2011, un anniversario per ricominciare

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EDITORIALE DI GIANFRANCO FINI

Gianfranco FINI

fini@farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

urso@farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE

Direttore relazioni internazionali Federico Eichberg

mellone@farefuturofondazione.it

eichberg@farefuturofondazione.it

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 97 99 64 00 - fax 06 97 99 64 30 info@farefuturofondazione.it

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno IV - Numero 2 - marzo/aprile 2010

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

www. farefu t ur of ondazi one.i t

2 011

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Presidente

2011 - UN ANNIVERSARIO PER RICOMINCIARE

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

UN ANNIVERSARIO PER RICOMINCIARE Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno IV - n. 2 - marzo/aprile 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Un appuntamento per sentirci nazione Ci sono diversi modi per onorare degnamente il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. C’è innanzi tutto la forma della celebrazione, volta a sottolineare il significato morale e ideale dello storico appuntamento. C’è poi la forma della riflessione culturale, diretta a rileggere l’autobiografia nazionale nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle conquiste compiute e nei traguardi mancati. Anche questo è un momento fondamentale. E va vissuto senza retorica o trionfalismo, ma senza neanche indulgere a quella “retorica dell’antiretorica” che rappresenta purtroppo un vizio tipicamente italiano e che conduce spesso al piagnisteo, all’autocommiserazione, se non addirittura all’autodenigrazione, tutti atteggiamenti che hanno offerto negli ultimi anni l’humus “psicologico” alla ripresa di un revisionismo antirisorgimentale di cui non si sentiva davvero il bisogno, come ha recentemente denunciato Ernesto Galli della Loggia. Un conto è rileggere criticamente e serenamente il processo di unificazione in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più problematici, con la consapevolezza che 150 anni fa si compì comunque un’opera mirabile e grandiosa. Un conto è invece prendere a pretesto la complessità della vicenda italiana nel XIX secolo per sollevare polemiche sterili quanto antistoriche. Mi auguro che molte energie intellettuali si sentano coinvolte e forniscano spunti non effimeri di dibattito sul nostro “sentirci” nazione, sulla nostra Bisogna coinvolgere capacità di conservare la memoria comune del passato rafforzando contemporaneaenergie intellettuali mente la volontà di costruire il futuro atper costruire il futuro attorno a valori condivisi torno a valori condivisi. C’è infine un terzo modo per rispettare degnamente un appuntamento tanto cruciale. È la forma “politica”, e consiste nel rinnovare il “patto” tra la politica stessa e gli italiani. In che modo? Innanzi tutto varando quelle riforme – a lungo promesse e mai compiutamente realizzate – che sono necessarie a modernizzare il paese, sotto i diversi profili dei meccanismi decisionali, dell’efficienza amministrativa, della competitività economica, della qualità della vita sociale. L’essere e il “sentirci” nazione devono rappresentare un pensiero e un sentimento che si traducono in azione politica atta a rinsaldare il vincolo tra cittadini. Non è naturalmente detto che le cose andranno effettivamente così. Tutto dipenderà dalla qualità del dibattito pubblico e del confronto politico che si svolgerà nei prossimi mesi. A questo mio auspicio si potrà anche legittimamente rispondere che la necessità di riformare il Sistema Italia è valida sempre e prescinde da ogni, pur rilevante, ricorrenza nazionale. Però, quella offerta dal 2011, è un’occasione unica per una riconquista collettiva di responsabilità. Perché, quello che è stato definito il terzo Giubileo della patria, non è soltanto una “ricorrenza” – beninteso, tutte le ricorrenze pubbliche sono importanti


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO IV - NUMERO 2 - MARZO/APRILE 2010

A CURA DI BRUNO TIOZZO www.farefutur of o ndazione. it

2011 UN ANNIVERSARIO PER RICOMINCIARE

ROMA

Presentazione di Charta minuta Mercoledì 17 marzo

Un appuntamento per sentirci nazione GIANFRANCO FINI - EDITORIALE

È a scuola che si riscopre l’identità - 94 FEDERICO BRUSADELLI

DENVER

PRAGA

Reviving Democratic Capitalism. L’American Enterprise Institute s’interroga sulla crisi del libero mercato. Interviene il Presidente dell’Aei, Arthur C. Brooks. Venerdì 19 marzo

Identitätsfrage der politischen Konservative in Tschechien. La fondazione Konrad Adenauer, insieme a Cevro e altri centri studi locali, approfondisce l’identità del centrodestra nella Repubblica Ceca. Intervengono, tra gli altri, Roger Scruton e l’ex premier ceco Mirek Topolánek. Giovedì 1 aprile

Alle ore 11, presso la sala della fondazione Memmo in via del Corso 418, Gianfranco Fini, presidente della Camera dei deputati e della fondazione Farefuturo,

Il giubileo della patria - 2 FEDERICO EICHBERG

Sorelle d’Italia - 103 BARBARA MENNITTI

Rinnoviamo il contratto stipulato fra gli italiani - 10 ALBERTO SOLIA

In memoria della tv che ha unito il paese - 110 DOMENICO NASO

La ragion d’essere della commemorazione - 14 FEDERICO ROMANELLI MONTARSOLO

Comunicazione, novità e decadimento - 117 ANTONIA MASINO

Continuiamo a fare gli italiani - 20 WALTER BARBERIS

20 settembre festa unitaria - 122 BENEDETTO COTTONE

Ventuno secoli di patria - 30 PAOLO QUERCIA Basta con l’autoflagellazione moralista - 32 ANDREA ROMANO Fermiamo l’ideologia antirisorgimentale - 36 INTERVISTA a ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA di Pietro Urso

Bisogna restituire credibilità alla politica - 54 LUCIANO VIOLANTE Da Torino a Torino, dal passato al futuro - 66 SERGIO CHIAMPARINO Politiche uniformi per risollevare il sud - 75 GIUSEPPE PISANU Italia, lo snodo cruciale del Mediterraneo - 80 FRANCESCO CROCENZI Giovani, l’investimento migliore per recuperare dignità - 88 PIER LUIGI CELLI

ROMA

Semipresidenzialismo, dalla Francia all’Italia

WILDBAD KREUTH (BAVIERA) Das Zusammenleben von Christen und Muslimen in Deutschland. Convegno della fondazione Hanns Seidel sulla connivenza nella società tedesca tra cristiani e musulmani. Venerdì 19 – Domenica 21 marzo

Giovedì 8 aprile

STRUMENTI Verso il 150esimo dell’Unità d’Italia: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso - 132 Conferenza del presidente della Repubbilca Giorgio Napolitano all’Accademia dei Lincei, 12 febbraio 2010

Alla ricerca della polis perduta - 44 ALDO DI LELLO Tre percorsi di riforma per celebrare l’Unità - 50 ADOLFO URSO

parteciperà alla presentazione del fascicolo di Charta

minuta: 2011, un anniversario per ricominciare.

La fondazione Farefuturo organizza un convegno sul

BERLINO

tema del semipresidenzialismo alla francese. Inter-

Die Aktuelle Sicherheitspolitik des Staates Israel. Incontro organizzato dalla fondazione Konrad Adenauer con l’addetto militare e il primo segretario dell’ambasciata d’Israele. Martedì 23 marzo

verrà il presidente della Camera Gianfranco Fini, il segretario generale della fondazione Adolfo Urso, esperti di scienza politica e diritto costituzionale italiano ed esponenti della politica francese. Il convegno si terrà presso la Sala delle conferenze di Palazzo

MINUTA

Marini, via del Pozzetto 158, alle ore 16.

Fumo di Londra - 144 ALESSANDRO MARRONE

ROMA

Innovazione, imprese e ricerca per rilanciare il Sistema Italia - 154 EMO AGNELONI

Flussi migratori e Sistema Italia

Pompei, ecco come cambia la gestione degli scavi - 160 GIUSEPPE MANCINI

Martedì 20 aprile Il presidente della Camera dei deputati, Gianfranco

Il malessere sotto i ciliegi in fiore - 170 TIZIANA MAURIELLO

Fini, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, insieme a esperti del settore, discutono sui temi legati all’immigrazione e alle sue ricadute economiche nel Sistema Italia.

VOLGOGRAD Deutsche und Russen: der Zweite Weltkrieg und 65 Jahre danach. Incontro tra storici tedeschi e russi sulla Seconda guerra mondiale, organizzato dalla fondazione Konrad Adenauer, nell’ex Stalingrado. Mercoledì 14 – Sabato 17 aprile

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Caporedattore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Alessandro Marrone, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Pennisi, Bruno Tiozzo, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/97996400 - Fax 06/97996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it

CADENABBIA DI GRIANTE Religiosität im Wandel - Nachdenken über Christentum und Islam. Gli amici della fondazione Konrad Adenauer si incontrano nella villa italiana dell’ex Cancelliere per un seminario sulle religioni cristiana e islamica. Domenica 25 – Giovedì 29 aprile

Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

MADRID

Amministratore unico Gianmaria Sparma

Recovery: Towards European Resilience. Seminario congiunto European Ideas Network e Faes. Giovedì 25 marzo

Segreteria amministrativa Silvia Rossi

WILDBAD KREUTH (BAVIERA) Landesgeschichte: Bayern und Italien. La fondazione Hanns Seidel dedica quattro giorni allo studio dei rapporti tra Baviera e Italia. Giovedì 13 – Domenica 16 maggio

Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO IV - NUMERO 2 - MARZO/APRILE 2010

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. farefu t ur of o nd az ione. it

2011 UN ANNIVERSARIO PER RICOMINCIARE

ROMA

Presentazione di Charta minuta Mercoledì 17 marzo

Un appuntamento per sentirci nazione GIANFRANCO FINI - EDITORIALE

È a scuola che si riscopre l’identità - 94 FEDERICO BRUSADELLI

DENVER

PRAGA

Reviving Democratic Capitalism. L’American Enterprise Institute s’interroga sulla crisi del libero mercato. Interviene il Presidente dell’Aei, Arthur C. Brooks. Venerdì 19 marzo

Identitätsfrage der politischen Konservative in Tschechien. La fondazione Konrad Adenauer, insieme a Cevro e altri centri studi locali, approfondisce l’identità del centrodestra nella Repubblica Ceca. Intervengono, tra gli altri, Roger Scruton e l’ex premier ceco Mirek Topolánek. Giovedì 1 aprile

Alle ore 11, presso la sala della fondazione Memmo in via del Corso 418, Gianfranco Fini, presidente della Camera dei deputati e della fondazione Farefuturo,

Il giubileo della patria - 2 FEDERICO EICHBERG

Sorelle d’Italia - 103 BARBARA MENNITTI

Rinnoviamo il contratto stipulato fra gli italiani - 10 ALBERTO SOLIA

In memoria della tv che ha unito il paese - 110 DOMENICO NASO

La ragion d’essere della commemorazione - 14 FEDERICO ROMANELLI MONTARSOLO

Comunicazione, novità e decadimento - 117 ANTONIA MASINO

Continuiamo a fare gli italiani - 20 WALTER BARBERIS

20 settembre festa unitaria - 122 BENEDETTO COTTONE

Ventuno secoli di patria - 30 PAOLO QUERCIA Basta con l’autoflagellazione moralista - 32 ANDREA ROMANO Fermiamo l’ideologia antirisorgimentale - 36 INTERVISTA a ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA di Pietro Urso

Bisogna restituire credibilità alla politica - 54 LUCIANO VIOLANTE Da Torino a Torino, dal passato al futuro - 66 SERGIO CHIAMPARINO Politiche uniformi per risollevare il sud - 75 GIUSEPPE PISANU Italia, lo snodo cruciale del Mediterraneo - 80 FRANCESCO CROCENZI Giovani, l’investimento migliore per recuperare dignità - 88 PIER LUIGI CELLI

ROMA

Semipresidenzialismo, dalla Francia all’Italia

WILDBAD KREUTH (BAVIERA) Das Zusammenleben von Christen und Muslimen in Deutschland. Convegno della fondazione Hanns Seidel sulla connivenza nella società tedesca tra cristiani e musulmani. Venerdì 19 – Domenica 21 marzo

Giovedì 8 aprile

STRUMENTI Verso il 150esimo dell’Unità d’Italia: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso - 132 Conferenza del presidente della Repubbilca Giorgio Napolitano all’Accademia dei Lincei, 12 febbraio 2010

Alla ricerca della polis perduta - 44 ALDO DI LELLO Tre percorsi di riforma per celebrare l’Unità - 50 ADOLFO URSO

parteciperà alla presentazione del fascicolo di Charta

minuta: 2011, un anniversario per ricominciare.

La fondazione Farefuturo organizza un convegno sul

BERLINO

tema del semipresidenzialismo alla francese. Inter-

Die Aktuelle Sicherheitspolitik des Staates Israel. Incontro organizzato dalla fondazione Konrad Adenauer con l’addetto militare e il primo segretario dell’ambasciata d’Israele. Martedì 23 marzo

verrà il presidente della Camera Gianfranco Fini, il segretario generale della fondazione Adolfo Urso, esperti di scienza politica e diritto costituzionale italiano ed esponenti della politica francese. Il convegno si terrà presso la Sala delle conferenze di Palazzo

MINUTA

Marini, via del Pozzetto 158, alle ore 16.

Fumo di Londra - 144 ALESSANDRO MARRONE

ROMA

Innovazione, imprese e ricerca per rilanciare il Sistema Italia - 154 EMO AGNELONI

Flussi migratori e Sistema Italia

Pompei, ecco come cambia la gestione degli scavi - 160 GIUSEPPE MANCINI

Martedì 20 aprile Il presidente della Camera dei deputati, Gianfranco

Il malessere sotto i ciliegi in fiore - 170 TIZIANA MAURIELLO

Fini, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, insieme a esperti del settore, discutono sui temi legati all’immigrazione e alle sue ricadute economiche nel Sistema Italia.

VOLGOGRAD Deutsche und Russen: der Zweite Weltkrieg und 65 Jahre danach. Incontro tra storici tedeschi e russi sulla Seconda guerra mondiale, organizzato dalla fondazione Konrad Adenauer, nell’ex Stalingrado. Mercoledì 14 – Sabato 17 aprile

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Caporedattore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Alessandro Marrone, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Pennisi, Bruno Tiozzo, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/97996400 - Fax 06/97996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it

CADENABBIA DI GRIANTE Religiosität im Wandel - Nachdenken über Christentum und Islam. Gli amici della fondazione Konrad Adenauer si incontrano nella villa italiana dell’ex Cancelliere per un seminario sulle religioni cristiana e islamica. Domenica 25 – Giovedì 29 aprile

Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

MADRID

Amministratore unico Gianmaria Sparma

Recovery: Towards European Resilience. Seminario congiunto European Ideas Network e Faes. Giovedì 25 marzo

Segreteria amministrativa Silvia Rossi

WILDBAD KREUTH (BAVIERA) Landesgeschichte: Bayern und Italien. La fondazione Hanns Seidel dedica quattro giorni allo studio dei rapporti tra Baviera e Italia. Giovedì 13 – Domenica 16 maggio

Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

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EDITORIALE DI GIANFRANCO FINI

Gianfranco FINI

fini@farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

urso@farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE

Direttore relazioni internazionali Federico Eichberg

mellone@farefuturofondazione.it

eichberg@farefuturofondazione.it

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 97 99 64 00 - fax 06 97 99 64 30 info@farefuturofondazione.it

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno IV - Numero 2 - marzo/aprile 2010

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

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2 011

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Presidente

2011 - UN ANNIVERSARIO PER RICOMINCIARE

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

UN ANNIVERSARIO PER RICOMINCIARE Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno IV - n. 2 - marzo/aprile 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Un appuntamento per sentirci nazione Ci sono diversi modi per onorare degnamente il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. C’è innanzi tutto la forma della celebrazione, volta a sottolineare il significato morale e ideale dello storico appuntamento. C’è poi la forma della riflessione culturale, diretta a rileggere l’autobiografia nazionale nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle conquiste compiute e nei traguardi mancati. Anche questo è un momento fondamentale. E va vissuto senza retorica o trionfalismo, ma senza neanche indulgere a quella “retorica dell’antiretorica” che rappresenta purtroppo un vizio tipicamente italiano e che conduce spesso al piagnisteo, all’autocommiserazione, se non addirittura all’autodenigrazione, tutti atteggiamenti che hanno offerto negli ultimi anni l’humus “psicologico” alla ripresa di un revisionismo antirisorgimentale di cui non si sentiva davvero il bisogno, come ha recentemente denunciato Ernesto Galli della Loggia. Un conto è rileggere criticamente e serenamente il processo di unificazione in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più problematici, con la consapevolezza che 150 anni fa si compì comunque un’opera mirabile e grandiosa. Un conto è invece prendere a pretesto la complessità della vicenda italiana nel XIX secolo per sollevare polemiche sterili quanto antistoriche. Mi auguro che molte energie intellettuali si sentano coinvolte e forniscano spunti non effimeri di dibattito sul nostro “sentirci” nazione, sulla nostra Bisogna coinvolgere capacità di conservare la memoria comune del passato rafforzando contemporaneaenergie intellettuali mente la volontà di costruire il futuro atper costruire il futuro attorno a valori condivisi torno a valori condivisi. C’è infine un terzo modo per rispettare degnamente un appuntamento tanto cruciale. È la forma “politica”, e consiste nel rinnovare il “patto” tra la politica stessa e gli italiani. In che modo? Innanzi tutto varando quelle riforme – a lungo promesse e mai compiutamente realizzate – che sono necessarie a modernizzare il paese, sotto i diversi profili dei meccanismi decisionali, dell’efficienza amministrativa, della competitività economica, della qualità della vita sociale. L’essere e il “sentirci” nazione devono rappresentare un pensiero e un sentimento che si traducono in azione politica atta a rinsaldare il vincolo tra cittadini. Non è naturalmente detto che le cose andranno effettivamente così. Tutto dipenderà dalla qualità del dibattito pubblico e del confronto politico che si svolgerà nei prossimi mesi. A questo mio auspicio si potrà anche legittimamente rispondere che la necessità di riformare il Sistema Italia è valida sempre e prescinde da ogni, pur rilevante, ricorrenza nazionale. Però, quella offerta dal 2011, è un’occasione unica per una riconquista collettiva di responsabilità. Perché, quello che è stato definito il terzo Giubileo della patria, non è soltanto una “ricorrenza” – beninteso, tutte le ricorrenze pubbliche sono importanti


e vanno sempre degnamente onorate –, ma qualcosa di più e di diverso: è un appuntamento con la nostra storia, che – può piacere o non piacere – ci costringe comunque a fare i conti con il “noi” italiano. Intendiamoci, potremmo benissimo schivare l’impegno; potremmo evitare di rispondere ai quesiti sul nostro futuro che ci sono imposti dalla coscienza del nostro passato; potremmo, senza patemi d’animo, vivere il 150esimo in È un appuntamento modo minimalista, senza trarne la forza necon la nostra storia, cessaria per avviare quell’opera di manutenzione straordinaria di cui l’edificio-paese ha che ci costringe a fare urgente bisogno. Nessuno ci obbliga. Ma, i conti con il noi italiano in tal caso, avremmo perso una grande opportunità per avviare una stagione riformatrice mobilitando le energie morali degli italiani; rinnovando le riserve della fiducia collettiva; restituendo al nostro popolo la voglia di costruire il proprio avvenire; promuovendo, nel rispetto delle dialettica tra maggioranza e opposizione, l’impegno corale e responsabile delle forze politiche. Non avrebbe molto senso sminuire la portata “politica” dell’appuntamento rimarcando il fatto che, in fondo, si tratta “soltanto” di un evento-simbolo. La politica – come è noto – trae molta forza proprio dai simboli, non obbedendo soltanto a logiche meramente “tecniche” o funzionalistiche. Come ha scritto l’antropologo americano David Kertzer, «il simbolo e il mito non sono un aspetto residuale della politica, ne rappresentano una parte integrante». La politica parla al cuore, oltre che alla mente. La politica suscita passioni e sentimenti. Per quello che direttamente ci riguarda, ciò significa comunicare con immediatezza e semplicità, a milioni di cittadini, l’idea che gli italiani hanno davanti a loro nuove grandi mete da raggiungere. Il mio invito a tutti è quello di lavorare affinché il 2011 sia l’anno della “ripartenza italiana”, l’anno di un nuovo inizio e di un cammino affrancato dalle pastoie del passato. L’agenda delle riforme è fitta. E va dalle questioni istituzionali (Camera delle autonomie, forma di governo), alla competitività del sistema economico Il mio invito è quello (che passa anche per il fisco, gli investidi lavorare affinché menti nelle infrastrutture e nella ricerca, la il 2011 sia l’anno semplificazione normativa) al nuovo welfare della ripartenza italiana per i non garantiti, i giovani, le famiglie, alla giustizia, all’integrazione dei nuovi italiani, al rilancio del Meridione, all’efficienza della macchina burocratica e a tutto quanto ancora permetterà all’Italia di superare i ritardi consolidando la sua posizione tra le moderne democrazie industriali e migliorando la qualità della vita dei cittadini. Un’agenda fitta e sarebbe assurdo pretendere di risolvere tutto da qui ad un anno. Ma è lecito e legittimo attendersi che i principali problemi che riguardano l’avvenire del nostro popolo siano avviati a soluzione. Solo così potremo pienamente “sentirci” nazione. Nazione consapevole del patrimonio che viene dalla storia passata e, proprio per questo, pronta a scrivere nuovi capitoli della storia futura.

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IL GIUBILEO

L

’anniversario dell’Unità deve essere una celebrazione non retrospettiva, ma prospettiva. Un momento performativo, un nuovo inizio per tutti noi. L’Italia odierna ha infatti bisogno di una iniezione di passione civile, di cultura della convivenza e rispetto delle regole.

DI FEDERICO EICHBERG


L’ANNIVERSARIO Federico Eichberg

DELLA PATRIA

Manca un anno al 17 marzo 2011 giorno della ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Italia. Proviamo ad andare con la fantasia a quel giorno ed immaginiamoci cosa proveremmo dinanzi all’ennesima celebrazione “edile” ed “evocativa”, fatta di targhe, lapidi, musei, monumenti di varia natura. Suonerebbe inopportuno e quasi beffardo soffermarsi su celebrazioni retrospettive della narrazione na-

zionale in un momento in cui più profonde appaiono le lacerazioni del “tessuto nazionale”, in un momento di imbarbarimento e consunzione dei rapporti sociali. In cui forte è la frustrazione di dover constatare che siamo in piena disunità, in una nazione segnata da fratture, in cui ad una storia comune e non corrisponde l`idea di un futuro da costruire insieme («Memoria e progetto: una nazio-


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ne non è altro che la somma di doli” e “mucillagine sociale” in questi due fattori», ricorda Ales- cui si fa una quotidiana “disarsandro Campi). In cui echeggia, mante esperienza del peggio”). sinistro, un clima da “rompete le Pennellate forti ma efficaci vengono da un editoriale di Galli delrighe” e “ciascun pei fatti suoi”. Proviamo ad immaginare cosa la Loggia dal titolo La cultura come rappresenterebbe al contrario una risorsa del 22 luglio 2008: «Il fatcelebrazione non retrospettiva ma to che da 15 anni [...] non cresca prospettiva. Una celebrazione il reddito medio è in un certo senperformativa. I 150 anni come oc- so solo la conseguenza ultima di casione per una sorta di nuovo qualcosa di più profondo. L’inerpatto fra governanti e governati, zia italiana non è nella sostanza fra giovani ed anziani, fra Meri- economica. È piuttosto il venir dione e Settentrione, fra italiani meno di un’energia interiore, il “nativi” e neoitaliani immigrati. perdersi del senso e delle ragioni Un nuovo inizio in cui tutti com- del nostro stare insieme come paese, delle speprendono che dare ranze che dovrebil meglio di sé con- È l’occasione per bero tenere legato viene a tutti, che il primo alle serinunciare a qual- un nuovo patto fra cosa a favore del governanti e governati, conde. È un lento ripiegare su noi bene comune, in uno sforzo simme- giovani e anziani, nord stessi, un’incerteztrico, rende più al- e sud, nativi e immigrati za che ci ha fatto deporre progressita la qualità della vita. Un impegno al di là delle fa- vamente ogni ambizione, ogni zioni politiche, dei regionalismi, progetto. È l’invecchiamento di degli egoismi settoriali, delle età una popolazione che da anni non anagrafiche. L’Italia odierna ha in- cresce; la consapevolezza deprifatti bisogno di una iniezione di mente che da anni siamo fermi, passione civile, di cultura della non facciamo, non creiamo, non convivenza e del rispetto delle re- costruiamo nulla d’importante gole. Di fare finalmente ciò che è così come non risolviamo nessuno dei problemi che ci affliggono. È evidente e condiviso. Bisogna superare le italiche tenta- la sensazione che il paese non ha zioni alla rimozione dei fenomeni, più nè un baricentro nè una meta. alla derubricazione degli eventi. Ed è la sensazione che, nel fratDirsi con chiarezza che esiste una tempo le differenze sociali, cultucrisi di legame e di missione in rali e quindi geografiche fra le vaItalia, una introflessione, uno sfi- rie parti della penisola si stanno lacciamento della sfiducia sociale appesantendo, che tutti i legami (abbiamo sentito nei diversi rap- vanno allentandosi: tra le persone porti degli istituti di ricerca suc- come all’interno delle famiglie e cedersi espressioni come “polti- con le istituzioni. È la percezione glia di massa”, “società a corian- impalpabile che ci stiamo allonta-


L’ANNIVERSARIO Federico Eichberg

nando pian piano dal centro della l’ultimo paese dell’Ue per spinta corrente: come se la storia contra- verso il futuro e fiducia negli altri stata ma viva, fertile e felice della al punto che 7 italiani su 10 ritenPrima Repubblica fosse giunta al gono che «gli altri, se ne avessero capolinea, e non riuscisse a co- l’occasione, approfitterebbero della mia buona fede» e il 54% degli minciarne nessun’altra». Un paese che non apre gli occhi italiani ritiene inutile fare progetdinanzi a ciò è un paese ipocrita; ti per se e la propria famiglia (daun paese destinato a sentirsi dire ti Eurodap, Censis, Gallup-Doxa, addio dai propri figli, desiderosi Demos). Come risultato di questo di vivere altrove, in società traspa- furto del futuro l’Italia è oggi l’ulrenti, con senso civico e consape- timo paese dell’Ue per tasso di voli della necessità di uno sforzo sviluppo demografico (1,29 per donna) insieme alla Germania e collettivo. Occorre non rassegnarsi al para- dietro la Spagna (1,36). La popodosso odierno per cui non è il gio- lazione italiana è la più vecchia d’Europa, la sevane che con il proprio lavoro paga la Un paese che non apre conda più vecchia al mondo dopo il pensione al nonno Giappone (dati ma il nonno che gli occhi è destinato Osservatorio su con i soldi della a sentirsi dire addio popolazione svipropria pensione rende meno disa- dai propri figli in cerca luppo, Berlino). In tale scenario si giata la vita del ni- di società trasparenti fanno strada due pote alla ricerca infinita del primo impiego. Torna- “vie di fuga”: da un lato cresce no alla mente le parole del mae- vertiginosamente l’emigrazione stro Gino Lizio, la sua struggente giovanile (più di 3 milioni di giolettera dal titolo Intellettuali di vani italiani – perlopiù laureati – Napoli, vi scongiuro di indignarvi si sono trasferiti all’estero negli con cui invitava ad «... una reazio- ultimi 15 anni) in un paese in cui ne all’indifferenza, alla assuefazio- il tasso di disoccupazione giovanine, alla pigrizia mentale» ed invo- le supera il 20% e gli stipendi sono i terzultimi dei paesi Ocse; cava “una sana inquietudine”. Non ci si deve rassegnare a quel- dall’altro crescono fenomeni di l’Italia che ci consegnano le rile- fuga alternativa con impennate vazioni impietose degli istituti di nell’ultimo quinquennio di conricerca, progressivamente trasfor- sumo di cocaina (+30%) eroina matasi nel “Bel paese del mal es- (+20%), droghe sintetiche sere”, con l’80% delle persone che ( + 1 9 3 % ) , d r o g h e e t n i c h e si dicono “sfiduciate e preoccupa- (+300%), oltreché di alcool. te”, il 63% che ritiene che i pro- Questa ricerca di fuga, questa aspri figli saranno meno ricchi di senza di spinta verso il futuro e di loro ed il 72% meno sicuri; il pae- “capitale sociale” condiviso è il rise (che era) del sorriso divenuto sultato di politiche scellerate con-

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dotte abbastanza simmetricamente, negli ultimi anni, dalle due fazioni politiche. Una parte consistente del centrodestra ha indebolito negli ultimi 15 anni lo Stato, minando il senso delle istituzioni con i continui attacchi (di volta in volta giustizia e magistratura, Quirinale, fisco e, da una specifica componente, istituzioni “romane”, tricolore, Costituzione, inno); il centrosinistra lo ha indebolito con una riforma scellerata dello Stato (riforma del titolo V della Costituzione) che ha fram-

mentato le responsabilità e le ha rese disomogenee ai centri di costo, con una paralizzante visione iperconcertativa delle decisioni attraverso l’onnipresenza del sindacato, dell’ambientalismo, ecc... Sintesi, sul piano etico, di questo contributo tristemente bipartisan alla crisi del nostro paese è la tenaglia di culture in cui l’Italia si trova schiacciata: si potrebbe dire, semplificando, che l’Italia è vittima al contempo della cultura del ‘68 (anno in cui i movimenti di piazza introducono un’etica con-

IL LIBRO 6

Il patto che ci lega, Napolitano a metà mandato A novembre 2009 Giorgio Napolitano ha toccato il traguardo di metà mandato, i primi tre anni e mezzo del suo settennato al Quirinale. Un periodo difficile, contrassegnato da tensioni spesso forti nella politica e nelle istituzioni italiane, durante il quale Napolitano si è adoperato senza interruzione per richiamare i principi di coesione e identità del paese, la fedeltà alle istituzioni dello Stato e soprattutto alla sua carta fondamentale, la Costituzione repubblicana che da poco ha compiuto i suoi primi sessant’anni di vita. Il patto che ci lega raccoglie i principali discorsi tenuti dal presidente Napolitano dal suo insediamento nel maggio 2006 a oggi e rende così manifesto il vigoroso “apostolato costituzionale” al quale l’inquilino del Quirinale ha voluto consacrare il suo mandato. In quest’ottica, il libro pubblica, dopo l’importante discorso di insediamento, una serie di interventi sulla storia d’Italia (da Cefalonia alla Liberazione, dal 4 novembre a El Alamein, al terrorismo), sulla giustizia, sulla Costituzione e infine, allargando lo

sguardo oltre i confini, sul ruolo dell’Europa unita e i nuovi equilibri internazionali. Tutti temi di ovvia rilevanza politica e sociale, la cui varietà dimostra l’impegno del presidente della Repubblica a 360°, quasi senza considerare da dove si è venuti e badando a dove si sta andando, senza distinzioni ideologiche. Leggere i discorsi di Napolitano riconcilia i cittadini con le istituzioni e ci ricorda le prerogative e i compiti di una carica così importante quale quella di presidente della Repubblica, a volte ignorata dagli altri poteri o, peggio, criticata in maniera pregiudizievole.


L’ANNIVERSARIO Federico Eichberg

traria al merito, all’autorità, alla disciplina ed all’appartenenza identitria) e della cultura del ‘78 (anno in cui nasce la tv commerciale, simbolicamente, veicolo di un’etica appiattita sul presente, sul successo vistoso ed urlato, sull’ostentazione, sull’esigenza di apparire, sulla tracotanza che prescinde le regole). Queste culture hanno “fiaccato” il nostro paese proprio in quelle sue caratteristiche di garbo, di cultura civica, di ricercatezza che ne avevano costituito per secoli il tratto dominante, condannandolo invece ad una omologazione al peggio. Riconoscendo questa situazione, ma anche consapevoli delle energie interiori che il popolo italiano ha, lavoriamo per un 150esimo anniversario che sia realmente un nuovo inizio. «Dobbiamo creare una mobilitazione come se fossimo in guerra, per cui tutti fanno meglio, lavorano di più, studiano di più, inventano di più. Non ci sono più margini per i chiacchieroni, i fannulloni, i ritardatari, i cinici», ricorda il sociologo Alberoni. E aggiunge Piero Ottone: «Se vogliamo indicare il punto di partenza di una rinascita nazionale, non c’è dubbio che esso sia, lo dicono le persone di buona volontà in Italia e fuori, il ritorno al senso morale; la risalita etica, la sferzata che restituisca al paese stima e fiducia in se stesso, e lo aiuti a uscire dalla sua profonda depressione. Si dirà che il senso etico è come il coraggio: chi non lo ha non può darselo. Forse è così. Ma anche il senso etico, come il coraggio, è contagioso. L’ufficiale

che per primo si lancia contro il nemico è sempre stato, attraverso la storia, il simbolo del buon esempio: i soldati lo seguiranno». Sarebbe bello in quest’anno progressivamente il formarsi di un’opinione condivisa: prima fra centri di studi, istituti di ricerca e mondo accademico, poi fra rappresentanze sociali e produttive, infine fra poteri locali e centrali. È necessario che tutti comprendano che riforme condivise possono segnare un nuovo inizio, e dissipare la nebbia verso il futuro, a cominciare dalla «sensazione di una politica prigioniera dei propri riti e della propria impotenza – ricorda Massimo Franco – assorbita da questioni marginali, e condannata a perdere di vista scelte strategiche per l’economia del paese». Ecco, proprio la politica potrebbe cominciare adottando alcune soluzioni semplici e radicali, che vanno attuate complessivamente nei rispettivi ambiti, operando finalmente (con le parole sempre di Alberoni) «una razionalizzazione su cui tutti sono d’accordo, che consideriamo ovvia ma non facciamo». Potrebbe appunto cominciare la politica votando in forma bipartisan proposte che entrambi gli schieramenti hanno avanzato per anni lasciandole lettera morta: la riduzione del numero di parlamentari, consiglieri e assessori regionali e comunali e relativi stipendi, il dimezzamento ex lege dei rimborsi elettorali sulla base della media Ue, l’obbligo di pubblicità e trasparenza dei bilanci dei partiti, la differenziazione dei compiti

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delle due Camere (inserendo la rappresentatività delle Regioni), l’abolizione delle province (all’inizio erano solo 59, oggi sono più di 110), la riforma dei regolamenti parlamentari, con incremento delle opportunità di convocare commissioni in sede legislativa e corsie “preferenziali” per i disegni di legge di provenienza governativa. Una politica che chiede a se stessa, assume l’autorevolezza per chiedere alle altre componenti istituzionali e sociali: alla Pubblica amministrazione, per esempio, di applicare forme di contratto di lavoro atipiche, la riduzione dei distacchi sindacali, l’incremento della potestà disciplinare in capo ai dirigenti; è in grado di chiedere alle Regioni ex lege di provvedere autonomamente allo smaltimento dei rifiuti prodotti nel proprio territorio attraverso la realizzazione di uno o più termovalorizzatori; di proporre alle imprese – a fronte di un’auspicata riduzione delle aliquote – un forte impegno nel campo della ricerca, nelle neoassunzioni di under 30 e negli investimenti nel Mezzogiorno; di fare un patto con le famiglie che preveda in cambio di una fiscalità ad hoc con il quoziente familiare, un impegno straordinario nella sfida educativa; di far sì che parta dal servizio radiotelevisivo e comunicativo-pubblicitario una “rivoluzione dignitaria” attraverso una ridefinizione dei palinsesti tv, degli standard e dei modelli culturali proposti. È il momento di soluzioni e non di duelli, di un grande sforzo co-

rale, di un clima politico diverso per una seconda grande metamorfosi del Sistema Italia. Per una ricorrenza dei 150 anni realmente performativa.

L’Autore FEDERICO EICHBERG Direttore Relazioni Internazionali della fondazione Farefuturo.



Rinnoviamo il contratto stipulato fra gli italiani

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La coesione profonda di una nazione nasce sempre sulla volontà dei cittadini di mantenere saldo il vincolo solidale che li riunisce. L’Italia proiettata verso il 150esimo anniversario non fa eccezione. Il 2011 deve essere quindi l’anno del Contratto, in cui assumiamo di nuovo, collettivamente, l’impegno di tornare a testa bassa a lavorare per individuare la nostra specifica strada di progresso e di sviluppo che da qualche tempo abbiamo smarrito. Uniti agli altri popoli europei, ma anche consapevoli della particolarità dei singoli modelli nazionali che sono ricchezza e non limite e intralcio. DI ALBERTO SOLIA


LO SPIRITO DELLA RICORRENZA Alberto Solia

Ancora oggi possiamo ammirare a Bosra in Siria il monumento che ricorda il millesimo anniversario della città di Roma, costruito al tempo dell’imperatore Filippo l’Arabo che fu ucciso in battaglia l’anno successivo. Gli anniversari sono usanza antica quanto pericolosa. Tuttavia discutere del modo con il quale ce-

lebrare una ricorrenza come il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia assume, proprio per il periodo storico nel quale viviamo, un’importanza straordinaria. Personalmente ritengo che il punto non sia costituito dal mettere in piedi una “Grande impresa patriottica” che costruisca monumenti e programmi imponen-


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ti celebrazioni. La verità è che parlare di questa ricorrenza ci consente di sfuggire alla crudele miopia del nostro universo mentale, al quale sono ormai connaturati periodi di riferimento temporali talmente brevi da toglierci qualsiasi capacità di esprimere valutazioni realmente consapevoli della prospettiva storica che caratterizza la nostra esperienza nazionale. Scambiamo continuamente l’effimero con l’eterno: di qui l’incapacità di formulare risposte che appaiano fornite di una qualche sensatezza. Il 2011 ci consente di attirare l’attenzione su ciò che è davvero importante, nel tentativo di discernere i rumori dai segnali o di cambiare ottica. Lasciando agli storici il compito

di ricostruire i “grandi anni” 1859-1861 che hanno consentito di realizzare un progetto di unità nazionale che sembrava fosse stato avviato fuori tempo massimo, tentiamo un confronto di status, una comparazione tra l’Italia del 1861 e quella di oggi. È un modo questo di prendere coscienza di ciò che diamo talmente per scontato da perderne piena consapevolezza. L’analisi storica ci consente di comprendere se il contratto stipulato da 150 anni abbia prodotto o meno effetti positivi per gli italiani e vi possano essere le premesse per un suo rilancio e per un suo rinnovamento. La coesione profonda della nazione nasce sempre sulla volontà dei cittadini di mantenere saldo il vincolo solidale che li riunisce e


LO SPIRITO DELLA RICORRENZA Alberto Solia

l’Italia proiettata verso il 2011 non fa eccezione. Si potrebbe obiettare che tutto il mondo è cambiato enormemente e che una tale operazione è priva di senso. Ritengo invece che così si possano cogliere delle verità che rimarrebbero altrimenti nascoste. Osservato da questo punto di vista, il successo del progetto di unificazione nazionale è innegabile. L’Italia appena unificata si trovava sul piano internazionale, interno, economico-sociale, culturale e tecnico, ad una distanza incommensurabile rispetto a paesi come la Francia e l’Inghilterra che allora svolgevano il ruolo di potenze egemoni sul piano planetario, centri motori dello sviluppo scientifico e avanguar-

die del mutamento sociale. Malaria e pellagra erano emergenze nazionali. L’Italia del 1861 appariva – tranne che a gruppi ristretti della sua classe dirigente – sostanzialmente priva di un principio unificatore endogeno forte, davvero capace di assicurare la sopravvivenza dell’unità politica appena conquistata, nel medio e lungo periodo. La fragilità della tenuta nazionale italiana è stata nei decenni successivi al centro delle analisi politico-strategiche delle cancellerie europee, congiuntamente ad un pregiudizio sulla legittimità storica della sua esistenza. Ancora all’indomani del terremoto di Messina del 1908 fu presa in esame, da parte degli alti comandi austroungarici, l’ipotesi di un attacco di sorpresa che, approfittando degli effetti del sisma, potesse consentire di spingere l’Italia unita fuori dal teatro della storia. Del resto sarebbe riduttivo considerare gli sforzi per giungere alla definizione concordata del contenzioso tra Italia e Santa Sede ,motivati soltanto dalla volontà di coinvolgere i cattolici nella vita nazionale per rafforzare la base di consenso a sostegno degli equilibri politici interni. Le ragioni principali dell’impegno italiano al superamento delle fratture determinate dalla questione romana furono soprattutto di carattere internazionale ed incentrate sulla necessità di ottenere un pieno riconoscimento ed una piena legittimazione dello Stato unitario per rendere meno

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L’INTERVENTO di Federico Romanelli Montarsolo*

La ragion d’essere della commemorazione

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Il 2011 sarà l’anno del Giubileo della patria. Non può e non dovrebbe essere un’occasione di retorica celebrativa e tanto meno una vacua e spettacolare kermesse finalizzata a rivitalizzare la memoria di uomini dimenticati nel nostro pantheon. A questa ricorrenza noi associamo la celebrazione di nobili valori, che sono inscritti nella storia repubblicana, così spesso opacizzata. Se abbiamo a cuore celebrare la memoria della patria non è per patriottismo. Vogliamo farlo, animati da riferimenti culturali prima ancora che politici. La ragion d’essere di una commemorazione è nella dignità di coloro la sanno onorare, siano essi cittadini o governanti. Pensiamo come un evento storicamente nefasto, anche il più luttuoso, può trasformarsi in ricorrenza e divenire celebrazione virtuosa. Un esempio recente è stato il gesto del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il quale nella giornata della memoria della Shoah, lo scorso 27 gennaio, ha an-

nunciato che una strada della capitale sarà dedicata a Settimio Calò, l’ebreo che perse ad Auschwitz la moglie e 10 figli e la cui storia racchiude l’intera tragedia degli ebrei romani sconvolti dalla retata del 16 ottobre 19431. Una data è ricorrenza quando ha valore in sé, che prevale sui significati che gli si attribuiscono. Pensiamo a ricorrenze storicamente contese da una fazione politica, da questo o quello schieramento. Pensiamo al 25 aprile o al 1 maggio. Sono o non sono queste, prima di ogni altra cosa, le giornate celebrative di valori nazionali come la pacificazione, la libertà popolare e la centralità del lavoro? E cos’è il 2 giugno, un’occasione di parata o di facciata? Oltre a tutto ciò di buono che evoca questa ricorrenza nazionale, non dimentichiamo quanto di meno buono sia stato fatto per celebrarla. Pensiamo al periodo degli “anni di piombo”, periodo di tensioni politiche e sociali. Il 2 giugno del 1977, mentre Indro Montanelli si recava al suo giornale, venne raggiunto alle gambe da due colpi di pistola, accanto ai giardini di via Palestro, a Milano. Non vogliamo qui ri-


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cordare l’infamia di quel gesto, quanto piuttosto rammentare le parole del giornalista ferito: «Io dico che questi sono poveri diavoli», egli scrisse dall’ospedale, «meritano più disprezzo che odio». Se la ricorrenza è ontologicamente un valore, la sua celebrazione non può che esserne una naturale elevazione, per i cittadini come per i governanti. Purchè non sia occasione di strumentalizzazione mediatica. Il 22 aprile, ad esempio, sarebbe ricorso il compleanno dell’indimenticabile Indro Montanelli. Ma come, ancora lui? Sì, perché ogni anno noi ci domandiamo cosa fare per ricordarlo. Nel 2009 egli avrebbe compiuto cento anni e per ricordarlo la Rai gli dedicò un bel programma in otto puntate, Indro Montanelli Tv, presentando un insolito Montanelli nel suo rapporto con la televisione come autore, attore, polemista, un ritratto ricavato dall’immenso materiale delle Teche Rai che insieme è anche un racconto dell’Italia dagli anni Cinquanta in avanti. Ecco, noi vorremmo rileggerlo ogni anno, quel racconto e quel programma. Magari su una delle tre reti Rai e continuando, quest’anno, con i centouno anni che egli avrebbe compiuto. Il suo esempio è un nostro modello. Egli ci ha insegnato, tra l’altro, come si costruisce una cattedrale. Noi lo celebriamo con una ricorrenza, volendo attingere alle sue buone fondamenta, consapevoli che “i mattoni utilizzati per costruire dovranno pian piano soppiantare le pietre usate per demolire e offendere”2. 1

Cfr. Gian Antonio Stella, Il valore del nome di una strada, Corriere della Sera, 28 gennaio 2010. 2 Gianfranco Fini, Costruiamo la casa comune degli italiani, in Charta Minuta, editoriale, gen.feb. 2010. *ricercatore della Fondazione Farefuturo

probabili eventuali attacchi alla sua integrità. Quella della fragilità della nostra compagine nazionale è quindi questione antica. In realtà la fragile Italia ha superato prove terribili: due guerre mondiali, radicali trasformazioni sociali ed istituzionali, divisione politica e militare tra il 1943 e il 1945, eppure è ancora qui. Con riferimento alla storia politica, economica e sociale del paese, Cavour poteva guardare un “altrove” dove trarre ispirazione per le politiche di innovazione del Piemonte e così hanno continuato a fare le classi dirigenti del paese nel corso dei centocinquanta anni della sua storia. In ciò non vi è nulla di errato o provinciale; del resto è questa una tradizione antica, di cui precursori furono i grandi riformatori e filosofi greci. Occorre tuttavia procedere su questa strada con prudenza e spirito critico, scegliendo correttamente i paesi a cui ispirarsi ed individuando al loro interno quelle che sono le pratiche migliori. Si richiede, poi, l’approfondita conoscenza del nostro contesto storico, culturale, sociale ed economico se si vuole pervenire a soluzioni adeguate ad affrontare con successo le questioni di fondo che si vogliono aggredire. Oggi proprio i positivi risultati di lungo periodo del processo di unificazione, non rendono del tutto scontato comprendere quali siano i paesi “di testa” su cui effettuare la comparazione e comportano un elevato rischio di cambiare continuamente forma e sostanza.

