Mai più anni Settanta

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EDITORIALE DI GIANFRANCO FINI

Gianfranco FINI

fini@farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

urso@farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Coordinatore organizzativo Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE

Coordinatore editoriale Filippo ROSSI

mellone@farefuturofondazione.it

filipporossi@farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno II - Numero 10 - luglio/agosto 2008

Gianfranco FINI - Adolfo URSO - Alessandro CAMPI - Angelo MELLONE - Pierluigi SCIBETTA Ferruccio FERRANTI - Emilio CREMONA - Giancarlo ONGIS - Giancarlo LANNA - Vittorio MASSONE - Daniela MEMMO D’AMELIO - Piero PICCINETTI

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abboonamento D.L. 353/003 (conv. in L. 7/0/004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB (Roma)

Presidente

w ww. f aref u t u rofondazione.it

MAI PIÙ ANNI SETTANTA

Farefuturoèunafondazionediculturapolitica,studieanalisisocialichesiponel’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturosiproponedifornirestrumentieanalisiculturalialleforzedel centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa,contribuirealsuoprocessodiintegrazione, affermareunanuovaevitalevisione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazioneapertaalcontributodituttiesiavvaledell’operatecnico-scientifica edell’esperienzasocialeeprofessionaledelComitatopromotoreedelComitatoscientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

MAI PIÙ

ANNI SETTANTA Mensile della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno II - n. 10 - luglio/agosto 2008 - Euro 8 Direttore Adolfo Urso

Nostalgia dei ’70? È paura della libertà Anni Settanta, la prima cosa che viene da chiedersi è perché se ne parli ancora così tanto. Perché si pubblicano tanti libri su quel periodo. Perché quel decennio continua a suscitare interesse. Ci sono diverse risposte possibili. Innanzi tutto è probabile che agisca un fatto generazionale. Buona parte dell’attuale classe dirigente italiana s’è formata in quel fatidico decennio. Ed è logico che torni volentieri con la memoria a quel periodo. E ci torna volentieri anche quando ne prende le distanze. È sempre bello parlare, nel bene e nel male, della propria giovinezza… Un po’ meno logico appare il fatto che il fenomeno interessi anche tanti ventenni e trentenni di oggi. Per costoro gli anni Settanta dovrebbero essere storia. Storia recente, d’accordo. Ma pur sempre un’esperienza consegnata al passato, estranea al loro vissuto e alla loro memoria. Eppure, nelle frange più politicizzate del mondo giovanile capita spesso di ascoltare slogan o di osservare comportamenti che sembrano voler scimmiottare quelli di trenta, trentacinque anni fa. Ed è una circostanza che lascia perplessi. Intendiamoci, non c’è nulla di male nel fatto che un ragazzo di oggi vada in giro con una t-shirt con l’effige di Che Guevara. Però viene da chiedersi: a cosa gli “serve” il Che? Cosa c’entra con la sua vita, con le sue speranze, con i suoi progetti l’icona di un uomo che voleva esportare la rivoluzione cubana in tutto il mondo? La risposta che si Oggi, gli ideali di giustizia sente spesso in giro è questa: «Per forza che inneggiano al Che, visto che oggi viviamo in e cambiamento una società senza ideali». È un luogo conon hanno bisogno mune, fuorviante. Perché se c’è una società di ideologie totalizzanti che sogna il nuovo e che inneggia ai diritti e ai valori, questa società è proprio la società odierna. Ci sono anche tanto cinismo, tanto egoismo, tanta indifferenza? Se è per questo, negli anni Settanta c’era anche di peggio: le idealità e le pulsioni creative convivevano con intolleranza e conformismo. Che cosa è mutato in definitiva rispetto ad allora? Il fatto che la voglia di cambiamento, gli ideali di giustizia, il desiderio di libertà non si aggregano più intorno a utopie ambiziose e a ideologie totalizzanti. Non c’è più bisogno di sognare il mondo nuovo. Perché il mondo nuovo è arrivato. Non sempre appare un mondo bello. Anzi, in questi mesi del 2008, mesi di crisi finanziarie globali, di superpetrolio, di caro-cereali è un mondo che desta non poche preoccupazioni. Però, insieme a tante incognite, si presentano anche tante possibilità. La sfida odierna è quella di guidare il cambiamento verso nuovi traguardi sociali. Non è un compito semplice. Ma è il compito che spetta alla politica odierna. Allora, che cosa altro può spingere i quarantenni e cinquantenni di oggi a parlare con tanta frequenza dei loro ideali (e dei loro errori) di gioventù? Che cosa altro può spingere i ventenni e i trentenni a rievocare in forma mitica un passato che non hanno vissuto? Penso che tutto dipenda dalla “paura”


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO II - NUMERO 10 - LUGLIO/AGOSTO 2008

A CURA DI BRUNO TIOZZO www.farefuturofondazione.it

MAI PIÙ ANNI SETTANTA

ROMA

Colloquia. Spunti di dialogo Lunedì 14 luglio - ore 19 Contro il mito negativo del ribelle - 106 PABLO ECHAURREN e VALERIO FIORAVANTI

L’idea perversa dei miei con i miei e i tuoi con i tuoi - 2 LUCIANO LANNA

I cattivi maestri che stampano odio - 122 MIRO RENZAGLIA

Spunti di dialogo. Il primo appuntamento si è tenuto

Ho un nemico, quindi sono - 13 FIORELLO CORTIANA

Mi ricordo un muro crivellato di proiettili... - 128 FULVIO ABBATE

per rilanciare il paese”.

Quel vizio antico della storiografia militante - 20 GIANNI SCIPIONE ROSSI

Come d’autunno sugli alberi le foglie - 136 GIULIANO COMPAGNO

La violenza giusta oggi non esiste più - 36 INTERVISTA CON LUIGI MANCONI di Francesco Rubino

tra autorevoli esponenti del governo e un pubblico

Per superare i ’70? Vanno ricordati- 52 GIOVANNI MORO

Distribución del ingreso y superación de la pobreza. Conferenza della Fundación Rafael Preciado Hernández sulla lotta alla povertà. Mercoledì 16 luglio

ROMA

WASHINGTON

Integrazione e donna

The new case against immigration. L’American Enterprise Institute presenta un libro di Mark Krikorian, che argomenta contro la possibilità di accogliere grandi flussi di immigrati. Martedì 1 luglio

WASHINGTON

selezionato di stakeholder dal titolo Colloquia. con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Altero Matteoli, sul tema “Infrastutture e mobilità

Ottobre Presentazione del progetto di ricerca di Farefuturo all’interno del contesto migratorio. La figura

Il vizio italiano del modernariato ideologico - 85 FRANCESCO LINGUITI Come Indiani e destra ruppero il “fronte”- 90 GIOVANNI TARANTINO Gioventù in attesa del suo Rinascimento - 98 PIETRO URSO

The Birth of freedom. La Heritage Foundation si interroga con l’Acton nstitute sulle radici della libertà. Mercoledì 16 luglio

SANTIAGO DEL CILE

e nella comunità di appartenenza.

PARIGI

Quella voglia inascoltata - 68 COLLOQUIO CON MARCO TULLIO GIORDANA di Filippo Rossi

Non solo piombo. Gli altri colori dei Settanta - 80 DILETTA CHERRA

CITTA’ DEL MESSICO

femminile sarà analizzata in ambito familiare

Dalla crisi democratica una nuova notte della Repubblica - 58 CLAUDIO MARTELLI

Anni di piombo? Ci è andata bene - 77 GIOVANNI PELLEGRINO

Come cambia l’antitrust nell’Unione Europea. Seminario dell’Istituto Bruno Leoni. Venerdì 11 luglio

MONACO DI BAVIERA Frieden schaffen mit gewalt oder durch dialog? Convegno della fondazione Hanns Seidel sull’esportazione della democrazia. Martedì 1 luglio

sul ruolo della donna come agente di integrazione

Solo chi ripudia la violenza si può chiamare eroe - 46 GIORGIA MELONI

MILANO

Campus Faes 2008. Campo estivo di approfondimento politico rivolto soprattutto ai giovani. Intervengono José María Aznar e Mariano Rajoy. Lunedì 30 giugno – Domenica 13 luglio

La Fondazione Farefuturo avvia una serie di incontri

Nostalgia dei ’70? È paura della libertà GIANFRANCO FINI

...Sempre guelfi o ghibellini - 30 INTERVISTA CON FRANCESCO COSSIGA di Giovanni Marinetti

NAVACERRADA

ROMA

Oltre gli stereotopi Prossimamente Sarà presentato a Bologna il terzo Rapporto di Farefuturo su Il nuovo senso civico degli italiani, coordinato dal professor Luigi Di Gregorio. In serata,

Femmes, passerelles d’Europe. Conferenza internazionale organizzata dalla Fondation Robert Schuman con il patrocinio di Sarkozy sull’impegno delle donne nel processo politico europeo. Partecipa José Manuel Durão Barroso insieme a rappresentanti istituzionali francesi ed europei come Michel Barnier, Nathalie Kosciusko Morizet e Vaira Vike-Freiberga. Mercoledì 2 luglio

China: Primer destino de nuestras exportaciones. Seminario di Libertad y Desarrollo sull’economia cinese. Mercoledì 25 luglio

VANCOUVER Economics for leaders. Corso di politiche economiche organizzato dal Fraser Institute. Domenica 3 – sabato 9 agosto

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore editoriale Angelo Mellone mellone@farefuturofondazione.it Coordinatore editoriale Filippo Rossi filipporossi@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso ursop@chartaminuta.it Collaboratori di redazione: Roberto Alfatti Appetiti, Alessandra Bergamasco, Guerino Nuccio Bovalino, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Valeria Falcone, Filippo Lonardo, Cecilia Moretti, Michele De Feudis, Giuseppe Proia, Adriano Scianca. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/96996400 - Fax 06/96996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it ursop@chartaminuta.it; direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione Cecilia Moretti moretti@chartaminuta.it Progetto grafico Elise srl www.elisegroup.tv Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 70, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario n. 87827/33, Cab 05066, Abi 3002 Banca di Roma, Ag. 246, intestato a Editrice Charta s.r.l. - C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma Segreteria amministrativa Silvia Rossi

cena sociale per le nuove iscrizioni alla fondazione.

LONDRA

FRASCATI

Out of sight, out of mind. Seminario di Policy Exchange sulla cura dei disturbi mentali nel sistema carcerario inglese. Lunedì 7 luglio

Distribuzione Soc.i.d s.r.l Via Carducci, 10 00187 Roma

Summer school di Magna Carta. Martedì 5 – lunedì 11 settembre

Tipografia Renografica s.r.l. - Bologna Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO II - NUMERO 10 - LUGLIO/AGOSTO 2008

A CURA DI BRUNO TIOZZO www.farefuturofondazione.it

MAI PIÙ ANNI SETTANTA

ROMA

Colloquia. Spunti di dialogo Lunedì 14 luglio - ore 19 Contro il mito negativo del ribelle - 106 PABLO ECHAURREN e VALERIO FIORAVANTI

L’idea perversa dei miei con i miei e i tuoi con i tuoi - 2 LUCIANO LANNA

I cattivi maestri che stampano odio - 122 MIRO RENZAGLIA

Spunti di dialogo. Il primo appuntamento si è tenuto

Ho un nemico, quindi sono - 13 FIORELLO CORTIANA

Mi ricordo un muro crivellato di proiettili... - 128 FULVIO ABBATE

per rilanciare il paese”.

Quel vizio antico della storiografia militante - 20 GIANNI SCIPIONE ROSSI

Come d’autunno sugli alberi le foglie - 136 GIULIANO COMPAGNO

La violenza giusta oggi non esiste più - 36 INTERVISTA CON LUIGI MANCONI di Francesco Rubino

tra autorevoli esponenti del governo e un pubblico

Per superare i ’70? Vanno ricordati- 52 GIOVANNI MORO

Distribución del ingreso y superación de la pobreza. Conferenza della Fundación Rafael Preciado Hernández sulla lotta alla povertà. Mercoledì 16 luglio

ROMA

WASHINGTON

Integrazione e donna

The new case against immigration. L’American Enterprise Institute presenta un libro di Mark Krikorian, che argomenta contro la possibilità di accogliere grandi flussi di immigrati. Martedì 1 luglio

WASHINGTON

selezionato di stakeholder dal titolo Colloquia. con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Altero Matteoli, sul tema “Infrastutture e mobilità

Ottobre Presentazione del progetto di ricerca di Farefuturo all’interno del contesto migratorio. La figura

Il vizio italiano del modernariato ideologico - 85 FRANCESCO LINGUITI Come Indiani e destra ruppero il “fronte”- 90 GIOVANNI TARANTINO Gioventù in attesa del suo Rinascimento - 98 PIETRO URSO

The Birth of freedom. La Heritage Foundation si interroga con l’Acton nstitute sulle radici della libertà. Mercoledì 16 luglio

SANTIAGO DEL CILE

e nella comunità di appartenenza.

PARIGI

Quella voglia inascoltata - 68 COLLOQUIO CON MARCO TULLIO GIORDANA di Filippo Rossi

Non solo piombo. Gli altri colori dei Settanta - 80 DILETTA CHERRA

CITTA’ DEL MESSICO

femminile sarà analizzata in ambito familiare

Dalla crisi democratica una nuova notte della Repubblica - 58 CLAUDIO MARTELLI

Anni di piombo? Ci è andata bene - 77 GIOVANNI PELLEGRINO

Come cambia l’antitrust nell’Unione Europea. Seminario dell’Istituto Bruno Leoni. Venerdì 11 luglio

MONACO DI BAVIERA Frieden schaffen mit gewalt oder durch dialog? Convegno della fondazione Hanns Seidel sull’esportazione della democrazia. Martedì 1 luglio

sul ruolo della donna come agente di integrazione

Solo chi ripudia la violenza si può chiamare eroe - 46 GIORGIA MELONI

MILANO

Campus Faes 2008. Campo estivo di approfondimento politico rivolto soprattutto ai giovani. Intervengono José María Aznar e Mariano Rajoy. Lunedì 30 giugno – Domenica 13 luglio

La Fondazione Farefuturo avvia una serie di incontri

Nostalgia dei ’70? È paura della libertà GIANFRANCO FINI

...Sempre guelfi o ghibellini - 30 INTERVISTA CON FRANCESCO COSSIGA di Giovanni Marinetti

NAVACERRADA

ROMA

Oltre gli stereotopi Prossimamente Sarà presentato a Bologna il terzo Rapporto di Farefuturo su Il nuovo senso civico degli italiani, coordinato dal professor Luigi Di Gregorio. In serata,

Femmes, passerelles d’Europe. Conferenza internazionale organizzata dalla Fondation Robert Schuman con il patrocinio di Sarkozy sull’impegno delle donne nel processo politico europeo. Partecipa José Manuel Durão Barroso insieme a rappresentanti istituzionali francesi ed europei come Michel Barnier, Nathalie Kosciusko Morizet e Vaira Vike-Freiberga. Mercoledì 2 luglio

China: Primer destino de nuestras exportaciones. Seminario di Libertad y Desarrollo sull’economia cinese. Mercoledì 25 luglio

VANCOUVER Economics for leaders. Corso di politiche economiche organizzato dal Fraser Institute. Domenica 3 – sabato 9 agosto

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore editoriale Angelo Mellone mellone@farefuturofondazione.it Coordinatore editoriale Filippo Rossi filipporossi@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso ursop@chartaminuta.it Collaboratori di redazione: Roberto Alfatti Appetiti, Alessandra Bergamasco, Guerino Nuccio Bovalino, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Valeria Falcone, Filippo Lonardo, Cecilia Moretti, Michele De Feudis, Giuseppe Proia, Adriano Scianca. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/96996400 - Fax 06/96996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it ursop@chartaminuta.it; direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione Cecilia Moretti moretti@chartaminuta.it Progetto grafico Elise srl www.elisegroup.tv Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 70, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario n. 87827/33, Cab 05066, Abi 3002 Banca di Roma, Ag. 246, intestato a Editrice Charta s.r.l. - C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma Segreteria amministrativa Silvia Rossi

cena sociale per le nuove iscrizioni alla fondazione.

LONDRA

FRASCATI

Out of sight, out of mind. Seminario di Policy Exchange sulla cura dei disturbi mentali nel sistema carcerario inglese. Lunedì 7 luglio

Distribuzione Soc.i.d s.r.l Via Carducci, 10 00187 Roma

Summer school di Magna Carta. Martedì 5 – lunedì 11 settembre

Tipografia Renografica s.r.l. - Bologna Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


EDITORIALE DI GIANFRANCO FINI

Gianfranco FINI

fini@farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

urso@farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Coordinatore organizzativo Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE

Coordinatore editoriale Filippo ROSSI

mellone@farefuturofondazione.it

filipporossi@farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno II - Numero 10 - luglio/agosto 2008

Gianfranco FINI - Adolfo URSO - Alessandro CAMPI - Angelo MELLONE - Pierluigi SCIBETTA Ferruccio FERRANTI - Emilio CREMONA - Giancarlo ONGIS - Giancarlo LANNA - Vittorio MASSONE - Daniela MEMMO D’AMELIO - Piero PICCINETTI

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abboonamento D.L. 353/003 (conv. in L. 7/0/004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB (Roma)

Presidente

w ww. f aref u t u rofondazione.it

MAI PIÙ ANNI SETTANTA

Farefuturoèunafondazionediculturapolitica,studieanalisisocialichesiponel’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturosiproponedifornirestrumentieanalisiculturalialleforzedel centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa,contribuirealsuoprocessodiintegrazione, affermareunanuovaevitalevisione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazioneapertaalcontributodituttiesiavvaledell’operatecnico-scientifica edell’esperienzasocialeeprofessionaledelComitatopromotoreedelComitatoscientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

MAI PIÙ

ANNI SETTANTA Mensile della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno II - n. 10 - luglio/agosto 2008 - Euro 8 Direttore Adolfo Urso

Nostalgia dei ’70? È paura della libertà Anni Settanta, la prima cosa che viene da chiedersi è perché se ne parli ancora così tanto. Perché si pubblicano tanti libri su quel periodo. Perché quel decennio continua a suscitare interesse. Ci sono diverse risposte possibili. Innanzi tutto è probabile che agisca un fatto generazionale. Buona parte dell’attuale classe dirigente italiana s’è formata in quel fatidico decennio. Ed è logico che torni volentieri con la memoria a quel periodo. E ci torna volentieri anche quando ne prende le distanze. È sempre bello parlare, nel bene e nel male, della propria giovinezza… Un po’ meno logico appare il fatto che il fenomeno interessi anche tanti ventenni e trentenni di oggi. Per costoro gli anni Settanta dovrebbero essere storia. Storia recente, d’accordo. Ma pur sempre un’esperienza consegnata al passato, estranea al loro vissuto e alla loro memoria. Eppure, nelle frange più politicizzate del mondo giovanile capita spesso di ascoltare slogan o di osservare comportamenti che sembrano voler scimmiottare quelli di trenta, trentacinque anni fa. Ed è una circostanza che lascia perplessi. Intendiamoci, non c’è nulla di male nel fatto che un ragazzo di oggi vada in giro con una t-shirt con l’effige di Che Guevara. Però viene da chiedersi: a cosa gli “serve” il Che? Cosa c’entra con la sua vita, con le sue speranze, con i suoi progetti l’icona di un uomo che voleva esportare la rivoluzione cubana in tutto il mondo? La risposta che si Oggi, gli ideali di giustizia sente spesso in giro è questa: «Per forza che inneggiano al Che, visto che oggi viviamo in e cambiamento una società senza ideali». È un luogo conon hanno bisogno mune, fuorviante. Perché se c’è una società di ideologie totalizzanti che sogna il nuovo e che inneggia ai diritti e ai valori, questa società è proprio la società odierna. Ci sono anche tanto cinismo, tanto egoismo, tanta indifferenza? Se è per questo, negli anni Settanta c’era anche di peggio: le idealità e le pulsioni creative convivevano con intolleranza e conformismo. Che cosa è mutato in definitiva rispetto ad allora? Il fatto che la voglia di cambiamento, gli ideali di giustizia, il desiderio di libertà non si aggregano più intorno a utopie ambiziose e a ideologie totalizzanti. Non c’è più bisogno di sognare il mondo nuovo. Perché il mondo nuovo è arrivato. Non sempre appare un mondo bello. Anzi, in questi mesi del 2008, mesi di crisi finanziarie globali, di superpetrolio, di caro-cereali è un mondo che desta non poche preoccupazioni. Però, insieme a tante incognite, si presentano anche tante possibilità. La sfida odierna è quella di guidare il cambiamento verso nuovi traguardi sociali. Non è un compito semplice. Ma è il compito che spetta alla politica odierna. Allora, che cosa altro può spingere i quarantenni e cinquantenni di oggi a parlare con tanta frequenza dei loro ideali (e dei loro errori) di gioventù? Che cosa altro può spingere i ventenni e i trentenni a rievocare in forma mitica un passato che non hanno vissuto? Penso che tutto dipenda dalla “paura”


della libertà. La libertà fa “paura” perché è impegnativa. L’uomo libero non si nasconde dietro uno slogan. Non giustifica la sua pigrizia mentale aderendo a un’utopia collettiva. Non annulla il suo buon senso nel “senso” della Storia. Non maschera le sue frustrazioni in un’ideologia totalizzante. L’uomo libero è certamente più solo dell’uomo intruppato nei famosi “movimenti di massa” di trent’anni fa. È probabile che nella società italiana di oggi agiscano ancora sacche di resistenza alla cultura della L’uomo libero libertà. Sacche che non si esprimono più in non si nasconde dietro forme violente (se non in gruppi fortunatauno slogan, non aderisce mente minoritari), quanto piuttosto in una a un’utopia collettiva opposizione, più o meno silenziosa, più o meno rumorosa, al cambiamento. La forma più rumorosa la vediamo più frequentemente all’opera nella ricorrente tentazione alla delegittimazione dell’avversario politico, nella violenza verbale che ancora tracima sui media, nella frequente ricaduta nella semplificazione ideologica. Sono tutti fenomeni che ci riportano all’istinto gregario che sosteneva i gruppi estremisti degli anni Settanta. Analizzare le cause di questo fenomeno ci porterebbe molto lontano. Si può solo accennare velocemente alle delusioni per le riforme che non sono state realizzate negli anni passati, alle nuove inquietudini suscitate dal mondo globale, a patologie profonde e storiche presenti nella società italiana, dove la cultura della libertà ha faticato più che altrove per affermarsi. L’insieme di tutti questi fattori può spiegare, se non del tutto, almeno in buona parte la sopravvivenza della nostalgia per l’utopia. Il rischio è quello dell’immobilismo o, peggio ancora, dell’affermazione di un nuovo radicalismo, che si potrebbe nutrire di elementi eterogenei: dai riflessi pavloviani ereditati dal XX secolo alle ansie scaturite nel XXI. Tali preoccupanti possibilità non si scongiurano con le belle parole o le prediche altisonanti. Occorre che la politica sappia coinvolgere la società italiana verso nuovi, ambiziosi obiettivi. Il mondo nuovo si deve poter manifestare in tutte le sue potenzialità. Gli italiani devono tornare a percepire il senso del cambiamento e recuperare la dimensione del futuro. Al dunque, la frequenza con cui si parla degli Il rischio è quello anni Settanta è probabilmente un segno di dell’immobilismo malessere. Il che va detto senza nulla togliere o, anche, di un nuovo alla necessità di analizzare quel passato per caradicalismo politico pire meglio il nostro presente. Ma questo è un altro discorso. E vale anche per altri periodi storici. Sempre rimanendo sul piano dell’analisi del passato, sarebbe opportuno allargare la prospettiva del decennio. Non concentrarsi solo sulla politica o sul costume, ma ricordare anche le grandi trasformazioni economiche e tecnologiche che andavano allora maturando. Negli anni Settanta è stato ad esempio inventato il microprocessore, la barretta di silicio che ha rivoluzionato la tecnologia dei computer cambiando profondamente la nostra vita. Gli ingegneri, si sa, sono figure assai meno romantiche dei rivoluzionari. Però, le rivoluzioni vere partono sempre da loro.

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EDITORIALE DI GIANFRANCO FINI

Gianfranco FINI

fini@farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

urso@farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Coordinatore organizzativo Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE

Coordinatore editoriale Filippo ROSSI

mellone@farefuturofondazione.it

filipporossi@farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno II - Numero 10 - luglio/agosto 2008

Gianfranco FINI - Adolfo URSO - Alessandro CAMPI - Angelo MELLONE - Pierluigi SCIBETTA Ferruccio FERRANTI - Emilio CREMONA - Giancarlo ONGIS - Giancarlo LANNA - Vittorio MASSONE - Daniela MEMMO D’AMELIO - Piero PICCINETTI

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abboonamento D.L. 353/003 (conv. in L. 7/0/004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB (Roma)

Presidente

w ww. f aref u t u rofondazione.it

MAI PIÙ ANNI SETTANTA

Farefuturoèunafondazionediculturapolitica,studieanalisisocialichesiponel’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturosiproponedifornirestrumentieanalisiculturalialleforzedel centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa,contribuirealsuoprocessodiintegrazione, affermareunanuovaevitalevisione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazioneapertaalcontributodituttiesiavvaledell’operatecnico-scientifica edell’esperienzasocialeeprofessionaledelComitatopromotoreedelComitatoscientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

MAI PIÙ

ANNI SETTANTA Mensile della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno II - n. 10 - luglio/agosto 2008 - Euro 8 Direttore Adolfo Urso

Nostalgia dei ’70? È paura della libertà Anni Settanta, la prima cosa che viene da chiedersi è perché se ne parli ancora così tanto. Perché si pubblicano tanti libri su quel periodo. Perché quel decennio continua a suscitare interesse. Ci sono diverse risposte possibili. Innanzi tutto è probabile che agisca un fatto generazionale. Buona parte dell’attuale classe dirigente italiana s’è formata in quel fatidico decennio. Ed è logico che torni volentieri con la memoria a quel periodo. E ci torna volentieri anche quando ne prende le distanze. È sempre bello parlare, nel bene e nel male, della propria giovinezza… Un po’ meno logico appare il fatto che il fenomeno interessi anche tanti ventenni e trentenni di oggi. Per costoro gli anni Settanta dovrebbero essere storia. Storia recente, d’accordo. Ma pur sempre un’esperienza consegnata al passato, estranea al loro vissuto e alla loro memoria. Eppure, nelle frange più politicizzate del mondo giovanile capita spesso di ascoltare slogan o di osservare comportamenti che sembrano voler scimmiottare quelli di trenta, trentacinque anni fa. Ed è una circostanza che lascia perplessi. Intendiamoci, non c’è nulla di male nel fatto che un ragazzo di oggi vada in giro con una t-shirt con l’effige di Che Guevara. Però viene da chiedersi: a cosa gli “serve” il Che? Cosa c’entra con la sua vita, con le sue speranze, con i suoi progetti l’icona di un uomo che voleva esportare la rivoluzione cubana in tutto il mondo? La risposta che si Oggi, gli ideali di giustizia sente spesso in giro è questa: «Per forza che inneggiano al Che, visto che oggi viviamo in e cambiamento una società senza ideali». È un luogo conon hanno bisogno mune, fuorviante. Perché se c’è una società di ideologie totalizzanti che sogna il nuovo e che inneggia ai diritti e ai valori, questa società è proprio la società odierna. Ci sono anche tanto cinismo, tanto egoismo, tanta indifferenza? Se è per questo, negli anni Settanta c’era anche di peggio: le idealità e le pulsioni creative convivevano con intolleranza e conformismo. Che cosa è mutato in definitiva rispetto ad allora? Il fatto che la voglia di cambiamento, gli ideali di giustizia, il desiderio di libertà non si aggregano più intorno a utopie ambiziose e a ideologie totalizzanti. Non c’è più bisogno di sognare il mondo nuovo. Perché il mondo nuovo è arrivato. Non sempre appare un mondo bello. Anzi, in questi mesi del 2008, mesi di crisi finanziarie globali, di superpetrolio, di caro-cereali è un mondo che desta non poche preoccupazioni. Però, insieme a tante incognite, si presentano anche tante possibilità. La sfida odierna è quella di guidare il cambiamento verso nuovi traguardi sociali. Non è un compito semplice. Ma è il compito che spetta alla politica odierna. Allora, che cosa altro può spingere i quarantenni e cinquantenni di oggi a parlare con tanta frequenza dei loro ideali (e dei loro errori) di gioventù? Che cosa altro può spingere i ventenni e i trentenni a rievocare in forma mitica un passato che non hanno vissuto? Penso che tutto dipenda dalla “paura”


della libertà. La libertà fa “paura” perché è impegnativa. L’uomo libero non si nasconde dietro uno slogan. Non giustifica la sua pigrizia mentale aderendo a un’utopia collettiva. Non annulla il suo buon senso nel “senso” della Storia. Non maschera le sue frustrazioni in un’ideologia totalizzante. L’uomo libero è certamente più solo dell’uomo intruppato nei famosi “movimenti di massa” di trent’anni fa. È probabile che nella società italiana di oggi agiscano ancora sacche di resistenza alla cultura della L’uomo libero libertà. Sacche che non si esprimono più in non si nasconde dietro forme violente (se non in gruppi fortunatauno slogan, non aderisce mente minoritari), quanto piuttosto in una a un’utopia collettiva opposizione, più o meno silenziosa, più o meno rumorosa, al cambiamento. La forma più rumorosa la vediamo più frequentemente all’opera nella ricorrente tentazione alla delegittimazione dell’avversario politico, nella violenza verbale che ancora tracima sui media, nella frequente ricaduta nella semplificazione ideologica. Sono tutti fenomeni che ci riportano all’istinto gregario che sosteneva i gruppi estremisti degli anni Settanta. Analizzare le cause di questo fenomeno ci porterebbe molto lontano. Si può solo accennare velocemente alle delusioni per le riforme che non sono state realizzate negli anni passati, alle nuove inquietudini suscitate dal mondo globale, a patologie profonde e storiche presenti nella società italiana, dove la cultura della libertà ha faticato più che altrove per affermarsi. L’insieme di tutti questi fattori può spiegare, se non del tutto, almeno in buona parte la sopravvivenza della nostalgia per l’utopia. Il rischio è quello dell’immobilismo o, peggio ancora, dell’affermazione di un nuovo radicalismo, che si potrebbe nutrire di elementi eterogenei: dai riflessi pavloviani ereditati dal XX secolo alle ansie scaturite nel XXI. Tali preoccupanti possibilità non si scongiurano con le belle parole o le prediche altisonanti. Occorre che la politica sappia coinvolgere la società italiana verso nuovi, ambiziosi obiettivi. Il mondo nuovo si deve poter manifestare in tutte le sue potenzialità. Gli italiani devono tornare a percepire il senso del cambiamento e recuperare la dimensione del futuro. Al dunque, la frequenza con cui si parla degli Il rischio è quello anni Settanta è probabilmente un segno di dell’immobilismo malessere. Il che va detto senza nulla togliere o, anche, di un nuovo alla necessità di analizzare quel passato per caradicalismo politico pire meglio il nostro presente. Ma questo è un altro discorso. E vale anche per altri periodi storici. Sempre rimanendo sul piano dell’analisi del passato, sarebbe opportuno allargare la prospettiva del decennio. Non concentrarsi solo sulla politica o sul costume, ma ricordare anche le grandi trasformazioni economiche e tecnologiche che andavano allora maturando. Negli anni Settanta è stato ad esempio inventato il microprocessore, la barretta di silicio che ha rivoluzionato la tecnologia dei computer cambiando profondamente la nostra vita. Gli ingegneri, si sa, sono figure assai meno romantiche dei rivoluzionari. Però, le rivoluzioni vere partono sempre da loro.

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Archiviamo la logica dell’appartenenza

L’idea perversa dei miei con i miei e i tuoi con i tuoi La violenza politica deriva dalla contrapposizione “militante” e “militarizzata”. Ma i Settanta non sono stati solo questo: furono anche fucina di buona musica, arte e sperimentazione DI LUCIANO LANNA

Dice: mai più anni Settanta. E viene da rispondere: e perché mai? «Dieci è noia, venti è moda, trenta è storia» ha annotato lo scrittore Tommaso Labranca per cercare di spiegare la naturale no-

stalgia dei quaranta-cinquantenni di oggi. Quella naturale spinta interiore che li porta a rivisitare luoghi e ambienti perduti, a rileggere libri, a sfogliare giornali e fumetti dell’epoca, a riascoltare la


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a miei uoi

pposizione “militante” o stati solo questo: arte e sperimentazione

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musica di quegli anni, a ricercare film di quel decennio, a rievocare con la mente certe trasmissioni televisive. Non per essere fissati ma come si fa, d’altra parte, ad archiviare facilmente quei dieci anni che davvero sconvolsero il mondo? Ce lo spiega attraverso una meticolosa ricognizione interdisciplinare di tutto il decennio uno studioso britannico, Howard Sounes, in un libro che si legge tutto d’un fiato malgrado la densità intellettuale e la quantità delle pagine: Anni Settanta. La musica, le idee, i miti (Laterza, pp. 534, euro 15). «Nell’arte e nella cultura – scrive – gli anni Settanta sono stati un periodo di classici contemporanei, per usare un’espressione dell’editoria. In effetti sono stati pubblicati molti libri straordinari che oggi vengono letti come classici. Gli anni Settanta sono anche il decennio di innumerevoli film eccezionali

e di alcuni dei migliori esempi mai visti di musica rock e di televisione. Si sono avuti risultati notevoli in pittura, in scultura, in architettura e nel design, che ancora oggi sono dei punti di riferimento fondamentali. Lo spirito di sperimentazione che era stato il tratto distintivo degli anni Sessanta è sicuramente continuato nei primi Settanta, e alla fine del decennio un mondo che stava cambiando, e che diventava sotto molti aspetti più duro, veniva rappresentato nell’arte in modo altrettanto affascinante. Insomma, gli anni Settanta – conclude Sounes – sono stati un decennio importante e significativo: sicuramente non un periodo da liquidare come uno stupido e leggero interludio tra i Beatles e gli anni Ottanta». Perché, d’altronde, non rivendicare l’importanza di tutta una serie di fenomeni e nomi: Andy Wahrol e Lou Reed,

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Stanley Kubrick e Francis Ford cer e Terence Hill e Arbore-BonCoppola, David Bowie, Bob Mar- compagni alla radio, Eureka e Liley e i Clash, Lo squalo, Quinto po- nus, De Gregori-Vendittitere, Il cacciatore, Snoopy, i Deep Battisti-Baglioni e Rino GaetaPurple e i Genesis, Amici miei, Il no, il Corriere dei Piccoli e Ciao padrino, Ultimo tango a Parigi, 2001, la nascita di Repubblica e Corvo rosso non avrai il mio scalpo, del Giornale di Montanelli, il Rollerball, La febbre del sabato sera, Viaggio di un poeta dei Dik Dik e i tutti che leggevano Siddharta, Figli delle stelle di Alan Sorrenti, i Seppellite il mio cuore a Wounded film poliziotteschi e quelli di Knee, Il gabbiano Jonathan Livin- kung fu, l’epopea delle radio libere e l’irruzione della prima tegston o Il Signore degli Anelli… Tutto questo per dire che non si levisione commerciale, le domepuò schematizzare un periodo niche a piedi dell’austerity e i mistorico, anche un solo decennio, niassegni… alla luce di una sola prospettiva Questione di punti di vista e di angoli prospettici, possibile la quale, insomma. Per cui nella vulgata pub- Erano gli anni il “mai più” va riblicistica più difvolto non tanto al fusa, corrisponde- del rogo di Primavalle decennio in senso rebbe a quella del- a Roma, della bomba lato, quanto a una le vicende del nostro paese filtrate alla questura di Milano, versione violenta dallo sguardo del- dell’omicidio Pasolini... ed etologica dello scontro politico. A le cronache politicizzate delle maggiori città italia- determinare negli anni ’70 l’imne. È tutta una questione di pun- maginario della politica in Italia ti di vista. Si potrebbe infatti c’è infatti la tragica cronaca che porre anche il caso della memoria scorre nei telegiornali: alla fine dello stesso decennio nei ricordi del ’69 è stata la strage di Piazza di un allora ragazzino o adole- Fontana, qualche giorno dopo scente che viveva in un qualsiasi l’anarchico Giuseppe Pinelli vola centro della provincia italiana. E giù da una finestra della questura per lui gli anni Settanta, magari, di Milano; nel ’70 Ugo Venturinon sarebbero altro che la disco ni, un operaio genovese, viene ucmusic e i cartoni animati giappo- ciso durante un comizio di Alminesi, i pantaloni a zampa d’ele- rante; nel ’72 è la volta di un alfante e le camicie a fiori, le scarpe tro missino, l’universitario salercon la zeppa e le salopette, le bor- nitano Carlo Falvella; nel ’72, se di tolfa e i borselli per signori, l’anno in cui le Brigate Rosse gli zainetti in stile militare e compiono il loro primo sequel’autostop di massa, i supereroi stro, muoiono Feltrinelli e il Marvel e i Cugini di Campagna, commissario Calabresi; e sempre gli eskimo e le clark, i loden e le nel ’72, a Pisa, durante scontri di espadrillas, i film con Bud Spen- piazza dopo un comizio del mis-


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sino Beppe Niccolai, muore col- le. Qualcuno si mette a sparare. E pito dalla polizia l’anarchico un ragazzo di destra – Mikis Franco Serantini; nel ’73, il 12 Mantakas, un universitario greco aprile, a causa del primo, immo- che aveva aderito al Fuan – ci lativato divieto di una manifesta- scia la pelle. Neanche due settizione missina a Milano, si verifi- mane dopo, viene aggredito a colcano pesanti scontri di piazza e pi di chiave inglese Sergio Raalcuni attivisti di destra fanno melli, uno studente di diciannove uso di bombe a mano, uccidendo anni aderente al Fronte della Giol’agente di polizia Salvatore Ma- ventù. Di lì a poco, sempre a Mirino. Quattro giorni dopo, nel lano, cade colpito a morte anche quartiere popolare romano di Pri- lo studente di sinistra Claudio mavalle, viene appiccato il fuoco Varalli. Sei mesi dopo, ancora in nell’abitazione del segretario del- un quartiere popolare romano, un la sezione del Msi, Mario Mattei: altro giovanissimo, Mario Zicnel rogo muoiono due dei suoi sei chieri, viene assassinato davanti alla sezione del figli, il ventiduenMsi. Alla fine del ne Virgilio e il pic- ...ma anche di Linus ’75 viene trovato colo Stefano, un ucciso il poeta e bambino di appena ed Eureka, della disco regista Pier Paolo dieci anni. Da quel music e dei cartoni Pasolini. Nelpunto in poi la cal’aprile del ’76 tena di violenza si giapponesi, di Bud viene freddato a amplifica sempre Spencer e Terence Hill Milano il consipiù. Sempre nel ’73, una granata provoca quattro gliere provinciale missino Enrico morti alla questura di Milano. E Pedenovi. E il 28 maggio a Sezze, altre due stragi segnano l’anno in provincia di Latina, uno stusuccessivo: il 28 maggio a piazza dente comunista, Luigi De Rosa, della Loggia a Brescia, il 4 agosto cade ucciso in seguito alla sparasul treno Italicus all’altezza di toria seguita a un comizio conteSan Benedetto Val di Sambro. A stato del missino Sandro SaccucPadova, il 17 giugno, vengono ci. Il 10 luglio un commando di assassinati nella sede del Msi terroristi neri uccide a Roma il Giuseppe Mazzola e Graziano Gi- sostituto procuratore Vittorio ralucci, mentre nelle principali Occorsio. Nel 1977, l’11 marzo, città italiane si moltiplicano le a Bologna, Pier Francesco Lo aggressioni nelle sezioni, nelle Russo, uno studente di Lotta scuole, nelle università, in fabbri- Continua, viene ucciso dalla polica. Si diffonde la sensazione di zia nel corso di una manifestaziouna sorta di nuova guerra civile. ne. A maggio, questa volta a RoIl culmine della violenza di piaz- ma nel corso di una manifestazioza arriva il 28 febbraio ’75, du- ne organizzata dai radicali nei rante la celebrazione a Roma del pressi di Trastevere, la polizia va processo per il rogo di Primaval- alla carica e resta uccisa una stu-

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dentessa, Giorgiana Masi. Il pri- stra che stava avviando il fenomemo luglio il nappista Antonio Lo no dello spontaneismo armato. Il Muscio viene ucciso dai carabi- 16 marzo c’è la strage di via Fani: nieri. È l’anno in cui le Br lancia- il rapimento del presidente della no l’offensiva contro i giornalisti Dc Aldo Moro e l’uccisione degli – vengono feriti Vittorio Bruno, uomini della sua scorta. E il 9 Emilio Rossi e Indro Montanelli maggio, dopo un sequestro lungo – che si concluderà a novembre e travagliato, viene ritrovato il con l’uccisione del vicedirettore corpo dello statista democristiadel quotidiano torinese La Stam- no. Il 10 gennaio dell’anno sucpa, Carlo Casalegno. Il 30 set- cessivo, nel corso di una manifetembre lo studente Walter Rossi, stazione per ricordare i tre ragazzi aderente a Lotta continua, rimane di Acca Larenzia, muore Alberto ucciso a Roma nel corso di un as- Giaquinto, ucciso da un poliziotsalto alla sezione Msi della Bal- to in borghese. Il giorno dopo, duina. A Torino un ragazzo, Ro- sempre a Roma, viene assassinato anche Stefano Cecberto Crescenzio, muore invece per C’era un clima di morte, chetti, un ragazzo non politicizzato, le gravi ustioni riportate dopo l’in- intimidazioni e minacce, colpevole solo di frequentare un bar cendio del bar An- di paura e tensione considerato “ritrogelo Azzurro, apvo di fasci”. Il 24 piccato da estre- e di abusi nella pratica gennaio le Br uccimisti di sinistra dei servizi d’ordine dono Guido Rossa, per vendicare Walter Rossi. E a dicembre viene delegato sindacale dell’Italsider freddato, sempre nella capitale, di Genova che aveva denunciato ancora un militante di destra: la penetrazione brigatista in fabAngelo Pistolesi. Nel 1978, il 7 brica. E il 16 giugno è la volta gennaio, davanti alla sezione mis- del giovane militante missino sina romana di Acca Larenzia, Francesco Cecchin, colpito da vengono massacrati a colpi di mi- estremisti di sinistra nel quartietraglietta due ragazzi di destra: re Trieste-Salario. Gli anni SetFranco Bigonzetti e Francesco tanta si stavano quasi chiudendo Ciavatta. Non erano estremisti, e il bilancio era davvero tragico. ma semplici militanti del Fronte A queste e altre vittime, va agdella gioventù che uscivano per giunto un clima di intimidazioni attaccare manifesti. E poco dopo, quasi quotidiane, di agguati e sullo stesso posto, un capitano dei minacce, di tensione e paura difcarabinieri spara ad altezza d’uo- fuse, di criminalizzazione delle mo e uccide un altro ragazzo: Ste- aree radicali, di legislazione fano Recchioni. Il 6 marzo Fran- dell’emergenza, di estensione e co Anselmi viene ucciso a Roma abusi della pratica dei servizi dal proprietario di un’armeria as- d’ordine, di antifascismo fuori saltata da un gruppo dell’ultrade- tempo massimo e di reazioni im-


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IL LIBRO

Quel rogo simbolo di odio politico Arrivarono in tre, la notte del 16 aprile 1973, con una tanica di benzina. Giovani militanti di Potere operaio, con un obiettivo: un appartamento delle case popolari di Primavalle. Il rogo si portò via due fratelli, arsi vivi, e l’ultimo brandello di innocenza di quella generazione. Virgilio, ventidue anni, e Stefano, dieci, morirono perché figli di una famiglia “fascista”, da odiare, da colpire. Da uccidere. Il padre, imbianchino, era infatti anche segretario di sezione dell’Msi. L’autore di questo libro, aveva quattro anni e fu portato in salvo dalla madre. Trentacinque anni dopo, racconta con La notte brucia ancora (Sperling & Kupfer 2008) il doppio dolore dei sopravvissuti: quello silenzioso e quotidiano dell’assenza, quello sordo e impotente della giustizia negata. Un’inchiesta giudiziaria infinita e le rivelazioni a orologeria dei protagonisti

hanno permesso infatti di individuare i colpevoli, ma nessuno ha pagato. Oggi anche l’odio è andato in prescrizione, eppure le fiamme che incendiarono quella notte lontana non si sono ancora spente. L’autore non cerca soddisfazione in una sorta di regolazione dei conti o di vendetta postuma, ma tenta di chiudere la stagione dell’odio con la forza di una memoria privata finalmente condivisa, perché «quando un bambino brucia per effetto dell’odio ideologico, l’innocenza la perdono tutti, anche quelli che pensano di essere estranei al lutto». E tenta di rendere un’estrema giustizia a vittime innocenti, per le quali, nonostante l’individuazione dei colpevoli, nessuno ha mai pagato. Infatti quella notte, emblema degli anni di piombo densi di odio, fanatismo e violenza, rimane anche simbolo dei meccanismi opachi e inspiegabili della giustizia italiana. E, come dichiarato dal segretario del Pd Walter Veltroni, con il presidente della Camera Gianfranco Fini alla presentazione del libro il 19 maggio scorso, «la cosa che fa più impressione è capire la grande manipolazione intorno a quelle morti da parte di politici, giornalisti e magistrati» ed è importante che, sulle tracce della verità e della giustizia, sia finalmente giunto il momento in cui iniziano a parlare le vittime, e non più solo i carnefici, perché, come affermato da Fini, «un reato può andare in prescrizione, ma l’esigenza di giustizia no». E nemmeno il dolore, che il più giovane dei Mattei superstiti racconta con il rogo «in cui vennero carbonizzati anche i sogni di una generazione, a destra e a sinistra» e con le braci di quella notte che brucia ancora, e che adesso è arrivato il momento di spegnere.

