest’anno com’era inve- essenziali è calata di oltre dieci ce stato precedentemente annun- punti percentuali negli ultimi tre ciato, a causa delle conseguenze mesi, mentre i proventi delle della crisi economica internazio- esportazioni – il cui grosso è conale. L’oleodotto avrà una lun- stituito dalle esportazioni di gas e ghezza complessiva di 280 chilo- petrolio – hanno registrato un metri, 166 dei quali correranno crollo del 40 per cento in un anin territorio bulgaro; avrà una ca- no; a questo bisogna aggiungere pacità iniziale di 35 milioni di la previsione della Banca mondiatonnellate l’anno che potranno in le (contrazione del 4,5% dell’ecoseguito arrivare a 50 milioni. Il nomia nell’anno in corso). La crisi costo stimato del progetto è di della Russia è collegata a filo doppio con la drastica riduzione 900 milioni di dollari. Riassumendo, quindi, la Russia dei proventi derivanti dalle ha rapporti energetici in atto e esportazioni di gas e petrolio. Ecprivilegiati con Germania, Italia, co perché ora la Russia è impePaesi Bassi, Grecia, Bulgaria, gnata a guardare anche oltre i Austria, Ungheria e Slovenia, ai propri confini, soprattutto in di-

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rezione dell’Asia Centrale. Gaz- sito. L’Unione europea dipenderà prom, infatti, oltre ad acquistare sempre più dal gas russo e avvercirca 50 miliardi di metri cubi tirà altrettanto il bisogno di una di gas dal Turkmenistan, 15 dal ricerca di autonomia nelle forniKazakistan e 7 dall’Uzbekistan, ture e nelle linee di approvigiopartecipa a diversi progetti di namento. Ma considerare il Nacostruzione di gasdotti diretti bucco lo strumento di autonomia tra Asia Centrale e territorio rus- e il mezzo di confronto con la so. Anche la Russia, dunque, ac- Russia può rivelarsi un errore. quista gas da paesi concorrenti. Nabucco è assolutamente comMa la strategia è evidente: la plementare a South Stream, a ItRussia non acquista per necessi- gi, e Blue Stream è uno dei mezzi tà ma per indebolire (economi- di approvigionamento. Lo hanno camente e contrattualmente) il capito la Germania, l’Italia e anche la Francia. Il suo maggior antanostro governo è gonista attuale, L’Italia deve porsi entrato direttaproprio quelmente nel gioco l’Unione europea in posizione mediana con la compreche in questo modo fra Russia e Ue, senza ad Ankara è costretta ad alzare i termini del prezzo costruendo un ruolo di di Berlusconi alla d’acquisto, ritro- leader nel Mediterraneo firma tra Russia e Turchia per il vandosi così in poSouth Stream. Ribadendo che la sizione di debolezza. Tutto quanto accennato sinora sicurezza energetica europea ha deve far riflettere e non poco i go- bisogno di un dialogo con la Rusverni nazionali europei. La Russia sia nel rispetto del suo Stato, del è (ri)entrata prepotentemente suo status e del suo spazio interno all’interno dello scacchiere strate- (o Csi che si voglia chiamare), gico internazionale e dunque de- credo che appoggiare il South ve essere considerata un interlo- Stream non significhi andare concutore di primissimo piano e non tro il Nabucco, che oltretutto un nemico da cui diferndersi. Ciò non può essere considerato l’uninon significa inglobarla entro i co strumento di sicurezza energeconfini dell’Unione europea, ma tica in ambito europeo. L’azione non esclude neppure (anzi, sareb- dell’Italia nel medio termine sarà be auspicabile) confrontarsi, ca- dunque di porsi in posizione mepirsi e dialogare. I gasdotti, in tal diana tra Unione europea e Russenso, rappresentano il cordone sia; posizione, tra l’altro, già ricoombelicale che non può in alcun nosciutaci dalla comunità intermodo esser tagliato, pena provo- nazionale e che va a riproporre lo care irreparabili danni. Laddove, spirito di Pratica di Mare. insomma, una volta si muoveva- Un’impresa non facile, certo, ma no divisioni corazzate, oggi si che posiziona l’Italia come sogmuovono tubi e permessi di tran- getto strategico, leader del Medi-


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terraneo e degli interessi conseguenti: la Russia non può che essere un paese “amico” dell’Europa con cui occorre dialogare, magari un po’ più incisivamente in termini di diritti civili e di libertà individuali, seppur alle frontiere e nella sua specificità eurasiatica la Russia è da considerare un partner totalmente affidabile. Insomma, per dirla con le parole dell’ambasciatore Sergio Romano: «Sarebbe sbagliato escludere la Russia dall’Europa; sarebbe altrettanto sbagliato garantirle, nel mercato europeo del gas, un ruolo dominante». Concetto che riassume egregiamente l’atteggiamento dell’attuale governo italiano, anche perché la Russia è certamente un interlocutore importante ma non l’unico. Con Libia, Nigeria, Brasile e nel Maghreb sono in atto diversi accordi tesi alla diversificazione della fornitura che nel medio periodo garantiranno all’Italia, oltre la certezza

dell’approvigionamento, anche la garanzia di superare con facilità qualsiasi periodo di crisi. L’atteggiamento italiano evidentemente crea dissapori e qualche preoccupazione, sia in ambito Ue che Usa, non più abituati a vederci indipendenti e autonomi nelle decisioni strategiche e politiche. In realtà non si tratta di azioni solitarie ed improvvisate ma di una sana mediazione tra quanto deciso collettivamente a livello europeo e quanto è invece frutto delle nostre singole capacità, economiche e diplomatiche.

L’Autore ALFREDO MANTICA È sottosegretario di Stato per gli Affari esteri, carica che ha ricoperto anche nella XIV legislatura. È senatore della Repubblica italiana dal 1987, eletto nel collegio della Lombardia.

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La Russia muscolare di Vladimir Putin

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opo l’instabilità seguita al crollo dell’Urss e i difficili anni di Eltsin, la nuova Russia putiniana sembra aver riconquistato uno spazio importante sullo scacchiere mondiale. Merito di una politica vigorosa nei confronti dell’Occidente ma aperta alla cooperazine e agli scambi. DI STEFANO GRAZIOLI

Il crollo del Muro di Berlino, nel 1989, è il simbolo della fine della Guerra Fredda, della morte dell’ideologia comunista e della dissoluzione dell’Impero sovietico. Anche se quest’ultima è arrivata in realtà due anni più tardi, nel 1991. La glasnost e la perestrojka di Mikhail Gorbaciov hanno portato non solo alla riunificazione della Germania e liberato parte d’Europa dalla longa manus di Mosca, ma – dalla prospettiva russa fatto ancor più grave e sconvolgente – hanno dato il via al celere e doloroso processo di decadimento alla fine del quale quella che era una superpotenza si è trovata di fatto lacerata e ridotta al ruolo di povera Ceneren-

tola sulla scena mondiale, costretta persino in casa propria a sopravvivere d’elemosina. La Russia degli anni Novanta – quella di Boris Eltsin e dei due putsch (1991 e 1993), quella delle due guerre in Cecenia (1994 e 1999) e del default economico (1998), quella delle privatizzazioni selvagge e degli oligarchi ingordi, quella dell’anarchia scambiata irresponsabilmente per democrazia – ha rischiato di collassare un paio di volte su se stessa, politicamente ed economicamente, senza che nessuno in Occidente battesse ciglio. Poi le cose sono cambiate, quando il vecchio Corvo Bianco ha ceduto lo scettro a Vladimir Putin, il 31


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dicembre 1999. E nel giro di dieci anni la Russia è tornata. Il trauma dello smembramento dell’Urss – che Putin ha definito “la maggiore catastrofe geopolitica del XX secolo” (attenzione al secondo aggettivo, per non cadere nella pretestuosa contestazione) – e il burrascoso decennio eltsiniano sono i punti di partenza per comprendere come mai la Russia di oggi è risorta dal coma profondo ed è più sveglia che mai. L’Unione Sovietica quando ha cessato di esistere ha perso qualche pezzo: la Bielorussia, l’Ucraina, la Moldavia, il Caucaso

meridionale (Armenia, Georgia, Azerbaijan), le Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) e quelle centroasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan). Il paese allo sbando è stato guidato da un presidente con qualche problema di alcool e da un manipolo di robber barons che alle sue spalle si sono occupati più dei loro affari che di quelli dello Stato, l’industria è stata svenduta a prezzi irrisori e si è scambiato – a Mosca come altrove – il peggior turbocapitalismo con l’arrivo dell’economia di mercato, e milioni


di persone sono sprofondate nella povertà. Criminalità organizzata e corruzione hanno preso il sopravvento e lo spaventoso calo demografico è divenuto la cartina di tornasole di un paese avviato all’autodistruzione, o quasi. Con il tracollo economico del 1998 si era arrivati praticamente alla bancarotta. Solo tenendo presente questo scenario si capisce la volontà di rinascita e di ritorno allo status di potenza in un mondo, quello odierno, multipolare: dopo Eltsin, Putin e la sua squadra hanno dato uno scossone al paese – tra luci e ombre – con l’obbiettivo di cancellare il passato e imboccare una nuova via. A dire il vero non bisogna sorprendersi ora dei cambiamenti di rotta e della resurrezione russa e andando a guardare qual è stato l’avvio di Vladimir Vladimirovic al Cremlino si intuisce l’errore di chi non ha dato credito o nemmeno ascoltato le parole del successore di Boris Nikolaevic. Nel decreto presidenziale del 10 gennaio 2000, prima ancora dunque di insediarsi ufficialmente, Putin ha descritto con estrema precisione la strada da imboccare per definire e difendere gli interessi nazionali russi, che «nel settore internazionale consistono nell’assicurazione della sovranità, del consolidamento della posizione della Russia come grande potenza e come uno dei centri più influenti del mondo multipolare, nello sviluppo di rapporti proficui reciproci con tutti i paesi, specialmente con gli Stati che appartengono alla Csi e


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con i tradizionali partner della ricane in zone considerate offliRussia. Nel campo militare con- mits, l’ambizione degli Usa di vosistono nella protezione della ler risolvere i problemi in maniepropria indipendenza, della so- ra unilaterale, la brutale risposta vranità, dell’integrità territoriale alla Georgia nel 2008. In realtà e statale, nel cercare di evitare in meno di un decennio è accaun’aggressione militare contro la duto quello che secondo la proRussia e i suoi alleati, nell’assicu- spettiva del Cremlino poteva, ma razione delle garanzie per uno non doveva succedere. sviluppo pacifico e democratico Mosca, che all’inizio – e sopratdello Stato. Le più grandi minac- tutto dopo le Twin Towers – ha ce nel campo internazionale sono teso la mano all’Occidente, si è caratterizzate da questi fattori: sentita tradita, accerchiata, in pel’aspirazione di singoli Stati o ricolo nel processo di stabilizzaunioni di Stati a ridurre il ruolo zione. Il 25 settembre 2001 Vladegli attuali meccanismi per la dimir Putin, considerato sempre dagli hardliners del garanzia della sicuCremlino troppo rezza internaziona- Mosca, che all’inizio occidentale, ha le, soprattutto pronunciato a l l’Onu e l’Osce; il ha teso la mano Parlamento tedepericolo dell’inde- all’Occidente, si è sco un discorso per bolimento dell’incerti versi storico, flusso politico, sentita tradita, economico e mili- accerchiata, in pericolo gettando un ponte verso l’Europa: «Il tare della Russia nel mondo; il consolidamento di Muro di Berlino non esiste più. È blocchi e unioni militari e politi- stato distrutto. Sarebbe opportuche, soprattutto l’allargamento no ricordare come si è giunti a della Nato verso est; la possibilità questo. Sono sicuro che i grandi di basi militari e grandi contin- cambiamenti in Europa, nella genti di truppe straniere nelle vi- vecchia Unione Sovietica e nel mondo non sarebbero potuti accinanze dei confini russi». Come si vede, dieci anni fa – e cadere senza la presenza di deterben prima dell’11 settembre, minate condizioni. Penso in quedella guerra in Afganistan, di sto caso a ciò che è successo dieci quella in Iraq, delle rivoluzioni anni fa in Russia. Questi avvenicolorate e simili – Putin ha defi- menti sono fondamentali per canito la linea di rinascita del paese pire cosa è capitato e cosa ci si e i possibili ostacoli. È scritto può aspettare dalla Russia nel tutto: la normalizzazione in Ce- prossimo futuro. La Russia è un cenia, gli altri focolai nel Cauca- paese amico dell’Europa. Per il so e in Asia centrale, i regime nostro paese, che ha passato un changes ai confini del vecchio Im- secolo di catastrofi militari, l’obpero, l’estensione della Nato con biettivo fondamentale è la pace lo stazionamento di truppe ame- sul continente».

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Quello che è seguito è facile da ricostruire: nel dicembre 2001 Bush è uscito dall’Abm (Anti-ballistic missile treaty), nel 2002 con la rivoluzione delle rose gli Usa hanno appoggiato Mikhail Saakashvili a Tbilisi, nel marzo 2003 è cominciata la campagna in Iraq, in maggio le Repubbliche baltiche sono entrate nella Nato, nel 2004 a Kiev Viktor Yushchenko ha mandato a casa Leonid Kuchma e Hamid Karzai è diventato presidente in Afghanistan, nel 2005 in Kirghizistan il capo di

Stato Askar Akayev è stato costretto a fuggire dal palazzo presidenziale arrotolato in un tappeto trovando asilo a Mosca e l’Uzbekistan ha tolto agli Usa i diritti per l’uso della base di Karshi Kanabad, nel 2008 si sono concretizzati i piani di cooperazione tra Usa, Polonia e Repubblica Ceca per installare radar e missili americani in Europa centrale, si è aperto il conflitto nel Caucaso – innescato dal principale alleato di Washington nella regione – e sono rimaste le opzioni per un possibile at-

IL LIBRO 134

LA RUSSIA DELLA POLITKOVSKAJA In questo libro Anna Politkovskaja, la giornalista moscovita morta in circostanze ancora non chiarite e nota per i suoi coraggiosi reportage sulle violazioni dei diritti umani in Russia, in pagine ben documentate e drammatiche, ci racconta la sua Russia. In pagine scritte con maestria e audacia, l'autrice racconta le storie (pubbliche e private) della Russia di oggi, che

descrive come soffocata da un governo che, dietro la facciata di una democrazia in fieri, rivela ancora l’eredità sovietica. Ma non si tratta di una fredda analisi politica: «Il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia», scrive la Politkovskaja. E tanto meno si pensi a una biografia del presidente: Putin resta infatti sullo sfondo, anzi dietro le quinte, per essere chiamato sul proscenio soltanto nel tagliente capitolo finale, dove viene ritratto come un ex ufficiale del Kgb divorato da ambizioni imperiali. In primo piano ci incalzano invece squarci di vita quotidiana, grottesca quando non tragica: la guerra in Cecenia con i suoi cadaveri "dimenticati"; le degenerazioni in atto nell'ex Armata Rossa; il crack economico che nel '98 ha travolto la neonata media borghesia, supporto per un'autentica evoluzione democratica del paese; la nuova mafia di Stato, radicata in un sistema di corruzione senza precedenti; l'eccidio nel teatro Dubrovka di Mosca; la strage dei bambini a Beslan, in Ossezia.