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Il percorso particolarmente acci- spettiva diverge da quella che podentato della interminabile sta- tevano avere i nostri nonni, che gione delle cosiddette riforme co- nel 1911 festeggiarono il cinstituzionali deve molto a questo quantenario, e dei nostri padri, errore metodologico. Forse si è che nel 1961 commemorarono il discusso troppo di sistema eletto- centenario. Dal punto di vista dei rale tedesco e di collegio unico al- nostri nonni, il bilancio poteva l’inglese e si è riflettuto troppo sembrare addirittura entusiapoco sulla concreta esperienza smante, considerato il progresso elettorale italiana nel corso della economico e scientifico che aveva vicenda unitaria, contrassegnata caratterizzato la prima fase della dal ricorso al collegio uninomina- vita unitaria, anche se le tensioni sociali erano straordinariamente le “secco”. Anche la tematica del declino forti, forse anche per effetto della economico e sociale del paese ha grandezza delle trasformazioni dato il via a dibattiti da brivido. intervenute. L’ancora rosato traQuando in questi anni si è guar- monto della belle epoque non faceva per nulla predato “altrove” per sagire il primo indicare le “cure per Ci avviciniamo al terzo conflitto monil declino italiano” cinquantenario con diale. Per i nostri l’occhio degli padri alle inquie“esperti” si è posato l’animo più pesante tudini di uno su paesi quali la dei nostri nonni scenario internaGran Bretagna, l’Ire dei nostri padri zionale che appalanda e la Spagna. riva straordinaSpesso solo la particolare complessità del nostro riamente preoccupante si coniuquadro politico e dei nostri mec- gava la consapevolezza di vivere canismi decisionali ha impedito in una dimensione di prosperità l’avvio di fenomeni imitativi da- crescente, che si riteneva sarebbe gli effetti imprevedibili, prima proseguita indefinitamente. che divenisse chiaro a tutti che i Noi, invece, ci avviciniamo al dati macroeconomici, lungi dal terzo cinquantenario con l’animo rappresentare espressione di una più pesante. chiara superiorità di sistema, di- Nelle famiglie italiane i giovani pendevano soltanto da fenomeni sono rassegnati a vivere peggio dei illusori e bolle speculative desti- loro genitori e quando programnate a manifestarsi con esiti de- mano di avere figli pensano che vivranno presumibilmente peggio vastanti. Detto questo, occorre evitare di loro. L’Italia è attraversata da un l’opposto pericolo di un approc- profondo malessere sociale che cio celebrativo e non problemati- non sfocia in tensione e scontro anche per l’assenza di attori antaco al 2011. Cambiando la scala di osservazio- gonistici in grado di interpretarlo ne dei fenomeni, la nostra pro- e declinarlo politicamente.


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In realtà, però, tutto questo non è caratterizzato il XIX e il XX seaffatto riconducibile ad una defi- colo, sono diventate ad un tempo cienza del nostro processo unita- più rare e meno dirompenti, rio e neppure dipende particolar- mentre gli ultimi decenni hanno mente da una specifica inadegua- conosciuto importanti processi di tezza delle nostre classi dirigenti. smeccanizzazione della produzioGuardando “altrove” ci accorgia- ne, attraverso la delocalizzazione mo che fenomeni simili si stanno verso aeree geografiche nelle quaverificando dappertutto in Euro- li risultava più conveniente utipa ed in Nord America, a corona- lizzare il lavoro dell’uomo invece mento di una fase storica che du- che quello della macchina. ra da oltre un trentennio e le cui Forse, più che un mondo in rapicaratteristiche sono diventate evi- da evoluzione, quello che osserdenti con la grande crisi con cui viamo è un mondo caratterizzato oggi ci confrontiamo. Sarebbe er- da agitazione e da volatilità. Del roneo descriverla come crisi resto, come insegna Karl Popper, il progresso tecni“mondiale”, attesa co e scientifico è l a p r e s e n z a d i Il difficile periodo per sua natura imgrandi economie come quella cinese che il paese sta vivendo p r e v e d i b i l e , e quindi diviene od indiana che non dipende difficile fondare continuano a crescere con ritmi da deficienze del nostro ogni ragionamento, come pure cocompresi tra il 5 e processo unitario munemente si fa, il 10% del rispettivo prodotto interno lordo, ovve- sul presupposto che la tendenza ro a ritmi molto più sostenuti di di lungo periodo sia necessariaquelli che hanno caratterizzato mente quella dell’accelerazione gli anni del boom italiano, tedesco del progresso tecnologico. Ciò spiega il disorientamento e giapponese. Tutto questo mentre in Europa e delle opinioni pubbliche e delle in America sembra quasi che si stesse classi dirigenti di fronte ad sia arrestato quello che Adam una somma di fattori critici – Smith chiamava il progresso dei mi- quali il ristagno demografico e glioramenti ovvero il progresso tecnologico – che si riaffacciano scientifico nella sua concreta ap- sullo scenario dopo un’assenza plicazione ai processi produttivi e plurisecolare. Di qui la sfiducia alla vita quotidiana. Una tale af- progressiva che si registra nei citfermazione può suonare strana tadini nella capacità dei decisori tanto spesso sentiamo affermare il di ripristinare quella che, per gli suo contrario, eppure costituisce epigoni delle generazioni dei baby un dato di fatto che negli ultimi boomers, dovrebbe costituire la 30 anni le grandi e rivoluzionarie condizione normale di funzionainvenzioni, il cui tumultuoso in- mento di ogni società bene orgagresso nella vita quotidiana ha nizzata: la sua attitudine a pro-

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durre un miglioramento indefinito delle condizioni di vita. In Italia questa stagione di ristagno viene spesso interpretata come un effetto di intrinseche tare nazionali, ricondotta ad inefficienze dello Stato o attribuita all’attrito di “pesi morti” di volta in volta individuati in aeree geografiche o gruppi vissuti come “parassitari”. Si tratta ovviamente di spiegazioni tanto rassicuranti, quanto semplicistiche ed erronee. Pensiamo ad esempio all’idea diffusa in vasti ambiti sociali del nordest del nostro paese, secondo cui il progresso economico di quest’area sarebbe minato dal carico inefficiente del Mezzogiorno. La celebrazione del 150esimo dovrebbe anche essere l’occasione per spazzare via tali credenze. In realtà lo straordinario sviluppo della parte nordorientale dell’Italia è stato fortemente trainato dal meccanismo unitario che qui ha riversato in grande copia i suoi benefici effetti, assicurando in particolare, adeguati mercati di sbocco. Per contro, l’ondata autonomistica dell’ultimo ventennio, potenziando i poteri di spesa locali, ha ridato fiato, e non se ne sentiva il bisogno, a dinamiche clientelari di cui si iniziano ad avvertire gli effetti, non proprio entusiasmanti. Conclusivamente, non dovremmo sprecare la grande occasione del 150esimo per produrre retorica. Quello che ci serve è un Giubileo della patria in cui reciprocamente perdonarci quello che da sempre

consideriamo il nostro più grande difetto, quello di essere appunto italiani, assumendo la consapevolezza che molte difficoltà che affrontiamo non dipendono dalla erronea decisione di Garibaldi di sbarcare a Marsala ma sono spesso comuni ai nostri vicini. Dobbiamo rinnovare il contratto societario che da 150 anni assicura comunque ricchi dividendi a tutti noi. Il 2011 deve quindi essere l’anno del Contratto, in cui assumiamo di nuovo, collettivamente, l’impegno di tornare a testa bassa a lavorare per individuare la nostra specifica strada di progresso e di sviluppo che da qualche tempo abbiamo smarrito. Uniti agli altri popoli europei, ma anche consapevoli della specificità dei singoli modelli nazionali che sono ricchezza e non limite e intralcio. Siamo un paese “taglia 60 milioni” in una fase storica in cui anche nazioni “taglia 300 milioni” possono iniziare a sembrare piccole. La cosa non ci deve spaventare molto, siamo italiani e, come 150 anni fa, diamo il meglio quando non abbiamo il favore del pronostico.

L’Autore ALBERTO SOLIA Consigliere parlamentare della Camera dei deputati.



CONTINUIAMO A FARE GLI ITALIANI Davvero l’Italia non è altro che una giunzione posticcia di piccole patrie locali? È giunto il momento di rivisitare i vecchi stereotipi. DI WALTER BARBERIS 20

È un luogo comune quello di rifarsi ad alcune affermazioni di Massimo D’Azeglio per dire che l’impresa di tenere insieme gli italiani in un tessuto unitario era inesorabilmente difficile fin dai primi momenti di vita del nuovo telaio istituzionale nazionale; dunque anche, per dire, che è in qualche modo scritto nella storia d’Italia che non si possa addivenire a qualcosa di più e di meglio che a una giunzione posticcia di piccole patrie locali e di rapporti di buon vicinato fra diversi cam-

panili. È un luogo comune, ma lo si sente ripetere molto spesso. E fa eco a quell’altra diffusa imprecazione, che in alcune zone della Pianura padana addita la responsabilità di Garibaldi per dire tutto il disappunto dei settentrionali nei confronti delle migrazioni interne che a metà Novecento hanno portato al nord gli uomini del Mezzogiorno; un Garibaldi che, in quanto “eroe dei due Mondi”, potrebbe anche essere indicato come colpevole virtuale dei flussi che oggi giungono da


STORIOGRAFIA CONDIVISA Walter Barberis

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ben più profondi orizzonti meridionali. Avvicinandosi l’anniversario dei 150 anni da quel fatidico 1861, potrebbe non essere inutile una rivisitazione di questi stereotipi, ora trasfigurati nella sfiducia, nella indifferenza o ancora nella riluttanza a considerare attuale la questione dell’unità nazionale. E forse, conviene proprio partire dagli anni che segnarono l’esordio del discorso risorgimentale. Non sarà superfluo ricordare, infatti, che Gioberti, D’Azeglio o Catta-

neo, giusto per citare figure che guardavano con favore all’unità nazionale, tenevano in gran conto una storia italiana che era fatta soprattutto di frammenti regionali, di storie di città e di tenaci divisioni municipalistiche. E ancora di fazioni locali e di particolarismi radicati. Anche loro, i primi patrioti, che pure avevano a cuore la questione nazionale, portavano i segni dei luoghi di provenienza: il repubblicanesimo di Mazzini e di Genova non potevano accordarsi facilmente con gli spiriti


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monarchici di Cavour e di Torino; né il federalismo di Cattaneo, milanese, era sul fronte democratico vicino alle fantasie universalistiche e protosocialiste di Garibaldi, nizzardo e apolide. E tuttavia, il fondamento costituito dalla necessità dell’indipendenza nazionale e dalla successiva carriera unitaria rendevano quegli uomini, sia pure legati a prospettive diverse, partecipi di un obiettivo primario e complici nell’azione per il suo raggiungimento. Era un dato di fatto che l’Italia precedente al 1861 aveva molteplici capitali: Torino, Milano, Genova, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo. Ma è un dato di fatto altrettanto acclarato che la combinazione dell’azione garibaldina e della diplomazia cavouriana portò in dote all’Italia l’Unità nazionale: addomesticando anche la questione romana, sia pure con dieci anni di ritardo e con le piume al vento dei bersaglieri. È noto che l’affermazione di una monarchia sabauda e di una amministrazione pubblica unitaria non incontrarono il favore universale degli italiani: il termine “brigantaggio” ha troppo spesso sbrigativamente liquidato insorgenze e resistenze che avevano motivazioni a loro volta molteplici. Diverse in Sicilia, negli Abruzzi o in Calabria. E non tutte riconducibili a una sola, profonda cultura antistatuale. Ma la crisi di crescita dello Stato nazionale, non senza strascichi ancora attuali, ha sostanzialmente trovato soluzioni e aggiustamenti. E la storia dell’ultimo secolo e mezzo è storia di

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Siamo stati emigranti, non scordiamolo mai Nessun italiano che si rispetti, retorica nazionalista di qualsiasi colore a parte, può evitare di emozionarsi visitando il museo nazionale dell’Emigrazione italiana. Nelle curatissime sale espositive del Vittoriano c’è davvero di tutto, in un percorso multimediale che immerge il visitatore nelle struggenti ma speranzose atmosfere dell’emigrazione nostrana nel corso degli ultimi due secoli: lettere, telegrammi, cartoline, oggetti personali, pagine di giornali dell’epoca, video, audio, persino canzoni dedicate agli emigranti. Lo spazio museale, fortemente voluto dal sottosegretario agli Affari esteri Alfredo Mantica, rende finalmente omaggio a un fenomeno cruciale per la storia dell’Italia post-unitaria, che ha segnato intere generazioni e ha marchiato a fuoco le carni di un intero popolo. Non c’è facile retorica tra le splendide sale del complesso del Vittoriano; non c’è nostalgia fine a se stessa del tempo che fu; né esaltazione aprioristica di quel momento storico. C’è semplicemente il dovuto omaggio a chi, citando le parole del sottosegretario Mantica, «è partito con un sogno; non tutti hanno potuto realizzarlo ma ognuno ha, comunque, una storia da raccontare». Ce ne sono davvero tante di storie da rivivere. Dalle più note, come l’affondamento dell’Andrea Doria al largo di Boston o il vergognoso caso di Sacco e Vanzetti, alle meno conosciute, quelle personali, le più numerose, che riguardano un’intera schiera di emigranti senza nome che con la valigia piena di sogni e il cuore ancorato all’Italia, si è diffusa a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta. Particolarmente toccante, ad esempio, una lettera di un emigrante italiano in Svizzera indirizzata alla madre: poche righe, tantissima dignità, e la felicità di aver iniziato un nuovo lavoro come “assistente manovale”. E alla fine la promes-


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sa più toccante: i primi risparmi saranno per lei, per la madre lontana. Italiani brava gente, potremmo dire utilizzando un vecchio cliché. E in molti casi non ci sbaglieremmo di certo. Ma i cliché sui nostri connazionali in giro per il mondo, si sa, sono spesso negativi. E allora ecco una carrellata vergognosa e drammatica di “ronde contro gli italiani” in svariati paesi del mondo, a cominciare dalla “civilissima” Svizzera. A Zurigo, all’inizio del Novecento, la caccia all’italiano sembrava lo “sport” preferito, segno di una xenofobia senza uguali, piena zeppa di preconcetti molto spesso privi di fondamento. O ancora un cartello appeso alla porta di un negozio tedesco che recitava lapidariamente “Vietato l’ingresso agli italiani”. Storie dure, di umiliazioni e fatiche immani. Ma anche di grandi drammi, come la tragedia della miniera belga di Marcinelle, ormai riconosciuto come l’evento simbolo della nostra secolare vicenda di emigrazione. Non mancano, e ci mancherebbe altro, gli esempi positivi, le storie di successi e realizzazioni di sogni. Le scuole italiane all’estero, le aziende, i contributi determinanti dei nostri connazionali nello sviluppo economico e culturale di molti paesi (soprattutto in Sud America). L’emigrazione italiana, come ogni altro fenomeno sociale, è piena di sfaccettature, di chiaroscuri, di trionfi e fallimenti, di cervelli in fuga, di bocche da sfamare e di braccia mai stanche. E pensare che, nonostante la presenza di molti musei locali dell’immigrazione, non c’era ancora un punto di riferimento nazionale nella Capitale. Ma questo museo era un atto dovuto ai milioni di persone che sono andati via alla ricerca di un futuro migliore, portando nel cuore l’Italia e diffondendo ovunque i nostri valori (a volte anche quelli per nulla positivi, ammettiamolo senza problemi). Quando si affrontano certi

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argomenti il rischio della retorica è sempre in agguato. A volte, però, crediamo che valga la pena correre il rischio e ricordarsi che quello che siamo oggi è il frutto di quello che abbiamo fatto ieri. E dovrebbero ricordarselo anche quelli che oggi si rivoltano sguaiatamente contro gli immigrati che vengono in Italia con lo stesso sogno dei nostri connazionali di allora. Non a caso, infatti, il percorso espositivo del museo nazionale dell’Emigrazione italiana si chiude con un enorme collage di foto appese al muro. Sono le foto di decine di immigrati, tutti ritratti mentre lavorano. Sono il frutto, tangibile e innegabile, di un capovolgimento della storia che non possiamo e non vogliamo evitare, di un contrappasso che in fondo non è affatto negativo. In giro per il mondo con le valigie di cartone ci siamo andati noi per primi, per secoli. Non dimentichiamolo mai.

da Ffwebmagazine.it


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una progressiva conquista del- a vedere questi risultati. Rimane l’Unità nazionale. E non vicever- un dato di fatto, tuttavia, che una sa. Ed è storia di un ciclo sostan- serie di elementi, oggi tendenzialmente virtuoso, giacché l’Ita- zialmente in chiara dissolvenza, lia ha conquistato un posto al ta- hanno costituito l’ossatura di un volo delle potenze mondiali, sia percorso degli italiani verso pure passando per fasi politica- l’Unità. Ne sono stati esemplari mente ed economicamente altale- persino soggetti che continuano nanti; ciò che tuttavia non avreb- ad apparirci fragili: lo Stato, in be mai potuto ottenere nessuna primo luogo. Eppure, non podelle regioni italiane, lasciate a se tremmo immaginarci alcuno svistesse e alle loro gloriose tradizio- luppo della società italiana, senza ni di grandi città o di piccoli Sta- tenere nel debito conto cosa valse ti. Senza l’unificazione del merca- l’affermazione di una pubblica to nazionale, senza una massa de- amministrazione e di una normamografica competitiva sul piano tiva uniforme sul territorio naziointernazionale, senza il contribu- nale. Si pensi alla scuola: la stessa creazione di un to culturale di tradizioni diverse, usate Durante la Prima guerra medio ceto procome risorse e non mondiale gli italiani del duttivo passò da lì. Nel secondo osteggiate come liOttocento, lo miti, né il Piemonte nord e del sud ebbero Stato si occupò sabaudo né il Regno per la prima volta di organizzare le di Napoli, e neppure il Lombardo-Ve- l’occasione di conoscersi scuole professionali e tecniche: e neto avrebbero avuto possibilità di emersione dalla furono quelle le fucine di una condizione di piccole o medie re- specializzazione che investì positivamente l’artigianato e l’indualtà locali. Dunque, l’Italia è stata comun- stria. Furono quegli istituti di que migliore delle sue varie parti. formazione che sfornarono operai Anche se il cammino verso una addestrati per le lavorazioni di compiuta unità nazionale, ovvia- quella che si avviava a diventare mente, non è stato agevole. Né grande industria nel nord e che dettero manualità e inventiva a senza contraddizioni. Usando come possibile strumen- tutta quella produzione che in to interpretativo la coppia inclu- campi diversi avrebbe costituito sione/esclusione, possiamo affer- un vanto e una eccellenza del nomare che il cammino unitario stro paese: il made in Italy. E fu della storia nazionale ha visto ovviamente la scuola a sradicare prevalere i momenti inclusivi: un tasso di analfabetismo altissianche se dalla nostra odierna pro- mo e a rendere analogo in ogni spettiva, influenzati dal dibattito anfratto del territorio nazionale culturale e dall’agenda politica un programma di educazione pridei nostri giorni, facciamo fatica maria. Il primo Novecento fu se-


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gnato dalla diffusione della scuo- la determinazione nazionalistica. la primaria e la figura della mae- Al netto delle sue tare e contradstra, funzionario pubblico, incar- dizioni, un chiaro movimento di nò i principi stessi di una peda- nazionalizzazione investì la sociegogia nazionale. Inutile aggiun- tà italiana e rappresentò un elegere cosa significò anche sotto mento di cemento unitario. Perquesto profilo la mobilitazione al sino sul piano architettonico: dofronte di cinque milioni di italia- ve un canone stilistico rese simili ni nel corso della Prima guerra gli edifici pubblici di Milano e di mondiale: oltre l’incontro e la co- Bari, di Torino e di Palermo. O noscenza reciproca che mai prima sul piano della sanità: non dis’erano verificati fra italiani di mentichiamo cosa sia stata la diforigine tanto diversa e di diffe- fusione e la regolamentazione rente condizione culturale e so- pubblica di un diritto alla cura e ciale, quel momento di mobilita- all’assistenza. Si pensi soltanto al zione nazionale – di là da ogni al- significato, per la vita e la modernità di una comutra valutazione – nità nazionale, al rappresentò una fa- Per alcuni decenni valore della conse di svolta proprio sul piano della ne- la presenza organizzata dotta medica, degli uffici di igiene, cessità di una for- delle associazioni dell’obbligatorietà mazione di base. Il dei vaccini. distacco dalle fa- politiche fu un Ma la pulsione miglie accese una elemento aggregante unitaria non si arvoglia di istruzione, cioè di saper scrivere, che mai restò né si esaurì all’interno di si era manifestata con tanta in- una filosofia pubblica – oggi così tensità prima di allora. Le poste stentatamente apprezzata; anzi, movimentarono due miliardi di trovò linfe vitali anche negli spapezzi tra i fronti e le varie zone zi della libera iniziativa economidel paese: scritture incerte, spesso ca privata, con uno sviluppo indelegate a chi ne sapeva di più, dustriale che fece dell’Italia una ma certamente premesse di una potenza di vertice nello scacchiescolarità più convinta che il fasci- re internazionale. E che si risolse smo avrebbe successivamente in- all’interno con costi sociali di incoraggiato. E se il fascismo, a sua dubbia rilevanza, ma anche con volta, può essere considerato co- movimenti migratori che portame una zona d’ombra nella storia rono milioni di italiani a conviveitaliana sotto il profilo della sua re nelle grandi industrie e nel gevocazione coercitiva e dunque sto comune dell’organizzazione della sua forza esclusiva sul piano di tipo fordista. Gli anni che sedelle libertà civili – ne fanno te- gnarono il secondo dopoguerra, sto il tribunale speciale e le leggi non a caso, sono rimasti mitici razziali, a puro titolo di esempio nella storia italiana: furono gli – tuttavia non se ne può ignorare anni del grande boom economico,

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cioè di una relazione virtuosa fra l’aumento della capacità produttiva e la diffusione di una capacità di consumo, gli anni che resero non soltanto più ricchi gli italiani, ma anche più simili fra loro, meno segnati da differenze secolari di risorse materiali e di cultura. Infrastrutture, trasporti, industria, consumi furono tratti di un processo di cucitura e di rafforzamento del tessuto nazionale. A cui non venne meno il contributo di una realtà democratica e repubblicana che favorì l’espansione della partecipazione politica e dei suoi soggetti principali: i partiti di massa e, in stretta relazione di nuovo, i mezzi di comunicazione di massa. Non vi è motivo di coltivare nostalgie; ma certa-

mente, per alcuni decenni la presenza organizzata delle grandi associazioni politiche e la piazza come spazio pubblico del confronto furono elementi di forte aggregazione. Le idee divisero, com’è naturale; ma le modalità della loro espressione unirono. Come contribuì all’unificazione la prima televisione pubblica: con le sue trasmissioni di culto che folgorarono trasversalmente la società italiana, con la sua implicita missione di diffusione della lingua nazionale, con la sua pedagogia omologante. È ovviamente non sempre facile cogliere questi aspetti dal nostro osservatorio odierno, dove la liquidità delle associazioni politiche e la banalità dei modelli televisivi tendono


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a riportare ciascuno nel chiuso delle proprie case, all’inseguimento di effimeri traguardi privati, lontano da ogni impegno politico e ideale. Ma la curvatura degli ultimi anni non è una buona ragione per disconoscere quanto è avvenuto nel corso di 150 anni di carriera nazionale in Italia. Certamente, nella storia dell’Italia unitaria, non tutto si è risolto in un movimento virtuoso. Rimasero peculiari della situazione italiana, e gravissime, le forme e le modalità della criminalità organizzata. Ciò che noi definiamo con un termine antico e legato alle tradizioni della Sicilia occidentale, “mafia”, è un fenomeno che è stato declinato al plurale e che ha segnato una molteplicità di territori: e che

ancora oggi inchioda lo Stato in una difficile azione di contrasto. Intere porzioni del territorio nazionale sono state colonizzate da una patologica considerazione dell’ordine pubblico come una intrusione indebita nella tradizione di rapporti sociali ed economici locali, legali e illegali. Intere frazioni della società italiana sono indissolubilmente legate da un nodo che vede collusi aggressori e vittime: riparati da una osservanza delle regole simili a quelle di associazioni segrete, da quella “umiltà” che da sinonimo di obbedienza è diventato, piegato dalla vulgata dialettale, “omertà”. Si tratta di un tratto fisiognomico che, purtroppo, ha segnato il volto dell’Italia nel mondo. Fissandosi come un ennesimo luogo comune. Non privo, tuttavia, di un drammatico fondamento. Di questa immagine, i primi a esserne stati vittime sono stati proprio quegli italiani che la vita nazionale ha escluso: coloro che non hanno partecipato delle molte fasi inclusive della storia italiana. Quei 29 milioni di persone che dall’Italia hanno preso la strada della speranza altrove, emigrando in Europa e nelle Americhe o in luoghi ancora più remoti. Quegli italiani hanno rappresentato un’altra debolezza del nostro sviluppo, un costo sociale e non di rado culturale. Ad essersi prosciugate, infatti, sono state prevalentemente le campagne, che hanno costituito fino alla metà del Novecento l’universo dominante, sotto il profilo numerico, demografico e occupazionale, e

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sotto il profilo di una cultura diffusa. Quel mondo, in virtù di movimenti migratori interni e esterni, si è praticamente dissolto. E se non possiamo non valutare positivamente quei fenomeni di urbanizzazione che hanno elevato il tasso di modernità della società italiana, d’altronde non possiamo che rammaricare la perdita di una ricchezza di tradizioni che oggi molto spesso viene evocata soltanto in chiave caricaturale. Così come è difficile non considerare la precarietà della nostra idea di cittadinanza nazionale: esattamente nella contingenza di spostamenti di popolazione che ci trovano oggi nella inusuale e inedita posizione di paese ospite, che ha il compito difficile di accogliere, di integrare, di reinventare una soluzione inclusiva che non disperda in primo luogo un patrimonio di storia nazionale e che non si risolva nella semplice, quanto illusoria, negazione dell’ospitalità. È evidente, che alla scadenza dell’anniversario dell’Unità nazionale, sia il sostantivo sia l’aggettivo – Unità nazionale – hanno bisogno di linfa nuova, di un aggiornamento che innanzi tutto sappia leggere e interpretare la nostra storia: con occhi non faziosi, non condizionati dalla paura degli incontri – che hanno sempre fertilizzato il suolo italiano a partire dagli anni della caduta dell’impero romano. Se solo sapessimo guardare, con qualche attenzione e non senza un minimo spessore culturale, alla eredità di Roma e insieme alla ibridazione di quella società con

le tribù germaniche e slave; se facessimo tesoro di quanto sia costato agli italiani un atteggiamento municipalistico e fazionario, dal Medioevo di Dante alle fratture di metà Novecento, alla infinita resa dei conti nei confronti degli altri da noi e di parte di noi; allora potremmo guardare non solo con coraggio, ma anche con entusiasmo a una nuova fase di costruzione dell’Unità nazionale. In un contesto europeo, naturalmente; ma anche mediterraneo e transcontinentale. Come il concetto di democrazia, anche quello di comunità nazionale ha una sua variabilità nel tempo, di significati e di modalità di espressione. È semplicemente un dovere – nel contesto delle relazioni internazionali, alla ricerca ovunque di soluzioni di convivenza pacifica – quello di continuare a “fare gli italiani”.

L’Autore WALTER BARBERIS Insegna Storia moderna e Metodologia della ricerca storica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino. Ha pubblicato numerosi studi sulla formazione delle classi dirigenti in età moderna. Ha pubblicato il saggio Il bisogno di patria (Einaudi, 2004).



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VENTUNO SECOLI DI PATRIA Amministrativamente il nostro paese ha 150 anni, ma il concetto di patria risale all’89 a.C. Quando Roma estese la cittadinanza a quei popoli italici che si erano ribellati fondando uno Stato: Italia. DI PAOLO QUERCIA


LE ORIGINI Paolo Quercia

testo storico, sottendono un’analoga visione, ovvero l’esistenza di un concetto politico d’Italia verso cui le diverse piccole patrie comunali e le numerose signorie regnanti possono convergere. Ai tempi della Firenze dei Medici non solo esisteva già un’idea d’Italia ma si affermava anche il ragionare politico circa una sua unità. La pluralità delle piccole patrie conviveva con l’esistenza di un’idea d’Italia e il discorso politico sulla realizzabilità e auspicabilità della sua unione compiva i primi passi come tensione storico-culturale che Quanti secoli ha vedeva i comuni e l’Italia? Appena Già nella Firenze dei le signorie italiche uno e mezzo, se usiamo il metro Medici esisteva un’idea fare i conti con l’emergere in Eudell’unità ammini- di Italia e si affermava ropa di Stati mostrativa. Almeno il derni a guida nadoppio se risaliamo il ragionare politico zionale ma con alla nascita di quel circa la sua unità proprie ambizioni desiderio storico e politico d’Italia, prima letterario imperiali. Nel Rinascimento itae poi d’azione, che emerge nel no- liano si possono rintracciare già i stro paese a partire dal Settecento semi di quel processo lungo e e che nell’Ottocento assumerà le contraddittorio che porterà a conforme, al tempo stesso note e di- cepire lo Stato nazionale come menticate, del Risorgimento. Ma punto d’equilibrio tra il particol’Italia non nasce affatto con il larismo locale e l’universalismo Risorgimento. Quella duplice, imperiale. Ma anche l’uomo rinaromantica ambizione all’unifica- scimentale, che si poneva al cenzione politica della penisola e alla tro della città e al centro dell’uniliberazione da potenze straniere, verso, e si apprestava a vivere conon rappresenta affatto un’idea me faber ipsius fortunae, non aveva nuova ma viene da lontano. Po- fabbricato lui l’idea d’Italia ma tremmo andare indietro di cin- essa gli pre-esisteva. Qualche seque secoli da oggi e trovare, nelle colo prima già Dante Alighieri pagine del fondatore della mo- ne dava una propria plastica viderna scienza politica, il fiorenti- sione, evocandone nel Canto IX no Machiavelli, simili inviti e dell’Inferno persino i confini geoanaloghi ragionamenti che, sep- grafici, non troppo distanti da pure concepiti in un diverso con- quelli dell’attuale Repubblica: L’Italia nasce nell’89 avanti Cristo, con la Lex Plauta Papiria quando i popoli italici ottengono l’estensione della cittadinanza romana ed i diritti politici, fino ad allora riservati ai soli alleati di Roma. Nasce al termine di una guerra civile in cui numerose tribù italiche si unirono in una lega contro l’imperialismo di Roma. Crearono uno Stato denominato Italia, le cui monete riportavano sul fronte l’allegoria dell’Italia, una donna vincitrice cinta d’alloro con inciso il nome “Italia”. Il prossimo anno l’Italia festeggia ventuno secoli di vita.

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L’INTERVENTO di Andrea Romano*

Basta con l’autoflagellazione moralista

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«Se l’Italia non fosse il paese che è…». Quante volte, per caso o per necessità, abbiamo ascoltato frasi come questa? Formulazioni quotidiane del senso di resa con cui coltiviamo un antico vizio italiano: quello di rappresentare il paese all’insegna di un declino inarrestabile, malato di una malattia che si vuole morale e antropologica. Non è certo una novità dei nostri tempi. Eppure è vero che negli anni della nostra lunga transizione la pratica dell’auto-flagellazione nazionale ha assunto una curvatura peculiare e persistente. Vi ha contribuito, tra l’altro, il ricorso al moralismo come criterio dell’identificazione politica e come metro dell’azione pubblica. Perché da quando – con l’inizio degli anni Novanta – il nuovo bipolarismo italiano si è strutturato anche lungo una linea di divisione che pretendeva di separare i “giusti” dai “compromessi”, la tradizionale attitudine alla denigrazione della nostra comunità nazionale si è gravata di un nuovo elemento peggiorativo. E pretendere che una parte politica si differenziasse dall’altra per un diverso grado di moralità ha comportato due distinti fattori di danno. Il primo è nato, banalmente, dalla falsità di una pretesa che per definizione non può sostanziarsi da alcun dato fattuale di ordine generale o di categoria. Il secondo e più grave è costituito dalla sottrazione alla nostra comunità civile di una risorsa che può e deve rimanere condivisa, perché quando la moralità pubblica diventa di parte essa rinuncia alla propria natura istituzionale. Sullo sfondo di questo abuso del ricorso alla moralità pubblica, la rappresentazione del declino ha finito per intaccare la risorsa di quella società civile da cui ci si sarebbe dovuti attendere la salvezza. E oggi, quindici anni dopo l’inizio di una transi-

zione che avrebbe dovuto rigenerare la politica attingendo ai serbatoi di vitalità civile, poco o nulla sembra essere rimasto di quel carburante immaginario. Eppure proprio uno sguardo a quest’ultimo quindicennio suggerisce una diversa ipotesi sulle risorse disponibili per una diversa e futura declinazione del nostro discorso pubblico. Perché se è stato il cattivo utilizzo della risorsa morale a contaminare i serbatoi di vitalità civile, nella ricerca di una rigenerazione che avrebbe dovuto ribaltare la cattiva politica, la possibilità di volgersi alla società civile italiana senza alcuna velleità di palingenesi morale ma nella più laica ricerca di una comprensione di quello che il nostro paese è davvero diventato potrebbe rappresentare la chiave per girare almeno una delle ultime pagine della nostra lunga transizione. Ipotizziamo allora che da domani si manifesti per impulso di forze politiche cresciute in questa stessa transizione la consapevolezza che il moralismo (e l’antimoralismo che esso inevitabilmente produce) possa essere finalmente accantonato, per cercare invece nella società civile la creatività necessaria a rifondare un patto nazionale. Un’ipotesi velleitaria? Forse, soprattutto se il perimetro della ricerca viene forzatamente circoscritto alle culture politiche intese tradizionalmente come quelle che ci sono state lasciate in dote dalla storia repubblicana. Ma se invece si guardasse oltre quel perimetro, scommettendo sulla possibilità di rinnovare quelle culture anche attraverso la contaminazione con una creatività civile più vitale di quella che ci rimanda l’abitudine all’autodenigrazione, il ritorno della fiducia nel futuro sarebbe forse possibile. *direttore di Italia Futura


LE ORIGINI Paolo Quercia

«si come Arli ove Rodano stagna di pirati e saraceni dal sud, ma / si come a Pola presso del Quar- mantengono intatti alcuni tratti naro / che Italia chiude e i suoi fondamentali dell’antica civiltà. termini bagna». Ma l’Italia di In quei secoli bui evolvono in Dante, che innalza al cielo le cat- nuove forme le antiche istituzioni tedrali medioevali e afferma la li- della società romana, la famiglia, bertà dell’autogoverno dei comu- la proprietà privata, la lingua roni e delle signorie – le più itali- manza, il diritto comune, il sapeche tra le istituzioni politiche re tecnico e artigianale. Si viene della nostra penisola – già si av- formando quel capitale umano viava a parlare una lingua comu- che farà parlare il Carducci della ne, pur nelle sue numerose va- “risorta nel mille itala gente” e rianti regionali. Era la lingua che, constatare a Machiavelli che «in due secoli dopo l’anno Mille, Italia non manca materia da inFrancesco aveva usato per innal- trodurvi ogni forma e grande virzare a Dio il suo canto di amore e tù vi è nelle membra», nel mentre esorta il Prinlibertà in lingua cipe «a pigliare la volgare. Una lin- L’Italia di Dante Italia e liberarla gua, nuova, non dalle mani de’ più dotta ma popo- si avviava a parlare barbari». Nei selare, non più relit- una lingua comune, coli successivi al to di un impero universale che non pur nelle sue numerose Mille può dirsi avviato il processo di c’è più, ma nata varianti regionali formazione di dall’uso del volgo nel lungo e lento processo di tra- quella che potremmo chiamare sformazione del latino nell’italia- una patria comune ai popoli italino. Una trasformazione avvenuta ci. O meglio di molte piccole panella travagliata notte della storia trie italiane, visto che a lungo il della nostra patria, quando ci ad- sentimento d’appartenenza ridormentammo parlando latino marrà confinato nei valori munialla caduta dell’impero romano cipali e comunali. Così fu per i d’Occidente e ci risvegliammo al- Ciompi, che cacciati da Firenze l’alba dell’anno Mille parlando combatterono per anni per potere l’italiano volgare. In quei cinque rientrare nella loro patria, nonosecoli contrassegnati da invasioni stante avessero trovato accoglienbarbariche, anarchia feudale, ab- te esilio in altre terre. Solo a parbandono delle campagne, ridu- tire dal Rinascimento giungerà a zione dei commerci, contrazione farsi strada il problema dell’unità demografica si compie nella peni- politica della penisola, problema sola quella miracolosa trasforma- che avrebbe trovato soluzione sozione dell’antica società romana lo dopo cinque ulteriori secoli. nella nuova società italica. I po- Solitamente c’è concordia nel rinpoli italici subiscono le invasioni tracciare a cavallo dell’anno Mille barbariche dal nord e le scorrerie il periodo di nascita del popolo

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italiano, popolo che in quei secoli linguisticamente si è ormai sufficientemente diversificato tanto dalla lingua antica dei latini quanto da quella nuova dei popoli conquistatori, con i quali si stabilisce un processo di scambio sociale ed etnico. Ma se la storia può guidare la ricerca delle origini più prossime della nostra patria almeno fino ad un millennio addietro, nessuno ci impedisce di cercare ancora più lontano tracce simboliche di una patria più antica, assorbita all’interno di quel grande mosaico politico di popoli e di legge che fu l’impero universale di Roma. È una ricerca che conduce al 91 avanti Cristo, quando nell’Italia centrale numerosi popoli soggetti al dominio di Roma ma esclusi dai privilegi della cittadinanza si ribellarono al dominio dei romani e diedero vita alla prima esperienza statale denominata Italia. Presso la città di Corfinium si riunirono Marsi, Peligni, Marrucini, Vestini, Piceni, Sanniti, Lucani e Apulii e lì decisero di fondare un nuovo Stato, denominandolo Italia e ribattezzando Italica la capitale (Caput imperii sui Corfinium legerant atque appellarant Italicam. Velleius Paterculus, II, 17). Il proprio simbolo era il toro, la cui etimologia riconduce alla stessa radice della parola Italia. Batterono una propria moneta in cui da un lato vi è il volto d’Italia vittoriosa cinto d’alloro con sotto incisa la parola Italia e dall’altro gli otto popoli che prestano giuramento d’unione. Il conflitto degli italiani con Roma, che prende storicamente il

nome di guerre sociali, durò due anni e terminò con la concessione da parte di Roma della cittadinanza a tutti i popoli italici, con l’emanazione della Lex Plauta Papiria. Fu una legge di portata storica. Per la prima volta tutti i residenti in Italia che, nel termine di due mesi, avessero dichiarato ad un magistrato romano di voler diventare cittadini avrebbero ottenuto la cittadinanza romana. Era l’89 avanti Cristo e per la prima volta nella storia d’Italia il concetto di cittadinanza fu esteso ai popoli italici, quelle tribù oltre gli Appennini che ribellandosi contro Roma per la disparità del loro status, diedero vita, breve ma simbolica, alla prima unità politica denominata “Italia”. Questa Italia nata contro Roma fu presto riassorbita dalla logica assimilatrice di Roma ma quell’atto normativo dell’89 avanti Cristo può essere letto come l’ingresso su base paritaria dei popoli italici nella storia della penisola. A tale legge d’uguaglianza tra i popoli italici nell’impero romano possiamo far risalire il primo antecedente di una patria degli italiani. Ottantanove avanti Cristo. Ventuno secoli fa nel 2011.

L’Autore PAOLO QUERCIA Analista di relazioni internazionali ed esperto di questioni di sicurezza. Consulente del Centro alti studi di difesa, è responsabile degli Affari internazionali della fondazione Farefuturo.



FERMIAMO L’IDEOLOGIA

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a cerimonia per il 150esimo anno dall’unificazione italiana deve costituire uno stimolo per ritrovare quello spirito identitario e nazionale, che è l’unico argine in grado di fermare il vento antiunitario che spira sempre più forte nella società civile e nella politica del nostro paese. Prima che sia troppo tardi.

INTERVISTA A ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA DI PIETRO URSO

«I critici al Risorgimento sono sempre esistiti, ma ora si sono evoluti, ora producono letteratura e quindi ideologia, un’ideologia che non è più solo antirisorgimentale, ma anche contro l’Unità d’Italia». Così Ernesto Galli Della Loggia, storico ed editorialista del Corriere della Sera, intervistato a proposito della celebrazione per i 150 anni dell’Unità d’Italia, lancia un av-

vertimento sullo spirito antiunitario che serpeggia ormai da tempo nella societa civile e all’interno della politica italiana. Il professore, infatti, ritiene che il Risorgimento, i suoi valori e l’Unità d’Italia sono “sotto accusa”, da nord a sud in maniera uniforme, ma spera che le celebrazioni per l’importante ricorrenza possano invertire questa rotta.


L’INTERVISTA Ernesto Galli Della Loggia

ANTIRISORGIMENTALE

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Il Risorgimento è sotto accusa. In quali modi si esplica questo attacco? Perché questo accade?

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La polemica di basso conio verso il Risorgimento è sempre esistita, ma era limitato a delle frange folli, a dei gruppi insignificanti. Ad esempio, i neo borbonici a Napoli ci sono sempre stati, così come gli amanti di Cecco Beppe in Friuli. Ma queste frange non producevano nulla di scritto, nessun tipo di letteratura, e quindi erano molto limitate. Oggi invece il fronte si è allargato: non si tratta più solo di alcune frange folli, si produce letteratura, quindi ideologia che diventa senso comune, e sono diffuse geograficamente. Si è formata una saldatura tra antirisorgimentali del nord e del sud, ma anche tra i cattolici del centro. Un’altra novità è che questi gruppi, inoltre, si servono della critica alta al Risorgimento che la politica italiana ha sempre fatto, da Mazzini a Salvemini, passando da Oriali, Gioberti, dal fascismo, fino a Gramsci. Sempre la politica italiana ha criticato l’esito del Risorgimento perché era visto come un movimento limitato senza il popolo, senza le masse. Questa riflessione alta, nobile, ha sempre criticato il Risorgimento, ma non è stata mai anti-unitaria, mentre adesso questo tipo di letteratura, sempre presente nel nostro paese, viene usata da un nuovo schieramento antirisorgimentale proprio contro l’Unità d’Italia. Da dove nasce questo animo anti-risorgimentale?

Non è solo un fatto politico. Si-

curamente c’è stata un’evoluzione che alla fine ha influenzato anche la politica, ma per prima cosa è un’idea che nasce dalla società civile. Solo in seguito è confluita all’interno di alcuni partiti politici e nella formazione di gruppi antirisorgimentali maggiormente organizzati. Come mai i giovani d’oggi conoscono poco la storia risorgimentale? E questo cosa può provocare?

Per molti decenni il Risorgimento è uscito dalla formazione della nostra cultura politica, e ancor di più dall’ideologia diffusa del pae-


L’INTERVISTA Ernesto Galli Della Loggia

se. La prova è nella catastrofe dei programmi scolastici che riservono una parte infinitesimale al Risorgimento. In questo modo i giovani non possono conoscere a fondo la vera storia del Risorgimento italiano e quindi è più semplice per questi nuovi movimenti antirisorgimetali fare nuovi adepti. Da poche settimane è stata presentata dal governo la nuova riforma scolastica del ministro Gelmini. Come la giudica? Può migliorare la situazione scolastica?

Sono favorevole alla nuova riforma e penso che il ministro Gel-

mini e i suoi collaboratori abbiano capito che la strada che è stata intrapresa negli ultimi trent’anni ha portato a pessimi risultati, e abbiano deciso di cambiare. Sicuramente ci vorrà molto tempo, ma credo che la nuova direzione sia quella giusta e la giudico in modo molto positivo. Ci sono stati errori nel processo di unificazione? Quali sono stati? Potevano essere evitati? Ne stiamo pagando ancora le conseguenze?

Non parlerei di errori, ma di nodi. Possiamo dire che l’Unità d’Italia non era una tela liscia, ma 39


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era formata da tanti nodi e certamente la scelta di come scioglierne alcuni ha portato a delle difficoltà. Naturalmente l’assenza di spinta popolare ha creato delle problematiche, ma questo non può essere considerato un errore perché bisogna considerare che alle masse, al popolo, l’Unità d’Italia non interessava. L’errore semmai è di quelle persone che pensavano che l’Unità d’Italia si potesse fare solo con il popolo. L’unificazione è stata fatta nell’unico modo in cui si poteva fare. Naturalmente questo ha portato a delle contraddizioni molto forti: dal problema dei cattolici alla questione dello Stato pontificio. Sicuramente ancora adesso paghiamo le conseguenze di quelle contraddizioni. I conflitti e le disuguaglianze tra nord e sud dipendono da alcuni sbagli commessi durante l’unificazione?