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paurite da maggioranze silenziose, di fobie per minacce golpiste, da una parte, e di allarmi per il rischio comunista, dall’altra. In una parola: di militarizzazione della politica, un processo di cui la stessa violenza è stata in qualche modo una conseguenza. Di quegli anni ha scritto Walter Veltroni: «I terribili Settanta li rivedo oggi come anni di grande confusione, di speranze trasformate in certezze, di certezze ridotte a speranze. E sul finire diventano una cappa di piombo, una stanza fredda, violenta e serrata come quella dell’angelo sterminatore di Bunuel…». Ecco, per tornare alla sollecitazione iniziale, la questione allora non è 8 forse “mai più anni Settanta”, quanto “mai più militarizzazione della politica”. Hanno fatto bene recentemente Walter Veltroni e Gianfranco Fini a ribadirlo insieme in occasione della presentazione del libro sulla strage di Primavalle. E l’attuale presidente della Camera ha fatto bene anche a fare autocritica nei riguardi di una destra che, ha spiegato, in quel clima di follia arrivava persino a giustificare il golpe in Cile col pretesto che contrastava la Serve una matura minaccia comuciviltà del confronto nista. Uscire che porti la politica alla normale dialettica dalla militarizzazione delle parole e della politica equivale, in fondo, ad avere il coraggio – come diceva Beppe Niccolai – di riuscire anche «a farsi del male», se necessario. Equivale a sancire, definitivamente, una matura ci-

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In alto, Berlinguer e Benigni In basso, Bud Spencer e Terence Hill

viltà del dialogo e del confronto in cui – come ha ricordato Veltroni nella sua relazione all’assemblea nazionale del Pd – non c’è più spazio per la demonizzazione di nessuno, ma la politica si delinea come una partita dialettica tra «competitori» e non più tra nemici come neanche tra avversari. “Mai più militarizzazione” della politica non significa altro che fine della vecchia logica “i miei con i miei e i tuoi con i tuoi”. Una logica che – come racconta lo scrittore Antonio Pennacchi – in Italia venne simbolicamente inaugurata proprio alla vigilia dei ’70, con l’irruzione


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In alto, una Fiat 127 In basso, Bob Marley

missina all’università di Roma del 16 marzo ’68, quando un gruppo di attivisti guidati da Giorgio Almirante, Giulio Caradonna e Luigi Turchi entrò alla Sapienza con il pretesto elettorale di “liberare dai rossi” l’ateneo. Quel blitz – motivato dal tentativo di piccolo cabotaggio di cavalcare elettoralmente il consenso dell’opinione pubblica conservatrice, percepita dai parlamentari missini come spaventata dalle occupazioni dell’università – fu un vero e proprio spartiacque che chiuse, almeno fino agli anni Ottanta, qualsiasi possibilità di introdurre in Italia un nuovo clima

politico. Lo ha spiegato a chiare lettere uno dei leader dell’allora movimento studentesco, Franco Piperno: «L’assalto del 16 marzo provocò la scomparsa dei giovani di destra dai nostri cortei e dalle nostre assemblee, mentre fi- Antifascismo militante no a quel mo- e difesa delle dittature: m e n t o l o r o anomalie di un modo c’erano stati. di intendere la politica Ed era una cosa che io ritenevo molto buona, perché per me quello che stava accadendo nel ’68 aveva anche il significato di rimescolare tutte le vecchie suddivisioni utili solo all’immobilismo del mondo politico italiano. Da quel momento, insomma, l’antifascismo tornò a 9 essere una discriminante, con un effetto di ritardo della società italiana e con le conseguenze che tutti conosciamo…». Antifascismo militante da una parte, assurdità come quelle di difendere le dittature militari dall’altra… Conseguenze tragiche che definirono la logica aberrante e militarizzata di un certo modo di intendere la politica negli anni Settanta. Insomma, proprio da quel blitz che avvelenava il ’68 e ne spegneva la carica di rinnovamento come la ricerca di nuove sintesi si definiva in Italia il presupposto mentale degli anni di piombo: i miei con i miei, i tuoi con i tuoi. «È lì quel giorno – fa dire al suo Accio Benassi, lo scrittore Antonio Pennacchi del romanzo autobiografico Il fasciocomunista – che si è rotto il fronte generazionale: muro contro muro, i miei con i miei e i tuoi con i


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10 Gli “angeli del fango”

tuoi. È lì che sono nati gli anni di piombo, coi fessi sulle strade. Luigi De Rosa a Sezze, Ugo Venturini a Genova, quelli di Acca Larenzia, Antonio Lo Muscio e tutti gli altri, d’una parte e dell’altra, hanno cominciato a morire quel giorno…». E adesso che sono passati quarant’anni e tanta acqua è passata sotto i ponti, sino al punto che Fini e Veltroni possono fare autocritica pubblica degli errori compiuti, allora e dopo, da una destra e una sinistra che per troppi anni erano rimaste ferme alla logica de “i miei con i miei, i tuoi con i tuoi”, stupisce vedere che in qualche scuola, in qualche università, in alcuni spezzoni radicali dell’estrema destra e dell’estrema sinistra ci sia ancora chi ragioni con quella logica del tutto

impolitica. C’è infatti chi coltiva il culto di un antifascismo privo di contesto storico, come c’è chi concepisce l’impegno politico con la possibilità di un’affermazione identitaria in quanto tale, con la soddisfazione muscolare di riuscire a organizzare un convegno in territori proibiti, a star lì “con i miei”, nonostante la volontà contraria degli altri… «Il rischio che stiamo correndo – ha, ad esempio, scritto Francesco Merlo – è che l’università diventi il luogo delle scorribande di masnadieri che si esibiscono su cose che non conoscono (il fascismo, le foibe, la Repubblica sociale, la Resistenza, il comunismo), fascisti e antifascisti che si scontrano non più come i ragazzi ubriachi di politica degli anni di piombo, ma come ragazzi ubriachi che


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fanno politica, con nel mezzo i presidi assediati, come è accaduto alla Sapienza di Roma al professore Guido Pescosolido». È un’analisi sottile, quella di Merlo, che sottolinea anche il risvolto politico che può nascondersi dietro le tensioni che in molte scuole e università rischiano di mobilitare ragazzi inconsapevoli, spesso solo alla ricerca di un’affermazione di tipo identitario, di un riconoscimento di stampo etologico: «Nelle università degli anni Settanta – annota il giornalista – facevamo le manifestazioni contro il fascismo ma il vero nemico, il bersaglio nascosto, era il partito comunista di governo. Allo stesso modo oggi i movimenti dell’estrema destra manifestano contro i silenzi politici sulle foibe slavo-comuniste ma i veri nemici, i bersagli nascosti, sono il presidente della Camera Gianfranco Fini e il sindaco di Roma Gianni Alemanno». L’obiettivo, inconfessato e forse inconsapevole per gli stessi che rilanciano il clima da contrapposizione forte, potrebbe essere – suggerisce Merlo – quello di mettere in discussione l’attuale fase di superamento delle vecchie suddivisioni utili solo all’immobilismo del mondo politico italiano, un processo comunque in corso e che sarebbe analogo a quello che Piperno individuava nel primo ’68. Per fortuna, comunque, tranne queste frange residuali alimentate dalla mancata presenza in Parlamento delle rappresentanze estreme, il clima generale indica l’assenza nel paese di qualsiasi

nostalgia di un ritorno alle logiche degli anni Settanta. È totale, per dirne una, l’accettazione dei nuovi equilibri politici da parte di quel ceto medio creativo-intellettuale che, sino a poco tempo fa, era la prova più visibile del generalizzato stato d’animo di guerra civile morbida che perdurava nella società e nell’immaginario profondo dell’Italia. Ricordate, solo quattordici anni fa, chi parlava di nuovi barbari, chi minacciava di voler fare le valigie e andare all’estero, chi disprezzava i nuovi arrivati considerandoli come “impresentabili”? La logica era sempre quella: i miei con i miei, i tuoi con i tuoi, e i miei sono i migliori. Il cliché era sempre lo stesso, modulato sul disprezzo per l’Italia alle vongole espresso negli anni Cinquanta dagli azionisti e sul paragone formulato da Benedetto Croce negli anni Venti tra i vincitori di allora e l’invasione dell’antico Egitto da parte degli hyksos. È un fatto, invece, che a quarant’anni dal ’68 il ceto intellettuale ha definitivamente mandato in archivio i riflessi condizionati di derivazione azionista e crociana. «Non temo l’arrivo dei barbari», ha ad esempio dichiarato a Repubblica il cantautore Francesco De Gregori. «Non possiamo pensare – ha aggiunto – che ci governino sempre quelli che ci sono simpatici... Mi piace l’idea del dialogo sulle riforme. Spero nella condivisione... Non ho mai amato l’antiberlusconismo “a prescindere” della sinistra, un atteggiamento che chiudeva così la porta a qual-

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siasi altra analisi». E bocciando questa pregiudiziale, frutto di una visione della politica basata sulla demonizzazione dell’avversario, il cantautore romano aggiunge di ritenere del resto superate le stesse categorie di destra e sinistra – «è una contrapposizione ormai vecchia» – e invita a guardare alle emergenze reali: «Siamo un paese triste, arretrato e incattivito che ha bisogno di essere modernizzato in fretta. Dandosi allegria, rigore, giustizia sociale...». Un invito, appunto, al dialogo fondato sulle premesse di un’Italia normale in cui le parti che si contendono il governo condividono comunque una cultura e un immaginario comuni: «Ho apprezzato il discorso di Berlusconi per il 25 aprile e il discorso di Fini il giorno dell’insediamento alla Camera». E, per finire, l’archiviazione della vecchia logica dell’appartenenza totalizzante, quella della massima “i miei con i miei, i tuoi con i tuoi”: «Un tempo ero manicheo: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Oggi non vedo queste due Italie così contrapposte. Mi piace pensare a un unico paese che, insieme, può trovare un modo migliore per migliorare le cose… Sono di sinistra, ma non appartengo alla sinistra. Voglio avere la libertà di poter verificare sempre le mie scelte e quelle degli altri». Uno scenario analogo è stato delineato anche dalla regista Liliana Cavani, da sempre collocatasi a sinistra. Che però parla esplicitamente del “dovere” di lavorare a rafforzare l’attuale consapevolezza di un tessuto comune. E per cerca-

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re un precedente recupera un esempio risalente all’Italia che non aveva ancora imboccato la deriva conflittuale degli anni ’70. Nel novembre ’66, infatti, quando a Firenze ci fu l’alluvione da tutta Italia per i soccorsi arrivarono spontaneamente a migliaia e migliaia, gli universitari, i primi beats, i freaks e tanti altri dimostrarono di potersi sostituire all’inerzia dei pubblici poteri: grande fu il loro contributo, sia nell’aiuto alla cittadinanza, sia nel salvataggio di libri e di opere d’arte. Fu l’epopea dei cosiddetti “angeli del fango”, una vera prova del nove della possibilità di dialogo generazionale tra giovani. E c’erano – come ha ricordato la cineasta – proprio tutti, arrivati a Firenze in pullman o in autostop: beat e “fascisti”, goliardi e capelloni, cattolici del dissenso e laici libertari, iscritti al Pci o alla Giovane Italia... Non c’erano “miei” o “tuoi”. «Partirono tutti, senza distintivi», dice la Cavani: «Di fronte all’emergenza si va tutti insieme...». La metafora e il precedente sono efficaci. Stiamo ricominciando da lì oltre quarant’anni dopo?

L’Autore LUCIANO LANNA Giornalista e scrittore, direttore responsabile del Secolo d’Italia. È stato caporedattore del bimestrale Ideazione e vicedirettore del quotidiano L’Indipendente. Ha collaborato come autore con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Autore insieme con Filippo Rossi di Fascisti immaginari.


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Contro il vuoto delle ideologie

Ho un nemico, QUINDI SONO L’identità e la coesione del gruppo si definiva con l’alterità assoluta di una cultura e un’azione sentite come antagoniste DI FIORELLO CORTIANA 13

Spesso ripensando alle scelte e alle azioni compiute in gioventù si usa una misura di indulgenza che rivela non tanto la sindrome da reduci, quanto la nostalgia dell’età. Prendere in considerazione un periodo cruciale come gli anni ’70, da parte di chi li ha attraversati, ha una utilità e un’attualità politica a condizione di metterne in gioco gli aspetti esistenziali, culturali, antropologici e relazionali. Con questo sguardo, dopo una lunghissima adolescenza politica, è possibile che una parte significativa dell’attuale “mondo adulto” si disponga a riconoscere e a considerare le inquietudini e i conflitti sociali e generazionali, che potrebbero emergere, oggi, come un potenziale contributo al processo democratico e non come


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una devianza, soggetta a un ordi- inurbamento a un tempo come disponibilità di un impiego e cone pubblico e terapeutico. Riflettere oggi sugli anni ’70, me restrizione degli spazi aperti quindi, richiede di andare oltre il delle campagne e dei paesi da cui succedersi stragista della “strate- provenivano. gia della tensione” e la deviazione Anche questi aspetti erano predei Servizi lungo la cortina di fer- senti nell’incontro tra studenti e ro che segnava le divisioni del- operai, avvenuto sì davanti alle l’Europa stabilite dalla Seconda fabbriche ma anche nelle attività Guerra mondiale e mantenute sociali nei quartieri, dall’occupaper decenni dall’equilibrio del zione delle case, alla creazione di centri sociali e di scuole popolari terrore atomico. La scuola di massa e la definizio- piuttosto che ai concerti rock. ne dello Stato sociale avevano L’evidenza di una questione soconsentito alle generazioni del ciale aperta, si pensi allo Statuto dopoguerra di non pensare, a ini- dei lavoratori approvato solo nel 1970, caratterizzaziare dalla minore età, a vivere per Il sistema istituzionale, va i conflitti sociali essenzialmente colavorare. Al di là della mo- allora, non riconosceva me conflitti redibilitazione contro i giovani come un’entità stributivi, mentre Yalta privava una la guerra nel Vietgiovane Repubblinam come lotta politica e sociale ca della possibilità contro la “guerra di cui tenere conto dell’alternanza, coimperialista” degli States, il grande movimento sì le classi dirigenti e le loro culgenerazionale che ha attraversato ture politiche vivevano all’interl’occidente voleva abbassare e al- no di un dopoguerra irrisolto. largare la soglia di ingresso nella Gli attori principali del sistema società del benessere diffuso e dei politico/istituzionale repubblicano non riconoscevano e non consinuovi consumi. Le modificazioni nei costumi e deravano i giovani come una realtà nei consumi, a partire dalla dispo- sociale ormai pienamente presente nibilità di tempo libero dal lavo- al di là del solo servizio militare. ro, lo sviluppo creativo diffuso at- Così non riconoscevano e non contraverso l’uso di diversi linguaggi sideravano il movimento studenespressivi, la musica su tutti, ave- tesco e le inquietudini giovanili vano ampliato a dismisura la sfera per la loro soggettività politica, del consumo culturale prima ri- altrettanto facevano i protagonisti dei movimenti nei confronti della servata ad una élite sociale. Quest’aria nuova interessava an- democrazia e delle sue istituzioni. che altri giovani, operai che di Una straordinaria disponibilità altempo libero dal lavoro ne aveva- la partecipazione, ben testimoniano ben poco e avevano conosciuto ta dai giovani “angeli del fango” il processo di immigrazione e arrivati a Firenze dopo l’alluvione


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del 1966, venne così dissipata con una entropia sociale che produsse presto una schizofrenia politica. Eppure l’emergere di una soggettività generazionale costituiva il migliore riconoscimento agli sforzi dei costituenti per la costruzione di uno stato sociale a fianco del boom economico. Aldo Moro, quasi unico, vide nel protagonismo studentesco uno dei segni profondi del cambiamento sociale e parlò allora di “tempi nuovi” invitando la politica e i suoi protagonisti a capire le ansie dei giovani e la loro domanda di giustizia, di libertà e di nuovi valori.

In questo contesto due limitazioni - legate tra loro - hanno contribuito alla riduzione di tanto protagonismo sociale e generazionale a una questione di ordine pubblico e terapeutico con la tossicodipendenza diffusa. La prima è legata alla condizione bloccata della democrazia italiana che insieme alla “costrizione a governare” della Dc e dei suoi alleati vedeva le forze politiche non abilitate a farlo non come opzione possibile da verificare attraverso l’alternanza elettorale, bensì come un’alternativa assoluta ai limiti e alle difficoltà dei governi possibili e proprio per questo impedita.


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In questo sistema bloccato, le trettanto facevano i protagonisti nuove generazioni politiche dopo dei movimenti nei confronti della il ’68 cercarono, quindi, di rivita- democrazia e delle sue istituzioni. lizzare le ideologie che trovavano Prendeva così corpo una schizoin campo. Così invece di mettere frenia sociale con un effetto di enin discussione il significato e il tropia politica. La condizione exsenso dei sostantivi ci si affidava traistituzionale come condizione al maquillage prodotto dagli ag- equivalente alla pratica di illegagettivi con una impossibile risi- lità sociale dentro una definizione gnificazione dei sostantivi “sini- identitaria di alterità assoluta ha stra rivoluzionaria/destra rivolu- prodotto una spirale etica ed estezionaria”, “nuova destra/nuova si- tica della violenza, continuamennistra”, nonostante l’esperienza te alimentata non dalla cultura nazifascista, nonostante l’espe- del martirio ma dalla celebraziorienza sovietica evidenziata dai ne e dalla memoria dei martiri. carri armati a Budapest e dalla fi- Rapidamente organizzarsi per difendersi si è tramugura di Imre Nagy tato in una organel 1956 e ancora C’è stata una “meglio nizzazione prevennel ’68 con i carri armati a schiaccia- gioventù” che con tatto tiva delle azioni violente di difesa, re la primavera di ha bussato alla porta, rapidamente l’orDubcek Praga, ganizzazione di teatro del grido ma invano. Nessuno questa violenza disperato di una le ha aperto l’uscio “difensiva” è diidentità nazionale attraverso il suicidio di Ian ventata una pratica cui dedicarsi con continuità impegnando temPalach. La seconda limitazione ha conno- po ad affinare le pratiche e a pretato politicamente ed esistenzial- parare e custodire gli strumenti mente i gruppi organizzati impe- necessari. Rapidamente la relagnati nei tentativi di risignifica- zione sociale con i quartieri è dizione delle ideologie forti che ventata un controllo ostentato del avevano occupato il campo politi- territorio con luoghi e locali dico del Novecento. La definizione venuti presìdi. dell’identità e della coesione di Non c’è da stupirsi se alcune migruppo avvenivano attraverso gliaia di persone, da entrambe le un’alterità assoluta di una cultura parti, per coerenza tra i propositi e di una pratica antagoniste: «Ho e gli slogan rivoluzionari con le pratiche concrete, hanno scelto la un nemico quindi sono». Così come gli attori principali e lotta armata come pratica politica ufficiali del sistema politico-isti- terrorista, organizzata o spontatuzionale repubblicano non rico- nea che fosse. noscono e non considerano il mo- I terroristi non venivano da un alvimento giovanile studentesco tro mondo, c’era una schizofrenia per la sua soggettività politica, al- di massa con una vita parallela con


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una sua concezione della giustizia consapevole rottura/discussione e il suo esercizio della forza. Con il dei presupposti ideologici e antasuo uso parallelo dello spazio e del gonisti degli anni Settanta attratempo e la costruzione e l’esercizio verso i giorni di Bologna nel ’77. di altre ritualità e altre liturgie in Viene descritto l’assalto a un’armeria durante una manifestaziorottura con quelle esistenti. Se oggi devo spiegare a mio figlio ne, ma tutte le armi sottratte adolescente la logica di quelle vengono appese ai portici antiattraverso una scelte, di quelle modalità di vive- s t a n t i re gli spazi e impiegare il tempo, ostensione/rifiuto di quelli che devo anche partire dalle esperien- erano gli strumenti materiali con ze odierne dei “branchi” con le i quali si esercitava la pratica etiloro relazioni gerarchiche e quel ca o estetica della violenza. “dover essere” che porta ragazzi Strumenti che erano diventati veindividualmente tranquilli a ri e propri status symbol, a partire esercitare violente pratiche in dalle chiavi inglesi Hazet 36 e dai coltelli, per arrivagruppo per non esre alle pistole P38 sere emarginati o, E così cominciò e al loro richiamo peggio, considerati con le tre dita sologgetto di quelle a prendere corpo pratiche. una schizofrenia sociale levate. C’è stata una “meAnche questo c’era glio gioventù” che dentro a una spira- che aveva l’effetto con discrezione ha le di violenza che di un’entropia politica bussato alla porta impoveriva e mortificava coloro che erano al suo della società democratica e ci è interno. Anche questo spiega i entrata anche se nessuno è venuto repentini pentimenti negoziati ad aprir loro l’uscio. attraverso confessioni e chiamate Ma i terroristi non erano marziain correità anche strumentali a ni e la rapidità della loro deriva e fronte, al contrario, di processi l’efferatezza delle loro pratiche sofferti, travagliati e rischiosi, di non deve impedirci di rilevare dissociazione dalle esperienze di che l’esasperazione dei loro comviolenza organizzata che hanno portamenti dentro a situazioni interessato tanti altri “militanti estreme trovava simili modalità relazionali dentro a una intera gearmati”. Alla luce di questa deriva sociale nerazione. e politica, con il suo carico di vio- Il nostro Paese dopo la fine delle lenza e di lutti, è significativo che grandi narrazioni ideologiche del centinaia di migliaia di giovani, ’900, ha conosciuto la disposizioche pure vivevano a pieno in un ne personale a una politica di remondo schizoide e parallelo, ab- sponsabilità, o meno, come opbiano deliberatamente scelto di zione dipendente dalla convenon percorrerla. Nel film Lavora- nienza della propria collocazione re stanca Guido Chiesa descrive la in quel momento.

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In mancanza di inclusione e di responsabilizzazione il protagonismo di quegli anni si è connotato per narcisismo e scelte strumentali “un tanto al chilo”. La risposta a un disadattamento sociale e politico è stata spesso l’adattamento più strumentale nel quale impegnare la propria intelligenza e il proprio talento, rendendo così vane e vacue le idealità e le inquietudini che pure avevano scosso e stimolato un intero continente. Questo fallimento esistenziale di una generazione è una delle spiegazioni dell’omogeneizzazione al ribasso della qualità della classe politica e del “mondo adulto” più in generale. Una condizione solo esaltata dall’attuale legge elettorale. Proprio la derubricazione a fattore estensivo del mercato dei consumi dei movimenti giovanili degli anni ’70 e delle loro inquietudini sociali, ha prodotto una condizione di eterna adolescenza deresponsabilizzata, alla ricerca di scorciatoie e supporti invece di percorrere l’esperienza di vivere per intero con consapevolezza. Sia stata l’eroina per fuggire, la cocaina per strafare, il doping per la prestazione sportiva, il viagra per quella sessuale o il lifting per quella estetica. È come se l’impossibilità di divenire soggetti esercitanti responsabilità si fosse involuta nel rifiuto di costituire il mondo adulto nel proprio paese e nelle proprie famiglie. Insieme alla disponibilità e alla curiosità verso “l’altro da sé”,

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quindi all’ascolto, alla comprensione e al dialogo, dentro una reciprocità ben descritta dal cardinal Martini con la definizione “Ogni uomo è mio fratello”, l’altro elemento da considerare affinché non si ripetano le derive degli anni ’70 è la costruzione di processi sociali, politici e normativi aperti e inclusivi. Questi due elementi dovrebbero costituire la comune preoccupazione della nostra comunità sociale e politica, il resto rischia di essere solo esorcismo o retorica, mentre le tragedie si possono ripetere, caricaturali o meno, con il loro portato di dolore, lutti e spreco di energie per l’innovazione culturale, sociale e politica. «Un processo di definizione di una memoria condivisa, capace di coinvolgere tutti coloro che hanno vissuto le premesse o l’intera deriva degli anni ’70, accompagnato dalle possibili indulgenze giudiziarie, sarebbe di grande aiuto non solo nell’elaborazione di quel periodo, ma come memoria viva e monito utile alle nuove generazioni».

L’Autore FIORELLO CORTINA Militante di Lotta Continua negli anni ’70, è stato uno dei protagonisti del ’77 a Milano, nei Collettivi giovanili. Senatore nel 1996 e nel 2001, oggi è membro del Comitato sulla governance di Internet del ministero dell’Innovazione e componente della delegazione italiana all’Internet Governance Forum dell’Onu.

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A margine dell’ultimo libro di Franzinelli

Quel vizio antico della storiografia MILITANTE DI GIANNI SCIPIONE ROSSI

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ncora oggi alcuni saggi che hanno la pretesa di essere scientifici, sono realizzati come i manuali scritti dai collettivi operai e studenteschi degli anni Settanta. Certi autori non vanno oltre la storia a tesi – fatta di trame, di servizi segreti deviati, di manovalanza fascista – letta con le lenti tipiche della strategia della tensione


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L’ANALISI Gianni Scipione Rossi

Se un libro contiene un errore già nella prima pagina, forse converrebbe non leggerlo. Daniel Pennac ha ben codificato i diritti del lettore di non essere tale. Se però il lettore procede, perdonando l’imprecisione, e alla terza pagina trova un altro errore, è lecito dubitare - nell’ordine - della competenza dell’autore e della qualità della revisione editoriale. L’autore è Mimmo Franzinelli,

cultore di storia contemporanea, che ha pubblicato La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da Piazza Fontana a Piazza della Loggia (Rizzoli, 2008). Il primo errore riguarda Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio, che viene dato in libertà provvisoria, mentre è in regime di semilibertà. Non è differenza da poco, visto che ogni sera torna in carcere. Il secondo errore riguarda il generale Giovanni De Lorenzo, ex combattente della Guerra di Liberazione, del quale si dice che sia diventato parlamentare del Msi non appena cessato dalle funzioni. In realtà, fu prima deputato monarchico del Pdium. Non è finita. Franzinelli, a proposito delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, riporta un brano dell’interrogatorio del giudice Giancarlo Stiz a Pino Rauti, 6 marzo 1972. Rauti è stato arrestato. Poi sarà eletto deputato e scagionato. Rauti spiega come conobbe Giovanni Ventura, che gli si presentò “al giornale”. Franzinelli ignora che Rauti era, all’epoca, redattore del Tempo. È strano che lo ignori, dato che notoriamente proprio gli archivi del quotidiano romano consentirono all’indagato di dimostrare la propria estraneità ai fatti. Eppure, ignorandolo, sente il bisogno di precisare di quale giornale si tratti e, per riflesso condizionato, scrive Il Secolo d’Italia, quotidiano del Msi. Ma forse anche questa è una svista. Non è una svista, invece, scrivere: «È probabile che qualcuno degli

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attentati della primavera-estate un autore che «si propone di rividel 1969 derivi dalla sinergia fra sitare la storia dell’eversione neoagenti greci e neofascisti italia- fascista nell’epoca dello stragismo ni». Qual è la fonte? Non è una e della contiguità ai servizi segresvista scrivere: «La caccia cui so- ti» era lecito attendersi qualcosa no sottoposti da parte dei servizi di meglio di una sintesi dei masegreti induce gli affiliati all’Oas nuali di “controinformazione” in a cercare rifugio in Spagna e in stile anni Settanta, di quelli scritItalia, con le complicità franchi- ti e pubblicati, per intenderci, ste e di esponenti missini quali dai collettivi studenteschi e opeFilippo Anfuso e Giorgio Almi- rai. Quelli che si chiudevano con rante». Anche qui, qual è la fon- l’immancabile lista dei fascisti, te? Se Franzinelli ha trovato noti- poliziotti, carabinieri da sprangazie nuove, rispetto alle voci ali- re. Ci si poteva attendere, insommentate all’epoca da esponenti ma, qualcosa di diverso dalla stocomunisti e seccamente smentite ria a tesi. Una storia – com’è noto – fatta di trame da Anfuso e Mioscure, di servizi chelini, sarebbe Troppe sviste fanno segreti deviati, di interessante conomanovalanza fasciscerle. Non è una pensare che le accuse s v i s t a n e p p u r e non documentate siano sta e/o criminale. Una storia letta atscrivere: «In quetraverso la lente sto contesto si col- frutto di una volontà deformante della locano i finanzia- di mistificare i fatti strategia della tenmenti concessi alla federazione del Msi – di Bre- sione, che alle spalle doveva avere scia – da Casotti, Comini, Gnutti uno stratega molto approssimatie altri imprenditori della linea vo se gli anni Settanta si chiudodura». In questo caso, la fonte c’è. no nel segno – oltre che del terroPeccato non si tratti dell’ammis- rismo marxista – della solidarietà sione, sia pure a posteriori, di un nazionale e del compromesso stoimprenditore, o di un dirigente rico tra Dc e Pci. Se quella stratemissino, né di un testimone ter- gia puntava a rafforzare la collozo. Si tratta semplicemente di un cazione atlantica dell’Italia, imarticolo pubblicato nel marzo del pedendo l’ingresso dei comunisti 1973 dall’Altra Brescia, periodico nel governo, nasceva fallimentadella sinistra locale. Forse sarebbe re. E da una serie di episodi, per stato corretto chiarire che non di quanto tragici, in realtà non notizia si tratta, bensì della de- emerge alcuna linea nera, né spesscrizione di come la sinistra bre- sa né sottile. sciana dell’epoca percepiva i rap- Dalla sottile linea nera di Franzinelli emerge invece la persistenza porti tra imprenditori e Msi. Sulle sviste da sciatteria si può di una storiografia militante che anche sorridere, capitano ai mi- è uno dei lasciti intellettualmengliori. Sul resto un po’ meno. Da te peggiori degli anni Settanta.


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Per lui è evidente e provato che lo come confronto a mano armata «i ministri della Democrazia cri- tra opposti schieramenti sia sostiana (…) non possono o non vo- stanzialmente errata. Per estregliono individuare e rimuovere mizzare, tra le Brigate Rosse e i chi, ricoprendo ruoli istituziona- Nar c’era anche chi sempliceli, incoraggia l’eversione». Bontà mente si divertiva con La febbre sua, riconosce che – specularmen- del sabato sera. te – «manca alla dirigenza del Ma se restiamo alla storia politiPartito comunista la volontà di ca di quegli anni, e in particolare staccarsi dall’Unione Sovietica». alla storia della destra così com’è In questo scenario bipolare, «il sottesa nella rivisitazione di bandolo della matassa fa capo ai Franzinelli, non è irrilevante servizi segreti militari, registi oc- chiarire i termini della questioculti di trame eversive in un ne. Tanto più che si parla di stracomplesso rimando di condizio- gi e di stragisti, di omicidi e vionamenti e di reciproche infiltra- lenza diffusa, di rapporti equivoci con apparati dezioni con la deviati dello Stato. stra». Quella «tra Sono stati anche anni Ora, è evidente estremisti di destra, carabinieri e di cambiamenti culturali che settori della servizi segreti» è e sociali come l’aborto, destra radicale ed extraparlamentauna «alleanza conre, a metà degli f l i t t u a l e » . G l i il divorzio e l’avanzata anni Sessanta, sulestremisti sono del femminismo la scia dell’esem«perlopiù giovani animati da sentimenti nazionali- pio algerino e della elaborazione stici e militaristi: molti di loro del concetto di “soldato politico” si accorgeranno, magari in una (cfr. G. Peroncini, Il sillogismo prigione, di essere stati stru- imperfetto, Mursia, 2007), immamentalizzati dai carabinieri, dal ginarono di poter svolgere un ruolo nel contrasto del centrosiSid, dal Msi». Fermiamoci su quest’ultimo nistra, di conserva con ambienti punto. Perché gli anni Settanta delle Forze Armate e dei servizi, sono stati tante cose, non solo nel nome di uno “Stato forte” terrorismo, non solo violenza po- saldamente atlantico. Basti penlitica. Giovanni Moro (Anni Set- sare ai contributi teorici del contanta, Einaudi, 2007) ha messo vegno dell’Istituto Pollio (1965). opportunamente in evidenza co- È anche evidente che questo dime siano stati anche anni di cam- segno non era condiviso neppure biamenti civili, culturali e socia- da tutte le frange dell’estrema li. Il divorzio, la depenalizzazio- destra, alcune delle quali orienne dell’aborto, i diritti delle don- tate piuttosto verso La disintegrane, per esempio. Non c’è dubbio, zione del sistema (Ar, 1969), per tra l’altro che, come sempre acca- dirla con Giorgio Freda, in senso de, una lettura di quegli anni so- antiatlantico e terzaforsista. È

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anche evidente che nei primi anni Settanta si diffuse l’illusione di una scorciatoia militare, sull’onda emotiva dei colpi di Stato in Grecia e in Cile. Ma tutto ciò in che misura riguarda la destra politico-parlamentare? Nel 1969, l’anno della strage di Piazza Fontana, il Msi è a una svolta. La strategia “entrista” di Arturo Michelini era fallita nel 1960, con i fatti di Genova, proprio quando aveva toccato il suo apice con l’appoggio esterno al monocolore Tambroni. Nonostante la comune opposizione al centrosinistra, gli anni Sessanta sono caratterizzati dal definitivo no dei liberali di Malagodi al progetto della “grande destra”. Alle politiche del 1968 il Msi si presenta come partito d’ordine, ma ottiene un risultato deludente. L’anno successivo, alla morte di Michelini, la guida del Movimento sociale viene riassunta da Giorgio Almirante. Consapevole del rischio di crisi irreversibile cui va incontro il partito, tenta un rilancio archiviando la stagione del nostalgismo rituale, lanciando un messaggio di rinnovamento dottrinario, e tuttavia confermando nella sostanza la prospettiva micheliniana di fare del Msi una destra democraticoconservatrice, senza tuttavia rinunciare alle venature sociali e interclassiste: una sorta di gollismo in salsa italiana. Il movimentista Almirante tenta di inserirsi nella crisi del centrosinistra da un lato cavalcando le proteste popolari nel Centro Sud

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(Reggio Calabria, L’Aquila, Avola, Battipaglia), dall’altro ponendosi come unico credibile argine all’avanzata delle sinistre che, dopo l’autunno caldo sindacale e mentre è in corso il “Sessantotto” studentesco, determinava forti preoccupazioni nella piccola borghesia urbana e rurale. Il suo primo obiettivo è rompere l’isolamento politico del partito, il cui rapporto con i monarchici in via di estinzione era ormai insufficiente. Già nel 1970 tenta di aggregare singole personalità esterne lanciando il “Fronte articolato anticomunista”. Dopo il vistoso successo elettorale ottenuto nelle amministrative del 1971, la strategia comincia a dare i suoi frutti con l’aggregazione di elementi provenienti dalla destra democristiana, dal Pli, dal mondo della cultura. Su questa base Almirante presenta il partito alle elezioni politiche del maggio 1972 con la nuova denominazione Msi-Destra nazionale. L’esito elettorale fu numericamente molto rilevante (8,7% alla Camera, 9,2% al Senato), anche se inferiore alle aspettative. In realtà, la Democrazia cristiana, affidando nel febbraio a Giulio Andreotti la presidenza del Consiglio per un monocolore elettorale, riuscì – grazie a una efficace campagna contro gli “opposti estremismi” – a convincere l’elettorato moderato della sua volontà di chiudere l’esperienza del centrosinistra e di dar vita a una svolta conservatrice. Il successivo governo di coalizione centrista, con la partecipazione del Psdi e del Pli, Andreotti-


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Malagodi, costituisce un’apparente vittoria politica di Almirante ma in realtà mette in evidenza il permanente isolamento politico del Msi, pur nella versione rinnovata dal congresso del gennaio 1973, quando la Destra

nazionale da lista elettorale diventa parte integrante del nome del partito. Ai suoi vertici, confermato Almirante segretario, salgono come co-presidenti il leader monarchico Alfredo Covelli e l’ammiraglio Gino Birindelli (medaglia d’oro al valor militare ed ex comandante delle forze Nato del Sud Europa), e l’armatore Achille Lauro come presidente del Consiglio nazionale. La svolta centrista è di breve durata: già nel luglio del 1973, con il governo Rumor, si torna alla formula del centrosinistra organico. Ogni tentativo di Almirante di essere accettato come parte di una maggioranza parlamentare si infrange contro la strategia democristiana tendente al recupero dei voti “in libera uscita”. Questo accade nonostante Almirante abbia deciso di appoggiare la campagna per l’abrogazione della legge sul divorzio fortemente voluta dal segretario della Dc Amintore Fanfani, ma conclusasi nel ’74 con la sconfitta dell’eterogeneo fronte anti-divorzista. Contestualmente la destra missina paga il clima dei primi anni di piombo, un rinnovato clima di antifascismo militante alimentato sia dal Pci sia dalle forti formazioni della sinistra extraparlamentare. Ne deriva per la destra una scarsissima agibilità politica e una influenza parlamentare addirittura più scarsa di quella esercitata negli anni Sessanta, e che nel dicembre del ’71 aveva determinato l’elezione alla presidenza della Repubblica del democristiano Giovanni Leone.