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tacco in Iran anche dopo le presi- mentale: in un recente rapporto denziali del 2009 che hanno ri- del Nixon Center di Washington confermato Ahmadinejad. La Rus- (non certo un think tank stalinisia ha reagito ripiegando su se sta) vengono delineati i suggeristessa, minacciata al proprio inter- menti per indicare la “giusta dino (Dubrovka, Beslan) e ai propri rezione” delle relazioni tra Usa – confini (Tskhivali), accusata di e quindi l’Occidente – e la Rusaver abbandonato la via delle rifor- sia, tra i quali ci sono la priorità me democratiche per una nuova di rendere Mosca un partner nella volontà imperialista. Come se la questione iraniana, la stretta cooRussia di Eltsin fosse stata la culla perazione contro la proliferazione della democrazia e della libertà di delle armi nucleari, contro il terstampa, la famiglia e gli oligarchi rorismo e per la stabilizzazione un cenacolo di benefattori, Gaz- dell’Afghanistan, una revisione del piano di difesa missilistica in prom una filiale della Caritas. La Russia di Putin (e quella della Polonia e Repubblica Ceca e un’offerta per una diarchia con Medseria cooperazione, vedev oggi) dopo La Russia di Putin l’accettazione che essere stata costretné Ucraina né Geta ad arretrare la ha smesso di essere orgia sono pronte propria area di in- Cenerentola e si è per la Nato e la rifluenza, ha smesso cerca con gli alleadi essere Ceneren- trasformata in una ti di altre opzioni, tola, trasformando- donna in carriera il lancio di un diasi non certo in pura ed esile principessa, ma in musco- logo sul controllo e la riduzione losa donna in carriera. Partendo degli armamenti, l’aiuto alla dal presupposto che la Guerra Russia nell’ingresso nel Wto. Fredda è davvero finita e nessuno Immaginabile una simile visione vuole vestirsi di rosso e tornare al prima del 9 novembre 1989? È comunismo, il Cremlino ha scelto questa la base da cui ripartire e consapevolmente di perseguire la sulla quale hanno già iniziato a visione di un nuovo ordine mon- lavorare Dmitry Medvedev e Badiale in cui la Russia ha una collo- rack Obama. Il resto sono scaracazione paritaria accanto agli altri mucce per nostalgici. maggiori attori, dagli Usa alla Ci- Il nuovo quadro è dunque questo: na, ma non solo. In questa ottica si la Russia, dopo la pausa eltsiniadevono leggere le prese di posizio- na, è di nuovo protagonista, ma ne sullo scacchiere internazionale non è un nemico dell’Occidente. e gli stretti rapporti con quelli che È un competitor in alcuni campi e sino a due decenni fa erano nemi- un alleato in altri. È un player che nel nuovo grande gioco fa i proci, Oltreoceano come in Europa. Se si pensa alla costellazione della pri interessi, esattamente come Guerra Fredda, parlare oggi di tutti gli altri. Che non si lascia Cold War Reloaded appare stru- più scavalcare e che nel Caucaso

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ha tirato una vigorosa linea rossa, co i produttori di petrolio, dalmandando un segnale chiaro a chi l’instabilità cronica delle regioni pensava di aver a che fare ancora dell’Hindukush. con la carretta degli anni Novan- Mosca è risorta puntellando i rapta. La guerra di un anno fa in Ge- porti con le sue ex repubbliche orgia e il riconoscimento di Ab- dell’Asia centrale, nel Caucaso, in khazia e Ossezia del Sud (facilita- Europa. Non tanto sull’onda di to dal precedente del Kosovo o da genetiche velleità espansionistiquello di Cipro, dove de facto un che, bensì sulle esigenze recipropaese appartenente addirittura al- che. Basti pensare alla questione la Nato, la Turchia, occupa mili- del gas, regolarmente strumentatarmente da trentacinque anni un lizzata e distorta: è il tema della pezzo d’Europa) sono stati il se- dipendenza simmetrica, ignorata gnale che la collaborazione è ne- da tutti quelli che hanno paura cessaria e inevitabile per non tor- dell’orso russo che si sveglia una nare alle fratture del passato. Ec- mattina e lascia mezzo continente al gelo e al buio. co quindi che hanCosa mai successa, no sorriso – anche Gazprom non avrebbe nemmeno ai temse a denti stretti – pi della vera GuerDmitry Medvedev vantaggi a bloccare ra Fredda. La sicuquando il presi- a singhiozzo il transito rezza energetica d e n t e k i rg h i s o interessa tutti gli Kurmanbek Ba- del gas naturale dalla attori sul palcoscekiev ha deciso di Russia all’Occidente nico: la Russia ha continuare a concedere la base di Manas agli Usa o bisogno dell’Europa come l’EuroBarack Obama quando Gazprom pa della Russia. In Occidente abe Socar hanno firmato un’intesa biamo sete e a Mosca il petrolio per far arrivare gas azero in Rus- non possono certo berselo. Nessia: buon viso a cattivo gioco, suna delle due parti avrebbe l’inconsapevoli che la dura contrap- teresse oltre che la possibilità – posizione non giova a nessuno ed contratti sul gas si fanno sul lunè meglio stare della stessa parte go periodo – di cambiare partner quando le minacce del Ventune- dall’oggi a domani. La stessa simo secolo non arrivano più dal- Gazprom, dipinta a tinte fosche le divisioni fra est e ovest. Gli in- dalla stampa occidentale come il cubi dell’Occidente non nascono vero braccio armato del Cremlipiù dal comunismo, che non esi- no, non avrebbe certo vantaggi ste quasi più nemmeno in Cina, bloccando a singhiozzo il transito ma dalla guerriglia terroristica e rischiando di provocare brusche che colpisce l’Europa, gli Stati accelerazioni nel mercato energeUniti e la Russia, dall’espansione tico (sostituzione del gas per la del fondamentalismo in Asia e produzione di energia elettrica Africa, dallo spettro di un califfa- con carbone, biometano o nucleato nel Golfo che metta sotto scac- re) mettendo in crisi se stessa e


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l’intera economia russa. Improbabile la realizzazione in tempi brevi di un cartello del gas sul modello Opec, che andrebbe contro gli interessi dei paesi produttori con l’abbandono dell’attuale sistema dei contratti decennali. Esagerato mediaticamente anche il duello tra Southstream e Nabucco, progetti che possono coesistere a patto che di gas ce ne sia davvero per tutti e non si faccia della necessaria diversificazione una questione morale, dato che con il secondo alla Russia si sostituiscono Turkmenistan e Iran, sulla cui democraticità e affidabilità il discorso sarebbe molto complesso. La Russia del “sistema Putin”, dopo che quella di Eltsin è stata impegnata a sopravvivere, ha ripreso a esercitare influenza tra Caucaso e Pamir partendo dal semplice fatto geografico e dai legami indissolubili (non solo economici) che nel corso della storia hanno caratterizzato i rapporti – non sempre facili – tra centro e periferia dell’Eurasia. Le regole di buon vicinato sono indispensabili e prioritarie rispetto ad alleanze idealistiche: è il caso di Ucraina e Georgia, che nonostante i proclami populisti dei loro presidenti devono fare i conti con la realtà. Mosca è per Kiev e Tbilisi non una spada di Damocle, ma un’opzione irrinunciabile che non deve escludere la ricerca di un equilibrio finora accantonato da miopi élite. Il Cremlino ha trovato in Europa un approccio pragmatico condiviso: l’ex cancelliere Gerhard Schröder è stato cooptato

nel board di Northstream su invito di Putin, ma non bisogna scordarsi che il progetto è una joint venture paritetica in cui i tedeschi di Eon e Basf hanno i medesimi interessi di Gazprom. E lo stesso dicasi, sempre rimanendo nel campo, per tutti coloro che con il colosso russo sono in affari: solo in Europa ci sono anche Wintershall, Verbundnetz Gas e Siemens (ancora Germania), i francesi attraverso Gaz de France e Total, i turchi con Botas, i finlandesi di Fortum, l’Olanda con Gasunie, la Danimarca con Dong, la Norvegia con HydroStatoil, gli austriaci di Omv, gli ungheresi di Mol, i polacchi di PGNiG e ovviamente gli italiani dell’Eni. Non è però solo gas ed energia. La Germania è presente in Russia con quasi cinquemila aziende, dai colossi dell’auto alle piccole e medie imprese, l’asse PutinSchröder è venuto dopo quello tra Kohl e Eltsin e Kohl e Gorbaciov. I pessimisti possono ricordare che quest’anno cade il settantesimo anniversario del patto MolotovRibbentrop, ma sarebbe demagogia. La realtà è che Berlino tira il carro europeo verso Mosca e a questo sono già agganciati molti altri, con l’Italia in prima fila.

L’Autore STEFANO GRAZIOLI Giornalista e scrittore, il suo ultimo libro è GazpromNation, il Sistema Putin e il Nuovo Grande Gioco in Asia Centrale.

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La scommessa di Putin

Una ripresa economica fondata sull’energia Nonostante la crisi economica in corso e il crollo del prezzo del petrolio, il futuro del sistema russo passa ancora attraverso il comparto energetico. DI EMANUELA MELCHIORRE


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Oltre ad aver tolto la libertà, il marxismo ha prodotto la miseria. Merita ricordare che Lenin nel gennaio del 1918 abolì la moneta e impose lo scambio obbligatorio: merce contro merce, prodotto contro prodotto. La malattia e la morte del leader bolscevico permisero alla Russia di avviarsi di nuovo sulla strada dell’avanzamento tanto che nel 1924 ritornò all’economia monetaria con il rublo d’oro1. Nel 1928 Stalin riportò violentemente la Russia al regime comunista, dal quale è ri-

sorta con la scomparsa del tetro Leonida Brežnev nel novembre del 1982. Il ritorno della Russia nell’ambito dei paesi democratici è stato molto sofferto, a causa anche delle resistenze degli apparati comunisti nell’economia e dell’impossibilità di smantellare in breve tempo la collettivizzazione di ogni forma di produzione e di scambio. L’Occidente e, in particolare, il Fondo monetario internazionale non hanno aiutato molto la Russia a tornare nell’ambito dell’economia di mercato, ma in-


CULTURA

MATRIOSKA, la bambola che ha conquistato il mondo

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Matrioska (in lingua russa) è il termine con cui si definisce il caratteristico insieme di bambole di origine russa che si compone di pezzi di diverse dimensioni realizzati in legno, ognuno dei quali è inseribile in uno di formato più grande. Ogni pezzo si divide in due parti ed è vuoto al suo interno, salvo il più piccolo che si chiama “seme”. La bambolina più grande si chiama invece “madre”. È il souvenir russo per eccellenza ed un simbolo dell’arte popolare di questo paese. La prima matrio ka di cui si ha notizia risale alla fine del XIX secolo, un periodo che per la Russia fu, oltre che di grandi mutamenti sul piano sociale, epoca di grande sviluppo economico e culturale. Nell’anno 1900, all’Esposizione mondiale di Parigi, la matrio ka fu premiata e riconosciuta come simbolo della tradizione russa per la sua popolarità in tutto il mondo. Da allora ha rispecchiato nella sua espressione artistica la vita e la storia della Russia. A idearla fu Savva Mamontov, fondatore del circolo artistico Abramzevskii. Mamontov allestì un laboratorio-negozio (“L’educazione infantile”) in cui venivano creati dei giocattoli per bambini, in particolare bambole etnografiche (almeno come tali verrebbero definite oggi) ovvero vestite con i costumi tradizionali regionali, ognuno diverso a seconda del villaggio di provenienza.

fine molti progressi sono stati fatti nonostante le resistenze a perpetuare l’assistenzialismo della Grande madre Russia. Merito del cambiamento va attribuito più che a Michail Gorbaciov e a Boris Nikolaevic Eltsin, a Vladimir Putin. Forte della trasformazione avvenuta in seguito alle riforme politiche della perestrojka di Gorbaciov, e dopo Eltsin, il primo presidente della Russia post-sovietica, con lo scioglimento dell’Unione Sovietica e del nuovo assetto federale di cui la Russia si è dotata, Vladimir Putin ha impiegato due mandati presidenziali per porre le basi del suo piano di ricostruzione economica della Russia. Impossibilitato dai dettami della nuova Costituzione, approvata il 12 dicembre 1993, a candidarsi per la terza volta alla carica di presidente della Federazione, ha elaborato lo stratagemma di candidare il suo delfino Dimitri Medvedev al suo posto e da questi farsi nominare primo ministro, al fine di poter continuare nell’opera di ricostruzione intrapresa. Il paese sembrerebbe essere politicamente stabile grazie alla salda alleanza tra Medvedev e Putin2. Tuttavia Putin, con l’aggravamento della crisi economica e finanziaria internazionale, si trova ad affrontare molti problemi di carattere economico e sociale (come la diminuzione dei salari reali), che potrebbero minare l’ampio consenso di cui dispone. Al tempo stesso, in Cecenia si sta assistendo ad un processo di pacificazione e di rinascita economica imposto con la


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forza dal presidente Kadyrov, mentre le altre regioni del Caucaso settentrionale (Inguscezia, Daghestan e Kabardino Balkaria) attraversano un periodo di crescente instabilità politica, che spesso porta a fenomeni di violenza xenofoba3. Il piano di Putin si è articolato, dal 2000 fino a prima dell’attuale crisi economica mondiale, fondamentalmente in due fasi. Egli, in primo luogo, ha inteso porre le basi per una solida ricostruzione della crescita economica della Russia, puntando in special modo sulla produzione e sulla commercializzazione di prodotti energetici. Il capitale privato è entrato nelle grandi società prima esclusivamente pubbliche, ma il processo di privatizzazione in Russia assume connotati specifici, poiché la leadership dei più grandi colossi energetici russi e delle grandi società è rimasta nelle mani degli “uomini del presi-

dente”, ossia degli ex colleghi del primo ministro Putin all’epoca della sua militanza nel Kgb, che seguono i dettami della volontà presidenziale. Al contempo Putin ha operato per ricostruire uno stabile ambiente normativo e legislativo, cosciente del fatto che un ambiente legislativo ostile o inaffidabile avrebbe disincentivato l’afflusso di capitali stranieri4. Per quanto riguarda questo aspetto la Sace (Servizi assicurativi del commercio estero)5 ritiene che il paese abbia compiuto, negli ultimi anni, progressi nell’adozione di un quadro normativo coerente, soprattutto per uniformare la legislazione regionale a quella federale. Il problema principale, sostiene l’agenzia, è legato all’enforcement di tali provvedimenti. D’altro canto, sempre secondo l’osservatorio geopolitico della società assicurativa, il sistema giudiziario risulta essere an-

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l’aiuto dello Stato per evitare il fallimento sotto il peso dei debiti e delle pretese avanzate dai creditori stranieri. Le scelte di politica economica del governo Crisi economica e sostegno russo dovrebbero anche tenere all’economia di mercato Negli Stati Uniti e nei paesi eu- conto delle linee di orientamento ropei il ruolo dello Stato nel- convenute in ambito G8/G20, l’economia tende a rafforzarsi do- che dovrebbero progressivamenpo lo scoppio delle bolle specula- te influenzare la “socializzazione” tive e l’esplosione della crisi eco- della normativa russa, richiesta nomica. Per quanto riguarda la al paese per aderire sia all’Omc Russia questa evoluzione è quan- (Organizzazione mondiale del to mai allarmante, per il pericolo commercio), sia all’Ocse (Orgadi rigurgiti collettivistici. Tutta- nizzazione per la cooperazione e via, il governo russo non ha fino- lo sviluppo economico). D’altro canto lo stesso Pura proceduto a natin sembrerebbe zionalizzare di In un periodo di crisi essere della stessa nuovo vasti settori opinione, considedell’economia. Il come quello attuale, rando le dichiarapiù considerevole in Russia è elevato zioni che ha fatto intervento dello in occasione del Stato negli affari il rischio di rigurgiti Forum economico economici, infat- collettivistici mondiale di Davos ti, è stato rivolto all’imprenditoria e al mercato. Si (28 gennaio - 1 febbraio 2009), è appreso che gli interventi go- quando invitava a non «ritornare vernativi a sostegno dell’econo- all’isolazionismo e a un immodemia russa hanno previsto un pac- rato egotismo economico» e, al chetto di misure a sostegno del contrario, a rafforzare la cooperasistema industriale e finanziario zione economica internazionale, per oltre 220 miliardi di dollari evitando un ritorno allo stataliUsa, pari al 15% del prodotto in- smo e al protezionismo. terno lordo russo. Anche la re- Per valutare le ricadute della crisi cente decisione di ridurre le im- finanziaria sull’economia russa è poste, che all’inizio del 2009 ha opportuno osservare il contesto in portato a una forte diminuzione cui il paese si trovava quando il della tassazione sul reddito di crollo dei corsi azionari si è verifiimpresa (dal 24% al 20%), e di cato. L’economia russa cresceva a quella sulle piccole imprese (dal un tasso elevato (l’8% del primo 15% al 5%), va nella direzione di semestre 2008 faceva, infatti, sefacilitare l’imprenditoria privata. guito all’8,1% del 2007). SeconTuttavia, si legge sulla pubblici- do l’Ispi (Istituto di politica instica specializzata, soltanto po- ternazionale), l’economia russa che imprese possono sperare nel- presentava evidenti segnali di cora fortemente burocratizzato e dotato di limitata indipendenza dal potere politico.