Già prima dell’Unità d’Italia tra nord e sud esisteva un abisso, il sud era già sottosviluppato rispetto al nord. Anzi, il Meridione ha visto migliorare le proprie condizioni dopo l’unificazione. Infatti, prima non esisteva un sistema scolastico adeguato, non esisteva una rete di comunicazione degna di questo nome, non c’era un sistema giudiziario, non esistevano un’agricoltura sviluppata e un commercio dei propri prodotti con i paesi stranieri. Mentre al nord tutto questo già si era sviluppato, certamente anche grazie alla posizione geografica e agli influssi delle potenze straniere confinanti con quelle regioni.


L’INTERVISTA Ernesto Galli Della Loggia

Bisogna aggiungere però che non esiste nessuno Stato al mondo che è riuscito a colmare il divario tra una parte del paese e l’altra. Possiamo prendere ad esempio la Germania anche con i suoi potenti mezzi dopo oltre 20 anni dall’unificazione non è riuscita a colmare il divario con l’ex Ddr. Anche in Francia e in Spagna ci sono zone sottosviluppate, in ogni paese esiste uno squilibrio interno che non è causato solo dalla politica, ma dipende soprattutto da ragioni oggettive come la storia o la geografia di quel paese che possono amplificare la disparità. Anche le politiche d’intervento più efficaci non possono colmare tali differenze in un breve periodo. Quali sono, dopo 150 anni, i valori positivi dell’Unità d’Italia giunti fino a noi?

Certamente uno dei valori che ereditiamo dall’unificazione è la libertà. Gli anti-risogimentali non pensano mai che gli italiani prima dell’Unità non potevano leggere un libro liberamente, non potevano fare un comizio, non potevano stampare un giornale, non si potevano riunire in un’associazione perché non esisteva il valore della libertà dell’individuo. L’Unità ha portato alla libertà e questo è stato sicuramente il massimo vantaggio. Un altro fattore importante che troppe volte viene omesso è il ruolo dello Stato italiano come massimo fattore di progresso politico, culturale, civile ed economico degli italiani, che sono stati enormemente avvantaggiati nella loro vita quo-

tidiana dall’esistenza di uno Stato, hanno potuto imparare a leggere e scrivere, a commerciare, a comunicare. Senza lo Stato nazionale il progresso sociale per la popolazione sarebbe stato molto più lento o addirittura impossibile. Come giudica il conflitto politico che negli ultimi anni sta caratterizzando l’Italia?

La politica è il conflitto. Il problema di legittimazione e delegittimazione delle istituzioni percorre l’Italia come un filo rosso da sempre, non solo negli ultimi vent’anni. Noi pensiamo di vivere in un periodo politicamente molto negativo, ma solo perché non guardiamo mai al passato. All’epoca di Massimo D’Azeglio esistevano i cattolici e i filo-austriaci che erano contro l’Unità d’Italia. Se guardiamo realmente al passato scopriamo che i conflitti sono sempre esistiti, ad esempio negli anni Cinquanta tutti i partiti tenevano le armi in cantina. Sono contro questo apocalittismo da quattro soldi. Oggi, invece, credo che ci sia una compattezza sostanziale nei confronti delle istituzioni da parte di tutte le forze politiche e sociali. Dove può andare un paese che non ama la propria storia rinnegando in questo modo la sua più profonda essenza?

Un paese che non guarda e non riflette sulla propria storia non può andare da nessuna parte. Bisogna avere un progetto politico che indichi la rotta, ma per avere un’idea occorre crederci, così come nella vita delle persone anche

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nella vita della collettività. Una collettività che non crede in se stessa, perché pensa di non esistere, non ha nessun futuro.

L’Intervistato

In ogni paese occidentale, quando ricorre il giubileo dell’unità o dell’indipendenza, l’intera nazione si ferma e si festeggia insieme, ognuno seguendo la propria tradizione. Come mai, invece, in Italia le celebrazioni dei 150 anni sono viste come un problema?

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Per cinquant’anni la dimensione nazionale è stata completamente trascurata e messa da parte, in più negli ultimi anni è nata questa cultura anti-nazionale e quindi è ovvio che viviamo le celebrazioni per i 150 anni come un problema, mentre negli altri paesi le cose vanno in maniera diversa. Anche se, a dire la verità, quando i francesi hanno celebrato l’anniversario della Rivoluzione francese nel 1989 ci sono state diverse polemiche sul reale valore della rivoluzione, sulle cause e sugli effetti. In questi mesi negli Stati Uniti ci sono stati dei confronti fortissimi nella società americana contro le politiche di Obama. Noi italiani dovremmo imparare a renderci conto che anche negli altri Stati esistono gli stessi problemi e non dobbiamo solo elogiarli per ogni cosa. Tutto questo accade perché noi siamo un popolo ignorante che non conosce le cose degli altri, non leggiamo, non ci informiamo, siamo tutti attaccati ai nostri affari di bottega. E inoltre siamo pigri e provinciali.

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA Storico e giornalista, è editorialista del Corriere della Sera. Ha pubblicato numerosi saggi tra cui L'identità italiana (il Mulino) e La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica (Laterza). Ha insegnato negli atenei di Siena e Perugia e dal 2005 al 2007 è stato preside della Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove è stato docente di Storia contemporanea fino al 2009, quando è diventato professore ordinario presso l’Istituto italiano di Scienze umane.

L’Autore PIETRO URSO Giornalista e redattore del bimestrale della Fondazione Farefuturo, Charta minuta. È esperto di comunicazione e storia del giornalismo italiano ed europeo.



Alla ricerca della polis perduta La Costituzione come fattore identitario è strettamente connesso all’idea della nazione come progetto che accoglie e include. DI ALDO DI LELLO 44

«Patriottismo costituzionale? Questa sì che è bella! Bella davvero, ma che significa?». Può apparire strano – e a qualche utopista reazionario, perdonate l’ossimoro calzante, è parso strano – che si possa parlare, oggidì, di identità nazionale nella Costituzione. «Ma che favola è mai questa?», diranno il realista all’ingrosso e il cinico all’ingrasso, infastiditi da questo rombar di motori sulla pista di decollo della proposta politica. «Che pannicello caldo avete inventato?», ripeteranno, commiseranti, l’intellettuale rassegnato, afflitto da invincibile tetraggine, e lo scrittore truculento, convinto (della) e avvinto (alla) natura inguaribilmente vendicativa, faziosa e fetente della gente italica.

In adorante ascolto delle fosche voci che si levano ogni domenica dagli stadi («De-vi-mo-ri-re, devi-mo-ri-re!», «E dai! Spaccagli le gambe!») e convinti che si riveli lì la natura vera del cosiddetto paese profondo, gli sprezzatori del patriottismo costituzionale non sono altro che i bardi, più o meno consapevoli, di una singolare escatologia politica in salsa italiana. L’Armageddon – cioè la battaglia finale tra le forze del Bene e quelle del Male – tracima dai testi profetici e si fa metafora della vita (politica) quotidiana. È una tentazione trasversale che ha tratto alimento dal clima messianico del primo decennio del XXI secolo, intossicato dal paradigma immaginifico dello scontro delle civiltà. Viene da notare, di sfug-


PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE Aldo Di Lello

gita, quanto sia veritiero il celebre aforisma di Chesterton: «Da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più in nulla, credono a tutto». Tant’è che abbiamo assistito in anni recenti all’inaudito spettacolo di Crociate permanenti vagheggiate da ineffabili miscredenti, oppure, sul fronte opposto, di anatemi antioccidentali provenienti da Occidente, in particolare da pacifisti iridescenti e autoflagellanti. L’opposizione preconcetta al patriottismo costituzionale è anche un riflesso pavloviano che riconduce a certo odio rancido che sopravvive all’evoluzione storica italiana. È un passato che non vuole decidersi a passare e che porta in superficie rancori carsici,

lotte di classe che cambiano di classe, conti con la storia che non tornano mai e che non possono mai tornare, perché svolti superficialmente o perché ispirati dalla voglia di rimozione. E completiamo questo quadro epocale con certa apocalittica spicciola che nasce dal fascino indiscreto della decadenza e che intona il mantra della dissolvenza italiana sfogliando le pagine di cronaca dei quotidiani. Una volta c’era il “paese alle vongole” aborrito dalle avanguardie engagé e dai salotti gramsciangobettiani (da pronunciare tutto d’un fiato), oggi c’è una grottesca popolazione di post-italiani, che gratifica le pruderie di un pubblico vieppiù morboso e ispira i corsivi o i pornoeditoriali di certe penne all’arrabbiata, sia di destra sia di sinistra; penne talmente iraconde da ingenerare il sospetto che la loro indignazione possa essere talvolta un po’ pelosa. Venghino, signori! Venghino! Venghino ad ammirare le prodezze di ninfette, puttanoni, viados, lestofanti, lenoni, spioni, scrocconi, dignitari sporcaccioni. Nella post-Italia è tutto un furoreggiar di dossier e memorie che rispuntano dalle brume del passato, di pose galeotte immortalate dal fotografo-strozzino, di scandali e scandaletti che fanno più spettacolo che scandalo e che ci narrano di un nichilismo straccione, pervasivo e plebeo. Al dunque – dirà il neoapocalittico –, che speranze di successo potrà mai avere, in questa Italia, un progetto di rilancio (anzi, per l’esattezza, di lancio) del patriot-

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tismo costituzionale? Non siamo ce domanda: è la politica a fonper caso fuori tempo massimo? dare la nazione o è la nazione a Non è – aggiungeranno i critici fondare la politica? più colti e raffinati – un «ferro- È qui che casca l’asino! Perché, vecchio» (proprio così hanno amici cari, amici belli, neoreazioscritto) nella stessa Germania che nari e neoapocalittici immaginari, dovete sapere che la politica è l’ha inventato? Diciamo allora, per rincuorare gli consustanziale alla nazione. Ci può animi dubbiosi e per ammansire essere politica senza nazione, ma gli spiriti bollenti, che il patriot- non può esserci nazione senza potismo costituzionale non serve a litica. Ohibò! Essì! Perché la nacambiare gli italiani (progetto, di zione è volontà politica in atto, per sé, pericoloso e insensato). che si esprime in una volontà (poServe invece, molto più modesta- litica) originaria e immanente: la mente (o se volete, ambiziosa- volontà di essere nazione e di continuare a esserlo anche nel fumente) a ritrovare l’Italia. turo. È il famoso Non è un bel proplebiscito di renagramma? Non ne Il patriottismo niana memoria. vale la pena? Sì, La cultura, la linma come? La ri- costituzionale riporta gua, la storia e sposta è semplice: la politica alla sua l’ethnos? Presi tutti partendo dal vincolo istituzionale normalità, alla certezza insieme, non fanno la nazione, fanno il e, soprattutto, delle regole condivise paese. Il paese è il morale che lega, o che dovrebbe legare, gli italiani sostrato della nazione, ma non è in una solidale comunità politica. ancora la nazione. Consentitemi E la cultura, dove la mettiamo la questa metafora dolciaria. Se vocultura? Dove lo mettiamo gliamo fare una torta, dobbiamo l’ethnos? Gli italiani non sono for- innanzi tutto mettere insieme gli se già nazione, indipendente- ingredienti: farina, uova, vaniglia, mente dalla Costituzione? «Una cioccolato, crema, pan di spagna e d’arme, di lingua, d’altare, di quant’altro di leccornioso riusciamemorie, di sangue, di cor», non mo a immaginare. Affinché ci sia lo cantava forse già il Manzoni? torta, occorre inserire nel prelibato L’Italia come nazione cominciò a miscuglio un po’ di lievito, altriformarsi già nel Medioevo, ci ha menti verrà una schifezza. Ecco, insegnato il grande Gioacchino diciamo che la nazione è come una Volpe. Perché allora – affermano torta. Dal paese vengono gli ini censori prevenuti – non dedur- gredienti, dalla politica il lievito. ne che la nazione vive nei secoli, Sapete allora qual è il dramma mentre la Costituzione è tran- italiano? È che pur essendo costituita, la torta-Italia, da ingreseunte e vive nei decenni? Proviamo a riassumere tutte dienti sopraffini, il dolce della queste obiezioni in una sempli- nazione risulta deludente alla


PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE Aldo Di Lello

prova del palato. Evidentemente lo che regge e legittima tutta l’organizzazione sociale che ci circ’è un problema di lievito. Fuor di metafora, non dico che la conda e che ci avvolge, quello che scarsa qualità della politica-lievi- mette in forma la partecipazione to dipenda dalle caratteristiche dei cittadini. Non è un’obbediendell’odierna classe dirigente o dal za formale, perché è simbolo e sotipo di offerta politica. Questo è stanza al tempo stesso. È riscoun discorso politologico, e non perta della storicità della politica, che non vuol dire il passato della mi compete. Dico che è un problema di cultu- politica, ma il cammino della polira politica e di regole convenzio- tica. È la storicità di valori che si nali che presiedono al dibattito. sono affermati dopo una vicenda L’una e le altre tendono a frustra- tragica e tormentata, dopo una re l’innovazione e a ripiegare in dittatura, una guerra e poi una un sostanziale scetticismo, ancor- guerra civile, ma che rimandano ché si presentino al pubblico- anche all’Italia liberale e al Risorgimento. I princìelettore circonfuse pi fondamentali da un’aura forte- La nazione è volontà sanciti nella prima mente conflittuale parte della Carta, e adrenalinica, in politica in atto che sono il distillato un’agitazione pe- si esprime nella volontà di un secolo di girenne che non si gantesche trasfortraduce mai in rea- di essere nazione e mazioni, di cultul e m o v i m e n t o . continuare ad esserlo re e ideali che si Nella sostanza, la politica tende a essere sempre più sono incontrati, scontrati e soamministrazione, gestione dell’esi- vrapposti. Sono princìpi universtente, tentativo di arginare un sali, perché affermano i diritti declino percepito come incom- dell’uomo, ma sono anche naziobente. Non è in discussione la nali, perché vivono hic et nunc in qualità tecnica del personale poli- una comunità politica (e storica) tico. Il punto è la direzione, lo determinata. scopo e i traguardi collettivi da Sul piano dell’etica diffusa e della indicare ai cittadini, l’idea di Ita- prassi seguita dai soggetti politilia da costruire e affermare. Sten- ci, il patriottismo costituzionale tano cioè ad arrivare dalla politica riporta la politica stessa alla sua comportamenti che fanno coesio- normalità, che non vuol dire né ne e progetto, e che fanno quindi grigiore né tantomeno normaliznazione. Diciamo che il lievito zazione, ma certezza delle regole e pare abbia perso la consapevolez- garanzia degli obiettivi di fondo condivisi dalla comunità nazionaza e la voglia di essere lievito. Ecco, ripartire dalla Costituzione le. La politica della normalità e serve a far crescere, lievitare la na- della coesione si contrappone alla zione. Significa ripartire dal vin- politica dell’eccezione e dell’inimicicolo politico fondamentale, quel- zia, come s’è spesso rappresentata

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in tutti questi anni sulla scena pubblica. Taluni scrittori hanno anche scomodato, esasperandole e mortificandole nella grossolanità, le Categorie del politico di Carl Schmitt, a partire dalla contrapposizione amico-nemico e dalla dottrina della sovranità (il cui incipit recita per l’appunto «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione»). Il bipolarismo all’adrenalina e gli schiamazzi dei talk show sono stati spacciati per epifania italiana della teoria schmittiana. Merita di essere sottolineata la circostanza che l’evocazione del pensatore di Plettenberg è avvenuta da parte di taluni esponenti dell’intellighenzia di sinistra. Non è la prima volta che accade. Qualche decennio fa, un gruppo di intellettuali orfani di Marx rilesse le Categorie del politico al fine di ostacolare la riscossa delle teorie liberali. Oggi invece Schmitt è ridiventato un fantasma, che si aggira nel paesaggio depressiogeno della transizione italiana cronicamente incompiuta. Che dire? Che è meglio non immettere troppo carburante intellettuale nelle paure e nelle frustrazioni epocali. Le teorie schmittiane rimangono materiale esplosivo, anche dopo l’ultradecennale trattamento liberale, e vanno pertanto maneggiate con estrema cura. Dunque normalità vs eccezione. Non è facile far passare il messaggio, in assenza di gravità e nell’imperio del canone politico-mediatico che impone agli stracci di svolazzare senza sosta, non è facile, dicevo, far passare il messaggio che la normalità può diventa-

re un sfida appassionante e che l’eccezione perennemente esibita può dar luogo a pratiche stucchevoli e paralizzanti. Gli è che la neoretorica, imperante da quasi vent’anni, ci ripete che siamo passati all’era dell’emergenza perpetua. Fenomeni colossali come quello delle migrazioni tendono ad esser privati della loro storicità per poi precipitare nel calderone delle ansie quotidiane e del minimalismo chiuso alla dimensione del futuro. Molti italiani, che a malapena conoscevano le strofe dell’inno nazionale, si sono chiesti all’improvviso: «Che ne sarà della mia identità?». Se avessero posseduto una conoscenza più completa del loro passato, e quindi una percezione più serena del loro futuro, si sarebbero posti dinanzi al problema con assai minore apprensività. L’attualità e la necessità del patriottismo costituzionale vengono anche e soprattutto da tali domande. Giacché la Costituzione come fattore identitario è strettamente connesso all’idea della nazione come progetto che accoglie e include. E ci ricorda che l’italianità non è folklore inerte né marchio tribale, ma un nucleo di valori che possono essere accolti ed affermati anche da chi proviene da mondi lontani. Un problema simile, ancorché in termini assai più tragici, se lo sono posto, come già ricordato, i tedeschi, che da decenni hanno riformulato l’idea di nazione, liberandola da ogni contaminazione etnica e razziale. Il perché non ci vuole molto a capirlo, vi-


PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE Aldo Di Lello

sta l’esperienza atroce e criminale del nazismo. Non per niente, la teoria del “patriottismo costituzionale” ha conosciuto un’approfondita elaborazione proprio in Germania. Non sarebbe il caso, al riguardo, di stabilire paternità politicoideologiche, però è difficile resistere alla tentazione di mettere i puntini sulle “i”. Dovete infatti sapere che, a differenza di quanto comunemente si crede, il concetto di “patriottismo costituzionale” non è nato a sinistra ma a destra. A elaborarlo per primo non è stato infatti Jurgen Habermas, esponente di seconda generazione della Scuola di Francoforte (quella della pestifera triade neomarxista composta da Horkheimer, Adorno e Marcuse), bensì Dolf Sternberger, un allievo di Annah Arendt di impronta conservatrice e liberale, che introdusse nel dibattito intellettuale germanico l’idea del Verfassungspatriotismus (patriottismo costituzionale, appunto) come unica forma di amor di patria possibile in un paese che aveva conosciuto le devastazioni dell’etnonazionalismo. Fu poi Habermas a riprendere e a rilanciare il concetto. Figura interessante quella di Sternberger, ancorché si tratti di un pensatore poco noto in Italia. Vale la pena di spendere in conclusione due parole su di lui, perché autore di una lunga ricerca sulle “radici” della politica e quindi sulla sua autonomia. Come indicato anche da altri pensatori conservatori (pensiamo a Leo Strauss o a Eric Voegelin), tali ra-

dici sono da lui collocate nella grande tradizione classica. A Sternberger si deve in particolare il tentativo di attualizzare la polis per fondare una “nuova politcia” adatta allo Stato moderno. Discorso affascinante, che merita di essere ripreso e approfondito. Tra i tanti elementi, è il caso di sottolineare la critica allo spirito rivoluzionario (in particolare a quello di Marx) in termini di critica al messianismo e all’escatologia secolarizzata. Afferma Sternberger che «una politica escatologica distruggerà la polis» proprio perché «pensiero non solo apolitico ma sostanzialmente antipolitico». Siamo oggi lontani dalle tragedie provocate dal messianismo rivoluzionario del secolo scorso. Ma l’apocalittica rimane una pulsione potente e disastrogena, perché volta a “farla finita” col nemico, sia egli il Grande Satana occidentale, sia egli il Nuovo Saladino alle porte, sia egli il più casereccio post-italiano collocato sul fronte avverso. Ecco, sta qui, in questa preoccupazione l’ispirazione originaria del patriottismo costituzionale: ritrovare la politica, e con essa la nazione, ritrovando la polis.

L’Autore ALDO DI LELLO Giornalista e scrittore. Ha diretto dal 1989 al 2008 le pagine culturali del Secolo d’Italia. Ha fondato nel 2003 la rivista di geopolitica Imperi.

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Tre percorsi di riforma

I

l 150esimo anniversario dell’Unità deve essere onorato avviando le riforme del welfare, sociali e istituzionali. Solo così il nostro paese può trovare nuova linfa vitale e voglia di essere unito. DI ADOLFO URSO

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LE RIFORME NECESSARIE Adolfo Urso

per celebrare l’Unità L’anno dell’Unità andrebbe dedicato alle riforme. E in particolare a tre riforme che definiscano un nuovo patto generazionale, geografico e istituzionale: la riforma delle pensioni, del welfare e del fisco, che ponga al centro della nuova soggettività sociale i giovani e le famiglie; la riforma sociale, che faccia davvero del Mezzogiorno una questione nazionale ed europea, e le riforme istituzionali per riconsacrare su basi federaliste l’Unità d’Italia. Si tratta di tre passaggi fondamentali troppo a lungo rimandati che sono necessari proprio per consentire al paese di affrontare la nuova fase della globalizzazione con un sistema sociale e produttivo più consono alle diverse sfide della competitività. Il nostro paese ha resistito meglio d’altri all’impatto dello tsunami finanziario ed economico e ne sta uscendo prima e con meno danni, ma ora rischia di più perché cresce meno e più lentamente. Troppo poco e troppo lentamente. Necessita quindi di quelle riforme che andavano fatte in tempi di vacche grasse e che ora costa di più realizzare in tempi di crisi, ma proprio per questo non più rinviabili. Il 17 marzo di quest’anno iniziano di fatto le celebrazioni per il 150esimo che si compie appunto tra un anno: saranno dodici mesi pieni di parole, eventi e ricorren-

ze, articoli, libri e trasmissioni; ciascuno ricorderà l’apporto dei propri antenati, culturali e politici, e ciascuno cercherà di ricordare come si stava meglio quando si stava peggio e dei torti subiti e delle promesse mancate. Siamo certi che al sud tornerà l’epopea dei Borboni e persino quella dei briganti. E che una parte del nord rivendicherà il merito dell’azione sabauda mentre l’altra metà si struggerà nella nostalgia austroungarica. Ciascuno leggerà la sua parte a suo uso e consumo e invece di esondare le ragioni dell’unità, riemergeranno quelle dei localismi, storici, culturali e geografici. Non servono le celebrazioni, anzi potrebbero essere persino nocive. Servono le azioni, se corroborate dalle riforme. La maggioranza ha i numeri per farlo, ma ne ha davvero la volontà? La minoranza avrebbe necessità di farlo, ma ne ha davvero la forza? La prima, sembra ancora troppo presa dall’urgenza del fare, costretta a fronteggiare da una parte le emergenze, compresa quella giudiziaria, dall’altra la crisi, che non è finita del tutto. La seconda non ha più un progetto, ma solo un’affastellarsi di odi e rivendicazioni, rimpianti e lacerazioni. Eppure, le condizioni ci sarebbero, almeno sulla carta. Dopo le elezioni regionali, oltre tre anni senza significative competizioni,

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sino appunto alle prossime politi- poti, per esaltare la coesione geche del 2013. Se il percorso delle nerazionale); realizzare gradualriforme iniziasse davvero e prima mente il quoziente familiare per dell’estate, si potrebbero incardi- supportare le famiglie e stimolanare in tre grandi corsie: quella re la natalità. Senza figli non c’è che serve a innovare la società, Italia che tenga. E di figli l’Italia puntando con determinazione a ne fa pochi, meno di tutte le altre dare di più a chi oggi ha di meno, nazioni d’Europa. cioè ai giovani e alle famiglie, Le riforme sociali, per fare del unico strumento per stimolare la Mezzogiorno la questione nazionatalità; quella che recuperi il di- nale ed europea, con uno scambio vario tra nord e sud, drammatica- tra politica degli incentivi e fiscamente cresciuto in questi ultimi lità di vantaggio. Il Mezzogiorno anni e sul quale occorre operare non soffre di carenza di risorse ma anche con gli strumenti europei, di una distribuzione malsana delper esempio con la fiscalità di le risorse che ha inquinato i pozzi dello sviluppo, divantaggio; terza storcendo il mercacorsia, quella isti- Il Mezzogiorno soffre to e viziando le imtuzionale, riduprese (e deturpancendo i livelli am- di una distribuzione do la politica e le ministrativi e rea- malsana delle risorse istituzioni). Il lizzando una riforMezzogiorno è la ma degli assetti che inquinano i pozzi questione nazionaistituzionali nella dello sviluppo le perché, se non si direzione indicata dal federalismo fiscale. Le tre cose recupera allo sviluppo ed ai consi legano insieme e vanno nella sumi la metà meridionale del stessa direzione: quella della in- paese, non crescerà più nemmeno novazione e della coesione, senza quella settentrionale. Il primo la quale le celebrazioni dell’Unità mercato per le imprese resta cosaranno solo rivolte al passato, in- munque quello nazionale e non esiste società in crescita se non è capaci di delineare un futuro. Le riforme di pensioni, welfare e competitiva anche sul territorio fisco devono assolutamente valo- interno e non esiste sviluppo se rizzare i giovani e le famiglie su non crescono anche e soprattutto cui oggi pesa anche gran parte i consumi interni. Per quanto della crisi. Occorre rivedere il si- brave possano essere le imprese stema degli ammortizzatori so- del nord e della costa centrale ciali, che ha protetto chi ha un dell’adriatico nel cercare nuovi lavoro stabile ma non i giovani e mercati e nuove rotte di sviluppo i precari, che per lo più sono ap- (e sono state bravissime in questa punto giovani; allungare l’età fase recessiva a dirigersi in fretta pensionabile, destinando ogni nei paesi emergenti), non si ha euro risparmiato a scuola, uni- una crescita armonica e duratura versità e ricerca (dai nonni ai ni- e soprattutto non si è realmente


LE RIFORME NECESSARIE Adolfo Urso

competitivi senza un retroterra dove crescano ricerca, innovazione, consumi e ricchezze. Le riforme istituzionali, devono ripartire dalle parti condivise della riforma realizzata nel 2005 e respinta dagli elettori nel 2006. Consapevoli della lezione secondo la quale chi fa da sé, corre il rischio di tornare alla base di partenza. E quindi: il Senato delle autonomie, la riduzione del numero dei parlamentari, la valorizzazione del premier. E in più, assolutamente necessaria: la riforma della giustizia e dei regolamenti parlamentari. Si faccia insieme o in percorsi separati, poco importa, purché si faccia con una strategia organica e complessiva, armonica e strutturale. Sui tre percorsi sarebbe utile, importante, in alcuni casi necessario, trovare il consenso della opposizione o almeno della parte più responsabile di essa. In tal caso, si consacrerebbe un processo di rinnovamento anche della politica che certamente valorizzerebbe quanto fatto e segnerebbe un punto di svolta rispetto alla politica della delegittimazione reciproca del bipolarismo muscolare, che purtroppo ha contraddistinto la Seconda Repubblica, dividendo il paese in tifoserie dai linguaggi violenti e dal gioco senza risultato. In ogni caso, alla fine del percorso potremo avere un paese che guardi indietro ai suoi centocinquant’anni ma non resti indietro, consapevole del percorso fatto ma anche di quello che intende fare. Non si vive di solo passato ma

senza passato non si costruisce il futuro; il problema dell’Italia di oggi è che vive solo nel presente, teso a governare solo il quotidiano, aggrappato ciascuno alla propria generazione e al proprio territorio. L’Unità di allora fu costruita da popoli che parlavano lingue diverse, consumavano cibi diversi, vestivano in modo diverso, vivevano in sistemi diversi, avevano società diverse e istituzioni divise, talvolta contrapposte, ma erano popoli giovani che desideravano un futuro comune. Siamo sicuri che noi anziani di oggi lavoriamo perché i nostri figli abbiano un futuro comune? Allora si era divisi da dogane, frontiere, eserciti, monete, lingue ma si era fortemente nazione. Oggi si vive in una società fluida dove nulla ci separa se non il nostro egoismo e i timori crescenti dell’altro e degli altri. Chi alimenta le paure, muore tra le paure. L’anno dell’Unità deve ritrovare le ragioni (e non le emozioni) della coesione sociale e nazionale, con la quale si può navigare nell’era della globalizzazione senza affondare né disperdersi. Altrimenti l’Italia era: bella, brutta, non importa, semplicemente era e non sarà più.

L’Autore ADOFO URSO Direttore politico di Charta minuta. Vice ministro allo Sviluppo economico con delega al Commercio estero. Segretario generale della fondazione Farefuturo.

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Il pericolo della marginalitĂ

Bisogna restituire credibilitĂ alla politica Le riforme sono oggi drammaticamente necesserie, pena il rischio di diventare un paese-vassallo. Ma attenzione a non aprire le porte a soluzioni cesariste che svuotino la democrazia. DI LUCIANO VIOLANTE


LE RIFORME NECESSARIE Luciano Violante

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La foto pubblicata da un quotidiano mostra il Dalai Lama che lascia la Casa Bianca da un ingresso secondario, sfiorando sacchi di spazzatura. La scelta dell’ingresso secondario è dovuta probabilmente alle pressioni cinesi. Qualche giorno prima il Wall Street Journal si era chiesto preoccupato per quali ragioni la Banca centrale cinese avesse venduto bond del tesoro americano per 34 miliardi di dollari. Era un primo messaggio di sfiducia? Forse no, perché il fondo sovrano cinese ha contemporaneamente

reso nota la lista delle sue partecipazioni nelle grandi imprese Usa, dalla Apple alla Coca Cola, dalla Visa alla Bank of America. O forse sì, perché, nel timore che il dollaro si svalutasse e quindi il governo Usa pagasse i suoi debiti con moneta priva di valore, i cinesi hanno deciso di investire in imprese floride. La Cina, inoltre, si avvicina rapidamente agli Usaanche nella ricerca scientifica. Tra le trenta top Universities al mondo, un terzo sono cinesi. Negli ultimi tre anni sono tornati in Cina 150mila studiosi da università e


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centri di ricerca occidentali. litici all’interno dell’Unione, ma Mentre gli Usa non hanno più riduce il peso complessivo del soldi per le missioni spaziali, nel Continente. La competitività tra 2018 è in programma la prima i singoli Stati europei si è fatta feroce perché il contenitore Europa spedizione cinese sulla Luna. Cosa c’entra tutto questo con le non è in grado di assicurare sinerriforme costituzionali in Italia? gie. Conseguentemente ciascun C’entra. La presenza crescente paese europeo si sta rimboccando della Cina nel mondo occidentale le maniche per stare a galla, supepone in termini ultimativi la di- rare i propri punti deboli ed essefesa delle sovranità nazionali. re pronto a ripartire quando la Avevamo scommesso che la Cina, crisi sarà passata. aprendosi al mercato, sarebbe sta- Non è vero che l’Italia sia rimasta ta costretta ad accettare i principi a guardare. È vero, invece, che della nostra democrazia. Invece i sembra aver scelto la via sbagliagovernanti cinesi hanno salvato ta. Ha scelto non di riformare le regole, ma di aggicapra e cavoli: son o e n t r a t i n e l L’Italia ha scelto di non rarle sbandierando il principio di mercato e si sono emergenza. Non tenuti la dittatura riformare le regole riforma del procedel partito unico. ma di aggirarle dimento legislatiCol tempo è provo, ma decreti legbabile che le cose usando il principio ge e fiducie. Non cambino anche in dell’emergenza rafforzamento istiCina. Ma non possiamo crogiolarci nell’attesa per- tuzionale del presidente del Conché potremmo essere lentamente siglio ma sua apparente investitrasformati in una colonia, piena tura diretta attraverso l’artificio di arte e di storia, ma incapace di dell’indicazione del nome del badare a sé stessa per l’inidoneità candidato a Palazzo Chigi sulla dei suoi ordinamenti. Gli Stati scheda elettorale, artificio al quaUniti possono far leva sulla loro le è sfuggito solo Romano Prodi. straordinaria potenza economica Non fidelizzazione delle maggioe la competitività della loro poli- ranze parlamentari ai governi, di tica della ricerca. L’Europa ha qualsiasi colore, per la condivicontinuato a scegliere, irrespon- sione dei programmi e dei valori; sabilmente, un profilo basso, su- ma legge elettorale che, attraverbalterno agli egoismi dei singoli so la cooptazione che sostituisce governi nazionali. Francia e Ger- l’elezione, pone i parlamentari mania, principali responsabili di nelle mani dei capi dei partiti e questo basso profilo, hanno costi- quindi del capo del governo. tuto un asse, per alcuni aspetti al- L’emergenza è pervasiva. La viternativo all’Ue, che riesce a mol- cenda della protezione civile, ad tiplicare il peso dei due paesi, e esempio, è conseguenza della didei loro interessi economici e po- latazione dello stesso principio.


LE RIFORME NECESSARIE Luciano Violante

L’emergenza ha cominciato a ri- aveva previsto il divieto di intraguardare (l. 225/92) “calamità prendere azioni giudiziarie ed arnaturali” e “catastrofi”, anche se bitrali nei confronti delle struttul’ambigua aggiunta degli “altri re commissariali e dell’Unità eventi” poteva far presagire la de- stralcio operanti in Campania. riva. Il decreto legge 343/01 ha Dopo lo scandalo, quest’ultima esteso le procedure di emergenza misura è stata saggiamente ritiraai cosiddetti grandi eventi ren- ta, ma la sua stessa proposizione dendo possibile l’uso delle ordi- conferma il rischio che, in mannanze in deroga alla legislazione canza di riforme, la Repubblica vigente e l’assegnazione dei pote- scivoli verso un ordinamento speri straordinari previsti per la pro- ciale, privo di controlli. tezione civile per ogni accadi- Questi rischi sono certamente demento di qualche impegno, tut- terminati anche da propensioni t’altro che imprevedibile, da un soggettive di una parte della clasincontro dell’Associazione catto- se politica dirigente al superamento delle regolica italiana alle cele, vissute come lebrazioni per i Una parte della classe dannosi 150 anni della politica vede le norme vincoli per il conseguiUnità d’Italia. mento dei risultaNelle vicende co- come vincoli dannosi ti. Ma nei processi stituzionali, come politici e costituin quelle legate al- per il conseguimento zionali nulla avla realizzazione di dei risultati viene per sola prograndi opere, l’eccezione tende a diventare regola, pensione soggettiva. Esistono i la deroga si trasforma in procedu- fattori oggettivi che, utilizzati ra ordinaria, il normale funziona- strumentalmente, forniscono un mento dell’ordinamento è sospe- fondamento alle propensioni sogso per decisione imperscrutabile gettive. Ed è ai fattori oggettivi dell’esecutivo e per pressioni che bisogna guardare per commultipartisan. Solo il potere, am- prendere dove bisogna intervenimoniva Montesquieu, può ferma- re per ristabilire i principi e le rere il potere. Nella crisi del Parla- gole di un moderno sistema demento, l’altro potere capace di mocratico. Il principale fattore controllare è la magistratura. Ma oggettivo è la inidoneità delle reancora una volta non si sono ri- gole attuali a governare una deformate le regole per far funzio- mocrazia competitiva, capace di nare l’ordinario e si tenta quindi garantire la forza della propria di frenare i controlli. Il decreto economia e i livelli di vita dei lalegge 90/08 ha sottratto le ordi- voratori. Su questo campo si minanze adottate con i poteri della sura la sfida per le riforme. Se protezione civile al controllo pre- temporeggiassimo ancora ci troventivo di legittimità della Corte veremmo a un bivio pericoloso dei conti. Il decreto legge 195/09 tra un cesarismo distruttivo dei

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diritti e l’affondamento nella palude dell’inefficienza. Le riforme devono avere l’ambizione di restituire dinamismo e credibilità al sistema politico italiano. La questione riguarda tutti i campi dell’ordinamento: il sistema costituzionale, i regolamenti parlamentari, lo statuto La società italiana vive delle diverse magistrature, il in uno scontro rapporto tra ideologico senza esclusione di colpi Stato e Regioni, la regolamentazione dei mercati finanziari, la pubblica amministrazione. Il cambiamento democratico, per realizzarsi, deve uscire dal dibattito di occasione, o dal mantra, privo ormai di credibilità, sulla

nuova stagione di riforme. Proprio l’occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia potrebbe aiutare a costruire quel dibattito pubblico sulle riforme che sinora è mancato e senza il quale al cittadino comune sfugge tanto la posta in giuoco quanto il significato politico costituzionale delle diverse alternative. Questo dibattito deve tener conto di una difficoltà di fondo. Il mondo politico, gran parte dei mass media e livelli consistenti della società civile più attenta alle questioni politiche vivono immersi in uno scontro ideologico senza esclusione di colpi. Si è parlato del tramonto delle ideologie. In realtà sono tramontate


LE RIFORME NECESSARIE Luciano Violante

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alcune ideologie e ne sono sopravvenute altre, con gli stessi difetti delle prime ma prive di quell’eroismo di fondo che le rendeva capaci di mobilitare milioni di cittadini per valori e per idee. La culla del sistema in cui quelle ideologie si espressero fu la vittoria sul fascismo e sul nazismo. I principali partiti politici erano stati insieme, dalla stessa parte, in un tragico momento per la storia d’Italia e avevano vinto una guerra di libertà. Questa storia comune ha costituito per circa 45 anni un cemento più forte di ogni possibile lacerazione politica e ha evitato che i conflitti tra i partiti , che pure ci sono stati e di rilievo tutt’altro che se-

condario, portassero alla distruzione dell’ordinamento. Il sistema politico nel quale viviamo oggi, invece, è nato da due sconfitte. La sconfitta del comunismo ad opera della storia. La sconfitta delle tradizionali classi dirigenti per effetto della corruzione poIl sistema politico litica e ammiè nato da due sconfitte nistrativa. Gli subite da comunismo eredi del coe Prima Repubblica munismo italiano non hanno ancora rielaborato le ragioni di quella sconfitta e forse non se ne sono del tutto liberati. Non solo. Lo scontro tra i due blocchi, quello filoamericano e quello filosovietico, aveva spinto il


mondo occidentale a predisporre principi e valori idonei a dimostrare anche il proprio primato morale sull’avversario sovietico. Dopo la sconfitta del comunismo c’è stata, soprattutto nel nostro paese, che La fine del comunismo più di altri era stato condizioha offuscato nato dal bipolala dimensione umana rismo internadella politica zionale, una sorta di generale fuga liberatoria dai principi morali, un ripiegamento sui propri personali piccoli interessi, l’abbandono progressivo dei principi di solidarietà, un offuscamento della dimensione umana della vita e del60

la politica. Era stato sconfitto l’avversario storico e non eravamo più costretti ad essere virtuosi. Spettò a Giovanni Paolo II il compito di mettere in guardia dai rischi di una vittoria “eccessiva” del capitalismo, non temperata dalla forza dei diritti, dal primato dei valori e dalla pratica della democrazia. Anche gli eredi del comunismo italiano, che pure si era fatto, a torto o a ragione, qui non interessa, portatore di quei principi, nel prendere le distanze dalla loro storia, si sono allontanati dai valori positivi dell’esperienza dalla quale provenivano. Come si dice con scarsa raffinatezza, hanno butta-


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to non solo l’acqua sporca, ma anche il sapone. Molti degli eredi delle vecchie classi politiche dirigenti, che oggi fanno parte del partito di maggioranza relativa, o che ad esso si richiamano, addebitano la fine della Prima Repubblica non alla corruzione politica e amministrativa ma agli abusi di una magistratura sostenuta da complicati quanto improbabili complotti tra servizi segreti americani, comunisti italiani e grande finanza internazionale. Oggi ci ritroviamo di nuovo alle prese con vicende di malcostume e corruzione di vasta portata proprio perché non abbiamo riflettuto sulle cause politiche

e istituzionali del crollo della Prima Repubblica e non siamo intervenuti in modo responsabile per eliminare le cause strutturali della corruzione. Sono mancate riflessioni convincenti sull’una e l’altra sconfitta. La politica non Non abbiamo riflettuto sulle cause politiche ha voluto cercare le verità sulla e strutturali del crollo propria storia. della Prima Repubblica Di qui la lacerazione ideologica che divide i principali partiti e i loro seguaci, il trionfo della regola dell’amiconemico e il ripudio delle ragioni stesse della politica che esige il dialogo tra avversari. Anzi i tentativi di dialogo sono spesso guardati con sospetto dai colleghi 61 dei dialoganti, ciascuno dei quali è ritenuto da appartenenti alla propria parte come dedito ad oscuri maneggi per ambizione personale. Siamo regrediti ad una fase prepolitica, dalla quale bisogna uscire al più presto. Ancora una volta il dito nella piaga l’ha messo la magistratura penale, i cui automatismi non possono essere frenati dalle logiche dell’emergenza. Ma bisogna evitare oggi di cadere nell’errore di diciotto anni fa, ai tempi di Mani Pulite, quando la politica stette a guardare intimorita o entusiasta, a seconda dei casi, rinunciando ad esercitare le proprie responsabilità. La lezione di quegli anni è che il sonno della politica può generare crisi irreversibili: mentre nell’aprile 2010 voteranno quelli che nel 1992 erano appena nati, ancora oggi ci accapigliamo sulle cause e sugli effetti del nostro


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1992. Il dibattito pubblico po- obbiettivi costituzionali delle ditrebbe finalmente farci fare un verse parti politiche. Questi passo avanti nell’affrontare le ra- obiettivi sono tra loro compatibigioni politiche della fine della li, esprimono lo stesso modello di Prima Repubblica e porre così le società politica, puntano a un accondizioni per la civilizzazione centramento dei poteri in poche mani o ad un nuovo più efficace del confronto politico. Gaetano Azzariti ha recentemen- equilibrio tra i diversi poteri? te ricordato, in un articolo pub- Terzo quesito: la riforma deve blicato su www.costituzionali- avere la funzione di riconoscere e smo.it, come, agli albori della ci- formalizzare le prassi figlie delviltà giuridica occidentale, Ari- l’emergenza o deve invece frenastotele avesse detto che «modifi- re le degenerazioni che si succecare una Costituzione non è im- dono con ritmo incalzante da presa minore del costruirla per la quindici anni? prima volta». Consapevole delle Solo un grande e approfondito dibattito pubblico difficoltà connesse può sciogliere queal metter mano ad La Costituzione è solo sti interrogativi. una Costituzione, Senza dibattito il dibattito pub- un accordo politico o pubblico di questo blico dovrebbe l’insieme di norme che tipo una sapiente chiarire tre quesiti preliminari, tra definiscono i principi di comunicazione potrebbe addirittura loro connessi, es- una comunità sociale? far apparire convesenziali per i passi nienti le procedure di emergenza successivi. Il primo riguarda la natura stessa contro le lentezze del Parlamento di un testo costituzionale. La Co- e i riti del teatro politico. L’attuastituzione è solo un grande ac- le stato delle cose non è privo di cordo politico, modificabile per- vantaggi per vasti settori della ciò ad libitum, quando le parti lo classe politica dirigente. Il numedecidono o lo decide una parte ro eccessivo di parlamentari concontro l’altra, oppure è l’insieme sente di giocare la carta del Parladi norme che definiscono i prin- mento dequalificato e quindi di cipi fondamentali che legittima- aggirarne le funzioni. Grazie alla no una comunità politica e socia- legge elettorale le oligarchie polile? Più precisamente: la riforma tiche possono selezionare il persocomporta un cambiamento della nale parlamentare facendo sedere visione del mondo che è propria su quegli scranni persone di fidudella Costituzione o riguarda so- cia che saranno i loro rappresenlo gli strumenti per rendere me- tanti e non certo i rappresentati glio perseguibile quella visione dei cittadini. E meno qualificati saranno questi rappresentanti, del mondo? Il secondo quesito, strettamente più saranno fedeli, potendo conconnesso al primo, riguarda gli tare solo su questa qualità per la


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rielezione. Il conseguente svuota- volte, addirittura senza la capacimento del Parlamento rende pos- tà di cogliere tutte le conseguensibile al governo legiferare attra- ze politiche, istituzionali e sociali verso la sequenza decreto legge- delle proprie scelte. Gli studiosi, maxiemendamento-fiducia. L’as- salvo rare eccezioni, sembra absenza di un Senato delle regioni biano rinunciato a concorrere, concentra nella Conferenza Stato- con l’autorevolezza che nasce dal Regioni, fuori di ogni controllo sapere e non dall’appartenere, alla esterno, decisioni finanziarie di maturazione di un pensiero costigrande rilievo, destinate a vinco- tuzionale nella società italiana. lare anche il Parlamento. Un vi- Nel dibattito pubblico i dirigenti goroso dibattito pubblico farebbe politici devono assumere le proemergere la verità, renderebbe prie responsabilità, ma devono pubbliche le diverse opzioni, aiu- trarre dal confronto con gli intelterebbe a razionalizzare le scelte, lettuali i contributi necessari per sconfiggerebbe i tentativi di una migliore conoscenza della realtà. Il politico ideologizzare le non delega la soluproposte per na- L’emergenza può zione allo specialisconderne il vero sta, ma ascolta lo significato politico sostituirsi alle regole specialista per decostituzionale. Il solo nel breve periodo cidere quale soludibattito pubblico zione prendere. deve spiegare che e per rimettere Una nuova stagiole riforme servono in sesto il sistema ne di impegno ciai cittadini, sono necessarie per rendere il paese vile degli studiosi conferirebbe al competitivo e salvaguardare i li- lavoro intellettuale e all’impegno velli di vita dei cittadini, mentre specialistico il senso di un servile scappatoie favoriscono i club zio per la Repubblica. dei potenti, incentivano le corru- In questo quadro si colloca oggi zioni, favoriscono gli assalti alle la ragione delle riforme. La Repubblica è, per la inidoneità dei finanze pubbliche. In questo dibattito un ruolo del propri ordinamenti prima che tutto particolare deve spettare per qualsiasi altra ragione, sullo agli studiosi del diritto costitu- scivolo dell’emergenza. L’emerzionale e, più in generale, agli genza può supplire alla inidoneistudiosi del diritto pubblico. Da tà delle regole ordinarie solo nel molti anni i partiti politici hanno breve periodo e solo per consenrapporti difficili con il mondo in- tire di rimettere in sesto il sistetellettuale. Questa assenza di rap- ma. Non può contenere in sé i porti concorre alla particolare de- germi del futuro ordinamento; bolezza strategica e teorica dei protratta oltre la ristretta casistipartiti, al loro aggrovigliarsi sul- ca che la legittima, l’emergenza le questioni del momento senza allargherebbe i margini di arbicapacità di guardare al futuro e, a trio autoritario e di spesa pubbli-

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ca ingiustificata, che le sono purtroppo congeniali, e ci condurrebbe verso la rottura dei principi fondamentali della legalità costituzionale propri non solo dell’Italia ma di tutto il mondo democratico occidentale. Una riforma, per essere tale e per non convertirsi in un mutamento autoritario del sistema politico, deve rispettare i principi della separazione dei poteri, dei pesi e contrappesi costituzionali, della responsabilità nell’esercizio di funzioni pubbliche. Allontanarsi da questi valori non sarebbe privo di conseguenze né sul piano interno nè su quello della credibilità internazionale. Pertanto oggi i motivi per fare le riforme sono diversi dal passato. Non è più solo una spinta per la decisione a tutti i costi, come nei primi disegni di Bettino Craxi; né la consapevolezza della necessità di una razionalizzazione democratica dell’esistente, come nel progetto della Commissione De Mita-Jotti; né è possibile il ricorso alle riforme come macchina di legittimazione reciproca, secondo il disegno della Commissione D’Alema; né le riforme possono essere oggetto di una fantasia creativa diretta ad accontentare tutti i partner di una coalizione, ciascuna per la propria quota, senza attenzione alla coerenza del risultato complessivo, come accadde per la riforma votata dal centrodestra nella XIV legislatura e bocciata dal referendum. Oggi le riforme sono drammaticamente necessarie perché abbiamo esaurito le alternative, cor-

riamo il rischio di diventare un paese-vassallo e abbiamo il dovere di mettere l’Italia, i suoi cittadini, le sue imprese e le sue famiglie in grado di guardare con speranza al futuro. C’è il rischio che si faccia strada una sorta di indifferentismo riformatore che, purchè si cambi, si dichiara disponibile anche a soluzioni cesariste o carismatiche, che aggraverebbero la crisi. Occorre riformare per mettere la democrazia in grado di mantenere le sue promesse, non per svuotare la democrazia. Questo dovrebbe essere il tema del grande dibattito pubblico che potrebbe avviarsi per ricordare i 150 anni dello Stato e della società italiani, tante volte caduti e, sino a oggi, ogni volta rialzati.