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IL FILM

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Se la storia diventa tutta da ridere... Il deputato missino livornese Giuseppe Tritoni (interpretato da Ugo Tognazzi) è deluso dalla via parlamentare scelta dal suo partito e decide di passare all’azione. Pescando in vari ambienti (militari in pensione e in servizio, nostalgici di Mussolini e dei Savoia, cattolici tradizionalisti, giovani picchiatori), riesce a mettere in piedi una sorta di governo-ombra e un gruppo di azione che si addestra per “l'ora x” prevista dal piano Volpe Nera. È tutto pronto nei minimi particolari, persino il discorso da tenere in televisione il giorno successivo al golpe. Ma nel giorno fissato nulla va per il giusto verso: i paracadutisti falliscono l’obiettivo e il gruppo che doveva occupare la televisione, a causa di un guasto del camion, deve proseguire con dei taxi. Così il golpe fallisce senza che nessuno se ne accorga; ma il ministro democristiano dell’Interno, con l’appoggio delle alte gerarchie militari, attuerà attraverso leggi eccezionali una svolta autoritaria e repressiva.

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Almirante tenta di rompere l’accerchiamento con una nuova iniziativa di apertura, sulla scia di quelle già compiute, tra il ’70 e il ’72. Parallela al partito dà vita a una Costituente di Destra, alla quale partecipano personalità come l’ex deputato democristiano Agostino Greggi, l’ex prefetto partigiano di Asti Enzo Giacchero, il giornalista e regista cinematografico Gualtiero Jacopetti, ex ufficiale di collegamento dell’Esercito del Sud con le truppe alleate nel ’43/’45. Com’è noto, anche questa iniziativa non dà i risultati sperati e, anzi, aprirà la strada alla fallimentare scissione di Democrazia nazionale. Questo il contesto. Un contesto che vede la destra politico-parlamentare da un lato isolata all’opposizione, dall’altro pienamente integrata nel sistema democratico. Se l’estrema destra extraparlamentare ha una strategia – e il condizionale è d’obbligo – sicuramente non coincide con quella di Almirante. Stragi, violenza politica, attentati – che pure caratterizzano quegli anni – non fanno che accrescere le difficoltà della destra, creando un clima simile al primo biennio del dopoguerra. Il clima in cui Carlo Rossella può scrivere che il Msi «è l’immagine dell’illegalità», e che «la lotta antifascista deve essere continua, sino al totale isolamento del Msi, sino alla sua definitiva messa al bando, prima ancora che nell’ordinamento legislativo, nelle coscienze di quegli strati popolari che ancora credono alla fallacia del verbo nero di Almirante»


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L’ANALISI Gianni Scipione Rossi

(prefazione a Il nuovo fascismo, Fel- Borghese, per evitare che il partito ne venisse coinvolto». Così si trinelli, 1975). Definire gli anni Settanta come determinò il precipitoso controrgli anni di una guerra civile – sia dine del Comandante, avventurapure a bassa intensità – è una mi- tosi lungo una strada senza uscistificazione della realtà. Negli ta, peraltro con metodi farseschi. anni di piombo un vasto e artico- Non fu difficile ad Age e Scarpellato movimento armato di matri- li sceneggiare il film Vogliamo i ce marxista tentò di innescare la colonnelli! (1973) per la regia di guerra civile, colpendo lo Stato, Monicelli, con uno scatenato Tola “borghesia”, i “fascisti”. Ele- gnazzi. menti della destra extraparla- Quanto al resto, in fondo è lo mentare – a mo’ di comprimari – stesso Franzinelli a fornire strutentarono anch’essi velleitaria- menti per dimostrare – forse inmente di inserirsi in un auspicato volontariamente – quanto sia processo rivoluzionario. Ma un scorretto attribuire alla destra politica la pratica si“partito armato” di stematica della estrema destra non È scorretto sostenere violenza e della è mai esistito. I sovversione. «I cadue fenomeni – di che la destra politica pi della Giovane sinistra e di destra sia stata complice Italia – ricorda – quanto a dimenl’ex terrorista Kim sioni e strategia, del terrorismo nero, Borromeo – dicenon sono neppure anche solo col silenzio vano che quando paragonabili. Così, è storiograficamente scorretto la- venivamo attaccati dai rossi dovesciar intendere che la destra poli- vamo lasciare il campo senza reatica sia stata in qualche modo gire: in sostanza era vietato mecomplice – anche solo con il si- nar le mani; inoltre come politica lenzio – del terrorismo nero, del- la Giovane Italia era per la Nato, quindi con dipendenza dall’imlo stragismo, o del “golpismo”. A questo proposito, è utile ricor- perialismo americano». E ancora: dare che, secondo la testimonian- «Tra il Fronte della Gioventù e i za di Adriano Monti (Il “Golpe ragazzi di San Babila – testimoBorghese”. Un golpe virtuale all’ita- nia un ex sanbabilino dietro lo liana, Lo Scarabeo, 2006), uomo pseudonimo di Alessando Preiser vicino al principe Borghese, sa- (Avene selvatiche, Marsilio, 2004) rebbe stato proprio un dirigente – non correva buon sangue: i pridel Msi ad avvertire la Prefettura mi accusavano i secondi di essere di quello che stava accadendo. E dei degenerati delinquenti». E nel 2005 Andreotti ha confessato ambienti di Avanguardia nazioal Corriere della Sera di essere nale ribadiscono: «Con il dattilo«convinto che la notte dell’8 di- grafo di Salò ed il suo partito non cembre 1970 fu Almirante ad in- abbiamo e non vogliamo avere formare la polizia delle mosse di nulla in comune».

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Il tono è quello della contrapposizione frontale, e ricorda le invettive che contro Almirante lanciava Stanis Ruinas dalle colonne del Pensiero Nazionale finanziato dal Pci alla fine degli anni Quaranta. Invettive incentrate sul concetto di “tradimento”, umano e ideologico, perpetuate negli anni da fuoriusciti e “radicali” e che forse – passando per l’Ugo Cesarini di Dai Fasci di azione rivoluzionaria al “doppio petto” (Pdl, 1991) – hanno raggiunto il culmine nel confuso Camerati addio. Storia di un inganno in cinquant’anni di egemonia statunitense in Italia (Avanguardia, 2000) di Vincenzo Vinciguerra, reo confesso della strage di Peteano. Schegge impazzite di un mondo estremo che odiava il Msi per il suo essere, appunto, democratico e costituzionale. «Giorgio Almirante – confessa Pierluigi Concutelli, capo militare del Movimento politico Ordine Nuovo – [era] «l’uomo che consideravo la più grande iattura del neofascismo italiano, un volgare voltagabbana, l’avversario da combattere che per me e Mario Tuti chiese l’introduzione della pena di morte» (Io, l’uomo nero, Marsilio, 2008). Con tutto ciò, per fortuna, gli anni Settanta sono fatalmente trascorsi, gli anni di piombo sono stati archiviati nel 1984, il terrorismo nero è morto con loro. Non così il terrorismo rosso, se ha ragione Luigi Manconi quando scrive di ritenere che «tra le “vecchie” e le “nuove” Brigate Rosse vi sia continuità; di più: sul piano ideologico continuità assoluta in-

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torno a un nucleo fondamentale, rappresentato dalla vocazione “operaistica” certificata dalla coerenza programmatica, e persino organizzativa, delle diverse fasi di sviluppo della storia brigatista» (Terroristi italiani, Rizzoli, 2008). Ma il problema resta quello di capire, comprendere come sia potuto accadere, quali siano state le radici di un fenomeno prismatico – violenza, omicidi, stragi – che ha funestato l’Italia e ha rallentato la sua modernizzazione, con conseguenze – in termini di fragilità sociale e politica – che permangono. Per comprendere, serve fare storia e non affidarsi alle “probabilità”; serve qualche cosa di più e di meglio della riproposizione degli antichi teoremi – come si diceva all’epoca – «democratici e antifascisti sulle trame oscure del capitalismo in agguato». Qualcosa di più e di meglio delle «pregevoli opere di controinformazione» lodate dal Carlo Rossella del 1975.

L’Autore GIANNI SCIPIONE ROSSI Giornalista e saggista, è vicedirettore di Rai Parlamento. È autore, tra l’altro, di Cesira e Benito. Storia segreta della governante di Mussolini (2007); Il razzista totalitario (2007); Mussolini e il diplomatico (2005); La destra e gli ebrei (2003). È consigliere di amministrazione della Fondazione Ugo Spirito.


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...SEMPRE GUELFI INTERVISTA CON FRANCESCO COSSIGA DI GIOVANNI MARINETTI

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la memoria storica del paese, ha attraversato la storia della Prima Repubblica. Cossiga è convinto che certe pagine non possano essere archiviate senza prima avere spiegato quello che è accaduto, senza prima aver cercato di capire perché gente laureata e di buona famiglia abbia scelto la via delle armi. E poi: «L’aver inviato i blindati a Bologna ha spinto molti nelle braccia delle Br»

Sardo come Gramsci e Berlinguer, suo cugino, Francesco Cossiga è forse, assieme ad Andreotti, la vera memoria storica di questo Paese. Cossìga, da Corsica, questa la pronuncia esatta, ha attraversato la storia della Prima Repubblica bruciando di volta in volta le tappe, ogni volta con decisione, con testardaggine. Interrogarsi con lui se torneranno mai gli anni di piombo, quel clima, quell’odio è come giocare una partita a scacchi, dove per capire perché i pezzi nella scacchiera hanno oggi certe posizioni bisogna andare indietro nel tempo. Alla fine della Seconda Guerra mondiale, e ancora prima, perché


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L’INTERVISTA Francesco Cossiga

O GHIBELLINI la storia è una e quella italiana è fatta di troppi rancori, di troppo dolore, forse di troppe maliziose casualità. Sicuramente di troppe bugie ed equivoci. Ministro degli Interni nel Governo Andreotti III dal 1976 al 1978. In pieno ’77, gli anni più duri della contestazione, quelli della contestazione a Lama alla Sapienza, che hanno visto morire Francesco Lorusso, studente di Lotta Continua, la radicale Giorgiana Masi, l’agente Antonio Custra. Soprattutto, ministro degli Interni durante il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Cossiga è pure stato presidente del Consiglio dal 1979 al 1980 e, ovviamente, presidente

della Repubblica dal 1985 al 1992. Ci si aspetta un uomo freddo, invece si incontra un uomo cordiale, sorridente, combattivo nelle parole e con gli occhi di ragazzo furbo. Presidente, il 9 maggio scorso, nel trentesimo anniversario della morte di Aldo Moro, è stata celebrata la prima giornata della memoria per ricordare le 378 vittime del terrorismo. Interno e internazionale. Da Moro a Biagi, da Giorgiana Masi a D’Antona, da Calabresi a Ramelli. Non si rischia di fare confusione?

Siccome il capo dello Stato non fa storia… per lui i morti sono tutti uguali. Io posso piangere per i ragazzi della “divisione SS- Testa di morto” che si è battuta ad Anzio e piangere insieme i soldati americani che sono sbarcati sempre ad Anzio. Ma se faccio lo storico non posso dire che sono la stessa cosa. Ecco, io piango il povero ragazzo Lorusso – lo dico io perché c’erano i manifesti quando ero ministro dell’Interno – caduto a Bologna sotto i colpi dei carabinieri che rispondevano al fuoco. Piango, ma era meglio un’altra cosa: se non sparava nessuno. Il capo dello Stato, quindi, fa bene a piangere per tutti. Deve piangere per gli 81 preti seminaristi uccisi nel triangolo della morte e deve piangere anche per i parenti degli assassini che sono stati impiccati dai nazisti dopo la resistenza. Però quello che è mancato in Italia,

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è la cosa strana, è che solo uno di sinistra, comunista per modo di dire, Pansa, ha cercato di costruire tutto sommato la verità e l’ha denunciata. Ma in una lettera che lui gradì, anche se non la condivideva, io gli spiegai che qualunque stato si regge sul mito. Lo Stato italiano si regge sul mito del Risorgimento. Si regge sul mito che gli italiani volessero l’Italia unita, il che non è vero. Quindi o tu cambi il tipo: l’Italia si è fondata sul mito dell’unità dell’antifascismo e della resistenza, che è un mito, oppure…. Perché gli antifascismi erano diversi e i comunisti consideravano i socialisti social-fascisti. La resistenza non era affatto unica... Non crede sia invece un tentativo di pacificazione, di chiudere una pagina difficile e ancora viva come quella degli anni di piombo?

Non si chiudono pagine senza spiegare quello che è accaduto. L’Italia non vuole spiegarsi perché tutto questo sia avvenuto. Mi chiedo: perché è avvenuto che dei ragazzi laureati con 110 e lode in Economia come Curcio e la moglie, cattolica, vanno in una chiesetta del Trentino e il giorno dopo si danno alla lotta armata? Come si spiega che il capo del commando che ha rapito e che ha ucciso Moro, Gallinari, giovanissimo segretario provinciale del Partito comunista italiano e che sarebbe certamente diventato deputato o senatore, abbandona il partito e passa alla lotta armata? Come si spiega che ragazzi della borghesia romana come la Mam-

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bro e Fioravanti a un certo punto si mettono ad ammazzare la gente (non Bologna però!)? Gli italiani non se lo sono mai spiegato. Come si spiega?

Non si spiega perché non vogliono spiegare. Non lo vuole fare nessuno. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, assieme al segretario del Partito democratico, Walter Veltroni, di recente si sono incontrati pubblicamente in occasione dell’uscita di un libro sul rogo di Primavalle…

...Allora – interrompe – se bisogna fare un accordo e dire: «Piangiamo assieme o sorridiamo assieme e chi se ne frega della storia facciamo pure», ma è uno dei modi per non spiegare. Gli americani hanno trovato un altro modo: hanno rimosso. Come per la guerra di secessione. I reggimenti del Sud della Seconda Guerra mondiale, nei carri armati avevano la bandiera americana, però se erano della North Carolina portavano anche la bandiera del Sud: per essere americani non serviva dire che avevano vinto quelli del Nord. Ad Aldo Cazzullo, in un’intervista al Corriere della Sera, nel 2007, rivelò che tornando indietro non rimanderebbe i blindati in piazza perché molti autonomi passarono poi alle Br...

Probabilmente l’aver spezzato definitivamente, a Bologna, il movimentismo con gli autoblindo in piazza ha spinto alcuni a rientrare nella sinistra tradizionale, ma altri alla lotta armata. Gli unici che


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si sono salvati sono stati quelli di Lotta continua. Come nacque la violenza?

La causa scatenante? Dietro c’erano 50 anni di divisione del paese e ragazzi a cui avevano insegnato che il nemico capitalista-borghese-imperialista era la Democrazia cristiana: vedere il partito dei propri sogni allearsi con questi… e poi c’era il compromesso storico… Non ce ne siamo accorti e siamo intervenuti troppo tardi, perché la sinistra per molto tempo ha ritenuto di poter dominare il fenomeno. Non c’è riuscita. Non credo per convenienza: il danno che ha provocato tutto quello che è successo ha portato anche a una identificazione tra Br e Partito comunista con conseguente scoppola elettorale. Se dovesse rinascere una violenza

di tipo eversivo come dovrebbe comportarsi lo Stato, quali errori dovrebbe evitare di commettere? Questo governo non è in grado di reagire. Si spara sulla gente solo se si ha a fianco la sinistra. Io non avrei potuto dare ai carabinieri l‘ordine di sparare per difendersi, facendo uccidere Lo Russo e altri, se non avessi avuto i comunisti pronti a dire: «Bene ha fatto il ministro degli Interni. Pensa che il Pd farebbe qualcosa del genere?

Il Pd non potrebbe farlo. Guidato da un vecchio comunista diventato democratico come Massimo D’Alema, lo potrebbe fare, ma guidato da uno che si è iscritto al Partito comunista senza essere comunista, no. Rimanendo ai rischi di oggi: nel

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2001 in un’intervista al Giorno, poco prima che Berlusconi vincesse le elezioni, parlò di sinistra giacobina, Bobbio in testa, che in qualche modo legittimavano la violenza antiberlusconiana in stile Autonomia operaia… Stiamo per ritornare a quel clima. …Mentre nell’aprile scorso sul Corriere della Sera lei ha parlato del rischio di un ritorno del terrorismo dopo l’esclusione dal Parlamento della sinistra radicale?

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Certamente. Perché noi non siamo una democrazia matura: a un laburista non verrebbe in mente di fare la campagna elettorale dicendo che Cameron è un fascista, e Cameron non si sognerebbe di dire che Brown è comunista. Da noi siamo invece sempre papalini e anticlericali; federalisti e unitari; interventisti e anti-interventisti; fascisti e antifascisti; partigiani e repubblichini; e poi partigiani tra di loro; comunisti e Democrazia cristiana e centristi. L’Italia è sempre dei guelfi e dei ghibellini. E Veltroni, in quanto segretario dell’unico partito a sinistra in Parlamento, riuscirà a canalizzare il dissenso radicale?

Adesso ha capito che deve farlo, se no non va lontano. Tanto è vero che questo mutamento di rotta ha interrotto ogni prospettiva di colloquio ed è diventato fermamente giustizialista. Anche perché, se dalla procura di Milano non fossero uscite le intercettazioni su D’Alema, Fassino e Latorre, col cavolo che sarebbe diventato segretario del Pd. Adesso, guarda caso, appena si sta facendo avanti

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la candidatura di D’Alema al posto di Solana, perché il posto spetta ai socialisti, le intercettazioni vanno al Parlamento europeo. Ora c’è l’attacco al centrodestra. E se il centrodestra fa lo scherzo di votare al Parlamento per l’autorizzazione alle intercettazioni? Comunque la sinistra ritornerà, più radicale. Quando c’è stata a Genova una grande manifestazione di protesta per le torture dei carabinieri alla Diaz, andò Bertinotti: fece un discorso durissimo da presidente della Camera, e poi disse: «Adesso tutti a casa». E i ragazzi andarono tutti a casa. Veltroni davanti a tale folla sarebbe in grado di poter fare lo stesso? Lo bastonerebbero. L’unico leader a sinistra è Massimo D’Alema, l’unico che sarebbe in grado di tenere pure la piazza. Ci sono similitudini tra il compromesso storico e il dialogo che si è provato a fare in questi mesi tra i due poli?

No, no, sono cose diverse. Perché molti giornali parlano di pericolo “marea nera”?

L’Unità scriveva negli anni ’70 “il brigatismo cosiddetto rosso”. La sinistra ha un motto: non ci devono essere nemici a sinistra; prima io dico che quelli non sono nostri poi li combatto duramente. È per questo che molte ricostruzioni su quegli anni parlano di misteri…

Chi si rifugia nel mistero non accetta la spiegazione razionale del fatto. Accettare che Moro sia stato ucciso a sinistra, per molti cattolici di sinistra, è impossibi-


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le: Moro non deve essere ucciso a sinistra.

L’Intervistato

C’è una cosa bella che rimpiange degli anni ’70?

Il primo periodo del ’68. Che ha travolto tutti, destra, sinistra, centro, perché lo slogan “la fantasia al potere” faceva sperare in tempi nuovi. Se potesse incontrare Moro oggi cosa gli chiederebbe?

Non avrei il coraggio di chiedergli nulla. Dopo molti anni ho capito che una parte di noi aveva sbagliato a crederlo un liberale, era un cattolico sociale. Lei rifarebbe tutto quello che ha fatto durante la vicenda Moro?

Assolutamente sì. Il 26 luglio è il suo 80esimo compleanno. Cosa vorrebbe ricevere come regalo?

Una torta con meno candeline, millefoglie alla crema. Dalla politica, invece, cosa si aspetta?

Nulla. Come cittadino vorrei poter sperare, io sto cominciando a disperare per questo paese. Considero la speranza sempre più la virtù della volontà, non dell’intelligenza.

FRANCESCO COSSIGA È un politico, giurista e docente italiano, ottavo presidente della Repubblica dal 1985 al 1992 quando assunse, di diritto, l'ufficio di senatore a vita. A seguito di un decreto del presidente del Consiglio dei ministri può fregiarsi del titolo di presidente emerito della Repubblica italiana. È stato ministro dell'Interno nel Governo Andreotti III, dal 1976 al 1978, quando si dimise in seguito all'uccisione di Aldo Moro. Dal 1979 al 1980 fu presidente del Consiglio dei ministri e fu presidente del Senato della Repubblica nella IX legislatura dal 1983 al 1985, quando lasciò l'incarico perché eletto al Quirinale. È stato il più giovane presidente italiano.

L’Autore GIOVANNI MARINETTI Uno degli autori di Omnibus e Omnibus week end, in onda su La7. Ha svolto attività di ricerca presso l’Osservatorio Mediamonitor della Facoltà di Scienze della comunicazione della Sapienza.

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La violenza giusta oggi non esiste più INTERVISTA CON LUIGI MANCONI DI FRANCESCO RUBINO

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el nostro tempo la politica ha capito che per affermare la propria visione delle cose deve ricorrere a mezzi pacifici. E poi, i gruppi violenti non hanno più un vero seguito. Se, ieri, il brigatismo trovava la sua ragion d’essere nell’ideologizzazione armata della politica, nelle ideologie di comunità, oggi, il pericolo può arrivare dal razzismo

«Io non vedo un futuro immediato di violenza politica di strada, non terroristica, per intenderci. Perché la teoria di Cossiga sulla mancanza di una sinistra radicale in Parlamento è sbagliata. Vedo però la possibilità, nei prossimi anni, di azioni clandestine di ispirazione razzista». Appare sicuro Luigi Manconi, sociologo e giornalista, già portavoce e senatore dei Verdi, passato poi ai Democratici di sinistra e, con questi, nel Partito democratico. E sottosegretario alla Giustizia nell’ulti-

mo governo Prodi. Sicuro nell’archiviare, quasi definitivamente, gli anni ’70, gli anni di piombo, gli anni della violenza sia di strada sia di matrice terroristica. Manconi, perché è così sicuro che gli anni ’70 non stanno tornando?

Premetto subito che gli anni ’70 non sono riducibili alla violenza politica e tanto meno al terrorismo. Sono stati anche anni di grande trasformazione sociale e innovazione culturale. Per quanto riguarda quella parte, cospicua,


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degli anni ’70, segnata dal terrorismo politico, il mio giudizio è netto: vedo una continuità ideologica assai robusta fra il terrorismo di sinistra dei primi anni ’70 e ciò che resta negli anni duemila. Ma questa continuità ideologica, e per certi versi programmatica, riguarda il soggetto terrorismo e non certo l’ambiente nel quale quel soggetto opera. Perché mentre negli anni ’70 il terrorismo poteva godere di consenso sociale, di larga indifferenza e di diffusa omertà, i gruppi clandestini che operano attualmente non solo sono assai limitati per quanto riguarda il numero di aderenti e il volume di fuoco, ma non godono di alcun consenso sociale. Dirò di più: confortato anche dal parere assai autorevole delle agenzie della sicurezza, con l’eccezione episodica e riducibile a poche unità, i luoghi di aggregazione sociale, in

particolare i cosiddetti “centri sociali”, non hanno alcun rapporto organico con quelle cellule clandestine, quei gruppi di terrorismo che operano o si preparano a operare. E, altro esempio illuminante, gli insediamenti operai, come l’Alfa Sud, dove opera il più radicale dei sindacalismi autonomi, ma dove l’azione terroristica non incontra nessun consenso. E, infatti, nel suo libro Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 19702008 parla di “operaismo armato”. Classe operaia che, però, come la si intendeva un tempo, oggi non esiste più.

Il brigatismo contemporaneo, e lo chiamo brigatismo perché in quello odierno ravviso una dipendenza ideologica e programmatica propria delle Brigate Rosse e non in generale del terrorismo, conserva del brigatismo degli anni ’70 questo costante,


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ossessivo riferimento alla classe operaia, fondamento dell’analisi marxiana della società: la classe operaia che deve dirigere tutto, secondo un fortunato slogan del presidente Mao, il Mao marxista. Il brigatismo attuale, cioè, non ha abbandonato quel principio. Ma la classe operaia dell’Italia contemporanea, quella postfordista, è una “classe” dispersa sul territorio, disseminata, interinale, precaria. Quella cioè non più aggregata nell’insediamento sociale e nell’insediamento industriale, ma, appunto, una nuova classe subalterna e al cui interno il lavoro precario gioca un ruolo determinante. Ed è questo il collante degli anni ’70, che invece oggi manca?

Sì, certo. Ed è la duplice prova che, da un lato, rivela una certa coerenza estrema del brigatismo odierno rispetto al passato, nel riferirsi, cioè, ancora a quella che è la classe operaia. Ma, dall’altro, rivela anche la sua fatale debolezza. Le attuali Brigate Rosse hanno letto tardi e male la crisi della classe operaia fordista, e i cambiamenti che avvengono nel mercato del lavoro. Arrivano con grande lentezza a cogliere quella incredibile novità che è stato il passaggio tra i primi anni ’80 e gli anni ’90: l’innovazione tecnologica, la robotica, che hanno cambiato completamente l’identità degli operai. Sparisce la figura dell’operaio di mestiere e insieme sparisce anche l’aggregazione operaia nei reparti, nelle linee. Le


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attuali Brigate Rosse scoprono con quasi vent’anni di ritardo proprio quella che si può chiamare la “disseminazione della classe operaia nel territorio”, i nuovi distretti, l’irruzione del precariato. Il terrorismo brigatista rimane, però, un fenomeno tutto italiano. Niente di ciò, infatti, è accaduto in Germania con la Raf, o in Francia con Action Direct. Perché le Br, o la loro odierna diramazione, hanno avuto un diverso percorso?

Questo è l’interrogativo più importante e paradossalmente il meno esplorato, il più trascurato anche nelle migliaia di volumi scritti sul terrorismo italiano. E l’anomalia è tutta del nostro paese, rispetto agli altri paesi democratici, dove il terrorismo di natura politico-rivoluzionaria, e non certo irredentista, etnica o secessionista, si è palesato agli inizi degli anni ’70, terminando in alcuni casi, come la Grecia, in periodi più vicini a noi, in altri casi, come in Germania, nella seconda metà degli anni ’80. Nel mio libro ipotizzo delle ragioni per cui solo l’Italia ha visto questo riprodursi, perpetuarsi del terrorismo e che fino a oggi rivela una sua persistenza. E sono delle ragioni fortemente problematiche per la parte politica nella quale io milito, la sinistra. Sostanzialmente le cause sono tre, di natura culturale e ideologica. La prima fa riferimento all’elevatissimo tasso di ideologizzazione del senso comune del nostro paese. Un tasso di ideologizzazione intenso come in nessun altro sistema democratico. Per capirlo basta fare l’esempio del tifo calci-

stico, dove forme di mobilizzazione giovanile, che in altri paesi assumono “semplicemente” una connotazione teppistico-bullesca, e in qualche caso razzistica, in Italia, per una componente assai ampia, assumono dimensione, linguaggio, strumentazione, categorie di riferimento, ma anche sloganistica e gestualità, di natura politica. Ugualmente ripartita fra destra e sinistra. L’uso di superficie del linguaggio e della cultura, poi, orienta i comportamenti e determina la visione del mondo che esprimono. La relazione quindi è più intima di quello che appare. L’esempio del tifo dimostra meglio di qualunque altro che l’Italia è un paese ad altissimo tasso di ideologizzazione. Passiamo alla seconda causa...

È quella che io chiamo la persistenza delle grandi subculture nazionali nel nostro paese. Per decenni ci siamo affannati, e continuiamo a farlo, nel dire che c’è stata la crisi delle ideologie. Ma alla “crisi delle ideologie” non ha fatto seguito il “deserto delle ideologie”. Ha fatto seguito il ripiegarsi di tali ideologie entro nicchie comunitarie, generazionali, ambientali, territoriali. Queste ideologie sono particolarmente robuste e persistono alla crisi generale, nazionale e internazionale. E l’Italia è un paese dove le culture socialista, cristiano-solidale, ma anche quella azionista, hanno sedimentato, si sono riprodotte nel tempo. E queste culture, tutte, prevedevano in condizioni determinate il ricorso al processo ri-

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voluzionario, l’uso di mezzi violenti per contribuire all’emancipazione degli sfruttati. Gli individui e i gruppi, i movimenti e le comunità si muovono, si battono, contendono, competono intorno alla definizione di quelle determinate condizioni che rendono legittimo il ricorso alla violenza rivoluzionaria. Infine, la terza causa?

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È una diretta conseguenza delle prime due. È l’idea della violenza giusta, che in Italia, anche su basi di natura religiosa (il tirannicidio, l’esperienza dei monarcomachi, le storie importanti della resistenza cattolica) ha lasciato un segno notevole. Tale da persistere ancora oggi, negli anni duemila?

No, certo. Quelle giustificazioni culturali oggi non sono più valide. Al di là dell’assenza di teorizzazione sul tema, cosa che a me sembra comunque molto grave, il metodo non violento dell’azione pubblica è oggi largamente diffuso. Oggi è pressoché incondizionatamente accettato l’assunto che la lotta politica abbia un limite nella incolumità della vita umana, il fatto che la lotta politica debba ricorrere a mezzi pacifici e legali. Al punto che quei fenomeni di ribellismo organizzato che abbiamo conosciuto negli anni più recenti, sono apparsi a gran parte dell’opinione pubblica nazionale, alla destra politica, ma anche a parte della sinistra, come pericolosamente al confine della legalità (penso ai disubbi-

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dienti, alle esperienze dei centri sociali). Anche se erano maldestri, goffi, irresponsabili tentativi di praticare forme di lotta che, senza essere istituzionali, non fossero neanche di natura, non dico terroristica, ma violentemente aggressiva. Solo residui del passato, allora.

Sì. Residui che hanno riprodotto false rappresentazioni e auto legittimazioni. Ma appunto, in forme assolutamente residuali, dove residuali sta sia per segnalare l’esiguità delle parti sociali che le possono tuttora condividere, sia per il loro carattere ormai inconsistente. Laddove invece negli anni ’70 la legittimazione anche religiosa del ricorso alla violenza giusta contro l’oppressore era qualcosa di sedimentato, di robusto e di diffuso. Un discorso che vale, oggi, anche per quella “mitologia della Resistenza” di cui parla lei nel libro?


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L’INTERVISTA Luigi Manconi

Sicuramente quell’epica, quella mitologia, era una deformazione, e oggi è stata profondamente ridimensionata. Oggi la Resistenza, i suoi eccessi, i suoi strascichi o, per intenderci, l’interrogarsi sulla legittimità o meno dell’attentato di via Rasella sono cose che possono tranquillamente essere discusse in qualsiasi sede politica di sinistra. Già venti anni fa io partecipai a un dibattito su Via Rasella, meritoriamente aperto da Marco Pannella. E a sinistra, non a destra. E poi sono arrivati i libri di Giampaolo Pansa, preceduti dalle dichiarazioni di Otello Montanari, uomo di sinistra che parlava alla sinistra. È vero che Montanari non fu ascoltato e Pansa viene sbeffeggiato e insultato. Ma non bisogna guardare alle cose in termini statici. Tutto ciò, comunque, produce una discussione sulle forme di lotta, anche con riferimento al passato. Determina una lettura non convenzionale, coraggiosa, della Resistenza. E a mio avviso è tanto più necessaria, quanto più a portarla avanti sono quelli che come me ritengono la Resistenza un momento determinante della storia nazionale. Determinante anche come sua capacità pedagogica, formativa, di una identità nazionale. Ma allora perché l’Italia non è ancora riuscita a fare i conti con gli anni ’70, con il proprio passato?

Le ragioni sono davvero tante. Alcune sono tutt’altro che culturali o ideologiche, ma terribilmente strutturali, e hanno a che vedere con la natura del nostro Stato. E una fra le cause fonda-

mentali di questa incapacità di fare i conti con gli anni ’70 è strettamente dipendente dal ruolo che ha avuto nel corso di quel decennio lo Stato come sistema di apparati, di servizi e di uomini. Quando, a bilancio di quegli anni, si dice che per quel fattore di apocalisse parallelo al terrorismo, che fu lo stragismo, non si sono potuti indicare, processare e sanzionare i suoi responsabili, allora il buco nero che si crea determina una amnesia, quasi a voler imporre una rimozione. Quando una collettività nazionale, una comunità unita da un patto sociale, deve riconoscere che nel corso di un decennio ha subito l’assalto di due nemici, e di uno di questi nemici, quello che chiamiamo stragismo, non siamo stati in grado di decifrare strategie, attori e responsabilità, allora si determina uno “shock”, un trauma. Shock per quelle generazioni. Ma anche per quelle di oggi?

Certo. Perché è vero che riguarda quelle generazioni e che ha un peso relativo nella storia nazionale. Quantitativamente può anche essere così, perché i movimenti, i collettivi degli anni ’70 riguardavano un segmento di generazione, anche se all’epoca era un segmento assai ampio e che aveva un ruolo di rifrazione sull’intera società. Ma quel trauma tende a riprodursi nelle coscienze, che sono molto materiali e concrete, checché se ne creda, e non pensieri astratti che occupano lo spazio onirico. Sono quelle che determinano i nostri atti quotidiani.

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Quella mancata risposta alla domanda cruciale di una democrazia («Chi ha messo a repentaglio l’incolumità dei cittadini?», domanda cruciale perché funzione prima dello Stato è garantire quella incolumità) ha bloccato un processo di riflessione e quindi la capacità di fare i conti. Perché la capacità di fare i conti poteva essere solo ed esclusivamente la capacità di tutti di fare i propri conti, ciascuno per la propria responsabilità. E dunque, prescindendo dalle responsabilità giudiziarie e penali che hanno altro foro nel quale devono essere verificate, “fare i propri conti” riguardava la classe dirigente e quel segmento di generazione che ha fatto un tirocinio non democrati-

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co alla democrazia, e che militava chi a sinistra chi a destra. E non è stato fatto?

No. Solo quella parte di generazione che militava a sinistra lo ha fatto, anche se parzialmente. Ma non abbiamo avuto un serio processo di assunzione di responsabilità né da parte delle classi dirigenti che furono democristiane, socialiste e comuniste, ovvero i partiti che orientavano la politica nazionale, né in quel segmento di generazione che militava a destra. Dunque è mancata un’opera complessiva e si è preferito andare oltre. Così gli anni ’70 sono stati oltrepassati e risolti in primo luogo con gli strumenti, sia chiaro doverosi, necessari ed efficaci,

IL LIBRO

OPERAISMO ARMATO: LA CONTINUITÀ DELLE BR Un racconto della storia delle Brigate Rosse. L’analisi parte dagli anni Settanta, affronta il sequestro Moro, il lungo silenzio dall’88 al ‘99 e arriva fino a oggi. Una pagina unica in Europa per durata, continuità ideologica e coerenza programmatica. Il collante resta l’“operaismo armato”. Cambiano i luoghi, la classe operaia si disperde e si polverizza e la nuova generazione di militanti recluta i suoi membri nelle aree del lavoro precario e sommerso, negli spazi periferici del mercato e della politica. Manconi dimostra in maniera convincente che le Brigate Rosse sono un fenomeno autoctono della società italiana: e che nella società italiana affonda le proprie radici. Altrettanto significativa è la nostra difficoltà a fare i conti con il passato, sia dal punto di vista giudiziario che da quello politico.


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L’INTERVISTA Luigi Manconi

della repressione: le forze dell’ordine hanno arrestato, la magistratura ha condannato. Gli anni ’70 sono stati considerati, pensati e archiviati in primo e quasi esclusivo luogo dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. In nessun modo invece dalla politica. E come la destra dovrebbe fare i conti con i propri anni ’70?

Su questo argomento ho avuto almeno due importanti conversazioni private con Gianfranco Fini. Purtroppo di questo tema non ho mai trovato alcuna traccia pubblica nella memorialistica, o ancor più, nei discorsi politici della classe dirigente di Alleanza nazionale. Se noi pigliamo il numero di pagine che Luigi Manconi, o altri miei sodali, hanno scritto sull’argomento, gli interventi pubblici che hanno fatto, le trasmissioni televisive a cui hanno partecipato, gli interrogativi stringenti cui sono stati sottoposti sul loro passato, non vedo nulla di simile nei confronti della destra, né da parte della destra. Alla destra italiana che è diventata classe di governo è stato chiesto di fare i conti con l’antisemitismo, e nella gran parte li ha fatti, devo dire, efficacemente. Oppure di fare i conti con altri elementi fondamentali come il giudizio sul fascismo. Ma non è mai stato chiesto conto esattamente di ciò di cui stiamo parlando: e cioè l’atteggiamento nei confronti della legalità, le forme di lotta, la violenza come strumento di lotta politica. Domande che, ritengo, la mia parte politica si è

posta, e che alcuni hanno considerato un eccesso di autoflagellazione. Ma che in nessun modo ho visto riprodursi a destra. E nego che a destra le responsabilità fossero minori. E soprattutto nego che quelli che oggi sono classe dirigente della destra, abbiano avuto percorsi diversi da quelli che oggi sono gruppo dirigente della sinistra. Però il terrorismo di oggi sembra essere solo quello di sinistra?

E il motivo va ricercato nella persistenza delle sottoculture di derivazione ideologica di sinistra, che nel nostro Paese sono più potenti delle sottoculture di derivazione ideologica di estrema destra. Ed è per questo che prima ho detto che la risposta è problematica per la mia parte politica. Ma comunque io questa domanda la lascerei molto aperta: siamo sicuri che quella ipotesi di destra non si possa riproporre? E soprattutto, siamo sicuri che non ci possa essere una azione clandestina di ispirazione razzista nei prossimi anni? Io direi che è tra le possibilità. Possibile o probabile?

No, probabile no. Ma non me ne meraviglierei, in una situazione in cui ci sono tensioni di natura etnica. A prescindere dal consenso che può avere e se quel consenso può essere esiguo fino quasi all’insignificanza, mi sembra abbastanza naturale, non probabile, ma naturale che un gruppo di uomini pensi di organizzare azioni clandestine. Mentre non vedo un

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futuro immediato di violenza politica di strada. E ritengo privo di fondamento l’ipotesi del presidente emerito Francesco Cossiga, secondo cui, per semplificare, Rifondazione comunista è sostanzialmente la mediazione tra la violenza politica e la rappresentanza istituzionale e una sua assenza dal Parlamento crea un problema. Lo contesto perché gli attori della violenza politica avevano già consumato il loro rapporto con Rifondazione, che da un decennio non era più la proiezione istituzionale delle violenza politica di strada, ma, possiamo dire, solo la proiezione di una politica massimalista. Quindi la sua assenza dal Parlamento non determina nessuna novità rispetto a quei segmenti limitati di violenza politica e ancor meno rispetto al terrorismo politico. Non c’è alcuna relazione.