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COMMERCIO ESTERO

Crescono gli scambi tra Russia e Italia In base ai dati Istat relativi all’anno 2008 l’interscambio commerciale tra Italia e Russia è passato in valore assoluto da 23,9 a 26,5 miliardi di euro. La positiva dinamica dei rapporti commerciali bilaterali è testimoniata anche dalla progressiva crescita della quota della Russia sul totale dell’interscambio con i paesi extra Ue che, a fine anno, era pari all’8,8% a fronte del 7,9% a dicembre 2007. Nel 2008 le nostre esportazioni in Russia - complessivamente pari a 11 miliardi di Euro - hanno segnato un tasso di crescita elevato (9,3%), ma notevolmente inferiore a quello degli anni passati che in media si attestava al di sopra del 20%: tale dinamica è comunque superiore a quelle medie dei paesi extra Ue (6,1%) e di quelli Ue (-0,7%). Vale la pena pertanto sottolineare l’importanza del mercato russo che ha continuato a

“surriscaldamento”. L’inflazione in Russia aveva superato il 10% a ottobre 2007 e aveva accelerato fino al 15,1% a maggio e a giugno 2008, mentre a ottobre 2008 era lievemente rallentata al 14,2%. La disoccupazione era declinata dall’8,6% del 2003 al 5,3% di luglio 2008. I salari reali erano cresciuti vistosamente (del 16,2% nel 2007 e ancora del 12,8% nei primi nove mesi del 2008) e avevano raggiunto livelli di crescita nettamente superiori all’aumento della produttività del

domandare prodotti made in Italy nonostante la crisi che, ad esempio, ha comportato un calo delle nostre esportazioni in paesi come la Francia (-0,1%) o il Regno Unito (-7,5%). I settori trainanti del nostro export in Russia si confermano quello delle macchine ed apparecchi meccanici - che da solo rappresenta quasi un terzo del totale ed ha conseguito un aumento del 6,3% - quelli dell’abbigliamento (8,5%), dei prodotti in cuoio (16,8%) e dei mobili (16,6%). Le importazioni dalla Russia, che complessivamente si ragguagliano a 16,1 miliardi di euro e sono cresciute nel 2008 del 12,1%, sono rappresentate per oltre il 70% da minerali energetici: tale componente ha conseguito una sostenuta crescita nel primo semestre del 2008 (16,4%) per poi segnare un rallentamento nella seconda parte dell’anno, ascrivibile prevalentemente ad un “effetto prezzo”. Rapporto Maes-Ice II sem. 2008

lavoro, che secondo l’Istituto era del 6% nel 2007 e del 7% nel primo semestre 20086. È presumibile che tali segnali di surriscaldamento fossero dovuti in buona parte all’accresciuta spesa pubblica in preparazione delle elezioni parlamentari e presidenziali del dicembre 2007 e del marzo 2008. Uno sguardo più ampio porta a valutare l’economia russa nell’arco dell’ultimo decennio (grafico 1). È evidente che i tassi di crescita che il paese ha sperimentato

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Grafico 1 – Crescita reale del Prodotto interno lordo (in percentuale rispetto all’anno precedente) in Russia e nei paesi di nuova indipendenza (CIS).

Tabella 1 – Crescita del val diversi settori economici.

FONTE: International Monetary Fund, World Economic Outlook, Crisis and Recovery (aprile 2009)

negli anni 2000 siano divenuti solamente un ricordo. Tuttavia, il Fondo monetario internazionale sembra essere piuttosto ottimista e prevede una ripresa della crescita economica nel 2010. Secondo i dati della Banca mondiale, a fronte di una contrazione in tutti i settori Nel 2008 la borsa economici, russa ha registrato quelli che più il peggiore risultato degli altri hantra i mercati emergenti no accusato valori negativi più alti negli indici di crescita sono stati il manifatturiero e le costruzioni (tabella 1). Si tratta di due settori economici ad alto valore del moltiplicatore keynesiano del reddito. Ciò significa

che una contrazione della crescita della produzione in questi due settori si traduce in una più ampia riduzione della crescita in tutto il loro indotto e nei settori a essi collaterali. Il mercato finanziario e monetario

La borsa russa ha mostrato il peggiore risultato tra i mercati emergenti (-71% da inizio 2008 a fine novembre 2008) e si è ridotto il peso economico di alcuni oligarchi. Secondo Forbes, il giornale americano che pubblica periodicamente la lista degli uomini più ricchi al mondo, il numero dei miliardari in Russia è passato da 87 all’inizio del 2008 a 32, ossia si è ridotto di circa due terzi. A


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lore aggiunto dal 2006 al 2008 ripartito tra i

luglio 2008, ossia prima che scoppiasse la bolla speculativa immobiliare e si innescasse la crisi economica a livello planetario, in una dichiarazione Putin attaccò pubblicamente la società Mechel, una grande azienda siderurgica, criticandone la politica dei prezzi e accusandola di evasione fiscale. Ne è seguito il tracollo delle sue quotazioni sulla borsa di New York (-38% in un solo giorno). Gli investitori fuggirono dal titolo per il timore che si stesse ripetendo il caso della società Yukos, ossia un attacco da parte del governo contro una grande azienda7. La vicenda allarmò i cosiddetti oligarchi, che hanno temuto che il governo tornasse a colpire

direttamente aziende e patrimoni personali. Per reazione vi è stata la fuga di capitali che si è però fermata negli anni più recenti. Nel 2007, al contrario, ampi capitali russi detenuti all’estero erano stati addiritLe fluttuazioni tura rimpatriati azionarie hanno avuto mentre a setun impatto relativo tembre 2008 sulle imprese gli Ide (Investimenti diretti all’estero) che si erano diretti verso l’economia russa avevano raggiunto la cifra di 52 miliardi di dollari (cresciuti del 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente)8. Ora però con la crisi il deflusso di capitali russi dal paese sembra si sia amplificato. 145 Comunque, il mercato azionario non è una delle principali fonti di finanziamento per l’economia russa e, conseguentemente, le fluttuazioni hanno avuto un impatto relativo sulle imprese9. Il sistema finanziario è estremamente concentrato. I cinque principali istituti, infatti, controllano il 43% delle attività totali, mentre le 24 banche statali detengono circa un terzo delle attività bancarie totali e il 60% dei depositi. Le banche in possesso di istituti stranieri10 sono 85 e ricoprono un ruolo marginale nel sistema bancario russo. Nel corso del 2008, si legge sul rapporto Sace, si è avviato un lento processo di consolidamento a favore degli istituti bancari medio-grandi, mediante numerose fusioni e acquisizioni di piccole banche regionali. L’acuirsi della crisi, secondo gli esperti, potreb-


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be accelerare questo processo a fa- ne dovrebbe registrare una leggevore, però, delle banche statali. A ra contrazione rispetto al 2008, seguito della crisi dei mutui, il rimanendo comunque al di sopra sistema ha subito una riduzione del 10%11. L’inflazione comporta della liquidità e la Banca centrale una erosione degli stipendi della russa (Veb Vnesheconombank) ha classe media, che conserva il suo fornito liquidità alle tre principa- carattere prevalentemente buroli banche statali e ad altre 25 cratico (circa il 70% svolge la banche commerciali. Risultano propria attività nel settore pubessere invece maggiormente a ri- blico). Nel contesto di un deteschio le banche private medio- rioramento delle condizioni di vipiccole, poichè non godono del ta, caratterizzato dal ritorno di sostegno statale e dispongono di una forte crescita del tasso di diminori possibilità di rifinanzia- soccupazione, salito oggi al 9,5 % della popolazione economicamento. L’esportazione di idrocarburi è mente attiva, si fa strada un fenomeno di xenofobia. stato il motore La questione delprincipale della L’esportazione l’immigrazione si rinascita economica della Russia. di idrocarburi è stato il rivela complessa Tuttavia la ridu- motore principale della dal momento che le stime parlano di zione dei prezzi un afflusso di oltre degli idrocarburi, rinascita economica 25 milioni di imcon la contrazione della Russia di Putin migrati. La distridei consumi e dei prestiti, ha contribuito a portare buzione di lavoratori sul territol’economia russa in recessione. rio dovrà essere bilanciata in moPer il 2010 si prevede che il Pil do da evitare che si amplifichi ultorni a crescere anche se ad un teriormente il divario fra il centro tasso decisamente più contenuto e le regioni periferiche. rispetto al passato. Fino al 2008 i Secondo l’Organizzazione interconti del paese hanno registrato nazionale del lavoro, dai 3,5 ai 5 ampi avanzi di bilancio. Per il milioni di migranti sono attualbiennio 2009-10, si prevede che mente impiegati sul mercato del il saldo diventi negativo a causa lavoro informale, in particolare della riduzione delle entrate le- nel settore agricolo e delle cogate all’esportazione del petrolio. struzioni. Questi migranti proIl prezzo del petrolio è tornato a vengono in gran parte dalla Cocrescere anche se a livelli sensi- munità di Stati Indipendenti e bilmente inferiori rispetto all’an- dal sudest asiatico. damento speculativo della bolla Per quanto riguarda il commerdel 2008, che aveva portato il li- cio internazionale, la bilancia vello del prezzo a 147 dollari commerciale russa presenta un saldo positivo e crescente dal l’11 luglio 2008. Nel biennio 2009-10, l’inflazio- 2001 a oggi. Le esportazioni rus-


ECONOMIA Emanuela Melchiorre

se rappresentano il 2,7% del to- permesso all’economia russa di tale delle esportazioni mondiali affrancarsi dalla dipendenza dalle e consistono prevalentemente in esportazioni. Il calo della domanprodotti energetici, con il 50% da mondiale conseguente all’atdelle esportazioni totali russe. tuale crisi economica, quindi, ha Seguono le esportazioni di ma- comportato un impatto sull’econufatti per circa il 20%, minera- nomia russa (recessione e disocculi e metalli per circa l’8%, mate- pazione) che dovrà essere considerie prime agricole e prodotti ali- rato nella giusta proporzione e mentari per la restante parte. Le che dovrà portare il governo a merci e i prodotti russi si indi- modificare il modello di crescita rizzano prevalentemente verso i fino ad ora seguito. Le scelte di paesi Csi, la Germania, l’Italia e politica economica di contrasto i Paesi Bassi e gli Stati Uniti. In alla crisi dovranno essere di più Asia le esportazioni sono rivolte ampio respiro e volte al rafforzamento dell’economia nei suoi setsoprattutto verso la Cina. tori principali La Russia è attual(agricoltura, indumente il maggiore Il calo della domanda stria e costruziopaese produttore ni), e al sostegno di petrolio e di gas mondiale dovuto alla naturale, rispetti- crisi ha comportato un della domanda interna. Si tratta di vamente pari a un obbiettivo non 12,4% e al 21,5% impatto considerevole facile da raggiundella produzione sull’economia russa gere – consideranmondiale. La Russia si colloca anche tra i primi do che la popolazione russa è di posti per le esportazioni di que- 145 milioni di abitanti, pari alla sti due beni. È seconda dopo somma di quella della Francia e l’Arabia Saudita nelle esporta- della Germania, e ha una superfizioni di petrolio (11,26% delle cie di 17 milioni di kmq, pari al esportazioni mondiali) ed è il doppio di quella degli Stati Uniti primo paese esportatore di gas – e comunque non in tempi brenaturale (21,3% delle esporta- vi. Prima che il reddito pro capite russo possa raggiungere il lizioni mondiali) Sono stati proprio i prodotti ener- vello del reddito pro capite amegetici e il loro crescente prezzo ricano, infatti, utilizzando una sul mercato mondiale per effetto nota formula di matematica fidel gioco della speculazione ad nanziaria, occorrerà attendere, aver comportato ampie disponi- posto che l’economia russa cresca bilità finanziarie che sono state del 5% l’anno e quella statuniinvestite in Russia prevalente- tense del 3%, almeno un centinamente nei settori energetici a di- io di anni. scapito però degli altri settori produttivi (industriali e delle costruzioni) che avrebbero invece

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Note 1

Confrontare Rublo: storia civile e monetaria della Russia da Ivan a Stalin (1991) di Angiolo Forzoni edizione Valerio Levi (Roma)

Rapporto sul rischio paese dal titolo Russia di Marco Minoretti, a cura dell’Ufficio Studi Economici Sace, aggiornato all’11 marzo 2009

retti esteri, 0,1 milioni di investimenti di portafoglio e 256 milioni di altri investimenti. La principale destinazione degli investimenti italiani rimane tutt’ora il settore energetico dove, oltre al tradizionale ruolo dell’Eni, si è affiancata anche l’attività dell’Enel. Si legge sul rapporto Sace citato che la presenza italiana si sta rafforzando nei settori ad alto contenuto tecnologico, (con Alenia Aeronautica, del Gruppo Finmeccanica) nel settore delle telecomunicazioni (con Artetra, Alenia ed Aermacchi) e nei comparti automobilistico, (Fiat e Iveco), elettrodomestici (Indesit, Candy e Merloni), agroalimentare (Parmalat, Perfetti, Ferrero e Cremonini) e nel settore bancario (Gruppo Intesa SanPaolo e Gruppo Unicredit).

4

9Rapporto

2

Il partito presidenziale Russia Unita controlla infatti i due terzi dei seggi in parlamento. Oltre a Russia Unita, altri tre partiti sono riusciti a superare lo sbarramento proporzionale del 7%: il Partito Comunista, il Partito LiberalDemocratico, entrambi in calo rispetto le precedenti elezioni, e il nuovo partito Russia Giusta. 148

3

Ispi Policy Brief n. 132, maggio 2009 dal titolo The Great Transformation: How the Putin Plan Altered Russian Society di Nicolai N. Petro 5

Rapporto Sace citato

Sace citato

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Come detto in nota 8 le banche italiane che operano nel settore sono: Banca Intesa Sanpaolo (Zao Banca Intesa, Kmb- Bank) e Gruppo Unicredit (International Moscow Bank)

6

Ispi Policy Brief n. 112, dicembre 2008 dal titolo La crisi finanziaria e le prospettive dell’economia russa di Franco Zallio

7

8

Ispi Policy breaf n.112 citata

Il volume degli investimenti italiani era ancora modesto: secondo i dati ICeIstat, dal 1991 al primo semestre del 2008 gli investimenti totali dall’Italia sono stati pari a 1,1 miliardi di dollari di cui: 863 milioni di investimenti di-

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Rapporto Sace citato

L’Autore EMANUELA MELCHIORRE Economista e pubblicista, ha collaborato con importanti istituti di ricerca nazionali, con il dipartimento di economia pubblica dell’Università La Sapienza di Roma e con l’Investment Centre della Fao. Scrive regolarmente di politica economica e di economia internazionale su giornali e su riviste specializzate.