L’Autore LUCIANO VIOLANTE Magistrato, deputato dal 1979 al 2008, è stato presidente della Camera dei deputati dal 1996 al 2001. È presidente dell’associazione italiadecide.



Da Torino a Torino,

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I

150 anni dell’Unità sono l’occasione giusta per riflettere sul recente passato e ideare il domani. È per questo che la città piemontese, prima capitale e simbolo del Risorgimento, si prepara a celebrare l’evento con un calendario fitto di appuntamenti.

DI SERGIO CHIAMPARINO


LE CELEBRAZIONI Sergio Chiamparino

dal passato al futuro

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Ripensare l’identità italiana oggi è più difficile che mai. È una necessità apparentemente molto circoscritta. Sentiamo certo il bisogno di lavorare a nuovi modelli di identità, ma in generale la richiesta che arriva dal mondo della cultura, dal mondo delle imprese, dal mondo del sociale, è piuttosto valorizzare quanto c’è già. Il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia è certamente l’oc-

casione per lavorare sul concetto di identità da un lato e di valorizzazione dell’esistente dall’altro. Ma questi bisogni, e questo strumento, da chi provengono e a chi si rivolgono? A chi parliamo, con quali obiettivi, con quali strumenti quando parliamo di Unità d’Italia, di visione condivisa del paese, di valori comuni di cui siamo portatori? Il 150esimo è, certo, innanzitutto il modo condivi-


FOCUS

LO STATUTO ALBERTINO

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Lo Statuto del Regno di Sardegna, concesso da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, fu esteso nel 1861 al Regno d’Italia e restò formalmente in vigore anche durante il Fascismo, fino all’approvazione della Costituzione Repubblicana. Lo Statuto, comunque, lasciava ampi ed importanti poteri alla Corona. Il trono era ereditario ed il re, la cui persona veniva dichiarata «sacra ed inviolabile», conservava un ruolo centrale quale capo supremo dello Stato e del Governo. Il Parlamento era formato dalla Camera dei Deputati e dal Senato. I deputati erano eletti per 5 anni, ma il diritto di voto era molto ristretto, perché solo i cittadini benestanti potevano recarsi alle urne. I senatori erano nominati a vita dal re, che li sceglieva fra coloro che avevano compiuto 40 anni. Le forze politiche liberali interpretarono ed applicarono in senso progressista le norme statutarie, per cui il Parlamento ottenne un peso sempre maggiore nei confronti della monarchia. Anche il Governo si sottrasse via via alla pesante tutela della monarchia e riuscì ad avere perfino il diritto di preparare e di proporre la lista dei senatori da nominare, per cui il re vide ridursi ulteriormente i suoi poteri effettivi. Ma bisogna anche ricordare che i sovrani di Casa Savoia, e soprattutto Vittorio Emanuele II, il «re galantuomo», si comportarono con molta discrezione nei loro rapporti con le forze parlamentari, non negarono mai la sanzione ad una legge approvata dalle Camere e non abusarono delle prerogative riconosciute loro dallo Statuto.

so per operare una riflessione sulla storia recente. Una storia che non è più possibile raccontare come il semplice inanellarsi di diversi medaglioni storici, fatti di volti purtroppo spesso dimenticati, ma di una storia sociale diffusa, di cui ciascuno è in qualche modo esito. Per questo a Torino nel 2011 verrà organizzata una mostra dal titolo Fare gli italiani, realizzata in collaborazione con Intesa Sanpaolo, in cui far emergere gli snodi fondamentali della storia degli ultimi 150 anni, agganciandoli non soltanto alle tappe cronologiche ma soprattutto ai diversi ambiti della vita quotidiana. Valori laici e valori religiosi, battaglie politiche e esaltanti imprese sportive, modelli economici e progetti culturali hanno segnato (e segneranno) la vita del nostro paese come un tutt’uno che è bene da un lato cominciare a distinguere ma che d’altra parte costituisce un insieme di notizie e saperi molto ampi, non racchiudibile in un semplice manuale di impostazione tradizionale magari legato principalmente ai luoghi risorgimentali. Non è un caso, credo, che il comitato organizzatore Italia 150 abbia deciso di mettere una grande esposizione sul futuro a fianco della mostra Fare gli italiani, che parte da un po’ più indietro dell’epopea dei Mille, di Garibaldi e di Cavour, e più precisamente dallo Statuto Albertino che nel 1848 diede modo a tanti di confluire a Torino e di usare la nostra città come luogo di libertà, di ri-


LE CELEBRAZIONI Sergio Chiamparino

flessione aperta, ricca di speranza stesso autore lo mette in luce, che e di progettualità. Il futuro del- la percezione non dice la realtà di l’abitare e della mobilità, il futu- un paese, ma in qualche misura ro del cibo e della salute, il futuro ne illumina le potenzialità e le del pensiero e della comunicazio- criticità. L’Italia oggi si presenta ne. Non solo perché continuiamo come un paese statico, ricco di a pensare, molto localmente, che bellezze e di valori tradizionali Torino possa (e debba) essere un ma incapace di innovare, di lavolaboratorio di ricerca e di impresa rare sullo straordinario patrimocome lo fu sempre e come ha do- nio storico, culturale, ambientale vuto imparare ad essere – con di cui è stata dotata dalla natura e successo, credo – dopo il trasferi- dal genius loci. mento della capitale a Firenze e L’occasione del 150esimo, dal poi a Roma; ma perché, se guar- punto di vista dell’evento che si diamo alla percezione dell’Italia può creare e a cui far partecipare nel mondo e la ribaltiamo dentro decine di migliaia di nostri connazionali, deve la nostra azione dunque tenere inquotidiana, sco- Non è un caso che, sieme, obbligatopriamo che (lo dice riamente, il passaS i m o n A n h o l t , accanto alla mostra to e il futuro. Il prestigioso ricerca- Fare gli italiani, presente è il camtore di Cambridge po da gioco su cui che lavora sul- vi sarà una grande far confrontare l’identità nazionale esposizione sul futuro tutti noi sulle noormai da dieci anni e che pubblica ogni anno il Brand stre possibilità. Oltre a storia e Nation Index) l’Italia è un paese futuro, inserite nella cornice delle fortemente desiderato a livello splendide Officine Grandi Ripaturistico (il più desiderato al razioni, un capolavoro dell’archimondo, a parità di risorse econo- tettura industriale italiana allemiche tra gli intervistati), è con- stito per l’appuntamento, Torino siderato con la Francia lo Stato offrirà all’Italia e al mondo anche con più risorse culturali al mon- due altre grandi mostre, una suldo, ma è percepito come uno Sta- l’arte italiana e una sul cibo. to scarsamente innovativo dal Quella sull’arte, coordinata da punto di vista tecnologico, poco Antonio Paolucci, porterà a Toriattrattivo per i giovani, per gli no da Genova, Firenze, Milano, studenti universitari in particola- Napoli, Palermo, Roma, Urbino re, che non ci scelgono perché ri- e Venezia il meglio di quanto tengono che da noi nessuno parli queste città e le rispettive regioni inglese, che siamo scarsamente hanno prodotto nel corso di sei organizzati, che i nostri ospedali secoli, dal 1200 al 1800, dando non siano qualificati, che il no- un’immagine unitaria del nostro stro Stato non abbia sufficiente paese quando ancora questa unità stabilità politica. È evidente, e lo non esisteva. La mostra sul cibo

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farà vedere come quest’arte, salita ta di ospitare più di 300mila raalla ribalta in campo internazio- gazzi, divisi in tre gruppi (elenale solo negli ultimi decenni, mentari medie e superiori), in noabbia invece un retroterra secola- ve grandi laboratori dove si vere nella nostra nazione e sia legata dranno le eccellenze della scuola profondamente ai valori della ter- italiana a confronto con la storia ra, alla capacità manuale dei no- del paese. I ragazzi si esprimeranstri avi ma anche dei nostri con- no in molti modi, soprattutto in temporanei, e come costituisca modo multimediale; in collaboun linguaggio straordinario a cui razione con la Fondazione Napoli attingere per comunicare la no- 99, nello scorso ottobre abbiamo stra identità sia tra diverse regio- lanciato un concorso proprio su come raccontare l’Italia e la sua ni sia a livello internazionale. Se il tema su cui lavorare è storia, e si prevedono centinaia di l’identità, e il modo con cui far partecipanti. appassionare al tema è la costru- Ma oltre alle scuole è necessario un grande sforzo zione di quattro per coinvolgere i grandi mostre, Costruire un’agenda media, far capire una sul passato e una sul futuro del in cui dire cosa ciascuno loro l’importanza dell’appuntamennostro paese, e può fare per l’Italia to, fare in modo due sulle sue eccellenze più note, è centrale nel progetto che non si pensi che si stanno sprearte e cibo, i gio- delle celebrazioni cando soldi e risorcatori di questa partita sono sostanzialmente se umane. Perché ciò accada, si è partiti con largo anticipo, cerdue: le scuole e i media. Le scuole hanno già cominciato a cando di spiegare che i lavori lavorare a questo grande proget- pubblici, i grandi appalti non to. Tramite un protocollo con il potevano essere l’obiettivo di ministero della Pubblica istruzio- tutta la vicenda, che in taluni cane abbiamo la possibilità di for- si potevano essere considerati un mare gli insegnanti, di costruire buon tramite per i festeggiamendei percorsi didattici per tutte le ti, ma non il loro focus. A livello scuole italiane, e invitarle a veni- centrale questa proposta non è re a Torino da marzo a novembre parsa adatta; meglio, pareva, fare 2011 per raccontare cosa hanno come in occasione del Giubileo, fatto in classe, cosa pensano dei cioè appaltare molti luoghi spessingoli temi ed argomenti (storia, so correlati tra loro solo da esili scienza, arte, cibo, legalità), quali vicende storiche, piuttosto che sono i legami tra quanto studia- fare un grande progetto di prono, la loro vita quotidiana, il le- mozione del sistema Italia. game con le loro famiglie. È que- In generale, va detto, i grandi sto evidentemente un lavoro fon- eventi generano nei media damentale del comitato, che con- un’idea negativa, specie nel no-


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stro paese, dove fin dai Mondiali di Italia ‘90 sembra necessario perdere tutte le buone occasioni che si offrono. Dal nostro punto di vista, i media non sono solo dei soggetti che raccontano la vita italiana, ma che la generano. Sono parte integrante del sistema economico italiano, possono stimolare competenze specifiche di grande valore. Ecco perché, piuttosto che pensare allora come semplici “organi di stampa”, preferiamo pensare che i giornali, le radio, le televisioni, i grandi operatori della comunicazione telefonica e internet siano dei partner attenti e proattivi dei festeggiamenti. Sta accadendo così che grandi quotidiani come La Stampa e il Corriere della Sera stiano dando ampio risalto al tema del 150esimo, e con ben un anno di anticipo. A breve altrettanto farà la Rai, e anche canali tematici,

come Mtv o le radio commerciali, verranno a poco a poco coinvolti in quest’opera di sensibilizzazione di massa sul compleanno dell’Italia. Oltre alla cultura, alla scuola e ai media, un grande evento per i 150 anni della nazione non può escludere, anzi, il mondo dello sport. In tutte le ricerche l’identità nazionale converge con l’identità sportiva di un popolo. Non si tratta solo di calcio, sport di tutti e per tutti; il fatto è che le discipline sportive hanno in se la forma più adatta per ricordare a tutti le nostre origini, i nostri valori. La cerimonia inaugurale delle XX Olimpiadi invernali di Torino è stata in tal senso esemplare: l’inno di Mameli, cantato da una bambina, è diventato l’inno di tutti i bambini italiani e in quel periodo tutti volevano saperlo a memoria per poi cantarlo negli


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altri momenti di celebrazione e trionfo. Per questo, il programma dei festeggiamenti darà ampio spazio allo sport; solo a Torino, ospiteremo la partenza del Giro d’Italia di ciclismo, le finali dei campionati europei di basket, avremo i campionati nazionali universitari di tutte le discipline estive, i campionati europei di tuffi, le finali dei campionati del mondo di tiro con l’arco, tornei di pallavolo, competizioni remiere, gare automobilistiche, e molto altro. Questo calendario parallelo porterà a Torino decine di migliaia di appassionati, che faranno della bandiera e dell’inno il loro elemento caratterizzante. Fenomeni come questi non vanno assolutamente relegati come col-

laterali: sono invece parte integrante e costituiva dei valori di un paese, che nei momenti di festa si incontra e si confronta attraverso i valori dello sport. A fianco dello sport, altri appuntamenti di massa costelleranno il programma del 150esimo: alpini, bersaglieri, carabinieri, vigili del fuoco e molti altri sceglieranno Torino come luogo in cui incontrarsi, fare il punto della propria memoria, fare progetti per il futuro. Associazionismo, volontariato, terzo settore, mondo del no profit: un’Italia viva e vivace che spesso tendiamo a relegare in seconda fila ma che invece costituisce il nerbo del paese. Per loro quel che conta davvero non sono i luoghi che vengono costruiti o


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offerti, ma i temi concreti di azione che vengono messi sul tavolo. Costruire un’agenda in cui dire cosa ciascuno di noi può fare per l’Italia nei prossimi dieci anni, qualcosa di concreto e di condiviso, non è marginale ma centrale nel progetto delle celebrazioni. E non può essere detto dall’alto, ma costruito dai singoli attori sociali, riuniti tutti sotto lo stesso tetto a colloquiare di ruoli e occasioni in cui mettere in pratica buoni propositi. Ma chi sono questi italiani? E soprattutto, chi saranno fra qualche anno? Cosa ricorderanno del 2011? Come si saranno emozionati? Cosa avranno “riportato a casa”? I dati (Istat, principalmente), ci dicono due cose: nel 2061

abiteranno nel nostro paese 62 milioni di persone di cui 22 milioni di origine non italiana. Intanto almeno 100 milioni di persone di origine italiana abiteranno nel resto del mondo. L’italianità sarà un sentire diffuso ma potrebbe essere molto annacquato. Dobbiamo far dunque capire a chi è da poco diventato italiano quale può essere il suo apporto al futuro del paese, ma soprattutto quali sono le radici del territorio in cui vive. Ecco perché crediamo fortemente nel 2011 come progetto inclusivo, che porta a conoscenza di decine di migliaia di famiglie di origine non italiana la storia del paese in cui vivono e lavorano, ma anche come occasione per fare tornare in Italia e far ri-


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pensare all’Italia chi abita all’estero. Da maggio saremo in giro per il mondo a presentare il 150esimo alle principali comunità italiane all’estero (cominceremo il 13 maggio a Toronto, Canada) ma chiederemo anche alle altre nazioni di raccontarsi a Torino – e in particolare lo chiederemo a quelle che hanno comunità molto forti in Italia. Si tratta dunque di un progetto molto complesso, fatto di valori semplici, di occasioni concrete, in cui il piacere di una visita culturale si somma alla ricerca del proprio singolo passato e alla prospettiva di un futuro comune. Il tutto è reso possibile, oltre che dalla passione, anche e soprattutto dall’innovazione tecnologica. Mai come oggi è facile contattare determinati gruppi di persone, offrire loro momenti di discussione, ma soprattutto mai come oggi è possibile far provare emozioni uniche, trasformando un classico week-end turistico, culturale o enogastronomico in un’esperienza unica e irripetibile. Ciascuno può oggi costruire percorsi individuali, e portare dentro le mostre, gli eventi, i raduni, la propria singola esperienza, la propria storia personale, il racconto dei propri antenati e il progetto futuro della propria famiglia o comunità. Non è un caso dunque che a Torino i festeggiamenti per il 150esimo si intitoleranno Esperienza Italia. L’Italia è un luogo unico, fatto di persone dalle capacità straordinarie, ma oggi bloccato da una specie di remota perdita di senso. Ci saranno nuove

epoche e nuove generazioni e noi trasmetteremo loro l’orgoglio di vivere in questa terra per molti versi fortunata. Partecipare a Esperienza Italia vorrà dire contribuire con un mattoncino, piccolo o grande, alla costruzione della storia collettiva del paese. Portando un’immagine o una musica, portando via un brano di film o la foto autorizzata di un’opera d’arte, capendo da dove arriva un prodotto della terra e come vada cucinato, facendo dei veri e propri momenti di apprendimento collettivo, per adulti oltre che per bambini e ragazzi, gli italiani per qualche ora o qualche giorno potranno di nuovo sentirsi orgogliosi della loro identità.

L’Autore SERGIO CHIAMPARINO Sindaco di Torino dal 2001, è attualmente presidente dell’Anci (Associazione nazionali comuni italiani).


QUESTIONE MERIDIONALE Giuseppe Pisanu

Non servono piani di assistenza

Politiche uniformi per risollevare il sud DI GIUSEPPE PISANU

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È possibile che la celebrazione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia trascorra come una brezza leggera, senza lasciare segni tangibili e pensieri lunghi nella vita politica nazionale? Nel 1911, la celebrazione del cinquantenario fu quasi una mostra dell’“orgoglio italiano”, per via dello svi-

luppo economico e dell’intraprendenza della nostra politica estera. Anche il centenario (declinato nel decennio 1950-1961) con l’Esposizione internazionale di Torino vide il paese nel pieno del “miracolo economico” e in una temperie politico-culturale che condu-


ceva il Risorgimento, l’antifascismo e la forte tensione europeistica a ricomporsi nell’idea unitiva della nazione. Oggi questa idea pare ridotta a mera oleografia, quando non è apertamente negata. L’Italia di oggi appare Sarà la minacspaesata e divisa, mentre si ripropone la cia della secesquestione meridionale sione lanciata dalla Lega nord a metà degli anni Novanta; saranno le reazioni localiste e identitarie alle impetuose ondate migratorie degli ultimi quindici anni; saranno gli echi alterati della nostra storia risorgimentale, dall’antica contestazione cattolico-temporalista, agli assalti 76 della storiografia gramsciana e alle malinconie mai sopite del neo-borbonismo; sarà tutto questo ed altro ancora, ma resta il fatto che l’Italia di oggi appare spaesata e divisa, mentre il persistente divario economico-sociale tra il nord e il sud ripropone la questione meridionale come la principale vena aperta del nostro passato e del nostro presente. Le indagini demoscopiche ci mostrano quote considerevoli di italiani del sud e del nord reciprocamente risentiti e sempre più distanti gli uni dagli altri. Ma quel che più conta è che il risentimento si è incorporato in taluni gruppi politici e, tramite loro, influenza comportamenti istituzionali e prassi di governo. Siamo dunque ben oltre la segnalazione delle lacune e dei difetti del processo di unificazione: siamo di fronte ad una incrinatura grave

dell’unità nazionale che rischia di approfondirsi, se non adotteremo le necessarie contromisure. Certamente, come si è detto, l’Italia è una nazione difficile. Ogni generazione rilegge la storia del Risorgimento e dell’unificazione a modo suo e con obiettivi diversi. Il vincolo unitario non


QUESTIONE MERIDIONALE Giuseppe Pisanu

è sempre definibile in maniera netta e forse assomiglia al famoso plebiscito di Renan che si rinnova ogni giorno. Ma 150 anni di storia unitaria e di crescita dello Stato liberale hanno pur fatto dell’Italia la settima potenza economica del mondo; e comunque hanno crea-

to le condizioni perché il plebiscito quotidiano si rinnovi intorno ai grandi principi della Costituzione e nei momenti più drammatici ed emozionanti della vita nazionale. E in effetti questo accade puntualmente. Che si 150 anni di storia tratti di una caunitaria hanno fatto lamità naturale, dell’Italia la settima di una missione potenza mondiale militare, di un successo delle forze dell’ordine o di una competizione sportiva internazionale, gli italiani sono sempre pronti a ritrovarsi insieme come un solo popolo sotto una sola bandiera. E allora che significa quel 2530% di cittadini “risentiti”? E 77 che cosa li divide o tende a dividerli? Probabilmente il retaggio storico-culturale e le diverse qualità di vita indotte dall’economia duale, ma molto di più, io credo, il malaccorto governo politico della questione meridionale. Purtroppo, dopo l’esperienza, per tanti aspetti positiva, della Cassa del Mezzogiorno ed il successivo fallimento della nuova strategia di sviluppo basata sulle regioni, è sopravvenuto il disincanto: e pian piano è prevalsa in molti l’idea che per il sud non ci sia più nulla da fare, se non aiutarlo ad accettare il suo destino di periferia dell’Italia e dell’Europa. Ma questo è il regalo più grande che si possa fare a tutti coloro che puntano sul “federalismo disaggregante” e, alla fin fine, sulla secessione. Per evitare simili rischi, non ci resta che tornare alla que-


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stione meridionale, ma facendo tesoro degli errori commessi. Intendiamoci bene. Anche le cause dell’ultimo fallimento vanno cercate innanzitutto nel Mezzogiorno, ma possono tutte ricondursi alla replica di un essenziale errore politico: quello di considerare il sud come un’area a se stante, dove basta accrescere la spesa pubblica e stimolare l’iniziativa privata per sconfiggere il sottosviluppo. Invece, non è così. Né le politiche regionali, né gli interventi straordinari, né la creazione di oasi economiche nel deserto meridionale produrranno effetti duraturi se non si capirà che il sud è lo spazio naturale di crescita del nostro paese e che, come dice Mario Draghi, «abbiamo tutti bisogno dello sviluppo del Mezzogiorno». La questione meridionale è una questione nazionale. E dunque, per quanto importante possa essere l’azione delle regioni, non è quella «la via maestra per chiudere il divario tra il Mezzogiorno e il centro-nord. Occorre invece dirigere l’impegno sopratutto sulle politiche generali, che hanno obiettivi riferiti a tutto il paese, e concentrarsi sulle condizioni ambientali che rendono la loro applicazione più difficile o meno efficace in talune aree. Politiche pubbliche uniformi, infatti, producono effetti diversi a secondo della qualità delle amministrazioni e del contesto territoriale» (Draghi). Sull’idea di orientare in questo senso la nostra politica economica, facendo del sud un elemento decisivo per la crescita

dell’intero paese, convergono ormai le analisi più accurate e le valutazioni di molti studiosi e politici, primo fra tutti il presidente della Repubblica Napolitano. Alle stesse conclusioni, passando per vie diverse, sembra avviarsi il vasto dibattito che la Commissione parlamentare antimafia ha dedicato ai condizionamenti delle grandi organizzazioni criminali sull’economia, la società e le istituzioni del Mezzogiorno. Riteniamo che anche il nuovo “Piano per il sud”, già annunziato dal presidente Berlusconi, seguirà la stessa linea di fondo, senza nulla concedere alle suggestioni dell’imminente campagna elettorale. Non ci sarebbe nulla di meglio per dare respiro storico alla celebrazione del 150esimo anniversario dell’Unità nazionale.

L’Autore GIUSEPPE PISANU Senatore della Repubblica, è presidente della Commissione parlamentare bicamerale antimafia.



Italia, lo snodo cruciale del Mediterraneo Con la crisi dell’asse atlantico, il nostro paese potrebbe tornare al centro del mondo duemila anni dopo Augusto. Ma l’attivismo politico non basta: serve un cambio di mentalità. DI FRANCESCO CROCENZI

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Due millenni dopo Augusto, dopo secoli di marginalità nelle vicende mondiali per le sue divisioni e a centocinquanta anni dalla proclamazione dell’Unità, l’Italia potrebbe essere di nuovo al centro del mondo. Ciò grazie alla nostra posizione mediterranea. Se questa fino a ieri era stata un handicap in un mondo dove le rotte commerciali erano imperniate sull’asse Usa/Europa atlantica, oggi la stessa collocazione è diventata e

diventerà sempre più un punto di forza in una situazione profondamente mutata, caratterizzata dal riposizionamento dei traffici sulla rotta Asia/Europa, con le merci che arrivano dalla Cina, nuovo centro dell’industria manifatturiera mondiale, ed il petrolio dalle tradizionali zone di produzione nella penisola Arabica ma anche dai nuovi campi dell’Asia centrale, senza dimenticare naturalmente i gasdotti. Sarebbe tuttavia riduttivo considerarci solo un molo dell’Europa proteso verso l’Oriente. Infatti l’Italia è da sempre uno dei cervelli che hanno plasmato la cultura del mondo, nelle arti così come nel pensiero sociale ed economico. E anche in quest’ultimo campo è avvenuto qualcosa di imprevisto che ha mutato gli equilibri: la crisi finanziaria del 2008/2009 ha revocato in dubbio un modello fatto di mercatismo e deregulation e dimostrato invece l’assoluta necessità di regole, poche ma certe. Queste avrebbero evitato che la ricerca del profitto senza limiti si tramutasse nella ragion d’essere e quindi, inconsapevolmente, nella stessa lotta per la sopravvivenza, di colossi ritenuti con una certa arroganza too big to fail negli ambienti di Wall Street e della City, colossi che avevano dettato l’agenda delle economie occidentali nell’ultimo ventennio. Il nostro paese, come pochi altri dell’Europa continentale, è uscito relativamente bene dalla crisi finanziaria: a parte i punti di forza specifici di Italia, Francia e Germania (rispettiva-

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IL LIBRO

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Tutte le strade portano a Roma Il libro si compone di due parti. Nella prima si descrivono i motivi storici, politici e istituzionali della crisi della Costruzione europea e di conseguenza la ritrovata assertività degli Stati Nazionali e delle loro imprese nell’Europa del XXI secolo. Nella seconda parte si evidenziano le opportunità per la posizione geografica dell'Italia nel ruolo, che già aveva avuto all’epoca delle Repubbliche Marinare, di terminale d’ingresso dell’Europa nella nuova Via della Seta. Ma oggi non ci sono solo merci, ma anche petrolio, gas e cavi per telecomunicazioni. Queste opportunità sono anche una sfida a cui si deve rispondere con potenti infrastrutture, grandi imprese nazionali e indipendenza energetica. Se ne avvantaggerà tutto il paese, specie il sud, e per far ciò è indispensabile anche una nuova mentalità bipartisan di rispetto per il lavoro.

mente risparmio, Stato forte ed esportazioni) che hanno consentito loro di reggere all’urto dello tsunami finanziario, il minimo comune denominatore dei sistemi di questi tre paesi è l’esistenza di regole, certe e con una precisa gerarchia delle fonti, a cui tutti gli operatori economici sono soggetti senza eccezioni. Se, quindi, chi aveva regole ha resistito e chi si basava su un modello di deregulation ha fallito, è evidente che il primo modello è, in via di principio (e cioè depurato da tutte le degenerazioni di uno Stato asfissiante) migliore e dovrebbe essere esteso a chi lo ha sempre altezzosamente rifiutato. Questo processo di universalizzazione del principio normativo vede l’Italia come leader: nel recente G8 dell’Aquila il nostro paese è stato lo sponsor dei legal standards, una serie di principi fondamentali elaborati da giuristi italiani e dell’Ocse ai quali le legislazioni economiche e finanziarie del mondo dovrebbero adeguarsi per evitare disastri simili a quelli a cui abbiamo assistito nell’autunno del 2008. E non è tutto: considerato un vicino ingombrante nella stessa capitale d’Italia da parte di una certa cultura laicista, il Vaticano ha emanato con il Santo Padre una fondamentale enciclica come la Caritas in Veritate, i cui contenuti, di una straordinaria sintonia con i tempi di globalizzazione che viviamo, ben si adattano ad essere l’alto sostrato etico e morale dei legal standards sostenuti dall’Italia. Una combinazione, quindi, fra la tradizione giuridica


NUOVA GEOPOLITICA Francesco Crocenzi

di chi il diritto lo ha inventato e satlantico tra Stati che da soli l’insegnamento dell’istituzione rappresentavano più della metà religiosa più attenta al rapporto del Pil del pianeta (Usa, Regno con la vita secolare, che portano Unito, Francia e Germania), ad una centralità dell’Italia anche mentre chi come noi era in una nell’elaborazione di uno ius uni- posizione solo mediterranea ne versalis in cui l’homo oeconomicus era escluso. Stati come la Francia, debba rispettare dei fondamentali poi, erano (e sono) anche al centro ed elementari principi: neminem dei traffici europei, perché a parte la direttrice Italia-Germania, laedere e unicuique suum. Ma a fianco delle opportunità da- ogni commercio tra le prime cinte da una nuova centralità del que economie del nostro continostro paese nello scenario inter- nente deve transitare per l’Esagonazionale vi sono anche altre no. Considerazioni simili possono considerazioni, date dal fatto che essere svolte per inglesi: la storia ogni suo passo l’Italia lo fa sulle e la sorte li fecero trovare al posto giusto – data la gambe di noi itacollocazione insuliani, con il cervel- Centocinquanta anni lare della Gran lo di noi italiani, Bretagna tra Eucon il cuore di noi di dittature, guerre ropa continentale italiani e con i vizi e ricostruzione hanno e Americhe – per di noi abitanti delsfruttare appieno lo Stivale. Cento- mostrato pregi e limiti le nuove direttrici cinquanta anni di dell’homo italicus commerciali nate lotte per un posto al sole, giri di valzer, guerre ri- dalle rotte transatlantiche ed sorgimentali e mondiali, dittatu- oceaniche in genere, senza essere re, ricostruzione, terrorismo e invischiati e dilapidare risorse compromessi colorati di nero, nelle infinite guerre che tormenbianco, rosso e azzurro hanno tavano il continente nello stesso mostrato pregi e limiti di questo periodo. Ed è così che dalla fine strano ed unico essere che è l’ho- del Settecento l’Inghilterra como italicus, con la continua inte- struì il più grande impero monrazione, anzi per meglio dire il diale pur avendo una popolaziocostante conflitto, tra “ingenui” ne di un terzo rispetto a quella e “benaltristi”. Avremo modo di francese, e la sua preminenza è vedere tra breve cosa caratterizza durata fino al secondo dopoguerra quando, tramontato l’impero, queste due razze di italici. Torniamo ora alla nostra colloca- si affermò come fiduciaria per zione geografica. Fino alla caduta l’Europa degli Stati Uniti, i nodel Muro di Berlino ed ancora per stri fornitori di sicurezza negli qualche tempo prima dell’ascesa anni della Guerra Fredda, e codei Bric (Brasile, India, Cina e me casello di tutti i commerci Russia), si poteva dire che il per- tra America e Europa, in primis no del mondo fosse un asse tran- nel’intermediazione finanziaria.

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Ma caduto il Muro di Berlino e tiche e cul-de-sac di un singolo dopo il ridimensionamento del- mercato nazionale, può riqualifil’industria finanziaria della City carsi come zona di transito obbli(la voce maggiore del Pil) per la gato per i traffici che partono dalcrisi del 2008/2009, il Regno l’Oceano Pacifico, dall’Asia cenUnito ha visto ridurre anche il trale e dall’Oceano Indiano e arrisuo ruolo internazionale: fa ri- vano in Europa attraverso Suez ed flettere l’attuale dibattito in In- altri sbocchi del Mediterraneo ghilterra sul mantenimento del- orientale. Essere la porta comla flotta di sommergibili nuclea- merciale dell’Europa significheri perché il paese non sembra più rebbe un grande salto di qualità in grado di permettersi di man- per il ruolo geostrategico del notenere il numero minimo di sot- stro paese, perché non avremmo tomarini per avere credibilità e più un’Italia costretta a valicare le Alpi per agganciarsi alle vie forza di dissuasione. E dopo Francia e Gran Bretagna, commerciali franco-tedesco-britanniche, ma caranche per l’Italia è dine commerciale la collocazione Essere la porta del Mediterraneo, geografica che ofa sua volta nuovo fre, oggi, l’oppor- commerciale europea perno dei traffici tunità di diventa- per il nostro paese mondiali assieme re uno dei più imalla direttrice Usaportanti cardini significherebbe avere Cina del Pacifico. del commercio un ruolo geostrategico Facendo una consimondiale. Perché possiamo diventare un derazione molto “ingenua” (ancohub, anzi, l’Italian hub? Perché ra questa parola!), pensiamo alle l’industria manifatturiera del repubbliche marinare ed alla loro mondo si è spostata dai paesi del prosperità, data dalla posizione G7 alla Cina ed il petrolio conti- centrale dei porti italiani nei trafnua ad essere prodotto in Medio fici est-ovest attraverso la Via Oriente, ma anche in Asia centra- della Seta. Anche se all’epoca non le. Si assiste pertanto ad una per- vi era il canale di Suez, le merci dita di importanza relativa del- arrivavano comunque nei porti l’asse commerciale Europa-Usa in del Mediterraneo orientale per favore di una nuova direttrice est- poi essere introdotte in Europa ovest che passa per Suez ed i por- attraverso l’Italia; quando, dal ti del Mediterraneo orientale. E XVI secolo, i traffici si spostaroin mezzo al Mediterraneo c’è no sull’asse Americhe-Europa, l’Italia, non più grande portaerei l’Italia fu marginalizzata a vandi bellica memoria ma naturale taggio degli Stati che si affacciagateway dell’Europa nei suoi com- vano sull’Atlantico. Oggi, grazie merci con l’Oriente. In questa all’exploit di ex paesi arretrati conuova situazione il Meridione, me India e Cina, la rotta delescluso dalle direttrici nordatlan- l’Oriente ha ritrovato la sua cen-


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tralità, il terminale della Via del- tare queste nuove opportunità, la Seta torna ad essere il Levante ma l’attivismo internazionale Mediterraneo, e l’opportunità per delle istituzioni e delle grandi sol’Italia è enorme, perché non ci cietà italiane deve essere accomsono solo le merci di India e Cina, pagnato da un profondo cambio ma anche il gas russo e dell’Asia di mentalità sul fronte interno, centrale, il petrolio del Medio per non far infrangere le ambizioOriente e delle repubbliche ex so- ni nazionali contro muri di convietiche, e una cosa intangibile formismo ed immobilismo che, ma di una importanza fondamen- per esempio, ostacolano tuttora tale: i dati e le comunicazioni te- ogni progetto volto a dare al paelefoniche, che passano attraverso i se una credibilità infrastrutturale cavi di telecomunicazioni in fon- ed energetica paragonabile a do al mare, e questo mare sta di- quella di altri Stati, come ad ventando sempre di più il Medi- esempio la Francia, che, se anche ci precedono di una sola posizioterraneo. ne nella classifica Essere uno snodo del Pil mondiale, per i traffici signi- L’attivismo all’estero hanno una visibifica accrescere la lità ed influenza nostra ricchezza, delle istituzioni deve internazionali di perché le società essere accompagnato gran lunga supeinternazionali si riori alle nostre. troverebbero nella da un profondo Proprio a proposinecessità di costi- cambio di mentalità to della Francia, il tuire delle filiali commerciali in Italia, che paghe- modo con cui noi italiani liquirebbero le imposte, e il nostro diamo il modo di comportarsi e paese trarrebbe vantaggio dal di presentarsi dei transalpini è passaggio delle merci sul suo ter- già sintomatico di un atteggiaritorio in termini di pedaggi, mento sbagliato da parte nostra: quote del dazio comunitario per diciamo infatti che la Francia ha le merci che entrano nella Comu- la grandeur, accompagnando quenità attraverso l’Italia, diritti di sta notazione con un senso di irotransito per oleodotti e gasdotti, nia o di sufficienza. Sarebbe quincorrispettivi alle ferrovie ed alle di interessante sapere perché l’atditte di trasporto e compensi per titudine dei francesi ci fa sorridel’uso di capacità trasmissiva nei re, perché liquidiamo come inucavi di telecomunicazioni. Geo- tile quando non ridicolo lo sforzo graficamente, la situazione del- che uno Stato fa per primeggiare. l’Italia può ridiventare centrale Una risposta forse c’è, ed è che ed affiancare per importanza, se proiettiamo sugli altri le nostre non superare, i grandi assi del- tare per cui non si deve fare nulla perché ben altri sono i problemi. l’Europa centro settentrionale. Sarebbe sbagliato dire che il pae- E quindi, a cosa serve avere ambise non si stia muovendo per sfrut- zioni sulla scena internazionale,

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stare in Afghanistan e condanna- sto a fare altrettanto (gli scrissi re l’Iran, se abbiamo ben altri pure che l’elettricità che gli serviproblemi di natura interna? Ma va la poteva ottenere dalle bioquand’anche aderissimo a questo masse dei maiali che lo invitavo invito a ripiegarci su una dimen- ad allevare a casa sua e che non sione esclusivamente nazionale il serviva che si lavasse perché quelvirus del benaltrismo colpirebbe li come lui devono risparmiare ancora: a cosa serve una grande acqua, come insegnava il presiinfrastruttura, come l’alta veloci- dente del Wwf Italia, ma questo tà ferroviaria o il ponte sullo è un altro discorso…). Ironia a Stretto di Messina, se ben altri parte, al benaltrista/nimby sfugsono i problemi, come il traspor- ge una verità molto semplice: se è to dei pendolari o lo stato da ter- vero che ad alcune persone possozo mondo della rete viaria di Ca- no essere imposti dei sacrifici, anlabria e di Sicilia? E così via, in che gravosi, per progetti di inteuna scala di rilevanza delle ben al- resse comune, queste stesse persone godono dei tre esigenze sembenefici di altre inpre più limitata e Dobbiamo costruire frastrutture per le locale fino ad arriquali, a loro volta, vare al motore im- un paese dove tutti mobile del benal- abbiano bene in mente diverse comunità hanno a loro volta trismo: la nostra sopportato altri didimensione indi- che right or wrong, sagi. viduale. Una di- it’s my country E allora facciamoci mensione individuale fatta di egoismo e di assen- un regalo per i nostri primi cenza di ogni disponibilità a soppor- tocinquanta anni: siamo meno tare dei sacrifici per il bene co- benaltristi e più ingenui, che non mune, e che quindi genera un al- vuol dire solo essere meno egoitro nefasto corollario del benaltri- sti, ma qualcosa in più. smo: la sindrome “nimby”, not in Essere ingenuo vuol dire che se io my backyard, non nel mio cortile. ho una necessità o una aspirazioQuando ancora passavo del tem- ne che portino del bene alla mia po a scrivere la mia opinione sui comunità nazionale, e sono in blog dei giornali, un talebano grado legalmente e tecnicamente ambientalista scrisse in risposta di agire, io agisco e basta. Nasce ad un mio post in favore del nu- questa idea, e non poteva non escleare che si augurava che mi co- sere così, in America, e una delle struissero una centrale davanti a sue più alte espressioni fu l’evencasa; io gli risposi che non avrei to di cui abbiamo da poco celeavuto problemi, ma che lui non brato il quarantesimo compleandoveva usare l’energia nucleare no, e cioè la conquista della Luna, prodotta dall’impianto sotto casa a r c h e t i p o d e l l a A m e r i c a n mia perché non poteva godere del ingenuity. Ve lo immaginate nelmio sacrificio senza essere dispo- l’Italia musona e “impegnata” di


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fine anni ’60 un pazzo che avesse detto di andare sulla Luna? Ti lapidavano per molto meno, bastava chiedere di vedere a colori Italia-Germania di Mexico ’70: no, la televisione doveva essere in bianco e nero perché ben altre erano le priorità. L’Italia degli anni Cinquanta era invece diversa, ed in quell’epoca anche noi conoscemmo una stagione di “ingenuità”: andare da Milano a Napoli a cento all’ora di media? Perché no. Ci sono gli Appennini? Beh, si fanno viadotti e gallerie. Risultato: una delle prime reti autostradali del mondo nel 1960. Ma non solo: mettere in orbita un satellite italiano? Se possiamo farlo, perché no? Ed è così che fummo il terzo paese del mondo dopo Urss e Usa, le due indiscusse superpotenze dell’epoca, a mettere in orbita un satellite nazionale, prima di tante blasonate economie europee come Francia, Germania e Regno Unito ma anche del Giappone, per non parlare della Cina. Eravamo ingenui, dicevamo che l’Eni doveva sfidare le sette sorelle: lo abbiamo fatto e abbiamo vinto laddove giganti come Germania e Giappone non ebbero questo coraggio. Taccio per decenza sulle centrali nucleari italiane, le prime in Europa assieme a quelle inglesi. Poi la cappa del sessantotto-regime e il nulla; anzi no, qualche frutto quegli anni lo hanno portato: il Serpentone di Corviale. Sarebbe bello vedere, in questo centocinquantenario, un’Italia che spicchi il volo consapevole del suo ruolo nel mondo e del va-

lore dei suoi figli, un’Italia in cui le fazioni smettano di beccarsi come i capponi di Renzo e che riservi quelle stesse beccate a chi, all’estero, cerca di marginalizzarci e costituire un direttorio anglo-franco-tedesco, un’Italia che non si autodenigri per miseri interessi di bottega politica, vorrei un paese unito dove un qualsiasi cittadino, di destra o di sinistra, dica ad uno straniero di non permettersi di denigrare i governanti italiani – di qualsiasi partito essi siano – se prima questo straniero non ha guardato bene le travi nel suo occhio, un paese, insomma, dove tutti abbiamo ben in mente che right or wrong, it’s my country. Dimostriamo che un secolo e mezzo non è passato invano, dimostriamo di avere il coraggio dell’ingenuità per fare il futuro che vogliamo e che possiamo.

L’Autore FRANCESCO CROCENZI Avvocato specialista in diritto finanziario, ha insegnato diritto comunitario alla Luiss Guido Carli. Collabora con la rivista Imperi. È autore dei libri Onu, la sfida italiana (Nuove Idee, 2005) e The Italian Hub (Rubbettino, 2009).