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L’Intervistato

LUIGI MANCONI Sociologo dei fenomeni politici, ha insegnato all’università di Palermo e allo Iulm di Milano. Tra il ’69 e il ’75 ha militato in Lotta continua. Con Pintor, Borgna e Castaldo è autore di numerosi volumi sulla musica pop e sui cantautori. Negli anni ’80 ha fondato e diretto, con Cacciari e Rossanda, la rivista Antigone. È stato direttore di Ombre Rosse e poi editorialista del Messaggero, Corriere della Sera, La Stampa e la Repubblica. Attualmente collabora con i quotidiani L'Unità, Il Riformista, il Corriere della Sera e Il Foglio. Collaboratore Rai, nel 1991 il suo rapporto s’interrompe bruscamente per un “editoriale” critico verso l’allora ministro del Bilancio, Paolo Cirino Pomicino, nella trasmissione di RaiTre Girone all’italiana, condotta da Andrea Barbato. Nel corso degli anni Novanta è stato consulente per Milano, Italia, programma su Rai3 ideato e condotto da Gad Lerner. Nel 1994 è eletto senatore nelle liste dei Verdi. Iscritto ad Amnesty International e alla International Antiprohibitionist League, con Laura Balbo ha promosso l'associazione Italiarazzismo. È presidente di A buon diritto. Associazione per le libertà. Nel 2006 è stato sottosegretario di Stato alla Giustizia del governo Prodi.

L’Autore FRANCESCO RUBINO Giornalista politico e conduttore radiofonico, esperto in comunicazione istituzionale. Collabora con quotidiani e televisioni nazionali.


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Mai più quel sangue versato

Solo chi ripudia la violenza si può chiamare EROE Le persone da ammirare di quegli anni sono quelle che il giorno dopo i funerali erano lì, di nuovo a fare politica... DI GIORGIA MELONI 46

«Chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza». Credo che questa citazione di Goethe sia la considerazione migliore da fare per iniziare la riflessione sulla violenza politica e gli anni ’70. Per convinzione e per destino, mi sono ritrovata spesso a elaborare ragionamenti, dichiarazioni e manifestazioni su questo tema. Perché sono sempre stata convinta che l’esercizio della violenza politica significasse l’implicita ammissione di una sconfitta culturale e sociale, prima che politica. Perché ho ricoperto fino a oggi incarichi che non di rado mi hanno condotta a svolgere ruoli di rappresentanza giovanile, ed è indubbio che l’attrazione esercitata dall’estremismo – perfino armato – proprio sui più giovani sia sempre stata molto forte. Oggi

meno di ieri, ma comunque forte. Devo subito dire che se rivolgo lo sguardo al passato, ma anche a leggere le cronache di questi giorni, ho la netta sensazione che la tentazione, da parte della politica, di provocare e strumentalizzare il radicalismo violento dei giovani sia ancora una pratica non del tutto desueta. Prima di approfondire l’analisi della stagione dei cosiddetti anni di piombo e di porla a confronto con quella attuale, ritengo di dover esprimere meglio il concetto dal quale sono partita. Personalmente, non ho mai ritenuto la non violenza o il pacifismo dei valori in sé sufficienti, ma piuttosto una conquista a cui ambire. Perché non li ritengo sufficienti a garantire libertà e giustizia e perché provengo da una comunità politica che a causa di una


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L’INTERVENTO Giorgia Meloni

ingiusta criminalizzazione si è trovata in alcuni drammatici momenti del passato a doversi difendere politicamente e fisicamente dall’annientamento fisico e civile. Ed è certamente per questo che insieme con me è cresciuta la consapevolezza di non voler tornare mai più a quell’incubo terribile. Attraverso i racconti di tanti amici e nelle letture delle cronache di un tempo, ho maturato la ferma convinzione che la violenza politica sia sempre stata l’arma di chi disperava di prevalere politicamente sul proprio avversario. Dunque, l’ammissione di una inferiorità. Viceversa, mi sono sempre sentita irresistibilmente attratta dall’eroismo di chi non ha ceduto di fronte a quella cieca crudeltà, di chi ha resistito alla sete di vendetta e ha avuto la for-

za di non alimentare quella spirale infinita di lutti e sofferenze che per comodità di cronaca chiamiamo “anni di piombo”. Volendo individuare degli eroi in quella stagione tragica degli anni ’70, credo che non si possa prescindere da coloro cui veniva ucciso un fratello o l’amico del cuore e il giorno dopo erano a lì, di nuovo, a fare politica, a ciclostilare volantini, ad attaccare manifesti. Al culto di chi, anche a destra, si faceva giustizia da solo, armi in pugno, ho sempre preferito il culto di coloro che il giorno dopo la strage di Acca Larentia sono tornati in via Latina e, come tutti i giorni, hanno rialzato la serranda della sezione. Sono stati questi ragazzi i nostri eroi, quelli che, come scrive Luca Telese nel libro Cuori neri, hanno


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IL LIBRO

QUEI MORTI DIMENTICATI 48

Ventuno morti, un unico filo di sangue che attraversa un decennio complesso di storia italiana. Ventuno giovani, quasi tutti di destra o comunque considerati tali, caduti nella guerra spietata degli anni di piombo: mitizzati dai loro camerati, demonizzati dai loro nemici, dimenticati da tutti gli altri. Ma prima di tutto ventuno ragazzi e altrettante storie che dicono molto sul nostro presente e che per la prima volta vengono sottratte alla memoria di una parte per essere restituite alla memoria condivisa di un intero paese. Storie tragiche, sorprendenti, emblematiche, sanguinose e drammatiche: il romanzo criminale degli anni di piombo. Questo libro è il frutto di un lavoro durato più di tre anni, durante i quali l’autore ha raccolto documenti spesso inediti, scovato fotografie, compulsato atti processuali, ritrovato vecchie interviste e trasmissioni televisive, ascoltato le voci di famigliari, amici e sopravvissuti a una stagione di odio e violenza. Dalla morte di Venturini, ucciso nel 1970 da una bottiglia lanciata per fermare un comizio di Almirante, fino all’uccisione di Di Nella nel 1983, quando una tragica stagione sembrava conclusa; in mezzo una sequenza di morti salite agli onori della cronaca – la strage di Primavalle, l’uccisione di Ramelli – e altre ormai dimenticate.

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avuto la forza di rifiutare il bando dell’arruolamento militare, vergato con il sangue dei propri caduti. A fronte di chi da una parte scappava verso un’esistenza “normale”, lontana da tutto quel dolore e di chi, dall’altra, decideva di reagire, armi in pugno, sono convinta che la scelta più coraggiosa fosse quella di chi ha continuato a fare politica tra la gente, giorno dopo giorno. Così come non potrei non citare l’eroismo dei genitori, che nel dolore infernale della perdita dei propri cari, invocavano nessuna vendetta per rendere loro giustizia, per dare un senso al loro sacrificio. «Scrivete solo questo – furono le parole di Filippo Falvella ai giornalisti nel giorno del funerale di suo figlio Carlo – che questa morte semini pace, che sia la fine di ogni violenza». Purtroppo non fu così, anzi l’uccisione del ventenne di Salerno sarà solo una delle prime di una lunga serie. Ma credo che, comunque, sia questo l’insegnamento che tutti noi dovremmo trarre da quella stagione. A prescindere dall’appartenenza politica. Per questo sono pronta a considerare come mie tutte le morti innocenti di quegli anni, senza distinzioni di parte. Solo così il ricordo di quell’epoca potrà essere un monito valido per il futuro e non un passato, mai davvero passato, da cui trarre motivazioni per continuare ad odiarsi fra italiani, più o meno giovani. Come tristemente sappiamo, la politica ebbe pesanti responsabilità nel fomentare un clima di odio tra le giovani generazioni di


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L’INTERVENTO Giorgia Meloni

allora. Non posso evitare di non vedere in alcuni atteggiamenti politici di oggi la stessa tentazione, quella di usare la scorciatoia della criminalizzazione per rinsaldare le proprie fila, per accaparrarsi qualche punto percentuale in più nelle competizioni elettorali. È un’opzione che ha lasciato sul selciato ragazzini di sedici anni privi di qualunque colpa. È un’opzione che va abbandonata per sempre. Devo rilevare che negli ultimi mesi ho sentito la parola “fascista” citata con una frequenza impressionante, usata in contesti del tutto inappropriati. Penso all’elezione di Alemanno a Roma che ha giustificato in alcuni ambienti il recupero di un armamentario ideologico sporco di polvere e sangue, che sarebbe stato bene ri-

manesse lì, dove fortunatamente era stato accantonato dopo tanti anni. Ma penso anche alla polemica innescata dal cambio del titolo al dicastero che mi è stato affidato: da ministero per le Politiche giovanili in ministero della Gioventù, come d’altra parte si chiama in tutta Europa (per la verità in Francia si chiama della Jeunesse, pensate se lo avessimo chiamato della Giovinezza…). Ebbene, qualcuno ha ritenuto di accusarmi, per questo, di apologia del fascismo. Una polemica ridicola, certo, ma chiaramente frutto di un atteggiamento mentale che rinuncia al confronto sui provvedimenti e preferisce utilizzare scorciatoie vecchie di decenni. In realtà, nonostante gli esempi citati, di passi avanti nel riconoscimento reciproco fra destra e si-

Chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza J. W. von Goethe

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nistra se ne sono fatti tanti e alcuni li considero persino memorabili. Ne sono stata diretta testimone quando due anni fa ospitammo ad Atreju Fausto Bertinotti, allora leader di Rifondazione comunista e presidente della Camera dei deputati. Fu un piccolo grande momento di storia patria, come giustamente rilevarono anche gli organi d’informazione. Peraltro, capitò in un momento assai delicato, perché pochi giorni prima un giovane di sinistra era stato accoltellato a morte da uno sbandato e il clima era molto teso. Fu un’occasione di profonda maturazione e consapevolezza per molti di noi, e di questo sarò sempre grata a Fausto Bertinotti. Non posso dimenticare la partecipazione dei ragazzi di Azione Giovani a quell’incontro: non ci fu semplice cortesia, ma sincera ammirazione nei confronti del leader comunista, che pure era stato fermissimo nel ribadire la sua diversità politica. Purtroppo, tra le cose che non dimentico di quell’episodio, c’è anche la polemica a sinistra sulla partecipazione di Bertinotti alla nostra festa nazionale. Oltre ai tanti che si compiacquero della scelta del presidente della Camera, ci furono altri che invece l’avversarono con motivazioni che ancora mi indignano. C’era chi, come Marco Rizzo, per una cinica competizione di partito, accusava Bertinotti di complicità con i criminali fascisti e c’era chi, come il professor Asor Rosa, sosteneva addirittura l’inopportunità antropologica di mischiarsi con i giovani di Alle-

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anza nazionale. Ora, il pensiero che nelle nostre università ci sia ancora chi insegna a dei ragazzi questo genere di contrapposizione, sinceramente, mi atterrisce più di chi tenta di speculare qualche “votarello” soffiando sul fuoco dell’antifascismo, perché dimostra che non è ancora finito il tempo dei “cattivi maestri”. E fino a che non si chiuderà questa stagione, ci sarà ancora il rischio di precipitare nuovamente nell’incubo degli anni ’70. Perché ciò che può impedirlo non è l’espulsione del confronto politico dalle dinamiche della nostra società, ma la ricollocazione della dimensione del conflitto, necessaria e affascinante, all’interno di un contesto condiviso di memoria e destino. In questo siamo impegnati tutti. A questa idea del nostro futuro dobbiamo dedicare ogni minuto del nostro agire, qualunque sia il nostro ruolo nella comunità nazionale.

L’Autore GIORGIA MELONI Ministro della Gioventù nel quarto Governo Berlusconi, ha alle spalle una lunga carriera nei giovani di Alleanza nazionale, prima come dirigente e poi come presidente di Azione Giovani. Nel 2004 è entrata a far parte dell’Esecutivo di An e nel 2006, eletta a Montecitorio, è stata nominata vicepresidente della Camera dei deputati, la più giovane della storia repubblicana.


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PER SUPERARE I ’70? DI GIOVANNI MORO

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on si andrà mai oltre gli anni Settanta se non si imparerà a ricordare il passato. E questa incapacità è diffusa in Italia. La memoria di quegli anni è corrotta da tre patologie del ricordo: silenzio, vergogna e nostalgia. Quella più comune è la prima: i Settanta sono come un buco nero nel racconto del nostro paese

Non sono uno storico, tantomeno degli anni Settanta, nei quali ho avuto, un po’ per scelta e molto perché mi ci sono trovato, una parte, per quanto piccola, che non mi mette nella condizione di distacco propria del lavoro storiografico. Non sono nemmeno un appassionato o un cultore amatoriale degli studi su quel decennio, essendo per mestiere e per passione concentrato piuttosto sul futuro che sul passato. Posso aggiungere che cerco di tenermi a debita distanza da quel periodo nel quale la mia vita è finita nell’occhio di un ciclone e per il quale non sento alcun trasporto.


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L’INTERVENTO Giovanni Moro

VANNO RICORDATI

Tuttavia anche per me non è facile liberarmi di quell’epoca e, per quanto mi sforzi di ignorarla, finisco per ritrovarmela davanti come una pietra d’inciampo o come una voce dimenticata che reclama ascolto e attenzione. Guardando al modo in cui oggi tutti noi, come italiani, ci atteggiamo nei confronti di quella decade, mi viene da pensare che questa mia condizione non sia puramente personale, ma possa essere considerata in un certo senso una manifestazione di un problema comune: la difficoltà di imparare a ricordare un passato che è largamente (e per lo più negativamen-

te) ancora presente, proprio perché non lo sappiamo ricordare. D’altra parte anche per me vale ciò che si può dire a proposito dell’intero paese: che non ci si può “liberare” degli anni Settanta senza imparare a ricordarli. Ecco perché è necessario riflettere ad alta voce su che cosa dobbiamo ricordare di quel decennio e su come farlo, perché, come scriveva Martin Heidegger, nessuno può saltare oltre la propria ombra. Si discute molto in Italia del problema della mancanza di una memoria condivisa tra vincitori e vinti di grandi momenti dell’epopea nazionale e repubblicana, come la Resistenza e la lotta contro il regime di Salò. Non saprei dire, di questo dibattito, quanto risponda a una necessità profonda di revisione e quanto invece costituisca una moda, ovvero lo strumento di contese politiche e culturali che guardano molto più al presente che al passato. Né saprei dire se l’obiettivo di costruire una memoria comune di vincitori e vinti sia praticabile se non augurabile. Ma soprattutto mi domando se, nell’ipotesi dell’impraticabilità, si debba avere per forza o una storia scritta dai vincitori oppure una scritta dai vinti. Mi chiedo, infatti, nel caso in cui tutto ciò si applichi agli anni Settanta, a quale delle due parti uno come me dovrebbe sentirsi appartenente: vincitore o vinto? E di quale guerra?

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Generalizzando questa riflessione, mi sembra che il problema di ricordare gli anni Settanta si possa sintetizzare in una specie di sillogismo: giacché la storia è usualmente scritta da vincitori e qualche volta, anche se paradossalmente, dai vinti; e che, per quanto riguarda gli anni Settanta, non si capisce bene chi abbia vinto e chi abbia perso, o addirittura chi abbia combattuto e per cosa; ricordare gli anni Settanta nel loro versante pubblico è un compito tutt’altro che agevole. A proposito degli anni Settanta, per quanto alcuni cerchino di trovarvi per forza memorie divise, quello che si coglie sono piuttosto patologie del ricordo, date dalla convivenza di tre atteggiamenti che, da un lato, sono contraddittori, e, dall’altro, sono in contrasto con la realtà: il silenzio, la vergogna e la nostalgia.

Il silenzio è forse l’atteggiamento più comune sugli anni Settanta: di questo decennio semplicemente si preferisce non parlare, trattandolo come una specie di buco nero della storia, una mera intercapedine tra gli anni Sessanta – caratterizzati dallo sviluppo economico, politico e sociale – e gli anni Ottanta, con il loro individualismo rampante e i loro soldi a buon mercato. Qualche volta il silenzio nasconde un altro atteggiamento, la vergogna, che in molti casi viene invece espressa a chiare lettere. La vergogna, quando si manifesta, riguarda il degrado della vita economica e sociale, ma anche della politica, oltre che, ovviamente, la violenza generalizzata e indiscriminata che contraddistinsero gli anni Settanta. Più di recente, soprattutto in relazione alle delusioni della Secon-

IL LIBRO Questo articolo è composto in gran parte da stralci del libro di Giovanni Moro Anni Settanta. Nel saggio, quegli anni sono descritti come un passaggio epocale, all’incrocio di molte speranze e molte tempeste. Mentre emergevano nuove forme di cittadinanza e soggettività politiche autonome e originali, il paese tentava di superare i vincoli della Guerra Fredda per affermarsi come matura democrazia dell’alternanza. L’autore ci riporta a quella stagione, oltre la dietrologia e il revisionismo, distinguendo tra storia, politica e vicenda giudiziaria. E restituendo a quella nostra stagione i tratti pieni e complessi della verità, sola misura di giustizia e unica condizione per una memoria non condivisa ma finalmente comune.


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L’INTERVENTO Giovanni Moro

da Repubblica, si è fatto strada la nostalgia perché, tanto per fare un terzo atteggiamento, la nostal- un esempio, se anche allora c’era gia. Esso, in questo caso, si riferi- la partitocrazia, almeno c’erano i sce soprattutto ai forti legami so- partiti. Naturalmente, il fatto ciali, al senso dell’unità del Paese che silenzio, vergogna e nostalgia e al rapporto organico tra società siano atteggiamenti diffusi, male politica che caratterizzavano grado le evidenze contrarie e la quegli anni. Fra le stranezze di loro stessa reciproca inconciliabiqueste patologie del ricordo si lità, deve pur significare qualcopuò notare che il silenzio non è sa. L’opinione che mi sono fatto praticato da coloro che più di tut- in merito è che essi abbiano a che ti dovrebbero stare zitti, ovvero fare da un lato con l’enorme imun considerevole numero di ex patto che quegli anni ebbero sulterroristi e protagonisti della vio- la vita delle persone – un impatto lenza politica diffusa, passati agil- ancora non assorbito – e dall’altro mente dalla critica delle armi alle con la complessità della stessa realtà di quegli anarmi della critica e ni. per lo più impe- Non ci fu soltanto Questi atteggiagnati a rivendicare menti non sono di fronte a un pub- la violenza, ma anche blico attentissimo la nascita e lo sviluppo causati solo da ciò che c’è nelle nole proprie ragioni; stre teste, ma anche la vergogna di organizzazioni che da problemi colpisce soprattut- dedite al volontariato che sono nella reto chi non avrebbe nulla di cui vergognarsi non altà. In effetti negli anni Settanta avendo fatto niente di male e so- convivono elementi che li rendoprattutto avendo giocato un ruolo no di non facile lettura per chi costruttivo nel difendere e svilup- non c’è stato, né di facile elaborapare la democrazia e la convivenza zione per chi c’è stato... Gli anni civile; e che la nostalgia viene Settanta, sono molto più compliespressa soprattutto da chi ha un cati: non sempre si capisce chi soposto al sole che mai avrebbe avu- no i buoni e chi i cattivi; comportamenti ragionevoli e giustificati to altrimenti. Penso che chiunque abbia vissuto facilmente tralignano; il confine gli anni Settanta con un minimo tra uso della forza e ricorso alla di partecipazione alla vita pub- violenza è spesso labile; quelle blica sperimenti tutte e tre que- che appaiono come buone cause a ste tentazioni: quella del silenzio guardare meglio possono non esper dimenticare una realtà fonte serlo; apparenti vittorie possono di dolore e di delusione; quella trasformarsi in sconfitte e vicedella vergogna perché quanto ac- versa. Non ci sono tuttavia solo caduto in quegli anni, special- complicazioni, ma anche vere e mente fuori del suo contesto, proprie contraddizioni, che rinsembra impossibile, e quella del- forzano le patologie sugli anni

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Settanta. Questa decade è stata infatti quella della massima militarizzazione dell’attivismo politico, non solo del “partito armato”, ma in generale, in un mondo in cui era normale difendere, spesso anche con armi improprie, una bandiera (intendo proprio l’oggetto, non la metafora) o arrivare allo scontro fisico e perfino all’omicidio per un manifesto attaccato o staccato. Dall’altra parte questa è stata la fase in cui hanno cominciato a svilupparsi autonome organizzazioni di cittadini come quelle del volontariato, che erano caratterizzate dalla scelta di non avere bandiera e di “militare” per problemi concreti e persone in carne e ossa. Gli anni Settanta sono stati quelli del massimo consociativismo, al punto che si è arrivati a dire, non senza ragione, che per alcuni anni il Paese è vissuto pressoché senza opposizione istituzionale e perfino legale. A complicazioni e contraddizioni possono essere infine aggiunte le ambivalenze dei significati del decennio. Non è infatti facile stabilire se gli anni Settanta siano stati un periodo drammatico in relazione al terrorismo, alle stragi e alle crisi del tessuto sociale ed economico, oppure se abbiano avuto un segno positivo in relazione a riforme varate, storture superate, traguardi raggiunti. Parimenti non è facile stabilire se quel periodo sia più caratterizzato dalla fine di molte cose (come per esempio l’antifascismo come tessuto connettivo della Repubblica) oppure dall’inizio di molte

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altre (ad esempio fondamentali trasformazioni nei rapporti sociali ed economici). Le patologie del ricordo, quindi, che occupano le nostre teste, hanno una base nella realtà e negli ostacoli che essa oppone alla ricerca di un senso generale di ciò che è successo... Mi sembra che quello che manca, per così dire, è che da questo si possa arrivare a capire davvero che cosa abbiamo fatto e che cosa ci è accaduto, come paese, in quel tempo; e grazie a ciò dare a esso un posto negli scaffali del passato, fare tesoro dei suoi successi, depurarsi dalle sue scorie che sono ancora attive, liberare i suoi fantasmi dalla maledizione di dover sempre tornare a ricordarci doveri incompiuti. Farsene una ragione, insomma, come dice saggiamente il linguaggio quotidiano.

L’Autore GIOVANNI MORO Presidente di Fondaca, insegna alla facolta di Scienze della formazione all’Università di Roma Tre. Sociologo politico, ha pubblicato Manuale di cittadinanza attiva (1998), PlusValori. La responsabilità sociale d’impresa con Alessandro Profumo (2003), Azione civica (2005) e Anni Settanta (2007). Per molti anni è stato segretario generale del movimento Cittadinanzaattiva.


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Ecco i fattori di un’altra stagione violenta

Dalla crisi democratica una nuova notte della REPUBBLICA? In Italia, la mancanza di un confronto tra candidati, l’assenza di primarie all’interno dei partiti ha tolto ai cittadini le basilari forme di partecipazione politica DI CLAUDIO MARTELLI TESTO RACCOLTO DA ROSALINDA CAPPELLO

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Gli anni Settanta sono difficilmente riproponibili nella loro sostanza. Li caratterizzava una condizione internazionale molto speciale: erano gli anni del quasi primato e della massima espansione dell’Unione sovietica che se non aveva più il sostegno dei grandi intellettuali − com’era accaduto negli anni ’20 e ’30 fino alla guerra di Spagna e al nazifascismo − però godeva di un consenso di massa cospicuo e non solo al di là della cortina di ferro o nel terzo mondo. Anche nelle democrazie occidentali. In Italia il Partito comunista raggiunse il record dei consensi proprio nel ’75-’76. “Il socialismo realizzato”, come lo chiamava Breznev, il comunismo al potere come lo chiamavano gli avversari contava dunque su un seguito di massa a livello globale indipendentemente dai suoi risultati e dal suo carattere totalitario. Fenomeno noto: quanto più

un ideale si realizza e diventa potere, tanto più aumenta se non il consensus omnium, il consenso di tutti, un consenso di massa non solo imposto e subito, non solo frutto di una propaganda mistificatoria scientifica ma frutto anche di adesione, fallace, però consapevole. Così com’era accaduto anche per il fascismo. Tuttavia, negli anni Settanta si definì anche una presa di distanza risentita e aspra da parte di chi su quell’ideale aveva riposto speranze più alte, palingenetiche, millenaristiche. Lo stesso comunismo italiano cominciava a scindersi in due grandi tendenze: quella di potere e quella rivoluzionaria e combattente. La strategia del compromesso storico di Berlinguer − ben al di là dell’aspirazione ad accordo momentaneo – comprendeva non solo il proposito di un’intesa fondamentale con l’interlocutore


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ocratica e ICA?

politico e principale avversario, la Democrazia cristiana, ma anche quello di un compromesso con la Chiesa e con la proprietà italiana, per dirla con l’espressione ottocentesca con la quale Berlinguer intendeva rassicurare, oltre il capitalismo e i poteri economici, i ceti possidenti. Il programma del Pci, coerentemente, era quello di arrivare al potere per via democratica, mediante il consenso elettorale, per realizzare non l’obiettivo originario della rivoluzione, ma un cambiamento di governo e di indirizzo politico nel contesto di un sistema essenzialmente da conservare. «Noi siamo rivoluzionari conservatori», affermava il suo leader senza paura degli ossimori. E Forattini lo dipingeva spaccato a metà: da una parte nelle vesti di un operaio con i baffi − come nella tradizione storica del comunismo − dall’al-

tra con una vestaglia da camera e una sigaretta, come un borghese ormai appagato e perciò allarmato dalla protesta che saliva dalla piazza. Questa tendenza dominante suscitava un’opposizione risentita e combattiva dentro il corpo stesso del partito, un’opposizione che giungeva a esprimersi con un programma opposto a quello del Pci: la ripresa della lotta armata per la rivoluzione esigeva un altro diverso partito comunista non di potere ma combattente. Se il Pci era inservibile per la rivoluzione − perché votato a un compromesso di potere − allora bisognava creare un altro partito comunista fedele alle origini e perciò combattente non solo con le manifestazioni e gli scioperi, ma con le armi, con le armi in pugno. Le Brigate Rosse e gli altri gruppi terroristici che hanno insanguinato tutti gli anni Settanta, in

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misura minore gli Ottanta e che Dentro la storia culturale del Parancora sono riemersi negli anni tito comunista italiano si annidava, infatti, un filone che non si duemila, nascono da lì. Bene, il presupposto e il fattore era inaridito, l’idea che la Resiallora dominanti, ovvero il domi- stenza dovesse continuare, che nio ideologico-culturale e l’enor- fosse stata interrotta, tradita dal me peso elettorale del Pci non ci Pci stesso e dal compromesso prisono più. Al dubbio di recente ma togliattiano poi berlingueriariaffiorato di un possibile ritorno no. Quella parte di partigiani che al clima violento di quegli anni, non si era attenuta all’obbligo di la risposta è che una deriva vio- consegnare le armi e le aveva nalenta è sempre possibile, ma oggi scoste in vista di un tempo più avrebbe caratteri del tutto diversi propizio, dopo il ’68 − quando ritenne arrivato il momento − le da quella dei ’70. Possono esserci, e ci sono ancora, consegnò ai nuovi partigiani, fidei nostalgici o delle nuove reclu- gli o nipoti, come racconta il libro di Alberto te molto naїf e Franceschini, che non per questo I partigiani irriducibili, narra un passaggio meno pericolose q u a n d o v o t a t e per i quali la Resistenza di consegne non all’assassinio poli- era stata tradita dal Pci, solo simbolico. Niente di tutto tico − come si è questo, adesso, anvisto dall’inchie- armarono la mano che se ritorna sta del pm mila- dei loro figli e nipoti un’aspra conflitnese Ilda Boccassini un anno fa − però nulla di pa- tualità politica. Il primo a parlare ragonabile all’ampiezza di con- di un pericolo fascista è stato Giusenso di cui godevano le Brigate lio Tremonti. Probabilmente, per Rosse, che non nascevano dalla disinnescare questa tendenza a detesta di Minerva, ma nel cuore monizzare di nuovo Berlusconi e stesso dell’Emilia rossa, Reggio il centrodestra, ha messo in guarEmilia e dall’incontro con gli dia che se non si ha la mano ferma spezzoni fanatici e violenti del nei confronti della clandestinità, movimento del ’68. Nelle fabbri- dell’immigrazione selvaggia e di che, nel partito, nelle università o tutto ciò che minaccia la sicurezza nei salotti, i quadri e i gruppi ter- dei cittadini e, soprattutto, se non roristici si formavano nell’auto- si affronta − rischiando molto denomia dalla sfera politica e si fon- gli equilibri di bilancio − l’impodavano sulla speranza e sull’illu- verimento dei ceti medi, si può risione di poter riproporre l’ideale produrre una situazione fascista o della Resistenza con la forza sug- meglio protofascista come fu gestiva dell’azione risoluta, vio- quella di Weimar. Molti storici lenta: con l’uso del terrore politi- hanno contestato le tesi di Treco come alle origini del movi- monti osservando che il fascismo si afferma quando ormai la crisi mento operaio.


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economica è passata. Angelo Ta- all’assetto bipolare, bipartitico, sca aveva ragione nel sostenere allora si aprirebbe il buio. che il fascismo fu “una reazione Un elemento drammaticamente postuma”, nel senso che l’ondata vivo credo sia legato alla crisi rossa era finita quando il fascismo, della democrazia italiana. Una soprattutto quello agrario, si or- democrazia il cui esercizio conganizzò militarmente non per rea- creto si limita a fare una croce sul gìre alla minaccia concreta di una nome unico di Berlusconi o Velrivoluzione ma per distruggere troni. Non abbiamo più né il ogni possibilità non solo di una confronto di candidati che c’era rivoluzione ma anche dei cambia- con i collegi uninominali, né un menti possibili nei rapporti di po- sistema di primarie che renda detere, di forza, tra le classi. Il bersa- mocratica la vita all’interno dei glio dello squadrismo fascista non partiti, né il voto di preferenza furono tanto le sparute minoranze che consente agli elettori di scecomuniste ma le sedi del partito gliere il candidato. Ai cittadini sono state sottratsocialista, dell’Avanti!, delle La democrazia è in crisi te le basilari fordi partecipacooperative del sinse manca la discussione me zione. La demodacato Cgil. crazia non consiNella riflessione pubblica, libera ste unicamente di Tremonti, in nell’atto finale di termini preventi- e aperta. Qui, in Italia, votare questo o vi, e in quella di il rischio è reale quel leader, ma è Scalfari, in chiave aggressiva, vedo la fucina di con- soprattutto una discussione pubflitti aperti. È vero che la demo- blica, libera e aperta. In mancancrazia si nutre di conflitti aperti, za di ciò, essa è a rischio. E quel’importante è che non degeneri- sto rischio democratico in Italia no, che qualcuno non ne faccia c’è, è reale. una bandiera per poi appiccare Sono costretto a dare ragione a incendi, per organizzare spedi- Grillo quando sostiene che comzioni punitive, per farsi giustizia plice di quest’assenza di demoda sé, per organizzare squadrac- crazia è una stampa sempre ce. Ma ho l’impressione che su schierata, spesso asservita e, perquesto l’Italia sia abbastanza ciò, cieca, ottusa, faziosa, partigiana oppure reticente e silenziovaccinata. Diverso sarebbe se ci trovassimo sa – a seconda degli interessi in di fronte a un fallimento di questa campo – comunque incapace di maggioranza e di questo governo, esercitare una critica oggettiva dopo il fallimento della maggio- non solo di Berlusconi, Veltroni ranza e del governo di centrosini- e delle altre forze politiche, ma stra. Se si consumassero rapida- anche dei poteri economici. Una mente le due ipotesi in campo do- mancanza che pesa nella vita deminanti, le due soluzioni legate mocratica del paese.

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Una soluzione per evitare il rischio di una nuova radicalizzazione da una parte o dall’altra sarebbe quella di tornare, dunque, a forme di vita politica democratiche. Si scelga una strada e la si segua: si vuole il bipartitismo? Allora ci vogliono le primarie, per legge, all’interno dei partiti, per una selezione democratica dei candidati. Il contrario è una lesione grave al corretto funzionamento della vita politica del paese. Non è un dettaglio il fatto che gli attuali rappresentanti del popolo, senatori e deputati, non siano stati scelti dal popolo di centrosini62

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stra o di centrodestra ma siano stati nominati dall’alto, tutti. La piramide democratica si fonda sull’idea che ci sia una base popolare che elegga il proprio vertice. In Italia, la piramide è rovesciata, poggia sul vertice, è il vertice, un pugno di persone sovrastato da due leader maximi, che nomina la base parlamentare. È come se avessimo una democrazia octroyée, concessa dal sovrano, in questo caso sono due i sovrani, ma poco cambia. Viviamo in un sistema illiberale, non democratico, che va cambiato. Chi lo farà? Ne avranno la capacità, la forza, la lungimi-

LA CITAZIONE

Quel terrorismo nutrito dalla cultura politica Perché l’Italia è l’unico paese dell’Unione europea dove ancora alligna, sia pure in misura assai ridotta, il terrorismo rosso e da 20 anni non accenna a scomparire? E perché sempre l’Italia è l’unico paese dove quel terrorismo sembra essere in grado di godere ancora oggi di un’area più o meno vasta di consenso? Le celebrazioni milanesi del 25 aprile, con la loro appendice di slogan e di cartelli filo-Br, ripropongono questi imbarazzanti interrogativi che come fantasmi ci inseguono da decenni. [...] Non è un caso se l’Italia è la patria delle più importanti organizzazioni storiche della criminalità europea. La sfera politica italiana è stata segnata profondamente dalla violenza. Sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile, come per l’appunto fu il Risorgimento, l’idea che a certe condizioni la violenza sia ammissibile (addirittura necessaria) ha caratterizzato in modo netto tutte le moderne culture politiche che hanno visto

la luce nella penisola, che affondano le radici nella realtà più autentica della nostra storia: il socialismo massimalista, il nazional-fascismo, il comunismo gramsciano, l’azionismo. Tutte culture che in un modo o nell’altro si sono alimentate e hanno alimentato il mito della rivoluzione, qualunque fosse l’aggettivo che poi le veniva appiccicato. A livello di massa, in pratica, ha fatto eccezione solo la cultura politica cattolica. Se non ci fosse stata la quale, come si sa, è probabile che


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ranza, l’amore per la democrazia, Berlusconi, Veltroni e i loro alleati? Ne dubito, dubito che possa accadere per concessione. Il ristabilimento di condizioni politiche democratiche in genere è frutto di una lotta politica non-violenta e però dura, coerente intransigente negli obiettivi e nei metodi. Si dice che i partitini siano stati spazzati via perché non avevano il consenso degli elettori. Ovvio, ma il consenso non ce l’hanno avuto perché su questo obiettivo di liquidare i partitini la campagna elettorale è stata fatta d’intesa tra Berlusconi e Veltroni con

l’appoggio del 90% della stampa, con il controllo del 90% delle televisioni. È inutile parlare di fascismo e comunismo. Il rischio reale oggi e domani è nella crisi strisciante della democrazia, una crisi che precipiterebbe nel caso di un fallimento anche di questa maggioranza e di questo governo. Mitterand contro il gaullismo sosteneva che la Costituzione francese consisteva in un colpo di Stato permanente perché il potere del presidente della Repubblica era tale che di fatto regnava nell’arbitrio. Quando venne eletto all’Eliseo, modificò il giudizio 63

non ci sarebbe stata neppure l’Italia democratica che invece abbiamo avuto. Ma la storia non è acqua. L’Italia democratica, pure se tale, è stata pur sempre figlia di una vicenda che aveva sviluppato un’antica e lunga contiguità con la violenza, nella forma, come ho detto, del mito rivoluzionario [...]. La democrazia da noi non ha potuto che vivere gomito a gomito, e spesso intrecciata, con questo mito e con la sua cultura, entrambi opportunamente trasfigurati nella dimensione dell’ «utopia», ancora oggi considerata dal senso comune politico italiano quanto di più nobile e degno la politica possa mettere in campo. [...] In realtà, il germe dell’illegalità e di quella sua manifestazione estrema che è la violenza l’Italia democratica lo porta in certo senso dentro di sé, nella sua storia culturale e dunque nella sua antropologia accreditata. Ed è per questo che non le è mai riuscito e non le riesce neppure oggi di estirparlo. Può, per fare un esempio, cercare di insegnare l’educazione civica a scuola, ma nello stesso momento in cui lo fa mostra pateticamente quanto lei per prima creda poco ai suoi precetti non riuscendo a impedire in quella

stessa scuola il venir meno di ogni norma di condotta, lo scatenarsi della più generale indisciplina. Non è il solo paradosso. C’è pure quello per cui l’Italia è il paese dove più attecchiscono le parole d’ordine del pacifismo e la predicazione della non violenza ma insieme è anche quello dove rispetto al resto d’Europa più diffusa è la pratica dell’illegalità di massa e più frequente risuona l’esaltazione della violenza o la tolleranza di fatto nei suoi confronti: con una contraddizione solo apparente, però, dal momento che all’origine di entrambi i fenomeni c’è sempre il medesimo retaggio utopico della nostra cultura, sia pure diversamente declinato. Nonché, a custodire e perpetuare quel retaggio, l’involucro di una statualità debole che di fronte alle simpatie filo-Br di Milano dice per bocca del suo ministro degli Interni che sì, in effetti «c’è di che preoccuparsi» ma non se la sente di promettere nulla di più.

Ernesto Galli Della Loggia “Brigatismo senza fine” Corriere della Sera - 27 aprile 2007


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ma, almeno in parte, anche il contesto, introducendo dosi di proporzionale. Ma non modificò la Francia, un paese in cui la democrazia è abbastanza spenta, dove tuttavia gli anticorpi sono maggiori che in Italia, dove non c’è il dominio dei poteri economici sui mezzi di informazione che c’è in Italia. L’intero sistema d’informazione del nostro paese è posseduto da quattro o cinque persone. E se oggi il rischio per la democrazia risiede anche nell’operato dei poteri forti, ieri erano poteri occulti, non manifesti, deviati che contribuirono a una radicalizzazione politica. Una radicalizzazione forse anche ideologica, inquinata da pessime indagini, che consentirono depistaggi, manovre da parte dei servizi segreti o di uomini dei servizi segreti, come dimostrano le prove raccolte nel corso degli anni. Una radicalizzazione aggravata anche da una sottovalutazione da parte della Dc, delle forze politiche di governo in generale e da ambiguità gravi del Pci che cominciò a prendere le distanze dai terroristi soltanto alla fine degli anni Settanta, in particolare dopo il caso Moro e dopo l’assassinio di Guido Rossa a Genova. Anche se ancora, di fronte a questo atto di sangue, ci furono molte reticenze nella Cgil a denunciare quelli che certamente loro sapevano essere, se non brigatisti, contigui ai terroristi. Nel sindacato, nel consiglio di fabbrica, c’era una zona grigia che non prendeva posizione. Questo rallentò enormemente

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l’isolamento e la condanna del terrorismo e fece perdere anni preziosi, consentendo alle Brigate Rosse di organizzarsi, di continuare a reclutare nuovi adepti e tanti simpatizzanti in nome di un comunismo autentico, puro, duro, combattente, rivoluzionario per davvero e non per finta come quello al potere. Ma a lungo, anche i vertici del Pci ondeggiarono. Non tutti: Amendola, Berlinguer furono chiari e decisi fin dall’inizio. Nel caso Moro si schierarono apertamente per la via della fermezza perché un’altra strada avrebbe significato, di fatto, il riconoscimento politico delle Brigate Rosse, nonostante l’unica via per salvarlo fosse quantomeno simulare una trattativa, come era convinto il Partito socialista con il suo leader Bettino Craxi.