Oligarchi a Londra

La dolce vita russa sulle sponde del Tamigi Da Abramovich a Khodorkovsky e Berezovsky, i russi che contano hanno messo radici nella capitale inglese, occupando posti di potere e quartieri alla moda. Tra sfarzo ostentato, tensioni con il Cremlino e crisi economica, ecco chi sono (e cosa fanno) i magnati russi alla corte della Regina d’Inghilterra. 150

DI SILVIA ANTONIOLI

È una storia di sfarzo e opulenza, miseria estrema, intrighi politici, dimore sontuose, morti controverse, lusso, giochi di potere, contrabbando, mercati finanziari, scandali e corruzioni. Tutto questo ed altro ancora non basterebbe a definire con chiarezza i confini di quella che chiamano Londongrad, lo spicchio rosso della capitale inglese. Sono oltre 300mila, secondo stime ufficiose, i cittadini russi residenti a Londra. I piu ricchi tra loro popolano le vie di Chelsea e South Kensington, i locali di Mayfair e Knightsbridge e fanno shopping da Harrods. Circa cento, tra di loro, sono i blue chips della comunità russa in Inghilterra. Basta un loro gesto per trasferire milioni di dollari in pochi secondi e influenzare l’economia mondiale; un loro cenno per attivare pressio-

ni politiche e spostare consensi preziosi da un lato a quello opposto. Li chiamano i business oligarchs, gli oligarchi del business, una lista corta, di pochi eletti, che hanno conquistato in pochi anni la capitale finanziaria europea e che con questa hanno intrecciato le loro sorti e le loro finanze per creare una unione che appare ora, difficilmente dissolubile. «Chiunque sia qualcuno a Mosca, è qui», ha dichiarato la direttrice russa di una compagnia di pubbliche relazioni ed organizzazione eventi con base a Londra. Ma chi sono esattamente? Come hanno conquistato il loro potere? Come sono arrivati a Londra? E che tipo di influenza hanno nella capitale e nell’intero paese? Il potere della maggior parte dei cosiddetti oligarchi russi ebbe origine alla fine degli anni Ottan-


FOCUS Silvia Antonioli


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ta, durante l’apertura riformistica ro bene conto di quello che stava di Gorbaciov. L’allora presidente succedendo o del valore di quei russo, nonché ultimo segretario vouchers, e si fecero convincere a generale del Partito comunista vendere le loro azioni in cambio sovietico, iniziò a portare avanti di pochi contanti, vitali in uno moderate liberalizzazioni di mer- dei piu duri periodi economici cato nell’ambito di una stravol- che la popolazione russa si stava gente ristrutturazione del sistema trovando ad affontare. (la cosidetta perestroika). Ma le an- In quella delicata situazione, fu cora importanti restrizioni com- relativamente facile per gli olimerciali operanti diedero origine garchi riunire in loro possesso ad un fenomeno inaspettato: il azioni delle compagnie appena licontrabbando di beni di consumo beralizzate. L’intero settore induprovenienti dall’estero e poi ven- striale russo fu valutato, con il siduti, con grossi margini di gua- stema dei vouchers, a soli 12 midagno, dai nuovi, spesso improv- liardi di dollari; una cifra irrisoria considerando l’efvisati imprenditofettivo valore di ri russi. Nel 1995, sull’orlo uno sei settori inMa il concentramento di ricchezze della bancarotta, Eltsin dustriali piu rilevanti a livello nelle mani di po- si rivolse agli oligarchi mondiale. chi ebbe una deciNel 1995, con il siva accelerazione russi per ottenere governo sull’orlo sotto il governo ingenti prestiti della bancarotta, Eltsin, che portò avanti il processo di liberalizza- Eltsin dovette rivolgersi agli olizione iniziato dal suo predecesso- garchi per prestiti, e quando il re. Un gruppo di pochi, influenti governo raggiunse lo stato di ine ben connessi uomini di affari solvenza gli oligarchi trovarono riuscì ad impadronirsi a basso co- ancora una volta il vento soffiare sto delle immense ricchezze pre- a loro favore e colsero l’occasione cedentemente controllate dalle di appropriarsi a costi irrisori di parte delle immense risorse russe: autorita russe. Si trattava, per lo più, di uomini dal petrolio al gas, dai minerali strettamenti legati al governo o all’energia. in alcuni casi, membri dello stes- Quando pochi anni dopo le mateso. Nel 1992 Eltsin lanciò una rie prime raggiunsero prezzi fino privatizzazione di massa che in- ad allora inimmaginabili, i patricludeva l’elargizione di vouchers e moni degli oligarchi russi, così frazioni di proprietà delle impre- come il loro potere, si moltiplicase precedentemente possedute rono a dismisura. dallo Stato, ai lavoratori. Molti di Sotto l’era Putin, però, l’armonia questi però, poco familiari con tra uomini d’affari e l’autorità si concetti quali privatizzazione o incrinò fortemente ed ebbero inicapitalismo moderno, non si rese- zio investigazioni governative per


FOCUS Silvia Antonioli

presunte attività illecite (principalmente evasione fiscale). La Russia degli anni Novanta era diventato un posto poco confortevole per pochi, estremamente benestanti uomini d’affari non amati dalla stragrande maggioranza della popolazione che lottava per un pezzo di pane e per condizioni di vita quanto meno dignitose. Le tasse da pagare erano diventate asfissianti per i “super-ricchi” e il timore di attacchi violenti o assassinio ai danni loro o delle proprie famiglie, troppo pressanti. Fu a questo punto che molti, tra i magnati russi sotto accusa, preferirono espatriare in modo da sfuggire a turbolenti processi ed eventuali condanne. Londra fu la meta scelta da molti tra loro e per motivazioni tutt’altro che futili. Alcuni dichiarano che l’Inghilterra rappresentava il sogno antico dei cittadini russi di quella generazione, cresciuti durante la Guerra Fredda e dunque spesso nel disprezzo degli Stati Uniti. L’Inghilterra, con la sua cultura raffinata, la sua internazionalità e la relativa vicinanza alla madre patria era una alternativa decisamente piu attraente. Eppure, i motivi della scelta risedettero per lo piu in considerazioni meno romantiche e più legate a motivi economici. Al di là di un economia stabile, ben strutturata e fiorente, l’Inghilterra aveva da offrire una politica tributaria estremamente conveniente: i cittadini domiciliati all’estero, seppure residenti nel paese da anni e con passaporto inglese, sono infatti tutt’ora esentati dal pa-

IL CASO

Il Chelsea parla russo

Fino al 2003, il Chelsea Football Club, squadra di calcio di uno dei quartieri più chic di Londra, vivacchiava stancamente tra piazzamenti onorevoli, vittorie di prestigio ma sporadiche, complesso di inferiorità nei confronti di Liverpool, Manchester United e Arsenal. Ma quando Roman Abramovich, capofila dei rampanti russi pieni di petrorubli, decise di rilveare il club dal proprietario precedente, qualcosa cambiò radicalmente. Nonostante qualche commentatore sportivo snob avesse irriso il nuovo corso russo della squadra, il cambiamento di rotta era comunque stato evidente fin dal primo momento. Basti pensare che negli ultimi sei campionati di Premier League, il Chelsea ha vinto due volte e per tre volte è arrivato secondo. Risultati impensabili fino a qualche anno fa, anche nel comunque felice periodo di Ranieri-Gullit-Vialli. La rivoluzione russa di Abramovich ha trovato un alleato vincente come José Mourinho e i risultati sono puntualmente arrivati. L’ultimo cruccio del patron russo è la Champions League, persa in finale dal Chelsea nel 2008, guarda caso proprio nello stadio di Mosca. Per vincere l’unico trofeo mancante, dunque, è approdato alla corte anglorussa di Stamford Bridge un altro allenatore vincente: Carlo Ancelotti. Nella finale del prossimo maggio a Madrid, dunque, Abramovich potrebbe finalmente completare il piccolo capolavoro realizzato con i blues e dimostrare, una volta di più, i benefici effetti dei petrorubli che stanno conquistando Londra.

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gare le tasse sui i redditi conseguiti all’estero. Per di più in Inghilterra i capitalisti russi avrebbero potuto godere di una libertà di movimento più ampia e di un governo meno interessato a “mettere il naso” nei loro affari, rispetto all’esecutivo interventista della madrepatria. Alcuni dei nuovi ricchi degli anni Novanta rimasti in patria, infatti, scivolarono in situazioni poco piacevoli. Mikhail Khodorkovsky per esempio, il quale aveva goduto dello stretto legame con i presidenti Gorbaciov e Eltsin, cadde in disgrazia sotto il governo Putin. Fu spogliato di gran parte delle proprie fortune e condannato ad otto anni 154 di prigionia. Per via di esempi del genere, ondate di businessmen russi si ritrovarono a spostare la loro residenza altrove, in cerca di una certa protezione. Nonostante l’attuale presidente Medvedev abbia insistito sull’idea che il governo russo non debba intimorire e spingere alla fuga gli imprenditori locali, molti tra questi continuano ad investire le loro ricchezze altrove se non addirittura ad espatriare. Per alcuni di Il caso di Litvinenko, loro la partenex del Kgb ucciso con za dalla Russia il polonio, ha fatto fu un vero e il giro del mondo proprio ostracismo politico: Boris Berezovsky, Akhmed Zakayev, Alex Goldfarb e Alexander Litvinenko chiesero asilo politico in Inghilterra per sfuggire a situazioni ad alta tensione sviluppatesi in Russia.

Il caso dell’ex membro del Kgb, Alexander Litvinenko, residente a Londra ed assassinato con polonio radioattivo fece il giro del mondo, per via della sinistra somiglianza con la trama di un thriller ambientato ai tempi della Guerra Fredda. Ed invece Litvinenko è stato assassinato in tempi ben più recenti nel 2006. A Londra Litvinenko godeva di asilo politico per sé e per la sua famiglia e lavorava come giornalista e scrittore non risparmiando forti accuse al governo russo. La sua tragica morte apparve a molti come inevitabilmente collegata ai contrasti con esso. Akhmed Khalidovich Zakayev è un altro dissidente russo rifugiatosi a Londra chiedendo protezione politica. È l’attuale Primo ministro della non riconosciuta repubblica cecena di Ichkeria. Accusato dal governo russo, sin dal 2002 di terrorismo, si rifugiò in Inghilterra, il cui governo ne ha rifiuto l’estradizione per mancanza di prove e per l’alto rischio che Khalidovich venisse sottopo-


FOCUS Silvia Antonioli

sto a torture se costretto al ritorno in Russia. In inghilterra strinse amicizia con Alexander Livtinenko, della cui morte accusò il presidente Putin. Il micro-biologo Alexander Goldfarb strinse amicizia con Litivinenko mentre portava avanti studi sulla tubercolosi nelle carceri russe. Fu il portavoce di Livtinenko nelle sue ultime settimane di vita e dopo la sua morte scrisse il libro: Morte di un dissidente: l’avvelenamento di Alexander Livtinenko e il ritorno del Kgb. A confermare che trattare con il governo o gli oligarchi russi è un affare bollente lo dimostra un’altra morte eclatante; quella di Stephen Curtis, l’avvocato di alcuni tra i più potenti uomini d’affare russi in Inghilterra inclusi Boris Berezovsky e Mikhail Khodorkovsky, proprietario della travagliata compagnia petrolifera Yukos. Curtis era entrato negli ultimi mesi prima della sua morte in uno stato di intenso stress ed aveva più volte esternato timori per la sua incolumità e

quella della sua famiglia per via di informazioni scottanti legate ai suoi illustri clienti. Nel marzo 2004 il suo elicottero precipitò ed esplose in un incidente quantomeno misterioso. La grande influenza della comunità russa a Londra non deriva esclusivamente da coloro che hanno scelto di spostarvi la propria residenza; oligarchi russi residenti in Russia o altrove spesso scelgono comunque Londra come meta preferenziale per i loro investimenti, per via del tessuto commerciale ben radicato, l’influenza della borsa inglese a livello internazionale e le sicurezze legali che, date per scontate nel mercato britannico, sono invece spesso a ri155 schio in patria. Tra il 1998 ed il 2004 oltre 100 miliardi di dollari sono fuoriusciti dalla Russia e fluiti in terra straniera, secondo la rivista americana Forbes. Gran parte di questi fondi sono giunti proprio in Inghilterra, spesi tra le boutique lussuose di Chelsea e nel mercato immobiliare che stava crescendo incessantemente in quegli anni. Se da un lato il boom delle materie prime ha moltiplicato le risorse di molti tra i millionari russi, è anche vero che Tra il 1998 e il 2004 questi hanno oltre cento miliardi di iniziato ampia- dollari sono fuoriusciti mente a diverdalla Russia sificare i loro investimenti e molte liquidità sono state investite nel settore finanziario che è un tassello essenziale della struttura economica londinese. L’influenza russa sullo Stock ex-


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change di Londra è notevole, sia renti russi ebbero un peso noteper l’alto numero di compagnie vole. Sembrava non ci fosse dimorusse presenti sul mercato sia per ra troppo sontuosa o prezzo trople ingenti quantità di denaro che po per questi milionari che invegli oligarchi russi investono nel stirono pesantemente nel mercato immobiliare inglese e londinese. mercato inglese. Se la Russia di fine anni Ottanta- I milionari russi hanno anche laprimi Novanta, in piena fase di sciato il segno su altri settori della trasformazione, era guardata con scena londonese quali l’arte. Abraqualche ostilità e dubbio dal movich si è fatto promotore della mondo occidentale, negli ultimi mostra Fotografie dell’Uzbekistan dieci anni la situazione si è capo- del fotografo Max Penson ed ha volta, con business inglesi ed euro- acquistato opere di Francis Bacon pei che notano l’impatto della e Lucian Freud a prezzi record. presenza di risorse russe all’inter- Usmanov sembra esser stato atno dei propri confini e accolgono tratto dal mondo dell’arte a sua volta: la casa d’aste con gratitudine londinese Sotheby’s l’infusione di li- Negli anni del boom fu spinta nel 2007 quidità che arriva in notevoli quan- immobiliare, sembrava ad annullare l’asta tità da territori ex che non ci fosse dimora dedicata alle opere del musicista russo sovietici. Mstislav RostropoL’immagina della troppo sontusa o cara vich dopo che G r a n d e M a d r e per i russi londinesi Usmanov entrò a Russia, duramenvisionare la collezione, esposta alla te colpita, intaccata e piegata negli ultimi decenni, è improvvisa- Somerset House di Londra e decise di acquistarla interamente per pomente tornata a brillare. Circa cento compagnie, prove- co piu di 20 milioni di sterline, nienti dall’ex territorio sovietico con l’intenzione di donarla al gosono attualmente quotate alla verno russo, a dire di alcuni, o coborsa di Londra tre fanno parte me investimento personale secondelle top 100 quotate nell’indice do altri. Ftse. Molte ancora puntano a rag- Lo sport britannico ha anche attigiungere questo ambito gradino. rato le attenzioni e gli investiIl miliardario russo Deripaska menti di alcuni tra gli uomini non ha mai fatto segreto del fatto d’affari russi. Abramovich fu il che uno dei suoi obiettivi è di far primo tra i grandi ad entrare nel entrare la sua compagnia, Rusal, mondo del calcio inglese, con l’acquisto del Chelsea nel 2003. tra i blue chips del Ftse. Un altro dei settori economici in- Questa mossa fece inpennare la glesi fortemente influenzato dalle sua popolarità in Inghilterra, ma risorse russe è il settore immobi- per ora sembra che l’investimento liare. Negli anni della bolla im- abbia portato piu spese che guamobiliare 2003-2008, gli acqui- dagni. Usmanov, dopo aver di-


FOCUS Silvia Antonioli

chiarato la sua passione per l’Arsenal, decise di comprarne una quota. Aleksandr Gayadamak possiede invece il Portsmouth. Un businessman russo ha persino deciso di mettere mano al potentissimo settore mediatico inglese, tramite l’acquisto del quotidiano Evening Standard. Alexander Lebedev, ex-spia del Kgb, possiede ora il 75% del quotidiano britannico, finanziariamente indebolito dalla crisi del consumo. Ma proprio quando l’influenza la popolarità e le ricchezze dei “fuoriusciti” russi sembrava aver toccato il picco, la crisi finanziaria piu devastante degli ultimi decenni si è abbattuta con violenza sull’economia mondiale ed ha scosso fortemente i mercati internazionali e danneggiato drammaticamente i patrimoni dei suoi investitori. Gli influenti investitori ed imprenditori russi non hanno fatto eccezione. Deripaska ha perso circa 24,5 miliardi di dollari secondo la rivista americana Forbes. Molte delle sue attività, inclusi Rusal e il colosso Norilsk, il piu grande produttore al mondo di nichel, di cui Rusal possiede il 25%, hanno subito gravissimi danni. Il governo russo nell’ottobre 2008 è stato costretto ad approvare un piano di salvataggio per Rusal offrendo un prestito di 4,5 miliardi di dollari per aiutare la compagnia a ripagare i debiti straneri. Deripaska ha anche recentemente dichiarato che mettere in vendita il 25% di Norilsk è un ormai una seria possibilità, e il connazionale Vladimir Potanin,

che gia possiede 25% di Norilsk, compagnia quotata alla borsa di Londra, sta valutando l’ipotesi di comprare queste azioni. Il patrimonio di Abramovich si è piu che dimezzato e cosi anche tanti altri milionari e miliardari russi hanno fortemente risentito delle conseguenze della recessione. Questa, infatti, ha da un lato schiacciato i prezzi e spinto al tracollo la domanda di materie prime, base dell’economia di paesi con ricchi giacimenti naturali quali la Russia; dall’altro lato, la crisi del credito ha causato problemi persino ai plurimilionari per finanziare le loro attività. Eppure c’è da giurare, che essendo in controllo di settori chiave dell’economia mondiale, gli oligarchi Russi riusciranno ad alzare la testa e rialzarsi probabilmente prima di uomini d’affari con interessi legati a settori meno primari.