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Il futuro dei nostri figli

Giovani, l’investimento migliore per recuperare dignità Nell’immaginare l’Italia che vorremmo non possiamo rifiutare di fare i conti col paese reale, per quanto distante sia la nostra visione del mondo e dei valori rispetto a una deriva che non sentiamo appartenerci. DI PIER LUIGI CELLI


L’ITALIA DEI FIGLI Pier Luigi Celli

Ci sono ambizioni sbagliate che non riguardano le aspettative, la proiezione verso qualcosa di desiderabile collocato nel futuro, o il confine, sempre incerto e ambivalente, se pensare a sé o investire sui propri cari. E sono quelle di chi, forse per gli anni, forse per la storia vissuta, non ha occhi che per quello che deve difendere: la sua visione del mondo, le cose in cui crede, lo status raggiunto o, più modestamente, ciò che è riuscito a fare. L’ambizione di una memoria, della continuità; l’orgoglio di

non aver pagato pedaggi al mutare dei tempi. Il passato è una mappa mentale che condiziona inevitabilmente le nostre esplorazioni presenti e i nostri piani, infettando gran parte delle mosse che tendiamo a fare, quasi con automatismi riflessi. È proprio l’uso del tempo trascorso che andrebbe sottoposto a una manipolazione cosciente per rendersi conto di quanto ci condizioni: nel bene, certo, ma anche nei pregiudizi con cui guardiamo a quanto accade nel presente, rendendoci estranei a molti comportamenti che non ci sembra di capire più, o a una storia che sembra divergere da quella per cui ci siamo lungamente impegnati. Nel collocare la riflessione su quello che ci sembra desiderabile per quelli a cui vogliamo bene, tenere presente lo strabismo inevitabile tra i valori che ci hanno sostenuto e il giudizio su quello che osserviamo, è elemento dirimente per non mitologizzare noi stessi e il nostro passato, rischiando di arroccarci da narcisi ombrosi, e tentare di fare i conti col tempo che passa, gli interessi che cambiano, le dimensioni stesse dei mondi di riferimento. Il nostro paese “è cambiato più rapidamente del nostro cuore” e l’attaccamento che ognuno di noi ha per le “intermittenze” del proprio cuore rischia di non farci capire bene cosa sia possibile, quanto si debba investire ancora per non arrendersi al già visto e vissuto, quello, soprattutto, che sia necessario ridiscutere per non

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trovarsi a costruire pensieri che La crisi poi (o forse sarebbe menon hanno un terreno vero di ap- glio parlare di crisi inevitabili e ricorrenti), coincisa con l’esploplicazione. Nell’immaginare il paese che sione di dimensioni economiche vorremmo per i nostri figli non è sovranazionali e forti tensioni podunque ragionevole rifiutare di litiche, ha acuito il senso di insifare i conti col paese reale, così curezza personale e collettivo, facome oggi si presenta, per quanto vorendo chiusure settoriali, la distante sia la nostra visione del frammentazione dei ceti profesmondo, dei valori e dei rapporti sionali e la perdita di peso degli rispetto a una deriva che non sen- stessi organismi di rappresentanza che potevano garantire una tiamo appartenerci. Il cambiamento che più ci im- dialettica esplicita delle varie pressiona è quello di un difetto di componenti sociali. visione del futuro che sembra È evidente che per tornare a copercorrere, senza apparenti turba- struire speranze su un terreno in parte compromesmenti, gran parte della società in cui È come se tutto si fosse so è indispensabile recuperare le raviviamo. gioni di uno stare È come se tutto si rattrappito su insieme come pofosse rattrappito un presente esigente e polo, riprendere a su un presente esigente e vorace, di- vorace al punto da aver tessere rapporti latato al punto da assorbito ogni altra cosa che possano animare lo spazio ciaver assorbito ogni altra dimensione, e dove la vile del paese in una prospettiva stessa apertura degli spazi e delle di interessi condivisi; offrire vie opportunità di attraversarli, ve- di fuga dalla dissoluzione indivinisse vissuta col solo obiettivo di dualistica verso un futuro che soluna ricerca di opportunità perso- leciti l’orgoglio della ripresa e del nali, da soddisfare senza alcun proprio stare, del paese, nel contesto internazionale. debito sociale. Persi i grandi ideali e anche le Se noi pensiamo al destino dei più discutibili opzioni ideologi- nostri figli non possiamo non che, quello che sembra prevalere porci il tema di come vivranno è una più confusa ricerca di orien- loro le contraddizioni che pertamento in una fase di transizione corrono oggi il nostro paese e che non trova il modo di stabiliz- quali sono le possibilità che conzarsi. Così diviene difficile rian- segniamo loro di affermarsi, sennodare fili che diano un senso più za pagare tributi eccessivi agli generale agli impegni personali, errori e alle omissioni di cui siain un quadro che non offre grandi mo responsabili. punti di riferimento, con valori Il nostro passato, per l’uso che ne che si sono a poco a poco usurati abbiamo fatto e per il degrado a cui abbiamo consegnato, spesso nella presa e nella tenuta.


L’ITALIA DEI FIGLI Pier Luigi Celli

IL LIBRO

Young Blood, giovani talenti crescono Prendete tutti i talenti italiani premiati nel mondo, ma proprio tutti. Metteteli tutti insieme in un libro realizzato dal ministero della Gioventù. Ecco Young Blood, annuario dei talenti del Belpaese. C’è di tutto, dall’arte alla fotografia, dalla musica al cinema, per una carrellata di bei cervelli giovani che speriamo non siano costretti ad emigrare. «Si fa un gran parlare di talento – scrive il ministro della Gioventù Giorgia Meloni nell’intervento che apre il volume – ma è sempre difficile avere una prova tangibile di quanto vasta e potente sia l’energia visionaria di una generazione che riesce a farsi strada malgrado le difficoltà del tempo in cui gli è stato dato di vivere». La realtà italiana, in effetti, è questa. Ma proprio i ritratti di queste centinaia di artisti testimoniano che nemmeno nei momenti di crisi può essere soffocato il talento naturale, retorica a parte, di noi italiani. Il “sangue giovane” che scorre tra le pagine curatissime e dalla splendida grafica, insomma, è quello che prima o poi, sempre che la gerontocrazia si faccia da parte, irrorerà i tessuti un po’ stanchi del nostro paese. E proprio in un momento di crisi economica così forte, la creatività come sempre irrompe in tutto il suo furore artistico. In fondo, nonostante tutto, siamo sempre il paese che ha regalato al mondo i più grandi talenti artistici della storia. Basti pensare, evitando di tornare con la memoria al Rinascimento, al contributo immenso che l’Italia ha dato, ad esempio, al design internazionale. Le sale del MoMa di New York sono piene di oggetti made in Italy, qualcosa vorrà pur dire. Young Blood, dunque, traccia un percorso virtuoso tra i premi più importanti dedicati a quelle che gli americani chiamano

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performing arts. Da Roma a Seoul, da New York a Tokyo, senza dimenticare anche la più remota provincia italiana, il quadro che ne viene fuori è più che incoraggiante per il futuro del nostro paese. Se è vero che è fondamentale investire nella formazione di nuovi scienziati, ingegneri e tecnici, è altrettanto innegabile che il vero stato di salute di un popolo si misura con l’estro artistico. L’iniziativa del ministero della Gioventù, già alla seconda edizione, sembra averlo capito alla perfezione. I giovani italiani, molto spesso sottovalutati e considerati inadatti a guidare la riscossa del paese, dimostrano una volta di più che dietro questa diffidenza gerontocratica c’è in fondo solo la voglia di conservare il potere. Quando tutto questo finirà, sperando che non sia troppo tardi, sarà il momento della riscossa di questo “sangue giovane” che sta pulsando nelle vene dell’Italia da troppo tempo e non vede l’ora di rinnovare i fasti millenari del genio italico.


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per ignavia, istituti civili, schemi di relazione e livelli di responsabilità, non ci legittima più nel guardare con spirito neutro a quello che sta succedendo, come se ormai non fosse più affar nostro risolvere problemi che è fin troppo facile attribuire ad altri. I giovani crescono sempre più spesso senza maestri: qualcuno che si prenda cura di loro, si faccia carico delle molte insicurezze di cui non portano la colpa. E i giovani, quelli che dalla scuola e dalle università si affacciano al mondo del lavoro e alle responsabilità della vita più adulta, rappresentano oggi il miglior terreno di investimento per un recupero di dignità che qualifichi la voglia di un paese di giocare una partita grande, tornando ad antiche virtù. In questo contesto, se dovessi pensare a cosa trasmettere a mio figlio per consentirgli di credere nel suo paese, impegnandosi per farlo grande e rispettabile, sceglierei di consegnargli una storia: una narrazione in cui gli sia facile e stimolante entrare con un ruolo qualsiasi, perché una bella storia consente a tutti di avere la propria parte, di giocare con altri ad arricchirne la trama; di immaginare uno svolgimento a lieto fine, o, almeno, di contribuire a costruirne uno soddisfacente. Ma le belle storie, quelle il grado di prendere l’anima, non nascono dal nulla; non si improvvisano. Richiedono impegno. Credo, forse un po’ ingenuamente, che sia arrivato il tempo di dedicarsi a predisporre gli elementi

perché nascano nuove storie da lasciare come dono lungimirante ai nostri figli, per consentire loro di portare avanti il racconto che, con alti e bassi, oggi si avvia ai centocinquant’anni. Il futuro, in fondo, non ha età. Basterebbe crederci con maggiore convinzione. E, forse, con meno egoismo.

L’Autore PIER LUIGI CELLI Narratore e saggista, è direttore generale dell’università Luiss Guido Carli di Roma. È inoltre membro dei consigli di amministrazione di Lottomatica, Hera SpA e Messaggerie Libri.


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IL FUTURO Ăˆ GIĂ€ QUI

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È A SCUOLA CHE SI

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l vuoto di una nazione che non riesce a trovare valori condivisi e ritualità civili deve essere colmato dall’istruzione. Cominciando da uno studio approfondito della storia e dell’educazione civica che dia un “senso” al paese. Una missione che riguarda il metodo più che i contenuti, da portare a termine socraticamente attraverso il dubbio, la riflessione e la critica. DI FEDERICO BRUSADELLI

Ma a cosa serve, in fondo, la scuola? Soprattutto, serve a qualcosa? È una domanda che, per la verità, non sembra muovere gli animi più di tanto, oggi. Sì, al massimo ci si accalora per i grembiuli, si protesta per i (presunti) tagli, ci si allarma per il precariato, ci si interroga (e meno male, ci mancherebbe) su come migliorare il reclutamento degli insegnanti, su come oliare il carrozzone dei concorsi. Ma la domanda centrale resta. Cosa deve fare la scuola? Quale ruolo dovrebbe avere nell’Italia del Ventunesimo secolo? Trasferire la conoscenza? Costruire futuri

lavoratori, o educare buoni cittadini? Formare persone colte? O persone equilibrate? Piaccia o no, è una questione centrale. E lo è ancora di più adesso. Per due motivi. Intanto perché il nostro paese si sta avvicinando a quella scadenza di grande importanza che sono i centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Una ricorrenza da festeggiare con la riflessione, più che con la retorica, con le parate, con i fuochi d’artificio e poi tutti a casa. Dovrebbe essere un’occasione, vera, per ridarsi un “senso” come paese; per riscoprire se c’è – e qual è, in caso


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RISCOPRE L’IDENTITÀ

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– una missione storica, nell’essere “Italia”; per riempire, insomma, quel grande vuoto che ci fa apparire troppo spesso come una nazione “cava”. Perché c’è un vuoto, laddove dovrebbero esserci simboli condivisi, ritualità civili, sentimento di appartenenza (morbida e aperta certo, ma pur sempre appartenenza). Un vuoto che rischia di essere colmato, pericolosamente, da chi quei simboli, quelle appartenenze, quei riti, promette di distribuirli con generosità: le religioni, nelle loro versioni integraliste; l’estremismo politico; le spinte localiste.

Un vuoto che, allora, si può – e si deve – riempire in tanti modi: con l’azione istituzionale, certo, con la riflessione storica, con l’elaborazione culturale, con le politiche sociali. Eppure, il luogo più adatto, il crocevia naturale di questa riscoperta della nazione, resta proprio la scuola. Come farlo, però? Partendo dalla storia e dall’educazione civica, è quasi ovvio. Con una storia che costruisca – con il difficile bilanciamento fra obiettività dei fatti e interpretazione delle dinamiche – un “senso”. Il senso e la retorica sono mondi molto distanti. Un esem-


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pio? Lo studio del Risorgimento. cento (un’attenzione forse eccessiIl fatto che l’Unità d’Italia sia va, che non ha oltretutto, saputo stata un’annessione – condotta ricucirne le ferite). In fin dei concon intelligenza e scaltrezza, cer- ti siamo il paese che ha inventato tamente favorita da un importan- la prospettiva e il chiaroscuro, te fermento culturale, sociale e che ha dato i natali a Leonardo e politico, ma pur sempre una an- Michelangelo, Marco Polo e Conessione – è una verità storica. lombo, Dante, Petrarca e PiranNessuna “predestinazione” a esse- dello. Esserne orgogliosi non sire uniti, in questa penisola. Tan- gnifica per forza alimentare una tomeno a esserlo sotto i Savoia. retorica tanto trombona quanto Eppure, riconoscere questa verità inutile, né lasciarsi andare a una storica (incrostata ancora oggi da forma spicciola e infantile di nauna buona dose di retorica, ap- zionalismo. È patriottismo. E punto, che vede nel processo di non è una parolaccia. E allora, unificazione uno sbocco indiscu- fatta salva la verità dei fatti (e anzi, c’è ancora moltibilmente naturato da fare, per le della nostra sto- In Italia si esce scrostare i manuaria) non significa metterne in discus- da un liceo conoscendo li da parzialità di varia provenienza sione i frutti. Non il teorema di Pitagora e silenzi voluti), significa disconodiamoci un “senscerla, rinnegarla e ignorando la nostra so”. Diamoci una quest’unità. Per- Costituzione prospettiva globaché, una volta accettati i fatti per quello che sono, le, ampia, anche ottimista. Prouna volta tracciato con obiettività viamo a capire il nostro ruolo di il percorso di ieri, ci si dovrebbe ponte nel Mediterraneo, di cerinterrogare su come sfruttarli al niera fra sud e nord, fra est e meglio, quei fatti. Su come, in ovest. Di culla del diritto e della sostanza, dare un senso a quel strategia, dell’arte e della politipercorso. Questa è la parola chia- ca, della fede e della scienza. Rive, in effetti. Il senso, la scoperta scopriamo le ricchezze della culdi un orizzonte. Dallo sciorina- tura classica, con meno declinamento di nomi, luoghi e perso- zioni e più contenuti, più filosonaggi alla comprensione della di- fia, più poesia. Studiamo le evorezione, dei flussi, delle connes- luzioni e le involuzioni, i “respisioni. Riscoprendo e valorizzando ri” della storia, dell’arte, della – senza enfasi, per carità, ma ma- scienza. Più “senso”. E più consagari con un po’ di sana soddisfa- pevolezza. È inconcepibile che si zione – i nostri momenti miglio- esca da un liceo conoscendo il ri, i nostri passaggi più belli e si- teorema di Pitagora e ignorando gnificativi, senza soffermarsi a la nostra Costituzione, le nostre tutti i costi, con spirito quasi ma- istituzioni, le nostre regole desochista, sulle tragedie del Nove- mocratiche. L’“educazione alla

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cittadinanza” – come l’ha voluta agli studenti che ne hanno una, giustamente ribattezzare il mini- immunizzandoli dalle possibili stro Gelmini – non va solo riesu- derive fondamentaliste. “Senso”, mata, ma messa al centro di que- consapevolezza, cittadinanza, insto processo di riflessione e di ri- tegrazione. E anche patriottismo, costruzione dell’idea di nazione. ricordando la lezione, chiara e Applicandolo concretamente, sintetica, di Umberto Saba: «Papoi. Nelle classi. Perché la scuola triottismo, nazionalismo e razziè il crogiolo in cui sperimentare e smo stanno fra di loro come la saperfezionare la formula della cit- lute, la nevrosi e la pazzia». Ecco, tadinanza. Di una buona cittadi- è per tutti questi motivi che la nanza. E non è un problema solo scuola è il modo migliore per etnico, dato che troppi italiani riempirlo, quel vuoto. sono, per colpa o ignoranza, catti- E poi c’è il secondo motivo, per vi cittadini. L’educazione alla cit- cui il sistema educativo deve estadinanza e quella alla convivenza sere messo al centro di una riflessione seria e consasono prassi quotipevole: nonostante diana: l’integra- L’identità nazionale qualcuno finga anzione va vissuta e cora di non accoralimentata ogni o è inclusiva e plurare giorno, a partire o muore. O si rielabora gersene, è in corso una rivoluzione dalle aule scolastitecnologica, scienche. In questo sen- o si incattivisce. so andava la pro- E diventa una prigione tifica e antropologica, che – a veloposta dell’ora di religione islamica per i bambini cità imprevedibili – sta riplamusulmani, avanzata di recente. smando ogni aspetto delle nostre Non era certo un modo per mina- vite, pubbliche e private. Dalla re l’identità nazionale, ma per politica all’informazione, dal sesrafforzarla. Perché il punto è pro- so all’economia, il web sta scrivenprio questo: l’identità o è inclusi- do regole nuove. E figurarsi se la va e plurale, o muore. O si riela- scuola può ritenersi esclusa, da bora, pur mantenendo fermi i questa rivoluzione globale. suoi cardini irrinunciabili (la cen- Ne è parte in causa, deve accettatralità della persona e la sua di- re senza remore la sfida della mognità, nel nostro caso), o si incat- dernità, devono farlo tutti: gli intivisce. E da “senso” diventa pri- segnanti, le famiglie, gli studengione. Il discorso vale per tutte le ti, ma pure gli intellettuali e i declinazioni dell’identità, reli- politici. Nessuno escluso. E senza gione inclusa: in attesa magari di paura di mettere in discussione renderne obbligatorio lo studio qualche vecchia certezza. Perché (non il catechismo, ma lo studio, in un mondo che vede diffondersi e di tutte le religioni), si può ac- il sapere senza più controllo, sencettare pragmaticamente di far za più restrizioni, senza più cenconoscere meglio la propria fede sure (qualcuno ancora ci prova,


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ma la storia gli darà torto), pensare che il ruolo della scuola sia solo quello di detenere le chiavi della cultura nazionale, di dispensare conoscenze e nozioni è miope, superficiale, limitato. L’inglese si impara navigando sulla Rete, o scaricando film e fiction in lingua originale; i nomi dei fiumi o le date delle battaglie si recuperano in un battito di ciglia su Wikipedia; per la matematica ci sono le calcolatrici, e anche i telefonini; per le lingue, i dizionari elettronici. Non è quello, insomma, il cuore della scuola.

Non può esserlo. C’è di più. C’è molto di più. O forse di meno, dipende dai punti di vista. «Ogni istruzione seria s’acquista con la vita, non con la scuola», scriveva – a ragione – Lev Tolstoj nel 1874. Parole che, per quanto paradossale possa sembrare, proprio alla scuola, oggi, possono indicare la via da seguire. In questo – solo in questo – il ’68 avrebbe potuto essere un punto di svolta: le declinazioni e l’algebra non bastano, a formare un individuo. Anzi, sono solo accessori. Certo, poi il Sessantotto si è trasformato


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nel “vietato vietare”, nella “sufficienza politica”, nel mito dell’occupazione, nella demolizione di ogni gerarchia, fino a sfociare nel culto della “libertà” fraintesa, nella rinuncia a ogni spinta educativa (quando per educazione si intende, semplicemente, buona educazione). Male che si è aggiunto ad altri mali. Senza risolvere il problema alla radice, senza dare risposte: rivestendo semplicemente, con un involucro di maleducazione, l’antico cuore nozionista della scuola ottocentesca. È vero, come recita un vecchio proverbio africano, che “per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Ma mentre le famiglie paiono distratte o confuse; mentre il velinismo, il tronismo e il provinismo garantiscono facili sogni di gloria; mentre si sacrifica la crescita umana al “successo sociale” (che si incarna nel telefonino, nella macchinetta, nelle tette finte, in un po’ di cocaina magari); mentre la passione per lo studio è vista con sospetto se non derisa; mentre la cortesia diventa roba per sfigati; mentre la classe politica – in tutta onestà, va detto – non si preoccupa di dare “esempi”, che pure varrebbero più di mille leggi; ecco, in questo quadro – forse dipinto a tinte troppo fosche, ma non irreale, purtroppo – la scuola può servire a “educare


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alla vita”. A coltivare valori importanti, come il rispetto e la responsabilità, a lungo considerati demodé, e gli effetti si sono visti. Ad accompagnare lo sviluppo umano, in tutti i suoi aspetti: psicologico, emotivo, anche sessuale (a quando un’ora obbligatoria di educazione sessuale, o meglio ancora di educazione alla salute?) e non solo culturale. A educare e basta, insomma. La scuola non è un’azienda, ed è giusto che sia così. Non si può ragionare in termini di profitto, di produttività, di rapidità. Non si può immolare tutto sull’altare dell’impresa, dell’inglese e di internet: possono essere utili accessori, ma non il nucleo di un sistema educativo utile e completo. Il nucleo resta la persona, lo scopo resta la crescita umana. E tutto questo si può fare trasmettendo un metodo, più che un contenuto. Si tratta del metodo del dubbio, della riflessione, della critica. Il più sapiente è chi sa di non sapere, diceva Socrate, padre della cultura occidentale. E negli stessi anni, dall’altra parte del mondo, Confucio scriveva: «Imparare senza pensare è fatica perduta; pensare senza imparare è pericoloso». Ecco, alla fine la ricetta per il futuro della scuola è già scritta da due millenni e mezzo. Ricerca di “senso”, spirito critico, educazione alla vita. Basterebbe questo. Su questi pilastri la scuola può garantirsi un futuro luminoso, un ruolo decisivo nella costruzione dell’Italia di domani e degli italiani di domani. Di cittadini

che siano davvero tali, e lo siano in maniera convinta. E chi siano magari anche cittadini felici. Solo se crea persone equilibrate e felici – che conoscano o meno la formula del nitrato d’ammonio – un sistema di istruzione assolve pienamente alla sua funzione. Perché la “ricerca della felicità” – intesa in senso umanistico, come piena realizzazione di sé, non come banale soddisfazione di qualche bisogno momentaneo – l’abbiamo già lasciata fuori (colpevolmente) dalla nostra Costituzione. Vediamo, almeno, di darle ospitalità nelle nostre classi. 101

L’Autore FEDERICO BRUSADELLI Scrive per Ffwebmagazine e collabora con il Secolo d’Italia. Laureato in Lingue e civiltà orientali, ha seguito il master “Tutela internazionale dei diritti umani” presso l’Università La Sapienza di Roma.



NEOFEMMINISMO Barbara Mennitti

Serve un risorgimento femminile

Sorelle d’Italia I ruoli mortificanti che i mass media italiani riservano alle donne si stanno velocemente riversando nella società e addirittura in politica. Eppure il nostro paese ha disperatamente bisogno di restituire dignità alle sue cittadine. DI BARBARA MENNITTI

Qualcuno sostiene, a buon titolo, che per valutare il grado di “civiltà” di una società, è sufficiente guardare il ruolo che in essa ricoprono le donne e il rispetto che ricevono. Ecco, diciamolo subito: in base a questo criterio di valutazione, l’Italia si rivela un paese davvero poco civile. Per accorgersene basta fare un giro per le strade, gettando un occhio ai cartelloni pubblicitari; basta sfogliare una rivista, una qualsiasi, sia essa un settimanale di politica, un periodico femminile, o una pubblicazione dedicata agli uomini; basta accendere a qualunque ora della giornata la televisione e seguire per un po’ uno dei tanti programmi di intrattenimento, quelli cosiddetti per le famiglie. Le donne sono presenti ovunque, giovani, bellissime, ammiccanti e poco vestite. Adagiate sensualmente sui cartelloni 6x3 per vendere un abbonamento telefonico o una chiavetta internet, chiuse in box doccia con stivaloni sadomaso e niente altro per vendere silicone

(quello che sigilla, all’altro arriveremo dopo), in fila, fotografate da dietro con le natiche in bella mostra (chiaramente il viso è considerato un optional da certi pubblicitari) per convincerci a partire in crociera con una determinata compagnia. Le donne nel nostro paese sono usate come merce per veicolare altra merce, pezzi di carne in esposizione per attirare l’attenzione su prodotti che, spesso e volentieri, con il mondo femminile non hanno niente a che fare. Non va meglio se dal mondo pubblicitario si passa a quello televisivo. Anche qui il ruolo assegnato alle donne è perlopiù mortificante e avvilente. Per rendersene conto basta guardare Il corpo delle donne, il crudo documentario girato circa un anno fa da Lorella Zanardo, formatrice e docente, che raccoglie spezzoni di programmi tv di intrattenimento, tutti rigorosamente in onda nelle fasce pomeridiane o in prima serata. Il documentario è a suo modo scioccante: le donne in questi

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programmi sono giovani (o fingono di esserlo), poco vestite, vengono umiliate e, le rare volte in cui è loro concesso di parlare, trattate come stupide, mentre telecamere impietose indugiano su seni e sederi, preferibilmente in movimento. Lorella Zanardo ha coniato per loro l’illuminante definizione di “donna grechina”. La grechina è un ghirigori che si disegna sui bordi delle pagine dei quaderni. E questo sono, per la Zanardo, le donne nella televisione italiana: un ornamento a mar-

gine, decorative ma non essenziali. Le donne grechina per antonomasia sono le veline di Striscia la notizia: giovanissime, una bionda e una bruna, come fossero due bambole, per incontrare i gusti di tutti, in microabiti, non parlano, ma fanno da cornice a due uomini di mezza età completamente vestiti. Non sembrerebbe una cosa particolarmente desiderabile, eppure quello di “fare la velina” è diventato il sogno più ambito da schiere di ragazzine italiane. Per le donne non più giovanissi-

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Due donne in corsa per ridare credibilità alla politica Pare, alla fine, che persino da questa misera vicenda che ha travolto il presidente della Regione Lazio possa uscire qualcosa di buono. Ci riferiamo ai nomi che circolano in questi giorni per le possibili candidature alla carica di governatore del Lazio, a due in particolare, Emma Bonino e Renata Polverini, espressioni dei due schieramenti contrapposti. Ci piacciono perché sono due donne, ma non solo per questo. Ci piace Emma Bonino, perché è riuscita ad attraversare decenni della nostra storia, con un’evoluzione sempre rintracciabile. Da enfant terrible della politica italiana, quella che guidava i cortei abortisti di donne incazzate, è diventata prima Commissario europeo, poi ministro e oggi vicepresidente del Senato senza mai perdere quel suo tratto da “irregolare”. A Bruxelles ancora ricordano con stupore quando si fece calare da un elicottero su un peschereccio spagnolo: roba da matti per gli imbolsiti burocrati europei, abituati a gestire la politica a suon di rapporti e direttive. Riesce a presiedere autorevolmente una seduta del Senato, per poi andare a occupare la sede della Commissione di vigilanza Rai o passare la notte in picchetto davanti a Palazzo Chigi, ancora pronta a accalorarsi per le cause dei derelitti del mondo. Ci piace Renata Polverini, perché è la prima donna in tutta Europa che sia diventata leader di un sindacato e, per giunta, del sindacato della destra: ha abbattuto due barriere con una sola spallata. La Polverini è riuscita a farsi largo in uno dei settori più tradizionalmente maschili della nostra società e lo ha fatto solo grazie alla sua capacità e alla sua competenza, arrivando a dare un ruolo e una visibilità a un’organizzazione da sempre schiacciata dalla triade Cgl-Cisl-Uil. «Scegliendo me non si candida una persona, ma un profilo», ha detto recentemente Renata Polverini, proprio a dimostrare che questa candidatura sarebbe un tributo a un percorso politico. Sono due donne che ci piacciono, perché espressione di competenza, di serietà, di onestà intellettuale. E ci piace anche il fatto che, quando ha bisogno di riconquistare credibilità, la politica non può che ricorrere alle donne. Quelle vere. *da Ffwebmagazine


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me l’ambiente televisivo è ancora più spietato. La facoltà di invecchiare e di mostrare dignitosamente i propri anni, per le donne, non è contemplata. Agli uomini rughe e capelli bianchi conferiscono da sempre (e speriamo per sempre, visto che anche da quelle parti si inizia a fare ricorso a correttivi) saggezza e autorevolezza, doti che, a quanto pare, nelle donne sono del tutto superflue. Molto meglio che si trasformino in grottesche parodie di loro stesse, facendosi gonfiare bocche e zigomi, tirare su palpebre, creare seni esplosivi da esibire con profonde scollature in barba all’età che avanza. Ne Il corpo delle donne queste facce stravolte dalla chirurgia plastica sono definite “mostruose”. Ma la cosa inquietante non è tanto il dubbio risultato estetico che questi interventi producono, quanto il fatto che cancellino qualsiasi particolarità e storia dai visi. Bisturi e iniezioni rubano espressioni, personalità, passato, vita vissuta per restituire volti piatti e inespressivi, che si assomigliano tutti, prototipi di un’umanità di plastica. E, perdonateci, anche un po’ patetica. Un’umanità che cancella se stessa per farsi merce e mettersi in vendita. E voler cancellare l’identità e la diversità delle donne a noi sembra l’atto supremo della misoginia. Nella nostra tv è contemplata anche qualche donna di potere, qualcuna che eccezionalmente non fa la parte della grechina ma conduce il gioco. Ed è particolarmente triste vedere come queste donne non si comportino in ma-

niera diversa dai colleghi uomini (chirurgia a parte) ma ne abbiano accettato e assimilato i comportamenti: anche loro si contornano di ragazze svestite e ammiccanti senza nessun ruolo se non quello di farsi vedere. In questo ricordano un po’ le anziane maitresse delle vecchie case chiuse, che offrivano alla clientela maschile le grazie di ragazze più giovani. Questo è il modo in cui i mezzi di comunicazione del nostro paese rappresentano le donne, cioè oltre la metà della popolazione italiana. E non è superfluo ricordare che, se pure noi ci siamo ormai assuefatti a questa situazione tanto da ritenerla “normale”, è una cosa che non accade in nessun altro paese europeo e che lascia sbalorditi, nel migliore dei casi, i visitatori. Nel luglio del 2007 in un articolo dal suggestivo titolo, Naked ambition, Adrian Michaels raccontava sul Financial Times come al suo arrivo all’aeroporto di Roma Fiumicino si fosse trovato «di fronte a una donna dal seno enorme, il cui incavo era ben esposto alla vista fin quasi allo sterno», che «tentava di attrarre l’attenzione dei viaggiatori sui prodotti di comunicazione di Telecom Italia». Dopo una breve descrizione dell’uso della donna nella tv (e dopo aver sottolineato che certe pratiche nel Regno Unito o negli Usa susciterebbero disapprovazione e indignazione), Michaels si chiede: «Veramente gli italiani, ed in particolare le donne italiane ritengono accettabile che si vendano, sulla tv terrestre, quiz di prima serata cercando di provoca-

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re i genitali dei maschi e non i cervelli degli spettatori?». Gli fa eco la semplice domanda di Lorella Zanardo nel commento al suo documentario: «Perché accettiamo tutto Per troppo tempo questo? Perabbiamo sottovalutato ché non ci riil fenomeno, ritenendolo belliamo?». confinato alla tv Già, perché? Forse per troppo tempo abbiamo sottovalutato il fenomeno pensando che fosse da una parte una manifestazione della liberazione della donna (e che liberazione!), dall’altra un codice legato solo al mondo della televisione, che non aveva niente a che fare con la realtà delle persone “normali”. Abbiamo iniziato a porci il proble106 ma tardivamente, quando comportamenti che avevamo snobisticamente ritenuto indegni di riflessione hanno cominciato a riversarsi dal mondo della tv e della pubblicità, alla vita pubblica e quotidiana. Improvvisamente ci siamo accorti di vivere in un paese dove migliaia di ragazze, accompagnate da genitori speranzosi, si presentano ai provini per diventare veline o schedine o letterine di turno. Così tante da far diventare queste selezioni Improvvisamente stesse un proci siamo accorti che gramma televimigliaia di ragazze volevano essere veline sivo a se stante, in onda – neanche a dirlo – in prima serata, nel quale un conduttore uomo raggiungeva vette di volgarità e cattivo gusto notevoli. Qualcuno obietterà che non c’è niente di nuovo sotto il cielo, visto che già


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il grande Luchino Visconti raccontava nel film Bellissima le amare peripezie di una madre (Anna Magnani, una grande attrice che proibiva ai truccatori di nasconderle le rughe) che cerca di far diventare la Il film Bellissima era figlia una steldel ‘51: da allora quali la. Ma quel progressi hanno fatto film è del 1951, nel frat- le aspirazioni femminili? tempo sono passati sessant’anni di lotte femministe, di progressi civili, di diritti conquistati, ed è francamente angosciante pensare che le donne e le loro aspirazioni non abbiano fatto nessun progresso sostanziale. Il secondo fenomeno inquietante 107 è il trasmettersi di certi parametri di scelta al campo della politica e delle istituzioni, complice una legge elettorale che in pratica conferisce alle segreterie dei partiti la scelta degli eletti lasciando agli elettori un ruolo marginale. La polemica è nota e non è il caso di rivangarla su queste pagine. È comunque un fatto innegabile che nelle ultime tornate elettorali siano approdate in Parlamento schiere di ragazze di aspetto più che piacevole, Inquietante di età compresa fra i 25 e i 35 è il trasmettersi di certi parametri di scelta anni e con bagagli politici al campo della politica (quella che un tempo si definiva gavetta) inevitabilmente scarni. Forse oggi alcune di loro sono delle brillanti parlamentari, ma è forte il sospetto che siano state scelte soprattutto per motivi coreografici e a


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discapito di qualcuno che avrebbe avuto maggior titolo. Difficile anche non parlare in questa sede di quella che Gad Lerner, in un editoriale pubblicato su la Repubblica, ha definito la donna-tangente. Per mesi abbiamo seguito le mirabolanti gesta di imprenditori a caccia di appalti pubblici, che portavano a politici (di destra e di sinistra) stuoli di ragazze come merce di scambio. Anche qui si dirà che quello del lenone è un mestiere antico, ma non ci consola. Si vendevano anche gli schiavi nei mercati, noi vorremmo fare passi avanti. E allora torniamo un attimo al punto di partenza e chiediamoci se tutto quello che abbiamo descritto finora non sia forse anche una ricaduta del modo in cui le donne sono rappresentate. Se il fatto che abbiano ancora maggiori difficoltà a fare carriera, che siano pagate meno dei colleghi uomini, che siano le prime a essere sacrificate nei momenti di difficoltà, che vengano ancora prese poco seriamente non dipenda anche dalla mercificazione che delle donne si fa e a cui le donne si prestano. È avvilente che un paese metta nell’angolo e tarpi le ali a oltre la metà dei suoi cittadini. Però, diciamolo, è quasi altrettanto avvilente che tante donne siano disposte ad accettare così passivamente modelli e comportamenti imposti. Forse, prima di ritrovarci tutte a 60 anni con le labbra gonfiate e le scollature alle ginocchia, è il momento che la generazione di donne italiane oggi adulta prenda coscienza e faccia qual-

cosa. Si ribelli al modello di donna seduttrice e panterona a tutti i costi (o, in alternativa, oca inoffensiva) che ci viene suggerito dai media e inizi a pretendere rispetto. Ovunque. All’Italia oggi serve davvero un neofemminismo, un atto di coscienza che non ci ponga in contrapposizione agli uomini, o che non ci induca a scimmiottarli come a volte abbiamo fatto. Dobbiamo, invece, impegnarci per portare il patrimonio dell’essere donna nei posti di lavoro, nella vita quotidiana, nei rapporti con gli altri, nella vita civile. Ma essere donna come sono davvero le donne, non come gli uomini pensano le donne, espressione della loro sessualità e del loro desiderio. In fondo, se ci guardiamo intorno qualche esempio positivo c’è: nella campagna elettorale per il Lazio, in questi giorni, due donne stanno mostrando un modo diverso di darsi battaglia politica. Al di là delle preferenze personali e politiche, si tratta di due donne che sono arrivate fin lì per la loro serietà e competenza e che sono lontane anni luce dal prototipo mediatico di donna. In questo paese c’è disperatamente da fare per le Sorelle d’Italia. L’Autore BARBARA MENNITTI Caporedattore con funzione di direttore responsabile di Charta minuta. Giornalista, scrive di società, politica interna e politica estera. È stata direttore del quotidiano online Ideazione.com, collabora con Ffwebmagazine.


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Quale futuro per la televisione?

In memoria della tv che ha unito il paese

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Dalla funzione pedagogica degli esordi al trash odierno, il ruolo della televisione italiana si è profondamente modificato in più di mezzo secolo. Ma in un paese che proprio nel tubo catodico aveva trovato un elemento unificatore, c’è sempre più bisogno di uno standard qualitativo alto, distante dalla volgarità e dal sensazionalismo di oggi. Serve una televisione nuova che guardi agli esempi positivi del passato. DI DOMENICO NASO

«La televisione non potrà reggere il mercato per più di sei mesi. La gente si stancherà subito di passare le serate a guardare dentro a una scatola di legno». Darryl F. Zanuck, arcinoto produttore televisivo e cinematografico e presidente della 20th Century Fox, ne era certo. Inutile dire che si è sbagliato. E di grosso. Quella scatola di legno ha unito l’Italia un secolo dopo i Mille di Garibaldi. Ha insegnato una lingua comune ai contadini di Reggio Calabria e di Trento. Ha accompagnato e incentivato il boom economico. Ha costruito un intero sistema di sogni e bisogni per milioni di persone. Ha fatto tutto questo, la televisione, e lo sappiamo bene. Sono ormai luoghi co-

muni, frasi che conosciamo alla perfezione, che ci vengono ripetute da più di cinquant’anni da massmediologi e uomini della strada, senza distinzione alcuna. Il 3 gennaio 1954, gli italiani (o almeno quei pochi che possedevano il costosissimo apparecchio) scoprirono la scatola magica che in America e in Inghilterra era già un fenomeno consolidato. Quella sera di cinquantasei anni fa, mentre Fulvia Colombo faceva il primo “annuncio”, lanciando, tra gli altri programmi, la rubrica Arrivi e partenze presentata, neanche a dirlo, da Mike Bongiorno, quanti pensavano che lo strano “elettrodomestico” avrebbe cambiato la nostra vita? Non molti, forse. Eppure oggi le gior-


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nate di milioni di persone sono scandite dai palinsesti. Ma la tv pedagogica, e magari un po’ noiosa, degli esordi non c’è più. La questione sta tutta nel decidere se rimpiangerla o meno. Sicuramente oggi non avrebbe più senso un programma come Non è mai troppo tardi (condotto dal maestro Alberto Manzi) che per dieci anni (dal 1959 al 1968) contribuì, e non poco, a combattere l’analfabetismo presente nella penisola. Ma, mutatis mutandis, forse oggi l’analfabetismo ha solo cambiato connotati, e non riguarda soltanto scrivere, leggere e far di conto. La televisione pedagogica, dunque, ha svolto un ruolo fondamentale per la creazione di una coscienza sociale e culturale degli

italiani. Dall’Unità al secondo dopoguerra, il nostro paese non aveva ancora avuto occasione di diventare davvero uno, di sentirsi unito da qualcosa. Durante il fascismo ci aveva pensato la figura carismatica di Mussolini ma il prezzo pagato, in termini di democrazia e libertà, era ovviamente troppo alto. E dopo la tragedia bellica le difficoltà, se possibile, erano addirittura maggiori. Bartali e Coppi, don Camillo e Peppone, Dc e Pci, Sud e Nord: divisi da tutto e su tutto, gli italiani non riuscivano ancora a sentirsi nazione, ad avere un trait d’union che ne facesse un unico popolo. Sarà per questo non trascurabile motivo, o forse per un’effettiva qualità della televisione d’allora,


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fatto sta che il fenomeno esplose Il problema, se così possiamo diin tutto il suo fragore. Lascia o re, è arrivato dopo. Finita la spinraddoppia, il Musichiere o le prime ta propulsiva degli esordi, la teleCanzonissime radunavano gli ita- visione commerciale si è adagiata liani attorno a quello che, banal- sui propri successi targati anni mente ma con una intuizione az- Ottanta e si è preoccupata poco zeccata, verrà chiamato il nuovo di continuare a sperimentare. focolare. I bar degli anni Cin- Anche comprensibile, per carità, quanta erano stracolmi di gente se pensiamo che dal nulla il grupappassionata alle vicende dei con- po Fininvest è diventato una delcorrenti di Mike Bongiorno o alle le aziende più importanti del esibizioni di Claudio Villa. Un paese e quindi deve in un certo fenomeno di massa senza prece- senso preservare la propria posidenti, che si protrasse per quasi zione. Se la televisione di oggi è due decenni. Era il trionfo del na- ancora figlia di Drive In, qualche zionalpopolare, ben diverso dal problema però c’è. E il problema ancora più grosso è trash di oggi. il progressivo e Negli anni Settan- Le prime trasmissioni quasi completato ta, poi, la svolta. processo di appiatIn un’Italia intor- radunavano gli italiani timento della Rai pidita da crisi eco- attorno a quello che alle dinamiche nomiche e anni di editoriali e cultupiombo, la tv non verrà chiamato rali della televisiopoteva fare ecce- il nuovo focolare ne commerciale. zione. E poi, come se non bastasse, cominciavano a La tv pubblica è ormai uguale in far capolino le prime televisioni tutto e per tutto ai canali privati. private. Telebiella, primo pione- Solo qualche eccezione, da preristico esperimento, è del 1972. servare come i panda del SiDa quel momento, per la tv e non chuan, riesce ancora a farci disolo, niente sarebbe stato più co- stinguere le due cose. me prima. La rottura del mono- Il nuovo millennio e l’invasione polio Rai e la graduale creazione barbarica dei reality show, poi, del gruppo Fininvest rappresen- hanno dato il colpo di grazia. tarono un momento importantis- Quello che nel 2000 era un espesimo di “liberazione” culturale e rimento sociologico di grande insociale. Il moltiplicarsi dell’offer- teresse, oggi è il Grande Fratello ta televisiva e l’avvento della con- urlato e pruriginoso, schiavo del correnza in regime di libero mer- gossip e popolato da bestemmiatocato riuscì, almeno nei primi an- ri, soubrettine e ammassi di muni, a rinnovare completamente scoli senza arte né parte, alla ril’offerta televisiva nel nostro pae- cerca di un posto al sole nel dorase, con sperimentazioni coraggio- to (e nemmeno tanto) mondo delse e uno stile molto più moderno lo spettacolo. Gli esempi del decadimento vertiginoso della quae contemporaneo.