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Negli ultimi anni, le posizioni si sono venute chiarendo, grazie al contributo di giovani storici, ricercatori come Miguel Gotor, autore dell’ultima risolutiva ricerca sulle lettere di Moro, Lettere dalla prigionia, pubblicata da Einaudi. Questo studio ha rivelato che l’alternativa trattare-non trattare è falsa, perché tutti cercarono di negoziare: trattò il Vaticano attivando alcuni monsignori e creando una disponibilità finanziaria di 10 miliardi di lire per le Brigate Rosse nel caso avessero liberato il presidente della Democrazia cristiana. Mediarono Dc e governo, nel senso che autorizzarono l’iniziativa vaticana, di cui era perfettamente informato Giulio Andreotti, come lui stesso ha raccontato nei suoi diari. Non solo, non è vero che soltanto i socialisti proposero uno scambio di prigio-

nieri, la liberazione di un brigatista detenuto: Miguel Gotor dimostra che il Vaticano richiese anche la disponibilità a liberare un detenuto e che Andreotti acconsentì – anche questo è nei diari dell’allora presidente del Consiglio – purché si trattasse di un detenuto straniero che non si fosse macchiato di delitti di sangue in Italia. Quindi, la leggenda di un partito della trattativa e di un partito della fermezza è smentita. Quanto a noi socialisti, non ci furono contatti diretti con i terroristi né con Lotta continua che, tra l’altro, all’epoca del sequestro Moro era già stata sciolta. Ho conosciuto e divenni amico di Adriano Sofri nel 1985, quando facemmo il quotidiano Reporter, finanziato dal Psi. Craxi non aveva particolare simpatia per Sofri e molti esponenti di Lotta continua erano contrarissimi al dialogo con i socialisti. Io ero convinto, invece, che la generazione dispersa del Sessantotto − animata dall’ansia di cambiamento, di rinnovamento, ma istruita dalla lezione che la violenza non porta da nessuna parte − avrebbe potuto trovare nei socialisti la risposta alle sue migliori aspirazioni. Nei mesi del sequestro Moro, fummo contattati invece dall’Espresso, dal direttore Zanetti, dai giornalisti Scialoja e Paolo Mieli che informarono Signorile delle relazioni di alcuni esponenti dell’Autonomia operaia, Piperno e Pace, con una frangia, quella più trattativista, dei brigatisti, come Morucci e Faranda. I socialisti non dissero mai che lo Stato

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e il governo dovevano trattare, ma che occorreva un atto di clemenza autonomo, non condizionato, da parte dello Stato. Liberare un prigioniero che non si fosse macchiato di un fatto di sangue, magari una prigioniera in gravidanza come Paola Besuschio, seguendo un’indicazione data da Moro nelle sue lettere. I brigatisti si sarebbero accontentati della liberazione di un prigioniero? Nessuno può saperlo. Certamente erano divisi al loro interno. C’era chi sin dall’inizio aveva pensato che Moro dovesse essere ucciso, come segno della potenza delle Br, chi era convinto che bisognava aprire una breccia nelle forze politiche e chi, dopo cinquanta giorni di prigionia – come suggerisce l’intuizione poetica di Bellocchio nel suo film – si sarà commosso a contatto con la straordinaria umanità e intelligenza del prigioniero. Il fattore umano non va mai sottovalutato. C’è, poi, l’altro capitolo, non molto bene indagato, delle influenze straniere che sono affiorate. Qualche elemento è stato individuato: addestramenti nei campi palestinesi, viaggi frequenti a Praga e a Mosca, contatti brigatisti con i servizi segreti esteri, comunisti, rapporti con Hyperion, la struttura internazionale che aveva sede a Parigi, guidata da un ex socialista, Corrado Simioni. Tutto ciò è stato evocato più volte, come ha fatto Franceschini, come ha fatto il giudice Priore nelle sue indagini. Non tutto è stato chiarito, come non è stato chiarito fino in fondo il ruo-

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lo della P2 nella vicenda del sequestro Moro. Ulteriori elementi di incertezza sono stati introdotti da un cittadino americano che, intervistato dalla tv italiana, ha rivendicato l’organizzazione del depistaggio del Lago della Duchessa per confondere le strategie dei brigatisti. La storia non è stata tutta pienamente disvelata. Come si uscì dagli anni di piombo? Con un intervento deciso da parte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che intraprese un’azione sistematica e dura per sradicare nuclei e cellule che fino ad allora avevano goduto di una palude di simpatie e connivenze e dell’inefficienza delle strutture investigative e di contrasto.

L’Autore CLAUDIO MARTELLI Socialista dal 1966, quando conosce Craxi, dopo essere stato un militante del Pri, è stato consigliere comunale ad Arese dal 1970 al 1975, e a Milano dal 1975 al 1979. Nel giugno 1979 viene eletto per la prima volta deputato. Rieletto nel 1983, nel 1987 e nel 1992, è stato vice-segretario nazionale del Psi, vice-presidente del Consiglio dei ministri, ministro della Giustizia. Nel 1999, ormai lontano dai riflettori, ricompare in tv nel programma di Daniele Luttazzi Barracuda, in onda su Italia1. Eletto eurodeputato dello Sdi nel ’99, ha diretto Mondoperaio e Critica sociale. Dismessi i panni del politico, dal 2004 fa il giornalista per le reti Mediaset, dapprima conducendo alcuni speciali intitolati Claudio Martelli racconta, quindi presentando L’incudine (stagione 2004/2005 e 2005/2006). Nella stagione televisiva 2006/2007 propone Flashback, il sabato mattina dopo il Tg5.


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QUELLA VOGLIA

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Ora, passati quasi trent’anni, ricorda con piacere come la migliore recensione del suo primo lungometraggio, Maledetti, vi amerò del 1979, fosse inaspettatamente arrivata dal leader della Nuova destra, Marco Tarchi. In effetti, i motivi perché potesse piacere anche a destra c’erano tutti: in quel suo primo lungometraggio, Marco Tullio Giordana raccontava la storia del sessantottino Svitol che, tornato in Italia dopo cinque anni di assenza, si trovava a ripercorrere la memoria collettiva della generazione che aveva vent’anni nel 1968 per scoprirne il naufragio. Sbolliti gli ardori, il riflusso si era portato via ogni utopia e di molti suoi ex compagni “ne aveva uccisi più la depressione che la repres-

sione”... Alla fine dei conti, un film su un fallimento esistenziale prima che politico, una discesa nel dolore, nella personale derelizione di chi ha perso per strada il senso del proprio destino. Dopo quella prima pellicola, Marco Tullio Giordana ha continuato impietosamente a scandagliare la psicologia di una generazione che, credendosi vincente, troppe volte si è ritrovata con una pugno di mosche in mano. Che è poi la psicologia dell’Italia tutta che in un infinito dopoguerra non ce l’ha fatta (ancora?) a uscire da una guerra civile forse, fortunatamente, più immaginaria che reale. È per questo che, anche parlando degli anni Settanta, è difficile sparare sentenze apodittiche sen-


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IL COLLOQUIO Marco Tullio Giordana

INASCOLTATA Tutto degenerò a causa di un’esigenza di cambiamento, forte nei giovani, che non venne colta o fu ignorata dagli adulti e dalle istituzioni COLLOQUIO CON MARCO TULLIO GIORDANA DI FILIPPO ROSSI

za prima cercare di capire processi storici che, inevitabilmente, si confondono con la psicologia profonda di una nazione. Ed è anche per questo che, parlando con Marco Tullio Giordana, l’intervista non poteva che diventare una lunga chiacchierata in cui le domande si confondono con le risposte e diventano, in qualche modo, una sorta di confessione collettiva. Come se a parlare, non fossero due persone singole ma mondi culturali che si scrutano, si osservano con una curiosità antica che, però, appare sempre sorprendentemente nuova. Anni Settanta, quindi. Si parte dall’imperativo del titolo che ci siamo voluti dare, non per semplificare, piuttosto per cercare di

comprendere la complessità dell’oggi: mai più, quindi. E siamo d’accordo anche nel sottolineare le molte sfumature di un decennio che non può ridursi solo al fragore e alle urla delle piazze, delle barricate. «C’era una parte scura, tenebrosa, suicidale, come negarlo, – ricorda Giordana – tuttavia quegli anni, anche se forse non così “formidabili”, non si possono condannare in blocco. Non c’era solo il nero o il bianco, c’era anche un’infinità di grigi. Certo, c’è stata anche la violenza. Ma per spiegare com’è nata non bisogna dimenticare il senso di frustrazione di fronte all’assoluta sordità del paese di allora che non volle, o non seppe, cogliere la domanda di cambiamento. I partiti

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tradizionali non riuscirono più, renza della classe dirigente, anche in quegli anni, a rappresentare le di molti intellettuali, a trasforistanze sociali e giovanili. Fu una mare la protesta dei giovani in sventura, perché nei primi tempi rabbia, la loro voce in grido». Riil movimento del ’68 non aveva cordare gli errori di allora per una natura politica definita e sottolineare i pericoli di oggi. Se nemmeno la cercava. Era un for- tornare indietro non è possibile, tissimo, istintivo, gioioso biso- può darsi però che qualcos’altro gno di svecchiare una società ar- succeda di simile... «Oggi c’è il retrata, arcaica. Con la scolarizza- rischio, dopo le ultime elezioni, zione di massa vennero alla ribal- che la sinistra, o meglio la sua ta queste grandi masse di giovani parte antagonista e radicale, senche premevano per avere un ruolo za più rappresentanza parlamensociale. La Francia, per fare un tare si senta legittimata a espriesempio, dopo il ’68 intraprese mersi in maniera conflittuale. un periodo di riforme. Da noi Perché il tabù non è stato mai veramente dichiaranon successe nulto, un rigetto assola, nemmeno di Oggi c’è il rischio luto e definitivo simbolico. La podella violenza, un litica si arroccò che la sinistra radicale rigetto “filosofico”, nei suoi santuari e si senta legittimata non è mai stato vequella parte di società non si sentì a far sentire la sua voce ramente pronunpiù rappresentata, in maniera conflittuale ciato nè dall’estrema sinistra nè ritenne insanabile la frattura con le istituzioni, di- dall’estrema destra». Solo un proventò violenta». La violenza co- blema di minoranze, quindi... me unica possibilità di “comuni- «Sì, ma le minoranze possono cazione politica” di fronte a un si- esercitare il contagio. C’è una cristema bloccato... una tesi un tan- si economica che dura da troppo tino giustificazionista: «Non si tempo, un sentimento di insicutratta di giustificare ma di capire. rezza diffusa, la sensazione che Le decisioni politiche, le scelte nulla si ottenga più senza alzare che potessero evitare tutto quello la voce, insomma: siamo una prache poi successe, spettavano agli teria secca e siccitosa che una adulti, non certo ai giovani che scintilla può di nuovo incendiare. non avevano alcun potere. Non ci C’è il rischio che chiunque agiti fu dialogo con quei ragazzi, nes- lo spettro di qualcosa di palingesun tentativo di capire cosa voles- netico possa trovare ascolto, semsero veramente, di “interpretare” brare suggestivo. È nelle situale loro domande e fornire una ri- zioni di conflitto che si semplifisposta qualsiasi, un segno di at- cano i codici scadendo nelle catetenzione. Questo non giustifica gorie di amico-nemico». ovviamente la violenza, un reato Data tutta l’esperienza degli anni rimane un reato. Ma fu l’indiffe- ’70, cosa si può fare per evitare un


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IL COLLOQUIO Marco Tullio Giordana

possibile ritorno indietro? Come può la politica agire con un’azione positiva? «Mi sono continuamente posto questo problema nei miei film. Gli anni Settanta sono stati al centro del mio lavoro di debuttante negli anni Ottanta come “contemporaneo”. In seguito sono tornato su quegli anni perché li ho sempre considerati cruciali. Anni in cui l’Italia ha subito l’accelerazione che si consuma in un secolo. Dopo gli anni Settanta L’Italia non ebbe niente più a che vedere con quella di prima...». Un’interpretazione che, indubbiamente, rileva l’età di Giordana. Che, d’altra parte, non si tira indietro e affonda i ricordi nella sua storia personale: «Devo fare una premessa: nel Sessantotto avevo 17 anni e fui come tutti affascinato da questo grande movimento libertario. Non appena divenne aggressivo e disperato, me ne distaccai. Per me, comunque, la violenza fu un discrimine fondamentale. Quando nelle manifestazioni comparvero le prime pistole, per me fu subito chiaro che con quel mondo non volevo aver più niente a che fare. Ebbi netta la sensazione che l’insorgere di quella patologia avrebbe rovinato tutto, zittendo le persone di buon senso ed esaltando i facinorosi. Furono dette cose orribili, frasi vergognose… forse i ragazzi di sinistra non pensavano veramente che “uccidere un fascista non è reato”, però vederlo scritto sui muri, sentirlo gridare con allegra incoscienza, magari per gioco… anche questo esplodere del linguaggio, questa neo-

retorica infiammata e paradossale mi pareva terribile. Mi rimprovero di aver condannato tutto questo solo interiormente, di esser stato timido mentre avrei dovuto avere il coraggio di proclamarlo ad alta voce. Riuscire a esprimere, come diceva Pasolini, “un giudizio netto, interamente indignato”… proprio il Pasolini degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, in quegli anni, furono per me una guida. Ricordo la sua polemi-


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IL FILM

Il “sanguepazzo” degli italiani

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Ha ricevuto tredici minuti di applausi dal pubblico che lo ha visto a Cannes, in occasione della scorsa edizione del Festival du cinéma. L’ultimo film di Marco Tullio Giordana, con protagonisti Luca Zingaretti e Monica Bellucci, racconta la parabola artistica e umana di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, due celebri attori del cinema fascista che avevano aderito alla Repubblica di Salò. Ma nel 1945, a pochi giorni dalla Liberazione Valenti, ufficiale della X Mas guidata da Junio Valerio Borghese, decide di consegnarsi a una brigata partigiana comandata da Golfiero, regista inviso al Regime, che in passato era stato mandato al confino. La scelta dell’attore fu dettata dal desiderio di assicurare la salvezza a se stesso e alla sua compagna Luisa. A partire da questa resa si ripercorre la vita dei due personaggi rimasti a lungo sulla ribalta del cinema italiano. Valenti, attore istrionico e uomo pronto a qualsiasi esperienza fino a divenire tossicodipendente, incontra Luisa attricetta alle prime armi e ne fa la sua amante benché lei fosse invece pronta a concedersi a Golfiero, all’oscuro dell’omosessualità di lui. Da quel momento Valenti inizia un rapporto intriso di passione e di voglia di ribellarsi al conformismo di regime, pur rimanendo un sostenitore del fascismo. I due, infatti, scelgono di unirsi alla Repubblica Sociale. In seguito, Valenti trova in Borghese un altro personaggio al di fuori delle regole e si arruola nella X Mas. Nel momento del crollo di tutte le speranze di una revanche nazifascista, si diffon-

ca con Calvino che sosteneva che con un giovane fascista lui non ci poteva parlare. Pasolini diceva invece che bisognava parlarci e, soprattutto, farlo parlare. Mai ri-

de la voce che i due abbiano contribuito alle torture perpetrate da Pietro Koch, il torturatore di Villa Triste a Milano, e che Luisa abbia anche danzato nuda per eccitare i torturatori. Nonostante negassero ogni addebito, il 30 aprile 1945 furono fucilati dai partigiani. Il marchio d'infamia fu più forte dell’assenza di prove convincenti. Il progetto di quest’ultimo lavoro di Giordana risale al 1980 e solo dopo il successo de La meglio gioventù ha trovare la possibilità di essere prodotto. In esso, il regista ha voluto ristabilire la verità e raccontare di un popolo, quello italiano, pronto a elevare sugli altari della popolarità e del riconoscimento pubblico così come ad abbattere nella polvere del disprezzo. Allora come oggi e in più di un'occasione solo sulla base di calunnie e non di fatti.

nunciare al dialogo tra schieramenti avversari, mai interrompere i canali di comunicazione. Magari fossero risuonate in quel periodo parole altrettanto responsa-


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bili da parte di tutti. Rimase pur- parlo dell’identità nazionale, del troppo una voce isolata». carattere e della cultura di un poAnni Settanta, guerra civile, pa- polo, ma proprio della nostra cificazione, memoria condivisa: identità personale, della nostra parlando con Marco Tullio Gior- intimità. Sono i valori che si dedana non si riesce a evitare di al- vono condividere, senza condivizare lo sguardo dal particolare al sione di valori non esiste società. generale, per azzardare l’indivi- Ma la memoria è un altro affare. duazione di collegamenti sotter- Un territorio complesso dove ranei che altri forse non riescono ogni filo d’erba, ogni granello di a vedere. E così il discorso, per sabbia è diverso dall’altro e geneosmosi successive, passa dai peri- ra patrimoni emotivi differenti. coli dell’oggi agli odi di ieri, dal- Per questo esistono gli artisti. Per la macchietta di una guerra civile dare voce alle memorie più diveralla guerra civile vera, come se il se, per raccontare le storie. Solo nodo alla gola della storia d’Italia in quanto raccontate le storie difosse sempre e anventano “condivicora quello, come Non rinunciare mai sibili”. La memose fino a quando ria allora esiste sogli italiani non al dialogo tra parti lo se produce opeavranno fatto final- avversarie, mai tagliare re. Letterarie, poemente i conti con tiche, pittoriche, quel nodo per riu- i preziosi canali musicali, cinemascire a scioglierlo, della comunicazione tografiche, quello il rischio che il che volete. La raconfronto politico degeneri in gione per cui la sinistra è stata scontro violento sarà sempre pre- culturalmente egemone (cosa che sente: «Per una ragione molto le viene rimproverata continuasemplice: fascismo e antifascismo mente) è perché ha saputo prosono storie parallele, parentali. durre un numero di opere consiMagari di parenti che si accapi- derevole, esprimere e codificare gliano, e non solo per la “roba” un immaginario». È vero che non ma per l’affetto e l’attenzione dei sono condivise, ma è anche vero genitori. Come in tutte le fami- che sono memorie non del tutto glie. Ma il fratello non può co- separate, non esiste un confine munque non ammettere l’esisten- netto tra le diverse “storie” del za del suo rivale, la sua storia. C’è nostro Paese. È per questo che, un equivoco sul concetto di “me- forse, bisogna proseguire sulla moria condivisa”. Personalmente difficile strada del dialogo. Solo la ritengo impossibile. La memo- dialogando si scoprono le cose ria si può condividere se simile, che uniscono senza dimenticare se generata da esperienze analo- quelle che separano: «Sì, sono ghe, non può essere imposta per storie che si compendiano, sono il decreto. La memoria è la nostra calco, la stratificazione l’una storia, la nostra identità. Non dell’altra, direi l’una dentro l’altra.

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Per completare la storia del paese stato fascista di potersi anche è necessario saper condividere le “raccontare” e non di doversi nadue cose, senza nessuna operazio- scondere o convertire. Tocca cone di occultamento. Bisogna sa- munque alla destra raccontare per fare collettivamente, in pub- questa storia, non possiamo farlo blico e davanti al pubblico, quel- noi di sinistra. Anche se, in quallo che è stato fatto nel dopoguer- che modo, io ho voluto farlo fin ra, in modo privato, all’interno da ragazzo, fin dai tempi di Notti delle…» dove magari c’era il pa- e nebbie, storia di un poliziotto fapà , lo zio, il nonno fascista, tran- scista nella Milano del 1945, in ne far poi finta di dimenticarsene pieno crollo della Repubblica di quando si usciva dall’uscio di casa Salò, fatto sforzandomi di mettere si scendeva nella “piazza” poli- mi nei panni dell’altro». Notti è tica e sociale. Quanto queste me- nebbie è del 1983, Sanguepazzo inmorie separate hanno facilitato vece, presentato all’ultimo Festiuna retorica militarizzata nella val di Cannes, è appena uscito nelle sale. Racconquale l’Italia rita la storia degli schia ciclicamente Le memorie separate attori Valenti e Fedi ricadere? «Molrida, giustiziati dai tissimo, purtrop- favoriscono la retorica partigiani il 30 po. Tocca alla de- militarizzata. Tocca aprile 1945. Un alstra scrivere la tro passaggio oscum e m o r i a d e l l a alla destra scriverla p r o p r i a p a r t e , e condividerla con altri ro della storia, un altro di quei mo“condividerla” con altri che oggi forse sono final- menti dove la memoria non riesce mente disposti ad ascoltare, ri- a essere condivisa. Il film, che a portare alla luce questa immensa sinistra ha suscitato qualche imrimozione. Che cosa pensava uno barazzo, sembra invece andare dei cosiddetti ragazzi di Salò? Gli proprio al nocciolo del problema, italiani hanno il diritto-dovere di cercando di rispondere alla dosaperlo. Che cosa si poteva fare manda, perché è successo tutto questo nel dopoguerra? Sono stati com- in Italia? La destra si deve racmessi errori? Credo che onesta- contare: è giusto. Anche se, molte mente tutti nel dopoguerra ab- volte, a destra una certa persibiano lavorato per una pacifica- stenza del “neofascismo” non è zione, De Gasperi e Togliatti fu- tanto nei contenuti ma in una rono tra i promotori dell’amnistia psicologia di chiusura mentale, per tutti i fascisti. Fu un atto co- di autoghettizzazione… «All’iniraggioso, pose le basi della ricon- zio degli anni Settanta, da ragazciliazione, eppure non bastò. Oc- zo, vivevo ancora a Milano. Mi ricorreva anche una sorta di pacifi- cordo la sede del Movimento socazione “culturale” che invece, e ciale vicino a piazza San Babila, lo capisco, tardò a venire. Occor- oggetto anche di vari attacchi dureva dare la possibilità a chi era rante le manifestazioni studente-


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sche. Però da San Babila non po- è stato un partito nostalgico ma tevi passare se eri di sinistra, ri- non è mai stato un partito di cordo che nelle nostre scuole i fa- estrema destra. Tanto che la descisti non riuscivano a essere una stra culturale certi passaggi culvera forza politica, si presentava- turali li ha fatti forse ancor prima no come squadre di picchiatori e dello strappo con il fascismo. Ribasta, anche prima del Sessantot- cordo che già nel 1988 il Secolo to... almeno, questa era la mia d’Italia, con un fondo di Giano sensazione. Penso che così come Accame e una foto di Fini che tesi è chiesto alla sinistra di rompe- neva in braccio una bambina di re i legami con lo stalinismo, con colore, immaginava una destra Mosca, in qualche modo un di- solidale, aperta al diverso, che stacco dalla mitologia del neofa- non si strappa i capelli di fronte scismo deve avvenire anche a de- alla possibilità di integrazione stra. Capisco che ciò fosse diffici- culturale. «È chiaro che nessuno le finché persisteva l’anatema, la oggi potrebbe mai più riproporre qualcosa di simile condanna a non “esistere” politica- Il pericolo per la destra alle leggi razziali. Su questo la conmente se non come partito di pura te- italiana è il neofascismo danna è stata netta e non va sottovastimonianza… ma non il fascismo. Il Msi lutata. Mi chiedo dal momento che però, quale può la destra italiana è è stato nostalgico: essere oggi il nuodiventata una forza mai di estrema destra vo confine, quale di governo - e si è costruita negli ultimi 20 anni per fenomeno potrebbe diventare aldiventare forza di governo - que- trettanto pericoloso quanto l’ansto legame col fascismo va tron- tisemitismo di ieri? Il problema è cato, o meglio, va detto cos’è sta- scoprire in quale nuovo modo, in to, va pronunciato un giudizio». quali nuove forme si esercitano il Questo è vero ma non basta. Me- dominio e la violenza, anche culglio, a volte queste richieste che turale, sulle minoranze, sulle difarrivano da sinistra, seppur giu- ferenze… la sfida di tutti, a destificabili e comprensibili, colpi- stra come a sinistra, è riconoscere scono l’obiettivo sbagliato: il pe- in anticipo». Beh, il nostro Mai ricolo per la destra italiana è più anni Settanta significa proprio quello della nostalgia del neofa- questo: basta con la politica coscismo, non del fascismo. Sarebbe me barricata, come mancanza di un grande paradosso quello di es- dialogo, basta con l’odio come sere riusciti a tagliare i ponti col unico e possibile confronto polifascismo per diventare, alla fine, tico e sociale. «Per tornare agli un partito di estrema destra: que- anni Settanta, ricordo che mi sto è un passaggio delicato che, consideravo di sinistra, sempre capisco, a sinistra non è facile da col dubbio tuttavia – forse a caupercepire… Il Movimento sociale sa di un profondo, “leopardiano”,

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pessimismo sulla natura umana di essere in realtà un conservatore. L’idea di divorziare dalla politica per sposare la cultura nacque in me proprio considerando che la politica dà risposte insufficienti proprio perché costretta a procedere per sintesi, per semplificazioni. Ho sempre sentito il bisogno invece di analizzare, andare in profondità, capire e descrivere la complessità». Un discorso che, però, non fa certo essere ottimisti sul nostro futuro... Le contrapposizioni muro contro muro continueranno, mentre noi stiamo qui a parlare, i ragazzi ancora si distinguono in comunisti e fascisti, ancora si sentono parole che dovrebbero essere scomparse: «C’è un tempo fisiologico, lunghissimo, interminabile, prima che le idee riescano a esercitare una reale influenza. Diciamo 20 anni, ma forse anche di più. Se questo dialogo, nella politica, nella cultura, comincia oggi, un giorno o l’altro arriverà anche in periferia, finirà per contagiare anche quei ragazzi che sembrano ricorrere ad arcaiche contrapposizioni, forse per bisogno di identificarsi, di riconoscersi in un assoluto, esattamente come abbiamo fatto noi. Proprio noi che abbiamo visto le conseguenze di quella contrapposizione dobbiano dare il buon esempio e continuare, caparbiamente, testardamente, a dialogare e confrontarci».

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L’Intervistato

MARCO TULLIO GIORDANA Si accosta al cinema collaborando con Roberto Faenza per Forza Italia! nel 1978. Debutta nel lungometraggio con Maledetti, vi amerò (1979): un ritratto della generazione del ’68, sospesa fra terrorismo e disillusione. Successivamente, firma per Margheriti il soggetto di Car Crash (1981) e torna alla regia con La caduta degli angeli ribelli (1981), su figure di terroristi. Nel 1984 adatta il romanzo di Castellaneta Notti e nebbie, su un funzionario di polizia fascista nella Milano del ’44. È dell’87 Appuntamento a Liverpool, sulla tragedia dello stadio Heysel di Bruxelles; del ’95 è il film-indagine Pasolini, un delitto italiano. Nel 2000, presenta al Festival di Venezia I cento passi, che vince il premio per la migliore sceneggiatura: sulla vita e la morte di Peppino Impastato. Nel 2003, con il film per la tv “La meglio gioventù”, vince la sezione Un certain regard del Festival di Cannes: una sorta di Heimat nostrano, sceneggiato da Sandro Petraglia e Stefano Rulli.

L’Autore FILIPPO ROSSI Giornalista e scrittore, coordinatore editoriale della Fondazione Farefuturo. È autore con Luciano Lanna di Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra. Ha realizzato insieme a Francesco Linguiti il documentario Leo Longanesi, un italiano contro. È presidente di “Caffeina. Viterbocultura”


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L’OPINIONE Giovanni Pellegrino

Anni di piombo? Ci è andata bene La fragilità della democrazia è sempre stata un rischio per la vita politica italiana. Oggi, gli omicidi D’Antona e Biagi sono un monito DI GIOVANNI PELLEGRINO TESTO RACCOLTO DA MICHELE DE FEUDIS

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La fine degli anni ’60 fu caratterizzata da un momento di forte tensione in tutto il mondo occidentale. Si registrò una mobilitazione giovanile e studentesca per i diritti civili, a cui si saldò l’agitazione dei lavoratori che avevano forti rivendicazioni contro i governi. Questi elementi non bastano, però, a spie-

gare la genesi della contestazione giovanile, che anche altrove ebbe esiti violenti o terroristici – pur contingentata in tempi ristretti – mentre in Italia gli anni di piombo durarono addirittura vent’anni, dalla strage di Piazza Fontana all’omicidio Ruffilli. Dovremmo domandarci perché, quando tutto sembrava finito, le Br sono risorte con gli assassini di D’Antona e Biagi. Evidentemente ci sono nel terrorismo italiano radici lontane, che partono dalle linee di faglia nelle forze della resistenza antifascista, con la contrapposizione tra cattolici-azionisti contro le bande socialcomuniste. E già negli anni diffici-


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li del dopoguerra, tra il ’47 e il ’48, mento italiano fosse il nemico». i partiti del Cln si dividono: da una Una penetrazione nel paese del coparte chi sceglie l’Occidente, dal- munismo, sul modello jugoslavo, l’altra chi si riconosce nelle posi- era avvertita come un pericolo. Nel zioni di Mosca. In Italia si consoli- mio vissuto personale c’è il ricordo da una forte opposizione popolare, dell’inquietudine di uno dei miei con il Pci che diventa il più forte maestri, il liberale Rosario Nicolopartito comunista d’Occidente, al- si, studioso di diritto civile: temel’inizio unito da un patto d’unità va che se si fosse proseguito sulla d’azione con i socialisti. Ci sono via delle nazionalizzazioni, sarebbe tutti gli elementi per una guerra venuto meno il diritto soggettivo, civile potenziale, una tensione la- fino a una deriva sovietica. Una sitente su cui si innesta il movimen- mile paura attraversava trasversalto giovanile del ’68 e la durezza mente la società italiana e poteva tradursi nell’estremismo. Ho tradelle lotte operaie. Una intera generazione si lascia scorso quegli anni impegnato nella professione forense tentare da scelte tra Lecce e Roma e estreme, aderisce a Il brigatismo anni ’70 riscontravo nella camovimenti politici radicali, che si ha una storia che viene pitale una borghesia timorosa di un muovono tra vio- da lontano, con radici colpo di Stato che i lenza sanguinaria e militari potevano l’utilizzo spregiu- che affondano nella dicato delle armi. Resistenza antifascista pianificare, mentre nello stesso ceto, al Da un lato c’è chi combatte contro lo Stato democra- Sud, si arrivava a considerare il mitico in nome di una futura dittatu- nistro Segni «un comunista» per la ra del proletariato, dall’altro chi riforma agraria. Poi ci sono le stocerca di demolire la democrazia rie simbolo: in una famiglia borper affermare una svolta autoritaria ghese degli anni ’70, allo stesso tavolo, potevano sedersi un uomo di o golpista. L’inizio degli anni di piombo? Gli potere e un terrorista. Mi riferisco albori vanno collocati nella prima- ai Donat Cattin. Con questa tragevera del 1969, con una serie di at- dia nazionale bisogna fare i conti tentati terroristici. E si innesca un fino in fondo. Il sacrificio di Biagi circolo vizioso nel rapporto tra e D’Antona è un monito per le fucause ed effetti, in una stagione di ture generazioni. I lavori della roventi rivendicazioni del proleta- commissione stragi si sono rivelati riato e del mondo delle fabbriche preziosi nel decrittare le nuove con l’autunno caldo, mentre per- strategie terroristiche, al punto che mane la diffidenza degli apparati la stessa magistratura ha potuto istituzionali. Il generale Mario Ar- contare sul nostro impianto di ripino, infatti, ha chiosato quegli cerca per sgominare le colonne brianni affermando che «era naturale gatiste guidate da Galesi e dalla intendere che un terzo del Parla- Lioce. Soprattutto dal 1996 al


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L’OPINIONE Giovanni Pellegrino

2001 abbiamo svolto in commissione, con la collaborazione del senatore Alfredo Mantica e di consulenti di valore come Virgilio Ilari, un ottimo lavoro preparatorio e di approfondimento. Offrimmo al paese una chiave per leggere le nuove insorgenze, che poi la magistratura ha impiegato anni a ricostruire. Biagi non sarebbe morto se la stessa magistratura avesse seguito le nostre tracce. Nelle società complesse ci sono sacche di esclusione, come le banlieue parigine. Lì l’emarginazione non è terrorismo, ma crea l’humus perché la violenza politica possa attecchire, anche grazie alla presenza del fanatismo islamico. Quegli anni non torneranno più: non si può ricreare lo stesso clima storico-politico. Da quindici anni il nostro sistema politico procede sempre più solido: sinistra e destra si alternano al governo senza grandi conflitti. Certo, le Br ci sono ancora. A Milano non è stata fatta pulizia fino in fondo, perché quando in queste strutture non ci sono collaboratori di giustizia, non si riesce a sgominare tutta l’organizzazione. E mi riferisco alle indagini sugli omicidi Conti e Ruffilli, compiuti dalle Br, la più longeva organizzazione politica alla sinistra del Pci. Ci sono dal 1973, anche se ormai il loro proselitismo è ridottissimo. La destra estrema? Torna la simbologia, non ci sono più gli apparati che possano strumentalizzare i ragazzi di destra. Il rischio che si corre nelle periferie fuori dal controllo dello Stato, è che sorga dall’incontro del bisogno di sacro e da una esasperazione etnica, un

nuovo estremismo legato all’ortodossia radicale. In questo quadro, la presenza dei partiti cosiddetti di estrema destra o sinistra in Parlamento avrebbe potuto evitare possibili degenerazioni. L’assenza di una rappresentanza parlamentare del Prc non giova. Dopo anni in cui abbiamo esorcizzato gli anni di piombo, i tempi sono maturi per approfondirli e comprendere chi siamo e da dove veniamo, dopo aver attraversato un’Europa divisa dalla Guerra Fredda, in cui l’Italia svolgeva il ruolo di «tragica frontiera». Ormai è passato troppo tempo per giungere a verità giudiziarie. In Italia ci sono state due eversioni: una di destra, con complicità istituzionali fortissime, una di sinistra, grazie a contiguità e complicità con la borghesia. Per distruggere l’eversione, e di questa opera bisogna rendere merito al generale Dalla Chiesa, sono stati pagati “prezzi di impunità” per coprire responsabilità dei protagonisti di quegli anni. La democrazia italiana è stata a lungo in condizioni di assoluta fragilità. Alla fine possiamo dire che ci è andata anche troppo bene.

L’Autore GIOVANNI PELLEGRINO È il presidente della Provincia di Lecce. Laureato in Giurisprudenza, avvocato amministrativista, è stato senatore della Repubblica dal 1990 al 2001, presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle stragi, della Giunta elezioni e immunità parlamentari e membro della Commissione Bicamerale sulla riforma istituzionale.

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i quegli anni rimane non solo il grigiopiombo, il grigiofumo, il rossosangue, ma anche il rosa acceso e una sgargiante policromia. Non solo le sequenze in bianco e nero della morte e delle violenze ma anche quelle colorate della tv, dei fumetti, del cinema, del design, di quei tempi difficili. Una rupture visibile, dalla moda ai cibi, fino a tingere il boom degli oggetti in Moplen

Quando esplose la fantasia in technicolor

Non solo piombo. Gli altri colori dei SETTANTA DI DILETTA CHERRA


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LA STORIA Diletta Cherra

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«Saranno i giornali a riprendere nella loro cronaca il grigiore di delitti e punizioni. La spartizione è fatta, che il popolo si spogli dell’antico orgoglio dei suoi crimini». Michel Foucault Anni di piombo, anni di sangue. Anni impressi nell’immaginario collettivo con le tinte fosche della violenza, della paura, del terrorismo, delle stragi. Gli anni Settanta corrono ancora come un brivido sulla schiena dell’Italia perché la memoria del “lungo decennio del

secolo breve” è come un mosaico privo di tessere chiare, un monocromo che risalta grazie alle molte ombre che questo periodo ha gettato sulla storia del paese. Ma nessuna epoca è in assoluto in bianco e nero e anche per gli anni Settanta è esistito un vivere a colori che una recente mostra alla Triennale di Milano, Annisettanta, ha riportato alla memoria, ricostruendo in una proiezione caleidoscopica le molteplici espressioni di un decennio che si ri-scopre percorso da un’esplosione vitalistica, da una


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straordinaria vivacità estetica do- Un mondo colorato dove “coloraminata proprio dall’uso del colo- to”, come sottolinea lo scrittore re, sgargiante, psichedelico, shoc- Tiziano Scarpa, non è inteso solo king, come il rosa di Fiorucci, come aggettivo, ma come particibrand-simbolo di questi anni. pio passato perché tutto veniva Senza nessuna ideologia precosti- effettivamente colorato in manietuita, senza la tentazione liquida- ra artificiale e ridondante: riviste, toria di rimuovere “paradigmi” copertine di dischi, perfino i cibi, scomodi e bui di un passato che primi fra tutti i gelati e i ghiacancora non passa, la mostra ha co- cioli, e senza connessione alcuna sì recuperato angoli privi di luce con il gusto. Come non ricordare, di questi anni, strappando al- per esempio, il ghiacciolo Arcol’oblio autori, figure, colori, suoni baleno o i coloratissimi chewing e parole che degli anni Settanta gum a pallina che tingevano la sono stati espressione quanto le lingua per ore. Una fascinazione lotte politiche, gli scontri armati, colorifera che dilagava a dispetto di ogni salutistica la violenza. (e salutare) presa di Non più, dunque, Questa irriverente posizione contro i solo un chiaroscutossici coloranti ro, non più la sola policromia dimostra alimentari. foto-simbolo di la volontà di tenersi Un’estetica del coAldo Moro gialore, dunque, ma cente nella R4, lontani dai colori perché questo è grigioscuri della politica anche della forma. Forma e colore che solo il negativo di altre immagini che hanno fatto il furono, anche, linguaggio sociale decennio e che devono ancora es- degli “indiani metropolitani”, sere sviluppate nella camera forma e colore come cifra di una oscura della nostra coscienza. Ba- nuova cultura artistica che diviestano i fumetti, il design del- ne sovversiva anche grazie all’epoca, il cinema, la pubblicità a l’utilizzo, ormai generalizzato, rivelare la complessità un po’ della plastica, resa ora più resischizofrenica di questa epoca che stente, e quindi utile e funzionaha incubato ansie, paure, fanta- le, grazie al Moplen, il polimero smi mai più dissolti, ma anche inventato dal fisico italiano Giuforze creative, rupture, spinte ri- lio Natta, premio Nobel nel formatrici. Bastano, se vogliamo, 1963, e reso celebre nei caroselli le immagini a colori che la tele- dalla comicità bonaria di Gino visione ha cominciato a trasmet- Bramieri. Le case si riempiono di tere allora in Italia, o la stessa oggetti in Moplen dai colori moda, per capire che la cromofo- sempre accesi, acidi, fluo: utensibia degli anni Settanta è in realtà li ma anche mobili che il design tutta ideologica e che il colore ha reinterpreta, con il genio di Joe invece pervaso, in maniera anche Colombo, in maniera quasi giocosa, come mattoncini Lego, ostentata, il decennio.


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LA STORIA Diletta Cherra

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gialli, rossi, arancioni, bianchi, e con forme futuriste che giocano con la funzionalità in schemi liberi, sempre mutevoli, proprio come le immagini in un caleidoscopio. E una fantasia in technicolor è anche quella che crea la moda di questi anni e per la quale il verde dell’eskimo, simbolo di una certa gioventù arrabbiata, in lotta, militarizzata, non è che una delle tante possibilità cromatiche della scala Pantone, una scala che i fashion designer – volutamente lontani dall’olimpo dei couturier – percorrono in tutta la sua esten-

sione senza tralasciare alcun colore e spesso prediligendo proprio gli accostamenti arditi. Trasgressione e colore. Non sono forse tutto questo le mitiche zeppe di Fiorucci con le ciliegine o gli hot pants della Jesus? È la rottura del diktat, e la dichiarazione di guerra contro l’austerità dei costumi, è l’annullamento della distanza produttore-consumatore, è una vera rivoluzione, ma armata soprattutto di creatività e di anticonformismo, esonerato però dall’impegno politico. Questa irriverente policromia è forse la più


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chiara dimostrazione della voglia di certi anni Settanta di tenersi a distanza dai colori della politica: né rosso, né nero; né, tantomeno, le loro tristi sfumature: grigiopiombo, grigiofumo, grigioaustero; rossosangue, rossofuoco, rossobandiera. In un mondo pensoso e cupo il furore cromatico è il modo più eclatante per arginare la deriva oscura della politicizzazione, per rinnegare la bicromia ideologica è esprimere la voglia, e la possibilità, di un’esistenza variopinta, leggera, volutamente frivola. La risposta alla generazione dei Toni Negri è così quella dei Tony Manero: un universo giovanile affetto da “febbre del sabato sera” che all’impegno rivestito d’intransigenza, alla socializzazione su base politica, preferisce semplicemente il divertimento, consumato nei nuovi templi dell’aggregazione, la discoteca. E così mentre una parte degli anni Settanta marciava a passo di slogan cercando di cambiare il mondo, un’altra metà faceva spallucce e rivendicava il proprio diritto alla felicità innescando la bomba dell’edonismo, del narcisismo, dell’esibizionismo, del ritmo. La vera «avanguardia che sarebbe risultata vincente» scrive Gaetano Cappelli a proposito degli anni Settanta nella Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo, era rappresentata da quei ragazzi che invece di «sprecare le proprie giornate a confezionare molotov trovava più proficuo e dilettevole studiare e lavoricchiare il giorno per incontrarsi la sera

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a sentire un po’ di musica, bersi un paio di birrette e tentare di accoppiarsi con qualcuna delle ragazze presenti in gran numero in quei nuovi locali». Insomma, una gioventù colorata che nulla aveva a che fare con la fanatica severità degli estremisti, che esprimeva invece il suo desiderio di leggerezza quasi infantile con la disco music, gli Lp, i videogiochi, il walkman, i fumetti, e scriveva così un decennio variopinto e multiforme, diverso da quello inciso con tratto nero dalla penna della violenza, della paura, del terrorismo, delle stragi.