L’Autore SILVIA ANTONIOLI

Esperta di politica e cultura dell’America Latina, vive attualmente a Londra, dove si occupa di mercati fisici e finanziari di materie prime. Ha lavorato per la casa editrice Informa con cui continua a collaborare come free-lance. Lavora attualmente come commodities’ markets reporter per la casa editrice EuroMoney.

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gli strumenti di

Suggestioni, ricordi, drammi umani e collettivi, esplosioni di gioia e ritrovata libertà. Sono alcuni dei sentimenti che scaturiscono dalla lettura del lungo reportage a puntate che Pierluigi Mennitti ha confezionato per Ffwebmagazine, il giornale online della Fondazione FareFuturo. È un viaggio alla ricerca di quella “nuova Europa” nata dai calcinacci del Muro, un autentico e inestimabile patrimonio umano e culturale che, dopo mezzo secolo di torpore sovietico, è stato riconsegnato al nostro continente, con tutti i suoi traguardi e le sue inquietudini, i progressi economici e le difficoltà derivanti dalla crisi mondiale in atto.


STRUMENTI


VIAGGIO ALLA RICERCA DELLA NUOVA EUROPA di Pierluigi Mennitti

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Ci sono gesti che a un ventenne di oggi con un po’ di spirito di avventura appaiono naturali. Come arrivare giù sino a Brindisi, ripercorrendo strade antiche battute nella storia dagli eserciti romani o dai crociati, o in tempi appena più recenti dai commercianti inglesi della valigia delle Indie. Arrivare in fondo alla Via Appia, dove le colonne romane annunciano l’Adriatico, e infilarsi in una delle tante agenzie di viaggio che si affacciano sul lungomare. E lì acquistare un passaggio navale per l’Albania, nuova meta del turismo alternativo. Oppure, tanto per rimanere in Italia, fermarsi un migliaio di chilometri più a nord, dalle parti di Gorizia, e attraversare, senza quasi neppure accorgersene, quello che prima era un confine di sangue e di lutti per prendere alla stazione ferroviaria Transalpina (che nei secoli era passata di qua e di là, ballonzolando tra Austria, Italia, Jugoslavia e Slovenia) uno scalcinato treno locale verso Rijeka (una volta Fiume) e Lubiana. Senza neppure mostrare un documento d’identità, da quando la piccola nazione rinata resistendo ai carri armati di Belgrado, ha abbandonato il socialismo dal volto titino ed è entrata nella cosiddetta area Schenghen. In vent’anni. Vaglielo a spiegare, al ventenne di oggi, che questi gesti naturali un tempo, e neanche un tempo troppo lontano, erano gesti impossibili. La storia si ripete ancora

più a nord, lungo tutta quella fascia che per oltre quarant’anni ha segnato un confine di ferro e di spine, dal Baltico all’Adriatico, da Lubecca a Vienna e poi a Trieste e giù fino a Brindisi e al capo d’Otranto. Oggi i treni trasportano lavoratori giornalieri dalla Polonia alla Germania senza bisogno di dichiarare chi si è e cosa si trasporta. Laddove c’erano garritte e sbarre, avverti solo lo stridere delle rotaie su un ponte che adesso inneggia alla solidarietà fra due popoli: sbirci dal finestrino e vedi il fiume Oder, un confine che sembrava invalicabile, un limes da dopoguerra, tirato su in un ufficio di Mosca quando c’era da punire la Germania, ricacciare Varsavia più ad ovest e riprendersi un pezzo di Polonia, come fosse una riedizione postuma del patto RibentroppMolotov questa volta a senso unico, e appiccicarlo all’Ucraina divenuta una delle Repubbliche dei Soviet. Il Drang nach Westen russo, uguale e contrario a quello che nel decennio precedente aveva portato gli eserciti di Hitler fin sotto le mura di Stalingrado. Oggi, sull’Oder, ci passano le colf polacche, in trasferta giornaliera nelle case e negli stipendi berlinesi: sveglia alle cinque, partenza alle sei, arrivo alle nove, quattro ore di ramazza, una manciata di euro e rientro a casa per la cena. Sarà meno letterario il passaggio delle colf rispetto a quello degli ufficiali, o delle


STRUMENTI

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spie di Le Carré negli anni della guerra fredda, o dei clandestini polacchi e ucraini che subito dopo il disgelo politico cercavano di guadare il fiume per raggiungere “Lamerica” su questa sponda di Brandeburgo che era per i tedeschi dell’ovest quello che l’Albania era per i pugliesi di casa nostra (boat people, profughi e miseria), eppure se l’Italia del 1948 fu salvata dall’anticomunismo delle vecchie zie, donne pie e di buon senso che di Baffone diffidavano per istinto, la nuova Europa si costruisce sulle putzfrau, le colf pendolari

che rallegrano di bonomia slava le giornate di Berlino. Vaglielo a spiegare al ventenne di Praga, che ha dimenticato il rogo di Jan Palach, la protesta disperata come sacrificio supremo, per testimoniare, per non arrendersi. Il ponte Carlo sotto i cui archi di pietra scivola lenta la Moldava, è pieno zeppo di turisti low cost, sputati a frotte ogni giorno sulle piste dell’aeroporto affittato ai vettori del turismo mordi e fuggi. Agli “ismi” di un tempo, che facevano Praga triste, solitaria e tragica si sono sovrapposti gli “air”


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di oggi, la desinenza che incarna lo spirito dei tempi: Ryanair, Bizzair, Air Europe, Air Berlin, Carpatair. E forse è meglio così, è meglio che i nuovi russi, i neoricchi dell’era putiniana con i portafogli imbottiti di rubli, sbarchino dalle scalette di un low cost che da quelle di un carro armato, come fecero nella primavera di Praga. Voli a basso prezzo e colf, la nuova Europa non ha più nulla di romantico e si pre-

senta a noi vecchi europei un po’ snob, che rimpiangiamo le malinconie dell’Est e il brivido di un visto timbrato, con la spavalderia di chi questo nuovo Zeitgeist vuol viverlo senza ipocrisie. La vita è qui e non altrove. Vaglielo a spiegare al ventenne berlinese, che passeggia proprio lì nell’epicentro di tutto, dove l’altra Europa nacque e morì attorno ad un muro che venne su in una


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notte sola e in un’altra notte, ventotto anni dopo, sparì. Le ricordiamo ancora le danze dei ventenni di allora, equilibristi della libertà sul filo di mattoni, e non c’era verso di farli venire giù, neppure con i getti gelidi degli idranti sparati dai Vopos prima che questi soldatini di piombo capissero che ormai non c’era più nulla da fare, un mondo, il loro mondo, era finito e da quel momento cominciava il mondo dei danzatori. No, il ventenne di oggi non lo sa che lungo la porta di Brandeburgo c’erano mattoni e cartelli, Achtung! Sie verlassen den amerikanischen Sektor, torrette e filo spinato, cani da guardia e sentinelle che sparavano a vista. Oggi che il ventennio della democrazia ha reso banale attraversare la porta, sotto i colonnati rimessi a lucido per l’orgoglio della città e le camere digitali dei turisti, i problemi sono altri. Quelli di una Berlino che ancora ricuce il proprio passato diviso, che non ha visto esaudite tutte le promesse di quei giorni rivoluzionari, che costruisce a fatica, passo dopo passo, anno dopo anno, il senso comune del proprio futuro. Le vetrine dei negozi commercializzano la nostalgia kitsch del passato regime, oggetti vintage che aiutano a credere che non era tutto sbagliato quello che era sbagliato: le tazze squadrate della Ddr, le sedie stazzonate della Ddr, le lampade di plastica della Ddr. Poi lo spumante Rotkaeppchen, che grazie ad un’astuta azienda dell’ovest sta vivendo una nuova giovinezza nella giungla del mercato libero. Perfino gli appartamenti incassati nei prefabbricati, i Plattenbauten, sono oggi presi d’assalto dagli studenti di tutta Europa, che ridisegnano attorno ai quartieri orien-

tali la nuova geografia della Berlino del Ventunesimo secolo. Il futuro è Pankow, come il passato. Vent’anni dopo, l’Ostalgie è un misto bizzarro di marketing di successo, banalizzazione dei tempi che furono e disillusione per i tempi che sono. E va bene così, inutile fare moralismi, meglio capire, gettarsi nella letteratura tedesca degli ultimi tempi. Quella che ha qualcosa da dire viene tutta da est, sia quando legge gli ultimi anni del passato regime come fa Uwe Tellkamp che ha vinto il Deutscher Buchpreis 2008 con il suo Der Turm, sia quando racconta gli smarrimenti di oggi, come fa Ingo Schulze nel recentissimo Adam und Evelyn (per i tipi di Feltrinelli è appena uscito in Italia il suo lavoro precedente, Bolero berlinese). Lì si trova l’altra faccia del mondo comunista, meno banale di un soprammobile falso retrò griffato, e dobbiamo raccontarla per quello che era veramente, perché bisognerà pure dirsi che da ovest, quel mondo e quelle vite, il mondo e le vite degli altri, le abbiamo conosciute attraverso una buona dose di propaganda. E la propaganda aiuta a giudicare e a schierarsi, non a capire. Il ventenne che oggi si aggira per l’Europa appare uno smemorato, sia che venga da est, sia che venga da ovest. Sia che vada verso ovest, sia che vada verso est. Per questo, nell’anno che chiude il cerchio ventennale della cesura del 1989, su Ff Magazine ricostruiremo, pezzo dopo pezzo, i tasselli di un Continente che non ha smesso di cercarsi e di capirsi. Perché nella notte in cui cadde il Muro, e festeggiammo e ballammo e bevemmo spumante acido sul cornicione

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sotto la porta di Brandeburgo, l’ovest ha perduto l’est ma non ha più ritrovato neppure se stesso. 13 gennaio 2009

Le fiamme dimenticate Ora che il quarantennale del 1968 è passato, e con esso anche quel po’ di ricostruzione del “Sessantotto degli altri”, cioè il Sessantotto cecoslovacco della Primavera di Praga, a ricordare l’evento più tragico di quella rivoluzione mancata restano in pochi. Eppure per decenni il mito

di Jan Palach, il giovane studente universitario che si diede fuoco nella centrale e simbolica piazza San Venceslao di Praga, influenzò generazioni di studenti, poeti e cantautori in tutta Europa. Oggi che da quel gesto di ribellione alla sopraffazione del potere sono trascorsi, appunto, quarant’anni, Jan Palach sembra scivolato nell’oblio della storia. Anche a casa sua. I giornali cechi ne parlano poco, le alte cariche istituzionali sono alle prese con le prime settimane di un difficile semestre di presidenza europeo, gli storici hanno


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svuotato nell’anno appena terminato gli armadi della memoria e per cercare qualche commemorazione bisogna battere i locali underground della capitale boema, come se nel castello di Hradcany ci fosse ancora un dittatore nominato nella Mosca dei Soviet e non un presidente che si è fatto le ossa leggendo Hayek e Mises, i padri del liberalismo. Le lapidi che lo ricordano, invece sono un po’ dappertutto. Quei lineamenti che il fuoco sfigurò mortalmente per sempre li puoi seguire scolpiti nella pietra o dise-

gnati con un filo di bianco sulla lastra nera che giace proprio ai piedi di Venceslao il Santo, il patrono di Boemia che si staglia in groppa al cavallo di bronzo in cima alla piazza omonima, cuore di tutte le passioni boeme, dalla rivoluzione fallita del 1968 a quella riuscita del 1989, dal piombo acre dei cannoncini dei carri armati ai fiori colorati della rivoluzione di velluto. Il volto di Jan Palach riporta gli zigomi pronunciati tipici delle popolazioni slave, gli occhi fieri, il ciuffo sbarazzino di ventenne senza paura. Sotto, le date di nascita e di