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lità televisiva sono tanti: i troni- rale, gli show volgari e i contenisti della De Filippi, i talk show tori. Quando è la Rai a produrre del pomeriggio farciti di urla, i spettacoli di prima serata, che cocontenitori domenicali ormai stano fior di milioni, in barba alla consacrati al trash, persino qual- pubblica decenza e alla missione che telegiornale. Per non parlare di servizio pubblico, stabilita pedel ruolo umiliante della donna. raltro per legge e rinnovata perioLo aveva capito e denunciato Pier dicamente da una sorta di “conPaolo Pasolini, il profeta inascol- tratto” con lo Stato, la situazione tato del Novecento italiano: «La cambia e non poco. donna è considerata a tutti gli ef- Ma, cercando di abbandonare il fetti un essere inferiore: viene de- solito approccio lamentoso tutto legata a incarichi d’importanza italiano, cominciamo a chiederci minima, come per esempio infor- cosa si può fare per far rinascere mare dei programmi della giorna- una televisione pubblica di qualita; ed è costretta a farlo in modo tà, che informi ed educhi senza fare sermoni o mostruoso, cioè con femminilità. Ne ri- Cominciamo a chiederci lanciare anatemi, che rappresenti il sulta una specie di meglio dell’idenputtana che lancia al cosa si può fare tità culturale itapubblico sorrisi di per far rinascere liana, che sappia imbarazzante comconiugare con saplicità e fa laidi oc- una televisione piente equilibrio chietti. Oppure vie- pubblica di qualità il serio e il facene adoperata ancillarmente come “valletta”». Dopo to, che sia almeno obiettiva, se quarant’anni, a quanto pare, non è proprio non riesce a essere imparziale. I punti fermi da cui riparticambiato nulla. Sia chiaro: nessun noioso predi- re ci sono, per fortuna. E per farlo cozzo di chi vorrebbe ventiquat- di slancio, lasciando a terra senza tro ore di palinsesto soporifero rimpianti tutto il trash che ha incon documentari ininterrotti o le vaso il tubo catodico, ripartiamo videolezioni dell’università Net- da otto trasmissioni, otto esempi tuno in prima serata. Tutt’altro. positivi che ci fanno ben sperare. La tv leggera è un toccasana e, A cominciare da Report e Presa diquando è fatta bene, aiuta gli retta, due programmi di qualità spettatori a distrarsi, a dimenti- che hanno rilanciato l’inchiesta care per un paio d’ore i problemi giornalistica nel deserto dell’indi ogni giorno. Altra cosa, però, formazione italiana. Milena Gabanelli e Riccardo Iacona hanno è il pollaio. Finché il trash televisivo tracima ripreso le fila della grande tradidalle frequenze delle emittenti zione del giornalismo televisivo commerciali, però, possiamo solo (da Zatterin a Zavoli, passando cambiare canale, evitare di incro- per Giuseppe Marrazzo) dimociare, durante il nostro zapping se- strando come i soldi del canone

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LA PROPOSTA

Riformare la tv in sei punti

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Informazione e servizio pubblico radiotelevisivo sono “interlocutori” primari della nazione, ne plasmano gusti ed aspirazioni, si rivolgono ai suoi corpi intermedi, a cominciare dalla famiglia. Appare quindi opportuno riflettere su alcune proposte minimali e a costo zero, che potrebbero rilanciare la comunicazione televisiva nel suo complesso e quella del servizio pubblico in vista di un “nuovo inizio” in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. In concreto: 1. Collocare, come avviene nella maggior parte delle tv europee, la prima serata alle 20,30. In Italia, infatti, i programmi dedicati all’intrattenimento per genitori ed adolescenti cominciano tra le 21,15 e le 21,30 per poi slittare verso orari impossibili e penalizzanti per quanti, per motivi di lavoro o di studio, non possono restare svegli fino a tarda notte. Non dimentichiamo che per moltissime persone la tv rappresenta l’unico momento di svago della giornata e che il rispetto dell’orario del palinsesto è un elemento del patto fondativo tra telespettatore ed emittente. 2. Introduzione del cosiddetto watershed, cioè uno spartiacque, per differenziare in maniera netta la programmazione riservata ai minori da quella destinata ad un pubblico adulto. In Gran Bretagna è stato adottato con successo, ma lo avevamo inventato noi italiani e si chiamava Carosello. Il watershed serve soprattutto ai genitori. Chi consente ai propri figli minori di assistere alla programmazione televisiva dopo lo spartiacque si assume la responsabilità di quel che viene trasmesso. Naturalmente, tale sistema non è incompatibile con il metodo della segnaletica basata sui vari bollini-semaforo. 3. Riportare i reality show alla durata media europea (un’ora e mezzo al mas-

simo). In Italia durano almeno il doppio quando non tracimano addirittura sull’intera programmazione di rete. Tale misura risponde ad una duplice esigenza: evitare che l’allungamento del programma serva ad introdurre elementi di gratuita volgarità sotto forma di bestemmie in diretta, finte risse, false lacrime; possibilità di utilizzare gli spazi ricavati per innovare e quindi sperimentare modelli televisivi in grado di attrarre l’attenzione dei giovani, oggi catturata prevalentemente se non esclusivamente da internet. 4. Ridurre i programmi-contenitore, tipo quelli domenicali, per scongiurare l’inevitabile caduta di contenuti, premessa per ogni tipo di banalità e di eccesso. Utilizzare lo spazio ricavato per una programmazione più avvincente per le famiglie accettando il presupposto che attraverso programmi dinamici, innovativi, coinvolgenti è possibile intrattenere, informare, insegnare divertendo. 5. Introdurre il bollino del servizio pubblico per consentire al cittadino-utentecontribuente di poter distinguere i programmi finanziati dal canone da quelli fi-


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nanziati dalla pubblicità. Non dimentichiamo che per legge la Rai chiede l’aumento del canone proprio in base a tale schema. Si tratta quindi di rendere più trasparente il rapporto tra opinione pubblica e servizio pubblico e di responsabilizzare di più chi fa televisione. In poche parole è uno strumento utile alla tv di qualità. 6. Ridefinizione dei palinsesti tv. La caduta di qualità dei programmi Rai ha raggiunto un’evidenza indiscutibile (addirittura il direttore generale della Rai pro-tempore disse nel 2007 che “l’offerta televisiva viene vissuta come uno degli elementi di impoverimento culturale della società”), per cui risulterebbe opportuno il varo e l’approvazione dei palinsesti da parte di un “Comitato delle eccellenze” presso il ministero dello Sviluppo economico (Dipartimento delle comunicazioni) ed il ministero dei Beni culturali (evoluzione dell’inefficace Comitato per l’elevazione della qualità Agcom-Rai) anche per attuare una rivoluzione dignitaria nella comunicazione. Associazione Noi e il nostro tempo

possano essere spesi davvero per confezionare trasmissioni di servizio pubblico. Sempre su Rai Tre, poi, va in onda Che tempo che fa, il talk show condotto da Fabio Fazio. C’è chi accusa il conduttore savonese di buonismo, come se fosse il vizio peggiore da esecrare ad ogni costo, eppure le interviste garbate di Fazio riescono a offrire allo spettatore dei ritratti pacati e a tutto tondo degli ospiti, senza dare spazio al gossip o, peggio, alla polemica livorosa ad ogni costo. La presenza di Luciana Littizzetto è un valore aggiunto e gli speciali che ospitano Roberto Saviano valgono, da soli, i centonove euro del canone. Su Rai Due, invece, vanno segnalati due programmi diversi tra loro, eppure entrambi di qualità: La storia siamo noi e X Factor. L’approfondimento storico di Giovanni Minoli (che ha la sua sede naturale nel nuovo canale tematico Rai Storia, visibile sul digitale e sul satellite) ricostruisce con perizia il passato del nostro paese, con particolare riferimento alle tristi (e forse dimenticate) vicende del terrorismo degli anni Settanta. Lo stile è asciutto e semplice. Peccato, però, che la trasmissione vada in onda in terza serata. Il talent show condotto da Francesco Facchinetti, invece, ha dimostrato una cosa importante: le nuove forme televisive non sono sempre sinonimo di poca qualità. La gara canora tra giovani talenti non ha niente del progenitore Amici. I tre giudici-insegnati Mara Maionchi, Claudia Mori e

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Morgan (l’uomo che fa la differenza a X Factor) mettono in campo tutta la loro competenza e riescono nell’ardua impresa di portare la musica d’autore e le sperimentazioni musicali in prima serata. Con un discreto e meritato successo. La rete ammiraglia di viale Mazzini sembra, paradossalmente, quella più in affanno. Inseguendo incoscientemente Canale 5, Rai Uno ha perso gran parte del suo carattere “istituzionale”. Non è un caso, infatti, se tra i programmi da salvare due sono varietà: Ballando con le stelle e I migliori anni. Nel primo caso, basta la preparazione e l’eleganza di Milly Carlucci per giustificare un successo che continua nel tempo. Lo show condotto da Carlo Conti, invece, ha il pregio di scavare nella memoria nazionalpopolare degli italiani, attingendo molto anche a quella televisione dei tempi che furono che ancora oggi rimane un modello da seguire. Per chiudere, poi, c’è la grande fiction made in Rai. La tradizione in tal senso è lunga e costellata di successi. Dagli sceneggiati che hanno fatto epoca negli anni Sessanta alla fiction di oggi, c’è una continuità da preservare che risiede nel talento autoriale e registico di mamma Rai. Negli ultimi anni sono state moltissime le fiction di qualità che sono riuscite anche a sbancare l’Auditel. Dal commissario Montalbano a Sant’Agostino, l’ultima in ordine di tempo, che è riuscita nell’incredibile impresa di mettere d’accordo pubblico e critici più esigenti.

Questo, a nostro parere, è il patrimonio della televisione pubblica attuale che non va perso. Un po’ poco, forse. Ma la Rai deve ripartire da qui se vuole riconquistare il proprio ruolo di maggiore industria culturale del paese e competere al meglio con le nuove realtà digitali e satellitari che stanno trasformando radicalmente le abitudini televisive degli italiani.

L’Autore DOMENICO NASO Giornalista, si occupa di cinema, televisione e cultura pop. Ha lavorato per la rivista Ideazione. Collabora con Il Secolo d’Italia, L’Opinione delle Libertà, Gazzetta del Sud. Cura la rubrica di critica televisiva Television Republic per Ffwebmagazine.


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Le parole della politica

COMUNICAZIONE, novità e decadimento DI ANTONIA MASINO

Il tema dell’autenticità, tornato centralmente nel dibattito filosofico contemporaneo, appare assai stimolante anche con riferimento all’ambito teorico-politico, particolarmente laddove linguaggio e pensiero si manifestano nell’esperire relazionale umano. L’autenticità designa infatti «il rapporto tra il nostro linguaggio e la realtà, in sé necessariamente autenti-

ca, mentre la nostra rappresentazione di essa mediante il linguaggio […] necessariamente autentica non è; può essere anche inautentica, non di rado lo è»1. Partendo da queste premesse, ci si può chiedere se ci sia autenticità (nel senso di fedeltà a se stessi e, in ultima istanza, all’uomo) nel discorso pubblico dei nostri tempi; se ci sia la consapevolezza da


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parte di coloro che sono impe- e degli appetiti di cittadini-telegnati in politica – come pure de- spettatori sempre più pigri, poco gli operatori dell’informazione e curiosi, affamati di scandali, gossip della comunicazione – dell’im- e scoop; cittadini-telespettatori poportanza di scegliere parole, frasi, co o per niente informati, che non toni, capaci – da soli – di veicola- chiedono, non si interrogano, e – re valori, aspettative, sentimenti quel che è più grave – non hanno autentici. E di contribuire, così, a quasi consapevolezza alcuna del costruire (o a rafforzare) una nuo- danno che questo arreca alla parteva coscienza collettiva, una nuova cipazione democratica, ad un paeidentità culturale e nazionale, in se civile e maturo. Un danno poun momento in cui le antiche al- tenzialmente enorme se si consileanze e i vincoli tradizionali alla dera che gli italiani dedicano masbase della coesione sociale sem- sicce dosi di tempo ai mezzi di cobrano pericolosamente minacciati municazione, fino a trascorrere sui da vecchie e nuove fratture: geo- media principali (tv, radio, giornali, internet) un amgrafiche, tecnolomontare cumulatigiche, economi- Un uso responsabile vo “virtuale” di 13 che, culturali, redelle parole esige un ore e 54 minuti al ligiose, etiche. Difficile risponde- paradigma comunicativo giorno4. re positivamente Prescindendo dalle quando si assiste consapevole che a volte diverse posizioni quotidianamente possono essere pietre che si confrontano ad un vero e proda molti anni nel prio scontro, a volte persino vio- dibattito scientifico sul rapporto lento, tra idee e posizioni diver- media-politica e sul ruolo esercise2; quando si è esposti al rumore tato dai mezzi di comunicazione scomposto dei dibattiti svolti in nei confronti dei cittadini-elettoParlamento e in tv (“palcosceni- ri, rimane da chiedersi se e quanci” ormai assimilati e diventati to abbia inciso lo scadimento (nei interscambiabili); quando il lin- contenuti e nei toni) della discusguaggio politico prevalente (nella sione politica su un paese che ogsua triplice dimensione di conte- gi appare disorientato, disincannuto, forma e stile) è caratterizza- tato e scettico, senza grandi sogni to da dichiarazioni urlate, aggres- né certezze, fiaccato nelle sue spesività verbale, asprezza e acredine ranze, diffidente del futuro, spadei toni, disconoscimento del va- ventato dalla diversità e perciò lore dell’altro, sia esso avversario, poco incline a visioni inclusive. È in dubbio che un uso responsainterlocutore, cittadino. È uno “spettacolo” spesso indeco- bile delle parole ed una costruzioroso, quello della “politica pop”3 ne del discorso politico – quale di questi anni, affollato di gente strumento di cambiamento nella interessatamente complice e com- percezione e nella raffigurazione piacente nei confronti degli umori della realtà – esige oggi un cam-


LESSICO PUBBLICO Antonia Masino

IL GLOSSARIO

Le parole dell’Unità d’Italia Cacciatori delle Alpi: nome che assunse, nell’aprile 1859 il corpo dei volontari italiani raccolti in Piemonte, che costituirono tre reggimenti al comando di Giuseppe Garibaldi, distinguendosi, durante la campagna del 1859 in numerosi combattimenti. Il corpo venne poi accresciuto con nuovi volontari. Uguale nome hanno in Francia le truppe alpine. Liberalismo: ideologia delle borghesie nazionali progressiste in lotta contro l’assolutismo monarchico e la dominazione straniera, per la libertà economica, la costituzione liberale e l’indipendenza nazionale: così in Italia il liberalismo, di cui il Cavour fu uno dei massimi esponenti, diede un contributo essenziale al Risorgimento. Carboneria: è stata una società segreta italiana fondata a Napoli durante i primi anni dell’Ottocento su valori patriottici e liberali. Brigantaggio: termine originariamente riferito a fenomeni di banditismo generico, si suole definire una forma d'insurrezione politica e sociale sorta nel Mezzogiorno italiano durante il processo di unificazione dell'Italia e il primo decennio del Regno. Secondo diversi storici considerando che gli schieramenti tra loro nemici impegnarono notevoli risorse in uno scontro armato all'interno del nuovo Stato italiano, si può definire guerra civile quella che fu allora combattuta. Questione romana: è la controversia politica relativa al ruolo di Roma, sede del potere temporale del Papa ma, al contempo, capitale naturale d'Italia. La città venne annessa al Regno d’Italia nel 1871, con l’ingresso dei bersaglieri a Porta Pia. Tricolore: il tricolore italiano quale bandiera nazionale nasce a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797. Nei tre decenni che seguirono il Congresso di Vienna, il vessillo tricolore fu soffocato dalla Restaurazione, ma continuò ad essere innalzato nei moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera, nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa. Il 14 marzo 1861 venne proclamato il Regno d'Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, il tricolore verde, bianco e rosso. Statuto: complesso di principi e di norme giuridiche e sociali di un ente pubblico o privato codificato in solenne atto scritto. Statuto Albertino: carta promulgata da Carlo Alberto per il Regno di Piemonte e di Sardegna (4 marzo 1848). Divenne poi Carta fondamentale del regno d’Italia fino all’avvento della Repubblica (2 giugno 1846). Conteneva le norme fondamentali dell’ordinamento giuridico del Regno, regolando gli organi di Governo e i rapporti tra Stato e sudditi.

biamento del paradigma comunicativo, partendo dalla consapevolezza che «le parole possono essere pietre, se utilizzate in modo irresponsabile e se tese a delegittimane l’avversario […] ma possono anche essere mattoni, nel senso che possono essere dirette a costruire un nuovo e più civile sistema di relazioni, ad elevare il tono del dibattito pubblico, a rinnovare la cultura politica dif-

fusa ad esprimere in modo nuovo, originale, più in sintonia con la realtà sociale, le domande, le ansie e le aspirazioni che attraversano in profondità l’Italia»5. C’è dunque bisogno di parole nuove o, forse, di parole antiche da declinare in un senso diverso e più attuale, in un discorso politico autentico che riconosca il cittadino quale soggetto e non puro oggetto di rapporto.

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In tale prospettiva, parole come patriottismo repubblicano, cittadinanza di qualità, integrazione, laicità positiva, patto generazionale, sussidiarietà, green economy non sono espressione di un “nuovismo” meramente nominale; sono piuttosto frutto del tentativo coraggioso di rispondere al fluire continuo del dinamismo della vita e della storia, che impone la ricerca di soluzioni nuove in un processo che tuttavia rimanga ancorato ai valori della promozione e dello sviluppo della persona. È in questo processo che deve trovare la sua giusta collocazione una nuova dimensione del linguaggio e del discorso pubblico, che abbandoni logiche e strumenti della “retorica consolatrice”6, che troppo spesso ha caratterizzato l’agire politico degli ultimi anni. Occorre, al contrario, recuperare lo slancio costruttivo e progettuale della prima Italia postunitaria – e ancor di più della successiva fase costituente repubblicana – valorizzando le logiche e gli strumenti della “retorica nutritiva”, senza dubbio più faticosi ma certamente più solidi e produttivi di frutti duraturi. Di fronte alle sfide epocali di questi decenni non serve, infatti, intraprendere il viaggio verso il futuro seduti a poppa ma guardando a prua. È necessario investire in un progetto culturale serio e partecipato, irrobustito da una retorica che argomenti «ristrutturando il massimo possibile il già noto»; che parta «sì da premesse acquisite ma per discuterle, sottoporle al vaglio delle ra-

gione, magari appoggiandosi ad altre premesse (come chi criticasse il luogo della quantità appellandosi al luogo della qualità)»7; che abbia un movimento effettivo e non apparente, partendo da argomenti interiorizzati, ma criticandoli, riconsiderandoli e inventando cadenze stilistiche che, pur seguendo alcune tendenze generali del nostro sistema di attese, di fatto lo arricchiscono. Si può, insomma, fare futuro anche attraverso una comunicazione politica che sappia veicolare e stimolare una conoscenza quanto più condivisa dei diritti e dei doveri, tesa alla trasformazione del reale e capace di considerare criticamente persino gli stessi simboli, rituali e forme del potere quando questi dovessero essere ridotti a mero esercizio particolaristico della forza, a imposizione di un pensiero unico, inautentico, debole, riflesso in un altrettanto debole, inautentico linguaggio. Bisogna, in definitiva, promuovere pazientemente un linguaggio politico nuovo, idoneo ad istituire significati sociali condivisi, nella consapevolezza che l’affermazione dell’io debba passare necessariamente attraverso il riconoscimento del tu. Soltanto cimentandosi in questa sfida, sarà possibile suscitare un rinnovato, autentico stare insieme, che recuperi all’Italia di oggi, dilatandoli quanto più possibile nella società civile, lo slancio e la partecipazione democratica che caratterizzarono gli anni della costruzione dell’Italia unita prima e dell’Italia repubblicana poi.


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Note

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Vito Mancuso, La Vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano, pag. 80. 2 Al riguardo, è appena il caso di ricordare il recente appello del capo dello Stato ad un contegno istituzionale consono al ruolo dei partiti e alla partecipazione democratica. 3 «La politica pop è un ambiente mediale scaturito dal collasso di generi televisivi e costumi sociali invecchiati, in cui politica e cultura popolare, informazione e intrattenimento, comico e serio, reale e surreale si fondono in una nuova miscela espressiva. Per molti è una pericolosa deviazione dal compito “alto” di un’opinione avveduta. Per altri, come alcuni autorevoli studiosi, l’infotainment offre un’informazione minima, ma sufficiente ad una “cittadinanza sottile» (Gianpietro Mazzoleni, Anna Sfardini, Politica Pop, Il Mulino, 2009). 4 Il 47,6% degli italiani usa un numero di media superiore a 4, muovendosi con facilità ogni giorno attraverso una fitta trama di messaggi veicolati dai più diversi vettori: non solo la tv, il cellulare, la radio e i quotidiani ma anche internet, la web tv, i palmari e altri new media. Il 4,2% usa 10 o più media, percentuale che raddoppia tra i soggetti più giovani e più istruiti (43. Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese). 5 Gianfranco Fini, Charta minuta, n. 1, Nuova Serie, Anno IV. 6 Come è noto, la retorica consolatrice «si avvale della retorica come deposito di cose già note ed acquisite, e finge di informare, di innnovare semplicemente per vellicare le attese

dei destinatari, riconfermando invece il loro sistema di aspettative e convincedoli a consentire con quello con cui erano già consciamente o inconsciamente d’accordo […] mira a riconfermare le opinioni del destinatario, fingendo di discutere, ma in effetti risolvendosi in mozione degli affetti […] ha un movimento apparente: sembra indurci a decisioni nuove (acquistare un prodotto, assentire ad una opinione politica) ma lo fa partendo da premesse, argomenti e cadenze stilistiche che appartenevano all’universo del già accettato, e quindi ci spinge a fare, sia pure in modo apparentemente diverso, quello che abbiamo sempre fatto» (Umberto Eco, Il messaggio persuasivo, in Aa. Vv., Lingue, Stampa alternativa, Roma, 1998, pp. 255-256). 7 Ibidem.

L’Autore ANTONIA MASINO Già consulente di comunicazione strategica di impresa, è funzionario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e attualmente componente dello staff particolare del presidente della Camera dei deputati.

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20 SETTEMBRE

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alla breccia di Porta Pia i rapporti fra la Chiesa e il nuovo Stato unitario sono stati difficili. Finché Giovanni XXIII, nel 1961, riconobbe nell’Unità d’Italia la mano della Provvidenza. DI BENEDETTO COTTONE

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Il 20 settembre 1870 segna due grandi eventi storici: il compimento dell’unità d’Italia con Roma capitale, sogno di tante generazioni di italiani; la caduta del potere temporale della Chiesa. La cosiddetta “breccia di Porta Pia”, come fatto d’armi, non si può dire che sia stata una grande battaglia: durò poco più di quattro ore (dalle 5.15 alle 9.40) e poi le cannonate cessarono. Si ebbero 56 morti e 141 feriti da parte dei

bersaglieri e dei fanti italiani e 20 morti e 49 feriti da parte delle truppe pontificie. Il papa Pio IX protesta subito di fronte al mondo di essere prigioniero nel suo stesso Stato: insorge così la cosiddetta “questione romana”. Già dieci anni prima era scoppiato l’urto tra Chiesa e Stato quando le legazioni pontificie (Romagna, Marche e Umbria) furono annesse al Regno d’Italia. Pio IX


OLTRE GUELFI E GHIBELLINI Benedetto Cottone

FESTA UNITARIA

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scrive a Vittorio Emanuele II per riaverle, ma il re, che pure aveva una devozione filiale per il papa, gli risponde che le legazioni avevano chiesto spontaneamente l’annessione al suo Regno, e lui non poteva certo respingere un voto di quelle popolazioni. Si apre il conflitto storico tra Chiesa e Stato e, per la verità, la Chiesa, da quel momento in poi, assume nei confronti dello Stato italiano un atteggiamento prote-

statario e assenteista: «Né eletti, né elettori», sono parole di don Giacomo Margotti, fondatore del quotidiano L’Armonia, organo del cattolicesimo intransigente. A capire immediatamente la drammaticità della situazione è il genio del più grande uomo politico italiano, Camillo Benso di Cavour, il quale, tempestivamente, fa il primo tentativo di conciliazione, servendosi di due intermediari, il teologo padre Carlo


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Passaglia e il medico marchigia- to, si impegna a ritirare le sue no Diomede Pantaleoni, ma è truppe da Roma. netta l’ostilità del Vaticano a Ma il Vaticano non è affatto tranogni trattativa, con grande e sin- quillizzato, e dopo poco più di due mesi Pio IX manifesta la sua incero dolore di Cavour. I tentativi di conciliazione si ri- transigenza con l’enciclica Quanta petono, e già Bettino Ricasoli, cura e con l’annesso Sillabo. successore di Cavour, prepara una Tuttavia l’emanazione del Sillabo lettera da fare pervenire al papa non impedisce a Pio IX, poco doattraverso il governo francese, ma po, confortato da don Bosco, di questo si rifiuta di inoltrarla. prendere l’iniziativa personale Anche Napoleone III tenta di fare verso Vittorio Emanuele II per da paciere e assicura, in caso di coprire le famose sedi vescovili accordo, di ritirare la guarnigione allora vacanti; il re acconsente e francese da Roma, ma il Vaticano invia a Roma l’onorevole Francesco Saverio Vegezzi, ma la missiorisponde di no. ne fallisce. Il papa Pio IX diMalgrado tutto, chiara poi che la All’anticlericalismo però, comincia Chiesa «può cedere nella Chiesa a faralla violenza ma di Francesco Crispi si strada la tenmai aderire all’in- Leone XIII reagisce denza conciliatogiustizia. rista: il padre beI cattolici si asten- accentuando il tono nedettino Luigi gono dalle elezioni delle proteste Tosti scriverà nel politiche, ma cominciano a partecipare a quelle 1887 l’opuscolo La Conciliazione, provinciali e comunali, e ci sarà il cui protagonista è don Pacifiin seguito anche un tentativo di co, al quale subito risponderà costituire un partito conservatore l’intransigente polemista antilicattolico, ma il nuovo papa, Leo- berale don Davide Albertario ne XIII, si opporrà («non expedit, con il suo don Belligero. prohibitionem importat») prospet- Nel ’66 fallisce un altro tentativo tando perfino di andare in volon- di conciliazione su iniziativa di tario esilio a Vienna, ma la corte Ricasoli, che invia a Roma il conasburgica gli consiglierà di non sigliere di Stato Michelangelo muoversi da Roma. (Durante il Tonello, sostenuto dalla signora suo lungo pontificato papa Leone McKnight, ben nota e stimata in Vaticano. Il governo italiano reaXIII formula ben 62 proteste!). Nel settembre del ’64 arriva la gisce con le famose leggi per la liconvenzione italofrancese: l’Ita- quidazione dell’“asse ecclesiastilia, da un lato, si impegna a non co”; e la reazione del Vaticano si fa attaccare lo Stato pontificio, a immediata e violenta, con la scoimpedire attacchi contro di esso, munica degli eventuali compratoe a trasferire la capitale da Torino ri dei beni della Chiesa. a Firenze; la Francia, dall’altro la- Scoppia la guerra franco-prussiana

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e arriva la fatale giornata di Sedan, con la caduta di Napoleone III e il ritiro da Roma delle truppe francesi. Pochi giorni dopo, il 20 settembre 1870, si ha la breccia di Porta Pia, e Pio IX, come si è detto, protesta immediatamente. In dicembre Giovanni Lanza, capo del governo, fa votare in Parlamento la Legge delle Guarentigie, riconosciuta poi come il capolavoro giuridico del liberalismo italiano. Ma il papa Pio IX protesta con l’enciclica Ubi nos, e rifiuta sia le Guarentigie sia la dotazione annua di 3.225mila lire. Cade la destra storica ma la sinistra che subentra fa, in fondo, la stessa politica. Durante il periodo crispino, contrassegnato da un acceso anticlericalismo, lo stesso Crispi cerca una via d’intesa con il suo corregionale, nonché suo fiero avversario, cardinale Rampolla, ma ancora una volta interviene, come s’è visto, papa Leone XIII con il suo non expedit, e anche questo tentativo fallisce. All’acceso anticlericalismo crispino, il papa Leone XIII reagisce accentuando il tono delle sue proteste. Tuttavia comincia a manifestarsi nel mondo ecclesiastico qualche perplessità sull’atteggiamento assenteista assunto dalla Chiesa e lo stesso papa Leone XIII pone sei quesiti a monsignor Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, sulla possibilità di mutare il comportamento della Chiesa. Bonomelli, dopo avere esaminato i quesiti proposti, conclude che ai

cattolici italiani conviene prendere parte attiva alla politica italiana, ma il Papa purtroppo non accetta il consiglio e continua a protestare. Il governo italiano, a sua volta, reagisce e si succedono arresti di vescovi e di preti e viene persino destituito da sindaco di Roma il duca Torlonia. Crispi nel 1895 dichiara festa nazionale il 20 settembre, ma lo spirito di quella decisione è palesemente anticlericale. Con l’era giolittiana e con il nuovo papa Pio X si smorza il dissidio tra Stato e Chiesa: è l’era dei compromessi. Pio X nel 1904 scioglie l’Opera dei Congressi, creata come organizzazione politica dei cattolici (una sorta di Democrazia cristiana ante litteram); sospenderà poi, sia pure non total-


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mente, il non expedit e nominerà il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana, così che saranno eletti in Parlamento i primi tre “cattolici deputati”; e infine darà il suo assenso al cosiddetto “Patto Gentiloni”, del 1913, che avrebbe concesso agli elettori cattolici di votare a favore di quei candidati liberali che avessero accettato pubblicamente, ma anche in segreto, i famosi sette punti proposti da Gentiloni. Nel 1906 monsignor Geremia Bonomelli pubblica la pastorale La Chiesa e i tempi nuovi che contiene alcune luminose riflessioni: «Niente più protezioni, niente più convenzioni, protocolli, concordati, che stipulati oggi vengono lacerati domani».

Quando a Roma il sindaco Ernesto Nathan organizza una serie di plateali manifestazioni anticlericali, il papa Pio X protesta, ma è significativo il fatto che per la prima volta la protesta non viene inserita negli atti della Sede apostolica; e Giolitti non la raccoglie. Scoppia la Prima guerra mondiale, e il nuovo papa Benedetto XV fa la tradizionale protesta, ma molto blanda; condanna il nazionalismo; dichiara la neutralità della Chiesa ma lascia liberi i cattolici italiani di difendere la patria con le armi, e il cattolico Filippo Meda, che era ministro delle Finanze nel gabinetto Boselli, parte per il fronte. Quando poi Benedetto XV definisce la guerra «una inutile strage», non c’è alcuna reazione da parte del governo italiano.

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Cessata la guerra, riprendono in Subentra alla fine con il cardinale segreto le trattative per la conci- Gasparri lo stesso Mussolini, e liazione: Francesco Saverio Nitti l’11 febbraio 1929 vengono firha numerosi colloqui con il cardi- mati a Roma il Trattato, il Connale Gasparri, suo amico persona- cordato e la Convenzione finanle; Vittorio Emanuele Orlando si ziaria. Dispiace soltanto che la intrattiene ripetutamente con Chiesa abbia concluso questi acmonsignor Cerretti e predispone cordi proprio con un miscredenalla fine una bozza di trattato e di te, il quale aveva firmato quei soconcordato; ma purtroppo la pro- lenni documenti solo con il proposta fallisce. Nell’ambito eccle- posito di rafforzare il suo regime siastico si muove don Luigi Stur- e che, appena due mesi dopo, zo, il quale fonda il Partito popo- avrebbe tuonato a Montecitorio lare italiano (Ppi), autonomo dal- che «nello Stato la Chiesa non è le gerarchie e aconfessionale. Sor- sovrana e nemmeno libera». ge il fascismo e il suo capo, Beni- Senza volere elencare tutti gli altri incresciosi fatti to Mussolini, inidi urto con la zia una politica di Nel centenario Chiesa intervenuti avvicinamento aldurante il periodo la Chiesa. Il nuovo dell’Unità d’Italia, papa, Pio XI, è un nel 1961, Giovanni XXIII fascista, basta qui concludere che la convinto conciliabenedisse finalmente tormentata vicentorista da del conflitto tra Pio XI, per la pri- l’evento lo Stato e la Chiesa ma volta dopo il 1870, benedice la folla dalla log- oggi è finalmente e definitivagia di San Pietro. Don Luigi mente chiusa. Sturzo, che è intransigente nei La provvidenza opera attraverso confronti del fascismo, viene in- quelle che «paiono traversie e sovitato dalla Curia papale a non no opportunità»: così diceva il ficontinuare con gli attacchi al re- l o s o f o G i a m b a t t i s t a Vi c o . gime e, alla fine, egli si ricorda Per molti anni infatti la Chiesa di essere sacerdote, si dimette cattolica è rimasta convinta di dal partito e se ne va in volonta- aver subito una iniquità con la perdita del potere temporale, e rio esilio. In questo periodo sono molti i che quell’evento sia stato per essa popolari che aderiscono al fasci- una «traversia», e dunque necessmo e vengono così riprese le sarie e giuste le proteste. Ma a togliere la maschera a queltrattative con la Chiesa. Il cardinale Gasparri, tramite il la «traversia» e a farla apparire senatore Santucci, si incontra con «opportunità» provvede proprio il ministro guardasigilli fascista un papa: Giovanni XXIII, il quaAlfredo Rocco, ma il papa Pio XI le, in occasione del centenario fa cadere il progetto proposto da dell’unità d’Italia, nel 1961, benedice l’evento e parla di un diseSantucci.


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gno della Provvidenza «motivo di esultanza sulle due rive del Tevere». L’anno successivo è il cardinale Giovanni Battista Montini, che diverrà poi papa Paolo VI, ad affermare in Campidoglio che: «La Provvidenza, quasi giocando drammaticamente negli avvenimenti, tolse al papato le cure del potere temporale perché meglio potesse adempiere la sua missione spirituale nel mondo». Viene così riconosciuto autorevolmente che il 20 settembre ha sollevato la Chiesa da un peso non più sostenibile. Infatti, se la Chiesa avesse continuato a esercitare il potere temporale, come avrebbe potuto mai dare delle risposte alle richieste che fatalmente avrebbe avanzato la coscienza del mondo moderno? Risposte che possono essere date soltanto con le riforme? Come avrebbe potuto mai un papa capo temporale deliberare di concedere “la libertà di insegnamento”, “la libertà di coscienza”, “la libertà di culto religioso”? E tante altre leggi che ormai sono in vigore in tanti Stati del mondo? La Chiesa, del resto, non poteva non avvertire lo spirito dei tempi nuovi e infatti ha agito prontamente in conseguenza: il Concilio Vaticano II ha annullato il Sillabo con tutte le sue 80 proposizioni, una delle quali condannava la libertà di discussione, e oggi la Chiesa cattolica è «la Chiesa del dialogo»; c’è stato persino un cattolico militante, padre Balducci, che ha proposto alla Chiesa addirittura riti di espiazione per il

«secolare errore del potere temporale». Sono passati 137 anni e, con la conciliazione tra Stato e Chiesa, è evidente che non è tanto lo Stato che garantisce la libertà della Chiesa, quanto piuttosto la Chiesa che riconosce la libertà, l’autonomia e la laicità dello Stato. E allora è cosa giusta che, per sano amor di patria, senza trionfalismi da una parte e con sincera letizia dall’altra, il 20 settembre venga proclamata festa nazionale del Risorgimento unitario. Da 30 giorni, mensile internazionale diretto da Giulio Andreotti, n. 10 Anno XXV Ottobre 2007

L’Autore BENEDETTO COTTONE Deputato dalla II alla VI legislatura, è stato sottosegretario all’Interno nel secondo governo Andreotti. Collaboratore di 30giorni.

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gli strumenti di

In occasione di una conferenza tenuta all’Accademia 130

dei Lincei, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto porre l’accento sulla ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Italia, a un anno dalle celebrazioni. Riportiamo il testo integrale dell’intervento, dunque, perché si tratta di una vera e propria summa di cosa è stata l’Italia, di cosa è adesso e di cosa potrebbe essere. Un excursus tra storia, politica e istituzioni per ripercorrere il cammino post-unitario del nostro paese. Non mancano, ovviamente, i punti critici, i nodi da sciogliere in questa difficile contingenza politica ed economica. Proprio dalle celebrazioni per l’anniversario dell’Italia unita si può ripartire, dice il presidente, attraverso la riscoperta di “ragioni di impegno condiviso”.


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Verso il 150esimo dell’Unità d’Italia: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso Conferenza del presidente della Repubbilca Giorgio Napolitano tenuta all’accademia dei Lincei il 12 febbraio 2010

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Presidente Ciampi, Autorità, Signore e Signori, ringrazio vivamente il Presidente Maffei per le sue cortesi parole di saluto. E ringrazio con lui e con il Vice Presidente Professor Quadrio Curzio, voi tutti, signori Soci dell’Accademia, per il privilegio e per l’occasione che mi avete offerto invitandomi a presentare in questa sede così rappresentativa e autorevole, le convinzioni che mi guidano in vista di un evento di straordinario rilievo istituzionale. La convinzione, in primo luogo, che la cultura italiana, in tutte le sue espressioni, sia chiamata a dare un contributo essenziale alle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità. Parlo innanzitutto, naturalmente, della cultura storica, il cui ricco patrimonio di studi sul Risorgimento e sul processo unitario merita di essere richiamato all’attenzione generale e riproposto nel modo più incisivo dinanzi al grave deficit di conoscenze storiche diffuse di cui soffrono intere generazioni di italiani. La riflessione storica, ed egualmente l’indagine sulle vicende politico-istituzionali ed economico-sociali, debbono peraltro abbracciare l’evoluzione dell’Italia unita nei periodi successivi alla fondazione del nostro Stato nazionale, fino a consentire un bilancio persuasivo da far valere nel tempo presente. Perché in effetti con l’avvicinarsi del centocinquantenario si vedono emergere, tra loro strettamente connessi, giudizi som-

mari e pregiudizi volgari sul quel che fu nell’800 il formarsi dell’Italia come Stato unitario, e bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861. C’è chi afferma con disinvoltura che sempre fragili sono state le basi del comune sentire nazionale, pur alimentato nei secoli da profonde radici di cultura e di lingua; e sempre fragili, comunque, le basi del disegno volto a tradurre elementi riconoscibili di unità culturale in fondamenti di unità politica e statuale. E c’è chi tratteggia il quadro dell’Italia di oggi in termini di così radicale divisione, da ogni punto di vista, da inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861. Non deve sottovalutarsi la presa che può avere in diversi strati dell’opinione pubblica questa deriva di vecchi e nuovi luoghi comuni, di umori negativi e di calcoli di parte. E bisogna perciò reagire all’eco che suscitano, in sfere lontane da quella degli studi più seri, i rumorosi detrattori dell’Unità italiana. Ci sarà modo, nel corso di quest’anno e del prossimo, attraverso iniziative di molteplice natura già in via di programmazione, di lumeggiare – nel rapporto con pubblici qualificati e con più vaste comunità di cittadini – passaggi essenziali, e fondamentali figure di protagonisti, del proces-


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so unitario. E bisognerà così rivalutarne e farne rivivere anche aspetti e momenti esaltanti e gloriosi, mortificati o irrisi spesso per l’ossessivo timore di cedere alla retorica degli ideali e dei sentimenti. Io vorrei solo - guardandomi dal tentare impossibili sintesi – suggerire, qui, il punto di osservazione dal quale si può meglio cogliere la forza e la validità dell’esperienza storica dell’Italia unita. Un punto di riferimento come quello costituito dagli eventi che fanno per così dire da spartiacque tra l’Italia che consegue la sua unità e l’Italia che inizia, ottantacinque anni dopo, la sua nuova storia. Parlo del momento segnato dall’avvento della Repubblica, dall’elezione dell’Assemblea Costituente, dall’avvio e dallo svolgimento dei lavori di quest’ultima. Campeggia, nella Carta che l’Assemblea giunse ad adottare nella sua interezza il

22 dicembre 1947, l’espressione “una e indivisibile”, riferita alla Repubblica ch’era stata proclamata poco più di un anno prima. E ci si può chiedere se si tratta di un’espressione rituale, di una meditata e convinta visione della condizione effettiva del Paese, o di un supremo, vincolante impegno politico e morale. Ma in quel momento non poteva comunque mancare, nei padri costituenti, la consapevolezza di come l’unità della nazione e dello Stato italiano fosse stata appena, faticosamente messa al riparo da prove durissime che l’avevano come non mai minacciata. Una consapevolezza che dovrebbe oggi essere seriamente recuperata: avrebbero potuto resistere a quelle prove le basi della nostra unità nazionale se fossero state artificiose, fragili, poco sentite e condivise, come da qualche parte si continua a ripetere? L’unità forgiatasi


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nel Risorgimento aveva ben presto dovuto far fronte all’esplodere – già nell’estate del 1861 – del brigantaggio meridionale, che sembrò mettere in causa l’adesione delle popolazioni del Mezzogiorno al nuovo Stato nazionale, e su cui fece leva il tentativo borbonico di suscitare una guerriglia politica a fini di restaurazione. Le forze del giovane Stato italiano dovettero impegnarsi per anni, fino al 1865, per sventare quel tentativo, per sconfiggere militarmente il “grande brigantaggio”, senza che peraltro venissero date risposte a quel che era stata anche una disperata guerriglia sociale dei contadini poveri del Mezzogiorno. Le ragioni storiche profonde dell’Unità risultarono più forti dei limiti e delle tare, pure innegabili, dell’unificazione compiutasi nel 1860-61; e ressero per lunghi decenni, da un secolo all’altro, a fratture e sommovimenti sociali, a conflitti e rivolgimenti politici che pure giunsero a scuotere l’Italia unita. Ma con la crisi succeduta alla prima guerra mondiale, con il rovesciamento, ad opera del fascismo, delle istituzioni liberali dello Stato unitario, e con la conseguente estrema deriva nazionalistica e bellicista della politica italiana, si crearono le premesse per un fatale processo dissolutivo che culminò emblematicamente nella giornata dell’8 settembre del 1943. Quando l’Assemblea Costituente si riunisce a Roma e si mette all’opera per assolvere il suo mandato, essa ha dunque alle spalle precisamente il collasso dello Stato che era nato, nazionale e unitario, sotto l’egida della monarchia sabauda, per finire travolto dalla degenerazione totalitaria

e dall’avventura di guerra del fascismo, avallata dalla monarchia. Non a caso, lo Stato rinasce nella forma repubblicana, per volontà popolare, e si appresta a darsi un nuovo quadro di istituzioni, di principi e di regole per accogliere le istanze di libertà, di democrazia, di progresso civile e sociale, di degna e pacifica presenza nel mondo, di un’Italia che ha ritrovato la sua unità. L’ha ritrovata a carissimo prezzo. Perché allo sfacelo del vecchio Stato sono seguiti gli anni dell’occupazione straniera, liberatrice al Sud e ferocemente dominatrice al Nord; sono seguiti i 20 mesi dell’Italia tagliata in due. È guardando all’estrema drammaticità di quell’ancora vicinissimo e scottante retroterra storico, che si può – dall’altura, per così dire, della neonata Repubblica e della sua appena insediata Assemblea Costituente – osservare e pienamente valutare la profondità delle radici su cui l’unità della nazione italiana ha dimostrato di poggiare e di poter fare leva. Nel dicembre 1943 Benedetto Croce si diceva “fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano in un secolo costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto”; e infatti tra il ‘43 e il ‘45 l’Italia unita rischiò di perdere la sua dignità e indipendenza nazionale e vide perfino insidiata la sua compagine territoriale. Solo l’Italia e la Germania hanno conosciuto nel ‘900 rischi così estremi come Stati-Nazione; la Germania, a partire dagli anni ‘50, addirittura nei termini di una prolungata, forzosa separazione in due distinte e contrapposte entità statuali, che avrebbe infine superato riunificando-


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si grazie al mutamento radicale intervenuto negli assetti mondiali. L’Italia poté nel 1945 ricongiungersi come paese libero e indipendente nei confini stabiliti dal Trattato di pace grazie a tre fattori decisivi: quel moto di riscossa partigiana e popolare che fu la Resistenza, di cui nessuna ricostruzione storica attenta a coglierne limiti e zone d’ombra può giungere a negare l’inestimabile valore e merito nazionale; il senso dell’onore e la fedeltà all’Italia delle nostre unità militari che seppero reagire ai soprusi tedeschi e impegnarsi nella guerra di Liberazione fino alla vittoria sul nazismo; la sapienza delle forze politiche antifasciste, che trovarono la strada di un impegno comune per gettare le basi di una nuova Italia democratica e assumerne la rappresentanza nel quadro internazionale che andava delineandosi a conclusione della guerra. Quella sapienza fu impiegata anche e in particolare per superare spinte centrifughe in regioni di confine, a Nord e ad Est, e per sventare l’insidia del separatismo siciliano. La risposta fu trovata nell’originale invenzione dell’autonomia delle Regioni a statuto speciale: innanzitutto con l’approvazione per decreto legislativo – il 15 maggio 1946 – dello Statuto della Regione Siciliana, mentre con l’Accordo De Gasperi-Gruber firmato a Parigi il 5 settembre 1946 furono poste le basi della Regione Trentino-Alto Adige. Il fenomeno più grave con cui il governo nazionale dové confrontarsi nella fase difficilissima dell’affermazione della propria autorità e della creazione delle premesse per un nuovo assetto istituzionale del paese, fu costituito dal presentarsi del

Movimento Indipendentista Siciliano come forza organizzata in grado di catalizzare spinte antiunitarie di contestazione aggressiva del possibile ricomporsi e consolidarsi di un potere statuale sempre centralizzato. La storia dell’autonomismo e indipendentismo siciliano aveva nell’800 borbonico attraversato diverse fasi, sfociando – dopo il compimento dell’Unità e l’ingresso della Sicilia nel Regno d’Italia – in un apporto originale al dibattito sulla formazione del nuovo Stato nazionale. L’insoddisfacente conclusione di quel dibattito aveva lasciato sedimenti non superficiali nell’opinione siciliana, che riaffiorarono congiungendosi a nuove ragioni di malcontento e a nuove aspirazioni sociali quando, con il crollo del fascismo e dell’impalcatura statale che su di esso si reggeva, sembrò presentarsi una nuova, storica occasione per l’indipendenza della Sicilia dall’Italia. L’occasione sembrava – soprattutto ai capi del movimento indipendentista – essere offerta dall’occupazione angloamericana dell’Isola e da un presunto incoraggiamento da parte delle autorità alleate. Sulla complessità politica di quel movimento, sul suo non trascurabile grado di velleitarismo, sulle sue intrinseche contraddizioni, gli storici hanno indagato attentamente giungendo a giudizi molto ponderati, anche in rapporto ad aspetti come quello dei tentativi d’infiltrazione e di condizionamento da parte della mafia. Ma resta il fatto che il Movimento guidato da Andrea Finocchiaro Aprile acquisì tra la fine del ‘43 e l’inizio del ‘44 un carattere di massa, reclutando centinaia di migliaia di aderenti. E se in ultima istanza fu proprio l’evo-

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luzione del quadro internazionale dal quale esso aveva inizialmente tratto forza, a liquidare quel Movimento, il governo di Roma e le forze politiche antifasciste che lo guidavano dovettero prendere decisioni difficili e a rischio di errore, prima di giungere alla scelta fondamentale, che valse a disinnescare la miccia separatista e a riassorbire un fenomeno la cui pericolosità non può in sede storica essere sottovalutata. Parlo della scelta di riconoscere alla Sicilia uno speciale Statuto di autonomia, la cui elaborazione fu affidata a un’apposita Consulta Regionale e infine, nel maggio ‘46 come ho ricordato, recepita per decreto dal governo. Certo, la prova costituita dalla minaccia separatista siciliana venne superata anche grazie al fatto che più forte dell’impulso a staccarsi dall’Italia risultò l’impronta lasciata nella popolazione dell’Isola dal concorso attivo e consapevole dell’aristocrazia e della borghesia al moto risorgimentale; nonché il lascito della “larga partecipazione dell’intelligenza politica e culturale siciliana alla costruzione della realtà nazionale e statale italiana nei decenni seguiti all’Unità”. Ma non c’è dubbio che per mettere in sicurezza, dopo la Liberazione, l’unità dell’Italia, essenziale fu la correzione dell’indirizzo adottato al momento della formazione dello Stato unitario a favore di una sua rigida centralizzazione e di una forzosa unificazione amministrativa e legislativa sullo stampo piemontese. Era stata una visione realistica della sola strada percorribile per fondare il nuovo Stato su basi unitarie prevenendo il rischio del riaccendersi di particolarismi lo-

cali e di pericolose spinte centrifughe, a prevalere su propositi e progetti di sia pur ponderata apertura verso il ruolo delle regioni. Ma Francesco Ferrara vide in ciò acutamente la tendenza a “confondere l’ordine con l’uniformità e l’unità con la forza”. La necessità di correggere quell’indirizzo originario si espresse già nel 1946, come ho ricordato, col riconoscimento di uno speciale Statuto di autonomia alla Sicilia, alla Sardegna e – con impegni di valore internazionale – alle regioni di frontiera bilingui; ma poi si proiettò in termini generali in sede di definizione dei principi costituzionali e dell’ordinamento della Repubblica. Così non a caso il richiamo alla Repubblica “una e indivisibile” è collocato in apertura di quello che diverrà nella redazione definitiva della Carta l’articolo 5, cui conseguirà il Titolo V, comprendente l’istituzione delle Regioni “a Statuto ordinario”. Il richiamo all’unità e indivisibilità della Repubblica vale a segnare, tra i “Principi fondamentali” quello di un invalicabile vincolo nazionale; e nello stesso tempo mette in evidenza come il riconoscimento e la promozione delle autonomie siano parte integrante di una visione nuova dell’unità della nazione e dello Stato italiano. Meuccio Ruini fu a questo proposito esplicito nella relazione con cui presentò, nel febbraio 1947, all’Assemblea Costituente il progetto elaborato dalla Commissione dei 75: “L’innovazione più profonda introdotta dalla costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese. (...) Sarebbe


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stato naturale e logico che, all’atto dell’unificazione nazionale, si mantenesse qualcosa delle preesistenti autonomie ; ma prevalsero il timore e lo «spettro dei vecchi Stati» ; e si svolse irresistibilmente il processo accentratore. È oggetto di dispute quali ne furono gli inconvenienti, ed anche i vantaggi; molti dei malanni d’Italia si attribuiscono all’accentramento; in ispecie pel mezzogiorno ; se anche tutti gli studiosi meridionalisti non sono fautori di autonomia. Certo si è che oggi assistiamo – e per alcune zone ci troviamo col fatto compiuto – ad un fenomeno inverso a quello del risorgimento, e sembra anch’esso irresistibile, verso le autonomie locali. Non si tratta soltanto, come si diceva allora, di «portare il governo alla porta degli amministrati», con un decentramento burocratico ed amministrativo, sulle cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di «porre gli amministrati nel governo di sé medesimi»”. Quella fu dunque la scelta dei Costituenti: e io mi limito ora a rievocarla – qualunque giudizio si possa esprimere sugli svolgimenti che essa ha avuto nei decenni successivi – solo per integrare l’argomento da cui sono partito sulla profondità delle ragioni e delle radici del processo unitario e sulla drammaticità delle prove da esso superate in frangenti storici cruciali ; per integrare questo argomento con quello dell’efficacia che scelte volte a incidere su antichi e nuovi motivi di debolezza dell’Unità possono avere al fine di rafforzarne le basi e le prospettive. E qui non posso non toccare il tema del più grave dei motivi di divisione e debolezza che hanno insidiato e insidiano la

nostra unità nazionale. Mi riferisco, ovviamente, alla divaricazione e allo squilibrio tra Nord e Sud, alla condizione reale del Mezzogiorno. Anche le analisi più recenti hanno confermato quanto profondo resti, per molteplici aspetti, il divario tra le regioni del Centro-Nord e le regioni meridionali, al di là delle pur sensibili differenziazioni che tra queste ultime si sono prodotte. E oggi meritano forse una riflessione formule come quella, per lungo tempo circolata, della “unificazione economica” che avrebbe dovuto seguire e non seguì alla “unificazione politica” del paese; s’impone un approccio meno schematico, più attento alle peculiarità che possono caratterizzare lo sviluppo nelle diverse parti del paese, e ai modi in cui se ne può perseguire l’integrazione riducendosi il divario tra i relativi ritmi di crescita. Si impone un approccio più attento a tutte le molteplici componenti di un aggravamento della questione meridionale che ha la sua espressione più evidente nel peso assunto dalla criminalità organizzata. E nell’allargare e approfondire l’analisi, si incontra il nodo di una crisi di rappresentanza e direzione politica nel Mezzogiorno che è stata fatale dinanzi alla prova dell’autogoverno regionale. È futile e fuorviante assumere questo stato di cose come prova che l’Italia non è unita e non può esserlo. Si deve comprendere che la condizione del Mezzogiorno pone il più preoccupante degli interrogativi per il futuro del paese nel suo complesso. L’affrontare nei suoi termini attuali la questione meridionale non è solo il maggiore dei doveri della collettività nazionale,

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per avere essa fatto della trasformazione e dello sviluppo del Mezzogiorno una delle missioni fondative dello Stato unitario; ma è anche un impellente interesse comune, perché è lì una condizione e insieme un’occasione essenziale per garantire all’Italia un più alto ritmo di sviluppo e livello di competitività. E infine, per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio. Di queste sfide è bene avere una visione non provinciale. Non è solo l’Italia che vede messa alla prova la sua identità e funzione di Stato nazionale nel rapporto con l’integrazione europea. Il nostro è sempre stato tra i paesi fondatori dell’Europa comunitaria più sensibili e aperti all’autolimitazione della sovranità nazionale come elemento costitutivo della costruzione di un’Europa unita. Ciò non ha peraltro mai significato – anche per i più conseguenti fautori, fin dal 1950, di un modello d’Europa con significativi connotati sovranazionali – sottovalutare il peso degli Stati nazionali e degl’interessi nazionali, né tantomeno il ruolo delle identità storico-culturali nazionali.