L’Autore DILETTA CHERRA Giornalista, addetta stampa della Fondazione Farefuturo, laureata in Storia dell’arte, è esperta in comunicazione istituzionale. Scrive per riviste specializzate.


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L’ANALISI Francesco Linguiti

Un immaginario ancora troppo vecchio

Il vizio italiano del modernariato IDEOLOGICO Nel nostro paese certi discorsi e prese di posizione incrostano il linguaggio e pretendono di spiegare l’oggi con categorie di un mondo che non c’è più DI FRANCESCO LINGUITI

Studiosi, analisti, osservatori dei costumi sociali sovente tendono a descrivere la politica contemporanea, quella dello splendore tecnologico dei media, del marketing dell’assenso e del consenso, del merchandising delle idee, come una sorta di bluff, o meglio di balletto del pensiero, in cui ciò che conta non sono le idee ma piuttosto la comunicazione. Si sostiene che teorie e formule

politiche non vengano più valutate, dagli elettori, nella loro dimensione e differenziazione ideologica, ma che vengano valutate puramente e semplicemente in base ai linguaggi attraverso i quali si riescono a comunicarle, a veicolarle, a renderle suadenti, a creare identificazione sociale. Il fatto è che la dissolvenza tra politica e linguaggi non è un “problema” della politica con-

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temporanea, che molti tacciano fica, e adopera, i linguaggi che la di relativismo, ma è la ragione società esprime. stessa della politica, e lo è sempre In molti credono, però, che un stato. In che senso? Cosa vuol di- linguaggio politico serio, comre politica. Molte cose, troppe per piuto, a tutto tondo, non possa poterle sintetizzare in poche pa- che essere un linguaggio ideogine. Questo non è un articolo fi- logico. losofico e sarebbe, quindi, fuori Personalmente sono assolutaluogo parlare della dimensione mente d’accordo. Ma un momengreca di politica come polis, o del- to. Che cosa vuol dire ideologia? la politica nella sua relazione di Per alcuni ideologia è sinonimo incontro tra Dio e Uomo, o di di contrapposizione, ovvero, dialettica tra Stato e società, o di Bianco/Nero, Amico/Nemico, conflitto tra liberalismo e critica Vero/Falso. Ma quando mai! Così del liberalismo, in poche parole si confonde il concetto di contrari la politica è prima di tutto una semiotici e antropologici (la cultura umana come dimensione filososistema di semi di fica. Ma poi c’è Ogni nostro atto significato binadell’altro. La polirio), con quello di tica è linguaggi e i è ideologia: ideologia ideologia. Ideololinguaggi sono è avere, esprimere, gia è ogni nostro politica. Nel senso atto! Ciascun punche la politica ha condividere idee. un suo linguaggio Ideologia è immaginario to di vista. Anche bere un caffè, fue allo stesso tempo la politica fa suoi gli altri lin- mare sigarette, andare al cinema, guaggi esistenti nella sfera della accarezzare un bambino, usare la comunicazione, ovvero, i media e penna piuttosto che il computer, tutte le loro potenzialità, codici, sono atti ideologici. Ideologia è: forme, strutture espressive. Fin avere, esprimere, far condividere, qui il discorso è molto banale, per condividere idee. Ideologia è imcerti versi ovvio, ma il punto a maginario. cui si vuole arrivare è che la poli- Qualche tempo fa, durante una tica non è un discorso che si im- lezione universitaria, vedo e possessa dei linguaggi contempo- ascolto uno studente che supperranei, ma piuttosto, è impossessa- giù dice questa frase: «Dobbiamo ta da essi. I linguaggi sono una fermare la reazione borghese!» e metafora del momento storico- poi, a seguire, dal fondo dell’aula economico-culturale di una socie- una studentessa che si alza e gli fa tà. Lo sono da sempre, lo sono per un duro rimbrotto inzeppato di statuto. E la politica, da sempre, parole quali “stalinista ”, “dittasi adegua ai linguaggi sociali, tura”, “Ungheria” . identificandosi in essi. La politica Per un attimo, come in un film, diventa metafora sociale anche e mi sono sentito ringiovanito di perché di volta in volta si identi- trent’anni, come fossi in una


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macchina del tempo, mi sono Poi, come d’incanto, la modernisentito trasportare in un’altra tà è venuta meno. Grandi narraepoca, ho sentito odori e sapori di zioni condivise hanno perso il loqualcosa, di un mondo andato, ro mordente, grandi miti hanno che a ben dire si potrebbe defini- smesso di brillare come stelle in un cielo immobile, certezze ideore modernità. Ah, che bella cosa la modernità! logiche si sono sconnesse e son Quando tutto era ben chiaro e de- venute giù come impalcature finibile, quando le identità erano sbullonate di tubi innocenti, le dure e fisse come stampelle, dissolvenze hanno preso il posto quando il mondo e la cultura del del nitido, le identità hanno inmondo erano categorizzati in ge- trapreso lunghi e complessi fenoneri, netti e rigidi, come gli stoc- meni di ibridazione, i generi si cafissi in pescheria. Ve li ricorda- sono incrociati, poi si è passati ai te i generi della modernità? Era- transgeneri che non possono esseno raggruppati in repertori fissi e re definiti ma solo osservati nella loro modificazione distinguibili per continua, tutto si opposizione reci- Come d’incanto, è impastato, i penproca. sieri forti hanno Tutto era sostan- la modernità è venuta lasciato il posto a zialmente chiaro: il meno e le certezze pensieri deboli, dramma era dramtutto ciò che semma, il quiz era ideologiche si sono brava assolutaquiz, il telegiorna- sconnesse e dissolte mente e geneticale era telegiornale, la pubblicità era pubblicità, l’ita- mente immobile ha iniziato a liano era italiano, la donna era fluidificarsi. La cultura ha d’imdonna, il bambino era bambino, provviso sfondato la modernità il farmacista era farmacista, lo ju- con un big bang filosofico. Le idee ventino era juventino, l’operaio e le contrapposizioni di princiera operaio, l’intellettuale era in- pio, come in una centrale atomica tellettuale. Con chiarezza, nitore, dei testi, hanno subito una sorta certezza, e mediante semplicità di fissione che le ha rimodellate, di leggibilità, le identità erano riformulate e accorpate. Son vemetaforizzate in una sorta di spe- nuti al mondo i mutanti ideolocie animali riconoscibili dal colo- gici! D’improvviso nel film western sono comparsi i dischi vore e dalla lunghezza del pelo. Se si realizzava un’inchiesta sulla lanti, il ricco e il povero si sono droga il senso delle domande era vestiti allo stesso modo. Si approsempre un po’ questo: «Scusi, da alla contemporaneità. Con terlei, in quanto drogato, apparte- mine da trovata pubblicitaria la nente alla categoria dei drogati, si è definita post-modernità. E che risposta ci dà, a nome di tut- con essa i suoi critici: Jameson ti i drogati, sul perché i drogati l’ha definita epoca in cui vi è «la comparsa di un nuovo genere di si drogano?».


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piattezza o mancanza di profondità, un nuovo tipo di superficialità», Baudrillard come epoca de «la fine del lavoro. (…) La fine della dimensione lineare del discorso. La fine della dimensione lineare dei beni. La fine dell’era classica del segno» e, inoltre, l’ha interpretata un po’ come fosse la fine della realtà. Ma non è vero, la realtà non finisce. Piuttosto si giunge a una nuova realtà, in cui le idee non sono più geometriche, piane, ma negoziali e osmotiche. Ma cosa diamine c’entra tutto questo con l’ideologia, e con il discorso fatto dai due ragazzi all’università? C’entra. I due studenti, buffamente, sono un reperto della modernità. Di una modernità che cessa la sua spinta propulsiva e la sua ragion d’essere negli anni Settanta. Una modernità che identificava

l’ideologia nella contrapposizione. Era il punto di arrivo di un processo storico, economico e simbolico, che negli anni Settanta si smembra e si dissolve con la dissoluzione della guerra fredda, delle vecchie forme della produzione industriale, con il superamento di una serie di idee pretendevano di leggere una società nuova con presupposti filosofici, ideali, prodotti e formulati in una società non più esistente. Questo modernariato ideologico, in Italia, incredibilmente, è ancora visibile in certi discorsi e in certe prese di posizione che ancora “incrostano” il nostro linguaggio politico. Durante una lezione alla domanda «che cosa è l’ideologia?» la maggior parte degli studenti ha risposto con esempi quali “comunismo” “fascismo”. Gli stu-


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denti non hanno mai colpe, sono sempre un prodotto altrui. In questo caso il prodotto di una certa politica che invece di applicare la contemporaneità dei linguaggi di una società in modificazione continua, rimane ferma a una artrosi culturale che non permette di abbandonare forme di anacronismo lessicale e terminologico. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che gli anni Settanta, gli anni della fine della modernità, sono passati da quasi tre decenni. Bisognerebbe smetterla di cercare di interpretare i nuovi corpi sociali con abiti vecchi, usciti da armadi che tutti speriamo che i tarli ci portino via. Quando gli studenti, invece di rispondere che ideologia significa “comunismo e fascismo” risponderanno che ideologia significa “sistema di idee” “punto di

vista sulle cose del mondo” “immaginario condiviso” o altre cose del genere, finalmente, potremo esser sicuri del fatto che il linguaggio politico si è definitivamente lasciato alle spalle gli anni Settanta. Questo è lo stato delle cose; poi, che il contemporaneo sia migliore del moderno, è ancora da dimostrare, e non rimane che sperarlo. L’Autore FRANCESCO LINGUITI Autore televisivo, è docente universitario di Semiotica, di Semiologia del cinema, di Linguaggi della comunicazione. Tra le sue pubblicazioni: L’identità fluttuante (2002), saggi ne Il linguaggio della società (2003), L’Inconscio Cinema (2005). Collabora con Rai e La7. Tra i programmi a cui ha collaborato negli ultimi anni: Blob, Enigma, La Grande Storia, Correva l’Anno, Anni Luce.


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L’altro volto del Settantasette

Come Indiani e destra ruppero il “fronte” La creatività, il non conformismo, i colori contribuirono a spazzare via il clima d’odio ideologico. Arrivarono nuovi mezzi di comunicazione, idee e slogan DI GIOVANNI TARANTINO


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PUNTI DI VISTA Giovanni Tarantino

«Quando le speranze sono tutte finite, bisogna cercare di inventarne di nuove». Questa frase di Albert Camus, probabilmente, esprime meglio di altre lo spirito che ha pervaso i giovani italiani alla fine degli anni Settanta. Finito il tempo delle ideologie ormai desuete, ci si rendeva conto che gli antichi steccati, i rancori dei padri – se non addirittura dei nonni – guerre che non appartenevano certamente ai ventenni dei ’70 non potevano più essere la principale occupazione di quei ragazzi. L’Italia degli opposti estremismi, col suo pesante bilancio di vittime e di responsabili, di vite macchiate e nella peggiore delle ipotesi spezzate, quell’Italia violenta, ha cessato di vivere a una data precisa: il 1977. Certo, si potrà obiettare che eventi tragici della nostra storia sono avvenuti dopo quella data: è il caso della strage di Acca Larentia, del sequestro e del delitto Moro, entrambe datate al 1978. Per non parlare dell’ultimo omicidio in cui è rimasto vittima un militante di destra, Paolo Di Nella, che risale all’83. Ma se una cosa è fuori discussione è che con il ’77, con il movimento che si genererà in quell’anno, intriso di colori, di non conformismo e di straordinaria creatività, si porranno le basi per un reale superamento del clima di odio generatosi nel decennio precedente. Cambia innanzi tutto il modo di comunicare: «Avevamo scelto il terreno dell’informazione come luogo di trasformazione e come

possibilità di traversamento», dirà Francesco Berardi detto Bifo, uno dei principali protagonisti del ’77 bolognese e italiano. Non a caso il ’77 è anche l’anno del primo Campo Hobbit, la tre giorni di Montesarchio in cui i giovani di destra si aprivano a nuove prospettive e dimostravano all’Italia intera di avere argomenti riguardo alla musica, alla poesia, allo spettacolo, alle radio libere, alla questione giovanile e a quella ambientale e altre problematiche ancora. Cambiavano i mezzi di comunicazione, cambiavano le idee e gli slogan: sui muri, che da sempre sono il “termometro” del clima politico specialmente giovanile, non si leggevano più slogan seriosi e militanti come «Ce n’est q’un debut/ Continuons le combat», ma appelli ironici, irriverenti e a volte anche incomprensibili (volontariamente?) ai più: “Una risata vi seppellirà”, oppure “La rivoluzione è una cosa seria e si fa con allegria”. Il clima di violenza si accingeva a essere disinnescato. È l’ironia creativa e libertaria degli “indiani metropolitani”, nuovi soggetti da un punto di vista culturale che adesso animano le piazze con danze tribali e volti colorati... E bisogna dire che proprio questo modo di fare “anarchico” veniva mal sopportato dal rigore e dallo spirito più autenticamente militante di molte frange dell’estrema sinistra marxistaleninista, come si evince anche nella biografia postuma a “Cavallo Pazzo”, vero nome Mario Appignani, (Assalto alla diligenza.

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Quando Appignani rinacque Caval- Pietrangelo Buttafuoco, l’immalo Pazzo, Memori, 2008, pp. 320, ginazione andò – per la prima e euro 18) antieroe italiano famoso unica volta – al potere: «Tra le per le sue incursioni negli stadi analogie che possono collegare la piuttosto che al festival di Sanre- vita-festa di Fiume a quella del mo, realizzata da Marco Erler, ’77, oltre al retroterra di incertezmeglio conosciuto tra gli indiani za politico sociale che caratterizza come Nuvola Rossa, ex compagno entrambe, va rimarcato quel medesimo aspetto di rivoluzione dedi avventure di Appignani. In questo scenario anche la destra siderante, sganciata dal ritmo del giovanile simpatizzò con l’ala più lavoro, che Giovanni Comisso, estroversa del movimento del avendo vissuto l’esperienza fiuma’77, cioè gli indiani metropolita- na, ha descritto come “godimento ni. «Gli indiani metropolitani – irruento delle città”, dove le feste, ha ricordato Livio Lai, ex militan- che scandivano il tempo, erano il te dei Nar poi dissociato – rap- simbolico ingranaggio di un sistema privo di presentavano un strutture produttipunto d’unione Fantasia, spiritualità, ve». col nostro immaSi evince, quindi, ginario, dove la esistenzialismo misero fantasia, la spiri- in discussione la rigidità che molti giovani di destra si sentivatualità, l’esistenno a pieno titolo zialismo sembra- assoluta degli schemi dentro il ’77 e, nel vano abbattere, o marxisti-leninisti volgere di poco quantomeno porre in discussione, la rigidità assoluta tempo, diedero l’impressione di degli schemi marxisti-leninisti. avere appreso davvero qualcosa di Non si pensava a un’alleanza poli- “nuovo”, a cominciare da quello tica – che appariva improponibile che Bifo definì «il capolavoro – ma si era ammirati per l’evolu- dell’ironia di massa»: 17 febbraio zione della sinistra, si cominciava 1977, la cacciata di Lama dala sentirla diversa». La storica del- l’università di Roma. La stampa le avanguardie, Claudia Salaris - dell’epoca fece subito passare la che alla storia del ’77 ha dedicato notizia che indiani metropolitani un libro, uscito nel 1997, in occa- e neofascisti si ritrovarono “uniti sione del ventennale, e che di quel nella lotta”. movimento fu protagonista in Ma come andarono realmente i prima persona insieme al marito fatti? Luciano Lama, leader della Pablo Echaurren - ha addirittura Cgil, sostenuto dal servizio d’ortrovato punti in comune tra gli dine della Cgil e del Pci, entra alindiani metropolitani del ’77 e i l’università per tenere un comizio sovversivi dannunziani che occu- di esplicita condanna nei confronparono Fiume agli inizi del Nove- ti delle occupazioni cominciate cento, quando, probabilmente, quello stesso mese di febbraio da come sostiene anche lo scrittore parte dei nuovi movimenti della


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nuova sinistra e per ribadire la superiorità delle forze della sinistra storica quali il Pci e la Cgil. Non appena varca i cancelli Lama viene accolto da sberleffi, urla provocatorie, striscioni ironici (a opera degli indiani metropolitani) tipo “I Lama stanno nel Tibet”, “Lama, Lama, nessuno l’ama più”; volano uova, farina, frutta marcia. Lo storico Giorgio Cingolani, nel suo libro La destra in armi, ricostruendo l’episodio sostiene che «un centinaio di giovani di destra hanno contribuito al disastro della manifestazione e anche loro hanno “caricato” il servizio d’ordine della Cgil. Come già successo in altre occasioni la goliardia conviveva con la violenza…». In realtà questa versione dei fatti risulta priva di fondamento e la notizia che giovani di destra hanno contribuito alla cacciata di Lama è soltanto un bluff situazionista inscenato da due ex-militanti del Fuan, in piena sintonia con lo spirito del ’77. Si tratta di due dirigenti del movimento universitario di destra romano, Biagio Cacciola e Umberto Croppi. I due si rivelarono più situazionisti degli stessi “indiani metropolitani” riuscendo a creare un fatto sulla base di una falsa informazione: vedendo le immagini in televisione della cacciata di Lama dall’università riconobbero un loro amico, Cassio Scategni, uno studente aderente al Fuan, che si trovava sul luogo per puro caso. Riconoscendo l’amico i due decisero di inscenare il bluff: Cacciola in qualità di presidente del FuanCaravella fece un comunicato in

IL PERSONAGGIO

L’UOMO FORTE DELLA CGIL È stato un politico e sindacalista italiano. È stato uno dei più importanti segretari della Cgil in tutta la storia del sindacato. Giovanissimo, Luciano Lama aderì al Partito socialista italiano e partecipò alla Resistenza partigiana. Dopo la guerra, nel 1946, passò al Partito comunista italiano e divenne uno dei suoi dirigenti fino a entrare, nel 1956, nel Comitato centrale. Due anni dopo fu eletto deputato. Il suo ruolo di difensore dei diritti degli operai contribuì alla sua scalata nella Cgil, di cui divenne segretario nazionale nel 1970. Fu fautore dell’unità sindacale con Cisl e Uil. Il 17 febbraio 1977, all’università di Roma, fu violentemente contestato da giovani aderenti a posizioni extraparlamentari. Nel gennaio del 1978, in un’assemblea all’Eur, a Roma, propose ai lavoratori una politica di sacrifici, volta a sanare l’economia italiana. È del 1980 il violento diverbio con Gianni Agnelli dopo che la Fiat espulse, collocandoli in cassa integrazione, 23.000 dipendenti. Al termine della sua segreteria, la Cgil poteva dirsi rafforzata in termini di immagine mediatica, in quanto divenne il vero punto di riferimento della maggior parte dei lavoratori dipendenti, in particolare del settore privato. Nel 1987 fu eletto nuovamente deputato come indipendente comunista, nel ’93 fu riconfermato e restò in carica sino alla sua morte.

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cui sosteneva che studenti di destra avevano partecipato attivamente all’espulsione di Lama. Il 1° maggio 1977 intervistato dall’Espresso in un articolo intitolato “I fascisti dicono: sono fratelli nostri”, dava conferma della partecipazione di studenti di destra alla “cacciata” rivendicando peraltro che «quanto successo è frutto della nostra idea…». Nonostante siano passati trent’anni da quei fatti, in molti sono ancora convinti che quel bluff sia invece realtà. Non è tutto. L’immaginario degli “indiani”, di Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa, filtrò definitivamente negli ambienti di destra. Dapprima furono realizzati dei manifesti in cui campeggiava il celebre topolino de La voce della fogna disegnato da Jack Marchal, vestito da indiano, su cui era riportata una vecchia poesia di uno pseudo-anonimo francese, Il Bando, che rappresentava la condizione esistenziale di quei militanti che ritenevano di vivere in una sorta di “riserva indiana”, qual era il Msi di quei tempi: «Venne il guercio e mi disse/ guarda sempre lontano/ se vuoi sperare/ Il monco prendeva le armi/ e le oliava per la sua battaglia/ mentre lo storpio stringeva i bulloni/ della sua gamba di legno/ e parlava con il muto della tattica per vincere/ Il sordo saltava impazzito/ sentendo le trombe suonare/ E siamo partiti tutti/ questo esercito grandioso/ di pazzi, di rifiuti e di straccioni». La poesia, che in realtà era opera del giornalista Roberto Rosseti,

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successivamente venne musicata dagli Zpm, e divenne una delle più significative canzoni della cosiddetta “musica alternativa”. Seguirono discussioni sullo sterminio subìto dalle popolazioni indigene a opera delle truppe americane, si cominciò ad andare alle manifestazioni con i volti disegnati. Celebre in tal senso la manifestazione di Montalto di Castro contro l’utilizzo delle centrali nucleari in cui militanti dei Gre, Gruppi di ricerca ecologica, e del Fronte della gioventù, si presentarono con i volti dipinti da indiani. Resta una certezza: che col ’77 i giovani hanno cominciato a modificare i linguaggi della politica. Gli indiani metropolitani da un lato e i giovani di destra dall’altro, quelli della generazione dei Campi Hobbit, riuscirono a disinnescare il clima di violenza. Gli anni Settanta erano davvero superati.

L’Autore GIOVANNI TARANTINO Collabora col Secolo d’Italia, si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.


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Gioventù in attesa del suo Rinascimento

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ragazzi sono alla ricerca di una propria identità, ma senza storia e cultura non sono in grado di fare un’analisi critica dei tempi e allora cercano di esprimere con la forza i propri valori all’interno della società DI PIETRO URSO

«Nuntio vobis gaudium magnum: non habemus papam». «Libera La Sapienza dal Papa». «Fuori il Papa dall’università». I cori di giubilo che danno la notizia della rinuncia del Papa alla visita alla Sapienza, sembrano far tornare indiero le lancette della storia ai terribili anni Settanta. Allora, tutto iniziò con la cacciata di Luciano Lama, leader sindacale e rappresentante di quella sinistra migliorista che prendeva le distanze dall’estremismo e dall’ideologismo. Oggi lo slogan è altrettanto inquietante «La Sapienza è ostaggio del Papa. Liberiamo i saperi». Sembra un para-

dosso, ma nella società dell’informazione la gente è sempre meno informata sull’altro: è da questo modo di pensare e agire che hanno avuto inizio la protesta contro il Papa e gli scontri tra collettivi di sinistra e sostenitori di Forza nuova all’università La Sapienza, l’omicidio di Nicola Tommasoli a Verona, la contestazione contro Israele alla Fiera del libro a Torino, il raid del Pigneto, un quartiere della capitale. Più che la liberazione dei saperi, sembra prevalere la negazione dei saperi. Bisognerebbe avere quel senso critico che solo la storia e la cul-


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tura possono insegnare. E questo non è possibile se ci si arroga il diritto di pensare che la cultura ha una sola bandiera e una connotazione ben precisa, formando i ragazzi a pensare solo con una testa. Ed è quello che è avvenuto a gennaio all’università La Sapienza, quando il Papa ha dovuto rinunciare alla visita per l’inizio dell’anno accademico, contestato da una minoranza di professori che hanno strumentalizzato una citazione di Ratzinger che, in un discorso del 1990, aveva ripreso una frase di Feyerabend sul processo a Galileo: «All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragio98 nevole e giusto». Non si sono preoccupati però di leggere per intero e attentamente quel discorso. Esso aveva come tema la crisi di fiducia nella scienza in se stessa e ne dava come esempio il mutare di atteggiamento sul caso Galileo: «La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua iscrizione in una ragionevolezza più grande». Il discorso del 1990 può ben essere conNella società siderato, per chi dell’informazione lo legga con un siamo sempre minimo di atmeno informati tenzione, come una difesa della razionalità galileiana contro lo scetticismo e il relativismo della cultura postmoderna. Del resto, chi conosca un minimo gli interventi del Papa sull’argomento sa bene come egli consideri con

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“ammirazione” la celebre affermazione di Galileo secondo la quale il libro della natura è scritto in linguaggio matematico. «La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra».


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L’opposizione alla visita del Papa non è quindi motivata da un principio astratto e tradizionale di laicità. L’opposizione è di carattere ideologico e ha avuto come bersaglio specifico Benedetto XVI, che aveva osato parlare di scienza e dei rapporti tra scienza e fede, anziché limitarsi a parlare di fede. A distanza di 31 anni sembra che la storia si ripeta, anche se con attori completamente diversi. Nel 1977 la cacciata di Luciano Lama, aprì la strada a una escalation di violenze fino agli eccessi del terrorismo più sanguinoso che il paese abbia mai conosciuto. Non possiamo negare che quello che è successo oltre trent’anni fa

abbia molte analogie con i fatti accaduti negli ultimi tempi in Italia e che sembrano aver inizio proprio nell’atteggiamento preconcetto nei confronti del Papa, in nome delle scienze e del sapere, ma in realtà contro le scienze e il sapere. Nel nome della laicità, ma in realtà contro i princiDa destra come pi basilari della da sinistra i giovani laicità. portano avanti Qualcuno ha una lotta identitaria paventato, dopo la vittoria alle urne del centrodestra alle ultime elezioni e la scomparsa della sinistra più estrema dai banchi del Parlamento, un probabile ritorno agli anni di piombo, a quegli anni


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’70 dove i colpi di pistola regnavano e facevano da eco a una politica che cercava una rivoluzione sociale, tra lotta e modernità. Probabilmente i giovani d’oggi non hanno nulla a che fare con quei giovani che negli anni ’70 seguivano ideali che partivano da una base politica radicata. Una base che con il tempo si è sempre più sgretolata, dove i partiti politici sono considerati sempre più un’élite lontana dai bisogni della gente. La contrapposizione tra destra e sinistra non viene più percepita dal paese reale. Mentre negli anni ’70 la “guerra” tra destra e sinistra seguiva una idea ben precisa – alle volte si trasformava in follia – quella cioè del progresso sociale e della modernità, anche se con visioni completamente diverse. Adesso, invece, non è così, assistiamo all’immagine di una mo-

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dernità che “ritorna su se stessa”, di un processo di modernizzazione che ripiega su di sé per “mettersi” (o rimettersi) in discussione, e «si fa tema e problema di se stesso». Un sistema socio-culturale che s’impone, radicalmente, una verifica dei propri valori, che richiede, per così dire, una nuova giustificazione discorsiva, una rimotivazione razionale di ciò che fino ad allora era apparso intrinseco all’ordine delle cose o, per dirla come Giddens, un insieme di “verità rituali”. Ma quell’immagine contiene anche l’idea, ben più inquietante e impegnativa, di una modernità che nel proprio sviluppo storico rende in qualche modo negativo e distruttivo ciò che, alla sua origine, era stato considerato – e in buona misura era effettivamente stato – positivo e costruttivo. In sostanza, l’idea di una modernità che

LA CITAZIONE

Quel giorno di rabbia che innescò il ’77

«Dal carroccio degli indiani a questo punto sono partiti dei palloncini: pieni di acqua colorata e vernice. Nel servizio d’ordine del Pci c’è stato un attimo di sbandamento. Qualcuno deve aver pensato che si trattasse di qualcosa di pericoloso, molti si sono infuriati quando la vernice è piovuta sulla testa della gente. È partita allora una carica per espugnare il carroccio degli indiani. Travolta “l’ala creativa” del movimento, il servizio d’ordine del Pci, che ormai aveva raggiunto il fantoccio di Lama, è entrato in contatto con l’ala “militante”. Sono volati pugni, schiaffi, calci, poi il carroccio è tornato in mano agli occupanti dall’università che lo hanno usato come ariete per controcaricare. A questo punto


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“divora” se stessa, che, «volgendosi contro se stessa, scopre di dover fare i conti con i suoi stessi limiti», dirà ancora Giddens. O, se si preferisce, che si “de-costruisce” nel momento in cui porta alle loro estreme conseguenze quegli stessi processi che, per una lunga fase storica, l’avevano “costruita”. E se nel primo aspetto è implicita una dinamica ancora “lineare” del moderno – il compimento della sua vocazione all’autofondazione razionale e discorsiva, il suo bisogno originario di una giustificazione argomentata del proprio “senso” e insieme la sua “apertura epistemologica”, la “pensabilità” di un novum possibile, più direttamente implicato con la materialità dei processi storici, prevale, con forza, l’immagine della rottura, di un percorso “spezzato”, che interrompe la deriva evo-

uno dei capi del servizio d’ordine della federazione romana del Pci ha usato un estintore contro i militanti dei collettivi. La nuvola bianca di schiuma è stata il segnale di partenza della rissa più selvaggia. Mentre Luciano Lama continuava il suo discorso al centro della piazza, fra i due schieramenti ormai era un continuo avanzare e arretrare a pugni e botte. Poi dal fondo, verso la facoltà di Lettere, contro il servizio d’ordine del Pci, sono volate patate, pezzi di legno e d’asfalto. Lama ha concluso il suo discorso alle 10,30, mentre nella piazza in tumulto molti fuggivano, molti, soprattutto sindacalisti, restavano a guardare attoniti, alcuni cercavano disperati di dividere i contendenti, qualcuno già piangeva urlando.

lutiva, anzi la inverte rovesciando la propria direzione di marcia e contraddicendo sistematicamente tutto ciò che prima aveva affermato. Producendo, non attraverso una negazione dei propri principi funzionali, ma in forza della loro radicalizzazione, un “rovesciamento di tutti i (propri) valori”, una sorta di Götterdammerung in cui quasi nessuno degli antichi dèi – appartenenti al pantheon della “prima modernità” o della “modernità industriale” – si salva, trasformato, ognuno, da divinità benefica in demone distruttivo, da portatore di promesse salvifiche in fonte di minacce mortali, da “amico” in “nemico”. Oggi sembriamo completamente immersi in uno di questi cicli di apatia politica, che si situano nell’intervallo tra una generazione politica innovatrice e l’altra. Questi cicli forse sono inevitabili

«Basta, basta, non ci si picchia fra compagni». Dopo, Lama saliva sul palco Vettraino, della Camera del lavoro di Roma. “Compagni” ha tuonato, “la manifestazione è sciolta. Non accettiamo provocazioni”. L’ultima parola è stata quasi un segnale. Un’ultima carica violentissima ha spazzato via il servizio d’ordine del Pci e dei sindacati che ha protetto il deflusso dei suoi militanti. Il camion è stato capovolto, distrutto, poi si sono scatenate le risse». Il ’77 stava iniziando e avrebbe portato nelle pagine dei giornali le più devastanti, raccapriccianti, drammatiche e sanguinarie fasi del terrorismo. La Repubblica 17 febbraio 1977

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come fasi – volano di preparazio- ta in una fascia d’età tra i 18 e i 30 anni; detto meglio, i giovani ne all’innovazione. Naturalmente, la ricerca empiri- europei sono oggi ottanta milioca potrà intervenire a spiegare il ni. La generazione dei giovani perché le giovani generazioni europei di cui si parla ha un paquasi ovunque appaiono ripiega- trimonio di esperienze che è te su se stesse nella ricerca di piuttosto ridotto e tendenzialun’identità che, soprattutto nel mente “opaco” sotto il profilo periodo dell’adolescenza, sembra politico-sociale. Le grandi crisi sfruttare ogni occasione per im- degli ultimi anni sono mediate pedirsi una maturazione social- dai mass-media e non vengono mente e politicamente significa- partecipate direttamente, come tiva. Le esperienze di aggrega- era accaduto alla fine degli anni zione sociale giovanile sono co- Sessanta e all’inizio degli anni munque diversificate nel tempo Settanta, né tantomeno trovano e dunque, anche dal punto di vi- l’opportunità di essere rielaborate collettivamente sta della generadai giovani nelzione politica, è l’ambito di istituimportante indi- Siamo arrivati al punto zioni fondamentali viduare empiri- che la modernità per la storia della camente le soglie cultura politica eudi età che segna- “divora” se stessa no i confini tra scoprendo che deve fare ropea, come i partiti. L’ipotesi semapatia e partecibra convalidata sopazione e addirit- i conti con i suoi limiti prattutto per i pritura un ingresso in politica, così come è impor- mi paesi che hanno dato vita alla tante diagnosticare diverse for- Comunità europea, i cui giovani me di apatia politica, perché gli sono cresciuti all’ombra del Weleffetti dell’apatia possono essere fare State e in una condizione di di segno molto diverso e non relativa pace sociale e soprattutescludere, ad esempio, uno stra- to di profondo deficit ideologiordinario impegno nelle attività co. A parte i casi della Grecia, della Spagna e del Portogallo, di solidarietà sociale. Vale comunque la pena osservare che sono di tarda democratizzaalcune macrotendenze rilevabili zione, negli altri paesi europei nell’Europa contemporanea, che constatiamo l’amaro dato della sembrano idonee a valutare il perdita della memoria storica, movimento del pendolo delle un elemento che caratterizza in generazioni politiche, anche se maniera forte sia i giovani di ognon è facile muoversi sul terreno gi, sia buona parte dei loro genidelle previsioni. Circa il 22% tori e dei loro insegnanti, credell’intera popolazione dell’Eu- sciuti negli anni del secondo ropa occidentale si può conside- Dopoguerra e negli anni succesrare giovane, cioè risulta colloca- sivi. La now generation sembra so-


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L’ANALISI Pietro Urso

stenere un aspetto culturale tipico di una parte importante delle società economicamente avanzate, che si manifesta a cicli ricorrenti. Ha perso significato per moltissimi l’iscrizione e la militanza di base in un partito; sono pochissimi i giovani che riconoscono ai partiti una capacità di rappresentanza dei loro interessi. Lo studio empirico sui giovani europei promosso dalla Commissione della Unione europea rivela che i valori maggiormente dichiarati dai giovani appartengono alla categoria dei defensive values: pace, protezione dell’ambiente, diritti umani, libertà di opinione, guerra contro la povertà. Tuttavia il punto-chiave, per le implicazioni che può avere anche sotto il profilo politico, è che un sentimento generale di insicurezza pervade le giovani generazioni nell’Europa di oggi: questo senso di insicurezza ha delle radici profonde, mal decifrabili e non può essere banalmente e unicamente ricondotto a problemi di carattere economico, come la difficoltà di trovare e di mantenere il posto di lavoro. Il declino delle vecchie forme di azione politica approda anche a una costellazione di valori alternativi di carattere neo-conservatore, fatta di rispetto per l’autorità, bisogno di ordine, domanda di disciplina e intolleranza verso le minoranze. In breve, il panorama non è roseo e le chance per lo sviluppo di una generazione politica che coltivi, in forme attive e partecipate, i valori democratici come valori prioritari e

indiscutibili, non sembrano altissime. Come ogni momento buio della società e dei suoi valori, la storia insegna che dopo esiste sempre un rinascimento culturale, politico e democratico. Ma per evitare che questo nuovo periodo coincida prima con una stagione del terrore, c’è bisogno che la politica e i suoi attori analizzino e contestualizzino i segnali di degrado sociale che negli ultimi tempi sono avvenuti. Bisogna evitare di considerarli isolati, ma è giusto valutarli nel loro insieme per poter esprimere, da parte delle istituzioni, una risposta adeguata ai tempi che corrono. 103

L’Autore PIETRO URSO Giornalista e direttore responsabile del mensile della Fondazione Farefuturo, Charta minuta. È esperto di comunicazione e storia del giornalismo italiano ed europeo.


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È un’illusione tacere il male perché scompaia

Contro il MITO negativo del RIBELLE COLLOQUIO TRA PABLO ECHAURREN E VALERIO FIORAVANTI

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ue generazioni diverse, l’uno figlio dei Sessanta, l’altro dei Settanta. Pablo ha fatto l’artista, il pittore; Valerio era un baby-attore, ha finito per fare il terrorista. Un giorno, negli anni Ottanta, il primo è andato a trovarlo in carcere, sono diventati amici. Non hanno mai parlato di queste cose, degli anni Settanta, della violenza, di quello che ne pensano oggi, dell’eventualità che tutto ciò ritorni. Charta minuta li ha fatti incontrare, li ha fatti parlare. Quello che segue è la sintesi di più di tre ore di colloquio. Avremmo voluto pubblicare tutto, ne valeva decisamente la pena. Ciò che è rimasto affronta il tema della violenza politica da un punto di vista traverso, inedito: tutto da leggere. Senza alcuna curiosità morbosa, solo col dovere civico di capire un cancro tutto italiano chiamato guerra civile strisciante. Volutamente, abbiamo eliminato ogni filtro giornalistico, lasciando il flusso a volte irrazionale (e schiettamente genuino) del dialogo parlato… Un modo per lasciare al lettore il giudizio su un colloquio che, a buon ragione, si può definire unico.


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Pablo Echaurren: «Gli anni Settanta? Ancora una volta, oggi? Assolutamente no, per fortuna non ci sono le condizioni. Certo, se succedesse, sarebbe una iattura: ricordo troppo bene quello che accadde. Ma prima c’erano stati i Sessanta. Ascoltando i Beatles mi liberai per la prima volta di ogni orpello sociale, esistenziale. Appartengo a una generazione che ha goduto di Love me do in diretta, appena è uscita in Italia. Quando si è cominciato a sentire quel tipo di cose, la vita è cambiata di botto. Ma non solo per la musica, anche per le immagini che la accompagnavano. L’uomo non era più il macho di sempre, aveva perso la sua durezza precedente: i Beatles erano freschi, sorridenti, gentili, Paul, John, George, Ringo, non avevano la barba, né i baffi, erano dolci, facevano i coretti in falsetto, avevano i capelli lunghi e lisci. Tutti in qualche modo cominciammo a farci crescere i capelli, a portare anelli su anelli, stivaletti col tacco alto... Poi, a Roma, ci fu l’apertura del Piper Club. Un ufo caduto dal cielo. Una cosa fenomenale perché per la prima volta un ragazzino come me poteva ascoltare musica dal vivo. Io venivo fatto entrare addirittura gratuitamente perché avevo un aspetto alla moda, assai folkloristico. Facevo una certa scena, ballavo sui cubi, mi dimenavo! Ero a pieno titolo un esponente della fauna locale, insomma. In quel periodo arrivavano dagli Usa e dal Regno Unito segnali di un enorme fermento, fatto di love peace and music, consapevolezza


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mista a gioia. Ma tutto questo venne stoppato, almeno dal mio punto di vista, col Sessantotto, con l’ingresso dell’ideologia in ogni settore dell’esistenza. Coi Settanta poi le cose peggiorarono sempre più, si incupirono. Ai colori dei fiori si sostituirono le monocromie delle giubbe verde militari… Frequentavo una scuola di destra, il Giulio Cesare. Ma mi capitava anche di andare nelle assemblee all’università ed erano per me una cosa sconvolgente: i capelli lunghi erano diventati irsuti, c’erano le barbe, la bestemmia ricorrente, la prevaricazione verbale. Per me il ’68 ha rappresentato l’inizio della fine. Gli anni Settanta li ho attraversati da artista in erba e col complesso del dovermi “impegnare” per non farmi emarginare dai coetanei. Poi nel ’77 diventai “indiano metropolitano”...