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morte, l’arco troppo breve di una vita bruciata attorno a una speranza svanita. Era il 16 gennaio del 1969 quando questo studente, stretto in un cappotto di lana, si avvicinò a passi svelti al basamento della statua. La piazza San Venceslao è un immenso spiazzo aperto, quando ci arrivi fatichi a immaginartelo come una piazza. Sembra piuttosto un lungo boulevard, di quelli che potresti trovare nei grandi spazi di Parigi. Sale ripido dai viottoli della città vecchia, dalle parti dell’Università Carlo, fino all’incrocio di due grandi viali, il Vilsonova e il Mezibranska. A percorrerlo tutto, passi pure per due fermate della metropolitana, Mustek e Muzeum, tanto è lungo. Le auto scivolano lente su due carreggiate, una a salire l’altra a scendere, ai lati negozi di ogni genere, souvenir, librerie, edicole, gioiellerie, antiquari, gli immancabili fast food della nuova era, e poi i lussuosi grandi hotel, nei cui caffè al piano terra è transitata la moltitudine cosmopolita dei letterati che hanno fatto di Praga uno dei centri più vitali della cultura europea. Tra le due carreggiate un ampio spazio pedonale anche al centro, come sull’Unter den Linden di Berlino: mattonelle, aiuole, piante, panchine. È dolce la vita a San Venceslao, la piazza che sembra un boulevard. Ma quel 16 gennaio di quarant’anni fa la dolcezza se n’era andata con i carri armati sovietici e la primavera di Praga era sfiorita in un autunno, e poi in un inverno, carico di terrore e rassegnazione. I sovietici avevano ad agosto forzato la mano e imboccato la via della restaurazione: la dottrina brezneviana della sovranità limitata aveva sbarrato la strada al socialismo dal

volto umano, e con esso a qualsiasi ipotesi di riforma del comunismo. In più, la demolizione del sogno riformista venne affidata alle stesse mani che l’avevano costruita: fu l’umiliazione peggiore per un popolo che aveva mostrato coraggio e indipendenza e che aveva provato a sfidare il potere con le armi della gentilezza e dell’ironia. Il Dubcek che aveva incarnato la scommessa riformista fu costretto a guidare la marcia indietro, a smantellare le libertà acquisite, a ripristinare il grigiore passato. Indubbiamente, la dolcezza era svanita dalle parti di piazza San Venceslao, quel 16 gennaio. Jan Palach percorse tutta la salita fino al basamento, appoggiò la borsa su una pietra, si tolse il cappotto e si cosparse il corpo di benzina. Quindi accese un cerino e diventò di fuoco. Il primo a soccorrerlo fu l’autista di un tram che in quegli istanti transitava sulla piazza. Si precipitò su Palach e gli gettò addosso il proprio cappotto. Riuscì a strapparlo alla morte ma solo per pochi giorni. Tre, per l’esattezza, tanto durò la sua agonia. Ricoverato nell’ospedale della capitale, nei rari momenti di lucidità s’informava sulla reazione al suo gesto. L’androne dell’ospedale, così come il luogo in cui si è dato fuoco, furono coperti di fiori e lumini. La notizia gli strappò gli ultimi sorrisi. Morì il 19 gennaio. Fu l’ultimo scossone alla politica di restaurazione. I suoi funerali radunano quasi un milione di persone dietro il feretro, lungo il percorso e nella piazza San Venceslao. Il corteo fu aperto dalla banda degli ottoni di uno stabilimento industriale di Praga e dal corpo accademico vestito nelle toghe medievali. Era una giornata di


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pioggia e freddo. Dai palazzi vennero srotolati pesanti drappi neri. L’emozione era forte ma ancora una volta non scoppiò alcuna violenza. Nei mesi successivi, altri giovani si immolarono, emulando il sacrificio di Jan Palach. La catena era stata annunciata dallo stesso Palach, in una lettera trovatagli nella tasca del cappotto. Tra questi Jan Zajic, la cui immagine affianca oggi quella di Palach sulla piazza San Venceslao. Ma non successe nulla. La macchina del potere chiudeva inesorabilmente tutti gli spazi liberi rimasti. Ne fu vittima lo stesso Dubcek, depresso e ormai l’ombra del leader coraggioso e determinato che fu. Sparì anche lui nelle pieghe dei dimenticatoi dell’est. Ma come arrivò Palach a diventare un simbolo di libertà? Egli nacque l’11 agosto 1948 a Melnik, una manciata di chilometri a nord di Praga proprio nell’anno in cui il partito comunista prese il potere in Cecoslovacchia. Perso il padre a soli tredici anni, si maturò nel locale liceo ginnasio nel 1966 con la speranza di iscriversi all’università. Nonostante un ottimo esame in filosofia, dovette attendere due anni prima di accedere agli studi universitari per il sovraffollamento delle iscrizioni. Si iscrisse proprio nel 1968, l’anno della Primavera di Praga. È qui che partecipò ai movimenti studenteschi che, assieme a quelli degli operai delle fabbriche, rappresentarono il nerbo della rivolta praghese. Visse la speranza delle riforme e la delusione e la rabbia per l’intervento dei carri armati del Patto di Varsavia, la notte fra il 20 e il 21 agosto. Aveva compiuto vent’anni da poco più di una settimana. In autunno, alla ripresa dei corsi, l’Università Carlo entrò in

sciopero ma nei mesi successivi le vicende politiche imboccarono la via della restaurazione. Fu in questo clima di disincanto che Jan Palach maturò, assieme a un gruppo di amici, l’idea di dare una scossa ai suoi concittadini e agli studenti, affinché riprendessero a lottare per gli ideali traditi. Le fiamme di Palach e dei suoi amici (si contarono ancora quattro suicidi) non riscaldarono più la primavera del Sessantotto praghese ma furono le stelle comete che i cecoslovacchi seguirono fino alla rivoluzione del 1989. Un peccato davvero che oggi il ricordo affievolisca nel suo stesso paese, ormai diviso tra Praga e Bratislava e forse incapace di alimentare il presente con la lezione del passato. Già dieci anni fa, in occasione del trentennale della morte, un sondaggio fra gli studenti di Praga rivelò che la maggioranza di essi considerava il gesto di Palach il triste simbolo di un sogno infranto e un gesto avventato e inutile. Dieci anni dopo è forse il caso di riportare le struggenti parole dello scrittore Hrabal, riprese dal testo “Il flauto magico”: «Io piangevo in silenzio sul fatto che probabilmente è vero che gli dei hanno abbandonato questo mondo e che se ne è andato Ercole e se n’è andato anche Prometeo, che se ne sono andate anche quelle forze sulle quali ruotava il mondo, e qui come ultimo è rimasto non un roveto in fiamme, ma un giovane studente in fiamme, che nell’ultimo atto del rogo era quello che era. Io, se fossi stato con lui in quel momento, io lo avrei pregato in ginocchio, di bruciare, ma in modo diverso, di bruciare con la parola, che poteva farsi corpo, che poteva aiutare quelli che ancora non bruciavano e semmai bru-

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ciavano con lo spirito e nello spirito. Ma è andata così». 15 gennaio 2009

L'inatteso declino delle tigri baltiche Il sabato notte, gelido e invernale, di Riga è rischiarato dalle vetrine sempre illuminate del McDonald’s, all’incrocio più centrale della città vecchia, tra la pedonale Kalku iela e il trafficatissimo Basteja bulvaris, dove auto e taxi fanno a gara con i tram ma poi inchiodano rispettosamente davanti alle strisce pedonali più lunghe che abbia mai visto. È un po’ il centro della movida lettone, tra il pilone illuminato della pubblicità di una famosa cioccolata locale dove le ragazze del posto danno appuntamento ai turisti dell’amore per non fargli sapere dove abitano, il ponte

pedonale sul canale Pistelas, la statua della libertà simbolo dell’indipendenza e, appunto, la Kalku iela, la via dello struscio che s’infila nel dedalo di vicoli e piazzette del centro storico. Per tutta la notte, anche d’inverno, quando il gelo e la neve smorzano gli entusiasmi della nuova gioventù lettone, il McDonald’s sforna, sottoforma di cheeseburger e fried chips, il mito americano della trasgressione e della libertà. Fuori c’è sempre una lunga fila e anche all’alba, quando l’ora invoglierebbe più a una prima colazione che al pollo fritto in salsa barbecue, c’è sempre qualche nottambulo che s’attarda di fronte al bancone e ai McMenù fosforescenti. Mentre in altri angoli della nuova Europa il sogno americano ha ormai consumato la sua inevitabile


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parabola, qui, nel cuore dei Paesi Baltici resiste più forte che mai. Più che l’Europa è l’America l’antitodo alla vicina Russia e addentare un hamburger è un po’ come immunizzarsi dal virus di Mosca. Nel grande calderone del ventennale della caduta del Muro, Lettonia, Estonia e Lituania vivono il loro anniversario sfasato, marcando una propria specificità rispetto al cammino dell’Europa centro-orientale. Qui il 1989 è in fondo una data come le altre. Certo, segna l’inizio di un percorso: il consolidamento dei fronti popolari, le manifestazioni di piazza in cui vennero cantate per la prima volta le canzoni nazionali proibite dal regime, la catena umana che unì questi popoli coraggiosi da Vilnius a Tallinn, passando per Riga. Ma i numeri magici che tutti celebrano sono quel-

li del 1990 e del 1991, quando l’onda tellurica da Berlino scosse anche il Cremlino e diede il via al processo di disintegrazione dell’Unione sovietica. Fu per prima la Lituania a proclamare l’indipendenza nel marzo 1990. Poi l’Estonia e la Lettonia, nell’agosto del 1991, un giorno dietro l’altro. Queste sono le date scolpite sui basamenti dei monumenti che inneggiano all’indipendenza. Potessero marchiare con queste cifre anche i cheeseburger dell’amico americano, lo farebbero di sicuro. Da allora sembra passato un secolo. Il recupero dell’identità nazionale, avvenuto anche al prezzo di dure emarginazioni verso le minoranze interne russe (che poi talvolta tanto minoranze non sono, come nel caso della Lettonia) è andato spedito e l’urbanistica delle capitali la rispecchia con


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i monumenti restaurati, la vivacità dei caffè e dei ristoranti, la presenza massiccia di negozi di tipo occidentale. E di banche. Già, le banche. La storia vorticosa di questo doppio decennio ha fatto in tempo a scaraventare i tre paesi sui binari impazziti delle montagne russe (ah, russe, che coincidenza). Su su, verso una crescita economica che dalla metà degli anni Novanta ha fatto gridare al miracolo. E ora giù giù, verso l’abisso di una crisi che all’inizio sembrava girare alla larga e che invece, negli ultimi mesi, ha investito queste tre fragili repubbliche come un tornado. Fuori dagli splendori delle città vecchie oggi si gira un altro film. Arrivi all’aeroporto di Vilnius e sembra di sbarcare in Siberia. Una desolazione. Non si muove nulla. Non c’è un velivolo che parte, nessun volo atterra. Vuoto il terminale degli arrivi, desolato quello delle partenze. Il tabellone elettronico annuncia solo una manciata di voli serali: Amsterdam, Helsinki, Riga e una solitaria tratta esotica verso Bangkok. La compagnia di bandiera è appena fallita e non c’è un Colaninno qualsiasi che si metta in testa di provare a salvare il salvabile. Né una compagnia più grande che abbia in mente di rilevarla. Cerchi un bancomat a Riga e t’imbatti nella Parex Banka, l’istituto che il governo lettone ha salvato lo scorso novembre dalla bancarotta, dopo aver ripetuto per settimane il mantra che la crisi mai e poi mai avrebbe lambito il felice regno di Lettonia. Si può immaginare il brivido che deve aver percorso la spina dorsale dei politici di Riga, che non immaginavano in tempi così brevi di dover fare un salto nel passato delle statalizzazioni. E anche Tal-


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linn, da sempre la prima della classe, deve vedersela con i tagli che le aziende tecnologiche finlandesi stanno predisponendo per affrontare il 2009, l’annus horribilis. Quanto questa crisi inciderà sulle fresche fortune degli stati Baltici si vedrà nei prossimi mesi. La preoccupazione è che, specie in Lettonia ed Estonia, la crescita sia stata tanto rapida quanto fragile. Oggi che il castello di carta viene giù, si fanno i conti anche con le fortune rapidamente accumulate, con i soldi arrivati per vie traverse, con gli investimenti senza tetto né legge, con il denaro portato dai vicini russi che tutti dicono in odore di riciclaggio. Quando il livello dell’acqua scende, è la melma che viene a galla. Quasi vive la sua rivincita la cenerentola lituana, la più povera delle tre sorelle, che, compagnia aerea a parte, può aggrapparsi a quel che è rimasto della sua tradizionale industria pesante. È dunque finita la favola baltica? No, è finita semmai l’illusione che questo angolo di nuova Europa sarebbe cresciuto all’infinito, come fosse un’isola staccata da tutto quel che la circonda, e che la magia della Hansa trasformasse in oro (o in ambra) ogni ferraglia che toccava. Le contestazioni davanti al parlamento di Riga, le finestre del nobile palazzo ferite dai lanci dei preziosi sanpietrini, le cariche della polizia lituana contro i manifestanti di Vilnius, i governi che si dimettono e le elezioni anticipate sono il segno di una delusione montante verso i politici e verso gli ex nuovi ricchi. Come Valery Kargin e Viktor Krasovitsky, i due uomini più ricchi della Lettonia, fondatori della Parex Banka, ai quali giornali sempre sensibili agli


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umori mutevoli della piazza rinfacciano i lussi perduti: quelle stesse auto vistose, quei jet privati su cui si muovevano e quegli stessi smoking che solo qualche anno prima riempivano le fortunate pagine mondane. Ma questo è un film già visto, a tutte le latitudini. Certo è un peccato che l’anno del ventennale della caduta del Muro venga celebrato a suon di lacrimogeni. E forse non è neppure giusto. Oltre agli anni della crescita economica a due cifre, le tre Repubbliche sempre troppo banalmente accomunate, in realtà assai diverse fra di loro, hanno ricostruito con grande successo indipendenza e identità. Hanno visto nascere più velocemente che in altre regioni una nuova borghesia intraprendente e vivace. Si sono avvicinate all’agognato occidente aggrappandosi all’Europa e sognando l’America. Il volto delle tre capitali ha ripreso le sembianze tipiche del passato: Vilnius ha recuperato la sua atmosfera centro-europea, Riga si è rimodellata sulla memoria anseatica e Tallinn si è ricostruita sul modello scandinavo. Le torri ricordano quelle di Lubecca, Straslund e Danzica, i magazzini del porto somigliano a quelli di Helsinki e Stoccolma. E sul Baltico si è stesa una rete fitta di traffici e commerci, supportata da investimenti nel settore tecnologico che non trovano pari in altre zone della nuova Europa. Poi ci sono i cittadini comuni. Ivar Lasis ha da poco passato i trenta, lavora al ministero degli Esteri di Riga e quando gli chiedi quale sia la cosa che più di tutte gli ha cambiato la vita in questi vent’anni risponde senza esitare: la possibilità di viaggiare. Un refrain che ritrovi ovunque, tra i giova-

ni di questa metà d’Europa: a Varsavia, a Kiev, a Odessa, a Bucarest, a Budapest, a Tirana e a Praga. Viaggiare. Potersi muovere. Vivere la sensazione di libertà, di non essere più ingabbiati dietro la cortina di ferro. Di giovani ne sono partiti tanti, un po’ per passione, un po’ per sfida, un po’ per lavoro, anche da qui, perché il miracolo economico non bastava per tutti. Ora dicono che ne stiano rientrando molti, espulsi dalla crisi che morde i paesi che più di tutti avevano offerto loro opportunità: l’Inghilterra, l’Irlanda. Tornano in quelle che non sono più le tigri baltiche. Ma troveranno comunque paesi migliori di quelli che avevano abbandonato. 5 febbraio 2009

Quella "rivoluzione stanca" che cambiò la Polonia Era esattamente vent’anni fa. Era il febbraio del 1989, e in una Varsavia che viaggiava da tempo in anticipo rispetto al calendario gorbacioviano della perestrojka, si apriva la tavola rotonda. Intorno, i nemici di un tempo: gli uomini del governo comunista in carica, il sindacato fantoccio di regime, gli eroi di Solidarnosc, i gruppi di opposizione sorti clandestinamente dopo gli scioperi sedati del 1981 e ora riemersi dalla penombra. In tutto cinquantasette persone. La transizione polacca maturò lì, in quelle stanze anonime e burocratiche, così lontane dai rumorosi cantieri di Danzica dove tutto era iniziato nove anni prima. Il capitolo polacco della rivoluzione del 1989 si distacca dall’epopea che vissero tedeschi dell’est e cecoslovacchi, e poi rumeni e baltici e albanesi nei mesi e negli anni a seguire. Fu un passaggio politico,