Un grande intellettuale e patriota polacco ed europeo, Bronislaw Geremek ha scritto che “la diversità delle culture nazionali resta la più ricca risorsa dell’Europa”. Nessuna contraddizione, dunque, con la ricerca e l’identificazione di un nucleo comune di esperienze e valori europei in cui riconoscersi e da porre a base di una identità e solidarietà europee. Occorre invece – e lo dico ancora con parole di Geremek – “superare gli egoismi nazionali che si esprimono nel giuoco delle relazioni intergovernative e fare appello a un senso di appartenenza condivisa che vada al di là dei sentimenti nazionali”. Nel conflitto e nel defatigante sforzo di compromesso tra interessi nazionali, non possono che risultare perdenti il processo di integrazione europea e anche, in particolare, la posizione italiana. Già decenni fa Jean Monnet sottolineò che “la cooperazione tra le nazioni, per importante che sia”, non fornisce “una soluzione per i grandi problemi che ci incalzano ... Quel che bisogna perseguire è una fusione degli interessi dei popoli europei, e non semplicemente il mantenimento degli equilibri tra questi interessi”. Quel monito è drammaticamente attuale : fusione di interessi e condivisione di sovranità, perché l’Europa possa svolgere il suo ruolo peculiare, come soggetto unitario, e non rischiare di scivolare nell’irrilevanza, nel mondo globalizzato di oggi e di domani. L’identità e la funzione nazionale dell’Italia unita possono dispiegarsi solo in questo quadro, solo contribuendo decisamente all’affermarsi di questa prospettiva di sviluppo nuovo e più avanzato dell’integrazione europea.


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Nella fase di cambiamento della realtà mondiale che stiamo vivendo, ci si interroga in altri paesi anche più che in Italia su come si possa e debba intendere l’identità nazionale e far vivere l’idea di Nazione. In Francia, lo stesso Presidente della Repubblica ha sollecitato una ricerca e aperto un dibattito pubblico su questo tema, vedendo vacillare antiche certezze sotto la pressione di molteplici fattori, riconducibili soprattutto al più generale processo di mondializzazione. Il punto cruciale del dibattito francese appare quello della necessità di reagire a forme di chiusura comunitaria che accompagnano il crescere dell’immigrazione, presentando un’idea aperta, generosa, non statica della Nazione e della sua identità, senza voler imporre l’uniformità e favorendo l’integrazione delle nuove leve di immigrati. Negli Stati Uniti, è da anni in corso la riflessione sulla tenuta dell’identità e dell’unità della Nazione, di fronte ai mutamenti indotti da nuove ondate migratorie delle più diverse provenienze. In California, negli anni ‘90 la comunità ispanica è cresciuta del 70 per cento, la comunità asiatica del 127 per cento; tra il 1980 e il 1990 la percentuale dei bianchi è scesa dal 76 al 57 per cento. Da Arthur Schlesinger jr, una voce tra le più alte della cultura liberal americana, venne già con un libro del 1992 – The disuniting of America – l’allarme per un processo di frammentazione della società in più comunità etniche separate. Egli vide messa alla prova quella capacità di governare la diversità etnica “che nessuna nazione nella storia ha mostrato” di pos-

sedere al pari dell’America, paese multietnico fin dall’inizio. La sfida investe l’idea stessa di una cultura comune e dell’appartenenza a una stessa società, l’esperienza straordinaria del melting pot, della trasformazione della diversità in unità attraverso la leva del Credo Americano, di una cultura civica che unificava e assimilava. Quelle risorse non sono però esaurite, concluse Schlesinger facendo professione di ottimismo, ovvero di fiducia nella possibilità di coltivare, tutti, le culture e le tradizioni cui si è legati senza rompere i vincoli della coesione – comuni ideali e comuni istituzioni politiche, lingua e cultura comune, senso profondo di un comune destino. Essenziale è, in definitiva, nella valutazione di Schlesinger, ristabilire l’equilibrio tra l’unum e il pluribus. Un altro importante studioso, Samuel Huntington, in un libro meno ottimistico sul futuro dell’identità nazionale americana – drammaticamente intitolato “Who are we? Chi siamo noi?” – ha ammonito : “I dibattiti sulla identità nazionale sono una caratteristica pervasiva del nostro tempo; le crisi delle identità nazionali sono divenute un fenomeno globale”. Chiudo questa digressione, volta a suggerire un allargamento delle nostre riflessioni e discussioni italiane, volta cioè a dare una percezione corretta di quel che accomuna e di quel che distingue le sfide, le prove cui sono sottoposte le compagini nazionali in Italia e variamente in Europa o, su scala e su basi molto diverse, negli Stati Uniti, protagonisti della più grande e ricca esperienza di costruzione democratica unitaria.

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Naturalmente, noi abbiamo da fare come italiani il nostro esame di coscienza collettivo cogliendo l’occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Possiamo farlo, non ignorando certo i modi concreti della nascita dello Stato unitario, le scelte che prevalsero nel confronto tra diverse visioni del percorso da seguire e dello sbocco cui tendere; non ignorando, anzi approfondendo i termini di quell’aspra dialettica, ma senza ricondurre ai vizi d’origine della nostra unificazione statuale tutte le difficoltà successive dell’Italia unita così da approdare a conclusioni di sostanziale scetticismo sul suo futuro. Le delusioni e frustrazioni che furono espresse anche da figure tra le maggiori del moto risorgimentale, e che operarono nel profondo dei sentimenti e degli atteggiamenti popolari, hanno sin dall’inizio costituito un problema da affrontare guardando avanti. Questo fu, io credo, l’apporto del meridionalismo che – con Giustino Fortunato, e grazie anche a illuminati uomini del Nord – si caratterizzò come grande cultura dell’unitarismo critico, impegnata a indicare la necessità di nuovi indirizzi nella politica generale dello Stato nazionale la cui unità veniva però riaffermata categoricamente nel suo valore storico. Certo, la frattura più grave di cui il nostro Stato nazionale ha fin dall’inizio portato il segno e che ha finito per protrarsi – nonostante i tentativi, benché non del tutto privi di successo, messi in atto a più riprese – e quindi restando ancor oggi cruciale, è quella tra Nord e Sud. E ho già detto in quali termini essa ci si presenti ora e ci impegni più che mai. Ma altre fratture ori-

ginarie si sono ricomposte : come quella tra Stato e Chiesa, tra il nuovo Stato, che anche con il contributo degli uomini del cattolicesimo liberale nel corso del Risorgimento era stato concepito, e la Chiesa spogliata, perdendo Roma, del potere temporale. E, come ho notato nella prima parte del mio intervento, molte altre prove, anche assai dure, sono state superate con successo dalla comunità nazionale. Sono convinto che nell’”età della Costituente”, negli anni decisivi, cioè, della ricostruzione, su basi repubblicane e democratiche, del nostro Stato unitario, venne recuperata “l’eredità del Risorgimento”, dissoltasi – secondo il giudizio di Rosario Romeo – nelle “vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l’avventura totalitaria”. In effetti, la fine dell’epoca dei nazionalismi dilaganti e dei conflitti da essi scaturiti, consentì la riscoperta di quell’identificarsi dell’idea di Nazione con l’idea di libertà che aveva animato il moto risorgimentale. L’idea di Nazione, il senso della Patria, attorno ai quali nella prima metà del secolo scorso gli italiani si erano divisi ideologicamente e politicamente, divennero nuovamente unificanti facendo da tessuto connettivo dell’elaborazione della Carta Costituzionale. C’è da chiedersi quanto, da alcuni decenni, questo patrimonio di valori unitari si sia venuto oscurando – anche nella formazione delle giovani generazioni – e come ciò abbia favorito il diffondersi di nuovi particolarismi, di nuovi motivi di frammentazione e di tensione nel tessuto della società e della vita pubblica nazionale. E non possiamo dunque sottovalutare i


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rischi che ne sono derivati e che ci si presentano oggi, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità. È indispensabile, ritengo, un nuovo impegno condiviso per suscitare una ben maggiore consapevolezza storica del nostro essere nazione e per irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani. Dobbiamo innanzitutto – torno a sottolinearlo – attingere a una ricerca storiografica che ha dato, fino a tempi recenti, frutti copiosi e risultati di alto livello : come il fondamentale studio dedicato da Rosario Romeo a Cavour e al suo tempo. Uno studio dal quale emerge il ruolo preminente e innegabilmente decisivo dello statista piemontese, guidato dalla “convinzione che esistesse una sola nazione italiana e che essa avesse diritto a una propria esistenza politica”; il ruolo decisivo di quel Cavour grazie al quale, al Congresso di Parigi del 1856, per la prima volta nella storia uno Stato italiano aveva “pensato a tutta l’Italia” e “parlato in nome dell’Italia”. Nello stesso tempo, è emersa ad opera degli studiosi tutta la ricchezza del processo unitario e degli apporti che ad esso vennero dai rappresentanti più alti di concezioni pur così diverse del movimento per l’Unità, come Cavour, Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, che concorsero, dando vita all’Italia unita, al maggior fatto nuovo nell’Europa di quel tempo. Ebbene, è pensabile oggi un forte impegno per riproporre le acquisizioni della nostra cultura storica, relative a quel che hanno rappresentato il Risorgimento e la sua conclusione nella storia d’Italia e d’Europa? E per collegarvi una riflessione matura su tappe essenziali del lungo per-

corso successivo, fino alla rigenerazione unitaria espressasi nei valori comuni posti a base della Costituzione repubblicana? Dovrebbe essere questo il programma da svolgere di qui al 2011: un impegno che vogliamo considerare pensabile e possibile, anche perché ci sono nuove e stringenti ragioni per condividerlo. Questo esigono le incompiutezze dell’opera di edificazione dello Stato unitario, prima, e dello Stato repubblicano disegnato dai Costituenti, dopo, e le nuove sfide al cui superamento è legato il nostro sviluppo nazionale, ed è nello stesso tempo legato il nostro apporto al rilancio di un’Europa riconosciuta e assertiva nel mondo che è cambiato e che cambia. Non c’è bisogno che dica a voi quale sforzo e contributo si richieda al mondo della cultura e alle sue istituzioni. Ma l’impegno condiviso di cui parlo implica una svolta da parte dell’insieme delle classi dirigenti, un autentico scatto di consapevolezza e di volontà in modo particolare da parte delle forze che hanno, o possono assumere, responsabilità nella sfera della politica. Spero ci si risparmi il banale fraintendimento del vedere sempre in agguato l’intento di un appello all’abbraccio impossibile, alla cessazione del conflitto, fisiologico in ogni democrazia, tra istanze politiche e sociali divergenti. È tempo che ci si liberi da simili spettri e da faziosità meschine, per guardare all’orizzonte più largo del futuro della Nazione italiana, per elevare al livello di fondamentali valori e interessi comuni il fare politica e l’operare nelle istituzioni.

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Fumo di Londra Alessandro Marrone POLITICHE INDUSTRIALI

Innovazione, imprese e ricerca per rilanciare il Sistema Italia Emo Agneloni BENI CULTURALI

Pompei, ecco come cambia la gestione degli scavi Giuseppe Mancini LETTERATURA

Il malessere sotto i ciliegi in fiore Tiziana Mauriello



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FUMO DI LONDRA Gordon Brown in crisi di consensi, il New Labour che ha perso lo smalto dell’era Blair e tenta affannosamente di reinventarsi, una crisi economica che ha colpito gli inglesi più degli altri europei e il rischio di venire isolati dalla nuova politica del Pacifico di Obama. La Gran Bretagna è a un bivio. E i Tories di David Cameron potrebbero approfittarne.


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Negli ultimi due anni la Gran Bretagna ha vissuto una crisi del laburismo che sembra essere collegata ad una più generale crisi istituzionale, economica, geopolitica e di identità. Brown e la crisi del Labour La crisi del governo laburista è iniziata di fatto nel giugno del 2007 con il passaggio di consegne, senza passare per le elezioni politiche, tra Tony Blair e Gordon Brown. Da allora la politica laburista è stata sempre più contrassegnata da aperti scontri tra parlamentari, dimissioni di ministri e rimpasti di governo,

proposte di legge presentate e subito ritirate. In prima linea, un premier che non ha il carisma del suo predecessore, né l’appeal del leader dell’opposizione Tory David Cameron, né una legittimazione elettorale. Dietro le quinte, lo scontro tra le correnti di Brown e di Blair, quest’ultima oggi guidata dal ministro degli Esteri David Miliband, che agli osservatori italiani potrebbe ricordare il ventennale scontro tra dalemiani e veltroniani. Le elezioni europee del 2009 sono state la prima occasione per i britannici per esprimere un giudizio su Brown, e il risultato è stato impietoso: il New Labour è


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precipitato al 15,7% dei voti dal democrazia britannica. È emerso in33% del 2005, scavalcato sia dai fatti che da anni parlamentari di tutTories (27,7%) che dal Partito indi- ti i partiti, ma in prevalenza laburipendentista britannico, che grazie sti, abusavano dei rimborsi pubblici al suo euroscetticismo incassa il per l’esercizio delle loro funzioni 16,5% dei consensi. per spese che nulla avevano a che Le ragioni della crisi di consenso fare con Westminster, come pagare del laburismo vanno oltre la confu- il mutuo di una villa in campagna, sione e divisione della sua leader- o semplicemente dichiaravano speship. In primo luogo, nelle democra- se false per incassare il denaro dei zie anglosassoni è abbastanza fi- taxpayers. Per mesi, la “Mani pulite siologico che dopo due-tre mandati britannica” (definizione del quotil’elettorato sia stufo di avere lo stes- diano laburista Guardian) ha spinto so partito al potere, e riponga più parlamentari e ministri a dimettersi aspettative in un’opposizione che in o ad annunciare che non si ricandideranno alle prossiun decennio ha visme elezioni. L’apice suto un ricambio geIl crollo di consensi dello scandalo sonerazionale e di no state le dimissioidee. Brown non dei laburisti è frutto dello speaker lapuò proporsi come di una leadership debole niburista della Cameun governante “nuoe della fisiologica voglia ra dei comuni, acvo”, perché sebbene sia al numero 10 di di cambiare degli inglesi cusato di aver ostacolato la riforma del Downing Street, sesistema dei rimborsi de del premier, solo da due anni, nei precedenti dieci volta ad accrescerne la trasparenanni è stato saldamente al numero za. Per dare un’idea della gravità 11 di Downing Street, sede del po- delle sue dimissioni, basti ricordare tente Cancelliere dello scacchiere che è la prima volta che lo speaker responsabile del bilancio pubblico. si dimette in 310 anni di storia delIn secondo luogo, il Partito laburista la Camera dei comuni. La crisi delsconta la colpa di aver malgestito, l’istituzione parlamentare, diventata o secondo i suoi avversari di aver il “Parlamento di letame” (definizioaccentuato, le crisi succedutesi, in ne del conservatore Times), ha proprimis quella istituzionale. vocato l’istituzione di una commissione ad hoc per studiare una riforWestminster nel fango ma delle funzioni e delle prassi parNella primavera del 2009, mentre lamentari, al fine di superare “il moalcuni giornali inglesi facevano la mento più nero del Parlamento nelmorale sulla vita privata del premier l’era moderna” (definizione del liitaliano, a Londra scoppiava il più beraldemocratico Daily Telegraph). grande scandalo della moderna In effetti, in un paese abituato a far-


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altre capitali europee di broker finanziari, funzionari bancari, businessmen e consulenti. Di conseguenza, la crisi finanziaria immortalata dal fallimento di Lehman Brothers ha avuto in Gran Bretagna un impatto di gran lunga maggiore che nel resto d’Europa: fallimenti, licenziamenti, blocco del credito, perdite nel mercato azionario, hanno scandito l’inverno 2008-2009, richiedendo politiche monetarie e fiscali d’emergenza. La Banca di Inghilterra ha portato rapidamente i tassi di interesse vicini allo zero, e quando ciò non è Il crack della City bastato ha iniziato La crisi in Inghilterra La crisi economica è addirittura a emettedi certo l’aspetto più re moneta attraverha avuto un impatto evidente del periodo l’acquisto di titoli di gran lunga maggiore so nero attraversato pubblici e privati, che nel resto dalla Gran Bretaben 175 miliardi di gna. All’inizio la cristerline, l’equivalendell’Unione europea si è stata soprattutto te di 200 miliardi finanziaria, come tedi euro. Il governo stimoniato dal salvataggio pubblico ha finanziato o nazionalizzato bandi grandi gruppi bancari quali la che e assicurazioni in crisi, e ha auRoyal Bank of Scotland. Il punto è mentato la spesa statale in infrastrutche l’economia britannica è basata ture e welfare, portando il deficit sulla finanza e il terziario molto più pubblico a livelli impensabili negli delle altre economie europee, aven- anni Novanta. do progressivamente abbandonato Nonostante tali politiche espansive, il settore manifatturiero alla fine del il pil britannico nel 2009 scende, Novecento. La City, ovvero il quar- secondo il Fmi, del 4,4%, con forti tiere degli affari londinese, è stato a e immediate ricadute sociali. In prilungo l’emblema di questa leader- mo luogo sono crollati i consumi, ship finanziaria, in ambiziosa com- tanto che in seguito ai magri incassi petizione con la stessa Wall Street del Natale 2008 la celebre catena quanto a internazionalizzazione del Marks&Spencer ha chiuso di colpo business e deregolamentazione del 120 punti vendita. Allo stesso temmercato. Londra vanta una percen- po è aumentata drasticamente la dituale molto più elevata rispetto alle soccupazione, superando nel si vanto del senso del dovere dei propri civil servants e a tenere in estrema considerazione i soldi dei taxpayers, scoprire un malcostume così diffuso, reiterato, e nascosto da una complicità politica ai massimi livelli è stato un vero shock. Tanto più che la somma dei rimborsi abusivamente utilizzati dai parlamentari in questa legislatura ammonta a ben 33 milioni di sterline, circa 37 milioni di euro, una cifra che in tempi di crisi economica ha fatto infuriare ancora di più l’opinione pubblica.

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2009 il 7%. La crisi occupazionale è stata così acuta da scatenare forti reazioni protezioniste, relativamente nuove per la Gran Bretagna. La campagna British Jobs for British Workers ha tenuto banco per mesi nel dibattito pubLa crisi occupazionale blico, sollevando è stata così acuta timori nell’Ue sulda provocare reazioni la tenuta del merprotezioniste cato unico. Ancora più emblematica, forse, è stata la campagna, molto meno nota, del municipio di Lambeth, periferia sud di Londra, affinché i posti pubblici di imbianchino previsti per le

Olimpiadi 2012 fossero riservati ai residenti di Lambeth. Se un municipio di una metropoli da 7 milioni di abitanti che voleva fare concorrenza a New York, arriva a fare una battaglia politico-legale per attribuire 20 posti di imbianchino, vuol dire che la crisi è davvero dura. Il mutamento geopolitico La crisi economica ha accelerato anche il mutamento in corso della realtà geopolitica mondiale in una direzione sfavorevole alla Gran Bretagna. Da un lato, gli Stati Uniti risultano infatti sempre più interconnessi,


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se non dipendenti, dalla realtà asiatica, e cinese in particolare, soprattutto a causa del debito commerciale statunitense e della concentrazione nel Pacifico di acquirenti di buoni del Tesoro americani. Di conseguenza, per l’amministrazione Obama l’Europa e il legame transatlantico perdono di importanza, e in questa ottica è proprio la Gran Bretagna a perderci di più. Infatti, tradizionalmente Londra ha utilizzato la sua special relationship con la potenza egemone americana per rafforzare il proprio peso sul piano internazionale, anche aldilà delle reali capacità economiche, militari e demografiche proprie di una media potenza europea e non di una grande potenza mondiale. Ora che tale rendita di posizione si affievolisce perché Washington guarda al Pacifico più che all’Atlantico, anche il ruolo internazionale della Gran Bretagna viene messo in discussione. Allo stesso tempo, la crisi economica ha rafforzato l’Ue. In primo luogo, le mura della costruzione europea hanno retto l’urto della crisi, spingendo gli irlandesi a cercare rifugio al suo interno dalla crisi economica, attraverso la ratifica del Trattato di Lisbona. Ciò ha permesso l’entrata in vigore del nuovo assetto istituzionale che rappresenta una solida base per rafforzare l’efficacia dell’azione dell’Ue, a partire dalla sua politica estera e di sicurezza. In secondo luogo, l’euro si è dimostrato una valuta stabile e forte, scavalcando la sterlina come moneta di riserva mondiale e aumentando la

sua capacità di attrazione sui paesi europei che ancora non ne fanno parte. Se nel 1999 la sterlina era una delle maggiori tra una trentina di monete europee, 10 anni dopo è passata in secondo piano di fronte ad un euro che è Ora che Washington la valuta euroguarda al Pacifico, pea, usata da il ruolo di Londra è 16 paesi dell’Ue messo in discussione per un totale di circa 300 milioni di abitanti. Non a caso, quando a dicembre 2008 la sterlina fu scambiata per alcuni giorni al di sotto della parità con l’euro, perfino il Times giunse provocatoriamente a raffigurare un euro che sopravanzava la moneta della regina. 149 Per un paese tradizionalista come la Gran Bretagna, un piccolo grande segnale di una transizione in atto. L’identità imperiale Il luogo comune dipinge i britannici come quello strano popolo europeo che usa le once al posto dei grammi, guida a sinistra invece che a destra, e non conosce altre lingue supponendo che gli altri debbano parlare l’inglese. Come ogni luogo com u n e, a n ch e questo contiene In dieci anni la sterlina un fondo di veriha perso il suo ruolo di moneta forte tà in quanto cata vantaggio dell’euro tura l’immagine di una società tradizionalista che, complice la propria insularità, ha vissuto una storia nazionale distinta da quella dell’Europa e ne è estremamente orgogliosa. In fin dei conti, la Gran Bretagna è l’unico paese europeo uscito


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vincitore da entrambe le guerre mondiali, nonché da una infinità di guerre coloniali che gli hanno assicurato una posizione egemone per tutto l’Ottocento: non a caso, a Londra si usa dire che “la Marina britannica non festeggia l’anniversario di nessuna vittoria, perché ne ha ottenute così tante che dovrebbe festeggiare ogni giorno dell’anno”. Tale retaggio continua a pesare nelle élite che dirigono la politica estera del paese, se è vero che nel 1982 la Royal Navy è stata mandata, da sola, all’altro capo dell’Atlantico per riprendere il controllo degli scogli delle Falkland-Malvinas muovendo guerra all’Argentina. Ancora oggi, non si può capire fino in fondo cosa rappresenti la missione Nato in Afghanistan per i britannici, senza pensare che la Gran Bretagna già nell’Ottocento aveva 42mila truppe a combattere a Kabul, e non a caso un recente e popolare film di guerra inglese si intitola Ritorno a Kandahar. Tale retaggio persiste solidamente anche nella popolazione britannica. L’11 novembre, celebrazione dell’armistizio della Grande Guerra diventato Remembrance Day per tutti i caduti britannici, tutto il paese si ferma per osservare due minuti di silenzio: è davvero impressionante vedere la folla di Trafalgar Square rimanere immobile e silenziosa, a prescindere da età, razza e religione, con al petto il papavero rosso simbolo del Remembrance Day. Un giorno della memoria che non è solo inglese, ma anche dei paesi che facevano

Londinese, classe 1966, David Cameron, almeno secondo gli analisti politici, rappresenta il futuro dell’Inghilterra. Nel 1997, con la sconfitta di John Major e l’inizio dell’era Blair, era iniziata la lunga traversata nel deserto per i Tories. Un partito ancora orfano di Margaret Thatcher, che non aveva più un’identità e an-

parte dell’Impero britannico e ora sono membri del Commonwealth: nella settimana precedente l’11 novembre, l’ambasciata del Canada proietta sulla facciata della sua sede londinese i nomi dei 60mila canadesi morti durante la Grande Guerra “nel nome dell’Impero”. La Gran Bretagna è infatti anche l’unico paese colonialista ad aver gestito il disimpegno dall’impero in


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David Cameron e il nuovo partito conservatore naspava in una stagnazione ideologica e culturale mai vista prima. Solo nel 2005 (e dopo tre leader incolori) qualcosa è cambiato. L’arrivo di David Cameron è stato decisivo nel difficile processo di rilancio del Partito conservatore. Innanzitutto c’era da svecchiare la classe dirigente, con l’innesto di personaggi nuovi e portatori di istanze più in linea con il presente. La conseguenza ovvia è stato il riposizionamento dei Tories sulle grandi questioni interne e internazionali, arrivando a toccare temi tradizionalmente lontani dalle sensibilità conservatrici d’Oltremanica. Diritti civili e ambiente, soprattutto, ma più in generale un intero sistema di valori che erano rimasti troppo legati a dinamiche novecentesche, connotate ideologicamente e figlie della Guerra Fredda. La svolta di Cameron non è stata certo una passeggiata, e da più parti è arrivata la critica di inseguire i laburisti sul loro terreno, perdendo di vista i punti di riferimento del centrodestra inglese. Il soprannome “Tory Blair” affibbiatogli dalla stampa ne è la prova più evidente. Ma dopo quattro anni di svolte, prese di posizioni inedite e quasi rivoluzionarie, di scontri interni e qualche gaffe, oggi David Cameron sta per raccogliere i frutti. Il New Labour, esaurita la spinta del blairi-

smo e sofferente nella scialba era di Gordon Brown, è in una crisi di consensi e di idee senza precedenti. Come se non bastasse, poi, è arrivata la crisi economica a convincere ancora di più gli inglesi che forse è giunto il momento di cambiare. Anche a livello internazionale il clima sembra essere più propizio. In Europa avanzano di gran carriera la cosidette “nuove destre”: Sarkozy in Francia, il tandem Merkel-Westerwelle in Germania, Fini in Italia. Il conservatorismo accoglie alcune fondamentali istanze liberali e le fa proprie, creando un nuovo modo di intendere la destra nel nostro Continente. Cameron può essere annoverato a buon diritto tra i campioni della nuova destra anche se a Downing Street non c’è ancora arrivato. Ma le elezioni si avvicinano e, stante la situazione attuale, c’è davvero solo una remota possibilità che i laburisti riescano a colmare il gap evidenziato da decine di sondaggi negli ultimi mesi. Se e quando David Cameron riuscirà a riportare i conservatori al governo, allora dovrà dimostrare la validità della svolta, le vere potenzialità di una rivoluzione conservatrice che ha portato al centrodestra inglese una linfa mai più vista dalla fine dell’era Thatcher.

modo da mantenere solidi e cooperativi rapporti con gran parte delle sue ex colonie. Basti pensare che la Regina è simbolicamente ancora il capo di stato di Canada e Australia, oppure che Londra è un punto di riferimento per la middle class indiana come rappresentato anche, in modo banale ma significativo, dai film indiani di Bollywood che, ad esempio The Millionarie, hanno

spesso un lieto fine a Victoria Station. Non a caso, quando il prestigioso International Institute of strategic studies nel 2009 ha presentato il Military balance, la bibbia per gli studiosi internazionali di sicurezza e difesa, alla conferenza stampa le domande riguardavano gli sviluppi a Kabul e Baghdad, Islamabad e New Delhi, Washington e Il Cairo. Tutte capitali di ex domi-

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nions britannici, mentre è stata completamente ignorata l’Europa. Uno degli effetti collaterali di questo diffuso atteggiamento mentale è infatti la scarsa conoscenza, comprensione e considerazione per quello che accade appena Oltremanica. Per esempio, all’indomani della candidatura di D’Alema per l’incarico di Alto rappresentante per la politica estera Ue da parte del Partito socialista europeo, e del ritiro di Miliband, il Times dedicava tre articoli all’argomento senza mai nominare, neanche di sfuggita, il nome di D’Alema. Se la tradizione ha un grande peso nella società britannica, al tempo stesso questa società sta cambiando, ponendo l’identità nazionale in transizione se non in crisi. Il cambiamento comprende la crescente opposizione ad una politica estera interventista, lo sfumare della memoria imperiale dovuto al passaggio generazionale, e soprattutto le tendenze centrifughe emerse nella società multietnica e multiculturale. Uno dei temi più scottanti oggi è quello dell’immigrazione, vista come concausa della crescente microcriminalità cittadina, della difficoltà dei cittadini britannici di accedere alle case popolari e agli altri servizi sociali, della disoccupazione degli strati più bassi della popolazione. Inoltre, maggiore immigrazione dai paesi islamici implica potenzialmente maggiore infiltrazione di terroristi, una minaccia particolarmente sentita alla luce degli attentati di Londra del 2005. Il forte disagio

sociale frutto di anni di politica della porta aperta agli immigrati ha spinto il governo Brown a fare retromarcia sulla tradizionale posizione laburista, riducendo drasticamente i visti di ingresso a disposizione per gli immigrati extracomunitari e adottando una legislazione più restrittiva sulla naturalizzazione degli immigrati residenti in Gran Bretagna. Londra scopre di trovarsi a disagio con l’attuale eccesso di multiculturalismo, e molto più vicina alla situazione dei paesi europei alle prese con i problemi sociali causati dall’immigrazione. Un tema che gioca un ruolo importante nella campagna elettorale per le elezioni politiche di maggio 2010. La proposta Tory Alla fine del 2009 i conservatori attestati intorno al 40% dei consensi godevano di 10-12 punti di vantaggio sui laburisti, consensi che se confermati dalle urne si tradurrebbero in una solida maggioranza parlamentare. Un futuro governo Tory non potrà certo arrestare i trend geopolitici o economici mondiali alla radice della crisi-transizione britannica, ma ci si aspetta che aggiusti la rotta di alcune politiche alla luce della nuova piattaforma elaborata sotto la guida di Cameron. Ad esempio, in campo economico i conservatori hanno mantenuto l’avversione per il big government, ma piuttosto che un ritorno al laissez-faire tradizionale propongono di usare lo Stato come strumento per costruire una big


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society, basata sull’uguaglianza delle opportunità e la responsabilizzazione degli individui, al fine di promuovere più efficacemente coesione e sviluppo sociale. Aldilà delle misure concrete, si tratta di un interessante tentativo di dare un significato di destra alla parola social e di non lasciarla monopolio dei laburisti. Quanto alla politica estera, la tradizionale continuità britannica con il governo uscente questa volta comprenderà anche l’accettazione del Trattato di Lisbona: i Tories avevano infatti votato contro la sua ratifica, ma ora che è entrato in vigore, Cameron ha annunciato che non ricorrerà al referendum per abrogarlo. Il pragmatismo conservatore ha quindi preso atto della nuova realtà geopolitica europea e dell’opportunità di pesare in Europa attraverso le nuove istituzioni disegnate a Lisbona, a costo di scoprire il proprio fianco destro di fronte all’opinione pubblica euroscettica. Sull’immigrazione, i conservatori mantengono posizioni più in linea con la maggioranza dell’elettorato rispetto a quelle dei laburisti, e non intendono continuare con la politica della porta aperta. Infine, la principale novità della piattaforma Tory è l’importanza attribuita alla lotta al riscaldamento climatico, e in generale alle tematiche ambientali che con Cameron sono entrate a pieno titolo nella cultura conservatrice. I Tories hanno presentato un disegno di legge per fissare riduzioni legalmente vincolanti delle emissioni di gas serra,

mentre Cameron ha proposto una cooperazione governo-industrie sul risparmio energetico e le energie rinnovabili, e soprattutto ha promesso che il suo futuro governo sosterrà i consumatori britannici nell’adottare un “consumo sostenibile” per realizzare una green consumer revolution”. Quanto incideranno le politiche di un eventuale governo conservatore sulla situazione britannica, e quanto la Gran Bretagna riuscirà a trovare in sé le risposte alla multiforme crisi che sta attraversando, è per ora difficile da prevedere. Di certo, quella che per Newsweek negli anni Novanta era la Gran Bretagna cool, cioè all’avanguardia, oggi è la Gran Bretagna shrinking, cioè in declino. Tuttavia, dare per irreversibile una crisi di questo paese vuol dire commettere lo stesso errore che tanti suoi avversari hanno pagato a caro prezzo negli ultimi sette secoli.

l’autore ALESSANDRO MARRONE Master in Relazioni Internazionali presso la London School of economics and political science. È ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma nell’area di ricerca Sicurezza&Difesa. Collabora con diversi magazine e webmagazine italiani, inclusi AffarInternazionali, Aspenia Online, L’Occidentale e Risk.

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Innovazione, imprese e ricerca per rilanciare il Sistema Italia

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l settore imprenditoriale italiano sta attraversando una profonda crisi strutturale. Le aziende devono agire con decisione e dinamismo, con il supporto indispensabile del sistema-paese, per non essere tagliate fuori dalle sfide del futuro. L’impresa non può crescere e svilupparsi senza aver chiari e definiti i contorni all’interno dei quali opera. È fondamentale sapere quali siano gli altri attori e quanto possano pesare le loro decisioni, il loro dinamismo o immobilismo nello sviluppo delle imprese e dei relativi progetti e iniziative. L’analisi obiettiva e la relativa diagnosi che un imprenditore oggi può stilare, si sintetizza nell’affermazione che il nostro è un “paese malato”. Che l’Italia versi in gravi condizioni come altri paesi occidentali è davvero una magra consolazione. Non è una patologia improvvisa e fulminante, ma cronica. Nei decenni si è andata acuendo e l’aggravante è che c’è davvero poco tempo per stroncarla visto che tra

l’altro è molto contagiosa. Tende a diffondersi soprattutto tra i giovani che, ignari, rischiano seriamente, e inconsapevolmente, il contagio. Si prepara per molti di loro una vita senza reali prospettive di poter realizzare i propri sogni e valorizzare al meglio le proprie qualità e capacità. Cervelli all’ammasso in nome di una tranquilla vita preordinata. Il mondo globale che si va consolidando prevede invece imprese, manager giovani, liberi, dinamici e creativi, pronti a mettersi in gioco sempre. Qual è il nome scientifico di questa patologia? Siccome non è stata ancora completamente isolata useremo al momento un nome composto in attesa di quello definitivo: inconsapevolezza/inerzia/demotivazione.


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Quali sono gli elementi portanti di un paese civile? La democrazia che si attua attraverso la politica. Questa fino ad oggi non ha svolto la sua funzione principale, non ha fornito risposte bilanciate penalizzando, se non intralciando, chi vuole intraprendere. L’Impresa che è l’unico vero motore d’innovazione e di sviluppo capace di generare lavoro e ricchezza per tutti. La scuola e l’uni-

versità capaci di alimentare (in stretto rapporto con l’impresa) quel dinamismo visionario e sognatore, linfa vitale per un paese competitivo. Le banche ed il mondo della finanza che pur conoscendo il meccanismo virtuoso che ha come perno l’impresa, se ne stanno ben rintanate e protette. Infine la macchina pubblica che dovrebbe supportare, assecondare, facilitare il movimento


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degli ingranaggi di un paese offren- pi, di uomini orgogliosi, determido risposte e servizi rapidi ed effi- nati, appassionati, propositivi, atticienti ai cittadini ed alle imprese. vi, concreti. È evidente come chi Dei cinque punti sinteticamente ana- nuota contro corrente e vuole camlizzati quale ambito si distingue e si biare, diventa il bersaglio di tutto differenzia in positivo più degli altri? quel mondo che, nei fatti, non ha Uno soltanto: quello delle imprese nessuna intenzione di mettersi in (in particolare quelle piccole e me- gioco insieme ai suoi privilegi. Andie): con tutte le carenze, le man- zi, vuole assolutamente conservare canze, le patologie anche gravi che lo status quo, anche perché aprenin qualche caso le riguardano, le im- dosi ad un confronto sarebbe imprese sono le uniche in tempi diffici- mediatamente spazzato via dai lissimi come questi, ad essersi distin- fatti reali e concreti. te, resistendo a vantaggio di tutto il Se andiamo a guardare dentro i palazzi che ammipaese anche in sostinistrano la cosa ed tuzione dei numerosi La crisi del settore il denaro pubblico, assenti ingiustificati. è aggravata da sprechi, scopriamo che esiLa disponibilità ad stono sprechi e priagire e a rischiare è privilegi e favori. vilegi, favori e tapropria di chi ha E la burocrazia italiana glieggiamenti. Non una visione, un sopossiamo nascongno, un obiettivo da è lenta e inefficiente dere la testa sotto raggiungere e per questo è pronto a mettersi completa- la sabbia, se la burocrazia è lenta, mente in gioco con passione e de- anzi lentissima ed inefficiente, l’alibi terminazione. Le azioni e strategie è perfetto! conseguenti devono avvenire in tem- Se andiamo a guardare come certe pi rapidi, ben chiari e definiti. Oggi Pubbliche amministrazioni abbiano è indispensabile agire con decisio- tutelato, aiutato ed anzi protetto cerne e dinamismo, essere accompa- ti sistemi anche imprenditoriali, cagnati dal sistema paese per non es- piamo bene le ragioni dell’inefficienza ed inefficacia della spesa sere tagliati fuori. Osservando obiettivamente le azio- pubblica e le inadeguate risposte in ni messe in atto dal mondo politico infrastrutture e servizi. Allo stesso e istituzionale, bancario, imprendito- tempo risulta evidente come certe riale, scolastico e universitario e dei imprese, gruppi o lobby non invepubblici servizi, non è difficile indivi- stano in innovazione e ricerca, conduare chi stia davvero impegnando- vinti che il loro orticello, campo o vallata dop (con prodotti e servizi si ora per un futuro credibile. Per fortuna in ogni settore determi- “protetti”), sia l’unico a garantire in nante ci sono basi solide con pre- sicurezza le loro attività per il futuro. senza di organizzazioni, di grup- Per competere con la mentalità ade-


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guata nel mercato globale è neces- messa in sicurezza e valorizzazione sario riferirsi al merito, alla qualità, dei patrimoni. In particolare di quelalle capacità, all’innovazione e li abitativi (che rappresentano non non agli inciuci ed agli accordi sot- solo la ricchezza dei cittadini, ma tobanco che appena oltre confine e anche quella delle imprese come ad un primo confronto con altri gestori, manutentori e valorizzatori), competitors, non avrebbero senz’al- quelli infrastrutturali (che da un lato tro alcuna possibilità di successo. rappresentano il sistema arterioso Dunque cambiamento, rapido e indispensabile ad un paese moderprofondo basato sulle imprese. In no ed efficiente e dall’altro oggetto particolare quelle sane, etiche, lun- di innovazione e di business delle gimirante posizionate in prima linea imprese), ed infine quelli storico-artie pronte a competere a livello glo- stico-monumentali (che da soli costibale. Un forte e deciso sostegno tuiscono in assoluto la più grande del sistema a proricchezza ed opporgetti e iniziative imtunità per il nostro L’Italia ha miniere prenditoriali sul piapaese) come camaurifere uniche al no nazionale ed inpo di innovazione ternazionale contritecnologica e fonte mondo poco sfruttate buirà alla crescita la creazione di e sulle quali le imprese per economica, sociale nuove professionalisono pronte a investire tà e posti di lavoro. e civile dell’Italia. Il nostro paese ha Il know how é mateminiere aurifere uniche al mondo ria leggera si può trasferire anche quasi per niente sfruttate da cui si po- utilizzando l’Ict ad altri paesi ovuntrebbe estrarre in tempi brevi oro non que nel mondo ed il suo valore aga 24 ma a 48 carati, e sulle quali le giunto è elevatissimo, garantendo imprese sono pronte ad investire se allo stesso tempo grandi opportuniadeguatamente supportate dal siste- tà di lavoro. ma nel suo insieme. Esistono alcuni Analizziamo con delle tabelle la settori primari in cui il nostro paese portata dimensionale e le enormi eccelle, in cui il valore aggiunto è opportunità che possono generare rappresentato da know-how unico questi settori. ed originale. Mi limiterò ad analiz- Il net work “The Fi rst Brick” zare un filone, un giacimento straor- (www.thefirstbrick.it) che opera fin dinario, di enormi dimensioni di cui dal 1993 come sistema integrato, mi occupo da oltre 25 anni: la cono- può rappresentare un piccolo ma scenza, gestione e valorizzazione potente esempio a chiarimento di dei patrimoni edili, infrastrutturali e quanto descritto. storico- monumentali. Le società high-tech aderenti alla reSi tratta di attività e servizi innovati- te The First Brick (unitamente ai parvi finalizzati al controllo, protezione, tner nazionali ed internazionali)

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svolgono attività e forniscono servizi nel settore della conoscenza, gestione, manutenzione, protezione, messa in sicurezza e valorizzazione dei patrimoni edilizi, delle infrastrutture, dei beni storico-artistico-monumentali e delle opere d’arte. Numerosi brevetti riguardanti metodi, sistemi e tecnologie di protezione e difesa di strutture e persone, sono stati depositati negli ultimi cinque anni ed estesi in numerosi paesi del mondo. Queste nuove tecnologie nascono dalla ricerca di soluzioni innovative per la soluzione di problematiche ed esigenze di grande importanza ed attualità (eventi sismici e protezione di edifici sensibili, scoppi ed esplosioni di origine dolosa ed accidentale, esigenza di conoscenza/controllo qualità su opere di dimensioni e caratteristiche straordina-

rie). Lo sviluppo e la loro definizione applicativa passa attraverso analisi, ricerche, sperimentazioni, unici strumenti per realizzare sistemi innovativi. La ricerca e l’innovazione negli specifici settori di competenza, unitamente alle tecnologie informatiche, alla lingua inglese ed alla comunicazione verticale ed orizzontale, sono gli strumenti per la crescita qualitativa, dimensionale e globale delle singole società aderenti e del network The First Brick nel suo insieme. L’innovazione di processo e di prodotto, attraverso la ricerca e l’uso efficiente delle tecnologie digitali, rappresentano un percorso obbligato che offre reali prospettive di crescita di sviluppo delle imprese di ogni settore. Con il concorso virtuoso e concreto dei governi e delle


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istituzioni, enti, banche, università, giovani appassionati e determinati, esse rappresentano il motore strategico, economico e sociale e di un paese moderno. Insieme ai dipendenti e collaboratori, si possono costituire imbattibili armate necessarie per progettare e realizzare lo scavo delle miniere auree di un paese ed estrarre ricchezze uniche ed inesauribili. Posti di lavoro hightech per i giovani, know-how da vendere e trasferire al mondo, apertura ad un turismo culturale e ambientale globale già ben indirizzato verso l’Italia. Solo attraverso le imprese, la loro crescita, sviluppo e internazionalizzazione (senza delocalizzazione), si potrà uscire più rapidamente e positivamente dalla crisi e si garantirà un reale futuro al nostro paese.