Valerio Fioravanti: Per molti anni Pablo mi è venuto a trovare tutte le settimane a Rebibbia: abbiamo parlato molto. Intorno a noi, i detenuti politici tendevano a fare sociologia per raccontare, e giustificare, la loro “avventura”. Ma noi non eravamo d’accordo: In Italia avevamo un’arte che si dedicava abbiamo scritto anche un libro, poco alla vita delle Piccoli ergastoli, persone normali che riguardava non gli ergastoli dei grandi criminali, come sono stato io, ma la storia di violenza spiccia dei piccolissimi criminali, di persone che, di piccola condanna in piccola condanna, finivano per stare

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in carcere tutta la vita. Era un tentativo di non mettere, come al solito, il criminale politico al centro della storia... Inutile negarlo: anche se raccontate in negativo, le storie che danno al grande criminale un ruolo centrale ne fanno, per forza di cose, l’unico protagonista di un romanzo storico. Ma la realtà storica è un’altra cosa. C’è molto altro e di più importante che forma un’epoca: il progresso della cultura. Pablo e io avevamo, in chiave provocatoria, una tesi “sociologica” incentrata sulla musica: la elaborammo nel libro Re-


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bibbia rhapsody, che prendeva spunto dalla canzone dei Queen sulla guerra tra bande, Bohemian rhapsody. Ci chiedevamo perché né negli Usa, né in Gran Bretagna, né in nessun altro paese civile fosse esistito un fenomeno terroristico di violenza politica come il nostro. Ecco la risposta: qui in Italia, avevamo avuto un’arte poco artistica, un’arte che si era dedicata molto poco alla vita delle persone normali, che andava da una musica troppo politicizzata – che non rispecchiava una grande fetta delle persone – a una musica

troppo banale. Non avevamo una musica sociale e popolare al tempo stesso, come poteva essere quella dei Rolling Stones e di una serie di gruppi che parlavano all’adolescente, ai ventenni. Negli altri paesi c’erano La musica non dava canzoni “cattive” sfogo al disagio sulle cose feroci dei giovani, come che a volte sanno invece in Usa e in Uk fare i giovani, sulla violenza, la droga. C’erano gli Who, i Queen, c’era il ritornello dei Pink Floyd: «Voglio un’accetta per spaccarti la testa...». C’erano i Genesis, c’era una musica che raccontava, che canalizzava e che, comunque, dava voce al disagio giovanile. C’era un modo artistico di fare poesia e 107 musica, di raccontare la frustrazione propria e quella che nei giovani di quell’età esiste da sempre. Lo sconquasso ormonale, la voglia di battersi per migliorare il mondo esisteva sotto tutte le latitudini ma in Italia non trovò sfogo allo stesso modo. Da noi questa rabbia, questa frustrazione s’incanalò nello scontro “fascisti contro comunisti”. Paradossalmente, negli altri paesi, aveva più senso menarsi per una canzone che per una guerra vecchia di 60 anni, per cose dei nostri nonni, cose che certamente non ci appartenevano. Noi ci schieravamo perché, come tutti i ragazzi, sentivamo il bisogno di schierarci, ma poi… Sai che ti dico, ha più senso schierarsi, dividersi, per una canzone che per la politica… Echaurren: Si può considerare più nobile la guerra tra fan musi-


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cali che non quella tra fazioni politiche? È un azzardo provocatorio, ma in fondo ci può stare. Bisognerebbe iniziare a pensare alla musica come profondo elemento collettivizzante, come fonte di aggregazione. Lo avevano già intuito Gabriele D’Annunzio nella Carta del Carnaro e Marinetti nel pamphlet Al di là del comunismo, due testi che prefiguravano una società ingentilita, ritmata e scandita dalla musica intesa come decisivo collante sociale. D’altra parte la cesura tra anni Settanta e Sessanta si manifesta anche musicalmente, con una forma di intristimento generale, innanzitutto con l’ingresso dei cosiddetti cantautori. Ma c’era anche un altro 108 elemento altrettanto impegnato e impregnato di noia, per me anch’esso rappresenta una svolta oppressiva, soffocante, prevaricante: sto parlando del cosiddetto Progressive, quel genere praticato da grandi gruppi in cui i musicisti erano degli strumentisti raffinati, tecnicamente molto preparati. Costoro si appropriarono della sorgività e della spontaneità del rock, stravolgendola con la loro abilità tecnica. Da stile di strada il rock diventò uno spettacolo Con i movimenti i giovani cominciarono mastodontico, faraonico, degno a liberarsi da quella di teatri delcappa totalizzante l’opera e raffinate filarmoniche. Anche questo fu un segno della negatività degli anni Settanta perché con il loro virtuosismo complicarono, appesantirono la musica togliendo ai ragazzini, ai kids, il rapporto di-

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retto con il ritmo, negando loro il diritto al divertimento e la possibilità di sfogarsi suonandosela a modo proprio. Era una musica dogmatica, spesso ideologica, assolutamente monolitica. È anche come reazione a questa situazione che nasce il Punk, una rottura tutta interna agli anni Settanta ma che intende farla finita con le degenerazioni degli anni Settanta. Il Punk consisteva nel riappropriarsi della musica dal basso, in maniera elementare, ricominciando dai tre strumenti base, senza orpelli stilistici. Anche senza saper suonare. Forse è solo un paradosso, ma quella deriva musicale anglosassone, in Italia si trasforma nel movimento del ’77: da noi la partecipazione giovanile era purtroppo ancora tutta domi-


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nata dalla politica. Per questo in Italia il fenomeno punk prese la forma di un movimento politico, a sinistra. Ma una rottura analoga, seppur limitata, dovrebbe essersi verificata anche a destra, se non sbaglio... La nostra fu una ribellione contro il concetto di militanza (militonti, chiamavamo i duri & puri), di irreggimentazione, di militarizzazione e desertificazione della vita. Quei ragazzi s’inventarono piccole derive esistenziali, segmenti di tempo e spazio in cui ognuno si riappropriava di se stesso e del proprio desiderio di amare, di essere e perfino di divertirsi. Fu infatti nel ’77 che, a parte l’orrore praticato dalle organizzazioni terroristiche, si potevano trovare spazi di libertà individuale fino allora ad inconce-

pibili. Gli indiani metropolitani, i neodadaisti, i totoisti (il riferimento era a Totò) fecero della satira e dell’ironia contro l’irrigidimento mentale dei gruppi extraparlamentari il loro tratto distintivo. Attraverso quelle aggregazioni (o dis/aggregazioni, come le definivamo all’epoca) i giovani cominciarono a liberarsi da una Come fenomeno cappa decennale, politico, quegli anni totalitaria e totanon seppe gestirli lizzante, sostannessuna parte zialmente vetero marxista-leninista. Fino al ’77 per uno di sinistra era impossibile leggere ciò che non portava l’imprimatur: fu allora che si spezzò il “cordone ombelicale ideologico”. Per quel che mi riguarda potei scoprire, senza do-


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vermi nascondere, Céline, Marinetti, Nietzsche... Prima addirittura l’Adelphi era off limits per uno di sinistra. In una libreria a Largo dei Librai (a Roma), accanto alla stampa di movimento, spuntavano testi surrealisti, dadaisti, perfino futuristi. Per non dire degli anarchici e dei situazionisti, che à gauche erano considerati alquanto sospetti, quasi di destra. Non era più una vergogna acquistare un libro di Evola. Per quel che riguarda Valerio, la cappa sarà stata forse un’altra...

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Fioravanti: In realtà è sempre difficile cercare di spiegare il perché uno abbia fatto certe scelte dove la ribellione diventa esplicitamente crimine, trovarne le motivazioni. Sono convinto che alla base esista la responsabilità individuale altrimenti tutti quelli che erano nella mia stessa situazione sarebbero diventati degli assassini. Quando ci chiedono il motivo del nostro agire, o ci chiedono quanto esso fosse colpa del Msi che non ha dato le risposte giuste ai giovani militanti. Per molti anni, parecchi hanno cercato di giustificarsi attribuendo la responsabilità alla politica del Msi, al suo attendismo... Io, sinceramente, ho cominciato a pensarla in maniera diversa proprio seguendo certi grandi processi come quello di Bologna, dove è uscito in filigrana tutto il lavorio dei servizi segreti. Alla fine, fai pace con la vecchia generazione perché ti rendi conto che quello che è successo in quegli anni era di una portata talmente ampia, e stava accadendo a una ve-


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locità tale, che incolpare Almirante di non aver saputo gestire quegli anni, è ingeneroso. Cominci a farti domande del genere: «E perché mai io avrei saputo gestire tutto quello?», «E chi altri avrebbe saputo gestirlo?». Credo che anche la Dc, ad esempio, alla fine, si sia limitata ad appellarsi ai carabinieri lasciandogli carta bianca. Come fenomeno politico quegli anni non seppe gestirli nessuno: in fondo sfuggirono di mano alla stessa sinistra. Ci fu una crescita prepotente di una certa violenza alla quale chi era estraneo non seppe contrapporre nulla. Non ci fu un messaggio culturale o religioso capace di opporsi allo scontro per le strade: le persone perbene riuscivano solo a stare zitte. Mi ricordo quelle uscite un po’ disperate di Almirante sulla doppia pena di morte per i terroristi di destra, mentre poi nelle piazze diceva: «I nostri ragazzi difenderanno le piazze fino all’ultima goccia di sangue». E allora non si capiva di quale sangue stesse parlando. C’era indubbiamente un’ambiguità nel messaggio ed è quella ambiguità che noi abbiamo odiato per un certo periodo. Poi, certo, passano gli anni e ti rendi conto che gestire quella fase era veramente impossibile. Anche a noi sfuggì tutto di mano. Anche noi avevamo iniziato con le migliori intenzioni, senza renderci conto che la violenza s’impossessa di te, diventa come una droga. La violenza è una droga. Echaurren: Nei Sessanta, uno entrava alla libreria Feltrinelli e,

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come in un negozio di Carnaby Street, trovava di tutto, juke-box, spillette, t-shirt, vestiario floreale e psichedelico: era fantastico. Nei Settanta invece ci si andava per rimpinguare la propria biblioteca del militante doc. Mi ricordo in particolare un manuale sulla guerriglia in Angola, un libretto assai diffuso che insegnava come minare un ponte o costruire un mortaio!!! Perché mai – mi chiedo – far “intrippare” un ragazzino con le istruzioni sulla costruzione di armi da guerra?!? È una cosa che mi ha sempre lasciato sbigottito. Che senso aveva far germinare un clima da assedio, da guerriglia, da clandestinità incombente? E soprattutto è curioso come la cosa non suscitasse alcuna reazione e riprovazione nella stampa, anzi era considerato un comportamento alla moda, cool. Il radical-chic era un tipo assai diffuso. E, quando, ancora oggi, tanti ragazzini dicono “beati voi che avete vissuto in quegli anni...”, individuo una sorta d’invidia che non ha assolutamente nessuna ragione di esistere. Fioravanti: Si è così. Quando cerco di raccontare la nostra storia per cercare di evitare che qualcuno ricada negli stessi, tragici errori, m’imbatto in una forma di pazzia diffusa che mi fa avvertire un atroce senso di inutilità. Quando incontriamo i ragazzi e diciamo parole di moderazione, loro ti guardano e ti dicono: «Mi stai prendendo in giro? Non mi vuoi dire quello che pensi!». C’è ancora troppa gente che vuole sentire pa-

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LA CITAZIONE

SAREBBE BASTATO CONOSCERSI DI PIÙ «Francesca [Mambro, ndr] ha diciannove anni il tardo pomeriggio di quel gennaio 1978, quando le dicono di accorrere alla sezione missina di via Acca Larenzia… dove due “compagni”… hanno aperto il fuoco contro i ragazzi che stazionavano all’ingresso della sezione… Dirà più tardi ai giudici…: “Da quel giorno ho giurato che non mi avrebbero trovata mai più disarmata”… A Fioravanti [Giuseppe Valerio, detto Giusva, ndr] e ai suoi amici arriva una voce… i responsabili della morte dei due missini di Acca Larenzia se ne stanno in uno stabile occupato da quelli dell’estrema sinistra a Cinecittà… Arrivano ai giardinetti di piazza Don Bosco… dove… un

role di guerra. Una volta, Francesca (Mambro, ndr) e io, siamo andati al congresso dei radicali a Padova e, come sempre quando ci spostiamo, ci siamo recati a firmare in questura. Era una domenica pomeriggio, intorno alle tre, e nella città deserta abbiamo visto arrivare un gruppetto di energumeni: erano ultras del Padova, di quelli che devono firmare in questura in corrispondenza delle par-


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gruppo di ragazzi sta chiacchierando. Che c’entrano loro con i morti assassinati a via Acca Larenzia? La domanda, Fioravanti e i suoi non se la pongono… a loro basta che quelli abbiano l’aria di essere dei “compagni”… È il battesimo di morte di Giusva… Il 5 febbraio 1981, s’arresta la marcia verso il nulla dell’ex enfant prodige della televisione italiana. Lo arrestano dopo aver falciato due agenti… Il 5 del mese di marzo [1982, ndr], viene catturata Francesca… I primi anni di Francesca in carcere non sono all’acqua di rose. Passa il Natale da sola, perché le altre detenute non ce la vogliono alla festa in carcere. Finché qualcosa si sblocca… La… protagonista di questo secondo tempo… dell’intelligenza e della reciproca comprensione è… Laura Braghetti. Quella che aveva affittato il covo di via Montalcini in cui viene tenuto prigioniero Moro… Tra quelle di sinistra è forse lei la prima a incuriosirsi della ragazza di destra… I primi approcci tra le due detenute avvengono nel cortile del carcere… La Braghetti appunta in un suo diario questo suo avvicinamento: “… Abbiamo iniziato a chiacchierare. Abbiamo misurato il nostro disagio e le nostre lontananze. Abbiamo ricordato i reciproci morti”… Il 16 maggio 1994, alla notizia che la Corte d’Appello di Bologna ha confermato l’ergastolo [sulla strage del 2 agosto 1980, ndr], scrive subito all’amica: “... Ci serve solo il miracolo laico di far prevalere la giustizia e il garantismo anche nel vostro caso”… E se la Mambro incontra la Braghetti… Fioravanti incontra uno come Pablo Echaurren, uno di quelli che negli

anni Settanta avrebbe potuto trovarsi a piazza Don Bosco a chiacchierare con i “compagni”, o a leggere “l’Unità” innanzi a una bacheca per strada, o in un corteo antifascista che andava all’assalto della sezione del Msi della Balduina. Insomma uno di quelli che lui avrebbe potuto ammazzare come un cane… A metà degli anni Settanta Echaurren era un vignettista del quotidiano Lotta continua… dopo il delitto Moro… non pensa più che la sinistra abbia sempre ragione. In più la sua passione di collezionista del futurismo lo ha portato a riscoprire la storia reale del Novecento, e come non fosse vero niente che quelli in camicia nera erano stati solo degli idioti e dei buffoni... Echaurren è perfettamente attrezzato all’incontro con Fioravanti, quando comincia ad andare quasi tutti i giorni a Rebibbia… ad… organizzare una mostra di quadri e disegni firmati dai detenuti di Rebibbia … Echaurren resta incuriosito da Fioravanti, dalla sua lealtà e dalla sua gentilezza… Da questo incontro nasce l’idea di un libro, Rebibbia Rhapsody… dove… due figli degli anni Settanta cercano di spremere dal loro comune albero genealogico tutto ciò che non portava alla morte e che non era morte… la ricerca di un modo di vivere libertario e beffardo… Da destra e da sinistra s’era ribellata una generazione… Alcuni erano finiti a Rebibbia… altri avevano trovato piste differenti…».

tite di calcio, per assicurarsi che non combinino guai. Ci hanno riconosciuto, offerto un caffè, raccontato le loro vicissitudini, volevano sapere di noi, della nostra vita, del processo di Bologna se si riuscirà a riaprirlo o meno… se fosse dipeso da loro, saremmo rimasti lì fuori a chiacchierare fino a notte fonda. Ma noi avevamo la bambina che ci attendeva in macchina, e ce ne siamo andati. Erano

ragazzi arrabbiati, arrabbiati per come il mondo li trattava, per il fatto che nessuno li ascoltava… insomma, niente di molto diverso da come eravamo cresciuti noi… La rabbia, la frustrazione, l’odio hanno semplicemente preso altre strade: il centro sociale da una parte, lo stadio dall’altra. È una cosa che a noi capita molto spesso: la gente ogni tanto ci prende, ed ha voglia di sfogarsi. Gente gio-

Giampiero Mughini Da Il Grande disordine. I nostri indimenticabili anni Settanta

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vane o anziana, di destra, di sinistra o di centro, è uguale, semplicemente hanno in corpo tanta frustrazione e per qualche loro motivo immaginano che siamo in grado di comprenderli meglio di altre persone. Negli anni Settanta La cosa strana è sospettavamo che poi, quando che la verità ufficiale provi a metterci fosse una fandonia una buona parola, a dire che le cose forse non vanno poi così male, ti guardano strano, come se stessimo scherzando. A volte ci strizzano l’occhio, come per dire: «Abbiamo capito, parlate così perché potremmo essere intercettati e potreste finire di nuovo nei guai!». È quello che non capiscono coloro 114 che puntano sulla rimozione: pretendere che non siamo esistiti, o che eravamo solo dei pazzi criminali non fa altro che mitizzare quello che siamo stati, alla stessa maniera di una popstar. C’è una mitizzazione di quegli anni, ma la cosa buffa è che non siamo noi “reduci” a farla, ma i nostri avversari, quelli troppo perbene, quelli che stanno sempre dalla parte dei più forti e dei più giusti. Ma in realtà il discorso è ancora più complesso: quando vado al commissariato I cattivi maestri, oggi, (e ci vado frenon raccontano quentemente!) il la storia d’Italia vecchio ispetper quella che è stata tore che ha vissuto quegli anni è un idolo per i giovani colleghi: lui c’era! I suoi colleghi lo guardano con invidia e paradossalmente guardano con invidia anche noi: «Voi avete fatto una guerra che a noi è preclusa,

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noi ce la possiamo solo prendere con gli zingari, invece voi avete avuto una stagione eroica...». È così che si capisce il successo di film o libri tipo Romanzo criminale o Gomorra, dove il bandito che vive in una siPablo: «Io, di sinistra tuazione dispeperché un fascista rata diventa un mi prese di mira eroe perché viper più di un anno» vere in quel modo è l’unico modo di attraversare quell’inferno ereditato da altri. La colpa è dell’uomo che ama il crimine? Non credo. Credo piuttosto che ci sia uno scollamento tra un eccesso di retorica che continua a dirti che va tutto bene e il fatto che, invece, in cuor tuo, sai che non è vero. Il tenta115 tivo della politica e degli intellettuali di rimuovere il male dalla società, l’utopia che basta non parlarne per farlo svanire nel nulla, crea un effetto di fascinazione per i cattivi. Echaurren: Il personaggio più attraente della società odierna, della cultura, della letteratura, tende a essere il cattivo, raramente è il buono. Ma questo non c’entra con la politica, fa parte delle debolezze umane. C’entra piuttosto con Valerio: «Il problema un’idea di supevero è la nostalgia romismo da bar. del ghetto, la retorica Di terribilismo dell’appartenenza» peracottaro o di un distruttivismo estetizzante assai in voga tra intellettuali da strapazzo e artisti avanguardisti contemporanei che strizzano l’occhio al diverso inteso come trasgressivo.


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Fioravanti: Negli anni Settanta non capivamo cosa c’era sotto, ma capivamo che la verità ufficiale era una fandonia. Da qui è nato l’errore (e l’orrore) per alcuni di noi di arrivare a pensare che fosse giusta la ribellione con le armi. Ed è un errore che si ripete nel tempo perché la verità non è mai uscita fuori e c’è ancora chi, per questa ambiguità, può pensare di legittimare chi si è ribellato con la violenza. È grottesco, paradossale, ma non nasce da un’opera di proselitismo: nasce dai demeriti della cultura italiana che non riesce mai a fare i conti col proprio passato. È successo con il fascismo, sta succedendo con gli anni Settanta. Oggi non c’è più nessuno che predica esplicitamente odio e rivoluzione, ci sono però molti cattivi maestri che non vogliono raccontare la storia d’Italia per quella che è stata. Echaurren: Recentemente ho letto una dichiarazione di Marcello de Angelis che pressappoco diceva: «Sono diventato di destra perché tre di Lotta continua per un anno e mezzo mi hanno preso di mira e mi hanno detto “se continui su questa strada ti rompiamo le ossa”». Ebbene io sono diventato di sinistra per lo stesso motivo, perché un fascista mi aveva puntato rendendomi difficile la vita per circa un annetto solo perché leggevo “Paese Sera”, che in realtà compravo perché era il più aggiornato sui cinema. Abbiamo vissuto un periodo in cui esistevano dei tali schemi scemi… che fatalmente hanno alimentato

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vere e proprie lotte per bande. Non dobbiamo dimenticare che gli anni Settanta furono anche la stagione delle cosiddette stragi di Stato che hanno creato comunque un clima di violenza che ha generato ancora più violenza in una spirale senza capo né coda… Fioravanti: Il problema non è la guerra civile in sé, ma la nostalgia di essa, del vivere pericolosamente, la nostalgia del ghetto, la retorica dell’appartenenza, dell’identità, del “noi uomini soli contro il mondo”. L’incapacità di vivere nel mondo con le proprie gambe…. E poi c’è l’altra tesi pseudo-sociologica, ma non del tutto folle: la nostra generazione era figlia di una certa tv per ragazzi, siamo cresciuti con Sandokan, Zorro, Robin Hood, Ivanoe, storie in cui il potere è la parte corrotta e l’eroe è il bandito che si mette contro la legge. Noi eravamo figli di questa visione: ecco quindi la voglia di menare le mani, di appartenere ai pochi ma buoni, ai controcorrente. Echaurren: Per quanto riguarda la sinistra non credo che sia stato questo. Come dicevo anche prima, esiste un’immane bibliografia sull’argomento, un infinito armamentario filosofico, lettarario e ideologico che porta alla scelta della violenza come una possibile via da percorrere. È un tremendo fardello che ancora in certi settori fatica a scomparire, o comunque rimane sullo sfondo venato da una sorta di compiacimento e di nostalgia.


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IL COLLOQUIO Pablo Echaurren e Valerio Fioravanti

Fioravanti: È un armamentario posticcio, perché poi leggi i libri di Morucci & c. e ti dicono che si sono immedesimati tutti con Mucchio selvaggio di Peckimpah…. Cosa c’entra Peckimpah con l’ideologia comunista me lo devono ancora spiegare… È stato uno scavalcamento speculare, quelli di destra come quelli di sinistra hanno scavalcato la propria appartenenza politica. Hanno azzardato. Era lo spirito dell’epoca: l’importante era scavalcare, era andare oltre. A vent’anni è normale voler andare contro qualcuno, ma non è certo necessario passare all’azione violenta. Echaurren: Certi schematismi sono duri a morire. Quelli di sinistra si sono sentiti indifesi rispetto al dialogo tra me e Valerio. Ho avuto delle liti tremende. Mi chiedevano: «Ma tu come fai a stare, a scrivere, a frequentare degli assassini?» E io gli rispondevo: «Ma perché gli altri, quelli dell’altra

parrocchia, sono più accettabili? Le pallottole cambiano colore? Le vittime sono più vittime se muta il colore della pallottola?». Il male non sta solo da una parte ma nell’immaginario della sinistra italiana il fascista è un subumano. C’è un famoso assioma che diceva: «Dove c’è cultura non c’è fascismo, dove c’è fascismo non c’è cultura». E sappiamo quanto ciò sia falso. La nostra guerra civile è stata inventata di sana (anzi mala) pianta: l’Italia in quegli anni non era il Cile, non eravamo sull’orlo di una dittatura, né rossa né nera. Eppure noi ci siamo sentiti in dovere di scendere in campo a difesa di qualcosa che, sostanzialmente, non era in pericolo. Il fatto che fosse una guerra civile inventata è ancora più pericoloso e pazzesco: mille famiglie “per bene” che avevano fatto studiare i propri figli, che andavano a messa tutte le domeniche, hanno partorito degli assassini. Come si spiega che siano diventati degli assassini parteci-

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pando a una guerra inventata quasi dal nulla? E perché, ancora oggi, buona parte delle parole d’ordine che riecheggiano sono altrettanto inventate? Dire che i “camerati” sono tutti mostri o stupratori del Circeo, dire che i “compagni” sono tutti votati al bene dell’umanità è qualcosa di più e di peggio di un preconcetto. Guardate cos’è successo durante il raid contro un negozio di “extracomunitari” avvenuto al quartiere del Pigneto, considerato un’oasi alternativa. I testimoni hanno creduto di riconoscere sul braccio dell’aggressore il tatuaggio di una svastica. Si scoprì in seguito che si trattava invece della celeberrima effige del Che Guevara. Un fatto emblematico che la dice lunga sullo strabismo che condiziona il cervello… l’aggressore deve essere per forza di destra e anche la percezione dei simboli si adegua distorcendo e addomesticando la realtà. In Italia ha operato e opera ancora tutta una serie di luoghi comuni e di tremende cavolate pietrificate che tendono a demonizzare o a rassicurare: ancora oggi c’è la tendenza a imporre un proprio punto di vista, l’illusione che basta censurare il male perché il male scompaia. Ed è su questo che bisogna lavorare per evitare che ritornino gli anni Settanta. Fioravanti: “Anni Settanta” significano compartimenti stagni e gabbie mentali: il dover essere dei meccanismi di costrizione in blocchi dell’umanità; il dover essere in un certo modo per essere accettati dalla propria parte politica. Noi di

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destra siamo stati inventati da quelli di sinistra: hanno costruito loro l’archetipo del fascista cattivo. Ci hanno convinto che l’uomo di destra è spia a prescindere, è infame a prescindere, che sta dalla parte dei carabinieri a prescindere, che è un picchiatore, che deve fare la faccia dura.. Ti rendi conto che la propaganda non ha funzionato solo per la gente di sinistra, è stata una propaganda fortissima, invasiva. La sinistra si è scelta anche i nemici e li ha modellati su un’idea alla quale noi abbiamo aderito per debolezza culturale. Echaurren: Ritengo che i Settanta siano stati pessimi per la sinistra non solo per le derive più mostruose di violenza inflitta e subita, ma anche per la schematizzazione delle persone, per la riduzione di se stessi e del prossimo a stilemi precostituiti, solo adeguandosi ai quali si veniva accettati e riconosciuti come facenti parte del branco. In queste tragicomiche camicie di forza tutto divenne rituale, banale, per certi versi addirittura irreale. L’errore di quegli anni, è stato costringere un’intera generazione a non pensare più con la propria testa. A far sì che non si riuscisse più a parlare col proprio vicino di banco, se questo non corrispondeva al cliché dato. È per questo che gli anni Settanta non devono riaffacciarsi alla storia... Valerio Fioravanti: Credo che la società politica sbagli nel tentare la rimozione di quel periodo: tutti


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IL COLLOQUIO Pablo Echaurren e Valerio Fioravanti

si chiamano fuori, si autoassolvono, nascondono il loro passato. Credo, invece, che sarebbe molto più facile parlarne, far capire la difficoltà del momento, la guerra fredda, la guerra civile strisciante. E, invece, continua ancora oggi a prevalere l’idea della rimozione, che non se ne deve parlare: «I cattivi devono stare zitti, noi non abbiamo fatto niente di male, la nostra storia è tutta perfetta». È il vizio di tutti gli esseri umani: chi può nascondere i propri errori li nasconde. Ma siamo sicuri che sia andata realmente così? È vero che il clima non è lo stesso di allora, però c’è una continuità nelle zone di silenzio. Se tu all’università non mi fai fare un esame e i professori non intervengono è una cosa grave. Io non trovo grave che dentro le università ci siano ancora gruppetti di facinorosi: una percentuale di deficienti c’è sempre, dappertutto. La cosa più grave è che ci siano ancora dei professori che usano le loro cattedre per fare politica, senza avere l’attenuante della giovane età. Ma anche i cattivi maestri in buona misura sono cambiati, a volte si limitano a rimanere in silenzio: se qualcuno dice che il Papa non deve parlare all’università di Roma o che una ragazzina a Torino non deve fare l’esame perché “fascista”, tutto questo cade ancora nel silenzio di troppi. L’antidoto alla violenza è la parola, di chiunque. La violenza non si combatte attraverso il filtro interpretativo dei sociologi, ma permettendo ai ragazzi – attraverso la mediazione dei professori – di parlare con i violenti, di far-

gli domande scomode, che vanno al nocciolo del problema... Una riforma della Gozzini, ossia l’idea che un criminale e la società possano un giorno far pace, dovrebbe costringere la persona che chiede di tornare nella società ad affrontare una richiesta ben precisa dei ragazzi: «Ci dicono che lei un giorno ci ha odiato… ci spieghi in che cosa è cambiato, ci spieghi perché vuole tornare a vivere tra noi». Deve esistere questo colloquio con i vari Vallanzasca, Curcio, Fioravanti, Riina, Cutolo. Altrimenti si alimenta il mito negativo del ribelle. E i miti negativi, tra gli adolescenti, sono sempre pericolosi. 119

Gli autori PABLO ECHAURREN Pittore, autore di fumetti e scrittore, ex vignettista di Lotta continua, ha realizzato numerosi fumetti di avanguardia come Caffeina d’Europa, Nivola vola, Futurismo contro, Vita disegnata di Dino Campana, Vita di Pound, Dada con le zecche. È autore della copertina del romanzo Porci con le ali. Collabora con le riviste Linus, Frigidaire, Tango, Comic Art, Alter Alter.

VALERIO FIORAVANTI Dopo una breve carriera di attore – era il bambino della “Famiglia Benvenuti”, è comparso anche in un episodio di Boccaccio ’70 di Fellini – negli anni ’70 è diventato il capo del gruppo di estrema destra Nuclei armati rivoluzionari. Condannato a diversi ergastoli, dopo diciotto anni di detenzione, adesso è in regime di semilibertà nel carcere romano di Rebibbia e collabora con l’associazione Nessuno tocchi Caino.


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Il potere interpretativo dell’altra “casta”

I cattivi maestri che stampano odio DI MIRO RENZAGLIA

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«I fatti non esistono, esistono solo le interpretazioni», diceva Nietzsche, in evidente spirito antipositivo, anticipando profeticamente, com’era suo uso, vicende che sono ormai di una familiarità prossima alla noia. Quindi, non è per correggerlo ma per ribadirlo alla luce della contemporaneità, se oso afferma-

re che, fosse vivo oggi, avrebbe, forse, recitato il suo detto così: «I fatti non esistono, esistono solo le informazioni…». Ma, poi: chi può dire di saper distinguere veramente la differenza fra informazione e interpretazione? Ricordo, me ancora imberbe, e


ri odio

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PUNTI DI VISTA Miro Renzaglia

Alcuni giornali stanno fomentando una campagna politica, usando le notizie senza reale fondamento

Prendete, per esempio, gli ancora recenti fatti di Verona che sono costati la vita al povero Nicola Tommasoli e aggiungeteli a quelli immediatamente successivi di Roma: al Pigneto, prima, e alla Sapienza, poi. Leggeteli secondo le interpretazioni sfornate a caldo dai media: naziskin accaniti contro un coetaneo colpevole di codino, nella città scaligera; beceri razzisti all’assalto dell’extracomunitario per insondabili motivazioni di identità democratica; fascisti forti e nuovi all’assalto della pacifica pattuglia di democratici in libera, ancorché non autorizzata, attività di rimozione manifesti nella capitale… Si dirà, sì, ma poi quelle versioni frettolose sono state rettificate: contro il giovane veronese sembra non ci sia stato alcun accanimento e gli aggressori, di certo, non fanno gruppo d’insieme intorno a nessun misticheggiamento nazista; la sia pur deprecabile disputa del Pigneto è stata ricondotta a questione di maltolto e mai restituito e gli aggressori vantano ascendenze tutt’altro che di destra; gli scontri all’università avrebbero visto gli aggressori nella parte degli aggrediti e viceversa, come dimostrano con ogni evidenza le immagini fotografiche…

quindi non ancora traviato dall’assuefazione alle corbellerie, aver sentito pronunciare pure assurdità con il sigillo dogmatico dell’enunciato: «Lo ha detto la televisione», quasi fosse, l’elettrodomestico, il portatore di verità indiscutibili. Sono cambiate di molto le cose da allora? Non mi sembra…

Verissimo: nei giorni successivi a quei fatti, liberamente interpretati a botta calda, sugli “organi di informazione” la versione degli accaduti, se non ribaltata, è andata quanto meno prendendo la forma di una più convincente attinenza ai… fatti, appunto… Il che può


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anche giovare all’onor del vero ma è tutto da dimostrare che la rettifica raggiunga con la stessa forza persuasiva le coscienze impressionate dalla interpretazione di primo acchito… La storia dell’“al lupo… al lupo…” la conoscete tutti, no? Dato che sia un falso allarme, alla voce della verità non crederà poi nessuno. Ora, sostituite la piccola vedetta antilupo con il vigile osservator cronista dei giorni nostri: volete che non sappia che l’informazione fresca di giornata ha una forza di radicamento nella memoria collettiva infinitamente superiore a qualsiasi smentita o rettifica suc-

cessiva? E, allora e intanto: «Sbatti il mostro in prima pagina» che poi, male che vada, un trafiletto in terza per smentire tutto si trova… Non è forse vero che ancora oggi appelliamo “girolimoni” il pedofilo di turno, anche se sappiamo benissimo che il povero cristo che portava quel nome era del tutto innocente dell’infamia cui fu accusato? Quanti hanno visto e ascoltato l’intervista a Dario Chianelli, protagonista principale dei fatti del Pigneto, spacciati in prima istanza come ignobile caccia all’immigrato ed eseguita dalle solite squadracce nere? Io giurerei, pochi. E


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PUNTI DI VISTA Miro Renzaglia

giurerei anche, perché ne ho i riscontri, che nella memoria di moltissimi, quasi tutti, è rimasta la prima versione falsa e bugiarda e non la sua onesta e diretta testimonianza di rifiuto della patente razzista appiccicata all’episodio. Lecito chiedersi, allora, il classico: cui prodest tutto ciò? Riduttivo attribuirlo alle maggiori tirature che la libera concorrenza delle edizioni impone, anche se il fattore pondera. Ma pondera di più l’uso politico che dell’informazione e relativa connessa interpretazione viene fatto. Cerchiamo, allora, di inquadrare i fatti sopra ricordati nel contesto del “nuovo clima politico”, registrabile sulle basi: dell’esito infausto per le sinistre grigio-arcobaleno nelle elezioni politiche; di quello infaustissimo, sempre per le sinistre, a Roma nelle amministrative per il Campidoglio; dell’osservazione che a fronte della storica uscita dalla scena parlamentare di qualsivoglia formazione di tradizione comunista palesemente dichiarata, qualche falabrac senza più paravento istituzionale ha vaticinato, auspicandolo, il ritorno degli

anni ’70 e il ricorso alla piazza non certo per il domenicale e pacifico struscio; della fretta con cui certi benpensanti mai-stati-comunisti, alla Veltroni per intenderci, hanno preso immediatamente per buone le interpretazioni della prima ora che suggerivano la matrice “di chiara marca fascista” ad agitare le mani e le spranghe degli squadristi-razzisti-xenofobi-fascisti, senza che nemmeno gli sia venuto in mente di scusarsi della topica quando indagini più serie hanno ribaltato le sentenze senza processo da loro emesse… L’equazione che ne risulta, in fondo, è di quelle elementari e senza nemmeno tante incognite: «Siamo all’opposizione e chissà quanto ci rimarremo... – devono essersi detti i signori masticamaro – a meno che… a meno che…». Ecco, appunto: è questo “a meno che” che mi preoccupa. E mi preoccupa soprattutto quel riferimento nostalgico, neppure troppo velato, ai “formidabili” (formidabili, per chi?) anni ‘70. Chi scrive, gli anni ‘70, assegnati alla storia con il titolo di “anni di piombo”, se li è vissuti sulla sua pelle e ricorda bene le dinamiche di quella strategia di quella tensione che mandò al massacro un’intera generazione di votati alle “belle bandiere”. Intorno ad un regime che mostrava i limiti propri del crollo e dell’ingovernabilità, si creò il mostro, il nemico per antonomasia del civile e democratico vivere della nazione; lo si ghettizzò al di fuori di quel-

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l’arco costituzionale che comprendeva tutti, tranne loro: i reietti del “male assoluto”; gli si aizzò contro un nemico altrettanto sballato, avendo però la premura di coprirgli le spalle; si condannò sistematicamente e a prescindere il primo e si assolse per legittima difesa il secondo; si elevò a sistema il principio infame, scandito in piazza e ribadito puntualmente nelle aule di tribunale, per cui “uccidere un fascista non è reato” e che valse l’avvio di quella logica, viziosamente circolare e perversa, sì, ma pur sempre logica, del perdente “dente per dente”... In tal senso, eclatante per emblema, l’eccidio di Primavalle dove tutto, a differenza di tanti altri episodi, era ed è noto: dal crogiolo gruppettaro marx-leninista che alimentò l’odio e lo spirito assassino Potere operaio al nome dei sicari; dalle coperture giustificazioniste degli intellettuali loro compagni di bandiera alle modalità, per così dire tecniche, dell’esecusione; fino alle complicità, istituzionali e di militanza, che consentirono e consentono ad Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo di scampare agli esiti di giustizia che in un paese normale dovrebbero essere garantiti per diritto di semplice cittadinanza. Il tutto sempre e comunque ben sintonizzato dal canto delle sirene mediatiche che informavano secondo i canoni delle interpretazioni suggerite da un potere che, sentendosi le gambe molli, metteva stampelle al consenso con la repressione di qualsivoglia fonte cri-

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tica dei suoi valori elevati a difesa di ignobili interessi di bottega... Intendiamoci: anche fossimo stati liberi di dedicarci a imprese più alte di quelle imposte dall’esercizio di difesa della nostra identità e, non secondariamente, della nostra incolumità fisica, non saremmo stati noi, i boia chi molla, a far crollare il sistema che venne giù, di conseguenza, sotto le macerie del Muro di Berlino. Anzi, forse è proprio arrivato il momento di fare una giusta autocritica: troppo spesso, proprio noi, abbiamo fatto il loro gioco interpretando al meglio (o al peggio...) delle nostre possibilità il ruolo che il sistema ci aveva appioppato: ribellandoci, con un riflesso automaticamente pavloviano, proprio nei modi in cui esso voleva ci ribellassimo... Comunque – come dicevo – anche senza tutta la repressione di cui fummo oggetto, non saremmo stati noi a determinare la fine di quel sistema. Ma fu certamente la criminalizzazione pregiudiziale con cui ci castigarono uno dei collanti utili a mascherare le crepe di una oligarchia che domandava solo una cosa: perpetuarsi… Si dirà: i tempi sono cambiati… Ed in parte è vero… Oggi non si avverte più l’anelito di quel cambiamento radicale che allora pervase con le sue istanze rivoluzionarie – più immaginarie che reali – l’intera società. E alle caste oligarchiche (ché di caste al plurale si deve parlare: quella politica è solo la più visibile...), oggi, non sfiora nemmeno il dubbio


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PUNTI DI VISTA Miro Renzaglia

che esista un pericolo anche minimo alla loro sussistenza… Eppure, eppure… Eppure, sembra che qualcuno voglia ripetere il giochetto: non si può delegittimare un governo che li ha relegati, per volontà popolare, ad un’opposizione che meno opposizione non si può? Bene (anzi, malissimo…): eccoli agitare di nuovo lo spauracchio di allora, il “male assoluto”; eccoli accreditare la vulgata che è la destra di governo a legittimare, dopo averle istigate, le barbarie, vere o presunte che siano del delinquente rigorosamente nero in impunita funzione, però, di guardia bianca; ecco la stampa sbattere ancora il mostro in prima pagina… Qualcosa, molto probabilmente, i signori masticamaro si auspicano che accada, anche se (per ora...) non hanno l’impudenza di ammetterlo: magari un bel governo di sicurezza (oh! la sicurezza: questo ritornello che incanta tutti e tutti suonano...) nazionale, utile a respingere la reiterata minaccia alle istituzioni democratiche delle nuove Brigate Rosse, dei nuovi Nar. Un bel governo, insomma, che li comprenda e non li lasci ammuffire all’ombra di quello fantoccio che hanno tirato su per non sentirsi totalmente perdenti ed inutili, perché incapaci... Non sono all’orizzonte né nuove Brigate Rosse né, tanto meno, nuovi Nar? Che importa: «I fatti non esistono, esistono solo le informazioni…». E, allora: avanti, pennini… Avan-

ti, microfoni… Avanti, megafoni… Avanti, ambulanze… P.S. Farebbe ridere, se non fosse una conferma inquietante a quanto sopra scritto, la leggenda metropolitana dei fascisti in giacca e cravatta di Casapound e del Circolo Futurista Casal Bertone, all’assalto dell’ultimo recente corteo Gay Pride, in transito a Piazza Venezia a Roma. È vero: quei fascistacci erano proprio nei pressi, mentre la gioiosa mascherata gay intonava canti alla (letterale...) libera presa per il culo. Caso voleva, però, che fossero gli invitati al rito nuziale di un loro camerata che si sposava nella chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, sita al Campidoglio sopra il Carcere Mamertino. Indi per ciò, le impeccabili giacche e cravatte acutamente osservate dai cronisti. A cominciare da quelli del Corriere della Sera e di Repubblica che hanno puntualmente riportato il fatto secondo la logica ritornata in uso: squadristi in cerca dello scontro... Si attende rettifica: omosessuali all’assalto di un matrimonio etero...