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un lavoro di trattative e accordi, una battaglia sul filo sottile della retorica e del braccio di ferro, giocato però sul tavolo della diplomazia. Fu la tavola rotonda. Lo storico François Feitö la definì «la rivoluzione stanca». D’altronde la Polonia la sua rivoluzione l’aveva fatta nel 1980, con Lech Walesa aggrappato alle inferriate dei cancelli dei cantieri sul Baltico, gli operai in sciopero, la nascita di Solidarnosc. E forse ancora due anni prima, quando nell’ottobre del 1978 dal balcone di Piazza San Pietro si affacciò, coperto della sacra talare bianca, l’arcivescovo di Cracovia Karol Woytjla, appena eletto Papa Giovanni Paolo II. Da allora la società polacca non fu più la stessa, nonostante la cappa di silenzio imposta dalla restaurazione militare di Wojciech Jaruzelski, che piegò la rivolta operaia senza riuscire a spezzarla. Per i sovietologi più attenti fu un segno anche quello, l’intervento di una milizia interna invece che dei carri armati sovietici. Da un decennio, dunque, la Polonia era in movimento, come una zolla sismica che, lentamente ma inesorabilmente, scivolava verso la libertà, aggrappata al suo sindacato libero mezzo clandestino, ai gruppuscoli del dissenso che corrodono dall’interno l’autorità del regime e, soprattutto, al suo Papa. Le immagini scorrono oggi di nuovo vivide, nonostante il colore stemperato dal tempo. È il 3 maggio 1979, un anno dopo l’elezione al soglio pontificio, un anno prima degli scioperi nei cantieri di Danzica. Il nuovo Papa polacco compie la prima visita ufficiale nella sua terra. È a Czestochowa dove si trova il monastero di Jasna Gora, il cuore spirituale del cattolicesimo est-europeo, dove i pellegrini ce-

lebravano la loro fede in barba ai divieti del regime. Oggi è tutto curato e rimesso a nuovo: un dedalo di viuzze lastricate di sanpietrini lucidi, musei, uffici, alloggi, la sede della radio cattolica, qualche telefono pubblico utilizzato anche dalle suore, la basilica e la Cappella del dipinto miracoloso in cui, posizionata sull’altare maggiore, è conservata l’icona della Madonna nera. Si fa fatica ad avvicinarsi, perché i devoti si stringono compatti nella piccola stanza e sciamano lentamente, tutti inginocchiati, lungo lo stretto corridoio che si incunea dietro l’immagine sacra. Trent’anni fa, nel giorno della visita del Papa, era difficile muoversi anche negli ampi viali dei giardini sul lato nord. Lì, sul grande palco mai più smontato da allora, Karol Woytjla parlò a più di un milione di suoi concittadini accorsi da ogni angolo del paese per ascoltarlo e lanciò un seme che non smise mai di germogliare. Oggi la Polonia ha digerito tutto questo, anche se la memoria di Giovanni Paolo II è forse l’unica cosa che unisce tutti, credenti e non, destra e sinistra, giovani e anziani. Il resto è divisione e contrasto. Anche la valutazione sulla tavola rotonda. La mancanza di epos nell’epilogo della Polonia comunista ha lasciato spazio alle accuse postume e sul significato di quel compromesso si è accesa in tempi recenti una polemica velenosa e infinita, non priva di strumentalizzazioni politiche. È il destino di un paese che ha lasciato molti conti aperti con il proprio passato, sballottato tra due vicini ingombranti, la Germania e la Russia, e che ha dovuto reinventarsi storia e confini ogni volta che una guerra finiva, transitando invariabilmente


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sulle proprie terre. Così accade anche per quello che fu il momento del commiato del regime comunista. Un doppio mito s’intreccia ancor oggi: quello della transizione pacifica di un paese che aveva maturato molti contrappesi al potere totalitario e che li seppe miscelare politicamente per ottenere l’agognata libertà e quello del tradimento di Solidarnosc, del compromesso con gli aguzzini. «Fin dalla rivoluzione francese c’è questa convinzione che i grandi sollevamenti della storia debbano concludersi con le ghigliottine e le esecuzioni, altrimenti non si può parlare di rivoluzione», racconta sconsolato il pubblicista polacco Adam Krzeminski alla radio tedesca Deutschlandfunk, «e anche la Polonia non sfugge a questa convinzione. Ma si tratta di posizioni minoritarie, che trovano ampio spazio sui media e che suscitano anche litigi all’interno del vecchio gruppo di Solidarnosc». Già, la politica. Perché nella parabola populista che ha illuminato i volti dei due gemelli Kaczynski ha trovato spazio anche il risentimento e il rancore verso colui che resta (dopo Woytjla e la Madonna nera) la terza icona della Polonia: Lech Walesa. È sulla sua figura che si è accanita la foga revisionista dei Kaczynski, è sul suo mito, già sberciato da una non felice esperienza politica nella Polonia democratica, che si è scatenata la rabbia dei nuovi potenti. La vendetta si è rivestita di un nome sinistro, la lustracja, la volontà di passare al setaccio le biografie di tanti protagonisti del chiaroscuro polacco: l’indagine sospettosa e moralista, obiettivamente fuori tempo massimo, laddove Solidarnosc aveva preferito la cattolicissima strada del compromesso e di

un indolore passaggio di consegne. Non fu tutto facile e scontato, in quelle settimane di incontri e trattative. Più di qualche volta il filo sottile sembrò spezzarsi, fra l’intransigenza sindacale di Solidarnosc e la speranza dei comunisti di ritagliarsi comunque degli spazi di potere. Ma la campana era ormai suonata, il cambiamento squassava anche i più solidi regimi vicini e la Polonia mezza guarita dal morbo “dell’impero del male” preferì stringere la mano al nemico sapendo che il vento soffiava nelle vele dell’opposizione. Il tempo di andare a votare, a giugno, e il comunismo finì in minoranza. Fermandosi oggi a guardare il tavolo rotondo, rimesso nella sua disposizione originale tra i pilastri nella sala del palazzo presidenziale, dove nel 1955 venne sancita la nascita del Patto di Varsavia e ora all’esterno sventolano le bandiere della Polonia, dell’Unione europea e della Nato, si può essere indulgenti con la scelta di allora di percorrere la strada della politica. La Polonia aveva già dato e, in quel febbraio in cui le stelle rosse si stavano per spegnere in tutto l’oriente europeo, si trattava in fondo di raccogliere il frutto di una lunga semina. Non c’era bisogno di spargere altro sangue. Nel gioco sempre obliquo della politica, Jaruzelski aveva forse risparmiato ai polacchi nel 1981 il duro ferro dell’Armata rossa e i polacchi risparmiarono, otto anni dopo a Jaruzelski, il duro ferro della ghigliottina. Peccato che qualche mese fa sia scomparso, in un incidente stradale, un testimone straordinario di quei tempi come Bronislaw Geremek. Poi è sufficiente uscire dal palazzo Radziwill del presidente, e piegare a sinistra per

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l’elegante Nowy Swiat, la via dei caffè e dei negozi, o incamminarsi a destra fiancheggiando il lusso barocco dell’Hotel Bristol, mescolarsi agli studenti davanti all’Università e infilarsi nella città vecchia, il gioiello che l’operosità dei restauratori polacchi ha restituito alla città dopo le devastazioni naziste. Li guardi in faccia, questi nuovi cittadini dell’Europa unita, e pensi che dovrebbero semplicemente fare i conti razionalmente con la loro storia. Perché il presente non è poi così male e il futuro, stavolta, potrebbe avere i colori pastello dei palazzi del Rynek. 2 marzo 2009

Schabowski, l'uomo che fece crollare il muro Günter Schabowski, si può dire, è l’uomo che aprì il muro. La sera del 9 novembre 1989, in una conferenza di fronte alla stampa estera, mentre fuori il regime già vacillava e i cittadini dell’intera Ddr avevano ormai occupato le piazze e le strade del paese, e premevano su quel muro e su quelle frontiere perché cadessero, una volta per tutte, lui, Günter Schabowski, uno dei triumviri che qualche settimana prima avevano defenestrato Erich Honecker, quel muro lo aprì. Con due parole divenute leggendarie anche nella loro versione tedesca: “Ab sofort, da subito”. Da subito i cittadini della Ddr avrebbero potuto lasciare il proprio paese: due parole in risposta alle domande dell’ex corrispondente italiano dell’Ansa, Riccardo Ehrmann, giunto in ritardo alla conferenza e per questo appollaiatosi sulle scale sotto il palco. Sono passati venti anni e una lunga catena di vicende personali ha

portato Schabowski su lidi distanti da quelli che aveva frequentato fino a quella notte. Oggi come allora, si ritrova in una sala gremita di giornalisti. Ancora una volta, giornalisti stranieri, affiliati all’Associazione stampa estera tedesca. C’è un ventennio da raccontare, gli anni passati in carcere, la voglia di capire, lo sforzo della riflessione, i libri scritti, l’abbandono


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del comunismo, il viaggio intellettuale in mare aperto chissà dove ma sicuramente lontano dal molo di partenza. Eppure è inevitabile tornare a quei minuti, interminabili, che hanno cambiato la sua vita e quella degli altri, di tutti noi. “Ab sofort”. Vent’anni sono trascorsi sul volto e nel fisico di questo anziano giornalista di talento, capitato dalle parti del partito co-

munista quasi per caso, notato da Honecker negli anni Settanta e catapultato nella redazione del giornale di regime, il Neues Deutschland. E poi per questa via, cooptato nella stanza dei bottoni della Ddr. Lo ricordiamo corpulento e burbero sotto le luci fioche della sala stampa del Comitato centrale della Sed, immortalato per sempre nel bianco e nero della televisione di Stato: oggi è un anziano signore con i capelli bianchi, che si muove incerto appoggiandosi ad un bastone, affaticato nella voce e nel volto, corroso da un diabete che lo costringe a centellinare le apparizioni, anche in quest’anno di anniversario, quando tutti lo vogliono e tutti lo cercano. Tre mesi fa ha compiuto ottant’anni, lo spirito è rimasto vivace come un tempo: la battuta pronta, l’arguzia che gli leggi nello sguardo sempre vispo, curioso, sfrontato. Schabowski ha camminato, per questi vent’anni, con il corpo e con la mente, anche se tutti lo vorrebbero inchiodare ancora a quella sera del 9 novembre, per rivivere in differita il brivido della storia. E lui, che questo mestieraccio del giornalismo ce lo ha nel sangue, non si tira indietro, anzi attacca per primo, meglio togliersi subito il dente. Le leggende di quella sera sono tante. Schabowski mandato allo sbaraglio, sbattuto all’ultimo momento in conferenza stampa, all’oscuro delle decisioni del Politburo, con appunti scritti da qualcun altro in fretta e furia e con il compito di intrattenere e divagare, dire ma soprattutto non dire. Insomma, prendere tempo, perché quando non si sa più che pesci prendere temporeggiare dà l’illusione di poter vivere ancora. E invece, dice, l’illusione era un’altra: “Pensavamo che aprire le frontie-

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re sarebbe stata l’unica possibilità di recuperare il consenso della gente”. La proposta di concedere il diritto all’espatrio ballonzolava tra Politburo e governo da quattro settimane, impigliata nella rete burocratica che aveva da tempo inaridito la presunta spinta propulsiva del comunismo. Ogni giorno 400 cittadini fuggivano dalla Ddr, passavano le frontiere verso gli altri paesi socialisti che avevano ormai tranciato la cortina di ferro, si rifugiavano nelle ambasciate della Germania ovest, erano sui telegiornali di tutto il mondo e sgretolavano il prestigio dello Stato. Bisognava concedere qualcosa: prima la testa di Honecker, poi il diritto all’espatrio. I nuovi dirigenti del partito, i triumviri che avevano organizzato il putsch contro il vecchio leader (Egon Krenz, segretario per caso, Siegfried Lorenz e, appunto, Günter Schabowski) provavano a rincorrere la storia e i loro cittadini: “Non ci era affatto chiaro che il socialismo era arrivato alla fine, noi eravamo convinti che, concessa la possibilità di viaggiare liberamente, la nostra politica riformista sarebbe divenuta credibile e avremmo potuto metterci sulla scia del nuovo corso di Gorbaciov”. Dunque Schabowski sapeva. Sapeva cosa contenevano quei fogli che Egon Krenz gli consegnò nel corridoio di fronte alla sala delle conferenze. Quello che non sapeva erano i termini precisi. E su quelli si impappinò, di fronte alle domande divenute sempre insistenti di Riccardo Ehrmann. Non crede che la legge di qualche giorno fa sul diritto di viaggio sia stata un errore? “No, non credo e comunque il governo ha deciso di concederlo”. In che modo? “Può essere inoltra-

ta la richiesta di viaggi privati all’estero anche senza particolari motivazioni o rapporti di parentela. L’espatrio permanente può svolgersi nei punti di transito della frontiera fra Repubblica democratica e Repubblica federale”. Vale anche per Berlino Ovest? “Beh, sì, sì”. E da quando? “Beh, per quel che ne so entra in vigore, beh, da subito”. “Ab sofort”. Il muro è caduto così. Schabowski non ci sta, neppure venti anni dopo, a passare per uno sprovveduto. È già stato il capro espiatorio dei compagni di un tempo, sconfitti più di lui perché incapaci di leggere il senso della storia. “Sono stato comunista e marxista fino alla notte del 9 novembre”, dice oggi, “e anche dopo quella notte ho lavorato perché il partito potesse salvarsi, ritrovare un suo ruolo in una nuova stagione riformista. E invece l’ho visto perdersi e disgregarsi, annullarsi di fronte agli eventi che incalzavano”. Vicende umane e personali che si consumano nel continuo rinfacciarsi tradimenti e opportunismi, si salvi chi può e per molti la salvezza era nella Pds, il partito post-comunista rinato dalle ceneri della Sed. Oggi questo partito è cresciuto, ha intaccato la stabilità del sistema politico della Repubblica di Berlino, è di nuovo fortissimo ad est, è tracimato anche ad ovest grazie all’alleanza con il rancoroso Oskar Lafontaine, oscilla tra nostalgia del passato e socialismo massimalista. Si stava meglio quando si stava peggio: le inevitabili disillusioni di una difficile riunificazione trasformate in voti e seggi, nel parlamento federale e in quelli dei Länder, dove governano sostituendo alla retorica dell’opposizione un ragionevole pragma-


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tismo di governo. Ma Schabowski non fa più sconti. L’uomo che fu spinto dal popolo ad aprire il muro, per dirla con le sue parole, ha rotto i ponti col passato, s’è rimesso a studiare i classici del marxismo per capire dove era l’errore. A suo dire la catarsi è arrivata con un libro che gli è costata fatica e amicizie: “Troppa burocrazia, troppa irresponsabilità, troppa assenza di controllo democratico, troppa rigidità, troppi privilegi. I burocrati che definivano i criteri dei piani quinquennali e sceglievano gli imprenditori tra i più fedeli e poi quando sbagliavano nessuno era responsabile, la colpa era sempre del nemico di classe. È stato il fallimento di un’intera società, tutto quello che i paesi comunisti hanno provato a fare è stato un fiasco”. È una lezione che vale anche oggi, quando si sente dire che l’alternativa al capitalismo in crisi sarebbe un ritorno al socialismo: “Non abbiamo dimenticato che il socialismo ha portato il nostro Stato alla bancarotta”. Sostiene Schabowski. 2 aprile 2009

Quei confini dove la Storia non rimargina le sue ferite Il muro in testa èstata una fortunata definizione con cui lo scrittore tedesco Peter Schneider ha rappresentato quel particolare stato psicologico attraversato dai tedeschi dopo la caduta del muro: svanita la barriera che divideva l’est dall’ovest ed evaporate le bollicine dei festeggiamenti, gli uni e gli altri, i tedeschi dell’est e i tedeschi dell’ovest si sono ritrovati di fronte con i pregiudizi e le diffidenze reciproche, maturate in quarant’anni di divisione. Nel