La formazione di figure e competenze professionali altamente qualificate, detentrici di un know-how flessibile, dinamico e sempre in evoluzione, garantirà ai nostri giovani di tutte ed in tutte le regioni, prospettive coinvolgenti e motivanti unitamente a nuovi posti di lavoro (decine se non centinaia di migliaia), carichi di opportunità e di grandi stimoli. Credere in se stessi e nelle proprie imprese, strutturarsi per affrontare sfide più alte, attivare partnership strategico-finanziarie, passare all’azione con grande determinazione, superare confini fisici, mentali e culturali, sono azioni indubbiamente a carico di chi intraprende. Tutto questo però non basta, occorrono più attenzione e fiducia, più strumenti e risorse per le imprese e per chi innova, più squadra del paese Italia.

l’autore EMO AGNELONI Presidente e coordinatore del network The First Brick of global network technology.

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l sito archeologico più famoso al mondo fa i conti con decenni di difficoltà economiche e di gestione. In attesa di un rilancio necessario per uno dei posti più belli d’Italia.

POMPEI, ecco come cambia la gestione degli scavi


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Riuscirà il ministro Bondi a salvare Pompei? A liberare il sito archeologico più famoso al mondo – il più visitato in Italia dopo il trittico romano Colosseo-Foro-Palatino (nel 2008, più di 2,5 milioni di biglietti staccati nell’intera area vesuviana) – dal degrado che lo affligge da decenni? A dotarlo di servizi d’accoglienza e di didattica al passo coi tempi? A rendere pienamente accessibile tutta l’area scavata e restaurata, oggi ancora disseminata di transenne e divieti d’accesso? A promuovere lo sviluppo anche economico del territorio grazie a un’operazione vasta e meticolosa di salvaguardia e di valorizzazione delle domus, delle ville, dei giardini, delle terme, dei templi, delle pitture, degli stucchi e di tutti gli altri tesori, sepolti nell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., che la ricerca archeologica continua incessantemente a disvelare? Il compito è improbo, i precedenti più recenti non sono particolarmente incoraggianti. Ma l’offensiva scatenata da Bondi a partire dal luglio del 2008 ha già prodotto risultati incoraggianti. In effetti, Pompei è al centro del dibattito su un necessario e complessivo ripensamento delle politiche culturali italiane da almeno 10 anni: da quando Walter Veltroni, allora ministro dei Beni culturali e vice premier, la scelse come simbolo di una annunciata “rinascita culturale”. In virtù della legge 352/1997, a partire dal 1998 Pompei ha conquistato – sotto la guida di Pietro Giovanni Guzzo, ar-

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cheologo di fama mondiale – una Veltroni – gli sponsor privati non si piena autonomia scientifica, orga- sono mai materializzati, il city manizzativa, amministrativa e finanzia- nager non ha mai avuto una piena ria: che le avrebbe dovuto consenti- autorità sul personale, la sovrintenre di incrementare l’area visitabile denza e gli enti locali hanno contidella città antica, di migliorare i ser- nuato a litigare – ma dei risultati sivizi offerti a visitatori e turisti, di pro- gnificativi sì. Innanzitutto, è sensibilcedere speditamente nelle opera- mente aumentato il numero dei visizioni di manutenzione e restauro, di tatori (di circa il 25%) e sono più incentivare le attività di ricerca e di che raddoppiati gli introiti, tutti di valorizzazione – il tutto grazie all’in- diretta disponibilità per la sovrintentervento di sponsor privati, alla rior- denza compresi quelli derivanti dalganizzazione messa in atto da un le concessioni sui servizi aggiuntivi. city manager (il primo è stato il pro- Ha avuto un grande impulso l’attivifessor Giuseppe Gherpelli) incarica- tà del Centro di ricerche applicate to della gestione amministrativo- diretto da Annamaria Ciarallo, il vecontabile, a un livello ro motore della ridi consultazione forcerca scientifica Pompei è al centro malmente istituito tra nell’area vesuviadel dibattito sovrintendenza ed enna, che ha saputo ti locali. trasformare i risulsu un ripensamento Questa autonomia è dei molteplici delle politiche culturali tati stata pesantemente riprogetti per lo studa almeno 10 anni visitata, esattamente dio degli ambienti dopo dieci anni (col naturali del 79 dpr 233/2007 di riogranizzazione d.C. in iniziative di valorizzazione del ministero), da Francesco Rutelli: capaci di far rivivere l’antica Pomche ha deciso l’accorpamento delle pei: come nella rassegna Le stagiosovrintendenze per i beni archeolo- ni nell’antica Pompei, nel corso delgici di Pompei e di Napoli (com- la quale sono stati presentati al pubprendente anche i Campi Flegrei) in blico – con un tema diverso per una sovrintendenza speciale e ogni stagione – i cibi, i profumi e l’abolizione della figura del city ma- gli unguenti, i metodi del giardinagnager che viene sostituito da un gio, le tecniche di coltivazione delconsiglio di amministrazione più nu- la vite e di vinificazione dei romani. meroso e articolato. Tutto senza es- Grazie alla partnership con le unisersi preoccupato di promuovere versità o con soggetti privati – ad una valutazione – magari pubblica esempio, l’Antica erboristeria pom– dei risultati ottenuti dalla speri- peiana o l’azienda vinicola Mastromentazione veltroniana. Sperimen- berardino – sono stati anche realiztazione che non ha prodotto la rivo- zati e messi in vendita dei prodotti luzione ingenuamente promessa da che nascono dalle ricerche e dallo


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studio dei testi latini – cibi, profumi, giorno a Pompei (in Australia e unguenti, essenze arboree – e che Nuova Zelanda), Lawrence Almameritano di essere commercializzati Tadema e la nostalgia dell’antico, in modo stabile. Un lavoro, quello hanno sedotto centinaia di migliaia dell’équipe guidata dalla professo- di visitatori nei musei di tutto il monressa Ciarallo, che ha dato dei frutti do: che non solo hanno ammirato straordinari anche nel debellare – oggetti preziosi o interpretazioni arcon un sistema naturale, non inqui- tistiche, ma hanno potuto rivivere nante – le piante infestanti che fino porzioni di vita antica ricostruite in a 10 anni fa coprivano buona par- modo accattivante. Oltre alle mote degli scavi e nel ripantumare i stre, il professor Guzzo ha posto le giardini con le essenze originarie: basi per interventi più duraturi. In perché l’antica Pompei, nonostante primo luogo, ha promosso molteplii problemi evidenti, è diventata puli- ci campagne di scavo in collaborata e verde. Il miglior esempio della zione con università italiane e strarinascita avvenuta dalla metà degli niere sugli insedimenti preromani di anni Novanta è il cirPompei e di tutta cuito di visita extra Le mostre organizzate l’area vesuviana, moenia , inaugurato cui risultati sono all’estero hanno sedotto istati già nel 1998 in occapresentati dicentinaia di migliaia sione del 250esimo rettamente dalanniversario degli scadi spettatori nei musei l’ormai ex sovrinvi borbonici, che cotendente nel predi tutto il mondo steggia dall’alto per gevole testo Pompei. Storia e paetre chilometri gli scavi e offre scorci di estrema suggestione saggi della città antica (Electa, (il golfo, il Vesuvio, il santuario ma- 2007). In secondo luogo, ha ideariano, la città antica) oltre che pan- to un vero e proprio sistema museachine e un’area pic-nic, un vero e le che prevede la risistemazione del proprio giardino botanico ricco di vecchio antiquarium, la creazione specie arboree – il primo circuito di di un museo di introduzione agli visita alternativo a quelli tradizionali scavi basato sull’utilizzo delle nuove creato dalla sovrintendenza, che tecnologie digitali e con un’impostazione anche ludica (pensato per però è rimasto purtroppo l’unico. Sono state poi realizzate in Italia e i turisti, soprattutto stranieri, che soprattutto all’estero delle mostre di spesso conoscono poco e male la grande richiamo ma sempre scienti- storia romana), infine un grande muficamente impeccabili, su temi spes- seo da realizzarsi in un edificio so originali. Le mostre Homo faber, messo a disposizione dal Santuario Otium ludens, Rosso pompeiano, (a piazza Anfiteatro, appena alPompei e la villa romana. Arte e l’esterno del perimetro degli scavi) cultura nella baia di Napoli, Un per raccontare la storia del territorio

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dall’antichità remota fino a oggi, te virulenta e spesso ingenerosa nei degli scavi come impresa archeolo- confronti di Guzzo – l’ordinanza gica, di Pompei patrimonio del- 3692 dell’11 luglio parla di una l’umanità: con reperti, plastici, rico- “grave situazione di pericolo in atstruzioni virtuali, foto, video, mostre to”. La coabitazione con il prefetto temporanee sui vecchi e nuovi siti Profili, nominato con mandato annella lista del patrimonio dell’umani- nuale per affrontare l’emergenza tà dell’Unesco di cui Pompei fa par- prima nei siti vesuviani e poi su tutto te dal 1997. In terzo luogo, ha lavo- il territorio della sovrintendenza unirato all’istituzione di un centro di ec- ficata, è stata difficile soprattutto alcellenza con il compito di organiz- l’inizio, a tratti burrascosa. Poi i due zare master, corsi di specializzazio- hanno cercato e trovato una tregua ne e seminari in collaborazione con armata. Il commissario Profili e il l’Università Federico II di Napoli: suo agguerrito staff – dotati di poteper trasmettere le cori mai conferiti in noscenze acquisite passato né al soVerrà realizzato nel corso dei secoli vrintendente né al un grande museo city manager – nello scavo, nella hanno avuto il grangestione e nella vaper raccontare de merito non solo lorizzazione dei siti la storia del territorio di prendere di petto archeologici vesuviani e del Museo ardall’antichità ad oggi alcune situazioni fastidiose e incancrecheologico nazionale di Napoli. Sono state acquistate nite (la mancanza di servizi igienici le prime attrezzature, sono stati e di acqua potabile, i comportarealizzati studi che ne prefigurano menti poco professionali delle guiil funzionamento in attesa dei ne- de), ma anche di rendere immediacessari finanziamenti. Ma il profes- tamente operativi una serie di prosor Guzzo è andato in pensione a getti avviati da tempo dalla sovrinsettembre, il destino di queste ini- tendenza e mai realizzati per ragioziative solo abbozzate è quanto- ni burocratiche e finanziarie (il commissario, oltre che dei poteri speciamai incerto. Ed è stato proprio il suo ultimo anno li, dispone anche di un fondo di 40 di attività alla guida della sovrinten- milioni di euro prelevati dalla nordenza di Pompei, prima del pensio- male dotazione della sovrintendennamento, quello in cui la città ha za). Ha preparato la riapertura di vissuto momenti particolarmente tur- alcune domus restaurate ma rimaste bolenti. Prima la (contro)riforma di per lungo tempo chiuse per carenze Rutelli, poi il commissariamento de- di personale; ha curato lo sgombro ciso dal ministro Bondi nel luglio del’ex gestore moroso dal ristorante 2008, sollecitato da una campa- self service degli scavi; ha proposto gna di stampa estiva particolarmen- una sistemazione alternativa per le


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bancarelle che circondano illegalmente l’area archeologica; ha lanciato l’idea di un biglietto valido due giorni per incentivare i turisti a passare almeno una notte negli alberghi di Pompei; ha preparato un piano di interventi strutturali, di comune intesa col sovrintendente Guz-

zo, che include la costruzione dei nuovi depositi archeologici presso Porta Nola (lo stanziamento previsto per questa opera è di 5 milioni di euro); ha ideato la realizzazione di chioschi all’interno degli scavi per attività commerciali di qualità (oltre a prodotti editoriali, anche coralli e


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La storia della civitas pompeia

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Pompei fu fondata dagli Oschi, uno dei primi popoli italici, verso la fine dell’ VIII e all’inizio del IX secolo a. C. ; fu assoggettata poi dai greci in seguito fu sotto il dominio del popolo etrusco; e verso la fine del V secolo a. C. fu dominata da un noto popolo italico, i sanniti; mentre a partire dall’80 a. C. la civitas pompeia divenne una colonia dei romani, i quali arricchirono Pompei con edifici simili a quelli presenti nel loro territorio.Tutti i popoli che sono stati sopra menzionati furono attratti dalla città di Pompei per la sua strategica posizione geografica; essa era posta alle pendici del Vesuvio, aveva fertili terre vicine alla costa, e non essendo lontana dal mare e dalla foce del fiume Sarno, favorì un immenso sviluppo non solo agricolo, ma anche culturale e commerciale,

oreficeria). Ques’ultima iniziativa ha però generato dubbi e malumori e Profili è stato sostituito, anche per ragioni di salute (è scomparso nei mesi scorsi), prima della scadenza del suo mandato. A sostituirlo è stato chiamato Marcello Fiori, un alto dirigente della Protezione civile, che ha dato rinnovato vigore alle iniziative di Profili e ne ha assunte delle nuove anche grazie ai poteri più incisivi di cui dispone in base all’ordinanza 3793/2009, che proroga il commissariamento al giugno 2010. A differenza di quanto accaduto per Profili, poi, Fiori ha nella nuova sovrintendente Mariarosaria Salvatore non un’avversaria ma un’alleata, che ha trovato nel commissario una figura in grado di renderle più sem-

esportando per il Mediterraneo il buon vino e ottimo olio. Infatti Pompei si trova in Campania, regione chiamata dagli antichi romani Campania Felix. Amante delle terre campane fu il grande poeta Publio Virgilio Marone (70 a. C. – 19 a. C.), il quale apprezzò notevolmente i giardini, la coltivazione delle vite e dell’ulivo, mentre Plinio il Vecchio (23 d. C. – 79 d. C.), lodò i campi del Vesuvio e quelli di Sorrento. Va precisato dunque che, durante l’era imperiale, Pompei e tutte le zone circostanti ad essa, rappresentarono per i romani una zona si cui insediarsi, sia per farne una meta per le loro vacanze e sia per sfruttare l’attività vinicola e le aziende agricole. Nell’area vesuviana furono costruite acque termali, ville rustiche su luminosi colli, e le cosiddette

plice il lavoro, più incisiva e produttiva l’attività di tutela, di ricerca, di valorizzazione. Fiori è un uomo d’azione. Non pensa a battere cassa, a sollecitare fondi, a protestare per l’esiguità del personale di custodia di cui la sovrintendenza dispone. Agisce, cerca di risolvere i molti problemi di Pompei sfruttando al massimo, in modo razionale e strategicamente orientato, le risorse a disposizione (33 i milioni di euro già impegnati), in base alle priorità e alle urgenze: anche perché è solo sulla base dei risultati ottenuti che vuole essere giudicato. I filoni d’intervento che ci ha illustrato il commissario Fiori sono essenzialmente quattro. In primo luogo, come punto necessario di partenza, un piano organico di messa in sicu-


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ville extraurbane, appartenenti a famiglie agiate che cercavano fuori dal caos dei centri più grandi, al mare o in campagna, un’oasi di pace. Pompei era considerata dallo scrittore latino Giunio Moderato Columella come una “dolce palude, vicina alle saline di Ercolano”. Pompei assieme ai Campi Flegrei, Ischia, Sorrento, Cuma, Boscoreale, Ercolano, Nola, Nocera, Acerra, erano state viste già dalla civiltà greca come paesaggi affascinanti, preziosi per i loro campi così fertili. Nel 27 a. C. sotto il potere di Augusto, ha inizio per Pompei una fase di progressiva romanizzazione della vita quotidiana. I nobili, i potenti e le famiglie patrizie pompeiane, divulgando la cultura e lo sfarzo romano introducono modelli architettonici e artistici dell’Impero augusteo. Nel 62 d.C. sulla città di Neapolis, si abbatté un pesante terremoto il quale colpì duramente anche la civitas pompeia, ma il danno mag-

giore si ebbe la notte del 24 agosto del 79 d.C., quando durante l’eruzione del Vesuvio furono distrutte Ercolano, Stabia e la medesima Pompei. Queste città furono interamente sepolte da un diluvio di lapilli, dalle ceneri e dalle molte scorie incandescenti. Si ricorda che durante quella tragedia perse la vita un noto scienziato naturalista latino, vissuto sotto l’età dei Flavi, Plinio il Vecchio, comandante della flotta del Miseno, il quale non solo si impegnò nel soccorrere le popolazioni colpite dal cataclisma ma voleva anche soddisfare la sua curiosità scientifica osservando da vicino il fenomeno della vulcanologia, un fenomeno che da sempre lo aveva affascinato e che fu letale per lo scrittore/scienziato in quanto morì asfissiato da una forte nebbia di vapore. A narrarci la morte del Vecchio Plinio fu suo nipote Plinio il Giovane (62 d. C. – 113 d. C.).

rezza di tutta l’area archeologica, dalla manutenzione e dai restauri (sulla base del piano triennale approntato da Profili e Guzzo) al potenziamento dell’impianto di videosorveglianza. L’apertura al pubblico del cantiere della Casa dei casti amanti, a febbraio, è ad esempio un segnale molto positivo. In secondo luogo, il superamento rapido delle inadempienze più eclatanti del passato: l’avvenuta riapertura del ristorante self service all’interno degli scavi, affidato alla società Autogrill che lo gestisce con apprezzabile professionalità (ma sarebbe preferibile un allestimento degli interni più adatto a un luogo di cultura che a un’autostrada); la redazione di un piano di gestione dell’area, come richiesto dall’Unesco

per ogni sito sulla lista del Patrimonio dell’umanità, con la collaborazione dell’Agenzia locale di sviluppo Tess - Costa del Vesuvio; persino un progetto – (C)Ave Canem, mediaticamente accattivante ma anche concretamente operativo – che affida alle associazioni animaliste la cura dei cani randagi che vivono negli scavi e che potranno essere adottati formalmente da visitatori pronti ad accoglierli. In terzo luogo, la realizzazione di servizi essenziali per rendere la visita più gradevole, anche per l’arredo urbano e la segnaletica (innovativa quando venne introdotta 10 anni fa, ma ormai inadeguata), in attesa del bando di gara per un nuovo affidamento della gestione dei servizi aggiuntivi (biglietteria, libreria, audioguide, guar-

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daroba, deposito bagagli). Infine, una strategia piuttosto incisiva di valorizzazione per rendere Pompei un modello di sviluppo del territorio: iniziative per le scuole, con programmi didattici innovativi che ricostruiscono, con l’ausilio anche di attori, la vita i all’interno della città antica; l’incentivazione del turismo enogastronomico, coi prodotti delle aree demaniali e la creazione di una delle sedi locali, all’interno degli scavi, dell’enoteca regionale; un sistema di illuminazione per permettere le visite notturne nel corso di tutto l’anno e non solo d’estate; un accordo triennale col San Carlo per delle stagioni concertistiche di alto profilo nel Teatro Grande. L’obiettivo è di poter proporre ai tour operator dei pacchetti altamente innovativi e differenziati, per tutte le esigenze e tutte le tasche. Sempre a partire da un dialogo franco e serrato con le istituzioni – Regione, sindaci, vescovo – e con gli imprenditori locali: anche se la proposta del Commissario di creare un passaggio diretto dal santuario agli scavi – proprio in mancanza di una preventiva consultazione – ha suscitato polemiche e recriminazioni. La sovrintendente Salvatore, già responsabile dei beni archeologici dell’Umbria e con un’esperienza ministeriale alla guida dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, Fiori lo ha trovato già a Pompei, quando si è insediata il 1° settembre 2009. Reputa l’istituto del commissario uno strumento prezioso: e i due procedono di comune

accordo, con Fiori che assicura una maggior presenza fisica negli scavi e la Salvatore che si preoccupa soprattutto della riorganizzazione della sovrintendenza di Napoli e Pompei. Unite solo sulla carta, le due sovrintendenze sono rimaste invece separate: e ogni provvedimento della sovrintendente unica viene accolto dalle vibrate e vocianti proteste dei sindacati, non sempre giustificate. Perché l’idea di fondo è quella di creare un sistema confederale, due sistemi distinti ai quali non si deve imporre un modello amministrativo unico da seguire, ma che devono imparare l’uno dall’altro, devono apprendere tutto ciò che c’è di valido nell’uno e nell’altro sistema – anche se, per i dipendenti che hanno vissuto la sperimentazione dell’autonomia a Pompei, il timore è di un ritorno al passato, di una totale cancellazione degli ottimi risultati ottenuti. Le priorità di Mariarosaria Salvatore sono molto concrete, non rivoluzionarie ma comunque in profondità e di lungo respiro. Innanzitutto, rendere fruibile l’esistente attraverso la manutenzione programmata prima ancora che con i restauri delle eccellenze: e a Pompei ciò significa agire a salvaguardia delle zone bombardate durante la Seconda guerra mondiale, di quelle interessate da frane, da quelle danneggiate dal terremoto del 1980. Ma poi c’è la valorizzazione. E l’idea è quella di creare, al di là dei singoli eventi o delle mostre, tre sistemi integrati in stretta relazione tra di loro:


BENI CULTURALI

quello dei Campi Flegrei con il museo archeologico del Castello di Baia come fulcro (nella speranza che il ministero e la Regione Campania trovino la formula più adeguata per assicurarne la riapertura), che dà un inquadramento generale sulla storia del territorio e al quale, nelle intenzioni della Salvatore, va assolutamente aggiunta una sezione di vulcanologia (di spazio nel castello aragonese che domina il golfo di Pozzuoli ce n’è in abbondanza); quello di Napoli, incentrato sui reperti del museo archeologico nazionale che – anche se a rilento e tra mille problemi – presenta un’offerta espositiva sempre più ricca e curata con l’apertura della sezione dedicata alla pittura pompeiana e il nuovo allestimento della Collezione Farnese, in attesa di servizi per i visitatori di livello almeno dignitoso; quello di tutta l’area vesuviana di cui Pompei è l’ovvio riferimento, che avrà nell’antiquarium di prossima riapertura un’introduzione storica arricchita anche dal ricchissimo materiale fotografico che documenta le attività di scavo sin dalla fine dell’Ottocento e oggi rimane invisibile negli archivi. Inoltre, nelle intenzioni della sovrintendente, che dovrebbe però rimanere in carica prima del pensionamento solo fino a giugno 2010 (che è anche la data di scadenza del mandato del commissario Fiori), occorre razionalizzare i rapporti con le università e i centri di ricerca attivi a Pompei e negli altri siti archeologici: da una parte programmando meglio le

campagne di scavo, con una cabina di regia che sappia coordinarle; dall’altra chiedendo a chi scava un contributo fattivo (e non solo monetario) nelle incessanti operazioni di manutenzione e restauro. Ma come per Fiori, anche per Mariarosaria Salvatore la chiave per risolvere i problemi di Pompei e rilanciarla come luogo di cultura e meta ambita del turismo mondiale è da trovare nei rapporti tra le istituzioni, con l’apporto anche dei privati. In attesa di capire cosa accadrà dopo giugno 2010, quando il ministro Bondi e il direttore generale per la valorizazione Mario Resca saranno chiamati a valutare l’esperienza del commissariamento, a intervenire per dare continuità e stabilità giuridica alle innovazioni del commissario che avranno dato risultati apprezzabili, a trovare un nuovo sovrintendente in grado di proseguire con una strategia di lungo periodo il lavoro di Guzzo e della Salvatore, di Profili e di Fiori.

l’autore GIUSEPPE MANCINI Esperto di relazioni internazionali, giornalista e storico, dottorando di ricerca dell'Istituto italiano di Scienze umane con uno studio sulla politica estera di Francia e Italia negli Anni '50 e '60.

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Il malessere sotto

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Profondamente radicato nella coscienza della sua diversità, il Giappone ha vissuto in maniera destabilizzante l’apertura e il confronto con “l’altro”. Di questo male di vivere derivato dalla perdità di identità di un popolo tradizionalista, è intrisa la nuova letteratura nipponica. Che non per questo, però, deprime e angoscia, ma anzi descrive con delicatezza vite ricche di cultura. La letteratura che un paese produce è sicuramente lo specchio migliore per metterne in luce e osservarne le particolarità, il modo di vivere e di pensare. La produzione letteraria giapponese rispecchia usi e costumi della sua gente, ne riflette abitudini e atteggiamenti. Nelle pagine dei suoi scrittori le caratteristiche di questo popolo, il suo modo di comportarsi, le sue relazioni con l’Occidente e con le sue stesse tradizioni vengono fuori in modo chiaro e preciso, aiutandoci a capire molto del modo di vivere dei giapponesi. Il Giappone è un paese dall’identità culturale molto forte che possiamo definire, in termini più specifici,

particolaristico cioè ossessionato dall’unicità della propria cultura che si costituisce con un’opposizione netta con l’Occidente. I processi di globalizzazione e quindi di apertura del Giappone verso “l’altro”, hanno creato una sorta di destabilizzazione culturale, di crisi identitaria di un mondo quale quello nipponico che ha tratto sempre la propria forza dall’esaltazione della propria diversità. Gli anni della guerra mondiale, la catastrofe causata dal lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e la successiva occupazione americana, possono essere considerati l’input al cambiamento che ha prodotto in Giappone pro-


LETTERATURA

i ciliegi in fiore


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fonde trasformazioni socioculturali. Il chio di un mondo giovanile che ha termine modan (modern) appare scoperto già prima della cosiddetta sempre più frequentemente su quoti- “bolla economica”, il piacere del diani e riviste per descrivere il nuovo consumo, del possedere e desiderastile di vita e la nuova emergente re ancora altro. I più sensibili a quecultura, entrambi legati all’ambiente sto nuovo fenomeno sono i giovani, metropolitano, che si accompagna- che nei simboli culturali cercano anno al processo di ricostruzione. L’av- che dei modelli di identificazione e vicinamento del Giappone all’Occi- omologazione: il libro diventa un dente diventa sempre più forte e qualcosa che serve a pensarsi e iml’Occidente impara sempre di più a maginarsi. Quasi simile a cristallo conoscere un paese che per troppo ha un’influenza innegabile sulla lettempo era rimasto chiuso, estraneo teratura immediatamente successiva ai cambiamenti del mondo. Testi- quale quella di Banana Yoshimoto, mone di questa evoluzione culturale Haruki Murakami e Ryu Murakami. I nuovi scrittori sono è l’attuale divulgaziotrentenni che scrine della letteratura La narrativa giapponese vono per i giovani contemporanea, dei manga, degli anime contemporanea è cupa, di vent’anni, quache ha diffuso una come fossero triste, intrisa di angosce sifratelli nuova immagine del maggiori. e rispecchia un male Giappone nel resto Curano la propria del mondo. immagine e didi vivere latente La generazione creventano persosciuta durante il boom naggi pubblici, economico iniziato negli anni Ses- opinionisti, diventano aidoru, idoli. santa, aveva goduto di un benesse- La letteratura contemporanea giapre fino ad allora inimmaginabile: il ponese è spesso cupa, triste, velata paese che solo pochi anni prima, di nostalgia, intrisa di angosce, con all’indomani della fine della guerra, pagine scure. Il suicidio e la depressi era risvegliato per scoprire che sione sono sovente degli elementi dell’ambizioso sogno imperialista chiave dei romanzi giapponesi, che era rimasto solo un cumulo di mace- rispecchiano un certo male di viverie, aveva saputo gettare le basi per re, latente nella società nipponica. la costruzione di un solido potere Mal di vivere che probabilmente è economico; e la prostrazione mora- stato causato dalla perdita d’identile e materiale era stata spazzata tà di un popolo eccessivamente travia dall’euforia consumistica. Tutto dizionalista. questo si rispecchia nel romanzo di Ma non per questo la letteratura Tanaka Yasuo, Quasi simile a cri- giapponese deprime e angoscia: le stallo (1981) che è diventato presto pagine magnificamente scritte dai un best seller. Il romanzo è lo spec- suoi autori ci disegnano davanti


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mondi intrisi di tradizione, vite ric- momento di massima espansione che impregnate di cultura giappo- ed euforia dell’economia giapponese. nese, l’istante che precede l’esploAlcuni critici hanno definito la lette- sione della grande bolla. Il sentiratura di Banana Yoshimoto come mento che domina questo come i la vacuità del presente, evidenzian- successivi racconti e romanzi della do il senso di vuoto ideologico ed scrittrice, è la nostalgia, che spesso esistenziale che percorre la vita dei si traduce in una sensibilità esasperagazzi cresciuti negli anni del bo- rata per il banale, il quotidiano, siaom economico. Il vuoto nasce dalla no essi oggetti o momenti. I persoconsapevolezza postmoderna del- naggi di Yoshimoto sembrano riml’impossibilità di cogliere il lato pro- piangere il presente stesso, proprio fondo delle cose. Fermarsi al super- perché il processo di crescita non ficiale è la risposta dei giovani alla porta il segno positivo della maturivecchia generazione. tà, quanto quello della perdita, di La pubblicazione di purezza, innoKitchin (Kitchen) nel cenza, e della In Banana Yoshimoto 1988 rappresenta un solitudine dell’invero e proprio caso letdividuo che non i personaggi vivono terario: circa sei miliosi riconosce più la crescita non come ni di copie vendute socon il mondo che maturità, ma come lo in Giappone, ponlo circonda. I progono la critica di tagonisti dei suoi perdita dell’innocenza fronte alla necessità di ro m a n z i s o n o riconoscere il valore di quasi sempre gioquesto nuovo filone letterario defini- vanissimi che mantengono ancora to “generazionale”. Il mondo di Kit- alcune caratteristiche tipicamente chin è quello dell’adolescenza, inte- fanciullesche con cui regolano i rapsa come fase di transizione durante porti col mondo: la ricerca di situala quale il giovane si prepara a zioni calde e avvolgenti in cui cosvolgere un ruolo attivo e responsa- struirsi una tana, la capacità di mobile nella società industriale. È un dellare la realtà adattandola alle momento nel quale l’individuo non proprie richieste emotive, uno spirito è ancora produttivo, anzi è il consu- avventuroso che li spinge a lanciarsi mo ad assumere un valore simboli- in imprese azzardate, ma soprattutco. Il romanzo sembra percorso dal- to possiedono la qualità che è più la consapevolezza dei meccanismi lontana dall’atteggiamento adulto: della società consumistica contem- lo stupore. Lo stupore è qui inteso poranea, e del modo in cui influen- come l’abbandonarsi a quelle piczano la vita e l’interiorità dei prota- cole cose, fino a superare il confine gonisti. Va sottolineato che l’anno che ci separa da quel mondo dove di pubblicazione coincide con il la realtà si confonde con la fanta-

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sia, mondo ormai perso nell’universo degli adulti. La sensibilità di Mikage vibra ad ogni minimo soffio di novità, occhi sempre sgranati come quelli delle eroine dei manga, pupille immense illuminate da stelline, l’anima dove si I protagonisti mantengono la qualità riflette un’evolupiù lontana dal mondo zione di sentimenti, emozioadulto: lo stupore ni, paura, gioia. I romanzi di Banana sono stati molto influenzati dal mondo dei manga non solo dal punto di vista linguistico, ma anche dal punto di vista contenutistico. I suoi romanzi, i suoi racconti riflettono la crisi dei ruoli sessuali tradizionali e intendono of174 frire, proprio come il fumetto per ragazze, lo spunto per una riflessione e un ripensamento dei concetti di virilità e femminilità all’interno della società giapponese. Il personaggio di Eriko, la madre transessuale di Yuichi, rappresenta l’estremizzazione di questo gioco di ruoli, e diventa il perno di un modello familiare alternativo, sicuramente non tradizionale, e proprio per questo ricco di calore. Anche i protagonisti Yuichi e Mikage int erpreta n o i n In Kitchen si ritrova la crisi dei ruoli modo nuovo sessuali e la ricerca ognuno il prodi modelli alternativi prio ruolo sessuale: Yuichi è il maschio sensibile, non aggressivo, ironico; Mikage è dolce, ma anche piena di iniziativa e determinata a realizzarsi professionalmente. E questo è un tratto che rimarrà costante anche nelle opere successive del-

l’autrice. La pubblicazione di Kitchin determina quello che è stato definito dalla critica il “fenomeno Banana”. Haruki Murakami esordisce sulla


LETTERATURA

scena letteraria giapponese sul finire degli anni Settanta e già dall’inizio si fa notare per l’estraneità rispetto alla tradizione e al forte legame con la cultura popolare: libri,

film, musica jazz, pop e rock. Tratti che condivide con altri autori contemporanei come Banana Yoshimoto, Ryu Murakami. E questo è sicuramente uno dei tratti fondamentali della sua produzione: il continuo sconfinamento in Haruki Murakami campi extralettesconfina nel mondo rari, nel mondo della cultura pop appunto della e della musica jazz cultura pop, che nel caso di Murakami si identifica spesso con quella anglo-americana. Nei romanzi di Murakami l’ironia cela e nello stesso tempo rivela un senso di perdita e di nostalgia che costituiscono il vero cuore della narrazione, e il gioco e la parodia si 175 trasformano in un omaggio a scrittori, registi e musicisti. Il suo romanzo di esordio Ascolta la canzone del vento, insignito del premio Gunzo, racchiude già molti di quelli che saranno gli aspetti caratterizzanti della produzione successiva: la presenza di più racconti che si intrecciano e si sovrappongono; un narratore in prima persona, che rimane senza nome; la ricerca di un linguaggio nuovo che sia in grado di descrivere il presente L’ironia cela e rivela delle giovani geun senso di perdita e nostalgia, vero cuore nerazioni, uno della narrazione stile di vita radicalmente trasformato che fino ad allora non aveva trovato spazio nella pagina letteraria: lo sguardo ironico; l’uso del pastiche. La scrittura di Murakami non è mai realistica, perché sempre nella narrazione si insinua l’elemento


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Banana Yoshimoto

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Se a 23 anni esordisci con Kitchen e vendi milioni di copie in tutto il mondo, evidentemente un po’ di talento devi averlo. È quello che è successo nel 1987 a Banana Yoshimoto, allora giovane ragazza giapponese che lavorava come cameriera in un golf club. Da allora è stato un ripetersi di trionfi in ogni angolo del globo, di premi vinti, di successi editoriali. Il mondo creato dalla Yoshimoto è cupo, triste, introspettivo, specchio perfetto della difficile società giapponese. È il mondo dell’incomunicabilità e della fatica di stare al mondo. C’è Stephen King (quello non horror), ma persino Capote e Singer. C’è addirittura Dario Argento, i cui film sono stati citati più volte dalla scrittrice come vere e proprie terapie contro il suicidio e l’inadeguatezza di vivere.

fantastico, anche in quello che sembra fra i suoi lavori il più radicato alla realtà: Norwegian Wood. Il romanzo racconta, in un lungo flashback, gli anni Settanta, visti attraverso gli occhi del protagonista, Toru, trentaquattrenne nel presente della narrazione, e studente universitario nel ’68. Al centro dei suoi ricordi, l’amore per Naoko, affetta da un disturbo della psiche che la porterà al suicidio. In preda a sentimenti contrastanti, disperato e confuso, Toru parte per un lungo viaggio dal quale tornerà pacificato, e pronto per un nuovo amore. A questa che è la vicenda principale, si intrecciano altri racconti, altre sto-

Oltre Kitchen, romanzo d’esordio del 1987, Banana Yoshimoto ha pubblicato anche Presagio triste, Sonno profondo, Tsugumi, N.P., Lucertola, Amrita, Sly, L’ultima amante di Hachiko, Honeymoon, H/H, La piccola Ombra, Il corpo sa tutto, Arcobaleno, L’abito di piume, Ricordi di un vicolo cieco, Il coperchio del mare, Chie-chan e io.

rie, che, frammentando la narrazione, sortiscono un effetto quasi straniante che allontana dal realismo in un certo senso preteso in questo romanzo. E poi, da sfondo, un fiume di citazioni: canzoni, dal jazz ai Beatles, film, libri. Giudicato dalla critica banale e convenzionale, il romanzo ebbe un immediato e incredibile successo, paragonabile a quello di Kitchin, vendendo in pochissimo tempo quasi quattro milioni di copie. In una lunga intervista Murakami stesso ha spiegato che i suoi romanzi si dividono sempre fra due mondi, definiti semplicemente il “nostro” mondo e il mondo “altro”. Un dop-


LETTERATURA

pio mondo dunque, che implica l’esistenza di una realtà, che è quella che tutti noi conosciamo, e di una dimensione ulteriore, dai tratti magici o comunque soprannaturali, avvertita e accettata come normale. Questo si traduce in uno sdoppiamento dell’io del protagonista e dei racconti che procedono paralleli. Una delle possibili chiavi di lettura dei mondi immaginari di Murakami è il “realismo magico”, concetto frutto della cultura latino-americana, che affonda le radici in un qualcosa che in Giappone non ha riscontro: lo stupore di fronte alla propria terra, percepita come magica. Dopo l’intermezzo rappresentato da Norwegian Wood, Murakami torna al fantastico con Dance dance dance dove ancora una volta troviamo tutti gli elementi del mistery: un protagonista che è la personificazione dell’eroe solitario, una ragazza scomparsa, diversi enigmi da risolvere. In realtà, contrariamente a quanto previsto dalle regole del genere, il finale non vedrà soluzione, quanto piuttosto una nuova serie di interrogativi. È come se la storia si riavvolgesse su se stessa man mano che si dipana, e il mistero, anziché svelarsi si infittisce. Attraverso la complessa costruzione del romanzo, l’autore vuole mostrarci la condizione del Giappone degli anni Ottanta e, soprattutto, lo squilibrio fra la ricchezza materiale e la solitudine degli individui. Gli anni Novanta in Giappone si aprono con una profonda lacerazione, lo scoppio della bolla eco-

nomica, i cui effetti inevitabilmente ricadono sullo stile di vita e sul mondo della cultura, come era già successo negli anni della guerra. Sulla scia del successo di Murakami e Yoshimoto, una nuova ondata di autori si affaccia sulla scena letteraria. Seguiti da un pubblico sempre più vasto, le loro opere affascinano i giovani non solo per i temi trattati, vicini al vissuto dei lettori, ma anche perché sono per lo più di facile lettura e comprensione, scritte in uno stile agile e colloquiale. Al centro il senso di vuoto, espressione del profondo disagio e disorientamento di una generazione che ha ormai perduto ogni punto di riferimento. Un critico e scrittore di manga, Eiji Otsuka, scrive: «I giapponesi non sono più produttori. La nostra esistenza consiste solamente nel consumo e nella distribuzione di oggetti provenienti da altri luoghi, cose con le quali noi giochiamo… Queste “cose” vengono convertite continuamente in segni senza consistenza…». Si parla ancora, come per i primi romanzi di Banana, di cultura postadolescenziale, incentrata sul valore estetico del kawaii, “carino”, che coinvolge non solo le adolescenti, ma tutte quelle donne che cercano di ritardare il più possibile l’ingresso nella società degli adulti, costruendosi un’immagine di eterne bambine. Un’immagine che però risulta fortemente erotica. Un altro aspetto interessante dell’attuale società consumistica giapponese è il fenomeno della proliferazione degli

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aidoru o pop idol, giovani la cui immagine viene promossa attraverso i media che ne fa dei personaggi pubblici, oggetto di adorazione da parte dei fans. Nel 2004, con molto stupore, la critica assegna il prestigioso premio Akutagawa a due giovanissime autrici esordienti: Hitomi Kanehara (1983), per il romanzo Serpenti e piercing (2003), e Risa Wataya (1984), per Solo con gli occhi (2003). Ad accendere l’interesse del pubblico è soprattutto il primo, che racconta il metaforico viaggio

della protagonista diciannovenne, di nome Lui, attraverso una serie di esperienze eccitanti e nello stesso momento perturbanti, dalle trasformazioni del corpo tramite pratiche quali il piercing, lo split tongue, il tatuaggio, alla sperimentazione sessuale, all’omicidio, in una sorta di ansia di autodistruzione che però nel finale sembra condurla fuori dal tunnel, a una nuova consapevolezza di sé. Il romanzo di Risa Wataya, che, per contro, presenta uno stile narrativo più classico, introduce un altro


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tema, la crisi, vissuta nel silenzio e nel rifiuto del mondo esterno, quasi una sorta di implosione, degli adolescenti ossessionati dagli aidoru. Si tratta di un disturbo psicologico di cui molti giovani giapponesi soffrono, che tocca prima di tutto la sfera della comunicazione e che è diventato una vera piaga sociale, comunemente definito hikikomori, stare in disparte, isolarsi. I giovani vittime di questa patologia, poco propensi alle relazioni interpersonali, manifestano una forte tendenza a concentrarsi sui propri processi psi-

cologici e percorsi interiori. Si rinchiudono nelle loro stanze e rifiutano di avere qualsiasi contatto col mondo esterno: sono gli otaku, vivono al contrario, dormono durante il giorno e rimangono svegli tutta la notte a guardare programmi televisivi o a giocare ai videogame. Quasi tutti posseggono computer e cellulare, pochissimi hanno amici. Questo stato può durare mesi, anche anni nei casi più estremi. Nelle sue manifestazioni più gravi, il disturbo spinge a una ricerca ossessiva dell’anonimato e dell’isola-


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mento, che conduce quasi inevitabilmente all’apatia nella quale un crescente numero di giovani giapponesi sembra sprofondare, e talvolta conduce alla depressione e al suicidio. Il fenomeno hikikomori viene normalmente interpretato come una conseguenza della trasformazione del Giappone da una società fondata su forti valori culturali a società basata sulla comunicazione e sull’informazione, trasformazione dovuta all’eccezionale crescita economica e all’impressionante progresso tecnologico della seconda metà del Ventesimo Secolo, che avrebbe provocato gravi stress e disagi ai suoi membri più deboli, i giovanissimi. La società giapponese si ritrova così incastrata in un paradosso: si preoccupa dell’isolamento sociale degli adolescenti e allo stesso tempo continua a produrre una tecnologia che consente di vivere senza mai dover uscire di casa. Uno dei romanzi che meglio mette in risalto questo tema è Presa elettrica (2000) di Randy Taguchi. È la storia, in parte autobiografica, di Yuki, una giornalista finanziaria, il cui fratello minore, uno hikikomori, si lascia morire di inedia. In seguito a questa terribile esperienza, Yuki scoprirà di essere una sorta di sciamana, e di avere dentro di sé il potere di curare e di guarire gli uomini che incontra attraverso l’unione sessuale. Presa elettrica è un romanzo duro, dove tutto è urgenza, affanno, rabbia repressa, dove spiritualità e fisicità, psicologia e occultismo si

intrecciano e si rincorrono. Nel sesso la protagonista cerca di placare un desiderio ossessivo di amore e di oblio, partorito nel silenzio della solitudine, quella stessa che ha spinto il fratello nelle braccia della morte. Il romanzo ha ottenuto un incredibile successo, vendendo oltre un milione di copie e facendo di Taguchi, una delle scrittrici più amate e apprezzate del panorama letterario contemporaneo. E non è un caso che la maggior parte dei lavori più interessanti e stimolanti degli ultimissimi anni siano firmati da donne. L’ultimo decennio, infatti, è stato testimone di un boom di creatività femminile: non solo scrittrici, ma anche registe e artiste il cui talento ha ottenuto riconoscimenti sia in Giappone che all’estero. Trasgressive, provocatorie, innovative, le donne, sulla base della consapevolezza di vivere in una società dove la discriminazione sessuale è ancora una realtà, si ribellano, e vogliono essere libere. E questo desiderio si trasforma appunto in creatività.

l’autore TIZIANA MAURIELLO Yamatologa, ha perfezionato lo studio della lingua giapponese presso l'Isiao. Laureata in Scienze Politiche Internazionali all'Istituto L'Orientale di Napoli. Ha conseguito il master in Studi strategico-militari presso la Luiss, specializzandosi nel settore estremo-orientale di cui attualmente si occupa. Ha collaborato con la rivista Analisi Difesa.


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