L’Autore MIRO RENZAGLIA Scrittore e blogger. Ha pubblicato Controversi (Ecdp), I rossi e i neri (Settimo Sigillo). Nel 1990 ha fondato la rivista Kr 991 che ha diretto fino al 1999. In qualità di saggista, critico letterario e di costume, collabora a quotidiani, periodici e siti web, fra cui: Secolo d'Italia, Linea, Rinascita, Letteratura Tradizione, Orion, Occidentale, Noreporter.

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Quando la storia vive nei frammenti di vita

Mi ricordo un muro crivellato di proiettili... In questo flusso di memoria dello scrittore Fulvio Abbate, i fotogrammi scorrono una stagione di isteria collettiva: i morti, le scritte, le urla, i titoli, gli amici e i nemici... DI FULVIO ABBATE

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Mi ricordo che sul muro di un liceo scientifico della mia città di allora, Palermo, qualcuno aveva tracciato una scritta con lo spray nero, “Bevo Jägermeister perché Pierluigi ha ucciso Occorsio”. Mi ricordo, ma questo qualche tempo prima, sarà stato quindi il 1972, che dopo una mattinata di fronteggiamento fra “compagni” e “fasci” proprio lui, Pierluigi, cioè Concutelli, dette un passaggio a quattro di noi: ce ne stavamo all’angolo della nostra scuola in attesa del bus quando ci caricò a bordo di una “500”; strada facendo, durante il viaggio disse esattamente così: «Ragazzi, non è questo il modo di fare politica davvero». Mi ricordo un elmetto della prima guerra mondiale, il cosiddetto Modello “Adrian”, sul capo di un militante del Pcd’I (maoisti) riverniciato di rosso e di giallo, la falce e martello diligentemente

pitturata al posto del fregio. L’imbottitura era fatta di gommapiuma. Gli volò via al primo colpo di spranga. Mi ricordo il servizio d’ordine della Federazione giovanile comunista italiana, dove militavo nel 1970; molti anni dopo, ma forse neppure troppi, la persona che lo dirigeva sarebbe diventato dirigente di un grande gruppo editoriale nazionale, anzi, molto di più, uno straordinario “tagliatore di teste”, nel senso di posti di lavoro. Mi ricordo la prima pagina di Potere operaio esposta in edicola all’indomani dal ritrovamento del corpo di Giangiacomo Feltrinelli, artificiere mancato, forse fallito, dilaniato dall’esplosivo sotto un traliccio, a Segrate, Milano. Accanto al ritratto dell’editore “guerrigliero”, un titolo a tutta pagina, “Un rivoluzionario è caduto”.


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IL RACCONTO Fulvio Abbate

Mi ricordo un dossier sul “Neofascismo in Italia” diligentemente pubblicato dal settimanale del Pci, Rinascita. Tra foto pubblicate, quella di un gruppo di bagnanti al centro dei quali spiccava Almirante in costume nero. Il sottotesto, non scritto, così diceva: “Anche i fascisti vanno al mare”. La foto era stata scattata a Catania, allora capitale del neofascismo meridionale. Mi ricordo l’auto di un pittore che abitava nel mio quartiere, un “Maggiolone” decorato, in modo tutt’altro che artigianale, con una grande svastica. Mi ricordo di quando, nel cortile della mia scuola, un ragazzo che si chiamava Marcello fu colto da una crisi isterica, al limite dell’epilessia, lo rivedo mentre lo sollevano e lo portano via, come in una deposizione quattrocentesca, lui continua a gridare «Porco Dio, via i fascisti dall’istituto, porco Dio, fuori i fascisti…». Mi ricordo di quando la polizia caricò un corteo nel ’77, in molti cercarono riparo nei vicoli della Vucciria (siamo ancora a Palermo), ma si videro consegnati dagli abitanti del quartiere agli “sbirri”. Evidentemente, la mafia, che fino a quel momento non si era mai posta il problema della rivolta studentesca del ’68, pensò d’avere davanti agli occhi degli intrusi. Era la fine di un’innocenza, di un’illusione.

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Mi ricordo i servizi del telegiornale dedicati alle perizie sulla morte di Giuseppe Pinelli: la finestra al quarto piano della questura di Milano, un manichino che casca giù, i magistrati in attesa di comprendere cosa sia mai un “malore attivo”. Mi ricordo i manifesti dell’Unione dei comunisti italiani, cioè i maoisti di “Servire il popolo”, durante le elezioni del 1971, sopra c’era scritto: «Un voto per l’insurrezione».

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Mi ricordo l’antipatia che i comunisti, e dunque anch’io, provavamo per lo scrittore Aleksandr Solgenitsin, quasi che meritasse il gulag, quasi che le autorità sovietiche avessero ragione a negargli il visto per ritirare il Premio Nobel. Antipatia per la sua barba, per la sua faccia senza mai un sorriso, antipatia per la Russia “bianca” e s’intuiva nel suo silenzio somatico. Mi ricordo i funerali di un giovane anarchico, Franco Serantini, vent’anni, ucciso dai poliziotti a Pisa nel 1972, lo stesso cui Corrado Stajano dedicò un libro straordinario, Il sovversivo. In copertina, in rosso, c’era il ritratto che il pittore Bruno Caruso gli aveva dedicato. Mi ricordo l’adesione assoluta che dedicavamo alle immagini che giungevano dal Vietnam, dalla sua guerra. Su tutte, la foto di una ragazzina vietcong, minuta, uno scricciolo, che tiene sotto tiro un soldato americano, forse un pilota appena abbattuto.

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IL RACCONTO Fulvio Abbate

Mi ricordo le foto delle trappole che i vietcong, gli “eroici combattenti vietnamiti”, costruivano sul terreno di guerra, fra il delta del Mekong e il sentiero di Ho Chi Minh. Erano botole rivestite di lance acuminate. Mi ricordo la sensazione che la violenza fosse un dovere necessario, al termine della quale sarebbe cessata la pioggia della lotta di classe, c’era anche un verso di Vladimir Majakovskij a confermare questa certezza, parlava dell’unica «giusta guerra fra tutte quelle che provò la storia». Con la rivoluzione sarebbe tornato il sole. Mi ricordo che i fascisti erano un mondo a parte, salvo quando avevano il volto di un compagno di classe, un mondo antropologicamente “altro”, forse addirittura geneticamente, quasi custodissero qualcosa di mostruoso, di deforme, anche i loro occhi, il loro sguardo, rientrava nel mistero, nascosto dietro le lenti scure dei Ray-Ban. Mi ricordo lo stupore per un fascista con i capelli ricci lunghi e che indossava l’eskimo. Mi ricordo che il divieto di far parlare i fascisti in assemblea era fra le poche certezze assolute. Mi ricordo il linguaggio dei volantini, assoluto, assertivo, quasi mai sfiorato dal dubbio della retorica, della realtà, dell’irrealtà. Mi ricordo che certuni dei gruppi extraparlamentari, durante i

cortei, gridavano «Cosa vogliamo?». La risposta, corale, era: «Tutto!». Cui seguiva: «E allora?». «Potere!». «Potere operaio! Potere operaio!». I comunisti del Pci, convinti che non si potesse rinunciare alla replica, avevano però creato una variante: «Cosa siamo?». Risposta corale: «Comunisti!». «E allora?». «Per le riforme, per il socialismo». Vinse sempre la prima versione. Mi ricordo che nel 1972 il Psi, non ancora nelle mani di Craxi, stampò un manifesto dove c’era una foto di Almirante ritoccata con i baffi di Hitler, sotto c’era scritto: «Affidereste il futuro dell’Italia a quest’uomo?». Mi ricordo una scritta: «Bacino della Meloria: 52 paracadutisti morti, 52 fascisti in meno». Era il novembre del 1971 quando un aereo partito dalla base militare di Pisa si inabissò nelle secche al largo delle coste della Toscana. “L’ultimo imbarco del ‘Gesso 4’”, è il titolo dei versi che Dino Buzzati dedicò loro: «Ora se ne vanno, /guardateli se ci riuscite./Non piangono, non maledicono, non si disperano./Spalla a spalla si allontanano,/pallidi sì, ma senza un tremito!/Con quel passo lieve e fermissimo che un tempo si diceva/appartenesse ai Guerrieri e agli Eroi». Quello di Buzzati, ovviamente, era un omaggio “borghese”. Mi ricordo una vignetta di Wolinski, il più grande, il più straordinario vignettista del Sessantotto

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francese, una vignetta dedicata proprio all’Italia, mostrava una veduta dall’alto di Roma, c’era la cupola di San Pietro, c’erano gli alberi di Villa Borghese, e altre case e altre cupole a volo d’uccello, su tutto però, in quel paesaggio, nello stesso paesaggio, svettava un grattacielo enorme con l’iscrizione della sua ragione sociale, “Société anonyme Les Brigades Rouges”.

Mi ricordo i versi di una canzone del cantastorie Franco Trincale, dicevano così: «Per ogni CocaCola che tu compri, è un proiettile all’America che dai…».

Mi ricordo d’avere visto, a Genova, nel 1971, per la prima volta, un volantino delle Brigate rosse, la stampa era tipografica, in rosso, stava incollato su una cabina telefonica. Non ne rammento più il testo.

Mi ricordo i funerali milanesi di Roberto Franceschi nel 1973, militante del Movimento studentesco, la canzone a lui dedicata conteneva una certezza: «Compagno Franceschi sarai vendicato dalla giustizia del proletariato». Sui manifesti affissi ai muri e su quelli volanti un’altra certezza: «Il compagno Roberto è morto, assassinato dalla polizia di Andreotti».

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Mi ricordo le foto della militante dei Nap, i Nuclei armati proletari, Maria Pia Vianale, nella gabbia di un’aula di tribunale, ricordo che era molto bella. Ed è questo un ricordo rimasto condiviso. Mi ricordo che un militante della mia facoltà di filosofia, fuoricorso decennale, era per tutti Molotov. Mi ricordo le risse fra il servizio d’ordine dell’Autonomia operaia e quello del Pci per la testa del corteo. Mi ricordo che gli anarchici chiudevano ogni corteo, se ne stavano lì in fondo a formare l’ultimo cordone, con le loro bandiere, i loro fazzoletti neri al collo. Mi ricordo i fischi e le pietre contro la facciata del consolato Usa.

Mi ricordo un’altra canzone, una canzone-manifesto, diceva così: «La violenza, la violenza, la rivolta, chi ha esitato questa volta lotterà con noi domani…».

Mi ricordo che la polizia era “fascista”. Mi ricordo gli “sbirri” della “politica”, nel senso di squadra, (la sigla Digos sarebbe nata molto dopo), insieme ai loro soprannomi, “Baffo rosso” e “Petrosino”. Lo ricordo insieme ai loro vestiti “Facis” o “Lebole”. Salariati dello Stato, le scarpe sformate. Mi ricordo, era il 1973, d’essere andato al cinema a vedere un film intitolato Flesh Gordon, andata e ritorno dal pianeta Porno, dove il gran sacerdote Mongo, teatralmente omosessuale, anzi, frocio, almeno nel doppiaggio italiano, chiudeva ogni suo rito


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IL RACCONTO Fulvio Abbate

invocando così «Oh, Pier Pasolini, signore di tutti noi ricchioni, dacci anche oggi la tua benedizione, amen». Mi ricordo che Giorgio Gaber chiudeva i suoi concerti sollevando il pugno chiuso. Mi ricordo un episodio legato a Dario Fo negli anni della Compagnia La Comune: al temine dello spettacolo ecco giungere un signore con i baffi che si qualifica come poliziotto e dichiara di dover portare l’attore in questura, Fo a questo punto invita tutti a non agitarsi, «… compagni, non perdiamo la calma», il pubblico non è però del suo stesso avviso, ma Fo insiste, «… compagni, adesso intoniamo tutti l’Internazionale, tutti insieme, dai intoniamola a pugno chiuso contro ogni provocazione». Ed è subito l’Internazionale. In realtà, si tratta di un espediente di drammatizzazione, infatti anche il “poliziotto” è un attore. La scena si conclude con un applauso, e grandi sorrisi. La rivoluzione sembra davvero a un passo. Mi ricordo certi corti bastoni di legno con un pezzo di stoffa rossa inchiodata sopra, gli stessi che, impugnati con due mani, servivano a rinserrare i cordoni; chissà perché si chiamavano “Stalin”. Mi ricordo che fra i libri più letti c’era Senza tregua, la guerra dei Gap di Giovanni Pesce, Medaglia d’oro della Resistenza. Mi ricordo che molte ragazze borghesi a un certo punto si fidanza-

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rono con gli oranghi dell’autonomia, che venivano invece dai quartieri popolari, illudendoli d’essere stati finalmente accolti nei quartieri alti, nelle loro case al mare. Li rivedo sbracati sulle sdraio di plastica, a gambe aperte, finalmente sicuri di avercela fatta. Era il 1977, li avrebbero scaricati l’estate dopo.

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Mi ricordo che pensavo con sentimento di adesione ai palestinesi, ad Al Fatah, ai Feddayn, ma anche ad altri gruppi di guerriglia, c’era perfino uno slogan cumulativo a tenerli uniti nella stessa famiglia della rivoluzione, “Irafeddayn-tupamaros-vietcong!”. Così, allora. Mi ricordo Enrico Berlinguer durante una Tribuna elettorale televisiva del 1972 o forse dell’anno successivo, Berlinguer che si rivolge ad Almirante: «Sappiate che siamo disposti a combattervi su tutti i piani». Il sottotesto è chiaro: anche sul piano militare, anche con le armi. Mi ricordo i pugni di ferro, le catene, le scacciacani. Mi ricordo che alcuni fascisti avevano il dobermann. Mi ricordo di quando c’erano i fascisti e allora si telefonava agli operai del Cantiere navale, perché intervenissero. Mi ricordo che il mio compagno di banco, G., era iscritto alla Giovane Italia, e aveva anche un “Lui” Innocenti, la moto, lo scooter, il mezzo più sfortunato del-

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l’intera storia della motorizzazione, G. qualche anno dopo sarebbe diventato anarchico, e poi “arancione”, cioè seguace del santone indiano Bhagwan Shree Rajneesh, forse anche tossico di eroina, avrebbe poi aperto un ristorante alle Hawaii, un’impresa non meno fallimentare. Fu lui a spiegarmi che Via del Campo di Fabrizio De Andrè era un capolavoro nonostante nel testo ci fosse la parola “puttana”. Mi ricordo d’avere visto il film Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, e d’averlo ritenuto addirittura un “capolavoro”. Mi ricordo che quando, nel 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro non pensai nulla di particolare, non un giudizio né altro. Nulla. Mi ricordo che quando ci fu la strage di piazza Fontana stavo andando con mio padre e mio zio Franco in trattoria. Mi ricordo di Pietro Valpreda, delle sue poesie, modeste, modestissime. Ciononostante, un bestseller. Mi ricordo la copertina di un libro di Nanni Balestrini, La violenza illustrata, pubblicato da Einaudi nel 1976. Con le immagini di Pablo Echaurren a fare da sipario: un corteo per il Vietnam, una barricata, le bandiere rosse issate su due ciminiere, la falce e martello che ha trovato posto su un muro gocciolante di rosso, il tetto dello stabilimento di Mirafiori, un pugno chiuso che mostra un mitra; pae-


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IL RACCONTO Fulvio Abbate

saggio e araldica della lotta armata, dell’occupazione del mondo, il comunismo e la sua prassi, anzi, praxis, come sperimentalismo letterario. La violenza illustrata, in quadricromia, a tempera. Fra i capitoli, ce n’era uno così intitolato: “Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile”: una promessa solenne, ma anche una preghiera. Mi ricordo la foto di Mussolini appeso per le caviglie al distributore di benzina di piazzale Loreto, Milano, aprile 1945, pubblicata sulla prima pagina di Lotta continua. Come un’immagine festiva.

la polizia, le cariche, il vuoto, i cordoni che si spezzano, le ragazze che urlano; su tutto, è il ’77, una canzone degli Alunni del Sole, ’A Canzuncella. Ed è questo l’ultimo dei ricordi. Il presente inizia un istante dopo. P.S. Questo testo frammentario, rinunciando a qualsiasi pretesa saggistica, fa proprio l’espediente del flusso di memoria, che come tale non pretende d’essere assoluto, bensì parziale, se non “volatile”, che altrove ha già trovato nel libro dello scrittore francese Georges Perec, Je me souviens, un significativo e assai più mirabile antecedente.

Mi ricordo che non sapevo fare a botte, che avevo paura. Non era il mio mestiere, anzi, non ne avevo il talento. E un po’, ancora adesso, me ne vergogno.

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Mi ricordo la copertina di una rivista dell’autonomia intitolata, L’arma propria. A tutta pagina, la foto di un muro crivellato di proiettili, intorno ai fori i cerchi di gesso tracciati dalla polizia. Mi ricordo che facevo teatro, così fino a quando non arrivarono le leggi speciali di Cossiga, e il locale fu chiuso, ebbe i sigilli, come possibile “covo”. Mi ricordo che non ho mai desiderato avere un’arma, una pistola. Mi ricordo che non ero tagliato per la violenza. Mi ricordo le chiavi inglesi degli autonomi, il corteo che ondeggia,

L’Autore FULVIO ABBATE Scrittore, nel 1998 ha dato vita al Teledurruti project, un laboratorio mediatico di ispirazione situazionista. È opinionista dell’Unità e del Foglio, oltre a essere Auditeur Réel du Collège de Pataphysique. Tra le sue opere: Zero maggio a Palermo (1990); Oggi è un secolo (1992); Dopo l’estate (1995); La peste bis (1997); Teledurruti (2002); Quando è la rivoluzione (2008).


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Cronologia in nero

Come d’autunno sugli alberi le foglie Compagno riscrive i ’70 con l’incisività della narrativa: dominano immagini di bombe sui treni e agguati, di morti violente e di grandi personaggi che se ne vanno DI GIULIANO COMPAGNO

È morto Dino Buzzati, che aveva scritto Il deserto dei Tartari e Un amore. Le Br hanno ucciso con sei colpi di pistola il sindacalista del Pci Guido Rossa, che stava accendendo la sua auto per recarsi al lavoro. Emilio Alessandrini, un magistrato di 37 anni, è stato ammazzato da tre terroristi di Prima Linea. Il corpo di Giangiacomo Feltrinelli è stato ritrovato dilaniato da una carica di dinamite che lo


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IL RACCONTO Giuliano Compagno

stesso editore stava applicando su un traliccio nei pressi di Segrate. A dodici giorni dalla sua scomparsa, il corpo senza vita della tredicenne Milena Sutter è riaffiorato dalle acque di Boccadasse. Mentre si accingeva a salire sulla sua 500, il commissario Luigi Calabresi è stato assassinato con tre colpi di pistola sparati da un commando di Lotta Continua. È morto il cavallo Ribot, che aveva vinto due Arc de Triomphe. Il brigadiere Antonio Mea e l’agente Pierino Ollanu sono stati abbattuti da una squadraccia delle Br dopo un’incursione nella sede della Dc a Piazza Nicosia. In un vagone del treno “Italicus”, che in quel momento stava transitando in località San Benedetto Val di Sambro, è esplosa una bomba ad alto potenziale che ha ucciso 12 viaggiatori e ne ha feriti gravemente altri 48. L’orefice romano Bruno Tabacchini ha ammazzato il notissimo calciatore laziale Luciano Re Cecconi, il quale stava simulando una rapina nel suo negozio. Tre carabinieri sono stati coinvolti in un agguato mortale nei pressi di Gradisca. È morto Tommaso Landolfi, che aveva scritto Racconto d’autunno e Dialogo dei massimi sistemi.

Un gruppo di autonomi ha attaccato un’assemblea di ciellini a Bologna, e nel successivo intervento della polizia ha avuto la peggio il militante di Lotta Continua Pier Francesco Lorusso. Tre killer hanno atteso sotto la sua abitazione l’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore del crack Sindona, e lo hanno freddato con quattro colpi di rivoltella. È morto Vittorio De Sica, che aveva diretto Ladri di biciclette e Umberto D. In pieno giorno nel centro di Roma il colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco è stato assassinato dalle Br a colpi di lupara. Il diciassettenne ragazzo di borgata Pino Pelosi ha ucciso dopo una violenta lite lo scrittore italiano Pier Paolo Pasolini. Claudio Varalli e Giovanni Zibecchi, militanti di sinistra, sono rimasti senza vita a seguito di feroci scontri avvenuti nel centro di Milano. Il sindaco di Caltanissetta Raimondo Collodoro ha annunciato in Consiglio comunale le sue dimissioni per timore che si traducano in realtà le minacce mafiose ai suoi danni. Il cadavere di Aldo Moro crivellato di colpi sparatigli a sangue freddo è stato ritrovato in una Renault parcheggiata nel pieno centro della capitale.

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È morto Giorgio De Chirico, che aveva stupito il mondo dell’arte con la sua pittura metafisica. Due agenti che stavano perquisendo l’abitazione del geometra empolese Mario Tuti sono stati freddati. Il dirigente Fiat Carlo Ghiglieno è stato trucidato a Torino da un gruppo di Prima Linea con sei colpi di arma da fuoco alla schiena. Militanti neofascisti hanno ucciso lo studente ventenne Walter Rossi, militante di Lotta Continua. 136

In località Murazze di Vado una frana ha fatto deragliare l’espresso Bari-Milano, sul quale è piombata ad alta velocità la “Freccia della Laguna”, provocando 48 morti e 120 feriti. È morto Luchino Visconti, che aveva diretto Bellissima e La caduta degli dei. Durante la notte alcuni militanti di Potere Operaio hanno dato fuoco all’abitazione del missino Mario Mattei nel quartiere periferico romano di Primavalle causando la morte di due suoi figli, Virgilio, 22 anni e Stefano, 8. Indro Montanelli è stato colpito alle gambe da quattro proiettili esplosi da un commando brigatista. Andrea Ghira, Angelo Izzo e Gianni Guido, tre balordi della Roma-bene, hanno seviziato e

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massacrato le giovani Rosaria Lopez e Donatella Colasanti durante un atroce festino in una villa del Circeo. Il sostituto procuratore della Repubblica Vittorio Occorsio è stato ucciso da un terrorista neofascista. Nel corso di una manifestazione sindacale un ordigno nascosto in un cestino di rifiuti è esploso nella centralissima piazza bresciana della Loggia uccidendo 6 persone e ferendone un centinaio. Alcuni killer mafiosi hanno giustiziato il giudice Cesare Terranova e la sua guardia del corpo Lenin Mancuso. Un’epidemia di colera è dilagata in Campania e in Puglia mietendo decine di vittime. Aggredito a sprangate da attivisti della sinistra extraparlamentare, il militante del Msi Sergio Ramelli è entrato in coma profondo per trauma cranico con sfondamento parietale sinistro e lacerazione cerebrale sinistra. È morto Gino Cervi, che aveva recitato nei ruoli di Peppone e del Commissario Maigret. Quarantatre passeggeri si sono schiantati al suolo a causa dell’improvviso cedimento di un cavo della funivia del Cermis. A Piano del Rascino i carabinieri hanno fatto irruzione in un cam-


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IL RACCONTO Giuliano Compagno

po paramilitare e hanno ucciso il militante di destra Giancarlo Esposti. Prima di essere abbattuto da un agente di Ps, il brigatista Walter Alasia ha ucciso il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega. È morto a Venezia Ezra Pound, che aveva scritto: «Il tempio è sacro perché non è in vendita». Una fabbrica di esplosivi è saltata in aria a Spilimbergo e ha fatto cinque vittime, tra cui un bambino. Alessandro Floris, trent’anni, fattorino all’Istituto delle case popolari, è stato ucciso a rivoltellate mentre tentava di impedire la fuga di due banditi che avevano appena rapinato gli stipendi dei dipendenti genovesi. Un violentissimo nubifragio si è abbattuto su Genova causando 26 morti e miliardi di danni. Nessun superstite dei 46 paracadutisti della “Folgore” precipitati con un quadrimotore C130 sugli scogli della Meloria, a largo di Livorno. Nel corso della partita PerugiaJuventus il calciatore Renato Curi si è accasciato sul terreno ed è spirato. Due giovani sanbabilini, Giorgio Invernizzi e Fabrizio De Michelis, hanno ucciso la sedicenne Ol-


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ga Calzoni per simularne il rapimento e chiedere il riscatto. È morto di tumore Armando Picchi, che era stato il libero della grande Inter di Herrera. Il giornalista palermitano Mauro De Mauro è scomparso, forse perché conduceva un’inchiesta sulla morte del Presidente dell’Eni Enrico Mattei.

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Armati di tutto punto, tre detenuti si sono asserragliati con degli ostaggi nel carcere di Alessandria e hanno risposto al blitz delle forze dell’ordine, al termine del quale sono morte sei persone, tra cui i banditi Cesare Concu e Domenico Di Bona. Nello stadio Olimpico di Roma un razzo sparato dalla curva opposta ha ucciso sul colpo il trentatreenne Vincenzo Paparelli, che era seduto accanto alla moglie in attesa dell’inizio del derby. A causa delle lunghe piogge una valanga di acqua e fango è precipitata dal monte Erice sulla città di Trapani mietendo 16 vittime. È morto Pietro Germi, che aveva diretto In nome della legge e Divorzio all’italiana. Ninfa Marchesi, di 6 anni, insieme alla sorella Virginia e all’amichetta Antonella Valenti, di 9, sono state uccise a Marsala dallo zio di quest’ultima in un raptus di morbosa follia.

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Diciannove pazienti sono deceduti per un’improvvisa esplosione che ha distrutto il padiglione “Cattani” dell’Ospedale Maggiore di Parma. Si sono svolti a Roma, nella chiesa di Piazza della Minerva, i funerali del giovane studente greco Mikis Mantakas, abbattuto a revolverate dagli autonomi. All’aeroporto di Fiumicino terroristi arabi hanno lanciato due bombe incendiarie all’interno di un Boeing 707 della PanAm uccidendo 32 persone. Il magistrato Fedele Calvosa, insieme ai componenti della scorta Giuseppe Pagliei e a Luciano Rossi, sono stati assassinati a Frosinone per mano di un commando fiancheggiatore delle Br. Un terremoto del decimo grado della Scala Mercalli ha devastato il Friuli causando oltre cento morti. Le Br hanno giustiziato a Torino il Vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno. Si è ucciso Alighiero Noschese, che aveva imitato la vita di tutti. La scorta di Aldo Moro composta da Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Jozzino, Francesco Zizzi e Giulio Rivera è stata massacrata da un commando brigatista che ha rapito il Presidente della Dc.


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IL RACCONTO Giuliano Compagno

Un gruppo di terroristi di Prima Linea è penetrato nell’Istituto di Amministrazione Aziendale di Torino, ha sequestrato 190 persone e ha gambizzato 10 studentilavoratori. Nei pressi di Sezze Romano, dopo un turbolento comizio di Sandro Saccucci, un colpo partito dalla pistola di Pietro Allatta ha ferito a morte lo studente comunista Luigi De Rosa.

lazzo nel quartiere romano del Prenestino. Il Procuratore della Repubblica Francesco Coco, la sua guardia del corpo e il suo autista sono stati uccisi da due commandos delle Brigate Rosse. È morto Giuseppe Ungaretti, che aveva scritto: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie».

È morta Anna Magnani, che aveva recitato in Roma città aperta e L’onorevole Angelina. Una nube tossica fuoriuscita dallo stabilimento chimico dell’Icmesa ha contaminato l’abitato di Seveso disperdendo nell’atmosfera alte percentuali di diossina.

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Il Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione è stato giustiziato dalla mafia mentre rientrava a casa dal cimitero dove si era recato in visita alla moglie. È morto Ennio Flaiano, che aveva scritto: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Prima di essere colpito a morte, l’agente Lorenzo Cotugno è riuscito a ferire il brigatista Cristoforo Piancone, così favorendo la sua successiva cattura. Sedici morti, 70 feriti e 300 senzatetto sono il bilancio di una esplosione che ha distrutto un pa-

L’Autore GIULIANO COMPAGNO Ha pubblicato 16 volumi, tra saggistica, comica e narrativa, tra cui i romanzi Generazione zero, L’Assente, Il sesso è una parola, Memoria di parte, sino ai più recenti Critica della ragion pubica e Siamo come negozi (Coniglio editore). Ha scritto per il teatro di Giancarlo Cauteruccio. Ha tradotto opere di Bataille, Beckett, Bullough, Jarry, Klossowski. Appartiene al Novecento. La sua richiesta di entrare nel Ventunesimo secolo è stata respinta. Non ha presentato ricorso.


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO II - NUMERO 10 - LUGLIO/AGOSTO 2008

A CURA DI BRUNO TIOZZO www.farefuturofondazione.it

MAI PIÙ ANNI SETTANTA

ROMA

Colloquia. Spunti di dialogo Lunedì 14 luglio - ore 19 Contro il mito negativo del ribelle - 106 PABLO ECHAURREN e VALERIO FIORAVANTI

L’idea perversa dei miei con i miei e i tuoi con i tuoi - 2 LUCIANO LANNA

I cattivi maestri che stampano odio - 122 MIRO RENZAGLIA

Spunti di dialogo. Il primo appuntamento si è tenuto

Ho un nemico, quindi sono - 13 FIORELLO CORTIANA

Mi ricordo un muro crivellato di proiettili... - 128 FULVIO ABBATE

per rilanciare il paese”.

Quel vizio antico della storiografia militante - 20 GIANNI SCIPIONE ROSSI

Come d’autunno sugli alberi le foglie - 136 GIULIANO COMPAGNO

La violenza giusta oggi non esiste più - 36 INTERVISTA CON LUIGI MANCONI di Francesco Rubino

tra autorevoli esponenti del governo e un pubblico

Per superare i ’70? Vanno ricordati- 52 GIOVANNI MORO

Distribución del ingreso y superación de la pobreza. Conferenza della Fundación Rafael Preciado Hernández sulla lotta alla povertà. Mercoledì 16 luglio

ROMA

WASHINGTON

Integrazione e donna

The new case against immigration. L’American Enterprise Institute presenta un libro di Mark Krikorian, che argomenta contro la possibilità di accogliere grandi flussi di immigrati. Martedì 1 luglio

WASHINGTON

selezionato di stakeholder dal titolo Colloquia. con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Altero Matteoli, sul tema “Infrastutture e mobilità

Ottobre Presentazione del progetto di ricerca di Farefuturo all’interno del contesto migratorio. La figura

Il vizio italiano del modernariato ideologico - 85 FRANCESCO LINGUITI Come Indiani e destra ruppero il “fronte”- 90 GIOVANNI TARANTINO Gioventù in attesa del suo Rinascimento - 98 PIETRO URSO

The Birth of freedom. La Heritage Foundation si interroga con l’Acton nstitute sulle radici della libertà. Mercoledì 16 luglio

SANTIAGO DEL CILE

e nella comunità di appartenenza.

PARIGI

Quella voglia inascoltata - 68 COLLOQUIO CON MARCO TULLIO GIORDANA di Filippo Rossi

Non solo piombo. Gli altri colori dei Settanta - 80 DILETTA CHERRA

CITTA’ DEL MESSICO

femminile sarà analizzata in ambito familiare

Dalla crisi democratica una nuova notte della Repubblica - 58 CLAUDIO MARTELLI

Anni di piombo? Ci è andata bene - 77 GIOVANNI PELLEGRINO

Come cambia l’antitrust nell’Unione Europea. Seminario dell’Istituto Bruno Leoni. Venerdì 11 luglio

MONACO DI BAVIERA Frieden schaffen mit gewalt oder durch dialog? Convegno della fondazione Hanns Seidel sull’esportazione della democrazia. Martedì 1 luglio

sul ruolo della donna come agente di integrazione

Solo chi ripudia la violenza si può chiamare eroe - 46 GIORGIA MELONI

MILANO

Campus Faes 2008. Campo estivo di approfondimento politico rivolto soprattutto ai giovani. Intervengono José María Aznar e Mariano Rajoy. Lunedì 30 giugno – Domenica 13 luglio

La Fondazione Farefuturo avvia una serie di incontri

Nostalgia dei ’70? È paura della libertà GIANFRANCO FINI

...Sempre guelfi o ghibellini - 30 INTERVISTA CON FRANCESCO COSSIGA di Giovanni Marinetti

NAVACERRADA

ROMA

Oltre gli stereotopi Prossimamente Sarà presentato a Bologna il terzo Rapporto di Farefuturo su Il nuovo senso civico degli italiani, coordinato dal professor Luigi Di Gregorio. In serata,

Femmes, passerelles d’Europe. Conferenza internazionale organizzata dalla Fondation Robert Schuman con il patrocinio di Sarkozy sull’impegno delle donne nel processo politico europeo. Partecipa José Manuel Durão Barroso insieme a rappresentanti istituzionali francesi ed europei come Michel Barnier, Nathalie Kosciusko Morizet e Vaira Vike-Freiberga. Mercoledì 2 luglio

China: Primer destino de nuestras exportaciones. Seminario di Libertad y Desarrollo sull’economia cinese. Mercoledì 25 luglio

VANCOUVER Economics for leaders. Corso di politiche economiche organizzato dal Fraser Institute. Domenica 3 – sabato 9 agosto

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore editoriale Angelo Mellone mellone@farefuturofondazione.it Coordinatore editoriale Filippo Rossi filipporossi@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso ursop@chartaminuta.it Collaboratori di redazione: Roberto Alfatti Appetiti, Alessandra Bergamasco, Guerino Nuccio Bovalino, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Valeria Falcone, Filippo Lonardo, Cecilia Moretti, Michele De Feudis, Giuseppe Proia, Adriano Scianca. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/96996400 - Fax 06/96996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it ursop@chartaminuta.it; direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione Cecilia Moretti moretti@chartaminuta.it Progetto grafico Elise srl www.elisegroup.tv Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 70, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario n. 87827/33, Cab 05066, Abi 3002 Banca di Roma, Ag. 246, intestato a Editrice Charta s.r.l. - C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma Segreteria amministrativa Silvia Rossi

cena sociale per le nuove iscrizioni alla fondazione.

LONDRA

FRASCATI

Out of sight, out of mind. Seminario di Policy Exchange sulla cura dei disturbi mentali nel sistema carcerario inglese. Lunedì 7 luglio

Distribuzione Soc.i.d s.r.l Via Carducci, 10 00187 Roma

Summer school di Magna Carta. Martedì 5 – lunedì 11 settembre

Tipografia Renografica s.r.l. - Bologna Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO II - NUMERO 10 - LUGLIO/AGOSTO 2008

A CURA DI BRUNO TIOZZO www.farefuturofondazione.it

MAI PIÙ ANNI SETTANTA

ROMA

Colloquia. Spunti di dialogo Lunedì 14 luglio - ore 19 Contro il mito negativo del ribelle - 106 PABLO ECHAURREN e VALERIO FIORAVANTI

L’idea perversa dei miei con i miei e i tuoi con i tuoi - 2 LUCIANO LANNA

I cattivi maestri che stampano odio - 122 MIRO RENZAGLIA

Spunti di dialogo. Il primo appuntamento si è tenuto

Ho un nemico, quindi sono - 13 FIORELLO CORTIANA

Mi ricordo un muro crivellato di proiettili... - 128 FULVIO ABBATE

per rilanciare il paese”.

Quel vizio antico della storiografia militante - 20 GIANNI SCIPIONE ROSSI

Come d’autunno sugli alberi le foglie - 136 GIULIANO COMPAGNO

La violenza giusta oggi non esiste più - 36 INTERVISTA CON LUIGI MANCONI di Francesco Rubino

tra autorevoli esponenti del governo e un pubblico

Per superare i ’70? Vanno ricordati- 52 GIOVANNI MORO

Distribución del ingreso y superación de la pobreza. Conferenza della Fundación Rafael Preciado Hernández sulla lotta alla povertà. Mercoledì 16 luglio

ROMA

WASHINGTON

Integrazione e donna

The new case against immigration. L’American Enterprise Institute presenta un libro di Mark Krikorian, che argomenta contro la possibilità di accogliere grandi flussi di immigrati. Martedì 1 luglio

WASHINGTON

selezionato di stakeholder dal titolo Colloquia. con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Altero Matteoli, sul tema “Infrastutture e mobilità

Ottobre Presentazione del progetto di ricerca di Farefuturo all’interno del contesto migratorio. La figura

Il vizio italiano del modernariato ideologico - 85 FRANCESCO LINGUITI Come Indiani e destra ruppero il “fronte”- 90 GIOVANNI TARANTINO Gioventù in attesa del suo Rinascimento - 98 PIETRO URSO

The Birth of freedom. La Heritage Foundation si interroga con l’Acton nstitute sulle radici della libertà. Mercoledì 16 luglio

SANTIAGO DEL CILE

e nella comunità di appartenenza.

PARIGI

Quella voglia inascoltata - 68 COLLOQUIO CON MARCO TULLIO GIORDANA di Filippo Rossi

Non solo piombo. Gli altri colori dei Settanta - 80 DILETTA CHERRA

CITTA’ DEL MESSICO

femminile sarà analizzata in ambito familiare

Dalla crisi democratica una nuova notte della Repubblica - 58 CLAUDIO MARTELLI

Anni di piombo? Ci è andata bene - 77 GIOVANNI PELLEGRINO

Come cambia l’antitrust nell’Unione Europea. Seminario dell’Istituto Bruno Leoni. Venerdì 11 luglio

MONACO DI BAVIERA Frieden schaffen mit gewalt oder durch dialog? Convegno della fondazione Hanns Seidel sull’esportazione della democrazia. Martedì 1 luglio

sul ruolo della donna come agente di integrazione

Solo chi ripudia la violenza si può chiamare eroe - 46 GIORGIA MELONI

MILANO

Campus Faes 2008. Campo estivo di approfondimento politico rivolto soprattutto ai giovani. Intervengono José María Aznar e Mariano Rajoy. Lunedì 30 giugno – Domenica 13 luglio

La Fondazione Farefuturo avvia una serie di incontri

Nostalgia dei ’70? È paura della libertà GIANFRANCO FINI

...Sempre guelfi o ghibellini - 30 INTERVISTA CON FRANCESCO COSSIGA di Giovanni Marinetti

NAVACERRADA

ROMA

Oltre gli stereotopi Prossimamente Sarà presentato a Bologna il terzo Rapporto di Farefuturo su Il nuovo senso civico degli italiani, coordinato dal professor Luigi Di Gregorio. In serata,

Femmes, passerelles d’Europe. Conferenza internazionale organizzata dalla Fondation Robert Schuman con il patrocinio di Sarkozy sull’impegno delle donne nel processo politico europeo. Partecipa José Manuel Durão Barroso insieme a rappresentanti istituzionali francesi ed europei come Michel Barnier, Nathalie Kosciusko Morizet e Vaira Vike-Freiberga. Mercoledì 2 luglio

China: Primer destino de nuestras exportaciones. Seminario di Libertad y Desarrollo sull’economia cinese. Mercoledì 25 luglio

VANCOUVER Economics for leaders. Corso di politiche economiche organizzato dal Fraser Institute. Domenica 3 – sabato 9 agosto

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore editoriale Angelo Mellone mellone@farefuturofondazione.it Coordinatore editoriale Filippo Rossi filipporossi@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso ursop@chartaminuta.it Collaboratori di redazione: Roberto Alfatti Appetiti, Alessandra Bergamasco, Guerino Nuccio Bovalino, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Valeria Falcone, Filippo Lonardo, Cecilia Moretti, Michele De Feudis, Giuseppe Proia, Adriano Scianca. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/96996400 - Fax 06/96996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it ursop@chartaminuta.it; direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione Cecilia Moretti moretti@chartaminuta.it Progetto grafico Elise srl www.elisegroup.tv Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 70, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario n. 87827/33, Cab 05066, Abi 3002 Banca di Roma, Ag. 246, intestato a Editrice Charta s.r.l. - C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma Segreteria amministrativa Silvia Rossi

cena sociale per le nuove iscrizioni alla fondazione.

LONDRA

FRASCATI

Out of sight, out of mind. Seminario di Policy Exchange sulla cura dei disturbi mentali nel sistema carcerario inglese. Lunedì 7 luglio

Distribuzione Soc.i.d s.r.l Via Carducci, 10 00187 Roma

Summer school di Magna Carta. Martedì 5 – lunedì 11 settembre

Tipografia Renografica s.r.l. - Bologna Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


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