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frattempo altri muri sono caduti lungo la frontiera orientale d’Europa, ma il muro in testa, quello mentale che resiste anche quando quello fisico si sgretola, descrive con efficacia altre storie e altri incontri. Ad esempio, quelli tra tedeschi e polacchi. L’Oder è un confine di dolore, come tutti i limes artificiali nati a tavolino da rapporti di forza segnati da una guerra. Nei primi anni Novanta, quando la Germania orientale era stata inglobata a suon di marchi nella Bundesrepublik e in Europa, il fiume ha osservato le fughe illegali e disperate di polacchi e ucraini verso l’Eldorado di Bruxelles e qualche volta non le ha solo osservate: le ha inghiottite, come capita oggi alle acque profonde del Mediterraneo con i carghi provenienti dal Nord Africa. Speranze e tragedie raccontate in uno splendido film tedesco, Lichter, del regista bavarese Hans-Christian Schmid, premiato dalla critica internazionale della Berlinale nel 2003. Alla fine della guerra, invece, attraverso questo confine appena creato, sono transitati nella stessa direzione gli sfollati tedeschi dalle terre della Slesia e della Prussia orientale: interminabili file di profughi a cui la colpa tedesca del nazismo ha negato per anni qualsiasi riconoscimento. E pochi anni prima, in senso ovest-est, furono le truppe di Hitler a varcare le barriere, portando morte, occupazione e violenze. A voler riavvolgere il film della storia fino ai secoli precedenti, ci sarebbero centinaia di esempi a dimostrare quanto il rapporto fra Germania e Polonia sia stato difficile, se non drammatico. Ma a riavvolgerlo per bene, questo e altri film, tutta la storia dell’Europa è stata segnata da

guerre e conflitti fra le nazioni. Oggi il problema è questo: mentre a ovest, cinquant’anni di democrazia hanno lenito quelle ferite stemperandole nel mare magno del processo di unificazione europea, ad est questo non è avvenuto. E le nazioni riapparse da un altro mare magno, quello del totalitarismo di stampo sovietico, si presentano sulla scena cariche di risentimenti che pensavamo appartenere a epoche ormai superate. Di più: a volte pare che la ricostruzione della loro identità nazionale passi proprio dalla riaffermazione di contrapposizioni che il resto del Continente non vive più. Per restare al centro dell’Europa, Kohl e Mitterrand hanno da anni consegnato alla storia antiche rivalità, tenendosi per mano di fronte ai campi di battaglia di Verdun nel 1987, mentre ancor oggi le copertine dei periodici popolari polacchi si divertono a pubblicare l’immagine di ogni cancelliere tedesco vestito con la divisa nazista e truccato con i baffetti del führer: che sia Schröder o Angela Merkel, non fa differenza. Polacchi contro lituani, cechi contro slovacchi, estoni contro russi, ungheresi contro rumeni, rumeni contro bulgari, croati contro italiani e tutti contro i tedeschi, per non parlare dei Balcani dove troppo recenti sono le ferite della guerra civile. Qualcosa si muove, magari proprio laddove meno ce lo si sarebbe aspettato, per esempio fra Zagabria e a Belgrado, però il dato resta, sotto la traccia diplomatica dei buoni rapporti ufficiali. Ma dove neppure le diplomazie riescono ad ammorbidire i contrasti è sull’Oder, lungo il confine più delicato dentro l’Europa, tra Germania e Polonia. Qui le ferite della storia faticano a rimar-


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ginarsi. Basti pensare a quel che accade ogni volta che la Germania tratta la questione dei Vertriebenen, i profughi costretti ad abbandonare le terre orientali dopo la seconda guerra mondiale. Una storia che in buona parte ricalca quella italiana degli esuli dalmati e giuliani. Furono vicende drammatiche, sulle quali è stata stesa per decenni una congiura del silenzio che solo oggi, grazie a nuovi e documentati libri o a fiction di successo, tornano al centro del dibattito storico. Ma il tempo non sembra essere trascorso a sufficienza, come dimostra l’ultima virulenta polemica tra Berlino e Varsavia sull’ipotesi tedesca di nominare Erika Steinbach, responsabile dell’associazione dei Vertriebenen, in uno dei tre posti nel consiglio della fondazione che dovrà realizzare un Centro di documentazione sul tema, un progetto che dovrebbe coinvolgere gli storici delle due nazioni. L’accusa: aver fatto in passato dichiarazioni revansciste e aver votato come deputata al Bundestag contro la ratifica del trattato con la Polonia e contro la sua adesione alla Nato. Un caso che ha tenuto banco nel recente vertice tra i due capi di governo, Merkel e Tusk, e che è stato risolto con la rinuncia della stessa Steinbach, il sollievo della cancelliera (che ha dovuto affrontare una dura polemica interna al suo stesso partito) e la soddisfazione dei politici e dell’opinione pubblica di Varsavia. Seduti ai tavolini del Caffè Blikle, un tempio della tradizione varsaviana sull’elegante Nowy Swiat, Robin Lauterbach, corrispondente della prima rete televisiva pubblica tedesca Ard, ammette: “Abbiamo sbagliato a proiettare sui paesi del-

l’Europa orientale le nostre sensibilità di europei occidentali. Dopo la caduta dei regimi comunisti, pensavamo che tutto sarebbe stato semplice e che ci saremmo ritrovati in un abbraccio immediato. Ma noi, ad ovest, abbiamo impiegato cinquant’anni per sedimentare i vecchi contrasti”. Il caso con la Polonia è ancor più delicato, visti i trascorsi storici: “Noi tedeschi abbiamo ritenuto di saldare le colpe del passato riconoscendo come definitivi i nostri confini orientali e rinunciando per sempre a quelle terre che erano tedesche e che oggi sono polacche. È stata un’illusione. Penso a quelli della mia generazione, gente nata ben dopo la guerra, che riconosce le colpe storiche del nazismo ma ritiene di essere cambiata a sufficienza e di aver chiuso i conti con il passato. Poi, di colpo, si aprono i confini, incontriamo i polacchi e ci accorgiamo che per loro non è ancora passato nulla”. La storia è materia delicata, che facilmente si presta alla strumentalizzazione politica. Il nuovo museo sulla rivolta di Varsavia, in via Grzybowska, poco fuori il centro cittadino, è stato inaugurato nel 2004, nel sessantesimo anniversario della sollevazione anti-nazista. Lo hanno fortemente voluto i gemelli Kaczynski, i politici che più di altri hanno premuto negli anni passati il tasto del martirio storico, a supporto di una politica nazionalista ed esterofoba. Il museo contiene alcune cose interessanti, altre meno: su tutto, però, prevale un senso di propaganda postuma, più il tentativo di costruire un orgoglio nazionale che quello di capire vicende ed eroismi del passato. I rapporti tedesco-polacchi non sono, e

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non saranno ancora per molto tempo, improntati alla normalità. E l’impressione che nell’altra Europa, quella che ha avuto la fortuna di trovarsi dalla parte giusta della cortina di ferro, la sensibilità per il dolore polacco non sia presa in considerazione, non aiuta. Prendete il drammatico film di Wajda sul massacro di Katyn, che descrive, oltre all’orrore della strage sovietica, il dramma dell’occupazione tedesca. In Italia non riesce a vederlo quasi nessuno e l’ipotesi, ventilata da più parti, di una congiura politica che ne limita la distribuzione alimenta sospetti e polemiche. Eppure si tratta di una vicenda ormai assodata, sebbene ancora sconosciuta al grande pubblico, i cui contorni aiutano a comprendere le paure ataviche dei polacchi, da sempre stretti fra vicini ingombranti. Ci vorrà tempo per lenire le ferite, a patto però che ci sia la volontà reciproca di capirsi. 16 aprile 2009

Lo stadio operaio e il miracolo di Köpenick Nello stesso giorno l’ultima mano di vernice allo stadio, il taglio del nastro e l’amichevole di lusso. Per gli outsider orientali del calcio berlinese comincia una nuova storia. Parliamo della seconda squadra di Berlino, l’1. Fc Union Berlin, messa in ombra nell’ultimo ventennio dall’ascesa dei cugini occidentali dell’Hertha, tornati a disputare campionati di buon livello in Bundesliga grazie ai potenti investimenti di grandi gruppi industriali tedeschi. Ai supporter dell’Union, invece, bastano le mani e l’orgoglio. Il secondo è servito a tener duro negli anni bui, le prime hanno lavorato duramente per ristrutturare lo stadio di casa. Ha un nome romantico, An der Alten Försterei, letteralmente “alla vecchia foresteria”, un nido del football che sembra uscito dagli almanacchi storici del calcio inglese, con le tribune a ridosso del terreno di gioco e un tabellone azionato a mano, con i numeri dei gol stampa-


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ti sul cartone che scorrono come su un vecchio calendario ingiallito. Un pezzo originale di Ostalgie rivisitato però vent’anni dopo la caduta del muro, tempi in cui anche all’est, se si vuole, è possibile realizzare i propri sogni. Il riscatto di questo mito calcistico della Germania orientale corre sul doppio binario di una società rimessa in sesto dopo i bilanci in rosso degli anni passati da un presidente che ha passato la sua giovinezza sui gradoni dell’Alte Försterei e di una tifoseria genuina che ha saputo rinverdire la fama ribelle e alternativa che l’accompagnava anche negli anni della Ddr. Così nell’anno calcistico 2008-2009, gli undici in campo hanno riportato la squadra in seconda Bundesliga, la nostra serie B, vincendo con tre giornate d’anticipo il campionato regionale zeppo di vecchie glorie della Ddr come Carl Zeiss Jena o Dinamo Dresda. E migliaia di tifosi al sabato riempivano lo Jahn-Sportparkstadion del quartiere di Prenzlauerberg, un tempo di-

mora dell’odiata Dinamo Berlino, la squadra della Stasi, e la domenica si presentavano puntualmente all’Alte Försterei con picconi, trapani e cazzole per rimettere in sesto il loro vecchio stadio. Una lista lunga duemila nomi, meglio soprannomi, comuni come Benni o Mulli o Kalle o Schnalle, nomignoli da classe operaia, appena usciti dalle case del quartiere Köpenick, estrema periferia orientale di Berlino, dove si trova lo stadio della foresteria e l’anima profonda di questa squadra-famiglia. Tifosi artigiani, carpentieri di professione o volontari del cemento che per 365 giorni hanno regalato il loro tempo libero per rimettere in ordine uno stadio glorioso che se ne veniva giù a pezzi. Avevano atteso i soldi del comune, sempre promessi e mai arrivati, e alla fine hanno deciso di seguire l’esempio del presidente: rimboccarsi le maniche e far da soli. E chi non aveva alle spalle una carriera di muratore ha contribuito alla causa preparando cibo e dolci, portarndo birra e


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wodka per sostenere gli eroi veri, quelli che in un anno hanno buttato giù le vecchie gradinate e innalzato uno stadio nuovo di zecca. Così quando l’Union squadra è salita in seconda serie, i giornali nazionali hanno voltato lo sguardo verso questo angolo di Berlino est e hanno scoperto che il miracolo era dietro i successi sul campo. Lì, sul rettangolo di gioco dello Jahn-Sportparkstadion temporaneamente usurpato ai nemici della Stasi, segnavano nomi sconosciuti al grande calcio e qualche chilometro più in là, all’Alte Försterei, altri nomi sconosciuti davano di gomito per costruire quello che la politica aveva promesso e mai dato. Così, quando alla fine è arrivato un piccolo contributo dal comune, i tifosi-muratori hanno continuato a far da sé, senza ricorrere ad alcuna ditta specializzata, se non per l’installazione della copertura, operazione troppo delicata anche per i professionisti. Sembra il lieto fine di un film di Ken Loch o di un libro di Nick Hornby, con la squadra operaia che va in paradiso e i tifosi-lavoratori che si godono le partite stretti in piedi sui nuovi gradoni dello stadio. Tra fuochi pirotecnici e vecchia passione, la notte di Köpenick regala emozioni indimenticabili. Per la partita di inaugurazione è stata invitata proprio l’altra squadra di Berlino, l’Hertha, per rispolverare un derby che mancava dal 1990. Gossy è uno dei capisquadra che ha guidato la pattuglia di volontari nei lavori. Strabuzza gli occhi mentre distribuisce pacche sulle spalle alle decine di tifosi che vengono a fargli gli auguri. Per tutti ha una parola di incitamento, come fosse ancora sul can-

tiere. «Dei giornalisti sono venuti a chiedermi se ogni volontario ha ricevuto un biglietto omaggio per questa festa. Gli ho risposto: ma ci avete visto in faccia? Noi siamo quelli che hanno costruito lo stadio, i biglietti ce li siamo comprati e pagati. A noi basta questo monumento qua». Il monumento è una stele di ferro su cui campeggia un grande elmo da operaio rosso fiammante come i colori dell’Union. Sulla stele sono stampigliati, a futura memoria, tutti i nomi dei tifosi operai che hanno prestato la loro opera all’impresa. «Si è trattato soprattutto dei tifosi della vecchia generazione», spiega con un po’ di rammarico Jens-Martin, 42 anni, che scelse l’Union perché era la squadra ribelle che non piaceva al regime. «Le nuove leve del tifo sono di pasta diversa, subiscono il mito ultras, stanno un po’ cambiando la natura del nostro pubblico. Noi amiamo ancora tifare all’inglese, senza guide prestabilite. A uno gli viene in mente un coro, parte e gli altri seguono. Non ci sono tabelle prestabilite». Più un tifo "per" che un tifo "contro". Un esempio? «Una volta avevamo una certa simpatia con l’Hertha», ricorda Jens-Martin «cantavamo Union e Herta unite perché loro erano quelli dell’ovest e la cosa faceva arrabbiare i capi della Ddr. Poi negli ultimi anni gli occidentali hanno avuto soldi e investimenti, sono cresciuti e hanno fatto proseliti anche qui da noi. E questo ha raffreddato i rapporti». Il tifo all’inglese è un po’ una fissa qui a Köpenick. Lo stadio è bello e spartano, rifatto per tre quarti. Resta solo da rinnovare la tribuna centrale. Il progetto finale prevede una facciata monumentale, in


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mattoni rossi, con il logo della squadra come frontale esterno e dentro una gradinata spiovente sul campo da gioco. Si attendono nuovi soldi per completare il lavoro: più british di così! Questa stella dell’est ha i suoi miti e le sue tradizioni, che non vuol svendere a nessuno, neppure ai nuovi sponsor che oggi accorrono con sonanti contributi e con la promessa di portare l’Union ancora più in alto. Loro sono gli Eisern, uomini di ferro, capaci di gridare dal primo all’ultimo minuto e poi ridere (o più spesso piangere) per i risultati della propria squadra. Anche oggi va così, alla fine vincerà l’Hertha, 5 a 3, ma la festa è tutta per il nuovo miracolo di Köpenick, lo stadio costruito dai tifosi. Tutto serve a rinforzare la fede: le sconfitte rendono più forti, e più ne arrivano, più gli Eisern diventano tosti. Ma anche le vittorie hanno un sapore speciale: il tabellone manuale è un cimelio stretto in una torretta di mattoni rossi tra la gradinata e la curva dei tifosi locali. Oggi che un nuovo tabellone elettronico annuncia anche all’Alte Försterei i tempi del calcio moderno, quel vecchio reperto del calcio che fu è fissato per sempre su un risultato storico: l’8 a 0 rifilato un paio di anni fa nell’Oberliga, una serie minore, ai nemici di sempre, quella Dinamo Berlino un tempo vezzeggiata dalla Stasi e nel cui stadio è stata festeggiata quest’anno la promozione in seconda serie. Quando i giocatori in biancorosso entrano sul terreno di gioco, i tifosi intonano sciarpe al vento l’inno della squadra. È una canzone rock tostissima, scritta e cantata da una fan d’eccezione, anche lei un pezzo di storia della Germania est: Ni-

na Hagen. Fin da quando aveva quattro anni, saltellava il sabato pomeriggio tra le ginocchia del padre e le gradinate dell’Alte Försterei. Perché di ferro si diventa, dell’Union si nasce. 9 luglio 2009

Articoli tratti da Ffwebmagazine (http://www.ffwebmagazine.it) 185


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